The Project Gutenberg eBook of Cenno storico sull'antichissima città di Ruvo nella Peucezia

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Title: Cenno storico sull'antichissima città di Ruvo nella Peucezia

Author: Giovanni Jatta

Release date: October 18, 2022 [eBook #69176]

Language: Italian

Original publication: Italy: Porcelli, 1844

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CENNO STORICO SULL'ANTICHISSIMA CITTÀ DI RUVO NELLA PEUCEZIA ***

CENNO STORICO
SULL'ANTICHISSIMA CITTÀ DI RUVO
NELLA PEUCEZIA



CENNO STORICO
SULL’ANTICHISSIMA CITTÀ DI RUVO
NELLA PEUCEZIA

DEL GIURECONSULTO NAPOLITANO

GIOVANNI JATTA

COLLA GIUNTA

Della breve istoria del famoso combattimento de’ tredici Cavalieri Italiani con altrettanti Francesi seguito nelle vicinanze della detta città nel dì 13 Febbraio 1503.

IN NAPOLI 1844
DALLA TIPOGRAFIA DI PORCELLI
Strada Mannesi num. 46.


INDICE


[a3]

L’AUTORE AL SUO NIPOTE GIOVANNINO JATTA.

Eccoti il mio Cenno Istorico sull’antichissima città di Ruvo che ti ho promesso. Sarà forse questa l’ultima mia produzione letteraria. Il peso degli anni aggravato vie più dalle forti e continue traversie di salute che sto soffrendo, a grandissimo stento ha potuto permettermi di soddisfare questo debito che aveva colla nostra comune Patria. Lo indirizzo a te per infiammare il tuo cuore tenero ancora del santo amore di essa. Leggilo e rileggilo con attenzione. Vedi se io l’ho sempre amata e se l’amo, ed amala tu pure allo stesso modo.

Sono stato io il primo che ho tentato di squarciare quel bujo che teneva ascosa la sua rimota, ed illustre origine. Mi lusingo di averlo fatto non senza un successo che riempie il mio cuore di gioja, e compensa largamente il travaglio non lieve che mi è ciò costato. Manca al mio lavoro quella perfezione maggiore che avrei in esso desiderata; ma i mali fisici tolgono anche allo spirito una parte della sua energia, ed illanguidiscono l’applicazione.

Tocca a te il supplire ciò che forse potrebbe trovarsi mancante nelle mie investigazioni, e compiere l’opra da me cominciata per l’onore della nostra Patria. Continuando con [a4] fervore ad istruirti nelle Lettere, facendo di esse la tua passione e la tua delizia, ed incitando il tuo cuore a questa santa emulazione, potrai porti in grado d’illustrare vie più la nostra patria coi tuoi talenti, e con quelle cognizioni, delle quali coll’ajuto di Dio farai tesoro.

Vai tu a cominciare nel Mondo quella carriera che io ho terminata. La tua posizione, le tue circostanze, il mio nome istesso che tu porti ti chiameranno un giorno a prender parte nelle cose relative alla nostra Patria. Cerca sempre di esaurire tutti i mezzi, e tutti gli sforzi per sostenerne l’onore, per difendere vigorosamente i suoi dritti, per promuoverne sempre più i vantaggi, e per rompere gl’intrighi, ed i partiti che tornano a discapito de’ suoi veri interessi.

È questo il primo dovere del cittadino, e la prima virtù dell’uomo dabbene. Sia questo anche il primo vanto a cui devi tu aspirare. Sii sempre unito ai veri e bravi cittadini che sinceramente divideranno con te questi nobili e virtuosi sentimenti. Guardati da chiunque con mentito zelo ha la Patria solo nella bocca, e nel cuore il proprio interesse. Sarebbe desiderabile che questa razza di uomini non vi fosse; ma perchè sventuratamente ve ne ha pur troppo, metti a profitto questo mio avviso.

Debbo in fine attendermi dalla tua ottima indole, dal tuo amore e rispetto per me che la Popolazione di Ruvo dalle tue operazioni abbia sempre a lodarsi di averti io allevato con que’ medesimi sentimenti diretti al vero bene della comune Patria che in ogni tempo ha in me costantemente sperimentati.


[a5]

È stato sempre vivo in me il desiderio di riunire le notizie istoriche relative all’antichissima città di Ruvo mia patria che ho sempre amata, ed amo sommamente. Ma quando li miei anni erano verdi e la mia salute robusta, prima le occupazioni dell’Avvocheria, ed indi i sacri doveri della Magistratura non mi lasciarono mai il tempo necessario a simili ricerche. Sciolto da queste cure e stimolato dallo stesso desiderio, mi ha in verità sgomentato dal secondarlo la scarsezza positiva del materiale che bisogna per potersi tessere una Storia.

Molte città, comunque antiche e ragguardevoli, sono rimaste nella oscurità sia perchè sono mancate le occasioni che avrebbero potuto dare agli antichi Scrittori la opportunità di parlar di esse, sia perchè le opere di coloro che ne han parlato non sono sventuratamente giunte fino a noi. La città di Ruvo si vede appena nominata da qualche antico Scrittore. Si può solo conoscere con sicurezza ch’era una delle antiche città della Peucezia. Della sua origine, della sua popolazione, delle sue istituzioni, della sua coltura nelle scienze e nelle belle arti, e di ogni altra circostanza che possa rendere ragguardevole una città nulla si conosce dagli antichi Scrittori.

Nè coteste investigazioni per loro stesse laboriosissime [a6] possono attendersi da qualunque Scrittore il quale non sia animato dall’impegno positivo d’illustrare una città. Quindi è che i Commentatori degli antichi Scrittori, e coloro che hanno scritto sulla Geografia antica non hanno dati della città di Ruvo che cenni molto brevi e secchi, e talvolta anche assurdi, ed incoerenti come anderemo a vederlo nel prosieguo del mio discorso.

Ma ciò che più mi ha sorpreso, per non dire irritato, si è che Cristofaro Cellario il quale ha scritto sulla Geografia antica un’opera elaborata ed erudita e non ha omesse le città le più meschine ed oscure, non ha onorata la città di Ruvo neppur di un motto! Anzi nella Carta della Magna Grecia che ci ha data alla fine della Sezione III capo IX del lib. II l’ha erroneamente riportata con una doppia nomenclatura alla stessa estranea, come anderò a rilevarlo al suo luogo!

Questo però è troppo. Le antiche monete da me raccolte in gran numero, ed altre già pubblicate pruovano con piena sicurezza ch’era Ruvo una delle più antiche città Greche dell’Italia. Il chiarissimo Canonico Mazocchi bene a proposito, osserva che per potersi distinguere le nostre antiche città Greche da quelle fondate dagli antichi abitanti delle nostre Regioni, bisogna vedere ciò che ne hanno detto gli antichi Scrittori, e soggiugne: At Scriptorum quorumlibet testimoniis longe exploratiora sunt nummorum, lapidum, tabularum ænearum monumenta, quæ si Græca fuerint, ecquis de Græcanico earum urbium conditu dubitabit[1]?

[a7]

Se questo illustre Scrittore non allogò anche la nostra città tra le altre città Greche, delle quali fece la enumerazione, causa ne fu il silenzio degli antichi Scrittori su tal circostanza, e ’l non esser state all’epoca in cui egli scrisse pubblicate ancora o conosciute le antiche monete Greche Ruvestine, le quali hanno scoperta dappoi la sua origine. Nè si erano a quel tempo disotterrati tampoco que’ tesori che all’epoca nostra hanno resa la città suddetta molto illustre, cioè li numerosissimi vasi fittili Italo-Greci (molti de’ quali con leggende Greche) pregiatissimi non meno per la somma eleganza delle forme, e per la nobiltà e perfezione del pennello, che per la ricercatezza delle favole non ovvie che vi sono dipinte.

Questi capi-lavori i quali pareggiano e forse anche superano i vasi di Nola, creduti per lo innanzi i più pregiati, si hanno attirata la giusta ammirazione di tutti gli Archeologi di Europa, e pruovano a trabocco due circostanze. La prima che nella città di Ruvo fiorivano in grado eminente le scienze e le belle arti, poichè questi monumenti giustificano la somma abilità de’ Pittori Ruvestini, e la loro piena istruzione nella Storia, nella Favola, e nella Mitologia. Nè meno pregevoli sono i lavori ivi rinvenuti di oro, di argento, di bronzo, e di bellissimi vasellini di vetro colorato di diverse ed eleganti forme.

La seconda ch’era quella città abitata da famiglie ricche e ragguardevoli, poichè cotesti oggetti preziosi che si trovano riposti ne’ loro sepolcri non costavano allora meno di quello che si pagano adesso, ed un lusso funerario così profuso non potevano usarlo che le persone distinte e doviziose.

Cotesti elementi interessantissimi, il nome istesso della [a8] città, e le notizie che ci han date gli antichi Scrittori delle diverse trasmigrazioni de’ Popoli della Grecia nella Italia mi portano anche più oltre. Messo tutto a calcolo ho giusta ragione di credere che la nostra città fu fondata dagli Arcadi ed altre Genti dell’Acaja che prima della guerra di Troja vennero a stabilirsi nella Italia sotto i Condottieri Oenotro e Peucezio, e mi lusingo di poterlo concludentemente dimostrare.

In quanto poi ai fatti avvenuti, ed alle vicende che hanno potuto aver luogo ne’ tempi di mezzo forza è confessare che m’imbatto in una oscurità anche maggiore. Scarsissime sono le notizie che si possono trarre dalle Cronache. Mi è quindi impossibile scrivere una storia ordinata. Debbo per necessità limitarmi a quelle poche cose che la mia avanzata età, ed i continui patimenti di salute che soffro mi han potuto permettere di raccorre. Voglio augurarmi che nella città di Ruvo sorgano ingegni più vegeti e più felici, i quali infervorati dallo stesso impegno d’illustrare vie più la commune Patria, si applichino a dilatare per l’onore della stessa quella via che sono stato io il primo ad aprirla.

Per gli ultimi tempi in fine avendo io avuta una gran parte negli avvenimenti seguiti, ed essendo il solo rimasto superstite di coloro che potevano esserne bene informati, sono al caso di poterne parlare con quella verità, e minutezza che a niun altro sarebbe facile. Cercherò quindi farlo nel modo che possa riuscire anche utile e profittevole ai miei concittadini tanto presenti che futuri.

[a9]

CAPO I. Degli antichi Scrittori che hanno parlato della città di Ruvo.

Non fia meraviglia che i due antichi Geografi Pomponio Mela, e Tolomeo non abbiano parlato della nostra città. Il titolo che diè il primo al suo libercolo Geografico fu De situ Orbis. Non si occupò quindi di altro, meno che di percorrere e cennare la situazione del Mondo allora conosciuto, e delle diverse Regioni che lo componevano. Pochissime sono le città ch’ebbe la occasione di nominare nel fare tal succinta descrizione. Lo dichiarò ei medesimo nella prefazione premessa al suo libercolo, poichè disse: Dicam autem alias plura, et exactius: nunc autem ut quæque erunt clarissima, et strictim.

Tolomeo fu di lui più largo in questa parte. Ma tranne le città principali, o almeno da lui credute tali, di tutte le altre, benchè sicuramente antiche e conosciute, non se ne incaricò nè punto nè poco. Ne diè di ciò la ragione, poichè disse che la minuta descrizione di esse apparteneva, non già alla Geografia, ma bensì alla Corografia, nel che non saprei dire quanto sia stato adeguato il di lui avviso[2].

Farebbe però una giusta sorpresa il non trovare la città di Ruvo nominata neppur da Strabone che fu un Geografo minutissimo, alla di cui attenzione non isfuggirono neppure le città distrutte, se il di lui silenzio rispetto alla nostra città non fosse derivato da una manifesta alterazione sofferta dal seguente luogo della sua dottissima, ed accuratissima opera, ove della città di Ruvo che non si vede punto nominata doveva per necessità parlarsi.

Descrive questo Scrittore le due strade per le quali da Brindisi si andava a Roma, e dice: Una, qua muli ire possunt per Peucetios, qui [a10] Pediculi dicuntur, ac Daunios, ac Samnites Beneventum usque, qua in via urbes sunt Egnatia, Celia, Netium, Canusium, Herdonia[3]. Descrive poi l’altra strada che passava per Taranto, Uria, e Venosa e soggiugne: Coeunt ambæ viæ apud Beneventum ad Campaniam. Inde Romam usque jam Appia via ducit per Caudium, Calatiam, Casilinum, usque Venusiam reliqua sunt dicta. Tota via a Brundusio Romam est stadiorum CCCLX[4].

Rispetto alla prima strada descritta da Strabone la quale traversava l’antica Peucezia, quel Netium che si vede situato tra Celia e Canosa ha messi a tortura gli Eruditi, ed i Geografi. Hanno tutti convenuto che Netium Νήτιον è un nome sconosciuto alla Geografia antica intruso per errore nel testo di Strabone. Quindi chi ha proposta una emendazione e chi l’altra; ma niuno di essi ha colpito al segno. Niuno di essi ha saputo finora vedere ove giace la lepre, sia per la mancanza della conoscenza de’ luoghi, sia per la mancanza di quell’interesse che porta sovente gli uomini a penetrare nel fondo delle cose, e scoprire quelle verità che son rimaste per lungo tempo ottenebrate. Tocca dunque a me il troncare cotesto nodo Gordiano, ed entrare in una discussione interessantissima per l’argomento che mi ho proposto.

Xilandro sul trascritto luogo di Strabone, dopo aver parlato dì Celia, soggiugne: De Netio nihil habeo: nisi forte sit Aletium Plinii. Ma cotesta emendazione da lui proposta, con un forte per altro, non può aver luogo. L’Aletium di cui parla Plinio nel luogo che sarà più giù riportato lo alloga ne’ Salentini. Quindi Cristofaro Cellario ha opinato che sia l’attuale città di Lecce sita tra Brindisi, ed Otranto[5]. Ma il Canonico Mazocchi opina che sia questo un nome intruso, o corrotto nel testo di Plinio[6]. Comunque ciò sia, non si potrebbe situare giammai [a11] tra Celia e Canosa nell’antica Peucezia una città la quale, ove sia esistita, apparteneva ai Salentini, o sia all’antica Calabria a cento miglia e più di distanza da Celia.

Isacco Casaubono nelle sue annotazioni a Strabone sulla parola Νήτιον fa la seguente osservazione. Netium nusquam in isto tractu nominatam reperio, valdeque vereor ne ex proxima voce Κανυσιον orta sit illa και Νήτιον, quod mihi Ptolomæi maxime tabulæ suadent. Ma è una idea molto stentata quella di far sorgere cotesto Νήτιον dal raddoppiamento della parola Κανυσιον che nulla ha di comune con Νήτιον. Nè basterebbe tampoco a provare la non esistenza della città denominata Netium per la sola ragione che Tolomeo non parla di essa, poichè questo Scrittore, come innanzi si è detto, non si è incaricato tampoco di tante altre antiche città, sulla esistenza delle quali non vi può cader quistione. Quindi la sola osservazione solida e vera del Casaubono è stata Netium nusquam in hoc tractu reperio nominatam.

Giacomo Palmerio sullo stesso luogo di Strabone s’incarica di ciò che aveva detto Casaubono, ed osserva: Putat Casaubonus τό Νήτιον esse male repetitum ex Κανυσιον quod apud Ptolomæum non notatur ea urbs, seu locus. Sed cum videam in tabulis Peutingerianis in eo tractu post Celiam Ehetium, puto non esse vocem expungendam hoc loco ex Strabone Νήτιον; sed vel corruptam esse ex Ehetium tabularum, vel Ehetium corruptum in Tabulis ex Νήτιον. A buon conto, la emendazione proposta da Palmerio parte dal dire che il Νήτιον di Strabone, e l’Ehetium della Tavola Peutingeriana possano essere la stessa cosa.

Ma vale ciò lo stesso che il voler spiegare ignotum per ignotum. Se sconosciuto agli antichi Scrittori è il Netium intruso nel testo di Strabone, ignoto è del pari l’Ehetium della Tavola Peutingeriana. D’altronde non sempre dalle Tavole Peutingeriane si possono prendere argomenti per le cose relative alla Geografia antica. È ad osservarsi in primo luogo che nelle Tavole suddette si vedono segnate molte nuove città, le quali non vi erano al tempo di Strabone, di Plinio, e di Tolomeo. Quindi mal si argomenta da esse all’epoca di Strabone quando le città che si vedono notate sono sconosciute agli antichi Scrittori.

In secondo luogo è anche ad osservarsi che le Tavole Peutingeriane [a12] furono pubblicate da Marco Vesero. Nella sua prefazione alle stesse ei ci fa conoscere il modo in cui vennero nelle mani di Corrado Peutingero, da cui presero il loro nome. Dice inoltre che non ne fece costui molto conto, e quindi non curò di pubblicarle. Soggiugne ch’ei le crede un Itinerario militare formato ai tempi di Teodosio, non già da un Geografo, o da un dotto Matematico, ma bensì da quell’impiegati nelle Armate di quel tempo che si chiamavano Metatores. Si adoperavano costoro a designare i luoghi degli accampamenti, e parla di essi Vegezio nel lib. I cap. 7.

Osserva quindi che manca alle Tavole suddette qualunque esattezza Geografica: che molti inoltre sono i luoghi che si trovano in esse o mancanti, o corrotti[7]. Dice anche lo stesso Filippo Cluverio nella sua prefazione alla Geografia antica. Nè sono queste osservazioni che possono fallire, poichè basta guardare le Tavole Peutingeriane per ravvisarsi a colpo d’occhio la imperizia di chi le ha delineate. Facendosi poi alle stesse attenzione, passim si scorge la corruzione de’ nomi de’ luoghi, e delle città in esse riportate.

Nondimeno poichè non tutto è guasto ed alterato, ed anche perchè talvolta i nomi alterati corrispondono in certo modo ai veri, si può trarre da esse un partito, ed è utile tenerle presenti, senza che però si faccia da ciò dipendere la decisione di quelle cose che mettono capo nella Geografia antica. Del resto nella quistione di cui si tratta standosi anche alla Tavola Peutingeriana che segna i luoghi dell’antica Peucezia quell’Ehetium del Palmerio si vede in essa situato tra Celia e Taranto, e non già tra Celia e Canosa. Nulla quindi cotesto luogo che nella Tavola suddetta si vede al di là di Celia dal lato orientale può aver che fare col preteso Netium di Strabone che verrebbe a ricadere nel lato occidentale di essa. Osta la posizione de’ luoghi.

Aggiungo inoltre che il chiarissimo Signor Millingen ha opinato che l’Ehetium della Tavola Peutingeriana corrisponda all’antica città della Peucezia denominata Azetium, le di cui monete portano la leggenda ΑΖΕΤΙΝΩΝ [a13] ovvie nella Puglia, ma riputate per lungo tempo incerte. Egli crede che gli Azetini debbono essere lo stesso Popolo riportato da Plinio sotto il nome di Ægetini nel libro III cap. XI. Crede in fine che cotesta città doveva stare nel sito attuale di Rutigliano perchè nel territorio di Rutigliano dice di essersi trovate molte monete colla detta leggenda[8]. Ma data anche per vera tal conghiettura, la Terra di Rutigliano sta al di là di Celia verso Taranto come l’Ehetium della Tavola Peutingeriana. Quindi la emendazione proposta dal Palmerio manca di fondamento.

Giacomo Surita nelle sue annotazioni sull’Itinerario di Antonino, di cui sarò in seguito a ragionare, sotto la rubrica ab Æquotutico Hydrunto ad Trajectum sulla parola Herdonia propone un’altra emendazione della parola Νήτιον di Strabone, la quale non è più felice delle altre che si son premesse. Strabo lib. VI pag. 282 Brundusio Romam tendentibus duas vias fuisse: una inquit mulis vectabilis per Peucetios, qui Pediculi vocantur, et Daunios, et Samnites usque Beneventum, in qua via urbs est Egnatia, post eam Celia, et Neritum, et Canusium, et Herdonia. Legendum enim Neritum arbitror, unde Plinius Neritinos, non Netium.

Ma il sostituire la parola Neritum al preteso Netium di Strabone è un salto mortale il quale fa torto a Surita. Colla proposta emendazione tra Celia ch’era nella Puglia Peucezia, e Canosa ch’era nella Daunia, come più giù saremo a vederlo, si verrebbe a situare la città denominata Neritum da Tolomeo, e Neretum nella Tavola Peutingeriana. Ma questa città che porta oggi il nome di Nardò formava parte dell’antica Calabria, o sia de’ Salentini a cento miglia e più di distanza da Celia, come lo ha ben dimostrato Cristofaro Cellario[9], e come lo pruova anche lo stesso luogo di Plinio a cui il Surita si è riportato. Osta quindi alla detta emendazione la situazione de’ luoghi. Cotesto luogo di Plinio lo [a14] ha contentato anche il P. Giovanni Arduino Gesuita nelle sue note alla Storia Naturale di questo Scrittore stampata in Parigi nell’anno 1741. Ha egli proposta una giustificazione della parola Netium intrusa nel testo di Strabone, la quale pecca di violenza. Il luogo di Plinio di cui sto ragionando nella edizione del P. Arduino è il capo XVI del libro III; ma nelle altre edizioni è il capo XI del lib. III[10]. Vi sono inoltre in cotesta edizione delle varietà dall’edizioni precedenti, che anderò a notarle una per una. Vengo intanto a riportare questo Luogo di Plinio come si legge nella detta edizione del P. Arduino colle note opportune che saranno da me aggiunte ove l’uopo lo esigerà.

Premetto che Plinio ha quì divisa l’Italia in Regioni. Nella seconda Regione ha allogati Hirpinos, Calabriam, Apuliam, Salentinos. Sotto il nome di Apulia vi ha compresa tanto la Daunia, che la Peucezia. Dopo aver riportate le città marittime della detta seconda Regione, passa ad enumerare le Popolazioni delle città interne, e dice; Beneventum auspicatius mutalo nomine, quæ quondam appellata Maleventum, Auseculani[11], Aquiloni, Abellinates cognomine Protropi, Compsani, Caudini, Ligures, qui cognominantur Corneliani, et qui Bebiani; Vescellani, Æculani[12], Aletrini, Abellinates cognominati Marsi, Atrani, Æcani, Alfellani, Attinates, Arpani, Borcani, Collatini, Corinenses, et nobiles clade Romana Cannenses, Dirini, Forentani, Genusini, Herdonienses, Hyrini, Larinates cognomine Frentani, Merinates[13], ex Gargano; [a15] Mateolani, Netini[14] Rubustini[15], Silvini, Strabellini, Turmentini, Vibinates, Venusini, Ulurtini. Calabrorum Mediterranei; Ægetini, Apamestini, Argentini, Butuntinenses[16], Deciani, Grumbestini, Norbanenses, Paltonenses[17], Sturnini, Tutini. Salentinorum: Aletini, Basterbini, Neretini, Valentini, Veretini.

Ora è quì notabile che la parola Neritini in tutte le altre edizioni di Plinio, come innanzi ho detto, è riportata due volte. La prima volta si vede unita ai Rubustini, ed ai Silvini. La seconda è allogata ne’ Salentini. Ma non essendovi nell’antica Geografia due città di questo stesso nome, e la città denominata Neritum, o Neretum trovandosi solo ne’ Salentini e non altrove, bisogna dire che sia stato questo un nome erroneamente raddoppiato nel testo di Plinio, come ha bene a proposito osservato anche Cristofaro Cellario nel luogo che sarò or ora a riportare. Quindi bisogna cassarlo in quel luogo ove si vede riunito ai Rubustini ed ai Silvini, e ritenerlo nel luogo che sussiegue, ove si vede allogato ne’ Salentini ai quali realmente apparteneva, come appartiene anche oggi la città di Nardò ch’è l’antico Neritum.

Il P. Arduino però uscendo da questa regola del retto ragionare, [a16] per dare esistenza a quel Netium che niuno ha saputo vedere ove sia stato, ha troncata e mutilata la parola Neritini che si legge in tutte l’edizioni di Plinio unita ai Rubustini ed ai Silvini, e ne ha formata la parola Netini di sua assoluta creazione. Quindi nella nota undecima sul trascritto luogo di Plinio fa la seguente osservazione: Netini a Netio oppido prope Canusium, Herdoniamque, Nήτιον Straboni lib. VI pag. 282, Nerentinos, quos hic libri quidam addunt[18] expunximus, cum inferius Salentinis, ut sane oportuit, reddantur.

Una emendazione però di tal fatta è troppo licenziosa, anzi violenta. Niuno quindi può applaudirla; tanto più che l’arbitraria mutilazione della parola Neritini di Plinio che l’Arduino si ha permessa, mena ad introdurre nella Geografia antica una città perfettamente sconosciuta a tutti gli antichi Scrittori, e malamente intrusa nel testo di Strabone da un errore degli amanuensi.

In mezzo a tanta discrepanza di opinioni, e di emendazioni della parola Νήτιον Cristofaro Cellario osserva che vi è quì sicuramente un’ambiguità. Riporta ciò che ha detto Luca Olstenio tanto sul preteso Netium, quanto sull’antica città di Celia. Passa a rassegna le due opposte opinioni di Casaubono, e del P. Arduino sulla parola Nήτιον, e le censura entrambe; ma non ha voluto impegnarsi a disciorre il nodo di una quistione che si è resa complicata per poca riflessione di tanti Uomini per altro dottissimi.

Tandem etiam ambigua quædam sunt adiicienda. Strabo vias Brundusinas recensens unam monstrat, quæ regredientem ferat per Egnatiam, Celiam, Netium, Canusium, Herdoniam. Non quidem Κελια Strabonis, et Ptolomæi, quæ in Mediterraneis Peucetiorum scribit, sive Cælium Plinii lib, III cap. XI, tam dubiæ positionis est, ut nullo modo investigari possit, quam Holstenius pag. 276 testatur nomen retinere quatuor, aut quinque millibus passuum supra Barium in mediterraneis, per quam etiam hodie via [a17] publica ducit[19]. Unde Frontinus de Coloniis libro Cœlinum agrum denominat, et Harduinus eo nummum Caracallæ refert inscriptum Ael. Munic. Coel. Ant., quasi Ælium Municipium Cælium Antoninianum. Sed Νήτιον Netium est quod maxime locorum scrutatores vexat. Strabonis verba sunt έφ’ ή οδώ Εγνατία πόλις εῖτα Κελια, καί Νήτιον, καί Κανύσιον, καί Ερδονία. Qua via est Egnatia, dein Celia, et Netium, et Canusium, et Herdonia. Casaubono videntur expungendæ voces καί Νήτιον, tanquam ex una Κανύσιον bis perperam exscripta natæ, quod violentum consilium est merito improbatum ab Holstenio: qui primum quidem ad Natiolum Tabulæ, quasi inde deminutum referebat; sed quod hoc in alia via deprehendebat, sententiam postea mutavit[20], nec vero certiorem aliam substituit, nisi quod dicit Νήτιον Strabonis esse Ehetium Tabulæ, quamvis ordo variet[21]. Harduinus Plinii lib. III cap. XI Netinos inseruit, ex Codice veteri an ingenio suo non ostendit, ubi priores Neretinos legerunt, qui paulo post repetuntur, et alterutro loco vel vitiosum, vel pravatum vocabulum videatur. [a18] Strabonem ergo sequutus expunxit syllabam, et Netinos reliquit tanquam lectionem genuinam[22].

Filippo Ferrario intanto, senza essersi incaricato della disputa che vi è tra gli Eruditi sulla parola Νήτιον, e senza aversi data la pena di esaminare se cotesta città abbia mai avuta esistenza, ha dato per vero che il preteso Netium di Strabone sia lo stesso che l’attuale città di Andria sita tra Ruvo e Canosa[23]. Ma Michele Antonio Baudrand nelle sue note al Lessico del Ferrario osserva: Netium oppidum Apuliæ Peucetiæ quid sit non constat, et Neritum scribendum esse autumat Surita. Nella sua Geografia poi ripete la stessa osservazione e dice: Netium oppidum Apuliæ Peucetiæ Straboni quid sit non constat, quanquam Andriam urbem interpretatur Niger, et Neritum scribendum esse annotavit Surita ad Antonini Itinerarium[24].

Dalle cose premesse risulta che gli Uomini dottissimi di sopra mentovati tutti han convenuto che quel Νήτιον intruso nel testo di Strabone è un nome sconosciuto all’antica Geografia, tranne il solo P. Arduino, il quale ha creduto dare allo stesso quella esistenza che non ebbe mai alterando, e mutilando la parola Neritinos che si legge nel luogo di Plinio di sopra riportato. Mentre però hanno riconosciuta questa verità, ed hanno quindi creduta indispensabile una emendazione, le loro opinioni in questa parte sono cadute in una positiva divergenza, la quale non può non destar meraviglia.

Ha taluno opinato, come si è veduto innanzi, di doversi cassare la parola Νήτιον, senza essersi incaricato che tra Celia e Canosa vi è la distanza di circa cinquanta miglia, e questo cammino non si poteva fare colla vettura in una sola giornata. Quindi cassandosi Νήτιον era indispensabile sostituire a questa un’altra città intermedia di fermata tra Canosa e Celia. Si sono altri incaricati di questa giusta osservazione; ma la città intermedia di fermata che hanno sostituita al preteso Νήτιον o si è trovata [a19] meramente ideale, o l’hanno presa da una Regione diversa e lontanissima, e quindi non suscettiva di essere allogata tra Celia e Canosa.

Sembra veramente incredibile che niuno di tanti bravi Uomini abbia fatta attenzione che tra Celia e Canosa vi era realmente quella città intermedia di fermata che la distanza de’ luoghi suggeriva che non fosse mancata, ed era questa la città di Ruvo. Quindi quel Νήτιον altro non è che un nome guasto e corrotto intruso nel testo di Strabone in quel luogo ove per necessità doveva esservi scritto Rubi. A confermare questa osservazione basterebbe riflettere che Strabone fu come innanzi si è detto uno Scrittore minutissimo, e molto accurato. Quindi non si può mai credere che mentr’egli si occupò di proposito a descrivere l’andamento della strada che da Brindisi menava a Roma traversando la Peucezia, avesse omessa una città non ignobile, qual era sicuramente la città di Ruvo, messa senza verun dubbio sulla strada suddetta da lui descritta.

Che sia questo un positivo assurdo generato unicamente dalla corruzione del testo di Strabone lo pruovano concludentemente le seguenti osservazioni tratte dagli antichi Scrittori. Secondo l’erronea posizione del testo di Strabone le città di fermata sulla strada suddetta da lui indicate sarebbero Egnatia, Celia, Netium, Canusium, Herdonia. Or questa stessa strada fece il Poeta Orazio nel suo viaggio da Roma a Brindisi con molta lepidezza da lui descritto. Il solo divario nelle fermate che in esso vi è fu che in vece di pernottare a Celia andò a pernottare a Bari che, come innanzi si è detto, è a poche miglia di distanza dall’antica Celia.

Orazio però partito da Canosa non andò certamente a pernottare a quel Netium ch’è un nome puramente ideale. Andò bensì a pernottare a Ruvo ch’era la città intermedia di fermata tra Canosa e Celia, tra Canosa e Bari.

Inde Rubos fessi pervenimus, utpote longum

Carpentes iter, et factum corruptius imbre.

Postea tempestas melior, via pejor ad usque

Bari mœnia piscosi[25].

Ecco la città intermedia di fermata tra Canosa e Bari, tra Canosa e Celia. [a20] Da Bari Orazio passò ad Egnazia, e di là a Brindisi termine della stessa via descritta da Strabone, e del suo viaggio.

Giova quì anche osservare che se il luogo di fermata tra Celia e Canosa fosse stato quel Netium, che da taluni si è spacciato con poca riflessione di essere stato lo stesso che l’attuale città di Andria, ne sarebbe da ciò risultato un cammino molto mal ripartito, e quindi assolutamente incoerente. Ed in vero da Celia, oggi Ceglia, ad Andria vi è la distanza poco minore di quaranta miglia, e da Andria a Canosa quella di nove, o al più dieci miglia. Ma in quale Itinerario antico, o nuovo si trova un cammino di due giornate ripartito con una simile insensatezza?

Si aggiunga a ciò che troppo lungo sarebbe stato anche il cammino da Celia al preteso Netium secondo il sistema di viaggiare di quel tempo, e la qualità delle vetture che si adoperavano. Orazio dice di aver fatto da Canosa a Ruvo un lungo cammino utpote longum carpentes iter. Ma da Canosa a Ruvo non vi sono che venti miglia a farsi. Quanto più lungo sarebbe stato il cammino da Celia a Netium (Andria), essendovi una distanza ch’è quasi il doppio? Sotto tutti i rapporti quindi si rende chiaro e manifesto che quel Νήτιον è un nome corrotto, ed intruso in quel luogo di Strabone ove vi era scritto Rubi, vera ed unica città di fermata intermedia tra Celia e Canosa su quella strada da Roma a Brindisi che imprese egli a descrivere.

Queste giuste osservazioni le rafferma vie più l’Itinerario dell’Imperatore Antonino. La strada che in esso è tracciata da Roma fino ad Otranto è quella stessa che Strabone ha descritta, cioè la prima che traversava la Daunia, ed indi la Regione Peucetica. Giunta quindi la stessa da Roma nella Puglia è dall’Itinerario suddetto così riportata. Ecas (Troja) M. P. XVIII. Erdonias M. P. XVIIII. Canusio M. P. XXV. Rubos M. P. XXIII. Butuntus M. P. XI[26] Barium M. P. XII.

[a21]

Or cotesto Itinerario stabilito dalla pubblica Autorità tronca tutte le quistioni sulla parola Νήτιον, poichè fissa la città di Ruvo come il luogo intermedio di fermata tra Canosa e Bari, donde poche miglia lungi era Celia. Lo fissa inoltre con quella giusta proporzione che vi dev’essere nella ripartizione del cammino, poichè segna ventitre miglia da Canosa a Ruvo, ed altrettanti da Ruvo a Bari.

Pietro Vesselingio inoltre nella bellissima edizione che ci ha data dell’Itinerario di Antonino stampata in Amsterdam nell’anno 1735 vi ha unito un altro antico Itinerario dalla città di Bordò della Francia fino a Gerusalemme che si crede dell’epoca dell’Imperator Costantino. In cotesto Itinerario che presenta il ritorno del viaggiatore da Gerusalemme a Bordò si vedono notati non solo i luoghi di fermata ove si pernottava detti Mansiones nell’Itinerario di Antonino, ma anche quelli ne’ quali si cangiavano a mezza strada le vetture, o gli animali da tiro che nell’Itinerario Gerosolimitano sono indicati col vocabolo Mutationes, come anche il detto Vesselingio lo ha avvertito nella prefazione allo stesso premessa.

Dopo essersi nel detto Itinerario descritti i luoghi per i quali allora si passava nel tratto di strada che vi è da Otranto fino alla città di Bari indicata col nome di Beroes, si vengono a segnare gli altri luoghi da Bari in qua, e si dice così: Civitas Beroes M. XI. Mutatio Botontones (Bitonto) M. XI. Civitas Rubos M. XI. Mutatio ad quintum decimum M XV. Civitas Canusio M. XI. Mutatio XI. Civitas Gerdonis (Erdonia) M. XV etc.

Dal che risulta sempre più dimostrato che il luogo di fermata intermedio tra Bari e Canosa, o tra Celia e Canosa è stato sempre, ed in tutti i tempi la città di Ruvo, e non già quel supposto Netium di Strabone che si è da taluni inconsideratamente smaltito di essere stato lo istesso che l’attuale città di Andria.

Che sia questo un puro sogno lo prova concludentemente lo stesso Itinerario Gerosolimitano, il quale il luogo della Mutazione, o sia del cangiamento della vettura, o degli animali tra Ruvo e Canosa lo reca così Mutatio ad quintum decimum. Risulta da ciò chiaramente che cotesto luogo anonimo della Mutazione suddetta non doveva esser altro che [a22] un albergo messo nella campagna per dare ai viandanti il comodo di cangiar la vettura, o gli animali, come si fa anche oggi per lo cangiamento delle poste, poichè ove non vi sono città o villaggi, si cangia la posta ne’ designati alberghi messi in campagna sulle strade Consolari.

Quindi molto bene avverte Vesselingio nella precitata sua prefazione: Porro Mansio quid sit nullus puto ignorat. Mutationes sunt veredorum, vel animalium ad iter. Eæ vehiculis, et animalibus, eorumque pabulis instructæ erant: sed non ceteris rebus ad usum vitæ humanæ peregrinantibus necessariis. Ideoque distinguuntur in libris nostris, ut XI Cod. Theodos. tit. I cap. IX.

Or se tra Canosa e Ruvo sull’antica Via Appia detta poi Trajana vi fosse stata a mezza via la pretesa città denominata Netium (ora Andria), la Mutazione si sarebbe situata nella città suddetta, e non già in un albergo messo in mezzo alla campagna. Ed in vero nello stesso Itinerario il luogo della Mutazione tra Bari e Ruvo si vede stabilito nella città di Bitonto che sta alla metà del cammino tra l’una e l’altra. Si vede lo stesso replicato anche in tutti gli altri luoghi, ne’ quali tra due città di fermata ove i viandanti pernottavano dette Mansiones, vi era una città intermedia ove situar si poteva la Mutazione delle vetture o degli animali.

Era ciò anche nel buon senso. Le vetture han bisogno di risarcimenti e gli animali addetti alle stesse han bisogno di ferrature, di medicine, e di assistenza quando sono ammalati. A questi bisogni si può supplire con molto maggiore facilità ne’ luoghi abitati che in mezzo ad una campagna. Se tra Ruvo e Canosa vi fosse stato quel supposto Netium, si sarebbe ivi situato il luogo della Mutazione, e non già in mezzo ad una campagna, ove non vi potevano essere artieri e maniscalchi. Le Mutazioni si situavano a tal modo quando non si poteva fare altrimenti e quando mancava la vicinanza di una città.

Francesco Maria Pratilli nei suo libro sulla Via Appia ha creduto che il luogo della Mutazione ad quintum decimum tra Ruvo e Canosa segnato nell’Itinerario Gerosolimitano sia stato nel sito, o nelle vicinanze di quell’antica osteria che porta oggi il nome di Guardiola messa a mezza via sull’antica strada che da Ruvo mena direttamente a Canosa. Conferma questa sua conghiettura col dire che nelle vicinanze della [a23] osteria suddetta ha ei medesimo osservato che tuttavia esistono i tratti delle grosse selciate della via Trajana la quale passava per quel luogo[27].

Cotesta sua conghiettura non è improbabile, e forse la detta antica osteria non per altra ragione si trova tuttavia in quel sito solitario, se non perchè era quello un tempo il luogo della mutazione ad quintum decimum indicata nell’Itinerario Gerosolimitano che si è conservata per osteria ne’ tempi posteriori[28]. Ma questo istesso esclude la esistenza del preteso Netium di Strabone che si vuol credere lo stesso che l’attuale città di Andria, e ciò per un’altra convincentissima ragione.

La predetta osteria detta Guardiola è lungi da Andria due miglia e mezzo. Or se l’antica via Trajana che da Canosa menava a Ruvo passava pe ’l sito della detta osteria, è chiaro per se stesso che passar non poteva per quel sito ove attualmente sta la città di Andria che n’è discosto due miglia, e mezzo. Questa osservazione rende chiaro vie più che quel luogo di Strabone il quale ha situata la supposta città denominata Netium sulla strada consolare che da Brindisi menava a Roma è manifestamente corrotto e viziato, perchè tra Ruvo e Canosa non vi era alcuna città per la quale fosse la stessa passata.

Ma si dia di scure alla radice. Come potersi affermare che il preteso Netium di Strabone viva nell’attuale città di Andria se questa città molti secoli dopo di Strabone fu fondata dai Normanni? Lo contesta ciò Guglielmo Appulo ne’ seguenti versi del suo Poemetto Normanno:

Unfredum totus cum fratre Drogone tremebat

Italiæ populus, quamvis tunc temporis esset

Ditior his Petrus consanguinitate propinquus.

Condidit hic Andrum, fabricavit et inde Coretum,

Buxilias, Barolum maris ædificavit in oris[29].

[a24]

Al Conte Pietro di cui quì si parla era spettata la città di Trani nella Dieta che tennero i Normanni nella città di Melfi per dividersi tra loro di accordo le città della Puglia che avevano conquistate colle loro armi[30]. Il Conte Pietro quindi ch’era il più ricco di essi cercò di accrescere la sua dominazione colle città di Barletta, Andria, Corato, e Bisceglia che sono tutte a poca distanza intorno a Trani ch’era in quel tempo la città principale. Quindi il nostro Storico Gio. Antonio Summonte dice che il Conte Pietro Normanno fu fondatore di Andria, Corato, Bisceglia e Barletta[31].

L’abate Troyli riporta la favoletta spacciata da Domenico Pingerna Arciprete di Andria, il quale lasciò scritto che sia stata quella città edificata da Diomede, e che abbia preso il suo nome dall’isola di Andro sita nel mare Egeo poco lungi da Samo. Contraddice egli cotesta storietta coll’addurre anche ciò che ne han detto Arrigo Bavo nella descrizione del Regno di Napoli, e Ferdinando Ughellio nella sua Italia Sacra, i quali convengono che fu la città suddetta edificata da Pietro Normanno Conte di Trani[32]. È una cosa questa per altro che si confuta da se stessa, perchè priva di qualunque autorità istorica e suggerita solo dalla fantasia di chi ebbe la vaghezza di scriverlo.

Per altro lato si conoscono, come anderemo a vederlo nel capo III, le città che gli antichi Scrittori credettero di esser state fondate da Diomede nella Daunia però, non già nella Peucezia, ove non si estese giammai la sua dominazione. Se tra queste vi fosse stata anche Andria non si sarebbero fatte tante dispute su quel Netium di Strabone di cui ho innanzi lungamente ragionato, poichè cotesta pretesa antica città Diomedea l’avrebbero gli antichi Scrittori riportata col suo nome di Andria o Andro, il quale è assolutamente ignoto alla Geografia antica.

Non posso però convenire col Summonte che anche Barletta e Bisceglia siano state fondate di pianta dal detto Conte Pietro, perchè coteste [a25] due città marittime già esistevano molto prima della venuta de’ Normanni nelle nostre Regioni. Ciò che dice Guglielmo Appulo ne’ versi di sopra trascritti si deve intendere che il Conte Pietro abbia fondate le due novelle città di Andria e Corato, e semplicemente restaurate e fortificate le due antiche città di Barletta e Bisceglia. Ed in vero pos’egli una differenza tra le prime e le seconde, e cercò questa di esprimerla nel miglior modo che seppe farlo col mediocre latino in cui si vede scritto il precitato suo poemetto proprio della poca nitidezza dello stile di quel tempo.

Parlando di Andria disse condidit hic Andrum. Passando a parlar di Corato soggiunse fabricavit et inde Coretum. Ma per Bisceglia e Barletta si valse del vocabolo ædificavit, e disse Buxiliam, Barolum maris ædificavit in oris. Le parole condidit e fabricavit fanno intendere che il Conte Pietro fu il fondatore delle prime due città fatte di pianta. La parola ædificavit di cui si valse per Bisceglia e Barletta esprime il concetto che le abbia semplicemente restaurate, ampliate, o fortificate. Ond’è che Gotofredo Guglielmo Leibnizio nella sua prefazione al Poemetto di Guglielmo Appulo sulla parola ædificavit fa la seguente osservazione: Munisse puto hoc noster ædificare appellat[33].

Nè può dirsi diversamente poichè a Guglielmo Appulo, che visse al tempo di Roberto Guiscardo, non poteva certamente essere ignoto che le predette due città già esistevano molto prima della venuta de’ Normanni. La città di Barletta posteriore ai tempi di Strabone, di Plinio, e di Tolomeo era già surta al tempo di Teodosio, poichè per tralasciare altre testimonianze, si vede segnata nella Tavola Peutingeriana sotto il nome di Balulum, ed in altre edizioni di Bardulos, il quale fu dappoi o corrotto, o invertito in quello di Barulum.

Nella stessa Tavola vi sono anche Turenum Trani, e Natiolum Giovinazzo. Non vi è Buxilia, detta da altri Vigiliæ, perchè questa nuova città a quel tempo non era ancora surta. Ma non vi può esser dubbio che sia stata la stessa anteriore alla venuta de’ Normanni, poichè dall’Autore della dotta Dissertazione sulla Italia medii ævi colla carta Corografica alla stessa annessa che va tra le Opere del Muratori, sono [a26] citate le autorità, le quali contestano che Sergius (alias Georgius) subscribitur Concilio II Niceno anno 787 Episcopus Vigiliarum[34].

Ritornando ora all’attuale città di Andria, Gioviano Pontano parla della valorosa ed ostinata difesa sostenuta da Francesco del Balzo che nella prima guerra coi Baroni del Regno seguiva le parti del Re Ferdinando I di Aragona. Dice che nel terribile ed indefesso assedio che la detta città ebbe a soffrire, gli abitanti di essa non atti alle armi trovavano uno scampo, ed un ricovero nelle grotte delle quali abbonda: Ceterum non exiguum ad salutem popularium remedium erat quod Andria non modica ex parte antris habitatur, unde sunt qui nomen duxisse illam credunt: his se pleræque mulieres, et imbecillis ætas continebant[35]. Da tutt’altro quindi che dal Netium di Strabone, o dall’Isola denominata Andro si è ripetuta la etimologia del suo nome.

Ed in vero le città veramente antiche e specialmente quelle che furono abitate da Greche Colonie serbano sempre le tracce della loro antichità. A Bari, a Celia, a Bitonto, a Ruvo, a Canosa, oltre le monete che abbiamo, si trovano di continuo vasi fittili, ed altri pregevoli oggetti scampati alla ingiuria del tempo. Ma non vi è un solo esempio che simili cose siansi trovate giammai in Andria. Il che basta a smentire tutte le filastrocche smaltite dagli Eruditi sul preteso Netium di Strabone che non ha mai esistito. Non perciò la città di Andria non è una città bella, popolata, colta, ricca e ben meritevole di essere annoverata tra le migliori città della Provincia di Bari.

Dalle cose premesse pare che sia rimasta risoluta la gran quistione sulla parola Netium di Strabone. Si è dimostrato concludentemente che cotesta città puramente immaginaria la fece sorgere l’errore degli amanuensi, i quali la intrusero nel testo in luogo della città di Ruvo che per necessità doveva esservi scritta, perchè questa era la città di fermata tra Canosa e Bari, tra Canosa e Celia. Avendo Strabone impreso a descrivere quella stessa strada da Roma a Brindisi che fu percorsa da Orazio, ed indi fu segnata anche negl’Itinerarj stabiliti dalla pubblica [a27] Autorità, è chiaro per se stesso che tutto ciò che si discosta da questi sicuri elementi non deve credersi che guasto e corrotto.

Parla in fine di Ruvo anche Giulio Frontino nel suo libro de Coloniis. Bisogna però premettere che l’oggetto di questo Scrittore non fu di scrivere da Geografo, ma bensì di formare uno stato de’ terreni colonici. Nel riportare quindi le operazioni e le ricognizioni seguite nella Puglia, fu questa divisa in due Provincie che furono da lui chiamate Provincia Apuliæ, e Provincia Calabriæ. Nella prima riportò i terreni colonici delle città della Daunia, tra le quali si vede allogato l’agro Lucerino, Venosino, Salpino, Canosino etc. Nella seconda poi si leggono i seguenti nomi, fra i quali vi è anche l’agro Ruvestino: Brondisinus ager pro æstimio ubertatis est divisus. Cetera in saltibus sunt assignata, dividuntur sicut supra legitur Provinciam esse divisam. Botontinus, Celinus, Genusinus, Lyppiensis, Metapontinus, Orianus, Rubustinus, Rodinus, Tarentinus, Varnus, Veretinus, Uritanus, Ydruntinus ea lege, et finitione finiuntur, qua supra diximus. Maxime autem vicinorum exempla sumenda sunt, et consuetudines regionum intuendæ, ut secundum signorum ordinem, atque rationem veritas declaretur[36].

Dalle cose premesse risultano due circostanze. La prima che Ruvo è sicuramente una città antica, poichè fanno di essa menzione gli antichi Scrittori innanzi riportati. La seconda che la sua denominazione latina (giacchè della greca ne parlerò in seguito) fu Rubi. Non bene a proposito quindi nelle Tavole della Geografia antica stampate nell’anno 1694 nella Tipografia del Seminario di Padova Auctore N. Sanson Abbavillæo Christianissimi Galliarum Regis Geographo si vede la nostra città segnata tra le città della Puglia Peucezia col nome di Rubustum. È chiaro che l’autore delle Tavole suddette prese questo nome dai Rubustini di Plinio, e dal Rubustinus ager di Giulio Frontino. Ma non avvertì che dal Poeta Orazio, dall’Itinerario di Antonino, dall’Itinerario Gerosolimitano, ed anche dalla Tavola Peutingeriana è la nostra città chiamata Rubi e non già Rubustum.

Roberto Stefano scansò questo errore; ma cadde in altro errore [a28] assai più grave allora che sulla parola Rubi fece la seguente osservazione: Rubi Ruborum tantum pluraliter. Oppidum Campaniæ a ruborum frequentia, seu a colore ruboris. Horat. I serm. V v. 94[37]. Fa veramente meraviglia come abbia situata la nostra città nella Campania, senz’aver avvertito che il Poeta Orazio a cui si è riportato disse che nel suo viaggio da Roma a Brindisi, essendo partito da Canosa andò a pernottare a Ruvo, e da Ruvo passò a Bari che non è stata mai una città della Campania, ma bensì della Puglia Peucezia! Ne fu quindi Roberto Stefano giustamente redarguito da Baudrand nelle sue note al Lessico Geografico di Ferrario, ove sulla parola Rubi osserva: In Thesauro linguæ latinæ in Campania locatur, a qua longissime abest Rubus urbs Apuliæ.

Ambrogio Calepino nel suo Dizionario ha situata la città di Ruvo nella Terra di Bari. Ha però errato nell’aver detto che vi sia stata anche nella Campania un’altra città dello stesso nome, e nell’avere attribuiti li precitati versi di Orazio a questa e non a quella. Rubi est etiam oppidum Campaniæ a Ruborum frequentia, sive a rubore dictum. Horat. in Serm. I sat. 5 etc. Ma oltre che una città di questo nome non è mai esistita nella Campania, non merita veruna scusa nell’avere invocata la testimonianza di Orazio che ha parlato di Ruvo della Peucezia, non già di cotesto ideale Ruvo della Campania.

Hanno anche largamente errato coloro i quali hanno confusa la nostra città con Rufræ della Campania, e con Rufrium degl’Irpini. A coteste sonore aberrazioni rispondono Surita, e Vesselingio nelle loro note sull’Itinerario di Antonino. Il primo sulla parola Rubos in esso riportata osserva: Plinius lib. III cap. XI Rubustinos populos recenset, qui in exemplari Toletano Rubisini cognominantur. Horatius Canusio se Rubos venisse ostendit sat. V lib. I vers. 94. Quo loco miror cur venerit in mentem Dionysio Lambino egregio ejus Auctoris Commentatori affirmare eam urbem esse Campaniæ, præsertim ipso attestante Canusio, quod Dauniorum Apulorum oppidum erat, Rubos pervenisse, et qui antea prædixerat

Incipit ex illo Montes Apulia notos

Ostentare mihi, quos torret Atabulus.

[a29]

Il secondo poi dice: Rubos esse notat Botiandus ad vitam Laurentii Sipontini editam die VII Januarii, qui Rubos cum Rufris Virgilii, et Rufrio Livii idem esse oppidum existimant: His neque accedit, ita nec obloquitur. Rectius L. Holstenius in Ital. A. Cluverii p. 271 Rufrium, et Rufras distinguit: Hæ in Campania erant: illud in Hirpinis. Rubustini in Apulia incolebant, inibique eos collocat Frontinus de Coloniis pagina 127. Civitas Rubi, et Rubensis Episcopus memorantur in Chronico Lupi Protospatæ anno MLXXXII.

Non è quindi scusabile tampoco Cristofaro Cellario, Geografo per altro eruditissimo, per esser caduto nello stesso errore. Alla fine della sezione III cap. IX del libro II ci ha data una carta che porta il seguente titolo Græcia magna, sive pars ultima Italiæ. In cotesta carta vedesi molto bene la nostra città allogata in Apulia Peucetia tra Canosa e Bari. Ma colla massima incoerenza si vede da lui segnata col doppio nome Rubi Rufrum, mentre cotesto Rufrum è alla stessa perfettamente estraneo!

Tanto più ciò sorprende quanto che Cellario si è messo in contraddizione di se stesso. Avendo egli parlato specialmente tanto della città della Campania chiamata Rufræ, quanto del Rufrium degl’Irpini, come ha potuto poi attribuire il nome sia dell’una, sia dell’altra alla nostra città che nella sua carta l’ha egli stesso allogata in una Regione diversa, qual è la Peucezia? Della prima di esse dice così: Supra Theanum in ortum hibernum sunt Rufræ Virgilio lib. VII vers. 739 = Quique Rufras Batulumque tenent, atque arva Celennæ. Obscura nomina: Campaniæ tamen cum ceteris quæ præcedunt, quæ sequuntur vindicanda. Servius ibi. Rufras, Batulumque castella Campaniæ a Samnitibus condita. Holstenius auctor est Præsentiani in Theanensi Diœcesi lapidem inventum cui inscriptum est

M. AGRIPPÆ L. F. PATRONO
RUFRANI COLONI[38].

Per la seconda poi osserva: Tandem in extremo Hirpinorum ultra Compsam Cluverius Rufrium Livii, quod et Rufræ Virgilii idem ipsi oppidum est, cujus ductu nescio, collocavit. Nos Holstenium sequuti Rufras [a30] a Rufrio supra separavimus, ut illis Campaniæ vindicatis, sicut vindicavimus, Rufrium solum supersit investigandum. De hoc Livius lib. VIII cap. XXV. Eodem tempore etiam in Samnio res prospere gestæ, tria oppida in potestatem venerunt Allifæ, Callifae, Rufrium. Samnio attribuit, sed laxis finibus descripto, ut Hirpinos etiam, qui ortu Samnites sunt, comprehendat. An sit oppidum, quod hodie Ruvo vocatur, quod credit Cluverius, judicent peritiores illarum Regionum[39].

O che però Rufræ e Rufrium siano una stessa cosa, o che siano due luoghi diversi, il che per altro non lo vedo chiaro abbastanza, manca ogni ragione per potersi attribuire cotesti nomi alla città di Ruvo della Peucezia. Quel Ruvo di cui ha quì parlato Cluverio non è la nostra città, ma bensì una misera ed infelice Bicocca che porta anche questo nome, e forma ora parte della Provincia di Basilicata volgarmente detta Ruvo della Montagna, per distinguerla dalla nostra città riputata per una delle città della Marina. Con poca riflessione quindi il Cellario ha confuso un luogo coll’altro ed ha attribuito alla nostra città quel doppio nome che niuno ancora ha immaginato neppure.

L’unico suo nome latino ha Rubi che lo ha ritenuto anche ne’ mezzi tempi, come ne fa pruova la più volte citata Dissertazione e la carta corografica che va tra le Opere del Muratori. Questo nome, si vede segnato ne’ Registri Normanni, Angioini, ed Aragonesi, de’ quali si parlerà in seguito, in tutti i Dizionarj ed in tutte le carte della Geografia antica, tra le quali vi è anche quella della Italia che ci ha data il Muratori nel primo tomo della sua Grande Raccolta de’ Scrittori delle cose Italiche.

Non manco quì d’incaricarmi che tra i Commentatori di Orazio ve n’è stato alcuno il quale ha creduto che fosse stata la nostra città la Patria del Poeta Ennio. Mi piacerebbe in vero il poter vantare un cittadino tanto illustre. Ma Verrebbe ciò a confondere la nostra città coll’altra antica città chiamata Rudiæ, la quale era sita nell’antica Calabria tra Taranto e Brindisi, e fu la vera Patria di Ennio.

Quindi Cicerone parlando di quel Poeta, ch’è da Orazio chiamato [a31] Pater Ennius, disse: Rudium hominem Majores nostri in Civitatem receperunt[40]. Strabone dice: Tarentum versus compendioso itinere per Rodias proficiscantur urbem Græcam Ennii patriam poetæ[41]. Presso Pomponio Mela si legge: Et Ennio cive nobiles Rudiæ[42], e Silio Italico dice di lui

Miserunt Calabri, Rudiæ genuere vetustæ,

Nunc Rudiæ solo memorabile nomen alumno[43].

Intanto da ciò che han detto gli antichi Scrittori risulta dimostrato che Ruvo è una delle antiche città dell’Italia. Nulla però ci hanno fatto conoscere della sua origine, e se sia stata di fondazione Greca, o pure una città Italica antica. Questa circostanza, la quale è rimasta in una perfetta oscurità fino ad un’epoca da noi non lontana, l’hanno pienamente e concludentemente dilucidata le antiche monete ivi rinvenute, delle quali passo ad incaricarmi, anche perchè serviranno esse di guida alle ulteriori mie investigazioni.

[a32]

CAPO II. Delle antiche monete della città di Ruvo.

Per le antiche monete Ruvestine è avvenuto quello stesso che anderò a dire nel capo IV per gli eccellenti vasi fittili ed altri preziosi oggetti rinvenuti negli ultimi scavamenti. Pare che fosse stato riserbato alla età nostra lo scuoprimento di que’ tesori di ogni specie, i quali hanno squarciato quel velo che cuopriva per lo innanzi non meno la origine Greca della nostra città, che la sua opulenza, la sua coltura, e ’l gusto squisito de’ suoi antichi abitanti per le belle arti.

Nella mia prefazione ho avvertito che fino al tempo in cui fiorì il nostro Illustre Canonico Mazocchi erano queste cose sconosciute a segno che gli mancò qualunque appoggio per annoverare la nostra città fra quelle antiche città Greche, delle quali diè il catalogo. Qualche moneta Ruvestina che cominciò a trovarsi venne attribuita sia alla città detta Basta, sia all’antica città Greca dell’Acaja denominata Rhypæ, di cui avrò occasione di ragionare in seguito largamente nel capo V.

Il Magnan fu il primo che avvertì questi errori, ed attribuì a Ruvo la moneta malamente creduta di Basta la quale presenta da una parte una civetta con un ramoscello di ulivo, e dall’altra la testa galeata di Pallade colla leggenda ΡΥΒΑΣΤΕΙΝΩΝ[44]. È questa però una delle monete più recenti della nostra città come anderò a rilevarlo nel detto capo V. Altre e non poche tanto delle più, quanto delle meno antiche, e con tipi diversi sono state pubblicate dal chiarissimo Cavalier Francesco Maria Avellino Direttore del nostro Real Museo e mio rispettabile amico.

A lui è dovuto il merito di aver rivendicate alla nostra città quelle che si attribuivano a Rhypæ. Il di lui avviso è stato applaudito e seguito da tutti gli altri Scrittori della Materia, di modo che non forma ciò più oggetto di quistione. Le monete suddette portano o la leggenda [a33] intera come quella del Magnan, o le seguenti leggende abbreviate ΡΥΨ che appartiene alle più antiche, ΡΥ, ΡΥΒΑ.

Il numero delle antiche monete Ruvestine all’epoca nostra è andato crescendo per gradi. Il celebre Cavalier Domenico Cotugno mio Pro-Zio materno, il quale era amantissimo degli oggetti di antichità della città di Ruvo anche sua patria, giunse ad unirne appena sette, che glie le proccurò la buona memoria del mio ottimo Genitore. A me è riuscito fino a questo punto di acquistarne ottantacinque rinvenute del pari tutte in Ruvo.

Questo numero vistoso unito a quelle del Cavalier Cotugno, ed alle monete pubblicate tanto dal Cavalier Avellino che da altri, pruova vie più con quanto sano accorgimento ribattè quest’ultimo la opinione di coloro che vollero attribuire le prime monete Ruvestine che si trovarono ad una antica città della Grecia. Il fatto ha smentito pienamente cotesto errore, poichè le tante monete trovate dopo in Ruvo confermano in un modo trionfante ciò che seppe veder di buon’ora il Signor Cavalier Avellino.

Le ottantacinque monete Ruvestine che io posseggo presentano que’ medesimi tipi che si osservano nelle altre monete riportate dal detto Signor Avellino nelle diverse sue dotte produzioni e da altri Scrittori. Avendole però messe sotto li di lui occhi, colla solita sua perspicacia e profonda conoscenza della Materia vi ha notate talune variazioni, le quali hanno richiamata la sua attenzione.

Ragion vuole che le monete suddette formino parte di questo mio Cenno istorico. Se però imprendessi a ragionare di esse, non potrei che replicare le stesse cose che si sono già dette maestrevolmente da una penna tanto riputata. Mi limiterò quindi a presentare quì in due tavole tutte le monete Ruvestine finora pubblicate o da me possedute. Per la illustrazione di esse avendo pregato il detto Signor Cavalier Avellino che si fosse compiaciuto di riunire ei medesimo le cose che aveva precedentemente scritte su di esse, si è egli occupato a riprodurle con averne formato e dato alle stampe un catalogo che con somma cortesia mi ha indiritto. Ho quindi profittato di esso con alacrità, e l’ho alligato alla fine di questo libro per la piena intelligenza delle predette due tavole.

[a34]

Nel detto catalogo vi sono anche le sue opportune osservazioni sulle dette variazioni che ha ravvisate nelle monete Ruvestine da me raccolte. Accrescono il pregio di questo suo lavoro alcune monete Ruvestine, le quali sono le sole che a me mancano, ma a lui è riuscito osservarle e paragonarle colle altre già pubblicate. Ha egli con ben fondate ragioni ravvisata in esse l’alleanza che vi era tra la città di Ruvo e l’altra antica città della Peucezia denominata Silvium con essa confinante, della quale avrò la occasione di parlare di proposito nel capo che sussiegue. Le monete suddette sono al numero 4 5 e 13 della II Tavola.

Tutto ciò dunque che può riguardare le monete Ruvestine riportate nelle Tavole quì annesse si troverà nelle dotte osservazioni del Signor Cavaliere Avellino di sopra cennate. Mi riserbo solo di trarre da esse ove l’uopo sarà per esigerlo quelle illazioni che saranno conducenti per indagare l’epoca della prima fondazione della nostra città, la vera etimologia del nome alla stessa imposto, il culto de’ suoi antichi abitanti e l’origine di esso, non che la sua opulenza causata dalla bontà e fertilità del suo vasto territorio.

Non fia inutile intanto l’avvertire che tra le monete Ruvestine da me riunite ve ne ha più d’una così ben conservata, e di un conio tanto bello e vistoso, che ben si può dire di esser state anche in questa parte portate in Ruvo le belle arti a quello stesso grado di perfezione che si ammira in tutte le altre cose delle quali anderò a parlare nel Capo quarto.

[a34a]

Tav. I.

And. Russo dis. ed inc.

[a34c]

Tav. II.

And. Russo dis. ed inc.

[a35]

CAPO III. La città di Ruvo deve credersi fondata dagli Arcadi che vennero nella Italia prima della Guerra di Troja.

Dionigi di Alicarnasso, comunque Greco di Nazione, fa un magnifico elogio delle bellezze della Italia, ed un’ampia descrizione de’ suoi pregi; dà alla stessa la preferenza su di qualsivoglia altro Paese per la fertilità del terreno e la moltiplicità de’ prodotti di esso, per la bontà de’ paschi, la temperatura del clima e tanti altri vantaggi, de’ quali la Natura l’è stata prodiga[45].

Plinio II ripete gli stessi encomj in pochi versi. Jam vero tanta ei vitalis, ac perennis salubritatis cœli temperies, tam fertiles campi, tam aprici colles, tam innoxii saltus, tam opaca nemora, tam munifica silvarum genera, tot montium afflatus, tanta frugum, et vitium, olearumque fertilitas, tam nobilia pecori vellera, tot opima tauris colla, tot lacus, tot amnium, fontiumque ubertas totam eam perfundens, tot maria, portus, gremiumque terrarum commercio patens undique, et tanquam ad juvandos mortales ipsa avide in maria procurrens. Neque ingenia, ritusque, ac viros lingua, manuque superatas commemoro gentes. Ipsi de ea judicavere Græci, genus in gloriam suam effusissimum, quotam partem ex ea appellando Græciam magnam[46].

Non fia dunque meraviglia se le nostre belle Regioni si attirarono sempre il desiderio dell’estere Nazioni che recò alla povera Italia infiniti malanni. Siamo però giusti, se le invasioni de’ Popoli settentrionali dopo la caduta del Romano Impero vi portarono la ignoranza, la barbarie e ’l pesantissimo giogo della feudalità, la moltitudine delle antiche Colonie Greche che vennero quì a stabilirsi vi portò i lumi, le scienze, le belle arti e quella civiltà, la quale fu utilissima a dirozzare i suoi antichi abitanti che non senza un fondamento di ragione i Greci gli chiamavano Barbari.

[a36]

Conobbe di buon ora questa verità un gran Popolo che si stava formando per conquistare l’impero del Mondo, cioè il Popolo Romano. Persuaso lo stesso dopo la espulsione dei Re che per rendersi grande un Popolo sono necessarie le buone leggi, nell’anno trecentesimo di Roma spedì li suoi Legati in Atene ed alle città Greche stabilite in Italia, per dimandare alle stesse quelle leggi che fossero state per se più opportune, e cotesta saggia missione ebbe il suo effetto[47].

Con ragione, perchè nelle Greche città dell’Italia fioriva la celebre Scuola Pitagorica madre feconda di tanti Uomini insigni. Si sono in esse distinti i sommi legislatori Caronda e Zeleuco, Archita valente tanto nel comando degli eserciti che nella scienza del Governo, Timeo gran Filosofo ed Astronomo e sommo Politico, e tanti altri Uomini illustri che lungo sarebbe l’enumerargli.

Dai lumi diffusi e dai grandi Uomini formati dalla Scuola Pitagorica han creduto i Greci Scrittori che sia derivato il nome di Magna Grecia, che Plinio nel luogo innanzi riportato lo ripete dai pregi delle Regioni abitate dalle Greche città[48]. Che che però ne sia della etimologia del nome suddetto, un dottissimo Scrittore Romano, qual è Cicerone, lasciò scritto: Pythagoras, qui cum Superbo regnante in Italiam venisset, tenuit Magnam illam Græciam cum honore et disciplina, tum etiam auctoritate, multaque sæcula postea sic viguit Pythagoreorum nomen, ut nulli alii docti viderentur[49]. Ed in altro luogo: Platonem [a37] ferunt ut Pythagoreos cognosceret in Italiam venisse, et in ea, tum alios multos, tum Archytam, Timeumque cognovisse[50]. Ed in vero A. Gellio ci fa sapere che Platone, benchè non fosse stato ricco, comprò per diecimila danari a lui donati dal suo amico Dione Siracusano tre libri di Filoleo Filosofo Pitagorico[51].

Vi è gran quistione tra gli Eruditi se la Magna Grecia sia stata ristretta alle sole città piantate su i tre seni di mare Locrese, Scillatico, e Tarantino[52], o pure sotto questo nome siano andate comprese anche tutte le altre Greche città sparse per la Italia. Tal discussione non è del presente argomento. Si può osservare ciò che ne ha dottamente scritto il chiarissimo Canonico Mazocchi nel suo Commentario sulle Tavole di Eraclea ove ha esaurita la materia.

Pare ch’egli ammetta la così detta Magna Grecia nelle principali città testè indicate colle Regioni rispettive, ed una Grecia sparsa e disseminata in tutte le altre non poche città della Italia abitate da Colonie Greche. Comunque ciò sia non è meno vero che anche queste città partecipavano della stessa coltura e delle stesse istituzioni. Facendosi attenzione a ciò che dice Dionigi di Alicarnasso, i Romani spedirono i loro Legati per aver buone leggi partim ad Græcas urbes, quæ sunt in Italia, partim Athenas. Non alle sole città quindi della così detta Magna Grecia essi si diressero; ma bensì a tutte le città Greche della Italia; il che pruova che tutte avevano ugualmente la fama di essere ben governate. Oltre che li monumenti delle belle arti che si sono trovati anche nelle altre città Greche che non formavano parte della così detta Magna Grecia, sono una sicura testimonianza che pari in esse era anche la coltura.

[a38]

L’emigrazioni de’ Greci in Italia sono state molte e seguite in diversi tempi prima della famosa Guerra di Troja e dopo di essa. Non è mio proponimento di entrare in queste indagini che hanno tenute occupate altre penne assai più dotte. Mi limiterò quindi a parlare soltanto di que’ Greci i quali si stabilirono in quella Regione in cui è sita la città di Ruvo, e debbono in conseguenza credersi i fondatori di essa. Rimonta questa indagine ad un’epoca molto rimota, la quale mi dà dritto di allogare la nostra città tra le più antiche città Greche della Italia.

Il prelodato Dionigi di Alicarnasso che visse ai tempi di Ottaviano Augusto, e benchè Greco di Nazione essendosi recato in Roma, s’invogliò ad istruirsi molto bene delle cose d’Italia, dopo aver riportate le diverse opinioni relative ai primi abitanti di essa detti Aborigini, soggiunse ciò che siegue. Sed Scriptorum Romanorum doctissimi, et in his Porcius Cato, qui diligentissime scripsit de originibus Italicarum urbium, Luciusque Sempronius, et alii[53] Græcos esse affirmant profectos ex Achaja multis ante bellum Trojanum ætatibus, nec tamen diserte tradunt ex qua Natione Græca, quave urbe migraverint: ac ne tempus quidem, aut Ducem coloniæ, aut quo casu patrias sedes reliquerint, fabulamque sequuti Græcanicam, nullius Græci Auctoris eam confirmant testimonio. Itaque rei veritas quomodo se habeat incertum est. Quod si istorum sana est narratio, non possunt esse coloni alterius generis, quam Arcadici. Nam hi primi Græcorum, trajecto sinu Ionio, domicilium in Italia statuerunt deducti ab Oenotro Lycaonis filio. Is quintus fuit ab Æzeo, et Phoroneo primis Peloponnesi Principibus, nam e Phoroneo genita est Niobe, ex qua, et Jove fertur natus Pelasgus. Æzei vero Lycaon fuit filius, et hujus filia Dejanira. Ex Dejanira et Pelasgo prognatus est alter Lycaon, cujus Oenotrus fuit filius XVII ætatibus prius quam apud Trojanos bellatum est[54]. Et tempus quidem hoc est missæ in Italia coloniæ: migravit [a39] autem Oenotrus a Græcia non contentus portione sui patrimonii. Cum enim essent Lycaoni XXII filii, opus erat in totidem partes dividi Arcadiam. Hanc ob causam Oenotrus relicta Peloponneso, classeque parata trajecit mare Jonium, unaque Peucetius, unus e fratrum numero, comitante eos bona parte popularium: ajunt hanc gentem fuisse olim frequentissimam. Adjunxerunt se his et alii Græci, quibus non sufficiebat ager proprius. Itaque Peucetius quo primum appulerunt in Italiam super Japygiæ Promontorium suis expositis, sedem ibi fixit, et ab eo horum locorum incolæ dicti sunt Peucetii[55].

Continua poi a dire che Oenotro col maggior numero della sua Gente passò oltre e continuò a navigare fino al mare detto allora Ausonio ed indi Tirreno. Che ivi sbarcato edificò delle città, e dal suo nome fu quella parte della Italia chiamata Oenotria. Nelle cose da lui dette si riporta all’autorità di Ferecide Ateniese che dice a niuno secondo nel tessere le genealogie. Qui de Regibus Arcadiæ sic loquitur. Pelasgo ex Dejanira Lycaon natus est. Huic nupsit Cyllene Nais Nympha, a qua mons Cyllene dicitur. Deinde recensitis horum filiis, locisque, quos eorum quisquis habitandos ceperit, Oenotri et Peucetii sic memorat. Et Oenotrus, a quo Oenotri nominantur in Italia, ac Peucetius, a quo Peucetii appellantur in sinu Jonio.

Pausania aggiugne che de’ figli di Licaone il Primogenito si chiamava Νύχτιμος, e questi succedè nel Regno. Nomina quindi gli altri numerosi suoi fratelli i quali occuparono molti luoghi dell’Arcadia, fortificarono le antiche città, e ne fondarono delle nuove e soggiugne: At natu minimus Oenotrus pecunia, et viris a fratre Nyctimo acceptis, classe in Italiam transmisit, a qua fuit ea in qua consedit Terra de Regis nomine Oenotria vocitata. Atque hæc prima a Græcis colonia deducta[56].

[a40]

Passa indi Dionigi di Alicarnasso a parlare di un’altra spedizione di Arcadi in numero però assai più ristretto che la dice partita sessant’anni prima della Guerra di Troja dall’antica città dell’Arcadia denominata Pallantium. Condottiere di essa fu Evandro figliuolo di Mercurio e di una Ninfa e Profetessa Arcadica chiamata Temi. Che furono questi bene accolti da Fauno Re saggio e prudente che dominava allora in que’ luoghi, ove surse dappoi la città di Roma, e si stabilirono vicino al fiume Tevere. Di questa seconda spedizione di Arcadi ne parla anche Pausania[57].

Dalle notizie quindi che si son premesse si ha che Peucezio con una porzione degli Arcadi ed altri Greci del Peloponneso sbarcò super Japygiæ Promontorium in sinu Jonio, cioè nel seno Tarantino, e che dal suo nome prese la Regione il nome di Peucezia. Si estese questa per lungo tratto nel paese adiacente al mare Adriatico. Avvenne però coll’andar del tempo che in quella parte dell’antica Peucezia ch’era intorno al Promontorio Japigio sopragiunsero altri Greci che ivi si stabilirono. Dal che prese quella contrada nuovi nomi e fu chiamata Messapia, Japigia, Salentini, Calabria. In fine qualunque sia stata la estensione primitiva del Paese denominato Peucetia, rimase questa in seguito ristretta a quella parte della Puglia che porta oggi il nome di Terra di Bari.

Strabone che visse al tempo di Augusto e di Tiberio, dopo aver descritta la spiaggia d’Italia fino all’antica città di Metaponto passa a dire: Contingit Metapontum Japygia, quam et Messapiam Græci dixere. Incolæ alios Salentinos dicunt, qui circa Japigium habitant Promontorium, alios Calabros. Supra hos versus Septentrionem sunt Peucetii, Græco sermone Audanii cognominati. Incolæ quidquid post Calabriam est Apuliam vocant: fuerunt etiam ibi qui Pediculi dicerentur, maxime Peucetii.

Si osservi che allora si chiamava Calabria non già quella Regione che porta oggi questo nome. La Calabria attuale apparteneva un tempo ai Bruzj, ed in parte anche alla Magna Grecia. La Calabria di cui parla Strabone era quella lingua di terra, o sia quell’Istmo il quale da Taranto a Brindisi è racchiuso tra il seno Tarantino e ’l mare Jonio [a41] detto oggi Terra d’Otranto. Cotesto Istmo finisce al Promontorio detto dagli antichi Salentino o Japigio, oggi Capo di S. Maria di Leuca. Messapia Peninsulæ formam obtinet istmo interclusa, qui a Brundusio Tarentum usque porrigitur spatio CCCX stadiorum: navigatio circa Japygium Promontorium est circiter CCCC. Metaponto distat stadiis CC fere Tarentum ortum solis versus.

Passa poi a descrivere il seno Tarantino e la città di Taranto fondata da una colonia di Spartani. Parla della sua antica potenza e floridezza, ed indi della sua decadenza causata dalla mollezza e dal lusso. Esalta la fertilità del terreno di quella Regione, comunque soggetto alla siccità. Enumera le antiche città che in essa vi erano, e la diversità della loro origine, dalla quale erano surte le diverse nomenclature imposte a quella penisola. Quindi conchiude: Communi vocabulo Messapiam, Japygiam, Calabriam, et Salentinam appellant. In fine passa a parlare delle due strade che da Brindisi menavano a Roma delle quali si è largamente ragionato nel capo primo[58].

Dice lo stesso anche Plinio: Connectitur secunda Regio (Italiæ) amplexa Hirpinos, Calabriam, Apuliam, Salentinos CCL M. P. a sinu qui Tarentinus appellatur ab oppido Laconum in recessu hoc intimo situm, contributa eo maritima colonia, quæ ibi fuerat. Abest CXXXVI M. P. a Lacinio Promontorio, adversam ei Calabriam in Peninsulam emittens. Græci Messapiam a Duce appellavere: et ante Peucetia a Peucetio Oenotri fratre, in Salentino agro. Inter Promontoria C. M. P. intersunt. Latitudo Peninsulæ a Tarento Brundusium terreno itinere XXXV M. pass. patet, multoque brevius a portu Sasina. Passa indi a riportare le antiche città della Penisola suddetta[59].

Da ciò che dice questo Scrittore risulta ch’ei conviene anche nella venuta di Oenotro e Peucezio nella Italia, giusta il racconto fattone da Dionigi di Alicarnasso, poichè ha per vero che quella Penisola, la quale prese dappoi il nome di Messapia, Japigia, Calabria e Salentina formò parte da principio anche della Peucezia a Peucetio Oenotri fratre. [a42] L’arrivo però de’ nuovi Ospiti che fecero cangiare il nome alla detta penisola restrinse l’antica Peucezia, e di un solo Stato ne formò due, o per dir meglio formò due confederazioni diverse di città Greche tra loro distinte.

Ed in vero si rileva anche da Diodoro Siculo che Agatocle Tiranno di Siracusa cum Japygibus, et Peucetiis societatem armorum iniit[60]. Il che pruova ch’erano questi due Paesi che si governavano separatamente. Ove dunque si dimostri che la nostra città sicuramente Greca formava parte dell’antica Peucezia rimasta sempre sotto la dominazione degli Arcadi che furono i primi ad occupare quella Regione, la sua origine Arcadica ne viene in conseguenza.

Dopo avere Strabone descritta l’antica Calabria di cui si è finora ragionato, passa a parlare della Peucezia con essa confinante. Ne ha parlato piuttosto con sobrietà, ma non senza una positiva utilità per l’argomento che mi ho proposto, poichè avendone indicati i confini, mi mette ciò in grado di dimostrare concludentemente che la città di Ruvo formava parte dell’antica Peucezia, e quindi deve credersi per necessità fondata dagli Arcadi, i quali non furono mai sloggiati da quella Regione come lo erano stati dalla Japigia.

Dice dunque il precitato Scrittore: A Brundusio autem prætervehenti Adriatici maris oram urbs occurrit Egnatia, quæ commune est diversorium tam navigantibus, quam terra petentibus Barium: navigatur autem Noto. Atque huc usque juxta mare Peucetiorum se Regio profert: in mediterraneis usque ad Silvium tota est montosa, et aspera Apennini montis multas partes recipiens: INCOLÆ EX ARCADIA VIDENTUR IMMIGRASSE[61]. Con queste ultime parole conviene anche Strabone nella dominazione acquistata da Peucezio in quella Regione, giacchè è questa la sola notizia che si ha dell’arrivo degli Arcadi in que’ luoghi.

Questo Scrittore indica Egnazia e Bari come le ultime due città della Peucezia dal lato del mare, poichè queste erano in quel tempo le sole due città ch’esistevano sul litorale dell’Adriatico. Nè dopo Bari [a43] ve n’era alcun’altra. Le belle città che ora si vedono dopo Bari sono surte man mano ne’ tempi posteriori. Le più antiche di esse sono Giovinazzo, Trani e Barletta. Dopo di esse viene Bisceglia. L’ultima e la meno antica è Molfetta.

Strabone si è limitato alle sole due città marittime Egnazia e Bari. Non si è incaricato del rimanente litorale allora disabitato tra la città di Bari e la foce dell’Ofanto, ove terminava l’antica Peucezia. Con migliore accorgimento ed esattezza lo ha ciò supplito Tolomeo, il quale dice: Apulorum Peucetiorum in Jonio Pelago Egnatia, Barium, Aufidi fluminis ostium[62]. Il che protende com’era regolare i confini della Peucezia fino alla foce dell’Ofanto.

Dalla parte di terra poi nell’estendere li confini della Peucezia fino all’antica città chiamata Silvium dice Strabone che quella Regione usque ad Silvium tota est montosa et aspera, perchè occupata da una diramazione degli Apennini. Non può questa esser altra che la vasta contrada che porta oggi il nome di Murge, coverta tutta di alture che formano un masso di vivo sasso, la quale corrisponde perfettamente per la sua asperità a ciò che questo Scrittore ne ha detto.

L’antica città denominata Silvium che ha egli indicata come l’ultima città della Peucezia dentro terra ha messi in quistione gli Eruditi ed i Geografi. Xilandro e Casaubono credono che questo luogo di Strabone sia viziato, e che cotesto Silvium non sia mai esistito. Ma nell’Itinerario di Antonino nel tratto di strada a Benevento Tarentum si legge anche questo luogo: Eclano M. P. XV. Sub Romula M. P. XXI. Ponte Aufidi M. P. XXII. Venusia M. P. XVIII. Silvium M. P. XX. Blera M. P. XIII. Sub Lupatia M. P. XIIII. Canalis M. P. XIII. Tarento M. P. XX.

Quindi Surita nelle sue note al detto Itinerario ammette la esistenza della detta città; ma crede di doversi leggere Silvianum e non Silvium, poichè dice che a questo modo la trova segnata in altri antichi esemplari, i quali sono in questa parte per necessità erronei. Pietro Vesselingio poi nelle sue note allo stesso Itinerario ha opinato che Silvium non sia stata [a44] una città, ma bensì un luogo di semplice fermata detto dai Scrittori Latini Mansio, come si è innanzi avvertito; ed aggiugne sull’autorità di Luca Olstenio che sia stato quello stesso luogo che porta oggi il nome di Gorgoglione.

Non posso però convenire che Silvium sia stata una Mansione, e non una città per tre ragioni. La prima perchè nel precitato Itinerario di Antonino i luoghi che non erano città, ma semplici villaggi si vedono riportati col distintivo Vicus. Quelli che avevano abitanti, ma non formavano comunità sono chiamati Castellum o Villa. Quelli in fine, ove non vi erano abitanti, ma semplici alberghi per dar ricovero ai viandanti ed alle vetture, sono chiamati Mansiones. Ond’è che nell’Itinerario suddetto non vedendosi Silvium indicato con alcuno di questi nomi, è necessità conchiudere che sia stata una città come tutte le altre che si vedono in esso riportate senz’alcuno di cotesti distintivi.

La seconda è che Plinio nel luogo riportato innanzi al capo I pagina 15 tra le Popolazioni della parte interna della seconda Regione dell’Italia annovera anche i Silvini. Pruova ciò concludentemente che il Silvium di Strabone e dell’Itinerario suddetto non era una Mansione, come ha creduto Vesselingio, ma bensì una città che aveva un numero di abitanti meritevole di entrare nella classe delle Popolazioni da Plinio enumerate.

La terza che toglie ogni dubbio è il seguente luogo di Diodoro Siculo. Nella Olimpiade CCCXVIII ei riporta i seguenti fatti. In Italia Samnites Soram, et Atiam urbes Populo Romano societatis fœdere conjunctas expugnaverunt, et divenderunt captivos. Consules igitur cum validis copiis impressione in Japygiam facta, prope Silvium urbem castra locavere. Ea, cum a præsidio Samnitum custodiretur, ad dierum aliquot obsidione tentarunt Romani, et per vim tandem capta, plus quam quinque captivorum millia, magnamque spoliorum copiam abstulerunt[63]. Dal che chiaro risulta ch’era Silvio una città considerevole.

Nella Tavola Peutingeriana si legge una città denominata Silutum a venticinque miglia di distanza da Venosa. Pare che debba questo essere [a45] il Silvium che nell’Itinerario di Antonino è riportato a venti miglia lungi dalla stessa città di Venosa. Nulla fa il divario di cinque miglia nelle distanze rispettivamente indicate, il quale ha potuto derivare dalla poca esattezza della Tavola suddetta. Ciò che importa è che nelle vicinanze di Venosa non vi è stata mai altra città che avesse portata il nome di Silutum. Quindi Silutum e Silvium debbono credersi una stessa città, giusta il giudizioso avviso dell’Autore della dotta Dissertazione e della Carta corografica dell’Italia recata dal Muratori, ed innanzi citata, il quale osserva Silvium in Peutingeriana Silutum dicitur[64].

Ed in vero nella Tavola suddetta si vedono segnate in continuazione l’una dopo l’altra allo stesso modo in cui sono riportate nell’Itinerario di Antonino le tre città Venusia, Silutum, Sublupatia. Manca solo Blera o Plera che nel detto Itinerario sta in mezzo tra Silvium e Sub Lupatia. Cotesta mancanza ha potuto derivare o da una omissione del disegnatore della Tavola Peutingeriana, o da un cangiamento che il tempo aveva portato sia ai luoghi, sia all’andamento della strada consolare. La sostanza però della cosa è la stessa, poichè la Tavola suddetta ci presenta in una continuazione sulla detta strada di Taranto le tre città Venusia, Silutum, Sublupatia. Dal che è a conchiudersi che il Silutum della Tavola è lo stesso che il Silvium di Strabone e dell’Itinerario di Antonino.

Il P. Arduino nelle sue annotazioni al luogo di Plinio innanzi riportato sulla parola Silvini fa la seguente osservazione: Silvini ab oppido Apulorum Peucetiorum, quod apud Strabonem lib. VI pag. 283 Σιλούιον vocatur, nunc dicitur il Gorgoglione. Cristofaro Cellario così parla della stessa città: Apud hos montes fuisse Silvium oppidum ex Strabonis descriptione constat. Ait enim lib. VI pag. 195 sicut Barium sit extremum in ora maris oppidum Peucetiorum, ita in mediterraneis ad Silvium usque oppidum. Dicuntur Silvini a Plinio lib. III cap. XI. Ex situ Holstenius interpretatur locum, qui nunc il Gorgoglione appellatur[65].

Io però che ho bastante conoscenza de’ luoghi non so trovare affatto [a46] nella Regione montosa et aspera di Strabone quel sito chiamato il Gorgoglione di cui ha parlato Luca Olstenio, e dopo di lui tutti gli altri di sopra riportati, i quali hanno replicata la stessa cosa. Vi è quì sicuramente un equivoco di nomi che bisogna dilucidarlo. Osservo quindi che nella parte estrema delle Murge, o sia della Regione montosa et aspera della Peucezia al dir di Strabone, vi è l’antico feudo un tempo della Famiglia Mazzaccara denominato il Garagnone sito nel punto medio tra Venosa e Ruvo. Ha lo stesso un’ampia dotazione di territorio, parte del quale sta nell’aspra contrada delle murge, e parte nella fertile pianura che passate le murge s’incontra nell’andare a Spinazzola ed a Venosa.

Sorge ivi una collina, sulla quale è edificato un antichissimo castello che porta il nome di Castello del Garagnone. Pratilli sulla via Appia cenna appena che nel sito appunto del Garagnone vi sia stata l’antica città denominata Silvium, e soggiugne: Presso questo luogo del Garagnone si riconoscono in una assai scomoda e lunga valle ammonticchiate e confuse molte selci dell’Appia, ed altre in parte dal terreno sepolte. Non vi si trova altro vestigio di antica fabbrica, ma in un marmo a traverso sepolto si legge la seguente iscrizione etc.[66].

Bisogna dire però che il Signor Pratilli passò per quel luogo dormendo, poichè non altrimenti poteva avvenire che non si sia da lui veduto l’antichissimo castello del quale ho testè parlato, ove vi è oggi una così detta Panetteria messavi dal proprietario di esso per provvedere di pane i coltivatori ed i pastori che dimorano nelle adiacenti campagne. Il sito di cotesto castello corrisponde perfettamente al sito dell’antica città chiamata Silvium indicato da Strabone. Dice questo Scrittore che la già detta contrada della Peucezia montosa et aspera si estendeva usque ad Silvium. Il castello del Garagnone è nel sito preciso ove termina l’aspra contrada delle murge, e comincia la vasta e fertile pianura alla stessa sottoposta di cui si è testè parlato.

Questo dunque e non altro è il Silvium di Strabone, e non già il Gorgoglione erroneamente indicato da Luca Olstenio in vece del Garagnone. [a47] Ed in vero l’Itinerario di Antonino segna venti miglia da Venosa a Silvio sulla strada consolare che menava a Taranto. Altre undici miglia segna da Silvio a Blera, o come altri vogliono a Plera, che Pietro Vesselingio dopo Luca Olstenio credè l’attuale città di Gravina ex itineris ductu, et intervallis. Altre quattordici miglia segna lo stesso Itinerario da Blera a Sub Lupatia che nella Tavola Peutingeriana è detta Sublupatia. Gli Scrittori predetti hanno osservato che quest’ultima antica città sia l’attuale città di Altamura[67].

Ora il castello del Garagnone si trova appunto nella linea indicata dall’Itinerario suddetto. La esistenza inoltre nel sito di sopra designato giusta le indicazioni date da Strabone di un castello antichissimo pruova colla massima evidenza di esser stato quello un tempo un luogo abitato e fortificato. Accresce molto peso a queste osservazioni la seguente circostanza.

Domenico di Gravina nella sua Cronaca che va tra le Opere del Muratori scritta al tempo della Regina Giovanna Prima, di cui parlerò in seguito, dice che essendo partito dal castello di S. Maria del Monte, ch’è un forte e magnifico castello edificato su di una delle alture delle Murge dodici miglia lungi da Ruvo, pervenimus ad casale Guaranioni distans ab ipso castro per milliaria octo, et applicantes ibidem, quia jam hora tarda affuerat, ipsa nocte ibidem quievimus. Indi soggiugne: Judex autem Nicolaus præfatus, quia quasi solus advenerat cum tribus, aut quatuor sociis ad receptionem officii prædicti, requisivit et rogavit Fratrem Rengaldum Ordinis Sacræ Domus Hospitalis Præceptorem in Casali præfato, quod nobilitate sua et dicti Domini honore, de sua familia, et hominibus dicti Casalis viros sibi concederet usque Gravinam sociandos eumdem. Qui curialiter id spopondit; et venerunt nobiscum, causa societatis Judicis Nicolai præfati, viri providi dicti Casalis equites quasi viginti[68].

[a48]

Il che pruova che in quel tempo era il Garagnone un villaggio, o sia Casale tuttavia abitato e ben popoloso, altrimenti non avrebbe potuto dare una scorta di venti uomini a cavallo. Conferma ciò vie più la conghiettura da me proposta che nel sito di quel castello che tuttavia esiste vi doveva essere la città denominata Silvium distrutta dappoi dalle guerre e ridotta ad un villaggio che ora non esiste più tampoco, e quindi si è più facilmente errato nell’averlo denominato il Gorgoglione.

Per non mancare di esattezza non lascio quì di avvertire che quel Gorgoglione di cui ha parlato Luca Olstenio non è un nome ideale. Vi è nel nostro Regno un picciolo Borgo nella Diocesi di Tricarico, il quale porta tal nome. È però questo in altra Provincia ed in una Regione ben lontana dal sito dell’antica città denominala Silvium oggi Castello del Garagnone come risulta dai seguenti documenti.

Carlo Borrelli nel suo libro intitolato Vindex Neapolitanæ Nobilitatis ha pubblicato un prezioso documento Normanno che si conserva nel Grande Archivio del Regno. È questo il Catalogo de’ Feudatarj e Suffeudatarj che al tempo del Re Guglielmo il Buono contribuirono la loro quota de’ soldati per la spedizione di Terra Santa. Nel riportarsi in esso i Feudatarj e Suffeudatarj della Provincia di Basilicata si legge la seguente Rubrica: Comitatus Montis Caveosi = Isti sunt Barones, qui tenent feuda de Comitatu Montis C.

Si recano i nomi di diversi Suffeudatarj di parecchie Terre e Castelli in gran parte tuttavia esistenti ed in parte distrutti, che appartenevano alla detta Contea di Montescaglioso, e tra essi vi è un certo, Patritius, qui tenet feudum Gurgulionis, quod est feudum II militum. Della Terra di Gorgoglione si parla anche in un Registro di Carlo II di Angiò che si conserva nel detto Grande Archivio. Si rileva da esso che quel Sovrano nell’anno 1309 diresse sua lettera al Giustiziere della Provincia di Basilicata, ed ordinò che si fossero rilasciate le contribuzioni fiscali agli uomini ed alle Università Guardiæ, Mesianelli, Gurgulionis, et Tulbii (Tolve) in considerazione de’ danni sofferti nella guerra dai suoi nemici[69]. Da altro Registro di Giovanna II dell’anno 1415 che si conserva del pari nel Grande Archivio, si rileva che la Terra [a49] Gurgulionis nella Provincia di Basilicata era tassata per cinque once l’anno, sulle quali le fu dalla Regina rilasciata un’oncia e quindici tarì[70].

Dai premessi Registri quindi risulta che la Terra denominata Gorgoglione era nel cuore della Basilicata, e formava parte della Contea di Montescaglioso con altri feudi siti tutti nell’interno di quella Provincia. Il Garagnone al contrario sta nella parte estrema della Provincia di Bari, cioè nell’antica Peucezia, ove Strabone allogò la città denominata Silvium, come lo provano li seguenti Registri Angioini.

Il Re Carlo I di Angiò con sua lettera del dì 9 dicembre 1273 scritta da Corato fece sentire Magistro Juris che risedeva in Barletta, Quod Casale Guarilioni possessum per Magistrum et Fratres Hospitalis S. Joannis Jerosolimitani in Regno morantes ad nostrum demanium pertinet pleno jure. Gli ordinò quindi che gli avesse citati a comparire innanzi alla Gran Corte e produrre i titoli giustificativi che credevano avere super prædicto casali, seu feudo[71].

Da altro Registro del Re Roberto dell’anno 1324 risulta che fu da lui scritta al Giustiziere della Terra di Bari Lettera Regia, colla quale gli disse che Fra Bernardo de Bellaffario Luogotenente del Priore dello Spedale di S. Giovanni Gerosolimitano di Barletta gli aveva esposto che Castrum Guaralionem[72] in decreta tui Justitiariatus Provincia situm era franco dal pagamento del servizio militare per concessione e privilegio ottenuto dall’Imperatore Errico. Che avendo quindi dimandato di godere di tale franchigia, diè il Re le disposizioni opportune[73].

Un altro Registro Angioino di cui non si sa l’epoca contiene una informazione presa di tutti li Feudatarj e Baroni della Terra di Bari per ordine del Giustiziere di quella Provincia Pietro Rotondo. In cotesta [a50] informazione si legge ciò che siegue: Et in Guaranione invenit idem Commissarius quod locus Guaranioni est Hospitalis Sancti Joannis Jerosolimitani de Barolo, et dictum Hospitale est immune a servitio pro eodem loco: tamen invenit ipsum locum valere Per annum uncias triginta[74]-[75].

Non si conosce come il Castello del Garagnone sia uscito dalle mani dell’Ordine Gerosolimitano. È sicuro però che ne’ tempi posteriori è stato posseduto in feudo da diverse persone, e fino ai nostri giorni ha ritenuto sempre, come attualmente anche ritiene lo stesso nome, il che lo compruovano li seguenti notamenti del Cedolare della Provincia di Bari che si conservano nel Grande Archivio.

Nel Cedolare dell’anno 1500 si legge il Duca di Gravina Possessore del Garignone. Nell’anno 1528 fu conceduto a Filiberto de Chalon Principe di Orangia lo stato di Gravina et Castrum Garignoni. Nell’anno 1536 passò il feudo del Garagnone a Fortunato Grimaldi che fu per esso tassato in adoa. Nell’anno 1615 si vede tassato in adoa Ercole Grimaldi pro Castro Garagnoni inhabitato. Nell’anno 1643 il Principe di Cellamare acquistò Castrum Guaragnone inhabitatum. Nell’anno 1705 D. Giulia Nicastro acquistò Castrum Guaragnone. Nell’anno 1710 Tommaso Mazzaccara acquistò il detto Castrum Guaragnone. Alla Famiglia Mazzaccara dopo l’abolizione della feudalità è stato il Garagnone spropriato dai suoi creditori.

Ha quindi errato Luca Olstenio allora che ha detto che l’antica città della Peucezia denominata Silvium stava nel sito denominato il Gorgoglione. Cotesto errore di nome la trasporterebbe nel centro della Basilicata, molto lungi da quella linea che si trova indicata da Strabone, dall’Itinerario di Antonino e dalla Tavola Peutingeriana, la quale corrisponde perfettamente al Castello del Garagnone.

Non manco quì di osservare che mentre Strabone indica Silvio come [a51] l’ultima città della Peucezia dal lato meridionale, Tolomeo la estese fino a Venosa[76]. Plinio però situò questa città nella Daunia, poichè disse: Dauniorum coloniæ Luceria, Venusia, Oppida Canusium, Arpi[77]. Al contrario il Poeta Orazio ch’era Venosino e meglio di ogni altro esser poteva informato delle cose della sua Patria, pose in dubbio se questa apparteneva alla Puglia o alla Lucania

. . . . . sequor hunc Lucanus an Appulus anceps,

Nam Venusinus arat finem sub utrumque colonus

Missus ad hoc, pulsis (vetus est ut fama) Sabellis:

Quo ne per vacuum Romano incurreret hostis;

Sive quod Appula gens, seu quod Lucania bellum

Incuteret violenta[78].

Ciò per altro nulla pregiudica l’argomento che mi ho proposto. L’ultima città della Peucezia dal lato meridionale o che sia stata Venosa o che sia stata Silvio, sarà sempre vero che la città di Ruvo abbia formato parte di essa, poichè Silvio (oggi il castello del Garagnone) è circa venti miglia al di là di Ruvo, e Venosa circa quaranta miglia. Rimane ora ad esaminarsi il confine occidentale dell’antica Peucezia, ov’era in contatto colla Daunia, onde vedersi che da quel lato era Ruvo l’ultima città della stessa.

Prese la Daunia il suo nome da Dauno valoroso Principe Illirico, il quale obbligato a lasciare il suo Paese a causa delle sedizioni insorte, venne a stabilirsi nella Puglia, e colla forza delle armi si costituì una dominazione. Capitò dopo di lui nella stessa Regione anche Diomede insigne Guerriero uscito dalla famosa scuola di Chirone. Dopo aver egli comandati gli Argivi nella Guerra di Troja, ed essersi distinto con belle ed ardite azioni, fu costretto anche ad allontanarsi dalla sua Patria.

Tra le favole Omeriche vi è anche quella che mentre Diomede si batteva con Enea con superiorità e vantaggio sul campo di battaglia sotto Troja, la Dea Venere per salvare il proprio figliuolo dal periglio in [a52] cui lo vedeva, lo circondò di una nube, e Diomede osò di ferir la Dea in una mano. Ma questa si vendicò della ingiuria ricevuta, perchè al di lui ritorno dalla Guerra di Troja gli fece trovare la sua moglie adultera per essersi invaghita di Cillabaro. Si dice quindi che per tal cagione non abbia Diomede voluto più rivedere la sua Patria, e dopo esser stato bersagliato anche nel mare con furiose tempeste, mercè la protezione di Minerva sbarcò nella Puglia, fece amicizia con Dauno, lo ajutò nelle guerre ch’ebbe costui a sostenere, divenne di lui genero, ed acquistò la dominazione di una parte della Daunia.

Strabone dunque dopo di aver parlato della Peucezia nel luogo innanzi riportato, continua a dire: Contigua est Dauniorum Regio: insequuntur Appuli, cum Frentanis. Necesse est autem, cum non nisi priscis temporibus Peucetiorum, et Dauniorum nomina usurparint incolæ: sed omnis ista Regio Apuliæ nomine fuerit comprehensa, nec nunc quidem fines istarum gentium certo posse describi: itaque neque nobis quidquam de his adseverandum. Con ragione fa quì menzione della incertezza de’ confini tra le due Regioni, poichè si è veduto innanzi che anche al tempo di Tolomeo che visse assai dopo di Strabone, era tuttavia incerto se Venosa fosse appartenuta alla Peucezia o alla Daunia.

Niuna incertezza però vi poteva o vi può essere circa il confine occidentale della Peucezia colla Daunia, di cui sto ragionando, poichè Tolomeo, come innanzi si è detto, protende la Peucezia fino alla foce dell’Ofanto, e da ciò che Strabone seguita a dire chiaramente risulta anche fino a qual punto la Daunia si estendeva da quel lato. A Bario ad Aufidum flumen, super quo Canusium jacet emporium, stadia CCCC. Ad ipsum emporium a mari adverso amne stadiorum sex navigatio[79]. In propinquo est Salapia Argyripensium navale. Etenim non procul a mari in planicie sitæ sunt duæ urbes, quæ, ut ambitus earum docent, quondam Italicarum fuerunt maximæ, Canusium, et Argyripa: nunc eæ [a53] sunt minores. Quæ nunc Arpi principio Argos Hippium, deinde Argyripa nominata fuit. Utramque Diomedes fertur condidisse, campusque, et multa alia extant vestigia, quæ Diomedis in ea regione fuisse testantur dominationem, utpote Luceriæ (quæ et ipsa antiqua Dauniorum urbs, hodie humilis est) vetusta donaria in fano Minervæ: et in vicino mari duæ sunt insulæ Diomedeæ appellatæ, quarum colitur altera, alteram esse ferunt desertam[80]; in hac nonnulli fabulantur Diomedem e medio sublatum, ejusque socios in aves mutatos, etiamnum quodammodo superesse, et vitam vivere humanæ æmulam ratione victus, et comitate erga homines probos, fugaque flagitiosorum[81]-[82].

Situa quì dunque Strabone due città edificate da Diomede nella [a54] Daunia, una sulla dritta e l’altra sulla sinistra dell’Ofanto, cioè Argiripa e Canosa, e fa indi menzione anche del Campo di Diomede. Era questo poche miglia lungi da Canosa verso il mare nel sito del Villaggio di Canne reso celebre dalla sanguinosa sconfitta che diè Annibale ai Romani. Di questo campo appunto ove seguì la terribile battaglia che compromise la sorte di Roma, parlò Livio nel riportare la predizione che si trovò scritta ne’ libri di Marcio da lui chiamato Vates Illustris ne’ seguenti termini: Amnem Trojugena Cannam Romane fuge, ne te alienigenæ cogant in Campo Diomedis conserere manus. Sed neque credes tu mihi donec compleveris sanguine campum, multaque millia occisa tua deferet amnis in pontum magnum ex terra frugifera piscibus, atque avibus, ferisque, quæ incolunt terras, iis fuat esca caro tua, nam mihi ita Jupiter fatus[83].

Arnobio anche dice: Diomedis campi Romanis cadaveribus aggerati sunt[84]. E Silio Italico: Infaustum Phrygiis Diomedis nomine campum[85]. Ed in altro luogo dice che Paolo Emilio per dissuadere l’altro Console Varrone dal dar la battaglia, gli ricordava le sinistre predizioni che vi erano sull’esito di essa, e gli teneva il seguente discorso

Jamque alter tibi, nec perplexo carmine coram

Fata cano vates, sistes ni crastina signa,

Firmabis nostro Phœbeæ dicta Sibillæ

Sanguine; nec Graio posthac Diomede ferentur,

Sed te, si perstas, insignes nomine Campi[86].

Or se secondo Strabone la Puglia Daunia dal lato orientale, col quale confinava colla Puglia Peucezia terminava al di là dell’Ofanto nella città di Canosa e nel villaggio di Canne, ov’era precisamente il campo di Diomede, è conseguenza che la città di Ruvo, sita venti miglia al di là di Canosa e di Canne, era la prima città della Peucezia che s’incontrava nell’andare da Roma a Brindisi, e l’ultima nel venirsi da Brindisi a Roma.

[a55]

Non altrimenti disse Plinio. Dopo aver egli parlato della spiaggia marittima della Peucezia fino a Bari, giacchè altre città marittime non vi erano in quel tempo dopo di Bari, passa a dire: Hinc Apulia Dauniorum cognomine a Duce Diomedis socero, in qua oppidum Salapiæ Hannibalis meretricio amore inclytum, Sipontum, Uria, amnis Cerbalus Dauniorum finis: portus Agasus, promontorium Montis Gargani a Salentino, sive Japygio CCXIV M. pass. ambitu Gargani: Portus Garnæ, Lacus Pantanus, flumen portuosum Frento, Teanum Apulorum: itemque Larinatum Cliternia: Tifernus amnis. Inde Regio Frentana. Ita Apulorum genera tria: Teani duce e Graiis. Lucani subacti a Calchante, quæ loca nunc tenent Atinates. Dauniorum præter supra dicta Coloniæ Luceria, Venusia, Oppida Canusium, Arpi, aliquando Argos Hippium Diomede condente, mox Argyrippa dictum[87].

Separa allo stesso modo Tolomeo la Puglia Peucezia dalla Puglia Daunia con avere indicata Canosa come l’ultima città della Daunia. Apulorum Dauniorum in Jonio pelago Salpiæ, Sipus, Apenestæ, Garganus mons. Apulorum Peucetiorum in Jonio pelago Egnatia, Barium, Aufidi fluminis ostium. Apulorum Dauniorum mediterraneæ civitates Theanum, Nuceria Apulorum, Vibarnum, Arpi, Erdonia, Canusium. Apulorum Peucetiorum mediterraneæ civitates Venusia, Celia[88].

Giulio Frontino similmente comunque la Daunia l’abbia chiamata Provincia Apuliæ e la Peucezia l’abbia inclusa nella Provincia di Calabria, l’agro Canosino lo riportò nella prima, e l’agro Rubustino nella seconda. Or se rimane concludentemente dimostrato che la città di Ruvo era nella Peucezia e di Greca fondazione, non vi può esser dubbio sulla sua origine Arcadica, poichè costa che gli Arcadi occuparono quella Regione prima della Guerra di Troja, e vi si sostennero, per cui ritenne sempre la stessa il nome di Peucezia preso da quello del Condottiere degli Arcadi ed altre genti del Peloponneso che vennero ivi a stabilirsi. Onde con ragione disse Strabone: Incolæ ex Arcadia videntur immigrasse.

[a56]

CAPO IV. Li pregevoli vasi fittili ed altri oggetti di belle arti antiche trovati in Ruvo, confermano vie più la sua origine Arcadica.

Di quando in quando si sono trovati in Ruvo vasi fittili Italo-Greci. Da principio gli faceva scuoprire solo l’azzardo. I vasi rinvenuti a questo modo non han potuto esser molti, e da que’ villani non erano prezzati. Nella mia giovanile età mi dicevano i vecchi che gli uomini di campagna, i quali nello scavare il terreno trovavano gli antichi sepolcri, crucciati che in vece di trovarvi moneta, trovavano vasi di creta, gli rompevano colle zappe! Di quì è che ne’ fondi suburbani, ove i sepolcri sogliono trovarsi, si vedono disseminati nel terreno non pochi pezzi di vasi antichi rotti ed infranti. Quanto i tempi ora sono cangiati! Son oggi que’ popolari in tanta prevenzione che credono di doversi convertire in oro ogni pezzo di creta antica qualunque!

La Gente colta di quella città rese avvertiti i villani che questi oggetti avevano anche un valore. Quindi li pochi vasi che si trovavano cominciarono ad essere rispettati. Mi dicevano i vecchi che se n’erano anche venduti ai forestieri che capitavano in Ruvo. Ma di qual merito essi abbiano potuto essere s’ignora perfettamente. E se sono stati pubblicati si è mancato d’indicarsi il luogo ove sono stati rinvenuti. Ne’ vasi pubblicati da Lord Hamilton ve ne ha uno di ottimo pennello che rappresenta Bellerofonte montato sul Pegaso che combatte la Chimera. Ho io un altro vaso trovato in Ruvo che rappresenta la stessa favola. Allora che mi venne sotto gli occhi il rame del vaso di Hamilton non potei non rimaner colpito dalla perfetta simiglianza che lo stesso ha col mio.

Variano li due vasi soltanto nelle deità presenti al combattimento, e tali variazioni sono state familiari ai Pittori tanto antichi che moderni, quando hanno replicato lo stesso soggetto. Ma le tre figure di Bellerofonte, del Pegaso e della Chimera sono talmente tra loro conformi [a57] che bisogna per necessità convenire di esser stati ambi i vasi dipinti dalla stessa mano e sul medesimo modello. Come altrimenti potersi trovare nell’uno e nell’altro una perfetta identità del disegno, delle figure, delle fisonomie, delle stature, de’ contorni e di tutte le più minute circostanze? Debbo credere quindi che il vaso di Hamilton sia stato trovato anche a Ruvo, e sia uno di que’ vasi i quali sono stati pubblicati senza che siasi conosciuto o indicato il luogo ove si son trovati.

Il primo che cominciò in Ruvo a fare dei scavamenti per ispecolazione fu un Prete chiamato D. Giuseppe Adessi di talenti non volgari, ma strani abbastanza. Tra i vasi da lui rinvenuti ve ne furono de’ buoni, ma non di prim’ordine per quanto ne ho inteso. Non si conosce tampoco quali questi siano stati, e se siansi pubblicati. Ne ritrasse da essi un guadagno che se avesse saputo conservarlo, avrebbe potuto estendere vie più la sua specolazione, la quale in quell’epoca non aveva competitori. Le sue ricerche però non poterono andare molto innanzi, perchè gli mancavano i mezzi. A buon conto fino al primo decennio di questo secolo il nome della città di Ruvo era sconosciuto all’Archeologia, e de’ vasi fittili Ruvestini non si aveva veruna opinione perchè quando anche fossero stati pregevoli, non si conosceva, o non veniva indicato il luogo ove si erano rinvenuti.

Li primi vasi di Ruvo che fecero moltissimo rumore per la loro somma eleganza e bellezza, e per la importanza delle cose in essi dipinte gli trovò nell’anno 1810 un artigiano chiamato Rinaldo di Zio nello scavare le fondamenta di una casa a non lunga distanza dalle antiche mura della città nel largo detto di Porta Nuova o di Porta di Noja, della quale parlerò in seguito. Informato il Governo di allora di cotesta importante scoverta fu il de Zio obbligato ad esibire i vasi da lui rinvenuti con averne ricevuto un compenso soverchiamente parco. Si trovarono questi di un pregio così sublime che furono ritenuti per ornamento del Real Palagio. Ma negli avvenimenti dell’anno 1815 furono trasportati nella Germania, ed ora per quanto ne ho inteso, insieme con altri pregevoli vasi trovati anche allora a Canosa, sono nel Museo di S. M. il Re di Baviera amantissimo degli oggetti delle belle arti antiche.

La scoperta de’ vasi suddetti di un ordine assai superiore a quelli [a58] che per lo innanzi si erano in Ruvo rinvenuti, e ’l rumore sparso, non privo di fondamento per altro, che nello stesso sepolcro si fossero dal de Zio trovati anche altri oggetti preziosi di non lieve valore, pose in fermento lo spirito de’ Ruvestini. La specolazione de’ scavamenti cominciò allora a porsi in moda; ma nell’anno 1822 giunse al furore e fu portata ad un punto da non potersi oltrepassare. Costano questi un poco soverchio attesa la qualità del terreno tutto pietroso, il quale non si può smuovere e profondare senza moltissimo travaglio. Gli antichi sepolcri di Ruvo, ove i vasi si trovano, sono tagliati ed incavati nel vivo sasso di maggiore o minore ampiezza secondo la qualità della persona sepolta, e la quantità degli oggetti che vi si riponevano.

Quelli che si son trovati ne’ sepolcri Ruvestini sono stati i seguenti, cioè vasi fittili, idoletti ed altri lavori di creta, vasi, idoletti ed altri oggetti di bronzo, qualche vasellino di alabastro, e più frequenti quelli di vetro colorato di molta bellezza, cimieri, corazze, gambali, lance, spade, frecce, morsi di cavalli, e nella mia collezione ho anche una colonnetta di avorio di elegante lavoro. Si sono trovati anche oggetti di argento e di oro specialmente di ornamenti muliebri, e nel Real Museo vi è una collana d’oro ivi rinvenuta e molto ben conservata, di squisito lavoro.

Cotesti sepolcri incavati nel vivo sasso venivano coperti con una gran tavola di pietra o con più tavole unite insieme ove una sola non fosse stata sufficiente. Or per potersi portare gli scavamenti fino al vivo sasso, ove i sepolcri sono incavati, si deve durare non poco stento. Molta è la resistenza che oppone il terreno di sua natura pietroso. In que’ luoghi poi, ne’ quali nel corso di tanti secoli i riempimenti di terra, di pietre o di sfabbricine sovrapposti sono stati maggiori, si è dovuto scavare fino a venti, ventiquattro e trenta palmi di profondità. Il farsi quindi cotesti scavamenti all’azzardo, e senza veruna sicurezza di trovarvi de’ sepolcri, sgomentava in certo modo i specolatori.

Per potersi perciò più agevolmente sostenere la spesa non indifferente che per essi occorreva si formarono diverse compagnie, le quali scavarono da capo a fondo quasi tutti i terreni suburbani, ne’ quali sogliono trovarsi tanto i sepolcri che i sepolcreti. Era tanta quindi la [a59] quantità degli operaj impiegati a questa operazione e della gente che vi accorreva per curiosità, che i contorni della città presentavano l’aspetto di una fiera. Questa folla richiamava anche li venditori di frutta, di comestibili e di vino per ismaltire le loro merci. Spesse volte avveniva che si scuoprivano le tracce de’ sepolcri verso la sera. Si proseguivano allora gli scavamenti colle fiaccole accese, onde i sepolcri scoverti non fossero stati la notte da altri vuotati, e la campagna suddetta si mostrava in più luoghi illuminata.

Questo furore fece ivi disotterrare tanti capi d’opera che hanno destata l’ammirazione di tutti gli Archeologi di Europa, ed hanno reso illustre il nome di una città ad essi per lo innanzi presso che ignoto. Se tutti i vasi trovati in Ruvo coi scavamenti suddetti si fossero riuniti in una sola Collezione, non so se avrebbe potuto questa esser pareggiata da qualunque altra Collezione tanto pe ’l numero che per la eccellente qualità e varietà de’ vasi. Essendo stati però cotesti scavamenti suggeriti dallo spirito d’interesse e dalla speranza del guadagno, non era d’attendersi da coloro che si rendevano proprietarj de’ vasi suddetti questo sentimento sia patrio, sia letterario.

Angustiava ciò sommamente il mio spirito. Vedeva bene che questi tesori sarebbero caduti in mano de’ specolatori, i quali gli avrebbero fatti passare all’Estero, senza che si fosse conosciuto neppure che l’onore e ’l vanto di avergli prodotti apparteneva alla mia patria, com’era avvenuto per i vasi precedentemente disotterrati. L’acquistargli tutti, quando anche mi fosse stato ciò facile, superava le forze di un privato non prevenuto e non preparato ad un avvenimento straordinario che fece uscire in poco tempo dalla terra migliaja di oggetti, i quali avrebbero potuto gradatamente esser tratti fuori di essa nel corso di lunghissimi anni. Mi determinai quindi a salvarne quanti avessi più potuto: nel che fui secondato anche dal mio fratello Giulio ch’era animato dagli stessi sentimenti, e prematura morte mi ha rapito.

Mi convenne nondimeno superare fortissimi ostacoli i quali furono i seguenti. In mezzo a tanto bisbiglio e molto più ne’ scavamenti che seguivano in tempo di notte una porzione de’ vasi che si rinvenivano era fraudata o dagli operaj adoperati, o da alcuno degli stessi socj lasciato [a60] a sorvegliargli. Se la scoverta di tanti pregevoli monumenti fu di molto utile all’Archeologia e di sommo onore della mia patria, non è meno vero però che lo spirito d’interesse che aveva provocati gli scavamenti suddetti portò molta corruzione nella morale del Popolo Ruvestino. Ne seguiva da ciò che i vasi fraudati a questo modo non si volevano vendere ai proprj concittadini, onde le fraudi commesse non si fossero scoverte, ma si mandavano a vendere di nascosto ne’ paesi convicini. Coloro che gl’incettavano gli vendevano ai specolatori, dalle mani de’ quali mi è convenuto ricuperarne parecchi che non erano a lasciarsi; ma il maggior numero di essi probabilmente è passato all’Estero.

Per gli altri vasi poi que’ proprietarj di essi che sentivano qualche amore di patria ci preferivano volentieri nel vendergli, perchè sapevano bene che da noi non si compravano per ispecolazione, ma bensì per conservargli e dedicargli all’onore della stessa. Altri però erano a ciò negati, malgrado che si fossero da noi pagati assai meglio di quello che si pagavano dai specolatori, e questa verità è stata confessata dagli stessi Ruvestini. L’unico principio di tal ripugnanza era che vi ha degli uomini specialmente ne’ piccioli paesi, i quali non sanno che invidiare negli altri quella elevatezza di pensare di cui non son essi capaci. Il che mi ha obbligato sovente a ricomprare a prezzo ben caro dai Rivenditori diversi vasi che credei meritevoli di essere conservati. Conto tra essi quelli che rappresentano la disfida tra Marsia ed Apollo, e ’l Ratto di Proserpina tentato da Teseo e Piritoo rimasti spogliati delle loro vesti, ed incatenati da una Furia, quali due vasi sono bellissimi.

È quì anche d’aggiugnersi che ne’ sepolcri grandiosi di Personaggi illustri presso che tutti i vasi e vasellini che si trovavano erano pregevoli. Ma ne’ sepolcri delle persone mediocri il numero maggiore di essi era di poca o di niuna considerazione. Ma spesse volte tra tante cose di niun pregio vi era anche qualche oggetto che meritava di essere acquistato da chi si aveva proposto non già di avere una partita di vasi Ruvestini; ma bensì di formarne una collezione compiuta, la quale esige una maggior ricchezza specialmente nella moltiplicità, e varietà delle forme, de’ modelli, de’ disegni, e dello stile di dipingere [a61] che ne’ vasi di Ruvo è anche vario secondo la diversità sia delle scuole, sia del tempo in cui furono dipinti.

Era però impossibile il far la scelta di que’ pezzi che si volevano. Bisognava o comprar tutta la partita, o lasciarla. Spesse volte per qualche testa pregevole di uomo, o di animale, o per qualche vaso, o vasellino di nuova forma, e di singolar bellezza mi è convenuto prendere una intera partita, la di cui massima parte ho dovuto buttarla per vilissimo prezzo, giacchè se avessi voluto conservare tutti i vasi che ho comprati per tal causa, mi sarebbe stato di molto imbarazzo il dare ad essi un luogo. Mi portava ciò ad un forte sbilanciamento di spesa che più di una volta mi ha messo in una positiva strettezza, onde non perdere le occasioni che mi si presentavano di arricchire la Collezione che mi aveva proposto di formare de’ migliori, e più scelti oggetti che avessi potuto.

A tal modo, ed a traverso de’ predetti ostacoli è riuscito a me, ed al fu mio fratello Giulio di acquistare tanti vasi Ruvestini, quanti sono stati bastanti ad illustrare la nostra Patria, ed a rendere pregevole una privata Collezione. Posso poi dire francamente, e senza tema di esserne redarguito che niun’altra Collezione forse può pareggiarla pe ’l numero, e per la diversità, e qualità de’ bicchieri detti Rhyton de’ quali è la stessa doviziosamente fornita, poichè in niun’altra delle antiche città Greche dell’Italia se ne son trovati tanti, e di tante diverse specie, quanti in Ruvo. Se tutti i bicchieri ivi rinvenuti non si fossero sparpagliati, e moltissimi di essi non fossero passati all’Estero, qual collezione spettacolosa avrebbero potuto formare! Gli stessi scavamenti Nolani che sono stati i meno sterili di questi pregevoli oggetti, non ne hanno dati che pochi, e di specie limitate, e non così varie come quelli di Ruvo.

Vi sono quindi nella nostra Collezione molti bicchieri con teste umane, tra le quali anche di Etiopi. Tra queste ve ne ha una bellissima di Ercole coperta dalla pelle del Lione da lui ucciso. Ve ne sono anche con teste di Satiri. Molte teste di bue, di vacche e di vitelli, di montoni, di castrati, e di pecore, molte di capre, di cani di diverse [a62] specie, e di volpi, due di cinghiali, ed una di porco, tre di cervi, e due di daini, tre di mule, una di cavallo, una di lione, una di tigre, ed una di scimmia, due bicchieri sostenuti da coccodrilli, e due da dragoni, tre altri con teste di grifo, uno sostenuto da Scilla coi suoi due cani fatti a rilievo, un altro sostenuto da una sfinge. Vi sono inoltre vasellini per liquori coi seguenti animali, uno con un uccello, un altro con un delfino, uno colla testa di un gatto, un altro con quella di un vitello, ed un altro con quella di un grifo, due lioncini interi, due cani leporieri interi, due vitelli anche interi coricati a terra, un coniglio, una rana, ed un graziosissimo Sileno. Oltre però le dette teste, e vasellini fini, e tutti colorati, vi ha anche una gran quantità di teste rustiche tanto umane che di animali dette terre cotte[89].

Non è intanto quì ad omettersi che uno de’ già detti bicchieri da me acquistati ci fa apprendere una usanza degli antichi, la quale non mi è occorso finora di rilevarla da alcuno degli antichi Scrittori Greci, e Latini che ho letti. Ci fa sapere Anacreonte che ai cavalli si apponeva il marchio alla coscia

Equi solent inustum

Coxis habere signum[90].

Si legge in Apulejo Nec non et equum illum quoque meum notæ dorsalis cognitione recuperavimus[91]. Il chiarissimo Canonico Mazocchi [a63] ha dette molte belle cose sui cavalli denominati Koppatias, e Samphoras dal marchio rispettivo che avevano alla coscia in lettere greche[92].

Tra i miei vasi ve ne ha uno di forma bellissima, e di egregio pennello che rappresenta il corso animatissimo di quattro quadrighe che girano intorno a quattro colonne a tutta scappata. Due de’ cavalli delle quadrighe suddette hanno il loro marchio alla coscia dritta. Uno di essi è quello di un pesce, e può ciò farlo credere un cavallo Tarantino, poichè nel maggior numero delle monete Tarantine vi è il Delfino, ed al rovescio un cavaliere in varj atteggiamenti per indicare quanto i Tarantini valevano nell’esercizio dell’equitazione e nelle manovre di cavalleria. L’altro ha il marchio che forma un globetto di figura sferica con due linee circolari ed in mezzo una crocetta. Lascio agli Archeologi l’investigare a quale delle Regioni riputate dagli antichi Scrittori per i buoni cavalli che producevano abbia potuto appartenere il cavallo marchiato a questo modo.

Parla anche Virgilio del marchio che si apponeva al bestiame

Aut pecori signum, aut numerum impressit acervis[93]

Post partum cura in vitulos traducitur omnis,

Continuoque notas, et nomina gentis inurunt[94].

Ma non mi è occorso ancora di leggere che gli Antichi imprimevano ai muli il marchio non già alla coscia, ma bensì alla guancia, come si pratica oggi nel nostro Regno, giacchè non mi è noto l’uso degli altri Paesi. Che cotesta nostra usanza però sia antichissima me lo ha fatto apprendere una delle teste di mule trovate in Ruvo che io posseggo, la quale ha il suo marchio ovale alla guancia sinistra.

Ritornando ora, dopo questa non inutile digressione, ai vasi di Ruvo non è possibile descrivere colla penna la eleganza, e la moltiplicità delle forme specialmente de’ vasellini ivi rinvenuti. Bisogna vedergli e considerargli per giudicare da essi quanto era ferace la fantasia [a64] degli Artefici Ruvestini nell’immaginare tanti modelli diversi, e spesso anche bizzarri, e capricciosi, i quali non s’incontrano volentieri ne’ vasellini delle altre antiche città Greche. Io ne ho riuniti moltissimi veramente vistosi. Ma quanti altri han dovuto scapparmi!

Nè si può dubitare che in Ruvo siano stati lavorati, e ciò per una doppia ragione. La prima perchè ne’ scavamenti fatti si sono anche trovate le officine con una gran quantità di vasi, e vasellini rustici di quelle stesse forme che hanno i vasi dipinti estratti dai sepolcri. La seconda perchè la creta de’ vasi antichi trovati in Ruvo è quella stessa creta finissima, leggiera, ed atta a qualunque lavoro che attualmente si trova nelle cave dell’agro Ruvestino. È quella stessa creta che dà oggi da vivere a molta gente, la quale si occupa a lavorare vasi di creta di ogni specie, ed anche di belle ed eleganti forme, ricercati specialmente da tutta la Puglia, e dalla finitima Provincia di Basilicata. Quest’arte quindi si è ivi ereditata dagli Antichi, poichè come bene osserva Cornelio Tacito Sed nostra quoque æetas multa laudis, et artium imitanda posteris tulit[95].

Lo stile di dipingere degli antichi Pittori Ruvestini, quanto è nobile, e grandioso, altrettanto è semplice, spianato, pieno di naturalezza, e senza caricatura, o come i nostri Pittori direbbero non manierato. Una porzione de’ vasi da me acquistati avendola fatta venire in Napoli per mio piacere, furono questi osservati tra gli altri dotti personaggi anche dal chiarissimo cav. D. Francesco Maria Avellino che conosce così bene la materia, e rimase fortemente colpito dalla bellezza, ed importanza di essi. Giunto in Napoli dappoi l’egregio sig. Odoardo Gerhard, dopo aver veduti i vasi che ho in Napoli, s’invogliò di vedere anche quelli che in molto maggior numero erano rimasti in Ruvo ove io lo diressi a mio fratello. Ebbe inoltre da me alcuni lucidi di essi che mi aveva richiesti. Quindi fu che anche l’Istituto di corrispondenza Archeologica di Roma cominciò a parlar con elogio de’ vasi di Ruvo.

Questo rumore portò la conseguenza che si pose una più severa [a65] attenzione perchè i vasi degli ultimi scavamenti Ruvestini caduti nelle mani de’ specolatori non avessero potuto passare all’Estero. Quest’oggetto fu conseguito almeno in gran parte. Per queste provvide misure tra gl’immensi tesori del Real Museo si vagheggiano ora, e si ammirano non pochi eccellenti vasi di Ruvo dallo stesso acquistati. Hanno questi riempiuto in un modo molto soddisfacente il vuoto che vi era di scelti vasi di Puglia, de’ quali non ve n’erano abbastanza. Ha fatto inoltre il Governo eseguire in Ruvo de’ scavamenti per conto proprio non senza un profitto per i nuovi pregevoli oggetti che hanno essi fruttato al detto Real Museo. Si è in fine stabilita ivi anche una Commissione incaricata di sorvegliare gli scavamenti, onde gli oggetti pregevoli di antichità che si trovano non siano venduti agli Esteri senza la intelligenza della Direzione del Real Museo. È tutto ciò risultato a sommo onore della nostra città, ed ha pienamente appagati i miei voti.

Non è quì ad omettersi un altro singolare monumento dell’antica Pittura Ruvestina che ora adorna anche il Real Museo. Il fu Canonico D. Michele Ficco verso la fine dell’anno 1833 scavò le fondamenta di una casa fuori l’antico recinto della città sulla strada de’ Cappuccini. Trovò ivi un grandioso sepolcro; ma uno de’ lati di esso fabbricati di pietre di tufo quadrate si trovò mancante. Era stato lo stesso disfatto in tempo antico nell’essersi scavato un pozzo nel sito istesso del sepolcro. Si trovò questo spogliato anche de’ vasi, ed altri preziosi oggetti che doveva contenere, per esser stata ivi sepolta una persona distinta. Si arguiva ciò da alcuni vistosi frammenti di vasi rotti trovati nello stesso sepolcro, e dalla seguente circostanza.

Negli altri tre lati ch’erano rimasti intatti si trovò dipinta colla massima eleganza una danza funebre divisa in due cori, uno di diciotto giovani donne, e l’altro di nove. È però chiaro per se stesso che i due cori esser dovevano uguali di numero, e che il coro di nove giovani donne doveva averne altre nove nel lato del sepolcro che si trovò mancante. Alla testa di ciascuno de’ due cori vi è un giovane danzatore. Uno di questi due giovani tocca una lira di sette corde che regola la danza. Quindi il giovane suddetto danza ad un tempo, e suona la lira.

[a66]

Le donne sono tutte vestite in perfetta conformità, cioè con una lunga tunica, ed al di sopra di essa un peplo che cuopre loro la testa e le spalle. Delle dette vesti e dei pepli il colore è vario; ma il taglio, e ’l costume è lo stesso. Tanto le tuniche che i pepli sono orlati di strisce di colore diverso. Tutte le donne al di sotto del peplo hanno la testa ravvolta sia da un fazzoletto, sia da una cuffietta di color rosso con i ciuffi di capelli inanellati ch’escono al di fuori sulle tempia. Tutte hanno i loro orecchini perfettamente conformi. Li due giovani vestono una tunica di color bianco orlata di strisce rosse, la quale è assai corta, e finisce molto al di sopra delle ginocchia. Tanto i due giovani che le donne fanno una stessa mossa la quale sembra, blanda, seria, e molto grave.

Di cotesta danza funebre il sig. Raul-Rochette avendone avuta da Ruvo una copia, la pubblicò a Parigi colla tavola corrispondente nell’anno 1836[96]. Ei conviene che sia questa una pittura unica nel suo genere. Osserva che de’ sepolcri di Ruvo se ne son trovati altri anche dipinti ma senza figure. Che in altri luoghi da lui indicati se ne son trovati con delle figure; ma non già con una danza funebre così grandiosa, e possiam dire anche nuova. Sarebbe stato però desiderabile che avesse parlato di essa con minore sobrietà come l’argomento che aveva per le mani lo avrebbe esatto.

Osservo intanto che nel parlare dell’atteggiamento in cui si vedono le donne suddette, dice Qui se tiennent par la main en dansant. Facendosi però migliore attenzione alla posizione delle loro braccia, ed al modo in cui si tengono per la mano, si vedrà a colpo d’occhio che viene dalle danzatrici suddette eseguito quell’intrecciamento che nelle odierne scuole di ballo è chiamato la catena.

Cotesto pregevole e singolare monumento non avrebbe dovuto muoversi dal sito ove fu trovato. Nel disfarsi la fabbrica venne per necessità a rompersi anche l’intonaco sul quale la danza suddetta era dipinta. Il quadro quindi perdè la sua unità, e soffrì molte lesioni. Non è [a67] poco che n’è di esso rimasto tanto quanto ha potuto dar luogo alle illustrazioni degli Archeologi.

Io ne vidi in Ruvo i pezzi quando il guasto suddetto era già seguito, e non era più al caso di poterlo impedire. Il proprietario di essi ch’era molto mio amico gli offrì a me per quel prezzo che avessi creduto giusto. Io gli feci osservare che questi oggetti in mano di qualunque particolare sarebbero andati vie più in discapito, e lo consigliai che gli avesse offerti al Real Museo, ove si conosce assai bene l’arte di conservare le pitture di questa specie. Così egli fece, e debbo attendermi che l’Accademia Ercolanese dia una più compiuta illustrazione a questo pregevolissimo monumento, che ci ha messa la prima volta sotto gli occhi una danza funebre.

Ne’ dipinti Ruvestini di prim’ordine è d’ammirarsi non solo la perfezione del disegno, la eleganza e la franchezza dello stile, ma anche la istruzione de’ dipintori. Le cose ricercate, e non ovvie che si vedono dipinte ne’ vasi di Ruvo esigevano uomini pienamente istruiti della Storia, della Favola, e della Mitologia. È anzi notabile che non isfuggivano al loro pennello le circostanze le più minute relative ai fatti, o alle persone che formavano il soggetto de’ loro lavori. Potrei ciò compruovarlo colle corrispondenti osservazioni su di molti vasi di Ruvo; ma mi limito a due soltanto che formano parte della mia collezione.

In uno di essi è dipinto il combattimento ch’ebbe luogo sotto le mura di Troja tra il valoroso Achille e Pentesilea Regina delle Amazoni venuta in soccorso de’ Trojani, di cui parlò anche Virgilio nel libro I dell’Eneide vers. 494 e seguenti. Quinto Smirneo, detto anche Quinto Calabro che si propose di supplire quelle cose che vedeva omesse nella Iliade di Omero, dopo aver delineata la somma bellezza, e ’l nobile portamento della Regina suddetta, non che le sue bravate, passa a descrivere l’armamento della illustre Guerriera allora che andò alla battaglia contro i Greci che assediavano Troja. Parte dell’armamento suddetto dice che lo formavano due giavellotti messi sotto lo scudo: Mox ex aula prodire festinans duo sumpsit pila sub scuto.

Guardandosi il vaso suddetto si vede in esso maestrevolmente rilevata la bellezza, e la maestà di Pentesilea, non che la qualità del di [a68] lei armamento nel modo preciso in cui si trova descritto da Quinto Smirneo. Nè furono obliati li due giavellotti, le aste de’ quali al di lei fianco sinistro si vedono uscire da sotto lo scudo amazonico lunato che tiene imbracciato, il che certamente costituisce una di quelle minutezze che pruovano la somma avvedutezza, ed istruzione del Pittore.

Passa indi Quinto Calabro a parlare del colpo mortale della terribile asta di Achille che stramazzò la valorosa Guerriera, e dice così.

Illi enim accedenti graviter succensus Pelei filius:

Et subito una cum ipsa transverberavit equi corpus,

Veluti si quis verubus ad ignem flammantem

Viscera transfigit, cœnam festine apparans.

Sic etiam Penthesileam una cum insigni equo

Penitus transadegit ementa hasta

Pelides: quæ mox cum pulvere, et morte commiscetur[97].

Nel vaso di cui sto ragionando si vede Pentesilea a cavallo che combatte ancora con Achille che sta a piedi. Ma la punta dell’asta di Achille si vede diretta in modo che il colpo che andava a vibrare avrebbe potuto ad un tempo trapassare il collo del cavallo poco al di sopra del punto in cui questo si unisce alla spalla, ed andare indi ad incontrare il corpo della illustre Guerriera che lo montava nel modo preciso descritto dal precitato Poeta.

Coteste minutezze mentre per un lato giustificano la esattezza del pennello, pruovano per l’altro che colui che dipinse il vaso non era istruito meno di quello che lo fu Quinto Calabro del nobile portamento della Regina delle Amazoni, del suo vestire ed armamento, e della qualità del colpo mortale partito dall’asta di Achille che trapassò ad un tempo tanto il cavallo, quanto la bella Guerriera.

L’altro vaso rappresenta la Dea Venere seduta sulla sponda di un letto elegantissimo donde è surta per vestirsi, ed adornarsi. Si vede la Dea coronata. Sul capo di essa vi è un’amorino che svolazza, ed ha nelle mani la di lei famosa zona[98]. Le tre Grazie sono occupate al [a69] di lei acconciamento. Una di esse che sta alla sinistra ha nelle mani una ghirlanda di fiori per adattargliela. L’altra che sta sulla dritta ha nella mano dritta uno specchio, e nella sinistra un cassettino. La terza curvata a terra nell’atteggiamento il più grazioso che possa idearsi attende a calzarle una pianella molto elegante al piè dritto. Sotto il letto vi è una colomba. Al lato sinistro di esso si vede un giovane guerriero nobilmente vestito con berretto frigio, ed elegantissimi calzari, il quale sotto il braccio sinistro ha due lance poggiate a terra ed inclinate sulla parte sinistra del petto, e della spalla. Si vede lo stesso confuso ed attonito che abbassa il viso, e cerca cuoprirselo col lembo della sua veste che solleva colla mano dritta.

Non è difficile il vedere che il dipinto di questo vaso è preso dal bellissimo Inno di Omero scritto per la Dea Venere. Si dice in esso che invaghita ella di Anchise Principe Trojano, si recò sul Monte Ida ove questi dimorava, fingendosi la figlia di Otreo che aspirava alle di lui nozze. Avendogli ispirato caldo amore, giacque con lui la notte nel suo letto, e rimase incinta di Enea. Levatasi poi dal letto il mattino si manifestò ad Anchise. Ne rimase costui confuso ed attonito, ed abbassando il viso pe ’l timore, e la sorpresa cercò cuoprirselo col lembo della sua veste. La Dea lo ammonì fortemente a serbare il segreto minacciandolo dell’ira di Giove se lo avesse palesato.

Nel nostro vaso dunque si vede copiato alla lettera il precitato Inno di Omero. Presenta lo stesso tutti gli ornati di Venere descritti [a70] dal gran Poeta, cioè la corona che aveva in testa, li suoi giojelli, le sue splendide vesti, la sua famosa zona, non che la somma eleganza del letto di Anchise, ov’ella giacque con lui. Sono però notabili due minutezze, le quali danno maggior risalto all’abilità non meno che alla istruzione del Pittore. La prima è quella di vedersi dipinto Anchise nello stato di confusione, e di stupore in cui cadde allor che venne a conoscere di aver giaciuto con una Dea. Si vede lo stesso nel vaso che abbassa il viso, e cerca cuoprirselo col lembo della sua veste; il che corrisponde perfettamente a ciò che si legge in Omero

Ut autem vidit collum, et oculos pulchros Veneris,

Timuitque, et oculos declinando vertit alibi.

Iterum autem retro veste coopertus pulchram faciem,

Et illam precatus, verba alata dixit etc.

La seconda è che Omero nel descrivere la somma eleganza del letto di Anchise, rileva la seguente circostanza, cioè ch’era lo stesso coperto a questo modo

Vestibus mollibus stratum: et insuper

Ursorum pelles jacebant, gravivocumque leonum,

Quos ipse occiderat in montibus aliis.

Nel vaso suddetto non si è omesso di dipingere anche maestrevolmente coteste pelli di fiere che si vedono delineate negli orli del letto sotto i ricchi pannamenti che lo cuoprono. Coteste minutezze pruovano che il Pittore che dipinse il vaso conosceva parola a parola l’Inno di Omero, e quindi si studiò colla massima accuratezza che il suo dipinto fosse stato una perfetta copia di esso.

Ho voluto parlare di questo vaso anche perchè avendo permesso anni indietro ad un riputatissimo Archeologo Estero di prendersene il lucido, ho ritratto da questa mia condiscendenza un doppio dispiacere.

Il primo e ’l più sensibile è stato quello di averlo veduto pubblicato come une des productions de la ceramique grecque les plus elegantes qui soient encore sorties des fouilles de Nola[99]! Il che mi ha molto [a71] e giustamente esacerbato, poichè si è tolto alla mia Patria il pregio di averlo prodotto, senza che abbia potuto capirne il perchè, avendolo io comunicato all’Editore come un vaso di Ruvo, e non già come un vaso di Nola.

Il secondo è stato quello che la copia di esso non corrisponde affatto alla singolare eleganza, e bellezza dell’originale, la quale è rimasta diminuita per metà[100], come ne hanno convenuto anche tutti coloro che ne hanno fatto il confronto tra l’una e l’altro.

Intanto non essendo rimasto contento tampoco della spiegazione data dal Sig. Raul-Rochette al vaso suddetto, credo di aver detto abbastanza per rettificarla prendendo per guida il precitato Inno di Omero. Nondimeno vengo ad esporre anche i motivi per i quali credo che la spiegazione suddetta non possa essere adatta al dipinto del vaso di cui si tratta dal quale debbono partire tutte le osservazioni archeologiche.

È chiaro che il precitato Archeologo trasportato dalla sua vasta erudizione si è impegnato in ragionamenti astrusi lasciando la via facile, e spianata che gli presentava l’Inno di Omero che non poteva certamente essergli ignoto. Si è da lui detto che nel vaso di sopra descritto vi è dipinta la Toletta di Elena, e che quel Principe Frigio che sta nell’atteggiamento innanzi cennato sia Paride.

Ha poggiato cotesto suo avviso principalmente su quel luogo di Pausania ove sono riportati i dipinti del famoso Pittore Greco Polignoto che vi erano in un antico tempio al di sopra di Cassotide. Confesso però la debolezza de’ miei talenti. Non sono giunto a capire qual rapporto possa avere col dipinto del nostro vaso il luogo di Pausania a cui il Signor Raul-Rochette si è riportato. E perchè possa ognuno giudicare da se stesso se sia questo un mio travedimento, o un giusto concetto che presenta la cosa medesima, metto in nota le precise parole di Pausania[101].

[a72]

Ma prescindendo da ciò, come attribuirsi ad Elena quella colomba che si vede sotto il letto, la quale si sa ch’è l’augello di Venere? Come attribuirsi ad Elena la famosa zona di Venere che l’ha nelle mani un amorino che svolazza sul capo della bellissima donna che siede sul letto? Sono cose queste che principalmente si notano nel nostro vaso, e dicono quello che non vi è certamente nel luogo di Pausania testè trascritto.

Una migliore attenzione avrebbero dovuto riscuotere anche le tre giovanette occupate a vestirla ed adornarla. Il numero di esse indica le tre Grazie non solo secondo i Poeti, ma anche secondo lo stesso Pausania[102]. Ma le tre Grazie non sono state mai assegnate ad Elena, ma bensì a Venere. Lo ha detto lo stesso Greco Scrittore Gratiæ vero Veneri præ ceteris Diis attributæ sunt[103]. Ci fa Plinio inoltre conoscere che il valente Greco Pittore Nicearco dipingeva Venere sempre inter Gratias, et Cupidines[104]. È quindi risaputo che le Grazie erano sempre compagne di Venere, e che i templi dedicati ad Amore, ed a Venere lo erano ordinariamente anche alle Grazie[105].

D’altronde come adattarsi a Paride quel contegno che si osserva nel Principe Frigio dipinto nel nostro vaso? Per qual ragione doveva Paride mostrarsi confuso, timido, e nell’atteggiamento di cuoprirsi il viso col lembo della sua sopravveste innanzi ad Elena ch’era la cagione di tutti i malanni di Troja? Quel contegno sta bene per Anchise rimpetto a Venere, come lo ha maestrevolmente descritto Omero, ma non già per Paride rimpetto ad Elena.

Qual bisogno poi aveva Elena di far la sua toletta su quello stesso [a73] letto nel quale aveva la notte dormito? Le sarebbe mancata forse un’altra stanza più adatta all’uopo nell’ampia Regia di Priamo? Sta bene tal posizione a Venere per un doppio riflesso. Il primo perchè si trovava nella casetta di campagna di un cacciatore celibe, qual era Anchise, ove non vi potevano essere gabinetti opportuni per adornarsi le Principesse, e ’l Pittore si adattò maestrevolmente a tal circostanza.

Il secondo perchè l’elegantissimo letto di Anchise dal quale Venere levossi si trovava particolarmente descritto nell’Inno di Omero, e quindi si vide il Pittore suddetto obbligato a farlo entrare anche nel piccolo quadro che imprese a dipingere, poichè il nostro vaso non è che un’urna di mezzana grandezza. Con molto ingegno quindi unì le due cose, e fece seder Venere su quello stesso letto che si aveva proposto di far entrare nel picciolo e ristrettissimo campo assegnato al suo pennello.

Ma ove su quel letto in vece di Venere si faccia sedere Elena, l’ingegno del Pittore cadrebbe nel nulla, e la sua idea sarebbe troppo triviale, quasi che Elena nella grandiosa Regia di Priamo non avesse avuto altro luogo per adornarsi, e fare la sua toletta, che il proprio letto!

Mi scuserà quindi il Sig. Raul-Rochette se per questi ragionevoli motivi non ho potuto convenire nella spiegazione da lui data al pregevolissimo vaso Ruvestino, e non già Nolano, come a lui è piaciuto dire. Lungo poi sarebbe il descrivere la esattezza, e la minutezza degli altri vasi Ruvestini. Valga il giudizio che ne ha dato il chiarissimo Sig. Millingen. Malgré le silence des Historiens à l’égard de cette Ville, ses monuments qui y ont été decouverts portent des temoignages incontestables de son opulence, et du gout éclairé de ses habitans pour les beaux artes.

Les vases peints, dont la fabrique devait être à Rubi, rivalisent par leur grandeur, la varieté des formes, le nombre de figures, et le grand intérêt des mythes représentés avec les plus beaux de ceux jusqu’à présent connus. Des objets anciens en or, bronzes, et verres d’une grande beautè trouvés en meme tems prouvent que tous les artes y furent cultivés avec un egal succes[106].

[a74]

Or la perfezione, e la bellezza de’ dipinti Ruvestini e degli altri oggetti di belle arti costituisce un altro non lieve argomento della origine Arcadica della nostra città. Dionigi di Alicarnasso seguitando a parlare de’ primi Arcadi che vennero a stabilirsi nella Italia con Oenotro, e Peucezio dice Dicuntur etiam Graecarum literarum usum prædictæ Genti recens ostensum primi in Italiam transvexisse, instrumenta quoque musica, lyram, trigona, ac lydos: cum ad id temporis non nisi pastoralibus fistulis usi fuissent, nec ullo præter has invento musico: leges etiam tulisse, et vitam antea ferinam majori ex parte mitem, ac mansuetam reddidisse: sed et artes, et studia, multave alia emolumenta contulisse in publicum, et propterea gratiosi fuisse apud suos hospites.

È perciò che i vasi di Ruvo superano di gran lunga non meno per bellezza, e per eleganza, ma anche per istruzione i vasi della città di Canosa colla quale era confinante. Ho veduti ivi anche de’ vasi grandiosi per la loro mole come quelli di Ruvo; ma in generale son essi privi di quella ricchezza, e varietà delle favole che trabocca ne’ vasi Ruvestini, e di quella finezza di pennello, ed eleganza anche degli ornati de’ quali questi ultimi fanno larga pompa. È anche Canosa un’antica città Greca; ma fu fondata da Diomede, e non dagli Arcadi, i quali come più colti e più istruiti nelle scienze, e nelle belle arti le fecero meglio fiorire anche nelle città da essi fondate.

Si aggiunga a ciò che tra gli oggetti fittili trovati in Ruvo sono state frequenti le teste del Dio Pane. Nella mia collezione ne ho due molto belle. Si sa che il Dio Pane era molto venerato dagli Arcadi. Lo stesso Dionigi di Alicarnasso nel luogo innanzi citato seguita a dire: Arcadibus deorum antiquissimus, et honoratissimus est Pan. Dice lo stesso anche Virgilio.

Pan Deus Arcadiæ venit, quem vidimus ipsi

Sanguineis ebuli baccis, minioque rubentem[107].

Pan Deus Arcadiæ captam te Luna fefellit

In nemora alta vocans, nec tu aspernata vocantem[108].

[a75]

Si legge inoltre presso Pausania: Panos lapideum signum, cui Synois cognomentum a Synoe Nympha, quæ una cum ceteris Nymphis, et seorsim ab illis Pana creditur aluisse[109]. Erano queste le Ninfe Arcadiche, dalle quali il Dio Pane si diceva educato. Ond’è che Natale Comite nella sua Mitologia dice di cotesto Dio: Hunc memoriæ prodidit Pausanias in Arcadicis a Nymphis susceptum, et educatum, et a Synoe Nympha præcipue existimarunt antiqui. Pana Montium esse Præsidem, omniaque armenta, et greges, quæ in montibus vagarentur, in hujus esse tutela, quippe cum his ab Arcadibus fuisset in Menalo monte educatus[110]. Dal che è a conchiudersi che gl’idoli del Dio Pane che si trovano in Ruvo confermano vie più la origine Arcadica della nostra città, la quale ritenne il culto di quella falsa deità che avevano gli Arcadi.

Metto nella stessa linea il vedersi nelle antiche monete Ruvestine o le armi di Ercole, o Ercole medesimo col Lione Nemeo come si rileva dalle due tavole delle monete suddette innanzi premesse. Aggiungo che ne’ vasi fittili Ruvestini si trovano dipinti con frequenza i fatti di Ercole. Io ne ho più d’uno e tra questi un vaso coll’apoteosi di quell’Eroe elegantemente dipinta, oltre il bicchiere di cui innanzi ho parlato colla testa di Ercole di singolar bellezza. Ci fa sapere Diodoro Siculo che quell’Eroe aveva gli Arcadi in perpetuam belli societatem, e che fu da essi assistito anche nella spedizione contro i figliuoli di Eurito chiamati Toxeo, Molione e Pizio che gli avevano negata Jole da lui presa per forza dopo avergli uccisi[111]. Avevano quindi gli Arcadi un culto anche per Ercole, e vedendosi questo ritenuto tanto nelle monete che ne’ vasi fittili Ruvestini, conferma vie più la origine Arcadica della nostra città.

Si sa che i Popoli tanto antichi che moderni nelle loro trasmigrazioni hanno portato sempre con essi quel culto che avevano nel loro [a76] Paese natio. Onde ben disse Dionigi di Alicarnasso che per conoscersi la origine Grechesca di una città, Primum et præcipuum locum tribuo ceremoniis, quæ cuique Populo in colendis Diis et Geniis sunt Patriæ. Has enim diutissime servat tum Græca, tum barbara Natio, nec quidquam eis censent immutandum iræ divinæ metu. Lo conferma coll’esempio di molti Popoli antichi rimasti tenacissimi nella osservanza del loro culto rispettivo[112].

Osservo in fine che il massimo numero de’ bicchieri detti Rhyton rinvenuti in Ruvo in gran copia lo formano le teste di buoi, di vacche, di vitelli, di animali pecorini diversi, e di capre. Erano questi gli animali familiari agli Arcadi, i quali erano pastori. Amano gli uomini di avere sotto gli occhi quelli oggetti per i quali si sentono inclinati, molto più se questi costituiscono il loro comodo, e la loro agiatezza, come ben potevano costituirla gli animali suddetti nell’agro Ruvestino opportunissimo anche alla pastorizia. Quindi i bicchieri colle figure di cotesti animali che rendevano più liete le mense degli antichi abitanti della nostra città, contestano anche i loro costumi Arcadici.

Chiudo il mio discorso sui vasi fittili di Ruvo colla seguente osservazione. Il Principe di Canino Luciano Buonaparte pubblicò mentr’era ancora in vita una porzione de’ vasi da lui trovati in grandissimo numero a Canino e Corneto, oltre quelli che sono stati pubblicati dall’Istituto di corrispondenza archeologica di Roma. In uno di essi vi sono le seguenti lettere H E, le quali tanto da lui che da altri Dotti si sono credute le lettere iniziali del nome del Pittore che dipinse il vaso.

Le stesse lettere si trovano in uno de’ miei vasi di Ruvo, il quale per la esattezza del disegno sembra delineato dal pennello di Raffaello. È in esso dipinta la favola del cieco Fineo liberato dalle Arpie dagli Argonauti. Si vede la nave Argo ligata al lido del mare. Tra gli Argonauti sbarcati vi sono i due Guerrieri alati Calai e Zete figliuoli di Borea, i quali spiegando in alto il volo colle loro armi impugnate, inseguono le Arpie. Fuggono queste spaventate portando nelle loro mani [a77] le cose rapite alla mensa che si vede imbandita innanzi al cieco Fineo che siede alla stessa.

Non ha questo vaso veruna leggenda greca. Si vede bensì sul campo di esso dipinto un picciolo vaso della stessa forma del vaso principale rovesciato a terra. Sulla pancia di esso si leggono le stesse lettere H E che vi sono nel vaso del Principe Buonaparte di cui innanzi ho parlato.

Se regge l’avviso che siano queste le lettere iniziali del nome del Pittore, pare che non sia improbabile che ambi i vasi han potuto esser dipinti dalla stessa mano. In generale i vasi di Canino e di Corneto non sono certamente migliori di quelli di Ruvo, ed in varie cose sono da essi superati[113]. Nel particolare poi il dipinto del vaso di Fineo è ben difficile che possa essere pareggiato. Un Pittore di un nome chiaro e riputato, qual essere doveva sicuramente l’autore del vaso di Fineo, ha potuto dipingere tanto nell’uno che nell’altro luogo come han fatto sovente anche i Pittori illustri de’ tempi a noi più vicini.

Han potuto pure i vasi di Ruvo essere mandati altrove, come si sono trovati in Ruvo anche vasi di Nola, e di altri luoghi, e come si mandano oggi i vasi di porcellana o di alabastro da un paese all’altro. Ho buona ragione di credere che l’autore del vaso di Fineo sia stato un Pittore Ruvestino perchè la creta di esso è Ruvestina, e perchè ho avuti sotto gli occhi altri vasi trovati anche a Ruvo dello stesso stile. Conto tra questi un bellissimo unguentario scappato a me, ed acquistato dal Francese Sig. Durante nel quale era colla massima eleganza dipinto Bacco montato su di un Elefante con numeroso seguito di uomini, e di donne.

[a78]

Un altro unguentario assai più grande dello stesso stile forma parte della collezione della mia famiglia. È in esso dipinta con singolar maestria la disfida tra Tamiri, o Tamiride, e le Muse in presenza di Apollo. Vi sono anche delle leggende greche, ed è notabile che ha questo vaso conservate in gran parte le antiche dorature delle quali era fregiato.

Non ometto che tanto nel vaso di Fineo, quanto nell’unguentario di Tamiri, e nell’altro unguentario di Bacco acquistato dal Sig. Durante, è a notarsi un raffinamento dell’arte col quale si è il pittore ingegnato di superare gli svantaggi inseparabili dalla dipintura sulla creta. Chi dipinge sulla tavola, sulla tela, sulla pietra, o sui metalli ha l’ajuto delle ombre, de’ chiaroscuri, delle mezze tinte, e di tutti gli altri mezzi dell’arte per dare alle persone ed alle cose ch’entrano nel quadro quella posizione che a ciascuna di esse conviene, per separare l’una dall’altra, e per far sì che la pittura produca l’effetto di presentarle all’occhio di chi le guarda nel posto di avanti, di dietro, di lato etc. come l’uopo lo esige.

Questi mezzi mancano a chi dipinge sulla creta. Quindi invano si cerca cotesta illusione ne’ vasi fittili antichi. Malgrado ciò, l’autore de’ vasi di Fineo, di Tamiri, e di Bacco si è ingegnato di supplire questo svantaggio per quanto ha potuto coll’aver data ai personaggi ed alle cose entrate nel quadro una posizione così ben calcolata e misurata, e così bene intesa che se l’effetto suddetto non lo ha conseguito in tutto lo ha sicuramente ottenuto in gran parte.

[a79]

DIGRESSIONE Su di un pregevole vasellino di Ruvo falsamente attribuito ad altra città novella surta nell’agro Ruvestino.

Per esaurire l’argomento che mi ho proposto nel presente capo mi rimane a rivendicare un pregevole vasellino reso famigerato dalla penna del nostro Letterato Grecista Giacomo Martorelli. Mentre cotesto vasellino appartiene anche alla mia Patria, lo ha costui con soverchia leggerezza, e colla sola forza di una immaginazione troppo riscaldata attribuito ad altra città, la quale con una vana e ben frivola millanteria lo ha spacciato come suo. Vero è di non essere questo che un picciolissimo oggetto al confronto di tanti capi-lavori de’ quali ha la nostra città arricchita l’Archeologia. Ma non fu mai cosa nè sensata, nè laudabile il vestire il corvo colle penne del pavone.

Essendosi trovato nel territorio attualmente della città di Terlizzi un antico calamajo, diè lo stesso la occasione al Martorelli di scrivere un libro di due grossi volumi in quarto che porta il titolo De Regia theca calamaria. Le tante dotte superfluità ed inezie delle quali lo stesso è pieno fruttarono all’Autore un’aspra e severa critica ricevuta dai Letterati suoi contemporanei. È rimasta però impunita la sonora stravaganza in cui cadde nell’aver fondata su di questo vasellino la rimota antichità di una città surta ne’ tempi a noi più vicini, e quindi sconosciuta a tutti gli antichi Scrittori e Geografi! È tempo ora di far conoscere questa frottola per quello che vale. Credo di non poterlo far meglio che trascrivendo ne’ suoi precisi termini questo tratto di delirio di un uomo per altro dottissimo colle opportune osservazioni.

Prope urbem Turricium[114] hoc jam πολυβὸητον vasculum anno 1745 [a80] erutum est e veteri sepulcro, dum rusticus vir cum liberis paternum rusculum exercebat in vico, qui vulgo Mons viridis nomine salutatur, nihilque longe abest a Trajana via. Turricium autem visitur quatuor millia pass ab Hadriæ mari: ab ortu Butuntum habet, ab occasu Rubos, quos Horatius in suo itinere meminit: ab arcto Melfictum, a meridie urbem, quæ vulgo audit Altus murus (vetus nomen firment indigenæ). Turricium, licet multis nominibus urbs sit jam florentissima, majorem famam sibi conciliat eo quod hoc omnibus partibus insigne atramentarium dederit, ita ut Turricianum dicant universi: sane non una sunt oppida, quod monumentum vetustatis protulerunt, eorum rumor maxime incaluit, uti Eugubium et Heraclea, ambæ urbes ob tabulas illud Etruscas, hæc Græcanicas (quas Mazochius laborioso, atque affatim docto commentario condecorat), et Tiriolum oppidum ob æream laminam Bacchanaliorum festa vetantem, Matthæi Ægyptii nostri adnotationibus illustrem, ut reliqua taceam[115]. Scias nunc communi Italorum lingua appellari Terlizzo, sed Populares vocitant Turrizzo, et Turris est pro urbis signo διακριτικῶ[116].

Ne credas Turricium inter Apuliæ urbes felicioribus sæculis ignotum, nam a doctissimis viris duplex saxum summa fide exscriptum ad me transmissum [a81] est, in quorum primo, licet fragmentum sit, nec sententia ulla vigeat, tamen nomen urbis aperte tenes:

· · · · · I · VIÆ · FIL · TVRRI · · · · · ·
· · · · I · IT · · · · · · DCCCVI · · · ·[117].

Extrema hæc ςοικεῖα legas occubuit. Verum alteram epigraphen, quæ in saxo illius Regionis sculpta est, lato pedes binos circiter, alto fere uno cum dimidio, quod superiori ætate Josephus Allegretius reperit propter Trajanam viam, vides illam non ineleganter, et ob acerbum Phœnicii Curvi fatum nobilem; advertas, præter Orthographiæ erratum in voce Phœnicius, inesse quasdam literas præter Æ simul adnexas, queis carent Typographi.

C · PHENICIVS · CVRVVS · SICVLVS · C · F · M
D · TRA · IMP
AD · V · P · CONS · OP · PRÆ
IS
CVM · SALT · TVRRICII · ADVENIS
NON · MAI · PER · AB · IOVE · PER
REP · EXHOR · TEMP ·
VIX · A · XXXIX ·

Quam ita interpretor — Cajus Phœnicius Curvus Siculus Caji filius [a82] Mensor Divi Trajani Imp. ad viam publicam consularem operi Præfectus: is cum salium Turricii advenisset nonis Maji, percussus ab Jove periit, repente exorta tempestate vixit ann. XXXIX.

Passa poi a divagarsi al suo solito in altre erudizioni estranee al proposto argomento, ed indi ripiglia il discorso come siegue: Sed a semita in viam: vides jam Turricium beata Trajani ætate jam nobile, extructumque prope Trajanam viam[118], quare licet sit urbs vetustate sat spectabilis, nunc quod atramentarium hoc vasculum in lucem emisit, illius fama longius pervagatura est, eritque ejus λογος απανταχοῦ, uti de alia urbe canit Euripides in Iphig. in Taur, vers. 517[119]. Quanta ampollosità!

Qualunque però esser possa la verità di cotesta seconda lapide, la quale neppur ci fa sapere il Signor Martorelli ove stia, e la esattezza della versione ch’ei ne ha fatta, data anche la stessa per vera, bisogna non aver occhi per non vedere che si è quì parlato, non già di una città, ma bensì di un bosco denominato Turricio cum saltum Turricii advenisset. Il convertire un bosco in una nobile città pareggia, siami permesso il dirlo, quel tratto di frenesia del famoso Cavaliere Spagnuolo del Signor Cervantes che gli faceva convertire i molini a vento in giganti, e le truppe di montoni in eserciti ordinati!

L’antichità di una città qualunque non si spaccia così colla sola forza della immaginazione; ma bisogna che venga compruovata coll’autorità [a83] degli antichi Scrittori. La città di Terlizzi sta tra Ruvo e Bitonto. Si è detto innanzi che Plinio enumerò le Popolazioni tanto delle città marittime che delle città interne di quella Regione, ed allogò tra esse Rubustinos et Butuntinenses, ma non già Terlitienses o Turricienses. Presso Giulio Frontino si trova nominato Ager Rubustinus et Botontinus, ma non già ager Turriciensis. Nell’Itinerario di Antonino sulla strada consolare che da Roma menava a Brindisi vi sono Rubos et Butuntus, ma non già Turricium. Nell’Itinerario Gerosolimitano vi sono Botontones et Rubos; ma non Turricium.

Nella Tavola Peutingeriana in fine, la quale è posteriore ai tempi di Trajano, poichè formata al tempo di Teodosio, si leggono i nomi di tre nuove città surte sul litorale dell’Adriatico, cioè Natiolum, Turenum, Balulum o Bardulos, cioè Giovinazzo, Trani e Barletta. Tra le città interne vi sono Rubos et Botontones, ma non Terlitium o Turricium. Alla distanza di dodici miglia da Ruvo dal lato occidentale però e non dal lato orientale ov’è Terlizzi, non si vede in essa segnato che un solo luogo chiamato Rudas, il quale non si sa qual esser possa, perchè perfettamente ignoto ai tempi nostri in quella Regione[120].

Che Terlizzi sia stata una Terra abitata all’epoca della Dinastia Angioina, non vi può esser dubbio e si anderà ciò ancora a rilevare dalle cose che anderò in seguito a dire, poichè talvolta fu conceduta in feudo unitamente colla città di Ruvo, e talvolta separatamente. Non è chiaro però abbastanza che tale sia stata anche al tempo de’ Normanni, poichè sembra che a quel tempo fosse stato piuttosto un villaggio che cominciava a sorgere nel territorio di Ruvo.

[a84]

In quel Catalogo de’ Feudatarj, e Suffeudatarj che al tempo di Guglielmo il buono contribuirono la quota de’ soldati per la spedizione di Terra Santa, di cui innanzi si è parlato, vi è la seguente Rubrica: De Comitatu Cupersani isti sunt Barones, qui tenent de Comitatu Cupersani. Tra gli altri Suffeudatarj de’ diversi luoghi dipendenti da quella Contea si leggono anche i seguenti; Girinus Andriæ, sicut dixit, tenet in Terlitio feudum Parisii Guarannonis, quod sicut ipse dixit est feudum II militum, et cum augmento obtulit milites IV — Paganus Nobilis tenet in Rubo et Terlitio terram, quæ fuit Gottifredi Malenepotis, et est feudum II militum. Et cum augmento obtulit milites IV — Danes Andriæ tenet in Terlitio feudum quod tenebat Guillelmus Morellanus et Guillelmus de Spelunca; quod sicut ipse dixit, est feudum I militis et cum augmento obtulit milites II.

La picciola terra posseduta dal nobile Pagano, la quale formava un feudo di due militi, si dice che stava in Rubo, et Terlitio. Ma non si può intendere come cotesto feuduccio che consisteva in un solo pezzo di terreno avrebbe potuto stare in due luoghi diversi. O doveva riportarsi nel territorio di Ruvo, o in quello di Terlizzi, se fin d’allora fossero state queste due città distinte e separate. Questa circostanza quindi può benissimo indurci a credere che Terlizzi era in quel tempo un villaggio che cominciava a sorgere nell’agro Ruvestino e formava parte di esso, ed indi coll’accrescimento della Popolazione divenne ne’ tempi posteriori più considerevole.

Conferma vie più questo giusto concetto della cosa il vedersi che cotesta pretesa antica, e nobile città del Martorelli è perfettamente sconosciuta non solo alla Geografia antica, ma anche ai Scrittori, ed alla Geografia del Medio evo. L’Autore della dotta Dissertazione, e della carta Corografica Medii ævi che va tra le Opere del Muratori riporta le antiche città della Peucezia delle quali innanzi si è parlato, aggiugne le altre più recenti surte dappoi fino all’epoca de’ Normanni, ma tra queste ultime non si vede quel Terlitium, o Turricium che ha fatto tanto gonfiar le pive al solo Martorelli[121].

[a85]

Da un’antica pergamena che si conserva nell’Archivio del Capitolo di Ruvo, cennata anche dal Pratilli, si rileva che nel corso del secolo IX un certo Fabio Terlitio con altri coloni Ruvestini abbiano cominciato ad edificar delle case in un sito loro conceduto dal Governo Municipale, o sia dal Senato di Ruvo, al quale fu imposto il nome Terlitium dal già detto capo di quella piccola colonia. Lascio però una carta ch’è facile ad ognuno di dirla non autentica mancando i mezzi di verificarla. Non vi è bisogno di essa per dimostrare che il luogo ove fu trovato quel calamajo a cui attaccò Martorelli tanta celebrità, apparteneva sicuramente all’antico agro Ruvestino conceduto dappoi alla novella Popolazione di Terlizzi.

Si è dimostrato nel Capo III che al tempo di Strabone, ed indi di Plinio e di Tolomeo il confine settentrionale della Peucezia era il mare Adriatico, e l’ultima città marittima di quella Regione era Bari. Si è veduto inoltre che dopo Bari seguivano dentro terra Bitonto, e Ruvo per dove passava l’antica via consolare che da Brindisi menava a Roma. Nè fuori di queste due città ve n’erano altre tra la detta strada consolare, e ’l mare Adriatico. Conseguenza di ciò è che tutto il terreno Peucetico racchiuso da Bari in qua tra la detta strada consolare e ’l mare doveva per necessità appartenere alle dette tre sole città messe in quella linea, cioè a Bari, a Bitonto, ed a Ruvo poichè fuori di queste non ve n’erano altre. Tanto più che queste due ultime città non sono a molta distanza dal mare, il quale è lungi da esse poche miglia, e quindi anche oggi sono considerate come città della marina.

La città di Terlizzi si vede edificata nel sito intermedio tra l’antica strada Trajana e ’l mare Adriatico. Dopo tanti secoli, e dopo esser surte le novelle città della marina non si può conoscere più com’era diviso tra le dette città di Bari, Bitonto, e Ruvo il già detto territorio racchiuso tra l’antica strada consolare e ’l mare. Dal lato del mare si son perdute le tracce degli antichi confini perchè quel territorio che anticamente era diviso tra Bari, Bitonto e Ruvo appartiene oggi in gran parte alle novelle città surte ne’ tempi posteriori. Non è però difficile l’indagare a quale delle dette tre città sia appartenuto quel sito in cui si vede edificata la novella città di Terlizzi. Basta il solo ajuto [a86] del buon senso per decidere ch’ella è surta nel territorio di Ruvo, e dalla nostra città è stata dotata del terreno che attualmente possiede.

La città di Terlizzi sta in mezzo tra le due antiche città di Ruvo e Bitonto, alla distanza però di due miglia dalla prima, e di sette miglia dalla seconda. È facile quindi il vedere che Terlizzi è surta nel territorio di Ruvo, e che la contrada di Monteverde, ove il calamajo Martorelliano fu rinvenuto sita a due miglia circa di distanza da Ruvo sulla dritta della strada Trajana formava parte dell’antico agro Ruvestino ceduta ne’ tempi posteriori alla novella Popolazione di Terlizzi.

Conferma vie più questa verità di fatto l’attuale confinazione tra Ruvo, e Bitonto. Si vede questa interrotta in ambi i lati dell’antica via Trajana in que’ punti soltanto ove tra l’una, e l’altra città vi è per lo mezzo la città di Terlizzi col suo picciolo territorio. In quel punto però ove questo finisce, ripiglia l’agro Ruvestino la sua antica confinazione coll’agro Bitontino, e questa progredisce per più miglia nelle contrade delle Strappete, delle Matine, e delle Murge. Il che fa conoscere a colpo d’occhio di non esser altro il territorio di Terlizzi che un pezzo distaccato dall’antico agro Ruvestino, il quale in tutta la sua linea orientale dalla marina fino alle murge confinava prima con quello di Bitonto.

Da un registro Angioino che si conserva nel grande Archivio si rileva che il Re Carlo I nell’anno 1274 scrisse al Giustiziere della Terra di Bari, e gli prescrisse il modo in cui gli abitanti della città di Bitonto dovevano far pascolare i loro animali In sterpeto Bitontii, quod silva dicitur inter Bitontum, Rubum, et Terlitium, quæ nunc pro defensa pro parte Curiæ nostræ custoditur[122]. Cotesto bosco quindi denominato sterpeto era il punto di un trifinio tra l’agro Bitontino, Ruvestino e Terlizzese.

Non può cotesto sterpeto esser altro che quello il quale porta oggi il nome di Bosco di S. Leo poco lungi dal luogo del territorio di Ruvo denominato S. Eugenia. Apparteneva lo stesso, forse per sovrana concessione di epoca posteriore, al Convento de’ PP. Olivetani di Bitonto [a87] sotto il titolo di S. Leo. La natura, e la qualità del terreno, e delle piante selvatiche che in esso vi sono corrispondono molto bene al suo antico nome di sterpeto. Il bosco suddetto colla soppressione di quel Convento devoluto al demanio lo ha acquistato la Famiglia Siciliani di Giovinazzo. È da credersi però che quando si teneva per uso delle Regie razze di animali esser doveva più vasto di quello che lo è al presente.

Basta fermarsi nel trifinio suddetto per vedere a colpo d’occhio che il territorio attuale di Terlizzi non è che un pezzo distaccato dall’antico agro Ruvestino, il quale dal punto del detto bosco di S. Leo in su ripiglia la sua antica confinazione coll’agro Bitontino, molto al di là del sito in cui Terlizzi è edificata. La confinazione suddetta progredisce a linea continuata lungo le contrade dell’agro Ruvestino denominate le Strappete (o sia sterpeto), le Matine e le Murge, confinazione la quale doveva estendersi allo stesso modo fino al mare Adriatico ai tempi di Strabone, di Plinio e di Tolomeo, quando non vi era ancora Terlizzi edificata al di qua della linea della detta antica confinazione verso la città di Ruvo, e quasi alle porte di essa.

Data quindi anche per vera l’antica lapide sepolcrale recata dal Martorelli, ed ammessa la esistenza dell’antichissimo Bosco denominato Turricium messo sulla via consolare, ove Fenicio Curvo fu ucciso dal fulmine, è egli chiaro che cotesto bosco apparteneva alla città di Ruvo, ove Fenicio Curvo aveva la sua residenza. Ed in vero sull’antica strada consolare che da Ruvo menava, e mena tuttavia a Bitonto, alla distanza di circa un miglio e mezzo da Ruvo vi era un antico bosco aggregato dappoi all’agro Terlizzese, e denominato perciò Parco di Terlizzi. Cotesto bosco è ora ridotto a coltura, e ripartito tra molti coloni Terlizzesi. Ma io me lo ricordo nello stato boscoso, e nella mia gioventù sono in esso andato al divertimento della caccia.

Ha potuto forse esser questo quel bosco che nella lapide suddetta (se questa è vera e genuina, e non già ideale) è denominato Turricium. Voglio ammettere anche che la novella città di Terlizzi abbia potuto essere edificata sul suolo di quell’antichissimo bosco, poichè lo stesso dall’antica via Trajana che mena a Bitonto si estendeva quasi [a88] fin sotto le mura di Terlizzi, e ne’ tempi più antichi ha potuto avere anche una maggiore ampiezza, ed estensione. Voglio concedere in fine che il nome Terlitium attribuito alla novella città abbia potuto esser preso da quello del Bosco Turricium, sul suolo del quale fu forse edificata. Ma dalla esistenza di un bosco denominato Turricium al tempo di Trajano il volerne inferire che fosse stata questa una nobilissima città da niuno conosciuta, nè da veruno antico Scrittore o Geografo nominata, è una maniera di argomentare la quale non so se debba destar sorpresa, o compassione.

D’altronde dove si è inteso ancora che un qualche antico sepolcro trovato nel territorio di una città qualunque basti a decidere della rimota antichità di essa? Nulla però ha che fare una cosa coll’altra, poichè quello può essere antico, e questa recente. Come si son trovati nel territorio di Ruvo de’ sepolcri ad una certa distanza dalla città, così possono trovarsi anche nel territorio di Terlizzi. Gli antichi abitanti della nostra città avevano sicuramente le loro case di campagna. Come le avevano in quella parte del territorio che attualmente appartiene a Ruvo, così le avevano anche in quella parte di esso che ne’ tempi posteriori fu distaccata dall’agro Ruvestino, ed assegnata a Terlizzi. Non è cosa nuova che gli antichi abbiano avuta la sepoltura nelle loro ville dove si son trovati nel morire, o dove han voluto che fossero stati sepolti.

Qual meraviglia è dunque che nell’attuale agro Terlizzese (un tempo anche Ruvestino) siasi trovato, e si possa trovare qualche antico sepolcro? Dunque perciò dovrà riputarsi Terlizzi una città antica a dispetto di tutti gli antichi Scrittori e Geografi che non hanno di essa parlato? Qual ragionare è questo? Vale ciò lo stesso che non comprendere che le città veramente antiche serbano sempre in loro stesse le testimonianze, ed i monumenti della loro antichità. Non tutto può distruggere il tempo edace, e molte cose sopravvivono a suo dispetto. In qual Museo vi sono le antiche monete Terlizzesi, come ve ne sono tante di Ruvo? Ove mai si son trovati a Terlizzi sepolcri ricchi di preziosi vasi, e di altri pregevolissimi oggetti, come si son trovati e si trovano ogni dì in Ruvo a migliaja, e ad ogni passo intorno all’abitato?

[a89]

Sono queste le pruove vere, ed incontrastabili dell’antichità di una città, non già un vasellino unico, il quale anche a Ruvo appartiene, perchè trovato in quella porzione del suo antico agro che fu a Terlizzi conceduto ne’ tempi a noi più vicini. Cessino dunque queste vane millanterie le quali non potrebbero non peccare di una vera buffoneria atta solo a muovere il riso. Cessi una volta quel rumore che si è fatto, e si sta facendo per cotesto calamajo Martorelliano, il quale per altro non è che un zero a fronte de’ grandiosi monumenti di antichità Ruvestini che destano l’ammirazione della colta Europa.

Si contenti la città di Terlizzi di avere una Popolazione numerosa, attiva, industriosa e ricca di buoni agricoltori formati dalla necessità, attesa la ristrettezza del proprio territorio. Deponga una volta per sempre il delirio di gareggiare per antichità colla mia illustre patria nel di cui territorio ella è nata, e sia alla stessa riconoscente del bene della sua esistenza.

[a90]

CAPO V. La origine Arcadica della città di Ruvo si desume anche dal nome alla stessa imposto dai suoi primi fondatori.

Non è cosa facile il dar ragione delle nomenclature delle antiche città. Poche son quelle per le quali si può affermare che abbiano preso il loro nome sia da quello del fondatore rispettivo, sia da circostanze locali che lo abbiano suggerito, sia in fine da rilevanti avvenimenti che abbiano avuto luogo nel sito di esse. Pe ’l massimo numero delle città la origine del loro nome rimane ravvolta nella profonda caligine del tempo.

Qualche Commentatore di Orazio nelle sue annotazioni sulla parola Rubos, ove il Poeta pernottò nel suo viaggio da Roma a Brindisi, dice che questa città abbia preso il suo nome a copia ruborum, come erroneamente ha detto anche Roberto Stefano confutato nel capo primo. È facile il vedere la frivolezza di cotesta etimologia. I roveti si trovano da per tutto ove il terreno non è coltivato per lo intero, e molto di esso si lascia ai boschi ed ai paschi. L’agro Ruvestino non ha una quantità di roveti maggiore di quelli che vi sono in altri luoghi.

Li Commentatori suddetti per altro hanno scritto in un’epoca in cui non si erano ancora pubblicate le antiche monete Ruvestine, le quali hanno messo in chiaro di esser questa un’antica città Greca. Quindi la etimologia del suo nome malamente si è tratta dal Latino Rubi, mentre si deve prendere dalla leggenda Greca Ρύψ che vi è nelle più antiche di esse. Messa dunque la sicura origine Greca della città suddetta, le conghietture relative al suo nome non possono e non debbono partire da altre considerazioni, meno che da quelle che può suggerire la sua origine[123].

[a91]

Si sa che i condottieri delle straniere Colonie venute a stabilirsi nella Italia hanno dato sovente il loro nome non solo alle città da essi fondate, come Cuma, Taranto ed altre, ma anche alle Regioni da essi conquistate, come si è detto innanzi della Peucezia, della Oenotria, della Daunia e di altre. Ma fu anche costume delle Colonie Greche quì stabilite di riprodurre i nomi delle città della loro Patria originaria che avevano lasciata per la necessità di andare a proccurarsi altrove il proprio sostentamento.

Quindi Dionigi di Alicarnasso ci fa sapere che i Greci venuti dal Peloponneso nella Campania Inter ceteras urbes condidere Larissam Pelloponnesiacæ illius cognomine, quæ quondam Metropolis ipsorum fuerat. Parlando indi della seconda spedizione degli Arcadi condotta da Evandro, come innanzi si è detto, e partita dalla città dell’Arcadia denominata Pallantium, dice che essendosi questi stabiliti vicino al Tevere nel luogo ove surse dappoi la città di Roma, edificarono una picciola città e soggiugne: Huic Oppidulo a veteri Patria nomen apponunt Pallantium, nunc vero Palatium a Romanis dicitur corrupta voce injuria temporum[124].

Dice lo stesso anche Pausania parlando di Evandro. Hunc in coloniam missum, deducta a Pallantio in locum Tiberi proximum Arcadum manu, oppidum condidisse, quod urbis Romæ postea pars fuerit: appellatum vero de Arcadici Oppidi nomine ab ipso Evandro, et Inquilinorum comitatu Pallantium, quod nomen consecuta cetas duabus literis L et N submotis, immutavit[125].

[a92]

Si è inoltre osservato innanzi coll’autorità di Plinio e di Strabone che Diomede fondò nella Daunia la città di Argos Hippium, detta poi Argyripa, ed in fine Arpi, per riprodurre quì il nome della Greca città Argos, onde disse di lui Virgilio.

Ille urbem Argyripam patriæ cognomine gentis,

Victor Gargani condebat Japygis agris[126].

Quindi Servio su di altro luogo del Poeta osserva. Diomedes in Apulia condidit civitatem, quam Patriæ suæ nomine appellavit, et Argos Ippion dixit, quod nomen postea vetustate corruptum est, et factum ut civitas Argyripa diceretur, quod rursus corruptum Arpos dixit Plinius lib. III Cap. XI[127].

Lo stesso dir si deve delle città Eraclea, e Locri riprodotte similmente dalla Grecia in Italia, ed anche di Turio che ben si può dire denominata dalla Greca città Thuria di cui fanno menzione Strabone, Pausania, Stefano Bizantino, ed altri[128]. Nè solo delle città Greche si videro quì riprodotti i nomi; ma anche de’ fiumi della Grecia. Il fiume Crati che scorre ove prima vi era la città di Sibari, ed indi quella di Turio, e che viene formato dalla unione di due fiumi, prese tal nome da un fiume della Grecia, di cui dice Strabone. Ad Achaicas porro Ægas fluvius est Crathis, qui ex duobus fluminibus auctus a permixtione, seu temperatione nomen habet, ut et Italiæ Crathis[129].

Si legge lo stesso anche presso Erodoto. Inde Ægira, et Æga in qua est Crathis fluvius perennis, a quo Italicus ille vocatus est[130]. Pausania similmente parlando del Monte Crati della Grecia, dice In eo [a93] Monte Chratidis amnis fontes sunt. Labitur is in mare præter Ægas, desertum ætate mea vicum, Achæorum olim urbem. Ab eo nomen accepit Crathis Italiæ in Brutiis fluvius[131].

Lo stesso dir si deve del fiume Acheloo della Etolia, da cui prese il nome il nostro fiume chiamato da Strabone, e da Plinio Acalandro, il quale porta oggi il nome di Salandrella, e scorre per i campi dell’antica Eraclea.

Vi è quindi tutta la ragione di dirsi che la città di Ruvo abbia allo stesso modo preso il suo nome da altra antica città della Grecia che si volle quì riprodurre. Rimane solo ad indagarsi quale di esse coloro che la fondarono abbiano avuto in mira nell’imporle il suo nome.

Ci fa sapere Strabone che nel Peloponneso, donde partirono Oenotro e Peucezio coi loro seguaci vi erano due antiche città, dalle quali ha potuto derivare benissimo il nome imposto alla nostra città. Della prima di esse sita nell’Acaja dice così Quod ad reliquas sive urbes, sive portiones Achajæ attinet Rypes non habitantur: regionem, cui Rypidi nomen fuit Æginenses, ac Pharienses occuparunt, et Æschilus alicubi hæc habet

Sacramque Buran, et Ceraunias Rypas,

Fuit hæc Myscelli patria, qui Crotonem condidit. Sed et Leuctrum pagus fuit Rypidis ad urbem Rypas pertinens[132].

Dopo avere indi parlato delle città dell’Arcadia distrutte in tutto, o in parte soggiugne Quæ vero Homerus refert

Ripen ac Stratiam, et ventosæ mænia Ænispæ,

eas neque facile, neque ulla cum utilitate inveneris cum sint desertæ[133]. Il che pruova anche ch’erano queste città di poca considerazione. Di Ripen fa menzione anche Pausania riportandosi allo stesso modo ad Omero[134].

Le già dette due città cioè Rypes e Ripen che al tempo di Strabone erano distrutte, prima della Guerra di Troja allora che Oenotro e Peucezio [a94] vennero nella Italia vi erano sicuramente. Da una di esse bisogna dire che prese la città di Ruvo il suo nome. Penetrandosi però nel fondo della cosa deve dirsi che lo prese dalla prima e non dalla seconda, e ciò per una doppia ragione. La prima perchè il nome della nostra città si trova sempre nel plurale come quello di Ρύπες presso Strabone, Erodoto, e Pausania, e di Ρύπαι presso Stefano Bizantino, come saremo or ora a vederlo. Ond’è che anche nel Latino la versione del suo nome si è fatta nel plurale, e si è chiamata Rubi.

La seconda perchè la città della Grecia da Eschilo chiamata Ρύπας era assai più illustre della picciola città detta Ρίπεν di Omero, ed i Greci riproducevano quì i nomi delle città cospicue del loro Paese natio, non già delle ignobili Bicocche. Quindi Tommaso Pinedo nelle sue note a Stefano Bizantino De Urbibus sulla parola Ρύπαι osserva: Rhypæ urbs Achaica. Una de duodecim Achæorum urbibus famigeratis auctore Pausania in Achaicis, et Ρύπαι et Ρύπες dicitur Straboni lib. IX, Pausaniæ libro citato. Ejus tantum ruinæ ætate Pausaniæ extabant, ut ipse refert eodem libro. Ed in vero Pausania nel riportare nominalmente le predette dodici illustri città dell’Acaja, tra le quali Ρύπες, dice così: Sunt vero eæ urbes apud universos Græcos notæ et illustres[135]. Anche Erodoto le riporta una per una, e tra esse vi è Ρύπες[136].

Si aggiunga a ciò che il Ρίπεν di Omero è scritto coll’ι, e ’l Ρύπας di Eschilo è scritto coll’ύ allo stesso modo che si legge in tutte le monete Ruvestine. Quindi nella versione del nome della nostra città si è detto Rubi e non Riba come avrebbe dovuto dirsi se il suo nome si fosse preso da Ρίπεν di Omero. È questo anche un forte argomento per credersi che i Greci del Peloponneso guidati da Peucezio vollero quì riprodurre una delle dodici più illustri città del loro Paese natio.

Nè si dica che nel luogo di Pausania testè citato si legga Ρίπες e non Ρύπες, poichè fu questo un errore di amanuense avvertito e corretto dal dotto Federico Sylburgio nelle sue annotazioni a Pausania, il quale in altri luoghi scrisse il nome di questa città sempre coll’ύ e non [a95] coll’ι. In Achaicarum urbium cathalogo mendosa sunt quædam nomina. Pro Ρίπες enim scribendum Ρύπες per ύ, ut non infra tantum cap. 18 et 23, sed etiam apud Herodotum et Strabonem, et confirmat etiam ordo alphabeticus apud Stephanum. Imo apud eundem Stephanum non modo Ρύπες appellantur cives ipsi, sed etiam urbs.

In fatti Pausania nel capo XVIII dello stesso libro VII parla di nuovo di quella città e dice così: Augustus deinde vel quod ad navium appulsum Patras valde esse appositas judicaret, vel alia quacumque de causa, emigrare illam multitudinem ex illis oppidis Patras jussit. Quin eodem Rhypis Acheorum urbe funditus eversa, multitudinem omnem traduxit. E più giù nel capo XXIII. Paululum supra militarem viam cernuntur Rhypum ruinæ. In ambi questi luoghi si legge Ρύπας Ρύπων non Ρίπας Ριπων. Quindi anche Luca Olstenio nelle sue note a Stefano Bizantino sulla parola Ρύπαι allega questo secondo luogo di Pausania ed osserva: Ρύπαι autem videntur dictæ Pausaniæ.

Pare dunque che questa e non altra esser debba la conghiettura naturale ed adeguata sulla origine ed etimologia del nome della nostra città. Non si può questo ripetere dal nome del condottiere della Colonia, come per altre città si è detto, poichè si sa che il condottiere de’ Greci ivi stabiliti fu Peucezio, e questi diè il suo nome alla Regione da lui conquistata, non già alle nuove città che furono in essa fondate. Manca inoltre qualunque altra circostanza locale, la quale possa avere un’analogia o un rapporto col nome Greco alla stessa imposto.

Si sa che le città hanno preso sovente i loro nomi dai fiumi, dai laghi, dai fonti, dai monti etc. alle stesse adiacenti. Nulla vi è in Ruvo e sue adiacenze che abbia potuto influire nella sua nomenclatura. In tal posizione la spiegazione più plausibile ed adeguata della origine del suo nome è quella di ripeterlo dalla riproduzione che si volle quì fare di una delle dodici più illustri città dell’Acaja.

Nè varrebbe il dirsi in contrario che Ρύπες è scritto col π e Ρύβαςτεινων o Ρύβα abbreviato che si legge nelle monete di Ruvo è scritto col β, il quale si è ritenuto anche nella nomenclatura latina Rubi. Non sono queste che picciole variazioni, le quali nulla decidono. Le ha potuto queste suggerire o il capriccio di coloro che vissero nell’età posteriori, [a96] o la corruzione del nome primitivo della città indotta dal tempo. Si è detto innanzi che la città di Argos Hippium fondata da Diomede nella Daunia fu dappoi chiamata Argyripa, ed in fine Arpi, e che Pallantium fondata da Evandro fu poi chiamata Palatium. Potrebbe lo stesso osservarsi anche per molte altre città. Qual meraviglia è dunque che il Ρύπας della nostra città siasi dappoi cangiato in Ρύβας?

È notabile intanto che le sole monete Ruvestine più recenti si vedono scritte col β, ma le antiche hanno il π. Si aggiunga a ciò che in alcune di esse il nome della città si vede scritto nel modo che siegue Ρύψ (Rhyps). Tali sono le monete riportate al num. 1 2 3 e 4 della Tavola Prima e 6 e 7 della Tavola Seconda annesse al Cap. II, ed illustrate anche dal Cav. Avellino. Pruova ciò chiaramente che il β era estraneo al nome primitivo della nostra città, e che tal variazione non fu che una corruzione indotta ne’ tempi posteriori. Se le monete danno tante volte lume alla Storia, molto più possono contestare un articolo di fatto puramente materiale, qual è l’antico conio della città a cui appartengono.

Or se questo sicuramente era Ρύψ (Rhyps), non vi può esser più dubbio che il nome della nostra città sia derivato da quello della illustre città dell’Acaja chiamata Ρύπαι e Ρύπες. Stefano Bizantino nel riportare la detta antica città dell’Acaja vi aggiugne il seguente derivativo di essa πολίτης Ρύψ civis Rhypæus. Il Ρύψ quindi che si legge nelle più antiche monete Ruvestine è chiaro per se stesso che viene dalla detta antica città dell’Acaja.

Quindi opportunamente osserva il prelodato Signor Millingen sulle antiche monete di Ruvo nel luogo innanzi citato. Ses monnaies nous apprennent en effet que son veritable nom ètait Ρύψ (Rhyps), nom identique avec le nominatif de Ρύπες, une des douze villes de l’Achaje et Patrie de Myscellus fondateur de Croton[137].

Tanto è vero ciò che dice il Signor Millingen che le prime monete Ruvestine furono credute appartenenti alla detta antica città dell’Acaja [a97] denominata Rhypæ, e questo errore fu redarguito dal Signor Cavaliere Avellino che le attribuì a Ruvo, come ho osservato innanzi nel Capo II. Nel suo Catalogo inoltre delle Monete Ruvestine che verrà alligato alla fine di questo libro conviene nella origine Achea della nostra città.

Dopo queste dimostrazioni il porre in dubbio che la nostra città abbia quì riprodotto il nome dell’antichissima, ed illustre città dell’Acaja chiamata Ρύπαι, o Ρύπες sarebbe lo stesso che piccarsi di Scetticismo. Con positiva frivolezza quindi Francesco Maria Pratilli nella descrizione della via Appia volle dire che la città di Ruvo non lascia riconoscersi meno antica delle altre città sue vicine! In questo tratto però veramente aureo non può non ammirarsi quella stessa diligenza, ed esattezza colla quale spacciò anche nel medesimo luogo che di Ruvo avevano parlato Cicerone, Pomponio Mela, Stefano Bizantino, e Strabone[138]!

Li tre primi Scrittori però non hanno mai sognato di farne motto. In quanto poi a Strabone si è creduto finora che non ne abbia tampoco parlato, e si seguiterebbe a credere lo stesso se non si fosse da me nel primo Capo dimostrato fino all’evidenza che quel luogo di questo Scrittore ove si legge Νήτιον è stato corrotto, ed in vece di cotesta città non mai esistita deve sostituirsi il nome della nostra città. Simili inesattezze per altro sono familiari al Pratilli che non si brigava di approfondare le cose che con soverchia facilità smaltiva.

Non è mio proponimento di entrare in una competenza di antichità colle altre città della Peucezia ch’ei sorbendo un caffè le ha dichiarate più antiche della città di Ruvo. Chi mai, fuori che il Pratilli, potrebbe azzardarsi a parlare con tanta franchezza di fatti avvenuti prima della Guerra di Troja? Se però in mezzo a tanta caligine valer possono qualche cosa le conghietture e gli argomenti, non possono questi non preponderare per la maggiore antichità della mia Patria.

Si è innanzi dimostrato che coloro che la fondarono si proposero di riprodurre in essa una delle dodici illustri città dell’Acaja loro patria. Erano essi di là partiti, non perchè l’avessero odiata, ma perchè la sovrabbondanza della Popolazione faceva sì che il suolo natìo non [a98] era sufficiente a nutrirgli, come ce lo fa conoscere Dionigi di Alicarnasso. Abbandonarono quindi la loro patria costretti dall’impero della necessità che gli obbligò a cercare altrove un comodo sostentamento, e portarono seco loro l’amore di essa.

L’amore della propria patria è potentissimo nel cuore degli uomini. La rimembranza di que’ luoghi ove abbiamo aperti gli occhi alla luce, ove siamo stati allevati ed educati, ed ove abbiamo passati i nostri primi anni, ci è sempre cara e non è mai cancellata nè dal tempo nè dalla lontananza. Dulcis amor Patriæ. Per questo santo amore l’uomo affronta tutti i pericoli, e sparge se occorre anche il proprio sangue.

Cotesto amore però pe ’l loro Paese natìo lo sentivano i primi Coloni Greci che sotto il comando di Peucezio conquistarono quella Regione, ed ivi si stabilirono. Non potevano certamente sentirlo allo stesso modo i loro discendenti, i quali non conoscevano la Grecia, e le dette dodici illustri città che avevano lasciate i loro avi. In conseguenza non potevano aver per esse quella passione che avevano gli avi loro.

Mi dà ciò dritto di dire che le altre antiche città della Peucezia han potuto man mano esser fondate dai figliuoli, e dai nipoti de’ primi Coloni Greci che la conquistarono. Ma la città di Ruvo, che prese il nome di una delle dodici illustri città dell’Acaja, delle quali innanzi si è parlato, deve credersi fondata da que’ primi Coloni che avevano fresca, e viva la rimembranza di esse, e vollero quì riprodurre quella ch’era per loro o la più nobile, o la più cara.

Ed in vero la città della Daunia Argos Hippium fu fondata dallo stesso Diomede, la città Pallantium fu fondata dallo stesso Evandro, la città di Larissa fu fondata dagli stessi primi Coloni Greci che capitarono nella Campania, per riprodurre quì quelle illustri città della Grecia che avevano lasciate, i nomi delle quali erano loro cari. Deve credersi lo stesso anche per Ruvo, perchè sono queste quelle conghietture che le suggerisce il buon senso, e la conoscenza del cuore dell’uomo. Se il Signor Pratilli avesse fatta alle stesse attenzione, non avrebbe deciso ex cathedra che la città di Ruvo sia la meno antica di quella Regione. Donde lo ha egli ciò rilevato? Quantum est in rebus inane!

[a99]

CAPO VI. Del sito in cui fu la città di Ruvo da principio edificata.

Sta la città di Ruvo sul dorso di una collina che la rende assai più elevata di tutte le altre convicine città, ed in conseguenza visibile ad una più lunga distanza. L’aere che si respira è salubre e perfetto a segno che molti convalescenti de’ convicini luoghi vanno ivi a ristabilirsi, tranne quelli soltanto che soffrono mal di petto. L’abitato attuale però occupa non già il vertice della collina, ma bensì il declivio di essa che guarda il mezzodì. La sommità della collina è al Nord della città lungi un quarto di miglio. È la stessa attualmente occupata da una magnifica Chiesa, e da un Convento di PP. Minori osservanti sotto il titolo di S. Angelo.

Si gode da quel punto una stupenda veduta, della quale rimangono incantati tutti i Forestieri che capitano in Ruvo, e si portano ivi espressamente per goderla. Sono allo stesso sottoposte una col mare Adriatico tutte le belle città che da Barletta fino a Bari sono edificate sul suo litorale. La ventilazione ivi è forte. Tutti i venti, e specialmente i venti boreali dominano talmente quel punto che coloro i quali volessero tenervi fisse abitazioni pagherebbero a prezzo ben caro il vantaggio della veduta la più bella, e la più gaja che possa desiderarsi. Que’ Religiosi che sono obbligati a farvi fissa permanenza debbono essere molto attenti a guardarsi dai colpi d’aria che potrebbero loro essere funesti.

La stessa attenzione debbono avere coloro che hanno le loro abitazioni nel lato settentrionale della città. È quello il punto più elevato di essa contrapposto al detto Convento de’ PP. Minori osservanti, benchè la ventilazione sia ivi meno violenta di quello che lo è nel sito del detto Convento. È questo lato per altro meno esteso degli altri tre lati della città che guardano l’oriente, il mezzodì, e l’occidente. Si è ciò fatto con sano accorgimento, essendo lo stesso il più esposto all’impeto de’ venti.

Percorrendo, e contemplando su tutti i punti i luoghi adiacenti al [a100] già detto Convento mi è sorta la idea che in quel sito, cioè nella sommità della collina sia stata da principio edificata la nostra città. Tutte le circostanze che ho messe a calcolo mi hanno portato a credere che l’abitato attuale di essa sia stato costrutto ne’ tempi posteriori al declivio della collina, onde gli abitanti non fossero stati più esposti a quegl’incomodi, ed a quelle malattie che per le cause di sopra espresse si rendevano inevitabili allora che il sito della città era sul vertice della collina.

Questo mio avviso lo giustificano pienamente in astratto due luoghi di Dionigi di Alicarnasso. Parlando egli di Oenotro che sbarcò, come innanzi si è detto, sul litorale del mar Tirreno ci fa sapere che Condidit oppida parva, et contigua in montibus, ut tunc erat mos. E poco dopo soggiugne Arcadicum enim est delectari habitatione montium: qua ratione Atheniensium Hyperacrii vocati sunt, et Parthalii: illi quod summa juga tenerent: Parthalii vero quod ad mare incolerent[139]. Leggiamo anche presso Virgilio

. . . . . . . Cantabitis Arcades inquit

Montibus hæc vestris: soli cantare periti

Arcades. . .[140].

Dimostrata quindi la origine Arcadica della nostra città, non si deve stentare a credere che i primi suoi abitanti abbiano fissata la loro sede sul vertice della collina sulla quale è la stessa edificata.

Le circostanze locali che hanno fissata la mia piena convinzione confermano vie più questa idea. Il territorio di Ruvo forma parte della Puglia pietrosa. È ivi il terreno talmente ingombro di pietre che per poterlo spurgare di esse, e porlo nello stato di perfetta coltura, vi occorre una spesa considerevole. Si fa questa volentieri dai proprietarj dei fondi suburbani, i quali essendo addetti agli orti ed ai giardini danno maggior rendita.

Le pietre che si estraggono sono di una quantità immensa. Quindi per poterle allogare senza perdersi molto terreno, si circondano i fondi [a101] istessi di parieti a secco, i quali in quella Provincia tengono luogo delle siepi, e de’ fossati che nelle altre Provincie non pietrose si formano per guarantire e custodire i fondi. Ond’è che Giulio Frontino parlando de’ modi usati in quella Regione per confinare o chiudere i fondi rustici, dice che ciò si fa col costruire muros, macerias, congeries, et collectione petrarum[141].

Ora è notabile che de’ fondi suburbani della città di Ruvo i soli per i quali si vede trascurato dai proprietarj nella massima parte, e per tutti i lati cotesto miglioramento sono quelli adiacenti al detto Convento di S. Angelo, i quali formano la sommità della collina. La quantità delle pietre che ivi vi è supera di gran lunga qualunque altra contrada pietrosa dell’agro Ruvestino. Ove le pietre suddette venissero estratte dai fondi, per esaurirle non basterebbe formare un pariete ordinario, ma converrebbe costruirsi muraglioni immensi di non facile esecuzione e di non lieve spesa. Questa circostanza ha fatto, e fa sconfidare i proprietarj suddetti dall’intraprenderne il miglioramento.

Appartiene alla mia famiglia un giardino di sei moggia sito precisamente nel sommo vertice della collina suddetta ove sta il detto Convento di S. Angelo, dal quale lo divide la strada pubblica che passa per lo mezzo con un picciolo spiazzo di suolo anche pubblico. Il mio ottimo genitore, che fu un diligente ed attivissimo padre di famiglia, aveva per questo fondo una particolare predilezione che lo fece entrare nel malagevole impegno di nettarlo di pietre. Cotesta operazione eseguita solo in una parte del fondo suddetto gli costò una forte spesa. Fu tale la quantità delle pietre che ne uscì che dopo averne consumate molte nel solido e straordinario pariete da lui costrutto lungo la strada pubblica, ne rimasero tante che mancava il sito ove riporle. Gli convenne quindi gittarle sulle antiche macerie che vi erano nel fondo istesso le quali occupano una porzione non indifferente di esso, e nel guardarle desta positiva meraviglia che in picciolo spazio siano uscite dalla terra tante pietre!

Sveglia però ciò la giusta idea che siano quelle le pietre delle fabbriche [a102] dirute dell’antica città abbandonata dagli abitanti ne’ tempi posteriori. Tanto più che molte di esse sono evidentemente pietre di fabbrica accomodate dal martello e lavorate dagli altri strumenti dell’arte. Si aggiunga a ciò che nello scavarsi il terreno si scuoprono ivi di passo in passo bellissimi pozzi antichi incavati nel vivo sasso, il quale in quella contrada è vicino, ed ove più, ove meno si trova a pochi palmi di profondità. Cotesti pozzi esser dovevano inservienti alle abitazioni che un tempo ivi vi erano.

Dall’insieme di queste cose pare di doversi conchiudere che la immensa straordinaria ed insolita quantità di pietre che si trovano ne’ terreni adiacenti al Convento suddetto ci additi il sito dell’antica città traslatata dappoi più abbasso nel declivio meridionale della collina sotto un clima più temperato. Ne dà di ciò una pruova irrefragabile la seguente circostanza.

È cosa sicura che nel sito attuale della città si sono trovati sepolcri antichissimi. La mia casa paterna è nel centro di essa al largo della Chiesa Cattedrale. Sessantacinque anni indietro il mio ottimo genitore volle aggiugnere alla stessa una nuova stanza. Nello scavarne le fondamenta si trovarono due antichissimi sepolcri. Un altro se ne trovò trent’anni indietro nel fondo del cellajo della casa de’ Signori Caputi, la quale è più al basso della città poco lungi dalla pubblica piazza. Parlo solo di questi tre sepolcri perchè gli ho veduti cogli occhi proprj li due primi nella mia puerile età, e l’altro nella mia età virile, giacchè altri sepolcri si sono scavati anche in altri luoghi dell’abitato attuale della nostra città, de’ quali non posso dare un conto particolare.

È risaputo che gli antichi avevano i loro sepolcri fuori dell’abitato. Or se nel sito attuale della città si son trovati antichi sepolcri, bisogna conchiudere per necessità che nel tempo della prima fondazione della nostra città l’abitato attuale era una campagna, e la città suddetta fu edificata sul vertice della collina nel sito di S. Angelo. Giova anche fare attenzione alla qualità de’ vasi che si rinvennero tanto ne’ due sepolcri scoverti sotto la mia casa, quanto nell’altro de’ Signori Caputi.

Li primi erano di forme eleganti, ed uno di essi scannellato, ma rustici. I secondi erano dipinti, ma di pochissima considerazione. Il che [a103] pruova che li già detti sepolcri appartenevano agli abitanti della prima fondazione, i quali non erano ricchi, e non potevano usare quel lusso funerario che si è ravvisato ne’ sepolcri Ruvestini ultimamente scoverti. Appartengono questi ai tempi posteriori quando la città si era resa già adulta e ricca, ed era stata trasportata dal vertice della collina al sito che attualmente occupa, il quale al tempo della prima fondazione esser doveva sicuramente una campagna.

Passo ora a rilevare che essendosi in Ruvo rifatte molte case o cadute, o cadenti sia per la loro vetustà, sia perchè mancanti di solide fondamenta, si è osservato ciò che siegue. Nello scavarsi le fondamenta di esse si è trovato che le case suddette erano state edificate su di altre antiche abitazioni dirute o semidirute. Di modo che ben potrebbe dirsi che l’attuale città di Ruvo, o almeno una gran parte di essa, sia una novella città edificata sulle ruine dell’antica. Aggiungo che circa venti anni indietro il fu mio fratello Giulio, ed io avendo risoluto di formare una nuova cucina per l’uso della già detta nostra antica casa paterna, quella Mensa Vescovile ci fece la concessione del suolo che alla stessa bisognava dall’atrio del suo trappeto contiguo alla stessa.

Nello scavarsi le fondamenta di cotesta nuova stanza fino alla profondità di circa venti palmi, si trovò una officina anticamente addetta al lavoro di vasi di creta coi comodi inservienti all’arte suddetta, e colla fornace ove i vasi si cuocevano. Era la bottega suddetta fornita di un pavimento a lastrico così solido e forte che per tagliarlo in pezzi regolari che io volli conservare ebbe a durarsi molto stento, e si spuntarono molti piconi e scalpelli.

Ciò pruova che l’antico piano della città era molto sottoposto al piano attuale, e che una buona porzione di ciò che oggi è sotterra stava prima fuori terra. Conferma questa osservazione il vedersi che molte antiche case di Ruvo hanno i bassi (detti jusi col linguaggio del Paese) abitati dalla povera gente così profondi che per potervi accedere bisogna discendere molti gradini, di modo che non sembrano queste abitazioni, ma bensì edificj sotterranei molto sottoposti al livello delle strade della città dalle quali ad essi si accede.

[a104]

Cotesti antichissimi bassi però nella prima costruzione delle case suddette, delle quali formano parte, esser dovevano messi al piano delle strade istesse rimaste elevate dalle ruine degli edificj causate dalle guerre o dai tremuoti, de’ quali si è perduta la memoria. Non altrimenti le case attuali potrebbero trovarsi edificate sulle antiche senza solide fondamenta. È questo il difetto di quasi tutti gli antichi edificj di Ruvo in parte già corretto dalle nuove ricostruzioni che si son fatte. Ma tal difetto pare che debba ripetersi da una calamità che ne’ tempi passati abbia colpita tutta la città, o almeno una gran parte di essa.

Si osserva lo stesso nelle abitazioni del villaggio di Bosco Trecase che sta alle falde del Vesuvio. I bassi delle antiche abitazioni che si vedono ora molto sottoposti alle pubbliche strade erano prima al piano di esse. Le immense masse di cenere e di scorie gittate dal Vesuvio avendo elevato il piano delle pubbliche strade, hanno rese sotterranee quelle abitazioni ch’erano prima fuori terra. Pare che lo stesso sia avvenuto nella città di Ruvo. Non è affatto verisimile che li detti bassi detti jusi addetti all’abitazione degli uomini e non delle bestie, nella prima loro costruzione siansi edificati sotterra. D’altronde gli antichi edificj che si son trovati molto sottoposti al piano attuale della città pruovano concludentemente che doveva esser questo anticamente molto più basso, ed è rimasto ora più elevato dalle ruine delle antiche abitazioni.

L’antico solidissimo lastrico da me rinvenuto, di cui innanzi ho parlato, mi chiama ad una digressione che la credo utile ai miei concittadini. La qualità e solidità di esso rende non iscusabile la crassa ignoranza o la malizia degli attuali muratori Ruvestini. Hanno essi perduta l’arte di formare i lastrici che gli antichi muratori possedevano in grado tanto eminente. Si sono resi il flagello di quella Popolazione, la quale è per tal cagione obbligata a privarsi del comodo de’ terrazzi tanto utili, anzi necessarj non meno pe ’l proprio sollievo, che per asciugare i pannilini dei bucato, per seccare le frutta e per esporre al sole tutto ciò che ha bisogno de’ suoi benefici raggi.

È così pessima la qualità de’ lastrici ch’essi fanno che si spaccano, anzi si disfanno dopo poco tempo. Chi non ha la casa coverta da [a105] un tetto bisogna che stia sotto i torrenti di pioggia che scorre per ogni lato sul suo capo dai detti pessimi lastrici. La cagione principale di cotesto inconveniente è che la composizione de’ lastrici attuali consiste nella calce, poca tegola ed una gran quantità di petruzze minute. Queste però, mentre non possono sorbire la calce liquida, ed impregnarsi bene di essa perchè non sono porose, hanno anche per necessità le loro punte, ed i loro tagli. Questi sotto il calpestio rodono e scompongono la massa del lastrico non ligata per se stessa ed unita insieme a perfezione per la mancanza di elementi soffici che possano sorbire bene la calce liquida. Si aggiugne a ciò anche la poca e troppo esile doppiezza che si dà a cotesta cattiva pasta.

La solita ciarlataneria di questa gente si scusa col dire che manca in Ruvo il materiale per formare buoni lastrici. Scusa sciocca ridicola e pienamente smentita dall’eccellente antico lastrico da me trovato nella bottega di un povero artigiano! Questa scoverta pruova che il materiale ivi non manca, e che gli antichi muratori Ruvestini sapevano conoscerlo ed adoperarlo così bene che i loro lavori dopo tanti secoli hanno resistito anche alla forza dei ferri coi quali io feci tagliare quel lastrico in pezzi regolari per conservargli.

A troncare sì fatti insulsi pretesti, mi applicai a far l’analisi della composizione del detto antico lastrico. Trovai ch’era lo stesso formato di calce, la quale in Ruvo è eccellente, e di una pietra che in quella Regione è chiamata carpino. Bisogna quì osservare che la pietra suddetta per se stessa porosa è di tre specie. La prima di esse, comunque anche porosa, è durissima e pesante. Si adopra quindi a trebbiare le messi facendo ruotare in giro dalle cavalle sull’aja de’ grossi pezzi di essa lavorati ed adattati a questo uso. Resistendo anche molto bene al fuoco, è utile adoperarla nella formazione de’ focolari, poichè le pietre ordinarie rimangono presto dal fuoco o spaccate, o calcinate.

La seconda specie è frivolissima, e si riduce in polvere col solo maneggiarla. La terza poi ha una qualità media tra la prima e la seconda. Ha bastante solidità e consistenza, ma senza molta durezza. Sorbisce i fluidi, ed in conseguenza anche la calce liquida, e si presta a formare una massa ben connessa sotto i colpi della mazzuola. Venni da [a106] ciò ad assicurarmi che cotesta specie di carpino può supplire benissimo il così detto lapillo che si adopra in Napoli e contorni nella formazione de’ lastrici, il quale manca in quella Provincia.

Di questa specie di carpino è formato l’antico lastrico di cui sto ragionando. Volli quindi farne un saggio nella pratica. Diffidando giustamente de’ muratori Ruvestini, adoperai un abile maestro di altro paese. Feci tritare in minuti pezzi quel carpino di cui ho parlato, e lo tenni per dodici giorni ad abbeverarsi di calce liquida. Indi feci gittare il lastrico e batterlo bene colle mazzuole come si batte in Napoli. Il lastrico formato a questo modo è riuscito buono, e sarebbe stato anche migliore se si fosse fatto più doppio. Ma tutta la mia attenzione non fu bastante a correggere compiutamente l’abitudine contratta da tutti i muratori di quella Provincia di fare lastrici troppo sottili, mentre l’antico lastrico di cui ho parlato ha una doppiezza uguale a quelli che si fanno in Napoli e contorni.

Se cotesto saggio da me fatto non è bastato a scuotere la caparbietà de’ muratori Ruvestini, bisogna dire che trovano essi il loro conto nel fare lastrici cattivi per rifargli di nuovo dopo poco tempo, o ch’è troppo vero ciò che disse Orazio Naturam expellas furca, tamen usque recurret. Valga però questa digressione a tenere avvertiti i miei concittadini onde non si facciano più raggirare dalla loro ciarlataneria. Insulta questa anche la Provvidenza, la quale ha largamente provveduto l’agro Ruvestino di tutto ciò che può essere necessario o utile ai bisogni della vita umana.

[a107]

CAPO VII. Notizie della città di Ruvo fino all’epoca de’ Normanni.

Il silenzio de’ Scrittori Greci e Latini scampati alla ingiuria del tempo sulla origine della nostra città, che non senza una ragione Paciucchelli la dice antichissima e quindi oscura, rendeva assai scabrosa la indagine di essa. È perciò che Uomini, comunque dottissimi, i quali non si sono di proposito occupati a penetrare in quei bujo che la cuopriva, hanno smaltite delle cose incoerenti tanto sulla sua nomenclatura che sulla etimologia di essa. I tempi però in cui fiorirono li detti antichi Scrittori erano illuminati. Da ciò che hanno lasciato scritto sulla Regione in cui la nostra città è sita, e sulle Greche colonie dalle quali fu questa occupata ed abitata, dalle sue antiche monete, e dai pregevolissimi monumenti delle belle arti antiche ivi rinvenuti, ho potuto prendere quelle fiaccole le quali mi hanno messo in grado di spingere innanzi i miei passi in mezzo a tanta oscurità.

Eccoci ora ad un’epoca d’ignoranza di barbarie di distruzione e di servitù, qual è quella che dopo la caduta dell’Impero di Occidente portarono nella sventurata Italia le invasioni de’ Popoli settentrionali non meno che de’ Saraceni. Mancata, anzi spenta la coltura, donde attingersi una storia ordinata della nostra città? Attesa la ragione de’ tempi e la qualità de’ Scrittori che poteva la stessa produrre, non è poco che si conoscono almeno in generale i fatti principali avvenuti nella Italia.

Francesco Maria Pratilli nel precitato suo libro Della via Appia tra le poche cose che ha dette della nostra città, che fa ora tanto parlar di se, reca ciò che siegue: Patì Ruvo le sue sciagure dai Goti senza che dal Greco Imperatore Zenone le si potesse porgere sollievo ed ajuto, ed allora fu che addivenne ella povera di abitanti passati altrove a far domicilio. Nè a minori ruine dovette ella soccombere per lo furore de’ Saraceni e de’ Longobardi che guerreggiavano coi Greci al rapporto de’ Cronologi di quel tempo[142]. Si è da alcuno detto anche che fu dai Goti distrutta ed uguagliata al suolo.

[a108]

Credo bene che a quell’epoca di distruzioni e di depredazioni non abbia potuto la mia patria sottrarsi a quelle sciagure alle quali soggiacquero tante altre città della misera Italia. Ne dà anzi di ciò forte argomento la circostanza da me rilevata nel Capo precedente che l’attuale città di Ruvo si vede edificata sulle rovine dell’antica città. È anche notabile che mentre la stessa sotto tutti i rapporti era una città considerevole, niun vestigio è rimasto fuori terra di fabbriche le quali presentino una rimota antichità, il che pruova di esser queste rimaste tutte distrutte dalle fondamenta. Ma dal Pratilli e da altri si son dette queste cose senza essersi citati gli Scrittori dai quali si son tratte. A tal modo in vero si può dire tutto ciò che si vuole.

Dalle Cronache però che han parlato de’ fatti di quell’epoca da me lette, nulla di particolare ho potuto rilevare. Nel riportarsi in esse i fatti avvenuti in quella Provincia, si sono tutto al più limitate a parlare di quelli che hanno riguardata la città di Bari ch’era la più importante, giacchè tutte le altre di second’ordine seguivano ordinariamente la sorte di essa. Ben di rado delle dette città minori si trova per alcuna di esse qualche cenno.

Ad ogni modo se qualche cosa per avventura mi è sfuggita, non ne son dolente. Era cosa interessantissima, e nel tempo stesso gloriosa per la mia patria il sottrarre alla oscurità la sua antichissima e nobilissima origine. Per potervi riuscire nulla ho risparmiato, e nulla ho omesso. Ma qual pro per la stessa e per me nell’affaticarmi di vantaggio a rintracciare le notizie di que’ guasti che ha potuto soffrire da barbare Nazioni, ed esacerbare il mio animo col percorrere que’ fatti che sarei costretto cento volte a pentirmi di non avergli lasciati in un profondo oblio? Ringrazio l’Altissimo ch’è rimasta ella superstite a tante ruine, mentre tante altre città sono state distrutte, senza essere più risorte. Lascio coteste tristi e spiacevoli minutezze (se pur se ne possono aver le tracce) a chi sia vago di esse, ed abbia più tempo minori anni, e più valida salute di me. Mi limiterò quindi a quelle poche notizie che vi sono dell’epoca de’ Normanni, senza innoltrarmi di vantaggio nelle ricerche di que’ tempi che precederono la loro dominazione, nelle quali certamente il profitto non avrebbe potuto adeguare il travaglio e ’l fastidio che sarebbero costate.

[a109]

Pria però di fare questa picciola raccolta non ometto che Pratilli nel luogo testè citato ha riportato una lapide sepolcrale trovata in Ruvo, la quale in verità è poca cosa, poichè fu questa messa da una donna al suo defunto marito che si dice liberto di Cesare, senza che si conosca neppure quale de’ Cesari allora imperava. Vale qualche cosa di più un’altra iscrizione trovata dopo, poichè fu l’opra delle Autorità Municipali Ruvestine al tempo dell’Imperator Gordiano.

IMP CÆS M ANTO
ni GORDIANO PIO
FEL AVG
PON MAX
TRIB P II
COS PROC
DECVRIONES
ET AVGVST
EX ÆRE COL
LATO

La trascritta iscrizione appena disotterrata si pensò conservarla con essersi incastrata nel muro di un edificio pubblico, cioè dell’orologio che sta nella pubblica piazza della nostra città. È da credersi che cotesta lapide abbia formato parte del piedistallo di una statua o di altro pubblico monumento eretto in onore dell’Imperatore Gordiano. Senza di ciò, cadrebbe nel ridicolo la menzione fatta in essa di esser stata messa ex ære collato de’ Decurioni e degli Augustali. La sola e semplice lapide non sarebbe costata che pochi danari, i quali non avrebbero meritato un vanto di tal fatta.

Pruova intanto la lapide suddetta che vi era in Ruvo un Collegio di Augustali. Si sa che cotesta Istituzione fu creata da Tiberio in onore di Cesare Augusto. Il Collegio degli Augustali era in Roma composto dai personaggi li più distinti al numero di venticinque, come ce lo fa sapere Cornelio Tacito: Idem annus novas cæremonias recepit addito sodalium Augustalium Sacerdotio, ut quondam Titus Tatius retinendis Sabinorum [a110] sacris, sodales Titios instituerat. Sorte ducti a Primoribus civitatis unus et viginti. Tiberius, Drususque, et Claudius, et Germanicus adjiciuntur[143]. Fu questa perciò riputata una dignità ed una onorificenza. Svetonio quindi nella vita di Claudio dice che prima che fosse stato Imperatore, Senatus quoque ut ad numerum sodalium Augustalium sorte ductorum extra ordinem adjiceretur, censuit[144]. Dice lo stesso anche di Galba, il quale prima che fosse stato elevato all’Impero, inter sodales Augustales fuit cooptatus[145].

Cotesto novello culto che Cornelio Tacito lo chiama nuova cerimonia suggerita dal folle orgoglio di chi dominava e dalla vile adulazione di coloro che servivano, fu nel tratto successivo esteso anche agli altri Imperatori, ai quali venivano dopo la loro morte prodigalizzati gli onori divini. Ond’è che Giusto Lipsio nel suo Commentario al trascritto luogo di Cornelio Tacito osserva: Idque exemplum placuit deinceps in omnibus Imperatoribus, qui facti sunt Divi. Ita sodales Flavii, Hadrianales, Antonini passim in Historiis memorantur. Lo stesso dice Levino Torrentio nelle sue annotazioni al precitato luogo di Svetonio. Quemadmodum ab Augusto Augustales, sic ab aliis Imperatoribus nomina traxere, ut Flaviani, Æliani, Antoniniani, Helviani.

È inoltre ad osservarsi che cotesto Sacerdozio propagato in seguito anche nelle altre città fuori di Roma, divenne coll’andar del tempo una carica municipale. Giova sentire come ne ha ragionato Barnaba Brissonio, il quale dice che cotesto Sacerdozio fu istituito da Tiberio In urbe XXV ex viris primariis, in municipiis quaterni, seni, et aliquando plures: Tacitus Annal. I, 54, Histor. II, 95. Gruterus Inscript. p. CXLIX 5, et CCXLIX 5. Præerat toto Corpori Magister Augustalis. Gruterus p. CCXLIX 5. et p. CXLIX, 5. Reinesius ad Inscript. p. 186, qui æque ac ipsi Augustales e decurionibus lecti. Noris. Cenotaph. Pisan. p. 78. Hi vero non solum sacra faciebant, sed et aliquando jus dicebant, et curam viarum gerebant. Gruterus CCCCXXI 7 [a111] p. CCLII 3 CXLIX 5, non quidem tanquam Augustales, sed tanquam Magistratus, quia sæpe tali dignitate cum Sacerdotio isto fungebantur, ceu contra Reinesium probavit laudatus Noris. Cenotaph Pisan. I 6 p. 77 et sequent. Qui et docuit non perpetuum fuisse hoc Augustalium Sacerdotium, sed temporarium. Unde II Augustalis appellatur L. Cancrius apud Gruterum p. XIX 6[146].

Or s’intende bene perchè nella trascrìtta lapide si vedono gli Augustali uniti ai Decurioni di Ruvo per ergere un monumento all’Imperator Gordiano. Non si conosce se lo abbia questo suggerito l’adulazione o qualche beneficio fatto alla nostra città dall’Imperatore suddetto. Passo ora a riportare le poche cose che vi sono dell’epoca de’ Normanni, mancandomi ogni notizia particolare relativa alla nostra città del tempo che la precede. Avrei potuto in vero toccare quella parte che ha la stessa per necessità avuta negli avvenimenti generali seguiti in quella Regione. Ma questi appartengono alla Storia del Regno, e trovandosi da altri già esposti, non amo replicare le cose risapute, ed uscire dal mio argomento.

Nella Cronaca di Lione Ostiense si parla della inaugurazione, e della dedica della grandiosa Chiesa di Montecasino seguita nel dì 30 ottobre 1071 coll’intervento del Pontefice Alessandro II. Si dice che interfuere tantæ tunc celebritati Archiepiscopi decem, et Episcopi quadraginta. Tra i primi vi è Archiepiscopus Tranensis, il che pruova anche che la città di Trani, la quale spettò al Conte Pietro Normanno, era fin d’allora una città cospicua, e che bene a proposito Guglielmo Appulo la chiama præclari nominis urbem. Tra i secondi si leggono: Episcopus Cannensis, Rubesanus (di Ruvo), Monorbinensis, Juvenaciensis, Monopolitanus, luoghi tutti che appartengono alla Terra di Bari secondo la ripartizione attuale delle Provincie del Regno[147].

L’anonimo Cassinese riporta lo stesso fatto. Commemora i Cardinali, gli Arcivescovi, i Vescovi ed i Magnati che intervennero alla consecrazione della Chiesa suddetta con un concorso immenso di popolo [a112] che vi fu da tutti i luoghi per quella grande solennità. Ci fa anche conoscere uno per uno i nomi de’ già detti Arcivescovi e quaranta Vescovi intervenuti, e tra questi ultimi vi è Guilelmus, sive Guibertus Episcopus Rubesanus[148].

Da Lupo Protospata si ha la seguente notizia: Anno 1082 Episcopus Rubensis donavit Priori Montis Pelosi Ecclesiam Sancti Sabini, quæ est in civitate Rubi, qui Prior tenebatur omni anno ad quatuor libras ceræ in die Sabathi Sancii, et mittere unum hominem equestrem ad suas expensas quando Episcopus Rubensis ibat ad Barum, seu ad Canusium[149]. La Chiesetta di S. Sabino vi è tuttavia in Ruvo, e ’l Vescovo di Montepoloso l’ha come una sua Badia, prende cura di essa e percepisce le rendite de’ beni de’ quali è dotata. Ma non s’incarica più nè di corrispondere al Vescovo di Ruvo le quattro libbre di cera, nè di spedire a sue spese un uomo a cavallo quando viene a quest’ultimo la volontà di recarsi a Bari o a Canosa[150].

Alessandro Abbate Telesino nella sua Storia De rebus gestis Rogerii Siciliæ Regis dice che Papa Onorio sollevò contro Ruggiero i Magnati della Puglia tra i quali Grimoaldus Barensis Princeps, Goffridus Comes Andrensis, Tancredus de Conversano, atque Rogerius Orianensis Comes, aliique complures. Cotesti Magnati si riunirono a Troja ove il Pontefice si era recato da Benevento chiamato dagli abitanti di quella città, e fecero con lui alleanza. Intanto Ruggiero sbarcò a Taranto con buon numero di truppe. Essendosi la città a lui resa, si recò ad assediare [a113] Brindisi che l’aveva occupata Tancredi di Conversano. Non potendo più gli abitanti di essa tollerare i danni dell’assedio, si resero a discrezione. Dopo ciò prese anche altri castelli de’ Baroni suoi nemici.

Il Papa quindi riunite le sue forze con quelle de’ Baroni suddetti marciò contro Ruggiero. Questi avendo ciò saputo, andò ad accamparsi col suo esercito vicino al fiume Bradano nel luogo denominato Vado petroso. Le truppe Pontificie si accamparono sulla riva opposta del fiume suddetto. Saputosi però da Ruggiero che il Pontefice era nel campo di persona, per un tratto di rispetto si astenne dall’attaccarlo. Nè mancò di maneggiarsi per placare il di lui animo, ed indurlo a discaricarlo dalla scomunica contro lui fulminata e riconoscerlo per Duca di Puglia e di Calabria.

Essendo le cose andate in lungo, cominciarono a mormorarne tanto i Baroni collegati che i loro militi, perchè vedevano mancarsi i mezzi di mantenersi più lungo tempo in campagna. Molti di essi quindi si ritirarono, e ’l Papa ritornò a Benevento, e di là continuò le pratiche con Ruggiero. Finalmente si combinò con lui in un incontro ch’ebbero insieme presso la città di Benevento ove Ruggiero si recò di persona, e fu dal Pontefice riconosciuto come Duca di Puglia e di Calabria.

Passò dopo ciò col suo esercito ad assediare Troja. Avendo però veduto ch’era quella città ben preparata a fargli vigorosa resistenza, ed avendo calcolato che si avvicinava l’inverno, credè opportuno lasciare l’assedio di essa, ed occuparsi a ricuperare la città di Melfi ed altre città Ducali che volontariamente a lui si sommettevano, e lo chiamavano per mezzo de’ legati a lui spediti. Il che fatto si ritirò a Salerno e di là partì subito per la Sicilia, riserbando alla buona stagione la spedizione contro i Magnati della Puglia suoi nemici.

Nell’assenza di Ruggiero era riuscito a Tancredi di Conversano di ricuperare la città di Brindisi, ed altri castelli che Ruggiero gli aveva tolti. Ma ritornato quest’ultimo alla buona stagione con poderoso esercito, dopo aver ripigliati alcuni de’ castelli suddetti, si recò ad assediare la predetta città di Brindisi. Avendo però calcolato che l’assedio di essa avrebbe potuto tirare a lungo, riserbò cotesta impresa a miglior [a114] tempo, e credè più opportuno sommettere le altre città e castelli de’ suoi nemici. Dopo aver dunque distrutto un Paese chiamato Castrum che preso da lui l’anno precedente aveva seguito di nuovo le parti di Tancredi di Conversano, pose l’assedio a Monte alto.

Seguita quì dunque a dire l’Abate Telesino: Capto itaque Monte alto Rubeam præfati tancredi urbem invasurus properat, qua demum devicta, Alexander Comes, Tancredus, Grimoaldus Barensis Princeps, necnon Goffridus Comes Andrensis tantam ipsius potentiam experti, saniori consilio inter se habito, mox ei subjiciuntur. Unde Tancredi ipso Dux animo jam sedatus. Terras quascumque abstulerat reddidit. Quibus deinde præcepit ut post ipsum Trojam celeriter accessuri essent. Soggiugne inoltre che nel marciare verso Troja prese anche la città di Salpi[151].

Non vi può esser dubbio che l’Abate Telesino colle parole Rubeam urbem abbia indicata la città di Ruvo. Nel precitato luogo ei si occupò a narrare le gesta di Ruggiero ch’ebbero luogo nella Puglia. In quella Regione non vi è altra città che porti questo nome. Dic’egli inoltre che Rubea urbs dipendeva da Tancredi di Conversano collegato col Principe di Bari e col Conte di Andria. Conversano Bari Ruvo ed Andria formano un gruppo di città non molto tra loro distanti. È notabile inoltre che dal catalogo de’ Baroni che contribuirono i soldati per la spedizione di Terra santa al tempo di Guglielmo il Buono, del quale si è parlato innanzi alla pag. 84 risulta che a quell’epoca la nostra città continuava tuttavia a formar parte della Contea di Conversano. Il che pruova che alla stessa era unita anche al tempo di Ruggiero e quindi apparteneva a Tancredi di Conversano.

La Storia dell’Abate Telesino è scritta di un latino che si può dir buono avuto riguardo al tempo in cui fu scritta. Fu egli contemporaneo del Re Ruggiero, come lo ha avvertito Muratori nella prefazione alla stessa, e come lo ha detto ei medesimo coll’essersi lodato [a115] delle occasioni avute di avvicinare quel Sovrano. Per indicare dunque la città di Ruvo si valse dell’espressioni Rubeam urbem ad esempio di Virgilio che disse parimenti.

Nunc facilis Rubea texatur fiscina virga[152].

Su di cotesto verso di Virgilio osserva Servio; Rubea virga, quæ abundat circa Rubos Italiæ oppidum. Horatius Inde Rubos fessi pervenimus; idest ea virga, quæ circa Rubos nascitur. A Servio è conforme anche Basilio Fabro[153]. Li Commentatori di Orazio sul precitato verso al quale si riporta Servio trascritto innanzi alla pag. 19 osservano: Rubi urbs Apuliae XX millibus pass. a Canusio distabat. In agro Rubeo vimen mollissimum nascebatur, quo fiscinæ texebantur. Virgil. Georg. lib. I vers. 266.

Ed in vero anche oggi abbonda quel territorio di una specie di lentisco molto utile al fuoco che bisogna per i forni, per le fornaci e per le calcaje. I virgulti di quel frutice sono molto adatti al lavoro de’ panieri di ogni specie. Anche oggi se ne fanno in gran quantità non meno per l’uso della popolazione che per vendergli nelle città convicine. Si prendono quando sono della età di un anno dopo il taglio dato alle piante, poichè sono allora più teneri più flessibili e più atti al lavoro. Cotesti virgulti col linguaggio del luogo sono chiamati vinchioni forse dal latino vimen, poichè il linguaggio popolare Ruvestino ha ritenuti diversi vocaboli tanto dal Greco che dal Latino. È ciò avvenuto come bene osserva il Canonico Mazocchi, nelle nostre antiche città Greche, le quali passate dappoi sotto la dominazione Romana, si parlava in esse l’uno e l’altro linguaggio; dal che Orazio li Canosini gli chiama bilingui.

L’Abate Telesino nella sua allocuzione a Ruggiero stampata alla fine della sua Storia prese occasione di fare una onorevole menzione di Virgilio. Pruova ciò che aveva coltura, ed anche una predilezione pe ’l Principe de’ Poeti Latini. Valendosi quindi della sua frase, per indicare la città di Ruvo, disse Rubeam urbem.

[a116]

Rimarrà per altro cotesta intelligenza vie più raffermata facendosi attenzione alla Cronaca di Romualdo Salernitano. Sono in essa riportati gli stessi fatti di Ruggiero, benchè con qualche varietà di circostanze, il che s’incontra sempre negli storici di tutti i tempi. Dice quindi lo Scrittore suddetto che Ruggiero Conversanenses obsedit, eorumque civitates, et castella viriliter expugnavit. Si valse del plurale Conversanenses, perchè Tancredi aveva anche un fratello di nome Alessandro[154], come si rileva da ciò che viene in seguito a dire. Quumque Dominus Tancredus corporis molestaretur infirmitate, et Ducis Rogerii molestaretur oppressione, tandem cum Domino Alexandro fratre suo, et cum Domino Grimoaldo Barensi Principe tempore æstatis, idest decimo die Augusti (MCXXIX) facta est pax cum dicto Duce Rogerio, reddentes Terras ab cisdem comprehensas. Nel riportare le fazioni di guerra che avevano avuto luogo in quel rincontro dice che Ruggiero cum exercitu adveniens comprehendit Salpim, et civitatem Rubum[155]. Il che toglie ogni dubbio che anche l’Abate Telesino ha parlato di Ruvo.

Ritornando quindi a ciò ch’ei ne ha detto pare che fin dal tempo de’ Normanni era Ruvo una città importante per le sue fortificazioni, e che abbia opposta a Ruggiero una vigorosa resistenza. Tanto in primo luogo importano l’espressioni, qua demum devicta, le quali fanno intendere lo stento durato da quel Principe valoroso per poterla prendere. Nè si oppone a questo concetto ciò che dice il già detto Romualdo Salernitano che la città di Ruvo l’abbia presa Ruggiero, ut fertur, traditione civium. Dato anche ciò per vero, si vedrebbe chiaro che Ruggiero usò l’astuzia e ’l maneggio ove vide arduo l’uso della forza, poichè come osserva Ugone Falcando nel proemio della sua Storia Sicula Ruggiero id curabat ut non magis viribus, quam prudentia hostes contereret. Anzi la voce istessa che si fece correre dai suoi emoli che [a117] avesse presa la nostra città per tradimento, conferma vie più la opinione che si aveva della fortezza di essa.

Ed in vero tanto da ciò che dice Romualdo Salernitano, quanto dal racconto dell’Abate Telesino risulta che i Baroni contro lui collegati ne rimasero da ciò a tal segno scoraggiati e sgomentati che tantam potentiam ipsius experti, saniori consilio inter se habito, mox ei subjiciuntur. Bisogna dire dunque che avevano essi Ruvo per una città fortissima avendo prodotto nel loro animo cotesto effetto la presa di essa.

Nulla dice l’Abate Telesino di ciò che la nostra città abbia sofferto in quel tristo frangente. Se star si vuole a ciò che ne ha scritto in generale nella sua Cronaca Falcone Beneventano contemporaneo anche di Ruggiero, dice costui ch’era il Duca sommamente adirato specialmente contro Tancredi di Conversano di cui esalta il merito ed il valore, e che tutte le città della Puglia che appartenevano ai Baroni suoi nemici le sterminò col ferro e col fuoco con inaudita crudeltà e barbarie[156].

Rifletto però che Falcone Beneventano si mostra implacabile nemico di Ruggiero, e la sua Cronaca si vede scritta con una penna molto acerba, anzi rabbiosa. L’Abate Telesino al contrario scrisse con manifesta parzialità. Pose in risalto soltanto le virtù di Ruggiero, e fece di esse un magnifico elogio. Anzi a lui dedicò la sua Storia. Quindi pare che il primo abbia detto troppo e ’l secondo nulla. Il raziocinio naturale però fa capire che una città presa colla forza delle armi (qua demum devicta) dopo una vigorosa resistenza opposta ad una soldatesca irritata ed avida, dovè soffrire le sue sciagure. Væ victis.

Dopo ciò Tancredi di Conversano col suo fratello Conte Alessandro, ed altri Baroni della Puglia si rese ribelle a Ruggiero, il quale rivolse di nuovo contro di essi le sue armi e gli sconfisse. Avendo vigorosamente attaccata la città di Montepeloso che dipendeva anche dal detto Tancredi di Conversano, marciò costui di persona colle sue forze per difenderla. Ebbe però l’infortunio di rimaner battuto e prigioniero. Esultò molto Ruggiero per averlo avuto nelle sue mani. Gli condonò [a118] nondimeno la vita, ma lo mandò in Sicilia ove fu rinchiuso in un carcere con aver perduti tutti i suoi feudi[157].

Non si conosce a chi sia stata conceduta da Ruggiero la Contea di Conversano, e con essa la città di Ruvo che come innanzi si è detto ne formava parte. Ma dalla Cronaca precitata di Romualdo Salernitano si rileva che all’epoca della morte di Ruggiero avvenuta nell’anno 1153, era Conte di Conversano Roberto di Basavilla, del quale dice ciò che siegue: Defuncto autem Rege Rogerio, Guillielmus filius ejus, qui cum patre duobus annis, et mensibus decem regnaverat, illi in Regni administratione successit. Hic autem post mortem patris, convocatis Magnatibus Regni sui, proximo Pascha est solemniter coronatus, cui Curiæ Robertus de Basavilla Comes de Conversano, Consobrinus frater ejusdem Regis interfuit. Huic Rex Guillielmus Comitatum de Lauritello concessit, et cum in Apulia cum honore emisit[158].

Era Roberto di Basavilla un saggio e valoroso Signore, stretto congiunto del Re e molto alla Corte affezionato. Cadde nondimeno in disgrazia del Re Guglielmo I per le perfide suggestioni e per gl’intrighi de’ suoi malvagi Cortigiani esposti così bene e col linguaggio della verità da Ugone Falcando nel principio della sua Storia Sicula[159]. Vedendo quindi in positivo pericolo tanto la sua libertà che la sua vita, fu costretto suo malgrado a rendersi ribelle. Trasse nella ribellione molti Baroni e tutte le città della Puglia, ove aveva molto credito, e diè molto fastidio al Re Guglielmo I, come seguita a narrarlo il precitato Scrittore.

Essendo però ivi accorso il Re con poderoso esercito, dovè cedere alla forza maggiore, si rese esule dal Regno e perdè li suoi feudi. Tutte le città della Puglia ritornarono alla ubbidienza del Re. Non vi può esser dubbio che in questo vortice si trovò ravvolta anche la [a119] nostra città, ma nulla di particolare s’incontra sul conto di essa. Morto Guglielmo I nell’anno 1167, e succedutogli nel Regno il di lui figliuolo Guglielmo II, il Conte Roberto di Basavilla ch’era prezzato ed amato da tutti i Grandi del Regno e dalle città della Puglia specialmente, come il precitato Scrittore anche dice, fu richiamato dal suo esilio, ritornò in grazia del Re, ed ebbe dallo stesso conceduta di nuovo la Contea di Loritello, ed anche quella di Conversano, come ci fa sapere il precitato Romualdo Salernitano[160].

Ora il più volte citato Catalogo de’ Baroni che diedero i soldati per la spedizione di Terra Santa è dell’epoca di Guglielmo II detto il Buono come innanzi si è osservato. Si rileva da esso che la città di Ruvo formava parte a quel tempo della Contea di Conversano, ma non si dice chi fosse stato allora il Conte di Conversano. Sapendosi però dalla Storia ch’era questi Roberto di Basavilla è conseguenza che a lui anche apparteneva la città di Ruvo che dipendeva dalla Contea suddetta.

Non si conosce fino a qual tempo l’abbia egli posseduta, e chi sia stato il di lui successore. Morto Guglielmo II nell’anno 1188 e passato il Regno a Corrado Svevo per quelle vicende che sono riportate nella Storia, sappiamo ciò che siegue dalla Cronaca di Riccardo da S. Germano. Nell’anno 1197, anno della morte del detto Corrado e primo anno del Regno di Federico II, Imperatrix (cioè la vedova di Corrado) filium suum in Marchia apud Hesim civitatem relictum sub Ducatu dicti Cœlani Comitis, et Berardi Laureti Comitis et Cupersani, ad se duci jubet in Regnum, et de Apulia in Siciliam transmeare[161]. Sappiamo da ciò che Conte di Conversano era allora cotesto Berardo. Se sia stato costui figliuolo del Conte Roberto di Basavilla o altri non mi è riuscito verificarlo. Chiunque però sia stato, come Conte di Conversano è conseguenza che abbia posseduta anche la città di Ruvo.

Quì finiscono le notizie di quell’epoca. Non si conosce in qual tempo ed in quale occasione la nostra città sia rimasta distaccata dalla Contea [a120] di Conversano, ed abbia cominciato a costituire un feudo a se separato e distinto, poichè mancano i pubblici registri che potessero indicarlo. Che tal separazione però era già seguita all’epoca della Dinastia Angioina anderemo a vederlo nel Capo che sussiegue. È penoso il passaggio dai secoli felici della nostra città a quelli della feudalità. Allora l’agricoltura e la industria che produceva la sua opulenza faceva in essa fiorire nel grado il più eminente le scienze e le belle arti, delle quali ne abbiamo tanti pregevoli monumenti. La feudalità al contrario spenta la industria, e con essa anche il gusto e ’l genio, fu apportatrice di tante servitù, suggezioni, restrizioni ed estorsioni, delle quali i nomi soltanto che si leggono ne’ Lessici del medio evo, e ne’ Scrittori feudisti bastano a far raccapricciare, e non potevano produrre altro che avvilimento e miseria. La Storia però deve seguire il tempo.

Sono queste le poche e scarse notizie che ho potuto riunire dell’epoca de’ Normanni. Si vanta anche la rimota antichità di quel Vescovado, del quale dice Ferdinando Ughellio: Hujus civitatis maximum ornamentum esse potest quod inter Italicas urbes una ex primis fuerit, quæ S. Petro Apostolorum Principe prædicante hauserit Evangelii lumen anno salutis XLIV, et fert traditio primum Rubensem Episcopum ab eodem Petro consecratum Cletum, qui post Linum et Clementem Pontificatum gessit, cujus solemnis dies agitur, veluti civitatis Patrono[162].

Si dice inoltre che Epigonio Vescovo di Ruvo intervenne al Concilio di Cartagine insieme con S. Agostino. Che negli atti di S. Sabino esistenti in un Codice che si conserva nella Biblioteca di Montecasino al num. 289 fol. 246 si legge che Gelasio Papa nell’anno 443 fu in Barletta per la consecrazione della Chiesa di S. Andrea Apostolo, e che tra i Vescovi invitati a quella sacra funzione vi fu anche Giovanni Vescovo di Ruvo.

Non ignoro di esservi stato anche qualche Scrittore il quale ha opinato che il nostro Vescovado sia meno antico. Mi astengo però dall’entrare in tal discussione. L’oggetto principale che mi ho proposto in questo mio lavoro è stato quello di squarciare il velo che teneva ascosa la [a121] rimotissima ed illustre origine della nostra città. Nulla in ciò può influire la maggiore o minore antichità del suo Vescovado. Cotesta indagine dipende dalle ricerche nella Storia Ecclesiastica, ed in quella de’ Concilj. Farà sempre cosa laudabile quegli de’ miei concittadini il quale volesse occuparsi di proposito ad illustrare cotesto argomento.

A me basta l’aver fatto valere la considerazione dell’antichità del nostro Vescovado per sottrarlo alla soppressione che si trovò nel pericolo di subire nella esecuzione dell’ultimo Concordato colla S. Sede. Era in fatti questa sul tappeto a causa della tenuità delle sue rendite accresciuta vie più dalla poca avvedutezza colla quale alcuno de’ passati Vescovi aveva fatte delle permutazioni di fondi pregevoli della Mensa Vescovile con altri fondi di minor pregio e valore.

Tal soppressione spiaceva molto a quella Popolazione. Il Decurionato quindi si rivolse a me, e mi onorò dell’incarico di adoperarmi perchè la nostra città non avesse sofferto tale sfregio, e per far valere una calda supplica rassegnata al Re per la conservazione del suo Vescovado. Vi prese anche una parte attivissima il Capitolo di quella Cattedrale che spedì in Napoli due Deputati dai quali fui assistito con molta efficacia.

Furono questi il fu Canonico Teologo D. Michele Cassano di onoratissima memoria, e ’l mio cugino Primicerio D. Domenico Chieco, uomini entrambi molto istruiti, colti e pieni di zelo pe ’l lustro tanto della nostra città che della nostra Chiesa. Mi provvidero essi di una memoria molto opportuna sull’antichità di quel Vescovado. Fu questa presentata a S. E. il Signor Marchese D. Donato Tommasi Ministro allora di Grazia e Giustizia, e degli Affari Ecclesiastici, poichè la considerazione dell’antichità era molto valutata in simili discussioni.

Non si mancò di quel calore impegno ed assistenza che la cosa esigeva. I voti di quella Popolazione rimasero appagati. Il Vescovado di Ruvo fu conservato ed unito a quello di Bitonto æque principaliter con Bolla del Pontefice Pio VII di veneranda memoria del dì 27 Giugno 1818. E poichè il primo fu riconosciuto come un Vescovado più antico del secondo, prese il Vescovo il titolo di Vescovo di Ruvo e Bitonto, [a122] e non già di Bitonto e Ruvo come pretendevano i Signori Bitontini troppo attaccati al fumo. Tranne però cotesta mera frivolezza, è stata una combinazione molto opportuna che due delle più antiche città della Peucezia siano rimaste a tal modo riunite anche ne’ loro rispettivi Vescovadi.

CAPO VIII. Notizie della città di Ruvo al tempo della Dinastia Angioina.

Niuna notizia della nostra città mi è riuscito incontrare dell’epoca de’ Svevi. Coloro che si occupano a scrivere in generale la Storia di un Regno è ben difficile che possano entrare ne’ fatti particolari delle città quando non si tratti di avvenimenti rumorosi che meritino di essere tramandati alla posterità, o non siano mossi da motivi di predilezione a parlar di esse. Niuna notizia ho potuto trarre dall’archivio comunale. Oltre la somma difficoltà che vi è che possa qualsivoglia città conservare documenti che rimontino ad un’epoca molto rimota, le antiche carte che si conservavano nell’archivio della nostra città prima della metà del passato secolo le furono tolte a viva forza dalla prepotenza del Duca d’Andria Ettore Carafa, come più giù anderò a dirlo.

In quanto ai pubblici Registri di quell’epoca nel grande Archivio del Regno si conservano appena pochissime carte dell’Imperatore Federico II scampate alla ingiuria dei tempo. Fin dall’epoca de’ Normanni si erano introdotti i pubblici Registri chiamati Defetarj, ne’ quali erano notate esattamente tutte le città terre e castelli conceduti in feudo. Cotesti Registri interessavano lo Stato sotto un doppio rapporto. Il primo per i casi di devoluzione de’ feudi conceduti. Il secondo per conoscersi i feudatarj obbligati a prestare il servizio militare con un certo numero di militi in tempo di guerra. Continuarono cotesti Registri anche al tempo del detto Imperatore Federico sotto altro nome poichè nelle sue Costituzioni che vanno registrate nel Codice delle nostre antiche leggi sono [a123] chiamati Quaterniones Curiæ, Quaterniones Dohanæ nostræ, Quaterniones Dohanæ nostræ Baronum[163].

Cotesti Registri sarebbero stati di ajuto alla Storia almeno di quelle città che avevano avuta la disgrazia di essere concedute in feudo, tra le quali vi fu anche Ruvo conceduta in feudo fin dal tempo de’ Normanni come si è veduto nel Capo precedente. Cotesti Registri però si son dispersi. Li Registri più antichi che si conservano nel grande Archivio del Regno sono quelli de’ Sovrani Angioini intitolati Archivium Magnæ Curiæ Regiæ Syclæ, dai quali ho tratti i Registri Angioini innanzi riportati. Nè sono questi tampoco interi. Ve ne sono molti o rimasti mutilati, o dispersi nel tumulto popolare dell’anno 1701. Eccomi dunque a riportare le poche notizie che da essi si hanno.

Nel dì 29 Settembre 1269 si vede spedito un privilegio della concessione in feudo fatta della nostra città dal Re Carlo I di Angiò. Dice in esso il Re che per ricompensare grandia, grata, et accepta servitia quæ Rodulfus de’ Colna dilectus miles familiaris et fidelis noster Serenitati nostræ exhibuit[164], veniva a donargli Castrum Rubi cum Foresta ET CASALIBUS territoriis et omnia bona sua in Justitiariatu Terræ Bari, et Castrum Florentiæ situm in Justitiariatu Basilicatæ cum hominibus vassallis possessionibus vineis terris cultis et incultis planis montibus pratis nemoribus pascuis omnibus etiam aquis aquarumque decursibus aliisque juribus jurisdictionibus et pertinentiis eorumdem quæ de dominio in dominium et quæ de servitio in servitium etc.

Dalle trascritte parole viene a rilevarsi che la nostra città aveva allora i suoi Casali espressamente compresi nella precitata concessione. [a124] Si seguitò quindi a dire Deliberatione mera et speciali investientes ipsum Rodulfum prædicto modo per nostrum anulum de Castris et Casalibus supradictis ita quod tam ipse quam ipsi prædicti heredes sui dicta Castra et Casalia a nobis nostrisque in Regno Siciliæ heredibus et successoribus perpetuo in capite teneantur etc.

Sono inoltre notabili le seguenti riserbe che il Re si fece. Exceptis nobis et prædictis in Regno nostro heredibus et successoribus jussimus fidelitate feudatariorum si qui sunt, et universorum hominum ipsorum Castrorum et Casalium etc....... Exceptis et causis criminalibus, pro quibus corporalis pœna mortis videlicet vel amissionis membrorum vel exilii debebit inferri: collectis quoque quæ dictorum Castrorum et Casalium hominibus imponemus, quæ integraliter et libere per nostram Curiam exigentur. Moneta etiam generali quæ pro tempore de mandato Curiæ nostræ cudetur in Regno quam et non aliam universi de ejusdem Castris et Casalibus recipient et expendent. Defensis insuper quæ a quibuscumque personis invocato nostro nomine ipsorum Castrorum et Casalium hominibus imponentur et contemptæ fuerint quarum cognitio et castigatio ad solam nostram Curiam pertinebit....... Reservato etiam nobis quod equitaturæ et animalia aratiarum et massariarum nostrarum possint libere pascua sumere in pertinentiis et territoriis Castrorum et Casalium eorumdem[165].

Dall’esposto Registro si rileva con sicurezza che aveva la città di Ruvo in quel tempo i suoi Casali abitati, poichè replicate volte si parla degli uomini di essi. Si rileva del pari che i Casali suddetti avevano una dotazione di territorio, poichè si riserbò il Re il dritto di far pascere anche in esso gli animali delle sue razze. I nomi però de’ già detti Casali non si conoscono perchè non si trovano espressi nel detto Privilegio, ed essendo rimasti distrutti da un’epoca da noi molto lontana, se n’è perduta ogni memoria. Non è quindi inutile l’indagare in quali punti del territorio di Ruvo esser potevano situati cotesti villaggi utilissimi sempre alla economia agraria.

Il plurale Casalibus adoperato nel trascritto Diploma di Carlo I [a125] pruova ch’erano questi più d’uno. Dalle osservazioni fatte e dalle indagini che ho anche prese ho tutta la ragione di credere che li casali suddetti fossero stati non meno di tre, e che uno di essi sia stato situato nella contrada delle matine a sei miglia di distanza dalla città, l’altro nella contrada denominata calentano a quattro miglia di distanza, e l’altro in quella delle strappete ch’è in un sito medio tra l’una e l’altra, ed anche a quattro miglia di distanza dalla città.

Nella contrada delle matine possiede la mia famiglia una vasta masseria di semina. Forma parte di essa un pezzo di terreno di circa quaranta moggia sul lato sinistro della pubblica strada che da Ruvo mena a Gravina, il quale porta tuttavia il nome di casali. Lo stesso nome portano anche i terreni situati sul lato opposto della strada suddetta, i quali formano parte dell’altra masseria di semina che apparteneva al fu D. Saverio Montaruli, il quale l’aveva ereditata dalla famiglia Modesti ora estinta.

Il nome di casali ritenuto dai terreni suddetti fino ai nostri giorni sveglia la idea che vi sia stato in quel sito sulla detta strada di Gravina uno de’ casali cennati nel diploma suddetto. Confermano questa conghiettura le seguenti rilevantissime circostanze. Gli uomini di campagna affermano che i terreni adiacenti ai luoghi suddetti ora solcati dall’aratro siano stati un tempo coltivati colla zappa. Ne’ miei terreni inoltre si son trovate fabbriche dirute, antichi sepolcri di povera gente, monete antiche, ed anche una pietra di anello pregevole per la sua incisione e per una leggenda greca, la quale essendo stata a me occultata dal mio massajo, venni dopo a sapere ch’era passata in altre mani.

È notabile anche che in quel pezzo di terreno che porta precisamente il nome di casali vi è tanta quantità di pietre ch’esce positivamente dall’ordinario. Tra esse ve ne son molte che hanno ancora attaccata la calce, siccome anche vi sono pezzi di embrici rotti. Delle pietre suddette dopo averne consumate moltissime nella costruzione di un forte pariete lungo la strada di Gravina, ve ne rimasero tante che per rendere il terreno più atto e più utile alla coltura, mi vidi obbligato a farne formare di esse nel fondo istesso delle grosse macerie. Una quantità di pietre così sterminata non si può ripetere d’altronde che dalle [a126] fabbriche dirute delle abitazioni che dovevano esservi un tempo in quel sito.

Non minore è la quantità delle pietre ne’ terreni contrapposti della masseria del fu D. Saverio Montaruli, ed anche lì si vedono pietre tuttavia incalcinate ed embrici rotti. Vi sono ivi inoltre gli avanzi di picciole case, alcune delle quali unite insieme e messe in fila, ed altre isolate. È notabile anche che de’ sepolcri antichi trovati da quel lato ve ne sono stati di quelli formati con casse di pietra di tufo incavato ad un solo pezzo, che col linguaggio del luogo si chiamano pile. Due di esse si vedono situate accanto al pozzo delle matine detto del manganello e si fanno ora servire per abbeverare gli animali.

Coteste casse e pe ’l lavoro e pe ’l trasporto di esse da luoghi lontani, poichè nel territorio di Ruvo non vi sono cave di tufo, dovevano costare qualche spesa. È da credersi quindi che fossero le stesse servite per la sepoltura delle persone più agiate del villaggio suddetto. Nello stesso luogo dieci anni indietro fu trovato anche un cimitero di figura rettangolare lungo palmi trenta e largo palmi dieci pieno di ossa e di teschi umani. Queste circostanze menano a conchiudere che doveva esservi in quel sito uno de’ casali situato parte sui terreni della mia masseria, e parte su quelli della masseria del Signor Montaruli dall’uno e dall’altro lato della pubblica strada di Gravina.

Rispetto poi al luogo denominato calentano tutte le circostanze concorrono per farmi credere che vi sia stato in quel sito un altro villaggio forse di maggior considerazione, e rimasto disabitato in epoca meno antica. Vi è ivi un pezzo di terreno del perimetro di circa un miglio, il quale porta il nome di casali di calentano. Oltre le immense macerie che in esso vi sono di pietre coacervate dette volgarmente specchioni, si vede anche il terreno coperto di pezzi di tufo, di embrici rotti in minuti pezzi e di calcinacci, il che fa credere la disabitazione meno antica. Si vedono inoltre molte pietre assestate dal martello, lavorate dal picone, o incrostate da fortissimo cemento.

Per formare una idea della immensa quantità di pietre che ivi vi è basta dire che il Primicerio D. Domenico Chieco innanzi nominato comprò nell’anno 1841 dagli eredi del fu Pasquale Cantatore una masseria [a127] di semina, nella quale va inclusa una porzione del già detto pezzo di terreno denominato casali di calentano. Li periti di consenso nominati per valutare la masseria suddetta detrassero dal prezzo di essa il valore di dieci moggia di terreno in compenso di quello che rimaneva ingombrato dalle pietre e rottami suddetti. Si sono in fine in quel luogo trovati sempre, e si trovano tuttavia sepolcri di povera gente.

Vi è ivi rimasta inoltre una Chiesa antichissima, benchè restaurata di tempo in tempo, e questa non picciola, dedicata alla SS. Vergine Annunziata che porta il nome di S. Maria di Calentano, con una comoda abitazione pe ’l Cappellano. Nello spazioso atrio murato della Chiesa suddetta si vedono le fabbriche dirute di due decenti appartamenti l’un dall’altro segregati. Uno di essi apparteneva al Vescovo di Ruvo, l’altro alla Casa Baronale, il che conferma vie più la idea che doveva esser quello un villaggio più prezzato. Non essendosi avuta più cura degli edificj suddetti da sessant’anni in qua sono entrambi crollati.

Grande è la venerazione che i Ruvestini hanno ritenuta per la sacra immagine della SS. Vergine che vi è in quella Chiesa, ed è anche molto bella. Nel dì della sua festa che ricade nel dì 25 Marzo si portano ivi a torme per adorarla, e per far indi delle liete ricreazioni annesse sempre a coteste divote spedizioni, le quali vengono da molti replicate anche all’ottavo giorno della festa suddetta. Quel culto ritenuto da tempo antichissimo dai Ruvestini è comune anche agli abitanti delle convicine città di Andria, Corato e Terlizzi. Di modo che ben si può dire di esser quello un piccolo Santuario delle convicine Popolazioni, le quali, come anderò a dirlo nel susseguente capo, sono nate nell’agro Ruvestino.

Da un tempo ch’eccede ogni memoria d’uomo il Capitolo di Ruvo ha presa cura di quella Chiesa, e vi ha mantenuto, come tuttavia vi mantiene un Cappellano coll’obbligo di far ivi una fissa residenza, con aversi dal Capitolo come presente tanto nel Coro, quanto ne’ mortuarj. È notabile che dev’esser questi un Canonico di quella Cattedrale. La elezione di esso si fa ogni tre anni nel dì degli Apostoli S. Pietro e S. Paolo. Tale elezione si fa nel Capitolo Preminenziale, cioè coll’intervento delle sole Dignità e Canonici, esclusi i Partecipanti. Sulla proposta [a128] delle due prime Dignità nomina il Capitolo due Canonici a voti segreti. Monsignor Vescovo ne sceglie uno di essi, e con suo decreto gli conferisce il titolo di Cappellano di S. Maria di Calentano.

Il Cappellano suddetto ritrae un utile tanto dalle offerte de’ divoti che ivi si portano per adorare la SS. Vergine, quanto dalle spontanee prestazioni di cereali che riceve in tempo della messe dalle numerose masserie di semina de’ Ruvestini e de’ Coratini stabilite nelle vicinanze della Chiesa suddetta. Dalle cose premesse intanto si può arguire che allora quando il villaggio che a mio credere vi era in quel sito rimase o distrutto o abbandonato sia per le guerre, sia per altre cagioni, e gli abitanti si ritirarono nella città, non fu per questo obliato il culto di quella sacra immagine che dai Ruvestini, ed anche dalle convicine Popolazioni fu ritenuto fino ai nostri giorni.

Tanto più è ciò a credersi, quanto che non manca in Ruvo una antica Chiesetta dedicata anche alla SS. Annunziata, dalla quale ha preso il nome quello de’ quartieri della città ch’è alla stessa adiacente. Essendosi, malgrado ciò, ritenuto da quella Popolazione il culto della lontana Chiesa di calentano sotto lo stesso titolo, pare che cotesta antica usanza si possa benissimo ripetere dalla divozione che conservarono per la loro antica Chiesa gli abitanti del villaggio di calentano che si ritirarono nella città.

Altro villaggio pare che abbia dovuto esservi nella contrada denominata le strappete alla distanza di quattro miglia dalla città nel sito medio tra calentano e le matine. Si vedono ivi due pezzi di terreno a poca distanza l’uno dall’altro, uno di un miglio di circuito, e l’altro un poco meno. Il primo porta il nome di casali di Siniscalchi, e l’altro secondo di casali di Covelli dai nomi degli antichi proprietarj di essi. Ambi cotesti pezzi di terreno formano ora parte della vasta masseria di semina posseduta dai Signori Chieco miei congiunti, e da essi acquistata con diversi contratti.

Tanto nell’uno che nell’altro pezzo di terreno vi è una immensa quantità di pietre, molte delle quali lavorate a picone, e tuttavia incalcinate. Vi sono inoltre molti rottami di embrici, e di vetri bianchi e neri sparsi nel terreno. Moltissimi sepolcri rustici si son anche ivi [a129] sempre trovati e tuttavia si trovano, in uno de’ quali ultimamente fu rinvenuta pure una lancia. Si son ivi di quando in quando similmente disotterrate antiche monete di rame, di argento ed alcune di oro, delle quali per altro nulla può dirsi, perchè di cotesti oggetti sono sempre fraudati i proprietarj de’ fondi, e non vengono ad averne notizia che quando son essi già passati in altre mani.

Dalle predette circostanze delle quali sono stato minutamente informato dal prenominato mio parente Primicerio D. Domenico Chieco che ha secondate efficacemente, e con molta utilità coteste mie investigazioni, viene a risultarne che vi erano ivi del pari o due piccioli villaggi a poca distanza l’uno dall’altro, il che non è cosa nuova, o un solo villaggio diviso in due quartieri, poichè gli avanzi delle antiche abitazioni tanto nell’uno che nell’altro de’ due precitati pezzi di terreno cadono sotto i sensi. Gli antichi sepolcri ivi rinvenuti in gran numero formano una convincente testimonianza dell’antica abitazione di que’ luoghi, poichè ove si trovano i morti bisogna che vi siano stati anche i vivi.

Mi lusingava almeno per calentano di poter trarre utili notizie dall’Archivio Capitolare. La cura che da tempo immemorabile ha preso il Capitolo dell’antichissima Chiesa che ivi vi è, la qualità Canonicale richiesta nel Cappellano che viene dallo stesso nominato, il Rito che si serba nella elezione di esso, e l’obbligo della fissa residenza che gli viene imposto, mi facevano credere che avessero potuto ricevere una conveniente spiegazione dalle antiche memorie o tradizioni registrate nelle carte Capitolari, le quali avessero messo capo nell’epoca della disabitazione di quel villaggio. Ne scrissi quindi all’attuale Signor Arcidiacono D. Vincenzo Ursi, Ecclesiastico pieno di coltura e di entusiasmo per le cose patrie, onde avesse fatte praticare nell’Archivio suddetto le opportune diligenze, come si è fatto.

Sono state queste però poco fruttifere. Si è trovata in esso un’antica pergamena la quale contiene un pubblico strumento del dì 11 Novembre 1392 stipulato, mentre regnava il Re Ladislao, dal Notajo Ruvestino Cobello de Concilio in quella Chiesa Cattedrale tra il Vescovo e ’l Capitolo di Ruvo da una parte, e Giovanni de Mapono di Ruvo [a130] dall’altra. Permutarono essi tra loro col detto strumento le seguenti proprietà, cioè il Vescovo e ’l Capitolo, Domum unam ortatam sitam intus in dicta civitate Rubi in loco Porte de Noha juxta domum aliam ipsius Joannis de Mapono, domum et ortum Angeli Roberti de Ruta et alios confines cum orticello uno prope ipsam domum, arbore una........ et puteis omnibus intus et extra ipsam domum et orticellum.

E ’l detto Giovanni de Mapono, Medietatem tenimenti quondam Tafuri et Andreuccie sue sororis siti in Territorio dicte civitatis Rubi, et pertinentiis Stiliti in loco Sancte Marie de Calentano, et Sancti Pauli, et circum circa, juxta silvam Caurate, juxta silvam Rubi, juxta reliquam mediatem pro indiviso ipsius tenimenti prædictorum Domini Episcopi, Primatum Canonicorum et Capituli memorati, cum medietate omnium cisternarum puteorum terrarum omnium aliorum jurium eorumdem, et cum omnibus infra se habilis et contentis pertinentiis omnibus juribus et utilitatibus eorundem et introitibus etc.

Nell’antica Platea inoltre del Capitolo, ove sono riportate tutte le sue possidenze si trova il seguente notamento: Tenimentum Sanctæ Mariæ de Calentano, Sancti Pauli, et Purchingiani in eodem loco Calentani spectans nostræ Mensæ Episcopali Rubensi his finibus limitatum secundum divisionem factam inter nos Petrum Perrensem Episcopum Rubensem ex una parte, et Capitulum Majoris nostræ Rubensis Ecclesiæ ex parte altera, prout patet ex contractu publico celebrato inter nos subscriptos nominatos per manus Notarii Angeli Lisii de Mondellis de Rubo sub anno Domini millesimo quadringentesimo sexagesimo sexto. Die.... mensis Junii Sextæ Indictionis. Di cotesto strumento non si è potuto avere veruna traccia.

Due sono le illazioni che dalle precitate due scritture possono trarsi. La prima è la rimota antichità della Chiesa di S. Maria di Calentano di cui si fa in esse menzione, il che accredita la conghiettura che sia la stessa appartenuta ad uno di que’ villaggi de’ quali si fa menzione nel precitato diploma di Carlo I di Angiò[166]. La seconda che i [a131] terreni ivi posseduti in comune, ed indivisi dal Vescovo e dal Capitolo di Ruvo abbiano potuto un tempo appartenere alla Chiesa suddetta, e colla disabitazione del villaggio che ivi vi era furono da essi occupati, una coi due appartamenti che vi erano nell’atrio della Chiesa istessa, de’ quali uno tuttavia esiste, ed è abitato dal Cappellano che il Capitolo vi destina, e l’altro ora diruto era destinato all’abitazione del Vescovo quando ivi si conferiva. Li terreni suddetti montano a circa settecento moggia, e sono rimasti censiti in forza della legge sul Tavoliere di Puglia dell’anno 1806 ai fittuarj che si trovarono in quell’epoca in possesso di essi, come terreni azionali del Tavoliere suddetto appartenenti ai Luoghi Pii.

Vedo bene che le cose da me dette relativamente ai detti antichi villaggi non sono che conghietture mancando qualunque memoria certa e sicura del nome e del sito di essi. Costando però dal precitato Registro di Carlo I che a quel tempo nell’agro Ruvestino vi erano i villaggi, avendo inoltre i luoghi da me cennati ritenuto il nome di casali, e trovandosi in essi le tracce sicure e permanenti delle antiche abitazioni, manca ogni ragione per potersi contraddire le conghietture suddette. D’altronde non saprei in vero indicare altri luoghi più opportuni di quelli che ho cennati per la situazione de’ casali suddetti. Al tempo del Re Carlo I di Angiò non era più il territorio di Ruvo dai tre lati orientale settentrionale ed occidentale quello stesso ch’era [a132] al tempo di Strabone di Plinio e di Tolomeo. Dai lati suddetti lo avevano molti secoli prima ristretto e raccorciato le dotazioni di terreno date alle novelle città surte dal lato del mare Adriatico e da quello dell’Ofanto.

Non fu però così dal lato meridionale. Non essendo surta da quel lato veruna novella città, conservò Ruvo almeno nella massima parte il suo antico territorio, il quale s’innoltra verso il Garagnone, Gravina ed Altamura per lungo tratto nella Regione della Peucezia detta da Strabone montosa et aspera che porta oggi il nome di Murge. Cotesta contrada nella massima parte non è nè coltivata, nè coltivabile, perchè coverta da una catena di monticelli di vivo sasso. È però molto opportuna al pascolo, specialmente nella estiva stagione, attesa la freschezza dell’aere che ivi si respira. Nè si può dire del tutto negata alla coltura, poichè tra una collina e l’altra vi sono le vallate dette volgarmente canali, ove le correnti di acqua hanno trasportato copiosissimo terreno atto a dare abbondanti ricolte. Quindi anche in quella contrada si trovano da tempo immemorabile stabilite le masserie di semina.

Vi è inoltre dal detto lato meridionale l’antichissimo e vastissimo bosco di Ruvo molto opportuno alle industrie armentizie. Messe quindi coteste circostanze locali, non poteva non essere assai bene ideata la situazione de’ villaggi nel lato meridionale dell’agro Ruvestino. Essendo quello il lato più ampio ed esteso, e che maggiormente si allontana dalla città, utilissimo partito veniva a trarsi dalle Borgate di agricoltori e di pastori allogate nel sito intermedio, e tutte intorno al bosco suddetto che sicuramente ha dovuto essere un tempo il centro delle industrie armentizie de’ Ruvestini, come serve anche oggi di appoggio alle vaste industrie di tanti diversi proprietarj tra i quali è diviso.

Ed in vero la contrada di calentano è bellissima sotto tutti i rapporti, come lo pruovano anche le abitazioni di campagna che fino ai nostri giorni vi han tenute il Vescovo di Ruvo, e la Casa Baronale. Vi sono eccellenti terreni, e si vedono su di essi stabilite belle masserie di semina. Se però cotesti terreni in vece di essere solcati dall’aratro, come ora si fa per la molta distanza dall’abitato, fossero almeno in [a133] parte lavorati colla zappa dalle braccia forti e nerborute degli abitanti di un vicino villaggio, quale ne sarebbe il prodotto?

In quanto poi alla contrada delle matine immenso, ed incalcolabile sarebbe il vantaggio che darebbe alla stessa la presenza di un villaggio. La contrada che porta questo nome parte è nel territorio di Ruvo, e parte in quello di Bitonto che nel punto suddetto confinano tra loro. Una porzione però delle matine di Bitonto è oggi in mano anche de’ Ruvestini per particolari acquisti fattine.

Si ammira in tutta quella contrada un capriccio della Natura. Mentre tanto il territorio di Ruvo che quello di Bitonto abbondano strabocchevolmente di pietre, nella massima parte de’ terreni delle matine non ve ne ha una sola, e sono perfettamente netti di esse come i terreni della Puglia Daunia. Ovunque inoltre si scava si trovano copiosissime sorgive di acqua dolce bellissima a poca profondità di dieci o dodici palmi, ed in taluni luoghi anche minore.

Gli orti di Ruvo che sono intorno all’abitato producono squisite verdure ed in tanta copia che ne provvedono anche le convicine città. Eppur cotesti orti sono stati formati su di un suolo sommamente pietroso spurgato con una spesa immensa, e vengono irrigati dalle conserve di acqua piovana, le quali nelle grandi siccità che sono ivi frequenti possono rimanere esaurite! Or quali prodotti dovrebbero attendersi dai terreni delle matine che sono netti di pietre, se venissero preparati non già dall’aratro, ma dalla zappa? Qual vantaggio si ritrarrebbe dal beneficio della irrigazione che offrono le perenni inesauste e continuate sorgive che ivi vi sono? Quali e quante ottime verdure inoltre potrebbero ritrarsi, senza verun fastidio e dispendio, da un terreno netto di pietre a cui l’acqua non può mancare giammai in tutte le stagioni?

Ma sì fatte operazioni hanno bisogno delle braccia di una popolazione stabilita sul luogo istesso. Alla distanza di sei miglia dalla città coteste braccia non possono aversi. Ora che la Popolazione di Ruvo prodigiosamente si aumenta da anno in anno, e nelle due convicine città di Corato e di Terlizzi è andata la stessa tanto innanzi che manca il terreno alle braccia, e cerca quindi di venire a coltivare l’agro Ruvestino, [a134] perchè non imitarsi la saviezza de’ nostri Antenati? Perchè non rinnovarsi nel nostro vastissimo territorio que’ villaggi che prima vi erano? Potrebbero forse mancare i coloni che anderebbero a popolargli? Qual miglioramento ne risulterebbe dalle colonie che verrebbero a stabilirsi?

Ritornando ora alla detta concessione di Carlo I dell’anno 1269 facendosi attenzione tanto al tenore di essa, quanto agli altri Registri Angioini, viene a rilevarsi di esser rimasto escluso dalla stessa il dritto della Bagliva che il Re lo ritenne per se, forse a riflesso del pascolo che si riserbò in quel territorio per gli animali delle sue razze; quale dritto di Bagliva passato dappoi in mano del Barone per le posteriori concessioni, recò alla Popolazione di Ruvo infinite vessazioni, come anderemo a vederlo al suo luogo. È sicuro che cotesto dritto lo abbia il Re per se ritenuto. Primo perchè nelle clausole della detta concessione la Bagliva non si vede affatto nominata. Secondo perchè non solo nell’anno 1268 che precedè la concessione suddetta, ma anche negli anni susseguenti cotesto dritto continuò a rimanere di Regia appartenenza.

In fatti con Lettera Regia del dì 8 Agosto 1268, scritta da Lagopesolo a petizione del Vescovo e del Clero di Ruvo, il detto Carlo I ordinò Magistris Portulanis et Procuratoribus Curiæ Apuliæ et Aprutii che si fossero ai ricorrenti pagate le decime super Bajulatione Rubi[167]. Consimili ordini si vedono diretti agli stessi Regj Impiegati anche con altre lettere scritte da Melfi, e da Lagopesolo negli anni 1277, e 1278, e con altra del dì 20 Luglio 1279, senza la indicazione del luogo donde fu scritta, colle quali fu loro ordinato di pagarsi al Vescovo ed al Clero di Ruvo decimas proventuum Bajulationis Rubi[168]. Gli stessi ordini si vedono spediti anche dal Re Carlo II nell’anno 1304, e benchè manchi il Registro perchè disperso, n’esiste però il notamento nel Repertorio generale colla indicazione del foglio 299 del Registro disperso.

[a135]

Li già detti ordini di pagamento diretti ai Regj Incaricati amministrativi della Provincia, mentre la nostra città si trovava già conceduta in feudo, ed era posseduta dalla famiglia concessionaria fin dall’anno 1269, pruovano concludentemente ch’era rimasta la Bagliva di Ruvo esclusa dalla concessione, ed aveva il Re seguitato a ritenerla per se. Tanto più è ciò sicuro, quanto che costa da altri Registri che dall’anno 1269 fino all’anno 1291 la nostra città non era più ritornata al Regio Demanio, ma fu sempre posseduta dalla famiglia de Colant che nella precitata concessione del dì 29 Settembre 1269 erroneamente fu detta de Colna.

Con lettera dello stesso Re Carlo I diretta al Giustiziere della Terra di Bari del dì 12 Marzo 1272 fu allo stesso ordinato di prendere informazione della rendita che dava Castrum Rubi ex foresta, et terris convicinis, et circumadjacentibus dicto Castro e da qualsivogliano altre possessioni e proventi. Si dice in essa che la detta città era conceduta in feudo Arnulfo de Colant[169]. Con altra lettera dello stesso anno concedè il Re al detto de Colant in pagamento de’ suoi soldi che doveva conseguire il residuo delle contribuzioni Fiscali che andava dovendo Universitas Rubi[170].

In altro Registro poi dell’anno 1277 lo stesso Re Carlo I dice così: Supplicavit excellentiæ nostræ Jannoctus de Colant filius et heres quondam Arnulfi de Colant familiaris noster, ch’essendo morto il di lui genitore, voleva essere giuste le leggi e le usanze allora in vigore, assicurato dagli uomini de’ feudi che aveva da lui ereditati siti in diverse Provincie del Regno. Quindi il Re nel dì 4 Giugno del detto anno scrisse da Venosa ai diversi Giustizieri delle Provincie suddette, tra i quali: Iustitiario Terræ Bari pro eodem Jannocto quod ipsum assicurare faciat ab hominibus Terræ Rubi[171].

Non si conosce con precisione fino a qual tempo cotesto Jannotto possedè la nostra città. Da un Registro però di Carlo II che succedè nel Regno nell’anno 1285 risulta che nell’anno 1291 era costui già [a136] morto. Pria di parlar di esso, non ometto che da altra Lettera Regia dello stesso Re Carlo I del dì 19 Febbrajo 1274 si rileva che aveva la università di Ruvo dimandato uno sgravio de’ pesi fiscali, ed il Re spedì ordini pressanti al Giustiziere della Terra di Bari, perchè avesse sollecitata la informazione a lui commessa sull’assunto[172].

Il Re Carlo II con sua lettera del dì 25 Gennajo 1291 scritta da Capua al Giustiziere della Terra di Bari ordinò che tutti i Baroni di quella Provincia i quali possedevano feudi donati dal Re si fossero trovati coi loro soldati e cavalieri bene armati, e bene equipaggiati a S. Germano a tutto il quindicesimo dì del mese suddetto sotto la pena della perdita de’ loro beni[173]. Con altra lettera del dì 20 Aprile dello stesso anno furono replicati li medesimi ordini generalmente a tutti i Baroni tanto Regnicoli che Esteri di quella Provincia. Fu soggiunto bensì che si fossero essi trovati a S. Germano coi loro soldati nel termine di otto giorni a contarsi dal dì che sarebbe stato loro comunicato l’ordine suddetto.

In ambe le precitate Lettere si vedano segnati un per uno i nomi de’ feudatarj di quella Provincia chiamati al servizio militare. Si leggono tra questi Dominus Arnulfus de Colant Dominus Rubi. Dominus Guiso Guinardus Dominus Losili et Terlitii[174]. Dal che viene a rilevarsi che nell’anno 1291 Giannotto de Colant era morto, e gli era succeduto Arnolfo II forse di lui figliuolo che portava il nome dell’avo.

Non si conosce nè il tempo nè il modo in cui la città di Ruvo uscì dalle mani della famiglia de Colant. Che abbia però dopo l’anno 1291 avuto un nuovo padrone lo pruovano i seguenti Registri.

Nella informazione senza data de’ Baroni e Feudatari della Terra di Bari presa per ordine del Giustiziere di quella Provincia Pietro Rotondo, [a137] della quale ho parlato nel Capo III pag. 49 si legge ciò che siegue: Invenit dictus Commissarius quod Robertus de Juriaco est Dominus Rubi, majoris ætatis, et tenetur servire Curiæ pro Terra ipsa feudali de servitio quinque militum.

Item invenit quod subscripti feudatarii majoris ætatis tenentes quotas partes feudorum sunt in Terra ipsa videlicet.

Guarnerius Gallicus, qui tenetur servire de tribus partibus unius militis pro bonis feudalibus, quæ tenet ibidem pro parte uxoris suæ.

Nicolaus de Syre Lauysio et Bartholomeus Notarius Thomasii, pro bonis feudalibus quæ tenent a Curia pro adohamento auri tarenos quinque, quorum quilibet tenetur servire Curiæ[175].

Nel Repertorio generale poi de’ Registri Angioini vi è il seguente notamento di un Registro disperso, il quale ci fa apprendere che la città di Ruvo da Roberto de Juriaco era passata a Galeraimo de Juriaco forse suo figliuolo. Rubi civitas revocata in manus Curiæ ob absentiam a Regno Galeraimi de Juriaco olim dictæ civitatis Dominus. Anno 1310 lit. A fol. 238 a t. Tal notizia della contumacia di Galeraimo de Juriaco è confermata anche da un altro Registro del Re Roberto di cui si parlerà in seguito. Dal che si rileva che la nostra città dalla famiglia de Colant passò alla famiglia de Juriaco e fu posseduta da due di tal cognome, cioè prima da Roberto, e poi da Galeraimo che si rese contumace[176].

[a138]

Ad uno di questi due quindi si debbono attribuire le gravezze e le oppressioni usate alla nostra città, le quali diedero causa alle querele dalla stessa rassegnate al Re Carlo II, ed alla seguente lettera del dì 4 Maggio 1307 spedita da Gravina da Roberto Duca allora di Calabria e Vicario Generale di suo Padre, la quale merita di essere quì trascritta per i sentimenti di giustizia che in essa risplendono. Robertus primogenitus Illustris Jerusalem et Siciliæ Regis Dux Calabriæ ac ejus in Regno Siciliæ Vicarius Generalis. Justitiariis Terræ Bari præsenti et futuris devotis suis etc. Scribimus per alias nostras literas Domino Rubi et officialibus ejus præsentibus et futuris in serie subsequenti = Robertus primogenitus illustris Jerusalem, et Siciliæ Regis Dux Calabriæ, et in Regno Siciliæ Vicarius generalis domino Rubi, et officialibus suis tam præsentibus, quam futuris salutem et dilectionem sinceram[177]. Dudum claræ memoriæ dominus avus noster Jerusalem et Siciliæ Rex ad compescendas insolentias Terreriorum (i Feudatarj) Capitulum edidit continentie infrascripte = Terrerii videlicet Comites Barones et Feudatarii tam Ultramontani quam Latini nullos de personis capiant nec privatum carcerem faciant, tormenta vel injurias alias quascumque non inferant vasallis eorum vel aliis quibuscumque, nullas destitutiones extorsiones vel violentias faciant, defensas pro parte ipsorum non exigant nec de defensis cognoscant vel se aliquatenus intromittant cum impositio defensarum debeat fieri per invocationem nostri nominis et cognitio et exactio earum spectet solum ad nostram Curiam vel ad Justitiarios Regionum. Nulli de contrata sub patrocinio et recommendatione eorum recipiant gabellas redituum et proventus terrarum suarum non vendant invitis. Et si contingat eos ad credentiam committere, tantum a credenzeriis recipiant meros et puros proventus et redditus quos secundum temporis qualitatem receperint vel recipere potuerint. Nec etiam recipiant ad habitationem in terris eorum homines demanii. Et si contra factum fuerit pro tormentis seu captione personæ pena privati carceris teneantur. Pro aliis vero injuriis pro qualitate [a139] delicti per Magistrum Justitiarium seu Justitiarios Regionum penis legitimis puniantur. Pro destitutionibus vero extorsionibus et violentiis plectantur pena constitutionibus comprehensa, destitutis et violentiam passis ante omnia in pristinum statum redactis, et eisdem restitutis extortis, pro usurpatione earundem defensarum nostro arbitrio puniantur restituto prius sine difficultate quidquid propterea abstulerunt. Et si quos sub patrocinio vel recommendatione, vel aliquos de Terra Demanii receperint similiter ad habitandum in Terris eorum secundum formam novæ Constitutionis puniantur[178] = Verum quia homines ipsius Terræ Rubi contra tenorem præscripti Capituli in plerisque asserunt sepius se gravari, devotioni vestræ sub pena contenta mandati præter penas alias in capitulo ipso contentas mandamus expressius quatenus hujusmodi Capitulum observantes tenaciter contra ejus tenorem præfatos homines nullatenus molestetis. Injungimus namque per alias literas nostras Justitiariis Regionis præsenti et futuris ut nisi a gravaminibus resipiscatis propositis vos ad id coerceant per juris remedia opportuna. Præsentibus preter opportunam inspectionem earum remanentibus præsentanti efficaciter in antea valituris. Data Gravinæ per Nicolaum Frictia de Ravello Locumtenentem Prothonotarii Regni Siciliæ anno Domini M. trecentesimo septimo. Die quarta Maji quinte indictionis = Quo circa devotioni vestre precipiendo mandamus quatenus ubi prædictus Dominus prefate Terre contra seriem Capituli memorati excedens a gravaminibus ipsis nequaquam destiterit, contra eum ad penas in capitulo ipso contentas, præterquam in eo casu in quo certa ex ipsius penis superioris reservatur arbitrio prout juris fuerit auctoritate presentium procedatis. Officiales vero prefatos per impositiones aliarum formidabilium penarum et exactiones illarum si et quatenus in easdem inciderint a similibus gravaminibus compescatis. Ita quod nos exinde ulterior querimonia non fatiget. Præsentibus post opportunam inspectionem earum remanentibus presentanti. Data Gravinæ per eundem Nicolaum Frictia de Ravello anno [a140] Domini M. trecentesimo septimo die 4 Maji quintæ indictionis[179].

Furono in vero queste disposizioni piene di giustizia, ed anche energiche. Ma non potevano certamente portare un rimedio ai guasti già sofferti dalla nostra città sotto la compressione Baronale. Una idea delle strettezze alle quali era la stessa ridotta si può formare da un altro Registro dello stesso Re Carlo II dell’anno 1308, il quale ci fa conoscere i gravosissimi e molestissimi dazj che fu costretta d’imporre a se stessa per far fronte ai pesi che le incumbevano, e forse anche alla necessità che la stringeva per le dette vessazioni, ed estorsioni sofferte. Questo documento lo recherò per lo intero non meno per appagare la curiosità di chi legge, ma anche perchè mi giovai di esso con successo ne’ giudizj ch’ebbi a sostenere contro la Casa d’Andria, de’ quali parlerò in seguito.

Karolus II etc. Universis præsentis scripti seriem inspecturis tam præsentibus, quam futuris. Dum nostræ Reipublicæ augmenta continue foventes appetimus, subjectorum commoda per solertes tramites procuramus. Venit sane ad præsentiam nostram Judex Judicis Guiscardi de Terra Rubi fidelis noster Syndacus ad hæc constitutus per universitatem hominum dictæ Terræ Rubi, ut constat per quoddam scriptum publicum Universitatis ejusdem, et exponens asseruit quod homines ipsius Terræ Rubi fideles nostri pro bono communi tendentes ad melius, et statum eorum olim ex imminentibus variis sæpe turbatum opportunæ reparationis ordinare judicio cupientes ad pacem, et materiam tollere scandalorum, attento quod interdum pro munerum, et aliorum onerum impositione fiscalium, interdum pro distributione illorum, interdum pro emergentibus inde multifariam exequendis querelatio, murmur, sisma, suspectio, persæpe dissidium, et in populo scandala periculosa surgebant. Provide statuerunt communi concorditer deliberatione habita et consensu capitula, sive ut eorum alludamus vocabulo, dacia sub distincta per quæ solutiones fiscalium aliorumque succrescunt in Terra ipsa vicissitudine sua tam fiscalium, quam privatorum similiter executiones debito agendorum absque solito singulorum gravamine ac onere supportentur taliter ut audivimus exinde ordinato quod pauca et [a141] modica supererant fiscalia, vel privata negotia emergentia hominibus dictæ Terræ, et specialiter collecta fiscalis pro tempore imponenda, et alia necessaria dictæ Terræ, quæ de ipsa super adjecta pecunia, quam datium nominant non deducuntur, ut expedit, et solvuntur. Quæ quidem prout continentur in quodam scripto publico inde Curiæ nostræ ostenso sunt ista. In primis quod pro qualibet uncia, quæ percipitur de introytu omnium bonorum cujuslibet civis Rubi solvantur grana quindecim, excepto campo et vineis. Item pro quolibet tumino frumenti, ordei, fabarum, cicerum, cumini et aliorum leguminum, ac salis, quæ vendentur per cives Rubi in Rubo, et in tenimento ejus, vel ubicumque, detur jumella una[180]: per exteros Rubi, vel in tenimento ejus sive ad minutum, sive ad grossum venduntur, detur per venditorem jumella dimidia. A tempore vero arearum ipsarum in antea quilibet civis Rubi det Datiariis pro quolibet tumino frumenti, ordei, fabarum, cicerum, et aliarum leguminum quarumcumque, quæ perceperit ex satis suis pro quolibet anno jumellam unam, ita quod per jumellam magistro salis nullum præjudicium generetur. Item pro qualibet salma vini musti, quæ percipitur ex vineis Rubi solvant patroni cives granum unum, et dimidium. Illi vero qui non habent vineas proprias, et laborant vineas alienas ad partem solvant prout recipient ad rationem prædictam. Item pro quolibet urceolo vini quod venditur ad minutum tam per tabernarios, quam per personam quamlibet aliam de Terra prædicta, solvat venditor quartam partem grani auri unius, quæ quarta pars grani diminuatur de urceolo vini venditi. Item quilibet Terrigena mercator pannorum solvat pro qualibet uncia percepta per cum pro pannis venditis grana quinque. Item quilibet civis mercator casei, sive recocti, animalium, victualium et quarumlibet rerum aliarum ubicumque emerit pro qualibet uncia solvenda per eum in emptione mercimoniorum suorum quorumcumque solvat grana quinque si fuerit civis. Exterus vero in Rubo et in tenimento ejus de eo quod vendiderit vel emerit pro qualibet uncia solvat grana duo, exceptis victualibus et sale de quibus detur jumella [a142] una per venditorem, prout superius est expressum. Exceptis etiam stractionariis ementibus de prædictis mercibus si eas vendiderint ad minutum. Item quilibet civis panem faciens solvat in furno pro quolibet thumino panis facti granum unum. Item quilibet stractionarius civis Rubi pro quolibet rotulo casei, recocti, carnium salatarum, lardi, sepi olei et cujuslibet mercis venditæ per eum ad pondus........ vel ad mensuram parvam, solvat quartam partem grani, quæ quarta pars grani minuatur de rotulo et mensura, in quibus ponderabuntur merces de consensu et voluntate universitatis. Item quilibet civis Rubi pro qualibet salma quarteriarum, ollarum, garaffarum....... urceolorum, et alterius operis de creta, quod magister ipsarum operum vendiderit, solvat ipse magister granum unum[181]. Si vero ipse Magister portaverit salmam ipsius operis ad vendendum solvat granum medium, et si alius emerit a magistro de prædictis rebus solvat pro qualibet salma granum medium ubicumque eam vendiderit. Item quilibet carpenterius, corduanerius, confettarius, et ferrarius civis pro qualibet uncia recipienda per eum solvat grana decem. Item quilibet Buccerius civis qui solvebat pro quolibet rotulo carnis quartam partem grani solvat pro quolibet porco seu scrofa grana decem pro quolibet castrato ove vel capra grana quatuor, pro qualibet vacca vel bove tarenum unum. Item quilibet civis delator lapidum solvat pro quolibet centenario ipsorum lapidum delatorum per eum granum medium. Item quilibet civis pro quolibet jumento vel equo viaticario solvat pro quolibet anno tarenos duos et medium. Item patroni cives vaccarum solvant pro qualibet vacca fœta domita, vel indomita grana tria. Item patroni cives jumentorum solvant similiter pro quolibet jumento fœto et indomito grana decem, exceptis jumentis, quæ sunt in agro. Pastores autem habentes jumenta pro quolibet jumento sive domitum, sive indomitum sit, et etiamsi fœtum fuerit, vel non, solvant grana decem, et pro quolibet asino grana quinque. Item quilibet civis exercens officium sensariæ solvat sextam partem pecuniæ, quam lucratus fuerit ex officio ipso, de quo lucro teneatur jurare ipse sensarius. [a143] Item quilibet frascarius et calcararius vendens ligna, plantas et calcem solvat pro qualibet ebdomada qua res ipsas vendiderit granum unum. Item patroni cives molendinorum solvant pro qualibet salma frumenti moliti in eorum molendinis granum medium, excepto frumento molito pro victu eorum, pro quo nihil solvant. Item quilibet civis viaticarius, seu quilibet alius deferens fructus, vel herbas, pisces, circulos vegetum, vel res alias quascumque ad usum hominum cum operis, seu equis suis solvat pro qualibet salma granum unum ubicumque eam vendiderit, exceptis leguminibus victualibus et sale, de quibus detur jumella una per venditorem ut supra est expressum. Si vero caseum et vinum mustum tempore vindemiarum et victualia tempore arearum detulerit, solvat pro quolibet animali, quo res ipsas detulerit, granum unum per diem. Ipsorum ergo hominum nobis supplicatione subjuncta, ut hujusmodi ordinationes et statuta eorum velimus debita firmitate vallare, prout tota forma scripta in præsenti quaterna pro nominibus fundorum mutato[182] ubi legitur in iis litteris mandato ipsius Curiæ requirendo, aut etiam expectando, et quia hoc etc. Hic vero legitur mandato ipsius Curiæ requirendo etc. Quia hoc etc. Datum Neapoli per Nicolaum Friczia de Ravello etc. Anno Domini MCCCVIII die octava Julii sextæ indictionis. Regnorum nostrorum anno XXIII[183].

Valga cotesto documento per farci conoscere le imposte comunali che in quel tempo erano in usanza. Quelle contenute nelle trascritte Capitolazioni non potevano non essere fastidiose tanto al Comune che doveva esigerle, quanto a coloro che dovevano pagarle. Con tal sistema daziario era inevitabile che tutte le classi de’ Cittadini Proprietarj, Negozianti, Venditori tanto all’ingrosso che a minuto, Artefici, Fornaj, Molinari, Mulattieri, Legnajuoli, Agricoltori, Pastori etc. fossero stati ogni momento alle prese cogli esattori o appaltatori comunali di tanti diversi e minuti dazj per l’opposto interesse che avevano i primi di pagare il meno possibile, ed i secondi di esigere il più che avessero potuto. Non si può credere certamente felice lo stato di una città costretta [a144] a ricorrere a questi mezzi. Lo stesso tenore del Diplomi contesta i disturbi, i dissidj, ed i scandali ch’erano ivi avvenuti a causa delle pubbliche imposte. Ma erano questi i regali della feudalità.

Il Re Carlo II cessò di vivere nell’anno 1309, e gli succedè nel Regno il di lui figliuolo Roberto. Nel Repertorio generale delle carte Angioine si trova notato il seguente registro disperso. Terlitii et Rubi tenimentum et pascua communia anno 1310 et 1311 lit. A fol. 472. La esistenza di cotesto Registro sarebbe stata utilissima attese le continue ed interminabili molestie che la irrequietezza de’ Terlizzesi ha recate in ogni tempo alla nostra città a causa de’ confini del territorio rispettivo, essendo stati questi ultimi intenti sempre ad estendergli invadendo ed usurpando l’agro Ruvestino[184].

Nel dì 16 Giugno 1311 fu dal Re Roberto spedito il seguente privilegio a favore della Regina Sancia di Aragona sua consorte. Dichiarò con esso il Re ch’era di lei debitore de summa duo milium unciarum auri annui redditus assignandi dictæ Reginæ in civitate et bonis fiscalibus Regni nostri Siciliæ pro dote et dotario per nos sibi olim legitime constituto, necnon et certa provisione pecuniæ per nos annua sibi facta. Venne quindi per tal causa a darle ed assegnarle civitatem Rubi sitam in Justitiariatu Terræ Bari per contumaciam Galerami de Yuriaco ad manus nostræ Curiæ rationabiliter devolutam cum hominibus vassallis juribus et omnibus pertinentiis suis pro valore annuo unciarum auri ducentarum computando in dote, et dotario, et provisione jam dictis. Investientes ipsam per nostrum anulum præsentialiter de eadem ac volentes expresse quod ipsa per se et ministros suos praedictam civitatem Rubi habeat teneat et possideat pro præfato valore annuo etc.[185].

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La nostra città migliorò certamente la sua condizione coll’essere uscita dalle mani di Feudatarj che la opprimevano e scorticavano, e coll’essere passata sotto il governo di una Regina virtuosissima e religiosissima. Da un altro Registro dello stesso Re Roberto del dì 22 Febbrajo 1314 si viene a conoscere che fece la città suddetta le sue nuove Capitolazioni relativamente ai dazj comunali imposti a se stessa. Non si rileva dal detto Registro quali queste fossero state. È però a credersi che quella popolazione avendo cominciato a respirare sotto il governo assai più umano della Regina abbia migliorate e modificate quelle dell’anno 1308 innanzi trascritte le quali in verità erano durissime. Dal precitato Registro si conosce solo che il Re sanzionò le novelle Capitolazioni con dichiarazione espressa di doversi la Università di Ruvo obbligare di rifare alla Regia Corte ed alla Regina Sancia quel danno che agl’interessi fiscali, e della Regina suddetta sarebbe venuto a risultarne nella esecuzione di esse[186]. Il che conferma vie più la idea che dovevano coteste capitolazioni essere più vantaggiose per la popolazione suddetta.

Nel detto Repertorio generale sussiegue il seguente notamento: Sancia Regina habet confirmationem infrascriptarum Terrarum ab omni feudali servitio liberarum, videlicet Rubi etc. 1316 lit. B fol. 316. Il Registro esiste, ma è mutilato, e manca il foglio citato con moltissimi altri per le vicende innanzi espresse. Vi è anche nel detto Repertorio il seguente notamento di altro Registro disperso: Rubi Terra in dominio Reginæ Sanciæ 1336 et 1337 lit. B fol. 14. Cotesto notamento ci fa apprendere che fino all’anno 1337 la nostra città continuava ad essere posseduta dalla Regina suddetta, giacchè da altro Registro che sarà or ora riportato si rileva che fu la stessa dalla Regina venduta al Conte di Terlizzi, il che non potè aver luogo che dopo l’anno 1337.

Il saggio Re Roberto cessò di vivere nel dì 20 Gennajo 1343, non già dell’anno 1342 come taluni han creduto. Col suo testamento del dì 16 del detto mese lasciò Balia del Regno la detta Regina Sancia di Aragona sua consorte. Vedendo ella però che colla morte del suo ottimo marito la sua splendida Corte era caduta nella confusione, [a146] ed anche perchè era infastidita del Mondo, andò a rinchiudersi nel Monistero di S. Croce da lei medesima edificato, dove appena finito l’anno morì con grandissima fama di santità[187].

Aveva Roberto per vedute politiche conchiuso il matrimonio tra Giovanna sua Nipote che andava a succedergli nel Regno, ed Andrea figliuolo di Carlo Re d’Ungheria suo congiunto, il quale aveva preso perciò il titolo di Duca di Calabria. Fu questo però un nodo stretto con tristissimi auspicj. Il giovane Andrea per se stesso di poca levatura conversando solo con un Frate ed altri Ungari quì rimasti presso di lui, non potè dirozzarsi. Si rese quindi pesantissimo alla Regina sua consorte allevata con altra coltura alla Corte del Re Roberto. Giovanna dunque o s’infastidì di lui, o con soverchia facilità diè ascolto alle suggestioni di uomini perversi che sventuratamente fomentavano vie più la discordia tra i due sposi. Mentre Andrea andava ad assumere il titolo di Re, e con esso quel potere che gli era annesso, avvenne che essendosi portato colla Regina a diporto in Aversa fu una notte strangolato e gittato dagli esecutori dell’orribile misfatto ignominiosamente per una finestra.

Molto grave fu il sospetto della intelligenza della Regina nell’assassinio del suo sventurato marito, che attirò in seguito sulla nostra povera città una terribile calamità. Mi piacerebbe che coloro i quali si sono sforzati di discolparnela vi fossero riusciti. Ma prescindendo dagli Storici del Regno che le imputano questa colpa, mi fa molto peso ciò che leggo in uno Scrittore sensatissimo, e non uso a malignare altrui, qual è Muratori. Fuere qui Joannam de hujusmodi crimine purgare conati sunt, sed illi judicio meo Æthiopem lavandum et dealbandum suscepere[188].

Si aprì intanto una inquisizione contro coloro che avevano avuta parte o reità nella morte del Re Andrea. Non potè la Regina da ciò dissentire. Il Gran Giustiziere del Regno Bertrando del Balzo Conte [a147] di Montescaglioso e di Andria, avendo trovato colpevole Gazzone de Denysiaco Conte di Terlizzi e Gran Maresciallo, lo fece arrestare, con esser stato indi costui condannato a morte e giustiziato con altri complici dello stesso misfatto. Da un Registro dunque della detta Giovanna I del dì 24 Ottobre 1346 si rileva ciò che siegue. Si dice che la Regina Sancia aveva venduta la città di Ruvo con Regio assenso al detto Conte di Terlizzi. Non si dice l’epoca del contratto, ma ho innanzi osservato che dovè ciò seguire dopo l’anno 1337. Si soggiugne che essendo stato il Conte di Terlizzi arrestato e sommesso ad un processo capitale gli erano stati sequestrati anche tutti i beni tra i quali la città di Ruvo.

Che la di lui moglie Margherita Pipina era ricorsa alla Regina ed aveva esposto che per patto espresso stipulato nel contratto passato colla Regina Sancia si era dichiarato che le rendite della detta città di Ruvo avrebbe dovuto ella goderle durante sua vita, e dopo sua morte sarebbe passato quel feudo agli eredi del marito. Che quindi doveva la città suddetta rimanere esclusa dal sequestro e darsi a lei per godersela durante sua vita. Che la Regina aveva fatto esaminare l’affare a Matteo de Porta de Salerno milite; et Joanne Siripandi de Neapoli Juris Civilis Professoribus Magnæ Curiæ nostræ Magistris Rationalibus, e costoro erano stati di avviso che la dimanda della detta Pipina era ben fondata.

Che seguita la condanna e la morte del Conte di Terlizzi aveva la Regina sommessa la dimanda suddetta al novello esame di un Consiglio composto dai suddetti de Porta e Siripandi, da altri Giureconsulti, e dagli Avvocati e Proccuratori Fiscali. Che cotesti Signori erano stati concordi nell’opinare che la dimanda di Margherita Pipina era ben giustificata, e quindi doveva ella godere le rendite della città di Ruvo durante sua vita[189]. Dopo ciò la Regina venne ad ordinare che si fosse [a148] tolto il sequestro, e dato alla ricorrente il possesso della città suddetta durante sua vita sotto l’obbligo della fedeltà e del feudale servizio, e colla condizione espressa di doversi ne’ Regj Quaternioni registrare tra due mesi la grazia ottenuta a pena di decadenza[190].

Intanto il Re d’Ungheria Lodovico fratello di Andrea essendo stato pienamente informato di quanto era quì avvenuto, ne rimase fortemente commosso ed irritato. Fremendo di sdegno venne in Italia nell’anno 1347 con poderoso esercito, per vendicare la morte di suo fratello, ed entrò ostilmente nel Regno. Mancava alla Regina il coraggio e la forza di resistergli. Vedeva inoltre che le Popolazioni del Regno non erano disposte a levarsi in armi in sua difesa, perchè fortemente prevenute della di lei intelligenza nella morte del marito. Il miglior partito quindi che seppe prendere fu quello di abbandonare il Regno ed andarsene ne’ suoi Stati di Provenza. Il Re d’Ungheria quindi entrò nel Regno senza resistenza, prese aspra ma giusta vendetta di coloro che avevano avuta parte nell’assassinio di suo fratello, e dopo aver sommesso tutto il Regno alla sua dominazione, se ne ritornò in Ungheria.

Saputosi ciò dalla profuga Regina cominciò a prendere coraggio ed a trattare coi suoi aderenti quì lasciati circa i mezzi di ricuperare il perduto Regno. Animata dalle loro promesse non tardò a presentarsi quì ella medesima con dieci galee che le riuscì di armare. Fu ben accolta dai Napolitani che mal soffrivano gli Ungari. La sua presenza infervorò il suo partito. Molte città ritornarono spontaneamente alla di lei ubbidienza. Altre città che si mantennero fedeli al Re d’Ungheria venivano man mano sommesse colla forza delle armi. Gli affari del Re d’Ungheria andavano quì assai male, il che l’obbligò a ritornare di nuovo nel Regno nell’anno 1350.

Gli avvenimenti seguiti in quel tempo nella Puglia si trovano descritti in un libro intitolato: Dominici de Gravina Chronicon de Rebus in Apulia gestis. Dobbiamo cotesta istoria alla indefessa diligenza del Muratori che riuscì ad averne una copia dall’unico Codice di essa che si conserva nella Biblioteca Cesarea di Vienna accresciuta vie più di manoscritti [a149] dalle cure dell’Imperatore Carlo VI. Manca però il Codice suddetto del suo principio, ove si parlava anche de’ fatti del Re Roberto, e della sua fine ove parlar si doveva dell’esito della guerra suddetta dopo la seconda venuta del Re Lodovico nell’anno 1350.

La detta breve istoria fu scritta da un Notajo di Gravina detta perciò Dominici de Gravina Chronicon. Avendo ei seguite le parti del Re d’Ungheria, e mantenuta per quanto potè la città di Gravina coi suoi amici ed aderenti sotto la di lui dipendenza, fu ciò cagione di tutte le sue sventure che da Notajo lo fecero divenir soldato. Il Muratori fa conto di questa Cronaca, perchè si vedono in essa riportati i fatti con ingenuità e schiettezza.

Dice dunque l’autore di essa che nella Provincia di Basilicata limitrofa colla Terra di Bari erano alla testa del partito e delle armi della Regina Roberto e ’l suo Nipote Ruggiero Sanseverino Conte di Tricarico e di Chiaromonte: che radunavano molta gente d’armi e che dipendeva da essi anche una numerosa schiera di Malandrini, i quali son sempre pronti ad insorgere nelle guerre di partito ove vi è da far bottino. La famiglia Sanseverino trattata dappoi con tanta crudeltà dal Re Ferdinando I di Aragona apparteneva ai detti Roberto e Ruggiero. Come variano le cose del Mondo!

Narra dunque lo Scrittore Gravinese che essendosi saputo che i già detti due Capi avevano la intenzione di attaccare la città di Gravina, ei si recò a Barletta ad Dominum Vayvodam, cioè al Comandante Ungaro lasciato dal Re Lodovico, onde ottenere un soccorso di soldati. Soggiugne indi: Tardavit autem talis succursus per dies et dies me remanente cum eis. Finaliter nuntiatum fuit dicto Domino quod civitas Rubi et castrum Terlicii, quæ, et quod erant donata præfato Domino Joanni Chucz Ungaro, per dictum Robertum de Sancto Severino erant penitus dissipanda eo quod licet civitas Rubi pro dicto Domino se teneret, tamen castrum Rubi fortissimum pro dicto Domino Roberto viriliter tenebatur, et cum hominibus civitatis continue prœliabatur[191].

Passa poi a dire che i detti due Capi essendosi con tutte le loro [a150] forze avvicinati alla città di Gravina, ove vi era un partito interno che gli favoriva, fu egli obbligato a fuggirsene con una porzione de’ suoi compagni ed aderenti che a lui si unirono. Che nella loro assenza i Partigiani de’ Sanseverino persuasero il Popolo a non far loro alcuna resistenza ed accogliergli nella città da amici. Che si trattennero quindi ivi dieci giorni colla loro gente. Ma non perciò furono i Gravinesi esenti dalle uccisioni, dalle depredazioni ed estorsioni, dalle carcerazioni, dalle confische, dai maltrattamenti e dalle violenze usate da quella pessima gente alle donne le più belle. Indi passa al seguente spiacevolissimo racconto. Amoverunt inde dictum exercitum et versus Rubum militavit audacter. Erat autem castrum Rubi fortissimum sua gente munitum. Civitas vero non, sed pro Hungaris tenebatur etiam et terra Terlicii. Ad quod dum nocte pervenisset, dato signo termini custodibus dicti Castri sui adventus, subito super Rubenses cives crudeliter irruerunt. Erat autem civitas Rubi civitas fertilis, et in ea viri nobiles, divites, et prudentes. Tamen in tali minime eis profuit prudentia, quia terram murare modo debito contemserunt, præcipue versus castrum, quod inimicum habebant. Sed quod nostro reatu permissum est desuper, nulla valet prudentia, quia sic permissum fuit a Deo, ut per mortem dicti Regis Andreæ, et unius mulieris terminum, universi Regnicolæ miseri diversis periculis vexarentur. Sic placuit sibi, ut oculi omnium salutem propriam non viderent, quin diversis delictis nostris omnes multifarie puniremur. Ut autem inimicus exercitus Rubum pervenit, mandavit idem dominus Robertus quod civitas ipsa Rubi penitus curreretur, et factum est. Totus idem exercitus in facie castri constitutus contra cives dictæ Terræ potenter insurgit, et viri Rubi potenter assistunt, et durante prœlio usque ad horam meridiei transactam, intra quod temporis spatium hinc inde plurimi perierunt; tandem cum plurimi cives Rubenses in salutem uxorum et filiorum intercederent potius, quam ad defensionem communem, cessit finaliter victoria Domino Roberto jam dicto, et violenter idem exercitus ingressus est civitatem. Fugiunt omnes cives per Terram illam, et extra, et vadunt hinc inde dispersi. O quam terribilis ululatus et planctus virorum, mulierum, et infantium puerorum generis utriusque! Capiuntur multi concives miseri et carceri ducti sunt pretio redimendi: plures in fuga gladio pereunt exercitus inimici et [a151] plurimæ mulieres, virgines præcipue tortoribus impiis capiuntur: et multæ quidem ex eis carnali vituperio adducuntur. Universa robba concivium miserorum in stragictiosam prædam distribuitur exercitus memorati. Ii autem qui castri carceri ducti fuerant, prædata universaliter dicta Terra, propter consecutum recessum exercitus, diversis tormentis exponuntur, et evulsione dentium compuniuntur quasi ad ultimam paupertatem. Igitur universa ipsa civitate prædata et consumta, castrum ipsum et campanile potenter muniri præcepit, et annonas plurimas in eis immitti, opportunos stipendiarios immittens in eisdem fortelitiis campanilis et castri. Retulerunt mihi viri cives Guaranioni quod tota robba civitatis ipsius per ipsum casale ad partes Basilicatæ transivit animalium, et rerum mobilium sine fine.

Demum civitate ipsa penitus consumta et destructa, idem dominus Robertus suum inde removit exercitum et ad Terram Terlicii, in qua Hungari septem morabantur in castro cum modicis aliis familiaribus custodientibus Terram ipsam pro parte et nomine Domini Johannis Chuez sæpe dicti, cum eodem suo exercitu Terlicium ipsum potenter obsedit etc. Ma i Terlizzesi non opposero veruna resistenza[192].

Cosa avrebbero potuto far di peggio i Vandali, gli Unni o i Saraceni? A tal modo Roberto e Ruggiero Sanseverino sommettevano le città del proprio Paese in nome di una Regina, la quale non era certamente crudele ed inumana, e niuna ragione inoltre aveva di trattare i Ruvestini con tanta barbarie? Le città che si trovavano sotto la dominazione del Re d’Ungheria non erano allo stesso passate per propria elezione. Erano state bensì obbligate a cedere a quella stessa forza, a cui la Regina suddetta aveva ceduto. Lo avevano anzi fatto per di lei ordine espresso.

Ci fa sapere la Storia che quando ella non avendo forza ad opporre al Re di Ungheria si determinò ad abbandonare il Regno, convocò prima un Parlamento generale, al quale furono chiamati tutti i Baroni, i Sindaci di tutte le città del Regno, ed i Governanti della città di Napoli. In quel Parlamento essa medesima colla propria bocca dichiarò a tutti che non voleva affatto che i suoi sudditi avessero opposta [a152] resistenza al Re d’Ungheria, ed avessero richiamate su di loro maggiori calamità coll’irritarlo. Gli assolvè quindi dal giuramento a lei prestato, ed ordinò che si fossero a lui presentate le chiavi delle città e dei castelli, senz’attendersi la intimazione dell’Araldo o del Trombetta[193]. Questo tratto le fece molto onore, ed è degno in vero di somma laude.

Cuopre però di eterno obbrobrio la memoria di Roberto e di Ruggiero Sanseverino che sotto gli occhi proprj fecero commettere tanti eccessi e tante laidezze dalla rapacissima masnada da essi arrolata a danno di una città, la quale aveva serbata al Re di Ungheria quella fede che gli aveva giurata dietro il permesso, anzi dietro il comando della stessa Regina. Se il di costoro operato peccò della massima iniquità, mancò anche di Politica.

Era in questo affare d’ammirarsi per un lato il coraggio de’ Ruvestini. Mentre mancavano le opportune fortificazioni, e si trovavano stretti tra le numerose masse nemiche, e la guarnigione di quel fortissimo castello, si batterono essi valorosamente dall’alba fino a dopo il mezzodì con avere uccisi molti degli aggressori e coll’esserne caduti anche molti di loro. Nè sarebbero i primi entrati nella città se moltissimi de’ secondi trasportati dalla premura di rivedere le loro mogli ed i loro figliuoli non si fossero sconsigliatamente allontanati dal campo di battaglia.

Per altro lato la fedeltà da essi serbata al loro novello legittimo Sovrano non era men commendevole. Roberto e Ruggiero Sanseverino avrebbero dovuto valutarla e rispettarla. Cosa farne di quelli uomini i quali cangiano casacca come cangia il vento, che tengono per nulla la fede giurata e passano con indifferenza da una bandiera all’altra? Non avrebbe dovuto loro mancare il talento di capire che una Popolazione così ferma e così decisa rimessa di nuovo con umanità e dolcezza sotto la dominazione della Regina, sarebbe rimasta alla stessa riconoscente e fedele. Enimvero benignitate et clementia hostes vincere quam armis præstat: [a153] hic enim necessitate ut pareant homines inducuntur, illic voluntate[194].

Valga però il vero, non erano d’attendersi da que’ due Capi di partito questi nobili sentimenti. La fedeltà de’ Ruvestini era un rimprovero per essi che si erano resi ingrati e spergiuri. Ci fa sapere anche Domenico di Gravina che il primo de’ Sanseverineschi che si era presentato al Re d’Ungheria per prestargli omaggio era stato Ruggiero Sanseverino Arcivescovo di Salerno che fu dal Re onorato della luminosa carica di suo Consigliere e Protonotario del Regno. Roberto e Ruggiero Sanseverino Conte di Tricarico animati dal favorevole incontro del loro stretto congiunto, si presentarono anch’essi, furono dal Re molto graziosamente accolti, e gli prestarono il giuramento di fedeltà[195]. Essendo però stati tra i primi che lo violarono, non potevano certamente valutare in altri quel sentimento che avevano essi calpestato.

Pagarono però ben presto il fio delle iniquità commesse a danno della nostra città. Richiamati dalla Basilicata in Napoli, ove le forze degli Ungari si erano concentrate, nella battaglia che fu da questi ultimi guadagnata nelle vicinanze di Aversa, rimasero entrambi prigionieri di guerra. Il Comandante Ungaro era nel fermo proponimento di spedirgli al Re incatenati in Ungheria, onde avessero pagata colla testa la loro ribellione. Ma non potè menare ad effetto questo suo proponimento per la seguente circostanza.

Serviva nella sua armata come ausiliario un Corpo di Tedeschi ch’era in ritardo di soldi. Essi quindi pretesero di cuoprirsi in parte del loro avere col riscatto che avrebbero ritratto da Roberto e Ruggiero Sanseverino, e da Raimondo del Balzo Cavaliere molto distinto rimasto anche prigioniero nello stesso conflitto. Dopo lungo dibattimento il detto Comandante Ungaro che non aveva pronto il danaro per pagare i soldi arretrati, dovè cedere all’impero della necessità e lasciare i prigionieri suddetti a disposizione de’ Tedeschi. Capitarono però essi in cattive mani.

Gli Alemanni per obbligargli ad un forte riscatto diedero loro una [a154] crudelissima tortura. Avendogli distesi nudi sulla terra calpestavano loro la pancia a forza di calci, ed indi flagellavano ed insanguinavano le membra con bacchette infocate ed ardenti. Dal che rimasti semivivi furono costretti a riscattarsi col pagamento di trentatremila fiorini per ciascuno. Il Comandante Ungaro nel licenziargli gli mortificò ed umiliò col seguente rimprovero: Licet sacramentum vestrum nullius sit fidei, quum alias in manibus Domini nostri Regis juraveritis esse sibi fideles, quo meremini decollari propter jusjurandum confractum et proditionem per vos commissam, quare in prœlio vestra proditio vos præcipitavit ab equis, iteratum peto vos in manibus nostris sacramentum præstare jurantes quod amodo Domino nostro Regi fideles eritis, non rebelles. Furono quindi costretti a prestar di nuovo il giuramento di fedeltà sul Santo Vangelo[196]. Grande umiliazione pe ’l loro orgoglio!

Da ciò che disse Domenico di Gravina nel luogo innanzi trascritto risulta che Roberto Sanseverino per comprimere vie più il coraggio de’ Ruvestini, non contento di aver accresciuta la guarnigione del castello, fece anche occupare da altri soldati il campanile con buona provigione di viveri. Cotesto antichissimo campanile vi è tuttavia, e resiste ancora ai secoli, tutto che colpito dal fulmine, e privato della sua cupola. Consiste lo stesso in una torre quadrata altissima formata tanto nella parte esterna quanto nella parte interna di pietre quadrate ben lavorate e ben connesse tra loro. Li suoi finestroni sono ornati di pietre ben lavorate e scorniciate. Sorge la torre suddetta sul lato sinistro di quella Cattedrale vicino al Coro, ed ha sottoposto anche il Palazzo Vescovile ch’è alle spalle tanto della Chiesa che del campanile. A dire il vero però non credo un vantaggio per me che anche la mia casa paterna sta poco lungi dal campanile suddetto.

La Chiesa Cattedrale della nostra città ha le mura esterne formate anche di pietre quadrate simili a quelle del campanile. La prospettiva di essa di struttura Gotica è magnifica e ricca di belli e vistosi ornati. Nella porta principale del tempio si entra per sotto un arco Gotico egregiamente lavorato e poggiato su di due colonne sostenute da due [a155] leoni, dei quali uno è rotto. Sui capitelli delle colonne vi sono due grifi. Al di sopra della porta suddetta ad una proporzionata altezza vi è un gran finestrone di figura sferica bene scorniciato ed ornato nel mezzo di lavori Gotici non ordinarj e molto curiosi. Nelle mura laterali della Chiesa si vedono altri ornati Gotici con teste anche di animali.

De’ molti Esteri che capitano in Ruvo pe ’l gusto delle antichità ve ne sono stati alcuni, i quali hanno levato il disegno della prospettiva suddetta. Tanto la Chiesa che il campanile sono di epoca antichissima. Manca però qualunque memoria che possa indicarla con precisione. Debbono cotesti due edificj credersi edificati contemporaneamente, attesa la conformità della fabbrica, la quale sembra anteriore all’epoca de’ Normanni[197].

Seguita a dire Domenico di Gravina che il precitato campanile di Ruvo fortificato anche, come innanzi si è detto, da Roberto Sanseverino fu ripigliato a forza di maneggi adoperati col Comandante della guarnigione in esso lasciata da Filippo de Sulz per sopranome Malispiritus Comandante Ungaro della città di Andria. Che il Palatino di Altamura, il quale seguiva anche le parti della Regina tentò ritorlo agli Ungari e lo attaccò per due giorni continui. Ma non potè riuscirvi, perchè i soldati della guarnigione del castello non vollero dargli ajuto a motivo che Roberto Sanseverino da cui essi dipendevano non era amico del Palatino suddetto[198].

[a156]

Cosa sia dopo avvenuto in Ruvo s’ignora perfettamente, perchè la Cronaca di Domenico di Gravina manca della sua conchiusione. Sappiamo bensì dalla Storia che il Re Lodovico nell’anno 1350 se ne ritornò di nuovo nell’Ungheria con aver lasciati i presidj in quelle città che si tenevano ancora per lui. S’interpose dopo ciò Papa Clemente per farlo rappaciare colla Regina. Trovò però in lui da principio la massima durezza. Ma finalmente riuscì a combinar la pace, e ne fu segnato il trattato nel mese di Aprile dell’anno 1351. Aveva il Papa condannata la Regina a pagargli trecentomila fiorini per le spese della guerra. Ma il Re nobilmente gli rifiutò dicendo ch’ei non era quì venuto per ambizione, o per avarizia, ma unicamente per vendicare la morte di suo fratello, ed avendo fatto quanto gli era sembrato conveniente non cercava altro[199].

Dalle cose dette innanzi risulta che la nostra città nell’anno 1346 rimase conceduta in feudo durante la di lei vita a Margherita Pipina vedova del Conte di Terlizzi che morì giustiziato. Non si conosce quando la detta Pipina abbia cessato di possederla. Si sa però dalla Cronaca di Domenico di Gravina di sopra riportata che Lodovico Re d’Ungheria la concedè in feudo a Giovanni Chucz Ungaro valoroso e riputato guerriero con lui venuto nel Regno, pag. 149.

Da ciò che in seguito è passato a dire nel luogo innanzi trascritto lo stesso Cronista pare che possa inferirsi che anche la Regina dal suo canto abbia conceduta la nostra città a Roberto Sanseverino, poichè si esprime così: Licet civitas Rubi pro dicto Domino (Giovanni Chucz) se teneret, tamen castrum Rubi fortissimum pro dicto Domino Roberto tenebatur. Espressioni le quali pare che importino di esserne egli divenuto contemporaneamente concessionario. Di tal concessione però niun cenno s’incontra ne’ pubblici Registri che abbiamo di quell’epoca. Andiamo dunque innanzi ai registri posteriori.

Il Re Ladislao con suo diploma del dì 16 Agosto 1387 disse che il Re Carlo III suo genitore aveva conceduto l’utile dominio Civitatis [a157] Rubi et Terræ Terlitii viro Nobili Villanucio de Vrunforti militi consiliario et fideli nostro dilecto dum vixit. Ch’essendo morto costui senza successori in grado, li feudi suddetti erano rimasti devoluti alla Corona. Venne quindi a farne una novella concessione viris nobilibus Antonio de Sancto Angelo dicto Ungari, et Friderico de Vrunforti nepotibus quondam Villanucii prædicti, e ciò in considerazione degl’importanti servigj resi da entrambi specialmente nella guerra tanto a se che al fu suo genitore.

Tal concessione si vede fatta con dichiarazione espressa che ove uno di essi fosse morto senza figliuoli, l’altro superstite fosse succeduto nella di lui porzione, e che tal concessione si doveva intendere fatta con tutte le clausole contenute nelle concessioni precedenti de’ feudi suddetti. Si riserbò inoltre il Re tutti i dritti di Sovranità e ’l feudale servizio, al quale i concessionarj erano tenuti[200].

Nel dì 26 Aprile 1404 lo stesso Re Ladislao scrisse al detto Federico de Vrunforti Comiti Vigiliarum Consiliario et fideli nostro dilecto una lettera ben curiosa. Cominciò dal porre in essa in veduta il dovere che hanno i Sovrani di amar la giustizia, di farla bene amministrare, e d’impedire gli eccessi di coloro che l’amministrano. Passò indi a dolersi che i Giustizieri che amministravano la giustizia nel suo nome nelle Provincie di questo Regno, in vece di reggere bene i suoi sudditi, quærentes vias tortuosas sub prætextu et occasione cultus justitiæ in puniendis delictis, extorsiones et exactiones commiserunt illicitas, et committunt profecto nostris sensibus odiosas.

Non si mostrò meglio contento de’ Giustizieri della Terra di Bari e di Principato citra, in qua quidem Provincia Terræ Bari tu tenes et possides immediate et in capite a nostra Curia dictam Civitatem Vigiliarum in feudum cum titulo Comitatus civitatis ejusdem, et civitatem Rubi, et Terram Terlitii sub certo feudali servitio, seu adoha per te ipsi Curiæ nostræ præstanda; necnon et utique Balius et Baliatico nomine et pro parte magnifici adolescentuli Marini Antonii Comitis Sarni filii quondam Viri magnifici Antonii de Sancto Angelo dicti Ungari, civitatem Sarni de dicta Provincia Principatus citra.

[a158]

Soggiunse che i detti Regj Ufficiali aggravaverunt et aggravant vassallos nostros, eosque traxerunt et trahunt per loca remota, et vexando inquietando et molestando, donec se redimant ab eisdem, adeo quod sub colore exercitii ipsius justitiæ, avide deprimunt ipsos fideles nostros, omnem ipsorum substantiam sitientes, et pariter absorbentes. Quindi per tali considerazioni e per esimere da tali vessazioni le città possedute dal detto Federico, venne il Re a concedergli la Giurisdizione civile e criminale per Bisceglia Ruvo e Terlizzi durante la sua vita, e per Sarno, e suoi casali durante il Baliato di Marino Antonio Santangelo di età tuttavia minore. N’eccettuò solo le cause di omicidio che rimasero sotto la giurisdizione ordinaria[201].

Ho detto innanzi di esser questa una lettera ben curiosa del Re Ladislao, poichè nel leggerla pare che gli fosse mancato il potere di rimuovere delle cariche que’ Magistrati, de’ quali sì altamente, e sì giustamente vituperava la condotta, e che abusavano a tal modo della loro autorità, e della sua fiducia! Sventuratamente però non è stato questo nè il primo, nè l’ultimo esempio di sì fatte inconcepibili anomalie, le quali hanno fatto sovente nel Mondo andare a galla i bricconi. Non si conosce affatto fino a qual tempo la Famiglia Vrunforti abbia posseduta la città di Ruvo.

Nel Repertorio generale de’ fascicoli al fol. 183 vi è il seguente altro notamento: Carolo Ruffo militi Regni Siciliæ Magistro Justitiario concessio Terrarum Terlitii et Rubi f. 127. Mancando però il fascicolo, non si conosce l’epoca di tal concessione.

Sono questi i Registri Angioini da me riscontrati nel Grande Archivio. Non manco d’incaricarmi che il nostro Scrittore Scipione Mazzella dice che Gio: Antonio Orsino figlio di Raimondo Principe di Taranto al tempo della Regina Giovanna II unì a quel Principato anche la città di Ruvo[202]. Il che sarà meglio dilucidato, coi Registri Aragonesi che anderò a riportare nel Capo seguente.

[a159]

DIGRESSIONE Sull’antico Castello di Ruvo.

Domenico di Gravina nella precitata sua Cronaca ha detto e replicato che castrum Rubi erat castrum fortissimum. Non è quindi fuori di proposito darne di esso un cenno. Cotesto antico edificio è quello stesso che ai tempi nostri era divenuto il Palagio Baronale e portava il nome di Palazzo del Castello. È lo stesso edificato su di un rialto adiacente all’antica porta della città che guardava l’occidente sulla strada de’ Cappuccini denominata Porta del Castello ora abbattuta come tutte le altre. Dalla parte della città è l’edificio suddetto preceduto da uno spianato detto largo del Castello o di S. Rocco per la Chiesa che vi è di quel Santo Protettore della città suddetta.

Dal detto lato della città le sue mura guardano l’oriente e ’l mezzodì. Sono altissime e solidissime formate di pietre quadrate ben lavorate simili a quelle della Cattedrale e del campanile. Dal lato poi della campagna guardano l’occidente e ’l settentrione, e sono della medesima altezza solidità e struttura. Questi due lati inoltre sono difesi da una cinta di fortificazioni esterne distaccate dal corpo del castello ed avanzate. Tra l’uno e l’altra pare che sia interceduto un fossato, o un pomerio ridotto ne’ tempi posteriori a giardino.

Consistono le dette esterne fortificazioni in una muraglia ben solida munita al di fuori di una fortissima scarpa che tuttavia esiste in gran parte. È questa formata da un grosso terrapieno appoggiato da giù in su alla muraglia istessa, e vestito al di fuori di una selciata ben forte e ben connessa. Cotesta fortificazione porta oggi tuttavia il nome di scarpetta, e lo spianato esterno alla stessa adiacente è chiamato anche largo della scarpetta.

A pochi passi dal detto castello contro il lato meridionale di esso tra il castello istesso e l’antica porta della città di cui testè si è parlato, sorge una torre altissima, e ben grande di figura rotonda. La porta d’ingresso di essa è dal lato del castello. Sono le sue mura di una straordinaria doppiezza. Dalla parte esterna sono formate di pietre [a160] semplici di discretissima grossezza; ma nella parte interna vi sono pezzi di macigno ben grandi e ben connessi tra loro.

Ha la torre suddetta al di fuori un altra cinta di fortificazioni, la quale forma con essa un solo corpo. Consiste questa in un bastione che le gira intorno fino all’altezza del secondo piano, e la cinge per tutti i lati. La sua figura è poligona merlata al di sopra alla Gotica, il che le dà anche maggiore eleganza. Tra il corpo della torre, e ’l parapetto di cotesto bastione vi è un corridojo scoverto. Dava questo ai soldati il comodo di girare intorno, di appostarsi dietro i merli del bastione istesso, e di tirare dalle feritoje che in essi vi sono.

A piè di cotesto bastione vi era un ampio e profondo fossato che gli girava intorno ora ripianato; ma io me lo ricordo. Portava questo il nome di Rivellino, nome militare di fortificazione. Quindi nella rivela de’ corpi feudali fatta dal Duca d’Andria nel catasto della città di Ruvo dell’anno 1752, giusta i regolamenti allora in vigore, si vedono cotesti edificj rivelati nel modo che siegue. Il Castello, seu Palazzo Baronale, con sua torre antica con rivellino intorno.

Era la torre suddetta nella parte interna divisa in quattro piani. Il primo di essi lo forma quello spazio che intercede tra le sue fondamenta e ’l punto di quel corridojo scoverto che gira intorno al parapetto del bastione di cui innanzi ho parlato. Il piano suddetto era profondo, oscuro e senza lustriere di sorta alcuna, poichè l’apertura di esse la impediva il bastione che lo cinge per tutti i lati. Pare quindi che il piano suddetto non sia servito ad altro che per un magazzino della Guarnigione. Il secondo piano è al livello del già detto corridojo scoverto, col quale comunica per mezzo di una porta. Il primo piano dal secondo e ’l secondo dal terzo è diviso da volte di fabbrica fortissime formate con molta maestria. Nel centro di ciascuna di esse si vede lasciato un vano circolare di bastante ampiezza. È probabile che cotesti vani si siano lasciati ad oggetto di situarvi una scala a lumaca sia di fabbrica, sia di legno per la comunicazione interna tra un piano e l’altro.

Il terzo piano ha ora una considerevole altezza fino alla volta che chiude la sommità della Torre. Anticamente però vi era in quello spazio un altro piano intermedio formato a tavolato. Lo pruovano ciò chiaramente [a161] i buchi delle grosse travi che lo sostenevano rimasti nella muraglia. In cotesto piano vi è un forno formato nella grossezza di essa ed una porta di giusta altezza. Entrandosi in essa si trova sulla sinistra una scaletta formata anche nella grossezza del muro, per la quale si ascende alla sommità della torre. È questa scoverta e senza tetto. Il pavimento è formato di pietre quadrate ben lavorate, e ben connesse per dare lo scolo alle acque piovane. Vi sono intorno merli e balestriere.

Disfatto o crollato il tavolato intermedio che vi era una volta tra il terzo piano e la volta che cuopre la torre, non si può ora accedere altrimenti dalla parte interna alla detta scaletta che mena alla sommità di essa che congiugnendosi insieme due lunghe scale. Per chi non è uso a queste pruove non è la cosa senza un pericolo. Malgrado ciò la curiosità smaniosa che ho sempre avuta per le antichità patrie mi spinse mentre non aveva che l’età di undici anni ad indurre un maestro muratore ad appagare il mio imprudente desiderio di montare sulla torre suddetta col di lui ajuto. Mi è rimasta sempre impressa nella mente la stupenda ed estesissima veduta che di là si gode.

Non ometto in fine che nella torre suddetta si entrava, come innanzi ho detto, dal lato del castello mediante un ponte sovrapposto all’antico fossato o rivellino. Alla fine di esso sui lato sinistro accanto al corpo della torre si vede un fabbricato ora sdruscito, e rovinato dal tempo di figura circolare, il quale dal fondo del fossato si elevava fino al terzo piano della torre. Cotesto fabbricato non poteva esser altro che una gran cisterna costrutta per provvedere di acqua la Guarnigione.

Dalle cose premesse s’intende bene il perchè Domenico di Gravina il castello di Ruvo lo chiamò Castrum fortissimum, e nelle concessioni in feudo della nostra città si vede conceduta Civitas Ruborum cum suo castro, et fortellitio. Le fortificazioni di sopra descritte al tempo in cui non si era ancora inventata la polvere da cannone non erano certamente di facile espugnazione.

Non si conosce l’epoca della fondazione tanto del castello che della torre, poichè manca una notizia qualunque che possa indicarla. Nè si può dire tampoco con certezza se i due edificj siano stati costrutti contemporaneamente o in tempi diversi. La diversità della fabbrica dell’uno [a162] e dell’altro potrebbe forse costituire un argomento per credergli surti in tempi diversi. Ma l’una e l’altra costruzione è tanto antica che non si può decidere quale de’ predetti due edificj debba credersi anteriore. Non è però improbabile il dirsi che le fortificazioni predette in tutto o in parte vi fossero state al tempo di Ruggiero non meno per l’antichità ch’esse mostrano, ma anche perchè da ciò che si è detto nel capo precedente era Ruvo fin da quel tempo una città forte.

Non manco intanto di avvertire che nella parte esterna della torre suddetta da quel lato che guarda il mezzodì tra il secondo, e ’l terzo piano all’altezza di circa dodici palmi dal pavimento del corridojo scoverto che gira intorno al parapetto del bastione, vi è nel corpo della muraglia della torre incastrata una lapide lunga circa tre palmi e larga circa due palmi. Avendone fatto levare il modello, ho rilevato ch’è la stessa bene scorniciata. Nel mezzo vi sono scolpiti due scudi di uguale dimensione. Uno di essi ha il campo netto, e liscio. Nell’altro vi è un lione rizzato sui piedi di dietro che gioca le zampe, ha la lingua fuori della bocca, e la coda alzata e rivolta sulla schiena giusta la seguente figura

[a163]

Pareva sulle prime che avesse potuto cotesta lapide porgermi il filo per indagare l’epoca della costruzione della torre suddetta. Sono però rimasto nella stessa oscurità. Primieramente non è facile il decidere se la lapide anzidetta sia stata messa nella prima costruzione della torre, o aggiunta dopo. Comunque un abile maestro muratore incaricato di osservarla abbia assicurato che la muraglia non apparisce forzata, ciò però non esclude che abbia potuto essere incavata con tanta diligenza che non si apprenda in essa, dopo di esserne passati più secoli, veruna alterazione. Prescindendo da ciò, non è facile tampoco l’indovinare a chi possano appartenere le armi scolpite nella lapide suddetta. In quanto alle antiche famiglie nobili Napolitane li nostri Scrittori Scipione Mazzella nel suo libro intitolato Descrizione del Regno di Napoli, e Carlo Borrelli nel precitato suo libro intitolato Vindex Neapolitanæ Nobilitatis ci hanno fatto conoscere le armi ed insegne di moltissime di esse. Ve ne sono di queste alcune, specialmente de’ Caraccioli, che hanno il leone in quella stessa posizione in cui si vede nella nostra lapide.

È però ad osservarsi che le famiglie suddette hanno un solo scudo col lione e non già due, e che niuna di quelle famiglie che hanno nello scudo il lione ha posseduto in feudo la città di Ruvo. Il che si rileva anche dai precitati due Scrittori, i quali hanno riportati i nomi ed i titoli de’ feudi da esse posseduti, tra i quali non vi è Ruvo.

Ove poi le armi suddette volessero attribuirsi ad alcuno de’ Nobili Stranieri, ai quali la nostra città fu conceduta in feudo, in primo luogo non sono essi tutti conosciuti. In secondo luogo sarebbe questa una indagine astrusa inestricabile, e di niuna importanza. Quindi non attacco alla stessa quella idea che ho giustamente attaccata allo scuoprimento della origine della nostra città.

In mezzo a tanta oscurità se è permesso ad ognuno di proporre le sue conghietture, potrebbe darsi anche che fosse stato questo l’antico stemma della nostra città. Il lione ha potuto esser ritenuto o come un simbolo della sua fortezza, o in memoria del lione Nemeo che si vede nelle sue antiche monete. L’altro scudo netto e liscio potrebbe forse alludere alla vasta estensione del suo territorio. Del resto chiunque possa riuscire a dare della lapide suddetta una migliore spiegazione sarà da me applaudito di tutto cuore.

[a164]

CAPO IX. Notizie della città di Ruvo al tempo della Dinastia Aragonese.

Dai Registri del grande Archivio si rilevano i seguenti fatti. Nell’anno 1454 Donata del Balzo Orsini figliuola primogenita di Gabriele del Balzo Orsini Duca di Venosa, e figliuolo secondogenito di Ramondello del Balzo Orsini Principe di Taranto, espose al Re Alfonso Primo di Aragona che il suo defunto genitore aveva possedute le seguenti città e terre, cioè Venosa col titolo di Duca, Lavello, Lacedogna, Minervino, Ruvo e Vico co’ suoi casali nominati Castiello, S. Nicola e S. Suosso, Montelione, Laurenzana, Castello Vellotto, Flumari, Vallata, Guardia Lombarda, Pulcarino, Rocchetta Sancti Antonii, Carbonara, Monte acuto, Carpignano, li casali di Trentola, Lauriano e Capodrise col Territorio detto di Pietra Palomba Cum omnibus ipsarum civitatum, terrarum et locorum castris, seu fortellitiis, hominibus, vassallis, vassallorumque redditibus, mero, mixtoque imperio, et gladii potestate, Banco Justitiæ, et cognitione causarum civilium, criminalium et mixtarum, Bajulationibus et integro eorum statu.

Disse che i feudi suddetti a lei spettavano per la morte del suo genitore a titolo di legittima successione, e ne dimandò la investitura. Il detto Re Alfonso I con suo Privilegio del dì 1.º Giugno dell’anno suddetto le confermò li feudi di sopra enunciati pro se, suisque heredibus, et successoribus cum omnibus prædictis juribus et jurisdictionibus, prout melius et plenius tenuit, et possedit dictus quondam Gabrielius pater vigore suorum privilegiorum[203], tenenda omnia prædicta in feudum etc.[204].

[a165]

La detta Donata del Balzo Orsini prese per marito Pirro del Balzo Principe di Altamura, Conte di Monte Scaglioso e Gran Contestabile del Regno e gli portò in dote li feudi suddetti. Per tal ragione nelle carte Aragonesi e dai Scrittori della Materia Doganale il detto Pirro del Balzo si trova intitolato Duca di Venosa e di Minervino, e Conte di Ruvo. Ai conjugi suddetti il Re Ferdinando I di Aragona figliuolo di Alfonso nell’anno 1458 confermò li feudi che rispettivamente possedevano, tra i quali la città di Ruvo[205].

Isabella del Balzo fu figliuola del detto Pirro del Balzo e di Donata del Balzo Orsini. Ebb’ella per marito Federico di Aragona figliuolo secondogenito del Re Ferdinando I di Aragona. Per la morte de’ suoi genitori senza figliuoli maschi, tra gli altri feudi da lei ereditati vi fu anche la città di Ruvo. Fu per la nostra città sicuramente un vantaggio l’esser passata sotto la dominazione di un Principe distintissimo per le sue virtù e per la bontà de’ costumi. Ma ciò durò ben poco.

Divenuto Federico Re di Napoli nell’anno 1496, pressato forse dalle dolorose circostanze delle quali si parlerà nel seguente capo, vendè nell’anno 1499 la città suddetta a Galzarano de Requesens Conte di Trivento e di Avellino. Questo contratto non trovandosi registrato ne’ Regj Quinternioni, i notamenti ch’esistono nel Grande Archivio lo giustificano riportandosi ad un antico processo formato nella Regia Camera della Sommaria tra il Regio Fisco e ’l Duca d’Andria e Conte di Ruvo per l’assegnamento de’ fuochi della detta città, nel quale il privilegio suddetto erasi prodotto[206]. Bisogna ora dare un passo indietro per riportare i seguenti registri anche dell’epoca di cui sto ragionando.

Nel Repertorio de’ Registri Curiæ, nel Registro Licterarum Regiarum Primo dell’anno 1478 Cam. I Lettera S Scanzia 4 n. 5 fol. 42 a t. vi è la seguente notizia. Università di Curati, et Ruvo communità d’acqua et herba 1478 Rex Ferdinandus.

Nel detto Repertorio sotto il Registro Licterarum clausarum Curiæ [a166] IX dell’anno 1478 Cam. I lettera S Scanzia I n. 8 fol. 74 si legge Ruvo et Corato per l’acqua et herba comune.

Nel Repertorio de’ Registri Partium fol. 17 a t. sotto il Registro Partium XIX dell’anno 1479 Cam. 5 Lit. A Scanz. I n. 29 si legge Università di Quaratæ immunità per la fida d’animali in loro territorio, et communità di acqua et erba con l’Università di Rubo.

Li già detti tre Registri mancano; ma li trascritti notamenti rimasti ne’ repertorj bastano a pruovare di esservi stata un tempo comunità di acqua ed erba tra le due Popolazioni di Ruvo e di Corato. Lo conferma ciò anche il seguente Registro tuttavia esistente dello stesso anno 1479.

Giacomo Caracciolo utile Signore in quel tempo della terra di Quarata, e la università, ed uomini di essa esposero al detto Re Ferdinando che avendo dicta Terra, et Università et homini di quella comunità de acqua et herba con la Università et homini de la cità de Rubo, et quella se usano, et usase gran tempo, et l’uno con li altri pacifice secundo loro antiqua consuetudine, privilegj et capitoli mostrase, al presente per Cola Cometta de questa nostra Dohana le si vogliono innovare cosa non solita, nè seguita per gli altri Officiali de dicta nostra Dohana, dal che ne seguerea non poco danno et interesse a dicti exponenti. Unde de ciò ne hanno fatto supplicare vogliamo alla loro indempnità de opportuno rimedio provedere non se li debbia a dicti supplicanti innovare cosa alcuna in prejudicio de’ dicti loro capitoli, privilegj, et consuetudine, per lo dicto Cola, et altri Officiali de dicta Dohana in la dicta loro comunità de acqua et herba, ante lassarreli persistere et gaudere si come per lo passato avevano facto, et al presente fanno in dicta comunità.

Sussiegue il Rescritto del Re che si vede inserito alla lettera, col quale venne ordinato che nulla si fosse innovato contro la esposta comunione di acqua ed erba. In fine vi è una provvisione del Tribunale della Regia Camera della Sommaria del dì 12 Settembre 1479 colla quale fu ordinata la piena ed esatta esecuzione del precitato Real Rescritto[207].

[a167]

CONSIDERAZIONI Sulla comunità di acqua ed erba della città di Ruvo con Corato e Terlizzi.

Dal Registro del Re Roberto dell’anno 1310 e 1311 riportato innanzi alla pag. 144 si è veduto che tra Ruvo e Terlizzi vi era la stessa comunione di acqua ed erba. Perchè la nostra città è stata una volta in comunione colle due terre di Corato e di Terlizzi, e non già colle convicine città di Bitonto, di Altamura e di Gravina? Pare che la cosa si spieghi da se stessa. In quanto a Terlizzi ch’è alla distanza di due miglia da Ruvo, basta un solo colpo d’occhio di chiunque non voglia rinunziare al raziocinio per decidere di esser quella una novella Popolazione nata nell’antico estesissimo agro Ruvestino, e che quanto la stessa ha e possiede non può ripeterlo che dalla nostra città.

In quanto poi a Corato pare che non possa porsi tampoco in dubbio che sia surta del pari nel territorio di Ruvo, e che il terreno alla stessa assegnato dal Conte Pietro Normanno dal quale fu edificata sia stato ritagliato anche dall’agro Ruvestino. Si è innanzi dimostrato che dal lato occidentale era Ruvo l’ultima città della Peucezia, come Canosa era la prima città della Daunia che s’incontrava partendo da Ruvo. Queste due città erano tra loro confinanti, poichè tra l’una e l’altra non vi era veruna città intermedia, e quel Netium per lo quale si è fatto tanto rumore, l’ho dimostrato nel Capo I un nome meramente ideale.

Corato sta in mezzo tra Ruvo e Canosa, alla distanza però di tre in quattro miglia da Ruvo e di diciassette miglia da Canosa. A quale dunque delle dette due antiche città deve credersi che sia appartenuto quel suolo sul quale si trova Corato edificata? Il buon senso e ’l raziocinio naturale lo attribuisce alla città più vicina. Ma facendosi attenzione alla Geografia antica non è questa che una verità di fatto.

Si è dimostrato innanzi nel capo III che il territorio dell’antica Peucezia si estendeva fino alla foce dell’Ofanto, e che sulla riva dritta dell’Ofanto vi aveva la Daunia soltanto la città di Canosa e ’l villaggio di Canne sito nel campo di Diomede reso famoso dalla sanguinosa sconfitta [a168] de’ Romani. È facile da ciò l’intendere che l’agro Canosino dal lato della Peucezia non poteva, e non doveva essere molto esteso, altrimenti come avrebbe potuto verificarsi che i confini di essa si estendevano fino all’Ofanto? La città di Canosa sta sull’Ofanto.

Il forte dunque dell’agro Canosino esser doveva sulla sinistra dell’Ofanto, ove dopo Canosa s’incontrava l’altra antica città chiamata Herdonia, di cui si vedono oggi soltanto gli avanzi, poco lungi dai quali è surto il meschino villaggio che porta il nome di Ordona. Tra Canosa ed Erdonia non vi era altra città intermedia, poichè Cerignola che ora sta tra Canosa ed Ordona è una città novella.

Or tra Canosa ed Erdonia secondo l’itinerario di Antonino vi era la distanza di venticinque miglia, e secondo l’itinerario Gerosolimitano di ventisei miglia. Da quel lato dunque ch’era estesissimo innoltrar si doveva l’antico agro Canosino, e dal lato della Peucezia non poteva esser maggiore di quello che lo è al presente, nè si può credere mai che si fosse esteso fin sotto le mura di Ruvo ove fu edificata Corato.

Dal che ne discende che Corato deve per necessità credersi edificata nell’agro Ruvestino, e che da questo sia stata risegata quella dotazione di terreno che fu alla stessa assegnata. Per le premesse osservazioni pare che debba dirsi lo stesso anche pe ’l territorio di Andria, almeno per quella parte di esso ch’è dal lato di Ruvo, giacchè dal lato del Garagnone col quale Andria è confinante, è molto probabile che vada oggi inclusa nel suo territorio una buona porzione di quello che apparteneva all’antica città denominata Silvium, di cui ho lungamente parlato nel Capo III, ed ho dimostrato che quell’antica città era nel sito preciso, ove oggi sta il castello del Garagnone.

In fatti nella parte estrema delle murge di Ruvo vi è un trifinio che mette in contatto il territorio di Ruvo quello del Garagnone e quello di Andria; il che rende probabile che cotesta novella città edificata al tempo de’ Normanni abbia presa una porzione del suo territorio anche dall’antico agro Silvino, detto oggi Garagnone. Cotesto trifinio è segnato con tre termini lapidei nella parte estrema delle murge di Ruvo nel sito chiamato Taverna nuova e Giuncata di cui parlerò in seguito.

Ritornando ora a quella promiscuità di acqua e di erba in cui la città di Ruvo era un tempo con Corato e Terlizzi, osservo che simili [a169] promiscuità contratte tra due popolazioni tra loro confinanti sono sempre partite dal calcolo della reciproca utilità, e dalla uguaglianza del comodo rispettivo che sarebbe venuto a risultarne. Tale avrebbe potuto essere la promiscuità che la nostra città avesse per avventura contratta colla città di Bitonto, Altamura o Gravina provvedute del pari di un esteso territorio. Ma quale utilità avrebbe potuto ritrarre dal porre il suo vasto territorio in comunione con Terlizzi e Corato?

Non aveva la prima, come non ha ora tampoco che un territorio ristrettissimo, il quale non era fornito di altro pascolo, meno che del picciolo bosco denominato Parco di Terlizzi ora ridotto a coltura. Rimpetto al vasto territorio di Ruvo non era questo che un punto matematico. Rispetto poi a Corato ha la stessa un territorio più ampio di quello di Terlizzi, ed è provveduta anche di paschi più estesi; ma non paragonabili affatto a quelli dell’agro Ruvestino. È chiaro quindi per se stesso che la promiscuità suddetta non la dettò l’interesse, poichè nulla vi era in essa a guadagnare per la città di Ruvo, ed in tutti i tempi i Coratini ed i Terlizzesi hanno avuto bisogno del territorio di Ruvo, non mai i Ruvestini di quello di Corato e di Terlizzi.

Tale comunione quindi la dettò unicamente la benevolenza, l’affezione e l’affinità de’ Ruvestini colle due novelle Popolazioni surte nel loro territorio, e formate probabilmente almeno in parte dai loro concittadini che andarono a stabilirsi a Corato ed a Terlizzi. È perciò che nell’ultimo Registro Aragonese dell’anno 1779 testè trascritto la Università ed Uomini di Corato dicevano che tal promiscuità la stavano godendo in forza di antiqua consuetudine privilegj e capitoli.

Le parole privilegj e capitoli nel nostro antico linguaggio legale valgono lo stesso che concessione. Capitoli e Privilegj sono denominate le grazie accordate dai nostri passati Sovrani alla città di Napoli ed a tutto il Regno. Ond’è che la stessa Università di Corato colla sua dimanda innanzi trascritta venne ingenuamente a dichiarare che la promiscuità suddetta la ripeteva da una concessione della città di Ruvo.

Cotesta promiscuità non vi è più da un tempo che sorpassa ogni memoria. Dovè rimanere disciolta per giusti motivi che s’ignorano. Essendovi stata però una volta, e formando parte della storia della nostra città, era regolare indagare i motivi che la suggerirono.

[a170]

CAPO X. Notizie relative alla città di Ruvo dall’epoca di Ferdinando il Cattolico fino a quella dell’attuale Dinastia Regnante.

Per farmi strada a riportare i fatti relativi alla nostra città avvenuti nel principio del secolo XVI è indispensabile raccapitolare la storia della caduta della Dinastia Aragonese, e del modo in cui passò questo Regno a Ferdinando il Cattolico. Morto il Re Ferdinando I di Aragona nel dì 25 Gennajo 1494 gli succedè nel Regno il di lui figliuolo primogenito Alfonso II il quale fu incoronato in Napoli nel dì 8 Maggio dello stesso anno. Scoppiò ben presto sul di lui capo quella procella già preparata che la prudenza e la destrezza del suo genitore aveva tenuta per qualche tempo sospesa.

Carlo VIII Re di Francia gli mosse guerra per i motivi riportati dagli Storici del Regno, e specialmente da Giannone nel libro XXIX della sua Storia Civile. Era Alfonso generalmente odiato dai suoi sudditi. Appena le truppe di Carlo VIII si mostrarono ai confini tutto il Regno si pose in fermento. La città di Aquila, e con essa quasi tutto l’Abruzzo alzò la di lui bandiera. Queste notizie scoraggiarono Alfonso, e gli fecero obliare quella gloria militare che si aveva acquistata in tante guerre alla testa degli eserciti. Capì troppo tardi che la maggior forza di un Re la costituisce l’amore del suo popolo. Rinunziò quindi il Regno al suo figliuolo Ferdinando, giovane di alte speranze, ed andò a cercare un ricovero nella Sicilia. Sbarcato a Mazzara passò indi a Messina, e si ritirò in un Convento di Frati a menare una vita austera.

Cercò Ferdinando II di riunir l’esercito per opporsi all’armata nemica; si avvide però che la Nobiltà e ’l Popolo persistevano nello stesso odio contro suo Padre, e che mancava all’esercito la buona volontà. Credè quindi sano consiglio l’allontanarsi dal Regno, ed imbarcatosi col suo zio Federico e colla vecchia Regina sua avola, partì da Napoli. Si fermò prima nell’Isola d’Ischia; ma nel dì 20 Marzo 1495 sciolse le vele, e si recò anch’egli nella Sicilia. Consultatosi ivi col [a171] suo Padre Alfonso si determinò a rivolgersi a Ferdinando il Cattolico per ricuperare il Regno col di lui soccorso, consiglio troppo incauto, perchè aveva costui sul Regno di Napoli delle pretensioni che aveva fino a quel punto profondamente dissimulate.

Intanto Carlo VIII era entrato in Napoli nel dì 21 Febbrajo dell’anno suddetto non solo senza resistenza; ma anche largamente festeggiato ed applaudito. Non seppe però profittare di queste favorevoli disposizioni. Ei si diè ai piaceri ed ai sollazzi, ed i suoi uffiziali erano dediti alle rapine, ed a far danaro. Colla loro alterigia inoltre ed insolenza disgustavano tutti. Il festeggiamento quindi si cangiò ben presto in avversione e malcontento.

In tal posizione delle cose Ferdinando il Cattolico che covava de’ progetti sul Regno di Napoli accolse ben volentieri l’invito ricevuto. Non tardò a spedire nella Sicilia un uomo di guerra valoroso ed abile, cioè Consalvo Ernandez Aghilar di Cordova che la jattanza Spagnuola decorò col nome di Gran Capitano prima che le sue operazioni militari avessero potuto renderlo meritevole di esso. Sbarcato Consalvo colle sue truppe nella Calabria riportò sui Francesi rilevanti vantaggi.

Si era nel tempo stesso formata contro Carlo VIII una formidabile lega tra i Principi d’Italia, la Republica di Venezia, Ferdinando Re di Castiglia, il Papa Alessandro VI etc. Temendo egli di rimanere quì tagliato, si determinò ad uscire dal Regno per ritornare in Francia colle sue migliori truppe. Gli convenne però aprirsi il passo con una fiera battaglia che fu costretto di dare alle Truppe Veneziane appostate al fiume Taro.

Rimase nel Regno poca truppa sotto il comando del Signor Monpensier di Casa Borbone e del Signor d’Obignì di Nazione Scozzese. I Napolitani ciò vedendo spedirono segretamente persone nella Sicilia per sollecitare Ferdinando a ritornare nel Regno. Non tardò egli ad eseguirlo, e si presentò nella Rada di Napoli con sessanta grossi legni e venti più piccioli. Essendosi accostato al lido per poter sbarcare colle sue truppe al Ponte della Maddalena, uscì dalla città Monpensier coi Francesi per opporsi allo sbarco.

[a172]

Ma i Napolitani presa questa opportunità, si levarono in armi, occuparono le porte, favorirono lo sbarco, ed introdussero festevolmente nella città il Re Ferdinando II nel dì 5 Luglio del detto anno 1495. Dopo ciò gli costò molto poco l’andare discacciando man mano i Francesi troppo deboli dai luoghi occupati. Gli rimaneva solo a ripigliare Taranto e Gaeta allora che fu da immatura morte rapito nella età di ventotto anni nel dì 8 di Ottobre dell’anno 1496.

Non avendo lasciati figliuoli ed essendo a lui premorto anche il suo Padre Alfonso, gli succede nel Regno il suo Zio Federico Principe di rara bontà, di esimie virtù, e tanto amato e venerato da tutti quanto era stato odiato il suo fratello Primogenito Alfonso. La sua elevazione al Trono fu di generale allegrezza. Anche que’ Grandi del Regno che per particolari risentimenti avevano seguite le bandiere di Carlo VIII si sommisero con alacrità a Federico, e furono da lui accolti colla massima benignità. Ma il migliore dei Re di quell’epoca non fu favorito dalla fortuna.

Morì nell’anno 1498 Carlo VIII Re di Francia. Ritornato egli nel suo paese dopo la battaglia del Taro aveva pensato ad occuparsi di tornei e di giostre, senz’aver preso più pensiero delle cose d’Italia e del Regno di Napoli. Gli succedè nel Trono Luigi XII, il quale si propose fermamente di conquistare lo Stato di Milano e ’l Regno di Napoli. Quindi nell’anno 1500 venne in Italia con poderoso esercito. Scacciò dai suoi Stati, e fece anche prigioniero il Duca di Milano. Vide lo sventurato Re Federico la tempesta che andava a cadere anche su di lui, e fu costretto dalla necessità ad implorare anch’egli un soccorso da Ferdinando il Cattolico, malgrado la giusta diffidenza che aveva delle di costui intenzioni. Ma ben si può dire che cadde quì sventuratamente la pecora in bocca del lupo.

Tra Ferdinando il Cattolico e Luigi XII era stato già conchiuso un segreto Trattato messo sul tappeto con Carlo VIII, ma non ultimato ancora quando avvenne la di costui morte. Era rimasto con esso stabilito che avrebbero entrambi adoperate le loro armi per torre a Federico il Regno di Napoli. La preda fu divisa nel seguente modo. Al Re di Francia toccar doveva la città di Napoli, la Piazza di Gaeta, la [a173] Provincia di Terra di Lavoro con tutto l’Abruzzo, la metà dell’entrata della Dogana delle pecore di Puglia, e ’l titolo di Re di Napoli e di Gerusalemme. Al Re di Spagna toccar doveva il Ducato di Calabria e di Puglia, l’altra metà dell’entrata della Dogana suddetta, e ’l titolo di Duca di Calabria e di Puglia. Si convenne che ciascuno di essi avrebbe atteso a conquistar colle armi la sua parte, senza che l’uno fosse stato obbligato ad ajutar l’altro, e che il trattato conchiuso sarebbe rimasto nel massimo segreto.

Stante cotesta segreta combinazione la richiesta del Re Federico fu da Ferdinando il Cattolico accolta con trasporto. Venne subito spedito di nuovo nella Sicilia Consalvo di Cordova con truppe e colle segrete istruzioni corrispondenti. Cadde costui nella bassezza di usare anche un tratto di perfidia non degno di un uomo di valore. Si fece dare dal Re Federico diverse città della Calabria sotto il pretesto di volerle per la sicurezza delle truppe che seco aveva menate in di lui soccorso; ma in realtà volle porsele in mano per facilitare vie più la conquista di quella porzione del Regno che col segreto trattato era stata attribuita al Re di Spagna. Ecco come rimase spogliato del Regno il buon Re Federico assai degno di una sorte migliore.

Ben presto però, e propriamente nell’anno 1501 vennero i due Re a discordia tra loro, poichè, come bene osserva Cornelio Tacito, Arduum est eodem loci potentiam et concordiam esse[208]. Nel segreto trattato non erano state bene e con avvedutezza definite, e circoscritte le Provincie divise. Data al Re di Francia la Provincia di Terra di Lavoro e l’Abruzzo, ed al Re di Spagna il Ducato di Calabria e di Puglia, a qual de’ due spettar dovevano il Contado di Molise, la Valle di Benevento, la Basilicata ed i due Principati? Ciascuna delle parti gli voleva per se. Ma la maggiore altercazione era per la Capitanata.

A dire il vero per la Capitanata la lettera del trattato non era nè ambigua nè oscura, e favoriva il Re di Spagna, poichè cotesta Provincia ha formata sempre parte della Puglia, ed era chiamata Puglia Daunia, come l’ho dimostrato nel Capo III. Ma i Francesi che troppo [a174] tardi erano venuti a conoscere l’importanza di essa, a dritto o a torto la volevano per loro.

Per evitarsi una rottura li Baroni del Regno fecero tutti gli sforzi onde la cosa fosse terminata con una combinazione amichevole. Proposero ed ottennero un colloquio tra il Duca di Némours Vicerè di Luigi XII e Consalvo che quì governava per Ferdinando il Cattolico. Nulla però si potè combinare, e fu risoluto fra i due Capitani che si fosse attesa la determinazione de’ due Sovrani, ed intanto nulla si fosse innovato contro lo stato in cui erano le cose. Ma dopo ciò il Duca di Némours che si vedeva di gran lunga superiore di forze, uscì da questo accordo ed intimò la guerra a Consalvo ove non gli avesse prontamente rilasciata la Capitanata.

Alle minacce susseguirono i fatti, poichè i Francesi occuparono la Capitanata, la Terra di Bari, la Terra di Otranto e la Calabria. Poche città marittime potè Consalvo conservare. Nella Terra di Bari gli rimasero soltanto due città, cioè Barletta ed Andria. Tutte le altre furono occupate dai Francesi. Consalvo con poca gente, senza danaro e con una provvigione di vittovaglie anche molto tenue non fu al caso di poterlo impedire[209]. Ecco come la città di Ruvo fu occupata anche dai Francesi. E poichè era tuttavia una Piazza forte, ed importante per la guerra suddetta, fu provveduta di buona guarnigione di fanti e di cavalli sotto il comando del Signor de la Palisse, il quale aveva sotto li suoi ordini anche l’Abruzzo. Quindi ebbero luogo quelli avvenimenti che passo ad esporre.

Se Luigi XII non si fosse addormentato su di questi prosperi successi, ed avesse continuato a rinforzare il suo esercito, e spingere innanzi la guerra con vigore, gli sarebbe stato molto facile scacciare gli Spagnuoli dal Regno di Napoli. Non seppe però profittare di tal vantaggiosa posizione, e diè troppo tempo a Consalvo di avere rinforzi di truppe e di danaro. La solita insolenza anche de’ Francesi diè occasione [a175] ad un avvenimento che si rese famoso, ed influì moltissimo ad incoraggiare l’esercito di Consalvo ed avvilire quello de’ suoi nemici.

Nella Guarnigione Francese stabilita a Ruvo vi era un Cavaliere chiamato Carlo de Togues intitolato Signor de la Motte. Mentre stava costui prigioniere in Barletta parlò coi Capi dell’esercito Spagnuolo con disprezzo degli uomini d’armi Italiani. Ettore Fieramosca Cavaliere Capuano che apparteneva ad una compagnia di uomini d’armi Italiani sotto il comando di Consalvo, per vendicare la ingiuria fatta al nome Italiano mandò al Signor de la Motte quella disfida, a cui susseguì il famoso combattimento tra i tredici Cavalieri Francesi usciti da Ruvo, ed altrettanti Italiani usciti da Barletta, il quale ebbe luogo in un campo designato tra Andria e Corato poche miglia lungi da Ruvo.

L’esito di quel combattimento gloriosissimo per l’Italia fece apprendere che ben disse Plinio nel luogo innanzi riportato di essere gl’Italiani superiori a tutti per l’ingegno, per la lingua e pe ’l valore. Per eterna memoria di quel fatto d’armi tanto per noi glorioso fu sul luogo istesso del combattimento eretto un monumento solidissimo con analoga iscrizione. Io ben me lo ricordo per essermi ivi recato più volte nella mia gioventù per contemplarlo colla massima compiacenza. Ora però non vi è più.

Si crede che lo avessero fatto disparire i Francesi nel tempo che hanno occupati que’ luoghi[210]. Se la cosa va così, non hanno potuto essi certamente fare disparire anche que’ libri che ci hanno tramandate le notizie di quel classico avvenimento. Ma non perciò non è a riputarsi riprensibile la oscitanza delle Autorità amministrative tanto locali che Provinciali nel non aver fatto rimettere di nuovo un monumento tanto [a176] per l’Italia glorioso. Fa anzi meraviglia come tuttavia a ciò non si pensi affatto!

Del combattimento suddetto ne parlano Francesco Guicciardini, Paolo Giovio, Gio: Battista Cantalicio ed altri. Questi Scrittori però ne hanno parlato molto in accorcio. Il pieno e minuto racconto di esso non che la intera corrispondenza di lettere tra Ettore Fieramosca e ’l Signor de la Motte si ha da un libriccino stampato o piuttosto ristampato in Napoli nell’anno 1633. L’autore di esso è ignoto. Lo stile non elegante. Ma chi lo ha scritto ha contestato di essere stato presente ai fatti che ha fedelmente riportati.

Cotesto libercolo dell’antica edizione, la quale si è resa rara, l’ho avuto dalla cortesia, ed amicizia dell’egregio e coltissimo D. Gaspare Selvaggi Segretario della Commissione di Pubblica istruzione. Mi sono determinato a ristamparlo alla fine di questo mio Cenno istorico per un doppio riflesso. Il primo perchè non credo mai superfluo il moltiplicare le copie di uno scritto che riporta compiutamente tutte le circostanze di un fatto tanto glorioso al nome Italiano. Il secondo perchè i preliminari di esso avendo avuto luogo nella mia Patria, ben può dirsi che formano parte della storia di essa.

Passando ora agli avvenimenti che susseguirono a quel combattimento, quanto il mio animo ha esultato nell’averlo commemorato, altrettanto rimane addolorato ed irritato dalle nuove sciagure non meritate che vennero a piombare sulla povera mia patria. Francesco Guicciardini, dopo aver parlato delle strettezze alle quali erano ridotti gli Spagnuoli rinchiusi ed assediati nella città di Barletta colla giunta ben fastidiosa di essersi ivi introdotta anche la peste, passa ad encomiare la virtù, e la costanza di Consalvo, il quale tollerando tutte le privazioni ed incoraggiandogli col suo esempio, gli teneva a bada colla speranza di vicini soccorsi. Indi soggiugne il seguente racconto, il quale per altro pecca di poca esattezza in diverse circostanze che non mancherò di rilevare.

In tale stato ridotta la guerra, cominciarono per la negligentia e per gl’insolenti portamenti de’ Francesi ad essere superiori quelli che fino [a177] a quel giorno erano stati inferiori, perchè gli uomini di Castellaneta, Terra vicina a Barletta[211] disperati per i danni ed ingiurie che pativano da cinquanta lancie Francesi che v’alloggiavano, prese popolarmente l’armi, li svaligiarono, e pochi dì poi Consalvo avendo notizia che Monsignor de la Palissa, il quale con cento lancie e trecento fanti alloggiava nella Terra di Rubos, distante da Barletta dodici miglia[212] faceva guardie negligenti, uscito una notte da Barletta, et condottosi a Rubos, et piantate con grandissima celerità le artiglierie, le quali per essere il cammino piano aveva facilmente condotte seco, l’assaltò con tale impeto che i Francesi i quali si aspettavano ogni altra cosa, spaventati dall’assalto improvviso, fatta debole difesa, si perderono rimanendo cogli altri Palissa prigione, e ’l giorno medesimo se ne ritornò Consalvo a Barletta, senza pericolo di ricevere nel ritirarsi da Nemurs, il quale pochi dì innanzi era venuto a Canosa, danno alcuno, perchè le genti sue alloggiate per tenere Barletta assediata da più lati, e forse per maggiore loro comodità in più luoghi, non poterono essere a tempo a congregarsi. Passa dopo ciò a riportare il già detto famoso combattimento de’ tredici Cavalieri Francesi ed altrettanti Italiani, e parla di esso come di un fatto posteriore alla espugnazione della detta città di Ruvo[213].

Ha però quì il Guicciardini errato in tre cose essenziali. La prima nell’aver detto che i Francesi fecero poca resistenza, mentre questa fu vivissima, e ’l Signor de la Palisse che gli comandava non merita di essere tacciato nè di negligenza, nè di codardia, poichè fu sempre presente nel più forte e nel più caldo della mischia, e vi rimase anche ferito. La seconda nell’aver detto che la nostra città fu espugnata quando il Duca di Némours era già ritornato a Canosa, mentre questi era partito [a178] per Castellaneta col nerbo delle sue truppe per vendicare la ingiuria fatta ai Francesi dagli abitanti di quella città. Consalvo profittò della di lui assenza e della lunga distanza di Castellaneta per tentare sulla città di Ruvo quel colpo di mano che gli riuscì così bene.

La terza è stata nell’aver detto che il precitato famoso combattimento de’ tredici Cavalieri Francesi coi tredici Italiani susseguì alla espugnazione della nostra città, mentre non vi può esser dubbio che l’abbia preceduta. Pare che il Guicciardini abbia ignorata la circostanza che i tredici Cavalieri Francesi furono scelti dalla cavalleria che stava alloggiata in Ruvo, la quale dappoi colla presa della città rimase prigioniera di guerra, come lo stesso Guicciardini lo ha detto. Andiamo dunque a rettificare cotesti errori colla testimonianza di altri Scrittori meglio informati de’ fatti allora avvenuti.

Paolo Giovio nella vita di Consalvo, dopo aver parlato del già detto famoso combattimento de’ tredici Cavalieri Francesi con altrettanti Italiani, passa a dire che mentre il Duca di Némours stava sotto le mura di Castellaneta, e non già a Canosa come ha creduto Guicciardini, gli pervenne un messo. Is attulerat Consalvum Barolo profectum Rubos ad opprimendum Paliciam contendisse. Is enim de Namurtii profectione certior factus, ex occasione sumpto consilio, celeriterque expedito, noctu eductis omnibus copiis, tormentisque, ita ut Decuriones Barolitanos non obscuræ fidei obsides futuros secum duceret, Rubos advolavit. Tantaque vi, tormentis admotis, oppugnare adortus est, ut prostrato ingenti ruina muro[214], collata veluti acie dimicaretur, et non uno in loco Hispani admotis scalis subire mœnia niterentur. Certatum est per septem horas summa contentione; nam Palicia infracto animo, ubi periculum posceret adhortando, pugnandoque suis non deerat. Cum pro vallo cataphractos equites pedibus dimicantes irrumpentibus opposuisset, et per sagittarios Vascones idoneis locis dispositos crebra vulnera subeuntibus inferebantur. [a179] Sed ipso demum Palicia vulnerato, et cataphractis incumbentium hostium impetu pondereque prostratis potius, quam interfectis, Hispani in oppidum irruperunt: cum alii eodem fere tempore, conscensis scalis, muri coronam cepissent. Primum quod illatum est repulsis Gallis vexillum fuit Francisci Sances, qui Regis Hispaniæ erat dispensator. Muralis vero coronæ decus datum est Trojano Morminio nobili Neapolitano, qui primus muri pinnam apprehendisse conspectus est. Multis igitur primo impetu cæsis, reliqui Galli omnes cum Rubustanis civibus capti sunt, eminente inter ceteros Palicia cum Amideo Allobrogum equitum Præfecto, et Peralta Hispano, qui ante turbatam pacem sub Gallo Rege stipendia merens, in officio sibi permanendum esse censuerat. Passa poi a dire ciò che Consalvo fece dopo, del che si parlerà in seguito[215].

Gio: Battista Cantalicio seguì Consalvo nelle sue militari spedizioni, e per la di lui influenza e protezione fu elevato al Vescovado di Atri e di Penne. Fece quindi di lui il suo Eroe, e credè di dargli la immortalità con un suo Poemetto intitolato Consalvia, il quale servì solo a farlo conoscere per un cattivo verseggiatore e non migliore Grammatico. È pieno lo stesso della più bassa adulazione, della quale n’è stato giustamente censurato. I fatti però che riporta, ed ai quali era stato egli presente, sono gli stessi. Parla prima del combattimento de’ tredici Campioni di ambe le parti. Passa indi a dire che pervenne a Consalvo la notizia del fatto di Castellaneta e di altri svantaggi avuti dai Francesi nella Terra di Otranto, non che della partenza del Duca di Némours per que’ luoghi, e viene quindi a riportare la fazione seguita a Ruvo ne’ seguenti termini:

Ipse quoque interea ne duceret ocia noster

Sæva Ducem contra molitur bella Palizam,

Haud procul a nobis, qui tunc fortissima habebat

Castra Rubis, equitumque manus, peditumque potentes,

Deque sagittifera numero bis gente ducentos.

Ergo ubi dispositas acies vidit esse suorum,

Phœbus in occiduis quum jam caput abderet undis,

[a180]

Dux prudens simulavit iter, quo callidus hostes

Redderet ancipites, nec quo trahat agmina scirent,

Vel tormenta ferat; sed tandem nocte peracta,

Prima luce Rubos tunc non ea bella timentes

Acriter invadit, pugnatur. At illa per omnem

Pugna diem trahitur, donec jam sole cadente,

Urbe manu forti nostri potiuntur adepta.

Diripitur, prædæque datur. Gens Gallica tota,

Cumque sua victus capitur Dux gente Paliza,

Tota per Aprutii Populos qui Regna tenebat,

Quique Ducis secum gestabat signa Sabojæ.

Passa poi ad enumerare i principali Capitani tanto Italiani che Spagnuoli, i quali presero parte a quella fazione, e seguita indi a dire

Hos inter primos Sances Franciscus adhæsit

Strenuus, atque acer muris insignia primus

Intulit, et sociis aditus reseravit apertos.

Tu quoque Parthenopes pugnans Morimine fuisti

Gloria magna tuæ, qui desuper hoste furente

Mœnia magnanima prensas sublimia dextra,

Et conjecta super tot vertice tela repellis,

Judicioque tuo melius mutata repente

Hostibus oppressos diffregit machina muros.

Hinc Loffreda suam quassans non segniter hastam

Margariton meruit per fortia prœlia laudem

Inter Parthenopes juvenes non infima fama.

Exportata Rubis igitur quam maxima præda

Ducitur ad Barolum: tergis it magna revinctis

Mortalis captiva manus: hinc tollitur ingens

Armorum spolium, numerus quoque magnus equorum,

Et pecoris quidquid fuerit, Bacchusque, Ceresque,

Et quæcumque fuit victis ablata supellex.

Hoc est esse viros, hoc est et vincere scire

Obsessi ducant si de obsidione triumphos.

Seguita a dire il Cantalicio che dopo ciò era intenzione di Consalvo [a181] di andare a cercare il Duca di Némours passando più oltre, ma ne fu trattenuto dal seguente riflesso:

Certe Ducis magni fuerat sententia jam tunc

Ulterius proferre gradum, hostesque profectos,

Proregemque sequi, qui signa minantia contra

Castellaneti tunc mœnia versa ferebat.

Sed tenuit permagna Ducem, fœcundaque præda,

Ne qua inter nascens discordia tot caligatos,

Verteret in rixas victricia castra suorum[216].

Ma fu questa una delle tante insulse ampollosità e millanterie del Cantalicio. Non aveva Consalvo così poco senno. Cercò anzi di affrettare il più che gli fu possibile il suo ritorno a Barletta con tutte le truppe per tema che gli fosse piombato addosso il Duca di Némours che aveva forze superiori. Cotesta sua previdenza la nota il Guicciardini nel luogo innanzi trascritto, e l’encomia Paolo Giovio, il quale seguita a dire: Sequentique die, non plane toto direpto oppido, eadem usus celeritate Barolum est reversus pene prius quam Nemurtius, qui ex itinere adjunctis sibi Helvetiis, et coacto ampliori equitatu, festinanter adventabat, de Paliciæ calamitate doceretur.

Fa la stessa osservazione Mambrino Roseo nelle sue note alla Storia di Pandolfo Collenuccio, il quale riporta i fatti suddetti allo stesso modo. Con meravigliosa prestezza era uscito colle sue genti da Barletta, e con alcuni pezzi di artiglieria era ito ad assaltare Rubi, luogo importantissimo per quella guerra, dove era restato con pochi Monsieur de la Palisse, onde di questa nuova fastidito il Francese si mosse verso Barletta a gran giornate ricordandosi del savio consiglio che gli aveva dato l’Acquaviva che non dovesse partirsi pronosticando quello ch’era avvenuto.

Intanto Consalvo con la maggior prestezza del Mondo data la batteria, e poi l’assalto a Rubi, dopo molto travaglio la prese essendo fatto [a182] prigioniero la Palisse con molti altri Cavalieri Francesi, e fatto questo se ne tornò a Barletta con meravigliosa prestezza[217].

Lascio gli altri Scrittori che potrei addurre, poichè ciò che si è detto è bastante a dilucidare il triplice errore nel quale è caduto il Guicciardini. Passo ora a considerare questo fatto sotto il rapporto morale, poichè non si può dare una iniquità maggiore di quella che commise Consalvo verso gl’innocenti Ruvestini. Era stata la loro città occupata dai Francesi non già perchè fossero stati questi da essi chiamati, ma perchè erano i più forti. Consalvo che avrebbe dovuto opporsi a tale occupazione, se ne stava chiuso ed assediato in Barletta, e fu ben fortunato che i Francesi inebriati ed assonnati dai vantaggi riportati non si affrettarono ad incalzarlo vie più quando era facile l’annientare la poca forza che gli era rimasta.

Avendo colto il tempo e la occasione opportuna di sorprendere la città di Ruvo, la resistenza gli fu fatta dal Signor de la Palisse, e dai soldati Francesi ch’erano sotto il di lui comando, non già dal Sindaco e dalla Popolazione di Ruvo. Se ai Francesi si fossero uniti anche gli abitanti della città, sarebbe stato il discorso ben diverso. La vittoria riportata quindi gli dava dritto di appropriarsi tutto ciò che apparteneva ai Francesi, e non già di saccheggiare e depredare le sostanze de’ poveri cittadini con avergli spogliati di tutto finanche delle vittovaglie, del vino, del bestiame, e di tutto ciò ch’era necessario alla vita, come non senza una positiva impudenza glie ne ha fatto un vanto il Cantalicio suo Panegirista. Molto meno aveva diritto di menare prigionieri a Barletta que’ cittadini che non avevano con lui combattuto per estorquerne anche un riscatto dopo avergli spogliati di tutto, come ci fa anche sapere Paolo Giovio nel luogo testè riportato. Quale viltà! Qual sordidezza!

Non solo i Ruvestini non erano colpevoli di nulla per aver mancato Consalvo per la sua debolezza di opporsi ai Francesi che occuparono quella città, ma avevano dovuto anche tollerare il peso non lieve [a183] di una guarnigione numerosa di fanti e di cavalli. Con qual principio dunque di onestà, di morale e di Religione abbandonò Consalvo quella povera città all’avidità, alla rapacità ed alla brutalità della sua soldatesca? A tal modo cercava egli compensare i servigi che la sua cassa vuota ed esausta non poteva pagare alla stessa?

La di lui gloria militare, che non gli contendo, non può certamente cancellare il torto immenso che fa alla di lui memoria quel tratto di vile iniquità. Ben diceva il detto Paolo Giovio nel luogo innanzi citato che Consalvo poco curava che si fosse parlato male di lui quando ciò che operava era profittevole alle sue vedute guerresche. Anche la guerra però ha le sue leggi, le sue regole di giustizia, e que’ riguardi che son dovuti alla morale. Il Generale di un’armata regolare non deve operare come un capo di masnadieri, e spogliare chiunque gli capita nelle mani.

Ogni tempo però viene. Ei pagò il fio delle sue iniquità. Malgrado gl’importanti servigj resi per fas et per nefas a Ferdinando il Cattolico, ne fu mal corrisposto. Dopo la splendidissima figura fatta nel Regno di Napoli, venne richiamato e finì lì suoi giorni in una umiliante oscurità. Sì fatti cangiamenti non gli opera sempre il caso. Vi concorre sovente anche la mano occulta della Provvidenza che confonde la superbia degli uomini, e riserba alle iniquità la meritata pena. Non enim (diceva un grand’Uomo del Gentilesimo) approbatum est non esse curæ Diis securitatem nostram, esse ultionem, ut non modo casus, eventusque rerum, qui fortuiti sunt, sed ratio etiam, causæque noscantur[218]-[219].

[a184]

Fa però in verità positivo ribrezzo che la penna di un Ecclesiastico siasi a tal segno degradata che abbia fatto un pomposo elogio della iniqua depredazione della città di Ruvo e del copioso bottino che l’Eroe dalla stessa decantato ne riportò a Barletta! Negli elogj però de’ grandi Uomini i loro errori e le loro colpe o si scusano destramente o si passano sotto un prudente silenzio; ma non si esaltano, ma non si encomiano e si applaudiscono come ha fatto il Cantalicio senza veruna dignità e contegno.

Si vede bene che la sua picciola testa troppo inebriata dall’onore della Mitra ottenuta per la influenza e protezione di Consalvo in quel tempo potentissimo, obliò le massime del Vangelo, e qualificò la Pirateria come una virtù eroica! Non fia ciò meraviglia, poichè nella dedica che fece a Consalvo del suo infelicissimo Poemetto (se può lo stesso meritare questo nome) obliò anche il suo carattere e cadde nella bassezza di dichiararsi un Vescovo suo tributario. Decebat propterea me tributarium Episcopum tuum aliquid afferre tributi, quo possis immortalitatem consequi! Il merito di un concetto di tal fatta lo valutino quelli Uomini rispettabili che sono investiti della stessa alta Dignità Chiesastica. Andiamo innanzi.

In quanto ai pubblici registri di quell’epoca relativi alla città di Ruvo si è detto nel Capo precedente che Federico di Aragona aveva venduta la nostra Città a Galzarano de Requesens Conte di Trivento, [a185] e di Avellino. Rimasto il Regno a Ferdinando il Cattolico, lo stesso con suo privilegio del dì 13 Novembre 1504, lodandosi altamente de’ servigj da costui resi nella guerra contro i Francesi, gli confermò tutti i suoi feudi, e tra questi gli fu confermata anche Civitas Rubi Provincia Terra Bari cum castro, fortellitio, vaxallis, vaxallarumque reddititus feudatariis et subfeudatariis domibus et possessionibus, vineis, olivetis, jardenis terris cultis, et incultis, herbagiis, tenimentis, territoriis, querquetis, nemoribus, pascuis, arboribus, silvis, redditibus, bajulationibus etc.[220].

A Galzarano de Requesens succedè Isabella sua figliuola. Ebb’ella per marito D. Raimondo di Cardona che fu Vicerè di questo Regno. Li conjugi suddetti nell’anno 1510 venderono al Cardinale Oliviero Carafa. Civitatem Ruborum cum ejus castro seu fortellitio, hominibus vaxallis, bajulationibus, e con tutte le altre clausole generali. Su di questo contratto fu dal detto Ferdinando il Cattolico accordato l’assenso nel dì 23 Agosto 1510. Da altro Registro del dì 20 Gennajo 1520 si ha che la detta città dal Cardinale Oliviero Carafa passò al Conte Antonio Carafa suo nipote. E da altro Registro del dì 10 Giugno 1523 risulta che dal Conte Antonio passò al Conte Fabrizio Carafa suo figliuolo[221]. Si lasciano gli ulteriori passaggi, poichè la nostra città non essendo uscita mai più dalle mani di cotesta famiglia, non interessa conoscere la serie degl’individui di essa che l’hanno posseduta in feudo fino ai nostri giorni.

L’ordine cronologico esigerebbe che fossero quì riportati man mano gli altri pubblici Registri dell’epoca di cui sto ragionando. Il maggior numero di essi però è relativo a due circostanze che gittarono la nostra città nell’ultima desolazione. La prima cagione di essa furono gl’intollerabili abusi introdotti nel territorio di Ruvo dai Locati Abruzzesi del Tavoliere di Puglia. La seconda fu ogni specie di abusi e di eccessi che si permise la prepotenza Baronale della famiglia Carafa. Da queste due cagioni rimase distrutta l’agricoltura, la pastorizia ed ogni [a186] industria agraria di quella Popolazione, e fu inoltre la nostra città spogliata de’ suoi dritti, e vessata da gravose estorsioni e depredazioni che la ridussero alla estrema povertà, anzi al suo fallimento.

Mi obbliga ciò a separare le materie e parlare di questi fatti in due diverse rubriche. Comunque siano essi spiacevoli, formando parte della storia della nostra città, non possono essere trasandati. Chiamandomi essi inoltre per necessità a ragionare de’ diritti di quella Popolazione sul proprio territorio, e de’ gravissimi discapiti risultati dalla conculcazione di essi, è utile che siano queste cose conosciute dai miei concittadini tanto presenti che futuri.

Il Mondo è una ruota. Come avviene per le mode che spesso riproducono le cose antiche, così succede anche per gli abusi che si fanno spesso risorgere sotto novelli nomi. Anderò quindi ad occuparmi separatamente ne’ due seguenti capi tanto de’ diritti del Regio Tavoliere sul territorio di Ruvo, e dell’abuso di essi fatto dai Locati Abruzzesi, quanto delle interminabili gravezze sofferte dalla prepotenza Baronale che mi toccò combattere. Ma tratterò cotesto doppio argomento dopo che avrò quì riportati alcuni fatti che possono da essi segregarsi.

Domenico di Gravina nel luogo innanzi riportato tacciò di poca previdenza i Ruvestini per non aver curato di mantenere in buono stato le antiche fortificazioni della città. Attribuì a tal cagione il guasto che soffrirono dalle masnade di Roberto Sanseverino, e forse non ebbe torto. È da credersi che siano stati essi ammaestrati da quella trista esperienza, poichè al tempo dell’altra aggressione di Consalvo di Cordova di cui si è testè parlato, le mura della città erano in buono stato. Oltre i Scrittori di sopra riportati i quali dicono che stavano i Francesi in una città ben fortificata Qui tunc fortissima habebat castra Rubis, si è veduto innanzi che i soldati di Consalvo non poterono altrimenti penetrare in essa che dopo esser caduto un pezzo di muraglia sotto i colpi dell’artiglieria, e dopo essersi superati altri punti colla scalata.

Dopo quella fazione un tratto dell’antica muraglia che in parte guarda il sud ed in parte l’est, il quale era rimasto allora forse danneggiato, si vede riedificato dalle fondamenta. La costruzione però di esso più recente è ben diversa dalle antiche mura torri e bastioni che [a187] cingevano un tempo la nostra città per tutti i lati. Le mura del già detto tratto di fortificazioni che tuttavia esistono sono solidissime e rivestite al di fuori di pietre quadrate ben connesse e ben lavorate, a differenza dell’antica muraglia, la quale era formata per lo intero di fabbrica semplice, e fiancheggiata di tratto in tratto dalle torri, delle quali alcune poche erano rotonde, e tutte le altre quadrate. Ma coteste torri insiem colle mura, tranne solo qualche piccolo pezzo che n’è rimasto, son oggi scomparse del tutto.

Nel già detto novello tratto di muraglia vi sono due grandi torrioni merlati. Tra l’uno e l’altro torrione vi era una delle quattro antiche porte della città formata anche di pietre lavorate assai più grandi e solide e ricche di ornati. Cotesta porta col linguaggio popolare era chiamata Portanò che può corrispondere o a Porta nuova, perchè di nuovo riedificata, o piuttosto a Porta di Noja, perchè di là si usciva per prendersi la via di Noja, come anche di Bitonto e di Bari[222]. Delle dette porte della città era questa la più solida e meglio fortificata. Aveva anche la così detta Saracina per mezzo della quale poteva rimaner munita di una seconda porta ferrata ad un solo pezzo che sarebbe discesa colle catene dalla parte superiore dell’edificio. Vi era su di essa lo Stemma della città sotto del quale si leggeva il seguente distico non senza ragione motteggiato di ampollosità dal Pratilli:

Quondam magna fui totum urbs celebrata per orbem,

Si modo non eadem splendida fama patet.

[a188]

Sotto questo distico vi erano le seguenti cifre MCCCCCXVI, le quali fanno conoscere l’epoca della sua costruzione posteriore all’aggressione di Consalvo di Cordova. Al di sopra di essa vi era anche una fortificazione ben solida con delle feritoje e colle statuette de’ tre Santi Protettori della città S. Cleto, S. Biase e S. Rocco ch’è il più venerato dai Ruvestini, ha una statua di argento, ed è da essi onorato di una sontuosa festa[223].

Nell’entrarsi per la porta suddetta sul lato dritto vi era l’antica casa comunale di cui si parla nello strumento dell’anno 1608 di sopra riportato. Si ascendeva alla stessa per un portone, ed un’ampia scala scoverta che tuttavia esiste, ed ha il suo ingresso dall’atrio delle pubbliche carceri. Era quell’edifizio di due piani. Il primo di essi consisteva in un gran magazzino ove si riponeva il grano della pubblica annona. Il secondo che cuopriva anche lo spazioso androne della porta suddetta della città, era composto di cinque o sei comode stanze. Una porzione di esse era addetta all’Amministrazione Municipale ed alla convocazione de’ pubblici Parlamenti. Nell’altra il Governatore e Giudice locale amministrava la Giustizia civile e penale.

La detta nuova muraglia ed i due grandi torrioni che fiancheggiavano la porta suddetta avevano i loro fossati dalla parte esterna, i quali sono stati ricolmi e ripianati ne’ tempi a noi più vicini. Nel sito di quello che stava sulla dritta della Porta suddetta furono situate le beccherie che tuttavia vi sono. Nell’altro che stava sulla sinistra fu formato uno spianato per lo giuoco del pallone. Cotesto esercizio utilissimo alla salute, ed a fortificare il corpo si è mantenuto in Ruvo fino al tempo della mia fanciullezza, ed io ben me lo ricordo. È ora andato in disuso, come è avvenuto per tante altre cose buone che prima erano in pratica.

La detta bellissima Porta ora non esiste più. Tra le vertigini dell’anno 1820 vi fu anche quella che nella città di Ruvo fu la stessa diroccata. Venne però ciò operato arbitrariamente senza intelligenza del [a189] Decurionato, e senza il permesso delle Autorità amministrative superiori, da un crocchio di se-dicenti sapienti del tempo. Sulle prime si spacciò il pretesto che la porta suddetta fosse stata cadente e non senza un grave pericolo avrebbe potuto lasciarsi così.

Ma un discorso di tal fatta insultava il Pubblico, poichè bastava aver occhi per vedere che avrebbe potuto la stessa sfidare altri dieci secoli almeno. Redarguito quindi tal pretesto con amarezza da altri cittadini che mal soffrivano un operare soverchiamente licenzioso, si cominciò a dire che le antiche Porte della città impedivano la libera circolazione dell’aere, ed erano quindi pregiudizievoli alla salute degli abitanti. Vi è però in Ruvo tant’aria e tanta ventilazione che si passa volentieri al soverchio. Si è detto innanzi che per tal ragione gli antichi abitanti furono obbligati a sloggiare dal vertice della collina, ove fu da principio la città edificata, e formarsi nuove abitazioni più al basso di essa.

Ma sia pure tutto quello che que’ Signori dicevano, quale autorità essi avevano di atterrare un pubblico edificio ch’era costato alla nostra città una spesa considerevole? Chi gli aveva dichiarati Magistrati Sanitarj inappellabili perchè avessero potuto credersi nel potere di decretare ed eseguire a tal modo i loro decreti? La Storia di tutti i tempi mi ha fatto apprendere che l’oltraggio maggiore che si è potuto fare ad una città è stato quello di atterrarle le sue mura e le sue Porte. La sapienza de’ Romani Giureconsulti dava il nome di città soltanto a quella, quæ muris cingitur[224]. Le mura e le Porte delle città furono da essi considerate come luoghi sacri ed intangibili[225]. Ci tocca ora ammirare la moderna sapienza distruggitrice di quelle mura, e di quelle Porte che hanno tante volte salvate le città dai più gravi disastri! E si stanno smaltendo queste frottole mentre la città di Parigi che ha un milione di abitanti ed un circuito immenso si sta attualmente cingendo di muraglie e di bastioni!

Smantellata intanto la Porta suddetta convenne poco dopo ricostruirsi [a190] dalle fondamenta l’antica casa comunale di cui si è innanzi parlato. Le fabbriche di essa erano molto annose e non solide abbastanza. Avendo perduto l’appoggio del fortissimo androne della Porta della città che le sosteneva, cominciarono a minacciar ruina, e fu necessario abbatterle e riedificarle. La novella casa comunale fu costrutta colla maggiore solidità, ed eleganza. Benchè non molto ampia, è uno de’ più belli edificj di Ruvo, e ben si può dire che nel suo piccolo presenta una idea della magnificenza Romana. In questa occasione in luogo di quel distico ampolloso che vi era una volta sulla diroccata Porta furono da me formati nove versi esametri, e questi essendo stati incisi in una lapide, fu dessa incastrata nel muro della facciata della novella casa comunale che guarda il largo denominato di Porta di Noja. Cercai di rilevare in essi senza ampollosità e magniloquenza i veri pregi della nostra città, ed i prodotti del suo vasto e fertile territorio che niuno certamente potrebbe contraddirle. I versi suddetti sono i seguenti.

Hospes, me Græci quondam tenuere coloni.

Antiquas inter non certe ignobilis urbes,

Dives agris, fortisque fui, sollerter et artes

Excolui, quod sculpta[226] probant, et picta decore

Vasa sepulcretis quæ condit terra vetustis.

Optima cuncta mihi, cives, cœlumque, solumque,

Lac, fructus, segetes, mel fragans, grataque vina.

Ægrotos sano[227], validorum corpora firmo.

Siste Rubis gressum si vis bene ducere vitam.

Allora che scrissi cotesti versi il meno che avrei potuto immaginare era che la novella casa comunale per la quale furono essi destinati [a191] sarebbe un giorno appartenuta alla mia famiglia. Tanto però è avvenuto per la seguente combinazione. Dopo la spesa non lieve che costò alla Cassa comunale la ricostruzione di quell’antichissimo edificio, si pose in campo la formazione di un’altra casa comunale più ampia e più grandiosa. Si pensò quindi di far l’acquisto di un antichissimo, e sdruscito Palagio che apparteneva un tempo alla estinta famiglia Avitaja, ed era passato ad un Monte di Beneficenza. Preso dunque cotesto edificio con contratto enfiteutico, si sono spese, e si stanno spendendo bene o male molte migliaja di ducati per restaurarlo, ed adattarlo agli usi dell’Amministrazione comunale.

Contratto cotesto novello ed arduo impegno fu risoluta l’alienazione della già detta antica casa comunale riedificata. Essendosi determinato di darla anche con contratto enfiteutico, furono aperte le subastazioni. Un puntiglio fece determinare il fu mio fratello Giulio, che non aveva certamente bisogno di una casa, a concorrere alle stesse. Rimasta la casa suddetta a lui come maggiore offerente appartiene ora al mio nipote Giovannino suo figliuolo ed erede. Così vanno le cose de’ Comuni.

Da altri Registri posteriori all’anno 1516 che si conservano nel Grande Archivio si rileva che essendo continuate le usurpazioni de’ Terlizzesi nel territorio di Ruvo, pendeva per tal causa un giudizio nell’anno 1522 nel Tribunale della Regia Camera della Sommaria tra la Università di Ruvo da una parte, la Università e molti particolari di Terlizzi dall’altra. Lo pruova ciò un decreto emesso da quel Tribunale nel dì 24 Luglio 1522, col quale diè le opportune provvidenze relative all’esame testimoniale che si stava compilando[228].

Da altro Registro si ha il decreto definitivo emesso del giudizio suddetto dallo stesso Tribunale nel dì 26 Giugno 1523. Furono con esso condannati trenta Terlizzesi proprietarj di fondi rustici nominalmente riportati a pagare alla Città di Ruvo la bonatenenza, ed altri pesi fiscali[229]. Non si conoscono le contrade ove li fondi suddetti erano siti [a192] perchè manca il processo, e nel decreto non sono specificate. Pruova però cotesto giudicato le ingiuste vessazioni, e le usurpazioni de’ Terlizzesi.

Nell’anno 1600 vi era tuttavia il gravissimo inconveniente che i soldati avevano il loro alloggio ordinario a carico delle Università nelle case de’ particolari. Avevano i Baroni di quel tempo il privilegio di esentare da cotesta dura suggezione quello de’ loro feudi che avessero voluto, e farlo Camera riservata. Era questo il vocabolo col quale era tale esenzione indicata. La Casa d’Andria intenta sempre a smugnere il più che avesse potuto la nostra povera Città, come più giù anderemo a vederlo, non lasciò la occasione di venderle a prezzo carissimo un tal favore.

Costa dunque dai registri di quell’epoca che il Duca d’Andria e Conte di Ruvo nell’anno 1600 presentò sua dimanda al Primo Conte di Lemos Vicerè di questo Regno. Disse che a preghiere de’ Cittadini di Ruvo aveva fatta ne’ mesi passati quella Città sua Camera riservata; et volendo ora detti Cittadini dare ad esso esponente quello si suole dai Vassalli ai loro Signori per avere tal grazia[230], dimandò quindi il permesso che avessero potuto di nuovo congregarsi per deliberare ciò che dovevano dargli per tal causa, giacchè la prima deliberazione presa sull’assunto non aveva avuto effetto. Il Vicerè con suo rescritto del dì 5 Giugno accordò tal permesso.

Nel dì 28 Giugno dello stesso anno si unì la Università in pubblico parlamento preseduto dal Dottore Claudio Fraja Governatore e Giudice Baronale, al quale era vietato dalla legge di prender parte in un atto che riguardava l’interesse del Barone. Intervennero al parlamento suddetto il Sindaco, gli Eletti e non più di settantuno Cittadini. Disse il Sindaco Orazio Rocca che si era altra volta proposto lo stesso affare, e nulla si era combinato perchè l’offerta fatta a detto Illustrissimo nostro Padrone non era piaciuta, onde non intende in conto [a193] alcuno per la quantità di moneta in detta congregazione stabilita venire alla detta transazione.

Pose in veduta quanti disturbi, dispendj, ed altre cose che per onestà si taceno, avvenivano in quelle città le quali erano caricate del detto alloggio, e propose che si fosse fatta all’Illustrissimo Signor Duca nostro Padrone una offerta più vantaggiosa. La deliberazione presa fu che si fossero al Duca offerti ducati diecimila con queste condizioni e patti quo in ogni futuro tempo detto Illustrissimo Sig. Duca, e Conte di Ruvo nostro Padrone, suoi eredi e successori, quod absit, venessero a vendere di qualsivoglia sorte, o pignorare, et affittare questa Città di Ruvo, sicchè desso novo Signore, padrone, creditore, o affittatore non ne venesse a fare camera perpetua, o non ne potesse fare camera, o per volontà de’ Superiori, o per qualsivoglia altro che potesse occorrere de jure et de facto a non essere Camera ordinaria questa Città, onde ne patisse alloggiamenti ordinarj, o vero contro la forza di questa convenzione detto Illustrissimo Sig. Duca, suoi eredi e successori venissero ad non fare camera ordinaria perpetuamente loro, o vero per volontà de’ Superiori o per qualsivogli altro che potesse occorrere de jure et de facto questa Città ne venesse a patire detti alloggi ordinarj, che tunc et eo casu, imo ex nunc prout ex tunc detto Illustrissimo Sig. Duca si abbia da obbligare di restituire detti ducati diecimila una con l’interessi, danni patiti e da patire a questa università. E poichè li detti ducati diecimila da offerirsi mancavano, fu risoluto anche di contrarsi un debito.

Non è quì intanto ad omettersi che costa dallo stesso registro lo stato molto gravoso in cui era allora quella popolazione. Le gabelle imposte per far fronte ai pesi che incumbevano alla Università montavano ad annui duc. 12000. 2. 16. È notabile che la gabella del pane che colpiva più delle altre la povera gente era data in appalto per annui ducati 7113, somma molto esorbitante atteso il numero non ampio della popolazione di allora. Aveva inoltre 27000 ducati di debiti coll’annualità al 7 al 7½ all’8, ed al 9 per cento. Lo stato dunque della nostra città non era affatto felice.

Il Duca d’Andria nondimeno presentò al Vicerè la detta deliberazione presa nel parlamento del dì 28 Giugno 1600, e questi con [a194] sua decretazione del dì 4 Settembre rispose Regia Camera Summariæ de supplicatis se informet, et referat. Si presentò il Duca a quel Tribunale, giacchè suo, e non della popolazione di Ruvo era l’impegno di menare innanzi l’affare che gli portava diecimila ducati di guadagno. Produsse due documenti diretti a pruovare che il Regio Assenso si era accordato a due altre simili convenzioni passate tra il Principe di Avellino e la Università di S. Severino, e ’l Marchese di Morcone e la Università di detta Terra. Allegando questi due esempj insistè che fosse stata allo stesso modo autorizzata anche la convenzione fatta tra lui, e la città di Ruvo.

La Regia Camera della Sommaria dietro l’avviso dell’Avvocato Fiscale, con sua Consulta del dì... Novembre 1600 rispose al Vicerè che stanti li precitati esempj allegati, ove gli fosse così piaciuto, avrebbe potuto accordare il suo assenso anche alla convenzione combinata tra il Duca d’Andria e la Università di Ruvo per la somma però di ducati 8000 tantum e non più. Soggiunse bensì Non lasciando però di dire a V. E. et supplicarla resti servita di tenere la mano, et serrare questa porta di concedere assensi sopra simili donazioni, con fare alcuna Prammatica, o ordine che ex nunc in antea non si facciano simili accordi, et donativi, giacchè quelli potranno causare molto danno alle Università[231].

Non s’ingannarono que’ saggi Magistrati nel fare questa giusta osservazione, giacchè il novello debito contratto dalla nostra città per tal causa aggiunto agli altri che già aveva, ed alle Baronali estorsioni che crescevano sempre da un anno all’altro, la trasse a quella rovina di cui si parlerà al luogo opportuno. Passo ora a ragionare del dritto del Regio Tavoliere di Puglia nell’agro Ruvestino, e de’ gravissimi abusi introdotti dai Locati Abruzzesi, i quali rovinarono l’agricoltura non meno che la pastorizia della nostra povera città.

[a195]

CAPO XI. De’ diritti acquistati dal Regio Tavoliere di Puglia nell’agro Ruvestino, e degli abusi dappoi introdotti.

Alfonso I di Aragona Principe di gran mente e di gran cuore si propose di riordinare le cose del Tavoliere di Puglia. Pensò quindi a dotarlo di erbaggi sufficienti al largo comodo delle numerose greggi che dalle fresche alture degli Abruzzi, ove andavano a passare la estiva stagione, scendevano nell’inverno nella Regione più temperata della Puglia. Acquistò quindi molti erbaggi vernini con contratti stipulati con particolari, coi Baroni, e con diversi Luoghi Pii. Queste compre vennero eseguite con essersi la cassa del Tavoliere obbligata di corrispondere a coloro dai quali gli erbaggi suddetti si erano presi un’annua rendita determinata proporzionata al valore dell’erba rispettivamente ceduta.

Gli erbaggi a tal modo acquistati per la dotazione del Tavoliere presero varj nomi. Altri furono chiamati erbaggi ordinarj, altri straordinarj, altri soliti, altri insoliti etc. Alcuni di essi furono destinati al ristoro degli animali, ed altri al riposo. Rimetto agli Scrittori della materia Doganale la spiegazione di cotesti vocaboli. Per l’argomento che mi ho proposto interessa conoscersi cosa essi intendono pe ’l dritto di riposo.

È lo stesso così definito: I riposi sono alcuni paschi che da luogo in luogo sono stati comprati dalla Regia Corte affinchè nel viaggio che fanno le pecore nel mese di Settembre e di Ottobre dal Sannio in Puglia, e per opposto, possano ivi a spese della Regia Corte che ne paga il prezzo ai padroni, per tre o quattro giorni, e secondo sarà necessario, comodamente riposarsi, conforme nota il Reggente Moles De Dohana Menæpecudum Apuliæ §. 8 n. 52 e 53. I menzionati riposi si connumerano tra gli erbaggi ordinarj e straordinarj soliti, e non solo servono alle pecore come le taverne ai passaggieri; ma quei che sono più vicini al Regal Tavoliere furono istituiti, affinchè dette pecore non abbiano immediatamente bisogno di entrare a scommettere l’erba di detto Regal Tavoliere: [a196] ma possano aspettare il ripartimento generale per entrare a godere quelli erbaggi che dal Doganiere saranno loro prescritti[232]. Dal che è facile vedere che di tutti i diritti del Tavoliere il riposo è il meno pesante per i proprietarj de’ fondi, come quello che si riduce al pascolo per un tempo molto limitato.

Ha preteso il Tavoliere che per effetto di un contratto passato tra il Re Ferdinando I di Aragona e Pirro del Balzo Duca di Venosa e di Minervino, e Conte di Ruvo di cui innanzi si è parlato nel Capo IX abbia acquistato un doppio dritto sul territorio di Ruvo. Il primo fu quello di pascere l’erba di quel bosco feudale dal dì della Vigilia del S. Natale fino al dì otto Maggio di ciascun anno. Il secondo fu il dritto di riposo sulle murge di Ruvo.

Pe ’l primo di questi due dritti non vi fu mai quistione. Il secondo Stefano de Stefano lo dà per sicuro, e quindi nel luogo testè citato tra i principali riposi del Tavoliere annovera le murge di Minervino, Andria, Quarata, Ruvo e Bitonto in Terra di Bari. La Casa d’Andria però ha sempre rispetto alle murge di Ruvo opposta a cotesto dritto un’acre resistenza, come anderemo più giù a vederlo.

Ma dato anche per vero ciò che dice il precitato Scrittore, il dritto del Tavoliere avrebbe potuto colpire la sola contrada delle murge detta da Strabone montosa et aspera, ed essere limitato al solo riposo, cioè al trattenimento di pochi giorni nel passare le pecore per que’ luoghi tanto nel venire dagli Abruzzi, quanto nel far ivi ritorno.

A tutt’altro modo però veniva cotesto preteso dritto esercitato dai Locati Abruzzesi, sia per la resistenza che trovavano nelle murge dal canto del Barone, sia per quelle soverchierie, alle quali soggiace sempre il più debole. Si gittarono essi sul rimanente demanio fuori delle murge più vicino all’abitato, e sicuramente comunale, ove stavano e stanno tuttavia le numerose masserie de’ cittadini. Vi si fermavano per tutto lo inverno, e lo ingombravano con tante pecore che ai poveri proprietarj delle masserie suddette non lasciavano un filo di erba per lo sollievo de’ loro animali!

[a197]

Cotesto ristucchevole abuso lo contesta un processetto che si conserva nel grande Archivio. Nell’anno 1509 la città di Ruvo spinta dalla disperazione diè un ricorso al Vicerè di quel tempo D. Raimondo di Cardona, e dimandò il permesso di chiudersi nel suo demanio una mezzana, o sia difesa per lo pascolo de’ bovi aratorj. Giova recare i precisi termini del ricorso suddetto per vedere a quali strettezze i Ruvestini erano ridotti da cotesta abusiva invasione.

Illustrissimo Signore — Per essere lo territorio de la cità vostra de Rubo[233] molto de bisogno a la Regia Dohana che se ne serve per restauro, in detto territorio veneno tante pecore che al bestiame de la cità non resta da pascere cosa alcuna, et tutto loro bestiame se more de fame per non restarli uno filo de herba, ed è loro ultima desfazione. Et perchè in le altre Terre de Puglia resta alcuna meczana per lo bestiame de li citatini per concessione ne teneno, et non ce stanno tante pecore, quante in Rubo; per tanto supplica Vostra Signoria Illustrissima proveda che per uso del bestiame de li citatini li conceda una meczana in loco appartato de le pecore che possano usarla per loro uso, senza che lo bestiame de ditta Dohana li dona impaczo; altrimenti detta cità vene a ruinarse per non possere manutenere loro bestiame per le vettuaglie fanno li citatini, et se veneriano a morire de fame, et patere grandissima penuria. Et è cosa solita concederese a le altre Terre dove pratica la Dohana, ut Deus.

Il Vicerè con sua decretazione del dì 17 Dicembre 1509 rinviò cotesto ricorso alla Regia Camera della Sommaria per le provvidenze corrispondenti. Quel Tribunale con sua provvisione del dì 19 del detto mese ed anno diè al Doganiere di Foggia li seguenti ordini. Vi dicimo et ordinamo che al recepere de epsa, essendo così come se expone, vogliate provedere de donare a dicti exponenti tanta mezana in loco appartato de le pecore per uso de loro bestiame, et provedere che possano [a198] quella usare senza che lo bestiame de dicta Dohana le abbia a donare impaczo, de modo che dicto loro bestiame non venga ad perire per non avere herba.

Il Doganiere di allora Annibale Caput tenendo presenti la dimanda a lui diretta dalla città di Ruvo, la trascritta Provvisione della Regia Camera, e le dilucidazioni a lui date sull’assunto da un suo Incaricato, con lettera del dì 13 Febbrajo 1510 diretta Egregiis viris Sindico Universitatis et hominibus civitatis Rubi nobis tanquam fratribus carissimis, fece loro sentire ciò che siegue. Et perciò noy ordinamo per l’allegata ad Alfonso de Civita Ducale Officiale de questa Regia Dohana de Puglia, quale tenemo in quella espressa cità per servizio de la Regia Corte, ve voglia consignare il loco de dicta mezana, cioè dal muro recluso per derecto fino a la Cappella. Et da l’altro capo de dicto muro fino al arbore de la mendola, la quale mendola haverà ad restare fore. Et da la dicta amendola per quatro referendo a dicta Cappella. Quale territorio, seu mezana porrite farvela serrare et conservare per lo effecto predicto, et se in dicti confine nce fossero altre confine più volgare et declarative, ne li farite intendere per mezo de dicto Alfonso, aczò quando ve ne farimo spedire la patente per più cautela et quiete vostra, nce lo possiamo declarare[234].

Ecco come fu eretta la Difesa della nostra città nella contrada demaniale denominata lo sterpeto volgarmente detta strappete. Ma non poteva questa supplire al bisogno degli animali addetti alla coltura, e sparsi sulla superficie di un demanio vastissimo. Come menarsi cotesti animali a pascere da un punto all’altro di esso ed alla distanza di più miglia? Debbono essi dopo il travaglio avere il necessario ristoro nel luogo istesso ove lavorano il terreno. La necessità obbligò i Ruvestini a scuotere il giogo durissimo de’ Locati Abruzzesi. Da per tutto nelle masserie di semina furono chiusi i parchi e le mezzane indispensabili agli animali addetti alla coltura.

[a199]

Gl’ingordi Abruzzesi incominciarono a strepitare e gridare alla usurpazione, mentre non era questa che una giusta reazione contro l’abuso e la soverchieria. A tutt’altro modo però guardarono la cosa due Magistrati Fiscali spediti nelle Puglie con incarico di rintegrare al Regio Tavoliere tutto ciò che fosse stato usurpato a danno dello stesso. Furono questi il Luogotenente della Regia Camera della Sommaria D. Francesco Revertera Spagnuolo di Nazione, e ’l Presidente D. Alfonso Guerrera. Gli schiamazzi de’ Locati Abruzzesi contro i Ruvestini fecero incomodare cotesti Signori a conferirsi di persona nel territorio di Ruvo. Quindi tra le altre operazioni da essi fatte vi fu anche il seguente Decreto pubblicato in Foggia nel dì 5 Marzo 1549.

Super parchis et clausuris civitatis Ruborum, die 5 Martii 1549 in Terra Fogiæ. Viso territorio civitatis Ruborum, et visis oculari inspectione dictis parchis et clausuris. Visa etiam provisione alias facta per Regiam Cameram Summariæ sub die 20 Septembris 1517 Regia in Curia VIII fol. 104. Fuit provisum et decretum, prout præsenti decreto providetur per Excellentem Dominum Franciscum Reverterium Regium Consiliarium Regiæ Cameræ Summariæ Locumtenentem, ac per Magnificum Dominum Alphonsum Guerrerium ejusdem Regiæ Cameræ Præsidentem et Commissarium Generalem in Reintegratione Dohanæ Menæpecudum, deputatos per Illustrem Dominum Regni Proregem, quod omnia parca et clausuræ constructa et constructæ pro usu herbarum in dicto territorio demoliantur et aperiantur, atque in eis libere pasculari possint tam pecudes et animalia Regiæ Dohanæ, quam dictæ civitatis; atque de cetero nullatenus fiant parca, neque clausuræ. Ea vero parca et clausuræ quæ sunt pro vineis, olivetis et amygdaletis remaneant pro usu civitatis et ejus civium, et de cetero non fiant parca, et clausuræ pro dicta causa, neque amplientur, atque in loco ubi est tracturium dictæ Dohanæ Regiæ, aperiantur et ibi possint animalia Regiæ Dohanæ pasculari et immorari prout opus fuerit. Quo vero ad parcum jumentorum, sive equorum Excellentis Comitis Ruborum fuit provisum quod supersedeatur donec fuerit facta relatio Illustrissimo Domino Proregi, juxta decretationem factam in calce memorialis oblati S. E. pro parte dicti Comitis. Mezzana vero constructa in dicto territorio pro usu et pascuo bobum aratoriorum dictæ civitatis [a200] et civium, remaneat[235], et quod nullatenus possit ampliari, et quod illa parca, et clausuræ, quæ factæ sunt causa seminandi frumentum, et alia victualia, recollecto semine aperiantur, et in restopiis, et nocchiariis possint pasculari Regia Dohana, et animalia dictæ civitatis. Hoc eorum in scriptis interponentibus decretum. Lectum latum etc.[236]. Questo decreto è riportato anche dai Scrittori Doganali.

Se il trascritto decreto non formasse parte della Storia e de’ Registri del Tavoliere, stenterei a credere che realmente sia stato lo stesso emesso in un Paese riputato sempre per la sapienza de’ suoi Magistrati! Non è lo stesso a ben definirlo che un tristo monumento d’ingiustizia e di barbarie, poichè ammesso anche il riposo preteso dal Tavoliere, una servitù costituita sulla sola contrada delle murge non si poteva estendere a tutto il Demanio Ruvestino, ed un dritto di sua natura limitato al pascolo di pochi giorni, non si poteva e non si doveva renderlo illimitato ed arbitrario.

Non minore fu la barbarie nell’essersi pronunziata la distruzione dell’agricoltura coll’essersi disfatti i parchi indispensabili al ristoro de’ bovi aratori, coll’essersi vietate le novelle piantazioni di vigne, di mandorle, e di ulivi che costituivano e costituiscono le ricche produzioni del territorio Ruvestino, e coll’essersi lasciato alla discrezione delle bestie quel terreno fertilissimo che la Natura ha destinato al nutrimento degli uomini! Cotesto decreto che pecca della più ruvida barbarie fa un’onta positiva agli autori di esso.

Nè quì si arrestarono i malanni ch’ebbe la nostra città a soffrire per questo lato. Si è detto innanzi che il Regio Tavoliere aveva acquistato da Pirro del Balzo Duca di Venosa e Conte di Ruvo il dritto di far pascere dagli animali de’ Locati l’erba del vastissimo Bosco di Ruvo dal dì della Vigilia del S. Natale fino al dì otto di Maggio, mediante il pagamento di annui ducati cinquecento. Si era così fatto perchè avesse [a201] potuto il Barone fino alla Vigilia di Natale far pascere la ghianda che lo stesso produceva in gran copia. Era però ciò fastidioso all’Amministrazione del Regio Tavoliere, perchè gli animali porcini ch’entravano a pascere le ghiande maltrattavano l’erba. Si volle torre questa suggezione. Piacque al Governo di acquistare in modo assoluto l’erbaggio vernino del bosco suddetto, e disporre di esso a suo piacere col pagare al Conte di Ruvo anche il prezzo della ghianda.

In un pubblico strumento del dì 17 Marzo 1552 stipulato dal Notajo Sebastiano Canore di Napoli si costituirono da una parte il Vicerè allora di questo Regno D. Pietro di Toledo e dall’altra il Conte di Ruvo D. Fabrizio Carafa. Dichiarò quest’ultimo che possedeva in feudo quoddam nemus situm in pertinentiis dictæ civitatis Ruborum juxta suos veriores confines, pro cujus nemoris herba et pascuo dicta Regia Curia annuatim pro servitio Regiæ Dohanæ Menæpecudum Apuliæ solvit eidem excellenti Comiti annuos ducatos quincentum de carolenis argenti, in quo nemore non possunt intrare pecudes nisi in vigilia Nativitatis Christi anni cujuslibet.

Si seguitò a dire che la Regia Corte voleva acquistare totalmente l’erba vernina e la ghianda del Bosco suddetto con piena facoltà di far entrare in esso a pascere gli animali nel dì 15 Settembre di ciascun anno fino al dì di S. Angelo del mese di Maggio, mediante il pagamento di altri annui ducati mille dugento cinquanta. Essendosi tal proposta accettata dal Conte di Ruvo, vendè costui alla Regia Corte per annui ducati 1250 dictum jus glandium, herbam et pascuum, ac jus aquandi, et pernoctandi, et omne aliud jus spectans, et pertinens, et quod spectare et pertinere posset in dicto nemore ex nunc in antea, et in perpetuum tenere et possidere, et in dictum nemus quolibet anno intrari facere pecudes, et alia animalia quæcumque a dicto die 15 Semptembris anni cujuslibet, et tenere per totum diem festum S. Angeli de Mense Maj, ut supra, dictisque herbis, pascuo, et glandibus, et aquis in dicto nemore existentibus gaudere, et uti frui, atque vendere, et alienare, et aliter disponere pro ipsius Regiæ Curiæ arbitrio voluntatis, absque contradictione et obstaculo aliquo et impedimento etc. Quindi nel bosco suddetto vi rimase una promiscuità di diritti tra la Regia Corte e ’l Barone. La prima rimase padrona assoluta dell’erba vernina e della ghianda. Seguitò il secondo [a202] a ritenere l’erba estiva e ’l taglio delle legna non fruttifere di ghianda.

I cittadini di Ruvo avevano il dritto d’immettere a pascere i bovi aratorj nel bosco suddetto. Cotesto dritto lo aveva reso importantissimo il decreto di Revertera e di Guerrera dell’anno 1549 innanzi riportato. Il bosco di Ruvo era, come lo è tuttavia circondato dalle masserie di semina allo stesso adiacenti. Aperti e vietati dal decreto suddetto i parchi e le mezzane per l’uso de’ bovi aratorj che si erano in esse formate, questi poveri animali trovavano almeno un ristoro nel bosco, ove si lasciavano la sera dopo il travaglio. Ma questo sollievo fu anche tolto ai medesimi.

Pietro di Toledo volle esimere il bosco anche da questa suggezione comunque garantita dalla Natura e dalla legge. E ciò che più sorprende, cotesto dritto sacro de’ cittadini di Ruvo rimase abolito con un tratto di arbitrio, senza essersi intesi neppure i Rappresentanti di quella città! Si legge nel detto strumento dell’anno 1552 anche il seguente articolo: Itaque nullum genus animalium possit nemus ingredi elapso die 15 Septembris, nisi tantum animalia Dohanæ in locationem intrantia. Verum pro usu bobus dictæ universitatis solitis ingredi, et pasculari in dicto nemore tempore hyemali, amplietur defensa magna, seu partem etc. dictæ universitatis, ut dicto tempore hyemali possint supradicta animalia dictæ universitatis commodius pasculari.

Convenne però ubbidire. Quindi l’ampliazione della difesa comunale eretta nell’anno 1510, come innanzi si è detto, venne eseguita con decreto del Collateral Consiglio del dì 26 Ottobre 1552, dal quale risulta che la detta antica difesa di carri quattordici rimase ampliata di altri carri ventisei e fu portata a carri quaranta. Questo decreto è riportato dal Sig. de Dominicis nel suo libro sulla Dogana di Puglia[237].

Il compenso dato alla città di Ruvo per la perdita di un dritto tanto interessante per i suoi cittadini fu veramente generoso! Le fu permesso ciò che non poteva per giustizia esserle negato, cioè l’ampliazione della difesa in quella parte del demanio ch’era indubitatamente di [a203] qualità comunale, ed era quindi nel dritto di tenerla aperta o chiusa come meglio avrebbe creduto conveniente ai suoi interessi ed alla sua economia!

Cotesto compenso però meramente illusorio non alleviò per nulla il gravissimo discapito che vennero a risentirne i poveri proprietarj delle masserie di semina dalla perdita del pascolo del bosco per i bovi aratorj. Cosa giovar poteva l’ampliazione dalla difesa comunale a quelle masserie che nel massimo numero erano a più miglia di distanza da essa? Li bovi aratorj debbono avere il loro ristoro sul luogo istesso ove travagliano. Non possono essere inviati a paschi lontani con defaticargli vie più, e col torsi al lavoro della terra quel tempo che occorre per andare e venire. Fu questo a buon linguaggio l’ultimo crollo che ricevè la industria de’ Ruvestini.

Per altro lato il già detto ideale compenso durò anche ben poco. L’appoggio, debolissimo per altro, della difesa comunale venne anche a mancare. La povera città di Ruvo oppressa per un lato e smunta dalla prepotenza Baronale, ed angustiata per l’altro dalle circostanze del tempo ben difficili, cadde nella massima povertà fu obbligata a contrarre molti debiti, ed indi a vendersi la difesa suddetta per potergli pagare. Avvenne ciò nell’anno 1632, poichè da diversi strumenti stipulati in quell’anno dal Notajo Giuseppe Ferri di Ruvo risulta che la Università di Ruvo diè la difesa suddetta in pagamento a diversi suoi creditori. Ecco perduto anche questo appoggio per i bovi aratorj.

Quando gli uomini si veggono ridotti alla estrema necessità perdono la pazienza. Li proprietarj di masserie, malgrado il decreto di Revertera e di Guerrera, chiusero di nuovo con parchi e mezzane quell’erba ch’era indispensabile al ristoro de’ loro bovi aratorj. Ma gli Abruzzesi della Locazione di Salpi ai quali il bosco di Ruvo era stato assegnato non se ne stettero. Avendone nell’anno 1641 dato ricorso al Tribunale Doganale, fu spedito sul luogo il Credenziere della Regia Dogana Guglielmo Corcione per prendere informazione de’ disordini[238] ivi avvenuti.

[a204]

Da un processetto da costui formato contro diciannove proprietarj di masserie nominalmente in esso riportati risulta che si erano fatte da costoro le mezzane nelle contrade demaniali le matine, la cavata (parte delle matine) le strappete, le ralle e monserino, e che in questa ultima contrada si erano anche piantate nuove vigne in contravvenzione del Decreto di Revertera e di Guerrera dell’anno 1549 che le aveva vietate.

Quindi nel dì 16 Marzo 1642 da quel Tribunale Doganale fu contro i pretesi contravventori emesso il seguente decreto: Per Regiam Dohanalem Audientiam visis actis, et in contumaciam prædictorum disordinantium, fuit provisum et decretum quod disordinantes prædicti condemnentur, prout condemnantur ad solvendum Regiæ Curiæ et Locatis pro disordine prædicto ad usum pasculi commisso in Demanio Ruborum Regiæ Curiæ ad rationem ducatorum quatuor pro qualibet versura, et aliorum ducatorum duorum pro emenda Locatorum servata forma provisionum Regiæ Cameræ Summariæ, et Instructionum Regiæ Dohanæ, pro quibus exequantur realiter et personaliter, et describantur in libro Proventuum.

Il già detto processetto si conserva nell’Archivio Doganale di Foggia, ove io l’ho letto, e me ne ho presa anche una copia conforme. Il suo titolo però è erroneo, poichè si legge in esso così: Ruvo 1641 in 1642. Informazione de’ disordini commessi dai naturali di Ruvo nel Bosco ut ex actis. Li pretesi disordini però verificati dal Credenziere Corcione nel corpo del processo si trovarono nelle masserie di campo site nelle precitate contrade demaniali di sopra nominate e molto diverse dal Bosco.

Nel Bosco di Ruvo non vi sono state mai masserie di semina, e non vi è una sola zolla di terreno smossa dall’aratro o dalla zappa. Ma è cosa ben dura il vedere come i poveri Ruvestini erano perseguitati e condannati a pagare gravose multe per essersi valuti di un dritto che loro accordava la Natura e la Legge sul proprio territorio, e senza il quale non avrebbero potuto sussistere! A lungo andare però gli abusi e le soverchierie si convertono in dritto. Così va il Mondo.

Dopo l’anno 1642 non è a mia notizia che vi fossero stati altri simili procedimenti giudiziali barbari ed abusivi come quelli de’ quali ho finora parlato. Continuarono però sempre i Locati Abruzzesi a tener fermo [a205] il piede nelle già dette contrade demaniali dell’agro Ruvestino, come continuò la resistenza de’ Proprietarj delle masserie per rendere meno pesante il più che fosse stato possibile gli abusi di un dritto usurpato a loro danno. Vi è stata quindi sempre tra i primi ed i secondi una guerra aperta, poichè l’impero della necessità rendeva arditi i proprietarj delle masserie. Questo stato di violenza è durato fino ai nostri giorni e lo fece cessare la pubblicazione della legge del dì 21 Maggio 1806 sul Tavoliere di Puglia, la quale venne ad indurre un nuovo ordine di cose più propizio all’agricoltura ed alle specolazioni agrarie.

Non vi ha dubbio che grande è stato il discapito sofferto dalla nostra città a causa degli abusi di sopra esposti, i quali avevano annientata la industria e l’agiatezza de’ suoi abitanti ed arrestato l’aumento della popolazione. Ma spesse volte la mano della Provvidenza dai più gravi malanni fa sorgere quel bene che meno si avrebbe potuto prevedere. Quasi tutti i terreni seminatorj del precitato agro demaniale Ruvestino coll’andar del tempo erano caduti nelle mani di Corpi Morali Chiesastici e Laicali. Pochissima quantità di essi apparteneva ai particolari.

Quindi le antiche masserie di semina di quel territorio le coltivavano li Ruvestini non più come proprietarj di esse, ma bensì come fittuarj delle Chiese, degli Ordini Religiosi o delle Confraternite. È facile l’intendere che tal circostanza esser non poteva propizia al progresso dell’agricoltura ed al miglioramento de’ terreni, il quale può suggerirlo l’amore della proprietà estraneo ai semplici fittuarj.

Cotesto svantaggio fu corretto dagli articoli 37 38 e 39 della precitata legge del dì 21 Maggio 1806 sul Tavoliere di Puglia. Fu con essi ordinato che i fittuarj de’ terreni azionali del Tavoliere appartenenti ai Pii Luoghi, non esclusa la Religione di Malta, avessero potuto rendersi perpetui censuarj di essi pagando a titolo di entratura alla Cassa del Tavoliere tre annate di estaglio. Sotto il nome di terreni azionali intese la legge comprendere tutti i fondi de’ Pii Luoghi sui quali il Regio Tavoliere vi avesse esercitato un dritto qualunque di pascolo, anche di semplice riposo. Li già detti articoli avendo influito a produrre nel nostro Regno un prodigioso miglioramento dell’agricoltura, è utile riportare la storia di essi, la quale non può a tutti esser nota.

[a206]

Allora che il Governo di quel tempo era occupato a formare, ed indi a discutere la legge suddetta che richiamò le sue prime cure, ebbi la opportunità di essere a giorno delle cose che cadevano in discussione. Mi applicai quindi a scrivere una memoria ragionata colla quale proposi che quella censuazione ch’era sul tappeto per i terreni fiscali proprj del Tavoliere, si fosse estesa anche ai detti terreni azionali de’ Pii Luoghi, per i quali il Regio Tavoliere non aveva un dritto di proprietà, ma semplicemente la servitù attiva del pascolo convenuta coi proprietarj di essi in diversi modi, e con diversi patti introdotti dalle usanze, e dai Regolamenti del Tavoliere. Presi per base de’ miei ragionamenti la utilità pubblica che ne sarebbe risultata per tutti i lati col miglioramento di quelle proprietà fondiarie che nelle mani de’ Corpi Morali sarebbero rimaste in perpetuo languore.

Rafforzai i miei argomenti coll’esempio delle leggi dette di ammortizzazione emesse dal Re Ferdinando nell’anno 1769 e seguenti. Erano stati con esse dichiarati allodiali de’ fittajuoli i beni fondi de’ Pii Luoghi loro conceduti con lunghi affitti. Brillantissimi n’erano stati i risultamenti primo coll’essersi moltiplicati i piccioli proprietarj più utili sempre allo Stato; secondo col notabile miglioramento di tanti fondi per lo innanzi molto mal tenuti. Osservai quindi che lo stesso effetto avrebbe prodotto la censuazione de’ terreni azionali del Tavoliere.

Mi avvidi intanto che queste verità le capivano tutti coloro che avevano parte alla formazione della legge, ma non tutti erano disposti a volerle gustare. Veniva tal progetto acremente contraddetto dai Francesi che avevano allora parte al Governo e più di ogni altro dal Ministro Saliceti ch’era potentissimo. Il motivo di tal contraddizione che sembrava incomprensibile, si venne indi a conoscere, ed era il seguente.

Non era lontana la soppressione degli Ordini Religiosi possidenti e la incamerazione al demanio de’ beni dell’Ordine Gerosolimitano. Tra i fondi azionali del Tavoliere ve n’erano molti che appartenevano tanto ai primi che al secondo. Calcolavano quindi i Francesi che devoluti cotesti fondi al demanio si sarebbero esposti in vendita, e si sarebbe ritratta da essi una forte somma di danaro contante, mentre la proposta censuazione non avrebbe potuto dar altro che un’annua rendita di canoni.

[a207]

Per questa veduta particolare finanziera troppo misera in vero passavano essi di sopra alla utilità pubblica che sarebbe venuta a risultarne dalla censuazione de’ terreni non solo degli Ordini Religiosi che sarebbero rimasti soppressi, ma anche de’ Vescovadi, Capitoli, Badie, Congregazioni Laicali ed altri Pii Luoghi non compresi nella imminente soppressione!

Fortunatamente però nella formazione della legge suddetta era stato chiamato a prendervi una parte principale un insigne e sommo nostro Giureconsulto istruitissimo delle cose del Tavoliere. Alla profonda conoscenza ch’egli aveva anche del Diritto Pubblico e della Economia Politica, univa una bell’anima ed uno spirito sempre pronto e sempre deciso a promuovere il vero bene e la prosperità del nostro Paese. Fu questi il chiarissimo D. Francesco Ricciardi che ben meritò una piazza prima nel Consiglio di Stato, ed indi nel Ministero da lui sostenuto con tanta gloria, e ’l titolo di Conte di Camaldoli, il di cui nome solo vale un elogio, e la di cui memoria è a tutti cara e veneranda.

Al suo profondo sapere, alla robustezza de’ suoi ragionamenti, ed anche alla sua destrezza, non che alla buona intenzione di que’ Napolitani che sedevano allora nel Consiglio di Stato, e guardarono la cosa sotto il suo vero punto di veduta, si deve attribuire l’ammissione de’ precitati tre dibattutissimi articoli. Le vedute finanziere che i Francesi mettevano unicamente a calcolo furono appagate col pagamento delle tre annate di entratura messo per condizione della censuazione, le quali per altro fruttarono alla cassa del Tavoliere somme non lievi.

Malgrado però cotesto pagamento messo per condizione della censuazione, gli articoli suddetti furono accolti con applauso e profittarono di essi colla massima alacrità tutti i fittuarj de’ terreni azionali de’ Pii Luoghi, nè ve ne fu un solo che avesse omesso di proporne la dimanda. Al tempo della Restaurazione fu riconosciuta anche la somma utilità degli articoli suddetti. Rimasero quindi confermati col Real Decreto del dì 29 Gennaro 1817. Si volle con esso un aumento del dieci per cento sui canoni convenuti a favore de’ Pii Luoghi diretti Padroni de’ fondi. Si volle anche il pagamento di una quarta annata di entratura alla cassa del Tavoliere. Niuno però si negò a subire cotesti nuovi [a208] carichi largamente compensati dagl’immensi miglioramenti fatti ne’ fondi suddetti dopo le censuazioni dell’anno 1806. Quando le leggi, malgrado che non siano coattive, vengono dalla generalità spontaneamente eseguite, è questa una pruova infallibile della sapienza ed utilità di esse.

La Giunta del Tavoliere destinata allora per la esecuzione della precitata legge nell’accordare le censuazioni che a folla venivano dimandate, si atteneva al fatto puramente materiale. Aveva per azionali que’ terreni ne’ quali il Regio Tavoliere e per esso i Locati si trovavano nell’attuale possesso di esercitare un dritto qualunque di pascolo. E poichè non vi poteva esser dubbio ch’era questa la condizione di tutti i terreni siti nel demanio di Ruvo, quindi tutte le dimande proposte per i terreni de’ Luoghi pii che in esso erano siti, furono accolte senza esitazione. Nè vi fu un solo fittuario di essi che non avesse profittato tanto della legge dell’anno 1806, quanto di quella dell’anno 1817.

Ecco come da un dritto sicuramente abusivo nel suo principio, il quale costò tante vessazioni e tanti affanni ai nostri antenati, n’è derivato un bene immenso ed inestimabile. Senza di ciò non sarebbero mai più ritornati nelle mani de’ particolari que’ terreni fertilissimi, i quali formavano un tempo, come formano anche oggi la ricchezza e la opulenza della nostra città. Ed in vero dall’epoca della legge del Tavoliere, la quale ha troncati anche tutti gli antichi e barbari abusi, fino al presente giorno si vedono ivi notabilmente accresciute le piantazioni, i terreni seminatorj sono stati molto migliorati, e tuttavia si migliorano, e l’agricoltura fiorisce e va innanzi a meraviglia.

Il maggior beneficio però che ci hanno fatto le novelle leggi del Tavoliere, e della chiusura de’ terreni demaniali, è stato quello di averci liberati per sempre dai molestissimi ospiti Abruzzesi che venivano a far da Padroni sulle nostre proprietà, quasi che fossero stati essi i veri eredi degli Arcadi che le conquistarono colle loro armi! Troncati gli antichi abusi, abolita la promiscuità di pascolo tra i cittadini ed i Locati anche sui terreni seminatorj del demanio abusivamente sanzionata dal decreto di Revertera e di Guerrera dell’anno 1549, e permessa dalla legge del dì 3 Dicembre 1808 la chiusura de’ terreni appatronati demaniali ed aperti, non è rimasto ai Locati suddetti nell’agro Ruvestino che quel dritto [a209] soltanto ch’era puramente legittimo, cioè il pascolo vernino di quel bosco che il Regio Tavoliere acquistò dal Conte di Ruvo col contratto dell’anno 1552 di cui innanzi si è parlato.

Quel pascolo però era dagli Abruzzesi ricercato quando per i precitati abusi introdotti era loro permesso di uscire dal bosco e gittarsi con un numero immenso di animali sulle masserie de’ poveri Ruvestini site nel demanio e devastarle senza misericordia. Limitato e ristretto, com’era regolare, il loro dritto al solo pascolo del Bosco purgato dagli antichi abusi, pare che quell’erbaggio, comunque eccellente, non gli abbia più solleticati. Quindi i Locati Abruzzesi ai quali rimase lo stesso censito per lo intero nell’anno 1806, lo hanno lasciato e lo vanno lasciando man mano. Molte porzioni del detto bosco sono state da essi alienate e cedute parte ai Ruvestini istessi, e parte ad altri ricchi proprietarj di quella Provincia. Nè tarderà forse molto che uscirà lo stesso per lo intero dalle loro mani. Sarebbe però desiderabile che ritornasse tutto ai Ruvestini per i quali la Natura lo aveva destinato, ma la feudalità lo tolse alle loro industrie armentizie.

CAPO XII. Degli abusi e gravezze che la città di Ruvo ha sofferte dalla prepotenza Baronale.

Prima che i Barbari del Nord ci avessero fatto il regalo della feudalità il vasto territorio di Ruvo costituiva il patrimonio della città e de’ suoi abitanti, che lo animavano coll’agricoltura e colla pastorizia sicure sorgenti di quella ricchezza che ben la pruovano i grandiosi monumenti delle belle arti ivi disotterrati all’epoca nostra. Ed in vero la spiga del grano, la testa del bue e ’l corno dell’abbondanza che si osservano nelle antiche monete Ruvestine riportate nelle due tavole annesse al capo II fanno sicura testimonianza dello stato floridissimo in cui doveva esser ivi l’agricoltura.

Per le città cadute sotto il giogo della feudalità non è facile definire ciò che da principio fu dato al feudo, e ciò che rimase alla popolazione, [a210] e porre quindi una linea di separazione certa e sicura tra l’uno e l’altro. Mancano i pubblici Registri delle primitive concessioni, e quando anche vi fossero, tali concessioni in feudo si facevano in quel tempo colle solite clausole generali, dalle quali nulla poteva definirsi di ciò che nel particolare precisamente si era dato. Quindi nelle indagini di tal fatta è bisognato spesso farla quasi da indovino.

Non si può dire che le concessioni de’ feudi fossero state mere dignità ventose, perchè i Capi Condottieri delle Orde Settentrionali dovevano dividere la preda coi loro compagni d’armi, e dare loro i mezzi di vivere bene. Dovevano inoltre porgli in grado di servire nella guerra con un determinato numero di soldati ed a loro spese quando l’uopo lo avesse esatto, poichè era questo in quel tempo l’obbligo de’ feudatarj, ed i Regj eserciti gli formavano le forze riunite de’ Baroni, circostanza la quale gli rendeva anche potentissimi.

Non si può dire tampoco che nulla si fosse lasciato alle popolazioni vinte e soggiogate, poichè sarebbe stato ciò lo stesso che farle perire e distruggere con esse anche i feudi conceduti. In questa materia quindi bisogna tenere una via di mezzo. Si deve distinguere ciò ch’è stato usurpato da ciò ch’è stato, o ha potuto essere conceduto. Comunque tali concessioni traggano la loro origine dalla violenza e dalla forza, nondimeno divenne questa una legge. Hoc jus invaluit. Il dirsi dunque o che tutto sia stato del feudo o che tutto sia stato della popolazione sono due proposizioni che le ho trovate sempre esagerate e viziose.

Li nostri antichi Tribunali convinti di queste verità nelle quistioni di questa specie, mentre mancavano le primitive concessioni de’ feudi, e quelle che vi erano de’ tempi posteriori non contenevano che clausole generali, per distinguere ciò che fosse stato conceduto da ciò che fosse stato usurpato, si attenevano agli antichi documenti dai quali avesse potuto risultare la pruova di un possesso annoso e non contraddetto, tra i quali documenti vi erano anche i rilevj pagati alla Regia Corte[239].

[a211]

Quali dunque erano le cose sicuramente feudali della città di Ruvo? Per la generalità di esse mancano nelle carte antiche gli elementi che possano indicarle. Colla lettera Regia del Re Carlo I dell’anno 1272 riportata innanzi alla pagina 135 fu ordinato al Giustiziere della Terra di Bari di prendere informazione della rendita che si ritraeva dai corpi, e dritti feudali Castri Rubi. Ma non sono in essa questi indicati, nè si conosce se la informazione dal Re ordinata siasi presa, e quale ne sia stato il risultamento.

Nella informazione senza data presa al tempo del Re Carlo II de’ Feudatarj della Provincia di Bari riportata innanzi alla pag. 137 si dice che il Feudatario di Ruvo era tenuto pro feudali servitio quinque militum; ma non si conosce da qual calcolo di rendite o di proventi componenti il feudo nasceva il peso suddetto al feudatario imposto.

Nella concessione fatta dal Re Roberto nell’anno 1311 della città di Ruvo alla Regina Sancia sua consorte le venne questa assegnata in conto del di lei dotario per l’annua rendita di once dugento come si è veduto innanzi alla pag. 144. Ma non si conosce tampoco da quali corpi e dritti feudali cotesta rendita provveniva. Si può solo da questo documento arguire che la rendita suddetta per la quale la città di Ruvo le venne assegnata non era indiscreta, e quindi li proventi feudali che allora si esigevano esser non dovevano tanto esagerati, quanto lo divennero dappoi a forza di abusi e di prepotenze sotto i successivi Feudatarj.

In fine nella concessione della nostra città fatta nell’anno 1387 dal Re Ladislao ad Antonio Santangelo e Federico Vrunforti riportata innanzi alla pagina 157 fu ordinato anche che si fosse presa tra sei mesi la informazione della rendita che dalla stessa si ritraeva; ma di cotesta informazione manca qualunque notizia. Colla stessa concessione inoltre [a212] fu imposto ai concessionarj il peso di pagare al Re venti once d’oro per ciascun servizio militare: ma non è spiegato su di quali elementi cotesta tassa sia stata regolata.

Nella oscurità che presentano le dette carte antiche ciò ch’è sicuro è la qualità feudale dell’antichissimo, e vasto bosco di Ruvo della estensione di sei in settemila moggia. Ed in vero nella precitata concessione dell’anno 1269 fatta da Carlo I di Angiò ad Arnolfo de Colant gli fu dato Castrum Rubi cum foresta, e nella già detta sua lettera dell’anno 1272 ordinò che si fosse presa informazione della rendita che dava Castrum Rubi ex foresta, et terris convicinis, et circumadjacentibus dicto Castro. Ond’è che il detto Bosco in tutti i Rilevj è riportato come feudale, e l’erba di esso è stata venduta dai Feudatarj di Ruvo alla Regia Corte per uso del Tavoliere di Puglia col contratto dell’anno 1473, di cui sarò tra poco a ragionare, e dell’anno 1552, di cui ho parlato innanzi alla pagina 201 e 202.

Era sicuramente feudale anche un’altra picciola difesa poco lontana dalla città denominata Parco del Conte, la quale probabilmente era una ex terris convicinis et circumadjacentibus dicto castro, delle quali si parla nella precitata lettera di Carlo I dell’anno 1272. Cotesta difesa nel decreto di Revertera dell’anno 1549 è chiamato parcum jumentorum sive equorum perchè in essa la Casa d’Andria teneva la sua razza de’ cavalli. Cotesta difesa fu rispettata col decreto suddetto come si è veduto innanzi alla pagina 199, ed è riportata in tutti i Rilevj come un corpo feudale[240].

Dagli stessi antichi rilevj risulta similmente che apparteneva al feudo anche la Bagliva. Vero è che dai Registri di Carlo I e di Carlo II riportati alla pagina 134 risulta che cotesto dritto fu escluso dalle concessioni in feudo da essi fatte e se lo riserbò il Re, e che la concessione fatta da Ladislao nell’anno 1387 (pag. 157) fu rimessiva alle precedenti [a213] concessioni. Non è meno vero però che nelle posteriori concessioni dall’epoca Aragonese in poi riportate innanzi nel Capo IX e X, vi andò compresa anche la Bagliva, poichè si sa che le concessioni Aragonesi furono in questa parte più larghe delle Angioine.

Non si può quindi dubitare della feudalità di cotesto dritto. Si deve bensì intendere lo stesso limitato e ristretto a que’ cancelli che dalle antiche Leggi del Regno erano prefissi ai dritti bajulari, e non già esteso a quelle avanie abusi ed estorsioni che furono in seguito introdotte dalla prepotenza Baronale, come anderemo a vederlo or ora.

Vi è anche tutta la ragione di credere o almeno di dubitare fortemente che abbia potuto costituire un demanio del feudo quella parte della contrada delle murge di Ruvo ch’è rimasta tuttavia aspra e selvatica, perchè negata alla coltura. Nella precitata concessione di Carlo I di Angiò dell’anno 1269 fu la città di Ruvo conceduta cum pratis pascuis etc. e si riserbò il Re sui paschi conceduti il dritto di farvi pascere gli animali delle sue razze. Si sa che coteste riserbe apposte nelle concessioni de’ Sovrani Angioini riguardavano principalmente i demanj de’ feudi conceduti, ed inducono quindi la presunzione che nel territorio di Ruvo vi doveva essere un demanio feudale compreso nella concessione suddetta, sul quale avrebbe potuto tal riserba esercitarsi.

Negli antichi giudizj che hanno avuto luogo tra i Duchi di Andria e Conti di Ruvo da una parte, e ’l Regio Tavoliere e suoi Locati dall’altra, si è avuto per vero che un demanio feudale dell’agro Ruvestino sia stata la contrada delle murge, sulla quale questi ultimi hanno preteso il dritto di riposo che gli Scrittori Doganali hanno dato per vero, ma la Casa d’Andria ha sempre acremente contraddetto.

In fatti assumeva quest’ultima che l’unico dritto del Regio Tavoliere di Puglia sul territorio di Ruvo era la proprietà dell’erba vernina e della ghianda del bosco acquistata col contratto dell’anno 1552 riportato innanzi alla pagina 201 e 202. Ma il preteso dritto di riposo sul demanio feudale delle murge mancava di qualunque titolo.

Si replicava però dal Regio Tavoliere e dai Locati che il titolo suddetto non mancava, e che lo costituiva un contratto combinato nell’anno 1473 tra il Re Ferdinando I di Aragona e Pirro del Balzo Duca di Venosa e Conte di Ruvo, di cui innanzi si è parlato. Col precitato [a214] contratto (essi dicevano) vendè costui alla Regia Corte per annui ducati mille e cento l’erba del bosco di Ruvo dal dì della Vigilia del Santo Natale in avanti per uso del Regio Tavoliere di Puglia, e ’l dritto di riposo nelle murge tanto di Ruvo che di Minervino[241].

Si convalidava cotesto assunto con un notamento che si trova ne’ Registri Aragonesi del Grande Archivio, dal quale si rileva che il detto Re Ferdinando I con lettera scritta da Foggia nel dì 10 Gennaio 1473 ordinò che si fossero pagati a Pirro del Balzo Duca di Venosa annui ducati 1100 per li SUOI ERBAGGI si piglia la Dogana delle pecore, così per accordo, cioè per lo Bosco e Demanio de Minervino, Bosco e Demanio de Rubo[242]-[243].

Si aggiugneva che lo stesso Pirro del Balzo con suo ricorso dato al Re nell’anno 1474 si dolse che un tale Cola Colletta Uffiziale Doganale abusava del suo incarico, e si permetteva di fidare animali grossi e piccioli de’ Paesi convicini ne’ suoi erbaggi di Ruvo e Minervino prima che vi fossero entrati gli animali del Regio Tavoliere. Il Re Ferdinando I nel dì 16 Maggio 1474 diè ordini precisi al Doganiere di Foggia che avesse fatto cessare cotesto abuso[244].

[a215]

Con questi documenti il Regio Tavoliere, ed i Locati giustificavano il loro dritto sulle murge di Ruvo. La Casa d’Andria non negava il contratto passato con Pirro del Balzo nell’anno 1473. Ma osservava che Federico di Aragona divenuto già Re di Napoli aveva venduta la città di Ruvo al Conte di Trivento cum herbagiis, pascuis, fidis diffidis Bajulationibus etc. senza veruna riserba del preteso dritto di riposo del Regio Tavoliere, il quale in conseguenza non poteva pretendere quelli erbaggi che il Re aveva venduti liberi da qualunque servitù.

Confermava cotesto assunto coll’osservare che il Regio Tavoliere stava pagando i soli annui ducati 1750 convenuti collo strumento dell’anno 1552 per l’erba e la ghianda del Bosco di Ruvo. Ma se fosse continuato il contratto dell’anno 1473 anche per lo riposo delle murge che son diverse dal Bosco, altra somma avrebbe seguitato a corrispondere la cassa del Tavoliere anche per tal causa, il che non essendovi, era chiaro che il contratto dell’anno 1473 per quella parte che riguardava il riposo delle murge era rimasto disciolto colla vendita fatta dal Re Federico della città di Ruvo, senza di questo peso.

Or qualunque voglia credersi il merito della predetta quistione certamente non lieve elevata tra la Casa d’Andria, e ’l Regio Tavoliere, è notabile che quest’ultimo ripeteva il suo dritto sulle murge di Ruvo da un contratto passato nell’anno 1473 tra il Re Ferdinando I, di Aragona, e ’l feudatario di quella città. Il che dava un appoggio fortissimo al Duca d’Andria di assumere che il suo dritto sul demanio delle murge era garantito da un possesso di quattro secoli, il quale partiva da un fatto de’ passati Sovrani di questo Regno che lo avevano riconosciuto.

Per l’esposte considerazioni, dico il vero, non ho veduto mai chiara la quistione promossa sulla qualità del demanio delle murge, e non sono stato mai convinto che non abbia potuto formare quella contrada un demanio feudale. Ho però opinato a questo modo per i soli terreni rimasti aspri e selvatici, non già per quelli che da tempo immemorabile si trovano dissodati, e ridotti a coltura con essersi su di essi stabilite le masserie di semina.

Cotesti terreni coltivati non essendo stati mai soggetti a veruna [a216] prestazione feudale sia in generi, sia in danaro, è il fatto istesso quello che gli mostra liberi e franchi da qualunque suggezione feudale. Il che lo conferma anche un Registro del Re Carlo II di Angiò cioè una lettera Regia a favore Judicis Angeli Andreæ de Rubo. Ordinò con essa che non fosse stato questi molestato e turbato dal possesso di un territorio che aveva nel tenimento di Ruvo in murgia juncati, quod dicitur lama cervaria, cum turribus, quæ dicuntur Guillelmi Aponis, et terras astantes, juxta lamam et turres prædictas[245]. Cotesta contrada ritiene tuttavia il nome di Giuncata, luogo del trifinio tra Ruvo, Andria e ’l Garagnone di cui si è parlato innanzi alla pag. 168.

Da cotesto registro ben si rileva che i cittadini di Ruvo da tempo antichissimo han posseduti nelle murge terreni di loro assoluta proprietà. Nelle cose antiche quando mancano le memorie chiare e precise della origine di esse, decide il fatto. Dalle circostanze premesse non manca certamente una ragione di dirsi che nel demanio delle murge di Ruvo sui terreni coltivati non vi ha mai il Barone rappresentato o esercitato verun dritto. Ma sulla parte selvatica ed agreste non può dirsi francamente lo stesso, perchè i fatti avvenuti nell’epoca specialmente de’ Sovrani Aragonesi possono far credere diversamente.

Era questa per quanto a me pare l’antica posizione legale o sia la dotazione del feudo di Ruvo che può credersi legittima. Non so quali abusi abbiano potuto essere introdotti da coloro che possederono in feudo la nostra città prima dell’anno 1510, epoca dell’acquisto fattone dal Cardinale Oliviero Carafa, poichè mancano le memorie de’ fatti avvenuti in quel tempo. Certo è intanto che nel lunghissimo tratto di tempo che la stessa è stata in mano della famiglia Carafa non vi sono stati abusi gravezze e soverchierie che quella Popolazione non abbia avuto a soffrire fino all’ultima dramma. Anche l’aria che ivi si respirava si fece divenir feudale a forza di prepotenze. Spenta quindi la energia, l’industria e la specolazione agraria della popolazione suddetta, fu la stessa in ultimo ridotta alla miseria estrema e degradata allo stato di una popolazione di schiavi di una privata famiglia prepotentissima.

[a217]

La mia penna non è usa alla satira. Dico i fatti come sono avvenuti, e come gli ho rilevati da atti pubblici e da documenti positivi ai quali non vi è che ridire. L’attuale Signor Duca d’Andria D. Francesco Carafa è un ottimo uomo e stimabilissimo Cavaliere pe ’l quale ho tutto il rispetto. Niuna parte ha egli avuta alle gravezze che la mia Patria ha sofferte dai suoi Illustri Antenati. Anzi con una laudabile e virtuosa docilità si è prestato ad emendarle per quanto si è potuto, come nel susseguente capo anderemo a vederlo. Ma non è nel potere di alcuno il cancellare i fatti avvenuti, come non è tampoco a me permesso di trasandare que’ spiacevoli avvenimenti che formano parte della storia che ho impreso a scrivere.

Per poter formare una idea della prepotenza della Casa d’Andria, a cui la nostra città non ebbe la forza di resistere, basta leggere ciò che dice il precitato Scrittore Doganale Stefano de Stefano del Bosco di Ruvo acquistato dal Regio Tavoliere, come innanzi si è detto, col contratto dell’anno 1552.

Il bosco di Ruvo dai Locati non solamente in nessun modo non si gode, ma non si conosce ov’egli sia sito; onde se lo spettabile Reggente Gastone nella relazione che fece nel 1681 al Marchese de Los Velez presso Ageta nel fine della Parte III all’annotazione di Moles a carte 107 in princip. si doleva ivi (reca quì le precise parole del rapporto del Reggente Gastone Scritto in lingua Spagnuola, col quale diceva che i Locati non osavano porre il piede nel bosco di Ruvo per la potenza della Casa d’Andria, ed erano costretti a cederne l’erba alla stessa per un tozzo di pane), ai tempi nostri detto Bosco di Ruvo è divenuto assai peggiore di quello che dal nostro Torquato ci vien descritto cotanto folto ed orribile che a chiunque tentava di entrarvi niegava l’ingresso

Nè qui gregge od armento ai paschi all’ombra

Guida bifolco mai, guida pastore,

Nè v’entra peregrin se non smarrito

Ma lunge passa, e lo dimostra a dito.

Conciosiachè quell’iperbolico bosco era almeno da’ passaggieri veduto: ma questo di Ruvo per cui dalla Regia Corte se ne pagano in ciascun anno ducati mille settecento cinquanta, come si disse nel proemio part. I art. [a218] IV n. 44, e se ne riscuotono dai Locati col venti per cento intorno a ducati 6300, non solo ai pastori che dovrebbero introdurvi le pecore è vietato l’ingresso: ma non sanno coloro che lo comprano nè men ov’egli si trovi; e se in quello del Poeta entravano i peregrini smarriti, in questo i pratici ed esperti Locati, benchè camminino per istrade piane e diritte, non ardiscono penetrarvi per dubbio di non perdersi e di non rinvenir più il modo da poter uscire da sì intricato laberinto[246].

Laonde non ostante che nell’anno 1709 precedente istanza dello spettabile Signor Reggente Mazzaccara allor zelantissimo Avvocato Fiscale del Regal Patrimonio si fosse dalla Regia Giunta ordinato che sotto formidabili pene l’Illustre Duca d’Andria non ardisse nec directe, nec indirecte et nec per suppositas personas, comprar dai Locati i pascoli di esso bosco, vedendosi poi che i poveri Locati con questo espediente perdevano altresì quel tozzo che per l’addietro avevano ricuperato, furono astretti, anche per opera di chi compariva per il suo privato interesse con veste di pastor lupo rapace, ricorrere nella stessa Regia Giunta, e col motivo di non potersi avvalere di essi erbaggi di Ruvo e per la lontananza de’ luoghi, e per la qualità de’ paschi, e per la mancanza dell’acqua, e per altri mendicati pretesti, ottennero precedente relazione de’ due Magnifici Credenzieri di essa Regia Dogana che li fosse stato lecito tornarli a rivendere o al menzionato Illustre Duca d’Andria, o a chi meglio l’avesse potuto riuscire, come dagli atti e provisioni spedite presso l’Attuario Pietro Paolo de Fusco[247].

Così scriveva il precitato Scrittore nell’anno 1731 quando questo Regno era ancora sotto la dominazione dell’Imperatore Carlo VI. Passato lo stesso sotto il governo di Carlo III di gloriosa memoria, e cessata l’amministrazione de’ Vicerè sotto la quale era stato poco men di [a219] due secoli e mezzo, la Regia Autorità cominciò ad essere più rispettata, e la potenza de’ Grandi fu almeno più repressa. Portatasi maggiore attenzione e maggior rigore anche sull’amministrazione del Regio Tavoliere, il Bosco di Ruvo fu finalmente strappato dalle mani del Duca d’Andria. Li Locati cominciarono a valersene come prima. Veniva lo stesso assegnato per lo pascolo di quarantamila pecore, come lo dice lo stesso Scrittore, e fino ai nostri dì si è veduto sempre coverto di pecore de’ Locati Abruzzesi.

Avendo però la Casa d’Andria perduto quel forte guadagno che faceva sull’erba e sulla ghianda di esso, pensò rifarsene con usura in un modo anche peggiore. Quel Bosco che nell’anno 1731 lo descriveva de Stefano così folto ed impenetrabile, al cadere del secolo XVIII era rimasto denudato in modo che aveva perduto quasi l’aspetto di bosco. Quando nella mia gioventù mi sono ivi recato al divertimento della caccia di cui è feracissimo, ebbi a notare che in moltissimi luoghi di esso si scuopriva un uomo alla distanza di un quarto, di un terzo, della metà di un miglio, ed in alcuni luoghi anche molto maggiore, cosa non mai avvenuta nel foltissimo bosco di Ruvo!

La Casa d’Andria aveva fatto dare allo stesso un taglio spietato. Tutti i rami delle annosissime e grandiose querce che vi erano gli aveva fatti recidere con aver rimasti i nudi tronchi tagliati a testa di Monaco, giusta il linguaggio del luogo. Da un taglio così barbaro dato da anno in anno fu ritratta una immensa e sterminata quantità di legna che mente umana non la può concepire. Ridotte queste a carboni o vendute alle convicine Popolazioni ch’erano scarse di boschi, e specialmente agli Altamurani che non ne hanno affatto, fruttarono somme rilevantissime, poichè nella Provincia di Bari le legna, ed i carboni si pagano a caro prezzo.

Un taglio di tal fatta era vietato dalle leggi. Una quercia tagliata a questo modo rimane colle fibre esposte nel tempo estivo ai cocenti raggi del sole e nell’inverno al gelo. Quindi o va a perire e seccarsi, o rimena i nuovi rami con molto languore. Oltre ciò li ramoscelli che rimenano vengono anche amareggiati dai morsi degli animali bovini, i quali trovando i tronchi recisi a non molta altezza, possono avidamente cibarsene.

[a220]

D’altronde avendo la Casa d’Andria col contratto dell’anno 1552 venduta alla Regia Corte la ghianda di quel bosco, non l’era certamente permesso di recidere que’ rami che la producevano, e lasciare i tronchi degli alberi perfettamente denudati di essi. Il dritto di legnare nel detto bosco che gli era rimasto era limitato e ristretto al taglio delle legna non fruttifere e delle spine che in quella Provincia hanno anche un prezzo, e non già de’ rami verdi vegeti e ghiandiferi, i quali appartenevano al Re.

Di cotesto sterminio del Bosco di Ruvo li Locati Abruzzesi non se ne risentirono affatto sia perchè non vollero compromettersi di nuovo colla Casa d’Andria, che gli aveva scottati molto bene per lo passato, sia piuttosto perchè vi trovavano il loro conto. Non contavano essi affatto sulla ghianda, ma bensì sull’erba la quale collo sfollamento del bosco veniva a rendersi più copiosa, più gentile ed anche più sicura, poichè l’ombra soverchia degli alberi può produrre un’erba velenosa per gli animali pecorini chiamata tortora dai Naturali del luogo, la quale gli fa perire.

Il taglio però dato al Bosco suddetto fu del massimo pregiudizio e dispetto per la popolazione di Ruvo che rappresentava su di esso i pieni usi civici di legnare e di tagliare le spine. Vero è che questi dritti erano rimasti anche annientati dalla prepotenza Baronale, perchè se nel bosco si trovavano i poveri a legnare o a tagliar spine, erano crudelmente bastonati dagli Armigeri Baronali a cavallo addetti alla custodia di esso. In quanto ai ricchi le legna loro non mancavano, specialmente per lo bisogno delle masserie di semina, ma le avevano medianti le larghe largizioni che facevano ai custodi istessi.

Venendo però come venne il tempo in cui cotesti dritti compressi dalla forza sarebbero stati, come lo furono rivendicati, la devastazione del bosco già seguita fece mancar la materia all’esercizio di essi, poichè un bosco danneggiato a questo modo tempo vi occorre per rimettersi, ed è ben difficile che si rimetta nello stato primiero. Nè minor danno recò il guasto suddetto allo intero agro Ruvestino, poichè da quell’epoca in poi è stato lo stesso flagellato con frequenza da spaventevoli e sterminatrici gragnuole, le quali erano prima molto rare. Si sa [a221] ch’è questa la conseguenza inevitabile di quella mania di distruggere i boschi che ai tempi nostri si è pur troppo sconsigliatamente propagata, malgrado gli sforzi adoperati dal Governo per rifrenarla.

Tanto avvenne pe ’l bosco. In quanto poi al demanio delle murge la resistenza opposta sempre dalla Casa d’Andria ai Locati Abruzzesi non era dettata dalla sola albagia e dal principio di non voler soggiacere ad una servitù che credeva non dovuta; ma vi prendeva anche parte l’interesse. Rilevanti somme di più migliaia di ducati l’anno la Casa d’Andria ritraeva dalla vendita dell’erba vernina delle murge. Un buon tratto di quel demanio veniva dalla stessa chiuso e difeso sotto la custodia de’ soliti Armigeri a cavallo. A coteste chiusure si dava il nome specioso di parate. L’erba vernina quindi delle parate la vendeva a suo profitto, ed era questa inaccessibile a chiunque non l’avesse comprata, poichè gli Armigeri suddetti sapevano bene menar le mani con coloro che si fossero alla stessa avvicinati coi loro animali con intenzioni diverse.

Coteste parate se impedivano il dritto di riposo che pretendevano i Locati della Locazione di Salpi sulla intera contrada delle murge, era questo almeno un dritto controverso. Ma pregiudicavano anche il dritto de’ cittadini il quale era sicurissimo e non poteva essere contraddetto per qualunque plausibile pretesto, o ragione che la Forense sottigliezza avesse escogitata.

Considerata anche la contrada delle murge come un demanio feudale, giusta la posizione della Casa d’Andria, erano sempre ed in ogni caso dovuti ai cittadini i pieni usi civici. Le note leggi emanate dal Re Ferdinando I di Aragona e dall’Imperator Carlo V vietavano severamente ai Baroni di chiudere e difendere qualunque porzione de’ demanj feudali in pregiudizio degli usi civici dovuti alle popolazioni. Le parate suddette sottraevano a questi usi la porzione maggiore della miglior erba delle murge. Quella che rimaneva fuori di esse non era bastante al bisogno ed al comodo de’ cittadini.

In quanto poi all’erba estiva della contrada suddetta, la freschezza del sito la rendeva e la rende un pascolo estivo necessario ed indispensabile per la salute degli animali. Rimaneva quindi aperta all’uso de’ [a222] cittadini senza pagamento alcuno di fida. Era però tale e tanta la quantità degli animali forestieri che la Casa d’Andria vi fidava per far danaro, che di poco o niun sollievo riusciva quel pascolo agli animali de’ cittadini. Tanto più che a quelli dava la Casa d’Andria l’acqua delle sue peschiere, e questi n’erano privi e quindi molto poco potevano profittare dell’erba.

Or cotesto dritto di fida degli animali forestieri la Casa d’Andria lo aveva esteso abusivamente allo intero demanio di Ruvo, ed in conseguenza anche alle cinque contrade di sopra nominate coverte dalle masserie di semina de’ cittadini cioè alle matine, strappete, ralle, monserino, e bel luogo. Doppio era l’eccesso che da ciò ne risultava. Il primo che veniva ad esercitarsi cotesto dritto abusivo anche in quella parte del demanio ch’era sicuramente comunale. Il secondo perchè si esercitava su di terreni appatronati, poichè come innanzi si è detto il terreno di quelle contrade è quasi tutto coltivabile ed occupato dalle masserie di semina de’ cittadini.

Intanto quelle misere contrade erano flagellate e devastate dagli animali de’ Locati Abruzzesi, da quelli de’ fidatarj del Barone e da una gran quantità di animali d’industrie della stessa Casa d’Andria! Non fia dunque meraviglia se fino a quarant’anni indietro le industrie armentizie de’ Ruvestini un tempo floridissime erano rimaste talmente estenuate che le carni del macello pel vitto degli abitanti o dovevano comprarsi dalla Casa d’Andria o cercarsi al di fuori!

Si aggiunga a ciò che i pochi animali rimasti ai cittadini sia per la coltura de’ terreni, sia per l’industria venivano anche sommessi ad una estorsione quanto arbitraria, altrettanto scandalosa che la Casa d’Andria esigeva a titolo specioso di cortesia. Consisteva questa in una misura e mezza di grano per ogni bue, grana sei ed un terzo per ogni vacca, grana quindici per ogni cento pecore, e carlini trentacinque per ogni centinajo di porci. Cotesta bella cortesia, del pari che la fida di cui si è testè ragionato andava tra l’esazioni della Bagliva, nome collettivo che comprendeva una grandine di arbitrarie imposte escogitate dalla sottigliezza Baronale per ismugnere per tutti i lati quella misera popolazione.

[a223]

Ne’ giudizj trattati nell’anno 1797, de’ quali si parlerà nel capo che sussiegue gli Avvocati della Casa d’Andria ebbero la poca avvedutezza di produrre un pubblico strumento del dì 6 Marzo 1594 stipulato dal Notajo Prospero de Rufis di Bisceglia, col quale aveva data la stessa in affitto la Bagliva di Ruvo. Erano in quello strumento inseriti i Capitoli delle moltiplici esazioni alla stessa annesse, le quali essendosi da me destramente rilevate, destarono una giusta indignazione nell’animo de’ Giudici. Ne cennerò quindi alcuni ben curiosi.

Chiunque andava a caccia nel territorio di Ruvo pagar doveva la licenza al Baglivo. Chiunque poi si fosse trovato a cacciare nel bosco o pagar doveva la multa di dodici once d’oro o perdere un braccio!!! Chiunque voleva tenere aperta una bottega pagar doveva la licenza al Baglivo. Se si rinveniva un animale sperduto se lo appropriava il Baglivo. Li giocatori ed i bestemmiatori si componevano col Baglivo con una multa pecuniaria etc. etc. Capitoli veramente aurei!

Ma fu bello anche il vedersi che a coteste famose esazioni bajulari erano annessi anche i diritti ed i proventi della Giurisdizione della Portolania, e de’ pesi e misure, la quale non era stata mai conceduta dal Re a cui apparteneva, ed aveva quindi bisogno di una concessione speciale. Allora che il Cardinale Oliviero Carafa acquistò il feudo di Ruvo nell’anno 1510 dai Conjugi D. Raimondo di Cardona e D. Isabella Requesens, ebbe conceduta la Giurisdizione delle prime e seconde cause civili e penali, ma non già quella della Portolania, e de’ pesi e misure.

È risaputo che nell’anno 1609 fu con ordini generali prescritto che cotesta Giurisdizione, la quale apparteneva al Re si fosse venduta alle Università del Regno. Quindi il Tribunale della Regia Camera della Sommaria si applicò a formare le istruzioni, e stabilire i regolamenti circa il modo in cui doveva essere esercitata dalle Università che andavano ad esserne investite. Le istruzioni suddette furono pubblicate nel dì 22 Gennajo 1613.

Per ismentire quindi vie più l’assunto che la Giurisdizione suddetta fosse appartenuta alla Casa d’Andria, come sostenevano li suoi Avvocati sull’appoggio del precitato strumento che menavano innanzi, non [a224] mancai di riscontrare i Libri del Real Patrimonio, i quali si conservavano allora nel Tribunale suddetto, ed ora son passati nel Grande Archivio, onde acquistare una sicura conoscenza di ciò che si era del precitato anno 1609 operato per la Giurisdizione della Portolania, e de’ Pesi e Misure della città di Ruvo e trarne gli opportuni documenti. Trovai che si era la stessa venduta alla Università e che nella situazione de’ fuochi dell’anno 1612 si erano messi a suo carico annui ducati 394.311 per la Portolania, ed altri ducati 188.312 per i pesi e misure[248].

Dal che venne a risultare lucidamente che per la detta Giurisdizione usurpata dalla Casa d’Andria, e spacciata come una Giurisdizione feudale, la città di Ruvo stava pagando allo Stato la forte somma di annui ducati 583.103 caricata sulla tassa de’ fuochi! Dimostrai inoltre che dopo ciò il Tribunale della Regia Camera della Sommaria nel dì 10 Dicembre 1629 ad istanza della nostra città aveva ordinato al Governatore di Ruvo detto allora Capitaneo che non si fosse ingerito nella giurisdizione della Portolania, e de’ pesi e misure, ed avesse lasciata la Università nel libero esercizio di essa[249]. Ma cotesti ordini nulla erano valuti contro la prepotenza che rendeva tutto feudale!

Negli aurei Capitoli della Bagliva vi andava compresa anche la sensalia sommessa del pari ad una tassa. Lungi però dall’esser stato questa giammai un dritto feudale, era stata anzi manifestamente usurpata alla università, cui apparteneva. Nelle capitolazioni dell’anno 1308 presentate dalla nostra città al Re Carlo II di Angiò innanzi riportate alla pagina 142 tra i dazj che impose a se stessa per potere far fronte ai pubblici pesi che le incumbevano, vi fu anche quello della sensalia che la prepotenza Baronale la invertì in un dritto feudale, e la incluse tra le altre estorsioni della Bagliva.

[a225]

Dalle cose premesse è facile comprendere che cotesta Bagliva era un vocabolo che includeva in se una moltiplicita di mezzi diretti a vessare, e scorticare la gente in tanti modi e per tante vie. In conseguenza non si poteva dare in affitto che a persone audaci, insolenti e fatte per taglieggiare e flagellare la popolazione coll’aura della prepotenza Baronale a di cui profitto tornavano le loro estorsioni.

Da un altro antico strumento stipulato dal Notajo Nicolò de Marinactiis di Corato ho rilevato che il Sindaco e gli Eletti della nostra città per liberare i cittadini dalle tante molestissime vessazioni che soffrivano dai Baglivi si videro nella necessità di prendere in affitto dal Duca d’Andria la Bagliva per conto della Università per la seguente ragione, Quia ipsi Bajuli Bajulationem exercebant non sine molestia dictæ civitatis et hominum ipsius PROPTER EJUS ARDUA SOLITA ET CONSUETA CAPITULA. Si caricò la città del pagamento di annui ducati seicento, ch’erano in quell’epoca una somma ben forte, per comprare la tranquillità e la quiete de’ suoi abitanti! Convenne anche in seguito rinnovarsi lo stesso ruinoso espediente con essersi portato l’affitto della Bagliva prima ad annui ducati ottocento ed indi a ducati mille. Si accrescevano le vessazioni per obbligare la città a redimerle a prezzo più caro! Nella Consulta della Regia Camera della Sommaria dell’anno 1600, di cui si è parlato innanzi nel capo X pag. 193 e 194 sono riportati i pesi ed esiti annui ch’erano a carico della Università. Tra questi vi è il seguente: Al Duca d’Andria e Conte di Ruvo per l’affitto della sua bagliva, e per la strena ducati 1110. La strena era un’altra estorsione la quale consisteva in un magnifico regalo che la Casa d’Andria esigeva nel primo dì dell’anno.

Nè quì si arrestarono le usurpazioni. Colle già dette capitolazioni dell’anno 1308 aveva la città imposto ai cittadini un altro dazio civico sulle contrattazioni che si facevano in grosso di generi, derrate, mercanzie di ogni specie, e panni. Cotesto dazio nel linguaggio del nostro antico Foro era chiamato plateatico. Nelle dette capitolazioni si vede cotesto dazio imposto in una somma molto discreta, poichè si esigevano dalla città grana cinque per oncia sul valore de’ generi e delle mercanzie cadute in contrattazione pag. 141 e 142.

[a226]

Ma cresciuti in seguito i bisogni della città fu questo dazio aumentato e portato fino alla forte somma di grana ventiquattro per oncia. Lo pruova ciò lo Stato discusso di quella Università formato nell’anno 1626 dal Reggente del Collateral Consiglio Carlo Tapia, il quale si conserva nel Grande Archivio del Regno. Risulta da esso che cotesto dazio comunale si esigeva allora alla ragione di grana ventiquattro per oncia, e rendeva annui ducati ottocento. Per formarsi il pieno che mancava agli esiti comunali fu portato a grana trenta per oncia, e si ebbe un introito di altri ducati dugento l’anno.

Colle stesse capitolazioni dell’anno 1308 aveva la città imposti alla Popolazione altri due dazj di minore importanza. Il primo consisteva in una somma discreta che pagar dovevano i Macellaj per ciascun pezzo di animale grosso o piccolo che si macellava pag. 142. Cotesto dazio col linguaggio del tempo si chiamava scannaggio. Il secondo riportato anche nello Stato del Reggente Tapia, era quello di una giumella su di ciascuno tomolo di mandorle, le quali formavano, come formano anche oggi uno de’ principali prodotti di quel territorio pag. 141.

Or cotesti tre antichissimi dazj comunali il plateatico, lo scannaggio e la giumella delle mandorle tocchi dalla verga magica della prepotenza Baronale cangiarono natura. Dalle mani della Università passarono in quelle della Casa d’Andria e divennero dritti feudali! Ma coteste metamorfosi si rendevano ben fastidiose a quella misera Popolazione, poichè gli antichi pesi tuttavia continuavano in una mano assai più dura qual era quella del Barone. Il vuoto però che lasciavano coteste usurpazioni degli antichi dazj comunali bisognava che si fosse riempiuto con altre novelle imposte. Per tal ragione il dazio sul pane, che colpiva il Popolo più di ogni altro dazio, fu portato ad una somma molto gravosa ed intollerabile.

Si propose la Casa d’Andria d’introdurre in Ruvo un’altra gravezza che si praticava anche da altri Feudatarj, cioè la esazione del passo. Consisteva questa in una somma che pagar doveva chiunque fosse passato con vetture e con animali. Cominciò cotesto novello abuso nell’anno 1602, come lo pruova una provvisione della Regia Camera della Sommaria dell’anno 1608 registrata nel Grande Archivio. Ci fa questa [a227] conoscere che i Coratini reclamarono contro cotesta abusiva esazione che dissero introdotta nell’anno 1602, alla quale venivano anch’essi obbligati[250]. Intanto la Casa d’Andria continuò in santa pace cotesta arbitraria ed illecita esazione fino a che il Re Ferdinando al cader del secolo passato abolì con una legge espressa tutti i passi che si esigevano dai Baroni come quelli che davano causa ad infinite soverchierie ed arrestavano il commercio interno.

Non vi erano in Ruvo nè locande nè neviere Baronali. La Casa d’Andria formò una nuova locanda nel pomerio dell’antico castello dal lato occidentale che sporge alla campagna. Formò inoltre due grandi neviere costrutte in un fondo che ora è di mia proprietà. Fece sorgere cotesti novelli edificj col diritto proibitivo delle locande, e delle neviere introdotto e sostenuto dalla forza e dalla violenza. Venivano inoltre i cittadini obbligati a forza di bastonate a raccorre, e riporre la neve nelle neviere suddette, e la città obbligata a non consumare altra neve per l’uso della popolazione che quella delle neviere Ducali. Non mai satolla di guadagno era invogliata d’introdurre anche una privativa de’ molini. Ma come farsi? La libertà de’ molini era nella nostra città antichissima. Dalle precitate capitolazioni dell’anno 1308 costa che vi erano in Ruvo molti molini particolari, ed i proprietarj di essi pagavano alla città una discreta prestazione per ogni salma di grano che in essi si macinava pag. 143. Col concorso però degli Amministratori comunali ligj del Barone s’immaginò il modo di eseguire cotesto nuovo progetto sotto plausibili apparenze, ma nella sostanza iniquo verso tante famiglie, alle quali l’avidità Baronale veniva a torre il pane.

Venne escogitato il pretesto che la gabella della farina, per la quale si pagavano allora quattro carlini e mezzo a tomolo, e si esigeva ne’ forni, veniva fraudata. Che per impedire le fraudi era indispensabile esigerla ne’ molini, e questi riunirgli in un solo luogo, ove si sarebbe situato l’esattore della gabella suddetta. Con questo specioso pretesto [a228] quindi ne fu stipulato pubblico strumento tra il Duca d’Andria D. Antonio Carafa da una parte, il Sindaco e gli Eletti della città di Ruvo dall’altra nel dì 15 Settembre 1615 dal Notajo Andrea Berarducci di Bisceglia.

Fu con esso costituito il dritto proibitivo de’ molini a favore del Duca suddetto, ed ei si obbligò di stabilire come stabilì li nuovi molini in un luogo designato adiacente alla pubblica muraglia della città che servì di principale appoggio alla costruzione di essi. Da altro pubblico atto poi del dì 30 Dicembre 1616 stipulato dallo stesso Notajo risulta che i precitati Sindaco ed Eletti costituirono in Napoli loro Proccuratore un tal Francesco Bruno, cui diedero le facoltà opportune per ricorrere al Vicerè ed ottenere l’assenso sul detto contratto.

In fine da altro strumento del dì 7 Ottobre dello stesso anno 1616 stipulato dallo stesso Notajo costa che quel Francesco Bruno costituito Proccuratore dal Sindaco ed Eletti era Proccuratore ed Incaricato di affari del detto Duca. Dal che è facile conchiudere che i Sindaci ed Eletti di quel tempo non erano che tante macchine mosse dal Duca a sua volontà, e firmavano ad occhi chiusi tutte quelle carte che a lui piacevano.

L’assenso sul precitato dritto proibitivo non fu ottenuto. E come avrebbe potuto ottenersi contro ogni regola di Diritto? Il protocollo però che conteneva lo strumento del dì 15 Settembre 1615 col quale il precitato dritto proibitivo fu costituito è scomparso dalla scheda di Notar Berarducci, e vi è tutta la ragion di credere che si sia fatto scomparire per torsi alla nostra città il titolo per poter rivendicare una coi frutti il precitato dritto proibitivo de’ molini da se costituito, ed usurpato dalla Casa d’Andria.

Nell’indice generale però della scheda suddetta degli anni 1615 1616 1617 1618 e 1619 vi è il seguente notamento: Sig. Duca d’Andria coll’università di Ruvo per li molini fol. 61. Cotesto notamento il quale pruova la esistenza di una convenzione allora stipulata unito alla procura del dì 30 Dicembre 1616, colla quale si cercò di farla convalidare con Regio Assenso non mai ottenuto, vale una dimostrazione che la privativa suddetta costituita dalla Università passò illegalmente nelle mani [a229] della Casa d’Andria. Cotesti documenti servirono di appoggio al giudizio istituito nell’anno 1797 per i molini suddetti come si dirà nel seguente capo.

Dalle cose premesse è facile vedere che in mano della Casa d’Andria il feudo di Ruvo non era più nè quello che fu costituito dai Normanni ed indi dai Sovrani Angioini, nè quello che nell’anno 1510 fu dal Cardinale Oliviero Carafa comprato da D. Raimondo di Cardona e sua consorte. Man mano, e da tempo in tempo si vide lo stesso impinguato ed accresciuto di tutte le specolazioni abusive che aveva saputo la feudalità escogitare per succhiarsi il sangue delle Popolazioni. Alcuni pretesi dritti furono creati dal nulla, altri furono tolti colla forza alla povera Università e convertiti in dritti feudali! La conseguenza di tanti abusi fu la miseria di quella Popolazione angariata per tutti i lati.

I mezzi coi quali furono tante gravezze introdotte e sostenute meritano anche di essere commemorati. Il primo di essi fu quello di aversi messa la Casa d’Andria in mano la nomina degli Amministratori Comunali. Si vide quindi introdotto l’abuso che la Università faceva la nomina del Sindaco e degli Eletti in doppia lista, ed il Barone sceglieva quelli che più gli piacevano. Valeva però ciò lo stesso che aversi sempre Amministratori ligj del Barone, sommessi alla di lui volontà e pronti a sagrificargli i dritti della città e della popolazione che avevano il sacro dovere di difendere e sostenere.

Non ignoro che lo stesso abuso fu dalla prepotenza Baronale introdotto anche in altri luoghi. Molti giudizj vi sono stati per tal causa negli antichi Tribunali che cominciarono ai tempi nostri a reprimerlo. Ma non ho potuto mai comprendere come al tempo dei Vicerè abbia potuto lo stesso tollerarsi. Li passati Sovrani del nostro Regno non s’ingerirono mai nella elezione degli Amministratori comunali e furono religiosissimi nel lasciare alle Popolazioni la piena libertà di scegliere quelli che credevano meritevoli della loro fiducia. Nelle concessioni de’ feudi non si è veduto mai cotesto dritto conceduto ad alcuno, neppure ai Principi della Real Famiglia. Come dunque tollerarsi che si avessero i Baroni permesso di attentare sulla libertà dell’elezioni?

Il secondo mezzo era la Giurisdizione criminale. Con essa faceva [a230] la Casa d’Andria perseguitare a dritto ed a torto quelle persone che non erano del suo gusto. Quest’arma terribile si adoperava anche con una doppia sevizia. La prima era il carcere orribile ed oscuro dell’antica Torre di Ruvo, comunque vietato severamente ai Baroni dalle antiche leggi del Regno. La seconda il trasporto de’ carcerati in altre lontane prigioni per vie più dispettargli e strapazzargli.

Mi dicevano i vecchi che il nostro distinto ed illustre cittadino Orazio Rocca perseguitato dal Duca d’Andria che voleva fargli gustare le delizie della Torre suddetta, ebbe a fuggir da Ruvo con mezza barba fatta e mezza nò, per sottrarsi agli Armigeri Baronali che già gli erano addosso. Venuto in Napoli la sua esimia virtù e dottrina lo fece divenire grande Avvocato ed indi Magistrato, Caporuota del Sacro Regio Consiglio, Delegato della Real Giurisdizione e decorato anche col titolo di Marchese trasmesso ai suoi discendenti. Fa però meraviglia come coi mezzi che gli davano li suoi talenti e l’eminente suo grado nulla abbia fatto per liberare la sua Patria dagli abusi della prepotenza Baronale de’ quali ei medesimo ne aveva fatto il saggio che ridondò per altro alla di lui esaltazione.

Il terzo mezzo era la numerosa squadra degli Armigeri presi dalla gente più facinorosa che la Casa d’Andria teneva al suo servizio. Possedevano costoro il talento di mantenere tutti sotto una cieca dipendenza da essa, e di far passare a chiunque la voglia di opporsi alla volontà Ducale. All’epoca nostra non erano più cotesti sgherri così terribili come lo erano stati in altri tempi. La presenza del Sovrano aveva ammansata abbastanza l’audacia delle squadre Baronali. Ma pur non lasciavano di essere baldanzosi boriosi ed insolenti.

Il quarto mezzo era un partito che la Casa Baronale si aveva formato di famiglie ligie e servili. Cooperavano queste vilmente alla oppressione della comune Patria, e servivano anche di strumento all’estorsioni che si commettevano, poichè la conoscenza che avevano delle persone e de’ luoghi faceva sì che nulla sfuggiva alla loro sorveglianza. Erano esse specialmente garantite, e protette dalla giustizia civile e penale amministrata da un Governatore e Giudice nominato dal Barone, ed in conseguenza sommesso alla di lui volontà. Cotesta parzialità però non [a231] poteva non gravitare su gli altri cittadini. Le dette famiglie erano incaricate dell’Erariato, delle Fattorie e degli altri Uffizj Baronali, ed in tal qualità carceravano e scarceravano chi volevano a loro talento e di propria privata autorità. Erano inoltre tanto insolenti che pretendevano essere preferite agli altri cittadini nella scelta de’ pesci, delle carni ed altri comestibili che si vendevano in piazza, de’ quali dovevano esse essere le prime a servirsi, come si rileva dai capi dedotti nel giudizio dell’anno 1750!

Con questi mezzi e principalmente coll’aversi messa in mano la nomina degli Amministratori comunali che a nulla resistevano, faceva la Casa d’Andria un altro rilevante profitto, qual era quello di non aver mai pagata la bonatenenza per i molti beni burgensi che possedeva nell’agro Ruvestino, il che produceva un vuoto enorme nella cassa comunale. Le provvide leggi emanate da Carlo III di gloriosa memoria nell’anno 1740 sotto il titolo delle nostre Prammatiche De forma censuali seu catasto fecero sì che li beni suddetti non poterono più sottrarsi alle sagge, ed avvedute disposizioni e regolamenti in esse contenute. Nel novello catasto formato dalla città di Ruvo nell’anno 1752 li beni burgensi della Casa d’Andria, tutto che tassati colla massima parzialità e deferenza per opra degli Amministratori comunali ligj alla stessa, ricevettero il carico della bonatenenza in annui ducati 434.79½. Cotesto pagamento però fraudato per dugento quarantadue anni alla cassa comunale qual vuoto venne in essa a produrre?

Non vi erano più abusi ad introdursi in Ruvo, poichè quanti la feudalità aveva saputo escogitarne per taglieggiare, e smugnere le Popolazioni si erano tutti introdotti man mano e da tempo in tempo. Ma non si arrestò quì tampoco la miseria della nostra povera città. Si portarono le cose assai più oltre, e fino ad un punto che sembrar potrebbe incredibile o troppo esagerato se non costasse pienamente da pubblici processi formati nel supremo Tribunale della Regia Camera della Sommaria.

Nel corso della mia lunga Avvocheria sono passate per le mie mani moltissime cause tra Università e Baroni. Ma non mi è occorso ancora d’incontrare un altro esempio di prepotenza Baronale portata a quell’eccesso [a232] che vengo ora ad esporre. Al cadere del secolo XVII la Casa d’Andria si propose di appropriarsi anche le rendite comunali della nostra città. Consistevano queste in gravose gabelle imposte alla popolazione per far fronte ai pesi pubblici dovuti allo Stato ed al pagamento de’ suoi creditori fiscalarj che avevano causa anche dallo Stato.

Da principio lo fece covertamente e per vie indirette. Ma in seguito fidando nella sua potenza si tolse la maschera, cominciò ad operare svelatamente e s’impossessò col fatto di tutte le gabelle civiche, con avere obbligati gli esattori o appaltatori di esse a versare nella sua cassa le somme che se ne ritraevano. Conseguenza di questa rappresaglia fu che la Regia Corte quando più e quando meno era sempre scoverta, ed i creditori fiscalarj della Università, li quali per lo innanzi si erano tenuti sempre in corrente, non riceverono più un obolo, poichè tutto la Casa d’Andria invertiva a suo profitto colla connivenza degli Amministratori municipali.

Tra i creditori suddetti vi erano il Banco di S. Eligio, i fratelli Vespoli, il Marchese di Calitri D. Carlo Maria Mirelli, e ’l Duca di Calabritto, i quali erano in grado di farsi rendere ragione di cotesta soverchieria. Cominciò quindi un giudizio nell’anno 1692 e finì nell’anno 1736 col fallimento della povera Università di Ruvo e coll’essere caduta la stessa in patrimonio. Lungo sarebbe il riportare quì la storia minuta del giudizio suddetto consegnata in più volumi di processi formati nel Tribunale della Regia Camera della Sommaria. Continue, veementi ed amarissime furono le doglianze de’ creditori suddetti contro la prepotenza della Casa d’Andria che si era impossessata anche delle rendite comunali, e gli defraudava di ciò che loro era dovuto.

Replicati cento volte, ed energici furono gli ordini da quel Supremo Tribunale diretti alla Regia Udienza Provinciale, perchè avesse vietato alla Casa d’Andria di mischiarsi più nella esazione delle rendite comunali, ed astretti i passati amministratori a rendere i conti, come risulta dagli atti formati presso l’attuario Pisani, a cui succedè dappoi l’attuario D. Gaetano Capaldo[251]. Questi ordini però erano presi a [a233] beffe, e rimanevano privi di effetto. Si senta ciò che il Tribunale della Regia Udienza Provinciale rispose al Presidente Commessario della Regia Camera della Sommaria a suo discarico con rapporto del dì 16 Settembre 1716.

Disse che Li detti del Governo di Ruvo di niun conto cercano, e vogliono dare ubbidienza alle provvisioni suddette, tutto causato dalla potenza del Padrone di detta città l’Illustre Duchessa d’Andria. Per lo che non vien permesso spedire commissarj per qualche altra cosa di peggio, e darne parte a V. S. con prevenirla che se in detta città di Ruvo non si destina persona autorevole a mandare in esecuzione gli ordini di cotesta Regia Camera, non sarà possibile che potranno quelli essere eseguiti da quelli del Governo per la potenza suddetta, nè li creditori sopra di quella potranno essere soddisfatti, tenendoci mano sopra l’entrate della Università la detta Illustre Duchessa d’Andria Padrona, la quale dispone del peculio universale, non servendo ad altro quelli del Governo che a firmare scritture in caso di bisogno[252].

Non fu questa a buon conto che una umiliante confessione della propria debolezza fatta da un Collegio giudiziario, ed una trista testimonianza della indifferenza del Governo de’ Vicerè per le prepotenze de’ Magnati. Così andarono le cose fino all’anno 1735. Era allora presente il Re Carlo III, e la Giustizia aveva cominciato a riprendere quel vigore e quel tuono ch’era troppo necessario.

D. Pasquale Maria Mirelli succeduto ne’ dritti del già detto Marchese di Calitri rassegnò nelle mani del Re un pieno ed energico ricorso col quale espose cotesta storia dolorosa. Disse anche che i creditori della Università per non esser privi del tutto di ciò che loro era dovuto, e stanchi di più litigare avevano dovuto venire a patti col Duca d’Andria che si prendeva tutto, e contentarsi della metà di ciò che loro spettava annualmente per i loro crediti fiscalarj; ma neppur questa avevano potuto averla. Soggiunse inoltre: Il supplicante vedendosi inabilitato a poter esigere il suo dalla detta Università per la potenza di detto Illustre Duca notissima a tutta la Provincia, per essere suo feudo, [a234] a tal segno che il supplicante non ritrova commessario che vuole andare ad esigere da detta Università, e se mai se ne ritrova alcuno, pure questo per timore della vita si contentava prendersi qualche regalo dal detto Illustre Duca, e se ne tornava indietro, senza poter porre in esecuzione la sua incumbenza[253].

Nulla vi è del mio in questo racconto che per amore della brevità ho voluto raccorciarlo. Era questo il linguaggio che tenevano contro la prepotenza della Casa d’Andria i Personaggi dell’alta Nobiltà Feudatarj anch’essi, ed in conseguenza non avversi alla feudalità. Un rescritto del Re del dì 22 Settembre 1735 fece cangiare aspetto alle cose, poichè il Tribunale della Regia Camera ebbe ordini precisi di far pronta e spedita giustizia per l’esposte dissipazioni delle rendite della Università e per l’allegata prepotenza della Casa d’Andria.

Quindi i passati Amministratori sicuramente colpevoli di connivenza furono astretti da vero e senza ulteriori sfuggite a rendere i conti della loro amministrazione. Alla Casa d’Andria furono anche tarpate le ali, poichè nel susseguente anno 1736 la Università di Ruvo fu messa in patrimonio. Importava ciò che tutte le rendite che si ritraevano dalle sue gabelle dovevano essere depositate e messe a disposizione del detto Tribunale della Regia Camera, il quale ordinava i pagamenti da farsi ai suoi creditori.

Furono questi a tal modo messi in corrente. Ma rimase la povera Università schiacciata da un cumulo enorme e spaventevole d’interessi arretrati formato in tanti anni che la Casa d’Andria si aveva appropriate le sue rendite senza aver soddisfatti i creditori suddetti. Convenne ripianare questo vuoto da anno in anno come meglio si poteva coll’avanzo delle rendite. E poichè neppure un obolo di rendita patrimoniale era alla nostra città rimasto, fu una necessità che si fossero le gabelle tenute su di un piede che avessero potuto far fronte ai pesi correnti, e dare anche un avanzo per ripianare il debito arretrato.

Dopo il quadro veridico che ho premesso, dimando da chi la nostra [a235] città ha sofferto più, da Roberto Sanseverino e da Consalvo di Cordova, o dalla feudalità? Quelli a dritto o a torto l’aggredirono da nemici, e le loro depredazioni durarono solo qualche giorno. La Casa Baronale al contrario l’ha posseduta come una sua proprietà, e malgrado ciò l’ha smunta di tutte le maniere per tre secoli continui, con avere di vantaggio annientata e distrutta ogni specolazione agraria! Fa meraviglia solo come sotto tanta compressione non siasi la nostra città spopolata del tutto, come si spopolò in parte per essere molti de’ suoi abitanti passati a stabilirsi altrove, perchè mancavano ivi loro i mezzi di sussistenza, malgrado l’ampiezza, e somma fertilità di quel territorio. Ma questa storia non è finita ancora. Ve ne rimane una picciola appendice assai curiosa.

Dedotto il patrimonio, come innanzi si è detto, tutti i creditori della Università dimandarono la liquidazione del loro rispettivo credito arretrato. Il Tribunale della Regia Camera, giusta il Rito di allora, ordinò che l’attuario della causa ne avesse formata una relazione. Fu questa emessa nel dì 12 Gennajo 1742, e furono in essa riportati i rispettivi crediti tanto di sorte che d’interessi arretrati.

Era il Duca d’Andria anche creditore della Università in annui ducati 1137 di Fiscali feudali. Ma non osò qualificarsi come creditore di somme arretrate in faccia agli altri creditori, i quali avevano fatta alla sua Casa una guerra di quarantatre anni perchè si aveva preso non solo il suo, ma anche quello che loro spettava. Quindi l’attuario del patrimonio incaricato della relazione ordinata dal Tribunale suddetto lo portò in essa come semplice creditore fiscalario in annui ducati 1137, senz’avergli però nulla attribuito per arretrati. Nulla il Duca Ettore Carafa, avo del Duca attuale, oppose a tal relazione, la quale perciò rimase ferma. Nè fino all’anno 1751 si presentò giammai a partecipare delle ripartizioni che si facevano tra i creditori d’interessi arretrati delle somme di avanzo, come innanzi si è detto[254].

Non esistevano più in quel tempo que’ creditori che gli avevano [a236] fatta quella lunga guerra per istrappargli dalle mani le rendite della Università. Lusingandosi quindi che gli antecedenti si fossero obliati, si fece ardito ed avanzò presso gli atti una dimanda colla quale si asserì creditore di arretrati nella rilevante somma di ducati 25600!!! Disse che cotesto vuoto si era formato dall’anno 1720 all’anno 1736, cioè in quel tempo, in cui più veementi e più amare erano state le querele degli altri creditori perchè si prendeva tutto! Dimandò di essere ammesso a partecipare delle distribuzioni che si facevano tra i creditori di arretrati dall’avanzo delle rendite della Università[255].

Vi era in quel tempo un forte mal umore tra il Duca suddetto ed i passati Amministratori della Università. Cotesti Signori, che si erano prestati alla dissipazione delle rendite comunali di cui innanzi si è parlato, quando si videro astretti da vero a rendere i conti, e minacciati da forti significatorie ch’erano per piombare loro addosso, non si sentirono comodi a pagare colle proprie sostanze ciò che il Duca si aveva preso. Fu questo il vero principio che diè causa al giudizio de’ gravami dell’anno 1750, di cui parlerò nel seguente capo, cioè l’interesse privato.

Quindi l’Avvocato della Università mosso da costoro, e provveduto da essi degli opportuni documenti non solo si oppose acremente al preteso credito arretrato di ducati 25600 che il Duca spacciava, ma con una dimanda riconvenzionale dedusse che doveva lo stesso essere condannato a restituire le forti somme che la sua Casa si aveva per tanti anni appropriate dalle rendite comunali con aver ridotta la povera Università in patrimonio. Era questo un discorso pieno di verità e di giustizia; ma il Duca Ettore seppe allontanare la tempesta. Avendo acchetato l’interesse privato che la suscitava, finì il giudizio de’ gravami colla frivola transazione dell’anno 1751 di cui parlerò nel seguente capo.

Essendosi con essa gli Amministratori della Università obbligati a non fare più alcuna ostilità al Duca per l’articolo testè enunciato, ne venne in conseguenza che quello stesso Avvocato della Università, il quale aveva attaccato così bene il preteso credito di duc. 25600 che il Duca [a237] spacciava, quasi che avesse bevuta l’acqua di Lete, obliò perfettamente ciò che contro lo stesso aveva dedotto e lasciò fare al Duca ciò che voleva. Quindi per effetto di una manifesta prevaricazione si vide il Duca dall’anno 1753 in avanti figurare senza veruna contraddizione tra i creditori d’interessi arretrati nella rilevante somma di ducati 25600, e partecipare delle ripartizioni che si facevano delle somme di avanzo col consenso degli Avvocati pro tempore della Università!

Non debbo omettere che tra i nomi di costoro ho letto anche quello di un tal D. Pietro Andreatini. Quest’uomo io l’ho conosciuto nella qualità di Segretario della Casa d’Andria, ed in questo posto egli è morto. Si veda da ciò in quali mani era allora affidata la difesa della povera Università, e se il Segretario del Duca d’Andria avrebbe potuto giammai sostenere i dritti della stessa contro il suo Signore che gli dava da vivere! Ma la prevaricazione degli Amministratori della Università che continuò tuttavia anche dopo la transazione dell’anno 1751, seguitò a sagrificare gl’interessi della stessa alla influenza Baronale.

Morto il detto Andreatini, gli succedè nella difesa della Università il Dottor D. Lorenzo Scarongelli. Era egli Ruvestino, e quindi avrebbe dovuto prendere tutto l’interesse per non far rimanere a carico della sua patria un debito così enorme contraddetto fin dall’anno 1751 e ribattuto da validissimi documenti. Ei però mancò a questo sacro dovere, fece quello stesso che aveva fatto l’Andreatini, e prestò il suo consenso alle ulteriori distribuzioni ch’ebbero luogo. Non fia ciò meraviglia, poichè era costui uno di quelli uomini servili usi a prestarsi a tutto ciò che voleva Sua Eccellenza Padrone.

A buon conto la influenza della Casa d’Andria anche dopo l’anno 1751 negli affari comunali continuò ad essere la stessa. Si venne anzi a rendere assai più pesante colla fissa permanenza che fece ne’ suoi feudi dopo l’anno 1760 il Duca fu D. Riccardo Carafa Padre del Duca attuale. La di lui Illustre consorte la Signora Duchessa D. Margherita Pignatelli che dominava in casa era di un carattere imperioso, e tempestoso. Nulla inoltre sapeva rimettere degli antichi abusi ed albagia della feudalità che il pensare del tempo, ed anche la mano del Governo andava ogni dì fiaccando. Si univa a ciò che per particolari impegni o [a238] protezioni si voleva anche un po’ soverchio mischiare ne’ fatti privati che non la riguardavano punto.

Queste cosucce per loro stesse disgustanti unite agli abusi ed alle gravezze positive che non erano punto rimaste corrette colla transazione dell’anno 1751, e tuttavia continuavano, disposero gli animi de’ migliori cittadini a scuotere una volta decisamente quel pesantissimo giogo. Essendo quindi avvenuta la morte di D. Lorenzo Scarongelli, fui nell’anno 1794 nominato con pubblico Parlamento Avvocato della nostra città. Fu la mia nomina proclamata dal voto concorde de’ miei concittadini perchè a tutti erano noti i miei sentimenti avversi a quello stato di degradazione a cui la nostra città era stata ridotta dalla prepotenza Baronale.

Protesto però che questi sentimenti non si erano in me generati da qualche particolar risentimento o torto recato a me o alla mia famiglia dalla Casa d’Andria. Niun motivo ho avuto giammai di essere dolente di essa per questo lato. Questi sentimenti me gli ha dati la Natura. Sono nati e cresciuti con me. Gli ha nutriti il mio carattere avverso alle prepotenze ed alle ingiustizie, l’amore vero che ho avuto sempre per la mia cara patria, la intolleranza di vederla oppressa ed avvilita, e ’l vivo desiderio che ho sempre avuto di esaurire tutti i miei sforzi per sollevarla.

Se non si fosse trattato di rivendicare i dritti della mia Patria, il che costituisce un sacro dovere per ogni buon cittadino, non mi sarei mai e poi mai impegnato ad assumere la difesa di qualunque altro giudizio contro la Illustre Famiglia Carafa di Andria. Eccomi dunque a dare un breve cenno delle operazioni da me fatte nella qualità di Avvocato della nostra città, e delle cause intraprese e menate a fine. Per potere però ciò fare è indispensabile premettere un cenno sullo stato in cui le cose rimasero colla transazione dell’anno 1751.

[a239]

CAPO XIII. De’ Giudizj dell’anno 1750 1797 e 1804, e delle transazioni dell’anno 1751 e 1805.

Non vale la pena di fare una minuta sposizione del giudizio istituito contro la Casa d’Andria nell’anno 1750 e della transazione che ne susseguì nel dì 9 Luglio 1751 per mano del Notajo Giovanni Teodoro de Rienzo di Napoli. Possono queste carte far conoscere soltanto il giogo di ferro imposto alla nostra città dal Duca Ettore Carafa il vecchio avo del Duca attuale, il quale esasperò di gran lunga le gravezze introdotte dai suoi antenati; ma nulla presentano di vantaggioso per quella popolazione, la quale continuò tuttavia a rimanerne schiacciata dagli antichi abusi, ed estorsioni.

Ho detto innanzi che il giudizio dell’anno 1750 lo suggerì il privato interesse, non già il vero zelo di sottrarre la propria patria ad una lunga e spogliatrice oppressione. È facile ciò ravvisarlo sotto un doppio rapporto. Il primo fu la tema delle forti significatorie, ond’erano minacciate le persone influenti che negli anni precorsi avevano avuta parte nell’amministrazione comunale, ed avevano prestata alla Casa d’Andria la mano perchè si avesse appropriate anche le rendite della Università.

Il secondo fu la mira che avevano pochi proprietarj di masserie nella contrada delle murge di liberarle dalla suggezione delle parate che la Casa d’Andria faceva dell’erba vernina di esse. Per quest’oggetto si vide inviato in Napoli nella qualità di Deputato per promuovere l’enunciato giudizio il fu Dottor D. Saverio Modesti che possedeva la più vasta masseria delle murge, ed aveva una potente influenza nelle faccende comunali.

Quando le operazioni di tal fatta sono suggerite da un fine indiretto è una necessità che falliscano. Introdotto il giudizio, in un anno e mezzo nulla fu operato. Si perdeva il tempo per attendersi a trarre dalle ostilità cominciate in nome della Università quel profitto che si poteva pe ’l privato interesse. Lo fa ciò intendere chiaramente lo stesso [a240] strumento di transazione dell’anno 1751. Il sindaco e gli Eletti nel ratificarlo dichiararono che il Deputato Modesti aveva pregato e fatto pregare il detto Eccellentissimo Signor Duca d’Andria acciò si fosse devenuto ad un amichevole componimento.

È chiaro dunque che si era egli strisciato presso il Duca per carpirne ciò che faceva per se e per i suoi amici, e ’l Duca Ettore ch’era un uomo sommamente scaltro, e capiva bene la partita, seppe rappaciare l’interesse privato, e fece andar per aria quello della Università di Ruvo. Tra le azioni dedotte vi era anche quella, come innanzi ho detto, colla quale era stato il Duca convenuto a restituire tutte le somme che la sua Casa si aveva per tanti anni appropriate dalle rendite della Università, senza essersi pagati i creditori fiscalarj.

E bene col capo VIII della transazione dell’anno 1751 il Duca prese a suo carico la difesa de’ passati amministratori ch’erano stati obbligati a rendere i conti, e si obbligò di pagare de proprio le somme che sarebbero state loro significate. Si fece intanto obbligare la Università a non fargli più parti ostili con aver rinunziato a qualunque pretensione ed azione di ripetere le somme da lui esatte! Avvenne a tal modo il miracolo che il Duca debitore di grosse somme per la causa suddetta si vide figurare presso gli atti del patrimonio qual creditore della Università per interessi arretrati nella rilevante somma di ducati 25600, senza che niuno lo avesse contraddetto!!!

Collo stesso giudizio si era dimandato anche che le così dette parate delle murge si fossero aperte al libero pascolo degli animali de’ cittadini. Ma col Capo XVII della precitata transazione le parate rimasero ferme. Furono bensì da esse escluse le masserie di D. Saverio Modesti e degli altri particolari che facevano strepito, e si ampliarono in proporzione sul rimanente demanio aperto delle murge a spese degli usi civici che competevano alla popolazione!!!

Appagato a tal modo l’interesse privato, tutto il di più andò de plano a voglia del Duca. Tutti gli articoli essenziali che formavano l’oggetto del giudizio promosso rimasero risoluti a di lui favore. Sia per gittarsi polvere negli occhi, sia piuttosto per erubescenza furono accordate alla Università quelle cosucce frivolissime soltanto che non si [a241] potevano affatto sostenere, e che qualunque Magistrato, per quanto avesse voluto essere parziale, o indulgente per la feudalità, avrebbe abolite sotto la penna e senza veruna discussione. Anzi neppur le gravezze di questa specie furono per lo intero corrette ed emendate; ma rimasero in parte sullo stesso piede contro il divieto espresso delle leggi! Ecco un succinto prospetto degli articoli della transazione suddetta dai quali risulta cotesto concetto.

Furono negati ai cittadini gli usi civici sull’erba estiva del bosco di Ruvo. Fu ai medesimi accordato soltanto il dritto di legnare ad uso di sporga per lo stretto bisogno, mentre loro competevano i pieni usi civici. Ma questo patto non fu neppur rispettato, poichè gli Armigeri baronali addetti alla custodia del bosco se trovavano i cittadini in esso a legnare crudelmente gli flagellavano, come innanzi si è detto. Tutte l’esazioni abusive della Bagliva rimasero confermate, tranne soltanto la così detta cortesia che fu abolita. Rimase abolita del pari la gabella della giumella delle mandorle usurpata alla Università, col rilascio però de’ frutti per tanti anni esatti con mala fede. Fu promessa la restituzione della Giurisdizione della Portolania, e de’ pesi e misure usurpata del pari alla Università col rilascio anche de’ frutti e proventi della stessa. Ma questo patto non fu neppure eseguito, poichè seguitò il Duca ad appropriarsi i proventi di cotesta Giurisdizione che gl’includeva nella Bagliva. I molini col dritto proibitivo rimasero al Duca, poichè si disse che mancavano alla Università i documenti per rivendicargli.

Rimase abolito il dritto proibitivo delle Taverne e delle neviere, e convenuto che non avessero potuto i cittadini essere obbligati a forza di bastonate a raccorre e riporre la neve, e ad altre opere servili. Ma si obbligò la Università di non far con altri, meno che col Duca, il partito della neve che bisognava alla Popolazione. E poteva ciò esser permesso dalla legge? Fu rilasciata al Duca la bonatenenza non pagata giammai per i beni burgensi. Promise di non avocare più le cause dal Giudice locale ordinario, e delegarle ad altri a suo piacimento. Ma poteva ciò farlo? Cosa dunque venne con ciò ad accordare? Rimase vietato ai Ministri Baronali di carcerare e scarcerare le persone di loro privata autorità, e senza l’ordine del Giudice, tranne però i debitori [a242] dell’azienda Ducale, e ciò con manifesta violazione del Capitolo del Re Carlo I riportato innanzi alle pagine 138 e 139!

Promise il Duca di non fare più danneggiare dai suoi animali le possessioni de’ cittadini. Grazia singolarissima! Promise di non valersi più del carcere orribile ed oscuro della Torre, e di non fare più trasportare i carcerati fuori di Ruvo. Ma si obbligò la Università di formare un carcere opportuno, mentre quest’obbligo incumbeva al Duca qual possessore della Giurisdizione civile e penale! Fu convenuto che il Governatore e Giudice di Ruvo esser dovesse laureato, quasi che fosse stato permesso al Duca di far fare decreti a chi non fosse stato Dottore! In fine rimase a lui finanche la nomina degli Amministratori comunali che costituiva il principio di tutti i disordini e delle prepotenze che si soffrivano, poichè veniva a questo modo a mancare chi avesse potuto sostenere i dritti della popolazione ove l’uopo lo avesse esatto.

Dopo il breve cenno che si è premesso delle cose importantissime accordate al Duca colla transazione dell’anno 1751, e delle frivole ed inettissime concessioni fatte alla Università di quelle bagattelle soltanto che con una latitudine assai maggiore, e senza verun fastidio avrebbe ottenuto sotto la penna dalla giustizia de’ Magistrati, non possono non muovere la bile due cose.

La prima sono le insulse e veramente ridicole buffonerie che si dissero nell’assertiva del precitato strumento di transazione per esagerare ed amplificare le supposte difficoltà e dubbiezze delle dimande proposte dalla Università e dal Duca accordate nel modo che testè si è detto! La seconda la importanza di tali concessioni che si pose in risalto con molto poco contegno, poichè si disse che i fortissimi rilasci fatti al Duca di somme rilevantissime o non pagate o ingiustamente appropriate si erano fatti per piccola contemplazione di tante considerevoli cose che il detto Eccellentissimo Signor Duca si compiace di stabilire e convenire nel presente strumento con tanto vantaggio della Università!!!

Quali sono però le considerevoli cose concedute dalla generosità Ducale? La promessa forse di un Governatore laureato, quella di non far più seppellire i cittadini nel fondo orribile ed oscuro della Torre, di non fargli strascinare in lontane prigioni, di non obbligargli più a forza [a243] di bastonate a raccorre e riporre la neve nelle sue neviere, e di non far più devastare le loro possessioni dai suoi animali.....? Qual discorso insulso nel tempo stesso ed insultante! Anche le cose accordate nel precitato strumento dell’anno 1751 non possono leggersi senza fremere, poichè si fecero rimanere in parte que’ medesimi abusi che avrebbero i Magistrati pienamente aboliti e proscritti. Lasciamo quindi cotesto monumento di prevaricazione, e venghiamo al giudizio dell’anno 1797 intrapreso con altri principj ed altri sentimenti.

Due forti ostacoli si opponevano a questa bell’opra. Il primo era la somma povertà della cassa comunale impotente a far fronte alle forti spese che avrebbero esatte le cause da intraprendersi contro una famiglia allora potentissima. Il secondo che l’Archivio comunale si trovava sprovveduto dì qualunque documento memoria o notizia che avesse potuto porgere un filo a tale intrapresa. Quel Duca Ettore Carafa, che si permetteva tante violenze contrarie alle leggi, quante ce ne fanno apprendere il giudizio dell’anno 1750 e la transazione dell’anno 1751, ne aveva commessa un altra anche più sonora per torre alla nostra città ogni mezzo di risorgere. Era in Ruvo un fatto pubblico e notorio contestato dai vecchi che gli armigeri Ducali avevano sorpreso l’archivio comunale e trasportate in Andria tutte le carte che in esso si conservavano.

Incaricato quindi di avviare e sostenere que’ giudizj che le circostanze esigevano, senza documenti di sorta alcuna, vidi bene che non si trattava di regolare ordinare ed istruire le corrispondenti azioni, ma bensì di crearle e corredarle di que’ documenti che avessero potuto assicurarne la riuscita. Nondimeno l’amor di patria superò ambi li predetti ostacoli.

Il primo di essi lo fece cessare il disinteresse e la generosità del Capitolo di Ruvo, e di un certo numero di famiglie maggiori possidenti che con esso si collegarono, e presero a loro carico le spese che occorrevano per i giudizj da intraprendersi. Contribuì il primo la somma di mille ducati. Contribuirono le seconde ciascuna in proporzione della possidenza rispettiva. Di questo tratto di vero patriottismo essendosi fatto un giusto elogio nel pubblico parlamento del dì 20 Gennajo [a244] 1805 inserito nello strumento di transazione dello stesso anno, è ben dovuto che ne faccia onorevole menzione anche la storia.

In quanto al secondo ostacolo non mi perdei di animo. Prima di fare qualunque mossa giudiziale mi applicai ad andar tentone rintracciando quelle notizie, e que’ documenti che avrebbero potuto esser utili e conducenti all’impegno assunto. Cominciai quindi dall’istruirmi perfettamente degli antichi processi formati nel Tribunale della Regia Camera della Sommaria dall’anno 1692 in poi tra i creditori fiscalarj e la Università, e successivamente tra i creditori suddetti, e gli amministratori obbligati a render conto della tenuta amministrazione. Trassi da essi utili notizie, ed i documenti opportuni per ribattere il preteso credito di fiscali arretrati in ducati 25600 per lo quale si faceva figurare la Casa d’Andria, e per farla anzi risultare debitrice di grosse somme.

Impiegai nel tempo istesso circa un anno nel grande Archivio per una ricerca generale di quanto poteva riguardare la nostra città, onde potermi valere, come mi valsi di quelle carte che mi sembrarono utili. Le stesse diligenze praticai nell’archivio della Regia Dogana di Foggia, ove mi trattenni otto giorni per quest’oggetto. Coteste ricerche non furono infruttuose poichè mi fornirono un materiale sufficiente a formare un piano di attacco ragionato e ben sostenuto.

Calcolai inoltre che altri lumi avrebbero potuto trarsi dalle antiche schede de’ Notaj tanto Ruvestini che delle Regie città convicine, de’ quali la Casa d’Andria si era valuta ne’ tempi passati per istipulare i suoi atti pubblici[256]. Mi fu utilissima in tali ricerche la cooperazione di due cittadini zelantissimi pe ’l bene della comune patria. Uno di essi fu D. Francesco Devenuto, uomo di sveltissimi talenti e di somma abilità ed attività. L’altro fu il mio cognato D. Giuseppe Ursi versatissimo, minuto e diligente in simili ricerche, la di cui memoria mi è molto cara per i suoi ottimi sentimenti e pe ’l suo attaccamento alla mia persona ed alla mia famiglia.

[a245]

Alla loro cooperazione furono dovuti gl’interessantissimi documenti relativi al dritto proibitivo de’ molini che non si seppero o piuttosto non si vollero rintracciare nell’anno 1750, quelli coi quali era stata venduta nell’anno 1632 una parte dell’antica difesa comunale, ed altri ancora dai quali trassi utili schiarimenti ne’ giudizj che furono promossi. Riunite le carte suddette furono da me spiegate le seguenti azioni parte nel Tribunale della Regia Camera della Sommaria, e parte nel S. R. C. secondo la competenza rispettiva. Nella Regia Camera furono proposte le seguenti dimande

I. Che si fosse cassato il già detto preteso credito di duc. 25600 per lo quale si faceva figurare il Duca d’Andria presso gli atti del patrimonio, con essere lo stesso condannato a restituire tutte le somme che gli erano state collusivamente liberate in conto, e tutte le altre maggiori somme che la sua Casa si aveva malamente appropriate dalle rendite comunali esatte dall’anno 1692 all’anno 1735.

II. Che senza tenersi conto del nullo e collusivo strumento di transazione dell’anno 1751 fosse stato condannato del pari a restituire i frutti e proventi della Giurisdizione della Portolania e de’ pesi e misure, non che della gabella della giumella delle mandorle usurpate a danno della Università, ed al pagamento della bonatenenza non mai pagata per i beni burgensi fino all’epoca del catasto dell’anno 1752.

III. Che fosse stato condannato a restituire i molini edificati sul suolo e nelle antiche muraglie della città, e ’l dritto proibitivo di essi stabilito dalla Università nell’anno 1615 per la propria utilità, una coi frutti.

IV. Che fosse stato condannato a restituire una coi frutti lo scannaggio, dritto comunale costituito dalla Università colle capitolazioni dell’anno 1308 approvate dal Re Carlo II, ed usurpato dalla sua Casa.

V. Che fosse stato condannato a restituire una coi frutti una grande stanza convertita in magazzino, la quale formava parte delle pubbliche carceri di proprietà comunale.

VI. Che si fosse al Duca vietato di chiudersi l’erba vernina delle murge colle così dette parate principalmente per essere il demanio delle murge un demanio comunale. Subordinatamente perchè in ogni caso, e supponendolo anche un demanio feudale, simili chiusure erano dalle leggi [a246] del Regno vietate ai Baroni in pregiudizio degli usi civici che competono alle popolazioni.

VII. Che si fossero corretti tutti gli abusi della Bagliva col vietarsi principalmente ai Baglivi. Primo di fidare gli animali degli esteri ne’ terreni appatronati siti nel demanio. Secondo col fidargli in tanta quantità che fosse venuto a mancare il pascolo agli animali de’ cittadini.

VIII. Che si fosse inoltre vietato al Duca d’ingombrare quel demanio con una quantità strabocchevole di animali proprj, con essergli permesso soltanto d’immetterne tanti, quanti il più ricco de’ cittadini, giusta lo stile di giudicare de’ Tribunali supremi.

IX. Che si fosse obbligato a pagare la bonatenenza non meno per i detti animali d’industria che pascolavano nel demanio, che per lo vasto fondo denominato la Piantata di qualità burgense e non già feudale, come da lui si pretendeva.

Altro giudizio fu istituito nello stesso Tribunale della Regia Camera della Sommaria in linea penale per lo taglio dato dalla Casa d’Andria alle annose querce fruttifere del bosco di Ruvo in pregiudizio tanto degli usi civici che competevano alla popolazione di Ruvo, quanto del dritto di proprietà che il Re aveva degli alberi ghiandiferi in forza dello strumento dell’anno 1552 innanzi riportato.

Sulle precitate dimande proposte in linea civile il Tribunale della Regia Camera impartì termine ordinario e questo fu compilato. Rispetto ai molini ordinò una perizia per verificarsi se erano essi edificati sul suolo e nell’antica muraglia della città. La perizia ordinata venne eseguita coll’intervento di uno de’ Magistrati della Regia Udienza Provinciale, e la nostra posizione rimase pienamente verificata.

Per lo giudizio penale fu ordinata una informazione. Rimasti con essa concludentemente pruovati gl’immensi danni recati dalla Casa d’Andria agli alberi fruttiferi del Bosco, fu ordinata una perizia fiscale, e fu questa anche eseguita. In questo stato erano nell’anno 1798 i giudizj dedotti nel Tribunale della Regia Camera della Sommaria. Quelli avviati nel S. R. C. furono i seguenti

I. Che si fosse il Duca astenuto dal prendere qualunque ingerenza nella elezione degli uffiziali municipali.

[a247]

II. Che non avesse ulteriormente molestata la Università nel pieno esercizio della Giurisdizione della Portolania, e de’ pesi e misure che a lei apparteneva a titolo di compra fattane dal Re.

III. Che si fossero attribuiti ai cittadini di Ruvo i pieni usi civici di legnare e di pascere l’erba estiva del bosco di Ruvo rimasta al Duca d’Andria col contratto dell’anno 1552.

IV. Che si fosse il Duca astenuto dal nominare il Maestro della Fiera di S. Angelo che si celebra nella città di Ruvo.

V. Finalmente che si fosse abolito il dritto plateatico sulla contrattazione delle merci derrate e mercanzie che stava il Duca esigendo con averlo usurpato alla Università cui apparteneva in forza delle capitolazioni dell’anno 1308 e dello Stato del Reggente Tapia.

La commessa di cotesto giudizio si ottenne in persona del Regio Consigliere allora ed indi illustre Segretario di Stato D. Giuseppe Zurlo, Magistrato di elevatissimi talenti, di vaste e belle cognizioni, di probità a tutta pruova, e non fatto per incensare gli abusi della feudalità. Proposta da lui la causa nel S. R. C. nell’anno 1798 furono decisi soltanto li primi tre capi. Fu la decisione favorevole alla Università; ma in quanto all’erba estiva del bosco di Ruvo ebbi a battermi molto acremente pe ’l seguente motivo.

Si è detto innanzi alla pagina 202 che rimasto collo strumento dell’anno 1552 abolito l’uso civico del pascolo de’ bovi aratorj che i cittadini di Ruvo rappresentavano sul detto bosco, fu data alla Università in compensamento la facoltà di ampliare la sua difesa fino a quaranta carri. Incaricato il Consiglio Collaterale di dare esecuzione a tal determinazione, col suo decreto del dì 26 Ottobre 1552 disse che tale ampliazione si accordava pro usu et pascuo dictorum bobum, attento quod boves dictæ civitatis nullo tempore dictum nemus ingredi, nec in eodem pasculari possunt.

Gli Avvocati del Duca beccando quelle parole nullo tempore nemus ingredi nec in eodem pasculari possunt, gonfiavano le pive, e volevano in coteste espressioni ravvisare un giudicato del Collateral Consiglio che aveva tolto ai Ruvestini in ogni tempo, ed in ogni stagione gli usi civici del bosco suddetto.

Si replicava da me che il carattere di giudicato compete soltanto a [a248] que’ decreti che i Magistrati emettono in un giudizio contraddetto. Che il Collateral Consiglio fu nell’anno 1552 semplicemente incaricato di autorizzare la città di Ruvo ad ampliare la sua antica difesa, non già a definire se aveva o nò dritto di pascere nel bosco feudale nella estiva stagione. Che non poteva lo stesso volerne più di quello ch’era contenuto nello strumento dell’anno 1552 stipulato tra il Vicerè Pietro di Toledo e ’l Duca d’Andria Fabrizio Carafa, al quale fu il Collateral Consiglio incaricato di dare esecuzione per la sola parte permissiva dell’ampliazione della predetta difesa comunale.

Che l’ampliazione della difesa con esso accordata alla città di Ruvo era stata un compensamento del pascolo de’ bovi aratorj che veniva a perdere tempore hyemali, come precisamente si legge nel precitato strumento riportato alla detta pagina 202, non già nel tempo estivo, del che non si parlò in esso nè punto, nè poco. Che quindi subentrava la regola di Diritto Iniquum est perimi pacto id de quo cogitatum non est, e che un errore in cui cadde il Collateral Consiglio eccedendo i limiti dell’incarico ricevuto non poteva alterare il contenuto del precitato strumento dell’anno 1552 al quale soltanto doveva starsi.

Queste ed altre osservazioni da me fatte convinsero il maggior numero; ma fu questo articolo deciso a favore della Università non senza un forte dibattimento. La decisione allora ottenuta ha portata la conseguenza che nella divisione de’ demanj che ha avuto luogo per effetto delle novelle leggi sono state risegate a favore della nostra città trentatre carri del bosco suddetto, o siano duemila moggia circa.

Rimanevano a decidersi il quarto e ’l quinto capo per la nomina del Maestro di Fiera e per lo dritto plateatico, quando il Consigliere Zurlo fu promosso alla luminosa carica di Avvocato Fiscale della Regia Camera della Sommaria. Mi compiacqui del di lui ben meritato avanzamento, ma rimasi dolente di averlo perduto per Commessario della precitata causa nel S. R. C. Non tardò però a presentarmisi la occasione di racquistarlo per altra via. L’alta opinione che il Governo aveva di lui fece sì che cominciò a darsi qualche esempio che taluni giudizj tra Università e Baroni, che si volevano veder terminati senza lungherie giudiziali, furono per volontà del Re a lui particolarmente delegati.

Massimo era in ciò il vantaggio delle Università. Venivano esse a [a249] rinfrancare il dispendio. Rimanevano a tal modo troncate le tergiversazioni forensi che costituivano il maggior presidio de’ Baroni intenti sempre a prender tempo, e stancare i Comuni. In fine il dipendere nelle cause di questa specie da un Magistrato illuminato, giusto e non ligio del Baronaggio era una cosa molto desiderabile. Pensai quindi di battere la stessa strada e mi riuscì ottenerlo. Per disposizione Sovrana tanto li due punti di quistione non ancora decisi dal S. R. C. quanto tutti i capi dedotti nella Regia Camera della Sommaria furono delegati all’Avvocato Fiscale Zurlo.

Passate quindi a lui le carte di ambi i giudizj, si applicò prima a decidere le due quistioni rimaste pendenti nel S. R. C. Con suo decreto dell’anno 1798 fu tolta al Duca la nomina del Maestro di fiera ed abolito il dritto plateatico. A tal modo tutte le dimande proposte nel S. R. C. rimasero esaurite con una piena e compiuta vittoria riportata dalla Università. Si accudiva da me per la decisione delle altre più gravi quistioni dedotte nel Tribunale della Regia Camera della Sommaria, quando sopravvenne l’epoca fatale e memoranda dell’anno 1799 che pose in iscompiglio tutto il Regno.

Per una di quelle anomalie inconcepibili, ma inseparabili dalle rivoluzioni e dai tumulti popolari, la casa di quel rispettabile Magistrato fu saccheggiata dal cieco furore del Popolaccio Napolitano, ed ei medesimo non dovè stentar poco per poter riuscire a salvar la vita. Col saccheggiamento immeritamente da lui sofferto si dispersero anche que’ processi delle nostre cause che si trovavano presso di lui. La dispersione di essi, le fastidiose conseguenze delle terribili convulsioni dell’anno 1799 che gravitarono su di tutti, e la confiscazione di tutti li suoi beni che per effetto di esse soffrì la Casa d’Andria, arrestarono per necessità fino all’anno 1803 il corso de’ giudizj suddetti.

Per i luttuosi avvenimenti preceduti figurava allora qual primogenito della sua illustre famiglia l’attuale Signor Duca d’Andria D. Francesco Carafa. A lui quindi furono, dietro il Trattato di Firenze, restituiti i feudi ed i beni di sua Casa ch’erano stati confiscati. Col Duca D. Francesco perciò furono nell’anno 1803 ripigliati li giudizj suddetti. Non costò poco imbarazzo la rifazione de’ processi dispersi nella casa [a250] del Signor Zurlo, e specialmente di quello de’ molini, nel quale vi era il rapporto de’ Periti adoperati, e la pianta di essi levata nell’anno 1798. Si ritornò innanzi al Tribunale della Regia Camera della Sommaria, ed ivi alle dimande proposte nell’anno 1797 ne furono nell’anno 1804 aggiunte due altre.

La prima di esse fu la seguente. Dell’antica difesa comunale, di cui si è innanzi parlato, ventotto carri si trovavano in mano della Casa d’Andria, senza che si fosse conosciuto a qual titolo le avesse possedute. In tale oscurità sull’appoggio de’ documenti rinvenuti nel Grande Archivio, ed innanzi riportati, e dello strumento dell’anno 1552, col quale fu ampliata la difesa comunale eretta nell’anno 1510, stimai proporre un’azione di rivendicazione. Essendosi il Duca difeso coll’aver prodotti diversi documenti, coi quali sosteneva di essersi col prezzo dei detti carri ventotto estinta una porzione degli antichi debiti della Università, il giudizio cangiò figura. I contratti dal Duca allegati gli attaccai di nullità per difetto di legittimi solenni. Proposi subordinatamente ed in ogni caso l’azione di reintegra in vigor della Prammatica XVIII De administratione Universitatum, perchè calcolai che il valore della difesa posseduta dalla Casa d’Andria montava al doppio del prezzo che si diceva pagato.

La seconda fu la seguente. Appartengono al Monte della Pietà della città di Ruvo destinato al mantenimento de’ projetti quindici carri di terreno nella contrada delle murge. Da lunghissimi anni si trovavano questi in mano della Casa d’Andria per una prestazione tenuissima in danaro niente corrispondente al valore di essi, senza conoscersi a qual titolo se ne fosse impossessata. Essendo riuscite inutili le richieste amichevoli o per l’aumento dell’estaglio o per la restituzione de’ terreni suddetti, convenne prendersi le vie giudiziali.

Rinnovati li giudizj suddetti, l’attuale Signor Duca D. Francesco Carafa si regolò da uomo saggio e prudente. Istruito dal risultamento che avevano avuto le dimande proposte nel S. R. C. cercò ravvicinarsi ai Ruvestini, e proporre ai medesimi la combinazione amichevole degli altri giudizj anche più gravi ch’erano tuttavia pendenti. La disposizione degli animi era allora anche cangiata. Le gravissime sciagure piombate [a251] sulla Casa d’Andria per i luttuosi avvenimenti dell’anno 1799, e l’amarezza in cui viveva una illustre famiglia un tempo tanto potente, aveva raffreddato il risentimento generato dalle antiche prepotenze, ed eccitato un compatimento ed un sentimento di considerazione. Valga il vero in quel frangente ben tristo per la Casa d’Andria i Ruvestini non solo si guardarono dall’aggravare vie più li suoi malanni; ma si prestarono anche di tutto cuore a salvarle dalla confiscazione tutto ciò che avesse potuto dipendere dalla loro cooperazione.

La proposta quindi di un accomodamento fu da essi bene accolta e da me applaudita perchè la mia maniera di pensare è stata avversa sempre ai litigj, ed anche perchè una ragionevole transazione avrebbe portato un più sollecito miglioramento agl’interessi comunali ed allo stato della popolazione. Si aprirono quindi le trattative e le discussioni tra me e gli Avvocati del Duca con reciproca buona intenzione e buona fede. E perchè il risultamento di esse fosse stato più sicuro, si prese una misura la quale riuscì utilissima. Per que’ punti ne’ quali le opinioni e le pretensioni rispettive non avessero potuto ravvicinarsi, si prese di accordo per conciliatore un uomo sommo, cioè il chiarissimo D. Francesco Ricciardi celebre Avvocato allora, di cui ho innanzi parlato con quella laude ch’è ben dovuta alla sua illustre e veneranda memoria.

Se la Casa d’Andria avesse dovuto a rigor di Diritto restituire tutte le somme strappate alla Università, ed alla misera popolazione di Ruvo a forza di usurpazioni ed estorsioni, non sarebbe al certo bastato il doppio, o il triplo de’ beni che allora possedeva. Ma il portare le pretensioni tant’oltre sarebbe stato lo stesso che nulla voler combinare. Gli affari di questa specie non gli ho mai veduti terminati altrimenti che coll’essersi alzata la mano sul passato. La stessa Commissione delle cause feudali, contro la quale hanno gridato tanto i Baroni, tagliava senza risparmio, e spesso anche con eccesso sul presente; ma era indulgentissima sul passato. Come e donde appianarsi i guasti immensi recati alle popolazioni dai vizj intrinseci del sistema feudale, dalla ragion de’ tempi, e dalla debolezza del Governo dei Vicerè per le prepotenze de’ Magnati? Oltre che come liquidarsi le somme suddette dopo esserne passati secoli interi? Ove trovarsi i documenti opportuni a poterne fare la liquidazione?

[a252]

Con queste vedute, dopo lunghe discussioni fu da me combinata una transazione, la quale, mentre fece scomparire tutti gli abusi, e tutte le usurpazioni della feudalità, portò anche una qualche riparazione de’ guasti passati che le circostanze poterono permettere. Nell’accordo combinato non furono compresi i due ultimi giudizj relativi alla difesa un tempo comunale, ed ai terreni del Monte della Pietà, per i quali non era il processo ancora pienamente istruito. Per gli altri capi fu la convenzione consegnata per giusti motivi in due fogli distinti. In uno di essi furono convenuti i seguenti articoli.

I. Fu restituito alla Università il dritto dello scannaggio.

II. Si obbligò il Duca di pagare la bonatenenza tanto per lo vasto fondo denominato la Piantata, quanto per gli animali d’industria che pascolavano nel demanio.

III. Fu restituito alla Università il magazzino ritagliato quindici anni innanzi dalle pubbliche carceri. Rimasero compensate le pigioni dovute dal Duca colla spesa fatta per ridurre quel locale ad uso di magazzino.

IV. Per li frutti e proventi della Giurisdizione della Portolania, e de’ pesi e misure, e della gabella della giumella delle mandorle, per la bonatenenza non pagata fino all’epoca del catasto dell’anno 1752, e per ogni altra pretensione che riguardava il passato, rinunziò il Duca al preteso credito d’interessi arretrati nella somma di ducati 25600, e si obbligò inoltre di pagare alla Università ducati cinquemila colla dilazione di venti anni, e corrispondere intanto l’interesse alla ragione del cinque per cento franchi di ogni ritenuta.

V. Rispetto ai molini si ebbe per vero I. Che si erano questi edificati sul suolo ed accanto all’antica muraglia della città. II. Che la spesa delle nuove fabbriche occorse, delle macchine e degli animali alle stesse addetti si era fatta dalla Casa d’Andria. III. Che il dritto proibitivo di essi lo aveva costituito la Università nell’anno 1615 per la propria utilità. IV. Che tal privativa era utile mantenerla per assicurare e facilitare la esazione della gabella della farina.

Si convenne quindi che avesse il Duca continuato a ritenere tanto i molini che la privativa di essi come una privativa comunale, con pagare alla Università annui ducati trecento dal dì quattro Maggio 1804 [a253] in avanti per terzo e senza veruna ritenuta. Si obbligò inoltre di mantenere i molini sempre in buono stato di servizio, senza potersi mai alterare la prestazione di grana sedici a tomolo per la macina.

Li premessi articoli di convenzione furono applauditi ed approvati dalla Università col pubblico Parlamento del dì 20 Gennajo 1805. Furono dopo ciò presentati al Tribunale della Regia Camera della Sommaria per ottenerne l’approvazione. Quel Tribunale gli omologò con suo decreto di expedit del dì 24 Aprile 1805. Dopo ciò ne fu stipulato pubblico strumento nel dì 21 Agosto 1805 dal Notajo D. Antonio di Marino di Napoli.

Nell’altro foglio fu premessa una dichiarazione che senza venirsi ad una formale definizione della qualità del demanio di Ruvo, si venivano a prendere i seguenti temperamenti.

I. Si convenne che le così dette parate delle murge fossero rimaste sullo stesso piede in cui si trovavano, senza che si avessero potuto giammai nè ampliare, nè restringere.

II. Fu dichiarato che nella continenza di esse si trovavano molte possessioni e terre seminatorie de’ particolari e de’ Luoghi pii. Fu quindi permesso ai proprietarj di esse di formare, senza pagamento alcuno, una mezzana per uso degli animali addetti alla coltura della estensione non maggiore di quella che accordano le Istruzioni Doganali e l’uso di Puglia. La stessa facoltà fu accordata a tutti li proprietarj di masserie di semina site nello intero demanio di Ruvo.

III. In compensamento del dritto che avesse potuto competere alla Università e cittadini di Ruvo sui luoghi inclusi nelle parate, si obbligò il Duca di pagare alla cassa comunale annui ducati mille e cinquecento dal mese di Maggio dell’anno 1805 in avanti. Si convenne che la somma suddetta non avesse potuto giammai nè diminuirsi, nè accrescersi per qualunque pretesto o causa, ancor che i prezzi degli erbaggi venissero ad elevarsi o ribassarsi, ed ove anche la Casa d’Andria venisse a dire di non aver trovato a locargli.

IV. Rispetto alla fida de’ forestieri che la Casa d’Andria stava esercitando in tutto il demanio fu stabilito in primo luogo per regola generale che non avesse potuto esercitarsi altrimenti che dopo essersi provveduto [a254] prima al pascolo degli animali de’ cittadini. Rimase questa in secondo luogo assolutamente vietata ed inibita ne’ terreni appatronati tanto seminatorj che incolti siti nel demanio[257].

V. La stessa disposizione fu estesa anche ai terreni seminatori de’ particolari e de’ Luoghi pii siti nella contrada delle murge, non eccettuati quelli inclusi nelle parate, i quali nel tempo estivo rimangono aperti[258].

Li premessi articoli furono del pari applauditi ed approvati col precitato parlamento del dì 20 Gennajo 1805. Quindi dopo esser stati omologati dal Tribunale della Regia Camera della Sommaria, nel dì 24 Aprile 1805, come innanzi si è detto, gli altri articoli contenuti nel primo foglio fu questo secondo foglio consegnato in un pubblico strumento del dì 2 Maggio del predetto anno stipulato dallo stesso Notajo D. Antonio di Marino di Napoli.

Ma perchè cotesta seconda convenzione non fu presentata anche all’approvazione del Tribunale della Regia Camera della Sommaria come si era fatto per la prima? Eccolo. Si riflettè che la materia che ne formava l’oggetto era ogni dì alle mani dell’Avvocato fiscale del Tribunale suddetto. Nella narrativa inoltre della stessa convenzione non aveva potuto farsi a meno di parlarsi delle pretensioni del Regio Tavoliere e de’ suoi Locati sul demanio delle murge di Ruvo.

Ove dunque si fosse ciò avvertito dall’Avvocato fiscale, forse e [a255] senza forse il Regio Tavoliere ed i Locati sarebbero stati messi in causa. Si sarebbe risvegliata di nuovo a tal modo un’annosa quistione che fortunatamente dormiva da moltissimi lustri, e sarebbe rimasta da cotesto incidente arrestata ed intorbidata una convenzione che ha recato alla città ed alla popolazione di Ruvo vantaggi immensi. E perchè ne sia di ciò ognuno persuaso, e chi non lo ha capito ancora lo capisca, ecco le vedute che me la suggerirono.

Due erano le quistioni che si elevavano sul demanio delle murge. La prima se era questo un demanio feudale o comunale. La seconda se in ogni caso si potevano sostenere dalla Casa d’Andria le così dette parate, o siano le chiusure di una buona porzione dell’erba vernina di esso che vendeva a suo profitto.

Per la prima quistione si sosteneva da me la qualità comunale di quel demanio con tutti quelli argomenti che potevano suggerirmi i miei deboli talenti. Ma, mi piace la verità, cotesti argomenti venivano in conflitto col fatto permanente e col possesso immemorabile che la Casa d’Andria allegava prendendo ragione dal contratto passato nell’anno 1473 tra il Re Ferdinando I di Aragona, e Pirro del Balzo Duca di Venosa e Conte di Ruvo, di cui ho innanzi lungamente ragionato alla pagina 214 e 215. Le stesse parate dell’erba vernina, comunque abusive, e ’l dritto di fida esercitato dalla Casa d’Andria nella contrada delle murge costituivano anche una pruova di quel possesso antichissimo che la stessa allegava.

Per tutti gli altri capi dedotti gl’interessanti documenti rinvenuti mi avevano fornito un materiale sufficiente per poter dimostrare o la usurpazione de’ dritti comunali o l’abuso della feudalità. Ma per le murge, malgrado le più estese ed accurate ricerche praticate, nulla mi si era presentato di positivo e di concludente. In tal posizione non mi mancava il tatto per calcolare che un possesso accreditato e garantito da una rimota antichità, riconosciuto anche dal Re Ferdinando I di Aragona, e non fiaccato da documenti solidi e robusti avrebbe potuto imporre ai Magistrati, ed avrei potuto per questo assunto rimaner succumbente.

Quindi nella trattativa aperta per un accomodamento feci uso della [a256] destrezza e dell’arte. M’ingegnai principalmente di trarre partito dalla seconda quistione, ove vedeva dal mio canto una superiorità decisa. Data anche per vera la qualità feudale del demanio delle murge, giusta l’avversa posizione, non avrebbe potuto augurarsi giammai la Casa d’Andria di poter sostenere le parate a dispetto delle antiche leggi che vietavano rigorosamente ai Baroni la chiusura di qualunque parte de’ demanj feudali in pregiudizio degli usi civici che spettavano alle popolazioni. Sull’apertura delle parate quindi vigorosamente da me s’insisteva; ma non era questo che un falso attacco che non era affatto mio proponimento spingerlo innanzi da senno e fino all’estremo.

Vedeva bene che se la causa si fosse portata alla decisione, le parate si sarebbero aperte, e la Casa d’Andria avrebbe perduto il considerevole profitto di più migliaja di ducati l’anno che ne ritraeva. Ma l’apertura di esse sarebbe tornata a vantaggio de’ soli proprietarj di animali d’industrie che avrebbero avuto nelle murge un libero e largo pascolo. Il maggior numero però di cotesti Signori, sia per avarizia o melensaggine, sia per non disgustare la Casa d’Andria, niuna parte aveva voluto prendere a questa laudabile impresa. Non meritava quindi di coglierne il frutto e di sedere ad una lauta mensa preparata col risico e colla borsa altrui.

Per altro lato le mie vedute erano dirette a rendere la convenzione profittevole principalmente alla cassa comunale, poichè era come lo sono tuttavia convinto che quando questa è nello stato di opulenza, il vantaggio che ne risulta viene a diffondersi sulla intera popolazione, il bene della quale mi era principalmente a cuore. Coll’avere quindi minacciate fortemente le parate che costituivano il punto più debole per la Casa d’Andria, obbligai li suoi Avvocati a rendersi meno esigenti nella quistione sulla qualità del demanio suddetto, nella quale, non senza un fondamento forse di ragione, si credevano più forti. La Casa d’Andria, per non perdere del tutto la rendita considerevole delle parate, fu obbligata a dividerla colla Università e dovè condiscendere per forza a darne alla stessa la rilevante somma di annui ducati mille e cinquecento.

A questo scopo erano dirette le mie linee. Se la causa si fosse decisa [a257] per tramites juris le parate sarebbero saltate per aria. Ma qual guadagno vi avrebbe fatto la cassa comunale? Coll’avere però obbligata la Casa d’Andria a dividere la rendita di esse, oltre il profitto che la Università vi ha fatto, è venuta anche ad acquistare per convenzione nella contrada delle murge quella ragione di condominio che niuna sicurezza vi era che avesse potuto conseguirla per le vie giudiziali.

Cotesto dritto l’ha messa in grado d’imporre su gli animali de’ cittadini che vanno ivi ora a pascolare una tassa che ha preso il nome di dritto civico. Frutta questa alla cassa comunale annui ducati duemila, i quali uniti agli annui ducati mille e cinquecento convenuti per le parate formano la somma ben vistosa di annui ducati tremila e cinquecento che la Università viene ora a ritrarre da quelle murge che non poteva prima neppur guardarle da lontano.

Ma se la nostra città non avesse a tal modo acquistato il condominio di quella contrada, e le parate fossero rimaste aperte al libero uso degli animali de’ cittadini per effetto di un decreto del Giudice, avrebbe potuto forse imporre la tassa suddetta? No certamente. Possono i Comuni aver questo dritto ne’ demanj proprj e fino ad un certo segno, non già negli antichi demanj feudali, ne’ quali ciascuno de’ cittadini era ammesso a pascolare coi suoi animali per dritto proprio.

Il dritto che le novelle leggi hanno accordato ai Comuni rispetto ai demanj feudali è stato quello della divisione. E bene se non vi fosse stata la convenzione dell’anno 1805 e ’l demanio delle murge avesse dovuto dividersi tra il Barone e la Università, cosa a quest’ultima avrebbe potuto spettarne? Avrebbe potuto averne il quarto, o tutto al più il terzo, come fu deciso per lo Bosco di Ruvo dal fu dottissimo e rispettabile Consigliere D. Domenico Acclavio Commessario allora per la divisione de’ demanj di quella Provincia. L’erbaggio degli altri due terzi sarebbe rimasto di libera ed assoluta disposizione del Barone, senza che i cittadini vi avessero potuto vantare più alcun dritto.

Or la predetta tassa di annui ducati duemila si è potuto imporla perchè per effetto della convenzione dell’anno 1805 gli animali de’ cittadini pascolano nell’inverno in que’ luoghi delle murge che sono fuori delle parate e nella està, quando quel pascolo è assai più interessante [a258] e più ricercato, nella intera continenza di esse. Ma se cotesto pascolo fosse rimasto ristretto al solo terzo di quel demanio, avrebbe potuto forse esser tollerabile una tassa di ducati duemila?

Per altro lato se quel demanio si fosse diviso nel modo predetto tra il Barone e la Università, avrebbero potuto giammai le industrie armentizie de’ Ruvestini giugnere a quel grado di floridezza a cui si vedono ora portate? L’aumento di esse dall’anno 1805 finora si può in vero dir prodigioso, ed è questo dovuto unicamente alla convenzione dell’anno 1805 che ha messo a disposizione de’ cittadini il pascolo estivo interessantissimo e preziosissimo della intera contrada delle murge. Cosa si sarebbe fatto col solo terzo di essa? Come avrebbero potuto in esso moltiplicarsi tanti animali quanti ora se ne vedono nel territorio di Ruvo?

Se dunque la convenzione dell’anno 1805 arricchì la Cassa comunale, accrebbe anche notabilmente l’agiatezza de’ particolari e l’abbondanza della città ove mancavano prima finanche le carni pe ’l macello. Valgano le premesse osservazioni perchè chiunque non è giunto ancora a penetrare nel fondo della cosa, possa intendere ciò che allora fu operato con pieno accorgimento, valutarlo, rispettarlo, ed esser persuaso che dalla osservanza di quella convenzione dipende la floridezza delle industrie armentizie Ruvestine.

Passando ora al di più che fu con essa convenuto, e stabilito furono prese anche le misure opportune per le devastazioni seguite nel bosco, per le quali pendeva, come innanzi si è detto, un giudizio criminale nel Tribunale della Regia Camera della Sommaria. Si obbligò dunque il Duca per dodici anni continui a non fare in esso entrare alcun forestiere nè a legnare nè a pascere l’erba estiva, onde sotto il pretesto del pascolo non si fossero tagliate e trasportate le legna. Si obbligò inoltre di adoperare tutti i mezzi per far di nuovo rimboscare i luoghi danneggiati.

Per lo stesso oggetto si convenne anche che per un uguale periodo di tempo l’uso civico di legnare che competeva ai cittadini per effetto del giudicato del S. R. C. dell’anno 1798 si fosse esercitato colla maggiore moderazione possibile, e limitato a que’ designati luoghi meno danneggiati che si sarebbero di accordo definiti. Furono prese le misure le più efficaci per la severa custodia del bosco e per la sorveglianza necessaria. [a259] Si stabilì che chiunque fosse stato colpevole della recisione di querce fruttifere sarebbe stato tradotto irremissibilmente innanzi al Tribunale per farlo condannare alla pena stabilita dalle leggi allora in vigore.

Ecco come l’Amministrazione comunale di allora che pensava sanamente prendeva efficacemente a cuore la conservazione del Bosco. E ciò lo fece mentre la popolazione di Ruvo per le leggi di quel tempo non vi aveva che i semplici usi civici contraddetti anche dal Barone, e non già quel dritto di proprietà che ha sulla terza parte di esso ora acquistato per effetto delle novelle leggi, dritto il quale avrebbe dovuto destare un maggiore interesse della moderna Amministrazione comunale per la conservazione del bosco.

Coi mezzi di sopra espressi osservati ed eseguiti a tutto rigore si andò il bosco suddetto a rimettere poco a poco in uno stato plausibile. Una buona porzione di esso è ora anche assai migliorata. Ho detto innanzi che non picciole quote del bosco son passate dalle mani de’ censuarj Abruzzesi a quelle de’ Ruvestini ed altri ricchi proprietarj di quella Provincia. Contano essi non solo sull’erba, ma anche sulla ghianda, e molto più sulle legna che formano ivi un articolo interessante.

Quindi per la porzione maggiore che spettò al Duca d’Andria nella divisione de’ demanj, si son valuti dell’articolo 58 della legge del Tavoliere del dì 13 Gennajo 1817, col quale è prescritta l’affrancazione coattiva dell’erba estiva e di qualunque altro dritto a cui vanno soggetti i terreni del Tavoliere. Affrancata dunque la statonica, e ’l dritto di legnare rimasto al Duca d’Andria sulle porzioni suddette, le han fatte e le fanno diligentemente custodire, e si vedono quindi ben rimboscate.

Non è però così per li carri trentatre risegati a favore del Comune nella divisione de’ demanj. Quella porzione del bosco suddetto si è menata e si sta menando alla distruzione totale. La Casa d’Andria prima dell’anno 1797 ne fece recidere i rami per far danaro. Ora si stanno tagliando anche i tronchi dalle radici senza che la cassa comunale ne tragga alcun profitto! Cotesto guasto doloroso che cade sotto i sensi di chiunque volesse prendersi il fastidio di verificarlo, si trova anche pienamente pruovato con un processo formato nell’anno 1837 ad istanza del fu Sindaco D. Pietro Cotugno che nell’entrare nell’amministrazione volle [a260] porsi in cautela, onde i danni suddetti non fossero stati imputati alla sua poca vigilanza. Questo processo sta nella Intendenza di Bari, e quale n’è stato il risultamento?

Quel bosco che dar potrebbe alla cassa comunale quella stessa rendita vistosa e sicura che sta dando la porzione maggiore di esso spettata al Duca d’Andria, cosa frutta alla stessa? Da un rapporto del dì 17 Aprile 1838 diretto dal Sig. Intendente della Provincia a S. E. il Ministro dell’Interno, e dai conti del Cassiere comunale risulta che in un decennio dall’anno 1826 all’anno 1836 l’introito fu di ducati 2800.38, e l’esito per lo contributo fondiario, e ’l soldo de’ guardaboschi fu di ducati 2840. Bel negozio in vero! È questa a buon conto una proprietà che la moderna amministrazione comunale vuol ritenerla unicamente per farla finire di distruggere ed annientare!

Per chi dunque mi battei nell’ardua quistione ch’ebbi a sostenere nel S. R. C. nell’anno 1798 per gli usi civici del bosco di Ruvo, se la vittoria allora riportata, in vece di accrescere i proventi della cassa comunale deve servire ad una distruttrice depredazione? È questo però un discorso troppo spiacevole, il quale esige un più largo sviluppamento, che non potendo aver luogo in un cenno istorico, lo riserbo ad altro mio lavoro.

Terminati nel modo di sopra esposto tutti i giudizj dedotti nell’anno 1797, vi rimasero soltanto quelli istituiti nell’anno 1804 per i terreni del Monte della Pietà e per l’antica difesa comunale. Questi due giudizj dal Tribunale della Regia Camera della Sommaria passarono alla Commissione delle cause feudali istallata ne’ primi anni del decennio del Governo Militare. Per i terreni del Monte della Pietà vedendo il Duca che gli mancava qualunque documento per potergli ritenere, gli rilasciò volontariamente, e finì la lite.

Per li carri ventotto della difesa vi fu larga discussione tanto sull’azione principale della nullità de’ contratti dal Duca allegati, quanto sulla dimanda subordinata della reintegra in vigor della Prammatica XVIII De administratione Universitatum.

La Commissione feudale voleva far presto. Per far presto più d’una volta arbitrava. Le piacque in questo rincontro di seguire il giudizio [a261] di Salomone. La difesa suddetta fu divisa in due parti uguali. Quella più vicina all’abitato fu data alla nostra città. L’altra rimase al Duca. La porzione attribuita alla città non rende meno di annui ducati mille e dugento, ma può rendere anche più.

Con questo giudicato della Commissione feudale rimasero esauriti tutti i giudizj da me diretti. Lascio ora ai miei concittadini il confronto tra le operazioni dell’anno 1750, e quelle dell’anno 1797.

CAPO XIV. Fatti principali avvenuti nella città di Ruvo dalla fine del secolo XVIII in poi.

Dopo aver parlato del risultamento de’ giudizj promossi contro la Casa Baronale, il quale benchè seguito in epoche diverse esigeva un prospetto continuato, do un passo indietro per ripigliare il filo degli avvenimenti li più importanti che hanno avuto luogo nella nostra città dalla fine del secolo XVIII in poi. Prima dell’epoca troppo infausta e memoranda dell’anno 1799 che pose a soqquadro tutto il Regno, ed ha lasciate delle piaghe che non hanno potuto ancora rimarginarsi, fu in Ruvo eseguita una operazione molto utile all’agricoltura.

Vi sono in quella città diverse Confraternite e Monti addetti al sollievo de’ poveri, i quali secondo la Polizia di quel tempo erano sotto la tutela di quel Tribunale che portava il nome di Tribunale Misto, perchè composto di Magistrati in parte secolari ed in parte Ecclesiastici. Erano cotesti Corpi Morali molto ricchi di beni fondi e specialmente di vigne, le quali hanno bisogno di una cura e vigilanza particolare. Amministrate però coteste proprietà da persone le quali non potevano avere un interesse diretto al miglioramento di esse, dovevano per necessità andare in discapito, come avviene a tutte le proprietà fondiarie de’ Corpi Morali, le quali hanno proprietarj che non possono amministrarle da loro stessi.

[a262]

Si prese la saggia risoluzione di concedere li fondi suddetti in enfiteusi perpetua. Si volle a tal modo assicurare in primo luogo una rendita certa, la quale non avesse potuto mai discapitare sia per la poca fedeltà ed esattezza degli Amministratori, sia per la poca diligenza di essi. Si pensò anche a promuoverne con questo mezzo il miglioramento il quale oltre la pubblica utilità che veniva a risultarne, assicurava vie più la rendita de’ canoni enfiteutici che sarebbero andati a costituirsi. Fu la cosa in vero molto bene ideata tanto sotto i precitati rapporti, quanto sotto quello del maggior vantaggio che reca allo Stato la moltiplicazione de’ piccioli proprietarj.

Fu di tale operazione incaricato un Uomo di legge nostro concittadino dotato di bei talenti e cognizioni, di somma probità, e di un impegno sempre deciso pe ’l bene pubblico. Fu questi il Signor Commendatore D. Antonio Sancio, il quale dopo avere occupate altre luminose cariche sostenute con somma laude e rettitudine, è oggi Intendente della Provincia di Napoli e mio rispettabile amico[259]. La menò egli ad effetto col massimo zelo, e ’l risultamento è stato brillantissimo, poichè que’ fondi i quali erano condannati all’abbandono, si videro in pochi anni risorti ad uno stato floridissimo. Fu questo il primo passo che ivi si diè a quel progresso dell’agricoltura, ch’è andato dappoi sempre più innanzi in un modo meraviglioso.

Mentre coteste operazioni felicemente seguivano giunse l’epoca fatale dell’anno 1799. Era io allora, come innanzi ho detto, Avvocato della nostra città ne’ Tribunali di Napoli, e si trovavano nel fervore i giudizj avviati contro la Casa d’Andria. Le persone sagge ed [a263] impegnate al vero bene della comune Patria ch’erano allora alla testa del Governo Municipale, nelle cose le più importanti dipendevano sempre dai miei consigli e dalla mia direzione.

Alla fine del mese di Gennajo dell’anno suddetto l’Armata Francese era entrata già in Napoli sotto il comando del Generale Championnet dopo la terribile anarchia che aveva preceduto l’ingresso di essa. Ammaestrato da ciò ch’era avvenuto quì ed in altri luoghi credei opportuno tenerne di tutto avvertito il Sindaco di quel tempo, e raccomandargli fortemente che avesse badato bene a prendere le misure le più efficaci per prevenire qualunque disordine e mantenere la pubblica tranquillità. Gl’inculcai principalmente e con calore che non avesse permessa affatto alcuna novità, e che avesse fatto rimaner le cose nello stesso piede in cui si trovavano, ed atteso l’andamento naturale e regolare degli avvenimenti.

Sventuratamente però la mia lettera scritta al Sindaco in questi sensi soffrì un ritardo di posta. Capitarono intanto altre lettere o soverchiamente calde o poco prudenti, le quali inculcavano la sollecita piantazione di quell’albero senza radici che i Francesi dell’anno 1799 propagavano da per tutto per produrre soltanto il frutto delle civili discordie, delle sedizioni, delle rivalità ed aggressioni reciproche tra quelle Popolazioni che avevano inalberate insegne diverse.

Le lettere suddette fecero mancar la riflessione e diedero un forte impulso alla piantazione di quell’albero che generò ben presto que’ disordini che si era da me cercato di prevenire. La operazione suddetta per altro seguì senza il minimo mal umore del popolo Ruvestino per se stesso docile e tranquillo. Anzi i popolari medesimi per una mera vaghezza di novità si offerirono a tagliare e trasportare nella città uno degli alti cipressi che stavano nel Convento de’ Cappuccini fuori dell’abitato, il quale si fece servire all’uopo con ben tristo augurio.

Ne’ tempi di turbolenze non mancano uomini o malvagi o ciarlieri, i quali si dilettano di spargere notizie allarmanti. Si era stabilito a Ruvo un Maestro armiere nativo di Corato chiamato Ciro Giacomo volgarmente detto Ciriaco. Qualche giorno dopo la piantazione dell’albero si era costui recato nella città di Trani sia per le sue faccende, [a264] sia piuttosto con cattiva e maligna intenzione. Al ritorno da Trani divulgò la falsa notizia ch’erano alla marina sbarcati gl’Inglesi, i quali cannoneggiavano e bombardavano quelle città che avevano piantato l’albero.

Il Popolo non calcola la verisimiglianza o inverisimiglianza delle cose che si dicono, e come bene osserva Cornelio Tacito, facili civitate ad accipienda, credendaque omnia vera si tristia sunt[260]. Spaventato il basso Popolo di Ruvo dal timore delle cannonate e delle bombe Inglesi ch’erano lontane mille miglia, cominciò a tumultuare e corse a furia a tagliar l’albero. E poichè i Popolari non avevano capito per nulla cosa cotesto albero fosse significato, ragionavano nel modo che siegue: Giacchè i Galantuomini hanno voluto piantar l’albero, avrebbero potuto porre in cima di esso una parrucca e non già la coppola che portiamo noi. A questo modo avrebbero veduto gl’Inglesi che si era lo stesso piantato dalle parrucche e non già dal Popolo.

Cosa è il ragionare della Rivoluzione qualunque sia il colore che questa prenda! Un discorso di tal fatta intanto pruova che la massa del popolo fu spinta, non da cattiva intenzione, ma unicamente dal timore. Non mancarono però uomini perversi e turbolenti, i quali per poter dominare comandare e depredare, profittarono di quel fermento, traviarono il popolo e posero la città in una perfetta anarchia. Non fu quindi più rispettato nè il Sindaco, nè il Regio Governatore e Giudice[261], il quale temendo della propria vita, ebbe a fuggirsene. Non costò poco agli uomini dabbene ed agli Ecclesiastici l’impedire, durante lo stato di anarchia, quello spargimento di sangue di cui si erano macchiati altri luoghi della Provincia. Si ebbe però molto a stentare per salvar la vita ad un povero Notajo incaricato della esazione delle contribuzioni che si pagavano allo Stato. Niuna parte costui aveva avuta [a265] alla piantazione dell albero, e non era fatto per qualunque opinione politica. Ma pe ’l solo odio del suo spiacevole uffizio volevano gli anarchisti bruciarlo vivo.

Queste notizie amareggiarono oltremodo il mio spirito. Interessava molto i Francesi la occupazione delle Puglie ove vi erano delle città insorte. Fu risoluta la spedizione di una colonna di tremila uomini comandata dal Generale Duhems. La mia patria mi era cara, come cari anche mi erano li miei genitori che stavano in Ruvo colle mie sorelle allora nubili. Conosceva bene come i Francesi dell’anno 1799 trattavano le città che davano loro la occasione di adoperar la forza.

Venni anche a sapere che il fu Conte di Ruvo Ettore Carafa il giovane emigrato dal Regno per causa di opinioni politiche, e rientrato in esso per sua fatale sventura al seguito dell’armata Francese, andava a far parte della colonna che partir doveva per le Puglie coi soldati di una nuova legione che si stava da lui formando dai militari dello sbandato esercito del Re, e da altra gente collettizia degli Abruzzi, e delle altre Provincie del Regno. Non poteva certamente crederlo amico de’ Ruvestini, e molto meno della mia famiglia attese le liti promosse contro la sua Casa in parte decise e da me guadagnate, ed in parte tuttavia pendenti come innanzi ho detto.

Questi riflessi mi spinsero fortemente a determinarmi di rischiar la mia vita in que’ tempi torbidi, e partir per Ruvo prima che i Francesi fossero giunti nella Provincia di Bari, onde tentare tutti i mezzi per rimettere in quella città il buon ordine e la calma, e salvare a tal modo la mia Patria ed i miei cari genitori, per i quali avrei versato fino all’ultima stilla il mio sangue, da que’ disastri che avrebbero potuto essere la conseguenza dello stato di perturbazione in cui si stava. Partii quindi da Napoli nel mese di Febbrajo dell’anno 1799 col fu mio fratello Giulio. Era egli allora Tenente del quarto Reggimento de’ Cacciatori del disciolto esercito del Re Ferdinando, giovane di straordinario coraggio, e che si era molto distinto nella infelice campagna dell’anno 1799. Si unì con noi anche qualche altro giovane Ruvestino che stava in Napoli animato dagli stessi sentimenti.

Credei però cosa prudente il non andare direttamente a Ruvo. Tirammo [a266] bensì a Spinazzola in casa di una mia sorella ivi maritata. Presi di là le notizie esatte dello stato in cui si trovava la nostra città, e delle disposizioni in cui era la sana parte degli abitanti di essa che la formavano il Clero i Galantuomini ed i Proprietarj. Venni ad assicurarmi ch’erano essi rimasti sorpresi compressi e schiacciati da un sommovimento popolare non preveduto. Erano però intolleranti di stare sotto il comando ed a discrezione di pochi bricconi idioti e bestiali, poichè si sa che il Popolaccio aut viliter servit, aut superbe imperat. Erano quindi dispostissimi ad una vigorosa risoluzione che avesse rimesse le cose di nuovo nel loro antico stato regolare.

Assicuratomi di queste disposizioni e combinato l’occorrente per via di lettere segretamente, montai a cavallo coi miei compagni di viaggio e partimmo da Spinazzola al far della notte, per poterci trovare nelle vicinanze di Ruvo allo spuntar del giorno, essendovi tra l’uno e l’altro luogo la distanza di ventiquattro miglia. Giunti nel luogo combinato e designato, trovai alcuni Gentiluomini Ruvestini, ed altre persone armate di loro fiducia e tutti a cavallo. Erano essi usciti chetamente la notte dalla città per venirci incontro. Tutti uniti entrammo in essa di buon mattino quando il popolo n’era uscito pe ’l solito lavoro della campagna.

La prima operazione fu quella di situarsi una guardia al campanile della Chiesa Cattedrale. Si fece così per impedirsi che si fossero suonate le campane a stormo, giusta le istruzioni date dai Capi rivoltuosi nel caso di qualunque novità, onde richiamare nella città il popolo sparso per la campagna. Si trattava di un colpo di mano abbastanza rischioso. Vi bisognava tutta la celerità per non farsi sorprendere da una moltitudine male avvezza ed abituata da trenta giorni e più a comandare e far da padrona, poichè Nec cunctatione opus ubi periculosior sit quies, quam temeritas[262].

In meno di tre ore fu riunita una Guardia civica abbastanza forte e numerosa composta dai Galantuomini, dai proprietarj, dai negozianti e dai capi artieri di buona morale e di conosciuta probità. Tra tutti costoro [a267] vi erano parecchi buoni cacciatori avvezzi al maneggio delle armi e quindi temuti anche dal Popolo. La Guardia suddetta occupò subito la pubblica piazza e fissò ivi il suo corpo di guardia, senza perdere di veduta qualche altro sito importante della città.

Erano allora giunti colà i soldati Ruvestini sbandati dal disciolto esercito del Re. Si riflettè che quanto sarebbe stato pericoloso il lasciare questa gente a discrezione di se stessa e senza occupazione alcuna, altrettanto sarebbe stato utile l’impegnarla al servizio della città per lo mantenimento del buon ordine, al che era conducente una forza regolare e disciplinata. Fu dunque risoluto di prendersi i migliori de’ soldati suddetti ed unirgli alla Guardia civica pagandosi a ciascuno di essi carlini tre al giorno. E poichè mancavano i fondi per pagarsi loro i soldi dalla cassa comunale, si supplì con una soscrizione volontaria di tutti i possidenti. Questa misura fu utilissima, poichè i soldati suddetti si prestarono con fedeltà zelo e fermezza al mantenimento del buon ordine. A misura che dopo il vespro si andò ritirando il Popolo dalla campagna nella città rimaneva attonito, ma senza dir motto, del nuovo ordine di cose che trovava in essa stabilito. Non vedeva più nella pubblica Piazza i Capi rivoltuosi che davano ordini e contrordini, ma bensì le legittime Autorità locali che avevano una forza imponente per farsi rispettare ed ubbidire. Essendo però il popolo suddetto per suo carattere docile e non turbolento, non istentò molto a ritornare alle antiche abitudini. Ne rimasero però molto indispettiti i Capi tumultuanti ai quali era dolce il dominare il comandare e ’l far danaro. Ma il loro mal umore fu inutile e vennero obbligati a rinunziare alla loro cattiva intenzione o di buona voglia o colla forza.

Era indispensabile anche rimettersi l’amministrazione della giustizia senza la quale non vi può essere nè tranquillità interna, nè buon ordine. Il Regio Governatore e Giudice era sparito a causa dell’anarchia. Si trovava allora quella Provincia abbandonata a se stessa e senza le Autorità superiori alle quali avesse potuto ricorrersi per farlo supplire. Il Capo Politico di essa o sia il Preside che risedeva a Trani, ed i Magistrati di quella Regia Udienza Provinciale di cui il Preside era anche il Capo, erano stati sparpagliati dalla feroce e sanguinaria [a268] anarchia suscitata in quella città dalla gente marinaresca ch’era ivi allora numerosissima. Se ne tenne quindi discorso a Monsignor Vescovo.

Reggeva allora la Cattedra Vescovile di Ruvo Monsignor D. Pietro Ruggieri uomo dabbene e di rette intenzioni. Ei nel dì seguente a quell’ora che il Popolo era più affollato si recò nella pubblica Piazza accompagnato dalle Dignità del suo Clero, e predicò insinuando a tutti colle massime del Vangelo la pace la tranquillità il buon ordine, e la ubbidienza alle Autorità legittime. In presenza di Monsignor Vescovo si parlò anche al Popolo tanto dal Sindaco che da me sulla necessità che correva di supplirsi chi avesse amministrata la giustizia in luogo del Regio Governatore e Giudice ch’era stato costretto ad allontanarsi da Ruvo.

Rammento colla massima compiacenza che tanto in quella occasione quanto in ogni altra vennero dalla Popolazione di Ruvo accolti sempre non solo con docilità, ma anche con favore i miei discorsi e le mie insinuazioni, perchè era convinta e persuasa che da me si voleva il bene della comune Patria, e ne aveva data una pruova efficace con avere impreso a difenderla vigorosamente contro la potenza della Casa d’Andria che da tutti era temuta. La proposta quindi venne ammessa in quella piena Assemblea popolare preseduta dal Vescovo ch’ebbe luogo nella pubblica Piazza.

Secondo le leggi e regolamenti allora in vigore ogni qual volta era vacante l’uffizio del Regio Governatore e Giudice veniva nominato dal Governo un Luogotenente che n’esercitava interinamente le funzioni. Questo posto lo aveva più volte coverto il fu D. Matteo Caputi distinto Gentiluomo Ruvestino bene affetto al Popolo. Per non uscirsi quindi dal solito, rimase costui eletto Luogotenente. Tanto le Corti Baronali che le Regie avevano in quel tempo i loro Mastrodatti detti oggi Cancellieri. Non era il popolo contento del Mastrodatti che vi era e dimandò che se ne fosse nominato un altro. Non sarebbe stato ciò regolare, ma bisognò contentarlo, poichè in certi casi lex est legem non servare.

Riordinato a tal modo il Governo della città su quel piede in cui era prima, si praticò lo stesso anche circa i rapporti esterni onde prevenirsi qualunque inconveniente. Delle convicine popolazioni altre avevano preso al cappello il nastro rosso, altre il tricolorato. Erano queste [a269] nemiche tra loro e da tale nimicizia ne seguivano ogni dì disordini rappresaglie ferite ed uccisioni. Si scrisse quindi dal Sindaco a tutte le città vicine che la nostra città era in buona corrispondenza ed amicizia con tutte, e che gli abitanti di esse che vi si sarebbero portati per causa di commercio o per altre loro faccende sarebbero stati bene ed amichevolmente accolti secondo il solito.

Ha la nostra città fino ad un’epoca non molto da noi lontana conservate le sue antiche mura. Mi ricordo bene che nella mia età puerile tra gli uffizj municipali vi era anche quello del Camerlengo. Conservava questi le chiavi delle quattro porte della città che si chiudevano ogni sera e si aprivano di buon mattino, onde la gente avesse potuto uscire al lavoro della campagna[263]. Provvedeva anche il Camerlengo una Guardia urbana notturna a cui erano i cittadini tenuti prestarsi. Si aumentava questa di numero quando le vicine campagne erano infestate da qualche forte compagnia di masnadieri, ed in questi casi erano alla stessa chiamati i più valenti cacciatori, i quali nella nostra città non sono mai mancati. Ottima istituzione!

Nell’anno 1799 era questa andata in disuso e le antiche mura della città, che tuttavia vi erano, in più luoghi erano maltrattate e davano in essa un facile ingresso, perchè non se n’era più curato il mantenimento che formava prima uno degli esiti comunali. Le circostanze del tempo fecero conoscere la necessità di restaurarsi nel miglior modo possibile que’ luoghi di esse ch’erano più danneggiati. Si tennero di nuovo la notte chiuse le porte e si facevano girare per la città le pattuglie notturne della Guardia civica. Di giorno poi delle quattro porte se ne tenevano aperte due soltanto, cioè la Porta del Castello e la Porta di Noja con essersi situato a ciascuna di esse un picchetto di Guardia civica. Quella del Buccettolo e quella di S. Angelo, ora anche abbattute, si tenevano chiuse.

Fu tal provvedimento diretto ad impedire che sia di notte, sia di [a270] giorno fossero entrate nella città persone sospette di cattiva intenzione o facinorose che avessero potuto perturbarla. Si venga ora e si giustifichi la mania di distruggere le antiche mura e le porte delle città! Le sue forti mura e le sue porte nell’anno 1799, per tralasciare i fatti più antichi, salvarono la ricca città di Bari dal saccheggiamento tentato più volte, e sempre in vano, dalle numerose torme armate de’ così detti suoi casali. Tenga Dio sempre lontano il flagello delle rivoluzioni. Ma non siamo stati noi forse testimonj di cotesti sconvolgimenti dopo una lunghissima pace e perfetta tranquillità? La Storia serve ad istruire gli uomini, Præteritæ quippe res optima gerendarum rerum documenta sunt[264].

Nel rifarsi un tratto di muraglia vicino alla Porta del Castello avvenne disgraziatamente che una parte di essa crollò. Rimasero sepolti sotto le sue rovine cinque poveri muratori che vi travagliavano e caddero con essa da su in giù. Avutone l’avviso accorsi subito sul luogo e trovai molto popolo spettatore di sì lagrimevole disastro. Niuno però osava muoversi a soccorrergli per la giusta tema che la rimanente muraglia gli fosse caduta addosso. Sarebbero quindi quegl’infelici infallibilmente periti. Avendo veduto che per incoraggiare gli astanti erano inutili le parole e le persuasive, mi spinsi innanzi di botto e montando sull’alto della breccia della caduta muraglia, cominciai colle mie mani a sbarazzar le pietre che cuoprivano li cinque disgraziati muratori.

Tanto bastò per vedermi seguito all’istante da cento altre persone. In meno di un quarto d’ora le pietre rimasero sbarazzate e furono tratti fuori li cinque muratori che sotto di esse stavano sepolti. Fortunatamente si trovarono tutti viventi, benchè pesti chi più chi meno dalle contusioni e dalle ferite riportate. Si prese cura di fargli diligentemente medicare ed assistere dal Dottor Cerusico del luogo, e si ristabilirono tutti perfettamente. È facile da ciò vedere che il discorso più eloquente che si può tenere al popolo è il proprio esempio.

In questo stato erano le cose della nostra città allora quando terminati gli affari della Capitanata la colonna delle truppe Francesi spedita nelle Puglie passò nella nostra Provincia. Il General Broussier succeduto [a271] nel comando di essa al General Duhems fissò il suo quartier generale a Barletta, perchè le due prime città della stessa a sei miglia ciascuna di distanza da Barletta, cioè Andria e Trani erano in armi preparate a far resistenza ai Francesi. Era anche con lui il Conte di Ruvo Ettore Carafa colla sua nascente legione, circostanza la quale lo rendeva potentissimo. Non posso che compiangere la sua sorte infelice, ma debbo rendere omaggio alla santa verità. Non solo ei non mostrò alcun risentimento coi Ruvestini; ma gli trattò anzi con benevolenza e cortesia. Con vera nobiltà di pensare non mischiò punto nelle cose pubbliche il privato interesse o risentimento.

Mi recò una giusta sorpresa l’aver letto nella Storia dell’Italia di Carlo Botta che il Conte di Ruvo abbia fatta allora incendiare dai Francesi la città d’Andria sua patria, perchè ivi era nato, ed ivi era stato anche allevato nella sua fanciullezza. Ma non può meritare veruna scusa il vedersi replicata la stessa cosa in una Storia del nostro Regno pubblicata dopo da uno Scrittore Napolitano. A quest’ultimo che non era Forestiere come Carlo Botta fa molto torto l’aver ciarlato tanto de’ fatti avvenuti nell’anno 1799 specialmente nella Provincia di Bari, senz’avergli conosciuti e senz’aversi data la pena d’informarsene prima con esattezza da quelle persone che gli conoscevano.

Rispetto dunque al disastro sofferto dalla città di Andria è da sapersi che la risoluzione presa da quella Popolazione di levarsi in armi e resistere ai Francesi fu vie più fomentata dall’arrivo di alcune centinaja di uomini armati de’ casali di Bari che ivi si recarono per rinforzarla. Il Conte di Ruvo che prevedeva le conseguenze che ne sarebbero da ciò derivate fece tutto il possibile per acchetare quella città fino ad esporre la propria vita. Sono stato assicurato da persone ch’erano presso di lui e dagli Andriesi istessi che si portò fin anche solo a cavallo fin sotto le mura di Andria per parlare a quelli abitanti, e ne fu corrisposto a colpi di fucilate tirate sia dai cittadini istessi, sia dagli ospiti casalini ivi sopraggiunti, i quali niuno interesse avevano alla salvezza di quella città.

Or qualunque voglia credersi l’effetto che il Conte di Ruvo avrebbe potuto augurarsi da cotesto tentativo con una popolazione sollevata e [a272] decisa a resistere, bisogna convenire che non si sarebbe certamente esposto di persona a tanto rischio, senza che il di lui animo fosse stato riscaldato dall’amore della sua patria, e da un desiderio di salvarla così potente che non gli fece punto calcolare il pericolo della sua mossa[265]. Lo confermano ciò vie più i fatti che sussieguono.

Il Generale Broussier si recò di persona ad attaccare la città di Andria; ma si mostrò in quel rincontro o molto poco previdente o molto poco esperto nell’arte della guerra. Era allora la città suddetta circondata dalle sue antiche mura piene per tutti i lati di feritoje, ma [a273] troppo deboli contro la forza dell’artiglieria. Partito il Generale suddetto da Barletta colle sue truppe dopo la mezza notte, si trovò in faccia alla città suddetta all’alba del dì 23 Marzo 1799. Avvertito dagli [a274] Andriesi l’arrivo del nemico, tutte le campane cominciarono a suonare a stormo, e la gente armata ch’era tutta al di dentro si distribuì dietro la intera muraglia e prese posto alle feritoje già dette.

Le porte della città non erano munite nè di fossati, nè di ponti levatoj, ma erano al piano ed accessibili. Il modo regolare quindi di attaccarla sarebbe stato quello di fracassare alcuna delle porte ch’erano chiuse, o far cadere qualche pezzo della vecchia e debole muraglia a colpi dell’artiglieria, e poi far avanzare la truppa all’assalto. Ma il Generale suddetto, mentre le porte erano serrate, e non aveva pensato neppure a far preparare e condurre seco le scale da Barletta per potersi assaltare le muraglie, contro tutte le regole dell’arte della guerra fece avanzar la truppa in colonna contro la porta principale della città detta porta del castello che mena a Trani.

Avevano gli Andriesi un solo cannone ottenuto dai Tranesi, e situato alla porta suddetta. La prima scarica di esso fatta a metraglia da un abile artigliere fece molto danno nelle file della colonna nemica che si spingeva innanzi senza una conveniente precauzione. Una seconda scarica a palla smontò un pezzo di artiglieria di campagna ch’era alla testa della colonna suddetta. Giunta questa vicino alle muraglie a tiro di fucile, si divise per circondare anche gli altri lati della città. Cominciò allora un fuoco terribile colle continue scariche che partivano dalle feritoje delle muraglie, il quale durò circa due ore con gran disuguaglianza. Non tutti gli aggressori avevano potuto avere la opportunità di prender posto dietro sicuri ripari. Non pochi di essi erano rimasti esposti a petto scoverto alle fucilate, mentre gli aggrediti appostati dietro la muraglia non potevano essere offesi in verun modo dal fuoco perfettamente inutile della fucileria Francese. Durò cotesto cattivo giuoco [a275] fino a che li Guastatori Francesi appressatisi sotto una grandine di palle alla già detta porta principale della città riuscirono a romperla non senza molto stento a colpi di scuri, e fecero entrare in essa la truppa.

L’errore imperdonabile del Generale cagionò la perdita di parecchi soldati ed uffiziali, e fu giustamente ed acremente censurato non solo dagli uomini di guerra, ma anche da chiunque non mancava di senso comune. Intanto anche dopo entrata la truppa nella città incontrò una viva e coraggiosa resistenza, la quale alla fine riuscì inutile contro una forza assai superiore di numero bene agguerrita e padrona già di tutti i mezzi di distruzione[266].

In questo rincontro il Conte di Ruvo intercedè, pregò e si gittò finanche ginocchioni innanzi al General Broussier per potere salvare la città almeno dall’incendio; ma fu tutto inutile. Si mostrò costui inesorabile, perchè irritatissimo dalla perdita fatta della sua gente causata per altro dalla sua poca avvedutezza e previdenza. Si seppe inoltre che il Conte di Ruvo indignato di cotesta sua durezza spinse contro di lui un rapporto, il quale produsse l’effetto che il Generale suddetto fu richiamato dal comando delle truppe spedite nelle Puglie.

[a276]

Sono questi i veri fatti. Io che mi trovava allora in quella Provincia posso parlarne assai meglio di Botta che scrisse su gli altrui fallaci rapporti, e di chiunque altro ha replicato come un pappagallo ciò che da Botta si è detto. Questi fatti gli ho saputi da persone degne di fede che si trovarono presenti ai medesimi, dagli stessi Andriesi, e dalla pubblica voce che gli rese notorj alla intera Provincia. Si lasci dunque in pace un disgraziato defunto, al quale tutt’altro può essere imputabile che l’incendio della sua patria.

Del resto si è voluto anche esagerare il danno sofferto da quella città, mentre ho tutta la ragione dì compiacermi di quelle propizie circostanze che concorsero a diminuirlo. L’incendio non potè prender piede per essere opportunamente sopraggiunta una dirotta pioggia. Il massimo numero degli abitanti fu salvo primo perchè moltissimi di essi rifuggirono sotto la protezione del Conte di Ruvo nel suo ampio e grandioso Palagio Ducale rispettato dalla soldatesca furibonda sparsa per la città[267]: secondo perchè si nascose nelle grotte sotterranee, che in essa vi sono mentovate dal Pontano nel luogo riportato nel capo I pag. 26.

Gli effetti li più preziosi de’ cittadini furono salvati coll’esser stati nascosti o in quelle stesse grotte ignote ai Francesi, o nelle campagne ov’erano stati precedentemente trasportati dai più ricchi possidenti che avevano preveduto quel disastro che venne la detta città a soffrire. D’altronde il saccheggiamento degli altri effetti meno preziosi rimasti nelle case non durò che poche ore. Le premurose insistenze del Conte di Ruvo, che riscuoteva dai Francesi tutto il riguardo per la sua illustre condizione pe’ suoi talenti e pe ’l suo sommo coraggio, fecero sì che il General Broussier il giorno istesso colle sue truppe se ne ritornò a Barletta. Il che diè anche l’agio agli abitanti di uscire dai loro nascondigli ed occuparsi di proposito a finire di estinguere l’incendio, il quale fece perciò pochissimo danno. Un buon numero in fine degli uccisi dal [a277] furore de’ soldati entrati colle armi alla mano fu, per quanto mi venne riferito, della gente venuta dai casali di Bari, a cui non erano noti tampoco i detti nascondigli, e quindi non le fu facile sottrarsi alla strage che susseguì alla presa della città.

Ben diversa però fu la sorte della povera città di Trani espugnata dopo l’affare di Andria. Era assai più imponente l’apparato di guerra che la stessa ostentava. Le sue mura ed i suoi bastioni che stavano in buono stato erano circondati da un largo e profondo fossato, e muniti di circa trenta pezzi di artiglierie di diverso calibro. Si erano presi questi dal suo antico castello, ove si tenevano in deposito sotto la custodia di pochi soldati invalidi. Cosa però valgono i cannoni quando mancano gli uomini che possano sostenergli?

Cotesto apparato intanto e la trista sperienza fatta nell’attacco di Andria posero il General Broussier in molta prevenzione, e lo resero più cauto. Quindi la città di Trani fu attaccata con tutte le regole dell’arte della guerra. Furono presi dal castello di Barletta quattro pezzi di grossa artiglieria, coi quali fu piantata una batteria contro la porta della città che guarda l’occidente sulla strada di Barletta. Contro l’altra porta che guarda l’oriente detta la porta di Bisceglia furono situati gli obizzi che lanciavano nella città qualche granata per dar terrore, giacchè non avevano i Francesi larga provvisione di questi projettili.

Poco o nulla però fu l’effetto della batteria de’ cannoni. Era la stessa situata a lunga distanza dalla muraglia per la seguente ragione. Vi è da quel lato fuori della città ad una certa distanza l’antico castello. Ove dunque la batteria suddetta si fosse più ravvicinata alla città, sarebbe stata colpita di lato e smontata dai cannoni del castello. Cotesta batteria dunque tirava solo per far rumore, e per bucare le case adiacenti alla porta contro la quale era piantata.

Massimo però era il fastidio che dava agli assediati la fucileria della fanteria nemica. Aveva questa circondato il lato orientale, e meridionale della città, giacchè il lato settentrionale è tutto sul mare, e ’l lato occidentale aveva, come innanzi ho detto, di fianco il castello. Si era appostata dietro le case che stavano fuori della città, e dietro i parieti de’ giardini adiacenti alla muraglia a mezzo tiro di fucile. Mentre [a278] a tal modo si teneva al coverto dal fuoco della Piazza, incomodava moltissimo coloro che la difendevano colle continue scariche di fucileria. Teneva inoltre pronte le scale trasportate da Barletta a bella posta per poter montare all’assalto quando fosse giunto il momento opportuno.

In tal posizione delle cose que’ cannoni situati sulle muraglie che sarebbero stati utilissimi agli assediati se intorno alla Piazza vi fosse stato un regolare spianato, erano loro di sommo imbarazzo subito che gli aggressori avevano potuto situarsi dietro sicuri ripari a mezzo tiro di distanza. Le loro palle entrando per i vani delle cannoniere davano un mortale fastidio agli assediati. La gente marinaresca che formava il massimo numero di coloro che difendevano le muraglie non assuefatta a sentirne il sibilo, se ne spaventò ben presto. Quindi al terzo giorno dell’assedio le abbandonò con una vigliaccheria uguale alla crudeltà, ed alla ferocia colla quale aveva massacrati i più illustri cittadini. Tutti i marinari fuggirono al porto, ove tenevano maliziosamente pronte le barche per poter prendere il largo, e lasciare al macello i loro compagni d’armi.

La loro fuga scoraggiò anche gli altri, e tra essi parecchi militari, ai quali non mancava l’ardire e la volontà di sostenere vigorosamente l’assedio; ma vedendosi ridotti a poco numero, si sgomentarono di continuare la resistenza contro una forza molto maggiore disciplinata e coraggiosa. Pensarono quindi a salvarsi anch’essi. Gli assedianti vedendo cessato il fuoco, e le mura della città sbarazzate di gente, dubitarono da principio di qualche insidia che avesse voluto tendersi a loro danno per fargli uscire dai loro ripari ed avvicinare alle muraglie. Essendosi però assicurati di ciò ch’era avvenuto, discesero ne’ fossati, si appressarono alle stesse, appoggiarono le scale, ed entrarono nella città a loro bell’agio, senza quella resistenza che si è spacciata da chi ha scritto non bene informato delle cose, e senza che cotesta tranquillissima scalata fosse costata la perdita di un solo uomo.

Si era preveduto per altro ove sarebbe andata a finire la bravura de’ marinari Tranesi. Essendosi capito il loro disegno di fuggire per la via del mare, erano state spedite da Barletta molte barche armate, le quali si erano schierate in faccia al porto di Trani per impedire che fossero essi [a279] scappati sui loro piccioli navigli detti paranze. Il vento però gli favorì e riuscirono ad uscire dal porto, e prendere il largo colle loro famiglie, e col meglio che poterono trasportarsi. Molti però di essi avendo avuto poco accorgimento ed essendo sbarcati in luoghi non lontani da Trani, furono colti dai Francesi ch’erano padroni del litorale e moschettati a centinaja come vili conigli. Quella strage rese in Trani per lunghi anni meno numerosa la gente di mare.

Pagarono costoro a prezzo ben caro la pena della loro vigliaccheria e della prodizione fatta ai loro compagni d’armi che difendevano la Piazza con molto coraggio. Era questa forte abbastanza e le sue mura nulla avevano sofferto dalla batteria de’ cannoni di cui innanzi ho parlato[268]. Quando anche non fosse stato possibile continuarsi la resistenza, si avrebbe potuto ottenere facilmente una vantaggiosa capitolazione. I Francesi entrati nel Regno nell’anno 1799 non erano molti. Non volevano quindi perder gente, e non s’impegnavano a superar colla forza e collo spargimento del sangue ciò che potevano combinare colle trattative. Se i detti marinari quindi avessero tenuto fermo il piede e non fossero vilmente fuggiti, non sarebbero certamente i Francesi entrati in Trani colle armi alla mano.

Non avrebbe però meritato quella povera città il durissimo trattamento che ricevè da essi. Cadde questo tutto a danno della gente dabbene, la quale dopo esser stata crudelmente flagellata dall’anarchia soffrì dai Francesi una compiuta desolazione. L’incendio animato vie più da un vento impetuoso che sventuratamente surse durò per più giorni e ridusse in cenere presso che tutta la città, e con essa anche il bellissimo Teatro che vi era ed indi si è rifatto. Il saccheggiamento fu lungo spietato [a280] e ridusse i poveri abitanti alla estrema mendicità. Non poteva guardarsi quella infelice città senza versar lagrime di amarezza.

In quella dolorosa occasione i Ruvestini si distinsero con avere accolte molte famiglie Tranesi che rifuggirono nella nostra città. Molte altre rimaste in Trani furono da essi largamente provvedute di danaro di viveri di vestimenta e di biancherie delle quali avevano il massimo bisogno. La Popolazione di Trani fu anche soccorsa di viveri dalla nostra città. Il Popolo di Ruvo guardava attonito le spaventevoli fiamme ed i globi di fumo che uscivano dalla città di Trani, la quale era a vista, e rendeva grazie al Cielo ed ai buoni cittadini che si erano cooperati a tener lontano dalla nostra città lo stesso disastro.

Mentre seguivano queste fazioni di guerra fu operato in Ruvo tranquillamente quel cangiamento di Governo che le circostanze del tempo e la presenza di una forza imponente rendeva indispensabile. Un tal cangiamento però durò ben poco, poichè i Francesi per i rovesci sofferti nell’alta Italia furono costretti ad uscire dal Regno. Quelli che stavano nella nostra Provincia essendo stati per tal causa richiamati frettolosamente in Napoli, nel lasciarla la sommisero ad una contribuzione di guerra, a cui soggiacque anche la nostra città. Fu questo per altro il minor male che avvenir le poteva in quel trambusto. Caduto ben presto il Governo Repubblicano istallato dai Francesi, si ritornò sotto la dominazione del Re. Seguì però tal passaggio con perfetta calma e tranquillità, e senza il minimo disordine. Abituato di nuovo il Popolo Ruvestino al buon ordine ed ammaestrato anche dagli avvenimenti precorsi, serbò quel contegno laudabile ch’era a desiderarsi.

Riordinate le cose del Regno dopo le più gravi convulsioni sofferte, si ripigliarono nell’anno 1803 li giudizj contro la Casa d’Andria e ne seguì la transazione dell’anno 1805 di cui si è largamente parlato nel capo precedente. Nell’anno 1804 le cure del Governo municipale si rivolsero ad un articolo interessantissimo, cioè alla rinnovazione delle antiche selciate delle strade interne della città. Erano queste formate di pietre non grandi già logore e consumate dal tempo e rese impraticabili specialmente in tempo d’inverno. Era facilissimo lo [a281] sdrucciolare e molte persone ne riportavano alla giornata le membra slogate o infrante dalle cadute. Si univa a questo un altro gravissimo inconveniente qual era quello che l’acqua ed il fango ristagnava in più luoghi s’imputridiva corrompeva l’aere, e comprometteva la salute di tutti gli abitanti.

La somma strettezza e povertà della cassa comunale non aveva permesso per lo innanzi di darsi un riparo. Giunte però le cose ad un punto che non si poteva far passare più oltre, il Sindaco D. Francesco Devenuto, di cui ho fatta innanzi onorevole menzione, nel pubblico parlamento del dì 22 Aprile 1804 così ragionava ai numerosi cittadini in esso intervenuti. Non vi ha dubbio che noi viviamo sotto un clima salubre ed invidiabile per la sua dolcezza ed amenità a differenza di altre Popolazioni, giacchè la città è posta in un sito dominante e delizioso lungi da qualunque naturale contagio o infezione. Ma abbiamo la sventura che questo impareggiabile clima viene contaminato dalla succidezza enorme delle strade della città di estate e d’inverno per le acque che ristagnano in varie lagune. Quindi si corrompono e putrefanno, ristagno che deriva dalla cattiva struttura delle selciate. Da questa cagione reale ed effettiva ne avvengono le malattie non meno nella stagione di està e di autunno, che quasi di continuo in tutto il corso dell’anno, e ad evidenza si scorge che dopo minuta pioggia, spirando i venti australi ed umidi, si rende l’aere talmente infetto dal lezzo ch’esala dal mezzo delle strade ove tali acque putride ristagnano, che non vi ha persona la quale non va afflitta da dolori nella vita, conseguenza vera della respirata aria mal sana, e quindi non traspirata per le cause accidentali dell’atmosfera.

Quindi nel parlamento suddetto furono proposti e presi gli espedienti per la formazione delle nuove selciate colla imposizione di un novello carico sulle gabelle civiche. Perchè la cosa fosse ben riuscita e lo scolo delle acque piovane avesse avuto un regolare declivio che ne avesse impedito il ristagno, ne fu formato il piano dall’architetto da me proposto fu D. Ignazio Stile, quanto valente specialmente nella Scienza idraulica, altrettanto onesto. Cotesta operazione però esigeva una spesa fortissima perchè si trattava di rinnovare per lo intero le selciate della [a282] città. Coi mezzi ordinarj sarebbe andata la cosa molto a lungo e sarebbe forse rimasta anche non compiuta. Il notabile aumento d’introito che la cassa comunale venne ad avere colla transazione dell’anno 1805 e coll’essersi indi guadagnata anche la causa della difesa, accelerò cotesto segnalato beneficio che quella Popolazione lo deve al zelo ed al disinteresse di que’ pochi, ma bravi cittadini che presero a petto loro la difesa di quelle cause che hanno prodotto tanto vantaggio.

Ecco come le strade interne della nostra città si vedono ora lastricate di belle e grandi pietre quadrate. È però quì d’avvertirsi per lo futuro regolamento che le pietre che si cavano nella nostra Provincia ed in conseguenza anche a Ruvo, mentre son atte a qualunque lavoro, non hanno però molta durezza. Quindi le selciate delle nuove strade interne formate in Ruvo si videro ben presto approfondate dalle ruote delle vetture. Grandissimo è il numero di esse ch’entra nella città e batte di continuo le strade suddette per lo trasporto della immensa quantità de’ generi che si raccolgono nel suo vasto territorio, e di tutte le altre cose che bisognano all’uso della vita.

Nel sito quindi del passaggio delle ruote si pensò sostituire una linea di pietre assai più dure, le quali avessero potuto opporre una maggior resistenza alla impressione di esse. Si trova anche nel territorio di Ruvo un’altra qualità di pietra che porta il nome di pietra livida dal suo colore piombino. Gli Architetti Napolitani addetti alle strade Provinciali che l’hanno osservata assicurano che supera la stessa in durezza le pietre delle lave del Vesuvio dette basoli, delle quali sono lastricate le strade di Napoli. Si trova la pietra suddetta nella contrada di S. Lucia. Io ne ho molta nel mio fondo denominato il Parco del Conte ed accordai al Sindaco il permesso di farne tagliare quanta ne avesse voluta per valersene all’uopo, come fu eseguito.

Nell’autunno dell’anno 1805 mi toccò fare un viaggio in Ispagna per trattare un rilevante affare. Mi trovava a Madrid allora che fu data la celebre battaglia navale di Trafalgar nella quale perderono la vita tanto il famoso Ammiraglio della Squadra Inglese Nelson, quanto quello della Squadra Spagnuola Gravina ch’era Siciliano ed anche valentissimo uomo di mare. Venni ivi a conoscere che il nostro Regno si trovava [a283] compromesso in una nuova guerra colla Francia. Cercai quindi di accelerare il mio ritorno in Napoli.

Giunto quì trovai il Paese nella massima trepidazione. Non tardò molto e si ebbero sicure notizie che una poderosa armata Francese era in marcia a questa volta. Il Re Ferdinando rimasto solo dagl’Inglesi e dai Russi ch’erano quì sbarcati, ed indi furono obbligati a partire dalla forza degli avvenimenti seguiti nella Germania, prese la risoluzione di ritirarsi nella Sicilia. Memore della terribile anarchia che si era quì suscitata nell’anno 1799 dopo la partenza del Re, non posi tempo in mezzo. Nel giorno istesso della partenza del Re fissai una carrozza, e ’l dì seguente partii per Ruvo col mio fratello Giulio, onde attendere ivi il risultamento delle cose. Mi determinai a questa mossa perchè calcolai ch’era quello il luogo di maggior tranquillità per me in mezzo ad una popolazione buona, ed a me attaccata.

Vidi per la strada che la notizia già precorsa della partenza del Re aveva resi gli animi delle Popolazioni titubanti, ed inquieti. Giunto nella nostra Provincia ebbi a convincermi che la sperienza del passato è una grande scuola per gli uomini. Divulgata appena la notizia della partenza del Re, tutte le città cominciando da Trani ch’era allora il capoluogo, per proprio impulso, e senz’attenderne neppure la permissione del Preside ch’era allora il Capo Politico della Provincia suddetta, posero in piedi una imponente Guardia civica, onde prevenire qualunque perturbazione dell’ordine pubblico. Anzi i Magistrati istessi del Tribunale di Trani che avevano più degli altri motivo di temere un sommovimento di tanti carcerati che ivi vi erano, furono i più attivi e zelanti nell’organizzarla.

Si fece lo stesso anche a Ruvo; ma in verità non ve ne sarebbe stato neppur bisogno. Serbò quella Popolazione in tale occasione tanta tranquillità e buon ordine che ben posso dire di non esservi stato neppure un solo che avesse mostrata cattiva intenzione. In mezzo a quella commozione generale ch’era inseparabile da un cangiamento di Governo, non ebbe a notarsi qualunque minimo inconveniente. Fu quindi quello per me veramente un tempo di ozio letterario. Stabilito il nuovo Governo, e sedata quell’agitazione che aveva prodotta l’ingresso dell’armata [a284] Francese nel Regno, mi ritirai in Napoli per continuare l’esercizio dell’Avvocheria.

Passando ora alle novità che nella nostra città ebbero luogo per effetto del nuovo ordine di cose quì introdotto, vi erano in Ruvo tre Conventi di Frati, cioè uno de’ PP. Domenicani, l’altro di Cappuccini, e l’altro de’ Minori osservanti sotto il titolo di S. Angelo di cui ho parlato innanzi nel Capo VI[269]. Il primo di essi dal nuovo Governo fu soppresso perchè era ricco. Il secondo lo fu del pari, poichè coi nuovi regolamenti introdotti era incompatibile che due conventi di Frati mendicanti fossero rimasti a carico dello stesso Comune. Si è ora ricreduto da queste vedute, ed i Cappuccini sono ritornati di nuovo in Ruvo.

Li PP. Domenicani avevano un bel convento, ed una magnifica Chiesa fuori dell’abitato al largo della Porta di Noja. Il convento rimasto per alcuni anni in amministrazione nelle mani vandaliche degli Agenti Demaniali ne rimase non poco maltrattato. Fu dappoi dal Governo Militare donato una colla Chiesa al Comune di Ruvo, e l’Amministrazione municipale cominciò a prenderne qualche cura. Ritraeva dai membri di esso una picciola rendita, poichè la massima parte dell’edificio serviva per quartiere ad una Brigata di Gendarmeria a cavallo stabilita in quella città. In quanto alla Chiesa, una delle Confraternite di detta città sotto il titolo di S. Maria della Purificazione ebbe il permesso di passare dalla Chiesa di S. Luca, ove prima era stabilita, a quella assai più grandiosa de’ soppressi Domenicani con essersi incaricata di mantenerla, come la mantenne con quella decenza ch’era conveniente.

Vi sono nella città di Ruvo varie pie Istituzioni, o siano Monti destinati dalla volontà de’ fondatori a dare i sussidj ai poveri. Coteste Istituzioni mentre onorano moltissimo lo spirito di carità de’ nostri antenati, davano anche larghi mezzi per potersi soccorrere la misera gente, specialmente nel tempo che le dirotte piogge, e le copiose nevi [a285] impediscono alla stessa di guadagnare il proprio vitto col lavoro della campagna. Dai nuovi regolamenti Francesi furono introdotte tanto in Napoli che nelle Provincie le Commissioni di Pubblica Beneficenza. Lo scopo di cotesta novella Istituzione, per quanto a me pare, è stato quello di riunire tutte le rendite provvenienti dalle pie disposizioni di questa natura in una sola massa, e disporre di esse in quel modo che si crede conveniente al bene ed al bisogno generale della Provincia, non già al sollievo de’ poveri di que’ luoghi soltanto ove tali pie fondazioni si trovano ordinate.

Io son uso a dir le cose come le sento. Non fu mai del mio gusto l’applaudire alle novità che hanno quì avuto luogo per la sola ragione che si son fatte ad esempio di ciò che si pratica al di là de’ monti. Lodo le cose buone, ma non posso appagarmi di quelle nelle quali vedo che alla sostanza delle cose si sono sostituiti de’ vocaboli speciosi che alla stessa non corrispondono. Come uomo di legge non sono e non sarò mai persuaso che i legati e le donazioni fatte ad una classe di designate persone, quali sono i poveri di un Comune, possano essere invertite a vantaggio di altre persone non comprese nella disposizione ed estranee alla volontà ed alle affezioni del disponente. Son anzi convinto di valere ciò lo stesso che distruggere la volontà di coloro, i quali sulla roba che loro apparteneva erano Legislatori, e quindi avevano pieno dritto di disporre di essa a favore di quelle persone o di quella classe di persone ch’erano loro più predilette.

Ma messe da banda coteste considerazioni di Diritto di non lieve peso, si venga al fatto il quale fa svanire tutta la magia de’ vocaboli. Dimando se cotesta Pubblica Beneficenza è valuta per la nostra città quello stesso che valevano li Monti suddetti stabiliti dai nostri antenati? Quante cose potrei dire! Ma queste discussioni, le quali potrebbero forse riuscire anche spiacevoli, non appartengono alla Storia. Non posso però tradire la mia piena convinzione che i poveri della mia patria ne hanno riportato da cotesto novello ordine di cose un positivo discapito. È ciò inevitabile quando alla legge imposta dai fondatori di coteste pie istituzioni vien sostituito l’arbitrio di coloro che ne prendono ingerenza. Li poveri di Ruvo certamente anderebbero assai male se nelle loro maggiori [a286] urgenze non fossero soccorsi dallo spinto di carità di que’ proprietarj spesse volte suggerito anche dalla prudenza, e dall’impero della necessità, poichè la fame può spingere gli uomini ai disordini. Quindi il calcolo vero, ed adeguato della cosa lo lascio alla saviezza ed alla considerazione del Governo.

Nell’anno 1808 diverse Provincie del Regno e principalmente quelle delle Puglie furono infestate dal terribile flagello de’ bruchi. In conseguenza anche il territorio di Ruvo soggiacque a danni gravissimi per essere stato da cotesti nemici sterminatori invaso nel mese di agosto dell’anno suddetto, e devastato fino all’anno 1813.

Durante tale invasione mi recai in Ruvo nella stagione di primavera. Fu per me uno spettacolo affatto nuovo e di non lieve sorpresa l’avere osservato il primo sviluppamento delle immense masse delle già dette locuste. Sbucciate queste dalle uova deposte ne’ terreni saldi specialmente delle murge, si univano e marciavano in colonne ben compatte di larghissima fronte, e della lunghezza di miglia. I luoghi per i quali passavano se erano erbosi rimanevano perfettamente denudati di qualunque specie di verdura che veniva da esse divorata. Se erano seminati, gli lasciavano atterrati e mietuti dai loro denti come se si fosse adoperata la falce.

Le anzidette colonne devastatrici marciavano andando sempre innanzi, senza conoscere ostacoli, e senza mai deviare. Se nel cammino incontravano un pariete di qualunque altezza, un pagliajo, o anche un edificio rurale, si rampicavano lo sormontavano fino al tetto, e si gittavano indi di là al lato opposto. Se incontravano uno stagno, s’immergevano in esso. Ne perivano moltissimi annegati. Ma servivano questi di ponte al passaggio degli altri alla sponda opposta. Se una colonna di soldati marciasse colla stessa intrepidezza ed ostinazione, qual resistenza se le potrebbe opporre? Essendo entrato col mio cavallo nel mezzo di una delle colonne suddette, ne rimase lo stesso spaventato dal movimento di essa, e dal rauco susurro dei moscherini che la formavano.

Marciando essi a tal modo nel loro nascere si nutrivano delle verdure che incontravano sul cammino, s’ingrossavano ed acquistavano la forza necessaria a levarsi in alto col far uso delle ali. Da piccioli moscherini [a287] divenuti grossi ed alati, le immense nubi che venivano a formare oscuravano il cielo. Si spandevano allora da per tutto per la campagna, ed invadevano gli orti i giardini le vigne e gli arbusti divorando le piantazioni di ogni specie, non esclusa la bambagia, e rodendo non solo le frondi, ma anche le cortecce degli alberi.

La città istessa non era tampoco esente dal loro schifoso contatto. Ne rimanevano ingombre le strade le piazze, ed i tetti delle abitazioni. Entravano anche nelle stanze se non si usava la diligenza di tener chiuse le invetriate. Ne rimanevano sporche pur le vivande che si cuocevano ne’ focolari da quelli che s’intromettevano per i camini.

Grande quindi per tutti i lati era la desolazione delle Popolazioni afflitte da cotesto terribile flagello che le riduceva alla miseria, e comprometteva finanche la loro sussistenza. Diversi furono gli espedienti escogitati per distruggere un nemico così formidabile. Vi furono anche diverse Istruzioni stampate del Ministro dell’Interno di quel tempo tanto relativamente alle operazioni da farsi per conseguire quest’oggetto, quanto per la esazione e ripartizione tra i proprietarj de’ fondi rustici della spesa non lieve che queste esigevano. Era però la cosa per se stessa assai malagevole.

Si pensò da principio di spedire molta gente provveduta delle grandi coverte di tela grossolana che in quella Provincia si chiamano racane per raccorre i bruchi mentr’erano ancora moscherini, e non avevano messe le ali, come innanzi si è detto. Se ne prese a tal modo una quantità ben considerevole. Ma poco ciò suffragava avuto riguardo alle masse immense di milioni di milioni de’ già detti moscherini che sarebbe convenuto distruggere. Mancavano le braccia sufficienti all’uopo. Mancava anche il tempo proporzionato a sorprendergli prima che si fossero resi alati, e quindi sparpagliati sulla intera campagna.

Fu assai più profittevole il mezzo di cercarsi le uova che deponevano sotterra ne’ luoghi saldi smuovendo il terreno colle picciole zappe, e distruggendole prima della fetazione. Con tal misura generalmente presa si fece molto e ’l numero di essi si andò man mano diminuendo. Ma non era possibile che una porzione delle ovaje non fosse sfuggita all’attenzione di coloro che le cercavano. Quindi cotesto flagello che tenga [a288] Dio sempre da noi lontano, sarebbe senza fallo continuato per anni ed anni se la mano potentissima della Provvidenza non fosse concorsa a liberarcene.

Nella està dell’anno 1813 dopo che le locuste suddette avevano messe già le ali, e prima che fosse giunto il tempo in cui deponevano le uova perforando il terreno, surse un vento impetuosissimo di libeccio che le sospinse sul mare Adriatico, ove rimasero sommerse. Si osservò che i pesci i quali si erano di esse cibati divenivano tanto fetidi che non si potevano mangiare.

Nell’anno 1809 cessai dalle funzioni di Avvocato della nostra città perchè venni obbligato ad assumere una carica di Magistratura da me non ambita e non dimandata, perchè era ben contento del rango a cui era giunto nell’Avvocheria e della fortuna che in tal carriera mi aveva assicurata. Non lasciai perciò di prestarmi a tutto ciò ch’era conducente al bene della mia Patria tutte le volte che ne venni richiesto. Ciò che fu da me operato perchè non fosse rimasto soppresso il Vescovado di Ruvo l’ho detto innanzi nel capo VII. Richiamò inoltre la mia attenzione un articolo dell’ultimo Concordato colla S. Sede che doveva mandarsi in esecuzione.

Si trovava in esso stabilito che in ciascuna Diocesi si doveva formare la dotazione per un Seminario. Riflettei che la Diocesi di Ruvo non si estende al di là delle mura della città. Ove quindi si fosse venuto a fondare in Ruvo quel Seminario che per tal ragione non vi è stato mai, avrebbe potuto avere tutto al più otto o dieci alunni. Riflettei inoltre che nella città di Bitonto si trovava già fondato un Seminario. Dipendendo quindi ambe le Diocesi dallo stesso Vescovo, il Seminario di Bitonto avrebbe potuto essere opportuno anche per i giovani Ruvestini avviati al Chericato.

Per altro lato ho sempre opinato che la soverchia moltiplicazione de’ Seminarj non è di veruna utilità, attesa la somma difficoltà di aversi buoni Maestri, specialmente di Belle Lettere, de’ quali vi è gran penuria. Se in vece di tanti Seminarj Diocesani venissero a stabilirsi in ciascuna Provincia due o tre Seminarj Provinciali, colla riunione delle rendite de’ diversi Seminarj Diocesani si potrebbero avere a tal modo [a289] per la educazione della Gioventù di tutte le Diocesi Seminarj fondati con maggior nerbo e provveduti di buoni Maestri, de’ quali non è facile averne quanti se ne vogliono.

Questi riflessi mi suggerirono la idea che nella esecuzione del precitato articolo del Concordato sarebbe stata cosa utilissima per la nostra città se in luogo del Seminario si fosse ottenuto lo stabilimento di una Casa de’ PP. delle Scuole Pie. Considerai che sarebbe stato ciò conducente alla istruzione non solo de’ Cherici, ma anche di tutta la Gioventù Ruvestina. Che la nostra città produceva talenti elevatissimi, i quali si perdevano per la mancanza delle scuole. Che quindi si sarebbe venuto a fare molto guadagno se si fossero ivi stabilite le scuole pubbliche regolate da Uomini rispettabili e versati nella istituzione ed educazione della Gioventù.

La mia idea piacque a tutte le persone sensate, e venne accolta anche con fervore dal Decurionato che la secondò energicamente. Fu quindi determinato che ove ciò si fosse ottenuto, il Convento e la Chiesa de’ soppressi Domenicani che la nostra città teneva in dono dal Governo, sarebbe rimasta ceduta ai PP. delle Scuole Pie che sarebbero venuti ivi a stabilirsi. Dopo ciò ne fu dalla nostra città rassegnata al Re l’analoga dimanda ragionata. Il Sindaco in nome del Decurionato mi scrisse con calore che l’avessi portata innanzi come venne da me eseguito, non senza però avere incontrato un forte ostacolo per le circostanze che passo ad esporre.

Erano incaricati della esecuzione del Concordato suddetto per parte del Re S. E. il fu Sig. Marchese D. Donato Tommasi Ministro allora di Grazia e Giustizia, e degli Affari Ecclesiastici, e per parte della Corte di Roma Monsignor D. Alessandro Giustiniani Nunzio allora Apostolico, ed indi Cardinale. Rimessa ad entrambi la supplica rassegnata al Re dalla nostra città, il primo pensando da Filosofo gustò molto bene il progetto con essa proposto. Il secondo però si atteneva strettamente alla lettera del Concordato, e voleva in ogni conto in Ruvo un Seminario. Nè fu possibile rimuoverlo da questa idea a cui rimase fermamente attaccato.

Il Sig. Marchese Tommasi aveva molta bontà per me. Era inoltre [a290] persuaso che io cercava unicamente il bene della mia Patria, e che niun altro poteva essere al caso di calcolare più, e meglio di me ciò che sarebbe stato per la stessa di maggiore utilità. Mi riuscì trarlo nell’impegno positivo di far valere il suo avviso, benchè contraddetto da Monsignor Nunzio. Quindi per opra sua rimase il Re pienamente convinto che la nostra dimanda era meritevole di favore, e si degnò scrivere di proprio pugno una lettera al S. Padre, colla quale lo pregò a prestare il suo consenso che in luogo del Seminario si fosse in Ruvo stabilita una Casa de’ PP. delle Scuole Pie.

Avendo Sua Santità benignamente aderito a tal richiesta ch’era partita da una mano così alta, fu Monsignor Nunzio obbligato ad acchetarsi. Quindi lo stabilimento di una Casa de’ PP. delle Scuole Pie nella città di Ruvo venne ordinato con Real Rescritto del dì 12 Ottobre 1819, ed indi confermato con Real Decreto del dì 20 aprile 1820 relativo allo stabilimento di alcuni Conventi, e Case Religiose ne’ Reali Dominj al di qua del Faro.

Parve però che Monsignor Nunzio fosse rimasto in certo modo piccato di essersi ciò ottenuto senza il di lui concorso. Diè un argomento del suo mal’umore allora che si venne a fissare la dotazione della Casa suddetta da stabilirsi a Ruvo. Ei che non aveva mostrata mai stitichezza nella dotazione de’ Conventi che si andavano a rimettere per la esecuzione del detto Concordato, al Convento delle Scuole Pie di Ruvo non voleva dar altro che l’annua rendita di circa ducati novecento che si ritraeva da diversi fondi demaniali rimasti ivi disponibili. Valeva però ciò lo stesso che rendere inutile la grazia ottenuta, perchè con annui ducati novecento non avrebbe potuto certamente sussistere una comunità di tal fatta.

Il Marchese Tommasi che voleva evitare di portar più oltre anche questo articolo subalterno, m’insinuò che avessi praticati degli uffizj presso Monsignor Nunzio, e per valermi delle sue precise espressioni, che gli avessi dato anche del fumo. Non tardai ad eseguirlo, e valga il vero ricevei da lui un’accoglienza la più cortese gentile ed obbligante. Lo pregai caldamente per una competente dotazione, e gli dissi che dalle sue mani attendeva la nostra città il compimento di un’opra [a291] così santa. Ei rimase molto soddisfatto di questa parte. Dopo pochi giorni venne tutto ultimato. Con Real Rescritto del dì 3 Giugno 1820 la Casa de’ PP. delle Scuole Pie di Ruvo ricevè una dotazione non solo conveniente, ma anche comoda, poichè i beni fondi alla stessa assegnati essendo stati migliorati, e venendo amministrati con quell’avvedutezza, ed accorgimento che mancava agli Agenti demaniali, hanno dato anche un notabile aumento di rendita.

Non debbo quì defraudare di quella laude che gli è dovuta il Sig. Primicerio D. Domenico Chieco di cui ho fatta innanzi anche onorevole menzione. Era egli in quel tempo Vicario di Monsignor Manieri Vescovo di Ruvo e di Bitonto. Ei spiegò tutto il zelo, ed energia nel secondare con tutti i mezzi ch’erano nel suo potere cotesta operazione utilissima alla comune Patria. Venne la stessa appoggiata solidamente dai rapporti fatti al Ministero da Monsignor Vescovo. Questo zelo lo serbò fino all’ultimo, poichè dopo ottenuto l’intento si occupò ben anche a far restaurare, e preparare il già detto Convento de’ soppressi Domenicani ove i PP. delle Scuole Pie vennero a stabilirsi.

Ecco come si trovano essi stabiliti in Ruvo. Non può lodarsi abbastanza il zelo col quale si occupano ad istruire la Gioventù Ruvestina nelle Lettere, ed allevarla nelle Pratiche religiose. Ho però da essi inteso con positivo rancore, ed indignazione che vi sono (salva la pace de’ buoni) taluni genitori, li quali non s’incaricano punto d’informarsi neppure da essi della condotta, e del profitto de’ loro figliuoli!!! Miserabili! A tal modo valutano il segnalato beneficio che hanno ricevuto? I genitori però che non curano la buona riuscita de’ loro figliuoli sono maledetti da Dio, e disprezzati dagli uomini.

Verso la stessa epoca ebbi anche la occasione di occuparmi di un altro articolo interessantissimo per la nostra città. Tra gli esiti messi a carico di quel Comune nello stato discusso, o sia budjet, vi è quello di annui ducati mille circa per la formazione delle strade Provinciali. Più di ogni altro luogo aveva la nostra città bisogno di esse. Li due tratti di strada specialmente da Corato a Ruvo, e da Ruvo a Terlizzi frequentati per necessità più di tutti gli altri, si erano resi tanto orribili che superavano la immaginazione. Non erano più trafficabili senza [a292] grandissimo disagio, ed anche senza pericolo nè colla vettura, nè a cavallo, nè a piedi.

Intanto mentre li tre Comuni di Ruvo di Corato e di Terlizzi avevano versate somme rilevantissime per molti anni nella Cassa delle strade Provinciali, neppure un ducato si era speso ancora pe ’l loro comodo! Vi era il progetto per la formazione di una nuova strada interna, la quale cominciando da Canosa, e passando per Andria Corato Ruvo Terlizzi e Bitonto andar doveva a Cisternino. Ma le carte relative allo stesso si erano messe in oblio e servivano di pascolo alle tignuole.

Li Signori che componevano la Commissione delle opere pubbliche di quella Provincia erano Baresi. Consisteva il loro zelo nell’adoperarsi che tutte le nuove strade che si facevano a spese della Provincia fossero cominciate dalla città di Bari, onde le loro Dame da qualunque lato avessero voluto uscire a diporto in carrozza non fossero state incomodate dalle scosse. Tutte le altre città della Provincia non le consideravano altrimenti che come contribuenti per servire al loro comodo, ed alla loro delizia!

Fremevano di ciò principalmente i Ruvestini che messi in mezzo a due tratti di strada precipitosissimi, ne risentivano un maggiore discapito. Essendomi recato a Ruvo m’informò il Sindaco dell’intrigo che vi era a Bari, e mi diè le più calde premure perchè mi fossi ivi recato di persona per tenerne al Sig. Intendente della Provincia un discorso positivo, ed efficace. Occupava allora quella carica il fu Sig. Conte di Montaperto D. Gennaro Tocco de’ Principi di Montemiletto, uomo di elevati e perspicacissimi talenti di belle cognizioni, e di rettissime intenzioni. Era egli molto mio amico. Avendolo pienamente informato di tutte le premesse circostanze, ne rimase fortemente penetrato.

Quindi accogliendo la nostra dimanda ordinò definitivamente che senza ulteriore ritardo si fosse messa mano alla strada suddetta da Canosa a Cisternino, e nell’indicare i punti li più urgenti dai quali dovevano cominciarsi i lavori, vi comprese principalmente il tratto di strada tra Corato Ruvo e Terlizzi. Dietro l’efficaci disposizioni da lui date feci assistere presso la Direzione de’ Ponti e Strade perchè si fosse messa [a293] mano all’opra come si fece. Cotesta nuova e bellissima strada che ha rimpiazzata la via Trajana ora è compiuta. Il vantaggio che ne ha da ciò riportato la nostra città è immenso. Oltre il comodo accesso che ora vi è alla stessa, è venuta anche a rimanere accresciuta la sua ricchezza. Cotesta strada facilita il commercio interno, lo smaltimento de’ prodotti del suo vasto territorio, e ’l trasporto di essi alla marina per imbarcarsi, il quale era per lo innanzi molto malagevole. Il passaggio inoltre di una bella strada consolare trafficata di continuo porta sempre un notabile guadagno ai luoghi che traversa. Si vedono ora in fine moltiplicate in Ruvo anche le carrozze per le quali mancava prima una strada praticabile, ed è questo anche un progresso nella civiltà.

Non è quì a passarsi sotto silenzio un punto della detta nuova strada veramente incantevole. In quel tratto di essa che mena da Corato a Ruvo, la prima contrada che s’incontra dell’agro Ruvestino porta il nome di Bel luogo, la quale era una delle cinque contrade che formavano l’antico Demanio della città. Respondent rebus nomina sæpe suis. È quello in vero il punto più bello e più gajo dell’agro Ruvestino, il quale prima della formazione della novella strada era poco conosciuto dagli stessi abitanti della nostra città. È questo elevatissimo, ed ha sottoposta una ben larga e spaziosa vallata coverta di piantazioni e di praterie, la quale termina alla marina, e diletta sommamente lo sguardo. Domina inoltre tutte le belle città messe sul litorale dell’Adriatico da Barletta a Bari. Un sito così delizioso che il decreto di Revertera e di Guerrera dell’anno 1549 aveva condannato al pascolo delle bestie, si vede ora coverto di belle e ridenti piantazioni e casine di campagna che ne hanno accresciuto infinitamente il valore non meno che la vaghezza.

Anni indietro il nostro ottimo Sovrano Ferdinando II viaggiando per le Puglie, e percorrendo la già detta novella strada di Canosa, si compiacque di passare anche per la nostra città. Giunto al punto di Bel luogo rimase talmente colpito dal magnifico colpo d’occhio che questo gli presentava che fece fermare la sua carrozza per meglio comtemplarlo. Chiamato indi a se il capo della Guardia urbana Ruvestina a cavallo che aveva l’onore di scortare S. M. dai confini del nostro territorio, [a294] volle essere informato del nome di quel sito incantevole, e de’ nomi di ciascuna delle sottoposte città della Marina ch’erano a vista. Giunto indi a Ruvo ebbe la bontà di smontare dalla carrozza e traversare la città a piedi seguito da tutta la popolazione giuliva, ed esultante che l’era uscita incontro con aver lasciato in quel dì qualunque lavoro, del che ne mostrò il Re espressamente una piena soddisfazione.

Nel movimento costituzionale dell’anno 1820, malgrado la effervescenza che vi era in altre convicine città, fu serbata in Ruvo la massima tranquillità, e ’l più saggio contegno. Nè vi fu ivi alcuna novità fino a che il Re colla sua proclamazione del dì 6 Luglio comunicata alle Provincie per telegrafo venne a spiegare la sua intenzione. Furono in quell’epoca richiamati alle bandiere tutti i soldati congedati. Non vi fu un solo soldato Ruvestino che non avesse prontamente ubbidito, o che vi fosse stato bisogno di condurlo colla forza.

Molti di essi dopo il congedo ottenuto si erano ammogliati, ed aveano procreati de’ figliuoli. Questa circostanza rendeva più pregevole e valutabile la loro prontezza nell’ubbidire, perchè venivano le loro famiglie a rimanere senza il capo che le alimentava. Questa considerazione avendo commosso l’animo de’ Proprietarj Ruvestini, fu aperta tra essi una volontaria soscrizione. Con questo mezzo venne a formarsi un fondo di sussidj a favore delle famiglie de’ soldati congedati, ed ammogliati che partivano per l’esercito, durante il tempo che sarebbero rimasti sotto le bandiere. A questa bell’opra che onora molto la umanità, ed i sentimenti de’ numerosi soscrittori che vi concorsero, e merita un luogo nella Storia, prese anche parte il Capitolo di Ruvo.

Un altra interessante operazione ebbe luogo dopo l’anno 1820. Ne’ terreni appatronati seminatorj siti nel Demanio di Ruvo vi era l’antica consuetudine che dopo falciate le messi, potevano entrarvi a pascere indistintamente gli animali de’ cittadini. Era stato cotesto dritto confermato anche dal precitato decreto di Revertera, e di Guerrera dell’anno 1549, poichè nell’essersi ordinata l’apertura de’ parchi, e delle mezzane, come si è detto alla pagina 199, fu soggiunto Atque in eis libere pasculari possint tam pecudes Regiæ Dohanæ, quam dictæ civitatis.

[a295]

Poco importante era in quel tempo cotesto dritto civico perchè gli abusi introdotti dai Locati Abruzzesi, e dai Baglivi Baronali avevano nel territorio di Ruvo annientata la pastorizia. Corretti però gli abusi Baronali colla transazione dell’anno 1805, e quelli de’ Locati Abruzzesi colla Legge del Tavoliere dell’anno 1806, e restituito il Demanio al libero uso de’ Cittadini, il dritto suddetto cominciò a valere moltissimo. Il passaggio istantaneo però dalla servitù alla libertà è ordinariamente accompagnato da disordini e da inconvenienti.

Cotesta libertà di pascolo in un vasto Demanio che si era racquistata fece sorgere una folla di specolatori, de’ quali la ingordigia ed insolenza non cedeva punto a quella de’ Locati Abruzzesi, e de’ Baglivi Baronali. Tutta quella parte del Demanio ch’è più vicina all’abitato, ove vi sono le masserie di semina, si vide ingombrata da picciole, ma numerose partite di pecore di capre e di porci specialmente de’ beccaj. Cotesta gente indiscreta ed insolentissima non rispettava nè le riserbe di erba per i bovi aratorj, tutto che convenute espressamente colla transazione dell’anno 1805, nè i seminati istessi. Era quindi inevitabile venirsi con essa alle prese ogni giorno. Le risse che ne seguivano erano continue, ed avrebbero potuto giugnere a qualche cosa di peggio.

Era questa in vero una bella specolazione di vivere bene a spese altrui! Li proprietarj delle masserie erano esposti alla eventualità delle buone, e delle cattive ricolte, e pagavano il peso fondiario allo Stato. E poichè quasi tutti i terreni di esse sono de’ Luoghi Pii censiti per effetto delle Leggi del Tavoliere dell’anno 1806 e 1817, avevano anche pagate quattro annate di entratura alla Cassa del Tavoliere, e stavano corrispondendo ai diretti padroni de’ terreni suddetti i canoni convenuti coll’aumento del decimo stabilito a favore de’ Pii Luoghi colla Legge dell’anno 1817. Intanto non erano padroni del frutto naturale dell’erba de’ loro fondi, la quale veniva divorata gratuitamente e senza pagamento alcuno dagli animali di cotesti specolatori ai quali nulla la stessa costava!

Per ovviarsi a cotesto ben cimentoso inconveniente si rese indispensabile far uso della Legge del dì 3 Dicembre 1808, la quale permette [a296] la chiusura de’ terreni appatronati demaniali ed aperti soggetti alla precitata consuetudine del pascolo civico. È risaputo che coll’articolo XLVII di essa è tal chiusura permessa senza pagamento alcuno se la consuetudine suddetta provviene da un dritto di compascuo. Coll’articolo XLVIII poi è prescritto che ove la stessa provvenga da una riserva fattasi dal Comune sui terreni demaniali aperti occupati dalla coltura, n’è permessa anche la chiusura col pagarsi però alla Cassa comunale un censo a titolo di affrancazione.

Una quistione elevata da taluni proprietarj di masserie tenne per più anni arrestata cotesta utilissima, ed indispensabile operazione. L’Amministrazione comunale non si opponeva alla chiusura. Non voleva però altrimenti permetterla che per la via dell’affrancazione ai termini del precitato articolo XLVIII. I proprietarj suddetti al contrario qualificando la già detta consuetudine per un dritto di compascuo volevano la chiusura de’ loro terreni senza pagamento alcuno ai termini dell’articolo XLVII.

Fu tal quistione portata innanzi al Tribunal Civile di Trani. Tutto che mi fossi io trovato il maggior possidente di terreni seminatorj di questa natura, non volli prendere alcuna parte in quel giudizio. Avendo sempre sostenuto il patrocinio della nostra città, non sentiva il mio animo disposto a contenderle il precitato dritto di affrancazione. D’altronde non era persuaso tampoco di quel compascuo che con soverchia chiarezza vedevano li Sig. Avvocati Tranesi che difendevano i Proprietarj di masserie dissidenti.

Ed in vero ai termini dell’articolo 570 delle LL. CC. il dritto di compascuo altro non è che una servitù reciproca di pascolo stabilita tra i proprietarj di due, o più fondi. Non si trattava però nella specie di una servitù di tal fatta stabilita tra un fondo e l’altro; ma bensì di una servitù attiva di pascolo che competeva generalmente su tutti i fondi seminatorj del demanio dopo tagliate le messi a qualunque cittadino di Ruvo, benchè non proprietario di fondi nel Demanio suddetto. Come dunque qualificarsi per compascuo un dritto di tal fatta?

Questo concetto giusto ed adeguato da me formato della cosa mi rendeva rincrescevole la remora che col precitato giudizio veniva ad [a297] apporsi ad una operazione che le premesse circostanze imperiosamente esigevano. Il Sindaco di allora D. Vincenzo Spada che ben conosceva ciò che io ne pensava, mi diè un veemente assalto, e mi fece determinare a troncare cotesto nodo Gordiano col presentare al Sig. Intendente della Provincia nella qualità di Commissario del Re per la divisione e chiusura de’ demanj la dimanda per l’affrancazione de’ terreni di mia proprietà siti nel Demanio ai termini del precitato articolo XLVIII della Legge de’ 3 Dicembre 1808.

La dimanda da me data fu intesa col massimo trasporto dal Decurionato, ed accolta con gradimento dall’Intendente. Quindi con sua ordinanza del dì 24 Marzo 1823 permise la dimandata chiusura, e diè le analoghe disposizioni relativamente al censo da stabilirsi per l’affrancazione, di cui ne fu stipulato pubblico strumento dal Notajo D. Pier Giuseppe Cantatore di Ruvo.

L’esempio da me dato scoraggiò i Proprietarj dissidenti che sostenevano il compascuo, e fece finir la lite. Tutti coloro che stavano sospesi ed attendevano l’esito di essa, corsero allora a folla a dimandare l’affrancazione. Gli stessi dissidenti si videro obbligati a conformarsi agli altri per non rimanere soli coi terreni aperti, ed esposti a danni maggiori. Ora son tutti contenti di questo segnalato beneficio accordato dalle novelle leggi. Mentre le piantazioni si sono accresciute in un modo prodigioso, e ’l territorio di Ruvo si è migliorato, e si va migliorando sempre più alla giornata, la Cassa comunale ha ricevuto anche un rinforzo non lieve dai censi dell’affrancazione del Demanio.

Non manco intanto di quì avvertire di esser giunto a mia sicura notizia che mentre tutti i possessori di terreni un tempo demaniali e soggetti al pascolo civico hanno profittato del decreto del dì 3 dicembre 1808, e gli hanno chiusi col fatto, non tutti però hanno stipulate le affrancazioni dallo stesso prescritte. Che quindi ve ne ha parecchi i quali stanno fraudando la Cassa comunale de’ censi corrispondenti.

Non è ciò sicuramente nè regolare nè giusto. Non deve partecipare del beneficio della legge chi non si conforma alla stessa, e la condizione di coloro che trasgrediscono i suoi precetti non dev’essere migliore di quella di coloro che la rispettano. La chiusura de’ demanj ha [a298] raddoppiato, e triplicato il valore de’ fondi. Non è tollerabile quindi che la Cassa comunale sia fraudata di quel censo che l’è dovuto per un tanto beneficio. Sia ciò avvenuto per connivenza o per oscitanza dell’Amministrazione comunale, farebbe sempre torto alla stessa il non curarlo di vantaggio.

Le contrade demaniali dell’agro Ruvestino soggette un tempo al pascolo civico sono ben conosciute e circoscritte tanto nell’antico catasto che nell’attuale. Si aggiunga a ciò che quasi tutti i fondi suddetti sono di diretto dominio de’ Pii Luoghi censiti a coloro che gli tenevano in affitto per effetto della legge de’ 21 maggio 1806 come terreni demaniali azionali del Tavoliere. Gli stessi titoli quindi stipulati colla Giunta del Tavoliere pruovano la qualità de’ terreni suddetti soggetta un tempo al pascolo civico, ed in conseguenza anche al censo dell’affrancazione dovuto per la chiusura di essi. Ond’è che non mancano gli elementi sicuri per astringere i proprietarj suddetti che hanno contravvenuto alla legge a pagarlo tanto per lo tratto successivo che per lo passato.

Nell’anno 1822 ebbe luogo un’altra operazione utilissima a quella popolazione, la quale se non fosse stata attraversata dalla malizia umana, avrebbe potuto dare brillantissimi risultamenti. Ho detto innanzi che l’antica incontrastabile opulenza della nostra città era derivata dall’agricoltura e dalla pastorizia, a cui l’agro Ruvestino si presta a meraviglia. Ho osservato anche che la pastorizia specialmente era rimasta distrutta parte dalla ingordigia e dalle soverchierie de’ Locati Abruzzesi, e molto più dagli abusi interminabili introdotti dalla Bagliva Baronale ch’era di un positivo ostacolo al progresso delle industrie armentizie.

Colla transazione dell’anno 1805 stipulata col Duca d’Andria fu assicurato alla popolazione di Ruvo quel pascolo che poteva farle di nuovo fiorire, cioè il pascolo delle murge. Nell’inverno serve lo stesso al comodo de’ cittadini ne’ luoghi fuori delle parate. Nella estiva stagione la intera contrada delle murge è addetta ai loro animali, ed era ciò che principalmente interessava, essendo quello un pascolo estivo preziosissimo, senza il quale non potrebbero essi sussistere. Ma si è [a299] fatto con ciò tutto quello che dovrebbe, e potrebbe farsi? Nò certamente. Non sarà compiuta l’opra, se non si mette anche quell’erbaggio interessantissimo nello stato di rendersi profittevole ugualmente a tutti i cittadini.

La contrada suddetta è la più vasta dell’agro Ruvestino, ed anche la più lontana dall’abitato. Non ha disgraziatamente nè fiumi nè sorgive per dissetare gli animali che si tengono, o si portano ivi a pascolare. L’acqua per essi indispensabile non può esser altra che l’acqua piovana raccolta e conservata nelle grandi peschiere. Quelle però che ivi vi sono appartengono ai proprietarj delle poche masserie di semina stabilite nella contrada suddetta. Ho inteso sempre lagnanze che cotesti Signori non vendevano una sola secchia di acqua, comunque esuberante ai loro bisogni, qualunque fosse stato il prezzo loro offerto. Perchè tanta ripugnanza? È facile intenderlo.

Era questo il mezzo indiretto di allontanare tutti gli altri cittadini dalla parte più rimota delle murge ove l’erba è migliore e più copiosa. Non potendo gli altri parteciparne per la mancanza dell’acqua che avesse potuto ristorare i loro animali, rimaneva questa al pieno comodo, e sazietà delle numerose greggi che vi tenevano, e tuttavia essi vi tengono per tutto l’anno.

Al contrario gli animali degli altri cittadini che non avevano il comodo dell’acqua non potevano fare che delle brevi e molto stentate scorrerie in quella parte soltanto delle murge ch’è più vicina all’abitato, ove andava a raggrupparsi un numero immenso di bestiame, il quale non poteva passare innanzi per non andare a perire di sete. Qual pascolo quindi poteva trovarsi in un suolo mietuto ogni dì da tante migliaja di denti? A buona ragione può dirsi che il dritto civico ch’essi pagavano e stanno tuttavia pagando alla Cassa comunale lo pagavano e lo pagano più per l’aria fresca che sono nella necessità di andare ivi a respirare nella estiva stagione che per l’erba che vi trovano.

Dalle premesse osservazioni è facile comprendere che il dritto de’ cittadini di Ruvo sul demanio delle murge in astratto è uguale per tutti, ma nel fatto vi è tanta disparità di godimento che distrugge ogni idea di uguaglianza. Fu ciò da me ben capito fin dal principio. [a300] Quindi dopo stipulato il precitato strumento di transazione dell’anno 1805 proposi la formazione delle cisterne comunali in que’ luoghi delle murge che si sarebbero creduti opportuni capaci di contenere acqua sufficiente per tutti gli animali che vanno ivi a pascolare nella estiva stagione. Osservai che la spesa che sarebbe occorsa per la costruzione di esse non sarebbe stata priva di un vistoso fruttato, poichè nella Provincia di Bari, la quale è povera di acqua e soggetta alla siccità la fida dell’acqua estiva si fa ad una ragione vantaggiosa.

Questo progetto fu ben gustato e valutato dall’Amministrazione comunale di allora che pensava sanamente. Si sarebbe messa mano alla costruzione delle peschiere suddette se la rinnovazione delle strade interne della città che interessava la salute degli abitanti non avesse esatta una giusta preferenza, e pronti provvedimenti. Nondimeno non fu il progetto obliato. Possiede il Capitolo di Ruvo nella rimota parte delle murge un laghetto formato dalla natura, e corredato anche di opere di fabbriche che porta il nome di lago di annaja. Si pensò acquistarlo per conto del Comune, e la cosa fu molto bene ideata.

Il fu Signor Devenuto Cancelliere Comunale in quel tempo, che meglio di ogni altro capiva quanto era importante il provveder di acqua l’erbaggio delle murge, mi diè in nome del Decurionato le più calde premure perchè mi fossi interposto per ottenere dal Capitolo la cessione del lago suddetto. Si diresse a me perchè essendo stato per lunghi anni Avvocato anche di quel Capitolo, ha lo stesso serbato per me sempre un particolar riguardo, di cui debbo altamente lodarmi.

Ne feci quindi la richiesta, e valga il vero non dovei stentar molto ad ottenere tal favore, perchè il Clero di Ruvo si è prestato sempre a concorrere al bene della comune patria. Quindi nell’anno 1822 rimase l’affare definitivamente combinato e conchiuso, e la detta pregevolissima proprietà fu conceduta alla nostra città in enfiteusi perpetua per lo discretissimo canone di annui ducati cinquanta. Abbondando inoltre il Capitolo di compiacenza e condiscendenza alle mie premure si contentò anche che fino a che il contratto non fosse rimasto convalidato dalla Sovrana approvazione, avesse l’Amministrazione comunale ritenuto il lago suddetto a titolo di affitto.

[a301]

Entrata quindi questa nel possesso del lago cominciò a fare la fida dell’acqua agli animali de’ cittadini che andavano a pascolare nel Demanio delle murge. Col prodotto di essa pagava gli annui ducati cinquanta al Capitolo, e vi faceva non lieve guadagno. Nell’anno 1827, essendosi sul contratto suddetto ottenuta la Sovrana approvazione, ne fu stipulato pubblico strumento. Fu questa la prima pietra messa di un’opra tanto utile, e tanto desiderata dalla intera popolazione. Se vi fosse stata la buona volontà di proseguirla, non sarebbero certamente mancati i mezzi di costruirsi nelle murge quelle cisterne, le quali mentre avrebbero soddisfatti i voti di tutti i cittadini, avrebbero anche notabilmente accresciute le rendite della Cassa comunale.

Ma quest’opera pubblica non solo utilissima, ma anche indispensabile al bisogno, ed al bene della intera popolazione, si è veduta finora postergata, ed attraversata a forza di cabale, ed intrighi suggeriti dal privato interesse che corrompe tutto. Sono stati questi anzi così potenti, e tanto audaci che sono riusciti ad annientare anche il lago di annaja! Quel lago che l’avvedutezza, e la diligenza del Capitolo ha saputo conservare per secoli interi, rimasto per poco più di un lustro dopo l’anno 1827 nelle mani della moderna Amministrazione comunale, non esiste più e si è fatto rimaner distrutto, ed interrato con una balordaggine veramente inconcepibile! Tre proprietarj di masserie nella contrada suddetta indispettiti che coll’acquisto fatto dal Comune del lago di annaja era venuto a rompersi quel monopolio che facevano dell’erba, ebbero nell’anno 1834 l’ardimento di dissodare coll’aratro gli antichissimi canali saldi che conducevano allo stesso le acque piovane, onde farlo interrare, come ne rimase per necessità interrato.

Intanto la moderna Amministrazione comunale largamente aberrando, o volendo piuttosto aberrare, in vece di prendere le vie giudiziali proprie, ed opportune tanto civili che penali suggerite dalla legge per la pronta, e spedita correzione di sì grave attentato, si divagò in un tardivo procedimento amministrativo tortuoso, di equivoca ed incerta riuscita, e non conveniente alla qualità del fatto, ed alla vera veduta legale dell’affare. Dal che n’è seguito che il lago suddetto è tuttavia interrato, e la Cassa comunale sta pagando annui ducati cinquanta al Capitolo, [a302] senza nulla più ritrarre dalla fida dell’acqua! La piena sposizione delle circostanze di un avvenimento quanto pregiudizievole alla popolazione, altrettanto scandaloso sotto tutti i rapporti, e del vero concetto legale di esso non potendo aver luogo in un cenno istorico, lo riserbo ad altro lavoro.

Dopo il guasto avvenuto del lago suddetto si è cercato, per quanto mi è stato ultimamente riferito, supplire il vuoto che lo stesso produce con alcuni piccioli vasi d’acqua formati nella contrada delle murge. Ma troppo ci vuole perchè questa operazione corrisponda compiutamente al comodo della popolazione di Ruvo, al bisogno di un vasto e spazioso erbaggio, qual è quello delle murge, agl’interessi della Cassa comunale, ed ai doveri di un’Amministrazione municipale saggia avveduta e superiore a tutte le macchinazioni del privato interesse!

Nell’anno 1836 la nostra città si mantenne libera dal terribile flagello del Cholera, che aveva infettata la intera Provincia, fino al dì della Festa di S. Rocco che lì si celebra con gran sontuosità, e gran concorso di gente dalle convicine città la prima Domenica di settembre. Il dì che susseguì alla Festa suddetta fu apportatore de’ primi casi del Cholera in quella città. Valga ciò a convincere chiunque che con molta saviezza gli Scrittori della materia, e specialmente il Muratori hanno osservato che nelle circostanze di mali contagiosi (quale io reputo il Cholera che che altri ne credano) sono perniciosissime le grandi unioni di popolo. Tanto peggio se vi si unisce anche la intemperanza che accompagna sempre le feste popolari.

È però notabile che la mortalità fu ivi tanto lieve che i Ruvestini non concepirono affatto di quel morbo spaventevole nè quella idea, nè quel terrore che lasciò in altri luoghi la grandissima strage che ne fu la conseguenza.

Rinnovatosi lo stesso flagello prima in Napoli, ed indi man mano per tutto il Regno nella primavera dell’anno 1837 con una ferocia anche maggiore, io che mi trovava allora in Ruvo credei cosa saggia e prudente il rimanere ivi tutta la està, e l’autunno fino a che il morbo suddetto venne a cessare. Osservai in quella occasione che la nostra città fu l’ultima della Provincia ad esserne tocca. Le persone attaccate [a303] dal morbo furono circa settanta, delle quali ne perirono dieci, o dodici soltanto. Gli altri si curarono colla massima facilità, malgrado la oscurità che tuttavia vi è circa il metodo curativo del morbo suddetto.

Osservai inoltre ch’entrato il Cholera in una casa non si propagava ordinariamente dalla persona infetta alle altre della famiglia, mentre in altri luoghi n’erano rimaste sterminate famiglie intere. Se sia ciò derivato dalla bontà dell’aere, dalle fisiche disposizioni degli abitanti, o da altre ignote cagioni, chi potrebbe e saprebbe indovinarlo? Il Nestore della Chirurgia e mio rispettabile amico Cav. D. Lionardo Santoro dice con ragione di esser questo un morbo incomprensibile ed indefinibile.

Tenga Dio sempre da noi lontano cotesto terribile flagello. Ma in ogni caso esorto i miei concittadini a non disprezzarlo, ad essere più cauti nel preservarsene, e ringraziare la Provvidenza del pochissimo danno sofferto dalla nostra città nella catastrofe luttuosa dell’anno 1836 e 1837.

[a304]

CAPO XV. Osservazioni sulla città di Ruvo, sulla sua Popolazione, sulla pregevole qualità e varietà del suo territorio, e sui disordini introdotti nella moderna Amministrazione comunale.

Della ridente, e vantaggiosa situazione della nostra città si è detto abbastanza nel Capo VI. Aggiungo quì solo che le abitazioni de’ cittadini, le quali si mostravano prima troppo antiche e tetre piuttosto allo sguardo, si vanno ora man mano riducendo al gusto moderno con maggior politezza ed eleganza. Quindi la città suddetta va ora prendendo un aspetto più ilare, e ben diverso da quello che aveva cinquant’anni indietro. Si aggiunga a ciò che l’aumento della Popolazione che va lì ogni dì crescendo ha reso indispensabile l’uscirsi fuori dell’antico recinto della città. Si sono quindi costrutte non poche nuove case e palagi ne’ lati orientale meridionale ed occidentale di essa, e se ne stanno tuttodì costruendo. Quali novelli edificj essendo di miglior gusto, vengono a renderla anche più bella.

Va ora la nostra città ad acquistare anche un nuovo lustro da uno stabilimento, il quale comunque di privata proprietà, è principalmente dedicato al decoro ed ornamento della stessa. Non debbo quì defraudare di quella laude che l’è dovuta la mia Signora Cognata D. Giulia Viesti vedova del fu mio fratello Giulio, e Madre e tutrice del mio nipote Giovannino di lui figliuolo ed erede.

La fama de’ pregevolissimi oggetti di antichità in Ruvo rinvenuti attira ivi di continuo una folla di distinti personaggi tanto Regnicoli che Esteri. Mi ha ciò determinato a riunire in una sola collezione i vasi fittili ereditarj del fu mio fratello Giulio, quelli acquistati da me rimasti tuttavia in Ruvo, e moltissimi altri che negli anni passati mi ho ritirati in Napoli per mio diletto e per le mie letterarie applicazioni.

Questa mia idea è stata energicamente secondata dalla detta Signora Viesti, la quale alle altre sue stimabili qualità unisce anche un animo [a305] virile ed un trasporto positivo per gli oggetti di antichità superiore alle inclinazioni del suo sesso: di modo che la di lei attiva ed efficace cooperazione ha influito e valuta moltissimo nel facilitare gli acquisti fatti da entrambi delle moltiplici antiche stoviglie che la nostra famiglia si trova fortunatamente a possedere.

Ella dunque avendo impreso ad edificare pel detto suo figliuolo Giovannino un novello palagio nel sito più bello della nostra città, cioè al largo fuori la Porta di Noja, il primo suo pensiero è stato quello di costruire di pianta appositamente quattro sale capaci di contenere la detta nostra numerosa collezione.

Sarà questo quindi un Museo prettamente Ruvestino, perchè fornito di vasi Italo-Greci trovati tutti in Ruvo. Servirà lo stesso a contestare il gusto squisitissimo ch’ebbe un tempo la nostra città per le scienze e per le belle arti che ivi fiorirono in grado eminente, e la farà distinguere dai dotti Amatori di cotesti pregevoli oggetti che ivi attira una nobile curiosità.

Circa il numero di quella Popolazione il Sig. Consigliere D. Giuseppe Castaldi mio amico, ed un tempo anche mio ottimo collega, nel suo erudito libercolo sulla Magna Grecia alla pag. 52 la riporta a seimila anime circa. È chiaro che nel ciò dire ha seguite le statistiche antiche che fino ai primi anni di questo secolo a tal modo l’hanno riportata. Ma nell’anno 1842 in cui egli ha scritto contava già la nostra città circa dodicimila abitanti, e ’l numero di essi va sempre più innanzi. Ha ora perciò il Regio Giudice di seconda classe.

Cotesto aumento di Popolazione seguito in poco più di trent’anni sembra in verità prodigioso. Bisogna però vagliare anche le cagioni che lo hanno felicemente prodotto. La correzione di tanti abusi introdotti dai Locati Abruzzesi, e dalla prepotenza Baronale avendo rianimata l’agricoltura, e la pastorizia ch’erano prima annientate, fa sì che coll’una e coll’altra si dà oggi da vivere ad un numero infinitamente maggiore di gente addetta tanto all’una che all’altra.

Le censuazioni de’ fondi rustici de’ Luoghi Pii ordinate ed eseguite dal Tribunal Misto, e le altre censuazioni assai più importanti e più estese che hanno avuto luogo per effetto della Legge del Tavoliere dell’anno [a306] 1806 hanno moltiplicato il numero de’ mezzani, e de’ piccioli proprietarj, e ravvivata la energia di una Popolazione agricola schiacciata per lunghissimi anni ed impoverita da ogni sorta di compressione.

Molti del basso popolo possedono oggi i loro fondicelli provvenuti dalle censuazioni suddette con avergli egregiamente migliorati. La chiusura de’ terreni demaniali aperti soggetti un tempo al pascolo promiscuo degli animali de’ cittadini e de’ Locati del Tavoliere, ha prodotti gli stessi vantaggiosi effetti, e rianimata l’agricoltura.

I maggiori possidenti inoltre, deposti gli antichi pregiudizj, danno oggi volentieri i loro vasti fondi a migliorare, o a coltivare a picciole partite agli uomini di campagna. Quindi coloro tra essi che vivono colla sola giornata che guadagnano non sono molti.

Il massimo numero, mentre travaglia alla giornata, attende nel tempo stesso a coltivare o il fondicello proprio, o quello che tiene a migliorare, o a coltivare, il che raddoppia il suo guadagno. Ho veduto io medesimo più d’uno di costoro che dopo avere travagliato alla giornata fino all’ora del vespro, giusta la usanza de’ zappatori Ruvestini, son passati a lavorare fino alla sera li terreni che tenevano da me a coltivare, o a migliorare.

In fine il passaggio per quella città di una nuova e bellissima strada consolare ha resi facilissimi i mezzi di smaltire i ricchi prodotti di quel suolo formato dalla natura per la fertilità, e per l’abbondanza di quanto si può desiderare pe ’l comodo della vita umana. L’accrescimento dell’agiatezza del popolo derivato dall’esposte cagioni ha prodotto anche l’aumento della popolazione.

Cinquant’anni indietro era il mio animo vivamente commosso dalla miseria generale del popolo Ruvestino. È ora sommamente esultante nel vedere che in generale ha la gente del popolo di ambi i sessi deposto l’antico squallore vive con bastante agiatezza, e veste non solo con politezza, ma anche non senza un certo lusso. Vi sono poveri anche in Ruvo. E dove questi possono mancare? Ma la generalità non è più povera e meschina come lo era una volta.

La gente di campagna è ivi laboriosa. Ma non si può fare un elogio bastante di quella classe, la quale è addetta a lavorar la terra coll’aratro [a307] nelle masserie di semina. Gli uomini che alla stessa appartengono col linguaggio del luogo sono chiamati Gualani. Son essi indefessi al travaglio sobrj moderati docili ubbidienti, e senza vizj. Travagliano dalla punta del giorno fino alla sera, fanno fissa permanenza nelle masserie suddette, e non vanno alla città a vicenda che ogni quindici giorni la sera del Sabato, e vi restano la Domenica soltanto.

Al contrario i zappatori sono anche buoni e valenti travagliatori. Al tocco però della campana del vespro, quando non travagliano per loro stessi, vogliono lasciar la zappa. Frequentano volentieri le cantine, ed in generale sono nel tratto alquanto più ruvidi e più burberi. Tra i primi ed i secondi vi è un lungo divario. Sembrano uomini di diverse razze, tanto è potente la forza delle abitudini! Meritano quindi i primi una maggiore considerazione.

Le arti sono ivi piuttosto in decadenza. Si è però molto migliorato dallo stato in cui erano prima, e si va sempre più innanzi. Fa ciò sperare che se non potranno queste giugnere a quel grado sublime a cui ne’ tempi antichi si erano ivi portate, il che non potrebbe neppure idearsi, non sarà almeno col tempo la nostra città l’ultima per la civiltà. Li vasi di creta di ogni specie, ed anche di forme vistose ed eleganti, si lavorano in Ruvo molto bene. L’arte anche di fare i crivelli si è raffinata. Si vedono questi traforati con disegni varj capricciosi e molto graziosi. Tanto de’ primi che de’ secondi si fa molto smercio anche al di fuori, e con queste due arti principali vive molta gente.

La gente di Ruvo in generale è di alta statura robusta ben formata, e di buono e sano colorito. Gli uomini sono più belli delle donne. L’uno e l’altro sesso non manca di vivacità, e sveltezza. Sono anche i Ruvestini officiosi garbati, ed ospitali. Le danze popolari sono molto graziose, ed animate. Il canto armonioso e piacevole. Non è improbabile che lo abbiano ereditato dagli Arcadi loro progenitori detti da Virgilio soli cantare periti, poichè le abitudini di tal fatta passano volentieri da una generazione all’altra, e si ritengono dal popolo.

Malgrado il giogo della feudalità è stata la nostra città sempre una città colta, poichè, come ho detto innanzi, abbonda d’ingegni elevatissimi i quali ben coltivati possono far prodigj. Domenico di Gravina [a308] innanzi riportato che scrisse la sua cronaca al tempo della Regina Giovanna I disse Rubi civitas fertilis, et in ea viri nobiles, divites, et prudentes. Michele Antonio Baudrand nella sua Geografia così ne parla, e ciò che dice fa credere che l’abbia egli visitata, ed abbia ivi conversato con persone istruite. Rubi oppidum Apuliæ in Italia Antonino, quod Rubus in libris Conciliorum, nunc Ruvo. Urbs Regni Neapolitani in Provincia Bariana Episcopalis sub Archiepiscopo Barensi, PARVA, SED SATIS CULTA, sub dominio utili Ducis Andriæ, et ejus Diecœsis non extenditur ultra urbis muros, vix sex militaribus distans a Vigilia in meridiem, et XVII a Bario in occasum, uti novem a Butunto, Andriam versus totidem, et Canusium viginti.

Mancano le notizie degli uomini più illustri che ha potuto produrre ne’ secoli passati. Ne’ tempi a noi più vicini fu illustrata dall’insigne Magistrato Orazio Rocca di cui si è innanzi parlato il quale cessò di vivere nell’anno 1742. Di quelli dell’epoca nostra potrei nominarne molti tanto degli estinti che de’ viventi dotati di bello ingegno e dottrina che han fatto, e fanno molto onore alla nostra patria. Mi limito però al più illustre tra essi, cioè al celebre Cav. Domenico Cotugno mio pro-zio materno che fu il Nestore della Medicina e della Letteratura Napolitana, ed uno di quelli uomini rari, de’ quali in un secolo se ne può vedere appena alcuno. Mi dispenso di dir altro di lui, perchè le sue dotte opere, e la sua fama Europea fanno sì che il solo suo nome, di cui la nostra città si gloria, vale per un elogio.

La sua morte recò dolore a tutti. La nostra città onorò un cittadino tanto illustre con un pubblico funerale che fu celebrato in quella Chiesa Cattedrale con pienissimo concorso di tutte le classi de’ cittadini. Quel Decurionato inoltre decretò che a spese della città se gli fosse formato un mezzo busto di marmo, e si fosse questo situato a futura memoria nella Casa comunale. Fu dato a me l’incarico di proccurarlo, e corredarlo di analoga iscrizione, la quale avendola scritta io medesimo, venne incisa in una lapide ne’ seguenti termini

[a309]

DOMINICO · COTUNNIO
NEAPOLITANO · ÆSCULAPIO
ANATOMICORUM · PRINCIPI
OMNIGENA · ERUDITIONE · PRÆCLARO
DICENDI · FACULTATE · NEMINI · SECUNDO
LATINI · ET · ITALICI · SERMONIS
SCRIPTORI · ELEGANTISSIMO
SAPIENTIA · PRUDENTIA · BENEFICENTIA
MORUM · SANCTITATE · ET · SUAVITATE
INCOMPARABILI
EGREGIO · ET · CELEBRI · VIRO
CIVI · BENE · MERITO
AD · VIRTUTIS · HONOREM
AD · PATRIÆ · DECUS
AD · RUBASTINÆ · IUVENTUTIS · EXEMPLUM
DECURIONUM · ORDO
HOC · MONUMENTUM · POSUIT
NATUS · DIE · XXIX · IANUARII · MDCCXXXVI
OBIIT · DIE · VI · OCTOBRIS · MDCCCXXII

Passando ora a parlare dell’agro Ruvestino, sono ben poche le città che possono pareggiarlo per la sua varietà e vaghezza, perchè non a tutti i luoghi ha dati la Natura gli stessi doni e le stesse qualità. Dai tre lati orientale occidentale e settentrionale il territorio di Ruvo è simile a quello delle convicine città, colle quali è confinante. Dopo gli orti ed i giardini vicini all’abitato, tutto il di più è coverto di vigne e di alberi di frutta di ulivi e di mandorle. Ma dal lato meridionale ch’è il più esteso e ’l più vasto, è veramente incantevole.

Montandosi da Ruvo a cavallo ed uscendosi alla campagna alla direzione del mezzodì, si trovano in primo luogo gli orti che danno belle [a310] e copiose verdure. Sussieguono agli orti le così dette cocevole, o siano le picciole tenute seminatorie vicine all’abitato che si coltivano colla zappa, e danno ogni sorta di prodotti, non esclusa la bambagia. Dopo le cocevole vengono i giardini piantati di ogni sorta di frutta, e specialmente di ciriegie che sono in Ruvo di varie ed eccellenti qualità. Sono state esse per Ruvo sempre un capo d’industria. Quelle volte che mi sono ivi trovato al tempo delle ciriegie sono rimasto ammirato nel vedere la gran quantità de’ forestieri che venivano specialmente dalle città della Puglia a comprarle con molti animali da soma.

Oggi coteste piantazioni si sono diminuite, perchè per più anni di seguito sono state danneggiate da certi vermini detti volgarmente campe. I proprietarj de’ giardini sconfidati dalla perdita fatta per più anni della rendita principale di essi o non hanno più curato di sostituire le novelle piante a quelle già invecchiate, o hanno recise in parte le antiche piante e destinato il terreno ad altri usi.

A me pare che si sia in ciò mancato di pazienza e di costanza. Questi casi non sono nuovi. Coteste campe vi sono state anche in altri tempi; ma non perciò i nostri Antenati si sono scoraggiati. Ma non perciò si sono determinati a distruggere una produzione del nostro suolo pregevolissima, e quindi riputata e ricercata, la quale ha fatto sempre entrare in Ruvo molto danaro.

Dopo i giardini vengono le contrade piantate di vigne e di frutta di ogni specie e di ottima qualità, e principalmente di fichi che sono squisitissimi. Nelle stesse contrade delle vigne vi sono anche le tenute coverte di ulivi e di mandorle che formano due prodotti interessantissimi di quel territorio. È notabile che al principio di coteste vaste contrade, ed alla distanza di meno di un miglio dall’abitato ne’ luoghi denominati Valle nuova, volgarmente Vardenò la Pozza e ’l Pantano, si trovano copiose sorgive di acqua dolce, le quali in tempo di siccità sono di grande ajuto alla Popolazione.

I vini che produce quel territorio sono buoni. Manca però l’arte di fargli. Si fanno inoltre bollire molto poco, ed ordinariamente ne’ palmenti di pietra freddi per loro stessi e non opportuni alla fermentazione. Sono quindi di poca tenuta. La massima parte de’ luoghi addetti [a311] alle vigne è adatta a produrre vini del color dell’oro o alquanto più colorati detti cerasuoli. Tra i primi si distingue il vino denominato colatamburro, il quale è molto gustoso e ricercato dagli abitanti delle convicine città e specialmente dai Coratini. Si fa anche del buon moscado poco inferiore a quello di Trani, ove se ne fa molta quantità e molto smercio. Si fa pure il così detto vino zagarese, il quale è un vino dolce piuttosto di uva nera picciola e minuta che ha molto vigore e molta fraganza. È quello stesso vino che si fa anche sulla collina di Posillipo, ed è denominato cacamosca, molto in Napoli pregiato.

Gli antichi vini di Ruvo in generale erano gustosi al palato, ed innocenti, perchè non molto duri e gagliardi. Nella formazione di essi vi prendeva molta parte l’uva greca introdotta probabilmente dagli antichi coloni Greci che seppero ben conoscere le uve che a quel terreno meglio convenivano. Ma i nostri zappatori che amano un pò soverchio le cantine, come innanzi ho detto, e vogliono vini forti e poderosi, colle larghe piantazioni fatte di uve nere, le quali non sono opportune a tutti i luoghi del nostro territorio, lungi dal migliorare hanno anzi guastati gli antichi vini assai più amabili degli attuali.

Le contrade finora descritte sono state sempre chiuse e difese, e portano il nome di Distretto. Furono quindi rispettate anche dal decreto di Revertera e di Guerrera dell’anno 1549 col divieto espresso però di estenderle vie più ed ampliarle, divieto barbaro abolito dalle novelle leggi relative alla chiusura de’ demanj. Dai luoghi suddetti tirandosi sempre innanzi verso il mezzodì si esce in una vasta pianura di terreno tutto raso o con qualche rarissimo albero selvatico isolato. Questa pianura la formano le tre contrade distinte coi nomi di Ralle, Strappete e Matine. Hanno formato esse sempre la parte maggiore dell’antichissimo Demanio comunale, e la sede di numerose masserie di semina come innanzi più volte si è detto. È ivi il terreno tutto coltivabile, tranne que’ piccioli pezzi di saldo sassoso che si trovano di quando in quando disseminati nelle due contrade denominate le Ralle e le Strappete, giacchè quella delle Matine nella massima parte è netta di essi.

Cotesta vasta e fertilissima pianura di molte migliaja di moggia dal lato occidentale della contrada delle Strappete si protende fino all’altra [a312] vasta contrada di Calentano, la quale pare che formi parte delle Strappete. È la stessa fino ad un certo punto intersecata da una lunga striscia di terreno boscoso, il quale comincia dall’antichissimo bosco feudale denominato il Parco del Conte, e finisce alla difesa comunale di cui innanzi si è parlato formata nell’anno 1510 ed ampliata nell’anno 1552. Termina di fronte la pianura suddetta nell’antichissimo bosco feudale che ne’ Registri Angioini è chiamato Foresta, il quale cinge presso che tutto il lato meridionale di essa.

La già detta contrada delle Strappete è traversata da un vallone di notabile ampiezza e profondità il quale la fende dall’Occidente all’Oriente. Ha cotesto vallone i segni manifesti di essere stato un tempo il letto di un torrente del quale per altro si è perduta ogni memoria. Il fondo di esso è ora coltivato dall’aratro e la mia famiglia ne possiede un buon tratto che porta il nome di lama dell’Ospedale, forse perchè apparteneva un tempo all’Ordine Gerosolimitano ed all’Ospedale di S. Giovanni di Barletta, come si è detto innanzi del Castello e del territorio del Garagnone. Si noti però che in quella Regione si dà il nome di lama a que’ canali per i quali scorre l’acqua piovana insieme raccolta. Quindi il nome di lama da quel luogo ritenuto fino ai nostri giorni conferma la idea di essere stato un corso antichissimo di acqua.

Che per quel luogo abbia dovuto passare un tempo un amplissimo torrente, oltre l’aspetto del luogo lo pruova anche il seguente fatto. Mi diceva il mio buon Genitore che sessanta e più anni indietro mentre li suoi mietitori stavano falciando il grano nel fondo della lama suddetta videro venire dal lato del detto bosco di Ruvo con gran furia e strepito alla loro direzione uno immenso torrente di acqua, il quale diè loro appena il tempo di salvarsi frettolosamente sulle coste di essa. Che giunta l’acqua nella lama la colmò da capo a fondo trasportando seco grossi sassi, alberi svelti nel bosco, messi recise, lepri e volpi che nuotavano a fior di acqua. Che quel torrente in fine traversando prima il territorio di Ruvo, ed indi il finitimo territorio di Bitonto, era andato a scaricarsi nel mare tra Giovinazzo e Bari. Dal che è facile comprendere che seguita una forte e dirotta pioggia nella contrada delle murge superiore al bosco suddetto in quel sito per lo quale passava [a313] un tempo il già detto antico torrente, prese l’acqua quella medesima direzione che lo stesso aveva.

Dalla detta vasta pianura continuandosi il cammino verso il mezzodì si entra nel già detto bosco. Traversato lo stesso per poche miglia si esce nell’ampia contrada delle murge detta da Strabone montosa et aspera. Ma la stessa asperità del luogo dà diletto allo sguardo. Continuo è ivi il variare delle colline formate dal nudo sasso, e delle vallate volgarmente dette canali coverti di verdeggianti seminati. Ed ove lì si vada nella estiva stagione, non è men bello il vedersi quelle colline popolate da un numero immenso di greggi e di armenti che vanno a respirare l’aria fresca, essendo quello un erbaggio estivo preziosissimo ed indispensabile, come più volte innanzi si è detto.

Abbonda quella contrada di serpillo e di timo, il quale mentre rende il latte più odoroso, produce anche eccellente mele. Si ritrae questo dalle arnie che tengono i Ruvestini riunite in un luogo della contrada istessa denominato lama d’api sotto la cura di un massajo bene istruito di cotesta industria, oltre le altre arnie che parecchi di essi tengono nelle rispettive masserie.

La contrada delle murge è di vastissima estensione, e progredisce da quel lato ai territorj di Bitonto, di Altamura, di Gravina, del Garagnone, di Minervino, di Andria e Corato. Non ha la stessa nè fiumi, nè laghi. Le immense acque piovane che discendono dalle numerose e continuate colline di sopra descritte vengono in parte sorbite dai terreni coltivati delle valli o siano canali che intercedono tra una collina e l’altra, ed in gran parte vanno a scaricarsi in certe voragini denominate grave che vi sono in quella contrada. Coteste voragini sono di una profondità che niuno ancora ha potuto misurarla, e nel guardarle incutono terrore.

Dalle acque immense che s’immettono in coteste profondissime voragini pare che siano animate le inesauste sorgive della contigua contrada delle Matine, la quale è molto sottoposta a quella delle murge che sta in un sito elevatissimo. In quanto poi all’antichissimo vallone che traversa la contrada delle Strappete, di cui ho fatta innanzi menzione, pare anche che possa aver la cosa la seguente spiegazione. [a314] Non è improbabile che prima che i canali delle murge, i quali sorbiscono ora non poche acque piovane, si fossero dissodati e ridotti a coltura, e prima che le dette voragini si fossero aperte sia dalla forza dell’acqua, sia piuttosto da un forte scuotimento di terra, fosse stato quello l’alveo di un antico torrente che trasportava fino al mare una porzione delle copiosissime acque delle murge, come avvenne nella straordinaria alluvione seguita sessant’anni e più indietro di cui innanzi ho parlato.

Nel vasto territorio di Ruvo finora descritto al tempo del servaggio feudale molto scarse e rare erano le case di campagna che vi si vedevano, e queste piuttosto rozze e meschine. Oggi se ne vedono surte abbastanza e ne sorgono alla giornata. Anche i mediocri possidenti vogliono avere la loro casina di campagna corrispondente alle proprie forze, e tra quelle delle persone più facoltose ve ne sono alcune che possono dirsi lussuose. Accresce ciò il bello di quel territorio, e costituisce nel tempo stesso un miglioramento ed un progresso di quella Popolazione nella civiltà.

Da ciò che si è detto risulta che nel territorio di Ruvo con quattr’ore di cammino si gode tutto ciò che può formare il bello della Natura. Nell’uscirsi dalla città si trovano bellissimi orti, indi si passa ai giardini, alle vigne, agli oliveti ed altri arbusti, ai terreni seminatorj, ai boschi, ed in fine ai colli ed alle valli. Coteste varietà che rapidamente succedono l’una all’altra non possono non essere incantevoli. Dilettano sommamente i sensi e colpiscono lo spirito. Sì fatte combinazioni operate dalla mano possente della Natura non è facile trovarle replicate in altri luoghi. Non fia dunque meraviglia che gli Arcadi conquistatori della bella Regione denominata Peucezia dal loro Condottiere, incantati dalla vaghezza del sito di cui ho ragionato abbiano ivi edificata la nostra città, e decorata la stessa del nome di una delle più illustri città del loro Paese natio. Ben lo meritava la pregevole qualità e varietà di quel territorio così bene adatto a prestarsi tanto all’agricoltura, quanto alla pastorizia a cui erano essi principalmente inclinati.

Non posso però credere giammai che que’ nostri valorosi e colti Antenati, i quali fecero nella nostra città fiorire nel grado il più eminente [a315] le belle arti siano stati tanto trascurati quanto lo sono i Ruvestini attuali nel mantenimento delle pubbliche strade che menano alle loro deliziose campagne. Fa un’onta positiva ai medesimi il vedersi che neppure intorno alla città e ne’ luoghi alla stessa adiacenti si può passeggiare con comodità, anzi senza positivo disagio per la gran quantità delle pietre che ingombra le pubbliche strade!

Nè può essere condonabile tampoco alle Autorità municipali la negligenza e la non curanza colla quale soffrono che i proprietarj de’ terreni adiacenti alle pubbliche strade nello spurgargli delle pietre si permettano di gittarne in mezzo alle stesse una buona porzione, e renderle assolutamente impraticabili[270]!

Non è meno riprensibile la negligenza e la non curanza delle dette Autorità municipali sui parieti adiacenti alle pubbliche strade, i quali si lasciano cadere, senza obbligarsi i proprietarj de’ fondi a rifargli di nuovo; dal che ne deriva che le pietre scomposte e disciolte si rovesciano su di esse. Massima poi è la indecenza e la laidezza di un altro abuso introdotto da non molti anni in qua, qual è quello di vedersi ai fianchi delle pubbliche strade rammassato da passo in passo il letame che si lascia a fermentare per lo concime de’ terreni. Oltre però il fetore che tramandano coteste immondezze, e la corruzione dell’aere che producono, simili sozzure disgustano la vista e muovono lo stomaco. [a316] Quindi la sordida indiscrezione di pochi, la quale non merita veruna indulgenza, degrada anche la città ed i suoi abitanti nella opinione e nel concetto de’ Forestieri che passano.

Se questi appartengono ad Estere Nazioni, nel vedere tai disordini non mai corretti, ed ogni dì sempre crescenti potrebbero credere forse che manchino nel nostro Paese le Leggi relative alla nettezza delle pubbliche strade, mentre le nostre Leggi tanto giudiziarie che amministrative si sono di proposito occupate di un articolo tanto interessante, e non vi è un solo degl’inconvenienti da me rilevati il quale non sia stato da esse preveduto alla lettera e rigorosamente punito.

Si aggiunga che molti anni indietro si formarono in Ruvo gli Statuti municipali, ed in quella occasione ne fui anch’io consultato dal Sindaco e dagli Eletti. Mi ricordo bene che suggerii loro alcuni articoli molto efficaci a mantenere la nettezza delle pubbliche strade, perchè vedeva che in questa parte principalmente e molto largamente si peccava. Cosa però valgono le Leggi ed i Statuti quando quelle Autorità che dovrebbero fargli rispettare ed eseguire, tollerano con una indifferenza quanto stupida, altrettanto colpevole che siano essi impunemente violati, e sono forse esse le prime a violargli?

La decenza però e la dignità del Governo municipale dovrebbe finalmente porre un termine alle sconcezze di sopra enunciate le quali insultano positivamente la Legge e l’Ordine pubblico. Il mezzo di riuscirvi senza molto impiccio sarebbe facilissimo. In quanto alle pietre gittate sulle pubbliche strade nello spurgo de’ terreni adiacenti, o cadute dai parieti scomposti e disfatti, ove queste non vengano tolte tra un termine designato dai proprietarj di essi, dovrebbero farsi gittar di nuovo ne’ loro fondi a spese de’ contravventori. In quanto poi al letame che si trovi rammassato ai fianchi delle pubbliche strade, ovunque questo si trovi, dovrebbe esser venduto col fatto a beneficio della Cassa comunale, oltre la esazione della multa stabilita dalla legge per tale contravvenzione.

Non sono questi per altro i soli disordini, de’ quali è a dolersi. Ve ne ha anche degli altri assai più gravi che meritano seria attenzione come quelli che menano a distruggere tutto il bene che si è fatto. La [a317] disgrazia de’ Comuni, e molto più di quelli che hanno rendite patrimoniali vistose è l’essere infestati dai partiti ed insidiati da una genia d’intriganti, i quali sotto la maschera di zelanti cittadini Patriæ studium in ore, privatum in animo magis habent, come bene a proposito diceva Livio[271].

Si declama altamente contro l’abolita feudalità, mentre col proprio operare non si fa che l’apologia di essa! A che maledirsi le antiche prepotenze Baronali, quando alla depressa dominazione de’ Baroni si cerca sostituire la dominazione propria, e sotto il nome venerando del Comune si vogliono introdurre abusi e gravezze più condannabili di quelle che la feudalità si permetteva? È forse odioso il Dispotismo Baronale, e piacevole e soave il Dispotismo Comunale esercitato da una fazione dominante e soverchiante? A tal modo però non si vuole che lo stesso sistema sotto nomi diversi, o come ben diceva Cornelio Tacito, magis alii homines, quam alii mores[272].

Intendiamoci però bene. L’amministrazione comunale per poter meritare un tal nome, bisogna che sia quanto saggia ed avveduta, altrettanto paterna. Se imita e molto più se sorpassa le durezze Baronali, si degrada, si rende pesante ed esosa, e fa l’elogio della feudalità. Cosa giova alle Popolazioni l’abolizione di essa se dovessero ricadere sotto un giogo più duro e più pesante? Se serve ad un partito, e quindi all’interesse, alle passioni, alle rivalità ed ambizioni private, perde giustamente la fiducia e la stima della Popolazione, e si rende il flagello di essa.

Il servire ad una moltitudine di padroni è cosa assai più dura che il servire ad un solo. I Baroni erano oppressori; ma potevano talvolta usare anche de’ tratti proprj della loro illustre condizione. Chi mai però ha trovata ancora nobiltà ed elevatezza di pensare ne’ ruvidi intriganti e prepotenti de’ piccioli paesi? Guai a quella Popolazione che non si sveglia a tempo, e fa prendere a questa gente una mano troppo lunga! Quai limiti, quai termini aver potrebbe la loro rustica ed insolente albagia?

[a318]

Molte sono le cose che dovrei dire sui disordini introdotti nell’Amministrazione comunale di Ruvo, sul non poco male che si è fatto e sul molto bene che avrebbe potuto farsi, e non si è voluto per lo spirito di parte e la forza degl’intrighi. Serie ed importanti osservazioni specialmente esigerebbero l’interessantissimo erbaggio delle murge, lo interramento del lago di annaja, e la distruzione del Bosco comunale. La sposizione però de’ veri fatti relativi a cotesti tre articoli e le discussioni di Giurisprudenza, di Regolamenti amministrativi e di Economia Politica che vi han rapporto non potevano aver luogo in un breve cenno istorico.

L’impegno che mi ha sempre animato di giovare il più che ho potuto alla mia patria mi ha fatto determinare ad esporre i miei pensamenti in altra apposita memoria. Non essendo però una bella cosa il lavar la testa all’asino e ’l parlare a chi non vuol sentire, intendo questa indirizzarla a que’ veri e buoni miei concittadini che si sono preservati dalla corruzione, e sentono il loro cuore riscaldato dal santo amore di Patria, onde possano pe ’l bene della stessa porre a profitto le cose che saranno da me osservate e proposte.

A quelli uomini poi della novella generazione che molto presumono, che si credono più sapienti di coloro che gli hanno preceduti, e che sotto la maschera di un falso zelo cuoprono la smania d’influire, di dominare, e di disporre delle cose comunali a loro arbitrio, come più anziano, e meglio istruito delle cose patrie da essi finora ignorate do un sano e salutare consiglio.

Non possono essi certamente darsi il vanto di aver avuta parte a quelle laudabili operazioni che hanno messa la nostra città nel floridissimo stato in cui ora si trova. Abbiano almeno la buona volontà di non distruggere il bene che si è fatto, e ’l talento d’istruirsi delle cose passate, onde non far ricadere la nostra città sotto quelle stesse gravezze che produssero altra volta la miseria generale della popolazione, poichè come bene diceva Cicerone, Nescire autem quod antea quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum[273].

[a319]

AVVERTIMENTO.

Dopo avere esposti i miei pensamenti sulla origine Achea-Arcadica della nostra città credo utile aggiugnere un avvertimento diretto a prevenire qualche osservazione che una critica poco avveduta potrebbe forse fare in contrario. Ho detto nel capo III che Oenotro e Peucezio figliuoli di Licaone Re di Arcadia prima della guerra di Troja approdarono nelle nostre Regioni con numeroso seguito di Arcadi ed altre Genti del Peloponneso, e fondarono due Dominazioni, delle quali una prese il nome di Oenotria e l’altra di Peucezia, ove la nostra città è sita.

Non ignoro che alcuni moderni Scrittori hanno riputato favoloso cotesto racconto che si trova ne’ Scrittori Greci e Latini da me riportati nel detto capo III, ed in qualche altro ancora. Tale opinione cennata dal nostro illustre Canonico Mazocchi[274] è stata, per tralasciarne altri, più diffusamente esposta dal chiarissimo Giuseppe Micali in più luoghi della sua pregevole Storia degli antichi Popoli Italiani. Rispetto moltissimo questi nomi, ma la facoltà di ragionare è libera a tutti.

Potrei dire che il loro assunto non è sostenuto da dimostrazioni positive tratte da testimonianze precise di altri antichi accreditati Scrittori i quali avessero smentito di proposito il racconto suddetto. Da ciò che da alcuno di essi si trova scritto sull’antica posizione dell’Italia si son tratti bensì argomenti ed illazioni negative della venuta de’ predetti figli di Licaone, e delle due Dominazioni che si son credute da essi costituite. Si sa però che gli argomenti negativi non hanno sempre per loro stessi una piena forza. Potrei aggiugnere anche ch’è sempre malagevole il tacciare di soverchia credulità Uomini dottissimi dell’Antichità i quali vissero diciotto secoli e più prima di noi, e quindi potevano saperne assai più di quello che noi ne sappiamo, ed essere meglio al caso di discernere i veri fatti istorici dalle favolose narrazioni. Nella materia di cui si tratta l’autorità di coloro che hanno scritto in un epoca più vicina ai fatti che allegano prevale a quella de’ Scrittori più recenti.

[a320]

Tanto più la critica non è quì sicura, quanto che li predetti antichi Scrittori ai quali mi sono riportato avevano tanti altri libri Greci e Latini, che non sono sventuratamente a noi pervenuti. Non è quindi facile l’affermare e ’l decidere che in mezzo a tanto lume siansi essi allucinati, ed abbiano ritenuti come veri de’ racconti puramente favolosi, i quali non gli avessero trovati accreditati anche da que’ Scrittori ch’essi avevano alle mani, ma a noi mancano.

Messe però da banda coteste considerazioni di non lieve peso, mi limito ad osservare che dato anche per favoloso l’arrivo di Oenotro e Peucezio nelle nostre Regioni, non perciò potrebbe rimanerne alterato ciò che da me si è pensato e scritto sulla origine della nostra città. Osservo in primo luogo che que’ medesimi moderni Scrittori che menano innanzi cotesta opinione han convenuto che i luoghi vicini al mare specialmente della Peucezia furono occupati dalle Colonie Greche che vennero a stabilirsi nella Italia in epoche diverse, e che gli antichi abitanti di origine prettamente Italiana si ritirarono nella parte interna e ne’ luoghi montuosi sia perchè più opportuni alla propria sicurezza, sia perchè più analoghi alla loro fierezza ed alla loro maniera di vivere semplice ed agreste, sia in fine perchè non prezzavano molto i terreni vicini al mare in quel tempo paludosi in gran parte. E come non convenire in una verità di fatto contestata da innumerevoli monumenti di Greca origine rinvenuti ne’ luoghi suddetti?

Or la nostra città trovandosi fondata in una Regione bagnata dal mare Adriatico ed a poche miglia di distanza dal litorale di esso, è conseguenza che si trova in quel tratto di Paese che gli anzidetti moderni Scrittori non dissentono che sia stato occupato dalle Greche Colonie. Che che dunque voglia dirsi del loro avviso relativo alla venuta di Oenotro e Peucezio, la origine Grechesca della nostra città combacia anche bene colle già dette loro posizioni.

Da queste vedute generali discendendo al particolare, gli antichi numerosissimi monumenti ivi disotterrati all’epoca nostra non lasciano su di ciò il minimo dubbio. Mi piace quì ripetere le dotte e sensatissime osservazioni dello stesso Mazocchi riportate nella mia prefazione alla pag. 6. Scriptorum quorumlibet testimoniis longe exploratiora sunt [a321] nummorum, lapidum, ænearum tabularum monumenta, quæ si Græca fuerint, ecquis de Græcanico earum urbium conditu dubitabit? Quod si pleraque Etruscis, Oscis, aut omnino peregrinis elementis exarata deprehenduntur, tunc antiquos Auctores omnes, vel si milleni fuerint, qui Græcam originem crepantibus buccis jactaverint, contemnerem[275].

Con ragione, poichè dagli antichi monumenti sorge la pruova di una verità di fatto positiva, la quale non può essere distrutta da qualunque testimonianza di Scrittori. Siccome nel criterio legale li monumenti pubblici antichi prevalgono sempre ai detti de’ testimonj, così vale la stessa regola anche nel criterio istorico[276]. Or negli antichi monumenti e nelle antiche monete Ruvestine tutto essendo prettamente Greco e niente affatto fuori che il Greco, non vi può essere quistione sulla origine Grechesca della nostra città.

Se cotesti elementi però costituiscono la pruova incontrastabile della sua origine, non è meno vero che ugual valore, ed uguale influenza debbono avere nell’indagarsi anche quali degli antichi Popoli della Grecia han potuto fondarla. In questa parte interessantissima le sue antiche monete sono quelle che ci porgono il filo di Arianna per poterne attribuire la fondazione alle Greche Popolazioni del Peloponneso. Le più antiche di esse portano la leggenda Ρὑψ (Rhyps), quali son quelle riportate ai numeri 1 2 3 e 4 della prima tavola, e 6 e 7 della seconda. Nelle più recenti il π vedesi cangiato in β come ho osservato alla pag. 95 in fine e 96. Portano quindi la leggenda ΡΥΒΑΣΤΕΙΝΩΝ, o ΡΥΒΑ abbreviato, da cui si è tratto il nome latino Rubi.

Ma l’antico nome Ρὑψ imposto alla nostra Città dai primi suoi fondatori non potendo ripetersi da altro principio che dall’essersi voluto quì riprodurre l’antica ed illustre città dell’Acaja denominata Rhypæ, come l’ho concludentemente dimostrato nel capo V pag. 90 a 97, ne risulta da ciò per necessaria conseguenza la sua origine Achea. Giova [a322] quì anche osservare che Porcio Catone nel suo libro De originibus Italicarum urbium, Lucio Sempronio ed altri Scrittori che la ingiuria del tempo ci ha tolti, convennero in uno sbarco di Greci nelle nostre Regioni partiti dall’Acaja prima della Guerra di Troja, come ce lo fa conoscere Dionigi di Alicarnasso nel luogo di sopra riportato alla pagina 38[277]; il che combacia perfettamente colla premessa osservazione che viene suggerita dalle predette antiche monete Ruvestine.

Vero è che colla solita Greca presuntuosità ei riprende li già detti Romani Scrittori per non essersi incaricati di far conoscere da quali città Greche siano essi partiti, sotto quale Condottiere, e per qual cagione abbiano lasciata la loro patria, e per non avere tampoco addotta alcuna testimonianza di qualche Greco Scrittore. Il loro silenzio però su di tali circostanze non basta a distruggere il fatto principale da essi contestato, cioè la venuta degli Achei nella Italia prima della guerra di Troja, cosa che uomini così dotti non avrebbero potuto certamente smaltirla senza verun fondamento.

Il che tanto più è da dirsi quanto che la severa censura del Greco Scrittore è andata a finire coll’avere anch’egli convenuto che i Greci, quì sbarcati prima della guerra di Troja furono Arcadi. Ritenuto quindi il fatto principale come un fatto istorico, tutto il dippiù poco rileva. Quali delle Popolazioni Greche siano allora quì venute non è difficile indagarlo dagli antichi monumenti che contestino le loro costumanze ed i loro Riti ritenuti ne’ luoghi da esse occupati. Or tanto nelle monete che ne’ vasi fittili Ruvestini trovandosi sicure testimonianze che serbava la nostra città le costumanze ed i Riti Arcadici per le circostanze da me rilevate dalla pagina 74 alla pagina 76, vi è tutta la ragione di dirsi che nella fondazione di essa vi ebbero parte anche gli Arcadi e che questi [a323] furono nel numero de’ Greci che Porcio Catone, Lucio Sempronio ed altri contestarono di essere partiti dall’Acaja prima della guerra di Troja.

È risaputo quanto in simili indagini influisce la considerazione del culto delle Divinità, de’ Genj e degli Eroi che un’antica città serbava. Queste conghietture suggerite anche dagli antichi Scrittori sono state ritenute dagli Archeologi odierni per indagare la origine delle città antiche, com’è noto a chiunque abbia conoscenza della materia. Si aggiunga a ciò che Strabone nel luogo innanzi riportato alla pagina 42 fu di avviso che in generale i Greci che occuparono la Peucezia erano venuti dall’Arcadia. Non può credersi che uno Scrittore così grave lo abbia ciò detto a caso. Bisogna convenire che la sua opinione fu fondata o sull’autorità di altri Scrittori che la ingiuria del tempo ci ha tolti, o sulle antiche tradizioni ritenute dagli abitanti di quella Regione, essendo cosa regolare e naturale che i Popoli trapiantati dal loro Paese natio in altre lontane Regioni serbino le memorie della loro origine. Dopo tanti secoli e tante vicende sofferte dalla povera Italia si son queste oggi smarrite. Al tempo di Strabone però potevano gli abitanti della Peucezia ritenerle ancora, ed è da presumersi che le abbiano ritenute, ed egli che fu uno Scrittore accuratissimo e minutissimo le abbia raccolte.

Lo sbarco quindi di Oenotro, e Peucezio nelle nostre Regioni o che sia un fatto istorico o che voglia credersi una favola, nulla ciò rileva a discapito delle cose da me dette sulla origine della nostra città. Se i Greci del Peloponneso che la fondarono non furono guidati da Oenotro e da Peucezio, si potrebbe forse dir perciò che non abbiano potuto ivi capitare sotto altri Condottieri? Non potendosi porre in dubbio le antiche emigrazioni de’ Greci nelle nostre Regioni e la occupazione fatta dalle Greche Colonie de’ luoghi adiacenti al mare, nulla importa per l’oggetto di cui si tratta il conoscersi anche i nomi de’ loro Capi. Le circostanze particolari da me rilevate per indagare i popoli della Grecia ch’ebbero parte alla fondazione della nostra città, risultando dalle sue monete e da altri antichi monumenti indipendentemente dalle testimonianze de’ Scrittori Greci e Latini delle quali mi son giovato, sono questi gli elementi più solidi e più sicuri in simili indagini, anche nel senso di que’ moderni Scrittori che hanno riputata favolosa la venuta de’ figliuoli di Licaone nelle nostre Regioni.

[a325]

INDICE DE’ CAPITOLI.

CAPO I.
Degli antichi Scrittori che hanno parlato della città di Ruvo PAG. 9
 
CAPO II.
Delle antiche monete della città di Ruvo 32
 
CAPO III.
La città di Ruvo deve credersi fondata dagli Arcadi che vennero nella Italia prima della Guerra di Troja 35
 
CAPO IV.
Li pregevoli vasi fittili, ed altri oggetti delle belle arti antiche trovati in Ruvo confermano vie più la sua origine Arcadica 56
 
CAPO V.
La origine Arcadica della città di Ruvo si desume anche dal nome alla stessa imposto dai suoi primi fondatori 90
[a326]
 
CAPO VI.
Del sito in cui fu la città di Ruvo da principio edificata 99
 
CAPO VII.
Notizie della città di Ruvo fino all’epoca de’ Normanni 107
 
CAPO VIII.
Notizie della città di Ruvo al tempo della Dinastia Angioina 122
 
CAPO IX.
Notizie della città di Ruvo al tempo della Dinastia Aragonese 164
 
CAPO X.
Notizie relative alla città di Ruvo dall’epoca di Ferdinando il Cattolico fino a quella dell’attuale Dinastia Regnante 170
 
CAPO XI.
De’ diritti acquistati dal Regio Tavoliere di Puglia nell’agro Ruvestino e degli abusi dappoi introdotti 195
[a327]
 
CAPO XII.
Degli abusi e gravezze che la città di Ruvo ha sofferte dalla prepotenza Baronale 209
 
CAPO XIII.
De’ giudizj dell’anno 1750, dell’anno 1797 e dell’anno 1804, e delle transazioni dell’anno 1751 e dell’anno 1805 239
 
CAPO XIV.
Fatti principali avvenuti nella città di Ruvo dalla fine del secolo XVIII in poi 261
 
CAPO XV.
Osservazioni sulla città di Ruvo, sulla sua Popolazione, sulla pregevole qualità e varietà del suo territorio, e sui disordini introdotti nella moderna Amministrazione comunale 304
 
AVVERTIMENTO
Sulla origine della città di Ruvo esposta dall’Autore 319

[a329]

INDICE GENERALE.

A

Acheloo fiume della Grecia, da cui prese il nome il nostro fiume Acalandro detto oggi Salandrella pag. 93.

Achille combatte ed uccide Pentesilea Regina delle Amazoni pag. 67 e 68.

Aletium antica città de’ Salentini — Vi è quistione se sia l’attuale città di Lecce pag. 10.

Alfonso I di Aragona riordinò la Dogana delle pecore di Puglia e la fornì di erbaggi vernini pag. 195.

Alfonso II di Aragona — Succedè nel Regno nell’anno 1794 Ferdinando I suo Genitore — Era generalmente odiato dai suoi sudditi — Nell’avvicinarsi l’armata di Carlo VIII Re di Francia le Provincie del Regno si sollevarono, ei perdè il suo coraggio, andò a ricoverarsi nella Sicilia, ove si ritirò in un Convento di Frati in Messina pag. 170.

Altamura antica città della Terra di Bari creduta da taluni la stessa che Sub Lupatia pag. 47 — Il suo territorio confina con quello di Ruvo pag. 130.

Amministrazione comunale — Suo vero carattere e difetti che la fanno degenerare pag. 317.

Anchise e Venere sul monte Ida pag. 68 a 73.

Andrea figliuolo di Carlo Re d’Ungheria, marito della Regina Giovanna I strangolato in Aversa e gittato ignominiosamente da una finestra pag. 146 — Procedimento contro i rei di cotesto misfatto pag. 146 e 147.

Andria città della Terra di Bari erroneamente creduta la stessa che la città denominata Netium non mai esistita pag. 18 — Fu edificata da Pietro Normanno Conte di Trani, non già da Diomede pag. 23 e 24 — Etimologia del suo nome pag. 26 — Deve credersi surta nell’antico agro Ruvestino pag. 168 — Saccheggiata dai Tedeschi e Lombardi al tempo della Regina Giovanna I pag. 272 a 274 in nota — Terribile assedio in essa sostenuto da Francesco del Balzo al tempo di Ferdinando I di Aragona [a330] pag. 26 — Presa, saccheggiata ed incendiata dai Francesi nell’anno 1799 pag. 271 a 277.

Arcadi ed altre Genti del Peloponneso venute nell’Italia prima della Guerra di Troja con Oenotro e Peucezio pag. 38, 39, 319 e seguenti — Altri Arcadi venuti dappoi con Evandro pag. 40 — Furono bene accolti perchè vi portarono la coltura, la musica, le belle arti e buone leggi pag. 74.

Archita valente nel comando degli eserciti e nella scienza del Governo pag. 36.

Argos Hippium, Argyripa, Arpi, antica città della Daunia fondata da Diomede pag. 12, 55 e 92.

Armigeri Baronali, strumenti efficaci delle prepotenze della Casa d’Andria pag. 230.

Augustali — Loro Istituzione — Vi era in Ruvo un Collegio di Augustali pag. 109 e 110.

B

Bagliva di Ruvo — Riserbata al Re nelle concessioni in feudo dell’epoca Angioina pag. 134 e 135 — Nelle posteriori concessioni dall’epoca Aragonese in poi vi andò inclusa pag. 164 e seguenti, e pag. 185 — Gravezze ed abusi introdotti dalla Casa d’Andria nell’esercizio de’ diritti bajulari pag. 222 a 224 — La città di Ruvo fu obbligata a prenderla in affitto dal Barone per forti somme, onde liberare i cittadini dalle vessazioni de’ Baglivi pag. 225.

Bari Barium, e nell’Itinerario Gerosolimitano Beroes antica città marittima della Peucezia pag. 19, 20, 21, 42 e 43 — Tentarono in vano di saccheggiarla nell’anno 1799 gli abitanti de’ suoi casali pag. 270 — Occupata dai Francesi nell’anno 1799 pag. 273 in nota.

Barletta Barulum, e nella Tavola Peutingeriana Balulum o Bardulos — Antica città della Terra di Bari posteriore a Strabone, a Plinio ed a Tolomeo; ma anteriore ai Normanni — Fu restaurata o fortificata da Pietro Normanno Conte di Trani pag. 23, 24 e 25 — Consalvo di Cordova assediato in Barletta dai Francesi nell’anno 1502 e 1503 pag. 176 — Nell’anno 1799 posero ivi i Francesi il loro quartiere generale pag. 271.

Bisceglia Buxilia o Vigiliæ — Città marittima della Terra di Bari meno antica di Barletta Trani e Giovinazzo, ma anteriore ai Normanni — Restaurata dal detto Conte di Trani Pietro pag. 25 e 26 — Posseduta al [a331] tempo del Re Ladislao da Federico Vrunforti col titolo di Conte pag. 157.

Bitonto, Butuntus, Butuntinenses, Butuntinus ager, Botontones — Antica città della Peucezia pag. 15, 20, 21, 27 ed 83 — Sua antica confinazione col territorio di Ruvo pag. 85 ed 86 — Suo Vescovado unito a quello di Ruvo pag. 122.

Bosco antichissimo di Ruvo — Conceduto in feudo nell’anno 1269 pag. 123 e 212 — Nell’anno 1473 Ferdinando I di Aragona acquistò per uso del Regio Tavoliere di Puglia l’erba vernina di esso dalla Vigilia del S. Natale fino al dì 8 maggio pag. 214 — Nell’anno 1552 la Regia Corte acquistò per lo intero l’erba vernina e la ghianda del detto bosco e fu tolto ai Ruvestini il dritto di immettervi a pascere i bovi aratorj — Grave discapito che vennero da ciò a soffrirne pag. 202 e 203 — La prepotenza della Casa d’Andria rese il bosco suddetto inaccessibile ai Locati del Regio Tavoliere pag. 217 e 218. Taglio spietato dato dalla Casa d’Andria agli alberi di esso ed immenso profitto trattone pag. 219 — Giudizio criminale istituito per tal causa dalla Università di Ruvo nell’anno 1797 pag. 246 — Misure prese colla transazione del dì 2 maggio 1805 per farne seguire il rimboscamento pag. 258 e 259 — Per lo di più relativo al detto bosco vedi Usi civici.

Brindisi antica città de’ Salentini pag. 9 — Assediata e presa da Ruggiero Duca di Puglia e di Calabria pag. 113.

Bruchi — Il territorio di Ruvo invaso da queste locuste nell’anno 1808 — Danni da esse recati alle Puglie — Mezzi adoperati per liberarsene — Come nell’anno 1813 cessò tale flagello pag. 286 a 288.

C

Calabria antica, e sua situazione pag. 40 e 41.

Camera riservata o sia esenzione dall’alloggio militare ordinario accordato dalla Casa d’Andria nell’anno 1600 alla città di Ruvo mediante il pagamento di ducati ottomila pagina 192 e seguenti.

Campi di Diomede pag. 54.

Canne villaggio reso celebre dalla sconfitta che Annibale diè ai Romani in quel luogo detta pag. 54.

Canosa antica città della Daunia messa sulla strada da Roma a Brindisi pag. 10, 20, 21, 167 e 168 — Edificata da Diomede pag. 51 a 53 — Suo antico [a332] territorio pag. 168 — Rovinata dai Tedeschi e Lombardi al tempo della Regina Giovanna I pag. 272 nella nota.

Cantalicio Gio: Battista giustamente censurato pag. 184.

Capitolazioni dell’anno 1308 per i dazj civici della città di Ruvo pag. 140 a 143 — Nuove capitolazioni dell’anno 1314 pag. 145.

Carcere Baronale oscuro ed orribile dell’antica Torre di Ruvo pag. 230 — Abolito colla transazione dell’anno 1751 pag. 242 — Stanza del carcere comunale usurpata dalla Casa d’Andria e restituita colla transazione dell’anno 1805 pag. 252.

Carlo I di Angiò morto nell’anno 1285 pag. 135.

Carlo II che gli succedè nel Regno cessò di vivere nell’anno 1309 pag. 144.

Carlo VIII Re di Francia entrato nel Regno festeggiato ed applaudito non seppe profittarne — Lega formata contro di lui e suo ritorno in Francia pag. 171 — Sua morte pag. 172.

Caronda sommo Legislatore pag. 36.

Carpino specie di pietra che si trova nel territorio di Ruvo — Usi ai quali può esser utile pag. 105 e 106.

Casa comunale di Ruvo ricostrutta dalle fondamenta, ed iscrizione messa sulla facciata di essa pag. 190 — Progetto per la formazione di una novella Casa comunale più ampia, ed alienazione di detta Casa antica pag. 191.

Casali della città di Ruvo ora distrutti, ed osservazioni circa il numero e ’l sito di essi pag. 123 a 134.

Castello di S. Maria del Monte pag. 47.

Castello e Torre antica di Ruvo — Descrizione dell’uno, e dell’altra pag. 159 a 163.

Ceglia Celia antica città della Peucezia messa sulla strada da Roma a Brindisi pag. 10, 17 e 55 — Saccheggiata, ed incendiata dai Francesi nell’anno 1799 pag. 175 in nota.

Censuazioni de’ beni fondi delle confraternite, ed altri pii luoghi laicali di Ruvo eseguite prima dell’anno 1799 colla massima utilità pubblica colla cooperazione dell’egregio cittadino D. Antonio Sancio pag. 261 e 262.

Chiesa Cattedrale di Ruvo, e suo campanile pag. 154 e 155. Il campanile suddetto fortificato da Roberto Sanseverino al tempo della Regina Giovanna I, e ripigliato dagli Ungari detta pag. 155.

Chiesa antichissima di S. Maria di Calentano nel territorio di Ruvo pag. 127 e 128.

[a333]

Ciriegie squisite dell’agro Ruvestino pag. 310.

Città Greche dell’Italia molto ben governate — I Romani dopo la espulsione de’ Re richiesero alle stesse buone leggi pag. 36, e 37.

Chiusura, ed affrancazione de’ terreni demaniali appatronati dell’agro Ruvestino pag. 294 e seguenti.

Colatamburro specie di vino pregiatissimo che si fa in Ruvo pag. 311.

Cholera — Nell’anno 1836, e 1837 fece pochissimo danno alla Popolazione di Ruvo pag. 302 e 303.

Combattimento seguito nell’anno 1503 tra i tredici Cavalieri Francesi usciti da Ruvo, ed i tredici Cavalieri Italiani usciti da Barletta in un campo designato tra Corato ed Andria — Monumento ivi messo per futura memoria, ed indi abbattuto dai Francesi pag. 175 e 176.

Consalvo di Cordova detto il Gran Capitano — Spedito la prima volta da Ferdinando il Cattolico in soccorso di Ferdinando II di Aragona pag. 171 — Spedito la seconda volta a richiesta del Re Federico di Aragona gli usò un tratto di perfidia pag. 173 — Ristretto ed assediato nella città di Barletta, non seppero i Francesi profittare della loro superiorità pag. 174 — Suo procedere iniquo e vile verso la città, e gli abitanti di Ruvo pag. 182 e 183 — Sua caduta ed umiliazione, e suo sepolcro ultimamente violato e profanato pag. 183 e 184 nella nota.

Contea di Conversano — Al tempo de’ Normanni la città di Ruvo formava parte di essa pag. 84 e 114.

Conventi di Ruvo e soppressione di due di essi — Quello de’ Domenicani una colla Chiesa fu dal Governo donato alla città pag. 284 — Questa l’ha ceduto ai PP. delle Scuole pie ivi stabiliti pag. 289.

Corato nella Terra di Bari edificata da Pietro Normanno Conte di Trani pag. 23 e 24 — È surta nell’antico agro Ruvestino pag. 167 e seguenti.

Cortesia nome specioso di una estorsione feudale abolita colla transazione dell’anno 1701 pag. 222 e 241.

Crati fiume della Grecia, da cui prese il nome il nostro fiume Crati pag. 92 e 93.

D

Danza funebre dipinta in uno degli antichi sepolcri Ruvestini pag. 65 a 67.

Dauno valoroso Principe Illirico venuto nella Puglia, ove si costituì una dominazione che dal suo nome fu chiamata Daunia pag. 51.

[a334]

Demanio comunale di Ruvo, e denominazioni delle contrade che lo compongono pag. 222.

Difesa comunale di Ruvo eretta nell’anno 1510 pag. 197 e 198 — Ampliata fino a quaranta carri nell’anno 1552, e venduta dalla università nell’anno 1632 per pagare i debiti contratti pag. 202 e 203 — Quattordici carri di essa rivendicati dalle mani della Casa d’Andria nell’anno 1810 pag. 260 e 261.

Diomede valoroso Guerriero Greco che si costituì nella Daunia una Dominazione pag. 51 e 52 — Suoi compagni cangiati in uccelli pag. 52.

Domenico Cotugno illustre e celebre cittadino di Ruvo pag. 308 e 309.

Dritto Plateatico usurpato dalla Casa d’Andria alla università di Ruvo pag. 225 e 226 — Abolito con decreto dell’Avvocato Fiscale D. Giuseppe Zurlo dell’anno 1798 pag. 249.

Dritto proibitivo de’ molini costituito dalla Università di Ruvo per sua utilità nell’anno 1615 ed usurpato dalla Casa d’Andria pag. 227 e 228 — Restituito colla transazione dell’anno 1805 pag. 252 e 253.

Dritto proibitivo delle Taverne e delle Neviere abusivamente introdotto dalla Casa d’Andria pag. 227 — Rimasto abolito colla transazione dell’anno 1751 pag. 241.

Duca di Monpensier Generale di Carlo VIII Re di Francia pag. 171.

Duca di Némours Vicerè e Generale Supremo di Luigi XII Re di Francia in questo Regno pag. 174 — Era egli a Castellaneta e non a Canosa quando Consalvo di Cordova aggredì la città di Ruvo pag. 177 e 178 e seguenti.

E

Egnatia — Antica città marittima della Peucezia sita sulla strada da Roma a Brindisi pag. 10 42 e 43.

Ehetium — Città ignota alla Geografia antica segnata nella Tavola Peutingeriana — Conghiettura su di essa del Sig. Millingen pag. 12 e 13.

Eraclea antica città della Grecia riprodotta nella Italia pag. 92.

Ercole venerato dagli Arcadi, e quindi anche dagli antichi Ruvestini pag. 75 e 76.

Erdonia o Herdonia antica città della Daunia messa sulla strada da Roma a Brindisi pag. 10 20 21 e 268.

Ettore Carafa il vecchio Duca d’Andria tenne la città di Ruvo sotto un [a335] giogo di ferro pag. 239 — Le tolse con violenza anche le carte del suo Archivio pag. 243.

Ettore Carafa il giovane Conte di Ruvo a torto imputato di aver fatto nell’anno 1799 incendiare dai Francesi la città di Andria sua patria pag. 271 e seguenti.

Ettore Fieramosca capo de’ tredici Cavalieri Italiani che nell’anno 1503 si batterono coi tredici Cavalieri Francesi pag. 175.

F

Fauno — Re saggio e prudente che dominava que’ luoghi, ove surse poi la città di Roma pag. 40.

Federico di Aragona — Sue virtù, sua bontà e giubilo universale per la di lui elevazione al Trono di Napoli pag. 172 — Fu spogliato del Regno da Ferdinando il Cattolico e da Luigi XII Re di Francia pag. 173.

Ferdinando I di Aragona — Morto nell’anno 1494, gli succedè nel Trono Alfonso II suo figliuolo primogenito pag. 170.

Ferdinando II di Aragona — Sua elevazione al Trono — Sua fuga dal Regno per la invasione di Carlo VIII Re di Francia e suo sollecito ritorno in Napoli — Vantaggi da lui riportati sui Francesi quì rimasti e sua prematura morte pag. 171 e 172.

Ferdinando il Cattolico — Sue mire sul Regno di Napoli per lungo tempo dissimulate pag. 171 — Accordo combinato tra lui e Luigi XII Re di Francia per torre il Regno di Napoli a Federico di Aragona — Vedi Trattato segreto.

Feudalità — Distruttrice del genio del gusto e della specolazione agraria, ed apportatrice di avvilimento, di servitù, di suggezioni, ed estorsioni pag. 120.

Fida abusivamente esercitata dai Baglivi Baronali nel demanio comunale di Ruvo, ed anche ne’ terreni appatronati siti in esso pag. 222 — Abolita colla transazione dell’anno 1805 pag. 253 e 254.

Fineo cieco liberato dalle arpie dagli Argonauti pag. 76 e 77.

[a336]

G

Gabelle comunali della città di Ruvo — Se le appropriò la Casa d’Andria dall’anno 1691 all’anno 1737 — Mancanza di pagamento de’ creditori Fiscalarj della stessa — Lunghe ed inutili querele di essi e fallimento della Università seguito per tal causa pag. 232 a 235 — Supposto credito di ducati 25600 della Casa d’Andria ammesso per collusione pag. 235 a 237 — Abolito colla transazione dell’anno 1805 pag. 252.

Gabella comunale della giumella delle mandorle usurpata dalla Casa d’Andria, e convertita in una esazione feudale pag. 226 — Abolita colla transazione dell’anno 1751 pag. 241.

Garagnone antico casale ora distrutto in Terra di Bari — Apparteneva un tempo all’Ordine Gerosolimitano — È passato dopo per molte mani e per ultimo è stato posseduto dalla famiglia Mazzaccara — Vi è rimasto un antico castello nel sito del quale vi era l’antica città della Peucezia denominata Silvium pag. 46 a 50 — Confina col territorio di Ruvo pag. 131 — È diverso dal Gorgoglione antico villaggio sito nella Provincia di Basilicata pag. 48 e 49.

Giovanna I Regina di Napoli — Succedè nel Regno al Re Roberto suo avo — Si rese sospetta d’intelligenza nella morte violenta del Re Andrea suo primo marito pag. 146 — Sua fuga dal Regno all’avvicinamento di Lodovico Re d’Ungheria che s’impossessò di esso — Parlamento generale da lei convocato prima che fosse partita ed oggetto di esso pag. 151 e 152 — Suo ritorno nel Regno e vantaggi da lei riportati pag. 148 — Pace conchiusa tra lei e ’l Re d’Ungheria colla mediazione del Papa nell’anno 1351 pag. 156.

Giovinazzo città marittima della Terra di Bari anteriore alla venuta de’ Normanni detta Natiolum nella Tavola Peutingeriana pag. 17 e 25.

Giudizj istituiti nell’anno 1750 contro la Casa d’Andria suggeriti dal privato interesse, e quindi di niuno risultamento pag. 239 a 243 — Altri giudizj istituiti nell’anno 1797 con vero sentimento patrio e loro vantaggioso risultamento pag. 243 e seguenti.

Giurisdizione criminale — Arma terribile adoperata dalla Casa d’Andria per opprimere la Popolazione di Ruvo pag. 229 in fine e 230.

Giurisdizione de’ pesi e misure e della Portolania acquistata dalla Università di Ruvo nell’anno 1609 a carissimo prezzo, ed usurpata dalla Casa [a337] d’Andria pag. 223 e 224 — Rivendicata con decreto del S. R. C. dell’anno 1798 pag. 247.

Giuoco del pallone — Era prima in usanza nella città di Ruvo pag. 188.

Grave — Nome di voragini profondissime nelle quali s’immettono le acque piovane della contrada delle murge pag. 313.

Gravina città della Terra di Bari creduta l’antica Blera o Plera pag. 47 — Al tempo della Regina Giovanna I entrata in essa all’amichevole la masnada di Roberto e Ruggiero Sanseverino, soffrì dalla stessa ogni sorta di eccessi pag. 150 — Il suo territorio confina con quello di Ruvo pag. 132.

Grazie al numero di tre compagne sempre di Venere pag. 72.

Guardiola — Luogo sulla vecchia strada da Ruvo a Canosa, ove vi era la Mutazione ad quintum decimum dell’Itinerario Gerosolimitano pag. 22 e 23.

Guicciardini Francesco — Errori ne’ quali è incorso nel riportare la espugnazione della città di Ruvo fatta da Consalvo di Cordova, e ’l combattimento de’ tredici Cavalieri Italiani con altrettanti Cavalieri Francesi pag. 177 e 178.

I

Iapigia propriamente detta e ’l promontorio Iapigio pag. 40 e 41 — La Iapigia e la Peucezia erano due Regioni diverse con Governi diversi pag. 42.

Isole Diomedee Trimetum, oggi Isole di Tremiti pag. 53.

Italia — Sue bellezze — Desiderata dall’Estere Nazioni che l’hanno desolata — Le Colonie Greche però vi portarono la coltura, le scienze e le belle arti pag. 35.

L

Ladislao Re — Sua lettera curiosa scritta a Federico Vrunforti Conte di Bisceglia, e feudatario di Ruvo e Terlizzi pag. 157 e 158.

Lago di Annaja sito nelle Murge conceduto dal Capitolo di Ruvo alla Università in enfiteusi perpetua e rimasto interrato per la scioperatezza della moderna Amministrazione comunale pag. 298 a 302.

Larissa antica città della Grecia riprodotta in Italia dai Greci che vennero a stabilirsi nella Campania pag. 91.

Legge del dì 21 Maggio 1806 sul Tavoliere di Puglia — Storia degli articoli 37 38 e 39 di essa confermati dalla legge de’ 29 Gennajo 1817 pag. [a338] 205 a 208 — Altra legge del dì 13 Gennajo 1817 sul Tavoliere di Puglia che ordinò l’affrancazione dell’erba estiva pag. 259.

Locri antica città della Grecia quì riprodotta pag. 92.

Lodovico Re d’Ungheria — Vedi Giovanna I — Suo nobile rifiuto de’ trecentomila fiorini che Papa Clemente aveva condannata la Regina a pagargli per le spese della guerra nella conchiusione della pace pag. 156.

Luigi XII Re di Francia — Di accordo con Ferdinando il Cattolico spogliò del Regno il buon Re Federico di Aragona — Vedi Trattato segreto.

M

Magna Grecia — Etimologia del suo nome e luoghi che la componevano pag. 36 e 37.

Marchio — Quello de’ cavalli e del bestiame gli Antichi lo imprimevano alla coscia, e quello de’ muli alla guancia pag. 62 e 63.

Molfetta città marittima della Terra di Bari meno antica di Barletta, Trani, Giovinazzo e Bisceglia pag. 43.

Monete antiche Ruvestine coi loro diversi tipi erroneamente attribuite una volta o alla città di Basta, o all’antica città dell’Acaja denominata Rhypæ pag. 32 a 34 con due Tavole.

Montepeloso città della Basilicata assediata e presa da Ruggiero con avervi fatto prigioniere di guerra Tancredi Conte di Conversano pag. 117.

Mura e porte della città riputate sempre come cose sacre ed inviolabili pag. 189 — Porzione delle antiche mura della città di Ruvo riedificata dalle fondamenta nell’anno 1516 pag. 186 e 187.

Murge — Vasta contrada dell’antica Peucezia detta da Strabone montosa et aspera pag. 43 — La maggior parte di essa non è atta alla coltura — Dà però eccellente pascolo specialmente estivo pag. 132 — Ha questa potuto costituire un tempo un demanio feudale pag. 213 e seguenti — Chiusure dell’erba vernina di quella contrada che faceva la Casa d’Andria abusivamente sotto il nome di parate pag. 221 — Colla transazione dell’anno 1805 la rendita di esse fu divisa tra il Duca d’Andria e la Università, e l’erba estiva delle murge rimase al pieno comodo de’ cittadini pag. 253 e 254 — Profitto che ora trae la Cassa comunale dal demanio delle murge ed osservazioni su di esso pag. 255 a 258 — Necessità precisa di provvederlo di conserve di acqua pag. 298 a 300.

Museo Ruvestino della famiglia Jatta pag. 305.

[a339]

N

Nardò Neritum e nella Tavola Peutingeriana Neretum — Antica città de’ Salentini — La parola Neritini malamente alterata e mutilata nel testo di Plinio dal P. Arduino Gesuita pag. 13 a 16.

Netium Νήτιον — Nome ideale di un’antica città non mai esistita tra Celia e Canosa intrusa nel testo di Strabone dall’errore degli amanuensi in luogo della città di Ruvo pag. 10 a 27.

Ninfe Arcadiche che allevarono il Dio Pane pag. 75.

Nomina degli Amministratori comunali usurpata dalla Casa d’Andria, e mezzo principale della prepotenza Baronale pag. 229 — Vietata con giudicato del S. R. C. dell’anno 1798 pag. 247.

Nomina del Maestro della Fiera di S. Angelo che si celebra in Ruvo usurpata del pari dalla Casa d’Andria e vietata con decreto dell’Avvocato Fiscale D. Giuseppe Zurlo dell’anno 1798 pag. 249.

O

Il sig. d’Obignì Generale di Carlo VIII Re di Francia pag. 171.

Oenotro figliuolo di Licaone Re dell’Arcadia — Molto prima della Guerra di Troja venne in Italia con molti Arcadi ed altre Genti del Peloponneso con suo fratello Peucezio — Si costituirono entrambi due dominazioni, delle quali una prese il nome di Oenotria e l’altra di Peucezia pag. 39 — Osservazioni sulla opinione di alcuni moderni Scrittori che hanno creduto favoloso cotesto racconto pag. 319 e seguenti.

Ofanto Aufidus — Fiume della Daunia, la di cui foce costituiva il confine tra la Daunia e la Peucezia pag. 43.

Onorio Papa — Sollevò contro Ruggiero i Magnati e Baroni delle Puglie — Riconciliatosi indi con lui lo riconobbe per Duca di Puglia e di Calabria pag. 112 e 113.

Orazio Rocca nato in Ruvo — Perseguitato dalla prepotenza Baronale fuggì in Napoli ove per i suoi talenti e la sua dottrina fu un insigne Magistrato pag. 230 — Cessò di vivere nell’anno 1742 pag. 308.

Orti di Ruvo danno squisite e copiose verdure pag. 133 e 310.

[a340]

P

Pallantium — Antica città dell’Arcadia riprodotta da Evandro nel sito ove poi surse Roma — Fu in seguito chiamata Palatium pag. 91.

Signor de la Palisse — Generale del Re di Francia Luigi XII — Comandava in Ruvo al tempo che fu espugnata quella città da Consalvo di Cordova — Si battè con valore e vi rimase ferito e prigioniero pag. 177 a 179.

Pane — Falsa deità venerata dagli Arcadi, ed in conseguenza anche dagli antichi Ruvestini ch’erano di origine Arcadica pag. 74 e 75.

Parco del Conte antica difesa feudale sita nell’agro Ruvestino pag. 212.

Partito Baronale che secondava in Ruvo le usurpazioni e le prepotenze della Casa d’Andria, ed insolenza di coloro che lo formavano pag. 230 e 231.

Passo — Nuova estorsione Baronale introdotta in Ruvo nell’anno 1602 — Rimase abolita colla legge generale abolitiva de’ passi emessa dal Re Ferdinando pag. 226 e 227.

Pentesilea Regina delle Amazoni — Sua bellezza, sue bravate, suo armamento e sua morte per le mani di Achille pag. 67 e 68.

Peucezio vedi Oenotro — Peucezia da principio più estesa ed indi più ristretta pag. 40 — Suoi confini dal lato orientale e settentrionale pag. 40 e 42 — Suoi confini dal lato meridionale pag. 44 a 50, e dal lato occidentale pag. 52 a 55.

Pie Istituzioni e Monti fondati in Ruvo per lo sollievo de’ poveri ora aggregati alla pubblica Beneficenza — Osservazioni su tale aggregazione pag. 284 a 286.

Pitagora — Somma venerazione ed attaccamento per lui de’ suoi discepoli pag. 36.

Platone pagò diecimila danari tre libri di Filoleo Filosofo Pitagorico pag. 37.

Popolazione di Ruvo — Numero di essa pag. 303 — Suo prodigioso accrescimento e cagioni che lo hanno prodotto — Qualità fisiche e morali degli abitanti di Ruvo ora non più poveri come al tempo della feudalità pag. 305 a 306.

Popoli — Nell’emigrare dal loro Paese natio hanno sempre ritenuto il culto che ivi si serbava pag. 77 e 78.

Porte antiche della città di Ruvo ora abbattute pag. 269 — La porta detta di Noja arbitrariamente abbattuta nell’anno 1820 era la più solida, e meglio fortificata pag. 187.

[a341]

Promiscuità di erba ed acqua della città di Ruvo con Terlizzi e Corato, e sua spiegazione pag. 167 a 169.

R

Ripen picciola città distrutta dell’Arcadia riportata da Omero pag. 93.

Roberto d’Angiò succeduto nel Regno a Carlo II nell’anno 1309 cessò di vivere nell’anno 1343 pag. 145.

Rudas — Antico lago ora disseccato che comunicava col mare Adriatico sito tra Barletta e Trani segnato nella Tavola Peutingeriana pag. 83 in nota.

Ruggiero Duca di Puglia e di Calabria, ed indi primo Re delle due Sicilie — Sue imprese nelle Puglie contro i Magnati e Baroni suoi nemici pag. 113 e seguenti — Sua morte pag. 118.

Ruvo — Rubi, Rubustini, Rubustinus ager — Antichissima città della Peucezia messa sulla strada che da Roma andava a Brindisi pag. 15 19 20 21 27 ed 83 — Dev’essere sostituita all’ideale città denominata Netium Νήτιον intrusa per errore degli amanuensi nel testo di Strabone pag. 19 a 23 — Malamente da taluno è stata denominata Rubustum pag. 27 — Malamente si è fatto derivare il suo nome a ruborum copia pag. 28 29 e 90 — Malamente è stata confusa con Rufræ della Campania, con Rufrium degl’Irpini e con Ruvo della Montagna pag. 29 e 30 — È anche diversa da Rudiæ, patria del Poeta Ennio pag. 30 e 31 — Fu fondata dagli Arcadi ed altre Genti del Peloponneso venute in Italia con Oenotro e Peucezio prima della Guerra di Troja pag. 33 a 78 e 319 e seguenti — Si deve credere di maggiore antichità delle altre convicine città della Peucezia pag. 97 e 98 — Il nome Greco alla stessa imposto fu Ῥύψ (Rhyps) — Etimologia di esso pag. 90 a 98 — In qual sito fu da principio edificata e perchè lo cangiò in seguito e sua ridente situazione pag. 99 a 103 — L’attuale città di Ruvo è edificata sulle rovine dell’antica pag. 103 e 104 — Al tempo de’ Normanni era una città forte assediata e presa nell’anno 1129 da Ruggiero Duca di Puglia e di Calabria pag. 114 a 117 — Al tempo della Regina Giovanna I, dopo una coraggiosa resistenza fatta dai suoi abitanti fu presa, saccheggiata, e crudelmente trattata da Roberto e Ruggiero Sanseverino pag. 150 e 151 — Fu dai Francesi occupata nell’anno 1501 pag. 174 — Nell’anno 1503 fu sorpresa espugnata e saccheggiata da Consalvo di Cordova con detestabile [a342] iniquità pag. 178 a 183 — Avvenimenti seguiti ed operazioni fatte nella città di Ruvo nelle turbolenze dell’anno 1799 pag. 266 a 270 — Misure prese nell’anno 1806 per lo mantenimento della pubblica tranquillità pag. 283 — Contegno ivi serbato nella effervescenza dell’anno 1820 e generosità de’ Ruvestini possidenti verso le famiglie de’ soldati congedati ed ammogliati che furono richiamati alle bandiere pag. 294 — La città di Ruvo è stata sempre una città colta pag. 308 — Miglioramento de’ suoi antichi edificj e novella ampliazione del suo antico recinto pag. 304.

Rhypæ — Una delle dodici antiche ed illustri città dell’Acaja, patria di Miscello che fondò Crotone, dalla quale la città di Ruvo prese il suo nome pag. 93 e 94.

S

Salentini, Iapigia, Messapia, Calabria nomi della medesima Regione oggi denominata Terra di Otranto pag. 40 e 41.

Sancia Regina moglie del Re Roberto rimasta Balia del Regno si ritirò in un Convento e morì con gran fama di santità pag. 145 e 146 — Per lo di più vedi Utili Possessori in feudo della città di Ruvo.

Sanseverino Roberto e Ruggiero pagarono a caro prezzo le indegnità commesse a danno della città di Ruvo e suoi abitanti al tempo della Regina Giovanna I pag. 153 e 154.

Scannaggio dritto che si pagava dai macellaj usurpato dal Barone alla Università di Ruvo cui apparteneva pag. 226 — Restituito colla transazione dell’anno 1805 pag. 252.

Sensalìa antico dazio comunale usurpato dal Barone ed annesso alla Bagliva pag. 224.

Sepolcri antichi Ruvestini incavati nel vivo sasso e coverti con grandi tavole di pietra — Oggetti in essi rinvenuti pag. 53 — Storia de’ scavamenti di essi pag. 56 e seguenti — Gli antichi sepolcri trovati nel sito attuale della città pruovano ch’era questo prima una campagna pag. 102.

Silvio Silvium Silvini — Antica ed ultima città della Peucezia dal lato meridionale pag. 43 — Era una città popolosa e considerevole e non una mansione pag. 43 e 44 — Detta Silutum nella Tavola Peutingeriana pag. 45 — Sito preciso di essa pag. 46 — Per lo di più vedi Garagnone.

Sorgive d’acqua dolce poco lungi dall’abitato di Ruvo pag. 310 — Copiosissime [a343] ed inesauste sorgive della contrada più lontana delle Matine pag. 133 — Conghiettura sulla origine di esse pag. 313.

Statuette de’ tre Santi Protettori messe sulla diroccata Porta di Noja della città di Ruvo pag. 188 e nella nota.

Stemma della città di Ruvo che dev’essere riformato pag. 90 e 91.

Strade interne della città di Ruvo rinnovate e rese più regolari pag. 281 e seguenti — Strada nuova Provinciale da Canosa a Cisternino che passa per Ruvo — Sua bellezza ed utilità pag. 291 a 293 — Punto incantevole della detta strada denominato Bel luogo pag. 293 e 294 — Disordini e sconcezze che deturpano le pubbliche strade del territorio di Ruvo pag. 315 e 316.

Strena — Regalo che la Casa d’Andria esigeva dalla città di Ruvo il primo dì dell’anno pag. 225.

Scuola Pitagorica che fioriva nelle città della Magna Grecia pag. 36.

Scuole Pie stabilite in Ruvo in luogo del Seminario prescritto dall’ultimo Concordato colla S. Sede pag. 288 a 291.

T

Taranto antica città della Magna Grecia e seno Tarantino pag. 37 40 e 41 — Tarantini valenti nella equitazione e nelle manovre di cavalleria pag. 63 — Fu presa da Ruggiero Duca di Puglia e di Calabria pag. 113.

Tavole Peutingeriane perchè così chiamate e di qual uso possono essere pag. 11 e 12.

Tavoliere di Puglia e sui Locati Abruzzesi — Cosa è il dritto di Riposo da essi preteso sulle murge di Ruvo pag. 195 e 196 — Cotesto dritto fu sempre contrastato dalla Casa d’Andria pag. 196 e 213 — Abusi gravissimi introdotti dai Locati Abruzzesi nel territorio di Ruvo pag. 197 e seguenti — Iniquo decreto di Revertera e di Guerrera dell’anno 1549 pag. 199 e 200 — Altro simile decreto del Tribunale Doganale dell’anno 1642 pag. 204 — Resistenza de’ Ruvestini a cotesti abusi corretti finalmente dalla legge dell’anno 1806 sul Tavoliere di Puglia e dalle novelle leggi relative alla chiusura de’ Demanj pag. 205 a 209.

Terlizzi città recente surta nell’agro Ruvestino vanamente presuntuosa di una rimota antichità, di cui manca ogni appoggio ed ogni memoria pag. 79 ad 89 e 167 a 169 — Quistioni di confini che vi sono state tra la città [a344] di Ruvo ed i Terlizzesi pag. 144 anche nella nota e pag. 191 e 192.

Terreni demaniali appatronati dell’agro Ruvestino affrancati dalla servitù del pascolo civico pag. 294 e seguenti.

Terreni del Monte della Pietà di Ruvo siti nelle murge usurpati dalla Casa d’Andria pag. 250 — Restituiti dietro il giudizio istituito nell’anno 1804 pag. 260.

Territorio di Ruvo — Sue pregevoli qualità e varietà, e suoi prodotti colla descrizione di esso pag. 309 e seguenti — Ampio letto di un antichissimo torrente che lo fendeva pag. 312 — Conghietture sul torrente suddetto e sulle cagioni che lo fecero cessare pag. 313 e 314.

Timeo gran Filosofo ed Astronomo della Magna Grecia e sommo Politico pag. 36.

Transazione dell’anno 1751 tra la Università di Ruvo e la Casa d’Andria — Rimasero con essa sagrificati gl’interessi della prima pag. 239 a 242 — Transazione dell’anno 1805 — Rimasero con essa corretti tutti gli abusi ed usurpazioni della feudalità pag. 251 e seguenti — Perchè fu la stessa consegnata in due scritture separate e distinte? — Motivi che suggerirono gli articoli stabiliti in quella del dì 2 Maggio 1805 pag. 254 e seguenti.

Trattato segreto tra Ferdinando il Cattolico e Luigi XII Re di Francia per ispogliare del Regno di Napoli il buon Re Federico di Aragona, e patti della divisione di esso pag. 172 e 173 — La poca avvedutezza colla quale furono essi scritti produsse la guerra tra loro pag. 173 e 174 — Non seppero i Francesi profittare della loro superiorità e cacciare gli Spagnuoli dal Regno e diedero troppo tempo a Consalvo di Cordova di ricevere rinforzi di truppe e di danaro pag. 174 e 175.

Traviamento e disordine della moderna Amministrazione Comunale Ruvestina per la influenza de’ partiti pag. 316 a 318.

Trifinio tra Ruvo Terlizzi e Bitonto pag. 86 — Altro trifinio tra Ruvo Andria e ’l territorio del Garagnone pag. 168.

Turia antica città della Grecia riprodotta nelle nostre Regioni pag. 92.

[a345]

U

Uffizio del Camerlengo che vi era un tempo nella città di Ruvo in che consisteva pag. 269.

Usi civici pieni di legnare e di pascere l’erba estiva del bosco di Ruvo guadagnati con decreto del S. R. C. dell’anno 1798, e risega fatta a favore del Comune per effetto di questo giudicato di carri trentatre del bosco suddetto pag. 247 e 248 — Pessimo stato in cui è ridotta quella parte del bosco che spetta al Comune, senza dare alcun profitto alla Cassa Comunale per effetto degl’intrighi pag. 259 e 260.

Utili possessori in feudo della città di Ruvo che si son potuti conoscere — Al tempo di Ruggiero fu posseduta da Tancredi di Conversano pag. 114 e 115 — Costui la perdè per ribellione pag. 117 — Fu dappoi conceduta a Roberto di Basavilla Conte di Conversano e di Loritello pag. 118 e 119 — Passò poi a Berardo Conte di Loritello e di Conversano di cui non si conosce il cognome detta pag. 119 — Carlo I d’Angiò nell’anno 1269 la concedè ad Arnolfo de Colant pag. 123 e 124 — Da costui passò al suo figliuolo Giannotto pag. 135 — Fu indi posseduta da Arnolfo II de Colant pag. 136 — Passò indi a Roberto de Juriaco pag. 137 — Dopo di lui la possedè Galeraimo de Juriaco che la perdè per contumacia pag. 137 e 144 — Oppressioni usate da uno di questi due alla città di Ruvo, e Lettera Regia del Re Carlo II dell’anno 1307 per reprimerle pag. 138 e 139 — Il Re Roberto ne investì la Regina Sancia sua consorte che nell’anno 1337 la possedeva ancora pag. 144 e 145 — La Regina Sancia la vendè al Conte di Terlizzi Gazone de Denysiaco che morì giustiziato come complice della morte del Re Andrea pag. 147 — Dopo di lui la possedè a vita la sua vedova Margherita Pipina pag. 147 e 148 — Lodovico Re d’Ungheria impossessatosi del Regno la concedè in feudo a Giovanni Chucz valoroso Ungaro pag. 149 — Non è chiaro se la Regina Giovanna I l’abbia conceduta contemporaneamente a Roberto Sanseverino suo partigiano pag. 156 — Al tempo del Re Ladislao la possedeva in feudo Villanuccio de Vrunforti suo Consigliere — Morto costui senza successori in grado e devoluta alla Corona, il detto Re Ladislao la concedè ai nipoti del detto Villanuccio Antonio de Sancto Angelo e Federico Vrunforti pag. 157 — Nell’anno 1404 Federico Vrunforti divenuto Conte di Bisceglia la possedeva ancora pag. 157 e 158 — Si [a346] vede dopo conceduta a Carlo Ruffo, senza conoscersi l’epoca di tal concessione detta pag. 158 — Al tempo della Regina Giovanna II Giovanni Antonio Orsini la unì al Principato di Taranto detta pag. 158 — La possedè dopo Gabriele del Balzo Orsini Duca di Venosa, da cui la ereditò nell’anno 1454 Donata del Balzo Orsini unica di lui figliuola maritata con Pirro del Balzo Principe di Altamura pag. 164 e 165 — Isabella del Balzo figliuola di questi due, e maritata con Federico di Aragona figliuolo allora secondogenito del Re Ferdinando I venne ad ereditarla per essere i di lei genitori trapassati senza figliuoli maschi detta pag. 165 — Il detto Federico divenuto già Re, nell’anno 1499 vendè a Galzarano de Requesens Conte di Trivento e di Avellino detta pag. 165 — Questo contratto fu confermato da Ferdinando il Cattolico nell’anno 1504 pag. 185 — Al Conte di Trivento succedè l’unica sua figliuola Isabella che fu moglie di D. Raimondo di Cardona Vicerè di questo Regno. Li conjugi suddetti nell’anno 1510 venderono la città di Ruvo al Cardinale Oliviero Carafa, da cui passò nell’anno 1520 al Conte Antonio suo Nipote e da questi nell’anno 1528 al Conte Fabrizio di costui figliuolo, ed indi agli altri successori della famiglia Carafa che l’hanno posseduta fino ai nostri giorni detta pag. 185.

V

Vasi fittili Ruvestini — Numero grandissimo, bellezza e varietà de’ bicchieri detti Rhyton pag. 61 e 62 — Forme moltiplici de’ vasi suddetti eleganti e capricciose pag. 63 e 64 — Stile grandioso nel tempo stesso e semplice degli antichi Dipintori Ruvestini, e loro istruzione e minutezza pag. 64 a 73 — I vasi di Ruvo non peccano di oscenità pag. 77 — Osservazioni su di alcuni vasi di Canino e di Ruvo pag. 76 a 78.

Venere ed Anchise sul Monte Ida — Spiegazione di un pregevolissimo ed elegantissimo vaso Ruvestino erroneamente pubblicato da un Estero Archeologo come un vaso Nolano pag. 68 a 73.

Venosa antica città, patria del Poeta Orazio — È rimasto in dubbio se apparteneva alla Peucezia, alla Daunia, o alla Lucania pag. 50 e 51.

Venulo Ambasciatore di Turno a Diomede per dimandargli soccorso contro il Trojano Enea pag. 53 in nota.

Vescovo di Ruvo intervenuto nell’anno 1071 alla consecrazione della Chiesa [a347] di Montecasino pag. 111 e 112 — Il Vescovo di Ruvo nell’anno 1084 donò al Priore di Montepeloso la Chiesa di S. Sabino colle rendite de’ beni alla stessa annessi pag. 112 — Decime della Bagliva di Ruvo pagate dai Sovrani Angioini al Vescovo e Clero di Ruvo pag. 134.

Vescovado di Ruvo e sua antichità pag. 120 e 121 — Fu sottratto alla sua soppressione ch’era sul tappeto, ed unito al Vescovado di Bitonto pag. 121 e 122.

Vie che da Brindisi menavano a Roma descritte da Strabone pag. 10.

Virgulti che nascono nel territorio di Ruvo adatti al lavoro de’ panieri mentovati da Virgilio pag. 115.

Z

Zagarese nome di un vino pregiato che si fa in Ruvo pag. 311.

Zelanti — Nome specioso che si attribuiscono gl’intriganti che cercano mischiarsi negli affari Comunali per poter profittare dominare, ed introdurre abusi più condannabili di quelli dell’abolita feudalità pag. 317.

Zeleuco sommo Legislatore pag. 36.

Zona di Venere pag. 68 e 69.

Zurlo Giuseppe — Insigne Magistrato e Consigliere Commessario del giudizio istituito nell’anno 1797 nel S. R. C. dalla Università di Ruvo contro la Casa d’Andria pag. 247 — Fu indi delegato dal Re per decidere anche gli altri giudizj dedotti nel Tribunale della Regia Camera della Sommaria pag. 249 — Saccheggiamento della di lui casa seguito nell’anno 1799, e dispersione de’ processi delle cause di Ruvo che convenne rifargli pag. 249 e 250.

[a348]

        ERRORI. CORREZIONI.
 
PAG. 6 LIN. 24 Longe exploratiores sunt. Longe exploratiora sunt
PAG. 9 LIN. 15 } adequato adeguato
item pag. 95 lin. 17, e 27
PAG. 35 LIN. 14 Tam optima tauris colla Tam opima tauris colla
PAG. 42 LIN. 32 Ecloga CIV Cap. IV
PAG. 48 LIN. 28 diresse sua lettere diresse sua lettera
PAG. 55 LIN. 12 Oppida Canusiam, Arpi Oppida Canusium, Arpi
PAG. 61 LIN. 20 Riton Rhyton
Item pag. 76 lin. 8
PAG. 99 LIN. 9 e 24 PP. Riformati PP. Minori osservanti
PAG. 104 LIN. 31 Panni lini Pannilini
PAG. 134 LIN. 19 e 28 Lagopensile Lagopesolo
PAG. 141 LIN. 21 Tabenarios Tabernarios
Ibidem nella nota  lin. 3 Accostare insieme Accostate insieme
PAG. 149 LIN. 23 Ad Dominum Vaivodam Ad Dominum Vayvodam
PAG. 153 LIN. 23 Ch’era in attrasso di soldi Ch’era in ritardo di soldi
PAG. 175 LIN. 21 e 23 } scomparire disparire
Item pag. 275 lin. 34
PAG. 188 Lin. 14 } antrone androne
Item pag. 190 lin. 3
PAG. 216 LIN. 7 lama capraria lama cervaria
PAG. 240 LIN. 1 Transazione dell’anno 1750 Transazione dell’anno 1751.
PAG. 267 LIN. 29 era scomparso era sparito
PAG. 290 LIN. 8 sua annuenza suo consenso
Ibidem   lin. 10 annuito aderito

AVVERTIMENTO.

Alla pagina 101 verso primo, alla pagina 277 verso penultimo, ed alle pagine 315 e 316 in diversi luoghi ho usata nel plurale la parola parieti nel mascolino, per adattarmi al linguaggio della Provincia, mentre sarebbe stato più Italiano il dirsi nel plurale le parieti o le pareti.

FINE.

[b001]

RVBASTINORVM NVMORVM CATALOGVS EDIDIT FRANCISCVS M. AVELLINIVS.

[b003]

CLARISSIMO AC DOCTISSIMO VIRO IOANNI IATTA.

Mitto ad Te, vir clarissime ac doctissime, Rubastinorum numorum catalogum excerptum ex opere de Italiae veteris numismatis, cujus alteram paro editionem. Vt illum promulsidis loco, in publicum proferas, lubentissime adsentior. Quaedam tamen monenda sunt, ut ejus catalogi usus fieri possit. Primum igitur tenendum, me Rubastinorum numos ita numerasse, ut sub unoquoque numero plures quandoque complecterer, qui modulo tantum inter se paullulum differrent, ut ex. c. num. 2, qui numus modo quarti est moduli, modo quarto aliquanto majoris, modo quarti cum dimidio. Numero igitur moduli notitiam subjeci, simplicem aliquando, aliquando multiplicem. Deinde, descriptio numi duabus, quas vocant, columnis ita est distincta, ut quae a sinistris legentis est, posticae, quae a dextris, anticae typos, sigilla, litteras in area, et epigraphen indicet. Praecedit typus, qui alphabetico ordine indicatur in postica propter commodiorem catalogi usum: typi descriptioni subjiciuntur sigilla vel litterae in area; denique epigraphe quae semper ad legentis dextram exhibetur, ut omnes uno velati intuitu facile patere possint. Quum typus plane idem posticae vel anticae in sequente numo recurrit, indicavimus [b004] compendii caussa nota id. quae nempe idem typus significat. Item cum sequentis numi epigraphe a superiore non variat, dedimus ead. epigr. idest eadem epigraphe. Moduli sunt ipsissimi Mionnetani, quorum scalam, ut vocant, in tabulis repetimus. Argenteos numos nota AR. indicavimus, qua qui carent omnes sunt aenei. Numorum descriptionem sequitur 1. scriptorum vel museorum, e quibus eorum notitiam hausimus, demonstratio: 2. notulae quaedam criticae atque exegeticae. Additae tua voluntate aeneae duae tabellae seriem Rubastinorum numorum exhibent, quantum fieri potuit, ditissimam: e quibus decem ad minimum, a ceteris variantes, tuo nunc primum e gazophylacio prodeunt. Vale, clarissime ac doctissime vir, Ruborum non minus ac totius Italiae nostrae Decus ac Gloria, meque tui a prima aetate observantissimum, quod facis, amare perge. Dabam VI id. oct. e suburbano meo Leucopetrano A. R. S. MDCCCXLIII.

EXPLICATIO NOTARVM.

dm — dextrorsum.

sm — sinistrorsum.

[b005]

Typi posticae partis. Typi anticae partis.
 
1 (mod. 5½) Vide tab. I fig. 1.
 
Aquila sinistrorsum alis expansis fulmen unguibus tenet:
a sinistris in area ΡΥΨ
Caput barbatum laureatum dextrorsum.
 
2 (mod. 4, 4 +, 4½)
 
— id. sm a sinistris in area ΡΥΨ Idem dm.
 
3 (mod. 3)
 
— id. sm a sinistris in area ΡΥΨ Idem dm.
 
4 (mod. 5 —) Vide tab. I fig. 2.
 
— id. sm a sinistris in area ΡΥΨ Idem dm.; retro K.
 
5 (mod. 3)
 
— id. sm a sinistris in area ΡΥΨ Idem dm.
 
6 (mod. 3 +, 4, 4½) Vide tab. I fig. 3.
 
— id. sm in area a dextris lunula
a sinistris ΡΥΨ
Idem dm; in area ante os lunula retro Θ.
 
7 (mod. 2)
 
Clava, arcus, pharetra ΡΥ Caput imberbe laureatum dextrorsum.
 
8 (mod. 4 —, 4) Vide tab. I fig. 4.
 
Clava nodosa, et pharetra transversae dextrorsum, taenia sinistrorsum colligantur: inferius arcus nervo superius posito: supra clavam ΡΥΨ; omnia in corona e duobus lauri ramis inferiore parte dextrorsum colligatis. Caput imberbe laureatum dextrorsum.
 
[b006]
 
9 (mod. 3 —, 3, 3 +, 3½)
 
— id. supra clavam ΡΥΨ; omnia in corona ut supra. Idem dm.
 
10 AR. (mod. 1, 1 +) Vide tab. I fig. 5.
 
Fulmen quatuor alis instructum, quarum duae sursum, duae deorsum a sinistris Ρ, a dextris Υ. Bucranium adversum, infulis ex utroque cornu dependentibus.
 
11 AR. (mod. 1, 1 +) Vide tab. I fig. 6.
 
Lyra, inferiore sui parte globosa, taenia e dextris dependente. Idem supra ΡΥ
 
12 (mod. 3 —, 3, 3 +)
 
Mulier sinistrorsum stans dextra pateram, sinistra cornucopiae:
a dextris ΡΥ
Caput barbatum laureatum dextrorsum ΓΡΟΣΕΟΕ
 
13 (mod. 3 +) Vide tab. I fig. 7.
 
— id. sm a dextris ΡΥ Idem dm ΓΡΟ.ΣΕ....
 
14 (mod. 3) Vide tab. I fig. 8.
 
— id. sm a dextris ΡΥ Idem dm ΓΡΟΣΣΟΚ.
 
15 (mod. 3 —) Vide tab. I fig. 9.
 
— id. sm epigr. detrita Idem dm ΓΡ··ΣΣΟΚ.
 
16 (mod. 4)
 
Noctua ramo insistens in area AI ΡΥΒΑΣΤΕΙΝΩΝ Caput muliebre galeatum in area Κ.
 
[b007]
 
17 (mod. 3 +)
 
— id. dm in area ΛΙ, ead. epig. Caput muliebre galea oblonga, cristata, et duplici monili ornatum dextrorsum, crinibus in collum defluis.
 
18 (mod. 4 +) Vide tab. I fig. 10.
 
— id. dm in area ΛΙ, ead. ep. Caput muliebre galea oblonga cristata ornatum, crinibus ad collum defluis, dextrorsum: supra Κ.
 
19 (mod. 3 —, 3, 3½)
 
— id. dm in area ΛΙ, ead. ep. Idem supra Κ.
 
20 AR. (mod. 2)
 
Spica ΡΥ Caput muliebre galeatum dextrorsum.
 
21 AR. (mod. 2, 2½) Vide tab. II fig. 1.
 
Spica duobus foliis inferius instructa a dextris cornucopiae
a sinistris ΡΥ
Caput muliebre dextrorsum, galea oblonga et monili ornatum, crinibus ad collum defluis.
 
22 AR. (mod. 1 +, 2) Vide tab. II fig. 2.
 
— id. a dextris cornucopiae, a sinistris ΡΥ Id. dm: praeterea in galea astrum.
 
23 AR. (mod. 2) Vide tab. II fig. 3.
 
— id. a dextris cornucopiae, a sinistris ΡΥ ac deinde A majus. Idem dm sine astro.
 
[b008]
 
24 AR. (mod. 2)
 
— id. in area cornucopiae, infra T ΡΥ Caput muliebre galeatum.
 
25 AR. (mod. 1 +, 2) Vide tab. II fig. 4, 5.
 
Spica cum folio ad dextram inferius, cui impositum cornucopiae:
a sinistris ΡΥ M
Caput muliebre galea oblonga ornatum dextrorsum, crinibus ad collum defluis.
 
26 (mod. 3 —) Vide tab. II fig. 6.
 
Victoria sinistrorsum stans, dextra globulum (coronam? an pateram?) sinistra palmae ramum;
a dextris ΡΥΨ
Caput muliebre galea cristata oblonga et torque ornatum, crinibus ad collum defluis, dextrorsum.
 
27 (mod. 3 —) Vide tab. II fig. 7.
 
— id. sm a dextris ΡΥΨ Idem dm retro K.
 
28 (mod. 2 —, 2) Vide tab. II fig. 8.
 
— id. sm a dextris ΡΥΒΑ Idem dm.
 
29 (mod. 1, 1 +, 1½)
 
— id. sm a dextris ΡΥΒ Idem dm.
 
[b009]
 
30 AR. (mod 2) Vide tab. II fig. 9.
 
Vir nudus (Hercules) dextrorsum d. genu flexo, dextri pedis calci insidens, dextro brachio leonem stringit in se adsurgentem
a dextris supra ΥΡ?
Caput muliebre dextrorsum galea cristata et duplici torque ornatum, crinibus ad collum defluis: in galea mulier in piscem desinens, duorum canum capitibus ex inguine erumpentibus, dextra elata, sinistra extensa.
 
31 AR. (mod. 2 —, 2) Vide tab. II fig. 10.
 
— id. a dextris supra ΡΥ Idem dm.
 
32 AR. (mod. 2) Vide tab. II fig. 12.
 
— id. infra HOV (NOV)
a sinistris ΡΥ
Id. dm. sine torque (pone cornucopiae, supra ΔΩ).
 
33 AR. (mod. 2 —) Vide tab. II fig. 11.
 
— id. infra TOV, a dextris supra ΡΥ Idem dm.
 
34 AR. (mod. 2) Vide tab. II fig. 13.
 
— id. dm infra A,
a dextris supra ΡΥ, a sinistris M
Idem dm.
 
35 AR. (mod. 2)
 
— id. dm: in area clava. ΡΥΣΙ Idem dm.

[b011]

Scriptorum, vel museorum, e quibus numorum notitiam hausimus, demonstratio.

1) E museo cl. viri Ioannis Iatta.

2) Pembrock part. 2 tab. 26, Carellii tabulae anecdotae, Real museo borbonico tom. III tav. 32 fig. 1.

3) Carellii Ital. vet. num. pag. 38.

4) E museo cl. viri Ioannis Iatta.

5) Carell. ibid., Mionnet tom. II p. 199, qui etiam de nostro n. 3 intelligi potest, ac numo quartum raritatis, ut ajunt, gradum tribuit, atque octo francorum pretium.

6) Eckhel numi veter. anecd. pag. 129 tab. 8 fig. 22, Mus. Hedervar. tom. I pag. 159, Avellinii ad Ital. vet. num. suppl. pag. 25, Carellii tabulae anecd. Numus moduli 4½ est in museo cl. viri Ioannis Iatta.

7) Reynier précis pag. 26.

8) Pellerin suppl. I pag. 31 seq. tab. I fig. 10. Et e museo cl. Iatta.

9) Mionnet tom. II pag. 199, qui numo quintum raritatis gradum et decem francorum pretium tribuit, Real museo borbon. tom. III tab. 32 fig. 3, Carellii tabulae anecd., Sestini descrizione di alcune medaglie greche del principe di Danimarca pag. III tab. I fig. 3. Item e museo cl. Iatta.

10) Monum. inediti di antiche e belle arti pag. 40 tab. I fig. 8, Avellino opuscoli tom. II pag. 64 tab. 4 fig. 1, Carellii tab. anecd. Item e museo cl. Iatta.

11) Eckhel doctr. tom. I pag. 142, e quo transcribit Mionnetus tom. I pag. 266, qui sextum raritatis gradum, et 30 francorum pretium numi statuit, Mus. Hederv. tom. I pag. 26 tab. 2 n. 20, Millingen anc. coins pag. 40 tab. 4 fig. 10.

12) Hunter pag. 255 tab. 46 fig. 12, Minervin. del monte Vulture pag. 97, 99 tab. 3 fig. 6, Mionnet suppl. tom. I pag. 267, cum sexto raritatis gradu, et 18 francorum pretio, Carell. Ital. vet. num. p. 38 et tab. anecd., Real museo borbon. tom. III tab. 32 fig. 4.

13) E museo cl. Iatta.

14) Ex eodem museo.

[b012]

15) Ex eodem museo.

16) Mionnet descr. tom. I pag. 133 cum septimo raritatis gradu et 24 francorum pretio.

17) Carellii tabulae anecdotae.

18) E museo cl. Iatta.

19) Pellerin rec. tom. I pag. 72 seq. tab. X fig. 5, Sestini lettere prime tom. IV pag. 54 seq., Real mus. borb. tom. III tab. 32 fig. 5, Carellii tab. anecd.

20) Mus. Hedervar. tom. I pag. 26, Dumersan catal. d’Allier d’Hauter. pag. 9.

21) E museo cl. Iatta.

22) Avellinii Ital. vet. num. tom. I pag. 54, Carellii Ital. vet. num. pag. 38 et tabulae anecd.

23) Carellii tab. anecd.

24) Avellinii ad Ital. vet. num. suppl. p. 25.

25) Neumann, num. popul. tom. II pag. 115 tab. 4 fig. 6, Mionnet descr. tom. I pag. 161, suppl. tom. 1 pag. 267 cum quinto raritatis gradu et 24 francorum pretio, id. poids des med. pag. 13 (pond. 18), Carellii Ital. vet. num. pag. 38 (pond. 20), et tabul. anecd.

26) Avellinii ad Ital. vet. num. suppl. pag. 25, Carellii Ital. vet. num. p. 12 et tab. anecd.

27) E museo cl. Iatta.

28) Mionnet descr. tom. I pag. 133 cum sexto raritatis gradu et viginti francorum pretio, Avellino giorn. num. tom. I pag. 51 tab. 4 fig. 4 et opusc. tom. II p. 64 tab. 3 fig. 14, Taylor Combe mus. britann. pag. 246 tab. 12 fig. 17.

29) Carell. Ital. vet. num. pag. 38 et tabul. anecd.

30) E museo cl. Iatta.

31) Carell. tab. anecd., Millingen anc. coins pag. 9 tab. 1 fig. 9. Item e museo cl. Iatta.

32) Sestini descriz. del museo Fontana parte 3 pag. 2 et 110 tab. 1 fig. 6.

33) Sestini ib. fig. 4.

34) Sestini ib. fig. 5.

35) Avellinii Ital. vet. num. tom. I pag. 103 et supplem. pag. 25.

[b013]

ADNOTATIONES CRITICAE ATQVE EXEGETICAE IN CATALOGVM NVMORVM RVBASTINORVM.

Ad numum catalogi nostri 1 et sequentes 2, 3, 4, 5.

Memorantur hi numi a Sestinio descrizione d’alcune medaglie greche del principe di Danimarca pag. 111 et a Millingen considérat. sur la numismatique d’Italie pag. 150. Eckhelius doctr. tom. II pag. 239, Pellerinii judicium sequutus, hos et ceteros numos cum inscriptione ΡΥΨ ad Rhypas Achajae urbem pertinere sine dubio affirmavit; cum ejus gentile sit Ρύψ. Quod judicium primus impugnavi ad Ital. vet. num. supplem. pag. 25, tum quod ex Apulia quidam ex his numis saepe ad me fuerint adlati, tum quod fabrica et typi eam numorum patriam haud respuant; praesertim quum numus cum Palladis et Victoriae typis occurrat (catal. nostri n. 26 ad 29) aliquando epigraphe ΡΥΨ, aliquando ΡΥΒΑ inscriptus; et Herculis armorum typus sit quoque in vicinarum urbium, Luceriae, Hydruntique numis obvius. Visum tum mihi τὸ Ρὺψ urbis ipsius apud indigenas nomen, quam Rubos Latini dixere. Quod si Stephano gentile est Ρὺψ Achajae urbis, probare id videtur, quo se nomine Achajae Rhypenses appellabant, eodem Apulos Rubastinos non pro ἐθνικῷ, sed ad urbem ipsam denotandam usos. Ceterum esse hos Achajae Rhypenses Ruborum in Apulia conditores jure censuit clar. Millingen l. c., de qua re consulendus et cl. Iatta in opere quo de Ruborum origine et historia agit. Sententiam meam de his numis ΡΥΨ inscriptis sequuti sunt Sestinius, Carellius, Millingen ll. cc., ipse denique Mionnetus supplem. tom. IV pag. 159. Neque igitur imitandus est cl. Grotefendius, qui nuper videtur iterum ad Achajae Rhypas numos ΡΥΨ inscriptos revocare: vide ejus Blätter für Münzkunde anni 1837 pag. 107.

Ad numum cat. nostri 6.

Eckhelius et musei Hedervariani descriptor ad Achajae Rhypas pro more hunc numum quoque referunt, sed jure ad Rubastinos spectare monet Sestinius in catal. mus. hedervar. part. I castigat. pag. 31. Idem [b014] (descriz. d’alcune med. greche del Principe di Danimarca pag. III) similem citat numum e museo regis Bavariae. Fabrica numi rigidior, ita ut barbaram dicere olim haud sim veritus, quum musei regii exemplar describerem. Videtur antiquior certe ceteris Ruborum numis.

Ad numum cat. n. 7.

Soli Reynerio cognitus. An pro ΡΥ legendum ΔΥΡ vel ΥΔΡ, et numus Dyrrhachio vel Hydrunto restituendus?

Ad numum cat. n. 8.

Pellerinius hunc quoque ad Rhypas Achajae refert; et Herculis caput jure in antica agnoscit.

Ad numum cat. n. 9.

Mionnetus ad Rhypas quoque refert: numus ab eo editus quum sit 3 moduli, alius a Pelleriniano esse videtur, qui 4 est moduli. Taeniae, qua pharetra et clava colligantur, non meminit Mionnetus, neque ea conspicitur in ectypo ejus quem edidi in real museo borbonico, ubi numum Rubis vindicavi; quibus tribuunt quoque Carellius et Sestinius. In ectypo Carelliano taenia ad pharetram pertinet, et fluitans post clavam exhibetur: rectius in Sestiniano, ut et in Pelleriniano, clava et pharetra taenia colligantur.

Ad numum cat. n. 10.

Primus edidi. Ad Iovis cultum refertur, cui victima taurus.

Ad numum cat. n. 11.

Primus e Neumanni museo edidit Eckhelius, ac non sine dubio Rubastinis tribuit. Hausit ex Eckhelio Mionnetus addita dubitationis nota? Idem, ut videtur, Neumanni exemplar in Hedervarianum museum illatum, [b015] et in ejus descriptione editum, e cujus ectypo apparet lyrae partem superiorem oblique effictam, et duas veluti taenias ex inferiore ejus demitti. In ectypo Millingeniano una tantum taenia dextrorsum dependet, et sic quoque in numo integerrimo apud cl. Iatta, unde nostrum ἔκτυπον exhibuimus tab. nostrae I fig. 6. Comparat Millingenius cum ΚΑ-νουσὶνων numo eodem typo insigni. Sed hunc numum ΚΑ inscriptum nihil vetat Caelio potius, quam Canusio, tribuere; ita ut videantur Caelini et Rubastini argentei minimae formae numi et in lyrae, et in Herculis leonem sternentis typis inter se convenire.

Ad numum cat. n. 12.

Magna in legenda anticae epigraphe varietas. Apud Hunterum numus ad Achajae Rhypas quoque refertur, et epigraphe legitur ΓΡΟϹϹΟϹ. Eum mature Rubastinis vindicavit Minervinius, sed (mirum dictu!) epigraphes partem tantum sic legit ϹΕΟΕ, quod interpretatur Voco, idest, ut autumat, persice aridam! Mionnetus praeter numi descriptionem e mea petitam, aliam dat e museo, ut ait, de feu M. Beaucousin à Amiens, legitque in antica ΣΡΟϹΕοΓ (sic) et in postica. BA pro ΡΥ-BA, quum in ceteris omnibus ΡΥ tantum legatur. Carellius in descriptione habet ΓΡοϹΕοΕ (sic), at in ectypo literae sic exhibentur ΓΡΟ ϹΕ Ε. Epigraphen ΓΡοϹΕοΕ eruisse jam visus sum e collatione duorum numorum musei Capyciolatri et regii: sed serius in alio musei regii numo legi .. ΡΟϹΕΟϹ. In tanta lectionis varietate vix est ut verus epigraphes sensus erui possit, qua magistratum indicari fere est tralatitium. Possis et bis notis sermonis ἐπιχωρὶου voces aliquas exprimi non sine quadam veri specie suspicari, haud temere pro Graecis accipiendas, etsi Graecis scriptas characteribus. Quod idem dicendum videtur et de numorum Salapiae nonnullis inscriptionibus, Graecis characteribus voces, ut videtur, minime Graecas exhibentibus. Memoratur vero hic numus et ab Eckhelio doctr. tom. I pag. 142 dubitante an Rubastinis sit accensendus, et a Sestinio descrizione di alcune medaglie del principe di Danim. p. III, et a Romanellio, qui Minervinium sequitur, topogr. tom. II pag. 63, et a Raoul-Rochette memoir. de numismat. pag. 229 et 233, qui in postica urbis ipsius imaginem agnoscit libantis [b016] ritu, cui figurae (Τυχῆ πολέως) et cornucopiae accommodatur. Iam vero, dum haec prelo mandantur, nitidissimum numum similem mihi ostendit clarissimus atque amicissimus vir Nicolaus Ianuarii fil. Minervinius, in quo sine ulla dubitatione epigraphe sic legitur ΓΡοϹΕοΕ.

Ad numos cat. n. 13, 14, 15.

Numi e museo cl. Iatta omnes in epigraphe anticae variant, cujus incertam significationem incertiorem tot varietatibus reddi, cuique manifestum.

Ad numum cat. n. 16.

Numus hic solius Mionneti fide nititur. In omnibus aliis ΛΙ legitur in area posticae, non AI, ut legit Mionnetus perperam ut videtur.

Ad numos cat. n. 17, 18, 19.

Primus numi hujus editor Pellerinius Bastae Calabriae urbi tribuit, ratus τῷ K anticae Calabriam designari, et τὸ ΛΙ in postica ΛΙμην explicandum. Sed jam numum Pellerinianum Rubastinis tribuendum esse docuit Magnanus, qui illum repetit miscell. num. tom. III tab. 39 fig. 2, et post eum Mola in observat. ad Neumanni opus, editis in effemeridi enciclopediche di Napoli anni 1794 martii mensis pag. 81 (ubi perperam legit ΡΟΥΒΑΣΤΙΝΩΝ et numum similem memorat, in quo legit .. ΒΑΣΤΕΙΝ ..), Eckhelius doctr. tom. I pag. 142, Millingen considerations etc. pag. 151, Romanellius topogr. tom. II p. 30, Sestinius class. gen. prior. edit. tom. II pag. 10 et 12. In priore Mionneti catalogo (catal. d’une collect. d’empreint. p. 8) notatur numi modulus 5, per errorem, ut videtur.

Ad numum cat. n. 22.

Editum a me repetit Carellius in descriptione, in qua tamen modulus 1 + indicari videtur, neque astri in galea fit mentio; in tabulis vero duo hujus numi edita sunt exemplaria, 2 moduli, in quorum [b017] altero astrum in galea est sex radiorum, in altero octo. Millingen considerat. etc. p. 151 hos numos Metapontinorum ait esse imitationem. Similem cum astro sex radiorum in galea e museo ejusdem cl. Nicolai Minervinii scribens haec sub oculis habeo.

Ad numum cat. n. 24.

Numum a me editum excripsit Mionnetus supplem. tom. I p. 267, inopportuno addito (?), eique quintum raritatis gradum, et 24 francorum pretium tribuit.

Ad numum cat. n. 25.

Neumannus, qui hunc numum, ab Alberto Fortis dono acceptum, primus edidit, inventum ait apud oppidum Rionegro, ad Vulturis montis pedes. Numorum Tarenti, Metaponti et Heracleae typos in eo agnoscit, et dubius haeret an τὸ ΣΙ intelligendum sit Σίρις et τὸ ΡΥ magistratus sit nomen. In descriptione perperam cornucopiae omittit in ectypo conspicuum. Mionnetus ad Metapontum primum retulit, mox ad Rubastinos, quibus iam dubius tribuerat Eckhelius doctr. tom. I p. 142, magis fidenter Sestinius class. gen. prior. edit. tom. II p. 10, et ego Ital. vet. numism. tom. I pag. 54. Ei vero numo quintum raritatis gradum et 24 francorum pretium tribuit Mionnetus. Mola in iis, quas jam citavimus, observationibus ad Neumanni opus (efem. encicl. di Napoli, marzo 1794 pag. 82) etiam Rubis hos numos se tribuisse testatur, addita caussa, quod nempe saepe solis ἀρχαιούσαις literis in numis urbium nomina exprimantur. Subdit tamen in edita a Fortis epistola de X Apuliae urbibus heracleoticos argenteos hos numos dici, et τὸ ΡΥ magistratus esse vel monetarii nomen; quam rem sub judice relinquit Mola. Nos vero et Rubis numos hos accensendos plane opinamur, et τού ΣΙ, quod aliquando in his legitur, explicationem dari posse veri profecto simillimam adfirmamus. Σίλουνιον enim, urbem Peucetiorum in mediterraneis extremam, memorat Strabo geogr. lib. VI p. 283 Casaub., ubi perperam Casaubonus de Sila Bruttiorum cogitans corruptum geographi locum arbitratur. Meminit [b018] quoque Diodorus biblioth. lib. XX cap. 80, e quo discimus urbem hanc, quam Σιλβιον vocat, atque in Iapygia ponit, anno urbis 447 a Samnitibus occupatam, et praesidio custoditam, a Romanis consulibus Q. Marcio, P. Cornelio post aliquot dierum obsidionem per vim tandem captam, plusquam quinque captivorum millibus, magnaque spoliorum copia ablata; quae res urbis et praestantiam et divitias ostendit. Hujus urbis populi Silvini Plinio dicti, qui sic memorat inter ceteros Apuliae populos, et conterminos: Rubustini, Silvini. Meminit et Antoninus itinerar. pag. 121 Vesseling., qui post Venusiam collocat ad M. P. XX. Denique in tabula peutingeriana legitur corrupte Silutum pro Silvium post Rubos et Venusiam, a qua M. P. XXV (non XX) distare indicatur. Holstenius vetustam hanc Silvium eo loco positam arbitratus est, quem Gorgoglione nunc dici asserit. Sed nunquam iis in locis hoc nomen auditum. Bene igitur Pratillus veram denominationem Garagnone restituit, quo nomine nunc locus appellatur, ubi et ex antiquis ruderum reliquiis et ex inita distantiae a Venusia ratione satis constat Silvium olim extitisse: cujus rei demonstratio petenda ex ipso cl. Iatta opere, quod de veteribus Rubis scripsit. Neque audiendus nuperus Parisinus Plinii editor (Lemairianae recensionis), qui ait X M. P. a Garagnone septemtrionem versus reperiri vicum Savigliano, quem Silvio successisse e nominis affinitate colligit. Quae quum ita sint, perplacet sententia, quae in his literis ΣΙ ΡΥ Silvinos Rubastinosque memorari affirmat, vicinos populos origine, ut videtur, foedere ac ejusdem monetae communi usu conjunctos. Fuisse id Achaearum urbium proprium quodammodo institutum, docuit sane Polybius histor. lib. II cap. 37, et vel sola foederis achaici, quam vocant, numorum series probat. Fuisse vero Rubastinos nostros genere Achaeos (Rhyparum nempe colonos), uti jam diximus, plane verisimile.

Ad numum cat. n. 26.

Coronam in Victoriae dextera olim descripsi: pro ea tamen Carellius globulum adgnoscit, quod plane insolens. In integrioribus hujus generis numis musei Iatta patera potius exprimi videtur, ut in ectypis exhibuimus. [b019] Et recte quidem Victoria libans, et sacra faciens, patera indicatur: sic et saepe βουθυτοῦσα.

Ad numos cat. n. 28, 29.

Etiam in his numis ego et Taylor Combe coronam, Carellius globulum agnovit; verius patera est agnoscenda. In tabulis Carellii etiam duplici, ut videtur, torque ornatum muliebre caput apparet: in meo ectypo crines ad collum taenia religati videntur.

Ad numum cat. n. 31.

Millingen considerat. pag. 151 numo modulum dat aliquanto minorem (1). Tarentinorum typos eo exprimi observat. Ceterum similis numus fuit et apud Emmanuelem Mola, qui ejus meminit in observat. ad Neumannum loco superius citato pag. 82. Comparandi vero hi Rubastinorum numi cum ceteris formae, et metalli, et typorum caussa plane similibus, quique ad Neapolim, et Arpos spectant, quos nempe edidi Ital. vet. num. pag. 102 et supplem. p. 16, ubi conjeci Tarenti numos (quam urbem Graecarum atque Italicarum urbium, ut ita dicam, in medio positam, utrarumque emporium fuisse frequentatissimum Polybii testimonio docemur histor. lib. X cap. 1) vicinos populos ad commercii commoditatem saepe expressisse, eodem plane pacto quo Corinthiorum Pegasorum, Athenarum atque Alexandri tetradrachmorum typi plurium deinde urbium vel regum numis communes evasere. Vide quoque quae dixi opusc. tom. II pag. 48 seq. Innotuit postea similis Caelinorum numus cum epigraphe ΚΑΙ qui cum his Rubastinorum jure comparatur a Millingen anc. coins pag. 9. In simili numo apud cl. Iatta pro KAI legitur DAI. Vide nostrum bullettino archeologico napoletano anno I pag. 130, et quae notavimus supra ad num. 11.

Ad numum cat. n. 32.

In hujus numi descriptione legit Sestinius NOV, sed in ectypo exhibet HOV. Item in ectypo anticae nec cornucopiae nec ΔΩ occurrit, [b020] quod in descriptione indicatur. Patet ergo indiligenter in eo numo edendo versatum esse Sestinium.

Ad numum cat. n. 35.

Habet a me Mionnetus suppl. tom. I pag. 267 addito, ut assolet, (?): sextum raritatis gradum, ac 30 francorum pretium assignat. Recole de duplici nomine Rubastinorum et Silvinorum quae diximus supra ad n. 25.

Quaedam de Rubastinorum numis in genere.

De numis Rubastinorum in genere meminere Magnan miscell. num. tom. III pag. 6 ubi dicuntur Rubastinorum seu Rubustinorum Apuliae nummi parvi graeci antiquissimi ex aere, Sestinius lettere prime tom. II p. III qui extare eos testatur in museo Ainslieano, Eckhelius doctr. tom. I qui RRR dicit, Sestinius class. gen. prioris edit, ubi AR. et AE. extare indicat cum inscriptionibus ΡΥ, ΡΥΒΑΣΤΕΙΝΩΝ, et magistratu simplice (sic enim τό ΣΙ interpretatur) et RR ait. Musei Hedervariani descriptor tom. I pag. 26 numos indicat AE. RRR (non describit tamen nisi argenteos). Scriptor catalogi populor. urb. et regum quorum numi in museo regio off. monet. mediolanensis asservantur pag. 8 tres AE. ibi extare testatur. Sestinius in altera edit. classium gener. pag. 15 numos autonomos dicit cum epigr. ΡΥ, ΡΥΒΑ, ΡΥΨ, ΡΥΒΑΣΤΕΙΝΩΝ AR. et AE. RR iterumque subdit: Magistratus simplex. Henninio manuel de numism. tom. II pag. 81 dicuntur autonomi Rubastinorum Argentei et Aenei sextum raritatis gradum obtinere. Sestinius descrizione di alcune medaglie del museo Fontana memorat tres in eo extantes Rubastinorum. Arnethus denique decem aeneos extare ait in museo, caesareo Vindobonensi (synops. numor. graecor. etc. pag. 6). Nobis numi Rubastinorum et Silyinorum rarissimis, ceteri raris accensendi videntur. Eorum seriem pene absolutam, omniumque ditissimam vidimus apud clar. Iatta, e qua eos solos numos citavimus in catalogo nostro, qui ab editis variantes sunt visi.

[b021]

FRANCISCI M. AVELLINII
AD
CL. VIRVM IOANNEM IATTA
DE ARGENTEO ANECDOTO RVBASTINORVM NVMO
EPISTOLA

[b023]

FRANCISCVS M. AVELLINIVS CLARISSIMO VIRO IOANNI IATTA S. P. D.

Gratulor tibi, clarissime vir, Rubis tuis vel potius nostris, scientiae veterum numariae, mihi denique ipse de quantivis pretii ἀνεκδότῳ Rubastinorum argenteo numulo, quem modo in ipsa patria tua comparatum, redux inde Neapolim attulisti[278]. Vt ad praeclari hujus κειμηλίον explicationem quaedam adnotarem, quae mantissae loco catalogo meo numorum rubastinorum subtexi possent, jure tuo imperasti: neque ea in re, uti nec in ceteris omnibus, tuae de me expectationi deesse volui. Itaque pauca haec accipito, quibus, si libeat, nec meliora reperias, utaris.

Caput in antica juvenile radiatum adversum Soli tribuendum nemo, opinor, diffitebitur: quo tamen typo nunquam alias in numis suis Rubastinos usos hucusque noveramus. Sed (quod plane animadversione dignum) ipsissimo hoc Solis adverso capite numos quosdam Alexandri Neoptolemi Epirotarum regis, Tarentinorum, et Metapontinorum in antica ornatos novimus, omnes parvi moduli, uti et hic noster est. Alexandri et Tarentinorum, quos memoravi, numi fulmen in aversa parte exhibent cum epigraphe in prioribus, qui aurei sunt, vel argentei, ΑΑΕΞ, vel ΑΛΕΞΑΝΔΡΟΥ [b024] ΝΕΟΠΤΟ[279], in aliis, qui aurei tantum sunt, ΤΑΡΑΝΤΙΝΩΝ, vel ΤΑΡΑΝ.ΑΠΟΛ[280]. Metapontini vero aerei frumenti grana et caduceum in postica habent cum epigraphe ΜΕ[281].

Iam qui similes hos inter se, cognatosque urbium vicinarum, regisque, qui apud eas diu est commoratus, numos comparaverit, facile concedet non casu quodam, sed consulto potius, probabilique de caussa ad illam typorum communionem esse deventum: quae caussa nunc restat indaganda.

Et primum, quod ad eos spectat numos, qui et in anticae et in posticae typis plane similes, epigraphe tantum differunt, modo Alexandri Neoptolemi filii, atque Epirotarum regis, modo Tarentinorum nomen exhibentes, manifesta res esse videtur, cusos eos quo tempore Alexander ille, a Tarentinis accitus, in Italiam venit, contra Bruttios, Lucanosque pugnaturus[282]: qua occasione ut foedus atque amicitia Alexandrum inter et Tarentinos indicaretur, communio illa typorum est inducta[283]. Quos omnes, ut id quoque ὡς ἐν παρόδῳ moneam, radiatum nempe caput, et fulmen, ad unum eumdemque Solem, vel Apollinem, refero. Nam, ut de radiato capite taceam, fulmen Soli quoque convenire probant, non minus quae Macrobius habet de Heliopolitano deo, quem eumdem Iovem Solemque esse affirmat, fingique ait specie imberbi, leva fulmen tenentem[284]; sed et Vibiae, Fontejaeque gentis numi, in quibus [b025] vel Iovem Axurem radiato capite[285], vel Apollinem Vejovem cum fulmine[286] agnoscimus. Plura de ea re alibi notavi quum regii musei gemmam illustrarem, in qua imberbis quoque Apollo exhibetur fulmen manu tenens: quae commentatio, etsi jam typis tradita, nondum tamen e typothetarum carceribus, dicam, an antris, in dias luminis auras est producta. Et ad rem facit, quod in numis Tarentinorum quoque ΑΠΟΛ magistratus nomen prope fulmen adscribatur, quod quocumque modo expleas (Apollodotum, Apollonium, Apollodorum etc.) semper ab Apolline (Sole) derivatum se ostendit; itaque ad Solis et caput et fulmen manifesto adludit, exemplo in Tarentinorum, aliarumque urbium numis, non infrequente. Quare numi hi ceteris antiquitatis monumentis sunt adjungendi, in quibus Soli fulmen tribuitur, quod symbolum et Victoriae Tarentinos tribuisse, ex aliis eorum numis docemur[287].

Possem et eam, quam proposui, sententiam, de Alexandri Epirotae et Tarentinorum numorum inter se similitudine, etiam iis confirmare exemplis, quae e Pyrrhi, Alexandri ipsius in Epiri regno successoris, et plurium Italiae vel Siciliae urbium, in quibus haud multo post Alexandri mortem commoratus est, numis deducuntur. Sed prudens haec praetereo, ne longius haec epistola discurrat, quam propositum meum postulare videatur.

Venio nunc ad rubastinum tuum numum ἀνέκδοτον, cum eodem Solis capite in antica, variante tantum postica. Hunc etiam ajo ad Alexandri Tarentinorumque cum Rubastinis amicitiam et foedus esse referendum. Quum enim Solis caput proprius non fuerit Rubastinorum numorum typus, neque, hoc excepto, in aliis inveniatur, restat ut illum e vicinae alicujus urbis numis expresserint: haec vero, praeter Tarentum, alia non succurrit. [b026] Itaque quovis posito pignore contendo, quo tempore Alexander suos cum Solis capite adverso numos Tarenti, ut videtur, et ipsi Tarentini similes cum suo nomine signaverunt; eodem ad amicitiam cum Alexandro et Tarentinis indicandam Rubastinorum numum Solis quoque capite ornatum esse percussum. Et sane perbelle cum his consentit historia. Ait Iustinus: igitur cum (Alexander) in Italiam venisset, primum illi bellum cum Apulis fuit: quorum cognito urbis fato, brevi post tempore pacem et amicitiam cum rege eorum fecit. Quis dubitet in prima hac adversus Apulos expeditione Alexandrum vel Rubastinis amicis usum, vel saltem post initam cum eo pacem, quem regem Apulorum nominat Iustinus, cum iis quoque in amicitiam venisse? Quae res opportune a Rubastinis, illato in eorum numos Solis capite, quo utebatur Alexander ipse, est celebrata. Eo vero typo, ut hoc quoque addamus, Alexander ipse designatur, qui, uti oriens Sol (ab ortu enim in Italiam venerat) videbatur tunc Italiotis adfulgere, eos a barbarorum servitute vindicaturus.

Eamdem vero, quam Rubastinus tuus, explicationem recipiunt et, quos memoravi, parvi aenei Metapontinorum numi cum eodem Solis capite in antica. De his haec addit Eckhelius, postquam Alexandri numum describit: in museo caesareo est aeneus cum simillimo Solis capite cusus a Metapontinis Lucaniae, qua in regione Alexander stolido suo cum ejus tractus barbaris bello intentus diu versatus, ex qua ibi commoratione forte typi in utrorumque numis communis caussa petenda. Quam vellem meminisset tum vir summus Iustini diserte de Alexandro dicentis: gessit et cum Bruttiis Lucanisque bellum: tum et cum Metapontinis, et cum Pediculis, et Romanis foedus amicitiamque fecit. Quapropter receptae a Metapontinis in numis suis Solis (Alexandri) imaginis caussa non ejus in eorum regione commoratio, sed magis foedus atque amicitia fuit, plane ut Rubastinis. Adde quod usque ad belli exitum Epirotas Metaponti moratos probat Livius, quum narrat mortui Alexandri ossa a barbaris. Metapontum ad hostes (Epirotas nempe) remissa[288].

[b027]

Certus inde jam colligi posse videtur numorum, de quibus locuti sumus, Alexandri, Tarentinorum, Rubaslinorum, Metapontinorumque συγχρόνισμος. Quum vero Alexander nostris in regionibus commoratus sit annis A. C. CCCXXXIV (urbis conditae 419) ad CCCXXXI (u. c. 422), ut rationes init Nicolayus[289], intra hos annos concludenda quoque est numorum eorum origo: neque eam aetatem respuit artis elegantia, qua nitent: immo plane iis temporibus convenire facile deprehenditur.

Restat nunc ut nonnulla quoque de postica rubastini numi ἀνεκδότου adnotemus. Exhibet ea praeter sollemnes illas ἀρχαιούσας litteras ΡΥ, duplicem lunulam, cum globulis nonnullis, et solitarias praeterea litteras ΔΑ. Imitatos et hac postica esse Rubastinos Tarentinorum monetam plane constat, quum et in hac lunulae duae decussatim positae cum globulis quibusdam occurrant: quem typum nuper ad bimaris Tarenti portus sinusque indicandos trahi posse censuit amicissimus vir cl. Fiorellius[290]. Acutum id quidem, sed ad Rubastinorum numum explicandum plane inopportunum. Suspicor lunulas potius ad numi valorem referendas, qui fuisse videtur diobolaris. Nam et in aeneis Rubastinorum (obolis?) simplex in area lunula signatur. Vide catalogi nostri n. 6. Et sane Fiorellius ipse idem fere conjecit de pluribus spicis, de Dioscuris, de duabus tribusve lunulis, et de hordei grano bifariam diviso in Metaponti numis[291], plaudente cl. Cavedonio[292]. Exstant Heracleae Lucaniae aenei minimae formae numi cum Herculis ad aram stantis typo: sunt et duplo majores simillimi cum duplice Hercule: quod cui non mirum videatur, vel joculare fortasse, et cum Plautinis illis comparandum:

[b028]

Iam hoc Herculis est, Veneris fanum quod fuit.

Ita duo destituit signa hic cum clavis senex[293].

Si cogites tamen duplum esse numi cum duplice Hercule valorem, simplicem cum simplice, statim intelliges nullum in re adeo aperta difficultati locum esse. Haec vero si recto stant talo, globulos lunulis adjunctos non ad valorem numi, sed ad aliud quid indicandum pertinere, manifestum videri jure colligas.

Litteras denique ΔA magistratus vel monetarii ἁρχαιούσας esse pro recepto more asserimus: neque id a Rubastinorum consuetudine abhorret, qui et in aliis numis (vid. cat. n. 32, 33, 34) alias quoque litteras ad magistratus vel monetarii nomen indicandum expressere. In earum tamen numero non esse τὸ ΣΙ (quo Silvium vicina urbs indicatur) jam alibi diximus, et tu probasti.

Conjecturam vero de litteris hisce ΔA adscribere hoc loco non piget: quanti ea sit facienda, tu videris. Constat e Livii, aliorumque testimoniis, et ex ipsis Arpanorum, Salapinorumque numis Dasii, vel potius ΔAΞΟΥ nomen tota Apulia frequens, et ab iis praecipue usurpatum, qui regia quadam potestate in iis urbibus imperitabant, nobilissimoque Diomedis genere satos se esse jactabant[294].

Quid ni igitur et de Dazo quodam Rubastino cogitemus? praesertim quum numulus exstet argenteus cum typo Herculis leonem sternentis, et epigraphe ΔΑΞΟΥ, quem quum ederem, propter hanc epigraphen Arpis tribui: typus vero et Rubastinis convenire potest. Adde quod, Iustino [b029] teste, Brundisium quoque Aetoli, qui Arpis commorabantur, ab Apulis repetebant, quasi a Diomede conditam[295]. Rubos tamen occupasse, nemo unquam veterum memoriae prodidit; et ipse Iustinus, qui foedus Alexandri, uti jam diximus, cum Pediculis memorat, videtur hujus populi δημοκρατίαν agnoscere. Praestat itaque litteras ΔΑ rubastini numuli, quae et in Tarentinis quibusdam occurrunt, de quovis alio magistratus nomine interpretari.

Antequam tamen manum, ut ajunt, de tabula, aureum denique, si Diis placet, Rubastinorum numum repertum tibi nuncio. Editum illum inveni in opere quod titulo nouvelle galèrie mythologique praeteritis annis edere aggressus est cl. atque amicissimus collega Carolus Lenormantius tab. XIX fig. 9. Typorum et epigraphes ratione plane hic numus convenit cum n. cat. mei 25 tab. II fig. 4, 5, Silvinorum Rubastinorumque nominibus ornato. Aureum vero esse diserte in tabula Lenormantiana affirmatur. Quod si verum, jam Rubastinos tuos, adjuncto Silvinorum nomine, aurea quoque usos moneta, in compertis habemus. Sed, ut rem ingenue dicam, molesta nascitur suspicio, scalptoris forte incuria in ea tabula scriptum fuisse OR pro eo, quod scribere debebat, AR. Quod dubium ex ipso cl. auctoris textu diluere non potui, quum operis multis ab annis interrupti textus ad eam usque tabulam explicandam non pervenerit. Quare rogatum publice volumus cl. Lenormantium, ut hanc nobis sollicitudinem abstergat, aureique hujus, si vere exstat, Rubastinorum Silvinorumque numi fidem, atque αὐθεντίαν gravissimo suo testimonio det probatam, et quo ille in thesauro asservetur, benignissime doceat.

Numi cat. n. 30 et seq. anticae caput, uti et similium Tarenti, Heracleae, Caelii, Palladi tribuendum ea de caussa opinatus est cl. Fiorellius (osservazioni sopra talune medaglie p. 19), quod ea patrocinio suo Herculem semper foverit. Et sane in vasis quoque pictis saepissime Herculi cum leone pugnanti adstituitur. Klausenius vero (Aeneas und die Penaten tom. I pag. 428) Minervam Salentinorum foederis Deam ait esse praecipuam, ideoque in numis vicinarum urbium (Vxenti) Herculem in aversa facie cum [b030] cornucopiae exhiberi (in Rubastinis est cornucopiae et spica, v. n. 21 seqq.) ad exprimendam felicitatem Deorum benevolentia hominum viribus partam, quae deos ipsos anteverterint. Eam vero fuisse rubastini agri felicitatem, ut populum ad summas olim divitias, et ad nobilissima quaeque studia capessenda provexerit, jure tu e praestantissimis ipsis rubastinorum tuorum artium monumentis probatum dedisti. Idem et Tritonis signum (sic vocat quae nobis Scylla dicitur) in galea Minervae scalptum ad ejus deae in mare potestatem refert (ib. pag. 429).

Sed jam sat prata biberunt. Vale, vir clarissime, meque, ut facis, ama.

Scripsi Neapoli V Kalendas septembres A. R. S. MDCCCXXXXIIII.

[c001]

HISTORIA DEL COMBATTIMENTO

De’ tredici Italiani con altrettanti Francesi, fatto in Puglia tra Andria, e Quarati

E la vittoria ottenuta da gl’Italiani nell’anno 1503 à 13 di Febraro,

Scritta da Autore di veduta, che v’intervenne

In Napoli per Lazaro Scoriggio. 1633

RISTAMPATA DA GABRIELE PORCELLI 1844.

[c003]

AL BENIGNO LETTORE.

Di questo combattimento tra tredici Francesi, et altrettanti Italiani, e della vittoria ottenuta da gl’Italiani nell’anno 1503 trattano Gio: Battista Cantalicio Vescovo d’Adri, e Penna nella sua Consalvia, de bis recepta Parthenope, scritta in verso heroico lib. 2. Francesco Guicciardini nel lib. 5. dell’Historia d’Italia, Paulo Giovio nel lib. 2. della vita di Consalvo di Cordova Gran Capitano, Mambrin Roseo da Fabriano nell’aggiunta al compendio dell’Historia del Regno di Napoli lib. 8. Girolamo Zurita nell’Historia di Ferdinando Re Cattolico nel 5. vol. delle sue opere lib. 5. cap. 12, et altri. Però detti Autori ne scrivono con molta brevità, e non raccontano tutti i particolari, che sono riferiti in questo libretto, anzi vi è qualche diversità fra di loro, et alcuni di essi fanno errore ne’ nomi, e ne’ cognomi, e nelle patrie di alcuni di detti tredici Italiani, che combatterono, il che tutto è avvenuto per non havere detti scrittori saputo l’intera verità delle cose, che succederno, essendo stati tutti forastieri del Regno, fuorchè il Cantalicio, che scrisse questo fatto brevissimamente in versi, però si ha da dare in tutto fede a quel che si riferisce in questo libretto, per essere stato composto, e stampato in Napoli nell’istesso anno, [c004] che il fatto succedè, vivendo tutti quegli che v’intervennero, ove anco si riferiscono tutte le lettere, e le scritture, che vi si fecero, dalle quali appare la verità del fatto, e quanto passò in quella gloriosa impresa, scritto de persona, che non solo v’intervenne, ma fù gran parte di quella, havendo copia di tutte le scritture, che vi furon fatte.

[c005]

IL COMBATTIMENTO delli tredici Italiani, e tredici Francesi fatto in Puglia tra Andria, e Quarata.

E la vittoria ottenuta per gl’Italiani nell’anno 1503 à 13 di Febraio.

Essendosi deliberato dal Cattolico Ferrando di Aragona Re di Spagna, e dal Cristianissimo Luigi Re di Francia per alcune loro raggioni privar del Regno il Serenissimo Federico d’Aragona Re di Napoli, per conseguir lor intento, de commun consenso destinorno dui eserciti alla volta di tal Regno, l’uno di Spagnuoli per la parte di Puglia sotto il governo di Consalvo Ferrando; l’altro di Francesi per la parte di Terra di Lavoro, sotto Monsignor d’Obegni Generali Capitani, i quali havendo la fortuna propitia, con poco, anzi nullo fastidio, s’insignorirono dell’una, e l’altra parte, e volendosi dopoi dividere il Regno tra loro, non essendo concordi, furon necessitati venire a rottura di guerra: Donde trovandosi le cose della fortuna in tal modo, et il Regno da tal guerra molto vessato, la maggior parte de’ Baroni del Regno, e de’ Cavalieri Italiani aderirono, e s’accostarono alla parte Spagnola, e mentre che le agitationi della guerra andassero pari, ne la fortuna havesse ancora cominciato ad inclinare ne dall’una, ne dall’altra parte; standosi l’esercito de Spagnuoli in Barletta, e quel de’ Francesi in Ruvo, et altre terre di Puglia, avvenne che un giorno trovandosi Carles de Togues titolato Monsignor de la Motta, Francese in Barletta, in casa di D. Diego di Mendozza Capitan nell’esercito Spagnuolo, in presenza di quello, e di D. Pietro di Crigno Prior di Messina, e d’Indico Lopez Hiala, e d’alcuni altri gentilhuomini Spagnuoli, havendosi cenato, com’è solito de’ Cavalieri, il detto Carles la Motta proruppe ad alcuni raggionamenti di guerra con l’Indico Lopez, e tra gli altri loro discorsi devennero a raggionamento del valore delle genti d’armi Italiane, e domandando lo [c006] Indico Lopez alla Motta, come tra Francesi esistimavano l’Italiani. Rispose la Motta, che loro non tenevano l’Italiani in alcuna esistimatione, e detto Indico Lopez disse, che havevano in Barletta buona compagnia di gente Italiana; donde la Motta rispose, che lo credeva bene, però che di gente Italiana essi non facevano conto niuno, perchè l’haveano abbattuti più volte, e che essi Francesi, quando fusse accaduto venire a giornata di battaglia, haveriano fatto stare l’Italiani, ch’erano in loro compagnia da banda a vedere; e così confortava li Spagnuoli circostanti, che si havesse a venire a giornata di combattere con Francesi, nell’ordine dell’esercito dovessero ponere l’Italiani avanti, perchè se l’Italiani havessero fatto il dovere, sariano stati ammazzati da Francesi, e si havessero rivoltati a fuggire, si dovessero ammazzare da Spagnuoli. Al che rispose l’Indico, che essi tenevano l’Italiani in buona riputazione, et in quelli confidavano, come alla propria natione Spagnuola, certificando, che l’Italiani, ch’erano in Barletta tenevano assai gana, e desiderio d’affrontarsi, et intropparsi con Francesi; e che confirmava, che haveriano fatto lo dovere, e che per uno Italiano a sodisfation dell’honor d’Italia era stato scritto a Francesi di combattere, e quelli non haveano risposto. Replicò la Motta, e disse che non lo credeva, ma pure se fusse scritto a Ruvo, che s’haveriano trovati non solamente uno, ma dieci Francesi, che haveriano combattuto con Italiani. E così lo Indico rispose, che certificava la Motta, et ogn’altro Francese, che sempre, che fossero trovati dieci huomini d’armi Francesi, che havessero voluto combattere con Italiani, che esso Indico Lopez prometteva trovare dieci huomini d’armi Italiani che haveriano combattuto con altrettanti Francesi. Alche rispose la Motta che esso prometteva sua fè, che gionto ch’era in Ruvo, trovaria diece huomini d’armi Francesi, che combatteriano con tanti altri Italiani. Replicò medesimamente Indico Lopez ch’esso prometteva sua fè, di trovare dieci huomini d’armi Italiani, che haverian combattuto con tanti altri Francesi, e quando la Motta havesse trovati detti combattenti Francesi, l’havesse avvisato, alche s’offerse la Motta assai volentieri, perchè dubitava, che dicendo tal cosa in Ruvo, se burlarian de’ fatti suoi. Ma perchè tali parole erano state dopo cena, determinarono, che la matina [c007] seguente di ciò si parlasse; e pervenuti alla matina seguente, la Motta essendo in procinto di partire da Barletta per tornar in Ruvo, disse ad Indico Lopez, se stava nel medesimo proposito del raggionamento della sera passata, al qual rispose Indico Lopez, che ben si trovava in tal proposito, e quel replicò, che non saria mancato alla promessa, e così la Motta si partì da Barletta, e si condusse in Ruvo, e dopoi scrisse lettere ad Indico Lopez del tenor seguente.

»Signor Indico Lopez, a vostra buona gratia mi racomando. Mi ricordo ben, che V. S. mi disse, e promise sua fè, di trovare dieci huomini d’armi Italiani, che combattessero con dieci huomini Francesi, e così io promisi mia fè a V. S. di trovar l’huomini d’armi Francesi per il medesimo effetto, quai molto facilmente hò trovati, e se il numero de dieci vi paresse poco, ne troverò più, si quella mi scriva quattro, o cinque giorni avanti, et il luogo, et il dì destinato, tutto risolutamente, e con effetto senza che si ponga il fatto in lungo. E se loro dimandassero querele, noi non volemo combattere, se non sotto justa querela; e si a loro piacerà, ciascuno porterà cento corone, e chi guadagnarà la vittoria, riporterà in premio le cento corone, e le spoglie, cioè l’armi, et i cavalli: e questa serà la querela, a fine che chi perde, se ne vada alla leggera. Altro non scrivo, son sempre al piacer di V. S. Da Ruvo a 28 di Gennajo 1503. Di V. S. Servitor con mio honor — La Motta«.

Le sopradette lettere della Motta, fur consegnate per lo Trombetta Francese ad Indico Lopez, al quale parve far intendere ad alcuni Italiani, quanto per la Motta con parole, e con scritto gli era stato esposto, e consultandosi com’era debito, le predette occorrenze con Prospero Colonna, e quel considerando in tal causa doversi procedere con i convenienti modi, fece aggregation de Cavalieri, esponendo ogni particolarità delle cose predette, quali furono disputate, e discusse con ogni oportuna diligenza, tanto circa le parole prolate per la Motta, quanto anco circa la continentia della sua lettera. E benchè per le parole usate per la Motta, s’havesse potuto fondare giustissima querela per gl’Italiani, pure per estinguere ogni alteratione, ch’era per succedere con Spagnuoli, donde haveriano potuto emergere pernitiose dissentioni, [c008] et ancora perchè la Motta escludeva espressamente non voler combattere, se non sub justa quærela, proponendo quella delle cento corone, e le spoglie: e non ostante che si conoscesse apertamente detta querela non esser degna, ne conveniente a Cavalieri; pure ad evitare ogni imputatione di subterfugio, si concluse, che destramente, e con attitudine s’attendesse a pigliar la difensione, tenendosi ferma speranza, se ne dovesse ottenere gloriosa vittoria, secondo infinite volte havevano conseguito altri Italiani provocati da Francesi, per lo che molti Italiani supplicaro, e fero instanza per intrar a tal impresa; Ma perchè Hettorre Fieramosca li giorni passati havea pigliato la querela contra Monsignor Frumet Luogotenente del Vicerè Francese, confutando la particola delle sue lettere, nelle quali diceva non doversi più fidar, nè d’Italiani, nè de Spagnuoli, e riprobandolo, come mendace, havendo prorotto così nel suo scrivere, e lo Monsignor di Frumet non havea risposto al detto Hettorre, et attento che nel progresso del parlare de la Motta con Indico Lopez era fatta mentione di tal materia, per le antedette cause, et altri degni respetti, fu determinato si concedesse la predetta defensione al detto Hettorre Fieramosca, e suoi compagni, e che si rispondesse a la Motta per lo Indico Lopez come ad esso apparteneva, e per lo prenominato Ettorre nel modo che segue.

Lettera d’Indico Lopez a la Motta.

»La Motta. Ho ricevuto vostre lettere date in Ruvo a 28 del presente mese di Gennajo, per le quali scrivete del combattere di dieci Francesi contra diece Italiani. Rispondo che quanto contiene in dette vostre lettere, l’ho fatto intendere ad alcuni Italiani, e perchè quelli per loro lettere scrivono a voi sopra tal materia pienamente, però non mi estendo in altro, persuadendomi fermamente, che troverete, come ho detto, l’Italiani ferventissimi a sodisfare al loro honore. — Da Barletta a 29 di Gennaro 1503 — Di V. S. — Indico Lopez«.

[c009]

Lettera di Hettorre Fieramosca a la Motta.

»La Motta. Lo Signor Indico Lopez ha fatto intendere ad alcuni Italiani haver ricevute lettere vostre de’ 28 del presente mese di Gennaro, per le quali dicete haver trovati dieci huomini d’armi Francesi per combattere con diece huomini d’armi Italiani, cento corone, e le spoglie, cioè l’armi, e cavalli. Vi dico, che quantunque questa non sia querela conveniente à Cavalieri; per farvi conoscere come gl’Italiani son huomini, che amano la conservation dell’honor loro; Io, e diece altri huomini d’armi Italiani, che faranno il numero d’undeci, semo per difendere dette cento corone, armi, e cavalli, e sodisfare alla requisition vostra. Declarate dunque luogo comune con uguale segurtà, e la giornata, avisando tre dì prima, a tale possiamo comparire a tempo — Da Barletta a’ 29 Gennaro 1503. — Hettorre Fieramosca«.

Lettera de la Motta ad Hettorre Fieramosca.

»Hettorre Fieramosca. Ho ricevuto vostre lettere scritte a 29 di Gennajo, per le quale mi scrive che il Signor Indico Lopez ha fatto intendere ad alcuni Italiani haver ricevuto lettere mie alli 28 del presente mese, nelle quali io scriveva, haver trovati diece huomini d’armi Francesi per combattere con dieci huomini d’armi Italiani, cento corone, e le spoglie: Io ho scritto le lettere al Signor Indico Lopez, perchè sua Signoria, trovandomi loco in Barletta, mi parlò che haveano de huomini da bene Italiani, gli risposi che lo credeva bene, e così mi disse che haveano disfidato Monsignor di Frumet con dieci huomini d’armi Francesi, gli risposi che se havessero mandato qua in Ruvo, io li haveria trovati, e mi disse se io mi confidava trovare diece Francesi che sua Signoria si confidava trovarne diece huomini da bene Italiani. Io li promisi trovar diece huomini da bene Francesi, come ho fatto: e toccando alle cento corone, cavalli, et armi che mi scrivete non sia sufficiente querela à Cavalieri: Io [c010] scrissi al Signor Indico Lopez, che noi non volevamo combattere, se non sotto iusta querela, e così per non havere altra querela al presente, scrissi a sua Signoria che piacendo a loro, combatteriamo cento corone, e le spoglie per ciascuno: In quanto mi scrivete, che Italiani amano la conservatione del loro honore, e che voi, e dieci huomini d’armi che faranno undici, siete per difendere le dette cento corone, armi, e cavalli, credo siate huomini da bene, e che le difenderete bene, e che accettiate il combattere, piace assai a me, et a miei compagni; e così noi da nostra banda siamo per difender l’honor nostro, le cento corone, armi, e cavalli. Quanto mi scrivete, lo luogo sia comune, e di ugual sicuritate: Lo luogo sarà fra Andri, e Corato. Lo dì sarà da hoggi a dodici dì, che saranno li undici di Febraro. Et aviserò tre dì avanti che sarà all’otto del detto, e vi manderò li nomi delli gentilhuomini, che combatteranno, e così mi mandarete voi, e venuti li nomi, mandaremo nostri ostaggi in Andri, e li vostri manderete in Corato per ugual securità di tutte due le bande. Da Ruvo all’ultimo di Gennaio 1503. E perchè sono stato pregato da due altri Gentilhuomini, che voleriano essere del combattere, vi sforzerete trovarne due altri, che saranno tredici per banda — La Motta«.

Sopra le particole delle premisse precedenti lettere, fu tra li Cavalieri Italiani disputato, si incumbeva doversi reprovare Carles la Motta, considerando che le parole da quello dette in vilipendio d’Italiani nel raggionamento fatto con lo Signor Indico Lopez, dissentivano dal tenor delle sopradette particole, e dimostravano disditta: E benchè per tal contradittione la Motta s’havesse potuto reprovare, pure per haversi accettata la querela per esso proposta, e per le cause allegate nella prima discussione, e per molti altri rispetti, fu pretermisso estendersi in questo altrimenti: E similmente fu ventilata l’altra particola delle predette lettere de la Motta, in la querela pretendeva voler difendere l’honor loro, cento corone, armi, e cavalli, perchè alcuni Cavalieri esperti rivocavano in dubio, se la Motta in aumento di sue raggioni potria subintrare alla difensione, e trahere quella a loro parte: Et essendo detti, [c011] e replicati molti argomenti sovra tal materia, finalmente fu concluso, che la difensione per nissun modo competeva a la Motta, havendo esso proposto la querela, e dimostrava nelle sue agitationi tener luogo di Procuratore.

Lettere d’Hettorre Fieramosca responsive a la Motta.

»La Motta. Ho inteso quanto scrivete per vostre lettere dell’ultimo del prossimo passato mese di Gennajo, per le quali tra le altre parti d’esse lettere replicate sovra il combattere de’ vostri compagni Francesi, contra altrettanti Italiani, che per non aver altra querela, havete scritto al Signor Indico Lopez, che combatterete cento corone, e le spoglie per ciascuno, e che avete piacer assai, che io, e miei compagni habbiamo accettato il combattere, e che lo luogo commune serà per lo campo infra Andri, e Corato, e che lo dì serà all’undici di Febraro, e che avisarete all’otto di detto mese, che serà tre dì avanti, e manderete i nomi delli Gentilhuomini che combatteranno, e così io habbia a mandare i nomi de’ miei compagni a voi, e che havuti li nomi, manderete li ostaggi vostri in Andri, e che noi habbiamo a mandare li nostri in Corato per ugual sigurtà di tutte le due bande. Rispondo; Io e miei compagni havemo accettato di buona volontà la querela che voi proposta avete, quantunque non sia querela conveniente à Cavalieri, per farvi solo conoscere come gl’Italiani amano la conservation del loro honore, e così stamo parati di sostentare di buon animo, e difendere le cento corone per ciascuno, armi, e cavalli: E quando haverete mandati i nomi delli huomini, che pretendono combattere, io manderò a voi i nomi de’ miei compagni, e delli ostaggi che mandarete in Andri, similmente corrisponderemo in mandar li nostri in Ruvo, e non in Corato per esservi la peste; avvertendovi, che bisogna specificatamente nominare il luogo comune infra Andri, e Corato: e se oltra la securtà dell’ostaggi vi parerà che lo campo si assicuri per li superiori, declaratelo, e provedete dal canto vostro, che noi provederemo dal nostro. Quanto alla parte che scrivete, esser stato pregato [c012] da due altri Gentilhuomini, che vorriano essere del combattere, e che io ne debbia trovar due altri, che saranno al numero di tredici per banda. Rispondo che siamo al numero di tredici, secondo scrivete, e pronti ad ogni vostra requisitione — Da Barletta a 2 di Febraro 1503 — Hettorre Fieramosca«.

Replicatione de la Motta ad Hettorre Fieramosca.

»Hettorre Fieramosca. Ho inteso quanto per vostre lettere delli 2 di Febraro ne scrivete, replicando, che voi, e vostri compagni di buona volontà avete accettata la querela per me proposta; replicando ancora, non essere stata conveniente a Cavalieri; ma per farne conoscere, che gl’Italiani son huomini, che amano la conservatione del loro honore, che state parati a sostentar di buon animo le cento corone per ciascuno, le armi, e cavalli: Vi rispondo, senza più replicar, che io, e miei compagni siamo similmente paratissimi a difendere le nostre cento corone, arme, e cavalli per ciascuno da nostra banda, così bene come voi. In quanto a quello che mi scrivete, che quando io haverò mandato i nomi de’ Gentilhuomini, che pretendono combattere con voi, che manderete i nomi de’ vostri, io vi manderò li nomi Lunedì prossimo futuro, e li ostaggi li manderò Domenica, che serà oggi ad otto in Barletta, e voi li manderete in Ruvo, per ugual suspitione della peste, secondo in vostre lettere scrivete. Del specificare, e nominare il luogo proprio, serà come ho scritto fra Andri, e Corato, la dove combatterono Baiardo, e D. Alonso. Quanto mi scrivete, se oltre la securtà degli ostaggi mi paresse che ’l campo si assecurasse per i Superiori, che lo declari, e proveda da mia banda, che voi provederestivo dalla vostra. Noi manderemo li ostaggi, e manderemo l’assecuramento de Monsignor de la Palizza nostro Superiore in questa banda, e promettemo la fè nostra, che da nostra banda non ci serà inganno, ne soverchiaria alcuna, ne da questa gente d’armi che sono da qua sotto lo governo di Monsignor de la Palizza, ne di tutti gli altri che sono al servizio del Christianissimo Re in questo Regno: E similmente ne manderete voi l’assecuramento [c013] de’ vostri Superiori, e prometterete la fè vostra, non c’esser inganno, ne soverchiaria alcuna delle genti che servono li Cattolici Re, e Regina in questo Regno. Del numero delli tredici, ne scrivete, ne piace. Del dì del combattere, che vi havemo scritto, che saria stato alli undici del presente, non pensavo fosse stato il Sabbato, nel qual giorno alcuni di nostri hanno divotione, e desiderano guardarlo, e così la Domenica communemente la guardaremo tutti; si che non dispiacendovi, serà Lunedì, che seranno li tredici del presente mese di Febraro. Ne declararete quanti Giudici volete siano per banda, per vedere, e come volete che vengano armati, o disarmati, il tutto ne darete per aviso — Da Ruvo a 5 di Febraro 1503 — la Motta.

Lettere de la Motta ad Hettorre Fieramosca.

»Hettorre Fieramosca. Perchè, come vi ho scritto, hoggi che è Lunedì, mandarvi li nomi de’ Gentilhuomini, che seranno del nostro combattere, ve li mando, e sono questi — Marco de Frange — Giraut de Forzes — Gran Jan de Aste — Martellin de Sambris — Pier de Ligie — Jacobo della Fuontiena — Eliot de Baraut — Giovan de Landes — Saccet de Saccet — Francisco de Pisa — Jacopo de Guigne — Nanti de la Frasce — Carles de Togues, detto Monsignor de la Motta — Et avisarete per vostre lettere, e mandarete i nomi de’ vostri, e de quanti ostaggi volete che mandiamo da vostra banda, e ne manderete al presente la sicurtà dell’ostaggi, acciò possano venire sicuramente, e per quello ne porterà sicurtà de’ nostri, ve manderemo la sicurtà de’ vostri ostaggi, e per loro la sicurtà de vostra banda, e senza altro scrivere, lunedì che saranno li tredici del presente, ne troverete nello loco nominato nelle mie lettere — Da Ruvo a 6 di Febraro 1503 — la Motta.

[c014]

Lettere di Hettorre Fieramosca di Capua.

»La Motta. Ho ricevuto due vostre lettere date in Ruvo a cinque, et a sei del presente, nelle quali havete mandato li nomi delli huomini pretendono combattere, e scrivete la prorogatione della giornata alli tredici del detto mese, e che manderete i vostri ostaggi domenica prima che verrà, per quelli manderete la sicurtà di tutta vostra banda, e che io, e miei compagni habbiamo a mandare i nostri ostaggi in Ruvo, per evitare la suspition della peste, e con loro la securtà de nostra parte, e specificate lo proprio loco infra Andri, e Corato, dove combatterono Don Alonso, e Baiardo, e che oltre li ostaggi, manderete lo assecuramento di Monsignor della Palizza vostro superiore, e promettete la fè vostra, che da vostra banda non serà inganno, ne soverchiaria alcuna, ne da questa gente d’armi che sono quà sotto lo governo di Monsignor della Palizza, ne da tutte le altre genti, che sono al servitio del Cristianissimo in questo Regno: E che similmente noi debbiamo mandare lo assecuramento, e nostra fè, che non ci sia inganno, ne soverchiaria alcuna de tutte le genti d’armi delle Cattoliche Maestà Re, e Regina in questo Regno. Et oltre di ciò dicete, che s’habbia a declarare quanti Giudici si hanno da eligere per banda, e che per quelli porteranno la sicurtà de’ vostri ostaggi manderete la sicurtà de’ nostri. E finalmente concludete, che senz’altro scrivere, lunedì che saranno i tredici del presente, vi troverete nel luogo nominato in vostre lettere; et io volendo corrispondere a vostre requisitioni, vi mando particolarmente i nomi de’ miei compagni che siamo al numero di tredici, e son questi — Guglielmo d’Albamonte — Mariano d’Abignenti da Sarno — Francisco Salamone — Giovanni Capoccio da Roma — Marco de Napoli — Giovan de Roma — Lodovico d’Abenavole de Capua — Hettorre Romano — Bartolomeo Fanfullo — Romanello — Riczio de Parma — Moele de Paliano — Fieramosca di Capua — Et anco mandamo guidatico, et assecuramento per li ostaggi vostri, che possano venire in Barletta, e per lo presente (come havete offerto) mandarete simil guidatico, et assecuramento per li ostaggi nostri, che si [c015] possano condurre in Ruvo: Et in lo modo, et ordine, che manderete li ostaggi vostri in Barletta con la sicurtà di Monsignor de la Palizza, e de tutta vostra banda, mandaremo nostri ostaggi in Ruvo, con lo assecuramento del Signore Don Diego de Mendozza, e de tutta nostra banda: e promettemo nostra fè, che da nostra banda non sarà inganno, ne soverchiaria alcuna da questa gente d’armi, nè da tutte altre che sono al servizio delle Cattoliche Maestà in questo Regno. Dell’elettione delli Giudici, sapete che bisogna, siano huomini per tal officio, di conditione, prattichi, et esperti, però quando avisarete distintamente la elettione da voi fatta, io, e miei compagni provederemo a tale effetto oportunamente, e vi avisaremo de nostra elettione, et avertite che gli huomini, che han da venire a vedere, siano di ugual numero così dalla parte vostra come dalla nostra, e se deve declarar, et determinar per li Superiori, che assecurano il campo. Potrete dunque far opera, che Monsignor de la Palizza habbia a significarlo al Signor D. Diego de Mendozza, e per commune loro disposizione s’habbia a declarare quanti han da venire dall’una, e l’altra parte. Che finalmente concludeti, che senz’altro scrivere, Lunedì che saranno li tredici dell’instante mese, vi trovarete al luogo destinato dalle vostre lettere: Vi rispondo, che in la medema forma, io, e miei compagni, compareremo con li cavalli copertati, e con le persone nostre armate de tutt’armi, con lanze, spade, stocchi, et altre armi manuperabili, a sostentar, e difendere, secondo ho scritto per altre mie lettere — Da Barletta a dì 7 di Febraro 1503 — Hettorre Fieramosca«.

E ’l tenor dell’assecuramento del Signor D. Diego de Mendozza siegue in tal modo.

»Don Diecus de Mendozza Serenissimarum, et Catholicarum Majestatum armorum Capitaneus etc.

»Perchè Hettorre Fieramosca, e suoi compagni al numero di tredici Italiani ne haveno fatto intendere doverno comparere in la giornata deputata per la Motta, et altrettanti suoi compagni Francesi, quai pretendono [c016] combatter contro essi Italiani in lo campo intra loro specificato, fra Andri, e Corato, e per segurtà dell’una, e l’altra parte se haveno da mandare ostaggi reciprocamente, et acciò quelli seran mandati per la Motta, e suoi compagni Francesi, non abbiano a dubitare di pater molestia, pericolo, ne detrimento alcuno. Per tenor della presente, sub verbo, et fide nobilium, guidamo, ed assecuramo li Gentilhuomini, che per li predetti la Motta, e suoi compagni seranno destinati per ostaggi, che possano venir liberi, e securamente in Barletta, e commorar in detta Terra, secondo la forma de loro obbligationi, e conventioni; e dopoi detti ostaggi possano ritornare in Ruvo senza impedimento, ne danno alcuno in loro persone, ne in robbe, declarando a tutti, e singoli Capitanei, stipendiarii, soldati, pedoni, et altre genti d’armi suddite delle Cattoliche Maestà, et imponendoli da parte di quelle, che debbiano osservare alli predetti ostaggi la presente forma di guidatico, e salvocondotto, juxta sua serie, e tenore, e così nello venire di detti ostaggi in Barletta, e commorar in detta Terra, come ancora nel ritornare in Ruvo. Non facendo il contrario per quanto ciascuno desidera evitare l’ira, et indignatione di dette Cattoliche Maestà, et evitare la pena della vita. E per declaratione della verità, cautela, e securtà di tutti ostaggi havemo spedite le presenti subscritte di nostra propria mano, e con la impressione del nostro solito sigillo — Di Barletta a 7 di Febraro 1503 — Don Diecus de Mendozza.

Lettere de la Motta responsive ad Hettorre.

»Hettorre Fieramosca. Ho ricevuto vostre lettere, e quelle intese, e rispondo hoggi, che sono li undici del presente mese di Febraro risolutamente, come per voler effettuar, e mandar lo negotio a porto, vi mando li presenti Gentilhuomini per ostaggi da nostra banda, quai sono Monsignor de Musnai, e Monsignor Dummoble, a tal che con securtà possiate venire. Perloche voi manderete i vostri ostaggi per nostra securtà, acciò con gratia di nostro Signore Iddio lunedì primo che saran li tredici del presente mese, ambe le [c017] parti si possano condurre in lo loco appontato, dove combattero Monsignor Baiardo, e D. Afonso fra Andri, e Corato. E perchè in dette lettere ci dimandate l’assecuramento dell’Illustre Monsignor della Palizza nostro Superiore, a sua Illustre Signoria non have parso di farlo; Però vi dicemo, che senza dubio alcuno vogliate liberamente venire, che vi promettemo la fè nostra, possate securamente venire, che ne da noi, ne da nostra banda, ne da gente, sono in questo Regno al servitio della Cristianissima Maestà, vi sarà usata soverchiaria alcuna, dovendovi donar il campo sicuro; E quando dubitassivo dell’opposito, e si facesse soverchiarla, da mò ci donamo per vostri prigioni: E dovendosi far questo medesimo per voi, ne prometterete, per voi, e vostre bande, e tutte genti sono in questo Regno per servizio delle Cattoliche Maestà Re, e Regina d’Ispagna. E volendo dar effetto al sopradetto, non ci accade altra securtà, ne dilation di tempo, per havermo una con miei compagni in detto tempo deliberato in detto luogo comparere con li cavalli copertati, e nostre persone armate de tutte arme necessarie, dovendovi trovar in detto luoco, e dì alle dieceotto hore, o vero avante, acciò s’habbia tempo di posser eseguire i nostri desiderii, fandovi intendere, che noi condurremo là quattro Giudici eletti da nostra banda, e tredici altri huomini ne condurranno li cavalli, e sedici Gentilhuomini verranno à vedere, per li quali tutti prenominati non vi sarà altro che porti armi, eccetto noi deputati al combattere, e li quattro Giudici, e li altri Gentilhuomini verranno a vedere, e li ventisei che meneranno li cavalli, e condurranno l’elmetti, veneranno disarmati; Però vi dicemo, se volete, tutti li sopradetti vengono in nostra compagnia à detto numero, se hanno da comprendere nel medesimo assecuramento, come noi altri: E volendo voi condurre altrettanti in simil modo dal canto, e banda vostra, declaramo se intendano nel medesimo assecuramento per noi, e nostra banda, venendono in vostra compagnia. Ancora vi mandamo li nomi delli Giudici, secondo qui da basso vederete notati — Da Ruvo à gli 11 di Febraro 1503 — La Motta — Li nomi delli Giudici sono questi — Monsignor de Bruglie — Monsignor de Murabrat — Monsignor de Bruet — Etum Sutte.

[c018]

El tenor dell’assecuration de Monsignor della Palizza siegue in tal modo.

»Jacobus de Cabannes Dominus Politico Christianissimi Regis Zamburlanus, ac Provinciarum Terræ Bari, et Aprutii Gubernator. Perche la Motta, e suoi compagni al numero di tredici, ne han fatto intendere doverno comparere in la giornata deputata per essi, et altrettanti Italiani, à causa che pretendono combattere in lo campo specificato fra Andri, e Corato, e per securtà dell’una, e dell’altra parte si devono mandar l’ostaggi reciprocamente, et acciò quelli seranno mandati da Hettorre Fieramosca, e suoi compagni, non abbiano a dubitar di patir molestia, pericolo, ne detrimento alcuno. Per tenor della presente sub verbo, et fide nobilium, guidamo, et assecuramo due Gentilhuomini, e tre famegli per uno, che per li predetti Hettorre, e suoi compagni seranno destinati per ostaggi, che possano venire liberi, e sicuri in Ruvo, e commorar in detta terra, secondo la forma de loro obligatione, e conventioni; E dopoi detti due ostaggi, e famegli ritornar in Barletta senza impedimento alcuno, o danno in loro persone, e robbe, declarando a tutti, e singuli Capitanei, stipendiarii, e soldati della Cristianissima Maestà, et imponendoli da parte di essa, che debbiano osservar alli predetti ostaggi la presente forma di guidatico, e salvocondotto juxta la sua serie, e tenore, così nello venir di detti ostaggi in Ruvo, e commorar in detta terra, come ancora nel ritornar in Barletta, non fando lo contrario, per quanto ciascuno desidera evitar l’ira, et indignatione di detta Maestà, e fuggir la pena della vita. E per declaration della verità, cautela, e securtà di detti ostaggi, havemo espedita la presente securtà di nostra propria mano, e con la impression del nostro solito sigillo — Da Ruvo alli 11 di Febraro 1503 — Cabannes — Dominus Gubernator mandavit mihi Joanni Nicolao Mandatario.

[c019]

Lettere d’Hettorre responsive à la Motta.

»La Motta. Per vostre lettere dell’undeci del presente mese di Febraro, qual ho ricevute nel medesimo dì ad hora tarda, hò visto che scrivete, che per voler effettuar la causa a porto, mandate li Gentilhuomini per ostaggi da vostra banda, cioè Monsignor de Musnai, e Monsignor Dummoble; e che noi habbiamo a mandar nostri ostaggi per securtà vostra; et havete mandati li nomi delli Giudici, per voi eletti, cioè Monsignor de Bruglie, e Monsignor Murabrat, e Monsignor de Bruet, Etum Sutte; e che à Monsignor della Palizza vostro Superiore non ha parso voler far lo assecuramento, significandone, che in vostra compagnia verranno tredici persone, che ve porteranno li elmetti, e tredici altri, che vi porteranno li cavalli, e che oltre li predetti verranno sedici Gentilhuomini a vedere. Respondemo che mandamo li nostri ostaggi, e sono Angelo Galeoto Gentilhuomo Napolitano, et Albernatio Gentilhuomo Spagnuolo, e per vostra cautela con loro la securtà dell’Illustrissimo Gran Capitano per lo campo per voi, e vostri compagni, per tredici persone vi porteranno l’elmetti, e tredici altri vi condurranno vostri cavalli, e per li quattro Giudici da voi eletti, e nominati in vostre lettere de cinque dell’instante. E perchè sapete apparer per vostre lettere, per le quali dichiarastivo, che manderestivo l’assecuramento del campo di Monsignor de la Palizza vostro Superiore, et anco per vostre lettere de sei del presente scrivete che Domenica prima futura manderestivo li ostaggi, e per loro la securtà de tutta nostra banda, e che noi similmente dovessimo mandar nostri ostaggi, e per loro la securtà de nostra banda. Però stamo in gran admiratione, che non abbiate adempito il tenor de vostre lettere, massime circa il mandar dell’assecuramento predetto del campo, e di tutta vostra banda, insieme con li vostri ostaggi. E che al presente allegate non parer à Monsignor de la Palizza far detto assecuramento del campo, essendo cosa tanto debita, e necessaria, e per voi offerta, e declarata, ne date causa d’admiratione, e suspitione; et ancora havete lasciato di mandar l’assecuramento delli Giudici per noi eletti, quai sono Messer Francesco Zurlo, Messer [c020] Diego de Vela, Messer Francesco Spinola, e Messer Alonso Lopes. E perche non dovete ignorare, che li assicuramenti del campo, e delli Giudici sono delli principali, e più necessarii provedimenti, che si richiedono in tal causa. Per tanto replicamo per le presenti che vogliate mandare el predetto assecuramento del campo de Monsignor de la Palizza, come per vostre lettere havete scritto, et ordinato, e con l’assecuramento delli Giudici, nello modo, e forma, che insieme con lo presente noi mandamo a voi dell’Illustrissimo Signor Gran Capitano per maggior vostra cautela, declarandove, che siamo contenti dell’assecuramento de Monsignor de la Palizza per evitar ogni calunnia, et à tal effetto questa sera ne conduremo in Andri. Quanto alla parte, che scrivete, che verranno con voi sedici altri Gentilhuomini a vedere. Rispondemo che lo Illustrissimo Signore Gran Capitano hà prohibito, et espressamente comandato, che non debbiamo condurre, ne admettere in nostra compagnia, eccetto tredici persone, che porteranno li elmetti, tredici altre, che conduranno li cavalli, e quattro Giudici disarmati, come spetta à loro officio, secondo la continentia dell’assecuramento fatto dal Illustrissimo Signor Gran Capitano, qual ve mandamo, e non possemo in alcun modo presumere altramente — Da Barletta à 12 di Febr. 1503 — Hettorre Fieramosca.

El tenor dell’assecuramento dell’Illustrissimo Signor Gran Capitano segue in tal modo

»Consalvus Fernandus Dux terræ novæ Serenissimarum, et Catholicarum Majestatum Regis, et Reginæ Hispaniæ, Siciliæ citra, et ultra Farum, Hierusalem etc. in hoc Regno Locumtenens, et Capitaneus etc. Perchè Hettorre Fieramosca, e suoi compagni al numero di tredici, alla giornata deputata da la Motta, et altrettanti suoi compagni Francesi pretendono combattere tra loro nello campo specificato fra Andri, e Corato, nello luoco, dove combatterono D. Alonso, e Baiardo; Et oltre la cautela dell’ostaggi reciprocamente prestiti, e guidati per l’Illustrissimo D. Diego de Mendozza, bisogna l’assecuramento del campo; Donde noi per maggior efficacia per tenor della presente declaramo per quanto spetta alla banda del prenominato Hettorre, [c021] e suoi compagni Italiani, authoritate qua fungimur delle Cattoliche, e Serenissime Maestà assecuramo detto luogo fra Andri, e Corato, dove combatterono detti Don Alonso, e Baiardo per tutta la predetta giornata, che seran li tredici dell’instante mese di Febraro, statuita per detti Francesi, che da nullo stipendiario, Capitano, armigero, pedone, gente d’armi, et altri sudditi delle Cattoliche Maestà di qualunque conditione, e stato, per alcun modo serà dato impedimento, molestia, ne perturbatione alli predetti la Motta, e suoi compagni Francesi, et à tredici persone, che porteranno loro elmetti, e tredici altri che condurranno loro cavalli: e similmente guidamo, et assecuramo Monsignor de Bruglie, Monsignor de Murabrat, Monsignor de Bruet, et Etum Sutte Giudici eletti per li prefati la Motta, e suoi compagni Francesi, acciocche con Messer Francesco Zurlo, Messer Diego de Vela, Messer Francesco Spinola, et Alonso Lopes Giudici eletti per li prenominati Hettorre, e suoi compagni con nostra volontà, consenso, et autorità, possano giudicare, e pienamente esercitare loro officio. Comandando, ordinando, et imponendo da parte delle Cattoliche Maestà, e nostra, a tutti, e singoli Capitanei, armigeri, stipendiarii, soldati, pedoni, gente d’armi, et altri sudditi delle Cattoliche Maestà, di qualsivoglia condition, e grado che niun debbia per alcun modo directe, vel indirecte, tacite, vel expresse, dare impedimento, molestia, e peturbatione, ne usare alcuna perturbatione, o soverchiarla al detto combattere, ne infringere, o vero contravenire al presente assecuramento, immo quello inviolabilmente osservare, secondo la sua serie, e tenore, non fando lo contrario, per quanto ciascuno desidera evitar l’ira, et indignatione delle Cattoliche Maestà, e fuggire la pena della vita. In cujus rei testimonium, ac securitatem, et cautelam, quorum interest, havemo fatto le presenti lettere suscritte di nostra propria mano, con la impression del nostro solito sigillo — Datum in Barletta alli 11 di Febraro 1503 — Consalvus Ferrandus«.

Radunati insieme li tredici Cavalieri Italiani in Andri, et ivi con loro, Prospero Colonna, e ’l Duca di Termoli, et altri Cavalieri Italiani, e Spagnuoli la domenica di sera alli dodeci del mese, fu conchiuso, che [c022] senz’altro lo lunedì seguente, ch’era la giornata deputata con lo nome del Signor Iddio si dovessero presentar al campo: Ma perche mai si può far cosa alcuna per l’huomini senza il favor del Signor, che ’l tutto vede, et opera, lo lunedì matino li tredici Cavalieri accompagnati da gli prenominati andarono alla messa devotissimamente, volendo procedere in una cosa di tanta importanza, e fama christianamente, e con sollennità di religione, sperando non per questo haverseli aggiungere più animo di quel che haveano, ma da un tal debito, et honor restar confirmatissimi in quello haveano deliberato. E così communicato il Prete, al fin della messa, lo Hettor Fieramosca andò da Prospero Colonna, e lo pregò li concedesse, posser richiedere li suoi compagni d’un sollenne giuramento, lo che piacque al Prospero Colonna: e così Hettor se voltò a suoi compagni, humanissimamente pregandoli gli piacesse giurare quel medesimo, che lui giurava, al che risposero quei Cavalieri, ch’eran contentissimi seguirlo in ogni fortuna. Lui se inginocchiò avanti l’altare, dove il Prete ancor diceva la messa, e poste le mani gionte sopra l’Evangelio giurò ad alta voce, voler prima morire, che uscir dal campo per sua volontà, altro che vincitore, e prima eligersi la morte, che mai rendersi per vinto con sua bocca; e poi vedendo alcuni de’ suoi compagni haver bisogno d’ajuto, far in tal caso, come desiderasse, fosse fatto in persona sua, per ricuperation de’ suoi compagni, ancorchè sapesse di perder la vita. Fatto tal giuramento diede luogo a gli altri, quai di buona voglia fero il simile giuramento, et anco di stare ad un volere, ad un’eseguire, per quanto la buona sorte, e forza di ciascuno bastasse. Partiti dalla messa, se n’andaro alla stanza di Prospero Colonna, dove fero giontamente colatione, e poi se n’andorno allegramente ad armare, et armati montorno à cavallo, havendo aspettato lo salvo condotto che doveva mandar la Motta, e così s’avviaro nell’ordine che segue; ma perchè l’assecuramento promesso da Monsignor de la Motta non era venuto, for tutti di parere che se ne dovessero protestare, e fu fatta la protestation infrascritta.

[c023]

Protestation fatta per Hettorre Fieramosca, e suoi compagni.

»In Dei nomine amen. Anno a nativitate Redemptoris nostri Jesu Christi millesimo quingentesimo tertio. Pontificatus vero Beatissimi in Christo Patris, et Domini nostri Domini Alexandri divina providentia Papæ Sexti Anno XI. die vero 13 mensis Februarii in civitate Andri. In presentia di me Antonio de Musco Apostolica authoritate publico Notario, e dell’infrascritti testimonii. Per lo presente pubblico documento facemo noto, e manifesto come essendo comparso avante di noi lo magnifico Hettorre Fieramosca, tanto per suo proprio nome, quanto per l’infrascritti suoi compagni circostanti, e consentienti che sono Guglielmo Albamonte Siciliano, Francesco Salamone Siciliano, Gioan Capocci da Roma, Marco Corallaro da Napoli, Giovanni Braccalone da Roma, Lodovico d’Abenavole da Capua, Hettor Giovenale Romano, Bartolomeo Fanfulla da Parma, Romanello da Forli, Pietro Riczio da Parma, Mariano d’Abignenti da Sarno, e Moele da Paliano, e dice che Carles de Togues titolato la Motta Francese per sue lettere dirette ad esso Hettorre have declarato, che mandaria lo assecuramento del campo spedito per Monsignor de la Palizza suo superiore, e che dopoi el prefato Carles la Motta per altre sue lettere have scritto ad esso Hettorre, per le quali allegava non haver parso à Monsignor della Palizza far detto assecuramento, nondimeno per esso Hettorre essere stato replicato a la Motta, per lettere, che quello sapea apparere per due sue lettere de cinque, e de sei del detto mese, haver promesso l’assecuratione del campo, e de tutta sua banda, e che al presente allegasse non parer à Monsignor de la Palizza far detto assecuramento del campo, essendo cosa tanto debita, e necessaria, e per esso la Motta offerta, e declarata, dava causa admiratione, e suspitione ad esso Hettorre, e suoi compagni. E considerando, che l’assecuration del campo, e delli Giudici sia uno delli principali, e più necessarii, et oportuni provedimenti, che se richiede in lor causa: Però de nuovo fa istanza al prefato [c024] Carles, che debbia mandar l’assecuramento predetto del campo, e delli Giudici eletti per esso Hettorre, e compagni, secondo la forma dell’assecuration qual essi mandavano al prefato Carles la Motta e suoi compagni, espedita per l’Illustrissimo Sig. Gran Capitano Luogotenente Generale delle Cattoliche Maestà per assecuramento di detto campo, e delli Giudici eletti per lo detto Carles, e suoi compagni: Declarando ancora, che se contentavano esso Hettorre, e suoi compagni del detto assecuramento, se dovesse far da Monsignor de la Palizza, per quietar ogni calunnia, notificandoli, che per abbreviar il camino, la sera se conduccano in Andri, aspettando lo assecuramento, aviso, e requisition d’esso Carles la Motta; Essendo esso Hettorre, e suoi compagni in tal espedition armati, ad ordine, e pronti, si protestano, che non sia attribuita à loro negligentia, o mora, ne ad alcuna tergiversazione; ma solo si debbia imputare à detto Carles. E standosi in tal protestatione, essendo circa diecesette hore, sopragiunse il Trombetta destinato da la Motta, e consegnò al detto Hettorre, e compagni l’assecuramento de Monsignor de la Palizza; Dopo della recettion del quale, subito detto Hettorre, e compagni, senza perdere alcun momento di tempo si posero in camino a comparer al campo, richiedendo me sopradetto Notario, che delle cose predette, hora, tempo, e recettion di detto assecuramento, e della celerità del partir loro al comparir in detto campo, et altri gesti, ne dovesse far publico documento, in testimonio della verità. Donde io predetto Notario, volendo sodisfar alla predetta richiesta, come giusta, e ragionevole, de tutte le prenarrate cose, ho fatto lo presente publico documento, à chiarezza della verità scritto de mia propria mano, e roborato del mio solito segno, essendo presente nel medesimo luogo l’Illustrissimo Marco Antonio Colonna, Giovanne Carrafa Conte di Policastro, li Magnifici Indico Lopes Hiala, Gismundo de Sanguine, e Martin Lopes, Testimonii rogati alle cose predette«.

El tenor dell’assecuration di Monsignor de la Palizza siegue in tal modo

»Jacobus de Cabannes Dominus Palitiæ Christianissimi Regis Zamburlanus, ac Provinciarum terræ Bari, et Aprutii Gubernator etc. Perchè [c025] la Motta, e suoi compagni al numero di tredici Francesi, han da comparire alli tredici del presente mese di Febraro alla giornata deputata per Hettor Fieramosca, e tanti altri suoi compagni Italiani, pretendenti combattere contro esso la Motta, e compagni in lo campo fra loro specificato fra Andri, e Corato, in lo luoco, dove combattero D. Alonso, e Baiardo, et oltre la cautela delli ostaggi reciprocamente prestiti, e guidati per noi, e lo Signor D. Diego de Mendozza, bisogna l’assecuramento del campo: Onde noi per maggior efficacia, per tenor della presente declaramo, per quanto spetta alla banda del prenominato la Motta e compagni Francesi, authoritate qua fungimur del Christianissimo Rè, assecuramo detto luogo fra Andri, e Corato, dove combattero D. Alonso, e Baiardo per tutta la giornata delli tredici dell’instante mese di Febraro, statuta per detti Italiani, che da nullo Capitanio, armigero, stipendiario, pedone, gente d’armi, e sudditi della Cristianissima Maestà, de qualunque condition, e stato, in alcun modo non serà dato impaccio, impedimento, molestia, ne perturbation alcuna alli predetti Hettorre Fieramosca, e compagni Italiani, et alle tredici persone, che porteranno loro elmetti, et a tredici altri che conduran loro cavalli, e similmente guidamo, et assicuramo Messer Francesco Zurlo, Diego de Vela, Messer Francesco Spinola, et Alonso Lopes, Giudici eletti per li prenominati Hettorre e compagni, acciocchè insieme con Monsignor de Bruglie, Monsignor de Murabrat, Monsignor de Bruet, et Etum Sutte, Giudici eletti per li predetti la Motta, e suoi compagni, con nostra volontà, consenso, et autorità possano giudicare, et esercitare pienamente lor officio; Comandando, imponendo, et ordinando da parte della Christianissima Maestà, e nostra, à tutti, e singoli Capitanei, armigeri, stipendiarii, pedoni, gente d’armi, e sudditi della Christianissima Maestà di qualunque conditione, e grado, che nessuno debbia per alcun modo directe, vel indirecte dar impedimento, o molestia, perturbatione, o nocumento alcuno, ò vero usare soverchiaria alcuna al detto combattere, ne infringere, e contravenire al presente assecuramento, immo osservar quello, secondo la sua serie, e tenore, non fando il contrario, per quanto ciascuno desidera evitare l’ira, [c026] e la indignatione della Christianissima Maestà, e fuggire la pena della vita. In cujus rei fidem, et testimonium, ac securitatem, et cautelam quorum interest, havemo fatte le presenti lettere suscritte di nostra propria mano, e con la impression del nostro solito sigillo — Da Ruvo à 12 Febraro 1503 — Cabannes — Dominus Gubernator mandavit mihi Joanni Nicolao Mandatario«.

Ordine del procedere che fè nell’andar al campo Hettorre Fieramosca, e compagni Italiani, e del combattimento, e vittoria conseguita.

Partendo da Andri Hettorre Fieramosca, e compagni per comparer al campo, procedevano nel modo che segue. Primo andavano tutti li tredici cavalli delle persone, portati da tredici Capitani de’ fanti, l’uno appò l’altro, con debito intervallo, copertati, et armati secondo il bisogno richiedea. Dopoi col medesimo ordine seguitavano li combattitori a cavallo, armati di tutte armi da gli elmetti in fuora. Seguivano appresso loro tredici Gentilhuomini, che portavano gli elmetti, e le lanze delli prenominati combattitori, e continuavano il camino verso detto campo; et essendo vicino a quello un miglio, trovaro quattro Giudici Italiani, quali fero intendere ch’erano stati insieme con quattro Giudici Francesi, e che haveano segnato il campo, et ordinati li patti del combattere, ma che li combattitori Francesi insino a quell’hora non erano gionti, onde parve ad Hettorre, e compagni procedere avanti, e condotti vicino al campo ad un mezzo tiro di balestra, Hettorre, e compagni smontaro da cavallo, e fatta oratione al Motor di sù, dopoi Hettorre parlò a suoi compagni nel modo, che segue.

Oratione d’Hettorre à suoi compagni.

»Compagni, e Fratelli miei: Se io pensassi che queste mie poche parole vi dovesser aggiunger più animo che quel che dalla natura vi è concesso, certo m’ingannarei, havendo visto voi per insino [c027] a qui allegramente esser condotti à questa sì magnanima impresa, e demostrato chiaramente quell’animo, che da qualsivoglia coraggioso Cavaliero si mostrerebbe in simil caso: Ond’io, conoscendo il valor vostro esser sì grande, e fermo in questo nobile esercitio, per esser sol di voi stata fatta honorabile elettione, son in tutto sodisfatto, e contento, ma perchè gl’inimici insino a quì non son comparsi al campo, in questo spatio di tempo, che ne avanza, m’è parso manifestarvi el presaggio dell’animo mio, il quale vi rende certi de indubitata vittoria in questa impresa, vedendovi sì ardenti, e volonterosi a conquistar quell’honore, che Iddio, e la benigna fortuna ne promette. Altri ne tempi passati han combattuto per natural, et inveterata inimicitia, altri per iracondia, alcun altri per ingiuria ricevuta, alcun altri per cupidità di robba, tesori, e stati, e beni di fortuna, altri per amor di donne, e chi per un’occorrenza, e chi per un’altra, secondo che l’occasione se gli porgeva. Voi hoggi combatterete con la buon’hora principalmente per la gloria, ch’è lo più pretioso, et honorato preggio, che dalla fortuna si potesse proponere à gli valenti huomini: Questa vi infiamma, questa vi accompagna all’immortalità, liberandovi da ogni caso di vil morte, fandovi famosi esempi, e perpetue materie de gloriosi raggionamenti appresso li nostri posteri. Oltra di ciò dovete sapere, che non solo portate hoggi questo sì vostro particolar honore in su le vostre braccia, ma insieme con voi, l’honor, e la gloria di tutta la nation Italiana, e nome Latino, e perciò non si manchi per voi ridurla in quell’altezza di fama, che fu al tempo, che diede legge al mondo, e tanto più contra tali, e sì insolenti nemici, da i quali dall’antico tempo siamo stati spesse volte non senza lor gran danno danneggiati, e provocati: Però hoggi gli mostreremo, che sopravive anco in noi quel seme de nostri progenitori, che tante volte gli assuefer à portar il giogo Italiano. E serà questa nostra indubitata vittoria con precedente mal segno della lor futura, e vicina calamità: si che horsù Cavalieri strenuissimi, e fratelli miei, con prospero, e felice augurio avvicinamoci al luogo, dove tal impresa se die seguire; perchè son certo, che saran molto maggiori gli effetti e portamenti vostri, che [c028] le mie parole, e la mia gran speranza«. E finito tal raggionamento, e fatta la debita oratione a Dio, montaro à cavallo à detti cavalli copertati, ponendosi ciascuno l’elmetto in su la testa, e le lanze alla coscia, e se avviaro verso il campo.

Dall’altra parte la Motta, e compagni, avendo già inviato l’assecuramento del campo, e de’ Giudici ad Hettorre, dovendo comparire a sì generoso spettacolo, non li parve fuor di proposito intercedere la gratia di nostro Signore, come persone Christianissime, e per tanto accompagnati da Monsignor de la Palizza, et altri Cavalieri Francesi, si conferiro alla Chiesa, e lui ordinò, si dicesse sollennemente la messa, quale fu ascoltata con attenta divotione da tutti; Finita la messa Monsignor de la Palizza, portò la Motta, e suoi compagni, et altri Cavalieri Francesi a sua posada, et ivi con allegrezza si ristororno tutti di conveniente cibo. Dopoi ciascuno de combattenti s’andò ad armare de tutte armi, come el bisogno richiedeva, et armati si radunaro tutti giontamente avanti Monsignor de la Palizza, ove la Motta voltosi a Monsignor detto de la Palizza, e lo supplicò li volesse concedere, che potesse dire alcune poche parole à que’ suoi compagni, lo che volentieri essendoli concesso, cominciò a parlar in tal modo.

Oration de la Motta à suoi compagni.

»Se dall’esperienza, la qual’è maestra di tutte le cose, si può pigliar giuditio, Cavalieri, compagni, e fratelli miei, certo io non dubito, che di questa impresa, della qual hoggi per noi s’ha da far prova, ne riportaremo quell’honore, quella vittoria, che dalle altre insino a questo tempo la nostra nation Francesa ha riportato, e vi dovete ramentar, che gli nostri progenitori più volte han fatto gustar à Romani, che signoreggiorno l’universo, et a tutta la nation Italiana, quanto l’armi Francese in ogni tempo se siano prevalute, e come le armi Francese habbiano difensata la nostra santa fè Christiana, et havuto honor in tutte le battaglie, e giornate insino à questo tempo occorse. Hora non credo, che queste mie parole siano necessarie a farvi acquistar più valore di quel che in voi veggio, e mi [c029] rendo certo, che discendete dal medesimo seme di quei nostri antepassati, li quali han lasciata di loro certa fama al mondo. Pur mi è parso ridurvi à memoria tutto questo, acciò ciascun di voi debbia considerare che hoggi sostentaremo con le nostre lanze l’honor di tutta la nostra nation Francesa, e dovemo tutti considerare, che restando noi vincitori di questa impresa come son certo, che con l’ajuto di nostro Signore così sarà, restaremo appresso de tutti nostri posteri sempre vivi, et in tutta questa nostra Provintia d’Europa si raggionerà per tutte l’età della nostra gloria. Horsù, poichè tanto condegno premio se ci promette di questa impresa, vogliamo con lo nostro animo invitto far tutto lo nostro potere d’acquistar tanto premio. E benchè tal vittoria non sia cosa nuova alla nation nostra, havendomo noi havuta di prossimo simil vittoria contra la nation Spagnuola, questa serà più gloriosa, perchè la nation Italiana s’è vantata sempre in questo generoso esercitio d’armi, valer, e posser star a fronte alla nostra nation Francesa. Di modo, che vincendo questa, ne trovaremo vincitori di tutti. Non mi occorre dir altro, perchè son certissimo, che non può mancar, che ciascun de voi farà più che quel ch’in ciò io spero, e desidero«. E qui pose fine al suo ragionamento. E levatosi ciascuno in piedi, s’abbracciorno, e baciorno tutti. E tolto combiato da Monsignor de la Palizza, e da altri Cavalieri Francesi, che ivi se ritrovorno, ciascuno montò à cavallo, e se ordinorno nel proceder in questo modo.

Primo andava un Gentilhuomo Francese, qual portava l’elmetto, e la lanza de Monsignor de la Motta, dopoi seguivano altri dodeci Gentilhuomini, che ciascun de loro portava similmente la lanza, e l’elmetto di ciascun de combattenti, à doi à doi, con debito intervallo, seguivano poi li dodici combattenti armati di tutte armi senza elmetti, similmente de doi in doi, con lo medesimo ordine, et appresso seguiva la Motta solo, dietro a lui gli veniva il cavallo di sua persona, et appresso seguitavano tutti gli altri dodeci cavalli de la persona de gli altri combattitori, de doi in doi, con intervallo debito, portati tutti da Gentilhuomini Francesi, e con tal ordine presero il camino verso il designato campo, et avvicinatisi a quello per un breve spatio, havendo [c030] visti gli altri Cavalieri Italiani, ch’erano gionti, e provedevano, e circuivano il campo, smontati da gli cavalli, che portavano, s’inginocchiorno tutti, e fatta con le man gionte verso il cielo la debita oratione, ciascuno si fè allacciar l’elmetto, e montò a cavallo al suo cavallo, e postasi la lancia al debito luogo, con grandissima letitia similmente andorno loro à torno il campo provedendo quello. Dopoi fatto questo si fermorno in un luogo all’opposto, dove stavano gli Cavalieri Italiani. Donde lo Hettorre gli fè intendere, che dovessero entrar loro prima nel campo, perchè così era di raggione: e così la Motta, e suoi compagni Francesi con loro cavalli copertati, et armati, secondo il bisogno, entrorno nel campo, e lo simil fu fatto per li Cavalieri Italiani; e mossi li Francesi da circa quattro passi verso gli Italiani, quelli fer’ il simile verso loro; e non parendo ad Hettorre, e suoi compagni doversi più tardare, se aviaro con lento passo à trovar gli Francesi, e quelli si cominciorno a vicinar in simil modo verso gl’Italiani, et essendo l’una, e l’altra parte lontana da cinquanta passi, cominciorno ad andar di galoppo, et avvicinatisi per spatio di vinti passi li Cavalieri Francesi si partirono in due parti, da una banda sette, e dall’altra sei, e con impeto à tutta briglia andavano verso gl’Italiani, li quai vedendo questo, cinque de loro diero sopra li sei Francesi, e gli altri otto sovra li sette, e postesi le lanze alla resta, s’incontrorno, e per essere stato il spatio pigliato, invalido, spezzorno alcune lanze con poco, o nullo effetto. Pure gl’Italiani furono uniti, e li Francesi in disordine, e postosi per ciascuno mano à gli stocchi, et accette, che portavano, si cominciò la battaglia alla stretta, e combattendosi per l’una, e l’altra parte valorosamente, gli Francesi trovandosi disordinati, for costretti ridursi in un cantone del campo, e con alquanto spatio ripigliare il fiato, con grandissimo impeto andaro verso gl’Italiani tutti gionti, e combattendosi per un quarto d’hora, per la parte Italiana fu posto a terra un Francese nominato Gran Jan d’Aste, il quale havendo ricevute alcune ferite, fu soccorso da gli altri Francesi, sovra il quale restorno tre Italiani, e gli altri valorosamente combattevano contro gli altri Francesi, e stringendosi la battaglia aspramente dall’una, e l’altra banda, for messi a terra due altri Francesi, de’ quali l’uno si nominava Martellin de Sambris, [c031] e l’altro Francesco de Pisa, quali si renderono prigioni alli combattitori Italiani. In quel mezzo che la battaglia andava stretta, non mancava Hettorre con parole, e con fatti soccorrere sua banda, e dove vedeva il bisogno, e lo medesimo si faceva per la Motta, ciascun di loro dando animo a soi compagni, come si conveniva, e durando la battaglia in tal guisa, fur feriti dui cavalli a dui Italiani, l’uno nominato Moele da Paliano, e l’altro Giovanni Capoccio da Roma, i quali dismontorno a piè, e l’un de loro pigliata una lanza, che trovò ivi nel suolo del campo, l’altro uno scheltro[296] che lui aveva, si defensavano molto bene dall’impeto Francese, essendo già soccorsi da gli altri Italiani, quai con loro cavalli havendoli attorniati, non comportavano che quei fossero punto danneggiati da la Cavalleria Francesa. Gran Jan d’Aste, il quale prima era stato posto a terra, trovandosi ferito, ne potendosi più difendere, come havea fatto, e bene, similmente si rendio prigione alla parte Italiana: Donde Hettorre vedendo, che la parte Francesa era cominciata ad inclinare per la perdita de gli tre compagni, con coraggioso animo fatto un corpo con gli altri compagni, di novo assaliro li detti Francesi remanenti, nel qual impeto abbattero a terra un altro Francese nominato Nantì de la Frasce, et un altro per nome Giraut de Forzes uscì dal campo, e foro ambidui prigioni: Di modo che gli Italiani vedendosi la fortuna fautrice di nuovo ristretti insieme, e fatto impeto si avventaro adosso alli otto Francesi, quai valorosamente combattendo, fu buttato a terra la Motta, il quale rizzatosi in piedi con l’ajuto de’ rimanenti cavalli Francesi, si difendeva molto bene: E combattendosi fu pigliato prigione Saccet de Saccet similmente Francese. Successe che uno de gli Italiani seguitando un Francese, il cavallo uscì fuora del campo; gli altri Italiani fra poco spatio cacciaro un altro Francese, et uno di quei Italiani, ch’erano a piè fù ferito d’una stoccata in faccia, et un altro Italiano combattendo fu trasportato per alquanto spatio dal cavallo fuora del campo. E combattendosi più fervidamente, fu da Hettorre per forza gagliardamente cacciato dal campo la Motta, qual si trovava à piè, et un altro Francese combattendo, e trovandosi astretto da gli cavalli [c032] Italiani, fu necessitata per suo scampo smontar, e combattere a piè, e mentre che la battaglia andava in tal modo, un altro Italiano fu ferito d’una stoccata nella coscia che ce la passò dall’una all’altra banda. Gli altri Italiani, vedendo che si trovavano di gran lunga superiori, con maggior animo combattendo, cacciaro del campo un altro Francese, rimanendone solamente tre, de li quali doi se ne trovavano a cavallo, et uno a piè, benchè valentemente se defensassero, pure li doi a cavallo, non potendo resistere à tanto numero di combattenti Italiani, et al lor vigore, l’uno si rendio prigione, e l’altro fu per forza cacciato dal campo, restandovi solo quell’a piè, il quale fuggendo per il campo, hebbe tante ponte di stocchi, e colpi d’accette, che non potendo resistere, gli fu forza rendersi prigione, e fu cavato fuori del campo.

Restando la vittoria di tal impresa à gli Italiani, i quai una con Hettorre ritrovandosi nel colmo di tanta gloria lieti, per spatio di mezz’hora andaro correndo per il campo con giubilo di suono di tante trombe, et altri istromenti di guerra, che humana lingua no ’l potria esprimere, e così con la medesima letizia s’accinsero al camino verso Barletta, gloriosi di una tanta vittoria, et Hettorre ordinò che nel caminare si dovesse procedere in tal modo. Volse che li prigioni Francesi fussero posti a cavallo, e menati da tante persone particolari a piedi con la briglia in mano. Dopoi seguiva lui con lo elmetto in testa, et armato tutto, et appresso ad esso seguivano tutti gli altri vincitori l’uno poi l’altro con debita distantia, similmente armati, e con l’elmetto in testa, e con la solita gravità Italiana, e modesta allegrezza, caminando alla volta del Gran Capitanio Consalvo Fernando, il qual venia ad Andri ad incontrarli, havendo havuta la nuova di tanta vittoria. Appresso loro venivano i Giudici Italiani da doi in doi, e poi da tre in tre gli altri Capitani, e Gentilhuomini che havean condotti li cavalli, e l’elmetti, e le lanze à detti vincitori. E così caminando s’incontrorno con Prospero Colonna prima, e co ’l Duca di Termole, che venivano per honorar li vincitori, dove gionti insieme, et alzate le visiere degli elmi, strettamente si abbracciorno, e baciorno tutti, et à pena si poteva satiare di tanta commune allegrezza, e con tal gratulatione, e sommo piacere passando più oltre se li fè incontro D. Diego de Mendozza, e molti [c033] altri Cavalieri Spagnuoli, et Italiani tutti allegrandosi di tanta honorata vittoria. In ultimo gli venne incontro il Gran Capitanio à cavallo ben in ordine con tutta la gente d’armi da una banda, e la fanteria dall’altra, il quale affrontandosi con Hettorre, con allegrezza inestimabile gli disse queste parole. Hettorre hoggi avete vinto li Francesi, e noi altri Spagnuoli, volendogli significare che per Hettorre, e compagni in quella giornata era stata ricuperata, e confirmata la riputation Italiana, e tolta la gloria di mano all’una, et all’altra natione: E così abbracciati un per uno tutti gli altri vincitori con maravigliosa letitia, sparò subito un concento di trombe, tamburri, artabelli, et altri bellicosi instromenti con gridi mirabili, ciascuno dicendo, Italia Italia, Spagna Spagna, e così tutti quelli altri Cavalieri, e Gentilhuomini di stima, che si trovorno ivi presenti si fer inanti à gli vincitori, fandoli honore, e dimostrandoli segno d’infinita allegrezza. Dopoi il Gran Capitanio con Hettorre alla sua destra, seguendo gli altri vincitori con debito ordine accompagnati da tutti quei Cavalieri Italiani, e Spagnuoli, e tutto il rimanente dell’esercito, honorevolmente voltò alla volta di Barletta, et essendo sopravenuta la notte, se ne introrno in Barletta, dove fu fatta tanta dimostratone di letitia, e festa, che non vi rimase campana, che non fusse toccata à segno d’allegrezza, ne pezzo d’artigliaria vi fu, che non fusse stato più d’una volta tirato, di modo che per li tanti suoni, e bombi d’artiglieria, e per li gridi Italia Italia, Spagna Spagna, pareva che quella terra volesse rovinarsi. Li fuochi per le strade, li lumi per ciascuna finestra, le musiche di variati suoni, e canti, che per quella notte fur esercitati, non se potrian per umana lingua narrare a compimento, et in questo modo caminando, giunsero alla maggior Chiesa, essendoli prima venuto il Clero incontro ben in ordine con una pomposa processione, e con una divotissima figura della Madonna, ove smontorno tutti, e fer la debita oratione, rendendo gratie infinite all’immortal Iddio, et alla gloriosa sua Madre della felice vittoria acquistata. Dopoi rimontati à cavallo, e voltati per altre strade della terra con grandissima festa, ciascuno se n’andò a disarmar, glorioso d’un tanto honore, non senza immortal fama dell’honore, e vigor Italiano.

IL FINE.

[c035]

NOTA DELL’EDITORE.

Nel ristampare il premesso libriccino secondo l’antica edizione dell’anno 1633 ho riportata la sola parte istorica del famoso combattimento tra i tredici Cavalieri Italiani, ed altrettanti Francesi colla medesima ortografia e punteggiamento che vi è nell’originale, il quale in verità non è affatto piacevole. Ho corretto solo nel frontespizio del libro suddetto, ed alla pagina 5 un errore di stampa che vi è nella indicazione del giorno della pugna che si dice seguita nel dì 16 Febbrajo 1503, mentre la stessa ebbe luogo nel dì 13 Febbrajo. Ho lasciate diverse Poesie Latine scritte in quella occasione in onore de’ prodi Guerrieri Italiani, e principalmente di Ettore Fieramosca; siccome anche talune avvertenze sui nomi de’ predetti Cavalieri Italiani che presero parte al combattimento.

Coteste medesime Poesie ed avvertenze si vedono anche ristampate nell’altra edizione dello stesso libro fatta in Napoli nell’anno 1721 dal Tipografo Felice Mosca coll’aggiunta de’ luoghi di que’ Scrittori tanto Napolitani che Esteri, i quali di quel celebre fatto d’armi hanno concisamente parlato. Nella stessa edizione dell’anno 1721 si legge anche la iscrizione latina in versi esametri e pentametri incisa in una lapide apposta al monumento eretto nel luogo istesso del combattimento, il quale si crede atterrato dappoi dai Francesi, come ho detto alle pagine 175 e 176 del mio Cenno storico.

Nell’ultimo viaggio fatto a Ruvo nel passato mese di Maggio, essendomi fermato una sera in Andria, cadde il discorso sul monumento suddetto. D. Pasquale Fasoli Sindaco attuale di quella città, e mio Nipote, perchè ha in moglie, la figliuola del fu mio fratello Giulio, e tutti [c036] gli altri ch’erano presenti mi confermarono la generale opinione che quel monumento fosse stato abbattuto di soppiatto e di nottetempo dai Francesi nell’anno 1805 al tempo che l’armata Francese di Osservazione occupava que’ luoghi, e ’l Reggimento num. 42 che ne formava parte era stanziato in Andria.

Mi soggiunse anche il detto Signor Fasoli che il monumento suddetto si trovava eretto in una masseria di semina denominata S. Elia che attualmente appartiene al Capitolo della Chiesa Arcivescovile di Trani, ed è sita nel tenimento della città di Trani a tre miglia di distanza tanto da Andria che da Corato. Che allora che venne lo stesso diroccato, la lapide già detta colla iscrizione si era trovata rotta e mancante nella parte superiore del lato sinistro di un pezzo di quattr’once circa, per cui i primi versi della iscrizione sono mancanti delle lettere finali. Che la lapide suddetta al momento formava parte di un muro delle diverse fabbriche rustiche costrutte nella detta masseria S. Elia.

Mi fece conoscere in fine che trovandosi Sindaco della detta città di Andria, aveva creduto poco conveniente a se ed al Corpo Municipale, a cui ha l’onore di presedere che il monumento suddetto fosse rimasto ulteriormente atterrato. Che quindi aveva diretto di uffizio all’attuale Signor Intendente della Provincia un rapporto, col quale gli aveva dimandato il permesso di rimetterlo di nuovo a proprie spese. Nel ciò sentire non potei non rimanere sommamente compiaciuto del sentimento veramente Italiano mostrato a tal modo da una persona che strettamente mi appartiene, e che amo e stimo moltissimo per le sue ottime qualità, e per l’affettuoso attaccamento che ha alla mia persona ed alla mia famiglia.

Quel discorso intanto mi eccitò la voglia di rivedere dopo tanti anni quel luogo tanto per l’Italia memorando. Mi condusse ivi il dì seguente lo stesso Signor Fasoli. Trovai che il monumento di cui si tratta non è del tutto abbattuto. Vi rimane tuttavia fuori terra una linea dell’antica fabbrica formata di grandi e solidissime pietre lavorate che servivano allo stesso di base. Passai indi nel sito fabbricato della masseria S. Elia, ed osservai che la già detta lapide formava parte di un muro de’ diversi [c037] edificj rustici ivi costrutti, ed era situata a pochissima altezza dal suolo; il che la faceva rimanere esposta ad altri guasti che avrebbe potuto soffrire dalla indiscrezione della gente di campagna. Non potè ciò non recarmi ammirazione!

Avendo letta la iscrizione suddetta venni ad assicurarmi ch’era quella stessa che nel libretto ristampato da Felice Mosca nell’anno 1721 si vede riportata alla pag. 187. Dice ivi l’Editore sulla testimonianza dello Scrittore Giovanni Antonio Goffredo che la lapide suddetta fu apposta nell’Epitaffio eretto nell’anno 1583 sul luogo istesso del combattimento per ordine del Cav. Ferrante Caracciolo Duca di Airola, Preside allora della Terra di Bari e della Terra di Otranto[297]. Il tenore della iscrizione suddetta è il seguente

Quis quis es, egregiis animum si tangeris ausis,

Perlege magnorum maxima facta Ducum.

Hic tres atque decem forti concurrere campo

Ausonio Gallis nobilis egit amor.

Certantes utros bello Mars claret, et utros

Viribus, atque animis auctet, alatque magis,

Par numerus, paria arma, pares ætatibus, et quos

Pro patria pariter laude perisse juvet.

Fortuna, et virtus litem generosa diremit,

Et quae pars victrix debuit esse fecit[298].

Hic stravere Itali justo in certamine Gallos,

Hic dedit Italiæ Gallia victa manus.

In verità un fatto d’armi tanto celebre e classico avrebbe meritato una penna migliore. Ad ogni modo è sempre laudabile sommamente la buona intenzione, e ’l patriottismo del Duca di Airola nell’aver voluto a tal modo onorarne e perpetuarne la memoria. Non sarebbe forse fuor di proposito che alla iscrizione suddetta ne venisse sostituita un’altra dello stesso metro, che la metto in nota, la quale potrebbe un poco meglio corrispondere [c038] alle circostanze del fatto riportate nel precitato libriccino[299]. Ritornando ora alla onorevole proposta del Sindaco Fasoli per la restaurazione del monumento suddetto, si è veduta questa ritardata per più mesi per la seguente circostanza.

Il Signor Intendente della Provincia, benchè fosse stato animato da uguale impegno perchè la cosa avesse avuto il suo effetto, volle abbondare di civiltà e di riguardo verso il Capitolo di Trani. Quindi con sua lettera di uffizio diretta a quel degnissimo Monsignor Arcivescovo gli fece conoscere la dimanda del Signor Fasoli, onde si fosse compiaciuto di passarla a notizia del Capitolo, sentire le intenzioni dello stesso e comunicargliele. Quel Collegio rispose coll’aver dato il suo consenso colla condizione espressa però che nella esecuzione de’ lavori si avesse dovuto rimettere semplicemente l’antica lapide senz’altra aggiunta, e si fossero chiamati i suoi Deputati per essere presenti alla proposta ricostruzione del monumento suddetto.

[c039]

Il Sindaco Fasoli però non trovò per sè conveniente il ricevere leggi da chi non aveva verun dritto di dettarle, ed avere de’ Soprastanti per un’opera che sarebbe andata ad eseguirsi colla borsa sua, non con quella del Capitolo di Trani. Fece quindi osservare al Signor Intendente che quest’ultimo comunque si trovi ora proprietario di quello stesso fondo, nel quale tre secoli indietro il detto antico monumento in parte tuttavia esistente fu costrutto dalla Pubblica Autorità, non perciò il sito da esso occupato può appartenergli. Che il suolo occupato dai monumenti pubblici è di pubblica ragione, costituisce una proprietà dello Stato, e non può riputarsi giammai di privato dominio.

Che quindi mancava al Capitolo suddetto qualunque dritto e qualunque titolo per pretendere di dettar leggi e condizioni, e di presedere anche alla ricostruzione da lui proposta. Che anzi abusivamente si aveva appropriati gli avanzi del distrutto monumento, i quali non gli appartenevano. Soggiunse quindi che tutto ciò che può riguardare i monumenti pubblici che costituiscono una proprietà dello Stato, deve dipendere esclusivamente dalle disposizioni e dai regolamenti suggeriti dal Capo Politico della Provincia, o da S. E. il Signor Ministro dell’Interno, non già dalle velleità di qualunque privato, o Corpo Morale.

Queste giuste e ben fondate osservazioni del Signor Fasoli il Signor Intendente le comunicò al Capitolo suddetto, il quale non potè non sentirsene imbarazzato. Conseguenza quindi di tal diverbio è stata che il Capitolo unitamente al Sindaco di Trani son venuti a dichiarare che trovandosi il monumento suddetto nel tenimento di quella città, come innanzi si è detto, si sarebbero essi prestati a restaurarlo sollecitamente.

Quindi il detto Signor Intendente con sua lettera di uffizio diretta al Sindaco Fasoli del dì otto Agosto 1844 num. 2292 gli ha partecipato il risultamento suddetto, e gli ha soggiunto di aver creduto giusto d’inerire alla proposta del Sindaco di Trani a motivo che il sito del fondo S. Elia è nel tenimento di quella città: di aver quindi ordinata la regolare e celere esecuzione de’ lavori. Gli ha collo stesso uffizio espresso anche il meritato elogio per aver spinta una operazione da lui applaudita come gloriosa alla nostra Provincia, e diretta a far risorgere un antico oggetto di tanto cara ricordanza.

[c040]

Sono anch’io contento appieno che il mio giusto desiderio di veder rimesso di nuovo quel monumento di gloria pe ’l nome Italiano verrà a rimanere appagato in un modo molto per me soddisfacente, attesa la parte attiva che vi ha presa una persona che mi appartiene, ed ha saputo prevenire i miei pensamenti prima che gli avesse conosciuti.

FINE.

INDICE

L’autore al suo nipote Giovannino Jatta Pag. 3
 
Introduzione 5
 
INDICE DE’ CAPITOLI.
 
CAPO I.
Degli antichi Scrittori che hanno parlato della città di Ruvo PAG. 9
 
CAPO II.
Delle antiche monete della città di Ruvo 32
 
CAPO III.
La città di Ruvo deve credersi fondata dagli Arcadi che vennero nella Italia prima della Guerra di Troja 35
 
CAPO IV.
Li pregevoli vasi fittili, ed altri oggetti delle belle arti antiche trovati in Ruvo confermano vie più la sua origine Arcadica 56
 
CAPO V.
La origine Arcadica della città di Ruvo si desume anche dal nome alla stessa imposto dai suoi primi fondatori 90
 
CAPO VI.
Del sito in cui fu la città di Ruvo da principio edificata 99
 
CAPO VII.
Notizie della città di Ruvo fino all’epoca de’ Normanni 107
 
CAPO VIII.
Notizie della città di Ruvo al tempo della Dinastia Angioina 122
 
CAPO IX.
Notizie della città di Ruvo al tempo della Dinastia Aragonese 164
 
CAPO X.
Notizie relative alla città di Ruvo dall’epoca di Ferdinando il Cattolico fino a quella dell’attuale Dinastia Regnante 170
 
CAPO XI.
De’ diritti acquistati dal Regio Tavoliere di Puglia nell’agro Ruvestino e degli abusi dappoi introdotti 195
 
CAPO XII.
Degli abusi e gravezze che la città di Ruvo ha sofferte dalla prepotenza Baronale 209
 
CAPO XIII.
De’ giudizj dell’anno 1750, dell’anno 1797 e dell’anno 1804, e delle transazioni dell’anno 1751 e dell’anno 1805 239
 
CAPO XIV.
Fatti principali avvenuti nella città di Ruvo dalla fine del secolo XVIII in poi 261
 
CAPO XV.
Osservazioni sulla città di Ruvo, sulla sua Popolazione, sulla pregevole qualità e varietà del suo territorio, e sui disordini introdotti nella moderna Amministrazione comunale 304
 
AVVERTIMENTO
Sulla origine della città di Ruvo esposta dall’Autore 319
 
Indice generale 329
 
RVBASTINORVM NVMORVM CATALOGVS 1
 
FRANCISCI M. AVELLINII EPISTOLA 21
 
HISTORIA DEL COMBATTIMENTO DE’ TREDICI ITALIANI CON ALTRETTANTI FRANCESI 1
 
NOTA DELL’EDITORE 35

NOTE:

1.  Mazochii Commentarium ad tabulas Heracleenses Diatriba I cap. V. §. 2.

2.  Ptolomæus lib. 4 cap. I.

3.  Strabo lib. VI pag. 282.

4.  Vi è quì un errore manifesto. Trecento sessanta stadj formano quarantacinque miglia. Si può dire che sia questa la distanza tra Roma e Brindisi? È chiaro che si deve quì leggere CCCLX M. Pass.

5.  Cellarii Geograph. antiqua lib. II cap. IX sect. IV §. 580.

6.  Mazochii Commentar. in Tabulas Heracleæ pag. 522 n. 58.

7.  Marci Veseri Opera Historica, et Philosophica sacra, et profana pag. 709 ad 715.

8.  James Millingen Considerations sur la Numismatique de l’ancienne Italie = Azetium in Peucetia pag. 147 et 148.

9.  Cellarius Geographia antiqua lib. II cap. IX sect. IV §. 590.

10.  Il P. Arduino ha ripartiti i capitoli della Storia Naturale di Plinio in un modo diverso da quello in cui si trovano questi ripartiti in tutte le altre edizioni della stessa opera. Quindi li capi citati dai Scrittori secondo le antiche edizioni non battono con quelli che si trovano segnati nella edizione suddetta del P. Arduino. Ad evitare l’inconveniente che da ciò ne deriva, al margine di ciascuno de’ capi della sua nuova numerazione ha segnato il numero antico. Avrebbe potuto in vero risparmiarsi questo fastidio, il quale serve solo ad imbarazzare chi legge senza veruna utilità, e lasciare la numerazione de’ capi come si trova ripartita in tutte le altre edizioni.

11.  In altre edizioni vi è quì anche la parola Aquini.

12.  In altre edizioni si legge Deculani, non Æculani.

13.  In altre edizioni si legge Etinates, non Meritanes.

14.  In tutte le altre edizioni si legge quì Neritini, e non già Netini, vocabolo alterato e mutilato di proposito dal P. Arduino, come saremo or ora a vederlo. Nelle altre edizioni dopo la parola Neritini, vi è anche la parola Matini che quì manca.

15.  Non vi può esser dubbio che colla parola Rubustini sono indicati gli abitanti della nostra città di Ruvo. Ne convengono tutti i Comentatori di Plinio, e con essi anche il P. Arduino.

16.  Convengono essi del pari che sotto il nome di Butuntinenses sono indicati gli abitanti della città di Bitonto, antica città della Peucezia. Il Vesselingio anzi nelle sue note all’Itinerario di Antonino, di cui si parlerà in seguito, dice di aver veduta anche una moneta Bitontina. Il chiarissimo Canonico Mazocchi nel suo Commentario sulle Tavole di Eraclea alla pag. 37 dice che ne aveva una bellissima inedita. Io ne ho due. Il Signor Millingen nel suo libro innanzi citato alla pagina 149 e 150 reca anche le monete Bitontine. Non si comprende però come Plinio abbia situato Bitonto tra le città della Calabria, mentre non è distante da Ruvo più di nove miglia, e tanto negl’Itinerarj, de’ quali si parlerà in seguito, quanto nella Tavola Peutingeriana Bitonto e Ruvo sono segnate l’una dopo l’altra.

17.  In altre edizioni manca la parola Paltonenses.

18.  Non già Nerentini, ma bensì Neritini si legge nelle altre edizioni. Tal lettura poi la presentano, non già libri quidam, come dice quì l’Arduino; ma bensì tutte le altre edizioni di Plinio, non esclusa la bellissima edizione anche di Parigi dell’anno 1545, che l’ho pure nel mio Studio.

19.  Non si capisce come il Cellario abbia creduta tanto astrusa la investigazione del sito dell’antica Celia che Luca Olstenio l’ha così bene situata a poche miglia al di là di Bari. Quest’antica città è oggi uno de’ così detti Casali di Bari che ritiene tuttavia il nome di Ceglia che viene da Celia. È questa città segnata anche nella Tavola Peutingeriana. Il chiarissimo Canonico Mazocchi nel Commentario sulle tavole di Eraclea alla pag. 35 nota 51, ed alla pag. 38 parla di Celia, e ne reca una moneta con Greca leggenda. Reca le sue monete con tipi diversi anche il Signor Millingen nel precitato suo libro pag. 149. Io ne ho quattro. Ma la migliore testimonianza che Ceglia sia l’antica Celia sono gli eccellenti e magnifici vasi fittili Italo-Greci, ed altri monumenti di antichità che si sono ivi disotterrati ai tempi nostri.

20.  Ha voluto quì alludere alla emendazione della parola Νήτιον proposta anche da Luca Olstenio. Opinò egli da principio che dovesse alla stessa sostituirsi la città che nella Tavola Peutingeriana è chiamata Natiolum quasi come un diminutivo di Netium. Ma l’Olstenio che fu un accurato investigatore de’ luoghi ricedè ei medesimo da questo suo primo avviso, poichè riflettè che il Natiolum della Tavola Peutingeriana è messo sul litorale dell’Adriatico tra Bari, e Trani nel sito dell’attuale città di Giovinazzo, e non già dentro terra tra Celia e Canosa. Al che aggiungo che cotesta novella città della Tavola Peutingeriana al tempo di Strabone non esisteva ancora.

21.  Questa posizione proposta anche dal Palmerio si è confutata innanzi.

22.  Cellarius lib. II cap. IX sect. IV §. 575.

23.  Ferrarius Novum Lexicon Geographicum verbo Netium, et verbo Andria.

24.  Baudrand Geographia verbo Netium.

25.  Horat. Sermonum lib. I Sat. V v. 95.

26.  La città di Bitonto non altrimenti ha potuto essere indicata nell’Itinerario di Antonino che come un luogo di passaggio, e di riposo, e non già di fermata, giacchè da Ruvo a Bitonto segna undici miglia di cammino, e da Bitonto a Bari altre dodici miglia. Ventitre miglia sono il cammino regolare di una sola giornata, non di due giornate.

27.  Pratilli Della Via Appia lib. IV cap. XIII.

28.  L’antica strada della Guardiola che da Canosa mena a Ruvo si è resa troppo malagevole ed è rimasta oggi perfettamente abbandonata. La novella bellissima strada aperta fra Canosa ed Andria, Corato, Ruvo, Terlizzi, Bitonto etc. molto al di sopra dell’antica via Trajana, oltre di essere più gaja, offre un comodo che nulla fa desiderare. È quindi quella la strada che da tutti oggi è battuta.

29.  Guilelmus Appulus Poema Normannum lib. II vers. 27 et sequ.

30.  Giannone Storia Civile etc. lib. IX cap. II.

31.  Summonte Storia di Napoli tom. II cap. II pag. 186.

32.  Troyli Storia Napolitana tom. I part. II cap. IX della Provincia di Bari.

33.  Muratori Rerum Italicarum Scriptores Tom. V pag. 251.

34.  Muratori Rerum Italicarum Scriptores tom. X pag. 297.

35.  Pontanus De Bello Neapolitano lib. IV.

36.  Frontinus de Coloniis capi XIII.

37.  Robertus Stephanus Thesaur. Linguæ Latinæ tom. IV verbo Rubi.

38.  Cellarii Geographia lib. II cap. IX sect. IV §. 483.

39.  Idem dicto lib. II cap. IX sect. IV §. 533.

40.  Cicero Oratio pro Archita cap. X.

41.  Strabo lib. VI pag. 281 in fine.

42.  Pomponius Mela De situ Orbis lib. II.

43.  Silius Italicus lib. XII vers. 397.

44.  Magnan Miscellanea Numism. Tom. III Tav. 39.

45.  Dionys. Halicarnass. Antiquit. Roman. lib. I.

46.  Plinii II. Natur. Histor. lib. III cap. V.

47.  Dionys. Halicarnass. lib. X. Ab U. C. anno 300.

48.  Jamblico nel capo XXIX dice così: Per hæc utique studia tota Italia Philosophis repleta fuit, quæque antea obscura erat Pythagoræ causa Magna Græcia cognominata est, plurimis in ea Philosophis, Poetis, et Legislatoribus clarescentibus.

Porfirio ha detto al n. 20 che Pitagora aveva un gran seguito, ed i suoi discepoli erano tanto allettati, ed incantati dalle sue lezioni, ut non amplius in suas domos discedere sustinerent; sed una cum liberis, et conjugibus ingenti Homacoio ædificato condiderint illam, quae ab omnibus Magna Græcia vocata est in Italia: leges quoque, ac statuta ab ipso, tanquam divina præcepta acceperint, præter quæ quidquam facere illicitum sibi duxerunt.

49.  Cicero Tusculan. lib. I cap. 16.

50.  Idem Tusculan. lib. II. cap. 17.

51.  Gellius N. A. lib. III cap. 17.

52.  Secondo questa opinione otto sarebbero state le Regioni che componevano la Magna Grecia, cioè la Locrese, la Cauloniate, la Scillatica, la Sibaritica, la Eracleese, la Metapontina e la Tarantina, alle quali aggiungono taluni anche la Petelina dalla città denominata Petelia che Virgilio la crede una picciola città fondata da Filottete, la quale si rese dappoi grande ed illustre.

53.  È una gran disgrazia che questi libri, e specialmente quello di Porcio Catone non sia giunto fino a noi. Ci avrebbe date lo stesso le notizie opportune di tante città della Italia, la origine delle quali pe’l soverchio Laconismo degli antichi Geografi è rimasta in una perfetta oscurità.

54.  Cristofaro Cellario nella sua Geografia antica lib. II cap. IX sez. IV §. 566 crede favolose le diciassette età, o siano generazioni prima della Guerra di Troja quì mentovate. Conviene però nel fatto riportato da Dionigi di Alicarnasso, cioè nella venuta nell’Italia di Oenotro e Peucezio, e non si potrebbe in ciò non convenire venendo lo stesso fatto contestato anche dagli altri antichi Scrittori Greci e Latini, i quali ne sapevano più di noi come anderemo or ora a vederlo.

55.  Dionys. Halicarnassi lib. I.

56.  Pausaniæ Arcadica, sive lib. VIII cap. III.

57.  Idem loco supra citato cap. XLIII.

58.  Strabo lib. VI pag. 277 ad 282.

59.  Plinius lib. III cap. XI.

60.  Eclogæ seu excerpta ex libro XXI Diodori Siculi Cap. IV.

61.  Strabo dicto lib. VI pag. 283.

62.  Ptolomæi Geographia lib. I cap. I.

63.  Diodorus Siculus Bibliotheca Histor. lib. XX. cap. 80 pag. 714.

64.  Muratorius Rerum Italicarum Scriptores Tom. X pag. 297.

65.  Cellarius Geograph. antiqua lib. II cap. IX sect. IV §. 570.

66.  Pratilli Via Appia lib. IV cap. 6.

67.  Convengo nell’antichità della città di Altamura, poichè anche ivi si trovano buoni vasi fittili ed altri oggetti di antichità. Ma non sono persuaso appieno che sia questa l’antica città chiamata Sub Lupatia nell’Itinerario di Antonino, poichè non corrispondono le distanze in esso indicate.

68.  Dominici de Gravina Chronicon De rebus in Apulia gestis. Muratorius Rerum Italicarum Scriptores Tom. XII pag. 604.

69.  Regest. Serenissimi Regis Caroli II ann. 1309 lit. B. fol. 148 a t.

70.  Cedularium Reginæ Joannæ II ann. 1415 fol. 128.

71.  Regest. Caroli I anni 1772 lit. B. fol. 205.

72.  Si noti che il Garagnone è chiamato Castrum, vocabolo il quale corrisponde all’antico castello che ivi vi è, innanzi mentovato.

73.  Regest. Reg. Roberti anni 1324 lit. B. fol. 94.

74.  Fasciculus 86 fol. 55.

75.  Li tre Registri Angioini quì riportati corrispondono perfettamente a ciò che dice Domenico di Gravina che il Casale di Garagnone era governato dal Nobile Fra Rengaldo Ordinis Sacræ Domus Hospitalis.

76.  Ptolomæus lib. III cap. I.

77.  Plinius lib. III cap. XI.

78.  Horat. Sermonum lib. II sat. I vers. 34 et sequ.

79.  Risulta da ciò che il primo tratto del fiume Ofanto, ove sbocca nel mare tre miglia lungi dalla città di Barletta, era ai tempi di Strabone navigabile, e che la città di Canosa vi aveva un porto sei stadj o siano tre quarti di un miglio lungi dalla sua foce.

80.  Le isole Diomedee quì indicate sono oggi chiamate Isole di Tremiti e da Cornelio Tacito Trimetum lib. IV Annalium cap. 7. Tolomeo alla fine del capo I del libro III della sua Geografia dice che siano cinque; ma Strabone n’enumera due.

81.  Strabo lib. VI pag. 284.

82.  Questa favola l’ha elegantemente esposta Ovidio nel libro XIV delle Metamorfosi favola 10. Dice che un Legato di Turno di nome Venulo essendosi presentato a Diomede per dimandargli soccorso nella guerra in cui si trovava impegnato col Trojano Enea, Diomede si scusò mettendogli in veduta tutte le traversie che aveva sofferte per l’ira di Venere madre di Enea. Ma uno de’ suoi compagni di nome Acmene di carattere ardito, ed irritato inoltre da tante sofferenze, proruppe in invettive contro la Dea e disse, che altro ci può far ella di peggio? Il di lei odio contro tutti li seguaci di Diomede lo sprezziamo. Sotto un gran Duce grande anche è la nostra forza. Li suoi detti dal minor numero furono applauditi e dal maggior numero de’ suoi compagni furono ripresi. Mentre si accingeva a rispondere gli mancò la voce, gli crebbero le piume e rimase convertito in un uccello. La stessa sorte toccò a tutti gli altri che avevano a lui aderito. Virgilio nel libro XI dell’Eneide al verso 242, e seguenti reca la richiesta del soccorso fatta da Venulo ambasciatore di Turno a Diomede, e la di costui prudente risposta. Fa menzione anche della stessa favola; ma cenna che i di lui compagni erano stati già cangiati in uccelli prima dell’arrivo di Venulo, poichè Diomede nell’esporre a costui le traversie da lui sofferte s’incaricò anche della perdita già fatta de’ suoi compagni nel modo predetto.

Nunc etiam horribili visu portenta sequuntur,

Et socii amissi petierunt æthera pennis,

Fluminibusque vagantur aves (heu dira meorum

Supplicia!), et scopulos lacrymosis vocibus implent.

83.  Livii Histor. lib. XXV cap. 12.

84.  Arnobius lib. IV pag. 119.

85.  Silius Italicus lib. VIII vers. 242.

86.  Idem lib. IX vers. 60 et sequent.

87.  Plinius lib. III cap. XI.

88.  Ptolomæus lib. III cap. I.

89.  Li soli cittadini di Ruvo che si sono dimostrati amanti di conservare le antichità patrie sono stati i seguenti. Il fu Arcidiacono D. Giuseppe Caputi ha conservati tutti i vasi che si trovarono ne’ suoi fondi suburbani in occasione di essersi scavato il terreno per piantarsi una vigna. Sono questi molti, ma non scelti. Vi sono pero tra essi de’ vasi pregevoli. Altri, benchè in minor quantità, ne hanno riuniti D. Salvatore Fenicia, l’attuale Arcidiacono D. Vincenzo Ursi, e ’l fu mio cugino D. Pietro Cotugno, uomini colti, ed istruiti, ed amanti dell’onore della nostra Patria. Non posso che lodare sommamente questo loro sentimento che lo avrei desiderato anche in altri che hanno preferito l’interesse, benchè non fossero stati bisognosi.

90.  Anacreon De amatoribus Odarium.

91.  Apulej asinus aureus lib. II.

92.  Mazochii Commentarium ad Tabulas Heracleæ Diatriba III cap. 4 Sect. I Nota 10 pag. 121 et 122.

93.  Virgil. Georg. 1 vers. 262.

94.  Idem Georg. III vers. 157.

95.  Tacitus Annalium lib. III.

96.  Raul-Rochette Peintures antiques inedites etc. pag. 434 a 442 Planche XV.

97.  Q. Smyrnæi Derelictorum etc. lib. I.

98.  Di cotesta zona ne ha parlato Omero nel libro XIV della Iliade v. 214, e seguenti. Dice che Giunone si rivolse a Venere per conoscere il modo in cui avesse potuto piacere più a Giove, ed ispirargli un amore più caldo. Venere rispose che veniva volentieri a prestarsi alla di lei richiesta.

Dixit, et a pectoribus solvit acu pictum cingulum

Varium: in eo autem ei illecebres omnes factæ sunt:

Ibi inest quidem amor, inest desiderium, inest colloquium,

Blandiloquentia, quæ decipit mentem valde etiam prudentum.

Hoc ei imposuit manibus, verbisque dixit, et compellavit

Accipe nunc hoc cingulum, tuoque impone sinui

Contextum varie, in quo omnia facta sunt: neque te puto

Irritam redituram in eo quodcumque manibus tuis cupis.

99.  Raul-Rochette Monumens inédites d’antiquité figurée Grecque, Etrusque, et Romaine. Odisséide §. 2 pag. 259 à 262.

100.  Ibidem Planche XLIX L. A.

101.  Stat Briseis, Diomedes supra ipsam, et apud eos Iphis Helenæ formam admirantibus simillimi. Sedet ipsa Helena. Et prope eam Eurybates. Ulyssis esse hunc præconem coniicimus; est tamen adhuc imberbis. Ancillæ ibidem sunt duæ, e quibus Panthalis Helenæ adsistit. Electra heræ calceum subligat. Diversa ab his nominibus sunt quæ Homerus in Iliade usurpat, quo loco Helenam, et cum ea ancillas ad muros euntes facit. Sedet supra Helenam vir purpureo velatus amiculo, mæstus ut qui maxime: Helenum esse Priami filium fucile intelligas, vel prius quam inscriptionem legas. Pausaniæ Phocica, sive lib X. cap. 25.

102.  Pausaniæ Boeotica sive lib. IV cap. 35.

103.  Idem Eliacorum posterior sive lib. VI cap. 24.

104.  Plinii Histor. Nat. lib. XXXV cap. XL n. 26.

105.  Declaustre Dictionnaire Mythologique mot Graces.

106.  Millingen Considerations sur la Numismatique d’Italie pag. 151.

107.  Virgil. Buccol. Ecloga X. vers 26.

108.  Idem Georg. III vers. 392.

109.  Pausanias in Arcadicis, sive lib. VIII cap. 30.

110.  Natalis Comitis Mithologia lib. V Cap. 6.

111.  Diodorus Siculus Bibliotheca Histor. lib. IV cap. 37 pag. 168, et 169.

112.  Dionys Halicarnass. lib. VII circa finem.

113.  Non ometto che i vasi di Ruvo non sono deturpati da quelle stomachevoli oscenità che sono troppo familiari ne’ vasi di Corneto, di Vulci, e di Canino. Le pitture oscene le condanna giustamente Aristotile Polit. VII 15 (vulg. 17), le ripruova con indignazione Properzio eleg. II 5 vers. 19 et sequ. Il gusto di Tiberio per queste pitture fu vituperato da tutti gli Scrittori. Inveisce acremente contro le stesse S. Clemente Alessandrino in Protrept. pag. 52, e 53. La continenza, e moderazione de’ vasi di Ruvo in questa parte onora molto la morale tanto degli antichi abitanti della nostra città che de’ Pittori.

114.  Ne’ Registri Normanni, Angioini ed Aragonesi che recherò in seguito è questa città chiamata Terlitium, e non Turricium. Nelle carte della Geografia antica pubblicate da diversi Scrittori manca questo nome estraneo alla stessa. Ma ne’ registri Pubblici, e nelle carte Geografiche recenti è chiamata Terlizzi. Non si cangiano i nomi delle città riconosciuti dalla Pubblica Autorità per potergli adattare ai voli della propria fantasia, come ha fatto quì il Sig. Martorelli.

115.  Tra le tavole di Eraclea, ed un vasellino vi è quel divario che passa tra un Elefante, ed una formica. Malgrado ciò il dottissimo Canonico Mazocchi non sognò mai di ripetere l’antichità di quella città dalle sole tavole ivi rinvenute, ma anche dalla Storia, dalla Geografia antica, e dalle monete: anzi questo nostro illustre, e sodo Scrittore fu molto cauto nello sbilanciare il suo avviso sia sull’antichità, sia sulla origine Greca delle nostre città, e no ’l fece altrimenti che sull’appoggio di sicuri monumenti, e specialmente delle antiche monete, le quali non possono fallire. Non si è inteso ancora che su di un vasellino trovato per azzardo in un sepolcro, siasi elevata una Torre, e creata una supposta antica città sconosciuta del tutto agli antichi Scrittori e Geografi, senza essersi riflettuto che quel sepolcro ha potuto appartenere ad altra convicina città sicuramente antica, e che un sepolcro antico si può trovare anche nel territorio di una città recente. Per ragionarsi a questo modo bisogna aver la testa molto riscaldata.

116.  Giacchè siam passati alle frivolezze sta bene che quì si osservi che nell’Italiano si dice Terlizzi, e non Terlizzo, e che i Popolari dicono Terrizz, e non Turrizzo. Il linguaggio popolare del luogo io lo conosco assai meglio di Martorelli.

117.  Avrebbe dovuto quì far conoscere il Sig. Martorelli i nomi degli uomini dottissimi che gli fecero pervenire la copia di cotesta lapide, e ’l luogo ove possa la stessa essere osservata da chi ne sia curioso. Non si comprende poi come nella parola mutilata Turri... abbia egli letta con tanta chiarezza, e felicità il nome della città chiamata Turricium creata solo dalla forza della sua immaginazione! Molto meno ci ha fatto sapere come il suo Turricium possa combinarsi colla parola FIL. che la precede. Le due parole unite insieme darebbero il seguente risultamento Filius Turricii. Corrisponde lo stesso a meraviglia al concetto del Signor Martorelli!!! In fine non è cosa meno lepida il vedersi che da una pretesa lapide che segna l’anno DCCCVI ne abbia egli inferito che il suo Turricium già esisteva inter Apuliæ urbes felicioribus sæculis! Belle visioni!

118.  È cosa veramente mirabile che ciò che non vide Plinio che visse ai tempi di Trajano lo abbia veduto Martorelli tanti secoli dopo! Il primo nel luogo riportato innanzi al Capo III ci fece conoscere un per uno i nomi delle antiche città della Peucezia, tra le quali Ruvo e Bitonto. E ’l Turricium di Martorelli dov’è? È ben curioso anche l’essersi quì detto che la nobile città denominata Turricium era edificata prope viam Trajanam! La via Trajana però, di cui si vedono ancora gli avanzi, menava direttamente da Ruvo a Bitonto allo stesso modo che si vede riportata anche nell’Itinerario di Antonino, e nell’Itinerario Gerosolimitano. La città di Terlizzi è a due miglia di distanza dalla via Trajana al lato sinistro di essa. Come si è potuto portare tant’oltre il travedimento anche su i fatti che cadono sotto i sensi?

119.  Martorellius De Regia Theca Calamaria Prolegomena.

120.  Si noti che nella Tavola Peutingeriana cotesto Rudas non si vede riportato col solito segno che distingue le città. Si vede bensì tal nome scritto vicino ad una laguna che sembra un lago, il quale comunica col mare Adriatico per mezzo di un canale segnato nella Tavola suddetta nel sito intermedio tra Barletta e Trani. Quindi cotesto antico corso di acqua che un tempo partiva da un lago ora scomparso pare che non possa esser altro che quella vasta, e profonda lama, o sia vallone che vi è a mezza via tra Barletta e Trani, sul quale ora passa la bella strada consolare della marina per mezzo di un ponte ben lungo e magnifico ch’è convenuto ivi formarsi con una spesa non lieve.

121.  Muratorius Rerum Italicarum Scriptores Tom. X pag. 297.

122.  Regest. Caroli I anni 1274 lit. B. fol. 322 a t.

123.  Non manco quì di avvertire che lo Stemma della nostra città adoperato ne’ tempi a noi più vicini (giacchè quale fosse stato lo Stemma antico non si conosce), è una pianta di Rovo fiorito messo in una testa. È chiaro che i nostri colti Antenati adottarono nel ciò fare l’errore di Roberto Stefano e di altri. Ora però che si è venuto a conoscere la sua illustre origine per lo innanzi ignota, bisogna che cotesto errore sia corretto, ed il vero Stemma della nostra città si prenda dalle antiche monete che ci fanno conoscere la vera etimologia del suo nome, come saremo or ora a vederlo.

124.  Dionys. Halicarnass. lib. I.

125.  Pausaniæ Arcadica, seu liber VIII cap. 43.

126.  Virgil. Æneid. lib. XI vers. 246.

127.  Servius ad Virgil. Æneid. lib. VIII vers. 9.

128.  Strabo lib. VIII p. 360. Pausaniæ Messenica, sive lib. IV Cap. 31. Stephanus Bizantinus de Urbibus in verbo Thurii.

129.  Strabo lib. VIII pag. 386.

130.  Herodot. Histor. lib. 1 Cap. 145.

131.  Pausaniæ Arcadica, sive lib. VIII Cap. 15 in fine.

132.  Strabo lib. VIII pag. 387.

133.  Idem pag. 388.

134.  Pausaniæ Arcadica, sive lib. VIII cap. 25.

135.  Pausaniæ Achaica, sive lib VII cap. 6.

136.  Herodotus lib. I cap. 145.

137.  Millingen Considerations sur la numismatique de l’ancienne Italie. Rubi in Peucetia pag. 150.

138.  Pratilli Via Appia Cap. XIV pag. 528.

139.  Dionys Halicarnass. lib. I.

140.  Virgilius Eclog. X. vers. 31.

141.  Frontinus De coloniis cap. XIII.

142.  Pratilli Via Appia lib. IV cap. XIV.

143.  Tacitus Annalium I cap. 54.

144.  Svetonius in vita Tiberii Claudii Cæsaris cap. VI.

145.  Idem in vita Serv. Sulpic. Galbæ cap. VIII.

146.  Brissonius de Verbor. significat. verbo Augustalis.

147.  Muratorius Rerum Italicarum Scriptores Tom. IV pag. 47.

148.  Idem Tom. V pag. 77.

149.  Lupi Protospatæ Rerum in Regno Neapolitano gestarum ab anno 850 usque ad annum 1102 Breve Chronicon apud Muratorium dicto Tom. V pag. 45.

150.  Non si comprende in primo luogo con quali facoltà abbia potuto il Vescovo di Ruvo donare al Priore di Montepeloso una parte de’ beni della sua Chiesa. Molto meno s’intende il perchè volle esigere la scorta di un uomo a cavallo tutte le volte che si recava non solo a Bari, ma anche a Canosa. Per Bari essendo stato il Vescovo di Ruvo sempre suffraganeo dell’Arcivescovo di Bari, si può intendere il perchè esser poteva obbligato a fare questo viaggio. Ma per Canosa bisogna dire che vi siano stati allora tra le due città altri rapporti Ecclesiastici a noi ignoti.

151.  Alexandri Telesini Cœnobii Abbatis Historia lib. I cap. X et sequent. et signanter cap. XVIII et XIX apud Muratorium dicto Tom. V pag. 618 et 619.

152.  Virgilius Georg. lib. I vers. 266.

153.  Faber Basilius Thesaurus linguæ latinæ verbo Rubeus.

154.  Cotesto Alessandro fratello di Tancredi dev’essere quegli che l’Abate Telesino nel luogo innanzi trascritto, e nel capo XXXIII e seguenti del libro II della sua Storia lo chiama Alexander Comes.

155.  Romualdi Salernitani Chronicon apud Muratorium Rer. Ital. Scriptor. Tom. VII pag. 186.

156.  Falconis Beneventani Chronicon apud Muratorium dicto Tom. V pag. 109 et 115.

157.  Abbas Telesinus loco supra citato cap. XLI ad XLVI. Falco Beneventanus loco supra citato pag. 115.

158.  Romualdi Salernitani Chronicon loco supra citato pag. 196 lit. E.

159.  Hugonis Falcandi Historia Sicilia apud Muratorium dicto Tom. V pag. 262 et sequent.

160.  Romualdus Salernitanus loco supra citato pag. 209 lit. B.

161.  Richardi de S. Germano Chronicon apud Muratorium Rerum Ital. Script. Tom. VII pag. 977 lit. D.

162.  Ughellius Italia sacra Tom. VII Episcopus Rubensis.

163.  Constitutio Regni Magnæ Curiæ lib. I tit. 48, et Constitutio Post mortem Baronis lib. III tit. 25.

164.  Vi dev’essere quì un errore di nome in cui cadde l’amanuense che copiò e registrò l’originale Privilegio, giacchè il concessionario che quì è chiamato Rodulfus de Colna ne’ Registri posteriori che saranno più giù riportati è chiamato Arnulfus de Colant. Anzi è notabile che in una Lettera Regia scritta al Giustiziere della Terra di Bari nello stesso anno 1269 per taluni danni recati dagli uomini di Molfetta nel territorio di Ruvo si legge così. Ranulfi de Colant Domini Terræ Rubi. Regest. Caroli I anni 1269 lit. B fol. 187 a t.

165.  Regest. Caroli I anni 1269 Lit. J fol. I.

166.  La rimota antichità della Chiesa di Calentano la pruova anche una lapide che ivi vi è. Si vede ora questa incastrata in uno delle mura della Sacrestia; ma sono stato assicurato che stava prima nella scala dell’abitazione del Cappellano. Che non molti anni indietro uno de’ passati Cappellani la fece torre con poco accorgimento da quel sito, e situare nella detta Sacrestia, la di cui costruzione si mostra molto più antica dell’epoca segnata nella lapide suddetta nel modo che siegue

MCCCCXXXIII
HOC OPVS DEVOVIT FIERI
FRATER ANDREAS DE CVRNIMO
AD HONOREM
B. M. V. MATRIS DE CALENTANO
MAGISTER PALMIRI
FECIT

167.  Regest. Caroli I anni 1268 lit. A fol. 155 a t.

168.  Regest. Caroli I anni 1277 lit. F fol. 24 108, et 233 a t. Anni 1278 lit. B fol. 67 a t. Et anni 1279 lit. B fol. 42.

169.  Regestum Caroli I anni 1272 lit. A fol. 108 a t.

170.  Dicto Regest. fol. 21 a t.

171.  Regest. Caroli I anni 1276 et 1277 lit. A fol. 82.

172.  Regest. Caroli I anni 1274 lit. B fol. 320 a t.

173.  Vi dev’essere quì nel Registro per necessità o un errore di data nella Lettera del Re, o un errore nella indicazione del tempo assegnato alla esecuzione degli ordini da lui dati. Come mai i feudatarj chiamati al servizio militare avrebbero potuto trovarsi a S. Germano undici giorni prima del dì 25 Gennajo, data della lettera, colla quale veniva loro ciò ordinato?

174.  Regest. Caroli II ann. 1291 lit. A fol. 79 a t. et fol. 113.

175.  Fasciculus 86 fol. 55.

176.  Dal confronto di cotesti Registri viene a conoscersi l’epoca di quella informazione senza data de’ feudatarj e suffeudatarj della Terra di Bari di cui innanzi ho parlato. Costando dai Registri di Carlo II testè riportati che la città di Ruvo nell’anno 1291 era tuttavia posseduta dalla famiglia de Colant, e da quelli del Re Roberto che nell’anno 1310 Galeraimo de Juriaco aveva perduta quella città per contumacia, è conseguenza che la predetta informazione nella quale è riportato come Feudatario di Ruvo Roberto de Juriaco è dell’epoca del Re Carlo II. Cotesto Roberto nell’anno 1291 non era ancora Feudatario di Ruvo, e nell’anno 1310 aveva cessato di vivere, posto che il feudo di Ruvo era passato a Galeraimo che lo perde per la sua contumacia. Un registro dunque che parla del detto Roberto è del tempo intermedio, quando regnava ancora Carlo II.

177.  Non è nella lettera nominalmente indicato il feudatario di Ruvo a cui era stata diretta. Ma dalla data di essa dell’anno 1307 e dalle cose dette innanzi risulta che non poteva questi esser altri che Roberto, o Galeraimo de Juriaco.

178.  Il Capitolo del Re Carlo I quì trascritto è registrato con migliore ortografia al num. 83 de’ suoi Capitoli riportati nel Codice delle nostre antiche leggi. Pruova lo stesso gli abusi della prepotenza Baronale a cui fu nella necessità di apporre un freno.

179.  Regest. Caroli II anni 1306 et 1307 lit. B fol. 227.

180.  Ambrogio Calepino nel suo Vocabolario dice cosa è la giumella di cui quì si parla. Giumella sorta di misura, ed è tanto quanto cape nel concavo di ambe le mani per lo lungo accostate insieme quantum cavis manibus continetur.

181.  Ciò pruova che in ogni tempo si è continuato a mantenere in Ruvo quelle officine di vasi fittili che ci hanno dati tanti capi-lavori antichi di belle e capricciose forme.

182.  Vi è quì sicuramente un errore nel Registro perchè queste parole non s’intendono.

183.  Regest. Caroli II anni 1307 lit. B fol. 115.

184.  Fin dal tempo del Re Carlo I il Feudatario di Ruvo si querelò di quello di Terlizzi perchè contro ogni dritto stendeva le mani sul territorio di Ruvo e cercava usurparlo a danno suo e degli abitanti della città di Ruvo. Quindi scrisse il Re nel dì 14 dicembre 1269 una lettera molto energica al Giustiziere della Terra di Bari perchè si fosse conferito di persona sul luogo e con tutta diligenza e fedeltà avesse verificato l’esposto, e trovandolo vero, avesse imposto al Feudatario di Terlizzi sub certa pœna, e nel suo nome che non avesse più osato di stendere le mani sul territorio di Ruvo. Regest. Caroli I anni 1269 lit. D fol. 109 a t.

185.  Regest. Regis Roberti anni 1309 lit. H fol. 304 a t.

186.  Regest. Regis Roberti anni 1314 lit. C fol. 129.

187.  Tristano Caracciolo, Costanzo e Summonte citati da Giannone nel principio del libro XXIII della sua Storia Civile.

188.  Muratorius Rerum Italicarum Scriptores Tom. XII pag. 547.

189.  È facile il comprendere che nel Registro di cui sto parlando si volle minutamente riportare la storia delle discussioni seguite sulla dimanda di Margherita Pipina attese le circostanze delicatissime nelle quali la Regina si trovava in faccia al Pubblico. Si fece ciò per allontanare il sospetto che la Regina avesse voluto favorire la vedova di uno de’ rei principali della morte del Re Andrea, e per far vedere che si era resa alla stessa strettamente la giustizia dopo matura discussione.

190.  Regest. Joannæ I anni 1346 lit. C fol. 10.

191.  Muratorius Rerum Italicarum Scriptores Tom. XII pag. 610.

192.  Idem Tomo supra citato pag. 636 et 637.

193.  Giannone Storia civile etc. lib. XXIII cap. I con tutti gli altri Scrittori da lui citati.

194.  Polybii Histor. lib. V.

195.  Muratorius loco supra citato pag. 585.

196.  Muratorius ibidem pag. 680.

197.  Il Capitolo di Ruvo ha portata sempre la massima diligenza nella conservazione di quel pregevole edificio, e specialmente nel buono mantenimento de’ vasti tetti che lo cuoprono. Le ultime volte però che sono stato in Ruvo ho veduto non senza un positivo rancore che le riparazioni e gl’indispensabili nettamenti de’ tetti erano stati per più anni trascurati. Quindi le acque piovane avevano cominciato a penetrare nella Chiesa. Non potei contenermi dal mostrarne il mio malcontento. Sono stato però dopo assicurato dal Signor Primicerio D. Domenico Chieco di essersi già dato l’opportuno riparo a questo grave inconveniente che avrebbe potuto trarsi dietro conseguenze assai fastidiose. Debbo quindi augurarmi che il Capitolo suddetto nel tratto successivo saprà su questo articolo interessantissimo meritarsi quella stessa laude che gli sarà da me resa per le altre cose che in seguito anderò a dire.

198.  Muratorius loco supra citato pag. 652.

199.  Matteo Villani lib. I cap. 93. Lib. II cap. 24 41 e 65 e lib. III cap. 41. Costanzo lib. VI. Giannone Storia civile lib. XXIII cap. I.

200.  Fasciculus XI fol. 176 et 177.

201.  Regest. Regis Ladislai anni 1404 lit. B fol. 151.

202.  Scipione Mazzella Descrizione del Regno di Napoli lib. II sulla Famiglia Orsini.

203.  I privilegj quì enunciati non si trovano registrati ne’ Quinternioni. È chiaro però che la città di Ruvo con altri feudi di sopra riportati pervenne a Gabriele del Balzo Orsini dal Principato di Taranto, qual figliuolo secondogenito del Principe di Taranto a cui apparteneva come lasciò scritto Scipione Mazzella nel luogo innanzi citato alla pag. 158.

204.  Repertorio Primo de’ Regj Quinternioni di Terra di Lavoro, e Contado di Molise fol. 1. Repertorio Primo de’ Regj Quinternioni delle Provincie di Capitanata e Bari fol. 172.

205.  Quinternione III fol. 127 e 193 a t. Vedi anche i Repertorj innanzi citati.

206.  Detto Repertorio Primo de’ Quinternioni delle Provincie di Capitanata e Bari fol. 172.

207.  Literarum Partium XVIII anni 1478 ad 1479 Camera IX lit. A Scanzia I Num. 37 fol. 208 a t. ad 209.

208.  Tacitus Annalium lib. IV.

209.  Guicciardini Storia d’Italia lib. V. Cantalicii Consalvia lib. II. Pauli Jovii vita Consalvi lib. II. Giannone Storia Civile del Regno di Napoli lib. XXIX cap. IV.

210.  Non è forse ciò improbabile. Ne’ giornali pubblicati al tempo dell’Impero Francese mi ricordo di aver letto che dopo la famosa battaglia di Jena guadagnata da Napolione Buonaparte contro i Prussiani, i Francesi abbatterono la colonna di Rosbacch, trofeo della insigne vittoria ivi riportata da Federico il Grande Re di Prussia. Ma coll’aver tolta quella colonna fecero sì che non abbiano essi perduta quella giornata? Oscurarono forse con ciò la gloria militare di Federico che seppe guadagnarla?

211.  La città di Castellaneta non è vicina a Barletta; ma bensì alla distanza di ottanta miglia e più. È questa una circostanza da valutarsi nel fatto di cui si parla non bene riportato dal Guicciardini come più giù saremo a vederlo.

212.  Ruvo, non Rubos, non è stata mai una Terra; ma in tutti i tempi è stata sempre considerata come una città distante da Barletta sedici miglia e non già dodici.

213.  Guicciardini Storia d’Italia lib. V.

214.  Non è improbabile che quella parte della muraglia che Paolo Giovio dice di esser crollata sotto i colpi dell’artiglieria di Consalvo, sia stata quella che tredici anni dopo nell’anno 1516 fu dai Ruvestini riedificata dalle fondamenta e di miglior costruzione, come più giù saremo a vederlo.

215.  Pauli Jovii Vitæ Illustrium Virorum Vita Consalvi lib. II.

216.  Cantalicii Consalvia Lib. II. Raccolta de’ Scrittori Napolitani di Gravier Tom. VI.

217.  Tomo XIX della detta Raccolta di Gravier pag. 104 e 105.

218.  Tacitus Histor. lib. I.

219.  Mentre questo foglio stava per passare al torchio, il nostro giornale delle due Sicilie del dì 14 Febbrajo 1844 n. 34 sotto la rubrica di Spagna ha recato il seguente articolo dell’Heraldo (foglio Ministeriale). Si dice in esso che Consalvo di Cordova fece edificare il magnifico Monastero di S. Girolamo nella città di Granata, ove volle esser sepolto, con aver legato allo stesso la sua spada, il suo ritratto in tela e ’l suo busto. Si seguita a dire che cotesto Monastero rispettato dai Francesi nella invasione dell’anno 1810 per i tanti pregevoli monumenti di belle arti che vi erano, è rimasto ora devastato dalla guerra civile, e si soggiugne: Ma ciò ancora più imperdonabile è il furto della spada dell’Eroe ch’era nella Cappella principale con un quadro rappresentante il Gran Capitano che offre la sua spada al Papa e ne aspetta la benedizione. Se ne veggono ancora i modiglioni. Dopo tante profanazioni ne mancava una ultima. La tomba dell’eroe venne aperta ed i suoi avanzi derubati e sparsi qua e là; una delle sue mandibole con tre denti è per caso rimasta con qualche altro frammento. — Per aggiugnere un ultimo tratto a tale racconto, diremo che durante l’insurrezione che scoppiò nell’anno 1835, la spada di Consalvo di Cordova fu venduta per tre franchi. Dio mi guardi dal compiacermi di sì fatte vandaliche e detestabili profanazioni. Ma un avvenimento di tal fatta seguìto in un Paese che ben lo conosco, ed ove anzi si pecca di soverchio orgoglio nel vanto degli uomini di guerra prodi e famosi che ha prodotti, non può non farmi una forte impressione! Desidero intanto di tutto cuore che la Misericordia di Dio gli abbia perdonata la enorme ingiustizia, ed iniquità commessa a danno della nostra povera città.

220.  Quinternione VIII segnato col num. 19 fol. 140 a 143.

221.  Quinternione XXI fol. 212.

222.  Nello strumento di permuta tra il Vescovo e Clero di Ruvo e Giovanni de Mapono dell’anno 1392 riportato innanzi nel Capo VIII pag. 130 si dice che la casa data dal Vescovo e dal Clero era sita in loco Porte de Noha. Quale sia stata la Porta che portava questo nome lo spiega un pubblico strumento di proccura fatta dalla Università di Ruvo nel dì ultimo Novembre 1608 per gli atti del Notajo Decio Pincerna di Ruvo ove si legge così: Accessimus ad domos ipsius Universitatis a Porta de Noja juxta suos fines, ubi congregari solet dicta Universitas pro actis publicis peragendis. La casa della Università quì indicata stava appunto nel sito di questa porta come saremo or ora a vederlo. Cotesta proccura sta al foglio 121 del Protocollo di quell’anno del detto Notajo Pincerna. Conservatore della sua scheda quando io lo lessi era il fu Notajo D. Giuseppe Girasoli di Ruvo. Ignoro il di lui successore. Dai precitati due strumenti si può conchiudere che l’antico nome della porta suddetta era Porta di Noja.

223.  Pare che siasi con ciò ritenuta nelle forme Cristiane una costumanza delle antiche città Greche, le quali mettevano sulle loro porte la statua di Minerva. Dal che prese cotesta Dea anche il nome di Πολιάς o Πολιοχος urbis custos.

224.  L. 1 et L. 87 ff. De verbor. signif.

225.  L. ff. Ne quid in loco sacro.

226.  Tra i vasi fittili antichi trovati in Ruvo ve ne sono stati parecchi con figure a rilievo. Ne ha di essi acquistati il Real Museo. Io ne ho tre, e D. Salvatore Fenicia uno. So con sicurezza di esserne passati altri anche all’Estero. A cotesti vasi allude la parola sculpta.

227.  Rileva ciò la circostanza che molti convalescenti delle convicine città vanno a Ruvo di proposito per ristabilirsi attesa la somma bontà dell’aere che ivi si respira, e la ridente situazione della nostra città.

228.  Partium XXXIX Ann. 1522 a 1523, ora col num. 110 fol. 24 a t.

229.  Comune XLII 3. Anno 1523 lit. H n. 103.

230.  Fa veramente meraviglia come i Vicerè soffrivano e permettevano ai Baroni un linguaggio tanto orgoglioso che offendeva i dritti della Sovranità. Non erano i Baroni Signori degli uomini de’ loro feudi, ma erano anch’essi sudditi del Re come tutti gli altri. Cotesto titolo quindi di Signori peccava di soverchia baldanza.

231.  Registro delle Consulte della Regia Camera della Sommaria per gli anni 1600 e 1601 N. 101 fol. 54 a 63.

232.  Stefano de Stefano Ragion Pastorale Tom. I cap. II pag. 42.

233.  Si noti che nell’anno 1509 la città di Ruvo era posseduta da D. Isabella de Requesens moglie del detto Vicerè D. Raimondo di Cardona. Ecco perchè si dice quì la cità vostra de Rubo.

234.  Grande Archivio — Atti riguardanti la mezzana di Ruvo Camera Prima sotto i tetti Lettera D Scanzia V n. 23.

235.  Si parla quì della difesa comunale eretta nell’anno 1510 di cui innanzi si è parlato.

236.  Archivio della Regia Dogana di Foggia Tomo I delle Istruzioni Doganali fol. 113.

237.  De Dominicis Stato Politico ed Economico della Dogana di Puglia Part. I cap. V n. 22 pag. 217.

238.  Nel linguaggio Doganale le contravvenzioni di questa specie ai regolamenti del Tavoliere, le quali davano luogo ad un procedimento, si chiamavano disordini.

239.  Quando veniva a morire un feudatario colui che gli succedeva nel feudo era nell’obbligo di pagare al Real Tesoro la metà della rendita che lo stesso aveva data nell’anno della morte del suo predecessore. Cotesto pagamento si chiamava Relevium. Per liquidarsene l’importo il Tribunale della Regia Camera della Sommaria prendeva informazione della rendita ritratta da ciascuno de’ corpi, o dritti che componevano il feudo. Ecco come dalle informazioni de’ rilevj si veniva a conoscere quali questi erano.

240.  Questo fondo è ora di mia proprietà avendolo acquistato nell’anno 1808 dopo l’abolizione della feudalità unitamente ad un altro fondo adiacente denominato la Piantata di qualità burgense, di cui vi sarà in seguito la occasione di far menzione.

241.  Si noti che nello strumento dell’anno 1552 riportato innanzi alla detta pag. 201 Fabrizio Carafa Duca d’Andria e Conte di Ruvo s’incaricò di cotesto antico contratto, e quindi fece la seguente dichiarazione: Pro cujus nemoris herba et pascuo dicta Regia Curia annuatim pro servitio Regiæ Dohanæ Menæpecudum Apuliæ solvit eidem Excellenti Comiti annuos ducatos quincentum de carolenis argenti, in quo nemore non possunt intrare pecudes nisi in Vigilia Nativitatis Christi anni cujuslibet. Dal che viene a risultarne che de’ già detti annui ducati mille e cento convenuti nell’anno 1473 ducati cinquecento si pagavano per l’erba del Bosco di Ruvo ed altri seicento per quella delle murge di Ruvo e Minervino.

242.  Repertorio de’ Registri Comuni fol. 122.

243.  Per demanio de Rubo si deve quì intendere il demanio delle murge. Primo perchè gli Scrittori Doganali riportandosi alla convenzione dell’anno 1473 passata tra il Re Ferdinando I di Aragona e Pirro del Balzo dicono che il riposo per le pecore del Tavoliere fu accordato nel demanio delle murge. Secondo perchè il rimanente demanio di Ruvo è stato sempre un demanio comunale occupato dalle masserie di semina de’ cittadini, sul quale Pirro del Balzo non poteva avervi verun dritto, nè vendere l’erba di esso al Regio Tavoliere.

244.  Commun. XVIII ann. 1473 e 1474.

245.  Regest. Caroli II anni 1306 et 1307 fol. 222.

246.  L’espressioni quì adoperate sono molto pregne, e s’intende bene a che alludono. Mi dicevano i vecchi di Ruvo che più di un Abruzzese entrato in quel bosco valendosi del proprio dritto non si era trovato più nè vivo, nè morto. Gli antichi Duchi di Andria non sono stati coi Locati Abruzzesi così benigni e sofferenti come lo furono i Padroni di masserie Ruvestini da essi flagellati barbaramente.

247.  Stefano de Stefano Tom. I cap. XI n. 36.

248.  In quell’epoca le contribuzioni dovute allo Stato si pagavano per fuochi. Si numeravano le famiglie di ciascun Comune. Ogni famiglia formava un fuoco. Ogni fuoco aveva la imposta determinata, e dal numero de’ fuochi risultava la somma che pagar doveva il Comune. Quindi il prezzo della Giurisdizione della Portolania, e de’ Pesi e Misure fu caricato sulla somma che il Comune di Ruvo contribuiva allo Stato secondo il numero de’ fuochi.

249.  Partium XXXIV ora 4018 anni 1629 et 1630 fol. 247 a t.

250.  Regest. Partium XLIV anni 1607 ad 1608 Camera IX lit. Q Scanz. I n. 166 fol. 160 retro et 161.

251.  Atti per gli assegnatarj de’ Fiscali della città di Ruvo, etc.

252.  Fol. 216 detti atti.

253.  Atti di discarichi prodotti dall’olim Amministratori della città di Ruvo per la revisione de’ loro conti fol. 40 a 42.

254.  Atti per i creditori di attrasso sopra la Università di Ruvo in Provincia di Bari vol. II fol. 1 a 25.

255.  Fol. 44 e 48 detti atti.

256.  Pe ’l noto Capitolo Non sine prudentis del Re Ladislao dell’anno 1403 era vietato ai Notaj delle città Baronali di stipulare atti a favore de’ Baroni, ed erano questi obbligati a valersi di Notaj di città Regie. Ecco perchè la Casa d’Andria si era valuta de’ Notaj delle Regie città convicine.

257.  Si noti che con questo articolo rimase abolita col fatto la fida nelle cinque vastissime contrade demaniali denominate le matine, le strappete, le ralle, monserino e bel luogo, perchè in esse il terreno è tutto appatronato ed occupato dalle masserie di semina de’ cittadini.

258.  Per effetto di questo patto dall’anno 1805 in poi non sono più venuti fidatarj forestieri del Barone nella contrada delle murge, e quel pascolo estivo preziosissimo è rimasto per lo intero al pieno comodo de’ cittadini. Stabilita col patto IV la preferenza degli animali de’ cittadini, ed inibito col patto quinto nelle murge la fida su i terreni seminatorj de’ particolari e de’ Luoghi pii che sono sparsi in tutti i punti di quella contrada, si venne a rendere impossibile l’ingresso de’ fidatarj forestieri in tutta la continenza delle murge, e quindi finì da se stessa la fida degli animali forestieri.

259.  Mi pregio di quest’antica amicizia di famiglie. Il fu Canonico Teologo D. Giuseppe Sancio, Zio Paterno del Commendatore D. Antonio ed uomo dottissimo, mi diè il S. Battesimo e fu il Direttore de’ miei primi studj di Umanità, ne’ quali fui istituito in Ruvo da un Prete chiamato D. Angiolo Consolo, che se ne occupò colla massima cura ed impegno, di cui son grato e riconoscente alla di lui memoria. La stessa riconoscenza serbo al detto mio Compare Canonico Teologo Sancio che ogni mese in presenza del detto mio maestro prendeva conto del mio profitto e dava allo stesso la opportuna direzione per la mia istruzione.

260.  Tacitus Historiarum lib. I.

261.  Comunque il Duca d’Andria avesse avuta in Ruvo la Giurisdizione Civile e Criminale, aveva il Re sospesa in quell’epoca la Giurisdizione di diversi Feudatari tra i quali anche del Duca d’Andria. Ecco il perchè vi era allora in Ruvo un Governatore e Giudice destinato dal Re.

262.  Tacitus Histor. lib. I.

263.  Dell’uffizio del Camerlengo e della usanza che vi era ancora di chiudersi la sera le porte della città si parla anche nello strumento di transazione stipulato col Duca d’Andria nell’anno 1751 riportato nel Capo precedente.

264.  Polyb. Histor. lib. III.

265.  Cotesto tentativo del Conte di Ruvo era assai malagevole. La popolazione della città di Andria è per se stessa molto ostinata ne’ suoi proponimenti. Per tal ragione soffrì un gravissimo disastro al tempo della Regina Giovanna I minutamente descritto da Domenico di Gravina nella precitata sua Cronaca presso il Muratori Rerum Italicarum Scriptores tom. XII pag. 689 a 691. Molti Tedeschi e Lombardi ch’erano al servizio di Lodovico Re d’Ungheria al numero di settemila tra fanti e cavalli si erano riuniti a Canosa. Dopo aver consumato e devastato quanto vi era in quella povera città presero la risoluzione di portarsi innanzi, ed invadere per loro stessi, e per propria utilità tutti que’ luoghi che avessero potuto. Nominarono quindi tre Capitani, tra i quali vi fu Filippo de Sulz sopranominato Malispiritus Comandante della Città di Andria, come si è detto innanzi al capo VIII pag. 155.

Partiti da Canosa essendosi avvicinati ad Andria, fecero conoscere al Comandante suddetto il loro arrivo. Costui andò loro incontro, e gli assicurò che sarebbe concorso a tutto ciò che si era da essi determinato; ma soggiunse. Quia vero civitas Andriæ dominio suo erat valde fidelis, voluit, et rogavit quod per eos damnum non fieret civibus in exterioribus rebus, animalium scilicet et satorum, sed mite, et curialiter pertransirent, quum ipse eorum denario quæcumque necessaria eos emere permittebat. Se ne contentarono i Tedeschi, e quindi si accamparono come amici in una pianura fuori della città. Il Comandante suddetto rientrato in essa fece tutto conoscere ai suoi abitanti, ed insinuò loro di somministrare alle truppe accampate tutto ciò che alle stesse sarebbe bisognato a pronto pagamento.

I popolari però per loro sventura presero la cosa in senso sinistro, sospettarono un tradimento, e si negarono a somministrare i viveri richiesti. Ne rimase di ciò indignato il Comandante suddetto, e non mancò di avvertirgli che a tal modo esponevano la città ad un grave disastro, ed avrebbero potuto essere obbligati a dare per forza ciò che ricusavano di vendere a pronto contante. Intanto le truppe accampate rimaste senza viveri per due giorni, il terzo giorno spedirono nella città i loro messi per conoscere il perchè si negavano loro i viveri, e qual colpa avevano commessa a danno de’ suoi abitanti per meritare un tal rifiuto. Fu però loro bruscamente risposto dai popolari che non volevano nè donargli, nè vendergli. Si chiusero quindi le porte, e gli Andriesi si posero in armi.

Essendo rimaste le truppe suddette fortemente irritate da cotesto oltraggio, fu presa la risoluzione di vendicarsi colle armi, e devastare la città. Vi erano però tra esse alcuni Capitani Tedeschi, i quali avendo ricevuti per le loro compagnie con anticipazione i soldi fino al dì di S. Giorgio, dicevano ch’erano tuttavia al servizio del Re d’Ungheria. Si protestarono quindi che non avrebbero mai consentito quod fidelissima Terra Andriæ versus Regem Ungariæ vastaretur. Rimasti fermi in tal proponimento, si diressero a Giannotto Brancasio nobile Andriese, gli fecero conoscere le intenzioni de’ loro compagni di depredare la città, lo animarono a difenderla vigorosamente, e si offerirono ad entrare in essa, unirsi coi cittadini, e prestarsi alla loro difesa. I popolari però sospettando che cotesta offerta laudabile, ed onorevole fosse stata insidiosa sconsigliatamente la rifiutarono. Quindi li Capitani suddetti si separarono coi loro soldati dagli altri, non vollero prender parte a tale aggressione, e si accamparono in una pianura verso Barletta per vedere l’esito dell’affare.

Cominciò dopo ciò l’attacco con ugual vigore de’ Tedeschi e Lombardi nell’assaltare la città, e degli Andriesi nel difenderla. Avevano i primi rivolti i loro sforzi contro quella porta della città che porta il nome di porta del castello, perchè era quello il punto più debole di essa. Gli Andriesi nondimeno facendo sforzi straordinarj coraggiosamente gli respingevano a colpi di balestre. In questo mentre surse un subuglio fra il detto Giannotto e suoi seguaci, e ’l Comandante Malospirito, poichè i primi lo chiamavano traditore, ed intelligente dell’aggressione che la città stava soffrendo, e ’l secondo uscì dal castello per respingere tale ingiuria, e malmenare il detto Giannotto. Essendosi però gli animi soverchiamente riscaldati da ambe le parti, si vide il Comandante suddetto obbligato a ritirarsi nel castello per salvare la sua vita. I soldati della guarnigione irritati dal vedere maltrattato a tal modo il loro Capo cominciarono a tirare dalla sommità del castello colle balestre e coi sassi contro i cittadini che difendevano la porta suddetta; il che gli costrinse ad abbandonarne la difesa. Cessata quindi la resistenza, i Tedeschi ed i Lombardi entrarono nella città, e vi commisero tanti eccessi che rifugge l’animo dal commemorargli.

Cotesto racconto che ci viene da uno Scrittore, il quale si trovò in mezzo a tali avvenimenti, porta a conchiudere che la città di Andria soffrì quel lagrimevole disastro per la ostinazione de’ suoi popolari non suscettiva di veruna scusa, poichè il negare i viveri a chi vuol pagargli è cosa inumana, ed il negargli ad un esercito che può prendersegli colla punta della spada pecca della massima imprudenza, e cecità. Cosa dunque il Conte di Ruvo avrebbe potuto contare su di una popolazione di un carattere così duro ed ostinato, la quale nell’anno 1799 era mossa anche dalla forza del sentimento, e di una decisa avversione per i Francesi?

266.  Dicono gli Andriesi che in quella fazione caddero estinti duemila e cinquecento nemici. Pecca ciò di una esagerazione più che soverchia, e molto poco considerata. Troppo ci vuole per poter perire tanta gente in un conflitto di sola fucileria, senza l’artiglieria e senza venirsi alla bajonetta! D’altronde la colonna spedita nelle Puglie fu appena di tremila uomini. Sarebbe rimasta questa distrutta se avesse perduti in Andria duemila e cinquecento soldati ed uffiziali, poichè al numero de’ morti bisogna aggiugnere anche quello de’ feriti. Il fatto però sta in contrario, poichè dopo l’affare di Andria la stessa colonna proseguì le sue operazioni guerresche con avere espugnata la città di Trani, sommessa Moffetta ch’era anche sollevata, occupata Bari, saccheggiate ed incendiate Carbonara, e Ceglia (l’antica Celia) che le opposero resistenza. Sarebbe anche andata più oltre verso la Provincia di Lecce, se non fosse stata richiamata in Napoli per le circostanze che in seguito sarò a dire. Tolte di mezzo dunque l’esagerazioni che mal converrebbero alla Storia, l’attacco di Andria costò ai Francesi la perdita tutto al più di qualche centinajo di uomini, giacchè a niuno poteva esser facile conoscere il numero preciso degli estinti, i quali si fecero subito disparire giusta lo stile ch’essi serbavano di bruciare i cadaveri.

267.  Nello stesso Palagio Ducale andarono a ricoverarsi le povere Monache cacciate dal Chiostro dalla licenza militare. Il Conte di Ruvo ne prese tutta la cura, e nel partire da Andria le affidò al suo Agente perchè le avesse restituite al loro Monistero come fu da costui eseguito col massimo e laudabile zelo.

268.  Di questa verità di fatto ne sono testimone io medesimo. Pochi giorni dopo l’eccidio di Trani mi recai ivi per visitare alcune famiglie amiche. Avendo avuta la curiosità di osservare i luoghi ove si era combattuto, mi assicurai che le muraglie niun danno avevano sofferto dall’artiglieria nemica e stavano in ottimo stato. Ma le baracche di tavola formate al di sopra di esse per i corpi di guardia della gente che le custodiva e le difendeva erano tutte traforate dalle palle della fucileria degli assedianti entrate per i vani delle cannoniere.

269.  Per mero equivoco nel detto capo VI ho detto di esser questi PP. Riformati. Son essi però Minori Osservanti.

270.  La gran quantità delle pietre che la natura ha messe in que’ luoghi obbliga i proprietarj de’ terreni a spurgargli di esse per poterne migliorare la coltura. Cotesta operazione che col linguaggio del luogo si chiama scatenare è per se stessa utilissima. Non è però tollerabile che le pietre che vengono estratte siano gittate sulle strade pubbliche rendendole positivamente impraticabili. Possono le pietre suddette rimanere benissimo esaurite col circondarsi i fondi stessi donde vengono estratte di parieti a secco più alti e più forti del solito che si pratica in quella Provincia. Sarebbe ciò anche conducente a meglio custodirgli e garantirgli dai danni che possono ricevere dagli uomini e dagli animali che passano. Un pariete più avanzato non costa che poche grana di più la canna. È cosa però indegna vergognosa e molto riprensibile che per farsi il misero risparmio di poche grana la canna si abbia la temerità e la indiscrezione di gittar le pietre esuberanti in mezzo alle pubbliche strade! Ed è anche più scandaloso che siano questi eccessi tollerati e guardati con indifferenza dalle Autorità municipali!

271.  Livii Histor. lib. XVI cap. 29.

272.  Tacitus Histor. lib. II.

273.  Cicero Orator. cap. XXIV.

274.  Mazochii Commentaria in Tabulas Heracleenses Diatriba II Section. VI §. I pag. 85.

275.  Mazochius libro supra citato Diatriba I De Magna Græcia cap. V §. 2 pag. 24.

276.  Census et monumenta publica potiora testibus esse Senatus censuit. L. 10 ff. de Probationibus.

277.  Sed Scriptorum Romanorum doctissimi, et in his Porcius Cato, qui diligentissime scripsit de originibus Italicarum urbium, Luciusque Sempronius et alii, Græcos affirmant profectos ex Achaja multis ante Trojanum bellum ætatibus, nec tamen diserte tradunt ex qua Natione Græca, quave urbe migraverint, ac ne tempus quidem, aut Ducem Coloniæ, aut quo casu patrias sedes reliquerint.

278.  Hunc numulum adhuc singularem, edito jam meo rubastinorum numorum catalogo, dono dedit cl. Ioanni Iatta egregius rubastinus medicus, et studiosus antiquitatum cultor Vitus Tambone.

279.  Millingen supplém. aux considérat. sur la numismatique de l’anc. Italie pl. II f. 5, Eckhel sylloge pag. 84 tab. 8 f. 3.

280.  Avellinii Ital. vet. num. I. I p. 60 n. 40 et p. 87, et suppl. p. 31, Milling. l. c. f. 6 et anc. coins p. 11 tab. 1 f. 13.

281.  Eckh. l. c. Avell. l. c. tom. II p. 17 n. 158.

282.  A Tarentinis, auxilia adversus Bruttios deprecantibus, sollicitatus. Iustin. lib. XII c. 2. Confer quoque Strabonis lib. VI pag. 280 Casaub., Livium lib. VIII cap. 17 et 24, Gellium noct. attic. lib. XVII cap. 21, Aristotel. δικαιὠματα πολέων apud Ammonium in νῆες. Vide Niebuhrii histor. rom. gallicae versionis tom. III pag. 144 seqq. edit. Bruxell.

283.  Milling. anc. coins p. 11 seq.

284.  Saturn. lib. I c. 23.

285.  Eck. doctr. tom. V p. 348, Emeric-David Jupiter t. II p. 376 seq., Creuzer Symbolik tom. III p. 149, 3. edit.

286.  Gell. noct. att. lib. V c. 12, Eck. doctr. tom. V p. 219.

287.  Edidi primus suppl. ad Ital. vet. num. p. 46 emendate: nam perperam Hunterus Agrigentinis tribuit: dedit iterum Milling. anc. coins p. 12, tab. 1 f. 18 seq.

288.  Lib. VIII c. 24.

289.  Acad. des inscr. et bell. l. tom. XII p. 350 seq. Aliter tamen expeditionis et mortis Alexandri annos statuit Frölichius reg. vet. num. p. 33.

290.  Osservazioni sopra talune monete pag. 20.

291.  L. c. p. 62 seq.

292.  Bullet. arch. napol. anno II p. 117.

293.  Plauti Rud. act. III sc. 5 v. 42 seq. Lepidum quoque de duplice Hercule confer Luciani mortuor. dial. 16.

294.  De Dasio Altinio Arpano vide Liv. lib. XXIV cap. 45, Sil. Ital. lib. XIII v. 32 seqq., de Dasio et Blasio salapinis eumdem Livium lib. XXVI c. 38, Appian. bell. annib. cap. 45 et 47, et Valerium Maximum lib. III cap. 8. Denique et Dasius Brundusinus, qui Annibali Clastidium vicum prodidit, memoratur eidem Livio lib. XXI cap. 48. Vide quae scripsimus Ital. vet. num. tom. I pag. 48 et 55.

295.  Lib. XII c. 2.

296.  Schidone.

297.  Giovanni Antonio Goffredo Ragguaglio dell’assedio dell’Armata Francese nella città di Salerno. Edizione di Napoli dell’anno 1649 pag. 26.

298.  Si deve quì leggere piuttosto fuit, non fecit.

299.  

Si decus Italiæ, si nostræ gloria Gentis

Infixa est animo, Lector, honosque tuo,

Si gesta Heroum monumento digna perenni

Vera tibi præbent gaudia, siste gradum.

Hic tres atque decem Galli, pariterque Latini,

Ob laudis stimulum, conseruere manus,

Congressique pares numero, et florentibus annis,

Attamen haud similes viribus, atque animo.

Hoc campo certatum est ferro, hic Gallica Pubes

Experta est nostras in sua damna manus.

Prosiluere omnes in pugnam audacter utrimque,

Sed non pugnatum Marte, manuque pari.

Virtuti Italicæ jactantia Gallica cessit,

Armaque Victori tristis, equosque dedit,

Captivisque ad Barulum ductis ad vespera, tota

Nocte Urbs festivis plausibus obstrepuit.

Fama perennis erit præclaræ, et gloria pugnæ,

Italia æternum quæ resonabit io.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. a348 (Errata Corrige) sono state riportate nel testo.

Per comodità di consultazione l'indice dei capitoli, nell'originale relativo solo alla prima parte del testo, è stato trascritto e integrato a fine volume così da fornire un'indicazione completa.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.