The Project Gutenberg eBook of Colei che non si deve amare: romanzo This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Colei che non si deve amare: romanzo Author: Guido da Verona Release date: November 4, 2022 [eBook #69294] Language: Italian Original publication: Italy: Bemporad Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK COLEI CHE NON SI DEVE AMARE: ROMANZO *** GUIDO DA VERONA COLEI CHE NON SI DEVE AMARE ROMANZO IX.ª EDIZIONE _(Dal 131º al 180º Migliaio)_ R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI — FIRENZE MCMXX PROPRIETÀ LETTERARIA I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi MILANO — TIP. PIROLA & CELLA DI PRIMO CELLA I Dal primo all’ultimo giorno della sua vita Stefano del Ferrante non ebbe che rovesci di fortuna. Il mondo è pieno di queste vittime oscure, che camminano per un lento calvario e non cadono mai del tutto sotto il peso della loro croce. Gli erano morti, nella sua prima età, il padre e la madre, durante una morìa di quell’anno che mietè molte vite. Un congiunto lo raccolse nella propria casa per allevarlo con i figli suoi. Non fu misericordia; Stefano ereditava qualche bene di fortuna, che il congiunto gli dilapidò. Egli lo venne a sapere più tardi; fu consigliato anche ad intentargli una lite, ma non ne fece nulla. Era un uomo soave e riconoscente, che non amava molestare il prossimo nè gettarsi a capofitto nel gran pelago della carta bollata. Studiò con fatica, ma studiò; non ebbe invidie piccole nè ambizioni grandi; fu sin dal principio un uomo laborioso ed umile. Prese una laurea in chimica, laurea che lo costrinse ad essere uno spostato; si mise a speculare e perdette, a commerciare e fallì. Egli diceva di sè stesso con grande rassegnazione: «Ho avuto un grave torto: quello di venire al mondo.» E come ricchezza, nella sua storia povera, non ebbe che un amore; uno di quegli amori caparbi e malinconici che si accendono talvolta nelle anime lievi. Prima di allora non aveva conosciute altre donne che quelle incontrate nelle case di piacere alla vigilia dei giorni festivi, ed aveva pur intessuta qualche tresca fugace con le serve amorose che addobbano di farsetti opulenti le finestre dei quarti piani, o con le vispe sartine che vanno per via come coditrémole nelle sere d’Aprile, quando i tigli si mettono in fiore. Ma la sorte, la mala sorte, gli fece incontrare un giorno colei che doveva subitamente irrompere come una fiera tempesta nel suo cuore tranquillo; e con la risoluzione dei timidi Stefano Ferrante la sposò. Era una siciliana e si chiamava Grazia; il colore, il sapore della sua terra calda eran rimasti in lei, ne’ suoi occhi vivi, nella sua femminilità lussuriosa, nella sua voce vibrante, nel suo spirito irrequieto. Vedova d’un architetto, senza figli, senza ben di Dio, l’opinione pubblica non era indulgente con lei. Dicevano che avesse calcate le scene dei teatri di varietà prima di andare a nozze; che avesse avuto un processo, e clamoroso, ma finito in nulla come tutti i processi clamorosi, per certe bazzecole del buon costume; che fosse stata perfino rapita, e che taluni gentiluomini di laggiù se la fossero contesa aspramente col denaro incruento e con le lame affilate. Questi fieri isolani son fra noi gli ultimi custodi della nostra bella tradizione cavalleresca: sanno battersi ancora, e degnamente, anche per una donna che non ne valga la pena. Grazia era dunque bellissima, capricciosa, dissoluta; amava il lusso, gli svaghi, le avventure d’amore. Si diede a Stefano una sera ch’egli le andò a genio — e questo non era difficile, — Stefano la sposò un giorno ch’ella venne a dirgli d’essere incinta. A quel tempo egli era impiegato e guadagnava con abbondanza il pane quotidiano; invece Grazia nulla possedeva, tranne il suo bel corpo da ballerina, la sua capigliatura luccicante, i pochi gioielli di pregio che le restavano in memoria d’altri tempi avventurosi. Ma l’aver al fianco un uomo che pensi al pane quotidiano allorchè gli anni volgono su lo sfiorire, la maldicenza infuria, e stringe la paura della solitudine, son tutte cose che possono facilmente persuadere una bellissima donna a prendersi un marito di nessun conto. D’altronde Grazia non era cattiva; quel giovine alto, biondo, con gli occhi pieni di rassegnazione, la voce dolorosa, quel giovine che l’amava d’un amore così devoto, riusciva talvolta a suscitare in lei un senso misto di tenerezza e di pietà. Solo non poteva essergli fedele, come non lo era stata a nessuno, mai. Era nata per piacere, per godere, per sentirsi desiderata e per lasciarsi prendere; le mancava quella piccola forza del rifiuto che rende così preziose alcune donne mediocri. E Stefano era tra quelli che ignorano affatto il coraggio della ribellione; si rassegnò a questa come a tutte l’altre disgrazie della sua vita, chiudendo la sua immensa infelicità in qualche lieve sospiro. Gli nacquero da queste nozze quattro figli. Che fossero tutti suoi, egli medesimo non avrebbe osato giurarlo. Ma li amò tutti d’uno stesso amore, e diede loro successivamente i nomi di Arrigo, Luisa, Paolo e Anna Laura. Intanto i capricci della moglie, il carico della famiglia, le avversità dei piccoli commerci, lo ridussero in pochi anni a non possedere quasi più nulla delle sue lente economie; sicchè, per campar la vita, con la sua Grazia che metteva scandalo in tutto il vicinato e con quei quattro ch’eran nati di lei, scese un altro gradino, si ritrasse a vivere nel suburbio della sua città laboriosa, mise un’insegna nella strada ed aperse bottega. Siccome aveva qualche nozione d’ottica prese a fare l’occhialaio. Questo lavoro minuto e paziente assecondava la sua natura timida, e poich’era giunto all’estremo della sua discesa umana gli pareva, stando curvo sopra le sue lenti, di vivere finalmente in pace. Coi figli, col tempo e coi disagi anche la moglie si emendò; piano piano, a forza di lavoro e d’economia, la piccola bottega si mise a prosperare. I figli crescevano belli e robusti; le loro voci, i loro giochi empivano d’allegrezza la casa; e quest’uomo ch’era nato fra gli agi, portando un nome quasi gentilizio, in quella velata miseria si sentì qualche volta felice. II Un mattino, ch’era di Maggio, e la via da un capo all’altro balenava di sole, il signor Riotti, pingue, maestoso, con un par d’occhiali appinzati sul naso tumido, un fare tra lo scienziato ed il buontempone, se n’era venuto su la soglia del negozio ad accendere la pipa. E poichè appunto, la sera innanzi, era stato a sentire il «Rigoletto» — serata a prezzi popolari — così, tra una boccata e l’altra del fumo che gli faceva intorno una bella nuvola azzurra, se n’andava canticchiando: «Dove l’avranno nascosta?... Ta-rin ta-ran ta-rin ta-ran ta-ra!» Aspettava un cliente mattiniero per buttargli lì, fra un citrato di magnesia ed una polverina di calomelano, qualche frase affabile su la decadenza dell’arte lirica italiana, ricordando i bei tempi dei tenoroni di cartello e delle prime donne «quelle sì! che ti cavavan fuori certe note filate da far venire la pelle d’oca a un satanasso di turco!» E parlar d’altro ancora: medicina, politica, letteratura.... Egli era, per somma sfortuna, l’aborrito farmacista enciclopedico e sapeva di tutto un po’. Siccome il Riotti e il del Ferrante stavano bottega a bottega, ed anzi all’interno davano su la stessa corte, venne a passar di lì il primogenito dell’occhialaio, il piccolo Arrigo, con la sua cartella sotto braccio, che se n’andava a scuola. «Dove l’avranno nascosta? Dove l’avranno nascosta...» canticchiava il placido farmacista. — Buon giorno, signor Riotti, — fece il bimbo, con la sua vocina così ben educata, cui mancava l’erre. — Ve’, Rigoletto!... — esclamò sbadatamente il farmacista. E il nomignolo, da quel giorno, gli rimase, lì, tra il vicinato. Arrigo era un fanciullo veramente a modo: si teneva molto pulito, studiava benino, si mostrava rispettoso con tutti; ma ciò che gli nuoceva era una sua smoderata e puerile vanità, la quale si tradiva in tutte le cose della sua piccola vita. A scuola, per esempio, — una scuola privata e diretta da un sacerdote — egli non trattava se non con bimbi di famiglie aristocratiche, e tornato alla retrobottega paterna li nominava per i loro titoli di conti e di marchesi con una certa compiacenza nel parerne l’amico. Così pure si vergognava non poco nel dover rincasare a piedi, seguendo un’arruffata e povera servetta, mentr’essi avevano ad aspettarli domestici e carrozze stemmate. Era stato il primo errore nella sua educazione, quello di fargli frequentare una scuola gentilizia piuttosto che mandarlo con altri discoli ai corsi pubblici. Ma il buon del Ferrante, nella sua dimessa veste di bottegaio, non sapeva del tutto scordare lo lontane origini, e serbava il suo primogenito a miracolosi destini. Il piccolo Arrigo aveva inoltre una cura eccessiva della propria persona e del vestire; già si azzimava come un piccolo moscardino, faceva i capricci per indossare nei giorni della settimana gli abiti della domenica e affettava con tutti le maniere d’un imberbe marchesino. Era d’intelligenza lesta, duttile, scaltra; aveva uno spirito d’osservazione e d’imitazione davvero sorprendenti; diceva con l’aria del perfetto conoscitore, di questa o quella cosa: «Oh!... non mi pare «chic!....»; aveva imparato qualche vocabolo francese e ne usava con molta compiacenza; criticava le «toilettes» delle sorelline, a scuola chiamava «miss» quella che gli portava il paniere della merenda, e per non confessare a’ suoi nobili amici d’esser figlio d’un occhialaio diceva di suo padre con sussiego: «È un professore d’ottica.» Coi bambini della sua corte trattava poco volontieri e di essi parlava con visibile antipatia. Queste abitudini signorili solleticavano un po’ l’orgoglio de’ suoi genitori, della madre sopra tutto, ch’era rimasta una frivola donna nonostante il maturare degli anni. Arrigo somigliava singolarmente alla madre: ne aveva gli occhi luminosi e la bocca delicata, ne aveva qualche volta l’accento caldo, i gesti rapidi. Ma il padre voleva farne nullameno che un avvocato, poichè, per tutte le famiglie borghesi, avere un figlio togato vuol dire oggidì quel che voleva dire una volta l’avere un figlio prete od ufficiale. Si fanno perciò dalle famiglie grandi sacrifizi di tempo e di danaro, si crea nella nostra società una falange senza numero d’inoperosi, di spostati e di tristi, che per tutta la lor vita dovranno pentirsi di queste paterne ambizioni. Ma data una tale sovrabbondanza di giurisperiti, è naturale che nel nostro bel paese chi ha torto abbia sempre ragione. Il farmacista Riotti, ch’era sistematicamente di parer contrario a quello del suo vicino, non la pensava per l’appunto così, e con una delle sue più fresche immagini soleva dire «che il professionismo è la cancrena degli stati, l’acqua morta in cui s’impaluda la nave del progresso umano.» Se avesse avuto un figlio, lui, ne avrebbe fatto uno scienziato od uno speculatore; diceva di aver egli stesso, in persona, una spiccata tendenza per tutte le scienze a base di calcolo e d’invenzione. Ma la vita lo aveva distolto dal suo diritto cammino e la natura gli era stata scortese; invece d’un maschio, nel quale avrebbe potuto specchiarsi, aveva lasciato alla sua vedovanza una femmina, una bella e grassa femmina, cui, per venerazione certo al grande Manzoni, aveva imposto il nome di Ermengarda. Tuttavia, per brevità, la chiamava Eugenia; nome ch’era stato pur quello della sua defunta consorte: Di questa figlia, che aveva press’a poco l’età di Arrigo, il Riotti era però sommamente vanaglorioso e non cessava dal magnificarne co’ suoi vicini le qualità modeste ed operose, quando i giuochi o gli strilli dei bimbi del Ferrante venivano dalla vicina corte a disturbare le sue pacifiche meditazioni. Il farmacista era un uomo corpulento, che tradiva nella stessa maniera del vestirsi una certa quale agghindata maestosità; le sue maniere si facevan untuose con chiunque stesse al di sopra di lui, e dottorali o protettrici con quanti credesse da meno della sua magnifica persona. Aveva una faccia sanguigna, lucida, con lineamenti grossi, e portava intorno al mento una corta barba fuligginosa. Era un uomo che aveva letto, imparato assai; letto e imparato sopra tutto nei giornali, nei romanzi d’appendice o in qualche peregrino manuale acquistato nelle fiere. Ma l’uomo che usi ogni giorno leggere ponderatamente il proprio giornale, dalla prima riga sino all’ultima come faceva il Riotti, e con due paia d’occhiali, può dirsi a buon diritto un uomo erudito, perchè le gazzette son divenute oggidì piccole biblioteche di scienza universale e di tutto vi si parla in bello stile, con ammirevole dottrina. Sebbene fosse l’uomo più pacifico del mondo e avesse un temperamento null’affatto amoroso, il Riotti nutriva una predilezione decisa per i fatti di sangue e per i suicidii d’amore. Non v’era serva avvelenatasi col rossetto, col sublimato o con le capocchie dei fiammiferi da un quinquennio in poi, della quale non ricordasse il nome, l’amante per cui s’uccise, la casa il luogo ed il tempo in cui fu. Queste tragiche amanti si esageravano, si esaltavano nella sua calda fantasia, dandogli una specie di stupefazione paurosa. Non lo avrebbe voluto in fondo... ma se una si fosse mai avvelenata per lui!... Anche i delitti lo appassionavano, però in altra guisa: sembravano atti efferratamente belli al suo timido cuore. E di tutte le cose che leggeva nel giorno egli andava la sera a discorrere col suo vicino. In principio, quando Stefano del Ferrante venne ad aprir bottega proprio accanto alla sua farmacia, il signor Riotti cominciò con arricciare il naso e con guardare in cagnesco il vicino, «quell’occhialaio dalla bella moglie», come lo chiamava con malignità. Ma superate le prime diffidenze, e visto sopra tutto che il Ferrante non era uomo da contendergli quella specie di sovranità che gli era tacitamente riconosciuta da tutti i bottegai di quella contrada suburbana, il Riotti finì anzi con prenderlo in affezione e con divenirgli amico. Amico a modo suo, beninteso; il che voleva dire mischiarsi, chiesto e non chiesto, negli affari altrui, dare consigli, criticare, sputar sentenze, sdottorare a dritto ed a rovescio, essere curioso, pettegolo, arrogante e maldicente. Stefano lo lasciò dire. Umile e rassegnato come sempre, tollerò che un estraneo si frammettesse nella sua casa, gli facesse i conti in tasca, gli parlasse male della moglie, lanciasse qualche scappellotto a’ suoi bambini: e tutto ciò per amore della pace. Ma il Riotti, che in fondo era una buona pasta d’uomo, soffriva terribilmente del non aver famiglia, s’annoiava, nè sapeva come dar libero sfogo alla sua natura tirannica e sopraffattrice. Così, a poco a poco, la casa del vicino divenne la sua. Ogni momento egli vi entrava, o per la corte o dalla retrobottega, con un pretesto qualsiasi. Per lo più erano i bimbi che facevano troppo rumore: li chiamassero dentro, o egli se ne sarebbe finalmente lagnato col padrone di casa. E sapevan bene che bastava dicesse una parola, lui!... Allora si prendeva una rispostaccia da donna Grazia, che il Riotti chiamava Malagrazia, e che non lo poteva soffrire. Ma in quella corte infatti si faceva gran rumore. Una vera bolgia dantesca, come diceva il farmacista. C’era un falegname che tutto il giorno picchiava, c’era un tornitore e piallava, una piccola stamperia dalle macchine fragorose, un rilegatore di libri sempre mezzo avvinazzato che ad una cert’ora cantava a squarciagola; c’era la portinaia, sempre in moto con la sua scopa e con la sua terribile voce di falsetto, e c’era, al primo piano, il pappagallo di una vecchia inquilina, un cianciatore senza pietà, che rifaceva tutti i rumori e rifischiava tutte le canzoni del vicinato. Avesse potuto accopparlo! Prezzemolo! Prezzemolo!... E, sopra tutto questo ben di Dio, erano capitati lì que’ monellacci dell’occhialaio, che strombettavano, spifferavano, buttavan sassi e facevano i soldati. Vedessero l’Eugenia, mo’, che ragazza a modo!... «Oh, mio caro Stefano, se tu sapessi almeno educare i tuoi figli!... Del primo farai un piccolo cicisbeo, dell’altro e delle due femmine tre monelli, tre discoli, perchè il carattere lo si vede fin dalla prima età. Poi ne hai messi al mondo troppi!... Quattro figli! Vecchio mio, è un lusso da gran signore. Senza contare che donna Grazia è tipo d’affibbiartene ancora un paio!» E nella sua corta barba fuligginosa soggiungeva a sè medesimo con un riso grasso: «È ben vero che tu, poveraccio, ne sei responsabile fino ad un certo punto... Non metterei la mano sul fuoco neanche per il primo!... Una sera tuttavia, per precauzione, gli aveva pulitamente esposta la teoria di Malthus. III Veniva su bello e delicato. Quel nomignolo di Rigoletto non gli stava bene. Aveva due magnifici occhi neri neri, con le ciglia molto lunghe, un po’ curve, che gli velavan lo sguardo di passione e di malinconia. Sotto il naso leggermente aquilino, la bocca tagliata con una nettezza violenta, quella bocca rossa della sua madre siciliana, era in istrano contrasto con la mansuetudine del suo viso. Intorno al labbro gli cresceva già un’ombra leggera, i capelli scurissimi gli facevano due belle onde sopra la fronte; il suo vestitino alla marinara non aveva mai una macchia, le sue scarpine mai erano imbrattate nè logore; a farne il paragone con gli altri della sua famiglia pareva il rampollo di una stirpe migliore. Ascoltava sua madre con una specie d’estasi quando suonava la chitarra o cantava; spesso preferiva starsene solo, taciturno ed un po’ scontroso. Ad un certo Natale si fece regalare un violino, ed un vecchio, lì nella corte, gl’insegnò a suonarlo. Era docile, ma sapeva in certe occasioni spiegare una terribile volontà. Studiava con diligenza, e verso i dodici anni lo mandarono al ginnasio; si fece grande e forte, si svestì quasi di quell’apparenza feminea che lo aveva fatto somigliare ad una signorina; soltanto gli rimasero que’ suoi grandi occhi morbidi e violenti, pieni d’uno stupore illuminato. Volle studiar musica ed il padre lo accontentò, a patto che non trascurasse la scuola; gli affari prosperavano a sufficienza per poter pagare un maestro di violino tre volte la settimana. Cose che il Riotti trovava inutili, perchè, se Rigoletto si credeva un Paganini, a lui seccava moltissimo di sentirsi a quel modo scorticar le orecchie da mattino a sera. Quanto alla sua Eugenia, imparasse a far la calza e le polpette, che valeva assai meglio! «Tra il violino di Rigoletto e la chitarra di Donna Disgrazia preferisco ancora il pappagallo del primo piano!» aveva egli detto in un giorno di malumore. Senonchè ad Arrigo la natura aveva prodigato i suoi doni senza nemmeno contarli; un superiore istinto guidava la sua ispirazione tumultuosa e profonda, il senso della musica da lui nasceva con la spontaneità d’una parola: Curvato sul lieve archetto la sua testa bellissima di adolescente, egli traeva dalle corde sonore tutto ciò che aveva di passione in sè, di passione inconsapevole e selvaggia, tutto ciò che gli avevan trasmesso di malato e di oscuro i suoi progenitori antichi. La madre lo amava, il padre fondava su lui tutte le speranze d’un avvenire imprevedibile: era il prediletto nella casa, il primogenito a cui si trasmette il focolare, con tutta la sua cenere e con la brage viva. Ma verso i quindici anni cambiò carattere. Cominciò a frequentare qualche brigata di scapestrati, fece l’occhio dolce alle sartine, prese a vuotar bicchieri, imparò le carte, i vicoli dei postriboli, i vizii delle ore notturne; della famiglia e della scuola prese a non curarsi più. Quattro o cinque cattivi amici, una sgualdrinella che gli si diede per amore, qualche ondata calda nelle sue vene gonfie di pubertà: ecco il pochissimo che ci volle per fare di questo fanciullo a modo un ragazzaccio di pessimo genere, che azzimato e attillato, facendo pompa di cravatte vistose, con una sigaretta in bocca ed un fiore all’occhiello se ne andava bighellonando per i marciapiedi, inseguiva le piccole modiste su le giostre delle fiere, frequentava i bigliardi clandestini e teneva crocchio su l’angolo delle bottiglierie. Allora in casa dell’occhialaio la guerra incominciò; la guerra dolorosa, tenace, paziente, che il padre onesto muove al suo figlio riottoso per contendergli palmo a palmo quella china del vizio dalla quale non si ritorna mai più. Tutto congiurava contro la pace di quest’uomo paziente, che doveva incanutire soffrendo, benchè non avesse mai torto un capello ad anima viva. Arrigo principiò a spiegare nella famiglia quella sua calma e terribile volontà dalla quale nessuno scrupolo mai lo trattenne, così nelle piccole come nelle grandi cose della sua vita. Ormai trascurava la scuola, rincasava tardi la notte, poltriva nel letto il mattino, inalberava nelle discussioni familiari certe malsane teorie d’indipendenza raccolte ai tavolini dei caffè, sperperava in qualche giorno le poche lire che dovevano bastargli per un mese, poi si dava d’attorno a raggranellarne qua e là, con ogni ripiego, tenendo per ultima confidente la sua madre carezzevole, che non sapeva negare mai nulla a quel suo bel ragazzaccio fatto come lei. Una volta egli osò perfino rubare una manata d’argento nel cassetto del banco paterno, e quando lo scoversero in fallo, si mise a fare un tal chiasso indiavolato, a portare così veementi ragioni in propria difesa, che poco mancò non lo pregassero di ricominciar da capo. E in fondo, che torto gli potevano fare? Aveva diciott’anni ormai! S’era messo a giocare, non tanto per vizio quanto per necessità... Come poteva egli campar la vita, con quei quattro soldi che gli dava il padre ad ogni fin di mese? Quelli bastavano tutt’al più per le sigarette. E il rimanente? La vita si faceva terribilmente cara. Per poco che uno volesse andar di paro con gli altri, bisognava sempre aver le mani in tasca. E se la tasca era vuota?... Ecco, si tenta la fortuna. Ve ne sono tanti a cui va bene. Perchè in fondo non si potrebbe anche vincere?... Vincere: comprarsi un bell’astuccio per le sigarette, una mazza col pomo d’oro, una spilla da cravatta in brillantini; rivestirsi da capo a piedi, farsi fare un soprabito a sacco, sfoderato, con le cuciture doppie, come quello che portava Giannotto Ferri, l’irresistibile Giannotto Ferri, quel tale che senza il becco d’un quattrino menava una vita da principe, cenava a Sciampagna nei gabinetti riservati con questa o quella cortigiana, e, se teneva banco al faraone, mai c’era verso di vederlo perdere un quattrino. Ma, già... si faceva mantenere dalle donne! Vincere!... potersene andare a teatro tutte le sere, in poltrona, con un bello sparato bianco e nel mezzo uno splendido rubino, come il rubino di Giannotto; scarrozzare per la città, andare nelle tribune i giorni di corse, mangiar fuori di casa, al ristorante, quando gli facesse comodo, e magari un bel giorno capitare in casa della Lilina con un ventaglio di piume di struzzo, o con quel certo anello che il suo vecchio le prometteva da tanti mesi e non le regalava mai!... La Lilina, che buona ragazza! A lui non costava un soldo, e questa era l’essenziale; perch’egli era giunto così al grande sogno di tutti i conquistatori adolescenti: avere un’amante altrui, averla per amore, con una cert’aria d’indifferenza, di condiscendenza, e raccontarlo noiatamente agli amici, fra una sigaretta e una tazza di caffè... «Oh Dio! non mi domanda niente, povera ragazza... non mi costa neanche il prezzo della camera, perchè mi prega di andare da lei... Ma, si sa bene: le donne che non costan niente... ci vuol sempre qualche fiore, qualche dolce, un cappellino ogni tanto, un ninnolo, una gita. Ne sono stanco in fondo... ma tiro avanti, non so neanch’io perchè...» La Lilina, a parte tutto, era una bella fanciullona, pienotta e di buon cuore, che qualche volta preferiva andarsene a letto alle dieci, anche sola, piuttosto che sbadigliare nei ritrovi notturni fin verso le tre. Aveva per cespite unico l’amore d’un quarantenne, signore ammogliato, che l’andava a trovare tre volte la settimana, puntuale come un cronometro, e ci stava, tutto compreso, un’oretta. Non le dava molto neanche lui, ma il diritto almeno di dire intorno ch’era una mantenuta, anzi la mantenuta di un industriale. Arrigo, per quanto non lo volesse ammettere, s’era un po’ scottato alla sua pelle calda; se avesse avuto denaro gliene avrebbe dato; lei lo sapeva, ne era certissima, e lo amava in questa lontana speranza. Le donne hanno un cuore pieno di riflessioni. Ma invece le carte volgevano peggio che mai; egli tornava a casa ogni notte senza il becco d’un centesimo, con una faccia che incuteva paura, e svegliandosi a mezzodì, ancor sentiva nelle orecchie quel maledetto riso di Giannotto che incassava i gettoni. Quale patto aveva col diavolo, quello là? Perchè la vita gli riusciva così facile, mentr’egli era in debito con tutti, perfino coi camerieri? Di tanto in tanto bisognava pur pagare, per mantenersi il credito e poter ritentare la sorte. Quando tutti gli altri ripieghi eran esauriti, non gli rimaneva che battere coraggiosamente alla cassa paterna. Il buon del Ferrante ne divenne addirittura calvo; ma pagò, sebbene con qualche stento; pagò la prima volta, la seconda, la terza, e così via di séguito, come tutti i padri, per infinite volte. Il Riotti, messo a parte di questi piccoli disastri, la faceva da tiranno, consigliando il braccio ferreo ed i rimedi eroici. «Fosse mio, lo manderei mozzo. Un paio d’anni sul mare fanno bene alla salute; si vede il mondo, si torna rigenerati. Ma tu non hai che da intonare il mea culpa! mea maxima culpa! L’Eugenia è femmina; ma la prima che mi fa, te la chiudo in un convento com’è vero che mi chiamo Riotti! Del resto per lei non temo. A sedici anni, è pura d’anima come un’ostia benedetta. Laboriosa, diligente, con la licenza della Scuola Superiore, un diploma di ricamo... che madre sarà!» E il povero del Ferrante inghiottiva il fiotto amaro. Passò un annetto ancora: tramontarono i tempi della Lilina, anche perchè la Lilina se la portò in provincia uno studente ricco, e Arrigo restò sempre a doverle una cinquantina di lire che s’era fatte prestare in un giorno di grande penuria. Ma un’altra prese il suo posto, che si chiamava più sonoramente Mercedes; ed era una canterina di caffè-concerto, coi capelli d’un nero corvino, le labbra divampanti, la pelle color di cipria; quel nero quel rosso e quel bianco a cui va tanto bene la mantiglia castigliana, quando, con quattro nacchere e con un paio di «caramba!» si camuffan da pure Sivigliane queste versatili figlie delle nostre portinaie. Mercedes la bruna era stata l’amante di Giannotto, e si era fatta un buon nome tra le clientele dei caffè-concerti ballando seminuda in un teatro di varietà, che radunava seralmente nella cloaca della sua piccola sala tutti i più loschi e più balordi bellimbusti della baldoria notturna. Ma poi s’erano messi in rotta, Giannotto e lei, per certe botte sonore che il giovinotto non lesinava in talune circostanze, ed Arrigo l’aveva incontrata, una sera di scoramento indicibile, sola, presso un tavolino, con gli occhi lacrimosi davanti ad un’ala di pollo mezzo rosicchiata ed una tazza di birra quasi vuota. Egli aveva in tasca un centinaio di lire e comandò Sciampagna; comandò pure una dozzina d’ostriche ad un ostricaio bitorzoluto, che in onore del suo rosso berretto masticava il dialetto veneto con un forte accento bergamasco. V’è d’altronde un momento psicologico nel cuore di tutte le donne malate d’amore, un momento nel quale, che so io, un’ostrica ben pepata, un complimento detto bene, un bacio dato con le labbra calde, con le labbra umide, una carezza sopra una lividura, un marengo buttato via, rasserenano tutta la visione della vita, disperdono i pensieri tragici come nuvole di primavera, mettono addosso, che so io, quasi la voglia di abbandonarsi ad un’altra follia... E così avvenne. Andarono a casa quella sera, stretti stretti, in una carrozzella con le ruote di gomma, sotto il cielo che stellava... Mercedes la bruna era una donna elegante: per lei bisognava giocare di più, perdere di più; furono malanni gravi. Al termine di qualche mese Arrigo dovette confessare al padre un debito, anzi molti debiti, che facevan insieme una sommetta rotonda. Il poveraccio non li aveva. Ne ammalò. Non li aveva insomma! Inutile gridare, minacciare tragedie! inutile mettere di mezzo la madre, che si teneva sempre in tasca le sue lacrime di coccodrillo! Non li aveva, nè poteva già far stringhe della sua pelle o vendere la bottega. Appunto quell’anno aveva l’intenzione di ampliare il negozio, povero vecchio Stefano!... Invece, dando tutte l’economie, appena appena avrebbe raggranellato insieme la metà di quel che occorreva. Fu Arrigo stesso che gli diede un cattivo consiglio: — Domanda il resto al Riotti. È sempre fra i piedi; si renda utile almeno, quando può! — Al Riotti? Un brav’uomo, sì, non lo nego, ma, lo sai, è avaro. Fiato sprecato. Umiliazione inutile. Neanche se ci vedesse morir di fame... Prestare, metter mano alla borsa, non entra ne’ suoi principii. E Arrigo: — Non si sa mai. Tentare non nuoce. Si tratta d’un prestito, in fin de’ conti, e con un buon interesse lo si potrebbe forse persuadere. Già, tu non vuoi per orgoglio. Ma quando si tratti di salvare il proprio figlio, l’orgoglio lo si mette via! Donna Grazia fu di questo parere, e tanto l’accerchiarono, tanto lo spinsero, che il povero Stefano curvò ancora la testa, prese il Riotti a parte e fece la domanda. Costui scoppiò in un riso formidabile, un riso così enorme, che tutta la corte l’udì. Ma davvero?... Che lui, proprio lui, Riotti, avesse a sborsare un millesimo per i debiti di quel farabutto, di quello scalzacane?... E rideva, rideva a crepapelle. Gli pareva davvero inverosimile che lo credessero capace di una tale generosità. Gl’interessi?... Ma non faceva mica l’usuraio, lui! Il Ferrante se ne tornò via, col suo passo lento, a capo chino. Ma questa cosa piaceva tanto al farmacista che venne in bottega dell’occhialaio un’ora più tardi per farci sopra un po’ d’ironia. «L’onore — spiegò il Riotti — è ben altra cosa che non s’intenda nelle bische o nei postriboli: ci son debiti che vanno pagati, altri no. Se lui, Stefano, voleva rovinarsi per le cattive azioni di suo figlio, padrone, padronissimo! Ma che avesse pensato a rovinare anche lui, questa era proprio madornale! Oh, intendiamoci: i denari lui li aveva e gli sarebbe costato anche poca fatica andarli a prendere... Ma rendevano già bene dov’erano e per una inezia di più su l’interesse non valeva certo la pena di metterli a repentaglio. In tutt’altra occasione si sentiva uomo capace di fare qualsiasi sacrifizio per un amico, — ma non voleva incoraggiare il vizio con le proprie liberalità. E poi, vediamo: quali garanzie potevan offrirgli per il suo denaro? Si fa presto a dire l’otto per cento! Ma su cosa poi? Su quattro stanghe d’occhiali d’oro e qualche lente convessa? Eh, cápperi! Gli affari si trattano in ben altro modo. Del resto era stato uno scherzo, ed egli avrebbe avuto la delicatezza di non parlarne più.» Invece ne parlava ogni momento e finì con darli. Vi mise un poco di buon cuore ed un poco d’avarizia, perchè un uomo non è mai cattivo interamente nè interamente buono, mentre ha sempre paura di nuocere a sè stesso nel far del bene al suo prossimo. Aveva una certa affezione, lui, persona autorevole, lui, uomo di scienza, per quella gente da nulla capitata lì vicino; voleva bene a quel timido occhialaio come ad uno di quei decrepiti cani infermi che si tengono in casa per misericordia, e donna Disgrazia gli sarebbe forse piaciuta, una volta, gli sarebbe forse forse piaciuta ancora, se lei... Ma sopra tutto aveva un non so che per quel discolo prepotente e sfacciato, ch’era sempre in mezzo alle sottane, sempre intorno alle tavole da giuoco, sempre pieno di debiti, e che, per quanto a lui desse un insopportabile fastidio, doveva pur suonare con una certa maestrìa se tutti gli abitatori della casa d’un tratto si affacciavano alle finestre non appena l’udivano appoggiar l’archetto sopra il suo maledettissimo violino... Su di lui anzi aveva già formato un suo piano recondito, ma nessuno al mondo ne doveva saper nulla, per ora... E ciò che forse lo tentava più di tutto era la prospettiva di poter finalmente entrare in quella casa come un despota, come un arbitro, come un donatore. Finalmente avrebbe parlato lui, a quattr’occhi, senza peli su la lingua, con quel tomo che non ascoltava nessuno, e si vedrebbe infine cosa volesse dire sentirsi uomo! Dava, e in fondo senza rischiar nulla, poichè Stefano era galantuomo; per di più si creava intorno una specie di vassallaggio con la forza del suo denaro, ed avrebbe potuto trattarli tutti come tanti suoi domestici, se così gli fosse piaciuto, da quel giorno in poi. Arrigo si sottomise a tutte le condizioni che gli vennero dettate, messo com’era con le spalle al muro. E le condizioni furono che andasse a passare con la famiglia i venti giorni di villeggiatura de’ quali ogni anno l’occhialaio soleva provvedere a’ suoi di casa; ma che, non appena tornato in città, rinunziasse alla sua vita indegna per accettare un impiego qualsiasi, trovatogli dai padre, o dagli amici del padre, o da lui stesso, Riotti, in persona. Arrigo disse di sì, risoluto a mantenere almeno la prima delle sue promesse. Venti giorni di villeggiatura, con quel caldo della prima estate, gli avrebbero riposato i nervi, lo spirito ed il corpo, lasciandolo finalmente dormire in pace dopo tante notti vegliate con affanno su la crudele ambiguità delle carte. Poi, la sera, sovra un balcone semibuio, tra una ventata di buoni odori, avrebbe suonato con passione, con perdimento, il violino, pensando in quelle veglie d’estate alla dolce bocca rossa di Mercedes la bruna... IV Donna Grazia faceva i bauli; Stefano, dopo aver chiusa la bottega, fumava una certa sua pipa di schiuma, complicato e raro gioiello ch’egli serbava per le delizie del dopo cena. Luisa, la secondogenita, una ragazza sui diciassette anni, dalle fattezze un po’ dure ma con il corpo snello, ne stava sotto il lume ultimando un suo ricamo di cattivissimo gusto. Ricamava in fretta, con le dita agili, la faccia intenta e china in un cerchio d’ombra. I suoi capelli grevi e lisci, annodati con semplicità come quelli di un’educanda, le giravano intorno alla nuca, intorno alla fronte, con una specie di pigrizia, come se li avesse pettinati così per abitudine, senza neppure guardarsi nello specchio. Era infatti una ragazza pigra, quieta, un poco marmottona, che in inverno amava i cantucci presso il fuoco, gli sciallini di lana, poichè aveva le spalle sempre infreddolite; una ragazza che amava l’ago, il refe, la macchina da cucire, e se ne stava in cucina volentieri a veder bollire le pentole, come parimenti sapeva, con un prematuro istinto materno, cullare i marmocchi in fasce quando cominciavano a strillare. Paolo, il fratello, minore di lei d’un anno, e che ora, da qualche mese, frequentava un laboratorio per imparare il mestiere del padre, adesso era intento ad acuminare col temperino un piuolo di legno per costrurre una sua certa scatola ad intarsio ed a fuoco, lavoro di cui dilettava per solito la sua digestione lenta. Era un bimbotto semplice, dai capelli rasi sur cranio rotondo, di carattere attento, di natura sobria. Anna Laura, la più piccola, che aveva dieci anni a quel tempo, era sopra con la mamma, a chiacchierare senza tregua, a far celie, a mettere il suo nasino impertinente in tutte le cose che non la riguardavano affatto. Entrò il Riotti, al quale dopo il desinare s’infocavano le guance ed il naso, benchè cercasse di mangiar poco per non aiutare una molesta pinguedine; entrò con un risolino affabile, dondolando il corpo maestoso su le gambe tozze, e subito la Luisa, interrompendosi dal ricamo, gli versò quel solito bicchiere di vin spumante ch’egli si centellinava piano piano, discorrendo col suo tono autorevole, senza nascondere qualche largo sbadiglio di tratto in tratto. Narrò d’una vicina, che aveva mandato a chiamare il medico lì per lì, essendo prossima a sgravarsi e temendo un parto difficile. — Queste benedette donne del giorno d’oggi!... non sanno più nemmeno partorire! Figurátevi che mia moglie, tre giorni dopo l’Eugenia, era in piedi e sgambettava. A proposito dell’Eugenia, avrei quasi una mezza intenzione.... Visto che andate in campagna, mentre qui si scoppia dal caldo, ve la confiderei per qualche giorno, se la cosa non v’incomoda. — Ma, — obbiettò Stefano — sai bene che non avremo posto. — Oh Dio, — fece il Riotti, — dove si sta in cinque si sta pure in sei. Vediamo un po’: l’Annetta può dormire con la mamma, e facendo mettere un altro letto in camera della Luisa tutto s’accomoda, mi pare. Ma se deve essere un disturbo, — aggiunse con dignità — sia per non detto e grazie di tutto cuore! — Per me... — rispose Stefano mansuetamente. — Io tanto me ne resto qui. Bisogna che tu te l’intenda con mia moglie. Donna Grazia non l’aveva in grazia quella figliolona del farmacista, grassa, inerte, insipida, che si girava sette volte la lingua in bocca prima di lasciarne cadere una sillaba. Il Riotti arricciò il naso e gli venne fra la barba corta quella cattiva piega ch’era il segno evidente del suo malumore. — Non voglio chiedere favori a nessuno! — disse con una specie di sibilo. — Se non desiderate prendere con voi mia figlia, ho dieci altri amici che ne saranno invece onoratissimi. Stefano aveva qualche volta quella irritante caparbietà del silenzio ch’è peggiore di una cattiva risposta. Se ne stette zitto ed il Riotti s’inviperì. — Del resto, va bene! — mugghiò. — Agli amici si ricorre quando se ne ha bisogno, dopo si mandano al diavolo. Così va il mondo e non c’è da farsene maraviglia. Per tua regola, però, non intendevo caricarvela su le spalle a vostre spese; avrei pagata la mia parte, perchè ci tengo — io! — a non dover nulla a nessuno. Nonostante l’allusione terribile, s’accomodarono da buoni amici e l’Eugenia andò in campagna con la famiglia del Ferrante, poco lontano dalla città, in una rustica villetta che apparteneva ad un vinattiere del sobborgo, fattosi ricco a furia di misturar vino ai clienti e fornir denaro clandestinamente agli usurai della città. Ma era in fondo un buon diavolo, e per amicizia verso l’occhialaio gli aveva ceduto quattro o cinque stanze ad un prezzo assai mite. Questa Eugenia era d’indole assai diversa da quella del padre, ma fisicamente tanto gli rassomigliava quanto una ragazza di vent’anni può somigliare ad un uomo di cinquantatre. I suoi vent’anni le fiorivano indosso, scempi ed aperti come papaveri di campo, prendevan su la sua gota fresca un colore quasi paonazzo, le rompevano fuori dal corsetto con una rotonda esuberanza di seni. Era del resto bonaria e semplice; aveva i capelli d’un color castano scuro, pettinati con la riga nel mezzo come le nutrici lombarde, i denti bianchi e forti, la cintura larga, le mani ed i piedi un po’ grandi. C’era in lei qualcosa d’incerto fra la bella contadina, la massaia diligente e l’educanda timida. Parlava poco e rideva molto; aveva una fame insaziabile ed una passione vorace per i romanzi d’amore. Da molto tempo, nel suo cuore nascosto, nudriva un tenero per Arrigo; una di quelle passioncelle dolci e quiete che scorron via come ruscelletti, senza far rumore. Trovava Arrigo molto bello, molto elegante, e l’amava sopra tutto per i suoi malanni. C’era intorno a lui quel sapore di vizio che non manca mai di turbare le fanciulle, ancor più se hanno il cuore onesto. Aveva inteso parlare della Mercedes, della famosa Mercedes la bruna, nome che le sorelle d’Arrigo pronunziavano con un ambiguo rossore; e per lei, l’uomo ch’era l’amante di Mercedes, una donna tutta pizzi gioielli e profumi, una canzonettista, una «cocotte»... — oh parola enorme che le faceva sognare! — quell’uomo per lei possedeva, come gli eroi da romanzo, qualcosa di magico, una specie di bellezza fatale che intorbidava di sogni la sua curiosa verginità. Ella forse non lo avrebbe amato mai, se il padre stesso non le avesse, per un capriccio, suggerito, educato e comandato questo amore. Il farmacista s’era fitto in capo di maritare sua figlia col primogenito dell’occhialaio: nulla poteva ormai distoglierlo da questo progetto, nemmeno la certezza di rendere infelice sua figlia. Era fra quegli uomini cocciuti che abbracciano senza riflettere un’idea, e quanto più essa risulti cattiva, tanto più vi s’incaponiscono. Arrigo invece non si curava di lei. Aveva indovinate vagamente, come tutti in famiglia, le mire del farmacista; ma con la ragazza parlava di rado e sempre con aria di compatimento. Ora, per distrarre i lunghi ozî campestri, s’era messo a far la corte ad una marchesina che abitava una villa nei dintorni: corte per modo di dire, che cioè la saettava d’occhiate amorose ogniqualvolta la vedesse per il cancello del suo giardino o l’incontrasse la domenica in chiesa, dov’egli andava azzimato come uno zerbino. Ma fosse la lontananza della Mercedes o il calor dell’estate, gli cominciò a bruciare nel sangue un’accensione voluttuosa, che non gli dava pace, sopra tutto nelle calme sere, quando veniva dal balcone aperto, sopra il suo letto insonne, un odor forte di rosai che vampavano, di caprifogli che sfiorivano, come grandi profumiere che bruciassero nella notte d’estate. La sua camera era contigua con quella ove dormivan insieme l’Eugenia e la sua sorella maggiore; un uscio mal connesso le divideva; s’udivano tutti i rumori. Una sera, mentre stava sul balcone fumando una sigaretta prima di coricarsi, e pensava con una triste gelosia alla Mercedes, alle sue belle brancia bianche, vôlto che si fu, poichè non v’era lume nella sua camera, vide filtrare alcuni spiragli di luce per le connessure dell’uscio e intese lo strepito che facevano le due fanciulle svestendosi e cicalando. In quella calda sera d’estate il suo sangue ribolliva di ardori contenuti, la sua testa era torbida e greve. Mai come in quella sera aveva respirato con l’anima e coi sensi la fragranza delle rose, gonfie di rugiada, il profumo intenso dell’erbe aromatiche. In quel piccolo giardino, tra il buio e la luce, nascostamente serpeggiava un tremor di vita, un fervere di sussulti notturni, che lo facevano trasalire. Facilmente si trema talvolta per un rumore che nella notte sembri un congiungimento d’esseri o di cose. A poco a poco, in quell’ombra si accesero nudità, fiammarono, si contorsero, giacquero supine. I capelli bagnaron nelle fontane, i seni erti s’imperlarono di gocciole vive, le braccia stanche si allentaron nell’erba rinfrescata. E sentì l’odore di quei corpi salire a lui come una vampa, nell’odore delle piante aromatiche. Poi vennero ancora più altre, ch’egli aveva baciate con febbre nei torbidi sogni dell’adolescenza, e il giardino si converse in un letto, in un letto molle, profondo, su cui correva come un brivido la fragranza de’ rosai, cadeva il pòlline di certe grandi rose gialle, vellutate, quasi bianche, rotonde quasi, come seni gonfi e maturi. Ed una musica venne, su dalla fontana, che fece tornare le donne ignude alla fontana, e si chinarono per specchiarsi, ridendo d’un riso lascivo; e nel chinarsi le loro poppe oscillavano come grappoli, tutt’intorno, quasi con un tintinno di carne molle, piano piano, come se danzassero, tutt’intorno, con un tintinno, sopra il riflesso dell’acqua insidiosa.... Di là, oltre l’uscio, intese il rumore dell’acqua versata in un catino. Entrò nella camera un po’ ebbro; intese un rumore di pianelle, o gli parve, di sottane, o gli parve.... Non ricordò nemmeno chi fosse, ma volle guardare; guardò. Una — la sorella — era davanti allo specchio e si pettinava. L’altra, un po’ curva sul catino, si lavava le mani. Erano semivestite ambedue. Luisa, con il busto ancor serrato ed una sottanella corta che le copriva le caviglie, teneva le braccia sollevate dietro la nuca, girandosi con una mano la treccia e con l’altra puntandovi qualche forcina. Egli vedeva le sue spalle rotonde fare una bella piega di carne intorno all’orlo del busto cilestrino ed il volto sorridente riflettersi, con un pettine fra i denti, nello specchio incline. Mai la sua semplice sorella gli era parsa leggiadra così. E l’altra, egli la vedeva di pieno, con le rotonde braccia quasi tuffate nel catino, avendo riflesso nel volto il piacere dell’acqua fresca sul calore della pelle trasudata. Non aveva più che la camicia indosso, la camicia da giorno, scollata, non tenue, ma che traverso la luce delineava con mollezza i contorni della persona opulenta. Vedeva l’acqua luccicante scorrere giù in rivoletti per le braccia grasse, vedeva il seno florido espandersi mollemente ad ogni oscillazione del corpo, vedeva i duri capezzoli sbocciare, quando s’alzava, come ghiande sotto la camicia tesa. Non molto si lisciarono. Una, la prima, se n’andò verso il letto; con le mani riverse dietro la schiena slacciò il copribusto leggero, le mutande gonfie; con le mani un po’ irose contro la resistenza degli uncini disfece il busto che conteneva la snella ricchezza del suo corpo e si strofinò con le palme, sopra la camicia un po’ arricciata, da pelle solleticosa. Poi si fece passare sopra il capo la camicia da notte, lunga e chiusa come una tunica, lasciò che l’altra di sotto le scivolasse ai piedi, sedette su la sponda, incrociò le gambe per togliersi le scarpine, le calze, poi, frettolosa nel suo timore, si cacciò sotto il lenzuolo. Ma colei ch’era sopra il catino, amava più indugiare. Tuffò nell’acqua la faccia, e quando la trasse gocciolante, rise, parlò. Si mise a camminare per la stanza, rasciugandosi. La sua pelle riceveva dallo strofinìo del lino un più vivo colore. Ora egli la vedeva interamente, in quella corta camicia che scopriva i polpacci tozzi, le caviglie un po’ grosse. Vedeva la forma rigogliosa della sua carne piena di tremolii, di curve. Andò alla pettiniera e s’incipriò le braccia, il collo. Certo non pareva così raffinata e lisciarda com’era, quella calma Eugenia! Fece un giro per la camera, trascinando le pianelle di panno, lasciò calare una cortina, distese la gonna su gli appoggiatoi d’un seggiolone, poi trasse il pettine dal nodo dei capelli, e le trecce caddero giù per le spalle, in disordine. I suoi capelli non eran lunghi, ma folti; in quella luce parevano quasi neri. Allora li prese tutti in un pugno, se li fece passare sovra una spalla, li contorse, e legatili nel mezzo con un nastro, li ricacciò indietro. Rideva; era contenta di sentirsi libera e rinfrescata. Parlarono. Colei ch’era nel mezzo della camera domandò alla compagna, ch’erasi coricata: — Vuoi già dormire? L’altra stirò le braccia voluttuose, le gambe già pigre, diede un lieve sbadiglio e con la voce piena di sonno rispose: — No... ancora non vorrei dormire. L’Eugenia andò verso il proprio letto, ch’era vicino all’altro, raccolse la camicia da notte stesa su la coltre e vôltasi al letto dell’amica la buttò di traverso sul corpo di lei che giaceva. — Come diventa liscia la pelle con un po’ d’acqua ed un po’ di cipria! — disse alla Luisa. — Tocca. Ella trasse dal lenzuolo un braccio, e poichè la manica troppo larga le si era in quel movimento ripiegata fin sopra il gomito, col mezzo braccio ignudo toccò il braccio dell’altra, che le stava presso. E lungamente lo toccò, soavemente, con una specie di delizia, con un semiriso di piacere. — È vero, — fece. Carezzò di nuovo: — È vero. — Poi chiuse gli occhi. — Tu hai sonno, — disse quella che amava indugiare. L’altra riaperse gli occhi e rispose: — Anzi non ho sonno. Discorriamo, se vuoi. Pigramente l’Eugenia slacciò i bottoni che le tenevan la camicia su la spalla, ed appoggiatasi contro la sponda del letto perchè non scivolasse interamente, se la lasciò cadere fino alla cintola. Il corpo ne sbocciò fuori come una pannocchia dal cartoccio. Ora le sue reni profonde, poco arcate, larghe, apparvero intere a chi guardava. E i fianchi troppo robusti apparvero, e di scorcio la tondezza del ventre, il dondolìo di quei due seni grandi, un po’ cascanti, quasi sciupati. Con le due braccia incipriate se li accarezzò lentamente, poi li contenne, sollevandoli, non nei palmi delle mani ma sui polsi e su gli avambracci. Rideva e guardava l’amica, tra sfacciata e confusa. — Un po’ troppo?... — interrogò. — Forse... — disse l’altra. E risero. — Tu, meno assai... — Sì... — Ma per pudore si rannicchiò nel lenzuolo. Tuttavia la curiosità di quel discorso e di quella vista la pungeva. — Mi hanno detto che si può dimagrirli, e indurirli... Sono un po’ molli... — Ah, sì?... — Tocca... — Ma no... — fece, con un riso, la più timida. — E perchè? Ella sporse la mano, toccò quasi con timore, in fretta, l’uno, l’altro, le punte, poi ritrasse la mano come scottata. Allora l’Eugenia aperse pian piano, dal basso, la camicia da notte, e vi si cacciò dentro come in una fodera, raccolse dallo scendiletto quella che aveva lasciata cadere, la buttò sopra una seggiola, e piano piano, facendo scricchiolare le molle, si distese a giacere. Si volsero l’una verso l’altra, sotto i lenzuoli, e risero. — Tu non pensi mai?... — fece l’Eugenia; poi s’interruppe. — A cosa? — Al desiderio di avere un marito... — Oh... sì... Poco dopo spensero il lume. V Quando, il giorno seguente, Arrigo rivide l’Eugenia, l’avvolse tutta in uno sguardo lento, iroso, lascivo, di cui la fanciulla si sentì turbata. Egli la rivedeva com’era la notte innanzi, ritta e nuda, con le due braccia ricolme de’ seni gonfi. Ed aveva subitamente concepito sopra di lei un pensiero avido, che non gli si staccava dal cervello. Cominciò a farlesi attorno, carezzevole, audace, prendendole qualche volta una mano, se la sorprendeva in una stanza o nel giardino, sola. Ed ella si faceva rossa, cercava di schermirsi con una sorridente ritrosia, bruciando insieme dal desiderio ch’egli osasse ancor più. Tutti i romanzi d’amore letti con tanto fuoco le risalivan ora nella fantasia. Il suo calmo e pudico desiderio aveva qualche momento di perdizione. Una volta, in un angolo buio, Arrigo la baciò; e vi era in quel suo bacio tanta violenza torbida che la fanciulla se ne sentì come sopraffatta. Anche a lei l’estate metteva nelle calde vene un male indefinibile. Ora lo seguiva, lo cercava, temendo ch’egli se ne avvedesse, temendo che quella sua bella e rossa bocca le potesse dare un bacio più forte, il più forte bacio... Sentiva nascere il peccato in sè con uno sfinimento ch’era come una morte voluttuosa. E cominciò dalle piccole colpe, con lui, ch’era un maestro lento e paziente, un tentatore pieno di temerità. Seppero l’odore dell’erba calda, dietro i cespugli, la mollezza della riva del fiume, e s’incamminarono sotto il sole, per la strada polverosa, verso il bosco taciturno. Poi, una sera, egli le disse per le scale: — Vieni da me. Ella attese, attese; attese che l’amica dormisse, che il campanile suonasse nella notte un’ora inoltrata, che la luna compisse un mezzo giro per la camera, che tutti i mobili avessero scricchiolato nel silenzio, facendola sussultare... si volse, si rivolse nel letto, volle, non volle, fredda, sudata, attenta, paurosa, tesa come una corda vibrátile... poi scese piano piano, tutta tremando, a piedi scalzi... — e v’andò. . . . . . . . — Mi sposerai? — Certo. Egli aveva le labbra odorose d’altri baci, soavi e selvagge come un ricco miele. Allora ella gli parlò dell’avvenire, d’una casa che avrebbero, intima e tranquilla, d’una fedeltà indissolubile, d’un amore senza fine. Ed egli nel cuore cinico ne rise, perch’era di quelli che feriscono senza conoscere il male che fanno. Venivano al sabato sera il Riotti e il del Ferrante insieme; ripartivano col primo treno del lunedì. Eran gite, la domenica, scampagnate per i colli, merende nei boschi, sorbetti variopinti e fette di cocomero, la sera. Si ballava, sotto i padiglioni, si ballava, con l’organo di Barberia infaticabile... Il Riotti e donna Grazia, una domenica sera, fecero un giro di polca insieme: egli n’ebbe male alla schiena per una settimana, ella ne ringiovanì. Paolo andò a caccia di grilli, e ne trovò uno che cantava — come cantava! — tutta notte, sul poggiolo. La piccola Anna Laura colse frutte nei frutteti, e montò sopra l’asinello di un vicino, e finì con rotolare in un fossato, senza farsi male, però. Ma sgualcì l’abitino che portava, il suo più bello. E Stefano pagò le spese, rimanendo curvo tutta la settimana a metter lenti negli occhiali. Ed i roseti apersero tutte le rose e le stracciarono fiocco a fiocco, lembo a lembo, come ventagli di carta; e le more, lungo i fossi, tra i dirupi, cominciarono a vaiare; ed il grillo del poggiolo scappò via, quando la luna finì... E l’Eugenia rimase incinta, quando la luna finì. Si ballava, sotto i padiglioni, si ballava... VI Ritornarono tutti alle contigue botteghe, tra lenti e fiale, ognuno alle proprie abitudini quotidiane. L’anno interrotto ricominciò. Fuori divampava un autunno più rosso dell’estate, ma nessuno pensava ormai a lamentarsi del caldo, poich’era trascorso il tempo della villeggiatura. La sola che non riuscisse a togliersi la vampa di dosso, era quella povera Eugenia, che ciondolava di qua e di là, da un angolo all’altro, da una seggiola all’altra, come un’anima senza pace. Incinta!... incinta!... Questa parola viscida, oscura, funesta, le si divincolava intorno come un viluppo di serpi, la mordeva nel ventre, che le pareva crescesse a vista d’occhio, le attanagliava i seni, dolorosi di trafitture, le serrava la gola dandole un’impressione soffocante di nausea, le passava dal cervello alle calcagna come una lunga fredda lama. Intorno a lei non danzavano più che tanaglie di medici, rivoli di sangue, rotoli di fasce, teste implumi e bavose di bambinelli appena sgusciati fuori. Non osava più guardare in faccia il suo padre maestoso, nè guardare alcuno; le pareva che tutti protessero leggerle nelle pupille dilatate il suo materno segreto. «Mi sposerai?» — «Certo.» Aveva detto: «Certo.» Ma ora non la guardava quasi più, era diventato ruvido, la maltrattava, sopra tutto dal giorno in cui la ragazza, presa dal terrore, gli aveva confessata quella terribile verità. Per poco egli non erale piombato addosso coi pugni serrati; poi lo aveva udito profferire una bestemmia fra i denti, e l’aveva guardata, fissata, un attimo, implacabilmente, con gli occhi pieni d’odio. — Non c’è più che un mezzo... — aveva ella tentato di dirgli fra i singhiozzi e le lacrime. — Quale? — Confessare tutto e sposarci súbito. — Ah?... ti pare! — fece Arrigo, duramente. — Ci penserò. E volse le spalle mettendosi a fischiettare. «Sposarla? Nemmeno se cadesse il mondo, quella grassa dagli occhi di lumaca! Toh!... ci aveva pensato seriamente, lei! E con qual candore veniva a dirglielo!... In ogni modo era una seccatura.» Accese una sigaretta e se ne andò a trovare la Mercedes. Quella brava ragazza doveva esser pratica di queste cose. La Mercedes a quell’ora — erano le tre — si stava mettendo il busto. Bisognava stringere molto i legacci, e per aiutarla era venuta la padrona di casa, o meglio l’affittacamere, una donna ch’era stata in altri tempi desiderabile assai, ed ora, tenendo pigione, faceva insieme l’usuraia la mezzana e la domestica delle sue clienti. Non vedeva di buon occhio Arrigo, perchè, con quella praticaccia che si prende nel mestiere, aveva súbito compreso come ci fosse in lui piuttosto la stoffa del mantenuto che del mantenitore. Ma quella Mercedes era una testa calda e metteva l’interesse in seconda linea. Glielo diceva spesso, nello stringerle il busto: «Peccato! con un corpo ed un viso come il tuo!...» Ma quella rispondeva seccata: — Mamma Gilda, lasciami stare. Arrigo entrò, come in camera sua, buttando il cappello sul letto ancor disfatto; l’altra gli corse addosso e si mise a baciarlo, mentre Mamma Gilda le veniva dietro coi due capi dei legacci fra le dita: — Se non stai ferma, benedetta!... — Ora, tanto, me lo levo il busto! — disse lei, tirando un baffetto d’Arrigo. — No, no, stringete, stringete, mamma Gilda! — egli rispose. — Perchè?... — fece la Mercedes, malcontenta, e guardandolo con civetteria. — Non ho tempo. — Ve’, il moscardino! — esclamò la vecchia, che in fondo in fondo, per antica memoria, venerava gli uomini i quali hanno tempo sempre. — Una volta, corbézzoli! non me lo sarei lasciato dire. — Mamma Gilda, m’è accaduto un guaio; navigo in pessime acque... — fece Arrigo. — Già... — rispose l’altra con sogghigno, — capisco!... Ma, se si tratta di quattrini, è meglio che tu ti rivolga al tuo banchiere. Qui non facciamo credito. — Be’, Mamma Gilda, cosa ne sai tu? cosa c’entri tu? — fece la Mercedes, mentre Arrigo fissava la vecchia con uno sdegno taciturno. — Pífferi! So che c’è voluto un bel tempo a mettere fuor dai piedi quella buona lana di Giannotto, ed ora non vorrei che t’invischiassi con quest’altro, mo’!... Arrigo tuttavia si mise a ridere: — Che quattrini! che quattrini!... Per tua norma io non chiedo mai nulla a nessuno, e con le donne faccio quel po’ che posso. — Molto poco... — notò affabilmente la vecchia. Ma la Mercedes, anche per orgoglio proprio, volle proteggerlo e disse a Mamma Gilda: — Ti ho pagata finora o no? — Non dico... — Ti devo qualcosa forse? — Cento cinquanta lire. — Per quelle hai la cambiale, che non è scaduta finora. Ti devo altro? — Il mese, dopodomani. E se aspetti che te lo paghi lui, stiamo fresche! — Dopodomani non è oggi; e insomma vattene perchè mi secchi! — Ah, basta!... non parlo più! — ella disse, cacciandosi le mani entro le tasche del grembiule di percalle e facendovi suonare un gran mazzo di chiavi. Ma non se ne andò. Era curiosa, pettegola, bisticciosa, petulante, avida, e però il cuore, sotto quei novanta chili di carne flaccida, era rimasto un buon cuore di vecchia prostituta che nelle sue discepole riviveva la storia del proprio passato, senza riuscire a nascondere un senso d’invincibile maternità. — Sentiamo, — ella fece autorevolmente, — cosa c’è di nuovo allora? La Mercedes, in busto e mutande, si mise a sedere, con le gambe accavallate, sul bracciuolo della poltrona dov’era il giovine. — Ho fatta una sciocchezza, — egli disse, battendole col palmo sul nudo della coscia; — una sciocchezza grave. — Cos’hai fatto? — interrogò la Mercedes, mentre l’altra sogghignava. — In campagna... — diss’egli a mezza voce; — sapete... come accade spesso nelle case di campagna... — Ha un bel dire, ma quel muso li viene a batter cassa! — interruppe la vecchia con un cipiglio infernale. — Al diavolo! — interruppe Arrigo levandosi. — Ho resa incinta una ragazza! — Eh? — Eh?!... — esclamarono tutt’e due. Ma la vecchia ne aveva tante udite in vita sua che non se ne stupì a lungo. — Peuh!... — fece, — roba di villeggiatura! Sarà una sninfia, di quelle che si dànno sull’erba, come le cavallette. — Già!... la figlia d’un amico di casa, — egli precisò. La Mercedes cominciò a smaniare di gelosia. — Ah, benissimo! La figlia d’un amico di casa?... Una specie di signorina dunque! E me lo vieni anche a dire! Incinta!... Benissimo! E perchè mi scrivevi allora quel mucchio di lettere piene d’imposture?... Sei un farabutto! Mamma Gilda si mise ad aizzarla: — Vedi cosa ti combina quel sudicione? Arrigo aveva già fatta l’abitudine al frasario dell’affittacamere e non se ne risentì. Poi gli premeva che l’aiutassero, almeno d’un consiglio, ed era venuto per questo. Cercò di rabbonire la Mercedes, che girava minacciosa per la camera sbatacchiando il copribusto e buttando in aria tutto quanto le capitava sottomano. — Capirai, è stato uno scherzo... — Già, e adesso sposala! — E’ appunto quello che lei vuole. — Ah, sì? È quello che lei vuole?... Ma chi è? Spiegati presto! Quanti anni ha? Come si chiama? Cosa fa? Dove sta? Era vergine poi? — Sì, vergine, vergine. — Peuh!... — grugnì la vecchia, incredula. — Se te lo dico io... — Già, loro credono di capire, loro!... — E fece uno di quei grandi sorrisi, pieni di buon senso, che racchiudono tutta l’esperienza d’una vita. Arrigo raccontò la storia, in fretta e su per giù, cambiando il nome e l’indirizzo tanto per precauzione. Non voleva certo sposarla, chè anzi l’avrebbe strozzata più volontieri... «... ma, in un modo o nell’altro, bisogna pur rimediare, ti sembra? Se no entra di mezzo il padre, uno di quei padri terribili che fanno venire la pelle d’oca al solo pensarvi...» Rimasero un poco in silenzio, quand’ebbe così concluso, tutt’e tre. Mamma Gilda, rifletteva, carezzandosi piano piano il ridoppio del mento, com’era suo costume. Poi s’aggiustò il grembiule sui fianchi: — Bene, — disse. — Metti fuori un biglietto da cinquecento, e la cosa si accomoderà, forse... — Come? — domandò Arrigo, senza badare al prezzo. — Tu non ci pensare; queste sono cose da sbrigarsi fra donne. Conduci qua la ragazza e combineremo. — Qua? — S’intende. Certe operazioni è meglio farle in casa propria, mio bel signorino! Però bisogna che ci parliamo chiaro. Queste cinquecento lire le hai o non le hai? — ... naturalmente. — Naturalmente cosa? Le hai o no? — Per ora no. — Allora amen! — Ma le troverò. — Contante! contante! e anticipato! Non vorrei mica ridurmi a pagar io la levatrice e rischiar la galera per te, senza nemmeno guadagnare un soldo! Pifferi! Quando le hai, vieni da mamma Gilda. Ma sieno cinque tutte intere. Se manca un centesimo non se ne fa niente. — Le troverò. Solo vorrei dire una cosa. Vorrei domandare se il risultato è certo e se c’è molto pericolo. — Senti, bellezza, di sicuro al mondo non c’è niente. Quello che posso dirti è che io, in persona — e vedi che sto benissimo — ne ho sopportati cinque o sei; quanto poi alla Mercedes.... — Io, niente! neanche uno! — Come neanche uno? E quello del tenente, l’anno scorso?.... Arrigo la squadrò di traverso, con la faccia buia. VII Un po’ con le buone, un po’ con le brusche, Arrigo persuase l’Eugenia a recarsi da mamma Gilda. La Mercedes concedeva la camera, ma non voleva nemmeno vederla in faccia quella svergognata! E poi arrossiscono, le signorine!... E parlan male delle ragazze libere, le signorine!... Quanto ad Arrigo poi, non credesse neanche per sogno di finire la cosa in quel modo. Non appena l’altra si fosse liberata, farebbero conti e patti chiari. Perchè, se a lui piaceva passare il tempo con le ragazze così dette oneste, lei non ci avrebbe messo nè due nè quattro a tornarsene con Giannotto, il quale già le correva appresso di bel nuovo ed era, se non altro, una persona molto più delicata. Intanto diede lei stessa le duecento lire che gli mancavano per pagar mamma Gilda; ossia non le diede, poichè non le aveva, ma firmò un’altra cambiale. Ad Arrigo mamma Gilda non faceva credito neppure di cinque lire. Se l’intendessero poi fra loro.... L’Eugenia venne due volte; così pallida, così spaurita, che mamma Gilda dovette súbito cominciare con somministrarle un bicchierino di cordiale. Trovò che aveva una brutta faccia ed un corpo di poco avvenire, ma per intanto non fece obbiezioni. Tutte le donne, a qualsiasi classe appartengano e per quanto sia grande la distanza che le divide, sentono sempre l’una verso l’altra quella specie di sororale pietà che nasce in loro dall’esser tutte parimenti esposte agli stessi pericoli ed agli stessi dolori. All’Eugenia mamma Gilda ispirò tanta fiducia, che d’un tratto si mise a piangere contro la sua spalla, credendola forse una suora di carità. L’altra, colei che sapeva l’arte, era una megera inanellata e adorna di capelli finti, con un fare untuoso, cauto, la bocca melliflua, le mani calzate di mezzi guanti in filo di Scozia; carezzava l’Eugenia chiamandola «piccina» e dicendole molte cose amorevoli a bassa voce. Poichè Arrigo le impacciava senz’alcuna utilità, lo mandaron via, e dissero a lei, dopo averla sottomessa a qualche preparativo, di tornare, ma sola, il giorno seguente. Egli tuttavia non si fidava, e l’accompagnò anche il giorno appresso. Rimase ad aspettarla in istrada, seduto al tavolino d’un caffè ch’era nelle vicinanze. Il cuore gli batteva con celerità, fosse paura o rimorso. Che ore interminabili! Ma cosa facevano lassù? Finalmente vide scendere la megera; le andò incontro e volle interrogarla. — Tutto bene, tutto bene, — questa rispose in fretta. — Ma è meglio che non ci facciamo notare. Occorre prudenza... A rivederla. E con un bel sorriso della sua bocca molle come un’ostrica, filò via rasente il muro. Mezz’ora dopo scese l’Eugenia, tutta curva, sbiancata come un cencio, un po’ barcollante. Egli accorse: — Dunque? Soffriva, era tutta contratta, non rispose. Involontariamente si teneva le mani sul ventre e si mordeva il labbro smorto; a un certo punto si appoggiò con tutto il peso della persona contro il braccio di lui, come nella vertigine di uno svenimento. Erano sempre su la soglia della casa; egli fece venire una vettura e vi sospinse l’Eugenia. — Dunque? raccontami... Non puoi parlare? Ella scosse il capo. — Soffri? — Sì, molto, — disse fievolmente. — Ma non è tutto finito? — Finito, ma... — Cosa? — Una emorragia, credo... — Non cessa? — No. E dolori, così forti, così forti!... Vorrei urlare... Dette in uno scroscio di lacrime, nascondendo la faccia contro la sua spalla. — Povera me, ho paura!... — Vedrai, non sarà nulla. Un poco di pazienza: i dolori passeranno. Ogni scossa della vettura le traeva un piccolo grido; era così contraffatta da non potersi più riconoscere; stava china sul grembo straziato come per soffocarne gli spasimi. Egli era turbato, e per mostrarle un poco d’amore le mise un braccio intorno alla cintura. Non aveva busto, la gonna era mezzo sganciata sotto il corto mantello: egli sentì che ad ogni tratto sussultava, come se un acerbo dolore, nel grembo, la martellasse. Allora la baciò sul collo, dove i capelli schiacciati e sciolti serbavano l’impronta del cuscino su cui s’era dibattuta; fu carezzevole per darle coraggio, per farla guarire con un poco di persuasione. Giunti presso la casa comune, si divisero; ella, trascinandosi a fatica, salì nelle sue stanze; ma non potendo più reggere ai dolori si mise in letto. Egli rincasò pure, attendendo la sera. Una indefinibile paura gli opprimeva il cuore; passò venti volte nella corte per spiare dalle finestre nella casa del farmacista: ogni tanto lo vedeva seduto presso l’uscio a leggere il giornale, ogni tanto in bottega a vendere medicine. Era già tardi, stavano già pranzando, ed Arrigo sperava ormai che tutto finisse bene, quando il Riotti entrò come un pazzo mettendosi a gridare: — Venite! venite! Donna Grazia, vi prego!... l’Eugenia, l’Eugenia... — Che c’è! — L’Eugenia muore! Correte! Donna Grazia corse di sopra, gli altri si adunaron nella bottega del farmacista, chi per le scale, chi a pian terreno. Solo Arrigo rimase fuori, nella corte, pavido come la morte. Si trovò che l’Eugenia era sul letto, svenuta, con le coltri gettate all’indietro, madide di sangue; e dappertutto ne gocciolava: sangue, sangue. Paolo andò a telefonare per un medico, Stefano si mise ad empire catinelle d’acqua, sua moglie a far compresse. Le diedero aceto a fiutare, le aspersero la fronte, le strofinarono le tempie, senza che nemmeno si movesse. Il Riotti si dimenava disperato, voleva far mille cose, ma non poteva più guidare i proprii atti. — Cos’è mai? cos’è mai?... S’è messa in letto senza dirmi nulla. Salvatela, donna Grazia, per l’amore di Dio! Toccatele il cuore, fate che rinvenga almeno! Che parli! — E piangeva. Sopraggiunse il medico, un amico del Riotti, un vecchio. Allontanò tutti dal letto, si chinò su la svenuta, guardò, guardò meglio... poi volse gli occhi intorno, con stupore. — Ma cos’è — gemeva il padre. — Dimmi se c’è pericolo... — Mándali via, — disse questi laconico, segnando i due estranei. I del Ferrante si ritrassero e chiusero l’uscio. — Un aborto, — fece il medico. — Eh! Sei pazzo? — Emorragìa in seguito a procurato aborto, — ribadì chiaramente il medico. E con quella pacatezza dell’uomo solito a lenire il male altrui, comunque sia generato, si mise a prodigarle i rimedi e le cure necessarie. Ma ciò che il Riotti fece, non è a potersi dire. Prese colui per le spalle, scotendolo, gridò che se n’andasse, ch’era fuor di senno quella sera; poi si diede a girare per la camera, in piccoli cerchi, urtando contro i mobili. Donna Grazia socchiuse la porta e scivolò dentro; si mise ad aiutare il medico, il quale finalmente, non potendo altro ottenere dal Riotti, gl’intimò che tacesse o l’avrebbe cacciato a forza, poichè, se il vicinato udiva quelle voci, egli avrebbe dovuto denunziar la cosa. La ragazza ora stralunava gli occhi e rinveniva lentamente; il fiotto di sangue cominciava con lasciarsi frenare. Ma ella vaneggiava, e qualche frase rotta le uscì dalla bocca. Disse molte cose incomprensibili, poi un nome distinto, ch’era quello di Arrigo, le suonò su le labbra. E lo chiamava, e quel nome tornava in tutte le frasi del suo delirio, quel nome che raccontava il suo grande peccato. Ma quando scesero a cercare di lui, egli non v’era più. Era scomparso, fuggito, e nella corte i vicini bisbigliavano già una storia, guardando quella finestra del mezzanino dietro la quale passavan ombre. VIII Per una quindicina di giorni egli non si fece più vedere; visse allo sbaraglio, coi pochi soldi che aveva in tasca e nessuno cercò di lui. Per due settimane l’Eugenia rimase in letto, fuor di pericolo ma tuttavia malata. La faccenda venne in chiaro fra le due famiglie, poichè la ragazza stessa l’aveva raccontata fra singhiozzi e lagrime, senza ometterne alcun particolare, e sopra tutto invocando a propria difesa quella promessa di matrimonio che s’eran scambiata fra loro. Il Riotti, sbolliti i primi furori e perduta l’irruenta sua verbosità, era rimasto accasciato, rotto in due, come un uomo che avesse ricevuto sul capo un gran colpo di mazza. Nella camera della figlia non entrava più. Sul principio aveva parlato d’ucciderla, di rinnegarla, di metterla sul marciapiede come una ragazza perduta, ma non ne fece nulla ed infine si convinse che il meglio fosse tacere per non dar esca al pettegolezzo che già infuriava nel vicinato. Dunque raccontarono che la ragazza avesse un’enterite, e chi la curava era Donna Grazia, con la sua figlia maggiore. Cercavano entrambe, coi propri sacrifizi, di sminuire agli occhi del farmacista l’inaudita colpa di Arrigo. Ma il pover’uomo s’era chiuso in un silenzio di mutolo e viveva meccanicamente fra il banco della sua farmacia e la poltrona della saletta contigua. Buona ventura fu se non diede qualche veleno in cambio d’innocue polverine. Mangiava quel tanto che gli bastasse a non morir di fame, leggeva come prima il giornale, ma senza più capirvi nulla, e non v’era caso, lui tanto ciarliero, di udirlo scambiare una mezza parola coi clienti che andavano e venivano da mattina a sera. Cinque o sei volte al giorno saliva le scale in punta di piedi per andar a mettere l’occhio fra le connessure dell’uscio e gettare uno sguardo verso il letto della figlia. Ma non voleva che lo vedessero, e solo qualchevolta, con un tono burbero, con una voce che aveva perdute tutte le sue belle tonalità, chiedeva a Donna Grazia come andasse la malata. Non osava più mostrarsi nella corte, per quel certo risolino che intravvedeva su la bocca di tutte le persone del vicinato, nè Stefano ardiva venirgli a parlare, sebbene quell’uomo gli facesse una gran pena ed egli sentisse, nella sua naturale onestà, di dovergli pur qualcosa. Ma una sera finalmente, preso il coraggio a due mani, l’occhialaio sporse il capo con timidezza nella retrobottega del farmacista. Costui leggeva e fece le viste di non averlo veduto. — Senti, Guglielmo... — incominciò Stefano. — Io non sono responsabile di quello che ha fatto e che farà in avvenire quel mio figlio disgraziato, ma sento il bisogno di venirti a chieder scusa e spero non ti scorderai che siamo vecchi amici. Gli tremava una tale commozione nella voce, che il Riotti torse il naso dal giornale e lo sogguardò di sbieco. — Meno chiacchiere! — inveì. — Non conosco più nessuno. Ma visto che sei qui, veniamo a patti chiari. L’altro avanzò di qualche passo; si sentiva tuttavia così colpevole che non ardì sedersi e rimase in piedi davanti al Riotti come davanti un giudice. — Punto primo: dov’è tuo figlio? — interrogò il farmacista. Stefano aperse le braccia: — Non so... — Credo che lo sappiate benissimo, ma per prudenza lo teniate lontano. — Ti prego di non supporre... — Io suppongo, se mi permetti, anche di peggio! Suppongo sopra tutto che da gente onesta non possa nascere un delinquente di quel genere! La risposta era ovvia, ma l’occhialaio non ne volle trar profitto. Fece on piccolo gesto di collera, piccolo, quasi nullo. — Ma ora che la cosa è fatta, — seguitò il farmacista, — inutile recriminare. Quello che decido è semplice: fa uno stato a tuo figlio, mettilo in condizioni da vivere almeno decorosamente, e che si sposino al più presto. — È quello appunto che ti volevo proporre. — Però, intendiámoci... — l’altro soggiunse. — Si sposino e facciano quel che vogliono, siano felici o vadano a finire in malora, a me poco importa; ma in casa mia, nè lai nè lei, mai più! — Via... — mormorò l’occhialaio. — Quanto a noialtri, come se non ci conoscessimo neppure. Ognuno a casa propria. Perchè, dopo quanto accadde, non è possibile ch’io perdoni mai più. — Via, Guglielmo, non essere ingiusto... Ma il farmacista gli troncò la parola: — Siamo intesi, e buona sera, — fece, mostrando vagamente l’uscio. In vita sua non era mai stato così laconico. Stefano se ne andò; e visto che l’Eugenia era quasi guarita, persuase la moglie a non bazzicare più in casa del Riotti, poichè gli pareva che il farmacista esagerasse un poco ne’ suoi modi brutali. Quando non gli rimase più il becco d’un quattrino nè il mezzo per trovarne, Arrigo fece ritorno al focolare paterno. Era pronto a lasciarsi rabbuffare nel peggior modo, era deciso a cacciarsi nell’uragano come un uomo perduto. — Me ne sono andato per semplificare le cose, — ebbe la sfrontatezza di dire al padre, non appena lo vide. — Se fessi stato qui presente, chissà mai che pandemonio! Donna Grazia, sventatamente, si lasciò sfuggire: — Forse è stato meglio così. — Ma vide il marito lanciarle un’occhiataccia e non aggiunse altro. Ad Arrigo furon risparmiati rimproveri e scene, poichè nessuno si sentiva il coraggio di lottare con lui; ma in breve lo misero al corrente delle decisioni ch’erano state prese. — Sposerai l’Eugenia non appena col tuo lavoro ti sarai procurata la certezza di poter campare. È tempo che tu finisca di accumulare malanni. — Ma, un momento... — fece Arrigo. — Non devi discutere! — l’interruppe il padre, spiegando per la prima volta una certa energia. — Ti cercherò un impiego, e lo accetterai, qualunque esso sia, visto che non hai voluto continuare gli studî. — Un impiego? — mormorò Arrigo. — Sì, ed al più presto. Eravamo già d’accordo su questo punto prima della villeggiatura, dunque ti prego di non ribattere parola, perchè altrimenti fra me e te si viene ai ferri corti: io ti metto fuori di casa, senza un soldo in tasca, e vattene con Dio! Arrigo piegò il capo, sembrandogli questa volta che si parlasse sul serio. Con quella prudenza calma e riflessiva ch’era innata in lui, pensò che a ribellarsi c’era tempo in séguito, e per intanto gli convenisse lasciar correre un po’ d’acqua sotto i ponti. Per via d’amicizie il padre giunse a trovargli un posto d’apprendista in una piccola banca privata, e Arrigo, fattesi cucire due mezze maniche d’alpagà, si mise a frequentar ogni mattina l’ufficio, puntualmente, riuscendo persino a farsi benvolere, perch’era di pronto ingegno ed aveva una bella calligrafia. Del resto egli non s’apparecchiava a vivere da mediocre nè da bottegaio; era vicino a compiere i vent’anni, andava incontro alla vita con imperiosi desiderii, una grande ambizione gli si era da qualche tempo accesa nell’animo: quella di volersi ad ogni modo arrampicare, con le mani, co’ piedi o co’ denti, per il dirupo scabroso della vita, finchè gli paresse d’esser giunto in un luogo ameno e dilettevole dove piantar le sue tende. Non avrebbe sposata l’Eugenia; non voleva certo una farmacia per dote nè per eredità una bottega d’occhialaio; non in quel suburbio fuligginoso d’officine avrebbe consumata una vita oscura. Ben altro lo tentava, ben altre visioni accendevano le sue speranze giovanili. Vivere voleva; vivere con tutto il prestigio, con tutto lo splendore, con tutto il gaudio che può essere in questa parola. Purificarsi di quella borghesia che portava indosso come una veste non sua, mescersi tra quelli che invidiava, tra que’ giovini signori, arbitri d’eleganze, scialacquatori di ricchezze, amici di belle donne, frequentatori di saloni, di teatri, d’ippodromi, piccola signoria che regnava nella città con grande sfarzo e con grande millanteria. Perchè intristirsi nelle oscure botteghe, quando tanta luce sfavillava nelle sale dei palazzi, nei ridotti dei teatri, nei gabinetti delle cene? Perchè schiantarsi al lavoro, per essere miserabili sempre, quando con un po’ di baldanza ed un po’ di fortuna si poteva in ogni caso tentare una più alta meta? Cosa gli mancava per questo? Non le maniere signorili nè la presenza piacevole, non la fredda e calma volontà che serve a riuscire nella vita, non la coscienza inesorabile che bandisce ogni scrupolo dinanzi allo splendore della meta, non il barbaro coraggio di rompere i vincoli che potessero impedirgli la sua libera via. Ma una cosa gli mancava: il denaro. E di questo si sarebbe impossessato con tutte l’arti e con tutte le frodi, poichè la vita valeva la pena d’essere vissuta e tutto il rimanente non era che sterile menzogna. Questo egli pensava, allineando cifre nei registri del banchiere, sopra una scrivania carica di scartafacci, e guardando con la coda dell’occhio il lento volgersi delle sfere nell’orologio a pendolo. Questo pensava la sera, curvo su l’archetto del suo violino; la notte, nelle profumate coltri di Mercedes la bruna. Il Riotti non si era degnato ancora, o forse non aveva osato venirgli a parlare; le due famiglie vivevano in guerra taciturna, e, chiusa ciascuna dietro la sua trincera, stavan aspettando ii giorno di quelle nozze riparatrici. Ma non v’è cosa al mondo, per quanto grave paia, che il tempo e la naturale smemoratezza degli uomini non riescano a porre in dimenticanza. Così l’Eugenia era guarita e s’era messa con soave pazienza a preparare il suo corredo da sposa. Quel repentino dramma non aveva lasciata una traccia gran che profonda nel suo placido cuore. Subiva in silenzio le diurne iracondie del padre, ma intanto s’era ben rimessa in carne, aveva ripreso il suo bel colore di pomo granato, le sue pantofole di lana, l’uncinetto instancabile, i romanzi d’amore. Con una facilità sorprendente s’era dimenticata di non essere più vergine; era tornata la fanciullona laboriosa e quieta, che viveva nelle piccole stanze della sua casa come una tartaruga domestica, mangiando con appetito insaziabile e covando nel petto, come un tepido scaldino, il suo paziente amore. Ma il Riotti bolliva. Non più dell’onta patita, non più del malanno che gli era capitato in casa, ma di quel divieto al quale s’era condannato da sè col mettere al bando i del Ferrante. E doveva rimanersene solo a rimasticar la sua collera! Che mai? Facevan gli offesi ora? Non sentivano dunque il bisogno di venirgli a dir qualcosa? Il figliuol prodigo era tornato all’ovile. Oh, lo aveva ben intravveduto, e più d’una volta, per la finestra e per l’uscio; aveva inteso anche il miagolìo di quel suo maledetto violino! Egli s’era immaginato nei primi tempi di vederselo venir davanti, a ginocchi, sommesso a tutte le sue folgori, e chissà mai quante volte aveva elaborata nella mente la sua prima filippica. Invece quel silenzio lo tormentava più d’ogni altra cosa poichè di consueto la sua collera sbolliva nell’eruzione delle parole come quegli incendi che vanno tutti in fumo. Quante volte non fu sul punto di varcar la soglia del vicino e mettersi a gridare improperi finchè ne avesse il cuore libero! Ma una inflessibile fierezza lo tratteneva e molti mesi passarono di coperte ostilità. L’occhialaio, dal canto suo, si sentiva rimordere il cuore; gli pareva d’essere ingiusto verso quell’uomo così acerbamente colpito nell’orgoglio e nell’amore paterno per opera d’uno de’ suoi; ma d’altra parte aveva egli pure la sua propria fierezza e non sapeva risolversi a muovere il primo passo, dopo ch’egli lo aveva trattato da meno di un domestico. La colpa d’Arrigo era certo imperdonabile, ma, in fondo, che ce ne potevan loro? Per riparare al malanno, per mostrargli quanto ne fossero dolenti, non gli avevano forse curata la figlia come una figlia lor propria? Non avevan súbito consentito a quella riparazione, che infatti era doverosa? E, per tutto ringraziamento, lui lo aveva messo alla porta, lui s’era barricato nella sua bottega senza farsi rivedere più. Tuttavia come doveva sentirsi abbandonato e triste quel pover’uomo!... Una sera finalmente, una sera che il buon Stefano soffriva d’emicrania, messo da parte il rancore prese una grande risoluzione: mandò il giovine di bottega in farmacia per comprare un grammo di migranina. — Un grammo di migranina!... — aveva gridato il farmacista, scattando su dal banco. — Per chi? per il tuo padrone? — Già, per il mio padrone. — Ebbene, se lo venga a prender lui, se lo vuole. Se no crepi! L’occhialaio v’andò, e si buttarono le braccia al collo. IX Finirono con cacciarlo via dalla banca, perchè s’era stancato in breve d’insudiciarsi le dita con l’inchiostro violetto senza guadagnare il becco d’un centesimo. Da un pezzo era divenuto sfaccendato e scontroso; giungeva la mattina in ritardo, con gli occhi pieni di sonno, per aver consumata la notte al giuoco od in fatiche d’amore. Diede Un giorno una rispostaccia al suo capo ufficio, che lo mise alla porta sui due piedi. Il padre, a tale notizia, montò in furore, aggredendo Arrigo con tale veemenza di parole, come fino allora non aveva osato mai. Invecchiando, il suo carattere si inaspriva. Ma dovette arrendersi davanti ad una risposta ben recisa. — Ho passato i ventun anno ormai, caro babbo. E ti prego di non scordare che ogni uomo ha il diritto, a una certa età, di vivere secondo le proprie inclinazioni. Puoi, se ti piace, sospendermi quel piccolo assegno mensile, che forse ti costa un sacrificio, e puoi anche mettermi fuori di casa, qualora tu lo voglia: ma devi lasciarmi intera la mia libertà, perchè, di questa, non intendo far sacrifizio a nessuno. Il padre non seppe che dire; gli lasciò l’assegno, se lo tenne in casa, e parve non curarsi più di lui. Ma c’era l’altro, il Riotti, che aveva man mano riprese le vecchie abitudini e ficcava il naso in tutti gli affari de’ suoi vicini. Per un tacito accordo, egli ed Arrigo evitavano sempre di rivolgersi la parola, ed anche d’incontrarsi, quando potevano farne a meno. Ma ora che il giovinotto pareva prendersi a gabbo la faccenda del matrimonio, e di tutt’altro si curava che d’essere il fidanzato dell’Eugenia, il farmacista non seppe tacere più a lungo, ed una sera fece pregare padre e figlio di venire in bottega da lui. Era presente anche l’Eugenia, la quale si faceva rossa come fuoco non appena udiva pronunziare il nome d’Arrigo. Costui venne con la sigaretta in bocca, senza mostrare il minimo impaccio, senza parere affatto compreso della solennità con cui l’accolse il Riotti. Questi entrò súbito nell’argomento. — Per mia norma vorrei conoscere il giorno che avreste fissato per il matrimonio, — disse con voce beffarda, fissando l’uno e l’altro con aria di provocazione. — Caro amico, — Arrigo rispose con spavalderia, — credete forse che si prenda moglie come si beve un bicchier d’acqua? Ci vuol tempo a riflettere. Quanto al giorno, francamente, non vi ho per ora nemmeno pensato. S’udì la seggiola che portava il peso del Riotti scricchiolare sinistramente. — Di questo non dubitavo! — disse. — Ma è per potervi pensare insieme che vi ho pregati di venir qui. — Mio caro e buon Riotti, — l’interruppe Arrigo, — lasciamo le pompe, i modi magnifici ed il tono d’accademia; discorriamo da buoni amici, con semplicità. Finora ho evitato di venirvi a parlare perchè mi sentivo in colpa verso di voi e non volevo sprecare molte parole inutili. Ho commesso una sciocchezza, ed ora che l’occasione si presenta, ve ne chiedo scusa; di tutto cuore ve ne chiedo scusa. Obbligatissimo! — borbottò l’altro, un po’ sorpreso tuttavia. — Ma, quando si è fatto il male, chiederne scusa non vuol dir nulla; bisogna ripararlo piuttosto, ed io sono pronto a farlo, se così vi piace. Solo vi pongo una domanda: Come posso io prender moglie? In che modo le darei da mangiare? L’altro volle interromperlo. — Lasciatemi finire, — seguitò Arrigo. — Voi sapete benissimo che non possiedo un soldo, nè il mezzo di guadagnarne, per ora. Soggiungerò io stesso, per non lasciarlo dire da voi, che non ho alcunissima voglia di lavorare, che son pieno di debiti fino al collo, che amo giuocare, andare a teatro, spendere, divertirmi con le donne... vivere insomma! Se vi riesce tuttavia di trovare in me la stoffa d’un marito, parola d’onore, ve ne sarò gratissimo! Il Riotti fu percosso d’un tale stupore che non ebbe fiato per rispondergli e fissò l’occhialaio con uno sguardo smarrito. — Dunque... — volle dire. — Dunque, concludiamo, — fece Arrigo. — Ho abusato di vostra figlia, ed è naturale che ripari al malanno, sposandola. Solo non venite a parlarmi del giorno, del mese, e neanche dell’anno, perchè dall’oggi al domani non si conclude nulla di buono e di serio. Appena sarò in condizioni da poter prender moglie decorosamente mi ricorderò della promessa che ho data. Ma fino a quel tempo, vi prego di lasciarmi vivere in pace. Tanto più che, se io m’impegno a sposar l’Eugenia, l’Eugenia viceversa è liberissima di sposare chi vuol lei, qualora nel frattempo le cápiti un giovine che valga un po’ meglio di me. — Ah, cáspita! — scoppiò a dire il farmacista, che aveva finalmente ritrovato l’uso della parola. — Cáspita! cáspita!... Questa è un po’ grossa! — Vi ho parlato da galantuomo, signor Riotti, e spero che in séguito me ne terrete conto. — Da birbante, hai parlato! da malandrino! da canaglia! Ah, no, per Dio! non credere d’aggiustarla così! — Sentite, signor Riotti, — concluse Arrigo, — io son uomo di poche parole: quel che dico dico, e non c’è forza al mondo che sappia rimuovermi da una decisione presa. Inoltre non mi piace d’essere insultato nè di venire a male parole con uomini più vecchi di me. Per il che vi riconfermo quel che ho detto e vi auguro la buona sera. Se ne uscì calmo calmo, accendendo un’altra sigaretta. Poco dopo l’occhialaio, riconosciuta vana ogni speranza di ragionare col farmacista, pensò che meglio fosse andarsene, e fece come lui. Arrigo si diresse verso la solita bisca, ove da qualche tempo gli arrideva una straordinaria fortuna. Dopo aver pagate, come ogni altro giocatore, le spese del suo noviziato e maledetta l’ingiusta fortuna e trascorse ore insonni a ragionar col demone che dispone fortuitamente le carte sui ciechi tavolieri, dopo aver osservato col suo freddo spirito coloro che perdevano sempre e coloro che più spesso vincevano, egli era divenuto in breve uno di que’ freddi e cauti giocatori che sanno in fin de’ conti aver ragione anche dell’azzardo capriccioso, contrapponendo alle altrui debolezze la propria inflessibile virtù. Non più le carte amava nè l’alea che tende i nervi e tien sospeso il respiro sopra il sorteggio d’un punto; ma s’era invece prefissa una nitida volontà di vincere, di afferrar nel suo pugno quel denaro che tanto gli era necessario per i suoi prossimi destini. Conosceva i suoi compagni di gioco, aveva esercitato sopra ognun d’essi un esame acuto, e quand’essi, eccitati o stanchi, nell’ore tarde rincorrevano il denaro perduto, egli, che tutta sera aveva temporeggiato, apriva sagacemente la sua battaglia senza lasciarsi vincere da alcuna ingordigia nè distogliere da alcuna pietà. Si era persuaso che al giuoco pure, come nell’altre contese della vita, la fortuna conta per molto ma il carattere fermo vale ancor più. E da qualche tempo la sorte lo compensava di aver fiducia in sè stesso più che in lei. Durante gli ultimi tempi aveva raggranellata una considerevole somma. Allora donò al fratello Paolo tutta la sua guardaroba d’elegante suburbano e si fece rinnovare le squamme dai primi abbigliatori della città. Sapeva che sarti e calzolai creano la più immediata, forse la maggior distinzione fra uomo ed uomo, poichè, in questo mondo bizzarro, che vive d’apparenza e si pasce d’esteriorità, il prossimo fa sempre miglior viso al cerretano bene agghindato che non al galantuomo il qual non cura l’eleganza de’ suoi modi e del suo vestire. Allora cominciarono a giungere nella modesta casa dell’occhialaio fattorini e commessi, che portavan pacchi enormi, ben ravvolti in una carta soffice, dalla ditta vistosa; le sorelle accorrevano a guardare con una curiosità mista d’invidia quelle meraviglie che il ricco fratello si comandava per i suoi diletti. Con questi abiti nuovi, con queste camice fine, che la mamma non avrebbe osato affidare alla lor semplice lavandaia, con quelle scarpine lucide, odorose di buon cuoio, con que’ fazzoletti sottili come tele di ragno, con que’ capelli tirati a lustro, d’una forma un po’ eccentrica, e tutto quel lino e tutta quella seta e tutta quella buona materia delicata, rara, odorosa, — una specie di aureola s’involse intorno al primogenito. Ne furono tutti sorpresi, ed un poco anche il padre, quel buono semplice padre, che non poteva scordarsi d’aver concepita sopra il suo primogenito qualche speranza veramente ambiziosa. — Ho vinto al giuoco, — questi raccontò, per spiegare ogni cosa. E siccome non era punto avaro, dispensò regali ad ognuno. — Bada, — lo ammoniva il padre: — oggi si vince, domani... — Domani si può vincere ancora. E spiegò al padre che il giuoco è un affare, come ogni altro affare, dove il sangue freddo ha onestamente ragione dei nervi altrui. Poi sapeva, a tempo e luogo, essere carezzevole, persuadente; nella casa, nonostante i suoi continui malanni, si era sempre nutrita per lui una certa predilezione, ed ora, con quella coscienza pieghevole della gente borghese, finirono con pensare che in fondo, se gli riusciva di menar la vita del gran signore senza commettere alcunchè di male, non bisognava poi dargli torto nè condannarlo per partito preso. Faceva piacere a tutti vederlo uscire, attillato e azzimato come un damerino, sapere che alle volte pranzava nei ristoranti più cari e si metteva l’abito nero per andarsene a teatro in poltrona. Che buon profumo avevano, in quella retrobottega odorosa d’aglio, i suoi fazzoletti fini, quando se li toglieva di tasca! S’era cambiata la pettinatura, il taglio dei baffi, il modo di camminare, il modo di fumare la sigaretta, e pareva quasi che parlasse una lingua più forbita, che gettasse un riverbero d’eleganza su tutte le cose ch’erano intorno a lui. Questo era avvenuto rapidamente, in pochi mesi. Ognuno si sentiva quasi lusingato d’avere un vincolo di parentela con lui, e da quella trasformazione ognuno sperava di poter trarre un suo particolare vantaggio. Il padre avrebbe forse potuto in séguito risparmiare quell’assegno mensile che gli faceva un gran vuoto in cassa; la madre e le sorelle contavano di tempo in tempo su qualche regalo costoso; il fratello, quel buon Paolo sempliciotto e modesto, era il solo forse che in verità non sperasse nulla e che osservava tutte queste cose con un certo sdegno indifferente. Il Riotti, che di lontano aguzzava l’occhio a tante novità, non osava dir nulla in modo aperto, ma obliquamente faceva certe sue grandi prediche velenose contro le bische, i nottambuli e le donne di malaffare. Con la Mercedes era capitato un guaio. Buona ma gelosa, disinteressata ma piena d’amor proprio, come tutte le donne venali quando si dànno per amore, aveva tollerato, sì, che Arrigo rendesse incinta una ragazza per bene, perchè le signorine, via, quasi non contano, e tutto questo era stato, come diceva lui, uno scherzo... ma non poteva mai, mai, tollerare che le si facesse un torto con donne del suo mestiere, perchè in tal caso, oltre la gelosia, c’entrava lo scredito e c’erano in più le beffe. Appunto era capitata lì, nel teatrucolo dov’ella cantava, una danzatrice Tunisina, la quale, sotto il pretesto di esibire certe figurazioni estetiche, si mostrava in scena sconciamente nuda, con un gran dimenìo d’anche formose, una bella curva di reni, una ricca plastica di poppe arrossate, sotto lo schermo di pochi veli. Fece chiasso; la sala per tutta la quindicina rigurgitò. E gente venne che per solito non bazzicava in quel teatro, gente che poteva, senza ledere il suo prestigio, dare una capatina in quei ritrovi equivoci, a brigate di cinque o sei, farvi un rumore indiavolato e poi andarsene via con un affettato sorriso di noia. Venivan taluni con le loro amanti, lucide di gioielli, ondose di piume, e le povere cortigianelle di quel teatro suburbano tutta sera stavano a rimirarle con occhi affascinati, quasi fosser idoli. Miris la Tunisina eseguiva una danza del ventre in verità irritante, che poteva qualche strano miracolo anche sui noiati ammiratori delle danze di Salomè, ed aveva, come disse argutamente uno scultore allora in voga nei cenacoli cittadini, «le più belle ginocchia di maomettana che mai fosse stato lecito vedere sopra un altare della cristianità.» Quando molti l’ebbero goduta, un uomo dabbene, calvo di cranio e ricco d’esperienza, che aveva una fonderia di metalli ed era qualcosa nelle cariche del Comune, la tolse dalla scena e se la fece sua. Sua, beninteso, come piace o come torna comodo a questi noleggiatori di donne, che si recano a trovarle prima del pranzo in vettura chiusa e vi tornan la sera, imbacuccati nella pelliccia, quando non devon accompagnare a teatro la consorte, ahimè, legittima. Consuman poco e pagan bene, lasciano forzatamente una grande libertà, sono la vera provvidenza delle donnine allegre e di tutti coloro che, per spender meno, accettano i ritagli di tempo e divengono «amanti del cuore.» Miris fu la prima donna, forse l’unica donna, che Arrigo pagò. Ma era Tunisina, e gli parve con questo di umiliarsi meno. Se n’era fortemente incapricciato per quel sapore che aveva di lussuria esotica, ed una sera la condusse a cena. Fu male forse, perchè la Mercedes non meritava questo affronto. Ma egli sperò che la Mercedes nulla ne sapesse. Purtroppo invece non mancò il premuroso informatore. Ella non si morse le dita nè si strappò i capelli, ma con quella bella risolutezza delle donne di temperamento, appena vide Arrigo, gli lasciò andare due stupendi manrovesci, e mamma Gilda si mise a ridere di così buon cuore che Arrigo non seppe più se dovesse imbizzarrirsi o riderne a sua volta. Del resto era stanco della Mercedes; ella dal canto suo, cominciava col noiarsi di quella vita monotona, che le faceva perdere molte buone scritture: l’occasione si presentava propizia, e da quel giorno non si videro più. Ma lo sorprese l’uomo dabbene in casa della Tunisina, certa volta che vi capitò fuor d’ora. E in letto li sorprese, che prendevano il caffelatte verso le due del pomeriggio, con un appetito invidiabile. Colui si chiamava Cesare Farra; era un uomo senza nervi, con una lanugine ancor biondiccia intorno al mento grasso, le labbra tumide, gli occhi piccoli e furbi sotto gli occhiali a cerchio d’oro. Non si scompose, non si meravigliò; chiese venia del disturbo, e da quell’uomo d’affari ch’egli era, tratto di tasca il portafogli, liquidò seduta stante il suo debito con la Tunisina. Miris, per urbanità voleva infilarsi la vestaglia ed accompagnarlo almeno fino all’uscio. Ma egli rispose che conosceva la strada, e se ne andò com’era venuto. Che fare? La Tunisina era donna di spirito e non perdette il tempo in querimonie vane. — In fondo in fondo preferisco ballare! — disse ad Arrigo che cercava di scusarsi. — Poi, se non fosse capitato con te, sarebbe capitato con un altro... Dunque non ci badare. E siccome avevan sonno ancora, spenser la lampadina e beati si riaddormentarono. Ma da questo fatto incominciò a correre la fama d’Arrigo nella combriccola dei giovani signori che, sempre all’erta di scandali e di peripezie, non avevano tardato a sapere il come ed il quando Cesare Farra avesse côlta in flagrante la sua bella Tunisina. E quel nome di Arrigo del Ferrante, che doveva più tardi suonare su le bocche di tutti, fu per la prima volta commisto alle risate che si fecero in danno del loro amico beffato. Poichè Cesare Farra si compiaceva di frequentare la gioventù e viveva con essi le ore notturne, da buon camerata, egli pure tavernando e giocando con lena instancabile. Raccontò agli amici la sua disgrazia, con disinvoltura lepida, quando comprese che tutti la sapevano già. A quelli cui la medesima sorte può capitare da un giorno all’altro, dà sempre allegrezza e conforto il conoscere un cornuto di più. X Cantava quell’anno al teatro d’Opera una cantante russa dalla voce soave, una donna coperta di gioielli da capo a piedi, leggiadrissima e capricciosamente onesta. Era stata, dicevasi, l’amante d’un Granduca, poi d’un Pascià egiziano, che avevano profuse ricchezze intorno alla sua voluttuosa persona. Di fattezze non era veramente bella, ma possedeva quella singolare dolcezza delle donne slave, quello sguardo innamorato, pieno di sogno, di lontananza, di malinconia, che talora inebbria e talora comunica l’inesprimibile angoscia del suo smarrimento. Aveva una scollatura magnifica, le spalle ben tornite, che si aprivano con la mollezza d’un grande ventaglio, le braccia lente, insidiose, morbide, quasi rotte nelle giunture, che parevan assumere talvolta l’ondosità e la dolce forma d’una sciarpa di seta; braccia che, tese e congiunte, avrebbero portato così bene ai polsi una catena greve, capaci di supplicare come una voce umile, di carezzare fino al tormento, godendo e prodigando un lentissimo piacere. Ed al pari di quelle braccia flessibili, tutta la sua persona pareva muoversi e vivere in una musica veramente appassionata. La sua voce le somigliava, come un profumo può somigliare al suo fiore. Calda era la sua voce, soave, tormentosa, piena di castità limpidissime, di liscivie opache; profumata era, come se lasciasse ondeggiare nell’aria qualcosa di sè, qualcosa che penetrava nei sensi, e li stringeva, e li opprimeva, come un dolore inebbriante. Si chiamava Tatiana Ruskaia; aveva cantato per le maggiori scene del mondo, innamorando le platee con la sua passione veemente. Or la tentava la fama antica, se pure oggimai vacillante, di quel teatro italiano che aveva dato all’arte del canto i più sacri battesimi, quando ancora le opulente Americhe non ci avevano barattato a prezzo d’oro per quest’ultima supremazia. Il suo canto infatti aveva riscosso grandi applausi, ma ella stessa era piaciuta forse più del suo canto. E sopra tutto era piaciuta in quella gaudente compagnia di giovini signori che tengono i palchi, i ridotti, i camerini de’ teatri, gli scanni delle bottiglierie, le tribune degli ippodromi, le sale fortunose dei circoli ed i salottini delle cene notturne; gaia combriccola di gente scioperata, che mangia, beve, gioca, fa all’amore, sopporta la vita senza soverchia fatica e cerca di spendere il tempo nel miglior modo che sia. Giovini e vecchi insieme, alcuni ricchi, altri quasi poveri, intelligenti alcuni ed altri meno assai che mediocri varii di nascita, d’educazione, d’apparenza, d’animo e di costume, formano insieme quasi una grande, privilegiata famiglia, che in cambio d’affetti vicendevoli campa d’abitudini comuni. E costoro, tutti costoro insieme, s’erano commossi di lei; avevano iniziata la gara del giunger primo, ed alla testa s’eran messi coloro che si reputavan adorni d’una qualsivoglia irresistibilità. Ma la Ruskaia era veramente quella invincibile torre eburnea che riesce a disperare la pazienza de’ più accaniti assalti. Li conobbe, li accolse, ne adulò alcuni, altri ne derise: fu soverchiata di mazzi di fiori, fu tempestata di lettere d’amore, non ebbe che a scegliere fra chi le offriva denaro, passione o protezioni; la sua casa fu vigilata, la sua vettura inseguita, il suo camerino ingombro, ma tuttavia nessuno l’ebbe. E questo fu noto, se per taluno millantò. La cosa impensieriva. Ne fu discusso a lungo, anche nei palchi, durante le visite che si facevano alle belle signore. Gli ingenui, e furon pochi, si persuasero della sua naturale onestà; i romantici la credettero innamorata; gli esperti immaginarono che aspettasse il bue d’oro; i maligni la supposero malata. Non era così, affatto. Amava l’arte, il canto, la sua bella voce, i libri snervanti, i viaggi lontani, le immaginazioni tormentose. Aveva tanto denaro da non saperne che fare, tanti gioielli ch’era quasi fatica doverli custodire. Non era nè onesta nè innamorata nè avida nè malata; ma non voleva darsi vanamente, senza esaltazione e senza scopo, così, al primo venuto. Preferiva inasprire i più vivi desiderii col suo pertinace rifiuto che assoggettarsi ad un mediocre amore; poichè nel letto solitario d’una donna bella, ove serpeggia di notte l’insoddisfatta bramosia di molti sconosciuti forse qualche brivido passa, più voluttuoso e più torbido che la medesima voluttà. Poi era noiata: quel Pascià ricco e geloso l’aveva ridotta quasi all’esasperazione; avrebbe potuto domandargli la valle del Nilo, ed egli le avrebbe data la valle del Nilo. Era fors’anco un uomo piacevole, ma con quel po’ di sangue turco che gli era tuttavia rimasto sotto le pelle europea, non le concedeva mai pace. Erano avvezzi ancora alle donne velate, laggiù. Un bel giorno ell’aveva di nascosto fatto i bauli, complice la sua cameriera, ed insieme se n’erano fuggite via. Sapeva che il Pascià ne avrebbe forse pianto come un bambino, ma questo pensiero non la trattenne. Per ora voleva soltanto cantare, darsi all’arte, mettere tutta l’anima sua nell’interpretazione della musica, e venne perciò in Italia, dove non aveva cantato ancor mai. Del resto si sarebbe anche abbandonata, se ne avesse avuto appena il desiderio. Ma invece passava una crisi, una di quelle sue crisi che le avvolgevano d’inerzia i sensi, le fasciavano le vene in una specie di torpore delizioso. Trascorreva il tempo libero studiando l’italiano, questa lingua musicale che rende più armonioso il canto; e per quella facilità nell’apprendere i linguaggi ch’è comune agli slavi, i suoi progressi eran veloci. Di natura un po’ nomade, amava i cieli diversi e le diverse vite. A stagione chiusa, avrebbe fatto un giro per l’Italia; voleva conoscere questa terra leggendaria, questo paradiso emerso dal mare con un destino di fiori e di sole. V’era giunta, per vero dire, con una certa curiosità degli uomini d’Italia, poichè non v’è donna straniera che non ne abbia tacitamente sognato, ripensando alle infinite leggende che ne raccontano i libri d’amore. Quelli che aveva conosciuti fino allora, in quel principio di stagione, l’avevano per vero dire alquanto delusa. Su per giù li trovava come tutti gli altri; un poco più vivaci, un po’ meno corretti, con qualche indolenza felina, qualche sgarbo simpatico, una certa spavalderia nel trattare con le donne, il denaro facile, il lazzo qualchevolta triviale. Ma insomma eran gli stessi che altrove, vestiti sul figurino di Londra, con le stesse pettinature lustre di pomate, i baffi tagliati a fil di labbro, lo sparato impeccabile, un grande fiore all’occhiello... E poi? Si era costrutta nella fantasia un bruno tipo di maschio, tutto vibrante come una musica concitata, un tipo di possessore impetuoso e dolce, con lo sguardo pieno di menzogna, di crudeltà e di carezze, con la voce ch’entrasse fin nell’anima, subdolamente, come un veleno. E qualche volta sognava di sdraiarsi vicino a lui, tutta morbida, tutta pigra, con un gran desiderio di sentirsi prendere... Ma erano cose recesse, fuggevoli, che accarezzava con la fervida immaginazione, quasi per divertire la capricciosa bambina ch’era nascosta in lei. Arrigo la vide per la prima volta sulla scena, e tornò a casa irritato, svogliato, alla fine dello spettacolo, soffrendo quel male sottilissimo che una donna appena intravveduta lascia qualche volta in noi. La sua voce gli era penetrata nell’intimo, gli si aggirava nell’eco dell’anima come una tormentosa carezza; la sua figura, i suoi gesti, quel suo camminare lento e quasi guardingo, gli si avvincevano alla memoria dei sensi con un voluttuoso piacere. Egli non era facile all’amore; ma i sensi talvolta gli si accendevano d’improvvise demenze, prostrandolo in una specie d’ebetudine dolorosa, che aveva il triste fuoco ed il profondo malessere dell’amore. Qualche volta gli pareva di nascondere in sè un nemico terribile, che avrebbe d’un tratto potuto soverchiarlo, annientarlo, e questo nemico egli non conosceva; ma gli pareva che fosse una forza oscura, insidiosa, un male antico, ruggente nell’intimo delle sue fibre, come un rumore d’acque sotto una terra che ha sete. E v’eran giorni che un gran buio gli si addensava nel cervello, pieno di fiamme indistinte, guizzi di cose non vedute, non sapute, balenii di gioie formidabili, ombre di peccati senza nome. V’eran giorni che tutta la sua gioventù si stancava d’una stanchezza enorme, si perdeva in un vuoto di cose più alte che il desiderio, più forti che la possibilità, e il gran tumulto dell’anima gli traboccava nel cerchio delle vene, martellando, rombando, con una piena sì forte, che gli pareva non ci fosser argini per contenerla tutta in sè. Qualche volta gli pareva insieme di odiare acerbamente sè stesso e la sua vita mediocre, il padre, la madre, che l’avevan generato fra così bassa gente, la sorte che lo aveva chiuso fra così anguste pareti. Poi tutto si placava; la sua fredda e nitida volontà riprendeva il sopravvento. Agli ozii dell’anima sua non aveva concesso che un amore: la musica; e tra le ansie del gioco, tra l’imperioso bisogno di denaro che talvolta lo assillava, questo amore puro e nascosto si accresceva continuamente in lui, metteva luce, vita, calore, nel silenzioso gelo del suo spirito, lo inebbriava di sentimento, era la sua voluttà spirituale. Leggendo, ascoltando, frequentando i concerti, s’era formato una piccola erudizione musicale, che da sè stesso andava elaborando con la sua straordinaria sensibilità. Prendeva sempre lezioni di violino, ma nascostamente da’ suoi, nascostamente dagli amici, quasi vergognandosi del fatto che un uomo ruvido e forte com’egli voleva essere potesse chiudere in sè una passione così delicata. Ora la Ruskaia, con il suo canto, con la sua strana bellezza, lo aveva prostrato in una di queste crisi torbide. Ritornò ad ascoltarla, per meglio imbeversi della sua voce, per saturarsi del suo malefico prestigio, e venne via più triste, più solo, perchè intorno a quella donna bella come un sogno si accendevano quadri di vita maravigliosa, quadri nuovi ed abbaglianti, ov’ella signoreggiava, tra uno sciupìo di ricchezze, tra un nembo di splendente irrealità. Intorno a lei era quel color di vita che pare ai lontani quasi una favola, e per altri uomini ella era fatta, per altri che possedevano il privilegio di tutte le cose a lui negate. Non un amore desolato nasceva nel suo spirito, ma un imperioso desiderio di possederla, d’impadronirsene come d’una bella preda e profumare la sua vita povera con la fragranza delicata che veniva da lei. Cercò di sapere dove abitasse; lo seppe, l’attese, la vide, gli piacque ancor più. Ella divenne il suo capriccio, l’assedio delle sue notti, il rifugio de’ suoi pensieri. Gli parve d’esser ancor prematuro ad un’ambizione così grande, ma per ciò appunto quest’ambizione gli piacque, sapendo che spesso nella vita il maggior premio tocca alla maggiore temerità. Quando una risoluzione gli era entrata nell’animo, egli non indugiava, non esitava un istante nel compierla. Si mise lungamente a ragionare fra sè. Non aveva denaro da offrirle, non amicizie dalle quali farsi condurre fino a lei, non era un critico d’arte, non era un giornalista, non era insomma alcuno di que’ molti che per ragioni di mestiere hanno a che fare col palcoscenico; non poteva contare che su la propria persona e su la propria scaltrezza. Era cosa per lui difficile poterla avvicinare, foss’anche di sfuggita. Nel medesimo tempo non voleva piombarle addosso come un inseguitore stradaiolo nè parerle uno di quegli innamorati clandestini e feroci che piantonano le portinerie. Bisognava dunque aver l’aria d’incontrarla per caso, e d’inseguirla, sia pure, ma come per caso, e farsi notare da lei senza darle noia, e piacerle sopra tutto per una di quelle subitanee simpatie che nascono dalle più futili cose. Bisognava esser agile, destro, paziente, trovar la maniera di esprimerle un desiderio più profondo che la curiosità, mostrarle una timidezza non ridicola ed insieme un’audacia rispettosa. Quel giorno faceva un bel sole. Ogni strada era limpida; l’anima della città brillava. Ella era uscita di casa, a piedi, verso le tre del pomeriggio. Portava un abito di panno scuro, che tra mantello e gonna formava tre balze distanti, con un triplice orlo di pelliccia scura; la medesima — forse un dorato zibellino — che le formava intorno al collo un boa leggero, le guerniva il cappello, e si scioglieva nell’ampiezza d’un manicotto voluminoso. Forse nelle caviglie flessibili, forse nelle ginocchia dolcissime, nella cintura svelta, nel collo morbido, forse in tutte le sue giunture delicate, aveva quella grazia inimitabile del camminare, quel suo leggiadrissimo segreto di agilità. La seguì egli di lontano, irresoluto. Ella si fermava ogni tanto alle vetrine, ogni tanto entrava in un negozio, usciva, riprendeva la sua passeggiata pomeridiana, godendo il bel sole. Egli le stava dietro, quasi presso; udiva il suo piccolo tacco battere sul marciapiede con un ritmo veloce; udiva quel rumore tepido di pelliccia e di panno, che veniva da lei commisto a profumo. La vide entrare da un fiorista; egli si fermò davanti al negozio. C’era nella vetrina una grande cesta di bellissime orchidee, color malva, erte su gli steli esigui, fra un merletto di capelvenere. Gli venne un’idea, lì per lì, buona o cattiva: entrò egli pure. Ella stava presso il banco scegliendo un mazzo di violette di Parma. Arrigo domandò la cesta d’orchidee. La portarono sul banco, fra lor due. Erano così belli, que’ fiori senza profumo, tra l’erba tremula che li separava l’un dall’altro, ch’ella, per un momento, lasciò le sue viole e si mise a guardare. — Per la signora Tatiana Ruskaia, — disse Arrigo alla venditrice, che racconciava il gran nodo di nastro sul curvo manico della cesta. E soggiunse l’indirizzo. Colei che sceglieva viole, udendosi nominare, guardò il giovine. Senza impaccio, cortesemente, loquacemente, egli le sorrise. Poi distolse lo sguardo, mise un biglietto da visita tra i fiori, si volse a pagare con discretezza, ed uscì. Ella ne rimase un po’ stupita, fra le sue violette di Parma. XI Un altro giorno l’attese nella via, come se l’incontrasse per caso. E la guardò dirittamente, sorridendole ancora. Aveva pur notato una piccola sorpresa in lei, vedendolo passare. La seguì per un tratto, assai discretamente, però lasciandosi vedere; poi volse altrove. Ogni giorno le mandò fiori, ed i più belli ed i più rari che trovava. Una mattina la incontrò, mentr’ella usciva dalla guantaia; un pomeriggio di nebbia s’imbatterono insieme su la porta della stessa pasticceria, e presero il tè vicini. Una sera, ch’ella non cantava, s’incontrarono nello stesso teatro. Ella era in un palco, insieme con altre signore, altre cantanti forse, e ad un certo punto egli si accorse che domandava di lui. Non le seppero dir nulla, certo... Ma ella portava alla cintura un grappolo di rose gialle: per caso, quel giorno, egli le aveva mandate rose gialle. Poi sentiva di non darle noia, di non esserle indifferente; lo sentiva con quella inspiegabile certezza che la donna trasfonde in noi quando riusciamo a piacerle. Ed è forse il momento più soave di tutto l’amore. Ormai pensò ch’era venuto il momento propizio per inviarle una lettera. Ma un pensiero lo trattenne. Scrivere in italiano ad una forestiera sarebbe stata cosa poco elegante, mentr’egli con lo stile francese non aveva troppa familiarità, e nemmeno con l’ortografia, per vero dire. Parlando, ne faceva uso con una certa speditezza, e Dio sa come ancora, perchè lo aveva studiato poco tempo a scuola, poi vi si era meglio addestrato da sè, leggendo qualche libro, facendo la corte a qualche canzonettista francese. Rinunziò dunque a mandarle una lettera, ebbe ancora pazienza. Ella ricasava tutte le sere alla stessa ora, ed egli sapeva benissimo per quali strade. Una volta, incontrandola, salutò. Ella rispose, appena appena, con un semiriso ambiguo su l’orlo della bocca limpida, che pareva una bocca di donna innamorata. Ed affrettò il passo. Egli non insistette. Gli batteva un po’ il cuore. Adesso la salutava sempre, tutte le volte che l’incontrava, lasciandole dietro uno sguardo lungo, un cauto sorriso della sua bella bocca limpida e rossa. Una sera l’accompagnò da presso, quasi di fianco, sino alla porta di casa. Un’altra sera l’aspettò presso la soglia del teatro, dov’ella giungeva in carrozza chiusa, per cantare. A quell’ora gli strilloni gridavano il libretto dell’opera, gli incettatori offrivan palchi e poltrone ai passanti; entravan gli ultimi del lubbione; un venditore d’arance chiacchierava con due guardie di pubblica sicurezza, fra le ceste ripiene de’ suoi frutti divampanti. Quando giunse la sua carrozza, Arrigo s’avvicinò alla portiera, l’aperse, e scoprendosi il capo le tese la mano per scendere. Di maraviglia ella sorrise. Era ammantellata fino al collo, per timore della nebbia fina, che poteva nuocerle. Ella mise la mano inguantata nella sua mano, vi si appoggiò, sorrise, gli disse in fretta: — Venite a trovarmi... — E passò via, strisciandogli vicino, rapida, leggera; poi súbito scomparve nella piccola porta, lasciando per lungo tempo dietro di sè un’ondata di profumo. Egli rimase a guardare come un ebete il venditore di arance, che or faceva qualche passo, avanti, indietro, lungo le sue ceste, fischiettando piano piano; poi si rimise il cappello in capo e sentì che dentro il cuore gli cantava.... Gli cantava una bella canzone di gioconda vita, un inno fervido, concorde con tutte le sue speranze vertiginose, tanto può sul cuore più saldo la parola fuggevole d’una donna. Ora la piazza, vegliata in cerchio dagli alberi ancor bianchi di recente nevicata, fra la nebbia rosea, fra l’austerità dei quattro palazzi che la chiudevano per intorno, si andava lentamente animando della sua vita serale. Frotte passavano, rade, folte, già satolle del pingue desinare, ciascuno rannicchiando il collo nei caldi baveri ad ogni soffio di vento, godendosi tuttavia quell’ozio della passeggiata che riposa dal diurno lavoro. Gente sola, nemica del tempo freddo, che striscia lungo i muri, tutta curva, come per proteggere una bronchite latente; pedine che vanno in fretta, con un far donnesco di cose appartenenti alla strada, forse digiune ancora, in cerca dell’invaghito; lavoratori tardivi che se ne tornano zufolando; cavallucci cascanti, che più vanno e più s’azzoppano su la pietra pericolosa, trainando nel veicolo dai vetri appannati qualche scapolo senza cucina al suo pranzo tardivo; belle pariglie scalpitanti, che trascorron da palazzo a palazzo; automobili silenziose, veloci, che lanciano sui marciapiedi un gran fascio di luce, passando. Un crescere di sfaccendati, che sboccano da ogni contrada, s’incontran, s’intreccian, si fermano a ciarlare dei lor casi domestici, fra le grida monotone dei giornalai, le nenie dei banditori di spettacoli, l’eco semidispersa delle orchestre che allietano le birrerie, la canzonaccia di qualche vagabondo, la zuffa di due cani. Egli camminò fra queste cose, respirando a pieni polmoni l’aria frizzante, ingollando il fumo gonfio d’una sigaretta che gli spargeva per le vene una specie di torpore benefico. E la vedeva ora nel suo camerino, presso la specchiera ingonnellata di garza, prepararsi lentamente all’acconciatura da scena sotto le mani dell’abbigliatrice, con la partitura davanti agli occhi, ed ogni tanto accennandone un motivo, provandosi la voce. La vedeva tendere le labbra verso lo specchio, per disporvi sopra il soverchio belletto, stenderne un poco sui pomelli delle gote, mettere il nero fosco intorno agli occhi, perchè brillassero più vivi. Poi, diritta, lasciandosi cadere la camicia sbottonata giù da le spalle come una rotta guaina, sorretto appena dal busto basso il ricolmo del seno, stendervi sopra, e su la gola, e su le spalle, e su le braccia, una pasta molle, odorosa, quasi limpida, che sùbito vi aderiva, luccicando, e poi facendosi opaca, man mano che la cameriera leggermente vi passava sopra con il piumino della cipria, e le stendeva sul dorso, fino a mezza schiena, la medesima imbiancatura. Per tal modo il suo busto nudo andava prendendo una bianchezza di perla, una trasparenza così delicata che pareva quasi azzurra e lasciava intorno, per la piccola camera, un buon odore di mandorle amare. «Domani,» — egli meditò fra sè stesso. E trascorsa la prima ebbrezza, la sua calma ragione lo riprese; pensò che un piccolo errore poteva perderlo, adesso più che mai, e con l’anima piena di trepidazione imaginò lungamente quell’incontro vicino. Era tardi; se ne andò a pranzare. Ella sedeva davanti al pianoforte sfogliando musica, quand’egli entrò. Per un momento si trovaron nell’impaccio entrambi, poichè non sapevano affatto come dirsi la prima parola. — Debbo ringraziarvi... — ella cominciò. — Di cosa? Ella segnò due mazzi di que’ fiori ch’egli le mandava ogni giorno come un messaggio. Era seduta su lo sgabello girevole del pianoforte, a mezzo rivolta verso di lui, a mezzo verso il leggìo. E lasciando correre la mano sbadata su l’avorio e su l’ebano della tastiera, che riluceva nella penombra, sogguardando a lui dal volto chino, con una grazia indefinibile sorrideva. — Sono stato scortese... — disse il giovine. — Sì, un poco... — ella rispose. Ma il rimprovero quasi era carezza, tanto soave ne fu l’accento. — Non avevo altro modo per avvicinarmi a voi, — diss’egli per iscusarsi. — Molte volte non si può scegliere la strada. Ma dovete perdonarmi, perchè il mio desiderio di conoscervi è stato così grande, e insieme così rispettoso.... Egli lasciava cadere le parole pianamente, con insinuazione, stando ritto e fermo nel mezzo del salotto, irrigidendo la sua persona per non mostrarsi turbato. Ella ascoltava, guardandolo attentamente, con un sorriso impercettibilmente ironico su l’orlo delle sue labbra fini. Lo guardava con l’occhio vigile della donna che misura una propria impressione anteriore e la raffronta con un’altra più immediata, stando curva insieme sopra un pericolo o sopra una delusione. Lo guardava perplessa, poich’era stata in verità un po’ leggera dicendogli di venire nella sua casa, e quell’uomo, quello sconosciuto, in fondo poteva credersi lecita qualche pretensione sopra di lei. Ma la sua maniera d’essere non le faceva paura; egli piuttosto l’incuriosiva, l’aveva incuriosita stranamente fin dal primo giorno quando s’erano incontrati in quel negozio di fioraio. «Per la signora Tatiana Ruskaia,» aveva egli detto, nel mettere il suo biglietto da visita fra le belle orchidee; e il tono di quella voce, l’espressione di quel sorriso, non si erano mai dipartiti dalla sua mente. «Per la signora Tatiana Ruskaia...» Egli aveva pronunziato il suo nome in un modo singolare, con un accento così nuovo, quasi con timore e quasi con baldanza, non obliquamente, ma guardandola in viso, ma sorridendo a lei che gli era del tutto sconosciuta: ed anche questo le piaceva. Così le piacevano i suoi begli occhi neri, la sua bocca sensuale, dalla dentatura lucente come cristallo. Quando più tardi lo aveva riveduto per via, quand’egli le era passato vicino, quasi toccandola, e poi le aveva camminato dinanzi, agile, con una franca sicurezza della sua bella persona, ella ne aveva provato un senso molesto e dolce insieme, come se nell’intimo della sua natura femminile una specie di turbamento insolito avesse d’un tratto risvegliata la sonnolenta inerzia del suo cuore. E senza volerlo aveva pensato a lui, di giorno, di sera; lo aveva qualchevolta cercato per via con occhi distratti; si era sentita trepidare, nell’avvicinarsi alle strade ove per solito le accadeva d’incontrarlo. Egli non era stato importuno: le aveva parlato, sì, ma di lontano, con la forza de’ suoi occhi veementi; le aveva detto: «Mi piaci,» le aveva detto anzi: «Ti voglio...» ma dolcemente, senza molestarla nè offenderla. Stando in scena, o dietro la scena, le avveniva spesso di cercare unicamente la sua presenza tra i confusi ordini della platea; le avveniva di aspettare ogni giorno quel suo mazzo di fiori con una singolare ansietà, e fors’anco si sarebbe sentita piena di malinconia se un giorno egli non avesse pensato a mandarle fiori. Quest’uomo la imprigionava nella sua forza come nel piacere d’una carezza che le stringesse tutta la persona. Quando la ravvolgeva nello sguardo luminoso de’ suoi forti occhi, ella ne sentiva quasi un male; senza volerlo, senza spiegarsene il perchè, le pareva che gli avrebbe perdonato qualsiasi audacia; e quand’usciva dal teatro, vibrante, accesa dalla passione che aveva trasfusa nel suo canto, avrebbe voluto incontrarlo, passargli vicino, sentirsi fortemente, improvvisamente, prendere fra le braccia da lui. Perchè gli aveva dette quelle parole impensate nello scender di carrozza? Era stata, in verità, una frase involontaria, come se le sue labbra avessero parlato da sole, tanto si era turbata nel vederlo subitamente avvicinarsi alla portiera. Ed ecco, era lì davanti a lei, le parlava. Si era sentita quel giorno irrequieta e nervosa, poichè l’aspettava; s’era guardata nello specchio, in tutti gli specchi, molte volte, poichè l’aspettava. Era una curiosità malsana, sciocca, la sua; non avrebbe dovuto lasciarsi andare così leggermente al primo capriccio che le frullasse per il capo! E quasi con ira, nell’aspettarlo, se lo andava ripetendo ogni tratto: «Sì, una vera leggerezza, una vera pazzia!...» Egli sarebbe venuto, l’avrebbe trovato volgare e sciocco: la sera stessa non ci avrebbe ripensato più. Capricci di donna un poco sola, che afferrano chi se ne va per il mondo in cerca di tentazioni, con la testa molto accesa, l’anima un po’ vuota... capricci che son tanto più forti quanto più sembrano assurdi, e nascon nei cuori viziati, nei cuori avvezzi a soddisfare con troppa facilità ogni loro desiderio. Sarebbe venuto, e, forse, guardandolo meglio, ella si sarebbe accorta che in lui non v’era nulla di tanto singolare; forse la sua voce, udita meglio, le sarebbe dispiaciuta; i suoi gesti, la sua persona, la sua maniera di ridere non le avrebbero più ispirato quel desiderio femminile d’essere per lui una vera donna; forse, alla fine, se ne sarebbe sentita libera, ne avrebbe riso a cuore aperto, con quel riso giocondo che scoppia in noi quando ci accorgiamo d’essere passati, senza pur cadervi, troppo vicino all’amore. E lo guardava. Era un uomo insolito. Fra mille, dopo anni di lontananza, lo avrebbe riconosciuto. Pure stando fermo, e se pur taceva, un contrassegno della sua singolarità era visibile in ogni attitudine della persona. I capelli foltissimi, più che neri, d’una lucentezza quasi violacea, gli si spartivan disugualmente da un lato e dall’altro della fronte, formando sopra il pallore delle tempie due dissimili onde, invano appianate dal pettine o lisciate dalla mano in un gesto assiduo di pensiero. Le linee del suo volto eran ferme, precise, quasi eccessivamente pure; ma la bocca, un po’ aspra quand’era chiusa e piena di soavità nel sorridere, gli occhi dalle palpebre oscure, gli occhi mutevoli come il colore d’un’acqua sotto un variar di nubi, mettevano in quella fredda bellezza una imperfezione gradevole, una specie di selvatica vita, che pareva splendere di continue palpitazioni. Tutto era in lui bello ma temibile: così la mano, piccola e nervosa, che pareva nella sua delicatezza esprimere un non so che di rapace, l’alta statura e complessa, che serbava nella sua forza un’ammirevole agilità, così lo strano contrasto fra l’accuratezza esteriore dell’abito con quello che aveva in sè di non ancora domato e lisciato, l’aria di sofferenza che v’era nel suo sorriso, la malvagità subitanea che brillava come una lama in taluni suoi sguardi. Tutto questo ella vide, pensò, conobbe, in pochi attimi. La sua mano correva su la tastiera, fuggevole, come inseguendo con ogni nota un pensiero. — Avete detto «un poco...» — egli fece per interrompere quel silenzio che gli pesava. — Sono stato un poco scortese... Forse. Ma voglio esserlo ancor più. Voglio dirvi, e forse ne riderete, che per voi, senza sapere nulla di voi, ho provato qualcosa di così forte, di così nuovo, che mi è sembrato di potervi amare terribilmente anche se avessi dovuto non conoscervi mai. La prima sera che v’ho intesa cantare.... — Ma voi chi siete? — ella lo interruppe, con un gesto vivo di malessere. — Io? chi sono? Egli parve cercare un poco la risposta. — Nulla sono. Uno fra i tanti, uno fra i mille che vi avranno fatta la corte, non è vero? Quello che vi è capitato con me, può capitarvi ad ogni momento, non è vero? Nulla sono. Di me non potrei dirvi cosa alcuna. Faccio una vita semplice. Amo più essere solo che con altri. Non ho passioni; non ne ho avuta alcuna, finora. Sì, una soltanto: la musica. E non lavoro. Mi siete piaciuta molto e súbito, in un modo che mi ha fatto quasi male. Se anche ne riderete, son contento di avervelo potuto dire. Ella piegò leggermente il capo e si prese una mano nell’altra, girando gli anelli che portava su le dita. Ora, col dorso, poggiava contro il pianoforte; le ginocchia sovrapposte davano alla sua gonna l’apparenza di una grande ala. Non rideva; era visibilmente commossa; visibilmente. — E allora?... — ella fece, sollevando verso di lui con timore la faccia un po’ confusa. — Allora ditemi se potrò sperare di vedervi qualche volta, non più da lontano soltanto, e se potrò domandare anche a voi, per esempio: Chi siete?... e continuare a dirvi le cose un po’ ridicole che vi ho dette oggi, e raccontarvi la storia dei giorni pieni d’inquietudine che ho vissuti nell’attesa di parlare con voi.... — Ebbene... sì! — ella fece dopo una pausa, raccogliendo il ginocchio pieghevole nelle mani congiunte. Fuori la neve cominciava a cadere, lieve, piana. XII Erano divenuti amanti. A lui, dopo trascorsa la prima ebbrezza, questo fatto non diede alcun turbamento esagerato, perchè nutriva di sè medesimo un naturale orgoglio e si sentiva pronto a ben maggiori destini. Ma ella si era invaghita e persa di lui con un ardente amore; si sentì quasi divenire una cosa piccola e fragile nelle sue mani forti; le piacque anzi d’aver trovato questo bel dominatore nella sua libera vita. Che le importava chi egli fosse? cosa egli fosse? di saperlo ricco o povero? di avere forse raccolta qualche beffarda voce sul conto suo? Ella era una dolce slava, malata d’una ipocondria sensuale, con una vita che tutta le si radiava dal grembo desideroso, cosicchè le pareva talvolta di sentirsi morire sotto le carezze di quell’amante. Non poteva essere una donna per tutti; le bisognava amare, con tanta più veemenza quanto più questo amore fosse inutile, amare con ubbriachezza, con perdizione, con esaurimento, senza che mai tuttavia la sua passione giungesse a lacerarle il velo trasparente dell’anima od a turbare quella chiara fontana ch’era in lei, con l’ondata nè col fango delle passioni tormentose. Ella era frivola, e pur aveva talvolta le attitudini selvagge d’una amante vera; le piaceva essere blandita, carezzata, addormentata, e pur talvolta le nasceva su la bocca un bacio così violento, che sorpassava la voluttà; era capace di levarsi una mattina, piena di riso, e mettersi a cantare tra i vapori del suo bagno profumato, ma dieci minuti più tardi, nella tepidezza lasciva dell’accappatoio, strisciare sui piccoli sandali a rifugiarsi contro di lui, stringergli le braccia al collo, baciarlo e mettersi a piangere.... Diceva di volergli essere una mamma, una sorella, un’amica, cioè tutte le cose più pure che sian nel cuore femminile, ma in verità non era che un’amante gaudiosa, una tormentatrice raffinata, una donna che metteva ne’ suoi baci struggenti qualche sapore di perversione, qualche stilla di crudeltà. Quelli che facevano la corte serrata intorno alla Ruskaia, li videro inaspettatamente un giorno andarsene a lato per la città, uscire insieme dal teatro d’opera ed apparire qualche volta nei ristoranti, qualchevolta mostrarsi nei teatri di prosa. Ne fu mosso grande rumore. Chi era costui? da che parte era sbucato? come si chiamava? che faceva? in che modo era giunto ad innamorar la Ruskaia? Innamorarla per davvero, a quanto pareva! Taluno si ricordò d’essere stato a scuola con lui; talaltro fece più accurate indagini e comunicò il suo nome: Arrigo del Ferrante. Del Ferrante?... Quel nome l’avevano già udito. Uno finalmente si risovvenne: — Ma sì! è proprio quello che s’è fatto sorprendere dal Farra con Miris la Tunisina! E per mille strade la voce ne corse un po’ dappertutto. Poi si aggiunsero altri particolari. Taluno si rammentava d’averlo veduto, anni addietro, mal vestito, in compagnia di gente equivoca; taluno d’essersi imbattuto con lui nelle bische, d’averlo veduto giocare alle Corse od incontrato nei caffè notturni con donne di malaffare. Poi aveva mutato spoglie; ultimamente veniva spesso a pranzare nei ristoranti centrali e spesso lo vedevano in teatro, sempre solo, corretto, elegantissimo. Viveva tempo addietro in Firenze una brigata di galantuomini, che facevano professione di sapere il conto loro in ogni cosa, e specialmente nel giocare e nello spender bene il lor denaro, e d’essere il fiore della reale ed onorata scapigliatura. Avevan un capo, detto l’Abate, da cui erano castigati quando fallavano o nel giocare o nello spendere; si radunavano in casa di lui, dove si giocava, più per spasso che per vizio, si facevano merende, cene, e varie allegrie. A costoro era dato il nome gaio di Mammagnúccoli, così come narra nelle sue Note uno storico di bello stile. Or la brigata che a buon diritto, nei tempi mutati e mutata città, poteva fregiarsi di tal nome onorato, poichè le stesse cose faceva e con lo stesso brio, fu grandemente sdegnata che la più ambita donna dell’anno fosse a lei ritolta per opera d’un tale che non era del suo numero. Dal marchese di Sant’Urbino, cui spettava per nobiltà, per censo e per effeminatezze d’esserne l’Abate, a don Carletto Santorre, damerino compiuto, fino a Totò Rigoli, buontempone di bello spirito e giullare della compagnia, i commenti furono senza fine. Quando la novella fu per tutto risaputa, e la Ruskaia ricomparve la prima sera in iscena, bisognò che facesse veri prodigi di maestrìa per non trovarsi di fronte a qualche ostilità, così vivo era il fermento che correva nei palchettoni sparsi per tutto il teatro. Tanto più che verso il mezzo dello spettacolo, in una poltrona di terza fila, per l’appunto era comparso il bel rapitore, quel personaggio misterioso, che li aveva così tranquillamente gabbati. Ma non sapevano quanto, in cuor suo, quel giovine agognasse a divenir dei loro e quale desiderio lo struggesse di appartenere alla medesima lor vita, forse per ambizione più che per tendenza; e sedere fraternamente nei palchi ove, dal principio alla fine dell’opera, essi non tralasciavano di fare un chiasso importuno, e aver adito a visitare le signore ch’essi visitavano, poi andarsene, con loro insieme, ai Circoli, alle partite protratte fin oltre il lume dell’alba, od alle cene galanti ove Beppe Cianella e Massimo Ravizzoli s’ubbriacavan tutte le sere, sciorinando le più laide sconcezze che si fosser udite mai da favella umana. Mentre la Ruskaia cantava, in quei palchi si discorreva di Arrigo. — E un bel giovine però! — disse Totò Rigoli, un uomo che della sua piccola statura s’era fatta un’arma temibile per molestare altrui. E forse lo disse con l’intenzione di dar noia a Paolo del Bassano, che oltremodo si vanagloriava della sua bellezza d’andrógine, e stava con un gomito poggiato sul davanzale del palco, lisciandosi la piccola barba rada e biondiccia che invano voleva essere un ornamento virile nel suo viso dolciastro come rosolio e miele. Egli puntò il canocchiale affettatamente verso la poltrona ove sedeva Arrigo, poi si lasciò cadere dalle labbra un: «Peuh!...» semisdegnoso, che fece ridere alcuni. — Mi sembra volgare, — disse, con quella sua voce di falsetto, cui mancava l’erre. Ma le proteste furon numerose, perchè tutto gli si poteva negare, tranne che avesse una sua limpida e maschia bellezza. L’Abate dei Mammagnúccoli, quel marchese di Sant’Urbino che pur si coltivava con molte leggiadre usanze, fu più generoso del suo confratello barbuto, ed ammise che la sua prestanza fisica gli dava diritto al favore di qualsiasi bella donna. — So di alcuni che per questa faccenda rischieranno di fare una malattia! — disse Giorgino Prémoli, il malevolo, guardando Lanzo Malatesta, che passava per essere fortunato con le donne, poi Carletto Santorre, che s’era invaghito della Ruskaia ed aveva giurato di farla sua per primo, poi Camillo Torretta, che aveva sperato egli pure di sedurla, non coi vezzi dello spirito nè con le banconote allettevoli, poichè d’entrambe le cose era scarso, ma col non avere sopra di sè cosa alcuna che non portasse la genuina marca inglese; poich’egli stesso andava più volte nell’anno a Londra, sacrificando altri lussi, per essere il vero arbitro, in Italia, della moda londinese. — Ma non disperate! — continuò Giorgino Prémoli, aggiustandosi l’occhialetto che gli acuiva l’espressione sarcastica della fisionomia. — Tutto viene a suo tempo: il bel Ferrante, se non m’inganno, dev’essere uno spiantato. — Come lo sai? — fecero alcuni. — Me lo ha detto Sacco Berni, ch’era suo compagno di scuola. Lo ricorda come un giovine di famiglia molto umile; figlio d’impiegati o forse di bottegai suburbani. Questi Berni eran due fratelli, dediti al gioco, alla crapula, al libertinaggio, con una tempra di ferro; si chiamavano l’uno Gian Giacomo, detto Bacco, per una certa sua rassomiglianza col giovial nume del vino, l’altro Gian Pietro, detto Sacco, perchè aveva nella sua persona tozza e greve qualcosa di simile veramente ad un sacco ripieno. Specialmente in fatto di gioco, molte ambigue voci correvano sul conto loro; ma eran ammessi ed anzi ricercati per il loro spirito giocondo sebben grossolano, e per quell’instancabile brio che mettevan nello scialacquare la vita. Bacco e Sacco eran di tutte le cene, di tutte le scorrerìe notturne, di tutte le imprese più gaie; nei carnovali e nelle quaresime non riposavano mai. Entrò in quel mentre il conte Raffaele Giuliani, giovine di casato nobilissimo, che godeva tra quei gentiluomini d’una certa considerazione, per esser scevro di quasi tutti i loro vizi e liberale insieme, sicchè mai non rimandava insoddisfatti gli innumerevoli stoccatori. Molte madri della buona società gli tenevan gli occhi addosso per le lor figlie da marito, ed egli, senza deludere alcuna speranza, era frattanto un donnaiolo accanitissimo, ma di cuor talmente svenevole che ad ogni piè sospinto cadeva in perduti amori. Così era stato per la Ruskaia, naturalmente. Gli eran però falliti l’un dopo l’altro i mezzi che a lui procacciavano con facilità estrema tutte le donne del teatro e della galanteria, sicchè la notizia doveva segnatamente colpirlo. E non gli furon lesinate allusioni e maldicenze. Una malvagità innata spesso ci muove a schernire in altri il nostro medesimo tormento: per questo si cominciò nel palco a magnificare ed esaltare la passione della cantatrice per Arrigo del Ferrante, citando copia d’imaginosi particolari e deridendo un poco il Giuliani con quella garbata insolenza ch’è la più temibile arma degli amici. — Vorrei conoscerlo questo bel tipo! — prese a dire Totò Rígoli. — Non dev’essere in fin dei conti un uomo comune, e per dire la verità confesso che mi è simpatico. — Sono del tuo parere, — ammise il Prémoli. — Tanto più che, per giungere alla Ruskaia, bisognerà d’ora innanzi fare la corte a lui. Dico ciò per quelli che se ne interessano... Quanto a me, grazie a Dio, me ne infischio! Aveva benaltro a pensare, lui! Pieno di debiti fino al collo, senza parenti dai quali ereditare, con un magro impiego in una Compagnia d’Assicurazioni, con una vecchia amante sul dosso che gli aveva già partoriti due bastardi, era ben naturale che il suo cuore fosse un poco inasprito ed egli cercasse di mordere, se poteva, quelli che stavano meglio di lui. — Cosa ne dici, Rafa? — domandò Lanzo Malatesta al Giuliani, che si era seduto in un angolo del palco, taciturno. — Dico, — egli rispose, con una specie di sconsolata rassegnazione, — che quando s’è troppi a circuire una donna, questa cade per forza nelle braccia d’un estraneo. Peccato! peccato!... La Ruskaia mi avrebbe fatto commettere qualsiasi pazzia. — Non sarebbe cosa del tutto nuova per te! — rispose urbanamente Lanzo Malatesta. Era questi un bel giovine, smilzo, di capelli biondi, con gli occhi vivacissimi, la bocca espressiva, una guancia divisa obliquamente da una profonda cicatrice. Attaccabrighe molesto, buono schermitore, facile duellatore, era più temuto che amato, sebbene la troppa vitalità del suo spirito fosse più colpevole che non il cuor malvagio di questi ardori eccessivi. Senz’altro amore che il pericolo nella sua vita irruenta, cavalcava per gli ippodromi, si cimentava ne’ circuiti, gareggiava con il remo e con la vela, disistimando quelli che spendevano il tempo in più tranquille fatiche. Donne, gioco ed altri spassi non eran che intermezzi d’ozio nella sua vita coraggiosa. Ma non soltanto in quella brigata si discorreva di Arrigo e della sua buona ventura. Nei palchetti ove sbocciavano come fiori opulenti le scollature incipriate, adorne di limpidi gioielli tra la pigrizia dei ventagli odorosi, fatti per bisbigliarvi dietro una parola furtiva, per soffocare un riso inverecondo, per nascondere uno sbadiglio, di questo, insieme con altre frivolezze si parlava. E poichè gli amori delle cantatrici interessano le signore almeno tanto quanto l’arte loro, don Carletto Santorre, don Antonino Vernazza, il marchese Minardi ed altri gentiluomini, erano andati in giro di visita in visita a comunicare quest’ultima notizia della cronaca teatrale con la educata circospezione ch’è di rigore nella buona società. Si videro molte belle bocche sorriderne, compiaciute che ci fosse una donna di meno irreprensibile nell’opinione altrui, e furon mandati frizzi e leggiadre ambasciate a quelli che notoriamente eran rimasti in asso, mentre una certa onda di curiosità si sollevava intorno alla persona d’Arrigo e insistenti canocchiali si piegavano, tutta sera, dai davanzali dei palchi a riconoscere l’avventuroso. Da quella volta in poi, quand’egli entrava in teatro, taluna diceva a tal’altra sottovoce: «Ecco il bel Ferrante!» Ed avendolo consacrato con questo appellativo, molte, nel guardarlo, pensavano in cuor loro ch’egli era veramente un giovine di piacevole aspetto. Intanto nel camerino della Ruskaia, che non cessava d’essere assediato, Arrigo potè conoscere alcuni di quella beata signoria ingombratrice di palcoscenici, alcuni di que’ signori, che scivolando fuor dai palchi di famiglia vengon tra le quinte a combinarvi una cena e son poi tutti insieme i benemeriti e spesso gli arbitri del teatro lirico italiano, come protettori del corpo di ballo. Egli non fu geloso; non domandò alla Ruskaia di allontanare quegli importuni, che or forse pensavano di potergliela portar via da un giorno all’altro, e frattanto lo colmavano di garbatezze. Rafa Giuliani, Lanzo Malatesta, il marchese di Sant’Urbino, capitavano qualchevolta, verso le cinque, in casa della Ruskaia per domandarle una tazza di tè. Venivan pure il principe d’Albi, vecchio mecenate del teatro lirico, il conte Aimone dell’Ussero, membro della Commissione teatrale e forsennato amatore di piccole ballerine, il direttore del teatro, il direttore d’orchestra, moltissimi altri ancora, e Totò Rígoli fra questi, non per corteggiare la cantante, ma per ficcare il naso nelle cose altrui. Arrigo faceva discretamente gli onori di casa, destreggiandosi nella sua difficile condizione con una abilità singolare. Lo trovaron simpatico e modesto, poichè sapeva solleticare la vanità di ognuno senza mai cadere nell’adulazione. Il principe d’Albi lo prese a benvolere dopo che l’ebbe udito suonare il violino, ed una sera, nel ridotto, si fece vedere in pubblico a discorrere con lui. Questo principe d’Albi, come decano della nobiltà, esercitava su lo stesso patriziato una specie di supremazia; il fatto ch’egli avesse rivolta la parola in pubblico ad Arrigo, escludeva per sempre qualsiasi obbiezione che altri potesser muovere a suo danno. Il marchese di Sant’Urbino, or Abate dei Mammagnúccoli, ma che in passato si ricordava d’aver avuto qualche debolezza per gli uomini belli, sentì forse rinascere, davanti alla sua virile bellezza, certa lontana oscura memoria; e similmente lo prese a benvolere. Il direttore del teatro, il direttore d’orchestra entrarono a lor volta in una certa dimestichezza con Arrigo, avendo essi l’abitudine di tollerare, insieme con le artiste, tutte le lor parentele e clientele per importune che siano. Totò Rígoli, il quale, per istinto di beffa, sin dal principio si era schierato per il del Ferrante contro i suoi detrattori, durò nel primo impulso, ed un poco altresì per quella smania di proteggere o di combattere ch’egli aveva nella sua piccola persona, prese a trattar familiarmente Arrigo e fu pronto a spezzare qualche lancia in suo favore. Così, avvalendosi con accortezza di tutte queste cose insieme, calcolando le proprie mosse con la prudenza di chi muove le pedine sopra uno scacchiere, Arrigo potè finalmente rompere il cerchio di ferro che lo divideva da quella gioventù dorata, ricca d’ogni facile dono che possa concedere la vita. Il suo sogno non era stato troppo superbo. Gli si aprivano le porte vietate, cominciava intorno al suo nome il chiasso delle indiscrezioni mondane. Dalla bottega umile, nascosta nella lontananza della strada suburbana, egli entrava nel cuore della sua città, con una bella donna al fianco e molte nascoste invidie che intorno gli serpeggiavano, curiose del suo mistero. La fortuna pertinace delle carte gli offriva largamente, facilmente il denaro; un respiro più largo e più giocondo riempiva il suo petto capace. Ora, dall’uno all’altro, le conoscenze s’eran fatte innumerevoli. Cominciarono con accettarlo nelle cricche oziose che si formano su gli angoli delle bottiglierie, ove di donne si parla, di cavalli, di gioco, e s’intesson le frivole maldicenze dirette a smascherare i segreti altrui. Totò Rígoli una sera l’invitò a pranzo; Carletto Santorre gli disse un’altra sera: — Perchè non venite mai nel nostro palco? Egli v’andò qualche volta, però con discrezione, riuscendo a piacere. Spesso, dopo teatro, conduceva la Ruskaia a cenare in un ristorante famoso, che da immemorabile tempo riuniva nel suo piccolo cerchio i più dissimili esemplari delle classi e della vita cittadina. Era questo un cenacolo d’arte, un focolare di guerriglie politiche, un tempio di ciarlataneria, dove tra cene scapigliate infuriavano pettegolezzi mondani. Era nel medesimo tempo una casa di giuoco indisturbata, inevitabile; un ritrovo era d’aristocratici dopo il ballo e di istrioni dopo lo spettacolo; rifugio di nottambuli nelle tarde ore e di pedine infreddolite, campo neutro dove l’usuraio costeggiava il duca indebitato e la cortigiana sfacciata spauriva co’ suoi pennacchi, con le sue risate, la piccola borghese domenicale; dove il commediografo si bisticciava col suo critico, l’impresario col suo pubblico, dove il gesuita giocava a carte con l’ebreo e l’uomo d’ingegno si lasciava beffare dai buoni a nulla o dai perditempo. Sovente, presso il Mammagnúccolo impettito nell’intonaco della sua camicia, sedeva un chiomato pittorello, dalla cravatta floscia, che ingoiando a lenti sorsi un mezzo cálice di verde acquavite, andava schizzando profili sul marmo del tavolino, mentre i divi di tutte le arti, di tutti i mestieri, di tutte le ciurmerìe, tenevan corte bandita con gli avversarii e co’ seguaci. Bellimbusti e belli spiriti si facevan critici o banditori delle cronache cittadine; giornalisti scribacchiavano articoli frettolosi; medici ed avvocati venivano in cerca di clientele; giocatori combinavan partite, donnaiuoli adocchiavan prede. Tutto il rigurgito dei teatri, delle sale, dei focolari, delle biblioteche, delle redazioni, dei circoli, vi sboccava transitoriamente come in un’anticamera della più nascosta vita notturna, e tra il fumo, le risate, i romori delle mense, nella impunità promiscua della mezzanotte, tutti vivevano qualche ora di concordia e di sollievo dopo l’ansie numerose della giornata. Un buon sopraccuoco ed un’ottima cantina avevan dato fama in origine a questo ristorante; poi la moda se n’era mischiata, e qualche partita disastrosa, qualche ubbriacatura forsennata, qualche alterco fra gentiluomini l’avevan accreditato in modo stabile nel favore dei gaudenti. Sebbene fosse un luogo pubblico, fra tutti i frequentatori correva una specie di familiarità, quasichè si trattasse d’un circolo a porte spalancate, ove l’adito era per tutti ma l’ammissione per pochi. Varie cricche vi si formavano, vivendo a lato senza darsi noia, ma disprezzandosi a vicenda. E ciascuna teneva un settore, un nucleo di tavolini, stretta intorno ad un suo capo che le dava lustro e la guidava nelle idee. Presso il marchese di Sant’Urbino, signore delle cene, inventore d’usanze, consacratore di Mammagnúccoli, un vecchio e scapigliato Don Giovanni del quarantotto, saldo ancora nella sua carcassa incrollabile, ancor lampeggiante negli occhi cigliosi, capitanava un’adunanza di antichi gentiluomini, avversatori di cose nuove, abbottonati nelle marsine vetuste, che, insieme, del buon tempo trascorso e della bella gioventù discorrevano, quando, nella cinta delle vecchie mura, più stretta e più gioconda era la città che dominarono e più gentili costumi vi reggevano, così a dir loro, quando impazzavano per le strade i carnovali memorandi e con meno denaro si facea più vita, più calore avevano le donne e più rigoglio nei robusti fianchi. Ivi era una tavolata di teutoni rubicondi, che alternavan la pallida birra con il Barbera spumante; nemici, nel cuore, della città che sfruttavano, impadronendosi de’ suoi rigogliosi commerci con una lenta ma sicura supremazia. Ivi era un bizzarro convegno di giovinetti, contraddistinti solo dal diverso abito che portavano, ricco semenziere dal quale sarebber usciti i Mammagnúccoli del domani. E più oltre, intorno alla tavola delle Tre Marie, — ch’eran tre sorelle galanti, le quali avevano in tanto volger d’anni battesimato o assolto quasi tutti gli imberbi o i decrepiti peccatori della città, tre sorelle d’una magrezza disperatissima, dal viso adunco, imparuccate oltre il verisimile, con certe mani grifagne che un tal pittore imitò per i suoi scheletri della Morte, — cinque o sei noiati sbarazzini vomitavan sconcezze nel gergo più triviale dei lupanari plebei, e nutricando lentamente la fame delle bocche sciupate pensavano alla notte dolorosa, in cui avrebber voluto esser uomini. Più oltre una contessa di casato autentico, in compagnia d’una serva impennacchiata, sorbiva lentamente il veleno dei piccoli calici, e scesa dal letto al barlume dei lampioni elettrici s’apprestava a menare una vita quasi onesta e certamente signorile per gli stambugi malfamati, accompagnandosi alla cricca dei nottambuli che la dilettavan di celie bizzarre, sè stessi talora dilettando con le facili compiacenze della pulzella soccorevole. Qua un principe germanico, esiliatosi per un impari amore, volgeva intorno la stanchezza sorridente dell’occhio cerulo, non più memore del fasto imperiale nè dei grevi reggimenti che marciano impaurendo l’Europa, malcontento forse d’aver chiusa la sua grande sorte in un piccolo cuore. Vicino a lui, bella ed altera come una sovrana, la sua compagna reggeva la corte dei gentiluomini d’onore, e la piccola curiosità provinciale si sbizzariva in commenti svariati, indiscreta ma pur genuflessa, con quell’istinto invincibile della plebe, che sempre accorre come una docile mandria per le strade ove passano i re. Quivi erano musicisti e cantori; colà drammaturghi ed istrioni; drammaturghi sopra tutto, chè questo malanno è assai diffuso al giorno d’oggi, nè ormai può trovarsi alcuna persona rispettabile che non abbia scritto commedie, che non abbia per una volta sentito in cuor suo il fuoco echìleo del sollevare le platee. Drammaturghi fischiati una sol volta o fischiati assai più, che per quell’unica sera campale tutta la vita rimarrebber uomini di penna e di pensiero; e più oltre, insieme, in un bel disordine, altri commediografi ancora ed altri commediai, poeti e verseggiatori che vanno alla burchia, romanzieri e imbrattatori di pagine, autori pregevoli e filosofi da dozzina, pensatori di certo ingegno ed uomini di lettere cui meglio sarebbe convenuto per natura il trincetto e lo spago del ciabattino: tutto un piccolo mondo d’intelligenza e d’abbrutimento, di modestie rare e di insane alterigie; un piccolo mondo d’uomini rampicanti, che si erano degnamente o vanamente affaticati per quell’erta scabra la quale ha su l’ápice il sole tormentoso della gloria. V’erano giunti alcuni, ed uscivano da quella folla per starsene soli, per riparlare delle antiche battaglie con gli emuli antichi. Ed uno v’era, dalla bella fronte, dal profilo faunesco, dalla bocca ruvida e sarcastica, il quale aveva dato un teatro nervoso alla fiacchezza della scena italiana; un altro, pieno d’irrequietezza nella stretta persona, pieno di brio nel volto segaligno, che ammulinava senza tregua parole come il vento le foglie cadute, ed aveva satireggiato lungo tempo in un teatro mondano prima di scoprire in sè la vena drammatica. Un altro, dalla testa ieratica, gli occhi lucidi nelle occhiaie profonde, con qualcosa di adunco e pur di dolce in tutta la sua persona secca e stracca, il quale aveva tormentato in più modi il suo sogno d’arte, aborrendo il mestiere, correndo intorno alla propria anima visionaria, lanciando nel suo buio qualche bellissimo raggio, per poterla illuminare tutta, e sentendo con un cuore morto i più vivi palpiti della vita. E v’era, lì accanto, per lo più, un uomo silenzioso, dal volto arcigno e scontento, che aveva la bocca ormai contratta e suggellata in un sorriso pieno d’indelébile scherno e che, per sola conciliazione con la vita nemicissima, aveva conservato un appetito prodigioso e taciturno. Uomo d’altri tempi, bella tempra di combattitore, lucida mente d’osservatore, s’era divertito a sciuparsi, a manomettersi con una voluttà crudele. Poneva lo stesso ingegno nel compiere un’opera insigne o nel far cosa di nessun pregio; tutto aveva sofferto nella vita, le cose più logoranti per la tempra umana: l’amore, l’ambizione, il disprezzo, il tormento dell’arte, la lussuria, e fors’anche la fame. Un altro, dal viso delicato, che rimaneva giovine e quasi monacale nel volgere degli anni, poeta di rime cesellate, intorneatore di versi un poco artifiziosi, che pareva un essere pressochè incapace di sopportare la brutalissima vita moderna, ed avrebbe forse voluto vivere in quella remota età ove una bella rima s’incoronava con rami d’alloro. Un altro, che aveva portato seco dalla calma laguna la freschezza d’uno spirito goldoniano, e vinceva rapidamente la sua battaglia in più tenzoni dissimili. Poi v’erano i nomadi, quelli che di tempo in tempo giungevano d’altre città, a mescersi per qualche sera nei cenacoli d’arte; venuti a spalleggiare un dramma, a proporre una pubblicazione, a recitare un poema. E v’erano, ma più spesso in disparte, i giovini corteggiatori del grande idolo dalla tromba d’oro, che gareggiavano di versatili bizzarrìe, stretti intorno ad un poeta conquistatore di stelle, che tutti li soverchiava col suo burrascoso ingegno e tutto osava per infuturarsi con una bella temerità. V’era un soppraggiunto romanziere, dalla pallida e bella faccia di efebo, che si lisciava i lucenti capelli con un gesto discontinuo della mano imbrillantata, ascoltando il parlar grasso del bolognese venuto in fama di scrittor libertino con un libro d’elogio al lupanare e molte istorie di carne venduta. Talvolta era insieme con loro un pallido fiorentino, che aveva nella sua faccia mansueta una volontà incisiva e già s’era provato in più giostre onorevoli, deciso a conquistarsi la vita con un disperato eroismo; mordace, attento, vivo, secco, sicuro, raggruppava in sè le sue forze feline per dare il balzo che lo avrebbe svincolato dalla folla. E più altri che invano contendevano per lo stesso miraggio, discepoli d’arti vicine, che avrebbero tenacemente squassato nel buio perpetuo la lor fiaccola vacillante, e però si dilettavano d’accanirsi con una furia bizzarra contro i più lontani ed i più alti, ai quali la gloria aveva già fasciata la fronte con i suoi veli meravigliosi. Ma v’erano, tra queste voci discordi, talune voci pacate, ferme, che molto rare discorrevano per difendere o per ferire, con la medesima giustizia serena. Uomini solitari, cui dilettava lo spettacolo di quella sala clamorosa, e venivano a cogliervi qualche significante attitudine umana od a temperarvi in silenzio acutissimi strali. Fra tutti costoro, lentamente, Arrigo del Ferrante fu accolto. Annodò di sera in sera le più svariate conoscenze, sicchè in capo di qualche tempo si trovò ad essere un familiare del luogo, ben accetto alle diverse compagnie, per quel fascino singolare ch’egli sapeva diffondere intorno a sè. Gli artisti lo accolsero in grazia di quel suo fine gusto musicale che gli faceva dire cose profonde con una piacevole modestia, ed anche perch’egli aveva il dono innato dell’adulazione non servile, di quell’adulazione che si lascia credere, che accarezza, che piace. I buontemponi lo vollero compagno nelle cene per il suo gaio spirito e la sua facile dimestichezza; i donnaioli lo corteggiarono per la sua bella donna; i giocatori lo tolleraron nelle partite perchè nessuno trovava il pretesto nè il coraggio di metterlo al bando. Poi l’abitudine fece il resto, e nessuno pensò più ch’egli fosse un intruso. Tutto questo gli apriva il cammino per andar oltre. Di lì, alle soglie dei circoli mal vietati, alle sale dei palazzi mal vigilati, il tragitto non era più che una distanza breve. Bisognava unicamente che la fortuna delle carte o la versatilità de’ suoi ripieghi bastassero a tenerlo in bílico durante quest’ultima battaglia decisiva. Le cose andaron bene e male; ma egli vi rimediò sempre con infiniti strattagemmi. Tutto gli servì a trovar denaro nei giorni di bisogno, e poichè sapeva di camminare in equilibrio lungo l’orlo d’un precipizio, lottò con l’unghie, coi denti, senza riposo e senza mercede. Spolpò il padre, la madre, divorò i piccoli risparmi delle sorelle, si fece prestare persino l’economie della domestica di casa, firmò cambiali agli amici del padre, che, sapendo l’occhialaio abbastanza danaroso, fingevano di credere alle sue fiabe e gli davan chi tanto, chi poco. Riuscì perfino a riconciliarsi col terribile Riotti e manovrò in guisa da potersi creare un piccolo debito con lui. Il farmacista, allettato dalle più vicine promesse di matrimonio, si turbò al racconto immaginoso che Arrigo gli fece del proprio onore compromesso, di quel nome che Arrigo gli dava, chiamandolo suo secondo padre, finchè, raschiandosi molto la gola per nascondere una stupida commozione, il buon farmacista finì col cedere e slegò i cordoni della borsa. Ma tutto questo non bastava. Le spese della sua vita crescevano a dismisura. Con molti buoni pretesti aveva lasciato comprendere ai genitori che non gli era più possibile vivere in quel sobborgo fuor di mano, e s’era preso per sè solo un bel quartierino verso il centro della città. Lo aveva arredato con mobili presi a credito, ma scelti con eleganza, quasi con lusso. Egli desiderava che fosse impossibile a’ suoi nuovi amici ritrovar la strada tortuosa per la quale era giunto sino a loro, e voleva che per nulla al mondo potessero mai venire a conoscenza della sua stirpe bottegaia. In quel momento le carte gli volser male, e fu la miseria nera, assoluta, irreparabile, che gli si mise alle calcagna. Ma il suo carattere tuttavia restava in apparenza gaio e speranzoso. Con pochi franchi in tasca, lo si vedeva, elegantissimo nell’abito nero, girar per i teatri a fianco della Ruskaia sfavillante di gioielli, scarrozzare per la città, pranzare nei ristoranti più costosi. Aveva il gesto del gran signore anche nel pagare l’ultimo soldo, e nessuno, tanto meno la sua dolce Tatiana, doveva sapere quanto costassero a lui di fatica e di scaltrezza quelle poche decine di lire ch’ella gli faceva spendere, per esempio a cena, in capricciose ghiottonerie. Aveva debiti piccoli e grandi per ogni cantuccio; la sua spavalda presenza e la sua parola convincente pagavan nel frattempo le più avare impazienze. Di notte in notte poteva capitargli di tornarsene a casa con le tasche rigonfie d’oro, lo spirito allegro; ma bisognava intanto subire le settimane avverse, lottando con eroismo e senza mettersi al repentaglio di non poter pagare una perdita al gioco, il che lo avrebbe per sempre perduto e bandito. Sapeva che in fondo una salvezza c’era per lui: quella di chiedere all’amante. Ell’avrebbe dato, senz’alcuna obbiezione, forse con gioia. Nella sua frivola incoscienza femminea ella non sospettava nemmeno le battaglie del suo Rigo: lo sapeva poco ricco, ma ormai, nel vederlo spendere da gran signore, se n’era quasi dimenticata. La donna sovente non ha il dono di contare il denaro che si sperpera intorno a lei. Qualche volta, vedendolo un po’ buio, pensava che fosse stanco d’amarla; s’attorcigliava a lui, gelosa e piagnucolosa, voleva qualche giuramento, un bacio, un lungo bacio, e tutto passava. Ma s’egli avesse chiesto, certo ell’avrebbe dato, e Arrigo lo sapeva. Egli però esitava, già da lungo tempo, non per scrupolo forse, ma per quella diffidenza innata che gli suggeriva di non mai darsi materialmente in balía d’una donna. Un buon senso naturale gli faceva riflettere che il cuore d’un’amante è mutevole, come la sua secretezza malcerta. Oggi, innamorata, dà, e la cosa le par semplice; ma domani, stanca o abbandonata, si ricorda, nella invincibile avarizia del suo sesso, di aver pagato, e inutilmente, sicchè se ne duole. Chiacchiera, e, magari per vendicarsi, con due parole avventate perde un uomo. Si sa: da un amante la donna passa all’altro, sopra tutto quando crede di appartenere per tutta la vita ad uno solo; e la coltre del letto è cattiva guardiana di secreti. D’altra parte si mormorava già che la Ruskaia gli desse aiuto. Ma erano dicerìe timide, campate in aria, che non potevan nuocergli gran che. In mancanza di prove concrete, molti consideravano sopra tutto come l’affabilissimo Arrigo avesse in ogni caso due spalle ben quadrate, una cert’aria da allegro bastonatore, cosicchè il mormorare che si faceva di lui rimaneva lontano e sommesso, in quella specie d’atmosfera intermedia che sorpassa già la maldicenza comune ma non è ancora la gogna pubblica, dalla quale non c’è più salvezza. E però il bisogno incalzava; da tutte le parti egli era stretto in un cerchio di ferro; aveva esauriti gli altri espedienti; non gli rimaneva che tentare quest’ultimo, qualunque ne fosse il rischio, poichè un grande amore si ferma talvolta davanti ad una piccola spesa, ed egli non si faceva illusioni. Inoltre c’era in lui quasi un vestigio di rettitudine o di fierezza, che gl’impediva quest’azione triviale. Dire alla sua Tatiana, alla sua piccola amante capricciosa e voluttuosa, questa parola orribile: «Dammi!» vedere il denaro monetato passar da quella morbida mano bianca nella sua propria forte e rapace, non poterla più guardare negli occhi con quell’imperio assoluto che gli dava una così bella fierezza di sè, doverle confessare le sue notti angosciose, le sue corse affannose per i vicoli oscuri della città in cerca dell’usuraio da convincere o dell’amico dal quale estorcere le poche lire che avrebbe spese la sera in una bottiglia di Sciampagna, e sentirsi addosso quelle due pupille chiare, ferme, attente, con uno sguardo quasi di compassione... tutto questo gli repugnava, per quanto fosse in lui disperata la volontà di vincere la sua battaglia. Ma la cosa nacque da sè, necessariamente, nel modo più semplice. Non poteva ella tollerare quelle grandi ombre che si addensavano talvolta negli occhi luminosi dell’amante, nè quel segno amaro che gli vedeva sovente su l’orlo della bocca, nè quel sapore d’angoscia che tante volte si sprigionava da’ suoi baci violenti. Era una dolce amante, curiosa di tutte le piccole vibrazioni dell’anima nascosta, gelosa di ogni secreto, paurosa di poter perdere in un giorno solo, per una cosa minima, tutta la voluttà di quell’amore; e gli diceva qualchevolta, fasciandolo con le braccia molli, dandogli su la bocca il suo più caldo respiro: — Che hai? che hai? Perchè non vuoi dirmi di cosa ti tormenti? Egli nulla confessò da principio; tacque, la racconsolò. Ma poi, una volta, si lasciò sfuggire qualche mezza parola, fra istintiva e calcolata, che gli veniva dal cervello e dal cuore insieme, una di quelle parole ambigue che nell’amore fanno tanto male.... E crollò il capo come per cacciarne una torma di pensieri bui, come per ribellarsi contro quel principio di confessione che gli era venuta su le labbra. Un’altra volta, parlando dell’avvenire, disse che dell’avvenire nulla sapeva, nulla poteva ormai sapere, ed anzi non osava guardare più in là del domani, spingere il proprio desiderio oltre l’oblìo delle loro voluttuose carezze... Ed accennò vagamente al giorno in cui gli sarebbe stato necessario sparire, andarsene chissà dove, in cerca di chissà mai qual fortuna, solo e perduto, con questo suo terribile amore, che gli avrebbe devastata l’anima sino all’ultimo giorno della vita... Nel pensiero di tutto questo, che in fondo poteva essere la realtà, qualche lacrima gli luccicava nell’occhio fermo, qualche battito forte rompeva il suo cuore violento, perchè, nonostante la sua freddezza, era un po’ malato in verità di quella sua bella amante dalla boccuccia sempre semichiusa, dalle manine di bambola, che aveva in sè stessa la morbidezza delle sue stoffe di seta, l’odore del profumo che portava, la musica della sua propria voce. E tutto questo finì con una scena violenta, nel mezzo della quale, fattosi mettere alle strette, egli giunse a confessarle, scapigliato e convulso, con un rantolo nella voce: — Ebbene, se lo vuoi sapere, ecco... Non ho più denaro, affogo nei debiti, sono in piena rotta con la mia famiglia... devo lasciarti, devo andarmene, devo non vederti più, non baciarti più... partire! Capisci che significa «partire»? E lo avrei già fatto... ma non posso! Avrei taciuto ancora, come taccio da tanto tempo, ma tu hai preteso darmi anche questa umiliazione... ecco, ed ora lo sai! Per una settimana ella offerse, egli rifiutò. Poi si miser di mezzo una cambiale che scadeva, una partita disastrosa, una lunga notte d’amore, e da quel tempo, nei giorni critici, la Ruskaia provvide alla vita di Arrigo, lasciandolo dilapidar nel suo con la più bella tranquillità. Ciò divenne anzi per entrambi la cosa più naturale del mondo. XIII Ed allora la fortuna tornò; gli arrisero giorni d’abbondanza, sicchè il denaro gli affluiva nelle tasche senza quasi ch’egli se ne avvedesse; il denaro facile, che viene dal tavoliere, che si vince con un punto alto, che si spende con disinvoltura. E la Ruskaia risparmiò, perchè in tali faccende Arrigo amava essere onesto e gli pareva di riacquistare prestigio quando poteva rispondere alla sua Tatiana: — Grazie, non mi occorre nulla. Anzi le regalò un bell’anello, dove c’era una pietra che nei giorni di bisogno aveva ricevuta contro cambiale da un usuraio, per un prezzo indecente. La fece rilegare da un buon orefice; la pietra brillò degnamente sul dito esiguo della Ruskaia. Se alcuno potesse conoscere la storia di certi gioielli, avrebbe forse di che scrivere un libro comico e triste insieme, perchè intorno a tutte le cose che rappresentano valore s’annoda sempre uno straordinario viluppo di passioni e di bassezze umane. Poich’era d’animo liberale, quando aveva denaro spendeva largamente. Si risovvenne de’ suoi, fece dono alla famiglia di molte cose che sapeva essere nel desiderio del padre, della madre, del fratello, delle sorelle; infine, per mettersi un poco in pace con quel bravo Riotti, che non poteva rassegnarsi al dilungar delle nozze, pensò di far bene arrivando un giorno in negozio con un braccialetto per la sua paziente fidanzata. Egli conosceva il cuore umano e sapeva il gran prestigio delle cose d’oro. Quando l’Eugenia mostrò al padre il braccialetto di Arrigo, il Riotti a suo malgrado si lasciò sfuggire una esclamazione di sorpresa. — Per Dio, che bel capo! — disse. Poi s’inforcò bene gli occhiali sul naso, prese il braccialetto, lo pesò due volte, tre volte, nel palmo della mano, con una cert’aria dubitosa, infine lo mise su la bilancia. — Ma questo non è oro! — esclamò incredulo, vedendo il peso greve. — Altro che oro! — asserì la fanciulla. — Vuoi che Arrigo mi dia roba falsa? — Allora quello spiantato si è messo a fare il ladro, perchè questo è un gran valore, sai! E venuto su la soglia della bottega, lo cominciò ad esaminare traverso la lente. — Il marchio c’è... — borbottava. Per maggior sicurezza andò da un piccolo orefice ch’era lì vicino, e un po’ confuso d’avere in mano un oggetto simile pregò l’amico di provarlo con gli acidi per sapere se fosse oro proprio di zecca, e a diciotto carati. — Quanto a carati forse ne crescono! — esclamò l’orefice suburbano, dopo averlo provato. — Un bel braccialetto, veh!... proprio bello! — È un regalo che mia figlia riceve oggi dal suo fidanzato, — disse il farmacista con noncuranza. E tornò in bottega. Questo per lui riparava in parte i torti di Arrigo e mostrava che, se da un lato era un figliuolo un po’ bizzarro, dall’altro aveva buon cuore. In ogni modo le sue intenzioni dovevan esser serie, perchè — diamine! — certi regali non si fanno a casaccio. Intanto la sorella maggiore d’Arrigo si fidanzò, e le nozze avrebber dovuto aver luogo nell’autunno seguente, con un bravo giovine che le voleva un bene quasi ridicolo, ed era figlio di un ricco droghiere. L’altra sorella era una farfallina appena quindicenne, tutta diversa dalla maggiore, e tanto frivola, capricciosa, vaporosa, quanto l’altra era calma, seria, e destinata a non esser altro che una brava massaia. Anna Laura invece comandava in casa con una prepotenza da tirannella; era bellina, tanto bellina, che già, quando usciva per istrada, uno sciame di moscardini le ronzava intorno, e, per certe occhiate che lanciava loro, il padre e la madre avevan giudicato che fosse pericoloso lasciarla correr sola. Per istrada ella non faceva che fermarsi davanti a sarte, modiste, profumieri; si vestiva bene, si pettinava con ricercatezza, leggeva di nascosto romanzi proibiti, era un poco pettegola e molto birichina. Ma poich’era bella e poichè aveva quello stesso far signorile di suo fratello Arrigo, nè il padre nè la madre osavano essere troppo severi con lei; la madre sopra tutto, che forse ricordava in quell’ultima figlia il suo più recente fallo d’amore. Anna Laura parlava spesso d’Arrigo, dicendo che aveva certo avuto ragioni da vendere nell’andarsene via dalla bottega paterna per godersi un po’ la vita, quel genere di vita che a lei pure piaceva: il lusso, i bei vestiti, le carrozze, i teatri, l’amore. L’altro fratello, Paolo, era invece un bravo ragazzo serio e dolce; aveva compiuti i suoi studi con un po’ di fatica ed ora stava imparando l’arte del padre. Era nato e rimasto un po’ grossolano; a lui la bella Ruskaia non dava alcun fremito; si contentava di andare la domenica a bere il vin bianco e mangiare le ciambelle con una florida popolana che non gli era crudele. Quella stagione intanto finì; il teatro si chiuse, la Ruskaia, per amor d’Arrigo, trascurò tutte le scritture che le si offrivano altrove, e rimase a godersi, nella città ventilata, una bella primavera di riposo e d’amore. E qual più dolce primavera di quella che sopraggiunge in una città per solito fredda e nebbiosa, una città senza alberi, dai parchi radi, le passeggiate brevi, i giardini nascosti? Quando allora il cielo, non vasto fra i tetti vicini, prende quel color vivo di madreperla che fa brillare i selciati e luccica su le finestre chiuse, infiammandole, come per dire: — Aprite! io passo! io, divina, la primavera!... Ma queste non eran cose che intenerissero il cuore di Arrigo. Egli non s’abbandonava perdutamente alla dolcezza d’un amore inerte, ma badava piuttosto a trar vantaggio da ogni giorno e da ogni ora, sentendosi ormai vicino al compimento del suo bel sogno immodesto. Anzi ardiva spingere lo sguardo più lontano, parendogli che quanto aveva sino allora vagheggiato come la sua meta non fosse che il principio d’una più grande ambizione. Forzar l’ingresso d’un Circolo, seder alle cene o nei palchi dei Mammagnúccoli, dir buongiorno senza togliersi il cappello al marchese di Sant’Urbino, recarsi all’ippodromo nell’automobile di Lanzo Malatesta, e fare insomma tutte l’altra cose che di lontano gli erano sembrate un miraggio vertiginoso, più non bastava per contentare le bramosìe del suo cuore temerario. A questo sarebbe giunto, e v’era ormai quasi vicino. Ma la battaglia era degna d’essere combattuta per una causa migliore, poichè si sentiva nello spirito nascer l’ali per un più grande volo. E meditò di giungere fin nelle sale meglio custodite dalla duplice potenza del blasone e dell’oro, nelle sale un po’ tediose d’onestà camuffata e d’impostura inchinevole, dove gli antichi paraventi potrebber forse raccontare qualche favoletta salace, dove i camini dai grandi alari di bronzo sbadigliano con infinita noia su la eterna commedia della vita. Voleva che l’accogliessero le dame incipriate, ch’eran state famose di bellezza e d’avventure al tempo del Risorgimento e che avevan forse danzato al braccio di qualche uniforme austriaca; voleva che l’accogliessero i vecchi gentiluomini borbottoni, che la gotta e la podagra vendicava del buon tempo trascorso; voleva sedere ai pranzi trimestrali della duchessa di Benevento, essere invitato al ballo di palazzo Altomarino, la sera di Sant’Eufemia; andar alle feste mascherate che si davan più volte nell’anno in casa Aimone dell’Ussero, casa ricca ed ospitaliera, che albergava quattro bellissime nuore tra un codazzo di parentele. Voleva, se pur ciò dovesse tediarlo, essere fra i pochi ed eroici nobiluomini che almeno tre volte nella stagione frequentavano i venerdì della vecchia contessa di Sedriano, la quale, inferma e pressochè sorda, teneva circolo da un seggiolone simile ad un trono, avendo una nipote già più che trentenne da maritare, una grama nipote, magra, sghemba e balbuziente, su la quale s’erano scatenati tutti i malanni dei Sedriano, rinomati già da secoli per la loro impeccabile bruttezza. Voleva che d’estate l’invitassero in campagna i Mazzoleni, antichi profumieri fattisi marchesi da sè, o gli Anselmi, ch’erano una tribù senza numero, contraddistinti, i maschi dal cranio rotondo, le femmine dalla spaventosa magrezza: o i Nonaro del Monte, che passavano per la più ricca famiglia della città. Pensava di visitare in palco donna Ottavia Malespini, della quale narravasi che, per salvare certe speculazioni del marito, si fosse abilmente commerciata ad un ricchissimo banchiere ebreo; donna Eleonora Salvati, che aveva, dicevasi, la più bella e più visitata collezione di mutande in pizzo vero; le due sorelle Gozzani, marchesa Marta e marchesa Federica, delle quali, in verità, era rimasta vedova la seconda, benchè fosse morto invece il marito della prima, se, a quanto affermavasi, era vero che il barone capitano Guerrazzo avesse disertato il talamo coniugale per il letto vedovile della sua deliziosa cognata. Pensava d’esser ricevuto ai tè intimi di Rosanella Piacentini, questa frivola, che s’era innamorata del suo pettinatore; ai tè meno intimi di Graziana Buonconte, che amava giocare in Borsa, discorrere di politica, scommettere su cavalli, fumare sigari Avana, ed amava pure, a dir delle cronache, i letti angusti delle sue belle cameriere. Avrebbe voluto, nei mattini di primavera, caracollare al fianco di quell’amazzone compiuta ch’era Miretta Sansalvato, la quale si doleva sopra tutto di non trovare cavalieri abbastanza intrepidi per galoppare quanto a lei piacesse, ma che certo possedeva una mano tanto robusta quanto delicata, e ciò avevano riconosciuto in brughiera molti tenenti di cavalleria. Avrebbe desiderato far musica nel salotto misterioso della pallida Clara Michelis, che già era vedova in quel tempo, e visibilmente si struggeva d’un mal vedovile. Insomma egli avrebbe voluto entrar nell’intimo di quella società ben nomata, cui tutto è lecito, perchè nessuno è sopra lei, nella piccola cerchia d’una città, per giudicarla; dove l’ingegno fa minor breccia che i modi compiuti, e qualchevolta fa sbadigliare, dove la passione irruenta cede il campo al capriccio elegante, la vendetta iraconda si copre le mani di guanti delicati e l’amicizia diventa urbana come un’adulazione complimentosa. In quella società inverniciata, splendente, ove si canta, si balla, si ride, si ama, si odia, ci si vendica e si tradisce anche, ma tutto ciò educatamente, con un bel riserbo, fra quattro pareti, sicchè non ne corra notizia per le bocche della plebe disprezzabile. Ed egli vide, come nel sogno d’un maraviglioso avvenire, il giorno in cui avrebbe avuto per mensa una tavola imbandita di porcellane trasparenti, servita intorno da una folla di maggiordomi silenziosi, e sè vide, in quel miraggio di cristalli, di specchi, d’argenterie, spingere l’occhio lascivo nel bianco d’una scollatura impudica, sentendosi passare intorno la fragranza della cipria odorosa, il calore d’un seno intravveduto, l’ardore d’uno sguardo ambiguo... Ripensò la bottega paterna, dalla quale pochi anni prima era uscito, con qualche cencio e con poche monete di rame; la bottega semioscura, che doveva nel destino essere tutto il suo regno; ed invece s’apparecchiò per i suoi ozi le poltrone profonde, imbottite di cuscini morbidi, per le sue danze sognò le sale sfavillanti di candelabri, per i suoi amori si diede convegno nei talami delle marchese infedeli, per le sue nozze, ch’erano la corona del sogno, si concesse la mano d’una bellissima ereditiera... Camminare bisognava, camminare con temerità, senza concedersi requie, facendosi largo fra i molti che gli avrebbero ostacolata la via, spezzando i vincoli che gli avvincessero il piede, solo, e pur certo di non fallire. Perchè si era scelto questo sogno a tentazione della sua vita coraggiosa? Neppur egli lo sapeva, nè di saperlo si curava. Quest’ambizione era sgorgata in lui da una sorgente oscura dell’anima, lo tormentava e lo spronava con accaniti eccitamenti. Più tardi avrebbe pensato a coronare di qualche alloro men caduco la sua tenace ambizione, poich’era uscito dal nulla con la voglia e con la virtù incontrastabile di non essere un mediocre. Voleva, se pur gli fosse lecito, compiere nel mondo un passaggio rumoroso, attrarre sopra di sè qualche invidia, giungere più lontano che potesse dalla oscura e dimenticata origine. Taluno de’ suoi nuovi amici gli aveva già vagamente promesso di proporlo al Circolo nell’autunno prossimo, poichè frattanto gli conveniva lasciar scorrere l’estate nell’accaparrarsi destramente un certo numero di simpatie fra que’ soci di maggior credito, i quali avrebbero potuto a lor talento aprirgli o chiudergli per sempre l’accesso alla porta sublime. Pieno di fiducia in sè, Arrigo si accinse con ogni suo potere a questa lenta ed ingegnosa fatica. Negli ultimi anni il Circolo aveva molto rallentate le sue strette discipline, aprendo le porte ad una gran folla di soci nuovi e scelti con minore severità, per il bisogno di mantenersi in vita. Era indispensabile rinfocolare il gioco, mescere alla cattedratica schiera dei soci antichi una gioventù più vitale, venuta su coi tempi nuovi nella città fattasi borghese, e che specchiava il lento ascendere della classe trafficante sul declinare delle famiglie patrizie. Contro la fama del casato vinceva ormai la fama dei forzieri pieni; i palazzi secolari cadevano fatalmente in possesso della plebe arricchita. Nomi che ancor sentivano il lezzo d’ogni bassa speculazione mercantile tenevan la dittatura della città, procacciando ai figli le cariche più illustri, maritando le figlie ben dotate nei parentadi più antichi. Sul roco singulto della tromba feudale vincevan con più vasti urli le sirene dell’officine: ai corni di caccia perduti nell’eco delle bandite, rispondeva il rombo laborioso dei martelli, l’ánsito e lo sbuffo delle grandi macchine generatrici; contro il peana degli eserciti sanguinari prorompeva dalla piazza invasa l’Inno dei Lavoratori. E fra queste usanze nuove, più facile s’apriva il cammino ai sopravvenuti dal basso; l’uomo non portava più su la fronte il suggello ed il marchio della sua nascita, ma nella gara della vita egli valeva per il cammino che vi sapesse compiere, valeva nella fiera umana per la sua destrezza di giocoliere, per la sua facondia di ciarlatano, e poteva così pescare o frodare il maggior dado nel bossolo della sua fortuna. Il popolo tirannico lanciava in tutte le giostre i suoi robusti campioni, e poich’erano assetati di vita, avidi per diuturne astinenze, callosi e astiosi dei gioghi patiti, mettevan nel vincere una caparbia ira, millantavano in tutte le vittorie una rumorosa temerità. Ora l’estate venne; con l’estate l’esodo verso le campagne, verso gli ozi lacustri e montani, verso le spiaggie che bruciano di arene scintillanti, nei rossi mesi dell’ozio e della bagnatura. La città spopolata rimase in balia de’ suoi più tenaci lavoratori, divenne il regno dei mariti allegri e degli sfaccendati, che per pigrizia non avevano il coraggio di prendere un treno. La vita si fece più familiare fra tutti quelli ch’erano afflitti dallo stesso mal della calura, e si udì giurare in buona fede che la città non fosse mai tanto piacevole ad abitarsi come quando è sgombra dalla sua maggior cittadinanza. Più a lungo si vegliò la notte, si fecero lunghe sieste nei pomeriggi afosi; lo scopo delle passeggiate serali fu l’andare in cerca d’un fil d’aria, e tutte le maledizioni dell’anno dettero ai tormentati una breve tregua, poichè il calendario d’ogni vita segnava il tempo delle beate villeggiature. Arrigo e la Ruskaia non indugiarono a lungo in città. Ella del resto s’annoiava. Da che s’era chiuso il teatro s’annoiava profondamente; il giorno sopra tutto, chè le notti avevan sempre qualche svago. Egli era forse un po’ despotico, e talvolta la indispettiva; poi non era geloso affatto, e ciò la umiliava. Qualche nube era già sorta fra loro a proposito di mille inezie; non avevan lo stesso modo di pensare, non amavano gli stessi libri, non trovavan simpatica la medesima gente. Arrigo passava troppe ore fuor di casa, dedicava troppo tempo agli amici, alle carte, alle sue cure ambiziose, aveva sempre un certo fare preoccupato e chiuso, che urtava la gelosia dell’amante; non era inoltre un uomo capace di prestarsi a tutti i capricci d’una donna viziata, e qualche volta, pur nell’ore più intime, dimostrava già d’avere una certa fretta. Ella cominciava talvolta con sentirsi un poco sola... E però s’amavano ancora. Nubi lievi, che dileguavano rapidamente nel calore d’una tentazione. Furon all’acque, furon in montagna, poi scesero ad una riva lacustre non lontana dalla città, e, per finirvi l’estate, affittarono una villetta piccola come un nido, che bagnava nell’acqua placida le sue fiorite spalliere di rosai. La sponda spesseggiava di ville festevoli, d’alberghi frequentatissimi; tutto il giorno per la lunga strada rasente il lago era un trascorrere di carrozze o d’automobili dall’uno all’altro cancello, poichè la signoria villeggiante si onorava di visite scambievoli, largheggiava di feste nei parchi sontuosi, talvolta ballava, recitava, si mascherava, correva regate a vela, giostrava nei campi da tennis ed inoltre si dava cura dell’umanità sofferente allestendo con grande strepito qualche fiera di beneficenza. Tra quel frastuono di vita mondana gli amanti vissero in disparte, quasi nascosti nell’intimità del loro nido. L’estate, già percorsa da qualche brivido, già consunta di qualche foglia gialla, l’estate che irrompeva nelle vigne con una rossa maturanza di grappoli e pareva bruciasse nei giardini con assurde magnificenze di fiori, consumava nell’ardore delle postreme sue vampe le vene degli amanti, che in quella sopraffazione di vita sentivano da tutte le cose circostanti scaturire una inconsumabile voluttà. Nulla è più tormentoso per il viandante che l’incontrare, nei pomeriggi di sole, certa piccola casa dalle persiane socchiuse, dalle tende abbassate, intorno a cui mormori un silenzio di cose vive, canti nel verde una fresca fontana, luccichi tra le ghiaie del viale qualche frantume di vetro... Nulla è più stanchevole per il rematore che il passar con la sua barca sotto un giardino fragrante, quando al sole morente si riaprono le finestre della casa, ed insieme, vicini, semisvestiti, due s’affacciano al davanzale, guardando nella tremante azzurrità di quell’ora in cui principiano e suonar campane, perchè tutto il pomeriggio han dormito, sognato, amato, in una chiusa camera tranquilla, dove tuttavia pertugia come un barlume quella enorme crudeltà dell’estate, quel vertiginoso balenìo del sole su l’acqua inerte, quella immobile tribolazione che nella vampa invade ogni cosa, quando l’incendio gràvita su l’ora ferma consumando il suo proprio splendore. E i solitari, gli oziosi, gli snervati, quelli che tormenta un desiderio nascosto, quelli che per infinite strade han da essere o viandanti o rematori, pensano con un’invidia piena di malinconia a que’ due che stanno dentro la casa tacente, che han dormito, sognato, amato, nel nascosto rifugio, durante un lungo pomeriggio di sole. Poi l’invidia si fa curiosa; va, spia, guarda, parla, racconta... Il basso tetto, chiuso fra gli alberi del giardino lacustre, diviene il luogo dolce del peccato, che turba le immaginazioni altrui, che muove per tutto all’intorno una leggenda d’amore. Traverso il chiuso cancello corrono sguardi furtivi; a quelle finestre incantate volano molti sogni altrui; tutto in quella casa innocente par stregato e colpevole, poichè da ogni ramoscello, da ogni pietra, pende il segreto voluttuoso di due giovinezze che si amano. Nelle sale affollate si parlò di quella casa taciturna; qualche giovine signore, noiato della vita familiare, spinse l’audacia de’ suoi propositi fino a tentar l’assedio della bella innamorata; qualche vecchia zitellona pettegolò di que’ due con la più verde bile; qualche ragazza vaporosa, nel letto insonne, rivide a piè del giardinetto le straboccanti spalliere di rosai e quel cespo di gelsomino che abbracciava le finestre semichiuse; qualche moglie, vedova nella settimana, quando fu la sera del sabato, prima di spegnere il lume, ne tormentò il marito sonnacchioso... E tutto questo fece sì che per la riva lacustre, in un cerchio nuovo di persone, si propagasse quell’indiscreto cicaleccio che aveva sin dal principio divulgato gli amori di Arrigo e di Tatiana, quando la lieta schiera dei Mammagnúccoli s’era prima commossa per l’avventura di costui. Fu, tra gli altri, un barone, ch’era in villa con la sua vecchia madre, un barone dalla barba crespa, giunto al limite dei quarant’anni con un cuor d’adolescente, il quale molto s’ingelosì di quell’idillio estivo, tanta inquietudine d’amore lo strinse per la bellissima cantatrice. Non di rado egli la vedeva nel giardino, più spesso la udiva lanciare in alto i suoi armoniosi trilli, poichè il possesso baronale confinava con il giardino degli amanti e non v’era tra l’uno e l’altro che un muricciuolo di poche pietre. Il barone Silvestro Piaggi era un uomo alto e complesso, con un bel volto roseo, da buon fanciullone, cui cresceva di giovialità l’ornamento della barba bionda e crespa. Onoratissimo e ricchissimo, era stato saettato senza mercè dalle ragazze da marito; ma per un amor filiale più devoto che ogni altro affetto non s’era mai voluto ammogliare, temendo che una sua propria famiglia lo costringesse a mancare d’assiduità presso la vecchia madre. Quest’uomo però s’innamorava; e poich’egli possedeva in massimo grado ciò che alle donne sommamente piace: la cavalleria de’ modi e l’estrema prodigalità — l’amore nella sua vita era stato una cosa gioconda. Per corteggiare la Ruskaia il barone Silvestro riprendeva quella sua grande aria battagliera del bel tempo quand’era uno smilzo ufficiale di cavalleria; la dardeggiava d’occhiate lusinghevoli, pareva quasi che volesse prosternarle ai piedi, con un sol atto loquace, sè stesso, il suo denaro, la sua più che devota urbanità. Questo non dava noia alla Ruskaia, e nemmeno ad Arrigo, il quale anzichè adontarsi, mostrava di questi pericoli una singolare compiacenza. Lungo quel muricciuolo, quante mai volte passava il barone Silvestro! La sua bella barba crespa brillava nei raggi di sole con vera magnificenza. Un giorno egli salutò. La Ruskaia sorrise. Tutte le cose del mondo hanno la lor ragione d’essere: quel sorriso forse voleva dire: «Chissà?...» Chissà?... È tanto pieno di mistero l’animo d’una donna innamorata! Ella prova talvolta il bisogno di mescere nel proprio sentimento anche la sottile gioia che le proviene dal deridere un altr’uomo. Poi, ad un tale che saluta, — un signorotto nel suo feudo — perchè mai non sorridere? Questo sorriso è lieve come l’innocenza; nulla promette, nulla impedisce; passa, vola via, non tocca, ma dice ambiguamente: «Chissà...» La vita è così bizzarra, e tutto in fin de’ conti può succedere!... Anche il bel caso che un grande amore vada a finire in cenere. Allora può essere utile aver detto: «Chissà...» E poi è dolce, per la donna un poco frivola, dormire nel proprio letto con un amante amato, ma col pensiero d’un altro — un signorotto nel suo feudo — che per amore di lei veglia e sospira... È dolce cosa il pensare; «C’è chi guarda mentre mi pettino le treccie alla finestra; c’è chi trema se passo nel giardino in vestaglia... Sì, quel barone mi fa un po’ ridere con la sua testa calva e la sua barba bionda... ma la gente del paese lo saluta e lo inchina come un piccolo re. In fondo vorrei sapere perchè Arrigo non è geloso? Anzi non fa che dormire. Quanto dorme questo Arrigo nei giorni d’estate!...» Una volta finalmente il barone Silvestro osò varcare la soglia. Co’ suoi quarant’anni e la sua barba crespa era tuttavia confuso come un collegiale. Arrigo era in pigiama e s’affrettò a vestirsi. Lo ricevette la Ruskaia, tutt’accesa in volto perchè aveva remato per due lunghe ore sotto il sole. Quand’era in impaccio, ella rideva. Per prima cosa dunque si mise a ridere apertamente, con quella sua boccuccia di bambola piena d’una grazia inesprimibile. Nella saletta faceva un po’ scuro. — Vi prego, sedete, barone. Egli rimase in piedi. Non gli pareva quasi vero d’esser lì. Anzi dimenticava la ragione della sua visita. Finalmente se ne risovvenne. — Sono incaricato... — L’avevano incaricato d’una commissione. Le nobili dame della beneficenza l’avevano mandato a parlamentare con la cantante dalla voce d’oro. Si stava preparando una gran festa, nel teatro d’un albergo vicino, a favore di certi derelitti... Questa recita si faceva tutti gli anni. Vorrebbe cantare la Ruskaia? Non dicesse di no! La patronessa era donna Claudia del Borgo; canterebbe la marchesina Farulli, donna Francesca Monteguti... Poi si dava pure una commediola... Non dicesse di no! Che orribile pronunzia aveva in francese quel barone Silvestro!... — osservò fra sè stessa la Ruskaia ancor prima di pensare se le convenisse accettare o no. Aveva inoltre in tutta la sua grossa persona qualcosa d’artefatto e di comico. No, stava meglio di lontano, con la sua barba crespa dietro il muricciuolo. Pensò ch’era stata sciocca nel lasciargli credere... — Noi siamo vicini di casa, per mia fortuna... — egli disse con un tono galante. — Oh, che fortuna! — Tutte le mattine, alla finestra, la intravvedo... — Già, già... Era un po’ inquieta, forse irritata; le dava noia quel garbato e melenso corteggiatore. Queste fervide slave sentono l’uomo e la maschilità dell’uomo in un modo singolare. — Eppure ho dovuto attendere fino ad oggi l’occasione di poterla conoscere. — Certo... — E gli sorrise, come la prima volta, nel giardino. Sopraggiunse Arrigo. Il barone gli si presentò. Uomo affabile, cavaliere di gran mondo, poteva impacciarsi davanti ad una bella donna, ma in ogni altra circostanza rimaneva padrone di sè. La proposta venne ripetuta, e dopo molta esitazione, persuasa dalle insistenze di Arrigo, la Ruskaia finì con accettare. Ma, Dio buono!... questo impegno la impensieriva... Da varii mesi non aveva cantato più. Il barone disse: — Oh, non raccontate queste cose al vostro vicino! Già, ma quelli erano trilli all’aria aperta; ora bisognava che si ripreparasse. — Insomma ho promesso: canterò. Ed eccoli tutt’e due più vicini a dame e signori, nella promiscuità d’un grande albergo, sotto l’ala della buona Fata Beneficenza. Ecco lei, festeggiata, in mezzo a crocchi di signore ciarliere, ferventi nell’opera intrapresa, tutto il giorno in faccende, liete più che mai di parere una volta quel che non erano, esibendosi dalla scena a spettacolo d’una folta platea. Ed eccole, curiose di questa cantatrice straniera che trascinava dietro sè una storia d’avventure clamorose, che aveva durante l’inverno messo a rumore la città col suo canto e con la sua passione. Piacque; la trovaron simpatica, spiritosa, fina; si divertirono a stare con lei, a respirare un poco di quella polvere dorata, prestigiosa, che sembrava ravvolgerla di splendore, fatta di tante cose dissimili: dall’applauso che aveva suscitato intorno a sè nella sua vita errante, all’oro che le avevano cosparso ai piedi e sul quale aveva camminato; da quella caparbia onestà ch’era talvolta un nodo inestricabile, alle strane lussurie di chi la credevan capace nella sua coltre di bella donna errante. La fecero cantare, l’applaudirono, la lusingarono, le fecero crocchio intorno, verso l’ora del tè; infine, se non si fosse intromesso qualche burbero marito, sarebbero fors’anco giunte ad invitarla nelle case loro. Per riflesso, Arrigo profittava delle festose accoglienze che dappertutto si facevano alla Ruskaia. Da lei si teneva più lontano che gli fosse possibile, per non ledere le buone apparenze, e il mondo, che, se ciò gli garba, indulge talora fin oltre il necessario, fingeva d’ignorar persino che fossero amanti e che avessero in riva al lago una dolce villa dalle finestre semichiuse. Durante le prove della recita egli se ne stava in disparte, nel grande atrio dell’albergo, talvolta nel giardino, mostrandosi pieno di garbo e di gentile modestia. Le signorine gli ronzavano intorno, a sciami, curiose di lui, per quel che ne avevano inteso raccontare a mezza voce durante l’austerità dei pranzi familiari. Fra i crocchi di signore si discuteva intorno alla sua persona. Era giunto fin lì quell’appellativo di «bel Ferrante» che gli avevano aggiudicato nei palchi del teatro, quando il suo nome si era diffuso per le prime volte, congiunto a quello della Ruskaia. Senza paragone infatti egli superava i due seduttori più avventurosi della stagione lacustre: Cencio Baracco, vincitore di regate, e Massimo Randa, che ogni sera traversava il lago in lancia a benzina, per un legame che aveva su l’altra sponda. Li vinceva di bellezza e di novità, ma era forse un po’ troppo virile per il gusto di quelle dame raffinate. Gli mancava senza dubbio quell’aria etica, quel pallor giallastro di cattiva digestione, quell’andar stanco su le gambe flosce, che preannunzia la spinite lontana; molto insomma gli mancava di quel che piace per lo più nei giovini signori moderni, e che aggiudica loro talvolta la fama d’irresistibili. Ma con la svelta persona, col bel collo muscolato, con la maschera del volto precisa e chiara, parlava dirittamente ai sensi di talune, che non potevano impedirsi dal risentire una certa piacevole molestia in vicinanza di un così bel dominatore. Egli d’altronde non era, o non pareva essere, vano. Più oltre spingeva i suoi disegni che a ferire il cuore di questa o quella ammiratrice; a men difficili tempi serbava gli oziosi tornei d’amore. La sua battaglia era di quelle che si combattono con taciturna pazienza, ed egli non vedeva davanti a sè che una meta, necessaria, lontana. Cacciarsi a forza di gomitate abili dentro quel mondo restìo: questa era per intanto la sua fatica. Ed a ciò, tutto gli doveva servire; anche la bella voce della Ruskaia, anche le interessate cortesie del barone Silvestro, anche i pettegolezzi ch’egli sentiva correre intorno come lucertole fra l’erba, ed anche le non ambigue punzecchiature di donna Claudia del Borgo, che patrocinava la festa. Questa donna Claudia era già oltre nell’autunno della sua famosa e dissoluta bellezza; ma non con gli anni s’addormentava il suo tumultuoso cuore; non meno piacevanle con ardore le tempre giovini e salde per essersi alquanto sciupata ne’ suoi lunghi vizi. Un marito inconcludente, ricco senza confine, era stato il mecenate silenzioso de’ suoi folli capricci. Giovine, si era data a chi la voleva, a chi le piaceva; si era data nei modi più strani e più perversi, con una volubilità incontentabile. Aveva un tempo scandolezzata la città tenendosi per staffiero il più bello fra i cavallerizzi d’Ungheria, ed a quanti mormoravano, a quanti inorridivano, aveva risposto aprendo le sale del suo palazzo ad una ospitalità grandiosa e fastosa, ben pensando che il mangiare, il bere, il far danzare, il far vivere a scrocco, son l’offe che meglio debellano le infurianti maldicenze altrui. Ma ora, invecchiata e non stanca, metteva un certo studio nello scegliere per i suoi ultimi banchetti gli intingoli più saporiti. Aveva quasi una smania virile di volersi appagare ogni capriccio, ed in certe riunioni di bellimbusti era corsa voce che donna Claudia fosse qualchevolta liberale. Un tenente, che aveva giocato e perduto sino a rischiar le spalline, s’era salvato così; molti sconosciuti eran entrati in società per la sua camera da letto. Poich’ella, non potendo scendere fino a loro, li innalzava talvolta fino a sè. Inoltre donna Claudia s’occupava di maritaggi, e quando era stanca d’un amante, spesso gli procacciava una moglie tra la schiera delle nobili signorine che teneva in sua protezione. Almeno sotto un certo rispetto, erano per tal modo ben sicure di non imbattersi male. Piacere a donna Claudia poteva insomma non essere un danno per tutti quelli che fossero nei panni d’Arrigo. Ed egli lo sapeva. Questo pensiero gli venne istintivo, il primo giorno ch’ella lo guardò. Vi sono certe donne le quali osano guardarci con maggiore insolenza che non guardiamo noi la più desiderata fra le donne. Anzi egli ebbe di quell’antica esperienza una sottile paura. Ma nei giorni successivi sentì nascere il capriccio nell’animo di quella donna dissoluta, e con la sua borghese abitudine del calcolare, súbito valutò il profitto che a lui ne sarebbe derivato. Ella certo lo avrebbe levato sopra uno scudo fin nelle sale del suo palazzo, lo avrebbe difeso e fatto ricevere in quel mondo chiuso. Quanto alle chiacchiere della gente?... bah!... egli non poteva salire che per mezzo d’una frode: — qualunque fosse, l’avrebbe senza scrupoli consumata. Donna Claudia se l’era un giorno fatto presentare dal barone Silvestro dopo le prove della recita, ed or amabilmente si compiaceva nel punzecchiarlo con il suo spirito pieno di vivacità e d’ironia. Nel corso di quelle settimane Arrigo aveva strette molte conoscenze, ma poichè si trovava in condizione assai difficile, dato il suo legame con la Ruskaia, ne usava con molta cautela, per non urtare alcuna suscettibilità. La bella Tatiana era gelosa. Se un poco di stanchezza stava per nascere in lei, questi fatti la dissiparono. Ella prese in odio tutte quelle che guardavan Arrigo con troppa insistenza, e molte volte s’ingelosiva senza ombra di ragione, poichè la donna innamorata smarrisce del tutto il senso del suo proprio valore, se non quello della sua propria vanità. Ogni sera, nella intima villetta, furon alterchi e lacrime. Arrigo riusciva sempre a rasserenarla con qualche abile carezza, con qualche parola persuasiva; ma il giorno dopo si era da capo. Diveniva irascibile, sospettosa, inquieta; durante le ore che passavano all’albergo non lo perdeva d’occhio un momento; se usciva solo, d’un tratto gli capitava presso, ed inoltre aveva ordinato alla domestica di non consegnare che a lei sola qualsiasi lettera giungesse nella casa. Una volta che donna Claudia era stata oltre il consueto provocante con Arrigo, la Ruskaia fu sul punto di fare i bauli e andarsene via, piantando in asso le dame del Comitato, le prove, la recita di beneficenza. Quel giorno gli occorse non poca fatica per riuscire a calmarla. Frattanto il buon barone Silvestro, designata vittima di quei malumori, ebbe a ricevere un sacco di sgarberie. Ma non disperò. Sapeva che tutto viene a suo tempo: il frutto su l’albero acerbo e il bacio d’amore sui labbri della donna restìa. Se il giorno della recita avesse tardato ancora, certo la commedia non sarebbe stata a lieto fine. Quelle dispettose nobildonne si mettevan allegramente di puntiglio nel provocare la gelosia della cantatrice, sicchè facevano ad Arrigo più moìne che mai. Donna Claudia, superba e sfacciata, non se ne dava per inteso. Con quell’aria di gran dama che non aveva mai perduta nelle più scapigliate avventure, civettava con Arrigo sotto i lampeggianti occhi della Ruskaia e pareva divertirsi mezzo mondo a veder l’impaccio del perplesso amante. Gli aveva detto un giorno: — Mi piacerebbe invitarvi da me, in villa; ma forse la vostra piccola amica non ve lo permetterebbe... E rise, con il suo riso pieno d’insolenza. Poi, un altro giorno: — Vado in città una volta la settimana, il giovedì, col treno delle undici... Arrigo finse di non comprendere. Gli parve che anche agli uomini fosse talvolta mestieri difendere la propria onestà. Ma quando la Ruskaia ebbe cantato, nel giorno della recita, la scena fu coperta di fiori. Per farle una cesta, il barone Silvestro aveva mietute le più belle aiuole del suo giardino. E la pagaron d’applausi per quanto l’avevano fatta soffrire. Dopo d’allora nessuno li vide più. Eran tornati a vivere nascosti nella villa odorosa di gelsomini. L’autunno intanto cominciò a buttare i suoi tappeti gialli su le inclinate praterie della montagna; ricamò di assiderati brividi le calme acque, all’avvicinarsi della sera. Le aperte magnolie si sfasciarono, caddero dai rami alti, nel fogliame lucido. Le rose delle spalliere si sfogliarono fiore per fiore su la bianca ondata, e si dispersero via, per il lago, tra le foglie secche, ad una ad una. E gli amanti ritornarono in città. La Ruskaia fu scritturata per la nuova stagione; Arrigo riprese a poco a poco una maggiore libertà. Ormai gli pareva che la sua casa fosse troppo modesta, sicchè prese un altro appartamento di gran lunga più lussuoso e si fece servire da un domestico in livrea. Occorreva un certo apparato per ricevere Donna Claudia e tutte l’altre che verrebbero in séguito. Gli usurai cominciavano con fargli credito, vedendolo vivere in mezzo a gente danarosa, e quando alle scadenze non provvedevano le carte, era Tatiana che pagava le cambiali. Ma non più con la serena incoscienza delle prime volte. Ora si rabbuiava, piangeva discretamente miseria, e v’erano già state alcune discussioni aspre, sopra tutto per le spese dell’appartamento che a lei parvero eccessive. Allora egli la fece da millantatore, s’offese, giurò che l’avrebbe ripagata, e con avanzo, d’ogni denaro avuto, poi, per qualche giorno, scomparve. Ma Tatiana lo tornò a cercare, sebbene fosse stata un momento in dubbio se profittare di quell’occasione per accogliere l’offerte allettevoli del barone Silvestro, che aveva, di fronte alle donne, due supreme virtù: la pazienza e il denaro. Tatiana certo non era interessata; ma spendeva per i suoi abiti non meno di cinquantamila lire all’anno; adorava i gioielli e se ne stancava presto, il lusso, lo spreco erano per lei più necessari che il pane. Da un anno in qua i suoi guadagni si erano ridotti quasi a nulla, poichè le paghe d’un teatro italiano, per i suoi bisogni, erano ben povera cosa; da Parigi il suo banchiere, ad ogni richiesta di denaro, le mandava lettere quasi paterne, avvertendola che il suo conto corrente scemava con una rapidità spaventosa. E insomma, se l’amore può, nei proverbi, contentarsi d’una capanna, la parola d’un banchiere previdente riesce non di rado a sconvolgere tutto un ordine d’idee. Quel barone Silvestro, dalla barba crespa, era infatti un po’ ridicolo, con la sua grande aria da re dei burattini, — ma che appoggio serio per una piccola donnina, sola nel mondo, con i suoi capricci e con le sue guardarobe favolose!... Infine la Ruskaia rifletteva su ciò, molto seriamente, benchè non sapesse risolversi ancora. Una mattina Arrigo stava dormendo, quando il domestico lo venne a svegliare, portandogli un biglietto da visita ch’egli squadrò con occhi assonnati. Nello stesso tempo s’intesero due nocche battere familiarmente all’uscio. — Sono io, — disse dal di fuori una voce, che gli parve di riconoscere per quella di Beppe Cianella. — Oh, venga pure avanti! Con urbanità si scusarono a vicenda, il primo d’essere venuto, l’altro di riceverlo stando in letto. Arrigo notò che per la prima volta il Cianella gli dava del tu. — Sono venuto per due motivi: uno... — Ma si segga! — Dimmi siéditi; è più semplice. E siccome devi aver sonno, cercherò di spiegarmi in fretta. Arrigo aveva già compreso: la visita mattiniera, il tono, quella familiarità... poi se l’aspettava da un pezzo. — Comincerò dunque dalla cosa peggiore. Vengo a seccarti per un prestito. Se puoi, mille grazie; se no, poco male. Arrigo accese una sigaretta. — È questione di cifre, — disse con un sorriso amabile. — Cinquemila, — precisò il Cianella, che amava di andar per le spicce. E si mise a contemplare la fisionomia del suo recente amico. Arrigo meditò qualche attimo. — Ci posso arrivare forse, ma con un po’ di fatica, — disse. — Al momento non le ho, ma prima del pranzo spero di fartele avere. — Grazie, — rispose l’altro con semplicità, come se le avesse già intascate. Poi si credette in obbligo di qualche spiegazione. — Ho presa una batosta la notte scorsa. Quel diavolo di Sacco Berni ci ha messi tutti sul lastrico. Sapessi che smazzate, mio caro! È tornato dalla campagna con una fortuna più spaventosa che mai. Invece io, da un mese in qua, non faccio che perdere. Pazienza! Intanto ti ringrazio. Sono venuto da te, sapendo che hai buon cuore e che sei un uomo discreto. Ma non son venuto solo per stoccarti... Fece una pausa ed assunse un’aria di protezione: — Totò Rigoli mi ha parlato della tua presentazione al Circolo; mi ha domandato se accetterei di firmare la tua scheda insieme con lui... sopra tutto in questo momento che ho la carica di segretario temporaneo. Totò Rígoli ti vuol bene. Ed io, naturalmente, ho accettato. Firmerò oggi stesso la domanda e mi metterò a fare una campagna in tuo favore. Sai, qualchevolta, per ricevere un nuovo socio, sollevano mille difficoltà... Nel caso tuo ci sarà da combattere, perchè hai suscitato molte invidie... A proposito come sta la Ruskaia? La Ruskaia stava benissimo, e pagò lei, naturalmente, le cinquemila lire che occorrevano a Beppe Cianella perchè questi accettasse di presentare al Circolo l’amico dell’amico Totò. E l’urna, talvolta ingiustamente crudele, fu propizia a quest’uomo che aveva il coraggio di credere nella fortuna. Ebbe una votazione assai contrastata, ma per un piccolo eccedere di palle bianche gli si apersero le porte di quel Circolo nobiliare che per molti anni era stato il privilegio di una casta veramente appartata. Le barriere più alte cadevano davanti al passo dell’avventuriero; sopra il suo nome si era combattuta una di quelle piccole battaglie mondane che decidono l’avvenire d’un uomo. Che importava a lui se dietro le sue spalle alcuno mormorasse, alcuno gridasse pure al sopruso? Li avrebbe fatti tacere, li avrebbe vinti, o con la persuasione o con l’arroganza, perchè poteva ormai dividere gli utili dagli inutili e gli amici dai nemici. Allora fece un bel bucato di tutta la sua roba sporca, e guardando con fiducia nel limpido avvenire disse per la prima volta a sè medesimo: — Si arriverà! XIV Donna Claudia s’era pagata il suo capriccio. Se l’era pagato senza troppe cautele, da donna esperta e frettolosa. Non fece che scrivere nel suo catalogo mentale questa riflessione molto semplice: «Uno di più.» Era fra quelle donne coraggiose che non tentano di mascherare dietro vane commedie sentimentali quella perenne voglia del mutamento che in verità costituisce la sola ragion d’essere di tutti gli amori galanti. Si era detta: «Mi piace»; lo aveva lasciato comprendere a lui, comprendere a tutti, poichè le sue stoltezze eran ciò che di più serio aveva saputo commettere nella vita. Non le rincresceva d’invecchiare, perchè non portava con sè nella vecchiezza nessuna rinunzia, nessun rammarico; si era dispensata, goduta e lasciata godere fino al limite del suo desiderio; tutte l’ore trascorse della sua vita le parevan degne d’esser rivissute. Nella penombra d’una camera ella poteva nascondere ancora il numero soverchio degli anni e sapeva qualche malizia di vecchia gatta, che meglio d’una fresca inesperienza poteva innamorare i giovini. Se il volto e la gola sfiorivan un poco, le rimaneva pure quel superbo seno che nessuna gelosia d’amante era mai riuscita a farle bastevolmente coprire negli abiti da ballo, e quella cintura pur salda nella strettezza delle reni, che tanti spasimi aveva contenuti, senza disfarsi nella lascivia, senza patire dalla voluttà. Da troppo tempo Arrigo era fedele alla sua dolce Tatiana; aveva sete di bere ad un calice più amaro, e, quando la prima volta s’incontrarono, Donna Claudia lo trovò impaziente. Sorpresa e lusingata di piacergli, cessò da quel sarcasmo brioso con il quale si preparava a difendere la sua maturità contro le diffidenze dell’uomo giovine. Ed anche gli fu riconoscente, perchè nulla è più triste per la donna che lo svestirsi con paura sotto gli occhi attenti d’un uomo al quale avrebbe potuto piacere follemente una decina d’anni prima. Donna Claudia cominciò con invitarlo a pranzo; nella sua casa era sempre tavola bandita, gaio spirito e libera ospitalità. Varia e dissimile gente vi conveniva insieme, accomunata sotto la tutela del gentilissimo blasone che gli avi di don Antonio del Borgo avevan recato di Spagna per il tramite d’un maritaggio e per l’onore d’una pace conchiusa. Ma don Antonio lo avrebbe ormai lasciato perire, poichè la sua prodiga moglie s’era invano affaticata per fargli nascere un erede. Arrigo si appropriava con rapidità le usanze delle persone fra le quali era condotto a vivere; dalla bottega paterna alle sale dei palazzi, per un veloce cammino, si era tolta di dosso tutta la reminiscenza plebea che portava dal suburbio e dalle basse frequentazioni; un nitido signore sbocciava in lui, spontaneamente ricco d’eleganze, piacevole in tutto a conoscersi, tanta era la padronanza ch’egli aveva sopra sè stesso e la fede ambiziosa nella meta del suo cammino. Pochi mesi bastarono per assuefarlo a quella vita nuova, come se l’avesse vissuta fin dall’infanzia. Forse, nel compiere quell’ascensione, il suo sangue si risovvenne che non era sangue di plebe, se tale oscura memoria può non morire traverso la discendenza ed i casi alterni della vita. Da quelle sale fu condotto in altre numerose, ove strinse amicizie, intraprese piccole avventure, coltivò gli uomini e le donne che potevan esser utili a’ suoi disegni, ebbe l’accortezza di parer modesto e di non suscitare alcuna gelosia. Poichè sapeva di avere una cultura manchevole, pazientemente prese ad istruirsi, celando le ore dedicate allo studio come se fossero una colpa, e spiegando nelle sue dense giornate una infaticabile attività. Si volle raffinare con ogni diligenza, per un naturale amore della raffinatezza che dormiva in lui. Dietro la maschera impassibile del suo volto s’indovinava talora la febbre dell’anima irrequieta; ma una tirannica volontà soggiogava tutte le sue passioni ed egli provava quasi una iraconda gioia nel soffocare le ribellioni dell’istinto. Di sè medesimo era splendidamente l’arbitro il maestro ed il soggiogatore. Qualchevolta eran battaglie aspre contro una certa sua naturale arroganza, che mal si fletteva nello sforzo dell’adulazione; qualchevolta era forse il bisogno di trovare un amico vero, un’amante vera, e narrargli la sua piccola storia; qualchevolta era tutto il suo essere che si torceva sotto la fatica di quella fredda e scaltra commedia; ancor più, quando per le sue vene, in certi giorni, in certe ore, passava una prostrazione fisica più dolorosa d’un male, ed egli sentiva in sè quasi la remota paura, la buia coscienza d’un pericolo che sovrastasse alla sua vita. Gli pareva di avere in sè una fiamma serpeggiante, o talora qualcosa di viscido, che salisse, salisse, fino alla sua gola, fino al suo cervello, e talvolta un ronzìo, un rombo, un bisbiglio, uno strepito di cose lontane, imminenti, aspre, dolci, più forti e più vive che il sogno della sua mediocre vita. Qualchevolta un corpo femminile, pur non desiderato, lo turbava così profondamente ch’egli sentiva tutto il suo grande imperio svanire in un malessere senza nome, comunicargli un dolore acutissimo, e il vento, l’ondata, la fiamma, il gorgo, la vertigine, mille sensazioni confuse, calde, logoranti, gli occupavano lo spazio interiore dell’essere, prostrandolo in una specie d’annientamento. Poi si vinceva e rideva. Tornava con impeto a combattere la sua battaglia illecita, mettendo l’ambizione sul taglio della spada e l’onestà nel fodero. Per il denaro lottava, nelle notturne ore assidue sul tavoliere conteso, facendo pro’ di tutte le forze contro le debolezze altrui. Pericolando camminava su l’orlo dei precipizi, reggendosi a quel filo tenue che la fortuna tende agli spiriti audaci. Dopo una lite più acerba delle altre, Arrigo e la Ruskaia si erano abbandonati, senz’essere ben certi di non amarsi più. Ella si era lasciata sfruttare senza lamentarsene, fin quando Arrigo era stato per lei un amante appassionato e fedele. Ma dopo il suo ritorno in città, troppo egli la trascurava e troppe ore le lasciava di solitaria meditazione. Le sue apparizioni presagivan per lo più qualche pagamento vicino, e la Ruskaia finì con dirsi ch’egli l’avrebbe rovinata in poco tempo senza nemmeno serbarle un poco di riconoscenza. Aperse gli occhi, e finalmente si trovò ridicola. Da ultimo, le giunse una lettera anonima, che le rivelava in modo esplicito l’avventura di donna Claudia con Arrigo, dandole, perchè ne fosse certa, i più minuti particolari sul luogo e su l’ora in cui solevano incontrarsi. Già sospettosa, ella non ebbe che raccoglierne la prova. Si mise al classico agguato, e donna Claudia, che in vita sua s’era trovata in ben altre contingenze, riuscì con la sua presenza di spirito ad evitare uno scandalo. Fra Tatiana ed Arrigo fu invece una rottura liscia, senza lacrime, senza furori, come fra gente già preparata da un pezzo a doversi lasciare; gente calma, che comprenda la necessaria parabola delle cose umane, e partendo si ringrazi a fior di labbro d’aver insieme recitata per qualche tempo, con perfetta sincerità, la commedia dell’amore. Allora il barone Silvestro si fece animo, ed ebbe finalmente ragione d’aver sperato nella sua fedele pazienza, nella sua devota urbanità. Gli uomini ricchi e le donne belle finiscon sempre con intendersi fra loro. Su questo avvenimento si fecero grandi ciarle nei ritrovi dei Mammagnúccoli, nei teatri e nelle sale dove Arrigo incominciava ad essere invitato con grande favore. La rottura fu spiegata in vari modi, e non tutti benevoli per Arrigo. Ci fu pure chi compianse la Ruskaia, credendola sempre innamorata di lui. Ma ormai ch’ella s’era scelto a protettore un uomo da bene, tutti gli antichi spasimanti le si rimisero alle calcagna, ed il suo ritorno alla scena fu per lei una serata trionfale. Arrigo era in teatro quella sera, disinvolto e sorridente. Lo si vide pure applaudirla dal palchetto di Clara Michelis, la ricca vedova sentimentale ch’egli stava per avvolgere nelle sue reti, facendole una corte insidiosa e paziente. L’intermezzo di donna Claudia non sarebbe durato a lungo. Ella d’altronde non faceva per lui, perch’era troppo sfacciata, troppo accorta, e, durante le ore d’intimità, troppo esigente nell’opera delle amorose fatiche. Inoltre a lui pareva che avesse un cuore di pietra! Purtroppo non avrebbe compreso mai, quella incorreggibile marchesa, come il dovere d’una donna vecchiotta fosse quello di soccorrere un bel giovine, senza nemmeno farselo dire!... Insomma, ella ormai gli dava sinceramente ai nervi, ed anche la sua bella Tatiana ricominciava con dargli ai nervi in altra guisa, dopo qualche mese di separazione. Gli era venuto il rimorso d’averla troppo tormentata quand’era sua, ed insieme il dubbio di essere stato uno sciocco nel rinunziare a lei. Il barone dalla barba crespa l’aveva ripristinata nell’antico splendore. Ella viveva ora con magnificenza, con sperpero; la si vedeva dappertutto, a fianco del suo barbuto barone, che pareva sdilinquirsi a guardarla negli occhi. Egli le aveva preso un appartamento, del quale si dicevan cose mirabili, aveva messo un’automobile sfavillante a’ suoi servigi, le mandava in casa un gioielliere di gran fama che aveva libertà di suggerirle i desiderii più costosi, e quantunque il barone fosse ricchissimo, la buona gente si rallegrava già pensando che sarebbe finito egli pure sul lastrico. Tali donne, quando non amano, divengono barbaramente venali. Si diceva che Rafa Giuliani le avesse regalata una collana di ventimila lire per una visita di mezz’ora; Carletto Santorre giurava d’aver ricevuta una promessa; il conte Aimone dell’Ussero le faceva proposte regali pel tramite della propria mezzana; Paolo del Bassano torceva la sua bocca feminea quasi per dire con un sorriso da irresistibile: — Peuh, se volessi... E tutto ciò esasperava i nervi di Arrigo, tanto più che gli amici si credevano in dovere di punzecchiarlo. Qualchevolta gli avveniva d’incontrarla per istrada, nei negozi o nei teatri. Un turbamento simultaneo li rimescolava entrambi ed evitavano di guardarsi come due che avessero in cuore la reminiscenza d’una segreta colpa. L’uno e l’altra si studiavano di atteggiarsi alla maggiore indifferenza; ma non era punto così, ed il buon barone Silvestro lo sapeva tanto bene, che ostentava con Arrigo una grande freddezza e quasi quasi evitava di salutarlo. Tatiana del resto era stata una buona donna. Avrebbe facilmente potuto vendicarsi di lui, raccontando qualche piccolo particolare intimo, assai grave per il bel Ferrante. Ma evidentemente invece aveva taciuto, e spesso, mentre cantava, i suoi occhi lo cercavan dalla ribalta come nei primi tempi del loro amore, quand’eran l’uno per l’altra due sconosciuti. A lui avveniva di sentirsi penetrare da quella voce fino a soffrirne, o d’appoggiarsi al parapetto d’un palco, stringendosi le tempie fra i pugni chiusi, e di scordar sè stesso nel guardarla smarritamente, con un turbine di memorie nel cervello e nelle vene. Aveva la tentazione terribile di darle per l’ultima volta un caldo bacio; gli avveniva di provare una commozione sciocca davanti ai piccoli oggetti, alle improvvise memorie che gli erano rimaste di lei. Purificata, rinnovata, più che mai desiderabile, quest’amante perduta lo innamorava un’altra volta di sè. Una sera fu lì lì per accostarla in una contrada semibuia. Le scrisse pure alcune lettere, che poi si vergognò di mandarle. Dal palco alla scena, si guardarono spesso, turbati entrambi, come se fra loro, per l’aria, fosse passata una carezza. Il barone Silvestro aveva notato qualcosa e vigilava come un can da guardia. Ma l’amore sa essere più scaltro della gelosia. Egli le mandò un mazzo di violette di Parma, poichè c’era un profumo di violette nella loro storia d’amore. Poi, una sera, verso l’ora in cui l’impeccabile barone Silvestro soleva trovarsi al pranzo della sua vecchia madre, non sapendo come altrimenti parlarle, si diede animo e le telefonò: — Sei tu? — Chi tu? — Tatiana? — Ah... — Senti... — No, no! — Voglio vederti... — Mai più! — Vieni da me domani, dopodomani, quando potrai... — No. Che sciocchezze! Lásciami... — Tatiana!... Ella vi andò, naturalmente, e, come spesso avviene, tornarono amanti nascosti dopo esserlo stati con piena libertà. Si ridiedero gli stessi baci e godettero nel trovarvi un pericolo grande, una insolita paura, come in tutte le passioni che hanno il pregio d’essere vietate. Ma la cosa non potè rimaner secreta; troppi erano i gelosi che stavano all’erta, e ci fu qualche maligno ciarlatore che ne diede sospetto al barone. Questi non giunse ad averne la certezza, ma l’odio contro il bel Ferrante gli si fece così vivo, che l’animo battagliero dello smilzo ufficiale d’un tempo rivisse nel pingue gentiluomo, e con acre fermezza egli si propose di offendere al primo incontro il suo bel competitore. Al Circolo, una sera, si parlava di due ch’erano in procinto d’esservi accolti come soci o respinti, secondochè lo scrutinio avesse dato ragione ai loro spalleggiatori o piuttosto a quelli che si erano accordati per volerne l’esclusione. Uno de’ due, Giorgio Levi, aveva contro sè il peccato della sua razza, la mala fama d’un patrimonio raccoltogli dal padre con i proventi d’una banca equivoca e la colpa d’aver sposata per convenienza una donna di bruttezza intollerabile. L’altro, Alessio Macchi, era uno scapolo d’età matura, uscito dalle classi plebee con un ingegno solido e rapace, con una volontà possente, cosicchè, tramando abili speculazioni, era giunto a governare arbitrariamente le oscillazioni giornaliere de’ valori di Borsa. Arrigo, preso nel mezzo di questa discussione, ascoltava tanto gli uni che gli altri senza esprimere alcun parere; anzi appariva chiaramente angustiato. Il barone Piaggi s’avvicinò, inframmettendosi nella discussione con certe frasi acri che parevano raschiargli un po’ la gola; nel suo viso apoplettico brillava un’irritazione mal dissimulata ed i suoi gesti perdevano la consueta misura. Squadrò il bel Ferrante bene in faccia, poi disse: — È ora di finirla! Ogni mascalzone avrebbe dunque il diritto di proporsi ormai al nostro Circolo, ed anche la fortuna d’esservi accolto? Perchè mai questa gente vuol essere de’ nostri? Arrigo si fece orribilmente pallido, ma tacque. — Scusa, — intervenne Balbo Verani, vice-presidente del Circolo, — mi sembra che tu esageri un pochino! L’altro riprese con veemenza: — Non esagero affatto! Chi sono questo Levi e questo Macchi? Ebrei, si era d’accordo nel non volerne. Ora passeremo anche sopra questo? E il Macchi? Un ribassista fra i più smascherati, un uomo che ha sempre avute le mani in pasta nelle più nere speculazioni di Borsa! — Non ha torto, — ammise laconicamente il marchese Berrini, con quella voce nasale che dipendeva dal suo malumore cronico. — Ah, no, per Dio, — proruppe il barone. — Dove si andrebbe dunque a finire? Se quelli entrano, io me ne vado. È ora di finirla con questo genere di personaggi che si fan proporre al nostro Circolo dopo aver schivato il Cellulare! Fissò di nuovo Arrigo e soggiunse: — Fra poco, per qualche centinaio di lire all’anno, andremo a raccattare i nostri soci nei caffè o nelle bische dove bazzicano tutti gli avventurieri! Cosa non nuova del resto, perchè purtroppo l’esempio è già dato. Sopravvenne uno di que’ gelidi silenzii, pieni d’attesa e d’ambiguità, durante i quali gli occhi di tutti convergono sopra uno solo. Arrigo si levò, pallidissimo, dominando con la forza de’ suoi nervi contratti una collera spaventosa. — Sono l’unico, — disse con voce rauca di tremito, — al quale sembrano rivolgersi, non le vostre parole, ma la slealtà e l’impostura con cui le dite. Mi vergognerei di scegliere una strada così poco diritta se avessi l’intenzione di provocare un uomo! Levarono i pugni entrambi, ma furono trattenuti, e ci fu in serata uno scambio di padrini. Tutti i telefoni sparsero la notizia tra quelli che ancora vegliavano per i ritrovi della città notturna. Il barone aveva il torto d’essersi mostrato geloso, e molti ne risero. La causa vera dell’incidente soverchiò e nascose il pretesto dal quale era nato. Alcuni opinarono che Arrigo avesse risposto bene, ed egli riscosse in ogni modo qualche simpatia, perchè il barone aveva la fama di un terribile duellatore. Almeno al tempo della sua gioventù, menava certi fendenti spaventosi che scotennavano e sfiguravano. Sarebbe stato peccato per il bel Ferrante! Li condussero la mattina dopo su lo sterrato d’un ippodromo e li misero di fronte, a torso nudo. Faceva un così bel sole, ch’era peccato giocarsi la vita. Ma la rischiava lietamente Arrigo, perchè il barone Piaggi gli rendeva insomma un certo onore incrociando il suo ferro con lui. Simile onore gli rendevan i quattro rappresentanti, fra i quali erano tre patrizi autentici ed un uomo esperto di cavalleria. Quest’ultimo era Lanzo Malatesta, padrino di professione, che gli aveva pure insegnato un colpo al braccio, uno di que’ tali colpi segreti, che fra gli altri difetti possiedono pure quello dell’infallibilità. Lo diede infatti, ma non senza il contraccambio, perchè il ferro del barone, altrettanto infallibile, gli segnò su la guancia sinistra una ferita piuttosto lunga, diritta, elegantissima. E col tempo gliene rimase una bella cicatrice bianca. Questo duello fu la corona d’alloro del suo torneo mondano. Se fino allora taluno l’aveva guardato in cagnesco, armandosi d’una certa diffidenza, per tutti quei punti interrogativi ch’erano intorno al suo nome, adesso che s’era battuto con Silvestro Piaggi e che due gentiluomini s’erano incomodati, con altri due, per condurlo sul terreno, adesso che portava sulla guancia la ferita cavalleresca, nessuno più perdeva il tempo in simili restrizioni, e, per quel tanto che v’è di formale o di bizzarro nelle cose mondane, la taccia pubblica d’avventuriero e di spostato gli era servita ottimamente a consacrarlo gentiluomo. Anzi quella ferita vinse definitivamente il cuore di Clara Michelis, cui egli faceva una corte accanita, ma fino allora infruttuosa. Clara Michelis volgeva sopra i trent’anni, l’età voluttuosa e pericolosa che talvolta nella donna fa sbocciare le più calde primavere del sentimento. Non era del tutto bella, ma il suo pallore, i suoi grandi occhi neri, e quella sua fragilità profondamente sensuale, davano al suo corpo delicato una particolare attrattiva, cui non era del tutto estranea certa leggenda mormorata fra le sue conoscenze, cioè che avesse consunto il marito in pochi mesi di matrimonio, per soverchio amore. Aveva una figlia giovinetta, ch’era tutta la sua passione, poichè la prediligeva con quella tenerezza un po’ maniaca ed eccessiva che si ha per un cagnolino, per una bambola, per un ninnolo; infuori da questo, la sua vita era vuota... oh, infinitamente vuota! Interrotti gli amori clandestini con la Ruskaia, Arrigo si trovava talvolta in impicci assai difficoltosi. Non era certo su Donna Claudia che avrebbe fatto affidamento, sebbene la vedesse vivere in quello sfrenato lusso ch’era quasi un contorno necessario alla sua bellezza sfiorente. Donna Claudia, tutt’al più, rappresentava per Arrigo un’egida provvisoria, una indispensabile introduttrice, poichè per tutte le difficili e vietate soglie si passa in molti casi grazie al favore d’una donna. Ma egli era conscio della sua condizione precaria, e con discernimento e con freddezza si andava cercando per intorno qualche protezione più sicura. Aveva conosciuta Clara Michelis in un salotto e le aveva messi gli occhi addosso, un poco per curiosità, — quella curiosità naturale in lui verso tutte le donne che potessero agevolargli la strada, — un poco perchè subiva egli pure il fascino capzioso della vedova disoccupata. Gli piaceva, gli conveniva e lo tentava insieme. Passava per ricca, forse più che non fosse; la si vedeva poco nei teatri, poco per istrada, non era gran che mondana, ma intorno alla sua vita lievemente misteriosa le chiacchiere del mondo s’erano sbizzarrite assai. Di tempo in tempo la davano per fidanzata; invece la sua vedovanza continuava pertinace. Arrigo le si mise intorno senza ben sapere cos’avrebbe desiderato da lei. Per intanto agognava di possederla, ed aveva pure supposto che fosse più facile cosa. Ma Clara Michelis era fra quelle che studiano ed irritano lungamente la pazienza dell’uomo prima d’uscire dalla propria torre eburnea, disposte a cedere onoratamente le armi. Ella si sapeva ormai vicina a quell’età nella quale prendere un amante vuol dire forse compiere l’atto definitivo della propria storia amorosa, affrontarne forse il pericolo estremo: quello d’innamorarsi davvero. Perciò si valeva di tutte le sue esperienze precedenti. Era già presso a quel punto in cui la donna, particolarmente quella che non fu onesta, anzichè lusingarsi d’un desiderio che la ricerchi, ne dubita o se n’offende, quasichè le spiaccia d’essere considerata una troppo facile preda. Poi, nel rifiuto ambiguo, crudele, esasperante, che provoca le grandi tentazioni e le grandi arditezze, c’è per la donna talvolta un godimento più fine che nella dedizione stessa. Infatti Arrigo s’era incapricciato di lei con una certa esasperazione, e si doleva nel doverselo confessare. La gente, vedendoli molto insieme, già da un pezzo diceva che fossero amanti, quand’egli ancora non era giunto a baciarla più in su che il polso; quel polso nervoso e venato che pareva un minuscolo gingillo nella sua mano forte. Ello lo esasperava col suo profumo, con la sua voce, con la sua maniera di muoversi, di ridere, di negarsi; lo seduceva con tante piccole rarità sentimentali ch’erano in lei racchiuse come in un cofano prezioso. Egli si tormentava di quella instancabile civetteria, come alcuno che avendo gran sete, sol potesse di quando in quando rinfrescarsi le labbra riarse con qualche gocciola d’acqua pura. E si trovaron ancor più attratti l’un verso l’altra dalla passione che avevano per la musica, entrambi. Ella suonava il piano con uno squisito calor di sentimento; egli, curvo su l’arco del violino, curvo su lei, tra il profumo delle sue treccie, l’accompagnava. Nella sala quasi buia, tra il volo delle note, sentivano roteare intorno il vortice della tentazione, piovere nelle pause ambigue il velo d’un incantamento. Talvolta, nel muoversi, nello scuotere leggermente il peso delle sue treccie all’indietro, ella incontrava e toccava il suo braccio, con paura; talvolta il respiro dell’uomo curvo le passava sul collo ignudo, avvolgendola tutta in un freddo e lento brivido. Fra i due candelabri, nel riflesso dell’ebano, pur senza volgersi ella vedeva la faccia di lui, tormentata, piena d’una rabbia virile, che le dava una sensazione fisica estremamente voluttuosa. Passarono tutta la musica da camera che potè mai essere scritta per il martirio degli innamorati, e qualche volta, mentre le sue mani trasparenti correvano veloci su la tastiera, l’archeggio del violino s’interrompeva di súbito, ed una bocca bruciante le cercava, il collo, tra le radici dei capelli, con una voglia rabbiosa di mordere. Qualche volta lo vedeva in ginocchio, supplice come un bimbo. Le sue vestaglie di seta facevano appena un morbido fruscìo d’ala, nel fuggire. Poi, nell’altra stanza, rideva, rideva, con la gola piena... Dirgli di sì... come sarebbe stato facile! Ma forse avrebbe interrotto quell’incanto, ed ella non voleva. Viziata, snervata, appassionata, era questo l’amore che a lei piaceva. Ma una sera che le tende gonfie lasciavano entrar la primavera, i candelabri si spensero in un soffio d’aria, le rose aperte nei vasi di cristallo stormirono come se fossero su le spalliere... Veniva dalla strada un rosso riverbero di lampioni, disperso nell’azzurra luce della notte primaverile; veniva di tempo in tempo qualche scalpiccìo di passanti, qualche fragore di ruote che lontanavano, qualche risata. Allora, d’improvviso, con rabbia, egli si piegò su lei, cercò la sua bocca innamorata, bevve il suo più gonfio respiro, la sua crudeltà più forte, che traboccava in un riso convulso... Le tende gonfie di profumo soffocarono il lor grido d’amore, lo confusero nel vento soave con la fragranza delle rose, lo dispersero via, nella notte, fra le musiche della primavera... * * * * * I Trascorsero due lenti anni. Nel crocchio d’amici, fermi su l’angolo della bottiglieria, si parlava immutabilmente di donne, di giuoco, d’amore. Sul marciapiede opposto una giovinetta passò, con un’andatura svelta, con qualcosa di simile alla cingallegra nella sua fresca giovinezza, movendo entro la gonna succinta l’onda mutevole del suo corpo. — Chi è quella ragazza? — domandò il marchese di Sant’Urbino, additandola al crocchio degli amici. — Bellina! — disse Cesare Farra, che amava d’ogni frutto le primizie immature. — Pare una piccola vespa! — commentò Lanzo Malatesta, maneggiando per celia la sua mazza come una sciabola, da quell’abitudine ch’egli aveva di celiatore e di schermidore. Totò Rígoli avanzò di qualche passo fuor dal marciapiede per ravvisarla meglio. — To’!... se non erro, dev’essere la verginella che sta per cascare con Rafa Giuliani. L’ho veduta una sol volta, però la riconosco. È un amore! Già lontanava. Di lei distintamente non si vedeva più che la bella capigliatura, d’un vaporoso color biondo. Sacco Berni fece una smorfia; qualche volta gli piaceva proverbiare; disse: — Stretto passaggio, si paga il pedaggio. — Ma Rafa è molto ricco, — notò Giorgino Prémoli. — A queste inezie Rafa non bada. — Poi dev’essere innamorato cotto! — proseguì Franco Spada. — Rompe i timpani a tutti con le sue confidenze. Non sapevo che fosse per quella lì. Graziosa. Ma mi sembra un poco mal vestita. Che fa? La sartina? — Dev’essere una ragazza onesta, ma figlia d’un cornuto, — sentenziò il Rígoli. — Perchè i padri legittimi non riescono mai a farle così belline. Vi pare? Quanto poi a rivestirla con eleganza provvederà il buon Rafa... Eccolo appunto! E guardate come corre! Il Giuliani passava su l’altro marciapiede, camminando in fretta. Lo chiamarono, ma non rispose. — Corri, corri, che sei in ritardo! — gli gridò dietro Sacco Berni. — È passata or ora. — Io delle vergini ho paura, — disse gravemente Giannotto Pigna, — perchè molte volte attaccano la sifilide... La marchesa di Versano passò in quel mentre, nella sua carrozza scoperta, con la pariglia del sauro e del grigio, due superbi trottatori. Molti si levarono il cappello, inchinandosi profondamente. — L’aborto non le ha fatto male, — osservò il Rigoli. — Si è rimessa molto presto. Ma il Commendatore ha certo avuta una bella paura... Alcuni, poich’eran amici di casa, si astennero dal ridere. — Totò, la conosci la vergine di Rafa? — Io no. — E allora come sai ch’è una ragazza onesta? — Me lo ha confidato Rafa. Sopraggiunse il conte Anatoli, con un abito nuovo, che gli stava malissimo. Era famoso per la sua eleganza ridicola. Molti si misero a burlarsi di lui, cosa che in fondo lo lusingava. — È una vespa, ma è carina, — ribattè Lanzo, al quale non poteva uscir dal capo. E domandò al Pigna, uso a piantonare per lunghe ore quell’angolo: — Passa ogni giorno qui? — No, quasi mai. Il del Ferrante, la notte innanzi, aveva vinto al Circolo trentamila lire. Quando giunse fu assai complimentato e gli fecero narrare i particolari della bella partita. Ma in quel punto scese di vettura la Tita Borsani, che si era data modestamente il nome di Tita La Vallière per miagolare nei teatri di varietà. Aveva, tempo addietro, avuto un capriccio per il del Ferrante, e non appena lo scorse, poichè doveva passare frammezzo al crocchio, lo prese per il braccio dicendogli con una certa ostentazione: — Venite ad offrirmi una tazza di tè. Il del Ferrante, con l’aria d’un uomo che ubbidisse a malincuore, l’accompagnò nella sala. Molti altri li seguirono. — E così che tenete le vostre promesse? — disse ad Arrigo la signorina La Vallière, non appena furono seduti. — V’ho aspettato ieri e l’altro ieri. Aspettato per modo di dire: cioè sono rimasta in casa. — Piccola Tita, sai bene che avevo detto: forse... — Perchè mi dài del tu, scusa? — ella interruppe con impertinenza. — E tu? — Ah, va bene! — T’è passata l’ubbriacatura? — le fece uno, avvicinandosi. — Sciocco! — ella rimandò con un bel riso. — Ti pare che avessi bevuto iersera? — Se mi pare? T’ho messa in carrozza di peso per ricondurti a casa, e se fossi venuto fin sopra, giuro che non te ne saresti nemmeno accorta! — Oh, di te, pare che sia molto difficile «accorgersi...» — ella fece ridendo. L’altro non disse nulla, ma sembrò che la celia non gli garbasse affatto. — Dunque ti sei messa a bere? — le domandò Arrigo, non appena quegli si fu allontanato. — Ma no! Ieri notte mi hanno fatta bere per forza. Quel terribile Mumm... Su, versami il tè. Perchè mi guardi? Cosa pensi? — Penso, cara Tita, — egli disse affettuosamente, — che ci siamo quasi quasi voluti bene una volta, e ciò mi rattrista, perchè io provo sempre una grande malinconia pensando alle cose che sono passate, alle cose che non possono... — ... tornare più! — ella fece, seria, nel sorridere. — Volevo dire: che non posso continuare sempre. — Fate un po’ di sentimento, ora? — domandò il Rígoli che s’era seduto alla tavola vicina. — Sì, per ridere... ed anche per farvi ridere! — esclamò la Tita, con un accesso d’allegria. Ma i suoi grandi occhi neri, offuscati di nero, un po’ sciocchi forse nella loro bellezza, non sapevano celare una certa inquietudine, una certa sensibilità quasi timida, nel guardare il giovine dallo sguardo vellutato, dalla bocca aspra, che le mesceva ora il tè fumante e pareva considerarla come un piccolo trastullo. — Non ti si vede più, — ella disse al Ferrante, sottovoce. — Che fai? — Molte cose. — Poi, con un gesto vago, ripetè: — Molte cose. Ella lo guardò attentamente: — Sei divenuto un posatore. — Quei due si rifanno la corte! — annunziò allora un de’ vicini, che aveva udito. — Siete ben noiosi! — Sapete che purtroppo, — ammise ridendo la Tita — ho sempre avuto un tenero per Arrigo. — Questo non ci riguarda, — ribattè Sacco Berni. — Del resto Arrigo non è libero e perdi il tuo tempo. Io sono invece liberissimo, se vuoi. — Tu?... No, grazie! Tu sei un uomo prosaico, sboccato e pieno di vizi. Per innamorare le donne ci vuole sempre un poco di poesia. Ella inzuppava un biscotto nel tè, afferrandolo in fretta con le labbra, perchè non si spezzasse. — E del resto, — continuò, — se non è libero, cosa m’importa? Io non gli domando niente. Gli dicevo anzi ch’è diventato un posatore. Sopravvenne il Malatesta, con il cappello messo all’indietro, l’occhialetto insolente, stringendo fra le dita la mazza flessibile, che faceva roteare. Disse ad Arrigo: — Tu, che sai tutto in fatto di donne, sapresti per caso dirmi chi è la ragazza alla quale corre dietro Rafa Giuliani? È passata poco fa: mi piace. — Non l’ho veduta, — rispose Arrigo. — Non so nulla di nulla. — Se Rafa le corre appresso, ti consiglio di lasciarla stare, — osservò la Tita, piena di buon senso. — Rafa è troppo ricco. — Ecco la donna venale! — esclamò il Malatesta con un riso gaio. Era un autunno di sole; nei parchi e nei giardini ove andava la piccola vespa tutte le foglie non eran cadute ancora. II In media una volta ogni mese il farmacista Riotti capitava in casa d’Arrigo, dandosi l’aria d’un uomo risoluto a qualche passo estremo, tutto gonfio di spiriti oratorii e pieno di burbera tracotanza, come chi sa di propugnare invanamente una causa giusta. Perchè l’ira gli sbollisse, Arrigo lo faceva attendere un buon quarto d’ora, poi gli andava incontro con la sua disinvoltura d’uomo gioviale, tendeva al farmacista la sua mano risfavillante d’una grossa pietra, dicendogli: — Buongiorno, carissimo Riotti; come va? L’altro borbottava qualcosa, ch’era un mezzo saluto, profferito in luogo e vece d’una ingiuria. — Sedetevi dunque! Che buon vento vi mena? Oh, là là... State bene, vedo. Una cera da principe! Novità? — Signor Arrigo, meno chiacchiere! Io vengo, lo sapete bene, per la solita faccenda. — Cioè?... Ma sedetevi, dunque! Toglietevi il cappotto, che diamine! Come sta mio padre? È un pezzo che non lo vado a trovare. Come sta? E la mamma? — Se non son morti ancora, con un figlio come voi, vuol dire che hanno la pelle dura! — Dunque stan bene. Meglio così. Ma intanto il Riotti, curioso, indiscreto, cominciava con lanciare un’occhiatina per intorno. Il salotto gli piaceva; gli sarebbe estremamente piaciuto che tutto questo appartenesse a sua figlia, cioè a lui. Si sbottonava il soprabito, rimanendo nel viso più arcigno che potesse. In fin dei conti la spavalderia di quel Rigoletto, a lui familiare sin da quando era bambino, superava il suo buon senso borghese, lo sbalordiva un poco, gli dava quasi quasi una certa soggezione. Arrigo gli metteva sottomano la scatola de’ sigari — una scatola d’argento martellato, con le cifre in oro — ed il Riotti tastava la scatola in ogni senso prima di mettersi fra i labbri uno di quegli Avana lunghi e panciuti, che col loro fumo gonfio di sapore davano al suo cervello certe deliziose sensazioni esotiche. Poi Arrigo si alzava con premura per versargli un bicchierino di quel suo vecchissimo «Curaçao», che sapeva di fiori d’arancio, e gli lasciava presso la bottiglia nettarea, tappandola bene perchè non isvanisse. — Dunque, le nozze? — interrompeva bruscamente il Riotti, per tagliar corto a tante cortesie. — Ah... le nozze! A proposito, come sta l’Eugenia? — Bene, bene... ossia, come può stare una ragazza ne’ suoi panni. — Insomma sta bene anche lei; meglio così! — Sentite, Arrigo, finiamola con gli scherzi! So che adesso appartenete al bel mondo, siete sempre fra conti e marchesi, ricevimenti, pranzi, amanti, e che diavolo so io; ma per me non conta; la parola data non si ritratta, a meno d’essere... a meno d’essere... insomma io v’ho visto bambino, e certe cose ve le posso ben dire! Arrigo lo aveva sempre tenuto a bada con qualche vaga promessa; ma una volta finalmente perdette la pazienza. — Bene, sentite, — gli rispose. — Io mi sono avveduto di una cosa: che, per prender moglie, ci vuole la vocazione. Io non l’ho. È triste, ma non l’ho. Non me n’ero accorto finora, ma non l’ho! — Che c’è di nuovo adesso? — era scattato su il Riotti. — Sicuro; e volete che ve lo ripeta un’altra volta? Non l’ho! Anzi vorrei darvi un buon consiglio. Cercate di coltivare qualche altro partito per vostra figlia, perchè, se aspetta me, credo che le spunteranno i capelli bianchi. Il Riotti sgangherò la bocca, come se volesse buttarne fuori la più orrida bestemmia, ma non diede che una specie di enorme sbuffo mentre le sue guance divenivano paonazze. — Ah, davvero?!... È così? è così? dopo quel che c’è stato?! — È così, mio caro, è proprio così. E gli aveva urbanamente volte le spalle, ritirandosi nelle stanze interne dell’appartamento e piantandolo in asso nel bel mezzo di quel salottino elegante, ove, dopo alcuni minuti, il domestico venne ad avvertirlo che s’aspettava gente, sicchè facesse il piacere d’andarsene via. Il Riotti, sbraitando, se ne uscì. Ma corse a gettar fuoco e fiamme nella retrobottega del povero Ferrante, ch’era l’uomo più paziente del mondo. In quella retrobottega erano successe varie cose, da quando Arrigo non vi abitava più. L’occhialaio s’era di molto invecchiato, ed a forza di montar lenti per gli occhi altrui s’era fatto miope a sua volta. Chi faceva prosperare il negozio era piuttosto il figlio Paolo, un buon ragazzo, modesto, economo e mediocre. La figlia maggiore, Luisa, s’era maritata col suo droghiere benestante; aveva già un figlio ed era incinta d’un secondo. Era divenuta grassa oltre il prevedibile; viveva solo per le cure della sua famiglia nuova. Ma invece la minore, Anna Laura, Loretta, era il grattacapo dei due vecchi genitori. S’era fatta più che mai bellina, d’una bellezza un po’ sfacciata e provocante; si profumava, s’incipriava, si vestiva di fronzoli, civettava, cicaleggiava, era vispa, furba e graziosa come un furetto. Di sposarsi, lei, non ne voleva sapere; quanti partiti le capitavano, tanti ne mandava in fumo. Aveva, per quella mediocre vita plebea, lo stesso odio che il fratello Arrigo, e ad ogni scena che le facevan i genitori minacciava di andarsene come lui, per vivere alla ventura. Liberatosi a quel modo del Riotti, Arrigo ebbe una sera la curiosità di rivedere i parenti e sapere qual effetto avesse prodotta in famiglia la sua dichiarazione esplicita in merito al fidanzamento. Vi andava rarissime volte, e sempre in vettura chiusa, perchè a nessuno potesse mai accadere di vederlo bazzicare in quel suburbio. Ora, nella sua casa, tutti avevano in lui quasi un rispetto diffidente e timoroso. Quella sera la famigliola pranzava. La luce elettrica, messa da pochi mesi, rischiarava la piccola retrobottega, e, per un’abitudine antica, pranzavano lì, sebbene avessero al pian di sopra una saletta ben mobiliata. Donna Grazia, nel trascorrere di quei lenti anni, s’era fatto un po’ dura d’orecchio, s’era presi certi malanni reumatici che le davan noia. Come donna di casa valeva molto poco; tutti i suoi meriti si riducevano a saper preparare, insieme con la domestica, certe minestre sostanziose che odoravano per l’intero vicinato. Lui, Stefano, un po’ più curvo, un po’ più calvo, era sempre il medesimo; gli mancavan ora due denti incisivi, il che dava al suo bigio volto una malinconica espressione di vecchia bestia malata. Paolo era un ragazzotto piuttosto incline alla corpulenza, con il cranio tondo come un cocomero, due occhietti buoni e scialbi, le linee del volto precise come quelle del fratello, ma un po’ inselvatichite. Fra quei tre tipi grossolani, ciò che formava un singolare contrasto era la figurina leggiadra di Anna Laura, con la sua torricella di capelli ben pettinati, con i suoi abiti quasi eleganti e la squisita grazia di tutto il suo corpo, che dava la fresca e odorosa impressione d’un bocciolo di rosa. — Buon appetito a tutti! — aveva detto Arrigo, entrando. Gli avevan ricambiato il saluto con una esclamazione di sorpresa, pur senza interrompersi dal pranzare; tranne Loretta, che s’era levata in piedi e gli era corsa incontro buttandogli le braccia al collo e ridendo con un’allegrezza infantile ma un po’ sguaiata. — Oh, Arrigo! Arrigo! finalmente... — esclamava. — Come va? — disse il padre, asciugandosi il mento gocciolante. — Bene, bene, — rispose Arrigo, accarezzando il braccio della sorella e tendendo l’altra mano al padre. — Veramente bene. Poi si chinò verso la madre per baciarla sui capelli. — Non pare nemmeno nostro figlio! — ella osservò bonariamente, traducendo l’impressione spontanea che provava nel guardarlo. — Buona sera, Arrigo, — fece il fratello senza gran che scomporsi. — Di’: se tu volessi per caso una cucchiaiata di minestra... — offerse il padre quasi con vergogna. — Eh, sì, ti pare! — esclamò Loretta, che invece di rimettersi a tavola gli farfalleggiava intorno, — ha proprio bisogno dei nostri pastoni, lui! — Taci tu! — rimbrottò Paolo. — Per una volta ogni tanto si potrebbe anche degnare. — E perchè no? — fece Arrigo. — Non ho pranzato; ho fame, e la minestra manda buon odore. Su, presto, una sedia e datemene una fondina. La famigliola si guardò con sorpresa, ed avvenne un piccolo trambusto, per far posto al primogenito che sedeva alla mensa familiare. Le facce dei due vecchi si rischiararono. — Qua, vicino a me allora, — disse Loretta; e si mise a servirlo ella stessa, con le sue manine svelte, ben curate, che uscivano fuor dai pizzi d’una leggiadra camicetta. Per lei quel fratello estraneo, così pieno di signorilità, così diverso da tutti quelli che bazzicavano in quella bottega, era quasi un corteggiatore, quasi un amante. E il padre a dire: — Be’, Arrigo, e gli affari come vanno? È un pezzo che non ti ricordi più di noi. — Me la cavo, rispose il figlio. — Non ho fastidi in questo momento. Anzi, se vi abbisognasse qualcosa, dite pure. — Sì, a me! — saltò su Loretta, con un fare civettuolo, che le stava bene. Il fratello la guardò, la guardò con il suo occhio esperto, che involontariamente pareva quasi apprezzarne il valore. — Sei bellina, sai! — fece d’un tratto. Poi soggiunse: — Allora cosa desideri? — Quel certo collo di pizzo che una volta mi avevi promesso... Arrigo si cercò nelle tasche e ne trasse un involto. — Eccolo qui, — disse. — Vedi che non dimentico. La ragazza diede un piccolo sobbalzo su la sedia, disfece l’involto, e veduto il pizzo che ambiva, gli occhi, per la gioia, le si fecer lustri e cominciò ad abbracciare il fratello tra continui scoppi di riso. — Ve’, che buona cipria adoperi! — disse Arrigo, sentendo l’odor fresco delle sue guance. — Chi te l’ha data? — Eh, quella lì!... — fece Paolo, senza levare il viso dal tondo, con un’aria di sottinteso. — Quella lì! quella lì!... — rimbeccò Loretta contraffacendo la sua voce. — Cosa vuoi dire? — Quella lì, — riprese Paolo, caparbio, — è tutto il giorno in giro dai parrucchieri e dalle sarte. Si schiaccia il naso contro le vetrine; non ha in mente che il suo specchio. — Stupido! — sibilò Anna Laura, stizzosa come una viperetta. E la sua faccia divenne cattiva. — E per te papà, — fece Arrigo, risolvendosi ad interrompere quel battibecco, — per te ho portata una pipa di schiuma. Guarda se ti piace, se no te la cambio. Gli tese un astuccio ricurvo, contenente la pipa istoriata, con il bocchino d’ambra. — Maraviglia! maraviglia! — esclamò il vecchio, lasciando cadere il cucchiaio. La guardò per ogni verso, la tastò quasi con religione: — Maraviglia! — Poi la trasse fuori dall’astuccio e la mostrò alla moglie. — Per Dio! — esclamava. — Chissà cosa l’avrai pagata! E senz’asciugarsi la bocca se la prese tra i denti. — Sembra la pipa d’un signore con attaccato un portinaio! — disse ridevolmente Loretta, che si provava il suo collo di pizzo. Arrigo intanto mangiava ghiottamente, a piene cucchiaiate. — Che minestra, mamma mia! Che minestra! Era un secolo che non avevo gustato qualcosa di simile! — Ti piace? — domandò Anna Laura con una smorfia. — Per bacco! E datemene ancora! La vecchia madre, tutta confusa dal complimento come se le venisse da un estraneo, prese la fondina del figlio, la riempì di nuovo e gliela porse. — Nei ristoranti dove tu vai devi mangiare ben altra roba, — fece, come per iscusarsi. — Eh, no mamma! Dopo tutto, una buona minestra fatta in famiglia è ancora la cosa migliore. — Bravo, Arrigo! Dillo un po’ alla Loretta, che tira sempre su il naso! — intervenne Paolo. — Per lei ci vogliono le pernici!... — Tu mischiati dei fatti tuoi, fammi il piacere! — gli rispose con dispregio la ragazza. E versò ad Arrigo un bicchier di vino; un buon vinetto onesto, che sgorgava dal fiasco a piccoli fiotti con uno scintillìo di rubini. — Buono, — fece Arrigo, assaggiandolo. — Ma voi vi trattate da principi! — Ci vuoi prendere in giro, eh? — disse con indulgenza il padre, ch’era commosso per la sua pipa. — Io? Tutt’altro! Come volete che vi prenda in giro? Dopo tutto non sono forse in casa mia? Gli faceva bene al cuore quel po’ di riposo familiare in mezzo alla sua vita piena d’infingimenti e di scaltrezze. — Questo sempre, — gli rispose il padre. — Ma ci stai così poco tu, che deve parerti una casa di forestieri. La domestica, tutta rossa per la visita del signor Arrigo, portava in tavola un piattone grande, su cui c’eran manzo lessato e certe costolette di maiale che ancor scricchiolavan nel burro in cui s’eran cotte. In mezzo torreggiava un gran mucchio di patate, messe male, ma appetitose. Giovanna, la serva goffa e timida, borbottava che, se l’avessero avvertita prima di quella visita, avrebbe fatto andare un pollo. Ad Arrigo diedero i pezzi migliori, gli empirono tre o quattro volte il piatto, ed egli mangiò, mangiò con una fame inconsueta, fino ad esserne obeso. Il gagliardo suo stomaco plebeo si rifocillava di quella sana ed onesta cucina, quasi per rivalersi dei costosi manicaretti, ch’eran talvolta troppo lievi alla robustezza della sua fame. E intanto che mangiava quella carne bollita su la brage del suo focolare, qualcosa tuttavia gli si rimescolava dentro dell’antica origine, un sentimento incerto fra l’affetto ed il benessere, fra la buona digestione e la tenerezza filiale, fra la gioia del sentirsi il ventre pieno ed il piacere di potersi abbandonare malamente, come il suo padre, su la seggiola robusta, e poggiare, se gli piacesse, i gomiti su la tavola, e molestarsi a lungo i denti con uno stecco, ed eruttare, se gli piacesse, il troppo fiato che aveva nel corpo satollo, e sentirsi con placidità salire alle guancie quella vampa dilettosa che dà il buon vino e la buona vivanda, nell’ora fra tutte più bestiale e più umana in cui l’alimento sta per tramutarsi in sangue, distribuendo per ogni vena la sua fertile sostanza di vita. Sentì allora l’impaccio del solino troppo alto, sbottonò la sottoveste che gli molestava il ventre, e per un attimo si ritrovò con piacere ad essere il figlio dell’occhialaio, il fratello di quel selvatico Paolo, che ora, nella sua stessa positura, gli somigliava singolarmente. E parlò, e parlò, narrando molti casi della sua vita, che scorreva nei saloni eleganti, fra le signore anemiche, dal profumo che dà l’emicrania, fra i giovani cicisbei a’ quali si sentiva di poter con un pugno fiaccare le reni; parlò con quella ironia piena di sale con cui l’uomo plebeo narra dell’aristocratico, e per un momento gli piacque d’essere nella sua famiglia, nella retrobottega rinnegata, fra gli odori della cucina, e vedendo per una scostatura della tenda scintillar gli occhiali nella mostra illuminata. Ma questo non potè durare che il tempo della prima digestione; poi tornò ad essere l’estraneo, che in fondo si vergognava della sua casa. Il padre, la madre, quel dissimile fratello, non lo interessarono più. Ora, chi attraeva la sua pertinace attenzione era Loretta; Loretta che aveva mangiato poco, ch’era in camicetta di seta, con i capelli a riccioli e l’unghie pulite, che sapeva di cipria fina e portava le scarpette a punta, scollate, sotto una caviglia estremamente sottile. La tovaglia macchiata, quella zuppiera e que’ tondi vuoti, ch’erano rimasti lì, sopra una credenza, quell’odore di tabacco ordinario che spandeva intorno la pipa del padre, finirono con dargli ai nervi, ricacciandogli addosso d’un colpo tutta la vergogna d’esser impresso anch’egli dal marchio plebeo di quella umile gente. Guardò l’ora: — Le otto e mezzo, — fece. — Mi vado a mettere l’abito nero perchè sono atteso a teatro. — Cosa vai a sentire? — domandò il padre. — Vado a sentire _Loute_, una «pochade». — Roba nuova? — Che nuova! L’avrò intesa venti volte. — E allora perchè spendi i quattrini per andar a teatro? — E magari va in poltrona, lui... — disse la madre. — No, anzi, vado in palco, — egli spiegò con un riso indulgente. — Ma non spendo nulla. — Come non spendi nulla? — Abbiamo un palco in parecchi amici. — E non vi costa niente? — Ma che domande! — esclamò Loretta. — Lo si affitta in principio di stagione. Non sapete cosa sia una «barcaccia», santo Dio? Cadete sempre dalle nuvole, voi! E invece di starvene qui a sonnecchiare come ghiri, fareste meglio di condurre a teatro anche me, oppure di lasciarmici andare per conto mio. — Eh!... quella vipera! — sibilò Paolo con una specie d’odio. Arrigo salutò la famiglia ed Anna Laura gli passò il soprabito; poi, leggera, gli si appese al braccio ed entrarono insieme nella bottega, come s’ella volesse confidargli qualcosa. — Vieni spesso a vedermi, Arrigo... — pregò lei sottovoce, traendo un sospiro. — Con questa gente, è una vita insopportabile! Io sono un po’ come te, sai... E proprio non ne posso più! Egli si fermò a guardarla un’altra volta, con quello sguardo da intenditore, nella luce piena che sgorgava dalla vetrina. Uno strano sorriso gli increspò la bocca. — Dunque vuoi andare a teatro, tu? Loretta lo teneva per il braccio. Allora, girandogli di fronte, con un gesto muliebre, un gesto d’amante capricciosa, gli accomodò la cravatta ch’era un po’ di sghembo. — Eh, sì, vorrei... — disse. — Bene, ti ci condurrò io. — Ma è impossibile, caro! — ella fece con un accento voglioso e triste. — Non ho abiti e non posso venire con te, così... — Già, — fece Arrigo, riflettendo. — Ma non importa; vienmi a trovare, combineremo. — Sì?... Quando vuoi? — ella esclamò, piena di luce. — Anche domani. E le diede un bacio su la bocca. III Il domani ella v’andò nel pomeriggio. Arrigo dormicchiava, steso tutto vestito sul letto. Riparava con quella siesta pomeridiana ad una delle sue faticose veglie notturne. Aveva dovuto rimanere al Circolo fino alle sei del mattino per rifarsi d’un cattivo mazzo di baccarà capitato in principio di sera. Ella entrò come un colpo di vento nella camera semibuia del fratello, senz’attendere che il domestico l’annunziasse, e, vedutolo giacere, si fermò di botto qualche passo oltre la soglia. — Come mai? Dormi? — No, riposo. Vieni pure, Loretta, vieni avanti. Era il marzo fuori che infuriava, con rabuffi di vento gelido in un cielo rosso. Egli accese la lampadina elettrica e si volse a guardar la sorella con gli occhi assonnati, tendendole una mano. — Dunque? — fece. — Che hai? Non stai bene? — Sto benissimo; solo mi avete fatto mangiar troppo ieri sera. Non sono avvezzo a quella cucina pesante. Allora tu vieni... ah, sì, per il teatro! — No, io ti vengo a trovare, perchè ho voglia di discorrere con te. Se sapessi quanto m’annoio! Il vederti è come una festa. Arrigo sorrise. — Siediti, Loretta. — E allungò il braccio sul tavolino da notte per prendere una sigaretta. — Cercami uno zolfanello, piccola. Ella guardò in giro per la camera e quand’ebbe trovata la scatola, venne presso il letto e si chinò sul fratello per accendere la sigaretta ch’egli teneva tra le labbra. Poi, amichevolmente, gli passò la mano su la fronte. — Dammene una, — diss’ella, sedendo su la proda del letto. — Fumi anche tu? — Sì, qualchevolta, di nascosto. — E non ti fa male? — Male? Tutt’altro! Ella prese una sigaretta fra le labbra sottili, si chinò ad accenderla su la brage di quella che fumava il fratello, accavallò le gambe una su l’altra e rimase a guardare il fumo, che, simile ad una larga sciarpa, le rannuvolava intorno. Aveva in quell’attitudine un non so che di frivolo, di leggiadro e d’impertinente, che la vestiva d’una grazia squisita. — Senti, Arrigo, — ella fece dopo una pausa; — il tuo domestico mi ha guardata in un modo strano e quasi non voleva lasciarmi passare. Certo mi ha presa per una tua amante... Ne vengono molte qui? — Sì, qualcuna, — egli ammise ridendo. — Allora io gli ho detto: «Sono sua sorella»; e son venuta avanti. Ma forse non mi ha creduto. Poco male! — Ora lo chiamerò, — disse Arrigo, — perchè prepari una tazza di tè; così farete conoscenza. Premette sul campanello e Filippo indi a poco apparve, dopo aver bussato cautamente all’uscio. — Vieni, vieni avanti! — lo esortò Arrigo. L’altro s’avanzò, con una certa cautela, inchinandosi. — Vedi questa bella signorina? — Certamente, signor Arrigo, — fece il domestico, sorridendo con un di que’ sorrisi ambigui e scaltri che distinguono il servo iniziato alle segrete galanterie del suo padrone. — Bene; preparale un buon tè, ma prima esci a comperare una dozzina di «marrons glacés». È mia sorella. — Sua sorella, signor Arrigo?... Toh!... non lo volevo credere. Infatti, infatti le somiglia! — Eh, sì, come due gocce d’acqua! Tutto questo divertiva la fanciulla, e dava un sapor nuovo d’intrigo e d’avventura galante, sebbene il protagonista non fosse altri che suo fratello. Il domestico se ne andò. — Hai sonno ancora, forse? — No, mi sono riposato abbastanza; rimango disteso per pigrizia. — Aspetti gente? — Nessuno. — Allora mi farai vedere tutto l’appartamento? — Certo. — Quante camere hai? — Sei, ed una camera per il domestico, il quale però dorme fuori. Loretta ebbe un colpo di tosse. — Vedi che la sigaretta ti fa male! Buttala via. — Non è la sigaretta, — protestò la fanciulla, tossendo ancor più. — È solo un po’ di fumo che m’è sceso in gola. — Buttala via. — Sono turche? — No, egiziane. Siediti bene, Lora. Stai su l’orlo del letto e finirai con scivolare giù. Coi movimenti pigri d’un uomo assonnato, egli si trasse un po’ di fianco per lasciarle posto. Ella sedette meglio e non giunse più coi piedini a toccare lo scendiletto. — Che letto grande, hai, per bacco! — Si sta più comodi. — Eh, già, ho capito... — ella disse ridendo. — Cos’hai capito? — Mah!... E volse la testa per nascondere un certo rossore che le saliva involontariamente al viso. — Sei una birichina tu! — esclamò Arrigo, battendole una mano su le ginocchia. Poi si mise a guardarla, attento attento, con una specie di stupore. Era bellina, era tutta bellina, dalla punta del piede al ciuffo di capelli biondi che le sfuggiva su la fronte, sotto il cappello di paglia rilucente come il grano. L’abito le modellava il busto, non esiguo sebbene immaturo; le serrava la vita, che poteva tutta chiudersi nel cerchio di due mani. Teneva le gambe accavallate, il gomito destro appoggiato sovra un ginocchio, per regger alta la mano mentre fumava. La sua carne dava quella sensazione di morbidezza e di freschezza che dànno il velluto e le rose; i suoi occhi, d’un color nero splendente, parevano troppo grandi per il suo viso fino. Nelle caviglie, nei polsi, nel collo, in tutte le giunture, aveva, pur stando ferma, una straordinaria pieghevolezza; soltanto c’era in lei, cosparso per tutta la sua persona, qualcosa di colpevole, d’irritante: e questo era pur nella sua voce, ne’ suoi gesti, nella maniera che aveva d’appoggiarsi, di toccare, di sorridere, nell’odore stesso di lei, che le viveva intorno come il profumo colpevole della sua nudità. — Sei carina, — disse Arrigo, quasi parlando a sè stesso. — Trovi anche tu? — ella fece con impertinenza. — Come «anche tu»? — Perchè me lo dicono spesso. — Davvero? E questo ti lusinga? — Un po’... un po’... certo! — Oh, guarda... — fece Arrigo, prendendole il polso. — Che c’è? — Un braccialetto d’oro! Hai un braccialetto d’oro? — Sicuro, — disse la sorella, nascondendo il braccio dietro la schiena. — Fammi vedere. — No. — Via, lasciami vedere! E levatosi un poco, cercò di afferrarle il braccio. Ella volle resistere, si piegò nella cintura, si curvò sopra di lui, premendolo con tutto il suo corpo, affinchè non giungesse a prenderle il polso che aveva teso all’indietro. Ed entrambi indugiarono in quella scherzosa lite, che li faceva urtare l’un contro l’altra, quasi con un senso di sottilissimo piacere. — Allora te lo mostrerò io, — diss’ella. — Bene. Se lo tolse dal polso e glielo diede. Era una treccia d’oro, dalle maglie a doppio nodo, con un fermaglio di brillantini. — Chi ti ha dato questo braccialetto? Ella rispose con una voce punto persuasiva: — Nessuno; me lo son comperato io. — Chi ti ha dato i denari allora? — Toh!... io. — Tu? Impossibile! — Non credi? — ella fece, sorridendo della sua menzogna. — Oh, ma qui c’è scritto qualcosa? Nel fermaglio infatti era incisa una leggenda. — Puoi vedere quel che c’è scritto? — ella domandò con allegrezza. Egli si protese verso la lampadina perchè l’incisione era minutissima. — _Honny soit qui mal y pense_... Arrigo si volse attonito a guardar la sorella. — Perbacco! — esclamò. — Spiegami dunque tutta questa faccenda... — Ma non c’è nulla di spiegare: _Honny soit_... — Sì, capisco; ma voglio dire chi te l’ha dato? — Io... io... — ribadì Loretta, cantilenando, con un’aria di derisione. — Via, non raccontarmi fiabe! Questo sa... — Di cosa? — Di galanteria, di regalino amoroso... — Ma no!... — ella rispose con voce canzonatoria. — Vediamo; hai forse qualche piccolo intrigo? — Sei pazzo! — E scoppiò in una bella risata. — Loretta, sii sincera... Hai qualcuno che ti corre appresso? Qualche innamorato che ti fa la corte? A me lo puoi dire. — E allora? se fosse? — domandò la fanciulla, con un sorriso provocante. — Se fosse... ebbene, se fosse... — egli rispose con un certo impaccio, — io non mi metterei certo a farti la morale; ma non vorrei nemmeno che tu ti lasciassi abbindolare dal primo venuto. — Sai, non sono stupida, io! — E mise nelle parole una sottile scaltrezza. — D’accordo. Allora dimmi chi è. Dimmi tutto, apertamente. Puoi bene aver fiducia in tuo fratello, tanto più ch’io non sono severo e che ti voglio bene. Parlava con una certa ansia, punto dalla curiosità, stranamente angustiato. Egli stesso non capiva bene perchè un simile fatto gli cagionasse tanta irritazione. — Scommetto che tu lo conosci, — ella disse, dopo aver lungamente riflettuto. — Anzi, so benissimo che lui conosce te. — Cosa dici? — fece Arrigo impaurito. — Non temere: non gli ho mai detto chi sono veramente. Abbi fiducia in tua sorella: ti ripeto che non sono sciocca, io... — Ma dimmi dunque chi è questo tale! — Il nome non te lo posso dire. È uno che ha cominciato con venirmi dietro per istrada; un giovine distinto, con la faccia pallida; è alto quasi come te: molto elegante. — Sì, e poi? — E poi niente. M’è corso appresso durante un mese; mi aspettava ogni giorno. È timido. Poi ha cominciato con salutarmi; una volta finalmente s’è fatto coraggio e mi ha parlato. — E tu? — Io?... Niente. Ho tirato innanzi. Mi ha chiesto di potermi scrivere una lettera. Io, per curiosità, e per levarmelo d’attorno, gli ho detto che mi scrivesse fermo posta e gli ho dato un nome falso. Prima venne una lettera, poi due, tre, quattro... una tutti i giorni alla fine. Entrò Filippo con il vassoio del tè. — Metti lì sulla tavola e va pure, — disse Arrigo. Il domestico obbedì in silenzio. — E adesso, — riprese Arrigo, — ti regala braccialetti! Dunque vuol dire... — Niente vuol dire! Abbi pazienza. Ora ti servo il tè, poi ti racconto. Solo giurami di non tradire il mio piccolo segreto. — Sì, sì, va bene. Ella empì le due tazze, si mise un marrone in bocca e masticando riprese il racconto. — Sai: ho visto ch’era una persona ben educata... mi trattava come se fossi chissà chi... — Alla larga dei cerimoniosi! Dà retta a me. — No, vedi, quel giovine... Oh, sono eccellenti questi «marrons»! — Mangia, mangia. — ... quel giovine dev’essere un po’ sciocco, anzi molto. — Ma cosa mai ti scriveva in quelle famose lettere? — Eh!... una quantità di scempiaggini! Ch’era innamorato, che non viveva più, che mi chiedeva umilmente di potermi parlare, che mi avrebbe rispettata sempre... insomma, caro mio, una sera, perchè non venisse a scoprire chi sono e dove sto, gli ho dovuto dare un appuntamento per il giorno dopo. — Brava!... e dove? — Al Giardino Pubblico. Egli aveva un’espressione attenta, indagatrice, irascibile. — Insomma, Lora, dimmi la verità: tu hai fatta qualche sciocchezza con lui! — No! ti giuro di no. E a te lo direi, perchè non voglio nasconderti niente. Anzi, mi piacerebbe che noi due si fosse amici, molto amici, e che tu m’aiutassi, mi prendessi un poco sotto la tua protezione, perchè, vedi, anch’io, come te, mi sento attratta a vivere in ben altro modo... Dolcemente gli aveva presa la mano, lo carezzava, con un gesto pieno di femminilità. — Va bene, Lora, va bene... Un turbamento lo assaliva, di quella mano così leggera, di quel volto così vicino al suo. — Di’... raccontami... Non hai commesso nessuna sciocchezza... davvero? — Nessuna; ma ci sono andata presso, per dire la verità. — Ossia?... — Ecco, ti racconto. Lui ha cominciato con volermi vedere ogni giorno... — Ma chi è questo «lui»? — Dopo, dopo... E mi ha proposto di andare in un appartamento, o in un albergo, perchè si fosse più nascosti. Ho rifiutato. Allora cominciò con volermi condurre fuori porta, in automobile, qua e là; si scendeva in qualche alberghetto a ber qualcosa; lui mi tentava in tutti i modi, ma io l’ho tenuto a bada. Non ho gran merito forse, perchè veramente non mi piace. Ossia, da un lato mi attrae, perchè è ben vestito, elegante, non brutto, e dev’essere molto ricco... ma dall’altro non mi dice nulla! non mi va! — Eppure, in queste gite?... in questi alberghi?... — Oh, Dio, sai, tentava... Qualchevolta ho dovuto minacciargli di gridare. — E allora ti lasciava? — Súbito. — Davvero? — Eh, te lo direi, diavolo! O si fa una confessione, oppure si tace, ti pare? — E come andò a finire? — Non è finita. È una storia molto recente. Il braccialetto me lo diede quindici giorni fa. E ci ha messo quel motto per farmi comprendere le sue buone intenzioni. Infatti vuol dire press’a poco: «Non c’è niente di male...» Vero? Arrigo si mise a ridere, e carezzò lievemente il viso della sorella. — Però, — ella fece, — tu dici «honný» lui mi pare che dicesse «hónny». — Honný, honný, con l’accento su l’i. Stanne certa. — Tu lo devi sapere perchè lo parli bene, il francese. Del resto è naturale; avevi un’amante ch’era francese: anzi eccola lì... — Segnava due grandi ritratti della Ruskaia, uno sopra un tavolino, l’altro appeso al muro. — No, Loretta, quella era una russa. — E dov’è andata? — È partita già da un pezzo. Continua. — Dunque ti dicevo che, nonostante il motto, aveva certe idee tutt’altro che tranquille. E un bel giorno, anzi pochi giorni fa, visto che non gli riusciva di condurmi a’ suoi fini, è giunto a farmi una proposta esplicita... Mi ha detto insomma ch’è innamorato pazzo di me, che non può più sopportare il tormento ch’io gli faccio patire, perchè se ne ammalerebbe, e che infine, se volessi decidermi, se volessi esser buona con lui, potrei chiedergli, prima e dopo, qualsiasi cosa: me la darebbe. — E tu? — Io gli ho detto di no. Gli ho detto di no chiaro e tondo. Ma sono stata un poco in dubbio, per dire la verità. Poi ho rifiutato, pensando che a mutar parere avrei tempo in séguito, caso mai... Vedi, con te parlo apertamente. Si fosse trattato di cambiar vita una volta per sempre, allora sì. Ma so io cos’accadrebbe dopo? Il passo è grave, e non si può farlo che una volta sola. Ne ho vedute ben altre, io! Egli trasse un lungo respiro: — Brava, Loretta! sei una ragazza di buon senso. Brava! E rimase lì a guardarla maravigliato, quasi trasognato, nell’udirla parlare così. Poi lo prese un impeto di amor fraterno, si levò sopra un gomito e le diede un forte bacio su la bocca ridente. — No, capirai, — riprese la sorella, — un gran merito non l’ho. Se mi fosse proprio piaciuto, se mi fossi innamorata, via, pazienza! Ti confesso che domani, per un tipo il quale m’andasse a genio, forse forse una sciocchezza sarei capace di farla... Ma per lui no. — Insomma, — l’interruppe Arrigo — si può sapere chi è? — No, questo non te lo dico; mi secca. — Sciocchezze! Di cosa dunque hai paura? Che ne parli forse? Sei matta! — Bene, allora te lo dico; ma giurami di non aprirne bocca, mai, con anima viva. — È inteso. — No, dammi la tua parola d’onore. — Parola d’onore. — Bene: è il conte Raffaele Giuliani, — disse Loretta pomposamente, con un certo orgoglio di sè. — Eh!... il Giuliani!? — esclamò Arrigo, scattando su. — Dunque il maggiore, Rafa? — Sì, appunto, Rafa. Anch’io lo chiamo così. Vedi che lo conosci! — Perbacco se lo conosco! Lo vedo quasi tutti i giorni. È del mio Circolo, del mio palco, lo trovo dappertutto!... Ma sai, Loretta, che tu, con una imprudenza, mi puoi rovinare? — Cosa dici? — Rovinare! rovinare! Se viene a sapere che sei mia sorella, sono perduto. Ecco, Lora, quello che hai fatto! Pensa un po’!... E prese minutamente a spiegarne le ragioni. — Ma non lo saprà, non lo saprà mai: te lo prometto, — ella disse dopo aver ascoltato. — Non conosce il mio nome, ignora dove abito, cosa faccio, chi sono. Quanti giri per sviarlo! Capirai: neppur io ci tenevo a lasciargli sapere che siamo bottegai. Vedi, son già più di due mesi che ciò continua e tu non ne hai saputo nulla. Vuol dire che non dubita nemmeno. — Che nome gli hai dato? — Un nome a caso: Montaldi. Egli rimase qualche attimo pensieroso, poi soggiunse: — Un uomo ricco; ricco sfondato e libero. Il padre non c’è più. Sono due fratelli. Si lasciò di nuovo afferrare, avvolgere, dall’ombra di un pensiero nascosto, poi ripetè quasi meccanicamente: — Ricco e libero. — Che vuoi dire? — fece la sorella. — Cosa voglio dire non so... Rifletto. Successe una breve pausa, durante la quale si guardarono. — Se Rafa... — diss’ella, esitando. — Se Rafa... — egli ripetè, come per aiutarla. — ... fosse davvero innamorato di me, potrebbe anche darsi... — Che ti sposasse? Chissà mai. Per riuscire a qualcosa nella vita bisogna credere con fermezza nelle possibilità e nelle speranze più assurde. Però... Ella rideva, rossa in volto per il piacere che le davano queste parole. — Però?... — fece. — Non lo credo capace di una vera passione, — disse Arrigo, — ma di commettere qualsiasi sciocchezza per un capriccio, sì. — È appunto su questo che ho contato, — ella rispose con una singolare freddezza. — Ah? — Te ne meravigli? — Un poco. — Vuoi farmi da moralista ora? Tu? proprio tu? con la vita che fai? — Ella metteva nelle parole una squisita ironia, ed i suoi occhi lo sogguardavan con malizia, facendo battere le ciglia lucenti. Fra loro si adagiava la mollezza del letto largo e tepido, fra loro aleggiava, come un fumo torbido, l’ambiguità delle parole che dicevano. — Non da moralista; qui non c’entra la morale, o per lo meno è un affare che riguarda te sola. Ma siccome dobbiamo parlarci chiaro, ti avverto che io non ti lascerò divenire l’amante del Giuliani. — Ah?... E perchè? — Me lo domandi? Sono tuo fratello prima di tutto... — Poi? — Poi, non credo che ti convenga. — Oh, bravo! Adesso ragioni meglio. — Non credo che ti convenga in nessun modo, ma sopra tutto non così leggermente com’egli forse immagina. Ella si fece piccola, carezzevole, insinuante come la più scaltra donna, e curvata un poco sopra di lui, quasi pareva che tentasse di fasciarlo nell’insidia della sua femminilità. — Aiutami Rigo... — ella disse. — Io? — Sì, tu, proprio tu, Rigo! Lascia da parte i rigori da fratello maggiore... Fra te e me si può fare un patto. Io conosco la tua vita meglio che tu non creda; tu non conosci nulla della mia, però ti rassomiglio. Vorrei, come te, giungere lontano, il più lontano che sia possibile: per quale strada non importa. Guardami: ti sembro nata per fare la bottegaia? E non ne ho voglia, sai! Tu solo puoi comprendere con quanta forza non ne abbia voglia... Senti: ho pensato qualchevolta di scapparmene via di casa e venire da te. Insieme si vivrebbe forse bene. — Tutto quello che mi dici è un poco strano, — egli rispose, turbato. — È strano, ma è vero. Perchè non puoi ammettere che anche a me, come a te, sorrida una vita più bella? Probabilmente Rafa non mi sposerà, ma potrebbe in altro modo essere l’uomo al quale dovrei la mia fortuna. — Quest’altro modo, — egli la interruppe, — vorrebbe dire vendersi. — Rigo... — ella fece con un’aria canzonatoria. Ma quella sola parola chiudeva un infinito scherno; pareva quasi domandargli: E tu? — Egli comprese l’ironia della sorella, tuttavia scosse il capo. — Non posso, non devo ascoltarti! — esclamò duramente. — Almeno, se vuoi far questo, non raccontarlo a me. — Forse lo farei lo stesso, e lo farei male. Mentre, se tu m’aiuti, Rigo, se mi consigli, se mi guidi con l’esperienza che hai, mi sentirò sicura. E non ne saprebbe nulla nessuno; sarebbe un patto silenzioso fra me e te, fra noi due soli... Perchè, vedi, ho per te un sentimento, una simpatia, una fiducia, non di sorella, ma più forte... Nel venire qui tremavo un poco, perchè sapevo già che t’avrei parlato di tutte queste cose... Ora che sono qui, mi sembra quasi che tu abbia un altro nome, e che non sii tu... Gli diceva queste parole pianamente, con una intonazione quasi ambigua, con tutta l’anima sul fiore della bocca, nel desiderio d’essere intesa. — Rafa non mi piace, — esclamò repentinamente, quasichè sentisse il bisogno di fargli questa affermazione. — Non mi piace, ma può essere molto prezioso per me, per noi... Non credi? — Forse... — egli si lasciò sfuggire. — Per questo l’ho tenuto a bada. Nel suo viso di fanciulla splendeva una lucida perversità. Ella interruppe un lungo silenzio con queste parole: — Ti vedevo così di rado, e pensavo ogni giorno a te. Quando in casa t’accusavano, io ti difendevo sempre. Quando venivi, ero contenta. Egli si agitò come per un malessere. — Allora cosa vuoi? — disse. — Nulla; che tu m’aiuti. Consigliami: t’obbedirò. — Proprio? — Sì, sì, si! — esclamò con effusione, serrandogli un braccio. — Perchè vuoi questo? Ella arrossì un poco, indugiando nel rispondere. — Così... voglio essere la tua amica... — Ma se io, senza volerlo, ti consigliassi male? — Non fa niente. Poi non sarà. Egli rise, d’un riso torbido. — Ne sei certa? — Oh, sì! Il velo del paralume diffondeva per la camera una dorata penombra, e da quel chiuso, da quella coltre, da quelle parole, saliva per entrambi un insopportabile calore. — Allora, — egli disse con una voce lenta, — io vorrei prima tentare che ti sposasse. Ma per questo non c’è che un mezzo, quantunque ardito e pericoloso per me: lasciargli appunto comprendere che sei mia sorella, senza che tu glielo dica. Ci veda insieme, per esempio. Ella non riflettè neppure un attimo; quella proposta le parve ammirevole. — Sì, Rigo! — esclamò, battendo le mani per la gioia. — Dimmi: sei ben certa che Rafa non sappia assolutamente chi sei? — Certissima! E so inoltre una cosa: che posso fargli credere tutto quello che voglio. — Infatti avevo inteso parlare di questa sua nuova passione, ma non immaginavo mai che fossi tu. Risero entrambi ed ella esclamò: — Quel povero Rafa!... — Ma dove ti sei fatta così donna? — domandò Arrigo. — Bah!... ho molte amiche; le vedo coi loro amanti; imparo. Poi, non so... forse questa è la mia natura. — Dunque, — diss’egli repentinamente, — combineremo tutto fra noi: quel che si deve dire o nascondere, fare o non fare. Intanto potremo una sera andar a teatro insieme. — Sì?... — ella fece, con un grande palpito, nella commozione che le stringeva la gola. — Bisognerebbe tuttavia che tu avessi qualche bell’abito. — Non ne ho. — Va da una buona sarta e comándane. Falli mandare qui, perchè a casa non conviene. Anna Laura non sapeva rispondere. — Belli, — seguitò Arrigo, — e non badare al prezzo. Ci penserò io. Anzi verrò con te per sceglierli; me ne intendo un poco. Le sere che andremo a teatro uscirai di casa vestita come al solito, qui ti cambierai. C’è tutto: pettini, cipria, ferri, forcine; quel che non c’è, si compera. — Caro! — ella esclamò con trepidazione, buttandogli le braccia intorno al collo. — Come ti voglio bene! Egli finse di non ascoltare, prese un tono d’indulgenza e di protezione, quasi volesse accontentare i capricci d’una piccola bimba. — Ci voglion anche altre scarpine; le tue son belle ma non vanno per sera. — Eh, lo so! — Falle fare. — Sì. Mi piacciono d’un certo cuoio che ha un colore tra il viola e l’oro, finissime. Le ho vedute in una vetrina. Piacciono anche a te? Agitava il suo piedino, parlando. — Sì, certo. — E le calze? ti piacciono le mie calze? Guarda. Lì, com’erano, quasi abbracciati, ella protese la gamba fin su l’orlo del letto e rimboccò la gonna lestamente sopra la caviglia nervosa. Eran calze a traforo, di finissimo filo, con la freccia che s’aguzzava su la rotondità del polpaccio. Egli fece l’atto di carezzare quella caviglia, sopra la calza fina, su la bianca trasparenza della sua nudità, quella caviglia che usciva troppo scoperta fuor dalla balza di seta. Ma si trattenne come intimidito, e nel silenzio che pendeva, dolcemente si sciolse da lei, dolcemente la respinse. — Ti piacciono? — ella domandò ancora, col suo sorriso di fanciulla e di femmina. — Sì... ma vattene, Lora! È tardi. — Che ora è? La sua voce pareva un sottil zampillo d’acqua. — Non so che ora... Ma è tardi... è tardi... — Vengo domani? — Sì. Egli stette lungamente fisso verso la porta per dove la sorella era uscita. IV Tornò il domani, tutta fresca, tutta ilare, odorante come la primavera nuova che fioriva di graste i davanzali. Filippo, nell’anticamera, si mise a trattarla con gran dimestichezza: — Buongiorno, signorina! Le domando scusa per l’equivoco di ieri; ma proprio non sapevo... — Oh, non importa! Ora lo sapete; va bene? — Il signor Arrigo non mi aveva mai parlato di lei. — Dov’è Arrigo? — Si veste; ha preso il bagno or ora. Vado súbito ad avvertirlo. — Non importa, ci vado io. Col suo passo che non faceva romore andò lesta verso la camera del fratello, battè all’uscio due colpi leggeri. — Posso entrare? Son io, Loretta. — Ah, sei tu? Veramente... ma entra pure, se vuoi. — Come sei bello in accappatoio! — ella esclamò appena entrata. — È questa l’ora di prendere il bagno? Sono le tre del pomeriggio, pensa! — Questa mattina mi svegliai troppo tardi e non ebbi tempo, — disse Arrigo. — Dunque, come va? — Non c’è male; ho visto Rafa adesso adesso. — Ah, sì? — Ieri avevo un appuntamento con lui alle quattro; non vi sono andata per venire da te. E stamane, alla Posta, ecco súbito una sua lettera disperata. Non ho potuto evitare di vederlo oggi. Però me ne sono liberata in fretta; eccomi qui. Arrigo era seduto presso la finestra, di fronte alla specchiera, e, con molte forbici, ferri, legnuzzi e pomate si andava nettando le unghie, che a poco a poco rilucevano. Aveva i capelli ancor tutti arruffati, umidi, e fumava, come di consueto. — Cos’adoperi per le unghie? — domandò la sorella. — Una pomata francese che si chiama «Roséine». È buonissima. — Costa cara? — Cinque lire il vasetto. — Peuh, non c’è male! Si avvicinò alla specchiera, sporgendosi un poco sopra la spalla del fratello e si guardò nello specchio. Non aveva messa veletta quel giorno; la sua pelle era fresca e rosea, le sue labbra splendevano e sorridevano anche quando eran chiuse. Lora se ne compiacque ed osservò: — Mi sta bene questo cappello, non ti sembra? Era di paglia, d’un’azzurra paglia lucente, con la falda rovesciata e la cupola molto alta. Aveva una guarnizione di rose rosa ed un nodo ampio di tulle. I suoi capelli riempivano tutto il vuoto dell’ala con un bel disordine di riccioli biondi. Arrigo la guardò nello specchio, sollevando rapidamente gli occhi dalla cura delicata che lo teneva intento. — Sì, Lora, ti sta molto bene, — disse; — oppure sei tu che stai molto bene con quel tuo cappello. — Però, come tutto è caro oggi! Un cappellino semplice semplice come questo: sessanta lire. Una rovina! Il fratello sorrise. — Eh, già! A te par niente, perchè sei avvezzo con certe signore che spendono per un cappello molte centinaia di lire. Ma io, vedi, faccio miracoli! — Mi domando appunto come riesci a vestirti così benino coi pochi denari che ti passano in casa? — Come faccio? Come faccio? Non credere che mi riesca facile. So io quel che debbo faticare! Ho un grosso conto dalla sarta, uno dalla modista, un altro dal calzolaio, e mi faccio fare la biancheria per la metà di quel che costerebbe, in un negozio dove sono amica della padrona. — Ma come mai ti fanno credito? — Quando posso dò loro qualche acconto. Poi le mie fornitrici son donne furbe; m’hanno guardata in faccia ed hanno compreso bene che un giorno o l’altro pagherò. — Ah, vedo!... — egli fece, tra maravigliato e ironico. — Poi, per esempio, certe camicette me le faccio da me; certi cappelli di anno in anno li rinfresco, li rinnovo con poche lire; le sottane qualchevolta le dò a tingere... Insomma è tutta un’arte che tu non puoi comprendere. Arrigo non cessava dallo strofinarsi le unghie, mentre gli errava un sorriso indefinibile su l’orlo della bocca. — E se te li pagassi io questi conti, ne saresti contenta, Loretta? — No, Rigo; non voglio che tu spenda per me. Sei buono, ma non voglio. Del resto non darti pensiero: c’è tempo, e se qualcuno deve mettersi la mano in tasca, preferisco sia Rafa. Così dicendo ella si mise a ridere. — Dunque ne riparleremo. Ella stava davanti alla specchiera e con la mano s’accomodava i riccioli. — Il vento mi ha spettinata; dammi una spazzola, Rigo. Egli le tese una spazzola d’avorio, larga e piatta. — Oh, guarda! È piena di capelli! Capelli di donna. Che birbante sei! Guarda... E trasse dai crini della spazzola un capello nero e lucente, che depose con molti riguardi su la manica del suo accappatoio. — Quello sciocco di Filippo si dimentica sempre di ripassare le mie spazzole! — osservò Arrigo. — Dammi un pettine, le ripasserò io. — Tu vuoi farlo? — Ma sì, che importa? Gli sedette accanto, sopra una seggiola, e cominciò a ripulire la spazzola. — Ma ne perde, sai, quella brava donna! — esclamò con una risata; e soggiunse: — Però sono morbidi. Chi è? Sempre la stessa? — La stessa, — egli confessò con un rassegnato sorriso. — La vedova? — Sì. — Dove tieni i suoi ritratti? — Nascosti, perchè vuole così. — Il Riotti ne parlava col papà molto spesso, ma ho dimenticato il suo nome. — Clara. — E le vuoi bene? — Perchè me lo domandi? — Così; voglio sapere se sei innamorato. — Oh, innamorato no! Le voglio bene, perchè è buona. Forse un po’ noiosa, un po’ gelosa... Ma, insomma, t’interessa tutto questo? — Certo. Devi sapere che sono molto curiosa... di certe cose almeno. Dimmi dunque, dimmi: ne sei stato innamorato? — Sì, una volta, non proprio innamorato, ma quasi. Ora è passato. — Perchè non la lasci allora? — Brava! Tu credi che quando si è cominciato con una signora, sia così facile staccarsene? Poi, qualche volta, vi sono certe ragioni che tu non puoi capire. — Ti sbagli, Rigo; io capisco tutto. — Anche più del necessario forse... Ma insomma è una cosa che dura da parecchio tempo, e questa donna mi vuol bene come poche amanti sanno voler bene. Qualche volta la faccio soffrire, perchè in fondo sono un brutto tipo, io! Egli disse queste parole con gravità, ma ella si mise a ridere. — Tieni. La spazzola è pulita. Egli s’alzò, prese un’altra sigaretta e l’accese. — Ora fammi un piacere, — disse. — Guarda un momento fuori dalla finestra perchè mi debbo vestire. — Fa pure; mi luciderò le unghie intanto. E ritrattasi nel vano della finestra, si mise con attenzione a lisciarsi le unghie, raggruppando insieme i ditini affusolati. — Di’, Rigo, — ella fece, — hai pensato a Rafa? Egli stava curvo presso il letto ad allacciarsi le giarrettiere. — Sì, Lora, vi ho pensato, e molto. Ho anche abbozzata la trama di un piccolo romanzo, che tu gli dovrai raccontare dopo che ci avrà veduti insieme. Questa sarà una grande sorpresa per lui, e in fondo avrà forse paura. — Me lo immagino. — Gli spiegherai che io sto fuori di casa per certi vecchi dissensi col padre, ch’è un originale, un po’ avaro, un po’ bisbetico, il quale vorrebbe far vivere i suoi figli lontano da quel ceto al quale appartengono. E gli dirai: «Ma ora che sapete chi sono veramente, non posso più conoscervi, per quanto me ne dispiaccia...» Mostra una grande paura di me; fa in modo ch’egli pure mi tema, e accusati d’esser stata una ragazza dalle idee troppo emancipate, la quale, forse per leggerezza, forse per debolezza, si sia lasciata condurre da lui fino a questo punto. Ma digli risolutamente che non intendi fare un passo più in là. È un sentimentale: bisogna che tu gli sappia recitare molto bene la commedia dell’amore; è uno sciocco, avvezzo per solito a riuscire: bisogna che tu gli appaia come l’amante necessaria, ma impossibile, bisogna che tu divenga per lui quello che un’altra non può essere... M’intendi? Gli farai comprendere a mezza voce che la strada verso il tuo letto è un’altra... Tutto questo forse non riuscirà, ma val la pena d’essere tentato. Sopra tutto assicúrati del suo silenzio e nascónditi bene quando gli dovrai parlare. Che nessuno ti veda per carità! S’era quasi vestito e le parlava ora da vicino, curvo su lei, guardandola. Per qualche attimo la fanciulla restò silenziosa, raccolta e quasi rifugiata contro la persona del fratello che le dava questi suggerimenti. Poi disse: — Non credo che mi sposerà mai. Sarebbe inutile farci questa illusione. — Perchè, Lora? Tu non conosci gli uomini. Qualche volta l’esasperazione d’un desiderio conduce a ben altre pazzie. Non mi dicevi che ha perduta la testa? non eri persuasa di poter ottenere qualsiasi cosa da lui? — Sì, ma veramente non pensavo al matrimonio. — E cosa pensavi allora? Questo vorrebbe dire che sei anche disposta a.... Ella ebbe un piccolo moto nervoso: — Bah!... senti... una volta o l’altra.... — Peccato! — egli esclamò con un accento di sincerità profonda, investendo la sorella con uno sguardo ch’era quasi un desiderio di lei. — Cosa dici, Rigo? — Dico che è peccato, molto peccato, benchè di questo, in fondo, non vi sia nessun giudice migliore di te. Egli metteva nel tono della voce una sarcastica irritazione quasi un veemente rancore. Anche la sua fisionomia s’era un poco mutata. — Dici che è peccato? — ella rispose dopo una riflessione. — Ma, ragiona: che avvenire ho io davanti a me, nel quale mi sia lecito confidare onestamente? A parte questo matrimonio, di cui parli ma nel quale non credo, chi altro mi sposerà? Un signore dal quale possa attendermi la vita che voglio, certamente no. E allora chi? Un bottegaio? Un droghiere qualsiasi come quello che ha sposato Luisa? Eh, no, via! Ti sembro fatta per andar a vendere la cannella ed i pani di zucchero? Poi no, insomma! Questi, per me, non son uomini, e piuttosto che fare quella vita mi metterei sottobraccio al primo venuto e me n’andrei via. Ti ho già detto che i miei gusti sono come i tuoi: tu non eri nato per startene in un negozio, e neanch’io. A te piace vestirti bene, avere una bella casa, poter spendere, andare a teatro, frequentare persone eleganti, vivere insomma... e tutto questo piace anche a me. Tu ci sei riuscito come hai potuto... anch’io sono pronta a riuscirvi come potrò. Parlando, gli era venuta vicino e familiarmente or l’aiutava ad allacciarsi le brettelle, come se non vi fosse alcun impaccio fra loro. Eran davanti l’armadio a specchio e si vedevan riflessi tra il contorno della camera. — Forse non hai torto, — disse Arrigo, dopo avervi pensato. — Io son del parere che ognuno debba cercare nella vita la sua migliore felicità. Sopra tutto non ti posso disapprovare io, che te ne ho dato l’esempio. Certo però, come fratello, dovrei parlarti altrimenti. — Oh, Dio!... tu sei così poco mio fratello! — ella esclamò con una singolare timidezza. — Nella nostra casa non sei stato quasi mai, ed ero bambina quando c’eri. Se venivi a trovarci, mi pareva che venisse un estraneo, del quale ogni volta ero più curiosa. Tutto quello che raccontavano di te mi dava una sensazione strana.... — Fece una pausa, poi soggiunse abbassando gli occhi: — Senti... è sciocco forse quel che dico, ma quando vengo da te, certo non penso di andare da mio fratello.... — Esitò ancora, poi disse: — Mi sembra quasi d’andar a trovare un amante.... Quand’ebbe pronunziata la frase un poco temeraria, se ne fece rossa e guardò negli occhi il fratello, pur vergognandosi della propria confusione. — Ah, sì?... questo ti sembra? — egli mormorò, volgendo il viso, come per occuparsi d’altra cosa. Durò tra loro un lungo attimo di silenzio, poi egli l’interruppe, dicendole: — Bene, continua. Ella parve che avesse smarrito il filo del suo discorso e indugiò a ritrovar le parole. — Dunque, — riprese infine, — se non è prevedibile ch’io mi mariti, per cosa o per chi mi conserverei onesta? Egli scrollò le spalle con un moto nervoso e disse: — Non mi piace sentirti parlare così! — La sua faccia divenne aspramente severa e soggiunse: — Qualchevolta ci si può conservare oneste anche per sè stesse. — Dici sul serio?... No, via! Per sè stesse! Bel merito! Bel tornaconto! Poi dev’essere anche immensamente noioso! Io, ti dirò, ho avuto la fortuna che Rafa, come uomo, proprio non mi piacesse; altrimenti a quest’ora.... Allora il fratello si mise a ridere. — Brava! tu almeno sei franca! Dici pane al pane.... — Ci mancherebbe altro che mi mettessi a fingere con te! Sei il solo che mi possa capire e quasi quasi mi diverto nel dirti la verità. — Dunque ti sembra che debba essere noioso? — egli ripetè, sempre ridendone. — Sicuro! Perchè, vedi, le ragazze, in genere, queste cose non le dicono... ma in fondo siamo fatte come voi, e qualchevolta... Non volle spiegar oltre, rovesciò indietro la testolina, con un atto rapido e nervoso ch’ella ripeteva di sovente. Ma quella idea le ritornava e le martellava nel capo. Allor si mise a riderne forte ed esclamò: — Di’, Rigo... sei un bel tipo tu! — Io?... perchè? — Mi guardi con un’aria così maravigliata... — Pensavo a quello che hai detto. — Ecco, dicevo che, presto o tardi, bene o male, finirei così. Meglio dunque valermi di questo mezzo per ottenere ciò che mi piace. Anche tu, in fondo, per quanto ne so io, devi press’a poco aver battuta la medesima strada... E per soffocare la sua risata impertinente, nascose il volto contro la spalla del fratello, che cercava ora una sottoveste nell’armadio. — Cosa ne sai tu? Cosa ne sai tu?... — Eh, via, se non lo avessi capito da me stessa, c’è Paolo, e c’è il Riotti, che ne parlano quasi tutte le sere. Ma che buon profumo hai! Dámmene una goccia sul fazzoletto. Egli prese una boccetta, ne tappò l’orlo con il fazzoletto minuscolo e due volte la capovolse. — Anche qui... — fece la sorella, segnandosi l’alto del petto, su la mussola fina, che lasciava trasparir la sua gola. Dalla giacchetta sbottonata il petto le fioriva rotondo, come dal gonfio involucro la rosa muscosa che si apre nel mese di Maggio. — Qui... — disse ancora. Egli si rivolse la boccetta nel palmo della mano e con una leggera carezza le profumò la gola. — Ti piace? — È un profumo delizioso. Come si chiama? — Chevalier d’Orsay. Lo vuoi? — E tu? — Me ne prenderò un altro. — Grazie. Le sue narici, nell’odorarlo, avevano la palpitazione di certe lievi ali di api morte, luccicanti come lamine d’oro, che piovono per l’aria, l’estate, quando il vento cade. V Una sera, quando la sarta ebbe fatto l’abito, Arrigo andò a prendere Loretta per condurla a teatro. — Tu le dài troppi vizi! — disse il padre ad Arrigo, poi che seppe lo scopo della visita. E scoteva la sua testa grigia con un atto d’indulgenza rassegnata. — Via, non essere troppo severo! — fece Arrigo. — Loretta ha voglia di svagarsi; e lo si capisce: è la sua età. Loretta era già pronta, ritta su la soglia, e trepidava. — Va bene; ma devi sapere che, d’idee poco serie, questa figliola ne ha già da vendere, — disse il padre con la sua voce mite. Capitò il Riotti proprio in quel punto. Benchè in dissapori con Arrigo dopo il congedo brusco che ne aveva ricevuto, non seppe frenare la sua maledetta lingua. — Oh, il ritorno del figliuol prodigo!... — esclamò. — Che bella improvvisata! Loretta, che non lo poteva soffrire, gli rimandò di botto: — Se si mischiasse un po’ dei fatti suoi, signor Riotti? — Veh, la pettegola! — rifece lui con bile. Arrigo l’onorò di un saluto cerimonioso. — Prendi le chiavi con te, Loretta; lo spettacolo finirà tardi, — egli suggerì alla sorella. — Si va dunque a teatro? — osservò il farmacista. — E tu la lasci andare? — soggiunse, rivolto all’occhialaio. — È il fratello che l’invita, — rispose costui a mo’ di scusa. — Allora buona sera a tutti, — fece Arrigo. E prestamente uscirono insieme, il fratello e la sorella, parlandosi piano, ridendo. — Sei fortunato nei figli! — esclamò il Riotti con una voce quanto mai sardonica. Ma l’occhialaio, per tagliar corto: — Be’, facciamo la scopa? — Facciamola pure. Poi fiatò col suo gran torace, e soggiunse: — Mah... vecchio mio!... se tu avessi avuto il polso più fermo, non ti troveresti ora a far da burattino in casa tua! E consultò con lo sguardo Paolo, ch’egli sapeva essere del suo parere. Difatti questi non se la intendeva per nulla nè con Arrigo nè con Loretta; quasi mai apriva bocca se il primogenito era presente, limitandosi a ribattere con ironie un po’ grossolane tutti gli argomenti della sorella minore. Nella casa di Stefano i vincoli familiari s’eran andati assai rallentando; la figlia maritata vi bazzicava di rado, assorta nelle cure del suo proprio focolare; Arrigo, da lungo tempo, non vi contava più se non come un visitatore avventizio, che talvolta con la sua presenza metteva un certo impaccio in tutti; Loretta, col suo carattere imperioso e ribelle, stava per seguirne le tracce, mal tollerando i freni della potestà familiare; Paolo invece era quegli che mandava innanzi la bottega: solerte, morigerato, economo, qualchevolta un po’ bisbetico, e nulla più. Egli peraltro, come tutti i mediocri, non evitava di far valere i suoi meriti mediocri, e poichè di tenerezza nè d’affetto non esuberava, rimanevan soli que’ due poveri vecchi, ormai delusi nelle più care speranze, lui, stanco d’una vita inutilmente operosa, lei, che ingrassava ed insordiva ogni giorno, pur restando quella frivola donna ch’era stata in gioventù. Nello stesso tempo il Riotti s’inacidiva, sfogando contro tutti l’ingeneroso rancore di non aver maritata la figlia. Ora la pigra Eugenia s’era fatta più corpulenta e somigliava al padre in un modo per lei deplorabile. Aveva cinque anni meno d’Arrigo, cioè ventiquattro ormai, e le speranze d’un marito si facevan ogni giorno più rade. Jettatura, non altro che jettatura! — pensava il padre, perchè la ragazza, in ogni senso, era un partito più che appetibile. Ma ella certo non se ne faceva cattivo sangue; era pigra, d’una pigrizia di marmotta; purchè non la facessero faticare, tutto le andava bene. Aveva tanto dormito in vita sua, che i suoi ventiquattr’anni parevano a lei stessa d’una brevità sorprendente. Era abile in tutti i lavori femminili, cucinava come una cuoca provetta: possedeva insomma tutte le virtù d’una onesta massaia. Dopo quel suo calamitoso amore per Arrigo, non si erano scatenate altre tempeste nella sua calma vita. Aveva bensì vedute sposarsi l’una dopo l’altra quasi tutte le sue amiche, però senz’alcuna invidia. Chi se ne crucciava sino allo sdegno era solamente il padre, che aveva una settimana d’umor bestiale ad ogni matrimonio del quale udisse parlare. Ma l’Eugenia, no; ell’aveva amato Arrigo, lo amava ancora, lo amerebbe sempre... e però questo amore non le dava alcun disturbo; era divenuto in lei come una malattia cronica, una di quelle malattie che non si curano più e che non dànno alcun dolore. Quando per caso le capitava di vederlo, si faceva tutta rossa, balbettava, scappava; poi la sera, nel mettersi a letto, ne piangeva per cinque minuti, s’addormentava. Il Riotti aveva finito con dirle più volte: — Ragazza mia, tu manchi di «temperamento!» A questa parola «temperamento», che gli piaceva assai, il farmacista dava insieme un senso patologico e letterario, qualcosa di più anche: un senso erotico. E intanto aveva messo gli occhi addosso a Paolo, benchè il ragazzotto, nonostante le sue virtù, non gli finisse di piacere. Lui lo spalleggiava, lui lo decantava, ma in fondo in fondo, per i suoi gusti un po’ romantici e molto ambiziosi, quel figlio minore del suo vicino era decisamente troppo bottegaio. Aver educata una figlia ed averla ornata come la sua Eugenia per darla poi ad un Paolo qualsiasi gli faceva un po’ l’effetto di mettere una pianta rara in un vaso di terra cotta. Arrigo invece era stato il suo sogno nascosto, nè ancor cessava d’esserlo per quanto fossero grandi le sue dissolutezze. Gliel’avrebbe data a braccia aperte, anche dopo quella sua vita impudente, e nonostante le gherminelle ch’egli aveva giocate loro. Un po’ testardo come tutti i piccoli borghesi, s’era fitto in capo di maritar l’Eugenia con Arrigo, ed anche certo di far così la sua sciagura non avrebbe forse mutata decisione. Senonchè ogni speranza si dimostrava ormai vana, e da quell’uomo pratico ch’egli era, sapendo che il tempo ha le gambe leste, mentre le zitelle invecchiando si fanno bisbetiche, umiliava la sua smoderata ambizione fino a desiderar come genero quel sempliciotto di Paolo, dai capelli rasi a macchina ed ignorante come un bue. Arrigo e Loretta erano giunti a casa, frettolosi ed un po’ storditi quella sera, come se andassero a commettere un peccato. Era presto ancora, perchè in casa dell’occhialaio si cenava di buon’ora. L’abito nuovo era steso sul letto d’Arrigo; sopra una seggiola era uno scatolone contenente il cappello che aveva comperato egli stesso per farle una improvvisata. C’erano le scarpine, a piè del letto, piccolissime, di quel colore viola ed oro ch’ell’amava; due scarpine da bambola, con il tacco esageratamente alto. I guanti lunghi erano sul cuscino; dalla spalliera d’una seggiola pendeva una sciarpa di velo a pagliuzze luccicanti. A quell’ora il domestico era fuor di casa per la cena. Entrarono al buio, ella tenendosi al suo braccio per non urtare contro i mobili, in quella casa che non conosceva bene. Quando furon giunti nella camera da letto ed Arrigo ebbe accesa la luce, tutto quel paradiso femminile, ch’era lì per aspettare la fanciulla, s’illuminò come d’incanto: Loretta, presa da una commozione quasi triste, non potè trattenersi dall’esclamare: — Oh, Rigo, come sei buono! come sei caro!... — e mettergli le braccia al collo, e baciarlo, poichè la sua tenerezza era così grande che ne aveva le ciglia umide. — Sei contenta? — egli le domandò, passandole una mano su la guancia con un gesto di protezione e d’amore. — Tanto, tanto! — ella fece, alzandosi un po’ su la punta de’ piedi per giungere alla sua bocca. E diceva: — Come potrò mai ringraziarti di tutte queste cose? — Eh, via, sciocchina! Ti pare che valga la pena? Véstiti ora, ch’è tardi. Io vado di là per lasciarti più libera. Se ti occorre qualcosa, chiámami. — Te ne vai? — ella fece, quasi rattristata. — Come vuoi tu... — Sì, naturalmente... — ella disse, quasi a malincuore. — Ma ti chiamerò per allacciarmi la camicetta. Sai allacciare gli abiti? Egli sorrise. — Mi proverò. Arrigo si ritrasse nell’altra stanza, lasciando la porta socchiusa. Da prima ella lo intese camminare, poi sedersi, aprire un giornale. — Farò presto, sai... — Va bene; ma non ho fretta. — Hai pranzato, Rigo? — Non ancora. — Perchè? — Questo mi cápita spesso. Ceno dopo il teatro. — Del resto anch’io ho mangiato pochissimo questa sera. — Dunque ceneremo, — egli disse. Ed ascoltava il romore di lei che andava per la camera, quel romore continuo, leggero, frusciante, che la donna fa nel togliersi le vesti, quel romore che parla e descrive e fa vivere davanti agli occhi la viva immagine di colei che si spoglia. L’ascoltava e la vedeva: s’era tolto prima il cappello; gli spilloni avevano dato un suono metallico posando sul cristallo della pettiniera. Poi s’era levata la camicetta, rimanendo a braccia nude in un copribusto color di rosa. Guardandosi nello specchio s’era lasciata scivolare giù dai fianchi la sottana, che le aveva fatto intorno ai piedi un cerchio alto e gonfio, dal quale era balzata fuori prestamente, rimanendo in gonnella; una gonnella con una leggiadra balza in basso ed un nastrino che vi correva dentro e fuori, per gli occhielli del pizzo, anch’esso color di rosa. Un piccolo spogliatoio era contiguo con la camera da letto; l’aveva intesa versar l’acqua nei catini; s’era immaginato di veder l’acqua scorrere in veloci rivoli per le sue braccia delicate. Poi era tornata nella camera, e s’asciugava, camminando in su in giù, a piccoli passi; l’asciugamano le rovesciava indietro dalla fronte i riccioli scomposti; s’era seduta davanti alla specchiera, ed ora si pettinava. Le linee del suo giornale parevano a lui un arabesco incomprensibile. Non gli era mai accaduto di provare un turbamento così forte, nè di badare a queste minime cose. Eppure aveva tante volte pazientato nel lungo abbigliarsi d’altre donne. Un’idea tempestosa gli rabbuiava il cervello, gli contorceva i nervi, dolorosamente. Lo prendeva una voglia insensata d’affacciarsi all’uscio per guardare; doveva compiere uno sforzo quanto mai violento per allontanare da sè la tentazione. — Permetti che mi serva della tua cipria? — ella domandò. — Se vuoi; ma ce n’è un’altra più fina, lì presso, nella scatola d’argento. — No, voglio la tua. E la immaginò che s’incipriava, che s’incipriava le braccia, la gola, il viso; gli parve di sentir l’odore che aveva la sua pelle commisto a quell’odor di cipria. Buttò il giornale, accavallò le gambe, si mise a martellarsi con le dita i ginocchi, poi gli venne una specie d’ira gelosa, pensando a quel Rafa che la voleva. — Ti annoi, Rigo? — No. — Che fai laggiù? — Fumo. Ella esitò un momento, poi disse: — Vieni qui... tanto è lo stesso! Egli ebbe un piccolo tremito. — Sì? posso venire? Apparve dietro l’uscio, un po’ stravolto, con gli occhi fissi. — Come ti sei pettinata bene! — osservò. Ella si volse a lui, per essere veduta in faccia, con un atto pieno di civetteria: — Ti piaccio? Egli rispose di sì, con gli occhi, senza dir nulla. C’era già in tutta la camera quell’odor femminile che turba i sensi come un forte bacio. Ella era di fatti in gonnella, con le braccia nude, un copribusto che le giungeva solo a mezzo il petto ed a mezzo la schiena. Non gli era sembrata mai così bella. Arrigo le si avvicinò, un poco titubante, non sapendo che fare per sembrarle naturale. Nell’accomodarsi i riccioli ella teneva le braccia alzate; un’ombra oscura le appariva nel cavo delle ascelle. In quell’atto ella sorprese gli occhi di lui che la fissavano, intenti e lucidi. Allora, per un pudor naturale, abbassò le braccia, se le strinse al petto, e si fece rossa. — Non guardarmi così... — disse a volto chino; — mi costringi ad arrossire... Egli girò sui talloni, battendo il pavimento con un moto nervoso. — Véstiti, véstiti! — disse bruscamente. — Non ti guardo. Se ne andò a sedere in un angolo, e, poggiando i gomiti su le ginocchia, si prese tra le mani la fronte avvampata. — Sei in collera? — ella fece. — No, Lora, perchè? — Non mi parli... — Siccome non vuoi che ti guardi... — Ma guardami pure, se ti piace! Me ne vergognavo il primo momento; adesso più. E rise, mentre s’alzava per andarsi a mettere le scarpine. — Se potessimo abitare insieme, come sarei felice! — disse Loretta. — Non ti darei nessuna noia, ti lascerei tutta la tua libertà. Cosa ne pensi? — Nulla penso, piccola mia... — egli rispose con lentezza. — Non vorresti avermi con te, Rigo? — Sì, forse vorrei... ma sarebbe anche pericoloso... E fece tosto una risata, quasi volesse celare il senso ambiguo delle sue parole. Ella guardò su dal letto, dietro il quale stava curva per infilarsi le calze di seta. — Pericoloso, dici?... Be’, tanto meglio! E súbito si chinò di nuovo, si nascose tutta. Rimasero un istante in silenzio; poi ella domandò: — Non hai un corno per le scarpe? Mi rompo le dita. Egli l’andò a cercare; le disse: — Lascia fare a me; t’aiuterò io. Appoggiò un ginocchio a terra, davanti la sedia ov’ella sedeva; su l’altro suo ginocchio le fece posare la gamba semiscoverta e con delicatezza si mise a calzarla. — Oh, come sei bravo! — ella esclamò. — Devi certo averne l’abitudine. — Sì?... ti pare?... E pensa che non amo far questo per nessuno... Mi credi? — E non si moveva di lì, battendole il corno leggermente su la caviglia calzata di seta. — Vedi che piedino piccolo? — ella disse movendolo. — È più piccolo il mio o quello della tua amante? — Il tuo. — Ora ti sarai impolverato; álzati. Si levò in piedi e le rimase vicino, come un uomo che si sentisse prendere da uno stordimento. Vedeva que’ due seni, troppo forti per la sua verginità, que’ due seni divisi da un incavo profondo, che rompevano fuor dal busto come pannocchie dal cartoccio; li vedeva, oscuri e gonfi, traverso la scollatura del copribusto. E la sua tentazione fu così forte che non seppe resistere: una mano gli corse involontariamente a carezzare la sua gola nuda. Ma disse, a mo’ di scusa: — Guarda, v’è un po’ di cipria... Ella non rise, non si mosse; qualcosa, come un brivido che le prendesse tutta la persona, si propagò, si moltiplicò in lei. Con ebbrezza, in quell’attimo, si sarebbe lasciata baciare. Una pendola nell’altra stanza battè l’ora. In quel silenzio torbido i rintocchi parvero quasi un avvertimento. — Le otto e mezzo, — disse Arrigo scotendosi. — Fa presto, se ci tieni ad arrivare in principio. — Sì, passami l’abito. Egli lo prese dal letto, con una esperienza che pareva singolare in lui, lo aperse in guisa da non guastare la sua bella pettinatura e glielo fece passare sovra il capo senza scomporle un ricciolo. — Vòlgiti, che t’allacci, Lora. E andarono davanti allo specchio. Era un abito color di malva, con guarnizioni di color viola cupo, trasparente intorno al collo. Non era che un velo, di quella garza morbida e lieve che i francesi chiamano «crêpe de Chine»; ma la fasciava strettamente, come una guaina, drappeggiandosi appena intorno alla ricchezza del petto e nella sinuosità del grembo, sopra le ginocchia. Quando l’ebbe indosso, Loretta si mise a ridere per la gioia di sentirsi così bella, e tutta una vita nuova le si schiuse dinanzi, con quell’abito nuovo. — Sfido io che paion tutte belle certe signore che conosci tu! Sapendosi vestire, non è difficile! Mirabile pareva, in quel viola che ammorbidiva il suo biondo, in quella stretta fasciatura che sembrava la denudasse intera nella sua più scultoria bellezza. Egli la guardava mutamente, con una ferma luce nelle intense pupille, che parevano scoccarle addosso tutto il fuoco d’un desiderio contenuto. — Sei magnifica! — le disse. — Veramente sei ammirevole! Si parlerà di te domani. — Davvero? — ella fece con una incredulità sorridente, specchiandosi per ogni lato. Poi ebbe quasi un piccolo pudore: — Ma, di’, non sono troppo... nuda? — È la moda quest’anno. Le donne, quando son vestite paiono più nude che in camicia. Ella si mise il cappello, si specchiò ancora, s’incipriò ancora, si fece scorrere lentamente su l’avambraccio i guanti stretti, e ravvolta in un gran mantello che le scendeva sin quasi ai piedi, esclamò allegramente: — Son pronta! Per le scale s’appese al braccio di lui, ed uscirono. Il mese di Marzo passava, carico di buoni odori. Faceva una sera tepida e chiara. Il cielo, sgombro d’ogni nube, metteva tra le case fosche un tremolìo di stelle. La città s’inoltrava nella notte con un grande respiro di sollievo, mentre qualche coppia di innamorati, stretta e lenta, se n’andava per via discorrendo di cose dolci. Seduta presso il fratello, in una vettura scoperta, Loretta inseguiva con occhi turbati quegli amanti senza nome che andavano in cerca del buio. — Quanta gente che si parla d’amore?... Non vedi? — È l’ora, — egli osservò, — poi è la primavera. — Dunque, vedendoci, forse penseranno che anche noi... — È probabile: la gente pensa molto spesso il male. — Questo mi diverte! — esclamò Lora. Poi si mise a riflettere. — Tu credi che ci assomigliamo? — domandò al fratello. — Non credo. Ella gli prese il braccio e si lasciarono portare dal trotto stanco del cavalluccio, che ogni tanto scalpitava sotto una frustata. Era la prima della _Carmen_ quella sera. Giunsero che lo spettacolo era cominciato appena ed entrarono a teatro semibuio nel palchetto di prima fila. Il senso enorme della folla oppresse il cuore della fanciulla; per un momento i suoi occhi non videro che un abbaglio meraviglioso. Tutte le favole della terra, tutto ciò che il mondo aveva di morbido come la piuma, di lucido come il gioiello, di fragrante come il fiore, di splendido come la bellezza, d’inebbriante come la musica, di tormentoso come l’amore... tutto per lei si radunava nella sala di quel teatro. Se nel suo bianco letto di vergine aveva sognato ad occhi aperti, ecco era il sogno; se dalla piccola bottega aveva desiderato di respirare quell’aria intensa e torbida ove le fate del vizio dissolvono qualche prestigiosa polvere d’oro... ecco la respirava; se aveva mai voluto splendere, ecco, e splendeva. Una sensazione d’irrealità le alitava intorno alle guance calde; sentiva la sua propria bellezza viverle intorno come un’altra veste più rara, intessuta di stelle. Sentiva nel suo cuor femineo la possibilità di piacere, quella possibilità che racchiude ogni più squisita gioia per la donna, quella consapevolezza che la inebbria come un liquore vivificante. Già nei palchi vicini era nata una curiosità sommessa; dalle poltrone sottostanti, tra il correre d’un bisbiglio discreto, qualche canocchiale puntava su la bella sconosciuta il fuoco delle sue lenti curiose. Quella sera il teatro, come un paniere traboccante, fioriva di bellissime donne, che, scollate, ingioiellate, loquaci, pendevano dai palchi e gremivano la platea con un desiderio manifesto d’essere adocchiate. Egli le conosceva quasi tutte, le aveva frequentate, corteggiate, era stato l’amante di alcuna. Di fronte a loro, nel suo palco di seconda fila, c’era donna Claudia del Borgo, ancor bellissima in quella luce, con la sua cuginetta romana, la piccola Isabella Ventamura, che aveva di recente ottenuto l’annullamento d’un matrimonio quadriennale con il suo grazioso e biondo consorte, il visconte d’Amboissières. Cattolicissima e guelfa, questa piccola dama non amava che i grandi prelati, e, dopo un Vicepapa Nero, si era scelta come direttore spirituale un lussuoso Cardinale di Curia, che il fumo d’un Conclave Apostolico avrebbe forse destinato al triregno. Nel frattempo il visconte consorte si dilettava di certe leggiadre usanze alemanne, le quali avevano permesso di ritrovare nella piccola Isabella quella «intacta virgo» sì rara, cui molto indulge la buona Casa di San Pietro. Donna Claudia portava un abito di velluto scuro che le modellava squisitamente il busto; aveva tra i capelli un diadema, lucido e greve come una corona. C’era nel palco Antonello Musatti, di cui donna Claudia s’era intenerita il giorno che l’aveva veduto rotolare sotto il cavallo in un concorso ippico. Nel palco della duchessa di Benevento ci si annoiava con molta eleganza: però don Antonino Vernazza e Max della Chiesa le facevan la lor visita di dovere, per non essere dimenticati a’ suoi pranzi trimestrali. Il palco degli Altomarini era vuoto, e ciò si notava da tutti. Gli Antelmi ne occupavan tre di séguito, con quattro nuore in facciata, due incinte, due vestite assai male, un mucchio di suocere a ridosso, e tutto il parentorio nel buio. I Mazzoleni, che misturando profumi e spacciando saponette s’eran guadagnati di che comprarsi un marchesato feudale, tenevan corte rumorosa; uomini e donne troppo fiammanti ancora, con le sete i brillanti e gli sparati che luccicavan oltre misura. C’erano tutte l’altre, tutti gli altri, che andavano famosi nella città per casato, per bellezza e per censo; e v’era, in un palco di terza fila, con la sua figlia giovinetta, stranamente dissimile da lei, la soave Clara Michelis, così bianca nel finissimo abito nero, poggiata il gomito nudo sul parapetto di velluto e vivendo intera nell’ombra che le faceva su la fronte, su la nuca, la sua capigliatura soavissima. Questa pareva potersi disciogliere per una piccola scossa, come se un nodo solo, pur lieve, la tenesse raccolta in quel gran volume. Aveva ella nei polsi, nelle giunture, nelle spalle, in ogni singolo tratto del suo viso, un non so che di estremamente stanco e fragile, quasichè il suo corpo fosse uscito appena da un bagno voluttuoso, che l’avesse oltremodo stremata. Nuda, si sarebbe ravvolta bene in un velo funebre; era di quelle figure vanevoli che talora si vedon nei quadri, curve dolcissimamente sopra l’agonia d’un uomo giovine; tutta la sua bellezza era nelle pieghe del suo corpo, ne’ suoi lenti movimenti, nelle sue fine ombre; pur quand’era silenziosa, lasciava intendere che avrebbe una voce soave; pur stando ferma e raccolta, mostrava che avrebbe camminato senza romore. Qualchevolta, nel mezzo d’un bosco, sopra l’acqua opaca d’uno stagno, nasce come per miracolo uno di que’ meravigliosi fiori bianchi, irraggiungibili perchè navigan col vento, che hanno in sè la solitudine, la tristezza, la malattia delle cose circostanti; non li alimenta la terra ma l’acqua ferma, piena di raggiere: così ella pareva essere, nell’ombra del suo palco e sotto il peso de’ suoi capelli oscuri. Arrigo la vide, s’accorse d’esser veduto, e rapidamente i loro sguardi si evitarono. Benchè le avesse detto: «Forse accompagnerò mia sorella in teatro una di queste sere,» — tuttavia quello sguardo lo molestava singolarmente, quasi ch’ella potesse, anche lontana, indovinare i suoi più nascosti pensieri. Poichè ormai quell’amante non più del tutto giovine lo amava d’un amore voluttuoso e triste, rifugiava in lui perdutamente l’ultima, l’unica passione della sua vita. Ed ora non lo amava più come al tempo in cui, nel salotto semioscuro, ella si dilettava di tormentare insidiosamente la sua rabbia virile; non più come quando ella cercava nell’amante uno svago alla sua lunga noia od una scossa quasi brutale a’ suoi sensi viziati; non più per incuriosire le chiacchiere mondane, per contenderlo ad un’amica, per avere intorno alla propria sottana quella furtiva e lasciva scaltrezza d’uno che la voglia slacciare; ma perchè nel suo cuore di donna era nato l’estremo, il più forte bisogno d’appartenere e di possedere, la voglia istintiva di carezzare, d’avvolgere, di proteggere, di vivere in un’altra vita, di sacrificarsi per un’altra felicità, quella voglia inimitabilmente bella che dal suo profondo senso materno la donna irradia talvolta, come un grande miracolo, nell’amore. Così non era per lui possibile nascondersi a quegli occhi attenti; essi penetravan senza rimedio fin nei più nascosti rifugi dell’anima sua. Nei giorni lieti, baldanzoso ed oblioso, egli se ne stava lontano; ma nei giorni di tristezza, una voce, buona per lui come nessun’altra voce umana, lo richiamava in quella casa fedele, ove presso l’uscio vegliava sempre una dolce anima piena di perdono. Quand’egli era percosso dagli altri, quelle mani timide sapevan esser così lievi nel medicare le sue ferite; quando tutto il resto pareva perduto, c’era sempre in quella casa un focolare vigile, c’era un’amante innamorata come il primo giorno, ch’egli vedeva impallidire della sua più fredda carezza, c’era quasi una sorella e quasi una madre che l’aspettavano per dirgli: «Dammi il tuo dolore, ch’io ne soffra, e porta via con te questo sorriso che nasconde le mie lacrime...» Forse così egli pensava e per questo non ardiva guardarla. Ma l’atto finì tra uno scroscio d’applausi; da tutte le lampade simultaneamente un’ondata di luce si rovesciò nella sala. Sopra il canto cessato corse il frastuono della platea, il cicaleccio dei palchi, fra un’agitarsi di ventagli, un rimuoversi di gente che s’alzava, mutava posto, si raggruppava. Ognuna ebbe cura di parer bella quanto più poteva, ben sapendo che gli occhi delle rivali avrebbero saputo accorgersi anche de’ più lievi difetti. Gli uomini, dandosi una rassettata alle falde, si levavan su dalle comode poltrone per adocchiare intorno; i galanti facevan visite, gli innamorati guardavano la lor bella, i pettegoli ficcavano il naso nelle cose altrui, i disoccupati se n’andavano a fumare. Loretta era bene in vista, come un frutto esposto in un bel paniere; non aveva gioielli, tranne la sua giovinezza, che l’adornava meglio di cento collane. Dall’alto, alcuno fra i Mammagnúccoli già l’aveva scoperta, e súbito se ne fece un gran discorrere. Chi era mai «quella nuova» con il del Ferrante? Tutti sapevano del suo legame con Clara Michelis; ella stessa era inoltre in teatro; dunque chi era mai? Forse una rottura? Chissà? Ma era bella, quest’altra, molto bella! E giù in fretta per le scale, affacciandosi agli sbocchi della platea per meglio vederla. Qualcuno giunse fin sotto il lor palco, per interrogare con uno sguardo Arrigo e raccoglierne un segno che spiegasse qualcosa. Ma invano. Da tutte le parti ora si guardava; i commenti eran visibili, quasi molesti; e Loretta sopportava con una bella spavalderia quel battesimo del fuoco. Entrò nel palco una fioraia, incipriata e imbellettata come un pastello, vecchiotta, però ancor promettente, co’ suoi capelli a torre adorni di nastrini e con la bocca esageratamente rossa. Sorrise al del Ferrante, poi offerse a Loretta un mazzo di rose gialle. — Vedete, Clelia, questa è mia sorella, — disse Arrigo affabilmente. — Oh, signorina!... — esclamò la fioraia, con la sua voce di falsetto, sprofondandosi in una riverenza da vecchia maestra di ballo. E si ritrasse, lasciando lì un suo benevolente sorriso, viscido come una lumacatura. — Come? Non le dài nulla? — osservò Loretta. — Eh, via, la si paga una volta ogni tanto... — Povera donna! Deve guadagnar poco. — Certo, coi fiori poco. Ma i fiori non sono che il suo biglietto da visita. Vedi, le ho detto che sei mia sorella, così fra dieci minuti tutto il teatro lo saprà. — Ah?... sei furbo! — ella esclamò, tuffando il viso entro il mazzo di rose. Nel ridotto, ne’ corridoi, nell’atrio, su per le scale, nei camerini, dappertutto dove poteva essere un Mammagnúccolo, si parlò della bella ragazza che stava con il del Ferrante in un palco di prima fila. Nessuno immaginava chi fosse, nè tanto meno la ravvisavano, se pure alcuni l’avevan qualche rara volta incrociata per la strada. La Clelia, infiorando occhielli, s’era forse dimenticata di seminare questa notizia. Verso la metà del second’atto Arrigo vide il Giuliani affacciarsi dall’alto al parapetto del palco. — C’è Rafa! — esclamò sottovoce. — Ma non guardare lassù. Era entrato in quel momento nel palco e salutava gli amici. — Son curiosa di vedere se mi riconosce, — disse Loretta, divertendosi. — Vedremo, — bisbigliò il fratello, che spiava con la coda dell’occhio. — Adesso mi sembra che gli stiano parlando di noi. Ma sebbene infatti gli parlassero di loro, e sebbene l’avesse guardata con il canocchiale, per tutto l’atto non la riconobbe, tanto era lontano dal poter supporre che fosse lei. Quando, all’altro intermezzo, la sala ridivenne chiara, e Rafa, guardando meglio, riconobbe per prima cosa que’ suoi capelli d’un biondo raro, poi la forma del viso e la bocca e il sorriso e le braccia e le spalle, e tutta lei, che amava infinitamente... quando più non gli rimase alcun dubbio, una grande meraviglia, piena d’impazienza e d’incredulità, gli si dipinse nel viso. — Che? La conosci tu? — domandarono gli amici. — Sì... cioè no... ma, ecco... è impossibile! — E si confuse. — Insomma la conosci o no? Chi è? Allora prese una risoluzione e disse: — L’ho veduta molte volte per istrada. L’amava e non poteva tradirsi, l’amava e non voleva tradire lei. — Non sai altro? — Non so altro. — Allora perchè ti affanni tanto? — fece Totò Rígoli. — Se fosse la tua amante non ne saresti più sovreccitato. Il Giuliani, seccatissimo, uscì dal palco ed apparve in due o tre punti opposti del teatro, poi traversò la platea, venne fin sotto il palco d’Arrigo, tutto acceso in volto e così turbato che aveva un aspetto ridicolo. Loretta, impassibile come una statua, guardava in aria, mentre il povero Giuliani non poteva capacitarsi della cosa. Sopra tutto non comprendeva come mai Loretta, che certo l’aveva già veduto, rimanesse tanto calma. Si avvicinò di nuovo al loro palco ed ebbe l’audacia di chiamar Arrigo per nome, augurandogli la buona sera. — Addio, Rafa, — rispose Arrigo rapidamente. Ma finse tosto d’aver qualcosa a fare in fondo al palco e si ritrasse. Loretta non si scompose; guardò per un attimo il Giuliani, con un sorriso fuggevole, poi volse gli occhi altrove. Perplesso e nervoso, Rafa se ne andò a fumare in ridotto. Ma non potè finire la sigaretta e tornò fra i suoi amici mentre cominciava il terz’atto. — Ecco, adesso lo sappiamo chi è, — disse il Rígoli. — Chi è? — fece Rafa, sgranando gli occhi. — È la sorella di Arrigo. — Ma via! non dire sciocchezze! — Guarda un po’ che bel tipo! Cos’hai stasera? È sua sorella, ti dico. Sua sorella, proprio. Lo ha detto egli stesso alla Clelia; ti basta? Rafa scrollò le spalle, ma timidamente. — Vorrei un po’ sapere cosa te ne importa e cosa ci trovi di strano? Rafa, mezzo intontito, non rispondeva. Un maligno avanzò: — Di fatti ha l’aria un po’... come dire? un po’ Folies Bergère, per una signorina di buona famiglia? — Ma è Rafa che invece ha l’aria lugubre! — A lui, tutte le belle donne han sempre dato un senso di malinconia. — Questa è bella davvero, per bacco! — Ha gli occhi tinti. — No. — Sì. — Una bocca viziosa... — E il petto!... guarda un po’ che splendore! — Dev’essere una civetta. Continuavano allegramente ciascuno a dir la sua. Poi si misero a celiare sul conto di Rafa. — Lui, vedi, è capacissimo d’aver commesso uno sproposito. Forse l’ha incontrata per istrada e l’ha inseguita come fa sempre. — Ma no! — rispose il Giuliani vibratamente. — Hai avuta forse un’avventura con lei? — domandò uno spudorato. Rafa si chiuse nelle spalle, imbronciato. Alcuni risero. — Sta a vedere, — disse un altro, — ch’è proprio lei quel tuo nuovo misterioso amore! — Siete pazzi da legare tutti quanti! — esclamò il Giuliani, volgendo la cosa in ridere. — Guárdati nello specchio: sembri un ubbriaco. Ci deve pur essere qualcosa. — Ma niente! ma niente! — fece Rafa seccato. — La conosco appena di vista e non supponevo affatto che fosse la sorella di Arrigo. Ne siete sicuri poi? — Così ha detto la Clelia; domandalo a lei. Alcuni zittirono i ciarlieri e la conversazione s’interruppe. Rafa, che amava la musica, non avrebbe saputo dire quella sera che opera si desse. Ritto in fondo al palco, i suoi occhi eran come affascinati dallo splendore di Loretta e non poteva staccarli da lei. Ma nel suo buio cervello passavano in torma le più fantastiche idee. Si sentiva nello stesso tempo sorpreso, burlato, minacciato, ravvolto in un grande pericolo, in una tentazione più grande. Ella si era dunque divertita a sembrargli da meno che non fosse, gli aveva tutto nascosto, anche il suo vero nome, per apparirgli davanti una sera, inattesamente, al fianco d’un fratello temibile, affacciata sopra una platea che l’ammirava. Così bella infatti egli non l’aveva mai veduta nè così desiderabile. Perchè dunque si era lasciata seguire, avvicinare, tentare? Perchè aveva risposto alle sue lettere? Perchè, talvolta, se pur scontrosa e riluttante, si era lasciata baciare? Cos’era questa fanciulla emancipata, che passeggiava sola, che accettava convegni, che qualchevolta scivolava con lui fin su l’orlo della colpa, volandone via con la grazia d’una farfalla che gli lasciasse appena su le dita il bianco della sua cipria? Si era divertita: ecco tutto. E forse, domani, dopo quel mutamento di scena, non avrebbe voluto continuare più nel suo gioco. Ma questo pensiero lo mordeva, lo atterriva, perchè tutta la sua vita era momentaneamente presa dal desiderio di lei. Rafa non aveva molti vizi; benchè ricchissimo, non conduceva una vita del tutto sfaccendata; s’occupava delle sue terre, amministrava il patrimonio familiare, si dilettava di politica, forse per un’ambizione lontana. Pur amando la compagnia de’ Mammagnúccoli, non giocava, non ismodava nel bere, non sprecava le notti in vani bagordi; solo era d’una debolezza quasi puerile con le donne che a lui piacessero, e se n’accendeva sino a diventar ridicolo, sino a dimagrar d’amore. Ma questo capriccio per la sorella d’Arrigo aveva superato ogni altro accendimento. A un certo punto il suo malessere divenne così acuto, che preferì andarsene dal teatro per scriverle una concitata lettera. Ma quando fu nella strada, pensò che lo spettacolo stava per finire ed ebbe la tentazione di rivederla. Tornò nell’atrio e attese. Presto la vide; scendeva dallo scalone a braccio del fratello, parlando con lui, ridendo. Era un poco accesa in volto; i suoi dentini scintillavano fra le labbra rosse. Quel mantello di raso, con il cappuccio ed il fiocco, gettatole sopra a guisa di scialle, raccolto, insieme con la gonna, entro il suo pugno inguantato, le dava quel non so che di voluttuoso e d’impertinente che han nella nostra memoria i domini veneziani, que’ domini furtivi che una gondola nera traghettava di palazzo in palazzo lungo i canali taciturni. Per una invidia inspiegabile si nascose, per una gelosia malsana li spiò. Salirono in vettura, scomparvero. Volevano cenare senz’essere in balia di sguardi curiosi, e scelsero un ristorante fuor di mano, dove per lo più non bazzicava gente conosciuta. Allora, davanti alla cena imbandita, allo Sciampagna che raggelava nel secchio di ghiaccio, il fratello e la sorella, come due timorosi amanti, si sentirono felici. Quella felicità che invade il corpo e lo spirito quando comincia l’amore, quella gioia che si propaga fino alle più piccole cose e mette un velo di bellezza sopra le mille immagini che incendiano la fantasia. Ella era tutta ebbra, tutta viva del suo piccolo trionfo; si era sentita bella, si era sentita salire intorno il desiderio degli uomini come una ventata calda, e tutti avevano parlato di lei, di lei che appariva per la prima volta. Quella vita lussuosa e gioconda che aveva tante volte sognata nel suo lettuccio d’inquieta vergine, pareva cominciasse con un buon auspicio, con una vittoria facile. Era donna, intimamente donna, e sentiva il valore di queste piccole cose. Se qualchevolta, recandosi ai convegni del suo persecutore, s’era sentita vergognosa d’una veste un po’ dimessa, d’un cappellino appena sopportabile... ora non più; se aveva temuto qualchevolta ch’egli scoprisse in lei null’altro che una piccola bottegaia... ora non più; se c’era stato forse, nella tenacità con cui s’era difesa da quell’uomo, il rammarico di non potergli mostrare una biancheria tutta di pizzo e di lino, ed il pensiero insomma ch’egli avesse potuto paragonare le sue calze, il suo busto, la sua camicia, con quelle d’altre amanti raffinatissime... ora tutto questo, che tutela sovente l’onestà d’una fanciulla, poteva non essere più. Sapeva d’averlo abbagliato, e benchè non l’amasse, ne andava orgogliosa. Non si sarebbe mai più sentita umile davanti a lui, non si sarebbe mai più tenuta per uguale delle sartine, dietro cui si sguinzagliano a frotte, in una caccia economica ed accanita, i donnaioli della buona società. Ella doveva questo al fratello, non ad altri che a lui. Ma c’era nella sua riconoscenza qualcosa di più che un’ambizione. Lo stare con lui le dava un piacere singolare; ch’egli la trovasse bella, che le dicesse una frase gentile, questo la lusingava più che l’adorazione di Rafa, più che l’omaggio di chicchessia. Poi, oscuramente, si sentiva desiderata da lui, e questo desiderio vinceva lei pure, talvolta la soffocava un poco, le dava quasi uno spasimo, quasi una voglia irragionevole di abbandonarsi nelle sue braccia. Non le pareva più affatto che fosse il suo fratello, l’Arrigo di cui si ricordava bambina; ma un altro, ch’era poi scomparso, ed ora tornava, trasfigurato, dopo esser stato ad imparar l’amore nelle alcove dei palazzi, a far piangere le cortigiane, a ingelosire i gentiluomini; un altro, che le donne belle e ricche avevano coperto di baci, lasciandogli su la bocca un profumo che l’avvolgeva di tentazione. Aveva una bella casa; in quella casa ove altre amanti erano andate, ella pure si sentiva invadere dal lor medesimo turbamento; avrebbe voluto che, invece di Arrigo, si chiamasse con un altro nome, per potergli dir come loro: «Ti voglio bene...» per poterlo baciare senza paura e senza fine. Nella sua fragile anima succedeva una grande cosa. Tutto il giorno stava pensando a lui, le ritornavan le sue parole come un’eco ininterrotta, e rivedeva i suoi forti occhi, un po’ accesi, tutte le notti, quando si coricava. Egli era qualchevolta con lei dolce come un bimbo, qualchevolta irascibile come se la odiasse. Perchè? Sovente in un solo gesto furtivo e rapido della sua mano ella concepiva il pericolo di sentirsi afferrata, carezzata, sopraffatta; ma questo pericolo insieme le piaceva... Perchè? C’era forse una forza oscura, invincibile fra loro?... — Ti annoi di rimanere con me? — domandò Loretta con una voce insidiosa. — Mi piace rimanere con te, — diss’egli. — Mi piace più che ogni altra cosa. Ella gli mandò uno sguardo soave come un bacio. Poi ch’ebbero parlato e riso e bevuto, si sovvennero di guardar l’ora. Mancava un quarto alle due. — Dio buono! — esclamò Loretta. — E la mamma che voleva rimaner desta finchè fossi tornata!... — Dirai che lo spettacolo è finito tardi. Si levaron frettolosi, poichè bisognava ch’ella si mutasse ancora d’abiti. S’avviarono. La notte, come una splendente cortigiana, s’era messa tutte le sue collane di stelle; ai piedi, alle mani, per tutto il suo corpo immerso nella primavera, brillavano gioielli d’inestinguibile splendore. Saliva dentro il cielo curvo il respiro della città addormentata. E quel po’ di chiarore che, andando, si vedeva qua e là tralucere da finestre chiuse, nelle case addormentate ove brillavano i nascondigli dell’amore, e quel fantastico apparire di coppie nottambule fuor dai vicoli oscuri, e quel profumo d’invisibili giardini che soverchiava le muraglie, e il sonnolento andare dei cavalli sui selciati sonori, e quel silenzio che incantava la notte fra le ventate del mese di Marzo, tutto questo insieme, come un sottile malefizio, come una subdola poesia, esagitava nei loro cuori malati il fantasma nascosto. Salirono su per le scale, mal rischiarate dalla luna che imbiancava i gradini, tenendosi a braccio, avendo per tutte le vene diffusa la dolcezza del loro colpevole amore. Egli la portava quasi, e la sentiva, tutta ebbra, tutta calda, palpitare contro di sè. Si sapevano soli, sapevano che il loro peccato sarebbe sepolto in una notte d’oblìo. Egli aperse l’uscio; entraron a tastoni, nel buio. Ed entrambi amarono quel buio, quell’ombra in cui sentivano d’essere vicini, avvinti alla divina colpa, senza riconoscersi più. Egli la trattenne, si appoggiò con tutta la persona contro la sua persona; sentì che il suo morbido corpo femminile, pieno di brividi, gli si avvolgeva intorno come per stringerlo in una carezza sola. — Loretta... — mormorò egli pianamente. E non seppe dire che il suo nome, più volte, con una voce paurosa. Erano soli, nel pericolo della notte; li vestiva l’oscurità, li avvolgeva il silenzio della casa invigilata. E fra quel buio, tra quel silenzio, indugiavano con ebrietà, come nel tepore d’una coltre voluttuosa. Ella si sentiva stanca, deliziosamente stanca; aveva bevuto un po’ troppo Sciampagna, ed or le ronzava dentro il cervello qualcosa d’inconsueto, come un turbinio di farfalle, di continue farfalle, bianche e nere. La sua bella e forte giovinezza era tutta un palpito di vita che soverchiava il suo piccolo cuore. Sentiva ondeggiare, fremere, intorno alle sue narici trasparenti una calda vampata, un soffio di profumi torbidi; le sue reni snelle avevan quasi la voglia ostinata di flettersi in uno sforzo doloroso e rappacificante contro la gagliardìa d’un petto virile. Le pareva che la musica d’un’orchestra pazza cantasse, cantasse dentro di lei, senza tregua, una canzone scapigliata; le pareva in quel buio di veder tutti i colori, di respirare tutti i profumi, di patire una gioia senza nome, di godere una sofferenza infinita... e davanti a’ suoi occhi ripassavano densi turbini di farfalle, di continue farfalle, grandi e piccole, bianche e nere. La sua verginità non era più che un brivido, una cosa infinitamente sottile, infinitamente vicina al peccato. In lui era stato dapprima un fatto oscuro, impreciso, una di quelle sensazioni ambigue che attraversano lo spirito come baleni, e pur vi lasciano un solco. Nel suo cuore sensuale e forte, questa idea furtiva s’era infiltrata scivolando, come una piccola donna fasciata di veli tra una schiera d’uomini irti d’armature. La colpa gli era penetrata nell’essere insidiosamente, senza lasciargli tempo di riflettere, come la sopraffazione di un profumo voluttuoso, come l’ubbriachezza d’una bevanda forte. A lui, ch’era consumato e cinico nelle scaltrezze dell’amore, aveva dato certe sensazioni vaghe, certe paure, certi fremiti, come si hanno talvolta, quando balena la possibilità di una gioia superiore alle nostre forze. Era il primo de’ suoi desiderii ch’egli non avesse osato guardare in faccia, la prima frode che lo avesse impaurito. Perciò bisognava togliersi da quel buio, da quella molle tenebra che li fasciava, rompere quel silenzio, distruggere quella dolcezza mortale. S’allontanò da lei barcollando, cercò lungo il muro, accese. Erano assai pallidi entrambi e non osarono guardarsi. Egli disse, con una voce opaca: — Vatti a vestire, Loretta. E poich’ella indugiava, perplessa: — Fa presto, — soggiunse, — fa presto... Ella ebbe quasi paura di lui, tanto la sua faccia era mutata. — Che hai, Rigo? — mormorò, allungando una mano per accarezzarlo. — Nulla; fa presto. Allora ella raccolse il mantello, che le era scivolato giù dalla spalla, vi si fasciò dentro come se avesse freddo, e, chinando il volto, a piccoli passi andò verso la camera. Quando fu sul limitare, si volse, gli sorrise. Rideva in lei, nel suo cuor femminile, l’orgoglio della seduzione che sentiva di spargere intorno a sè. Con un gesto nervoso Arrigo si contorse le mani e cominciò a camminare. Fischiettava piano piano, fra i denti, come per mordere la sua canzone. Si guardava la punta delle scarpe lucide che leggermente scricchiolavano sul tappeto. Poi di botto si fermò presso la finestra chiusa, ne aperse un’imposta, poggiò la fronte contro il vetro e stette a guardare. Fuori, la luna imbiancava le muraglie con il suo chiarore fantastico, gettando qualche lunga ombra da un comignolo all’altro, balenando su le grondaie. — Rigo, — disse la sorella dall’altra camera — perchè stai lì? Egli non rispose. — Rigo!... — ripetè la sorella con una voce impaziente, — vieni dunque! Egli s’affacciò all’uscio e rimase fermo sul limitare. Ella s’era cambiata in fretta le scarpe, la sottana, s’era messa la camicetta e stava ora abbottonandola. Ma s’interruppe nel mezzo, gli corse vicino e gli buttò le braccia al collo. — Che hai? Cosa ti ho fatto, Rigo? — disse con una voce perfida, appoggiandosi contro di lui, come per fargli sentire quanto il suo corpo fosse morbido e pieno di tentazione. Ritta sui piedini cercava di giungere alla sua bocca, gli molestava la faccia con la piuma d’oro de’ suoi capelli. — Io so bene cos’hai... — disse, inarcandosi ancor più, ancor più. Egli la guardò ambiguamente, fra il sorriso e l’ira. — Senti... — ella fece. E colle mani congiunte gli piegò il collo per parlargli all’orecchio. Disse, in un bisbiglio, in un alito, in un bacio: — Mio amore... mio amore... anch’io vorrei... come te... Con le labbra calde, avide, egli la baciò sul collo nudo. Ella dette un piccolissimo grido, si scoverse con furia la gola, si torse, tremò. — Sì, báciami!... tutta... tutta... Gli offriva la sua gola turgida, calda, che ansava, ed il collo, il petto, le spalle: tutta la sua nudità odorosa, cercandolo con la bocca convulsa, velando gli occhi appassiti come due viole mammole. Era scapigliata, piena di vampe, bellissima. — Che fai? che fai?... che fai!... — gridò egli dissennatamente. — Báciami!... — ella ripeteva ostinata, contraendosi nella febbre del suo tormento. — Báciami ancora, tutta... E quand’ebbe estenuata ogni forza nell’attorcigliarsi contro la sua persona, quando gli ebbe convulsamente cacciate le mani entro i capelli, ferita la bocca, bevuto il respiro, d’un tratto imbiancò, s’ammollì come un cencio, rise, pianse, gli rimase tra le braccia, inerte. — Lora... Loretta... — mormorò egli più volte, poichè pareva ella non udisse. Quel desiderio veemente aveva sopraffatto il suo, l’aveva quasi annientato. Allora la portò sopra un divano, si mise a carezzarla piano piano, a toccarla paurosamente. Dopo qualche attimo ella sorrise, come se l’avessero destata da un profondo sogno, come se un’ubbriachezza svanisse dal suo cervello, dalle sue vene, a poco a poco. — Dimmi... — ella mormorò. — Che vuoi? — Dimmi... Ed invece nulla disse; intrecciò le dita nelle sue; ma non aveva più forza. Curvo sopra la sua bocca, egli le ripeteva quasi per addormentarla: — Taci... La sua verginità non era più che un brivido, una cosa infinitamente sottile, infinitamente vicina al peccato. E tornarono a piedi, per la notte chiara, verso il rifugio della casa paterna. VI Rafa intanto non si era dato pace. Ma il giorno dopo Lora stava male, e non andò alla Posta. Il doman l’altro ancora se ne dimenticò. Se ne sovvenne il terzo giorno, ed ecco v’erano tre lettere: la prima interrogatoria, l’altra supplichevole, la terza disperata. Che almeno accettasse di vederlo un’ultima volta, se non voleva ch’egli si risolvesse a qualche grande imprudenza!... Loretta gli scrisse di venire il domani, all’ora solita, nel solito giardino. Già cominciava il Maggio, il bel Maggio de’ fiori, e le aiuole saltavano fuor dal verde come smalto vivo; l’ombra, nelle boscaglie, si colorava del color del sole. Avevano scelto per i loro convegni un viale deserto, che principiava in vicinanza d’una cascatella, poi tortuosamente s’infoltava, per giungere ad un gabbione rugginoso, dove stavano appollajati quattro fagiani decrepiti. Li avevan messi lì, a consumare la loro triste vecchiaia, per quella riconoscenza crudele che l’uomo ha talvolta verso gli animali; li avevan messi lì, a nascondere le tristi penne, a beccare qualche duro grano, invece d’accopparli o di venderli ad un imbalsamatore, perchè in altri tempi eran stati la delizia dei bimbi e delle bambinaie, quando il lor pennaggio era lustro e la gente si fermava in gran numero davanti alle lor gabbie spaziose. Loretta s’era preso Rafa in antipatia già dal primo giorno che ne aveva parlato con Arrigo. Adesso poi lo trovava quasi ridicolo, e volentieri glielo avrebbe detto, se una ragione d’utilità troppo evidente non l’avesse persuasa a continuare nel suo gioco. Venne, quel giorno, vestita come la primavera, di tinte chiare; il suo labbro arcato, pieno d’impertinenza, sorrideva già di lontano al giovine, che l’aspettava pazientemente percorrendo il viale. Rafa era timido; questo implacabile persecutore di donne era, sopra tutto nei primi momenti, d’una timidezza incredibile. Si trovò dunque molto impacciato a cominciare il discorso. — Vi ho veduta in teatro sere fa, — disse con esitazione. — Ah? davvero? — ella esclamò col suo più candido sorriso. — Via, non burlatevi di me! Stavate molto bene. — E cercò di prenderle un braccio. — Piano... — fece Loretta, respingendo la sua mano. — Dunque stavo bene, voi dite? — Sì, molto bene, troppo bene; tanto che tutti ne parlavano. — Ah? — Ma voi, perchè avete finto di non vedermi? — Così! E roteò l’ombrellino di seta chiara, che le somigliava un poco, tanto era fresco e frivolo d’apparenza. — Non mi volete rispondere, Loretta? — Ma, Dio buono! ho finto di non vedervi perchè non potevo fare altrimenti... — Dunque il del Ferrante è proprio vostro fratello? — Già, è proprio mio fratello. Ve ne meravigliate? — ella fece, con un certo sussiego. — Me ne meraviglio nel senso che vi ho finora conosciuta sotto un altro nome. — E non trovate naturale che avessi le mie buone ragioni per nascondervi la verità? — Quali, se è lecito? — Ma, Rafa, che domande mi fate! Il giorno in cui aveste saputo chi ero, avrei dovuto per forza interrompere la nostra conoscenza, non vi pare? Così ho preferito lasciarvi credere che fossi un’altra, una ragazza qualsiasi, una delle tante che s’incontrano per istrada... — Oh, Loretta, questo non l’ho pensato mai. — In ogni modo avete agito come se lo pensaste, e, poichè la cosa mi divertiva, io v’ho lasciato fare. — Non dite così! Mi pare di avervi rispettata sempre. — Per forza, mio caro! — Sì, per forza... non dico di no; ma in ogni modo v’ho rispettata, e se aveste avuta in me tanta fiducia da confessarmi la verità, sarei stato ancora più paziente. — No, Rafa, non vi faccio alcun rimprovero. Voi, oggi, avete il diritto di credermi una ragazza leggera: la colpa, in caso, è tutta mia. Lo riconosco. Mi son lasciata fermare per istrada, mi avete sempre veduta sola, e fino ad un certo punto libera; ho anche accettato qualche vostro ricordo, sicchè, ve lo ripeto, la colpa è mia. Però, però... adesso che mi conoscete meglio, non dovete giudicarmi solo dalle apparenze. Vi sono alle volte certe ragioni di famiglia che non si ama raccontare agli estranei. Certo io vivo in un modo un po’ singolare, ma questo proviene da tante cause che voi non conoscete. E si fece compunta, seria, come Rafa non l’aveva mai veduta. Rafa era un uomo di buona fede; queste parole dell’amica lo impensierirono, quasi lo commossero. — Se potessi fare qualcosa per divenire più intimamente il vostro amico!... — disse. — Con me non siete mai del tutto sincera. Ed entrambi rimasero per qualche tempo in silenzio. Passò un bimbo che correva dietro un cerchio, passò un soldato di fanteria che teneva per mano una domestica rubiconda. Sopra un banco c’era un vecchio, il quale portava un soprabito color nocciuola, i calzoni a quadrettini e le ghette bianche; aveva disegnato nella sabbia, con la punta della mazza, un complicatissimo arabesco, ed ora leggeva il giornale scandendo le parole con le labbra. — Mah... peccato! — esclamò finalmente Loretta con un sospiro. — Peccato di che? — Sarebbe stato meglio se non aveste mai saputo chi ero; perchè adesso... — Adesso? che? — Oh, capirete... non è più possibile che ci si veda. — Loretta! — Mio buon Rafa, lo dovreste comprendere da voi senza che io ve lo dica. Potevo scherzare fin quando ero una sconosciuta, o quasi, per voi. Ma ora che sapete a quale famiglia appartengo... insomma no! sarei d’una leggerezza imperdonabile. Non tanto per me... Io, ve lo ripeto, sono un po’ eccentrica... Ma per mio fratello, che voi conoscete, che frequentate quasi giornalmente... Insomma, non si può! E parlando lo guardava di sotto le ciglia, con una malizia ben dissimulata. Rafa era passato per tutte le alternative del dolore, dell’impazienza e della collera. — Allora è per dirmi addio che siete venuta oggi? — domandò con una voce quasi rauca. — Eh, sì... pur troppo! — fece Lora, con scoraggiamento. Egli si fermò di botto, e curvandosi un poco sopra di lei, una luce cattiva, quasi violenta, gli trasfigurò il viso. — Ebbene, questo no! — proruppe. — Accada quel che accada, ma rinunziare a voi, no! — Siate buono, Rafa; non fatemi ora una scena, — ella disse con una voce piena di mansuetudine. — Non faccio scene, ma vi dico solo che non posso rimanere senza vedervi, senza parlarvi qualchevolta. Insomma sentite, Loretta: mi sono innamorato di voi, scioccamente innamorato, perchè tutto questo non serve che a farvi ridere... Tuttavia comprenderete che non si rinunzia in un giorno alla cosa che ci è più cara. — Non ho mai riso di voi, Rafa, — ella disse con soavità. — Sì, riso, riso, e non volete far altro che ridere!... Ma non importa. Vi dico solamente questo, Loretta: non pensate a ritogliermi quel pochissimo che m’avete concesso finora, perchè in tal caso non so cosa potrebbe accadere. Quell’uomo timido aveva trovato un accento così pieno d’energia, che Loretta ne fu meravigliata. — Via, Rafa, calmátevi, — disse. — Non prendete le cose a questo modo e non guardatemi così, perchè mi fate quasi paura. Vorrei che ragionaste invece, che pensaste ad una cosa, ad una solamente: Se mio fratello venisse a saperlo?... — Non lo saprà. — Oh, è presto detto! Voi non lo conoscete; quello è capace... so io di cosa è capace! Insomma, sarei una ragazza rovinata, e ciò vi basti. Rafa si calmò un poco dinanzi a tali ragioni. — Ebbene, aumenteremo le precauzioni; farò tutto quello che vorrete. — Al mondo, mio caro, si viene a sapere ogni cosa, e quando supponiamo d’essere ben nascosti, mille occhi ci spiano. — Ma insomma questo pericolo c’era anche prima, eppure... — Appunto, appunto; è una cosa che non può più durare. Sono stata leggera, molto leggera con voi, ma non posso andar oltre. — Loretta, — egli disse dolcemente, con una voce persuasiva, — pensa che ti voglio bene, pensa che tutto il giorno mi stai nella mente, mi stai così forte nell’anima che non posso rinunziare a te... Non essere così crudele, te ne supplico! Egli le prese un braccio ed ella non cercò di allontanarlo. — Silenzio, Rafa... — mormorò, — silenzio! Ma egli riprese: — Ho tutto lasciato, per godere solo di questi pochi momenti che mi dài. Vedi, non sono esigente, non insisto più; mi accontento per ora di vederti, di parlarti qualchevolta... Se dovevi un giorno interrompere così bruscamente la dolcezza dell’amore che ho per te, meglio era non permettere che t’avvicinassi mai. Ora è tardi. — Ma no, Rafa, tu... voi non capite! — Capisco benissimo; ti sono indifferente, ti ho divertita un poco, adesso ne hai abbastanza; hai paura, e nulla osi rischiare per me. — Non capite, vi dico. Se non avessi una famiglia, se non avessi tante apparenze da salvaguardare, se insomma fossi libera, sola... allora, forse... Ma invece, ripeto, guai, guai se mio fratello avesse di ciò il minimo sospetto! — Si farà in modo che non sappia nulla. — No, Rafa. E poi c’è un altro pericolo... — Quale? — Oh Dio! c’è un altro pericolo, vi dico; non insistete. — Su, via, dimmelo! sii sincera una buona volta! Camminavano; ella si fermò; prese un’aria birichina: — Perchè mi date del tu, per esempio? Sapete bene che non voglio. — Non fa nulla, continua: qual’è il pericolo?... — Insomma voi dite che rido, che rido... È facile dirlo! Invece potrebbe darsi che, in fin dei conti, avessi anch’io paura di non ridere più... — Come ti amo, Loretta! — egli esclamò ingenuamente, serrandole con un braccio la vita. — State fermo... state fermo, via! — E riprese: — Naturalmente anch’io non sono di cera n’è di stoppa... Un giorno o l’altro, che so? trovandoci soli, per esempio, con i discorsi che sempre mi fate... o per caso, o per isbaglio, o per un’altra ragione qualsiasi, potrei magari perdere... Insomma, si fa presto a commettere una sciocchezza! Roteò di nuovo l’ombrellino, lo ficcò profondo in una siepe, soggiunse: — E poi?... Rafa volle rispondere, ma ella non gliene dette il tempo: — Già, voi uomini fate presto: buon giorno, buona sera, e chi s’è visto s’è visto! Noi ragazze paghiamo per tutt’e due. La leggerezza, il vapore d’un momento, può costarci chissà qual prezzo, e voi dite che si ride? Naturalmente si ride, si ride... fin chè si può... — Ma io sono un galantuomo, Loretta! — egli proclamò sonoramente. — Benissimo. E perchè siete un galantuomo dovrei darmi a voi? Non è una buona ragione, vi pare? Ma io, carissimo Rafa, ho tutta la mia vita da vivere, e ci sono, vi ripeto, certe ragioni mie proprie le quali mi vietano il lusso di fare quello che forse piacerebbe anche a me. Non sono certo una ragazza da strada e non ho, come qualche altra, uno stemma e parecchi milioni che mi assicurino l’impunità. Se mi trovassi in uno di questi due casi, ebbene sì, io sarei forse tipo da dire ad uno, a voi per esempio: «Mio caro Rafa, tu mi piaci; fa di me quello che vuoi.» Ma nel mio caso questo vorrebbe dire offrirvi l’intera mia vita, giocarmi tutto l’avvenire, materiale e morale, per la sventatezza d’un momento... E questo è un po’ troppo, non vi pare? Avendogli fatto questo bel discorso, ella pensò involontariamente ad Arrigo, rammaricandosi ch’egli non potesse udirla. Ebbe voglia di dirsi queste due parole, anzi se le disse mentalmente: «Sei fina!» Rafa impiegava un certo tempo a cavarsi d’impaccio; in quell’intervallo ripassarono entrambi davanti al vecchio che monosillabava il giornale, e videro, traverso il verde, per un altro viale, tornare il soldato di fanteria con la sua domestica rubiconda. — Loretta, — egli disse, al termine di quel silenzio, — ti ho già parlato una volta con molta chiarezza; ma tu, certi discorsi, non li vuoi nemmeno udire. — So bene a che alludete!... — ella fece con sarcasmo. — Ormai che se n’è parlato una volta si può anche riparlarne. Ed io preferisco le situazioni chiare, le parole nette. Mi avete offerto denaro... molto denaro!... — Non così, Loretta... — egli esclamò arrossendo. — Così, così! Che valgono le perifrasi? Questa è la verità nuda e cruda. Ella fece una pausa, ch’egli non osò interrompere. — Ora, sentite, Rafa. Non so quale opinione abbiate di me, anzi non me ne curo. Tutto può farvi credere ch’io sia capace anche di vendermi... e questo non mi offende, perchè una volta di più confesso che la colpa è stata mia. Vedete che parlo apertamente, come non ho fatto ancora. Però, se credete questo, v’ingannate. Non ho bisogno di nulla: da casa mia ricevo tutto quanto m’occorre, potrei ricevere molto più se volessi sottostare a certe discipline familiari che son contrarie al mio carattere. Non siamo ricchissimi, però vedete che mio fratello, per esempio, fa una vita invidiabile. Se domani volessi maritarmi, potrei scegliere, e scegliere bene, come ha fatto mia sorella, perchè ho pure una sorella. Ma tutto questo non mi piace. Vi ho già detto che sono una ragazza diversa dalle altre. Appunto per le mie idee singolari, mi sono già messa in urto con la mia famiglia; ho preteso ad una specie d’indipendenza, ed avrei fatto anche di più, se non avessi paura precisamente di mio fratello. In tutto questo si sentiva la zampa d’Arrigo, ma era detto bene, con disinvoltura, con un certo calor naturale che ne accresceva la persuasione. Riprese: — Che volete? Non mi sento nata per avere un marito mediocre, molti bambini, e litigare con le serve come fa mia sorella. Credo che nella vita ci sia di meglio, e, se m’inganno, avrò il coraggio di non pentirmene. Sposarmi o non sposarmi, questo forse non è l’essenziale. Voglio amare, anzi tutto, ed essere amata, sopra tutto. Un giorno o l’altro me ne andrò; farò probabilmente per qualcuno quello che voi mi domandate ora; ma non per un uomo il quale garbatamente mi offra un prezzo, dispostissimo dopo, quando m’avesse innamorata e... sciupata, a lavarsene le mani, continuando per la sua strada. Eh, mio caro, ho vent’anni, ma conosco un po’ la vita! Rafa l’ascoltava e la guardava, sorpreso e perplesso, come alcuno che per la prima volta si trovi davanti all’aspetto vero d’una persona male conosciuta. — Ma io, — disse — non ho mai avute le intenzioni che m’attribuisci, e quello che tu cerchi potrei appunto esser io. La ragazza si passò l’ombrellino dietro la schiena, e tenendolo a guisa di sbarra nella piegatura delle due braccia, inarcò la sua bella persona, dondolandosi con una specie d’insidia e lasciandosi venire a fior di labbro un sorriso pieno d’ironia: — Tu?... — fece. — No! Voi non mi amate abbastanza per questo. Nella gabbia rugginosa i quattro fagiani si spulciavano le penne antiche, lasciando pendere le code mozze con una inerzia piena di malinconia. Era il Maggio, il bel Maggio de’ fiori; le aiuole saltavano fuor dal verde come smalto vivo; l’ombra, nelle boscaglie, si colorava del color del sole. VII Tutt’e due sapevano che vedersi ancora voleva dire buttarsi ciecamente nella perdizione del peccato. S’eran divisi, l’ultima sera, con una specie di spavento, e però, toccandosi la mano fredda, scambiandosi l’ultimo bacio sul limitare della casa paterna, una promessa era corsa fra loro, ineffabile, orrenda, non detta con parole, perchè nessuna parola avrebbe osata profferirla. — Quando?... — gli aveva ella domandato, serrandosi contro di lui, tremandone come un’amante impaurita. Egli voleva rispondere: «Mai più! mai più!» Ma sentì che tutta la sua vita pendeva da quel desiderio, e le promise un giorno prossimo, le suggerì di tacere. — Addio... scrivi, — ella disse. Poi scomparve nel buio delle scale. Ma tutt’e due sentirono che il tormento cresceva, che nessuna forza umana li avrebbe salvati più dal pericolo meraviglioso nel quale si sentivano avvolti. Quando il giorno fissato venne, Arrigo, si recò a prenderla, mentre ancora, su la mensa paterna, il pranzo non era imbandito. Per tutto il giorno Loretta era stata nervosa, irritabile, insolente. Fin dal mattino aveva rimbeccata la madre perchè questa si era permessa di osservarle: — Tuo padre ha ragione. Arrigo ti dà troppi vizii: teatri, cene... Vi sei stata pochi giorni fa; che bisogno c’era di tornarvi oggi? A colazione aveva coperto d’insolenze il fratello Paolo, perchè questi, vedendo ch’ella non toccava cibo, si era messo a borbottar sottovoce: — La signorina ha i vapori! Ormai per lei ci vogliono le beccaccine e le lingue di pappagallo! Loretta diede una scrollata di spalle, poi s’irritò. E l’altro, più scherzevole, ripeteva: — Sì, ha i vapori! ha i vapori! Li aveva un poco infatti; era pallida come fosse incipriata, con gli occhi divenuti più vasti e più lucenti; non poteva star ferma; s’era pettinata male. Verso le quattro del pomeriggio aveva cominciato a rivestirsi, piano piano, con una infinità di cure; s’era tutta lavata, profumata, coltivata, come un fiore prima di metterlo in vaso. Era stata un’ora a lisciarsi i capelli, a strofinarsi le unghie; aveva pure pensato ad annerirsi un po’ gli occhi, ma vedendo che ciò le riusciva male, se li era nettati con un pannolino umido. S’era messa la camicia più fina, le mutande più adorne di pizzi, ed in particolar modo, prima di vestirsi, s’era guardata nello specchio, tutta nuda, con un lungo brivido. Nondimeno, a dispetto di tante cure minuziose, quel giorno non era del tutto bella, non le riusciva d’esser bella come di consueto. Aveva passata qualche notte insonne, con il pensiero torbido che le accendeva il sangue, facendola rivolger nel letto e smaniare nelle dure pazienze della verginità. Quando giunse Arrigo, ed appena intese il rumore del suo passo, ella temette di non potersi levare, dubitò che ognuno vedesse il suo turbamento, poichè si era sentita il sangue scorrer giù dalle vene del viso. Egli pure non aveva quella sua spavalderia consueta, non era franco, si moveva e parlava con un certo impaccio, evitava di guardare Loretta. — Visto che sei pronta, ti conduco fuori a pranzo, se vuoi... — Ben volentieri, — ella fece. Il padre, la madre, non osarono dir nulla; solo Paolo osservò: — Sarebbe più semplice che rimanessi qui anche tu. Una volta ogni tanto non ti farebbe male. — Verrò un’altra sera, se vi fa piacere, — Arrigo rispose con una certa umiltà. — Questa sera fa così bel tempo, che preferisco mangiare all’aperto. — Bene, bene; dicevo per dire. Stavano mettendosi a tavola; Paolo era già seduto davanti al suo tondo; aspettava. Padre e madre si tenevano in piedi, un po’ irresoluti, come se ricevessero in casa loro una visita inconsueta. — Questo è mio padre e questa è mia madre, — pensò Arrigo fugacemente, guardando i due poveri vecchi. E una pietà nuova gli sorse dal cuore, acuta come una sofferenza. — Ti avverto, — riprese Paolo — che la «tua» Loretta si dà certe arie addirittura da principessa. Cerca, se puoi, di non scaldarle la testa. Ella scattò su come una viperetta: — No, mio bel signorino! la testa non me la scaldo, io! Pensa tu piuttosto ad essere meno triviale, e ci guadagnerai. — Insomma, caro Arrigo, — intervenne il padre, — la mia casa è un inferno. Si sente sempre strillare. Che brutta cosa! E la sua mansuetudine si accontentò di questo calmo lamento. Arrigo, preso da non so quale tenerezza improvvisa, gli andò vicino e gli pose una mano su la spalla: — Via, papà non ti crucciare. È la stessa cosa in tutte le famiglie; quando si vive insieme c’è sempre qualche contrasto. — Bah!... — disse il vecchio a mo’ di conclusione, — se voi ve ne andate, noi cominciamo a mangiare. La domestica aveva portato la zuppiera e la madre versava nelle fondine; poi tutti e tre curvarono le facce sopra il fumo denso, che odorava, e cominciarono lentamente, golosamente a mangiare. L’antica tavola famigliare era troppo grande per quelle tre persone; i posti vuoti vi lasciavano una specie di tristezza, come se alcuno, che avrebbe dovuto esservi, ne avesse disertato. Per primo se n’era andato il maggiore, il primogenito, quello nel quale il padre si riconosce, in cui la madre ricorda la sua prima carezza. Per lungo tempo la sua seggiola era rimasta lì, davanti al posto vuoto, al tovagliolo di bucato chiuso nell’anello d’alluminio, quasi ch’egli potesse tornare di pasto in pasto; e non tornò. Poi se n’era andata la sorella maggiore, a farsi un’altro focolare, con altri affetti; ed ora manifestamente si allontanava l’ultima, quella che per ultima aveva allietata la casa de’ suoi strilli, quella che ai vecchi ricorda più da vicino la giovinezza ed è come l’ultimo fiore d’un albero laborioso, il più fragile ed il più bello. Se ne andava, e restavan i due vecchi ad ingoiare amaramente il cibo greve, con un figlio taciturno, che forse rimaneva, solo perchè sentiva il possesso, l’eredità della casa, scendere nelle sue mani tenaci. Tra il fumo della minestra questi pensieri salivano alla mente dei due vecchi, e rivedevano essi forse quella lor stanza d’un tempo, quando intorno alla tavola quadrata c’erano quattro testoline di bimbi, e bisognava gridare, faticarsi, lavorar più duramente, ma ciò non era molesto, se ad ogni tratto una vocina limpida si levava dalla nidiata per chiamare: papà, mamma! con quell’accento infantile in cui trabocca l’istintivo amore. E pareva che, guardando Arrigo, entrambi gli dicessero mutamente: «Sei stato tu! sei stato tu!» — Non la ricondurre troppo tardi, — la madre disse ad Arrigo. Ed il silenzio tornò nella stanza, rotto appena dal rumore che i cucchiai facevano battendo le stoviglie sonore. Quando Arrigo e Loretta si trovaron nella strada, soli, e si guardarono, la colpa ch’era già entrata nelle lor vene li soverchiò entrambi di dolcezza e di paura. Non osarono parlarsi a tutta prima. Loretta prese il braccio d’Arrigo e s’avviarono lungo il marciapiede, fra la gente folta, a passi frettolosi. Il rumore della contrada li stordiva; quello stordimento era per entrambi delizioso. — Dove andiamo? — domandò infine Loretta. — Camminiamo. Ancora è presto, — egli rispose con una voce assorta. La serata era dolce, un po’ snervante, piena di languori. Navigavano per l’aria quasi ferma certe larghe ondate di vapori biondi, che oscillavano vicino ai tetti e salivano alte nello spazio, facendosi più rare, più tenui, fino alle prime stelle. In quella vaporosa pigrizia dell’aria i vasti romori delle cose parevano accrescersi d’una maggiore sonorità. Tutto quanto aveva un’anima, reale o fittizia, era nella pienezza della sua vita; ogni cuore si sentiva spinto a desiderare più in là di sè stesso. Avevano da poco acceso i lampioni, che splendevan d’una luce quasi azzurra sotto il cielo ancora intenso di trepidazione solare; alcune finestre chiuse raccoglievan nelle vetrate i fuochi e le raggiere del tramonto. — Com’è bello camminare a quest’ora, — disse Loretta al fratello, serrandogli fin poco il braccio, su cui pesava. — Ti piace? — egli domandò, trasfondendo in queste due parole così brevi tutta la dolcezza che gli traboccava dall’anima. — Sì, mi piace; con te mi piace. — E dopo una pausa continuò: — Sai?... ho tremato tutto il giorno.... — Perchè hai tremato? — Pensavo che tu verresti... — ella confessò, piegando il viso. Egli ebbe un movimento nervoso e disse: — Era meglio dimenticare. — Ah, no! In quei pochi minuti ch’eran vicini si sentivano già presi, avvinti l’uno all’altra, e soffrivano e godevano d’una gioia ch’era dolore. Stavano bene insieme: lei bionda e sottile, armoniosa; lui, con la sua persona elegante, con il suo passo franco. Molta gente si voltava a guardarli. Giunsero nelle strade più centrali; Arrigo le disse: — Non mi dare il braccio. — Ella obbedì senza rispondergli; ma gli rimase vicina. Entrarono da un fiorista a comprare fiori; poi, camminando, si fermavano a guardare i negozi dalle mostre scintillanti. Arrigo salutava molta gente. Loretta ogni volta gli domandava: — Chi è? Allora egli diceva un nome, una frase che dipingesse la persona, uno di quei riassunti schematici ed incisivi che valgon meglio d’una lunga biografia. Un tale: — si fa chiamare avvocato, ha una bella moglie, sua moglie ha un amante ricco, egli lo sa. Un altro: — ha dovuto lasciar l’esercito per debiti; a teatro prende solo il biglietto d’ingresso e fa visite in tutti i palchi; la notte gioca, e vince sempre. Un terzo: — ha una scuderia da corse che gli costa cara, ma dicono che faccia anche l’usuraio, così riesce a pagarne le spese. E via di séguito. Su lo stesso marciapiede passarono due donne elegantissime, provocanti. Vedendo Arrigo gli sorrisero; Arrigo, a sua volta, non salutò, ma sorrise. Restò dietro i loro passi un lungo solco di forte profumo. Loretta si rivolse a guardarle; domandò: — Le conosci? — Sì. — Chi sono? — Quella di destra era una mima: adesso è mantenuta da Rinaldo Bastìa, un fabbricante di cornici, padre di quel Bastìa che s’è ammazzato pochi mesi or sono. L’altra è una che vive di rendite... rendite giornaliere, quando ne trova. — Sono due belle donne. — Peuh, non c’è male! — Perchè ti hanno sorriso a quel modo? — Che modo? — Non saprei; come se avessero qualcosa da dirti. — Non saprei; per abitudine forse. — Sei stato amante anche di quelle? — Amante no; ne ho conosciuta una, la mima, qualche anno fa. Loretta rimase un momento a riflettere, poi disse; — Ma che piacere provi tu nel cambiare tante donne? Arrigo si mise a ridere. — Lo stesso piacere, — disse — che voi donne provate a cambiar d’abiti. La sorella non fece altri commenti. Dopo aver taciuto qualche tempo, e quasi di malumore, disse: — Io, per esempio, se avessi un amante, sarei molto gelosa. — Ah, sì? — esclamò Arrigo, guardandola. — E cosa faresti? — Non so cosa farei; credo non sia possibile saperlo prima, ti pare? Poi gli domandò ancora: — Le amanti che hai avute eran gelose di te? — Sì, tutte! — egli fece con spontaneità. — E tu? — Io?.... Di nuovo guardò la sorella, attentamente, lungamente, poi le riprese il braccio, poichè la dolce ora del crepuscolo andava mano mano facendosi buia. Le confessò: — Vedi, per ingelosirsi, bisogna essere innamorati. Io, veramente, non lo sono stato ancor mai. Ella gli fu riconoscente di questa risposta e n’ebbe una gioia visibile, pur tacendo. Andarono avanti, attraversarono una piazza, presero un’altra via. — Come sarei contenta se tu volessi bene a me... — diss’ella, piano, chinando la faccia, per nascondere la bocca che profferiva quelle parole. — Ma te ne voglio, Lora, — egli rispose. — No... dev’essere un’altra cosa... non lo diresti così. — Come dovrei dirlo? — Niente, non dire niente. Ella improvvisamente si sentì piena di tristezza; nella sua voce tremava quasi un dolore. — Vuoi che andiamo a pranzo? — domandò Arrigo. — Andiamo. — Ti condurrò in una trattoria che non conosci; è fuori di porta, in mezzo alla campagna, e le tavole sono in giardino. Vuoi? — Sì, Rigo. Salirono nella prima vettura che trovarono, senza badare al vetturino, che, malcontento della corsa troppo lunga, non cessava dal bestemmiare tra i denti. Piano piano, su gli aspri ciottoli, il cavalluccio cominciò a trottare. Ora qualche strato di nebbia rosea intorbidava la trasparenza del cielo; pioveva per intorno una chiarezza pervasa d’ombre; lungo una strada fiancheggiata d’alberi li investì, li ravvolse, li inebbriò, il profumo dei tigli che fiorivano. Loretta si era tolto un guanto, aveva preso una mano del fratello ed intrecciava le dita nervosamente nelle sue. — Ho quasi voglia di piangere... — confessò con una voce tormentata. — Perchè, Lora? — Non so... non so; oppure non te lo posso dire... — Non dire niente, Lora, ma non piangere, — fece Arrigo, tentando con ogni sforzo di reprimere la sua commozione. E le carezzò la mano. — Perchè mai non sono più allegra come l’altra volta? — Invece devi essere allegra! dobbiamo ridere! Non pensare ad altro. Ella si tese a lui come per fargli conoscere il suo amore. — Vorrei che tu mi volessi bene... — disse di nuovo, tutta fremente, in un bisbiglio. — Ma invece questo non può essere... È vero che non si può? Egli le rispose con serrarle una mano, e, turbato, non aggiunse parola. — Senti, — fece Loretta, — spiégami una cosa. Perchè io, che sono tua sorella, voglio bene a te? — Taci, non dire così. — Ma è vero! Se fosse una cosa brutta, come pare a noi, essa non accadrebbe. Invece, vedi, tutto quello che potrei sentire per un altro, per un estraneo, lo sento per te. Mi fa male, molto male... — Loretta, mia Loretta... — egli mormorò con una trepidazione paurosa. — No, sii buono, voglio parlare, voglio parlarne con te. Lasciò la sua mano, e raccostatasi a lui, gli sfasciò, gli ravvolse il braccio con il suo braccio morbido. — Questo amore mi ha presa tutta in un momento... prima non lo sapevo. Si protese a lui, così che gli moveva sul fiore della bocca i riccioli della sua fronte bionda, e pregò sottovoce: — Dammi un bacio... piano, piano... Fa buio, nessuno vede... Le loro bocche innamorate s’incontrarono, godettero tutto il dolore del male che li struggeva. E andarono via lentamente, al trotterello del cavallo stanco, per corsìe diritte, per strade oblique, per vicoli tortuosi, penetrando nel dedalo della città crepuscolare che or si costellava di lumi, come un immenso naviglio fermo su l’ancoraggio notturno. Quando furono di là dalle barriere, nelle zone del suburbio che quasi non conoscevano, parve ad entrambi d’esser giunti assai lontano da quella grande ostile città che li teneva prigionieri, sottomessi al divieto, e parve loro d’esser come due sconosciuti per una terra quasi straniera, liberi finalmente dalle intollerabili sorveglianze altrui. Nella dolce serata primaverile il suburbio era spesso di gente, uscita fuori da’ formicolai di cinque piani o dalle piccole decrepite case, per gremir la strada con tutte le figliolanze, dopo le parche cene. Era vigilia di festa, un sabato sera; le comitive inauguravan per ogni contrada l’allegrezza del giorno domenicale. Le trattorie, le taverne, le sorbetterie riboccavan di gente, assiepavan di tavolini il marciapiede popoloso. Alle porte dei teatri e dei balli suburbani s’addensava una baraonda irrequieta levando alto il frastuono della sua tumultuosa ilarità. Su l’ingresso dei cinematografi, sfavillanti d’una luce quasi violetta, gli strilloni dalla tunica o verde o rossa, dalla voce rauca, dalle maniere ciarlatanesche, alternavan le lor grida strabilianti adescando la folla con manifesti atroci e cartelli sanguinolenti come il paniere del boia. Ogni tanto una chitarra sbucava da una contrada buia, un fonografo urlava la sua canzone asmática, un bambino picchiato strillava da una portineria, come un’anima dannata. E il cavalluccio trottava; il cavalluccio insensibile ai tepori della primavera, ugualmente stracco e rassegnato nelle intemperie dell’inverno come nelle canicole dell’estate, zoppiccava sul sasso nemico, piano piano, con quella irremovibile filosofia che vien dopo la disperazione; povera vecchia macchina fatta d’ossa e di dolori, indifferente alle stratte, alle frustate, alla premura de’ clienti, quasichè sapesse ormai che tutto il suo destino era di camminare, a forza d’inciampi e di asma, piano, ma camminare. La campagna vicina mandava tra l’ultime case qualche odore agreste, e già compariva tutta sgombra, quasi ravvolta in un’aria violacea, per le contrade laterali che non erano più selciate. In una d’esse il vetturino svoltò. — Non sono mai venuta fin qui, — disse Loretta. — Sembra d’essere in campagna; senti che buon odore! Avevano falciato qualche prato là intorno; i mucchi dalla fienatura odoravano di fragranze vegetali nella sera primaverile. Anche il ronzino, a quell’odor di maggengo saporito, pareva sentirsi dilatare nei fianchi magri l’anima ingorda, e puntava più forte. Il vetturino si cacciò un mozzicone di sigaro fra i denti e prese a canticchiare; con la frusta schioccante accompagnava la sua monotona cantilena. Questo fece ridere Loretta. — Com’è buffo! — disse piano al fratello. E gli si accostò, con una piccola risata, che gli diede in faccia il suo fresco respiro. Egli non parlava; una specie di torpore, una sensazione mai conosciuta fasciava dolcemente il suo spirito comunicandogli una stanchezza fisica, una specie di sensuale abbattimento. Per una breve ora gli piaceva scordare che la sua piccola compagna, colei della quale era dolce sentirsi il braccio sotto il braccio ed il respiro nel viso, fosse la sua medesima sorella, uscita dal grembo medesimo che aveva data la vita, nutrita con lo stesso latte, cullata nella medesima cuna: la figlia del suo padre e della sua madre, la sorella germana. Egli aveva nel medesimo tempo un immenso orrore, un orrore inconsapevole, di sè stesso, e in ciò trovava nondimeno la sua più forte voluttà. Gli piaceva udirla parlare; quella voce, che gli pareva di non aver conosciuta mai per l’addietro, gli entrava sin nell’intimo del cuore prodigandogli quasi una lenta ed affaticante carezza. Ch’ella dicesse di amarlo, ch’ella osasse dirgli che lo amava, che il suo desiderio gli fosse così palese, così pronto a lasciarsi cogliere, ch’ell’avesse un bisogno quasi malato di fasciarsi intorno alla sua persona e fargli sentire la trepidazione delle sue morbide membra ancor intatte, ch’ella parlasse a lui come al suo primo innamorato... tutto questo lo stordiva, lo tentava, lo inebbriava, metteva nel suo cuor forte una pulsazione veemente, nelle sue vene concitate un brivido quasi di terrore, ne’ suoi nervi rudi una specie di tormento, del quale assaporava con lentezza tutta la perversità. In lei veramente era il possesso vietato, era la gioia che non doveva conoscersi, era il delitto e la somma voluttà. Quand’ella gli parlava d’amore, avrebbe voluto a sua volta, risponderle: «Sì, ti amo! sei la prima che amo, la sola che potrò mai amare... Tu muovi dentro di me una gran tempesta che m’inebbria...» Ma di questo si vergognava, e le parole che suonavan dentro gli parevano impossibili a dirsi. Allora taceva, lasciando a lei che parlasse, a lei, poich’era quasi una bambina, una piccola bambina, e tutto poteva dire. Ma solo nel chiamarla, nel parlarle, nel profferire il suo nome, egli metteva un infinito amore. Non era più solamente il desiderio di lei, quel desiderio veemente che l’aveva assalito, facendolo schiavo e torcendolo fino al dolore; adesso era qualcosa di più, una specie di tristezza, un furor chiuso e torbido, che lo possedeva sin nell’intimo e lo feriva come una spina infittagli nel cuore. Egli, che non aveva mai affrontata la propria coscienza, aveva ora paura di sè. Temeva qualcosa d’oscuro; c’era fra lui e lei una forza indefinibile, ignota, che lo atterriva; sopra il suo colpevole amore pendeva quasi una minaccia più che umana. Voleva esser aspro, e non gli riusciva che d’esser dolce; voleva non guardarla, ed i suoi occhi, senza volerlo, andavano incontro a’ suoi. Quand’era pur lontano e distratto, ne aveva senza tregua l’immagine fissa nella mente. Voleva pensare ad altre donne, ad altri amori, ed ella furtivamente gli si annidava tra le braccia con una promessa più forte; voleva respingerla da sè, quasi per purificarsi di questa colpa, e la colpa gli ritornava, gli affluiva nel cuore per tutte le vene, come un’ondata di voluttà. Il cavalluccio trottava; la campagna uguale riposava dal lavoro diurno, rotta dai casolari, percorsa dalle strade, segnata dalle siepi. Qualche filare di pioppi, traverso la vaporosa pianura, s’allontanava a perdita d’occhio nella notte bianca. Dietro loro si addensava la città, sovrastata da una luce rossastra, ch’era, nell’aria ferma, il riflesso delle sue molte luci. Di là da una siepe videro un gregge di pecore che pernottava; s’era sparso nel praticello, a piccoli gruppi, e biancheggiando vi dormiva. Il cane accorse su la proda, tutto ispido, ed abbaiò. — Guarda, — disse Loretta con un’ammirazione infantile, — guarda come sono bianche e come dormono vicine. Quelle pecorelle addormentate davano al suo cuore di bimba una tenerezza singolare. Soggiunse: — La vita nelle campagne dev’essere migliore che nelle città. Perchè non mi porti via, Rigo? — Portarti via? Ma dove? — Dove non importa. Una settimana sola. Vorrei fare un piccolo viaggio con te, starti vicina sempre, giorno e notte, non lasciarti mai, giorno e notte... Che felicità, pensa! Il fratello scosse il capo, e tacendo le diede una carezza sul dosso delle mani, poi su le ginocchia. — Portami via... — ella disse ancora, supplichevole. — Non si può. Incontrarono in quel punto un’allegra comitiva che tornava in città cantando. Apparve di lontano un villaggio, e, prima del villaggio, dietro una casa, un gruppo d’alberi folti ove brillavano molti lumi. — Vedi: è là che si pranza, — disse Arrigo segnando il chiarore. — Viene molta gente in estate perchè vi si mangia bene. Giunsero. Un cameriere di onesti modi si avanzò dalla soglia incontro ai sopraggiunti. — Vuoi aspettarci? — domandò Arrigo al vetturino. — Ti farò pranzare. L’uomo guardò la sua bestia con un’aria misericordiosa: — È sotto da nove ore... — disse; — dovrei andarlo a cambiare. Ma poi, più che il suo paterno amore per l’animale stracco, potè la golosità del pranzo promessogli, e rispose con aria di condiscendenza: — Bene, se proprio vuole, posso anche aspettarli. Entrarono, traversarono alcune sale ingombre di tavolate chiassose, giunsero nel giardino e sedettero sotto il pergolato. — Com’è bello qui! — fece Loretta, guardandosi attorno. Gli alberi alti, collegati da una intelaiatura di fil di ferro, formavano una specie d’immenso padiglione, percorso da un glicine tutto fiorito. Fra i densi grappoli turchini i lampioni elettrici divampavan d’una luce intensa, quasi violacea, nella quale turbinavano a sciami le farfalle notturne. L’odor soave del padiglione fiorito si respirava con l’aria, lo si assorbiva come una bevanda, e l’abbondanza di quella fioritura che s’arrampicava intorno a tutti i tronchi, si addentrava nel folto dei rami, correva per i pergolati, si lanciava da un albero all’altro, dall’uno all’altro lampione, assalendo la casa, le finestre, le ringhiere, parendo ne’ suoi mille fiori non essere che un solo fiore, dava a quel rustico giardino l’apparenza d’una corte azzurra nel mezzo d’un bosco incantato. Sotto i pergolati erano in un gran numero le comitive allegre che pranzavano e banchettavano; quasi tutta gente ricca del suburbio, festeggiante il sabato sera. Quel buon sangue popolano, acceso dal vin forte, scoppiava in risate sonore; i camerieri affaccendati passavano portando piatti fumanti; i bicchieri e le posate mandavano un allegro tintinnire. Nel fondo, sopra un terreno ben rischiarato, alcuni uomini in maniche di camicia stavano giocando alle bocce; altri, raccolti in gruppo, commentavano i colpi. Al primo piano della casa, in una sala che aveva le finestre aperte verso il terrazzo, si danzava gaiamente al suono d’un pianoforte. Un’ondata d’allegria pervase i loro giovani cuori, perchè ognuno può sovente annullare l’anima propria per ricevere l’altrui, sopra tutto quella dei semplici, che sono i più comunicativi. Eran un po’ storditi entrambi di quella passeggiata serale per le campagne semibuie; avevan nel cuore e negli occhi il fantasma della lor colpa imminente, soffrivano entrambi il dolore dell’amore. Si erano sentiti per un momento soli nel mondo, affacciati sopra un pericolo, sopra una tentazione, che superava i loro pavidi sensi; — ed ecco si trovavano in un giardino pieno di gente, di gente un po’ triviale, che mangiava con robusta fame, parlando e ridendo forte; la luce aveva abbagliato i loro occhi un po’ torbidi, l’odore delle vivande aveva solleticato i loro stomaci sani, e la musica trascinante che veniva dal terrazzo, e le coppie danzanti che si vedevan passare dietro le finestre in un fascio di luce, avevano dato ad entrambi il desiderio di allacciarsi l’uno all’altra, ben vicini, ben forte, e buttarsi a cuor perduto in quel ballo, e non aver più paura di quel loro amore che li faceva tremare. Arrigo diede un piccolo colpo sul piatto vuoto, che gli luccicava davanti, e disse: — Ho fame! Prese un pane, lo ruppe. Loretta cominciò a sbottonare il guanto che ancora le calzava la mano destra sino a mezzo l’avambraccio, se lo fece scorrere in giù lentamente, ne trasse fuori le dita ad una ad una, si guardò la mano, sopra e sotto, l’intrecciò con l’altra su l’orlo del piatto. Quella sera ella non portava il braccialetto di Rafa; i suoi due polsi nudi, minuscoli, eran densi di vene; la luce obliqua li dorava d’una biondezza tenue. La sua faccia un po’ stanca prendeva un bel colore, tutto da lei spirava quella indefinibile seduzione che la donna comunica quando ha molto pensato all’amore. Mentre il cameriere imbandiva, si misero a guardare i loro vicini e riderne. Una donna esageratamente grassa e rubiconda eccitava l’ilarità di Lora. Sedeva nel mezzo d’una tavolata numerosa, ov’eran molti bimbi che cicaleggiavano sbrodolandosi il mento con le salse gocciolanti. E le mamme a rimbrottarli, e gli uomini a lanciar loro qualche scappellotto. La grassa commensale portava una camicetta scollata, d’una seta a pallottole bianche su fondo blu; era forse una ricca bottegaia, che andava in bagordo, il sabato sera, con tutto il parentado. — Sa, — diceva il cameriere ad Arrigo, — abbia pazienza per stasera, signor conte! Il sabato viene tanto popolo che non si ha tempo di servire come si deve. Ma nei giorni della settimana è tutt’altra cosa. Poi, se volesse telefonar prima, si potrebbe prepararle qualche piatto speciale. Un bimbo, col tovagliolo annodato intorno alla gola, si mise a correre fra i tavolini per acchiappare una farfalla moribonda. Capitò vicino alla tavola d’Arrigo e il cameriere lo frustò via col tovagliolo, quasi fosse un can randagio. Ella rideva del cameriere, del bimbo, della farfalla e della donna grassa; rideva di tutto, per una súbita gioia ch’era entrata in lei. Nella luce azzurra che pioveva dall’alto, i suoi lineamenti si avvolgevano d’un contorno quasi vaporoso, i capelli biondi le facevan cadere una leggera nube su la fronte. Ma quest’allegrezza fu breve; breve per entrambi. A poco a poco furono lontani da quella gente, da quel frastuono, si ritrassero in un mondo loro, temendo quasi che alcuno ve li sorprendesse, mentre ambedue, per una onestà inconsapevole, si ribellavano contro la forza del loro così perverso amore. Noi abbiamo talvolta, nel nostro pavido istinto, una certa riluttanza davanti alla felicità, e nulla è così sbigottito come un’anima semplice che s’affacci sopra un grande peccato. Il pranzo era finito: portavano i dolci; il caffè versato fumava nelle tazze. Dall’alto era caduto su la tovaglia qualche fior di glicine; alcune piccole zanzare, contorte dall’agonia, si dibattevano fra le briciole, senza più volo. — E Rafa? — disse Arrigo improvvisamente. — Oh, non parlarmi di lui ora! — ella esclamò con un gesto vivace. — Non lo posso più soffrire! Egli ebbe la vanità o la crudeltà di domandarle: — Perchè? Ella fece un gesto vago. — Forse non puoi comprendere... Nessuno di voi può comprendere il cuore d’una fanciulla. — Oh, come parli! — egli esclamò sorridendo. — Perchè? ti faccio ridere? Il fratello si mise a guardarla, fissamente, insidiosamente, con un’espressione ambigua; ella sostenne un poco il suo sguardo, poi chinò la faccia nell’ombra del cappello. — Se mi guardi così, Rigo, mi fai arrossire... — Sei tanto bella, fiore mio!... — egli esclamò, piegandosi un poco verso di lei, come attratto dal respiro della sua bocca. Ed ella gli sorrise dal volto chino. — Ma se non ti piaccio... — mormorò, con una civetteria timida. — Sei tanto bella! — diss’egli ancora; — tanto, che mi fai male... Ella non aveva pudore; sollevò la faccia, la sua bocca rise, viva, invermigliata, piena di colpa. Le splendevan gli occhi: non aveva pudore. — Ed allora perchè?... — fece con esitazione. — Cosa dici? — ... perchè non mi vuoi? La domanda era tanto grave, ch’ella stessa tornò a nascondersi. L’altro nulla rispose; accese una sigaretta, quasi volesse ubbriacarsi di fumo. Poi, quand’ella non si aspettava più nessuna risposta: — Perchè sei mia sorella, — disse. Ella si strinse nelle spalle, meditò. — Questo nome ti pare così terribile? — Sei una bambina, — egli osservò gravemente. — Una bambina?... — E sorrise crollando il capo. — No, piuttosto un’altra cosa, molto semplice: soffro e non voglio più soffrire. Voglio bene a te, a te solo, e chiunque tu sia, voglio bene a te! Infine, di cosa mi rimproveri? Perchè sento questo amore? Ma non è mia colpa. Forse perchè ne parlo? Ma che servirebbe il tacere, se tu, che pure taci, non fai che pensare continuamente alla stessa cosa? E le sue piccole mani si allacciarono strettamente alle mani di lui, che non sapeva rispondere, che non osava più guardarla. Poi divenne mansueta, persuadente, insistente: — Ascóltami, Rigo, ascóltami! Quel coraggio che dovresti avere tu, l’ho avuto io per la prima. Ora non condannarmi: aiutami! V’è una certa paura in tutto questo, è vero, ma bisognerà pur vincerla... Egli la guardò stupefatto. — Non bisogna vincerla, — disse oscuramente. — Anzi bisogna guarirne. — È dunque un male così grande? — Sì, un orribile male. Anche il parlarne, anche il pensarvi è male. — No, — ella disse con fermezza. — No! — Vedi, se tu potessi avere un altro nome che il nome di sorella... Non senti come suona male su la mia bocca? — Un nome!... cos’è un nome? — ella fece. — Ma è tutto, poichè vuol dire qualcosa, poichè racchiude il peccato più grande che vi sia nell’amore. Ella ebbe un gesto vago, ed un sorriso. — Non importa, — rispose. — Io non ti considero per tale; non sento affatto che tu sia mio fratello. Paolo è mio fratello, tu no. È una cosa del tutto diversa. Non mi ricordo nemmeno più com’eri, quand’eri mio fratello, cioè quand’eravamo bambini. Ora tu sei un altro. Fece una pausa, indi ricominciò: — Del resto è naturale che fra noi ci sia una differenza. Tu hai avute tante altre amanti, sei stato carezzato, baciato, adorato da tante... Quello che puoi avere per me somiglia tutt’al più al desiderio che potresti avere d’un’altra. Invece io... — No, Lora, questo non lo dire! non lo dire! È assurdo! Ma dunque non vedi che faccio sopra me stesso uno sforzo terribile per salvarti? — Per salvarmi? Per salvarmi, dici? Ma io non voglio essere salvata! A che scopo? Perchè un giorno magari mi prenda Rafa, od un altro come Rafa? Io sono libera, capisci? padrona di fare con me quello che voglio. E son io che ti cerco, non tu. Se hai paura del rimorso, io lo voglio portare tutto su me stessa. Guarda: ragiono freddamente, so quel che dico. Amo te, voglio esser tua; solo questo mi piace. Voglio carezzarti, farmi carezzare, viverti vicino, essere innamorata di te, gelosa di te... E son io che voglio, non tu; io sola... ti basta? Egli guardò quella fanciulla di vent’anni, quel fiore semplice, che aveva un cálice così profondo e maturo, così odoroso e perverso. Una specie di ammirazione tacita nacque in lui, come se ne avesse paura. — Loretta, — egli disse, — alla tua età non si può saper ancora cosa è bene e cosa è male, o per lo meno qual è il male troppo grande. — Il male troppo grande è non avere il coraggio d’essere felici, — ella disse, inconsapevole forse delle sue parole. Entraron due giovini bellimbusti, allegri e chiassosi, che imbaldoriavano quella sera in compagnia di due cortigianelle, così rosse di belletto e così eccentricamente vestite, che molti, fra que’ satolli borghesi, ebber l’aria di scandolezzarsene. Le due ragazze ciarliere, tenendosi al braccio dei lor galanti, camminavan sui tacchi alti con un passo dinoccolato ed uno sconcio dimenìo dell’anche, ogni tratto scoppiando in certe risate stridule che ferivano i timpani altrui come la nota falsa d’una chitarra scordata. Eran gaudenti o nottambuli di basso ceto e donne di bassa galanteria; adocchiaron passando la tavola d’Arrigo; un d’essi lo salutò. Conoscenze antiche, forse del tempo ch’egli tavernava con una cricca di fannulloni equivoci per le bottiglierie malfamate. I sopraggiunti sedettero ad una tavola vicina e si misero manifestamente a parlar di lui. Arrigo, intuendo i loro discorsi, per la prima volta si doleva che lo avessero sorpreso in quella trattoria campestre, quasi clandestina per un giovine signore, e sorpresi lor due soli, che parevano amanti, che dovevano a tutti parer amanti, e forse portavano impressa nel viso l’incancellabile ombra del loro peccato. Loretta capì che qualcosa lo molestava e domandò: — Chi è quel tale che t’ha salutato? — Un avvocatello senza clienti, — rispose Arrigo; — un brutto tipo. — E quelle due ragazze? — Oh, non saprei! — Discorrono di noi — Me ne sono accorto. — Cosa posson dire? — Nulla di buono, certo. Mi spiace molto che ci vedano insieme, perchè il mondo certe cose le indovina, e Dio sa come. — Credi? — Non costoro, forse; ma quando ci saremo fatti vedere troppe volte insieme, qualche altro, chissà mai... — Bene, in séguito vi penseremo. Entrambi tacquero. Nel giardino le risate squillavano; chi aveva troppo mangiato lasciava che il proprio stomaco operasse in pace la fatica della digestione; frattanto, nel calor del vino, si tenevan propositi gai. Ai bimbi s’era lasciata la briglia sul collo e scarrieravano con alti gridi sotto i pergolati; uomini e donne, con quella vampa di ardore nel viso che vien dal cibo soverchio e dal generoso vino, riversavan su le tavole ancor ingombre il sale dell’aneddoto, il pepe della barzelletta grassa. I mariti, gli amanti, gli innamorati pensavano alla notte vicina. Su in alto si danzava. Quel flutto di musica un po’ tempestosa traboccava sul terrazzo dalle finestre aperte; ogni tanto una ragazza vi si affacciava, tutta accaldata, i capelli in disordine, con un amator mellifluo che le stava intorno. Respiravan una boccata d’aria, e via di nuovo, strettamente, accanitamente, nel tramestìo della danza. Ogni tanto, se il vento serale passava con una larga ondata sul padiglione in fiore, tutti quei grappoli azzurri, esuberanti e grevi come la più ricca vendemmia, spandevan sopra il giardino un lungo e profumato brivido, lasciavan cadere a scosse qualche fiore morto, che lungamente strisciava su la ghiaia, di qua, di là, dappertutto, con un prolungato fruscìo. Tre girovaghi entrarono, e nelle pause del pianoforte si misero a cantar serenate. Que’ due che s’amavano, d’un tratto non parlarono più. La sera, e la musica, e quel profumo d’aperta campagna, tormentavan la tristezza del loro sogno nascosto. Volersi bene era triste, desiderarsi era un grande peccato, rifiutarsi l’uno all’altra era più che soffrire... Egli chiamò il cameriere, pagò in fretta, disse alla sorella: — Andiamo, camminiamo. Uscirono. S’era levata una chiara luna su la campagna imbiancata; i fossatelli ne stralucevan a distanza; gli alberi, or folti or radi, segnavan nella purità della notte certe immobili ombre, quasi violette. Presero fra i campi. Il grano verde balenava di fili d’argento; un’acqua corrente, nascosta, forse lontana, mandava un rumor così lieve che pareva esser solamente una freschezza. Ella diede il braccio al fratello; le lor ombre commiste li accompagnavan nel chiaro di luna. — Mi vuoi bene? — ella domandò, piano, avvincendosi a lui. Egli sciolse il braccio, lo girò intorno alla sua cintura, se la strinse vicina, senza rispondere. Passavan sotto grandi alberi, poderosi di antichità, vivi d’una occulta vita notturna. Allora, paurosamente, in quell’ombra si baciarono. Bocca su bocca, nel profumo della notte, nel tremore dei loro sensi, follemente si baciarono. Quel bacio li percorse dalla fronte alle caviglie come una molteplice carezza, li snervò, li vinse, fece del loro amore un nodo strettissimo e doloroso. C’era nel breve bosco la menta selvatica che odorava troppo forte. Piangere, dolersi, ridere, traboccare di gioia, sentire che le vene battono, ebbre, con un delirio pieno di tormentata felicità... Quel bacio si moltiplicò su la bocca, su gli occhi, su la fronte, sul collo... su la bocca. Essere così pieni d’amore, e non potersi amare! Essere così vicini, così soli, in una bianchissima notte, con la viva primavera intorno, la primavera che soverchia e dà la vertigine... Lì nel bosco, tutte l’erbe odorose che vampavano come incensieri; la menta, il basilico, la ruta; un’acqua che passa nascosta, una mandolinata che trilla, già lontana; tra il fogliame, per la campagna rorida, i gelsi torti, gli albicocchi tutti un fiore... Guardarono in su, tra il fogliame; videro il cielo pieno di stelle. Cadevan, le piccole stelle, per l’aria infocata, come una pioggia, un turbine di minute scintille rosse... Ella era di loro due la più forte, perchè del peccato non conosceva che il nome: egli era il più sperduto ed il più ebbro, perchè del peccato godeva sino al fondo l’estenuante malefizio. Questa passione gli devastava il cuore con artigli e con spine, logorava lentamente la sua tenace volontà. Già stava presso a dimenticare, a vincere il nome insormontabile, (un nome... — aveva ella detto, — cos’è un nome?...) e già guardava con occhi limpidi nel peccato mortale. Voleva esser cinico, apparecchiarsi una festa soave, non sciupare un fremito, goderne con lentezza e maestria... Si lasciava cadere a poco a poco, insensibilmente, nella tentazione, quasi per avvezzarsi a quel coraggio formidabile. Ma quando era già per dire a sè stesso, ed a lei, la parola più temuta, un rombo enorme saliva nella vastità del suo spirito, e subitamente, quasi venisse chissà da qual remota lontananza dell’essere, quasi risorgesse di sotto il peso della sua volontà, quasi fossegli commista nel sangue, indistruttibile tra i suoi fantasmi, una immagine fredda, malinconica, gli appariva nella mente. E vedeva la faccia del suo padre, immiserito dalla vecchiezza, affaticato dalle sventure, guardarlo con que’ suoi pallidi occhi, più dolorosi che gli occhi d’un animale ferito, guardarlo e ripetergli mutamente, come quando era uscito dalla casa: «Sei stato tu! sei stato tu!...» Ella, questi fantasmi, non li vedeva; ella fissava il peccato più grande con la più piccola paura. Non aveva in sè che una forza: quella del proprio desiderio; una sola incoscienza: quella della propria femminilità. Nel suo turbato cuore di vergine il senso della tragedia si disperdeva in un sottile piacere. Poichè nell’amarlo non cercava in lui che un amante, così le pareva naturale dirgli: «Préndimi nelle tue braccia, se anche porto un nome che ti fa paura! Préndimi e stringimi, per questo, più forte!» Poichè vicino a lui si sentiva protetta, invaghita, sottomessa e piena di brivido, poich’egli guardandola, toccandola, esasperava il suo tormento di vergine, l’altre paure, l’altre angosce, non erano per lei che ripudiabili ombre. E così gli diceva con persuasione, con impeto, la parola più temuta, perch’egli la conducesse via con sè, verso la camera dove sarebbero stati soli, nel cuore della notte, senza che sguardo umano li vedesse. E sognava egli pure quella camera, la camera dove lentamente, paurosamente, l’avrebbe svestita, velo per velo, con brividi, come si scopre un tesoro vietato. Avrebbe veduto prima la sua gola bianca, turgida apparire, poi le tenui braccia odorose, con i polsi azzurri di vene, che avrebbero fatto un nodo, un nodo forte nello spasimo, intorno al suo collo, ed il seno ancora non baciato, erto, consapevole dei baci, divise nel mezzo da un’ombra che vestiva naturalmente la sua nudità... Ed egli pensò di spegnere il lume nella camera per aver più coraggio, ma desiderò filtrasse un chiarore, una penombra man mano più discernevole, forse dai lampioni della contrada, forse da una lampada velata nella stanza vicina. E sentì l’odore del suo corpo disciolto, quello stesso, ma più dolce, ch’ell’aveva su la bocca, nel baciarlo; un odore intenso e molteplice, che le fioriva dalla pelle, come se nelle pieghe del suo corpo fossero nascoste rose. Assaporò la freschezza di quella carne primaverile, immaginò di carezzare la sua tonda spalla ignuda, insinuò la mano brancolante nel tepor vellutato delle ascelle, si raccolse nelle strette braccia il suo busto flessibile come un virgulto, sentì contro sè stesso il palpito infrenabile del suo grembo, il viluppo della persona ch’ella farebbe contro la sua persona, per offrirsi e per difendersi, concepì la gioia selvaggia di poterla tramortire, le intese nella gola il rantolo della verginità fuggente, la udì piangere nell’ebbrezza, ridere nel dolore... poi la vide com’era, snella, arcata, forte nella sua tenuità, impallidire un momento di quel pallore ch’è presso alla morte, e balenar tutta bella d’amore in quell’odio esultante con cui la vergine si dà... Ma d’improvviso ella si era sentita male. Veramente, come nella sua visione, egli l’aveva veduta sbiancarsi di quello stesso pallore, s’era sentito afferrar le braccia dalle sue mani convulse, poi, vedendola barcollare, l’aveva sorretta contro di sè. — Che hai, Lora? Non rispose; le battevano i denti; tremava. — Lora! Lora! che hai? — Nulla... — balbettò, — passa... Non era che uno stordimento, e la bocca presto le risorrise. Rifecero il cammino; egli la sorresse fino alla vettura. Il cocchiere cicalò; il cavalluccio riprese a trottare verso la città del suo martirio, dove c’eran il sasso aspro, la rotaia sdrucciolevole, la posta e la stalla. Di qua, di là dalle due siepi, odorosa nella candida notte, la terra lavorata coltivava grani e frutti per la città vorace; qualche grillo innamorato della luna levava il suo canto stridulo, infinitamente maggiore di sè. Ora le doleva il capo, aveva intorno alle tempie un cerchio ferreo, che martellava. Per lenirsi quel dolore prese una mano del fratello e se ne fasciò la fronte. — Soffri? — Sì, un poco. Egli le circondò la fronte, da una tempia all’altra, di tanti piccoli baci. — Tienmi vicina, molto vicina... e guarirò. In un giardino che incontrarono, le rose di Maggio aprivano i lor càlici gonfi di primavera. — Ti senti ancor male? — Sì, un male dolce... Di là da un filare di pioppi riapparve, come una vasta nuvola sospesa nel firmamento, la vampa rossa della città. Sopraggiunsero le prime case, con muraglie bianche di luna. Ora i grilli eran cento, eran mille, perduti nel fieno maggengo, ed uno, fra tutti più iracondo, pareva inseguirli da presso lungo la siepe di biancospino. D’un tratto ella rovesciò la testa contro la sua spalla, come se un principio di svenimento la soverchiasse. — Rigo, mi sento male... — balbettò premendosi il petto. — Ma che hai? — diss’egli, smarrito; — perchè soffri così? Ella chiuse gli occhi e volle ancora sorridergli dal viso tutto bianco. — Stordita mi sento... non so... — Vuoi fermarti? Che vuoi fare? — Nulla; ora passa... passa... Ti amo... Quando furono all’ultima cascina, il canto randagio del grillo si disperse lontano, infinitamente lontano, e morì. Ma di fronte apparve il dazio monumentale, maestoso come un arco di trionfo, sotto il cielo stellato. Le guardie daziarie, sedute presso il casello, ridevano e fumavano, ciarlando con donne di malaffare. In mezzo a frotte di bimbi alcuni vagabondi giocavano alla riffa d’un venditore ambulante; un divoratore di stoppa infiammata spalancava davanti agli spettatori attoniti l’enorme sua bocca fuligginosa. — Ti amo... — ella disse ancora, in un soffio, all’amante pallido. E il cilicio della colpa inconsumabile rivestì come un mantello di spine la loro carne disperata. VIII Arrivò inaspettato in casa di Clara Michelis verso l’ora della colazione. Da qualche giorno ella non lo vedeva più; gli aveva scritto più volte senz’averne risposta, era stata ripetutamente a casa sua, ma senza mai trovarlo. Non poteva considerare come insolito il fatto che Arrigo la trascurasse; però egli non s’era mai dimostrato noncurante a quel segno. La madre e la figlia stavano sedendo a tavola, quand’egli giunse. Fu il domestico a chiedergli per primo se avesse già fatta colazione. Poi che rispose di no, gli fu apparecchiato il posto abituale, dov’egli sedette con l’aria d’un uomo affranto. — Ho avuto molto a fare in questi giorni, — disse a mo’ di scusa. — Perdonatemi di non essere venuto. Nè la figlia nè i domestici si meravigliavan ormai della sua presenza in quella casa; egli n’era divenuto un poco il padrone, tutti sapevano per qual verso, ed ormai nessuno più vi badava. Quel giorno la sua faccia era pallida, concitata, i suoi occhi pieni di febbre, le sue mani un po’ irrequiete. — Sono stato occupatissimo, — ripetè, come se non sapesse cos’altro dire. Per rispetto alla figlia, Clara non rispose parola, e stette a guardarlo, a fissarlo, con i suoi dolci occhi pieni di tenerezza e di rassegnazione. Aveva un gran timore di lui quando lo vedeva giungere a quel modo. Anch’ella era sciupata, e siccome pensava di rimaner sola, era venuta a colazione in vestaglia senz’aver finito di racconciarsi. La cipria lasciava una traccia visibile su la sua pelle un po’ logora; il collo, che usciva esilmente fuor dai merletti della scollatura, aveva un’apparenza di cosa malata; nel mangiare, qualche leggerissima ruga le si formava agli angoli della bocca e presso gli archi de’ sopraccigli. Forse aveva pianto nella notte insonne; gli occhi le si erano come smorzati e volgevano verso l’amante uno sguardo pieno d’angosciosa dolcezza. Adelina invece appariva tutta fresca ne’ suoi diciassett’anni fiorenti; ma quel signor Arrigo la impacciava un po’, quando, invece di scherzare con lei come di consueto, veniva con quella sua faccia da can mastino e la guardava ogni tanto con i suoi occhi violenti come quelli d’un uccellaccio notturno. — Cos’avete mai avuto a fare in tutti questi giorni? — domandò Clara finalmente, cercando che le sue parole avesser un tono scherzoso. — Molte cose, — diss’egli. — Vi racconterò. E súbito, per mutar argomento, si rivolse alla signorina: — E voi, Lela, come va? — Cercava di sorridere, ma la sua faccia era contratta. — Lela va benissimo, — rispose allegramente la fanciulla. — Mi pare invece che lei non stia molto bene. — Perchè? — Ma non s’è guardato nello specchio stamattina? — Ah... non ho avuto il tempo di radermi la barba: ecco la ragione. Poi mi duole un po’ il capo. — E non mangia? — Sì, mangio; ma ho poca fame. — Forse volete prendere qualcosa per il mal di capo? — interruppe Clara, guardandolo con occhi già pieni di perdono. — Grazie, è un cerchio nervoso; non importa. — Desiderate un brodo? un’ala di pollo? — Grazie, grazie; raccontátemi qualcosa piuttosto. — La mamma non avrà nulla da raccontarle, perchè se n’è rimasta in casa tutti questi giorni, — disse Lela con una cert’aria di sottinteso e di malizia. — Ah, sì? — fece Arrigo, sogguardando rapidamente Clara. Ma ella chinò il viso e finse di non aver udito. — Allora mi racconterete voi qualcosa, — disse Arrigo. — Quello che faccio io non le può interessare: però, se ci tiene... — Sicuro. — Ma sa che è molto brutto lei stamattina! — Vi pare? — Proprio! Si curi. — Com’è impertinente questa figliola! — esclamò la madre sorridendo. — Mi curerò, — fece Arrigo; — ma intanto aspetto che mi raccontiate qualcosa. — Dunque: sono stata due sere fa in casa De Vincenzi, dove la mamma non è venuta perchè aveva l’emicrania, come lei stamattina. Vi sono andata con la Miss. C’era un piccolo ricevimento di signorine. — Chissà quanti pettegolezzi! — egli fece, con amabilità. — Da parte mia, no; sa bene che non sono pettegola affatto. Naturalmente, se le altre parlano, ascolto. Ho inteso dire, per esempio, che il suo amico Varni ha preso a schiaffi l’altra sera un ufficiale, il tenente Maffei, quello che fa la corte alla contessina Sala, per un litigio durante una cena... È vero? — Si, è vero. — E si son battuti? — Non ancora; forse oggi, forse domani, perchè i padrini hanno cercato di accomodare la cosa. — È stato per gelosia, non è vero? Così mi hanno detto. — Esattissimo. E poi? — E poi che al teatro della Varietà c’è una ballerina Americana, molto bella, che balla la danza di Salomè a piedi nudi... — ella narrò senza rossore, con una voce piena di reticenze. — Ma cosa t’interessi mai di queste cose, Lela! — osservò la madre severamente. — Scusa, mamma, lo hanno raccontato; che colpa ne ho io? — Bene; e poi? — fece Arrigo. — E poi che al loro Circolo si gioca ora una partita fortissima, e che forse Missolungi vincerà il Gran Premio di domenica. — Missolungi no; credo piuttosto Arianna. — Ma Arianna, — ella discusse, con sicura competenza, — porta quattro chili di sopraccarico; inoltre don Carletto Malespini, suo proprietario, ha sempre la jettatura. — Può darsi. Andrete alle corse domenica? — Andrò con la Miss, ma nel prato. Saremo una comitiva di cinque o sei signorine. — E voi andrete? — domandò Arrigo a Clara. — No; sapete bene che mi ci annoio. — Una volta non era così. — Già, una volta... ma ora è diverso, — ella disse con una certa tristezza. — Bene, — ripetè Arrigo alla fanciulla; — e poi? — Oh, ma lei è molto curioso, sa! E dice che siamo noi le pettegole! Egli rise; la sua faccia sciupata dalla notte insonne per un momento scintillò. — Senta, — fece Lela, — lei conosce bene il Max Borsaro, il minore dei due, non quello che fa il letterato, l’altro, il biondo? — Sì perchè? — Mi dica: è vero che s’ubbriaca ogni sera, e quand’è ubbriaco ne fa e ne dice di tutti i colori? — Beve molto, è vero; ma ce ne son altri che bevono più di lui. — Solamente lui, pensi, mi hanno detto che sia fidanzato con una mia amica, la Nónaro, pensi!... — Ah, davvero? quella piccina, bionda, che si vede sempre in carrozza con sua madre, dappertutto? — Sì, lei. Ha diciannove anni, pensi! È carina, ma non sa pronunziare l’esse; fa ridere. Poi ha la smania di parlar francese... noti, con una pronunzia deplorevole... Sì, quella insomma. Di fatti, l’altra sera, in casa De Vincenzi non è venuta. Il fidanzamento per ora non è ufficiale, ma tutti sanno che avverrà. E del resto, durante il carnovale, a tutte le feste non hanno fatto che ballare insieme, parlarsi piano e nascondersi. — Se è vero, gli farò i miei augurii. — È verissimo; glieli faccia pure. Lui è piuttosto un bel giovane, ma un ubbriacone a me non piacerebbe. Pensi che schifo avere un marito il quale sappia sempre di vino o di liquori! Lei non s’ubbriaca mai? — Molto di rado, signorina... — Meno male! Ah, un’altra cosa... — Sentiamo. — No, questo non lo posso dire, se no la mamma mi sgrida! — ella esclamò, guardando la madre con una occhiata piena di civetteria. Egli pure guardò Clara, sorridendo, e disse: — Facciamo conto che la mamma non ci sia. — No, no... — Coraggio! — Bene; lei conosce quella che chiamano la Tizianina? — Di vista. — Lela!... — rimproverò la madre. — Eh, ormai!... Dunque m’hanno detto che ha lasciato il suo barone ed è scappata con un maestro di scherma. Arrigo e Clara scoppiarono a ridere; quella impertinenza li divertiva; il domestico nascose la faccia nel vano del saliscendi per dissimulare una risata. — Per bacco! — esclamò Arrigo; — si raccontano molte belle cose nei ricevimenti di signorine. — Che vuole? Dappertutto è così. Poi c’è ancora quello che non le dico: il più bello... — Sentiamo, sentiamo! — Ah, questo poi no! Ma le assicuro che certe amiche mie ne sanno più... più di lei! — Ci vuol poco, signorina; io sono un uomo serio. — Peuh... peuh! — Come? Ne dubitate? Sapete forse qualcosa anche sul conto mio? — E quante ne so! Si metta bene in mente che in città non succede cosa, dal mattino alla sera nè dalla sera al mattino, senza che noi lo si sappia. Chissà per qual verso, e però tutto arriva. Per esempio, — questo è un altro discorso — ma chi ha detto che lei ha una sorella tanto carina? Arrigo si sentì rabbrividire fin nell’intimo, preso da una sottile angoscia, e mentre i suoi occhi paurosi scrutavano all’intorno, si sentì a suo malgrado una leggera vampa salire al viso. Egli era sotto lo sguardo vigile dell’amante, e non seppe come dissimulare il proprio turbamento. L’altra continuava: — Non so bene chi me lo abbia detto; non me ne rammento con esattezza. Ma lei perchè non me ne ha mai parlato? — Semplicemente perchè non ne ho mai avuta l’occasione, — egli spiegò, riafferrando la padronanza dei propri nervi. — Quanti anni ha? — Venti e mezzo. — Non frequenta nessuna società? — Vive piuttosto sola; è una ragazza originale. — Come si chiama? — Anna Laura, ma la si chiama Loretta. — È bionda, vero? — Sì, bionda. — Alta? — Un poco più di voi. — Mi piacerebbe vederla. — Un giorno o l’altro ve la farò conoscere. La colazione era finita; entrò miss Dora per avvertire la signorina che si preparasse alla sua lezione di pianoforte; il professore verrebbe a momenti. Lela, con quella istintiva indulgenza delle fanciulle verso le colpe materne, comprese che la sua presenza diveniva inutile, salutò l’uno e l’altra, — non era indiscreta — e se ne andò. Rimasero di fronte, senz’alcun testimonio, gli amanti, nella prima inquietudine dell’esser soli, e tacquero per alcun tempo. Il caffè ancor tepido fumava lievemente nelle tazze minuscole. Ella congiunse le sue mani lunghe, un po’ scarne, vi poggiò sopra il mento, e stette a guardarlo senza dir nulla. Negli occhi fermi le cresceva una lacrima silenziosa. Egli, un po’ impacciato, a viso chino, giocherellava con la miccia del suo portasigarette, faceva e disfaceva nodi. — Perchè non ti sei lasciato vedere in questi giorni? — domandò finalmente Clara, con una voce timida. — Non potevo, lo sai che non potevo... — egli mormorò senza levare gli occhi. — Non so nulla io; so che mi hai fatto morire. — Bah... non si muore per così poco! — egli esclamò nervosamente. — Cosa ti ho fatto? — Tu? Niente. Anch’io non ti ho fatto niente, — diss’egli divenendo aspro. Ella fece un atto quasi umile di rassegnazione e tacque a lungo. Poi osservò: — Potevi almeno scrivermi una parola. — Ti volevo scrivere infatti, anzi pensavo di venire io stesso; ma ero così nervoso, così terribilmente nervoso... — Cos’è accaduto? — Nulla — egli esclamò quasi con rabbia; e ripetè: — Nulla. Ella si levò, leggera, flessuosa, muovendo nella vestaglia di seta il suo corpo di signorina, gli si fermò presso, e con un atto dolce, che solo hanno le antiche dolorose amanti, gli carezzò i capelli. — Sei triste? Egli non rispose. — Sei malato? Egli le prese repentinamente un braccio, che aveva nudo fino al gomito fuor della manica larga, e lo baciò. Si levarono; andarono in una saletta vicina, una di quelle stanze intime che la signora d’una casa adorna con amore con leggiadria, perchè somiglino a lei stessa; e rimasero in piedi, vicini, perplessi, come se ubbidissero entrambi ad una specie d’esitazione. Sui tavolini le scatolette d’argento, le boccette di cristallo, scintillavan nella penombra; un buon odore di mughetti freschi empiva la stanza. Ella conosceva quelle ore, conosceva quel viso di lui. Dalla tenda pertugiava un vapor di sole color d’ambra. — Che hai dunque? — domandò con paura. — Ho perduto ancora, — disse Arrigo duramente, senza guardarla. — Ah... — ella fece, impallidendo. E chinato il viso, restò a fissarsi la punta della scarpina, che si agitava fuor dalla balza della vestaglia ondosa. Una lacrima le scivolò dalle ciglia per il viso bianco. — Stanotte? — gli domandò. — Stanotte, ieri e prima d’ieri: tutti questi giorni, — egli spiegò sordamente. Una pausa, una lunga pausa, da entrambe le parti, angosciosa. — Molto? — Sì, molto. Ho pagato tutto quel che potevo, non ho più nulla e devo ancora. — Perchè hai fatto questo? — ella mormorò timidamente. — Mi avevi giurato... — Non tormentarmi, Clara, non tormentarmi! Se tu sapessi!... In verità pareva un uomo perduto; la disperazione alterava il suo viso. — Cálmati, — ella fece mansuetamente. — Non dico nulla. Ma una specie di singhiozzo le contorse la bocca. Ella era quasi povera: s’era impoverita per lui. — Quanto devi? — domandò. — Quindicimila lire, e per questa sera. — Buttava le parole aspramente come se gli ardessero la bocca. — Ne ho pagate settantamila in tre giorni, ne devo quindici ancora. Ella si lasciò cadere le braccia lungo i fianchi con un gesto pieno di sconsolatezza, e disse fievolmente: — Sai bene che non posso più... — Ma io non ti chiedo nulla! — egli rispose con ira, scrollando le spalle. Una luce tetra gli balenò negli occhi, una specie di sarcastico riso gli orlò la bocca; s’andò a cacciare in una poltrona profonda, piegando il mento sul petto. — Non fare così! non fare così!... — ella gemette, cacciandosi le dita fra i capelli, premendosi forte le tempie come per contenerne i battiti. Poi camminò verso di lui quasi macchinalmente, s’inginocchiò sul tappeto come se vi cadesse, e poggiandogli la fronte su le ginocchia ruppe in lacrime. Egli le posò una mano su la nuca, lievemente; si morse il labbro, come per inghiottir qualcosa d’amaro che gli salisse alla gola, e con una voce soffocata le disse appena: — Via, non piangere... Ma ella singhiozzava più forte. — Clara... — pregò egli, scoprendole dai capelli tutta la fronte. Ella si lasciò sollevare; gli mise le braccia intorno al collo e nascose contro una sua guancia la faccia bagnata. Nel piangere lo baciava. Or da una sala più lontana si cominciaron a udire le note del cembalo, durante la lezione di Lela. Suonava una canzone di Grieg, tristissima e tormentosa, dolce ma inguaribile, come un dolore che non abbia fine, come un amore che non dia pace. Ogni tanto s’interrompeva; la mano del maestro correggeva un accordo, rifaceva una battuta; qualche attimo di silenzio, e Lela tornava da capo. — Clara, non piangere... Fra le lacrime aveva già un sorriso. — È stata una grande aberrazione, — spiegò Arrigo. — Ho perduta la testa. Non so... forse mi volevo stordire. Di cosa? Non ti saprei dire. Tre notti, quattro notti, senza quasi chiuder occhio. Giuoco e perdo, perdo senza rimedio, perdo senza interruzione. Ho lasciata la tavola poche ore fa. Nessuno mi ha risparmiato, e, capisci, ne’ miei panni, se non pago è la rovina. — Sì, capisco; ma cálmati, non ti crucciare. Lo carezzava, piano, come una madre. — Ah... sono disperato! — egli esclamò in un accesso di scoramento. — Taci, non dire così. — Vedi: la mia vita è sempre in bilico sovra un precipizio. E tutti rideranno quando finalmente vi cadrò. — Povero amore mio... senti, senti... non devi dire queste cose. A tutto si rimedia. Io... — No, tu no! Tu sei stata sempre troppo buona con me. Ella trasse un profondo sospiro: — Oh, se mi ascoltassi un poco!... se tu mi volessi ancora un po’ di bene!... — Te ne voglio, Clara, lo sai... — No, no... — E c’era nel suo viso l’espressione d’una rinunzia inconsolabile. — Non piangere dunque. Sii buona, guárdami. Se tu sapessi quanto mi ha fatto bene venire qui. Ero come un pazzo. Ma non piangere, via, non piangere! Con un fazzolettino minuscolo ella si rasciugò gli occhi; ma più li tergeva, e più eran lacrime nuove. Allora egli la baciò su la bocca, su gli occhi, su la fronte. Quella bontà e quel dolore lo vincevano insieme, senza simulazione. Ella, incoraggiata, insinuò le dita fra i suoi capelli folti. Era in lei un gesto abituale; quelle sue lunghe dita sottili vi entravan come un pettine. — Se fossi ancor ricca come una volta... — ella disse. Ma vedendo ch’egli si turbava, súbito corresse: — No, non sei stato tu: siamo stati un po’ noi, tutt’e due insieme... Bisognerà mettere un sesto a tutte queste cose. Ho molte gioie ancora, ho la casa... Dovresti aiutarmi. — Sì, Clara, vi penseremo. — C’è anche un po’ di denaro alla Banca, ma quello... — Non voglio, non voglio, Clara! Con una carezza ella gli impose di tacere. — Quello è di Adelina, e non dovrei toccarlo. Ma, insomma... lo renderò. Certo: noi venderemo la casa, perchè Lela non ci deve perder nulla, è vero? Ma anche tu non devi soffrire. Io non posso vederti così. Va presto, va e ripósati. Non pensare più a nulla. Dormi qualche ora. Io telefonerò súbito all’amministratore. Mi farà certo una scenata... ma non importa. — No, Clara, non voglio! non è possibile! non posso più accettare! — egli esclamava con sincera veemenza. — Sono venuto da te perchè mi sentivo solo e perduto... ma non voglio rovinarti ancora. Potrò forse trovare altrove quel che mi abbisogna; lasciami cercare almeno. Ella strisciò contro di lui, lo avvolse nelle sue braccia deboli, sorrise con fedeltà, vicino alla sua bocca. — No, amore, tu devi solo dormire, fare un buon sonno; vedi come sei stanco? Prima di sera tutto sarà in ordine. Non pensarvi più. — Come sei buona! come sei buona!... — egli balbettava, un poco tremando. E con un atto di vera ribellione contro se stesso: — Ah, che vigliacco sono io! — esclamò. — Taci, taci... — ella disse chiudendogli la bocca. — Va e dormi. Riposa tranquillo fino a sera. Verrò a svegliarti io, se vuoi... — Fece una pausa, le si gonfiaron un po’ le vene del collo, gli occhi le brillarono; — Vuoi?... Egli vide in un baleno il gran letto su cui s’era seduta Lora... Una terribile ombra gli si addensò nella fronte. — Vuoi?... — fece ancora l’amante. — Sì, vieni, — diss’egli con una voce opaca. E non la guardò. Lela riprendeva la canzone di Grieg, tristissima e tormentosa, dolce ma inguaribile, come un dolore che non abbia fine, come un amore che non dia pace. IX Qualche giorno dopo era la Domenica del Gran Premio. Un ippodromo sfavillante attendeva la maggior prova dell’anno. Il prato, invaso da una moltitudine tumultuosa come un mare, spariva sotto l’ondeggiare degli ombrellini aperti e dei cappelli chiari, che luccicavan nella vampa del sole. Lungo gli steccati s’eran disposte in triplice fila le vetture stracariche di gente, che, ritta sui sedili, trepidava e si agitava nell’attesa della prova solenne. Sotto le tettoie vampanti gli scommettitori urlavano le quote, cinti a tracolla d’una borsa gonfia di denaro, e dall’alto scanno dominavano la folla come forsennati arringatori. Dall’altro lato della pista le tribune parevano immensi alveari umani, gremite le scalinate, gli spalti, i terrazzi; maraviglia di colori tra il verdeggiare degli alberi, sotto il limpidissimo cielo. Tutta la città era uscita dalle sue mura per invadere l’ippodromo: gente latina, memore de’ suoi circhi romani, applauditrice d’aurighi, amatrice di competizioni, partigiana d’un colore. Dalla tribuna reale assisteva un Principe con la sua corte; intorno a lui, dame e gentiluomini occupavano le gradinate. Tra le rose rampicanti, che assalivano le ringhiere e i terrazzi delle tribune, pendevan grappoli di belle donne, uscite in abito primaverile con la primavera nel viso; nascosti gioielli che raramente la città operosa può raccogliere insieme. Abbasso era un correre, un ondeggiare, uno scambiarsi frettoloso di saluti e di pronostici. Gentiluomini gravi, con l’abito grigio a lunghe falde, il cappello a tuba, il canocchiale a tracolla, radunati in crocchio a discutere animatamente; bellimbusti e Mammagnúccoli, veri signori della pista, che affettavano volentieri, secondo la moda inglese, di giungere a quel solenne convegno in abito da mattina; giovani patrizi, attillati, composti come ad un ricevimento, al séguito d’una o di più nobildonne, dispensando sorrisi, avanzando i loro pronostici raccogliticci, offrendo di giocare in società; giovinottini di primo pelo, incerti ancora se scegliere a modello della propria vita Lord Brummel o don Giovanni Tenorio, che andavano in giro a saettar d’occhiate irresistibili tutte le belle ragazze, con la tessera di soci bene in mostra all’occhiello, un binoccolo enorme, e certe pose ancor dubbie fra il «dandy» e l’allenatore; vecchi scapoli, dai calzoni a quadrettini bianchi e neri, le marsine fuor di moda, la tuba d’altri tempi, che trascinavan dietro qualche sottana il passo un po’ spinitico, parlando dei Grandi Premi di tanti anni fa, quando non c’erano ancora l’automobili disadorne, ma si contavano a decine i tiri a quattro, i tiri a sei... Giuocatori accaniti che odiano la folla, vorrebbero l’ippodromo tramutato in una bisca, vanno, vengono, si consultano, contano denaro, si bisticcian coi pubblici scommettitori o cavano l’oroscopo della corsa dopo averne escogitate tutte le possibilità. Proprietari di scuderia che si dànno un gran da fare; poi si lascian carpire qualche misteriosa informazione da qualche bella signora, passeggiano con l’allenatore parlando inglese, un inglese molto stretto, e irreprensibilmente vestiti vanno prima della corsa a carezzare il muso del proprio cavallo e rivederne l’imboccatura. Fantini amenissimi nella loro piccolezza, nutriti di carni sanguigne, arsi dal wisky, cinti già dei loro colori, con un soprabito cortissimo color nocciuola, simili un poco ai pagliacci dei circhi equestri, quando, già infarinati e dipinti, s’infilano la giubba e màsticano un mozzicone di sigaro, fra un numero e l’altro dello spettacolo in cui dovranno far ridere. Ufficiali di cavalleria che sperano in questa come in ogni altra occasione per innamorare una ragazza ricca o debellare una bellezza restìa; negozianti arricchiti, venuti con lucidi equipaggi, studiosi d’accedere per mezzo di lente insidie ai chiusi olimpi mondani; cortigiane un po’ sciupate dalla notte di vigilia del Gran Premio, notte in genere assai clamorosa ed irrigata di Sciampagna; cortigianelle di minor conto, vestite dalle sarte dei quarti piani, che han rinfrescato alla meglio un cappellone da sera, si son comprate un ombrellino nuovo, e molestan d’importune familiarità chi non vorrebbe affatto ricordarsi d’averle per caso conosciute una sera. Cortigiane libere, venute sole, con una certa spigliatezza di «sportswoman», in abito di taglio inglese, armate di binoccolo, con il programma ed una matita nella mano inguantata. Allegre, ciarliere, adorne di ricchi gioielli che portano con semplicità, noncuranti di sciuparsi l’abito, passano e ripassano come palafrenieri tra i cavalli sellati, giocano pacchi di biglietti, commentano le partenze, salgono in piedi su le seggiole per seguire la corsa, riconoscono i cavalli a tutte le curve, sanno gli ordini di scuderia, vedono chi trattiene e chi taglia la strada, bestemmiano qualchevolta agli arrivi, e traversano i crocchi di signore con una certa millanteria, contente d’avere in comune con esse la medesima sarta e le stesse avventure d’amore. Fra tutta questa gente, quelle povere bestie che ne fanno le spese: i cavalli da corsa, malcontentissimi d’essere puri sangue, cioè d’aver perduto a poco a poco, in una lenta evoluzione, tutto quello che li faceva somigliare ad equini, per chiudere in una pelle succinta la lor sottile carcassa di spartiventi e mettersi a galoppare come dannati sotto la frusta e lo sprone, portando su la groppa, rannicchiata, una piccola scimmia curva e leggera. Per lo sterrato ch’era intorno alle tribune Loretta passeggiava insieme col fratello, divertendosi d’ogni piccola cosa, domandandogli un’infinità di spiegazioni. Arrigo le aveva scelto un abito ch’era un piccolo capolavoro di grazia e di rarità, d’un colore quasi biondo, quel colore che ha talvolta nel bicchiere il vin del Reno sotto la luce d’un paralume rosso, e che pure han talvolta certe rose, nell’aprirsi, fra il giallo della rosa tea e l’incarnato della rosa di Francia; un colore che somigliava a lei, poich’era voluttuoso, morbido e leggero. Portava un gran cappello di paglia, fiorito, leggiadrissimo, con l’ala da un lato curva su l’orecchio e sul viso, dall’altro ripiegata spavaldamente alla carabiniera; portava un ombrellino alto di manico, intonato con il colore dell’abito. Da quella seta e tra quei fiori la sua personcina un po’ frivola, piena di irrequietezze, bella di naturali armonie, traspariva come una statuetta ben modellata, che fosse appena ravvolta in una carta velina. Camminava di qua, di là curiosamente; tutto la interessava, ogni cosa le piaceva. Ella era nata per essere tra quei lussi, per divertirsi di quegli svaghi, per vedersi dagli occhi altrui desiderata con una certa insolenza. La bottega paterna era già così lontana da lei e dalla sua immaginazione, che le pareva di non esserne mai stata prigioniera. Per un istinto femineo, svegliatissimo in lei, aveva osservate le donne eleganti nei loro abiti e nei loro atteggiamenti, sicchè le riusciva molto facile imitarle; non le invidiava già più; sapeva di possedere nella sua giovinezza, nella sua freschezza, un valore inestimabile. Portava un ciuffo di riccioli rimessi, dietro, su la nuca; e ciò le stava bene; aveva raccolto il biondo peso de’ suoi capelli sul lato che rimaneva scoperto per la rovesciatura dell’ala, e così parevano più voluminosi ancora. Vicino a lei Arrigo si sentiva triste; una tristezza profonda, quasi un male, assaliva il suo cuore colpevole; poichè la sua bellezza insidiosamente lo pungeva, come una rosa dallo stelo irto di spine. Lo pungeva con la sua voce troppo chiara, che talvolta si velava di suoni torbidi nel parlare a lui, con lo sguardo lieve de’ suoi occhi ridenti, che avevan di continuo sotto le ciglia un fuoco nascosto; con la forma del suo corpo femminile, ch’era troppo agile, troppo arcato, troppo desideroso d’offrirsi al piacere degli uomini. Gli pareva che tutti indovinassero la sua sofferenza inconfessabile, vedessero in lui palesemente la colpa mostruosa, e dietro le sue spalle ne parlassero, piano, ma continuamente. Una specie di oscura gelosia cominciava a nascergli nel cuore, nei sensi torbidi, e guardava talvolta gli ammiratori della sorella con una irritazione d’amante sospettoso. Avrebbe voluto condurla via, per sè solo, in una casa nascosta, in una terra lontana, e là, forse, osare... osare quel grande inconsumabile peccato. — Dimmi, Arrigo: dove partono i cavalli? — Non vedi? Partono laggiù. Erano su la tribuna, ritti, vicini, fra la gente che assiepava. Egli additò verso il fondo della dirittura i nastri abbassati, là dove il giudice di partenza ordinava i competitori. — Come si chiama il nostro cavallo? — Dómino. — Lo abbiamo vincente o piazzato? — Uno e l’altro. — Che colori porta? — Giubba rossa, tracolla nera. È il terzo, vicino allo steccato. — Dammi il canocchiale. Per guardare si protese innanzi, afferrandosi al suo braccio. — Non vuol star fermo, — disse. — È un cavallo bizzarro: se parte bene vince, se no... — Sono partiti!... — ella esclamò, stringendo il suo braccio. — Dómino è davanti! — C’è tempo, — egli fece; e si mise a guardare. Passarono in gruppo serrato, levando su dal terreno un rimbombo veloce; alla curva si piegarono come un sol corpo su lo steccato. — Dómino cede, — disse Loretta che li seguiva palpitante. — No, è tenuto, — rispose Arrigo. — La corsa per lui è ottima. Si confusero laggiù, tra gli alberi. Ogni tanto, nel folto, un po’ di bianco, di giallo, di rosso, e qualche criniera. Comparvero lontani, all’ultima curva, già distanziati l’un dall’altro, e bassi, appiattiti sul terreno, fra un saettar di scudisci, sbucarono in dirittura. — Sono tre, mi pare, insieme, — disse Loretta. — No, Dómino è sempre in testa, ma per poco, — fece Arrigo, attento al canocchiale. Giungevano. Da la folla si levava qualche clamore, qualche nome indistinto: — Dómino! Dómino! Canopic! Smallah!.... — Vince! vince! — esclamava Loretta, stringendo nervosamente il braccio del fratello. Erano alle tribune, in quattro, lottando, vicini. E la folla pareva spingere col suo fiato, con la sua forza, il cavallo per cui parteggiava. — Smallah!... Smallah!... — fu da più parti un grido. — Al diavolo! — esclamò Arrigo. — Dómino è battuto. A pochi metri dal traguardo la piccola morella montata in giubba verde, era scattata fuori, per una corta incollatura, e vinceva. — Smallah! Smallah! — si urlò da più parti, applaudendo. E nell’aria oscillò quella specie di pausa che segue le prolungate concitazioni, come avvien nel mare dopo l’ondata. — Che peccato! — fece Loretta. — Hai perduto allora? — Ho Dómino piazzato e non perdo nulla; ma credevo di vincere. — Ti secca molto? — ella domandò al fratello, vedendolo un po’ rabbuiato. — Bah! sono sciocchezze! Andiamo. Scesero. A piè della scalinata s’incontrarono viso a viso con Rafa. Tutti e tre, per un moto istintivo, rimasero perplessi. — Addio, Giuliani, — disse Arrigo seccamente. — Buon giorno, Ferrante, — rispose l’altro, molto impacciato, levandosi il cappello con un saluto cerimonioso. Loretta, ch’era più padrona di sè, gli mandò un rapido sorriso. Arrigo fece atto di proseguir oltre, ma Rafa, superata la prima confusione, mostrò di non volerli abbandonare. Dopo lungo riflettere aveva concluso fra sè che il miglior espediente fosse quello di farsi presentare a Loretta dallo stesso fratello, e ne spiava l’occasione. — Hai vinto, Arrigo? — gli domandò. Stava di fronte a loro, fra le due ringhiere della scalinata, ed impediva il passaggio. — Ho Dómino piazzato, — questi rispose, non potendo farne a meno. — Ed ora che giuochi? Dammi un buon pronostico. — Nel Gran Premio ho già presa Arianna: ma voglio coprirmi sul cavallo francese. — Quale? Fontenay? — No, Gabriel. Fontenay non può far nulla. Ho visto i galoppi. Loretta era rimasta un passo lontano, quasi nascosta nel cespo di rose che s’arrampicava su le colonne della tribuna. Disegnava qualche arabesco nella ghiaia con la punta dell’ombrellino ed ascoltava i discorsi dei due con un’aria indifferente. — Ho inteso dire che Missolungi può vincere, — ella fece d’un tratto, levando il viso, con l’aria più naturale del mondo. — Vuoi presentarmi a tua sorella? — domandò Rafa, con voce titubante, arrossendo un poco. Arrigo esitò un attimo, impercettibilmente. — Volentieri, — disse. E fece la presentazione: — Il conte Raffaele Giuliani; mia sorella Anna Laura. Loretta gli tese la mano, garbatamente, con la maggiore tranquillità; egli s’inchinò profondamente, per nascondere la commozione che lo turbava. In quel momento il viso di Arrigo si oscurò, divenne perfido e minaccioso. — Andiamo a vedere le quote, — disse con asprezza. — Dunque lei crede in Missolungi, signorina? — domandò Rafa, che intanto le si era messo a lato. — Io non me ne intendo affatto, sa!... Ma ho inteso dire che questo cavallo possa vincere. — Missolungi ha senza dubbio molte probabilità in suo favore; sopra tutto il peso — affermò il Giuliani. — Missolungi è un ronzino! — disse Arrigo aspramente. — Sarà finito a mezzo il percorso. — Scusa, ha pur vinto il Derby lo scorso anno, — osservò Rafa. — Già... un caso! Missolungi, qui, non può far nulla. Questa corsa è fra tre cavalli: Arianna, Gabriel e Bloomy Boy. Li vedo arrivare in quest’ordine. — Voialtri intenditori di corse — disse Rafa — vedete spesso il rovescio di quello che poi accade. — Bah!... e tu cosa vedi, se è lecito? — Io per solito gioco un «outsider». Scelgo il nome che mi piace di più, e, se guadagno, mi pagan molto. — Un bel sistema, non faccio per dire! E qui cosa scegli allora? — Sono incerto fra Eglantine e Thermosiphon. — Per bacco! non c’è da esitare: scegli Thermosiphon. — Sono anch’io di questo parere, — disse Loretta ridendo. — Infatti lo dànno a venti: è una buona quota. Si avvicinaron allo scommettitore; Rafa si tolse di tasca due biglietti da cento e li tese al «bookmaker». — Thermosiphon vincente, — disse forte, per far ridere alcuni amici ch’erano intorno. — Quattromila per duecento Termosiphon vincente! — rispose lo scommettitore, firmando la tessera. E urlava: — Due e mezzo Arianna! Gabriel a due... Quattro Bloomy Boy!.... — Il francese parte favorito, — osservò Arrigo. — Tre giorni fa lo davano a cinque. — Bloomy Boy a quattro quinti piazzato... Gabriel piazzato a mezzo... — annunziava lo scommettitore. Arrigo si fece innanzi tra la folla, con un biglietto da cinquecento in mano, e domandò piano allo scommettitore: — Bloomy pari piazzato? — Non posso. — Via!... cinquecento lire.... — Vanno! Rafa, rimasto un momento solo con Loretta, ne aveva profittato per dirle: — Venite domani, vi prego! Da tanti giorni non vi rivedo più... Cosa mai succede? — Silenzio, silenzio, per carità! — Ditemi almeno cos’è accaduto? Non so più nulla, non mi scrivete.... — Per l’amore di Dio, Rafa... — Promettimi almeno che scriverai. — Scriverò, scriverò, ma tacete ora. — E aggiunse forte: — Sarebbe una bella sorpresa se arrivasse Thermosiphon! — Se arriva, tu mi avrai portato fortuna, — egli osservò amorosamente, piegandosi un poco verso di lei. E sottovoce le disse: — Come sei bella! — Oh, insomma... cos’è questo?! — ella esclamò, battendo l’ombrellino a terra con súbita irritazione. Rafa prese un atteggiamento assai corretto, poichè il fratello tornava. — Cos’hai giocato ancora? — domandò Loretta. — Bloomy Boy piazzato. — E Gabriel? — Gabriel no. Non posso giocare tutti i cavalli, ti pare? — Me lo avevi detto prima tu stesso... — ella osservò, intimidita di quel tono aspro. — Certo; ma non sapevo che partisse favorito. Se poi arriva, tanto peggio per me! — Posso offrirvi un bicchiere di Sciampagna? — propose Rafa. — Vuoi bere, Loretta? — domandò Arrigo. — Sì, volentieri: ho sete. — E allora beviamo. Loretta notò che il fratello era di cattivo umore; camminando appoggiò la mano sovra il suo braccio, lo strinse furtivamente. — Che hai? — gli domandò sottovoce. Egli scrollò il capo senza rispondere. Passarono davanti alle tribune, per il largo recinto, che nell’imminenza della gran corsa era ingombro d’una folla irrequieta e mutevole. Il cielo s’era coperto un poco; certi grevi nuvoloni, d’un color di piombo e d’oro, salivano sopra la città lontana, oscurando il sole. Simili a grosse nari cariche, avanzavano su per il cielo da più lati e cozzavano insieme, inglobandosi; oppure il vento li divideva, li strappava a fiocchi, come enormi cumuli d’ovatta. Gli alberi dell’ippodromo cominciavano a scapigliarsi; la folla umana, che come le mandrie d’animali non ama l’acqua, si atteggiava tutta insieme a quella paura sorridente che dà, sotto il cielo scoperto, l’imminenza d’un temporale. Una folata impetuosa di vento scompigliò le gonne delle signore, minacciò di spezzare i loro esili ombrellini e fece volare in aria qualche cappello d’uomo. Si udirono le risa argentine delle investite squillare sopra il fragore della moltitudine. — Speriamo non piova, — disse Rafa, entrando nella sala della bottiglieria; — un acquazzone guasterebbe il ritorno. — Pazienza! — disse Arrigo; — ci bagneremo un poco. — Come siete venuti alle corse? — Col mio tilburi. — Caso mai, — fece Rafa — la mia automobile si può chiudere. Se volete profittarne.... — Grazie, grazie; forse non pioverà. Il sole tornava, spariva, tra nuvole di piombo e d’oro; il vento infuriava negli alberi antichi. In piedi, vicino al banco, si fecero servire lo Sciampagna, ch’era mesciuto con una scodella da un gran vassoio, nel quale raggelava, misto a neve e spicchi di frutte. — Bisogna far presto per vedere la corsa, — disse Loretta. — Lei s’interessa molto de’ cavalli, signorina? — Me ne interesso molto; però vengo alle corse assai di rado. — Male! Spero che d’ora innanzi divenga un’assidua. Arrigo leggeva attentamente un giornale di pronostici, sorbendo con lentezza la bevanda raggellata. E l’uno e l’altro, mentr’erano così vicini, Loretta li osservava. Suo fratello era un poco più alto di Rafa; aveva una persona meglio costrutta, e più agile, pur essendo più forte. Il viso di Rafa, sbarbato, liscio, simile a tanti altri che i parrucchieri e la moda riducono a parer quasi gli stessi, contrastava e impallidiva davanti alla vivace bellezza di Arrigo. Ella osservava il viso del fratello, intento a leggere: i baffi leggeri, sul labbro ben disegnato, accentuavano la bianchezza della sua bella dentatura; gli occhi nerissimi, splendenti, con quello sguardo che poteva essere freddo come una lama o dolce come una carezza, la capigliatura compatta, morbida, per cui solcava un’onda lucentissima, il colorito sano, quell’espressione ch’egli aveva insieme di virilità e di baldanza, erano in singolare contrasto con la bocca un po’ sciupata dell’altro, con i suoi occhi d’un colore smorto, con i suoi capelli troppo ubbidienti al pettine. Ma (una cosa che forse Loretta non poteva ben valutare) in tutta la persona di Rafa, ne’ suoi lineamenti meno precisi, nelle sue membra meno belle, v’era una delicatezza che all’altro mancava, un segno di antica signorilità, che il figlio dell’occhialaio aveva malamente potuto imitare. Ella tuttavia, ch’era della medesima sua razza, si sentiva attratta verso quella robusta e bella statua, perchè il suo corpo femineo sentiva in lui vibrare più veemente la forza imperiosa del maschio. — Andiamo a cercare un buon angolo su le tribune, — disse Arrigo. — Vi dispiace se rimango un po’ con voi? — domandò Rafa cortesemente. — Tutt’altro, — rispose Loretta. — Venite. — Vieni, vieni, — soggiunse Arrigo, non più corrucciato. Salirono su la tribuna, cacciandosi tra la folla, ed a gran stento trovaron posto in una delle prime gradinate. Metà del cielo era ingombro di nuvole, tutto il resto era una zona di sole. Il prato, spesso di gente come un immenso mercato, brulicante come un formicaio, ondeggiava di teste umane, levava un grande frastuono di voci confuse. Dagli alberi qua e là disseminati pendevano grappoli di ragazzaglia; le alte carrozze, in fila, come un lungo bastione, eran cariche di gente salitavi sopra, ritta in piedi sui cassetti, fra i cocchieri che s’eran tolta la livrea, mentre i cavalli pazienti agitavan le code con un movimento ritmico, per liberarsi dalle mosche importune. Suonò la campana del buttasella. Un lungo mormorìo percorse la folla, si vide gente accorrere da ogni parte. Le tribune, come immense finestre spalancate, riboccarono di spettatori; gli steccati ed i cancelli parvero piegare sotto il peso delle persone che vi poggiavan contro. Sopra quella grande aspettazione, il vento, cavalcatore di nuvole, accendeva e spegneva la gloria del sol di primavera. I due giudici di partenza usciron nella pista, ed a galoppo la risalirono per recarsi verso il mezzo della dirittura. Un’altra campana squillò, ed i cavalli entraron in campo, condotti a mano dagli allenatori, per la sfilata. Erano quattordici competitori, spugnati, lustrati, bellissimi, quasi consci della solenne prova che stavano per disputarsi; alcuni mansueti alla mano che li frenava, altri impazienti, con le belle code al vento, il collo inarcato, l’occhio irrequieto, già bianchi di schiuma. I fantini impassibili parevano annoiarsi mortalmente di quella passeggiata. In quelle facce dure, arse dal vento, use alla sferzata della velocità, curve su le criniere, tra gli spruzzi di bava, in quegli occhi sempre attenti ad una meta, non era possibile indovinare un turbamento qualsiasi. Erano la piccola macchina umana, fragile e pur forte, su quel fascio di muscoli equini; non parevano rappresentare altra cosa che una sottile frusta, un fino sprone, un volante colore; e tuttavia non era il cavallo sovente, ma lui, quel nano, che in una furia disperata di rivalità, per un più lungo respiro, stupendamente vinceva. Arrigo conosceva i cavalli e li nominava per ordine. — Brenno, il primo; è figlio di Marcus: farà il gioco della sua compagna di scuderia, Versilia, la quinta. Il secondo è Moloch, veloce ma senza fondo; il terzo è Fontenay, il quarto Gabriel. Un bel cavallo, il più bello di tutti. La sesta è Samaritana, una bestia generosissima; può fare una sorpresa; credo piuttosto in lei che in Missolungi, quello che vien dopo. È un cavallino misero, ma ben fatto. Ecco Bloomy Boy; lo monta Symson, il miglior fantino che sia oggi in Italia. Ecco, vedi Arianna: è l’ultima. Era una saura alta calzata di bianco ad una delle estremità anteriori, leggiadrissima e capricciosa in ogni sua movenza, che saltellando s’arrabbiava con l’imboccatura e con la mano di chi la conduceva. Nei salti, la criniera le si sfioccava sul collo arcato, come una capigliatura di donna bionda. Era montata in bianco, con due fasce nere a tracolla, incrociate. — È piccina, — disse Loretta. — Vicino a Gabriel sì, per esempio; ma non è una cavalla piccola; poi non vedi com’è fatta? — Dov’è il mio Thermosiphon? — domandò Rafa. — Eccolo là, vicino allo steccato, con una giubba a pallottole rosse. — Quel nero? — domandò Loretta? — Sì, quel baio scuro, — corresse Arrigo. — Ma è un bel cavallo sai! — esclamò Loretta. — Per le vetture di piazza... non c’è male! — Oh, non me lo disprezzare!... — sospirò Rafa. — Ho tutta la mia fiducia in lui. Compiuto il giro davanti alle tribune, ad uno ad uno si mettevano di galoppo per recarsi al palo di partenza. La folla del prato man mano acclamava i suoi favoriti. Quando Gabriel prese il galoppo, fu un clamore d’invidiosa ammirazione. Si stendeva su la terra come una lunga molla elastica, in un galoppo facile, e pareva nettamente il più forte. — Che bel cavallo quel Gabriel! — esclamò Arrigo. — Perchè non hai giocato Gabriel allora? — ripetè Loretta. — Credo in Arianna, — questi asserì, con un tono fermo e caparbio. Bloomy Boy, che apparteneva alla scuderia italiana preferita dal pubblico, era partito a galoppo serrato, sollevando applausi d’ammirazione. Arianna, nervosissima, e Missolungi vicino a lei, cercavan di svincolarsi dall’allenatore lanciando falcate. Partiron insieme, di scatto, fra uno scroscio d’applausi. — Guarda Arianna! che azione maravigliosa! — esclamò Arrigo. — Io vedo — cantilenò Rafa — che anche Missolungi va molto bene. — La corsa è di Missolungi, — sentenziò uno di quegli interlocutori anonimi che si trovano sempre in mezzo alla folla. — Lo crede lei? — fece Arrigo, ironico. — Ma certo! — Lo ha giocato? — Si capisce. Guardi: cinque biglietti del totalizzatore. — Auguri allora! E puntando il canocchiale si mise a guardare verso i nastri di partenza. — Com’è nervosa quella bestia! Ho paura che parta male. — Chi? — Arianna. Rafa, in quel mentre, vedendo Arrigo tutto rivolto verso i cavalli partenti, cercava di parlar sottovoce a Loretta. Ma ella, dopo avergli fatto qualche segno perchè smettesse, deliberatamente gli volse le spalle, e, poggiatasi contro il fratello, si sporse in fuori onde scorgere i cavalli. — Ecco: partono! — esclamò Arrigo. — Poi súbito: — No, hanno strappato i nastri. Partenza falsa. Peccato! Arianna partiva bene. — E Missolungi? — domandò l’interlocutore, che, piccolo, senza scanno, schiacciato tra la folla, non poteva puntare il suo binoccolo. — Missolungi anche, — rispose Arrigo. La partenza fu lunga e laboriosa; finalmente s’intese da più parti un grido: Sono partiti! E il campanello squillò. — Una partenza magnifica! — disse Arrigo. Loretta gli si era poggiata sul braccio e guardava sopra la sua spalla. Un sole in cui pareva scintillasse il pallido oro dei primi frumenti si aperse un varco nel sereno e di nuovo inondò tutto il campo. Veniva, davanti al manipolo volante, per la terra sonora, un rombo sordo. Erano tutti in gruppo, a un’andatura velocissima, con Missolungi in testa e Samaritana poi, i due francesi su l’ala, Arianna allo steccato, Bloomy Boy in coda. Passarono in quest’ordine alle tribune, senza che nessuno cedesse d’un palmo. Alla prima curva Bloomy Boy guadagnò tre posti; all’altra curva il gruppo s’allentò un poco. Nel prato la gente correva inseguendo i cavalli; nelle tribune era un gesticolar confuso, un vociare altissimo. Missolungi era sempre in testa e galloppava con lena. Questo nome già empiva l’aria. — Dov’è Arianna? — domandò Loretta. — È quinta; ma va bene. — Come la vedi? — La vedo; sta zitta. Fontenay venne avanti; Gabriel gli serrò addosso; Bloomy Boy, che dalla coda era passato nel gruppo di testa, non stava più che poche lunghezze dietro Gabriel. Arianna invariabilmente teneva lo steccato, senza perdere nè guadagnar terreno. Spuntavano già alla curva di destra, nel fondo; la giubba chiara di Missolungi biancheggiava per prima, con quelle de’ due francesi a ridosso, tanto vicine che parean confuse in una, mentre Samaritana stava già per cedere. Bloomy Boy aveva sorpassato Arianna, ma i tre primi, nella curva, li avevan un poco distanziati tutt’e due. — Missolungi è finito, — disse Arrigo, un po’ ansante perchè vedeva i due francesi prevalere. Gabriel infatti con forti lanciate stava per prendere la testa. — Gabriel! — tuonò la folla, che li vide così sbucare dall’ultima curva, in dirittura. — Gabriel! Gabriel! — Come va Missolungi? — domandò il piccolo uomo, incapace di estollersi, sopraffatto all’intorno da una specie di muraglia umana. Arrigo non rispose. Fontenay cedeva, Gabriel era in testa nettamente, Bloomy Boy a due lunghezze, Arianna e Versilia di paro. Si vide Versilia, sotto una tempesta di scudisciate, buttarsi avanti, pareggiare Bloomy Boy, minacciare il vincente. Fu un urlo discorde, assordante, di due partiti che si combattevano: — Gabriel! Versilia! Versilia!.... C’era nell’aria elettrica la sospensione di tutti i cuori. Erano alle prime tribune, e Bloomy Boy cedeva, Versilia pareva ormai incapace di contendere la vittoria al più robusto francese, benchè assillata dagli urli de’ suoi partigiani, quando si vide Arianna, su cui nessuno più contava, con una volata magnifica saettar fuori dal gruppo, e frustata, e spronata, e portata di peso dal suo fantino, assalire i tre primi, giungere con il muso alla coda di Gabriel. La folla, che improvvisamente cambia idoli, negli ippodromi come nelle piazze, non dette che un urlo frenetico: — Arianna! Arianna!.... — Vince! Vince! — gridò Loretta, piena di trepidazione, al fratello che sentiva leggermente tremare. Egli non rispose: voleva con la sua forza spingere la generosa bestia sfinita. Gabriel non aveva contato sopra quest’avversaria inattesa, credeva per sè la vittoria e quell’uscita era stata così fulminea che s’era lasciato avvicinare alla sprovvista. I due fantini battevano, battevano a forza di braccia, di pugni, di sprone, per quel centimetro che li avrebbe fatti vincere. Mancavan pochi metri al traguardo, e Arianna stava ora con il muso al ventre di Gabriel, alla sua spalla, al suo collo... era quasi con lui. La folla ondeggiava burrascosa, urlando, acclamando. Non erano più due cavalli, ma due razze, due paesi, due patrie in gara. Tutto il cielo era ingombro di questo nome d’Arianna, che in quel momento suonava come il nome d’Italia. Sfiniti, quasi convulsi, il loro cuore d’animali da corsa, nobile come un cuore d’uomo, li reggeva in piedi, li faceva lottare disperatamente per quell’ultimo palmo di terreno. Allora fu la potenza della folla che la portò, fu la spinta di quelle centomila anime protese verso di lei, fu la volontà tremenda, immensa, fisica, della moltitudine, che le fece fare nell’ultimo metro il salto più lungo, che le fece avere nell’estrema tensione il più lungo respiro, e forse perchè v’era nel suo nome un grido di patria, col suo piccolo muso di gazzella, sul filo del traguardo, Arianna passò. Una specie di delirio sollevò la folla; si vide gente correre, ballare, invadere la pista, scender giù dalle tribune a precipizio, battendo le mani, gridando. Cavalla e fantino ritornarono tra un’ovazione di popolo. E il piccolo britanno, dalla faccia arida, che non segnava un’età definibile, curvo in sella, con la briglia rilasciata, passava in mezzo a quel trionfo rasciugandosi nel palmo la bocca umida, il naso grondante, e rispondeva con un semplice: «All right!» al suo rosso allenatore, che aveva presa per mano la cavalla e carezzava sul collo la bella saura balzana. Il cuore le pulsava come un timpano sotto i fianchi fragili, rigati di sangue; il sudore le gocciolava dal ventre come se le avessero buttato un secchio d’acqua su le reni; le froge fumanti parevano fiatar sangue e tutta le sue vene gonfie la vestivano d’una fittissima rete viva. Ma, quasi comprendendo la sua vittoria, volgeva intorno la piccola testa nervosa, allungava il muso candido, guardando la folla co’ suoi grandi occhi di gazzella cerchiati di nero. Terzo era giunto Bloomy Boy, quarta Versilia, quinto Missolungi. Loretta, appesa giocondamente al braccio del fratello, si rallegrava della sua vincita, ch’era d’alcune migliaia di lire, e domandava ad Arrigo senza tregua: — Sei contento? Sei contento? — mentre andavano a veder scendere i fantini per passare il controllo della bilancia. Ella era divenuta loquace, un poco impertinente; nella lor natura di piccoli borghesi, tanto lei come il fratello non sapevan nascondere il piacere che ad essi proveniva dal denaro vinto. E Loretta molestava Rafa: — Dunque lei non ritira nulla su Thermosiphon? — Rida, rida, signorina! Mi burli pure! Una volta o l’altra le farò veder io quel che si vince scommettendo su gli sfavoriti! — Glielo auguro di tutto cuore. Ma quel povero Thermosiphon, spero che l’avrà giuocato per l’ultima volta! Già, com’è possibile dare un nome simile ad un cavallo da corsa? Io, se avessi un cavallo da corsa, lo chiamerei.... — Come lo chiamerebbe, sentiamo? — Non so, non ci ho mai pensato ancora, perchè tanto non ne ho. — Bene, ci pensi. — Ecco, ho trovato! — ella esclamò con malizia. — Lo chiamerei Rafa!.... Appena detto il nome, tutt’e due, tutt’e tre, ne rimasero come atterriti, e Arrigo, volgendo la faccia, fulminò la sorella con uno sguardo veloce. Ella non seppe come nascondere la sua confusione. Poichè, infatti non avrebbe dovuto nè potuto sapere che il conte Raffaele Giuliani da’ suoi amici era chiamato Rafa. Fu Arrigo che provvide ad accomodar la cosa. — Come sai che il Giuliani si chiama Rafa? — domandò con naturalezza. — Forse che per caso t’ho chiamato io così? — soggiunse, rivolto al Giuliani. — Ho inteso appunto che lo chiamavi tu con quel nome, e questo mi ha fatto un po’ ridere... scusi sa, signor Giuliani! — ella rispose, cavandosi d’impaccio con una squisita impertinenza. — Ma io non me ne offendo affatto, signorina. Anzi mi chiami pur Rafa, se vuole... Questo la divertirà! Arianna, senza sella e senza briglia, con una cavezza di corda intrecciata, usciva dal recinto del peso condotta a mano dal suo palafreniere. X Ella incontrò Rafa due giorni dopo nel solito viale. Il Giuliani aveva talmente insistito per rivederla, ch’ella, temendo qualche sua temerità, non seppe rifiutargli un altro appuntamento. Arrigo non le parlava più di lui, anzi pareva che volesse ad ogni costo evitare questo penoso discorso. Ella indovinava l’oscura gelosia del fratello, ma, per un crudele istinto femineo, le piaceva talvolta esasperare in lui questa profonda irritazione. La giornata di corse, che aveva costretto Arrigo ad una lunga e tacita sofferenza, era stata invece per lei un godimento sottile. Ora la piaceva sentirsi avviluppata e contesa fra il desiderio di due uomini, e ciò sopra tutto le piaceva, perchè nella dura gelosia d’Arrigo vedeva più palese il suo violento amore. Di questi due uomini, uno rappresentava il gioco, l’altro il pericolo: due sensazioni che raramente vanno disgiunte. Al ritorno dall’ippodromo Arrigo non le aveva mosso alcun rimprovero, non le aveva detto la benchè minima parola intorno all’accaduto; s’era fatto solamente un po’ scontroso, un po’ aspro. Ed ella, sebbene maravigliata, non osò parlarne con lui. Ma ora le premeva risolvere in un modo qualsiasi la sua malcerta situazione con Rafa. Ora che una passione struggente l’aveva tutta pervasa, continuar quel gioco le pareva inutile, più che inutile, sommamente dannoso. E tuttavia, nel suo scaltro animo donnesco, nella sua mente calcolatrice, le pareva peccato buttar via quella carta senz’averne conosciuto e valutato il preciso valore, chiudersi dietro le spalle una porta equivoca senz’aver prima guardato al di là. Ora non pensava più di darsi a Rafa, nè per poco nè per molto denaro. Quelle speciose teorie, que’ gravi discorsi, che lì appunto, in quel giardino, gli aveva sciorinati con amabile serietà, quasi per dilettarsi nel recitare una commedia, si erano a poco a poco infiltrati nel suo cervello, ed anzi le pareva contenessero una incontrastabile verità. Ma invece, quello che un giorno era stato appena un sogno, un di que’ sogni assurdi che non giungon nemmeno ad invogliare la nostra tentazione, tanto ci sembrano lontani da noi, ora, che la sua fiducia in sè stessa era smisuratamente cresciuta e la vita le pareva più facile, quel sogno inverosimile si riaccendeva come una possibilità remotissima negli oscuri meandri del suo pensiero. Ella chiudeva in sè un torbido amore, ma sapeva che questo amore non sarebbe la sua vita; sapeva che questa sua disonesta passione avrebbe dovuto per sempre nascondersi, vivere così profondamente rifugiata nel suo spirito, che mai non fosse lecito ad alcuno indovinare il suo palpito. Ma, insieme, c’era tutta una vita da vivere, tutta una conquista da tentare senza esitazione, fosse pure a prezzo di qualsiasi frode. E in verità poteva darsi che quel buono, quell’innamoratissimo Rafa, arrivasse un giorno a commettere la più grande pazzia per lei, nè potendo altrimenti averla si lasciasse trascinare fino ad offrirle il matrimonio. Chissà mai? Ben altre, da una condizione minore della sua, eran salite più in alto ancora. O, se questo pure non accadesse, bisognava tuttavia rompere con Rafa quel mezzo legame ozioso e dannoso, sfuggirgli, dopo esser quasi scivolata fra le sue mani, e lasciarlo perplesso, deluso, nei vincoli d’un amore insoddisfatto, perchè, se caso mai ella s’avesse a pentire della propria risoluzione, potesse in ogni tempo ritrovarlo qual era: un uomo capace di gettare a’ suoi piedi tutto quanto può sedurre un desiderio femminile, e comprarla, sia pure, ma comprarla sontuosamente. Voleva insomma non perderlo per sempre, ma fargli tuttavia comprendere quanto vana era l’insistenza de’ suoi tentativi. Del resto il matrimonio non la seduceva oltremodo; era troppo giovine, troppo curiosa di sensazioni, troppo ansiosa di piaceri, perchè la famiglia, anche la più ricca, potesse avere molto fascino sopra di lei. L’altra vita invece la tentava, quella che nessuna legge severa governa, nessuna immutabile fedeltà, quella che miete nel piacere come una falce instancabile nei prati più folti, quella che seduce il frivolo cuore della donna con più forti allettamenti. Aveva un suo recondito sogno: voleva cantare, essere un’artista, libera, festeggiata, corteggiata, famosa... Di ciò non si era confidata con alcuno, forse per una timida gelosia di fanciulla, ed anzi voleva tacere, finchè non le paresse giunta l’ora propizia. Da principio aveva sperato di trovare in Arrigo l’uomo che volesse aiutarla nel compiere il suo grande sogno; era stata sul punto di confidarsene con lui, ma s’era presto avveduta che Arrigo non le avrebbe favorito quel disegno, ed ogni giorno più smarriva il coraggio di parlarne con lui a cuore aperto. Il solo che l’avrebbe ciecamente ubbidita, il solo che avrebbe potuto con ogni mezzo appianare la sua difficile strada, era dunque Rafa, il suo devoto e ricchissimo Rafa; perciò non lo voleva del tutto perdere, allontanandolo da sè irremediabilmente. — Siete stato un poco temerario!... — ella disse per prima cosa, quando s’incontrarono. — Ti sembra? Era la cosa migliore che potessimo fare. Ci pensavo da tempo. Adesso che ti son stato presentato da tuo fratello, tutto diventa più semplice. — Non vedo la semplificazione, — ella rispose con tono canzonatorio, poichè quell’uomo aveva talvolta il dono d’irritarla singolarmente. — So invece che a momenti ci si tradiva, e mio fratello, dopo, m’ha tormentata un bel pezzo per quel nome di Rafa! Egli si mise a ridere. — Dovevi stare più attenta. — Già, si fa presto a dirlo! Ma io non ho l’abitudine di recitare due parti in commedia. Meno male che non gli è rimasto alcun sospetto. E sì che voi avete fatto il possibile perchè se n’avvedesse! — Che ho fatto io? — Mi siete stato sempre ai panni, anzitutto; poi, Arrigo non poteva volgere il capo altrove senza che vi metteste a bisbigliarmi sciocchezze. State all’erta, Rafa! perchè mio fratello non è un uomo comodo... ve l’ho già detto. — Sono disposto a rischiare tutto per te, Loretta! — Ma io nulla per voi: ecco la differenza. — Davvero? — Proprio; e venivo a dirvelo. — Cioè? — Cioè debbo dirvi che a questo modo non è possibile continuare. Ho paura; sento che corriamo incontro ad un pericolo molto grave. Egli cercò di prenderle il braccio, amorosamente. — No, lasciatemi, — disse Loretta sciogliendosi da lui. — Non posso far altre pazzie. Ho commessa una leggerezza imperdonabile, ve lo ripeto, ma spero che sarete così gentiluomo da non farne troppo ricadere il peso e la vergogna sopra di me. — Allora, tutte le volte che ti vedo, Loretta, mi accogli a questo modo? — egli esclamò con una voce dolorosa ed umiliata. — Ma cosa volete che faccia, santo Dio! Mi trovo io stessa in una condizione insostenibile. Voi mi siete simpatico, Rafa, oserei dire che vi voglio un poco di bene... certo non vorrei parervi brusca... ma voi mi scrivete certe cose, mi costringete a certe cose, che io non devo nè ascoltare nè fare. Insomma, ragionate un poco: io sono una signorina, dopo tutto, una vera signorina, ed ormai lo sapete... Dunque il fatto solo che mi trovi qui, con voi, è già un pericolo gravissimo; non vi pare? — In questo hai ragione. Ma perchè rifiuti allora tutte l’altre mie proposte? Non vuoi vedermi altrove che in questo giardino, forse per diffidenza, forse per paura.... — Certamente ho paura, non lo nego: paura. — Ebbene, fídati una buona volta! La tua paura è insensata! Non sono certo un uomo capace di atti brutali. Vieni almeno in un luogo dove si possa parlare; qui non è possibile. — E dove allora? — Senti: ho l’automobile fuori dal giardino; vado avanti e ti aspetto; andremo in un paesello dei dintorni. — Ma no, ma no! — Insomma, te ne prego! Per una volta, per l’ultima volta... — Cos’avete a dirmi? — Tante cose. Vieni, sii buona. — Dov’è l’automobile? — ella fece perplessa. — Al cancello, dietro le cascate. — Bene, sentite: io verrò con voi, ma solo ad un patto... — Quale? — Che sia l’ultima volta, e poi non mi scriviate più, non domandiate più di vedermi. — Loretta!... — egli fece, supplichevole. — No: assolutamente! — Ebbene, ascolta. Se, dopo averti parlato, rimarrai nondimeno ferma nella tua decisione, ti prometto che farò tutto quanto posso per riuscire a dimenticarti. Va bene? — Andate avanti, — ella disse, — vi seguirò. Il giovine svoltò per un viale che s’infoltava tra gli alberi; ella fece un lungo giro. Camminava piano, pensierosa, nervosa; con l’ombrellino molestava l’erbe sul margine dei prati. Si trovava in uno stato d’animo quanto mai perplesso. Nonostante le sue lunghe riflessioni, ora non comprendeva più sè stessa, nè il fratello, e non sapeva più che farsi di questo Rafa così devoto e così ricco. In fondo al cuore ella si sentiva anche triste; l’amore la struggeva, la malinconia saliva dal fondo del suo essere, causandole una specie di lenta soffocazione. Il giorno prima era stata nella casa d’Arrigo, perchè non poteva più rimanere senza vederlo; lo aveva trovato assorto e quasi ostile. Non l’aveva baciata, non s’era lasciato baciare; aveva cercato mille pretesti per mandarla via, e, vicino a lei, pareva su le spine. Di Rafa non aveva neanche voluto udir parlare; le aveva detto ruvidamente: — Fanne quello che vuoi! Non m’interesso più di nulla. Ed ella si era fatta mansueta, aveva cercato di carezzarlo, gli aveva detto: — Lo dovrò vedere domani: dammi un buon consiglio. Allora egli s’era messo a ridere, d’un riso acre, malvagio, di cui ella non poteva intendere il senso; poi si era messo a camminare per la stanza, concitato, accigliato. — Lo vedrai domani? — Sì. — Allora digli ch’è un imbecille! Al suo posto io t’avrei già presa. — Perch’è parli così, Rigo? — ella gli aveva domandato con le lacrime agli occhi. E lui a scrollar le spalle, senza rispondere. Poi l’aveva pregata che se n’andasse, perchè gli doleva il capo e voleva rimaner solo. Ma su l’uscio se l’era presa in braccio, se l’era stretta fra le braccia, con passione, e l’aveva spinta fuori. Più tardi, verso la sera, con il pretesto di chiedere una informazione al padre, era venuto a casa loro, forse per vederla un momento, per sorriderle un attimo, dopo essere stato così ruvido. E s’erano baciati ancora, di nascosto, con più ansia, nella casa paterna. Ella non poteva comprenderlo bene. Forse lo struggeva una sciocca gelosia di quest’uomo che in fondo ella derideva e sul quale faceva un calcolo così diverso, così lontano dall’amore. Ma ell’avrebbe rinunziato mille volte a Rafa, s’egli le avesse detta una sola parola! E perchè non la voleva? Perchè faceva sopportare ad entrambi, con tanta ostinazione, una sofferenza così logorante? Dietro la cancellata vide l’automobile ferma; vi corse rapida, vi entrò. Gli ordini eran già dati al meccanico: partirono in fretta. Nel caldo pomeriggio le campagne sfavillavan come oro: la strada era sovrastata da una ferma nube di polvere: i carri enormi, carichi di mobili o di mercanzie, trascinati da molti cavalli in fila, ne ingombravan il mezzo e si scostavan lenti, con un gran scricchiolare, ai segnali della tromba. Quando un’altra automobile passava, rapida, con urli di sirena, tutto, per un lungo tratto, s’annebbiava in un folto polverìo, tutto: anche il sole. Rafa le metteva un braccio intorno alla cintura, ella cercava di respingerlo, ma debolmente; non era più nè loquace nè gaia. — Vedete, — diceva, — non posso fidarmi di voi... Egli ubbidiva e ricominciava. — Andiamo lontano? — Non molto. — Ebbene, cos’avete a dirmi? — Non ora; parleremo dopo. — Ah, dopo... — Sei triste oggi? — Sì, un poco. — Perchè? — Per tante cose... tante cose... — Raccóntami, Loretta. — No, che serve? Tanto mi considerate per una ragazza molto leggera... Sono qui con voi... ne avete anche il diritto! Ella mescolava ora in un modo singolare, senza rendersene conto, l’astuzia con la sincerità. Il giovine si chinò su lei, fin quasi a baciarla. — Non dire così, Loretta; sai bene che non è vero. Per te sento anche un profondo rispetto: altrimenti non ti amerei. — No, voi mi desiderate; questa è la parola giusta. Ma quanto ad amarmi, è ben altra cosa; non mi fareste venire qui. — Dammi ancora del tu, Loretta, come l’altre volte. — Non oggi, non oggi! — Allora non credi ch’io ti voglia bene? Ella scosse il capo, incredula, sorridendo. — Ne sei certa? — Certissima. Arrivarono in poco più di mezz’ora ad un piccolo villaggio, che distendeva le sue case bianche nella grande pianura, percorso intorno da un fossatello quasi arido, con le due rive coperte di fiori gialli, tra l’erbe polverose. L’automobile sostò nella piazza, ed uno sciame di monelli scamiciati accorse intorno saltellando sui ciottoli a piedi scalzi. C’era un piccolo giardino pieno di frescura e di pace a ridosso della chiesetta; una raggiera dorata bruciava, percossa in pieno dal sole, sul frontone della chiesa, e tanto splendeva, che pareva ruotasse; la casa parrocchiale, dietro il verde, aveva le persiane delle due finestre socchiuse; da una pendeva un lenzuolo, dall’altra una camicia di percallo a righe bianche e blu. Un cagnaccio di color fulvo annaspava lungo il muro. — Vieni, — disse Rafa; — c’è un alberghetto in fondo al villaggio: vi berremo il vin bianco. — No; voglio andare in chiesa, — rispose Loretta. — In chiesa? — Sì. — Bene, andiamo pure, se vuoi. Il meccanico si recò all’albergo per attenderli; essi traversarono la piazza, il giardinetto pieno d’ombra, e salirono i quattro gradini del sagrato. Molti monelli rincorrevano la macchina fragorosa. Non era tardi; s’udivano ancora tutti i romori del villaggio: i fabbri martellare, i falegnami piallare, le tessitrici muovere i telai. Un bambinotto vestito da chierico leggeva un libro seduto all’ombra nel giardino. Li guardò e non si mosse. Sotto l’arco luminoso della porta maggiore si vedevano ronzar sciami. Entrarono. La chiesa era povera, ma religiosa e chiara come l’anima d’un seminatore; dalle alte vetrate pioveva il sole scomposto in polvere bionda. Solo una vecchia donna, confusa nell’ombra dei colonnati, pregava col volto fra le mani; ma era così ferma, così genuflessa che pareva una suppellettile della chiesa. La fanciulla intinse la mano nell’acquasantiera e si segnò, piegando leggermente il ginocchio. Una goccia le rimase su la fronte, nitida come una perla. Poi girarono tutt’intorno all’abside guardando i quadri della Passione di Cristo. L’aria fresca odorava d’incenso evaporato. — Perchè hai voluto entrare in questa chiesa? — Un capriccio. Ell’andava innanzi con un passo elastico, quasi per non far rumore; la sua ombra s’allungava obliqua sul lucido pavimento. Piegò di nuovo il ginocchio passando innanzi all’altare, poi sedette sovra un banco, nell’ombra del colonnato, e si raccolse la fronte nella mano. Il Cristo crocifisso riscintillava della sua corona d’argento. — Ed ora che fai? — domandò Rafa. — Niente. Mi piace. Egli s’appoggiò alla colonna presso di lei, un po’ curvo. — Amo le chiese, — disse Loretta — e i canti e gli organi delle chiese. Rafa la guardò a lungo, poi disse: — Come sei strana! Ella gli sorrise levando la faccia. I suoi capelli biondi, in quella luce bionda, parevano luminosi e davano alla sua faccia, al suo sguardo, un’espressione spirituale. — Dimmi qualcosa... — ella mormorò come se fosse turbata. Il giovine le sedette accanto. — Qui vuoi che ti parli? — Sì, mi piace. Egli le si mise vicino, così vicino che la toccava. — Senti... — prese a dirle; ma súbito esclamò: — Non è possibile! Non posso parlarti di queste cose ora. — Perchè? — fece Loretta con un sorriso perverso. — Non posso. — Allora taci. E si raccolse di nuovo la fronte nelle mani. Egli si accendeva della sua bellezza, nel guardarla. Tutto gli piaceva di lei: la mano, il braccio, il colore dei capelli, la schiena divisa da un’infossatura profonda, il petto che le fioriva tra le braccia piegate. E l’odore di lei lo stordiva come il profumo di un incenso irreligioso. — Io ti voglio avere... — le disse piano, quasi non potesse frenar quelle parole. E glielo ripetè vicino all’orecchio minuscolo, che le appariva tra i capelli, come un piccolissimo nido in un cespuglio. — Come? — domandò la fanciulla senza muoversi. — Tutta, tutta, in ogni modo!... Ella, senza muovere il capo, gli volse in faccia gli occhi ridenti. — È difficile!... — disse con ironia. E le mani congiunte, concave, serbarono come impressa la forma della sua fronte. — Lo so, — egli rispose, — ma non importa. Fece una pausa, poi soggiunse: — Dimmi: cos’è necessario ch’io faccia per averti? Ella rideva, la sua bocca era crudele. — Molte cose... — disse. E ripetè con una cantilena: — Molte cose... — Per esempio? — Lo devi sapere tu. — No, dillo. — Io non dico nulla. E si nascose la faccia nelle mani congiunte. Un raggio di sole, dall’invetriata, cadde sull’organo, lo illuminò. In quella chiesa era una pace così grande che l’anima vi si riposava. Lento, accidioso, nel fondo, si udiva il biascicare della vecchia inginocchiata. — So una storia... — mormorò la ragazza intrecciando le dita. E rideva. — Ah, sì? — Una bella storia... — Ah, sì? — Ma non la racconto. — Allora perchè la sai? Ella si prese fra i denti minuti un de’ suoi labbri fini e rossi: — La storia d’una bambina, che andava al mulino, per prendere farina, tutte le mattine... una bella bambina. — E cantilenava come se raccontasse una fiaba. — E poi? — ... per istrada la vide un peccatore... — E poi? — ... che le offerse di portarle il sacco, perchè la strada saliva, saliva, e c’era un bosco a mezza via, tutto verde, con un ruscello d’argento. — E poi? — ... ma il peccatore la voleva baciare, ed ogni momento le toccava le mani, le braccia, la bocca, il mento, la gola, senza darle pace. Ma la bambina disse: Non stamattina. — E poi? — ... anche domani disse: Non stamattina. — E poi? — ... anche dopo domani disse: Non stamattina. — E poi? — ... poi, un giorno ch’erano seduti presso un ruscello d’argento a prendere il fresco, la bambina disse al peccatore: Portami un bell’anello se mi vuoi. — Allora? — Il peccatore venne il giorno dopo con una collana di perle, con un fermaglio d’argento, con uno specchio d’oro. Ma la bambina disse: Portami un bell’anello se mi vuoi. — Allora? — Il peccatore venne il giorno dopo, e le promise un castello, un giardino, un lago, una foresta, un fiume. Le promise molti cófani pieni di gioielli, molte guardarobe piene di broccati, un letto d’oro, un’arpa d’oro, una scuderia con cento cavalli... Ma la bambina disse al peccatore: Portami un bell’anello se mi vuoi. — E come finì? — Andò a finire che al mese di Maggio se la prese il mugnaio... per un fiore. Ella si mise a ridere, sommessamente, con ironia, della sua fiaba improvvisata, e senza nascondere il rossore che tuttavia le dava la sua temerità. Poi congiunse i palmi, appoggiò le labbra nell’incavo dei due póllici, e parve assorta in una lunga preghiera. Ma egli restò confuso e non seppe con quali parole rispondere alla sua fiaba. Quell’allusione lo aveva un poco sbalordito, se ne vergognava egli stesso più di lei. — Allora tu sei la bambina che va al mulino, per prendere farina, tutte le mattine... non è vero? — disse finalmente, continuando la celia. — Io prego... — ella mormorò senza batter ciglio. — E il peccatore sarei dunque io, non è vero? — Prego... — ella ripetè, premendosi la bocca sui póllici esigui. — Ma chi sarebbe il mugnaio? — domandò Rafa, più forte. Ella si volse a lui, lo guardò, rise. — Ah?... chissà mai! — fece, interrompendo la preghiera. Il giovine le dette un bacio, rapidamente, prima ch’ella se ne schermisse, un bacio sul collo, tra la nuca, dove i primi capelli eran tenui come biada nascente. Nell’alta chiesa l’organo di sette canne, avvolto in un fascio di sole, mandava dal suo curvo metallo una musica di fiamme. XI Aver fatto un grande cammino traverso la vita, essersi cacciato innanzi, palmo a palmo, per conseguire una vittoria lontana, aver studiati gli uomini, essere sceso a patti con loro, averne adulati alcuni, dominati altri, essersi fatto servire dai più; aver costrutto l’edificio della propria vita con una pazienza ed una volontà instancabili, essere passato in mezzo alle tentazioni con una magnifica spavalderia, aver condotto il proprio cuore per mano come un fanciullo ubbidiente, essere stato il servo astuto ed ingegnoso della propria ambizione, sacrificandole tutto quanto poteva insorgere nei duri istinti, nelle intime ribellioni della sua focosa gioventù; aver sorseggiata con delizia la coppa dei primi trionfi e mietuta con ilarità una larga messe, già preparandosi le corone di pámpini della imminente vendemmia; e tutto questo per trovarsi un giorno il cammino precluso da un ostacolo impreveduto, per sentirsi vittima e prigioniero di un agguato invisibile, tutto questo per finir con distruggere lunghi anni di fatica in un attimo solo... era cosa ben triste per colui che, su la propria strada, non aveva incontrato ancora nè un ostacolo insormontabile nè l’angoscia di una vera perplessità. Egli era uscito da una bottega, ed aveva incominciato a salire, pazientemente, con le sue forze sole. Si sentiva chiamato, da un’ambizione oscura ma imperiosa, a vivere tra quelli che vantavano il primato gentilizio, cui la ricchezza ed il lusso erano retaggio inalienabile. Per giungere sino a loro, qualsiasi frode gli era parsa lecita, e s’era mondata la carne plebea in un bagno di signorilità. S’era cacciato per strade oblique; nell’ombra s’era fatto il cammino. Aveva scelto con un singolare intuito quelli o quelle che lo potessero condur oltre; s’era piegato, s’era fatto agile, scaltro, violento, audace qualche volta, qualche volta umile. Di alcova in alcova, di sala in sala, valendosi della sua maschia bellezza contro il debole cuor femminile, rimanendo inaccessibile ad ogni altra passione, chiuso nella sua funesta volontà, camminava guardingo, in attesa dell’ultimo assalto, pronto a carpire la più bella sua preda con l’audacia definitiva. Quand’ecco, a quel punto del cammino, un amore insolito, spaventoso, lo fermava; un amore nefando e impossibile, che trovava una specie di oscuro divieto nella sua medesima volontà. E, cosa più terribile ancora, colei ch’egli amava, amava lui pure, gli veniva incontro a braccia aperte, piena d’incoscienza e di fremiti, offrendogli un sorso di veleno con il sorriso più innocente. Era la sua sorella di carne e di sangue, aveva nel nascere lacerata la stessa ferita, macchiata la stessa coltre; aveva saziata alla stessa poppa la prima fame lamentosa. Eppure egli non sentiva queste cose; queste cose erano solamente nel suo pensiero. Qual altra salvezza poteva esservi per lui, fuorchè il fuggire? Egli pensò di fuggire; fece i bauli, s’apparecchiò. Ma nell’ora della partenza, l’immagine di colei che amava gli si mise davanti alla porta e così forte l’avvinse nel piacere delle sue braccia colpevoli, che da lei non seppe disciogliersi, ed il terrore della rinunzia lo assalì. — Badi, signore, lei perde il treno, — disse il domestico, entrato nella camera per prendere il suo bagaglio. — Sì, va bene, — rispose Arrigo. — Lasciami stare. — Ma guardi l’ora... Lei perde il treno. — Non importa; lasciami stare. Il domestico, senza nulla comprendere, ubbidì. Arrigo s’era sprofondato in una poltrona, e vi stava, piegato su sè stesso, con una specie di sinistra immobilità. Come un cane alla catena, avrebbe voluto assalire, mordere. Si vedeva, lontano da lei, in un’altra città, in un albergo, fra la gente, solo. S’immaginava il domani, il risveglio del domani, se pure avesse trovata qualche ora di sonno. Ecco: non avere più lei vicina, rinunziare alla funesta inebbriante gioia di rivederla, di respirare l’alito della sua bocca, di toccarla, di camminarle presso, e curvarsi, pur disperatamente, su la vertigine di quel peccato. Andare via così, di nascosto, senza darle un bacio, senza dirle nemmeno addio... Ella verrebbe a cercarlo, forse quella sera stessa, prima del pranzo, come soleva; e non lo troverebbe più. Sarebbe rimasta su la soglia, perplessa, un poco pallida; poi se ne sarebbe tornata via, tacendo, a fronte china, con qualche lacrima negli occhi. Tutta la notte avrebbe forse pianto, senza potergli scrivere una parola, senza poter conoscere in alcun modo il suo distante rifugio. Chissà, forse avrebbe anche pensato ch’egli non l’amasse più. Era una fanciulla nel primo fiore, con l’anima irrequieta e gaudiosa, con un cuore lieve; la lontananza l’avrebbe insensibilmente guarita: e questo egli non voleva. Ma invece, per guarire lui, nè il tempo nè lo spazio non sarebbero mai bastati; quel fantasma l’avrebbe inseguito come una presenza dappertutto visibile, per ogni strada ove andasse in cerca di riposo e di oblìo. Mesi ed anni non sarebbero bastati a guarirlo di quel male, tanto le sue carni soffrivano di lei, tanto ella si era già mesciuta, commista, nelle sue profonde vene. Nè i mesi nè gli anni per guarire lui, e non la lontananza e non gli svaghi e non più alcuna fra le cose che un tempo erangli piaciute. Ora si mutava; un uomo dissimile da quello ch’era stato veniva con questo male ad abitare in lui. Cercava sè stesso e si ricordava di sè come d’uno straniero. — Signore... — disse timidamente il domestico, avanzando ancora il capo dietro l’uscio. — Che vuoi? — Parte forse ad un’altr’ora? — No, non parto! non parto più! — egli rispose impetuosamente. — Apri quei bauli. — Riaprire i bauli? — fece il domestico, pieno di maraviglia, senza osare alcuna domanda. — Va bene. Ed entrò nella camera per mettersi all’opera. — Ossia, lascia stare, — disse Arrigo. — Partirò forse domani. — Come vuole, — rispose il domestico, guardandolo con una curiosità rispettosa. — Qui ci sono le chiavi. E le depose sopra un tavolino. — Che ora è, Filippo? — Sono le cinque meno un quarto. — Allora vattene pure; non ho più bisogno di nulla per oggi. — E non si cambia il signore? — No, questa sera non mi cambio. — Sta forse male il signore? — Sto benissimo; va pure. — Allora a rivederla, signor Arrigo. — A rivederci. Stava per uscire, quando il campanello squillò. Arrigo d’un balzo fu ritto. — Chi è? Va a vedere chi è — disse febbrilmente. Avanzò dietro l’uscio per ascoltare. La intese nell’anticamera, riconobbe il fruscìo della sua gonna, l’udì parlare, intese che diceva: — Parte? Voleva partire? Ma, come mai? Quasi di corsa ella entrò nella camera, vide i bauli chiusi, vide la sua faccia sconvolta e si fermò attonita. Per le cortine calate filtrava un giorno vaporoso; la strada mandava rumore, i veicoli stridevano; dai quadri, dagli specchi, da ogni cosa lucida saettava un polveroso riverbero. — Parti? — ella domandò, senza osare avvicinarsi. Il fratello non rispose. — Parti? — Forse. — Come forse? Hai già i bauli pronti. E non mi dicevi nulla? — Perchè dirtelo? — egli rispose con asprezza. — Parto domani: ecco. La ragazza divenne assai pallida, lo guardò nel viso, e tacque. — Anzi dovevo partir oggi, ma ho perduto il treno. L’ombrellino che portava le sfuggì di mano, ed ella non si chinò a raccoglierlo. Fece due passi per andargli vicino, ma si fermò. — Allora... — Nulla, nulla! Parto domani, è deciso. Domani parto. — E dove andrai? — gli domandò la fanciulla dopo una lunga pausa, con la voce che le tremava. Quel suo pallore, quel suo tremore gli producevano al cuore la sensazione d’una carezza. Egli fece con la mano un gesto vago: — Non so, non importa... molto lontano. Per respirare! — Ah... Egli si compresse con le due mani il petto e ripetè: — Per respirare! Capricciosa com’era, bambina com’era, ella s’andò a sedere sopra una poltrona e ruppe in lacrime. Egli si mise a camminare senza guardarla; ma quando le passava presso aveva ogni volta la tentazione di afferrarla tra le braccia. Ella era poggiata contro la spalliera, il viso raccolto nel braccio, a metà seduta sul fianco, a metà inginocchiata. Le usciva di sotto la gonna la balza d’una sottanella greggia con i pizzi bianchi; ad ogni suo singhiozzo gonna e gonnella facevan romore. Una mano le cadeva lungo il fianco, stringendo un fazzolettino intriso di lagrime. La guardava e soffriva. Era una cosa sua, nella sua casa, nella sua camera, vicino al suo letto; avrebbe potuto chinarsi e baciarla, dirle una parola d’amore, fra i baci, e farla sorridere di nuovo. Era così facile far sorridere quella sua bocca rossa! Avrebbe anche potuto svestirla, prenderla in braccio come una bambola viva, odorosa, disciogliere i suoi capelli, assaporare la sua bocca, coprirle di carezze la gola, il seno, le spalle, stringerla fino al dolore nelle sue braccia forti, sciuparla con la sua passione, saziarsi di lei... Tante cose avrebbe potuto, e non osava. Nessuno era fra loro, e pur non osava. Quale forza oscura impediva il suo terribile amore? Quali abissi erano in lui, che si colmavano di spavento? E quasi gli piaceva di vederla soffrire. Nulla disse, non le diede neppure una carezza, e tuttavia si sentiva felice ch’ella fosse lì, felice di non essere partito, di non aver rinunziato ancora, per sempre, a quel tormento ineffabile. Camminò per la camera toccando vari oggetti ch’erano sui tavolini. Prese le chiavi lasciate dal domestico, se le mise in tasca, e suonarono. Andò verso la finestra semiaperta, si lasciò investire, avvolgere, dalle tende che un soffio di vento gonfiava come pigre vele; passò vicino ad un vaso dov’erano alcune rose ancor fragranti, che cadevano, raccolse un pugno di petali, e tenendoli nel palmo vi tuffò la bocca, vi morse. Dalla strada veniva sempre quel rumore di veicoli e di gente, or forte, or lieve, quel rumore incessante, confuso, discorde, che sale dalla vita di tutti, mentre, dietro i muri e nel silenzio, per le case degli uomini, passa talvolta la tragedia senza mandare un grido. Un lume d’oro si diffondeva nella camera col cader del giorno; una lama di sole, entrando per la tenda gonfia, colpiva uno specchio su la parete opposta rompendolo nei colori del prisma. Ella si levò; aveva gli occhi rossi, i capelli in disordine, un singhiozzo fermo a sommo del petto, nel gonfiore della gola. S’avvicinò a lui, esitante, lo prese per un braccio: — Davvero te ne vai? Egli chiuse gli occhi per non guardarla. — Sì, Loretta, vado via... — Perchè? — Lo sai perchè. Ella si torse, con un movimento femineo, come per fargli sentire su tutto il corpo la carezza della sua persona; gli venne contro, gli nascose la faccia ancor umida contro la spalla, e disse piano, ma con un singolare brivido: — Portami via con te. Egli ebbe un sussulto. — Con me?... La visione gli balenava in tutto l’essere, radiosa. — Sì, con te! dove tu vuoi... con te. Le sue braccia gli si annodavan intorno al collo, formando una fragile, fortissima catena. E così vicini, così avvinti, guardarono per un momento la felicità che passava nel loro impossibile sogno. Andare via, fuggire, perdersi, vivere tra gente straniera, che ignorasse il loro peccato; contaminarsi della colpa irredimibile, scendere nel divino perdimento, con la sola paura che fosse necessaria per goderne ancor più... Ed ella, che ignorava il peccato, tremò, come se ne fosse già tutta coverta. Ma egli ancora si vinse, ancora si sciolse da lei. — No, lásciami, lásciami! Tutto questo è un tormento che uccide! Gli errava per la faccia livida una buia disperazione, le sue mani brancolavano sul tremore di lei. Era venuta ella stessa in tanta esasperazione che ormai non poteva essergli vicina senza che una specie di svenimento le scendesse per tutte le vene, soave come una morte che disánimi a poco a poco, senza far male. Talvolta un dolore acutissimo le batteva nel grembo, la torceva come una mano crudele. — Anch’io non posso più... — balbettò. — Quando mi tocchi, quando mi guardi, mi sento così male, così male... Egli ripetè sordamente: — Lásciami. — La notte non dormo, — ella disse; — la mattina non riesco a levarmi dal letto. È come se mi avessero battuta. Mi ammalerò. Tutto questo, perchè ti voglio bene. Di giorno, qualche volta, bisogna che mi butti sopra una poltrona e stia lì ferma, come se fossi morta. Allora mi sembra che tu venga, e mi baci, mi baci... Fa tanto male... Se tu sapessi come fa male! Egli rise d’un riso rauco, affannoso; ella ricominciò: — Anche tu sei cambiato; diventi pallido, qualche volta mi fai paura. Gli strinse ancor più le braccia al collo, e qualche lacrima tremò nella sua voce. — No, non andartene, — disse. — Oppure, se parti, conducimi via con te. Egli scosse il capo con violenza, come per ribellarsi alla tentazione che lo assaliva. — Pórtami via! Saremo felici qualche giorno insieme... Ne’ suoi occhi di fanciulla perduta brillava lo splendore della sua calda anima, il dolore della gioia non goduta. — Hai paura forse? hai paura?... — ella domandava. — Ho paura di me. — Non dirmi di no... È la prima volta che ti chiedo qualcosa. Vuoi che ne divenga malata? Io ti starò vicina coma fossi una piccola cosa tua; non ti accorgerai di me. Qualche giorno soltanto... non dire di no! Farai di me quello che vorrai, anche nulla se vorrai. Sarà un secreto nostro, nessuno mai lo saprà. Pensa, Rigo, qualche giorno per noi due soli... Lo tentava con tutta la sua grazia, con tutte le insidie della sua femminilità, con il calore che usciva da lei come il profumo da un cálice, lo tentava con le sue braccia avvinghianti, con la sua voce torbida. — Pórtami via con te... non ho paura, io, dell’amore... Moriva il sole nello specchio; negli occhi loro passava il miracolo di una lontana felicità. XII La tentazione lo vinse; poichè una fatalità voleva ch’egli soffrisse tutto l’abominio del suo peccato. Per dare un pretesto alla famiglia, Loretta simulò di star male, d’essere accasciata da uno di que’ mali primaverili che vengono con la prima calura. Il fratello propose allora di condurla seco a respirare un po’ d’aria salubre, in qualche paese di collina o su le rive d’un lago tranquillo; e benchè la insolita premura di Arrigo dovesse un poco sorprenderli, tuttavia l’onesto padre finì con accondiscendere a quella partenza. L’albergo dove scesero aveva un grande giardino, che dondolava su l’acqua azzurra le sue spalliere di selvatici rosai; un giardino esuberante, che allora, sul finire del Maggio lacustre, aveva più fiori che foglie, più ombre che sole. L’albergo era quasi pieno, ma di que’ forestieri un po’ lugubri, che viaggiano tutta la vita, chiusi ermeticamente in sè stessi, maltrattati ed insensibili come i loro bauli. Mangiano, dormono, guardano il cielo, cercano di adunare ne’ propri occhi la maggior confusione possibile di cose vedute: son puntuali come l’orario, minuziosi come la carta topografica, pieni di ricordi come un albo di cartoline illustrate; delle cose altrui si curano poco, delle lor proprie, sembrerebbe, ancor meno. E il lago faceva oscillare le sue calme onde luminose davanti alla contemplazione de’ lor occhi senza colore; le montagne, fasciate di vapori turchini, buie di foreste, bianche di ville, drizzavano contro il cielo fiammeggiante i loro impetuosi vértici; la riva, coltivata a vigne, dorata di frumenti, sciorinava la sua pigra fecondità sotto la magnificenza del sole. Eran dunque partiti, ma non senza contrasti, poichè la famiglia non vedeva di buon grado quella inattesa partenza. Certo nessun dubbio contaminava quelle anime semplici; ma, forse un presentimento oscuro, un sospetto senza precisione, generato anche dalla lor titubanza, persuadeva i genitori a non favorire questa soverchia familiarità del fratello con la sorella minore. Inoltre, da qualche tempo, Loretta era mutata in un modo singolare; le si leggeva nell’espressione del volto un non so che d’ambiguo, d’insolito; ed era mutata proprio da quando Arrigo aveva cominciato a prendersi cura di lei. Ella, involontariamente, odiava questa sua famiglia, dalle idee grette, severe, meschine, questa famiglia ch’era il solo inciampo alla possibilità d’ogni suo desiderio, ed oscuramente lasciava sentire quest’odio, lasciava comprendere ch’era solo felice quando poteva uscirsene con Arrigo, evadere dalla prigionìa familiare, allontanarsi dalle mediocri loro abitudini. Ed il primogenito, che una volta bazzicava così di rado nella casa paterna, or vi giungeva quasi ogni giorno, qualche volta stralunato, qualche volta con l’attitudine e con il pretesto di colui che voglia nasconder la ragion vera della sua visita. Non era stato mai tenero d’affetti familiari, e queste sue più che fraterne attenzioni per la sorella minore sembravano per lo meno singolari. Poi, quest’uomo arrogante, che non aveva mai sofferto alcuna ingerenza ne’ fatti suoi, or qualchevolta appariva titubante, quasi umile, e si studiava di dare una ragione d’ogni suo passo; talvolta guardava il suo vecchio padre, la sua vecchia madre, con uno sguardo paurosamente filiale, che i suoi occhi non avevan mai saputo esprimere. Paolo, il fratello minore, il giovine dal cranio rotondo, dagli occhi un po’ intontiti, Paolo, che mostrava per la sorella un’antipatia irriducibile, per il fratello un certo disprezzo, non lesinava le sue ironie un po’ grossolane su que’ due che se la facevano da signori, prendendo a prestito le penne del pavone. E poi c’era quel terribile Riotti, che per nulla al mondo avrebbe rinunziato a soffiare quali che malignità su quanto accadeva nella casa del vicino. Non che la sua mente sobria potesse mai giungere a concepire manco per sogno la possibilità d’un amore simile; ma egli vedeva la cosa sotto un altro punto di vista, e cioè vedeva che la figlia ultima dell’occhialaio stava per divenire in femmina ciò che il primogenito era stato in maschio. E comprendeva benissimo, lui, che facessero buona lega insieme, que’ due caporioni, e s’aiutassero del loro meglio a scandalizzare la gente per bene. Oh, lo aveva detto in casa del Ferrante! detto e ripetuto ben forte! «Ma sì! era proprio ad un uomo di quel genere che dovevano confidare la loro ragazza! e una ragazza — senza farle torto — che di serio non aveva nemmeno un capello. Perchè non le insegnavan piuttosto a diventare una buona madre di famiglia? Altro che vestitini e ciprie e gingilli e teatri e villeggiature! Anche le villeggiature adesso! Ma sicuro, alla fine di Maggio, quando ancora non fa gran caldo — anzi, la sera si sta meglio con il soprabito che senza, ed è il momento migliore per la città, — alla fine di Maggio si sente il bisogno d’andare a prendere una boccata d’aria sui laghi. Figuriámoci!... un viaggetto per i luoghi e per gli alberghi eleganti, a imparare altri capricci, come se non ne avesse abbastanza! Ma, già, quando si è ricchi!... quando si può!... Il signor Arrigo, lui, di soldi ne ha a palate! Spende, spande, viaggia, tiene appartamento e cameriere. Poverino! E perchè allora non invita suo padre, o meglio sua madre, a vedere un po’ di lago, che sarebbe tanta salute per lei? Nossignore! Invita la sorella invece; e perchè? Perchè ha le «toilettes» eleganti, perchè va in giro come una farfalla, perchè è una civetta, la signorina, e questo a lui piace, si sa, a lui!... a quello sciupone! a quel borioso! La finisse con gli scandali, e pensasse una buona volta a riparare i suoi malanni! O non cercasse almeno di corrompere anche la sorella, che, scherzi a parte, ne sapeva già più di Bertoldo! E lui, il vecchio, debole anche in questo, come in tutto, debole fino alla viltà! Del resto, facessero poi loro, che lui, Riotti, com’era suo principio, negli affari altrui non desiderava mettere il becco...» Ma Loretta non aveva pazienza con i suoi di casa; quando appena la contraddicevano, dava in ismanie, dichiarando che intendeva esser libera e vivere a modo suo. Finissero di seccarla una buona volta per i suoi vestiti troppo eleganti, per i suoi cappellini ed i suoi mantelli, visto che una ragazza dell’età sua non poteva già convocare il consiglio di famiglia prima di scegliersi una camicetta!... Quindi le facessero il santo piacere di non volersi mischiare anche delle sue «toilettes», dal momento che non potevan nemmeno rimproverarle di spender troppo, e ciò in grazia del suo buon gusto, della sua grande abilità nel fare le compere. Che se poi Arrigo di tempo in tempo le faceva qualche regalo, nessuno in fin dei conti aveva il diritto di trovarvi a ridire. E volevano saper la ragione per la quale andavano così d’accordo lui e lei?... Ma era naturale! Avevano gli stessi gusti, e dopo tutto eran fratello e sorella. Inutile! non cercassero di far di lei una bottegaia, perchè un marito dei loro non lo avrebbe sposato mai. La lasciassero in pace! la lasciassero in pace! Quanto a lei, saprebbe trarsi d’impaccio da sola. E finalmente anzi aveva deciso: voleva studiare e diventar cantante. Questo le avrebbe servito almeno ad esser libera. Cantante!?... Il fratello Paolo ne scoppiò a ridere, d’un riso cattivo, insultante. Lo andò a raccontare al Riotti, il quale, appena la vide, cominciò con chiamarla Adelina Patti. Fece anzi un lungo e dettagliato racconto d’una serata in cui aveva inteso la celebre cantante; criticò la scuola moderna, la dizione moderna, la musica barbara e le grottesche teorie dei wagneriani; poi spiegò tutti gli inconvenienti che può incontrare una donna sul teatro. Ma poi concluse che, alla fin fine, se questa era proprio la immutabile sua vocazione, si mettesse almeno a studiare seriamente, perchè sul teatro, come in tutte le cose, si riesce o non si riesce, ma quando non si riesce, poichè il denaro occorre lo stesso, le donne per lo più arrivano a fare un altro mestiere... E la voce? Ma sapeva lei quanto ci vuole per giungere a trovare l’intonazione giusta? E le movenze? i gesti? la padronanza della scena? Aveva dunque un’idea approssimativa dell’assiduità che occorre per imparare tutto questo? Anni ed anni di studio! Poi bisogna esserci nati sul teatro, od entrarvi molto giovani... Secondo lui per Anna Laura era già troppo tardi. In merito a questa gita, Arrigo ebbe dal canto suo qualche noia con Clara Michelis. Un vago sospetto cominciava oscuramente ad agitarsi nel suo cuore attento e geloso. Ella pure aveva notate alcune circostanze fuggevoli, senza valore per sè stesse, che potevano parer accidentali, ma che, legate insieme da quel sottile intuito che ha la donna quando ama e quando si sente minacciata nel proprio amore, finivano con darle una strana chiaroveggenza sul cuore di Arrigo. Ella pure trovava incomprensibile questa subitanea cura che l’amante si prendeva de’ suoi doveri fraterni, e trovava strano che una ragazza di vent’anni ed un giovine come lui se ne partissero insieme, senz’altro scopo nè altra meta che di veder la primavera fiorire su le rive d’un lago tranquillo. Inoltre ella sapeva leggere in lui con singolare penetrazione, e da qualche tempo lo vedeva mutato, cupo, irascibile, come se un funesto pensiero si agitasse dietro la sua fredda impassibilità. Questi due fatti, il suo mutamento e le sue premure fraterne, eran nati insieme. Le rare volte che aveva potuto indurlo a parlare di Anna Laura, gli occhi dell’amante non avevan osato più guardarla in faccia, s’eran fatti obliqui e fuggevoli, s’eran empiti insieme di sospetto e di lampi. Nella casa dell’amante aveva scoperta qualche traccia d’un’altra visitatrice; nel suo letto stesso aveva sentito che quest’uomo non era più suo, non era più di nessuna, tranne che d’un suo terribile nascosto amore. Ma egli era un violento, ella una rassegnata. Non potè impedirgli di partire, anzi nulla confessò a lui de’ suoi dubbi angosciosi, e rimase ad aspettarne il ritorno con il perdono su le labbra, la morte nel cuore. Ella non si vedeva, non si sentiva più giovine; la vecchiezza vicina, questo ch’è forse il più terribile supplizio, la più irrevocabile condanna per l’amore, le faceva comprendere che ormai ella doveva solamente rassegnarsi e perdonare e patire in silenzio, perchè lottare nè ribellarsi non poteva più. Arrigo era stato l’ultimo episodio nella sua storia, e le donne forse non ricordano che due uomini: l’ultimo ed il primo. Ora che il sospetto era nato in lei, non aveva più pace. Si sentiva sfiorire, mentre la giovinezza di lui splendeva più rigogliosa. Quest’uomo, che aveva prima lottato per averla, ella poi lo aveva conteso, lo contendeva ad altre con ogni mezzo, per tenerlo presso di sè. Da dominatrice era diventata la sua schiava; perchè non si stancasse di lei gli aveva permesso tutti i capricci, secondato tutti i vizi; per essere la sua amante, s’era alienate molte conoscenze, s’era veduta male accolta in qualche sala della più severa società; per passare qualche lunga notte, fino all’alba, con lui, per sedersi su le sue ginocchia e baciarlo, nella propria casa, quand’egli veniva a trovarla, non s’era quasi curata dei testimoni domestici nè della bambina che intanto cresceva e vedeva; perch’egli fosse ricco, si era fatta più povera; avrebbe reso povera anche la sua bambina, che pure amava, avrebbe fatto per lui qualsiasi altro sacrifizio, pur di non perderlo, pur di riavere qualche volta i suoi violenti baci. Ed ora si contentava di poco; sapeva ch’egli era giovine, che aveva bisogno di vivere, ch’era un ambizioso, un uomo in balìa d’una sorte precaria, e gli perdonava molte cose, troppe cose. Lo aspettava qualche volta per giorni interi senza vederlo, ed allora le sue notti erano insonni, ma lottava con disperazione contro la voglia di piangere per non sciuparsi la faccia. Egli la tradiva spesso; e pur avendone la certezza ella non osava ribellarsi nè muovergli alcun rimprovero. Sapeva che i suoi amori eran fuochi di paglia, galanterie cui si dava talvolta per capriccio, talvolta per opportunità, e rassegnatamente aspettava di vederne l’ultime faville, le ceneri. Ormai si contentava di poco, di così poco! Ch’egli venisse a darle un bacio, la sera, prima del pranzo, e qualche volta restasse a tavola con lei, o venisse dopo il pranzo, prima d’andare a teatro, senza nemmeno togliersi il soprabito, senza ch’ella potesse baciarlo con piena libertà, per non sciupargli la cravatta bianca, per non spettinare i suoi capelli così ben ondeggiati. Si contentava d’andare qualche volta a casa sua, quand’era troppo gelosa, troppo triste o troppo innamorata... Per lo più non lo trovava. Lo aspettava; metteva in ordine, guardava tutte le sue cose; gli portava mazzi di fiori, glieli disponeva nei vasi. Toglieva la polvere da’ suoi gingilli, riordinava i suoi vestiti, i suoi libri; metteva l’ora del proprio orologio con gli orologi di lui. Ella parlava con Filippo familiarmente; Filippo era un amico per lei. Spesso gli dava un po’ di denaro o gli portava un regalo, e intanto, fra un discorso e l’altro, cercava di far raccontare al domestico tutto quanto sapeva su le abitudini del suo padrone. Ma il domestico sapeva poco, poi era scaltro. Quand’ella non aveva più nulla da fare, si metteva in una poltrona, al buio, ed aspettava. Era paziente; si sentiva quasi felice. I suoi giorni d’amore divenivano sempre più radi, e però le bastava di sapere ch’egli veramente non ne amasse un’altra, che a lei rimanesse anche solo per abitudine o per riconoscenza; le bastava che ogni tanto egli le sorridesse, con quella sua bella bocca violenta sotto i baffi sottili, e ogni tanto la prendesse in braccio, la cullasse, lui così forte, lei così fina, e le dicesse ancora, per ingannarla forse, che l’amava, che l’amava, con quella stessa voce che gli aveva udita nei primi giorni, quando non era ancor sua. E le bastava che una volta ogni tanto ella potesse coprirlo de’ suoi baci avidi e gelosi, de’ suoi baci in cui metteva tutta la disperazione del suo ultimo amore, poich’ella era più malata che mai, più innamorata, più ardente che mai. Certo v’era una grande tristezza in tutto questo, ma ella non se ne lamentava; cercava di essere buona, umile, per soverchiarlo con la propria dolcezza; e di quel poco era contenta, perch’ella amava sopra tutto l’amore che aveva per lui. Ma ora un terribile spavento s’era aperto nell’anima sua; le era parso d’indovinare la cosa orribile, aveva indovinato, ne era ormai pressochè certa. Non più il gioco lo distraeva da lei, non le amanti d’una notte, non le cene, i teatri, gli amici, non la sua tenace ambizione, non la sua violenta gioventù. Guardandolo talvolta, gli scopriva ora negli occhi una fiamma non mai veduta prima, e standogli fra le braccia ella sentiva l’inimicizia, l’avversione, che quest’uomo celava ora contro di lei. Dunque s’era innamorato, dunque glielo avevano tolto; nel suo cuore insensibile era nata una passione selvaggia... E per chi? per chi? Aveva passati giorni e giorni osservando, indagando nella sua vita con quella pazienza femminile che noi non conosciamo; poi un barlume, un dubbio era balenato nella sua mente, le si era infitto nel cuore, seducendo lei stessa, mentre l’atterriva, con la sua potenza nefanda. Ch’egli avesse amata un’altra donna, anche giovine, anche bellissima, questo era forse nella sorte naturale delle cose; le pareva che in tal caso avrebbe saputo comprenderlo, perdonargli e rassegnarsi anche a questo nuovo dolore. Poich’ella stessa era desiderabile ancora e poteva sperare di vincere con la pazienza, con l’amore suo più forte, con l’indulgenza sua più grande, infine con uno qualsiasi tra que’ mezzi femminili che valgono a ricuperare un possesso perduto. Ma invece accadeva la cosa più imprevedibile, si elevava contro di lei la più inattesa e formidabile nemica. Poich’egli non s’era innamorato d’una donna che fosse bella o giovine soltanto, che potesse avere una bocca più fresca della sua, una pelle più morbida, un corpo più voluttuoso; non solo d’un’amante che fra le coltri lo sapesse meglio accarezzare, che fra la gente potesse meglio lusingare la sua vanità; non insomma d’una fra quelle tante che son tutte destinate a perire, a passare, a conoscere anch’esse il tormento della fine... Ma invece aveva scaldato in sè il più divorante fuoco, s’era lasciato invadere da una rossa demenza, si dibatteva in una lotta feroce contro il demone della sua stessa colpa, voleva cogliere il dolcissimo frutto avvelenato, quello che torce, che perde, che fa impazzire, quello dopo il quale tutti gli altri non hanno più sapore. Egli non amava una donna soltanto; amava la sua sorella, una sorella di vent’anni, ancora intatta, che forse, che certo amava lui; una sorella che aveva in più di tutte l’altre il dono d’essere il peccato, il dono di portare nel suo grembo il sacrilegio, ne’ suoi baci la dannazione, e di chiamarsi «sorella», ossia di nascondere in questo nome trasparente come la purità il significato più divino e più terribile che sia nell’amore. Forse i grandi peccati propagano intorno a sè una specie di atmosfera malefica, di ambiguità quasi tangibile, per la quale inevitabilmente giungono a farsi avvertire dalle vigilanze altrui. Il primo giorno che questo dubbio era balenato nella sua mente, ella súbito l’aveva respinto, se n’era sdegnata contro sè stessa, s’era trovata abominevole per aver concepito un simile pensiero. Ebbe quasi paura che l’aver pensata una tal cosa potesse rendere una tal cosa verisimile. E si mise con affanno a cercare un’altra spiegazione, a scoprire un’altra verità, meno orrida... meno affascinante! Se questo pensiero assiduo le martellava nel capo, ella compiva uno sforzo quasi fisico per allontanarlo da sè. E però tornava, forse rievocato solo dalla paura che ne aveva; tornava, perchè noi ci somministriamo senza volerlo, con una gioia crudele, tutte le immaginazioni che ci dànno più tormento; perchè l’orrido ci attrae, perchè il peccato, anche il peccato altrui, è la più grande suggestione che possa corrompere lo spirito nostro. Tornava, perchè pensando alla possibilità di questo amore, alle sue gioie più che umane, ella sentiva nascere in sè le radici, fremere in sè i tormenti di questo inconfessabile amore. E siccome talvolta siamo i peggiori nemici di noi stessi, ella cominciò a pensare quale sarebbe stata la sua tortura se questo dubbio avesse presa la consistenza della verità. L’onda sensuale di quella colpa ineffabile si frammise alla sua paura, alla sua gelosia, corse in lei, facendole intendere l’ebbrezza che quei due potevano sentire se veramente s’amavano. E mentre andava cercando le prove che questo amore non fosse, in verità ella era tentata e soggiogata dalla voluttuosa paura di scoprirne l’esistenza. Con lei d’altronde Arrigo non era guardingo abbastanza, poichè non credeva ch’ella potesse avere sospettato. A lui stesso, qualche rarissima volta, piaceva parlarle della sorella, cosa che in addietro non accadeva mai. Gliel’aveva descritta con frasi calde, ma vigilando insieme le proprie parole, quasi temesse di potersi tradire. Le aveva pure mostrato un ritratto di lei, un ritratto recente, fattole fare in quei giorni. Poi, talvolta, son gli estranei, che con una frase innocua ci rivelano una grande verità. Molti eran venuti, nel modo più naturale, a parlarle di lui e di lei, narrandole particolari futili, cose prive per sè stesse d’ogni colpevolezza. Li avevano insieme veduti per istrada, nei teatri, alle corse, altrove; li avevan anche ammirati, perchè sembravano volersi molto bene. C’era chi gliel’aveva descritta: una bionda, ma d’un biondo color cenere, col visino fresco, il profilo non del tutto puro e però graziosissimo, la bocca sempre in sorriso, il corpo ammirevole. Non gli somigliava affatto affatto; aveva l’aria un po’ di scapatella, e così alcuni, da principio, avevano supposto che fosse una sua piccola amante... Ecco, alle volte, com’è facile ingannarsi!... . . . . . . . — Inségnami a remare! — ella disse allegramente, nel pomeriggio di quel primo giorno. — Non ti pare che faccia un po’ caldo ancora? Sarebbe meglio attendere più tardi. — No, súbito, súbito! E calzata di bianco, con una gonnella di tela bianca, che le scopriva le caviglie, un cappellone di paglia piegato sul viso, ella scendeva con ilarità per i viali del fragrante giardino, che aveva tanti profumi e tanti colori quanti ne può adunare insieme una primavera italiana. Ella si divertiva; tutto questo era nuovo per lei; non s’era forse mai trovata in un albergo elegante, ben di rado aveva inteso parlare i linguaggi stranieri, non s’era mai sentita così libera e così felice come in quel giorno. Aveva una bella camera, con un terrazzo verso il lago, e la camera d’Arrigo era comunicante con la sua. Sul terrazzo, ricoperto da una tenda a striscie bianche e turchine, le avevan messo una seggiola a sdraio, di vimini, con molti cuscini. Appena giunta vi si era distesa, un po’ stanca, e s’era messa a guardar intorno, a sognare. Le si apriva dinanzi il lago immutabilmente azzurro, con le sue rive dense di villaggi, sparse di campanili e di torri, il lago solcato in ogni senso da uno sciame di barche, leggere come petali di fiori sopra una fontana. Pareva le muovesse un dolcissimo vento, non la fatica dei remi, e cullassero il sonno di gente oziosa. Udiva ogni tanto una sonagliera di cavalli squillare, lontanando per il bianco scintillìo delle strade maestre; vedeva le automobili passar veloci, fragorose, lasciandosi dietro una gonfia nuvola di polverone, i battelli giungere ad intervalli, carichi d’una folla gioconda, che facendo ressa per le scale montatoie sbarcava sui pontili d’approdo. E per lei tutto questo era nuovo, le raddoppiava nel cuore il senso della giovinezza; voleva in un giorno solo tutto vedere, tutto godere. S’era côlta nel giardino un bel mazzo di rose gialle, Arrigo ne aveva tolte le spine, gliele aveva messe alla cintura. Andavan ora verso la darsena per scender in una barca ed allontanarsi dalla riva. Egli non era più così tetro come nei giorni passati; un senso di beatitudine e di pace ritornava in lui; gli pareva quasi che quel cielo così aperto fosse indulgente alla sua colpa, ed in verità un più sano respiro dilatava il suo petto capace. Mentr’ella diveniva più fanciulla e pareva scordarsi fra quella novità il suo torbido amore, egli si compiaceva nel circondarla di tante piccole premure, come si fa per un’amante. La città era lontana, quasi dimenticata; nessuno li conosceva in quel sereno golfo lacustre, in mezzo ai fiori esuberanti, con intorno la catena quasi glauca delle montagne, tra l’odor vegetale dei prati maggenghi, nell’aria limpida e sana. Egli non aveva più il terrore che alcuno sorprendesse il suo segreto, e vicino a tutte le semplici cose della terra gli pareva che nel suo sentimento fosse entrata una qualche purità. Non voleva pensare più a nulla, ma solamente godere con pieno abbandono quei giorni di oblìo. In fondo comprendeva che la nostra coscienza è talvolta una semplice paura dell’opinione altrui. Scendevano verso la darsena per i viali del giardino traboccante, mentre di poco il sole aveva sorpassata l’ora del meriggio e traeva da tutte le cose un insostenibile fulgore. Con il suo vestitino di tela bianca, la gonnella corta, un velo azzurro su le spalle, il gran cappello di paglia a larghe tese, ella pareva più giovine di qualche anno e la sua irrequietezza era veramente quella d’una bambina. Si chinava tra i fiori, saltava le piccole siepi, gettava sassolini per rompere lo specchio delle fontane, faceva una piccola corsa, tornava. Era un po’ accaldata, gli occhi le brillavano, il suo petto si gonfiava per respirare a lunghi sorsi quell’aria profumata, e parlava, parlava, ed ogni piccola cosa la faceva scoppiare in una risata così limpida che i taciturni forestieri si volgevano sorridendo a guardarla. Egli non viveva di sè, ma di lei sola viveva, con un profondo tremore d’anima e di amor carnale. Udendola ridere, una grande allegrezza empiva il suo recesso cuore; s’ella correva per il giardino, avrebbe voluto egli pure mettersi a correre come un fanciullo; se una cosa le dava godimento, anch’egli ne traeva piacere, nè mai si ricordava per l’innanzi d’aver concepito in un modo così elementare il senso della felicità. Ma v’era nel suo vigile spirito una parte che rimaneva incapace d’allegrezza e dove il sole del bel pomeriggio non mandava nessuna chiarità; una parte religiosa e recondita, che in lui pesava come su la terra un feretro: quella dove il suo perduto cuore misurava con spavento e con viltà il rimorso della colpa inesorabile. Ma quando l’udiva parlare, la sua voce stessa gli prodigava gioia, correva per entro le sue vene, scendeva in lui come una musica divenuta piacere; quando la vedeva muoversi, ridere, vivere, splendere, gli pareva che ogni movimento svestisse di quegli abiti leggeri la sua perfetta nudità, e mille volte, in quell’ebbro giardino, tra i fiori gonfi di pòlline, coricava la sua bianca gioventù nel meraviglioso peccato... — Remi bene tu? — ella domandò al fratello, saltando nella barca ed aggrappandosi a lui per non perdere l’equilibrio. — Una volta, sì, remavo bene; ma ora forse ne avrò perduta l’abitudine. Tuttavia non vollero barcaiolo; andaron soli, perchè nessuna vigilanza importuna turbasse il loro intimo godimento. Egli remò con lentezza finchè furono discosti dalla riva, ed ella, cantando, reggeva il timone. Il lago era fermo, senza un’onda nè una scìa. Nella sua limpidità, le alte montagne propagavano una immobile ombra, che pareva subacquea. Le ville, i golfi, le rive, l’aria, l’acqua, la montagna, tutto nello spazio brillava d’un glorioso trémito. Arrigo la guardava: ell’aveva posato i piedi su lo stesso appoggiatoio contro il quale premeva egli stesso nell’inarcarsi per remare; la gonna corta erale un poco scivolata in su, ed egli vedeva le sue fine caviglie uscire dalle scarpette scollate, poi salire con ugual simmetrìa, come fusi perfetti, e sparire tra i pizzi della gonnella in un principio d’oscurità. Portava le calze di seta, color cenere, traforate, luccicanti. Con la punta dei piedini irrequieti, ogni tanto per ischerzo, ella toccava i suoi. E ridevano, ridevano entrambi, senza parlarsi. In quella pace, nella lentezza della remata, nel dondolìo della barca navigante, comprendevano come la più dolce cosa fosse guardarsi e tacere. Egli l’osservava. Nel sole, nella grande vampa, la sua carne s’impregnava d’una trasparenza bionda, come i cálici delle rose tee; la vellutatura della sua pelle brillava minutamente, l’ombre ne parevano più scure. L’esaminò, e si avvide, forse per la prima volta, ch’ella non aveva la bocca pura, non la bocca dei suoi vent’anni, limpida e quasi leggera come lei, ma una bocca sensuale, calda, troppo rossa, troppo viva, una bocca di donna già molto baciata, già esperta di tutte le lussurie che insegna l’amore. E allentandosi nel colpo della remata, con il corpo all’indietro e gli occhi semichiusi, egli si stendeva con un lungo brivido sensuale sotto il bacio di quella bocca impura. Nel calor del giorno, tra il riverbero del sole sfavillante, lasciava ella pure che le palpebre le scendessero a metà su gli occhi un po’ ebbri di luce; un senso di stanchezza beata le si diffondeva per il viso, per tutto il corpo, inondandola di riposo come dopo una fatica. Ed egli più non rivide in lei quella che nel giardino saltellava tra i fiori buttando ciottoli nelle fontane, ma un’altra, che aveva su la bocca il riso della donna perduta, e pareva quasi addormentarsi dopo aver patito un violento piacere, un’altra, ch’egli si raffigurava distesa in un letto d’amore, nuda, con le braccia lente lungo i fianchi, abbandonata nel soave riposo del piacere sofferto, nuda e stanca in un letto d’amore, con il capo vôlto da un lato fra i capelli semisciolti, la bocca umida, gli occhi appassiti, scuri come le violette... Egli remava lento, lento, nella infinita luce. Una riva s’allontanava, l’altra era pur lontana, tutto pareva cedere al sonno, sentirsi opprimere dallo splendore, in quel pomeriggio di sole. Passaron presso un pescatore, che aveva la sua barca ferma e la lenza nell’acqua. Piano piano, senza far romore, scivolaron oltre. Egli l’osservava: teneva in una mano e nell’altra le due funicelle del timone; ma le due mani le riposavan nel grembo, semiaperte, quasi addormentate, sicchè al più leggero strappo del timone avrebber forse lasciati sfuggire i due cánapi. Quelle mani, il sole le dorava; parevan un po’ scure su la bianchezza della gonna. Anch’esse, come la bocca, non rivelavano alcuna purità. Eran fatte per tutti i peccati, erano destinate ad infliggere carezze tormentose, avevan nella lor forma innocente qualche segno che ne tradiva l’attitudine al vizio. E sul viso caldo, su la bocca un po’ arsa, per tutto il corpo affaticato dal lungo desiderio, egli sentì passare la carezza di quelle mani lascive, una carezza che lo snervava e lo torceva, prodigandogli una voluttà piena di morte, dalle radici dei capelli fino all’ultime sue vene. Allora lasciò i remi, si curvò innanzi e la baciò. — Che fai?... — diss’ella come destandosi, maravigliata. — Ti amo, — egli rispose, circondandola con le braccia, e guardandola negli occhi pieni di sole, tutto proteso e curvo su di lei, con la bocca immersa nel suo vivo respiro. Per scuotersi da quel torpore, ella si stirò con indolenza sotto di lui che le pesava un poco adosso, e levate le braccia, con un movimento pieno d’amore gliele strinse al collo, rovesciando il capo all’indietro, chiudendo gli occhi, beata. Su l’acqua, su tutta l’acqua, parve correre in un tremor di luce il palpito delle loro anime innamorate. — Báciami... — ella profferì, quasi volesse tradurgli con parole quella pienezza di gioia che le inebbriava i sensi. — Báciami ancora una volta, come hai fatto prima... così... così... Egli la baciò di nuovo su la bocca umida, golosamente, come si sugge un favo di miele. Ed ella passava le dita nella sua capigliatura, gli scopriva le tempie, la fronte, pettinando piano piano i suoi capelli con una prolungata carezza. — Mi sento felice... — ripeteva, gonfiando nel respiro la sua gola giovine. — Vorrei dire tante cose inesprimibili... vorrei quasi cantare, sì, cantare di gioia!... E volse gli occhi tutt’intorno, per quella vampa infinita, e le parve di abbracciare in sè stessa tutto lo splendore che vedeva. Egli la fissò profondamente, con una ferma potenza negli occhi: — Sei mia, o cosa pensi? — domandò con affanno, quasi con ira. E così forte la strinse nelle sue ruvide braccia, ch’ella parve sentirne dolore. — Perchè mi domandi questo? perchè fai così?... — disse, con un’ombra di paura. — Nulla, è nulla... non badare a quel che dico. Ridi, Loretta, ridi ancora! E si levò, si rimise a remare. Su la sua faccia era nuovamente scesa quell’espressione di violenza e di tormento che spesso lo contraffaceva; tutto il suo corpo straordinariamente agile si piegava, si distendeva, con impeto nello sforzo di arrancar sui remi; lo snello battelletto correva; l’acqua sferzata saltava con rapidi arcobaleni. — Che hai? Perchè ti stanchi così? Egli non rispose, anzi remò più forte. — Lascia provare a me, — diss’ella; — voglio remare anch’io. E fece atto di levarsi. — Non ti muovere, non ti muovere, se no cadrai. — Voglio remare anch’io; lascia che provi. — Sì, aspetta. — E ansante abbandonò i remi. — Come sei forte! Ora si correva! Egli le sorrise nel tergersi il sudore che gli colava dalla fronte. — Allora vuoi remare? — Sì. — Bene, proviamo: io mi siedo su l’altro banco e tu verrai qui. Cambiò posto, mise in acqua un altro paio di remi e le tese una mano per sorreggerla mentre passava. Quando fu seduta, la baciò ancora su la nuca e su la tempia, la cinse, la tenne imprigionata. Ridendo, ella premeva la guancia contro il suo collo nudo; poi disse: — Perchè mi hai fatta quella domanda, Rigo? — Volevo sapere se mi ami, se mi ami davvero... — egli rispose con una timidezza d’amante. — E non lo sai dunque? L’altro non rispose; le insegnò a tenere i remi, le accompagnò il braccio nella remata. — È facile! — rispondeva la fanciulla. — Vedi che so remare anch’io? — Piano, fa piano, senza stancarti... Non affondare troppo il remo nell’acqua; così, guarda. Snoda il polso quando ti pieghi avanti, fletti la mano in basso quando dái la remata... Così, va bene. Ella si divertiva; guardava un remo, poi l’altro, che non andavano insieme. — Perchè non si cammina? — fece, indispettita. — Si cammina adagio adagio. — Voglio fare come fai tu. — Abbi pazienza, ora t’aiuto. Si mise anch’egli ai remi e navigaron fino a sera; fin quando su le due rive, sparse d’indaco e d’oro biondo, cominciarono a suonar da lungi le campane di tutte le chiese. XIII S’erano vestiti rapidamente per il pranzo; egli era entrato nella sua camera ad allacciarle il vestito, poi era mutamente rimasto a guardarla mentr’ella finiva di lustrarsi l’unghie e di togliersi la cipria dal viso. Le dolevan un po’ le mani per l’asprezza dei remi e se ne lamentava ogni tratto con una voce di bimba viziata. Per consolarla, egli le prese carezzevolmente le mani fra le sue, dicendole: — Domani remerai di nuovo, il dolore passerà. Eran poi scesi a pianterreno, discorrendo fra loro di cose gaie, s’eran fatto apparecchiare un tavolino sul terrazzo ed avevano comandato copiose vivande, perchè una fame robusta li pungeva dopo quella giornata d’aria libera. Le vetrate erano aperte verso il giardino; gli sciami notturni, densi come polvere infuriata, ronzavano in larghi túrbini assalendo i globi elettrici sospesi nella compattezza del fogliame; saliva dietro la montagna dell’altra sponda una mezzaluna bianchissima nel cielo ancor pieno di crepuscolo. Molta gente pranzava intorno a loro, e Loretta, curiosamente, osservava l’un dopo l’altro que’ numerosi commensali. Parlando, considerava i gioielli che vedeva brillare indosso alle signore, poi sorrideva di certe scollature ferocemente ossute, di certe pettinature strette e rade come gomitoli venuti agli ultimi fili. Ma v’eran lì presso tre giovani signore, che Arrigo suppose fossero Americane, le quali, senz’essere compiutamente belle, pur avevano in tutta la persona que’ robusti e gentili segni di eleganza che formano la particolare bellezza di questa nuova stirpe atlantica. Simili per nobiltà di sembianze a giovani dogaresse, queste repubblicane d’oltremare possedevano già, nei loro profili antichi e limpidi, quella verace purezza di origine che in esse, figlie di mercanti, consacrerà l’imminente aristocrazia. Erano vestite con amabile sfarzo, erano coperte di gioielli, e Loretta le ammirava. — Vorrei essere molto ricca per avere un bel filo di perle, — disse al fratello con gelosia, toccandosi la gola nuda, che portava la sua gioventù come una stupenda collana. — Ti piacciono tanto le perle? — Sì, tanto! Sono il gioiello che preferisco. E soggiunse con una specie di rancore, dopo aver riflettuto: — Com’è stupido esser poveri! — Allora, — egli le domandò, guardandola — tu vuoi diventar ricca ad ogni costo? — Io sì! — rispose con fermezza. E l’avidità, la venalità, il piacere del lusso, la smania di molte ambizioni ancora insoddisfatte balenarono insieme nel suo volto. Pur tacendo, egli parve assalito da un malessere intimo, ed ella, senza dubitare che tali parole dovessero farlo soffrire, aggiunse: — Per questo non ho voluto perdere di vista Rafa. Rafa mi potrebbe dare tutto quello che voglio. Gli occhi del fratello divennero estremamente grandi e fissi, la sua bocca ebbe una contrazione irritata. Si volse alla finestra e guardò fuori, verso la riva notturna, verso il lago pieno di stelle, che nella ferma sua limpidità si copriva d’un lenzuolo d’argento. — Non lo credi anche tu? — ella fece ancora. — Certo! — egli rispose con asprezza; — Rafa può pagarti bene. Ella subitamente arrossì; nel suo pudore di fanciulla si sentiva ledere tuttavia da quella frase crudele. Abbassò gli occhi e tacque. — Non mangi? — disse Arrigo dopo una lunga pausa. — Mi hai resa triste... che peccato! — Via Lora, non ti offendere!.... E le tese la mano sopra la tavola, quasi volesse far la pace con lei. Era molto ghiotta, le offrivano cose delicate, poi quel giorno aveva molta fame: dimenticò. — Voglio bere un bicchiere di Champagne, — diss’egli, — come la prima sera che abbiamo cenato insieme, ti ricordi? — Io mi ricordo ogni cosa ch’è stata fra noi, — ella rispose con tenerezza. — Tutto ricordo, e non dimenticherò. Il maggiordomo portò la bottiglia senza romperne i suggelli, poi la ravvolse, l’imbavagliò, d’un tovagliolo bianchissimo, e la mise a raggelare in un secchio appannato, che un treppiede reggeva presso la tavola. D’improvviso ella fece una riflessione: — Vorrei sapere cosa la gente pensa di noi. — Perchè? Ella segnò con un gesto solo sè stessa, lui, la bottiglia di Sciampagna: — Scommetto che mi prendono per chissà chi... — disse. — Veramente non ho l’aria d’essere tua sorella, nè tua moglie. E rise; la sua bocca umida scintillò d’un riso inverecondo. — Scommetto — riprese — che mi credono magari una «cocotte»! — Sei pazza! — esclamò il fratello ridendo egli pure. Ma questo nome non le dava noia, che anzi pareva in un certo senso lusingarla e chiudere nella sua volgarità un significato pieno di seduzione. Voleva dire per lei possedere molti armadi stracarichi d’abiti sontuosi, molti cofani pieni di gioielli splendenti, e ballare nei carnovali, e ridere nelle cene, ed avere nella sua casa profumata un gran letto d’amore. Ella si sentiva invincibilmente attratta verso questa vita di piacere, nè il suo corpo era fatto per il desiderio d’un uomo solo. Non albergavano in lei sogni di maternità e di famiglia, ma il suo cuore volava impaziente in cerca d’altre gioie meno tranquille. Quella bottiglia di Sciampagna, che le metteva nel capo tanti pensieri giocondi, non era per lei solamente un vino aggradevole al suo palato, ma un simbolo quasi di tutta quella vita che le piaceva ed a cui la chiamava un fervido bisogno di godimenti. Ella voleva essere desiderata, infondere il piacere, prodigare la gioia, perchè la sua missione femminile non altra era se non quella di tentare, di esasperare, d’infliggere con il suo corpo voluttuoso il tormento e il gaudio che ardon nell’essenza dell’amore. Il turacciolo saltò con rumore sotto la furia della bianca spuma e dalle coppe ricolme sprizzarono minutissime scintille. Ella v’intinse le labbra, golosamente, bevve d’un fiato; egli sorseggiò il bicchiere con lentezza, guardandola; poi si fece ricolmar la coppa e la bevve d’un sorso. Un’orchestra nel giardino attaccò il valzer della «_Vedova Allegra_»; dietro un gruppo d’alberi s’intravvedevano confusamente i suonatori, seduti in cerchio sovra un palco rotondo, illuminato a palloncini giapponesi, che di quando in quando il vento faceva oscillare. I gelsomini di bella notte spandevan nell’aria limpida ondate di buon odore. — Com’è bello qui! come tutto è bello qui! — ella esclamò gioconda. — Ma tu non parli... Che hai? Egli aveva bevuti tre o quattro bicchieri di Sciampagna, l’un dietro l’altro, cupamente; si mise a ridere d’un riso innaturale e disse: — Ascolto la musica; questo valzer è una persecuzione, lo suonano dappertutto. — Mi piacerebbe ballarlo, — ella disse; — ballarlo con te. Sotto la tavola, con il piedino calzato di raso, batteva il ritmo della danza. Riempiron le coppe un’altra volta, e furon vuote. Le saliva, da quel vino pungente, un calor lieve alle gote; i suoi occhi brillavano fra le ciglia orlate d’un luminoso tremito. Ora, godendo il caldo benessere che le scorreva per le vene, s’abbandonò indietro, contro la spalliera, tese le braccia nude su la tovaglia, e sorrideva come in un rapimento, in una estasi che le avvolgesse tutto il corpo, tutto il suo morbido corpo desideroso. — Se fossimo soli ti bacerei... — confessò con un leggero tremito. Di là dalla vetrata, nel giardino, una grande magnolia si vestiva d’argento nel chiaro di luna, portando sovr’ogni ramo un magnifico fiore. Ella poggiò i due gomiti su la tavola e si prese la faccia fra le mani: — Senti.... — Di’. — Vienmi vicino, più vicino.... Egli si sporse innanzi per udir le sue parole. — Non avrai più paura, dimmi?... non avrai più paura questa notte, che c’è tanto profumo?... — gli mormorò sottovoce, con un brivido che la impallidì. Poich’egli non rispondeva, gli prese un polso, lo strinse. — Dimmi, dimmi!... Perchè non vuoi rispondere? — Ho più paura che mai! — rispose. E tremò. Or qualcuno cantava, sul terrazzo, laggiù. Uscirono. V’era molta gente, seduta a gruppi, che ascoltava il concerto. Lor due si misero in disparte e si fecero servire il caffè. Eran quasi nascosti da un grande cespo di rosse azalee, che propagavan le lor vaste ombre su la ghiaia lucente. Tra la foltezza degli alberi non si poteva discernere il lago, ma ogni tanto si udiva l’acqua sciacquare contro la riva. Egli disse alla sorella: — T’annoierai la sera; qui non c’è nulla da fare. — E se pure ci fosse, — rispose — non vorrei far nulla. Sto bene così. — Ti senti stanca per aver remato? — No, affatto. Ma quello Sciampagna mi dà una deliziosa vertigine.... L’azalea fiorita buttava dietro le sue spalle una specie di rosso mantello damascato. — Qualche volta, — ella disse — qualche volta, Rigo, son io che ho paura di te. Sopra tutto quando non parli e mi guardi. — No, Lora; io non ti farò mai alcun male. — Chissà? — ella rispose. — Perchè dici questo? — Non saprei perchè lo dico; è una sensazione indefinibile. Forse tu mi odii un poco.... — Io?.... Là presso, dentr’una vasca invisibile, udivan l’acqua d’una fontana sgorgar sonnolenta, fra gli alberi. Egli si levò, le pose un braccio sotto il braccio, ed insieme s’inoltraron per il giardino. Loretta s’impauriva dei piccoli rospi verdi che saltavano traverso i sentieri. S’allacciaron l’uno all’altra strettamente, perchè nell’ombra si sentivano più sicuri, e scesero verso il terrazzo che accompagnava per un tratto l’insenatura della riva. Tra la darsena e l’approdo c’era una lunga fila di barche legate, che dondolavano. L’acqua portava un mantello d’argento, che le aveva buttato sopra la luna. Veniva una tristezza indicibile da quella chiara calma lacustre. S’appoggiarono alla ringhiera del terrazzo, percorso da una spalliera di rose vanziane; il muoversi dell’onda luminosa li addormentava in una specie di funesto incantamento. Egli pensava di stare sopra l’orlo d’un precipizio, e di cadervi lentamente, insensibilmente, sprofondando in una vacuità piena d’oblìo. Sentiva il suo corpo disperdersi nell’annientamento, il suo dannato amore finire in un urlo. Ella pensava d’essere una reginetta, che abitasse un gran castello su le rive d’un lago incantato, e di scendere in una barca, la notte, lei sola, sotto la luna, senza remi, senza vele, pigramente, dolcemente, per dormire. E più andava, più il lago si faceva buio, più diveniva nella notte una immensa disperata solitudine; e man mano che s’allontanava col vento, le sembrava di smarrirsi nella perduta ombra, di navigare in una buia distanza, dalla quale forse non sarebbe tornata mai più... Aveva paura e si stringeva a lui. Un cigno dormiva, con il bel collo piegato su l’ala, ondeggiando come le barche legate in fila. Non lontano dalla sponda passò un battelletto, con un fanale rosso a poppa ed uno bianco a prua. V’era gente, che cantava in coro, e si udivano le parole. Il ritornello diceva: «Tela lina molto fina che si mette ogni mattina la mia bella al suo levar... tutto quanto le darei per far come fai con lei, per saper quel che tu sai, per star dove tu le stai...» — Cantano... sono allegri! — disse Loretta con invidia. — Io non lo sono più. Egli riprese, come per ischerzo, la cantilena: «Tutto quanto le darei per far come fai con lei...» — Vanno a pesca? — domandò Loretta. — Forse vanno solo per cantare. Quand’erano soli, quando faceva un po’ scuro, quando si toccavano, l’interiore fantasma s’impossessava del loro turbamento. Era un male che cominciava col desiderio d’un bacio, e passava dall’uno all’altra, come una catena che stringesse le loro carni fraterne; poi girava, s’attorcigliava in serratissimi nodi, fino a curvarli entrambi sotto l’oppressione del suo peso. Ella sentiva il bisogno di abbandonarsi nelle sue braccia, egli provava con iracondia la tentazione di afferrarla e stringerla fino al dolore; ma in entrambi, anche in lei che si offriva, era una invincibile paura. Una paura gelida, radicata nell’essere, una paura che li attraeva diversamente e diversamente li separava. Eran come due sitibondi, legati presso la medesima fontana, così che potesser tender le labbra sino ad un pòllice dall’acqua, fin a sentirne la chiara freschezza e respirarne l’umidità, ma senza riuscire ad intingervi le labbra, mai. Tra la lor sete e la fontana c’era quel póllice di spazio che non li lasciava bere. — Vorrei che un uomo potesse dirmi perchè mai ti ho dovuto amare! — esclamò Arrigo. — Vorrei me lo dicesse un uomo che conosca tutte le anime e tutti i peccati, un prete per esempio. Ma io non oso confessarmi di questo peccato. E poi, che serve? Anch’essi non san nulla; nessuno sa nulla di tutto ciò. Questo accenno religioso della confessione spaventò la fanciulla, come se, d’improvviso, l’abito nero del sacerdote, l’ombra dell’intercolunio, le mistiche nuvole dell’incenso, l’alito caldo che passa per la grata con il bisbiglio delle parole colpevoli, e la rampogna, e la condanna, e la minaccia di penitenze perpetue, le componessero nel cuore sbigottito l’immagine del suo peccato mortale. — Perchè dici queste parole così nere? — domandò. E si strinse a lui, più vicina, quasi per trovare in lui un rifugio. La barca dei cantori lontanava nella sera lunare, e fievole si udiva di tratto in tratto il ritornello giocondo: «Tela lina molto fina che si mette ogni mattina...» — Hai pensato, — egli riprese, — hai pensato a quello che avverrebbe se avessi una volta il coraggio, il terribile coraggio che mi è mancato finora? — Due cose ho pensato: o che tu non mi ami veramente, o che il tuo cervello è malato. Se la nostra felicità è in noi, perchè dobbiamo spaventarla con tante riflessioni? Tu mi comúnichi a poco a poco il tuo male. Quando, per la prima volta, mi agitò questo immenso desiderio, súbito avrei voluto esser tua. Guardare più in là mi sembrava inutile, mi sembra inutile ancora. — Ma, dimmi, — egli fece; — tu che parli con tanta leggerezza, conosci dunque il valore dell’offerta che mi fai? Comprendi cosa vuol dire questa frase che ripeti senza sgomento: «Essere tua?» Comprendi che ciò significa regalare, sacrificare a me tutta la tua vita? Ella parve maravigliarsi di queste parole; ma tuttavia rispose a fior di labbro, senza convincimento: — Sì, certo, lo comprendo. — No, Lora, — egli corresse con indulgenza, — tu non lo comprendi. Verrebbe inevitabilmente un giorno, e forse non troppo lontano, nel quale diresti a tuo fratello: «Réndimi ora la mia vita, perch’essa è mia, e voglio viverla.» Ma pensi che allora io potrei cederti ad un altro? Pensi che, dopo un delitto come questo, si possa tranquillamente ricominciare la strada per la quale si andava prima? Tu sì, forse, perchè hai vent’anni ed un cuore spensierato. Ma io? Dimmi, che farei allora? Conosci la gelosia? Conosci quell’altro tormento, più grande, che si chiama il rimorso? Vedi: c’è fra noi una differenza fondamentale: tu mi ami perchè puoi dimenticare, perchè non conosci, e quasi non sai che sono tuo fratello... invece io ti amo appunto, e più disperatamente, perchè so, perchè so con profonda paura, che sei la mia sorella.... A testa china, guardando l’acqua insidiosa, che scintillava come una buia stoffa intessuta con fili d’argento e produceva un rumore appena sensibile urtando contro il muro della darsena, ella parve meditasse profondamente il senso di quelle parole. — No, Rigo!... — esclamò d’un tratto, afferrandosi al suo braccio con una forza convulsa, — no! tu non sei mio fratello. Non ho mai pensato per un attimo che tu fossi mio fratello. Mi piaci, e nello stare con te sento che mi desideri come un vero amante. Préndimi!... fa di me quello che vuoi, per un’ora o per sempre, fin quando sarò bella e mi troverà bella il tuo amore... Non senti? Sono tutta profumata come un fascio di rose... Préndimi!... stríngimi fra le tue braccia, come se fossi un gran fascio di rose... Ma ridi! ridi!... perchè non posso più vederti così buio... Ridi ancora una volta... ridi! La barca ripassava di lontano e si udiva cantare: «Tutto quanto le darei per far come fai con lei...» XIV — Sali e spógliati, Lora — egli le aveva detto a piè dell’ascensore, forse perchè temeva di affrettare quella imminente ora notturna. — Córicati presto e riposa bene. — Ma tu non sali? — domandò ella indugiando. — Sì, fra poco. Ancora non ho sonno; rimango a fumare un’altra sigaretta. — Io pure non ho sonno... — ella fece. Ma egli la persuase con dolcezza: — Domani faremo una gita, bisognerà levarci di buon’ora. Va e dormi. Egli rimase a camminare nell’atrio lungamente, poi scese di nuovo nel giardino, tornò verso il lago. Vide la camera illuminata sul terrazzo del primo piano; quella intensa luce lo affascinava, distogliendolo da ogni altro pensiero. — Lora si spoglia, — pensò. E vide gli abiti che si toglieva, ne sentì l’odore. Le sue braccia lo tormentavano, il petto che le usciva dalla camicia di batista gli sbocciò nel pensiero come un mazzo di fresche rose; i suoi piedini ancor calzati, li vide che andavano qua e là, per la camera, con quella irrequietezza or pigra or frettolosa della donna che si spoglia. — E adesso Lora si péttina, — pensò. E intese il crepitìo del pettine di tartaruga nella treccia disciolta. L’odore di quei capelli empì l’aria per dov’egli passava. La vide curva sul catino a rinfrescarsi la faccia; immaginò che per una sua civetteria feminea s’incipriasse tutta, prima di coricarsi. Quell’odor morbido della cipria e della sua pelle profumata, commisto insieme, gli alitò sotto le narici come una cosa viva. Ed egli la vide sedersi vicino al letto, stirarsi un poco nella pigrizia, nella delizia dell’imminente riposo, accavallare una gamba su l’altra per togliersi la scarpina, lasciarla cadere su lo scendiletto, poi farsi scorrere lentamente, giù dal polpaccio, la finissima calza nera, ed il piccolo piede uscirne, polito come un gioiello d’avorio, inquieto nella sua forma sottile, nervoso come una mano. Indugiare un poco a togliersi parimenti l’altra scarpina, l’altra calza, guardarsi intorno con quello sguardo svogliato di colei che non vorrebbe dormir sola, poi levarsi, prendere di su la coltre una bella camicia tutta pizzi e nastrini, prepararla con qualche movimento carezzevole, slacciarsi quella che portava indosso e lasciarla scivolare giù, come una guaina, con un sorriso lento.... Si andava per l’ultima volta a guardar nello specchio, poi si coricava. Egli si raffigurò queste cose minutamente, angosciosamente, come alcuno che bevesse a piccoli sorsi un veleno soavissimo. La tepida notte lo fasciava di profumi troppo forti; un indefinibile silenzio pieno d’agitazioni pendeva tra cielo e terra; la nascosta vita notturna si moltiplicava intorno a lui, nell’ebbro giardino. Traverso il fogliame degli alberi guardava con una specie di stupefazione quella finestra illuminata, sul terrazzo del primo piano. D’un tratto, non potè più resistere a quelle visioni, traversò il giardino in fretta, e salì. Ella era uscita sul terrazzo deserto, s’era stesa pigramente nella poltrona a sdraio, ed or l’aspettava, guardando nel miracolo della notte, ove tremava con una specie di furiosa intensità la magnificenza delle stelle. — Che fai lì fuori? Non ti sei dunque coricata? Un po’ ebbra di stelle, di silenzio e d’amore, tese a lui le due braccia senza rispondere. — Perchè non ti spogli? — domandò egli ancora. — Aspettavo te, — ella rispose con una voce lenta, un po’ velata. Il lieve alito notturno era passato fra i suoi capelli; nel suo viso batteva la bianchezza del raggio lunare. — Fa umido la sera, — egli osservò; — non rimaner fuori troppo a lungo. Poi, volgendosi con rapidità: — Ora è tardi, — le disse; — dormi bene. Addio. — Rigo... — ella profferì a bassa voce, quasi fosse ancora sperduta nel sogno. E v’era un poco d’ebrietà nella sua femminile indolenza, ne’ suoi modi ambigui, nella voce con cui lo chiamava. — Rigo, vieni qui: siéditi. Gli fece un piccolo posto accanto a sè. Egli ubbidì silenziosamente. Il calore di quel dolce corpo gli si propagò nelle vene come un piacere avvelenato e lentissimo. Stava curvo sopra il suo volto; le mani della fanciulla gli carezzavano i capelli, la fronte. Allora ella si mise a parlargli piano, facendo lunghe pause, con trepidazione. — Non devi lasciarmi sola... Questa notte più che mai sento il bisogno di esserti vicina, molto vicina, perchè sarebbe una vera malinconia mettere una parete, chiudere un uscio, fra me e te... Non vedi che notte magnifica? C’è un odore di gelsomini che vola per l’aria come una polvere ubbriacante. Poi mi sento piena di torpore, questa notte... Báciami!... Ho le mani calde, senti... Mi fanno male... Brúciano. Voglio rimaner qui tutta la notte, a parlarti, a carezzarti, piuttosto che rimaner sola. Cacciava le dita ne’ suoi folti capelli, come alle volte si fa, nelle pellicce tepide, l’inverno. E continuava: — Là, nel giardino, m’hai dette cose talmente gravi, che ne sono turbata; vorrei piangere, ma in fondo al mio cuore v’è una gioia che ride, una specie di speranza inesprimibile... Non lasciarmi sola. Od anche mi piacerebbe fare una cosa che non ho fatta mai: venire nel tuo letto, addormentarmi vicino a te... Báciami! E poi dimmi qualcosa di veramente pericoloso... Anche una parola innocente, se non vuoi dirmi altro... Ti amo, e sola non potrò dormire... perchè ho voglia che tu mi baci. Senti come la mia bocca è innamorata... Bàciami! Sono tua... tua... préndimi! Non desidero altro che soffrire di te... per te... Fammi un po’ male... dammi un bacio, uno solo, senza fine.. chínati... Queste parole, dette vicino alla sua bocca, lo addormentavan come la musica d’un soave malefizio, fasciavan i suoi sensi dolorosi d’un ineffabile ristoro, e chiudendo gli occhi egli s’irrigidiva per ascoltarla. Su la sua carne fredda passava un gran brivido di piacere; una consumazione insensibile, uno struggimento senza fine si propagava in lui, sotto la carezza di quella voce. Ella disse ancora, snervata, spossata: — Guarda: chiudo gli occhi... dormo. Chínati un poco, báciami!... ho tanto sonno... ti amo. Sii dolce con me... Ascolta: non c’è rumore, nessuno ci guarda... báciami! Come un pazzo egli le baciò la bocca, la fronte, le tempie, il collo, i polsi, le mani, con un roco ansito nella gola soffocata, e la baciò per tutta la sua carne profumata finchè il respiro gli venne meno. Poi si levò scapigliato, si sciolse da lei che lo teneva, la ricacciò con violenza sui cuscini, corse nella sua propria camera, vi si chiuse. Ella dette un piccolo grido, e vibrante com’era sotto il flagello di quei baci, ruppe in un convulso di lacrime, poi restò per qualche attimo quasi priva di vita. La mezza luna saliva sopra le montagne, alta, limpida, lontana dalle stelle. Egli si buttò sul letto, mordendo i cuscini, aggrappandosi alle coltri, per dominare il tumulto che dentro lo schiantava, e non udir quella voce sommessa che dietro l’uscio lo supplicava, e non guardar più oltre nella terribile possibilità di quell’ora. La notte s’inoltrava, limpida, quasi tremante, verso i culmini del suo glorioso fulgore, disseminando nella curva dell’infinito una più grande magnificenza di stelle. Il lago, le rive, abitate dall’ombre notturne, invase dall’ambiguità del silenzio, si vestivan di bianchi splendori nell’incantesimo della notte. Trascorse un tempo che a lui parve infinito, poi gli sembrò di comprendere ch’ell’avesse cominciato a svestirsi. Non più intese per il pavimento il rumore de’ suoi tacchi sottili, ma il camminar soffice di due pianelle che andassero frettolose; allora ebbe la tentazione d’accostarsi all’uscio interno, che li divideva, e mettersi ad ascoltare. Ma subitamente invece la porta verso il corridoio s’aperse, ed ella entrò. Era in vestaglia, paurosa, pallida, e ristette sul limitare. Egli balzò giù dal letto, rimase attonito a guardarla. — Che vuoi?... — balbettò con voce soffocata. — Nulla, — rispose. Lo guardò. Negli occhi alterati aveva una luce insolita; l’espressione di quel viso era singolarmente mutata. Qualcosa di aspro e di selvaggio era pure in lei, nella sua bocca per solito così ridente. — Non dormirai stanotte? — No. Allora il fratello si mise a camminare cupamente per la camera, senza passarle vicino, come se meditasse contro lei qualche orribile cosa. Ma rapidamente aperse la finestra ed uscì sul terrazzo. Roteavano tutte le stelle, per l’immensità piena di tremito, come un turbine di coriandoli d’oro. Ella, furtiva, gli scivolò appresso, così leggera che non la udì, e gli si appese al collo. Non aveva più busto, non aveva più che una vestaglia quasi diafana, che mal nascondeva la camicia ricolma e la gonnella corta; il suo corpo gli si fasciava intorno alla persona come una morbida sciarpa di seta si fascia, nel vento, intorno al collo che la porta. Le si disfecero anche i capelli, ch’eran tenuti da un pettine solo, e, senza cadere del tutto, gonfi e morbidi le ingombrarono la nuca. Dolorosamente, amaramente, le loro bocche si congiunsero. Ella sentì così vicino lo spasimo della dedizione che s’attorcigliò a lui come un’edera, gli si avvinse intorno come un nodo. La polvere di gelsomino volava in alto a vampate, ondeggiava per l’aria soffice, divampava dall’aperto giardino come un incenso invisibile: ogni cosa per intorno pareva esser pregna di quest’odore possente. Una fontana sola dominava il silenzio della notte, lanciando i suoi fili d’argento nell’intrico dei rami frondosi, dove, ad intervalli, un’ombra si mutava subitamente in splendore. Tutto quanto avevano sofferto, patito, rifiutato al proprio desiderio colpevole, si disperdeva come un fumo di sterpi nella vertigine di quell’ora. Nulla più li divideva, se non il terrore di quella immensa gioia; l’indugio stesso che frammettevano al loro peccato era un peccato infinitamente più grande. Ella si perdeva, ridendo e singhiozzando, sotto le sue carezze molteplici; nella gola turgida le saliva già il grido felice di quel vertiginoso dolore. Ebbro di averla toccata, egli la sollevò nelle braccia, ed il suo peso non gli fece compiere che uno sforzo lieve. Aperse l’uscio serrato, la portò nella sua camera. Il pettine che le ratteneva i capelli, cadde sul pavimento, rimbalzò; le belle trecce le si diffusero per le spalle seminude, mentre si teneva strettamente al suo collo formando con le braccia avvinte una forte catena. I suoi piedini gli battevano contro le ginocchia, nel camminare. L’adagiò sul letto, e, curvatosi, immerse la bocca nel tepore della sua gola palpitante, mentre la vedeva contorcersi e tremare di sofferenza, quanto più, nel delirio, con le sue disperate labbra egli la baciava. Allora strappò i vestiti da sè, da lei, furiosamente. Si sentiva rombar nelle tempie l’urlo della notte infinita; perdeva la conoscenza d’ogni altra cosa che non fosse quella carne viva. E la freschezza della coltre li raccolse in un sol nodo convulso, li strinse, bocca su bocca, in un terribile disperato piacere... . . . . . . . Nel suo letto insonne di vergine ell’aveva imparato l’amore; nelle origini stesse della sua vita un oscuro istinto l’aveva irrimediabilmente condannata a peccare; il suo grembo di donna la condannava ad essere un delizioso e temibile strumento di voluttà. Era inconsapevolmente lasciva; tutti i peccati della carne possedevano già il suo corpo intatto. Gli dava da bere il suo fiato, lo soffocava ne’ suoi capelli, si raccoglieva i seni come due bei grappoli maturi e li offriva crudelmente alla sua bocca, perchè ne godesse il sapore; si torceva con agile furia, battendo insieme le ginocchia nell’impazienza dello spasimo da cui voleva sentirsi ferire. Ma in quell’attimo, dalle radici più vive dell’essere, un male opaco, denso come fumo, greve come piombo, traboccò nelle sue vene, pervase il più profondo gorgo della sua vita, la ruppe nelle giunture, le si strinse intorno alla gola come un capestro soffocante. Ed in quel male torbido, così vicino all’urlo del piacere, tutto l’odio virgineo che portava nel grembo inconsapevole si ribellò nell’attimo della dedizione. Con le sue mani, ch’eran state lascive, cercò di respingerlo, di afferrarlo, serrando la sua gola, torcendo la sua bocca umida, graffiandolo nel viso; e mentre pativa il bisogno di sentir infranta per sempre la disperata sua verginità, d’un tratto le forze l’abbandonarono, la vita le sfuggì dalle vene con un lievissimo grido. Allora egli vide subitamente in quella faccia svenuta, come nella trasparenza d’un’acqua ferma, salir la faccia grave del lor padre taciturno, aprire su quelle palpebre chiuse i suoi dolorosi occhi pallidi, scavare in quelle piane tempie le fosse delle sue tempie senili, e vide nella faccia della sorella svenuta le scarne fattezze di lui, la fronte carica d’anni, l’amara bocca dalle labbra esangui, che si movevano per maledirlo... Un abominevole terrore lo colse; di nuovo il cilicio della colpa non consumata lo ferì nella carne, fin nell’anima, con più irte spine. Balzò indietro, come di fronte ad un fantasma, e perdutamente fuggì. Passava la notte glauca per il cielo della prima estate; le stelle splendevano così vicino alle finestre, che pareva, stendendo una mano, di poterle quasi toccare... La mattina dopo si guardaron in faccia, lividi, come se avessero commesso un delitto. A lei dolevano tutte le membra; i nervi esasperati le vibravano come funi troppo tese; le alitava intorno alle narici un profumo voluttuoso di baci. E sentiva solamente il bisogno di giacer supina, fra le carezze di quell’amante che amava, e dargli tutta sè stessa come una coppa traboccante, e soffrire da lui quel maraviglioso dolore, ch’egli le aveva crudelmente risparmiato. Pur affranta com’era, le pareva che mai le sue vene si fossero sentite così gonfie di vita, che mai l’urto del suo sangue le avesse portato al cervello una più torbida voluttà. Sentiva un bisogno quasi malato di tornargli vicino, di accarezzarlo con tutto il suo corpo, con tutta l’anima sua, poich’egli portava in sè il piacere inebbriante, e si sarebbe inginocchiata con umiltà pur di goderne ancora la struggente inquietudine. Ma nella faccia di lui, devastata e folle, non era che una enorme paura. La paura di quegli occhi pallidi che lo avevano guardato, la notte, d’improvviso, fra i baci. E rivedeva la faccia grave del lor padre taciturno, la senile bocca maledicente, su cui s’era trovato curvo nell’attimo estremo, quando stava per impadronirsi di lei. Già, per ogni angolo, sovr’ogni cosa, rivedeva quella immagine, velata di silenzio e di malinconia. Era il fantasma che andava insieme col suo peccato, che gliene avrebbe ora e per sempre impedita la consumazione. Tra lui e lei c’era lo sguardo di quegli occhi pallidi; nella vampa stessa del suo desiderio quell’ombra passava come una fredda minaccia. Su la bella bocca profanata vedeva rinascere la memoria, il segno quasi, dei loro baci; ma quando più la tentazione attanagliava il suo cuor maledetto, ecco fra loro lo spettro paterno, la sinistra pallida faccia che appariva nel viso di lei. Allora capì d’essere dannato, capì che uno spavento inesorabile ormai dominava il suo spirito, e lo piegava, e lo teneva prigioniero, trascinandolo, quasi alla catena, come un cane sitibondo lungo la riva d’un fiume. Comprese di non essere più padrone della propria volontà e di non potere nè ribellarsi nè ubbidire a sè medesimo, poichè fra lui ed il suo amore c’era tutta la potenza di quella legge umana che le più forti anime talvolta non riescono a sovvertire, c’era lo sgominio invincibile del peccato che in tutti i tempi era stato maledetto, c’eran le oscure leggi della procreazione e del sangue, c’era la forza terribile delle parole, che vieta di chiamare amante una sorella e vieta che il nostro desiderio si fermi sul limitare della casa dov’ebbimo la culla, dove arde la fiamma inviolabile del focolare, dove siede il nume domestico a tutela della perpetua famiglia. Comprese pure d’essere un debole, cui facevano paura le grandi anomalie della vita, un timido, che preferiva languire sotto il flagello del suo male anzichè impadronirsi d’una spietata felicità. Solamente una grande anima può essere capace d’un grande peccato ed è molte volte più facile riscattarsi nel terrore della colpa, che affrontarne con tutto l’animo la tragica bellezza. Per concedere al proprio desiderio quella stupenda e orrenda libertà, che non riconosce divieti, bisogna disprezzare infinitamente gli uomini e tutto ciò che ubbidisce a pregiudizi umani. Ma egli non era che la vittima del suo fenomeno d’amore, nè sapeva in alcuna guisa divenirne il padrone. Aveva guardato infatti con occhi temerari verso le cime ove spazia l’anima dei veri sovvertitori; ma forse gli mancava quella coscienza dell’individuale arbitrio che sola poteva uguagliare il suo coraggio alla temerità del volo: una legge fortuita aveva imprigionato in quest’uomo mediocre l’amore d’un dio. E però tentava liberarsene con ogni potere della sua volontà, riconoscendosi pieno di umili paure davanti alla fiamma di una così grande passione. Ma colui che dice a sè stesso: «Diméntica!» — non fa che insidiar la sua colpa con una tentazione più forte, non fa che avvelenare il proprio desiderio con l’attesa di una più grande voluttà. Egli aveva passata la notte insonne a ragionar con sè stesso, a prevedere ogni possibile conseguenza, e n’era uscito con un proposito fermo: quello di allontanarsi dalla sorella, di non più rimanere un istante vicino a lei, perchè solo nella fuga, nella lontananza, nel tempo, egli ancora vedeva una remota salvezza. Le andò presso, le parlò come non aveva mai parlato ad alcuna creatura del mondo, tanta era la dolcezza che traboccava dalle sue parole. Disse d’aver pensato a sè stesso ed a lei, a lei sopra tutto, e d’aver compreso che stavano per prepararsi entrambi, con le lor proprie mani, una irremediabile rovina. Ch’ella era giovine, e doveva pur vivere, mentr’egli non avrebbe mai consentito a dividerla con chicchessia. E nessuna illusione le facesse velo. Oggi, forse, la sua gioia più grande consisteva per lei nel sacrificio di sè stessa, ma inevitabilmente verrebbe un giorno, e forse non lontano, in cui se ne sarebbe troppo tardi pentita. Infatti, quante aspirazioni, quante impazienze già non tormentavano la sua fervida giovinezza! Poich’ella era una bambina di vent’anni, ed a vent’anni l’amore, anche un’amore così torbido, non può essere che una ventata sentimentale, un soffio di perverso ardore, che sfuma e passa e non lascia memoria di sè... Poi, a lungo andare, nulla si può nascondere. La gente, prima o poi, se ne sarebbe avveduta. E allora?... Si sentiva ella il coraggio di subire apertamente una tale vergogna? Li avrebbero tutti esecrati, fuggiti come due cani lebbrosi, come due stregati, e non sarebbe rimasta per loro nè famiglia, nè amici, nè avvenire, nè pace, nè alcuno di que’ conforti umani che pur son necessari ad ogni creatura. Inoltre non eran ricchi, e bisognava quindi che, ognuno per la propria strada, provvedessero all’avvenire, visto ch’entrambi s’eran scelta una via diversa da quella ch’era segnata nel lor destino. Ricchi forse, molto ricchi, avrebbero potuto fuggire in un paese dove nessuno li conoscesse nè potesse conoscerli mai, e là dimenticare ch’eran nati dalla stessa madre, dallo stesso padre, per solo ricordarsi che si amavano. Ma se pure questo fosse, avrebbero mai trovato pace nella lor propria coscienza? «Ricórdati! — egli le diceva; — tutto si può far tacere, tranne la voce inesorabile che si alza dall’intimo del nostro cuore. Ed il rimorso, vedi, è il nemico più terribile fra quanti ci riserba la vita.» Non solo; ma se un figlio nascesse dal lor peccato? se mai dessero al mondo una creatura così maledetta fin dall’origine? se di lor due, fratello e sorella, si generasse una creatura infamata, esclusa da tutte le leggi umane, che li avrebbe fatti tremare ogniqualvolta pronunziasse con la sua bocca infantile quelle prime parole che si balbettano: «mamma, papà...» Aveva mai pensato a tutto questo, lei? No certamente; perch’era giovine ancora, inesperta d’ogni pericolo, e si lasciava prendere senza riflessione dalla follìa del suo amore, ch’era solamente «il suo primo amore...» Anche per lui era il primo, il solo, veramente l’unico. Ed ella ne sarebbe certo guarita; egli no. Egli avrebbe fatto il possibile per dimenticare, ma tutto questo non avrebbe servito che a mescergli nelle vene più profondamente il suo velenoso male. Per lei, senza dubbio, non era che un capriccio lieve, una folata di vento, un’ondata impetuosa di calore ne’ suoi freschi vent’anni... Oh, non dicesse di no! Egli lo sapeva bene, e questa era forse la sua tortura più grande. Ma egli era invece un uomo già maturo, ed anzi, un uomo rimasto fino allora insensibile a tutte le passioni; cosicchè gli si era scatenata nell’anima una buia tempesta, una di quelle tempeste che travolgono e distruggono intera una vita. Per quanto lottasse con ogni sua forza, ormai non v’era più scampo; in lui era entrato subitamente un altr’uomo, ben diverso da quello ch’egli era stato fino allora; la sua mente, il suo cuore, i suoi sensi, tutto era mutato. La sua libera gioventù si era incatenata il giorno ch’egli aveva cominciato ad amarla, ed ormai viveva come sotto la magìa d’un sortilegio, non sapeva più dominarsi, era uscito di sè. Bisognava che s’armasse di tutta la sua forza per non trascinare anche lei nella propria rovina, bisognava che le volesse un bene infinito, più che amore, un’adorazione senza limiti, per venire a dirle quel che le diceva: — «Parto, fuggo, non mi vedrai più. Devo starti lontano a costo di morirne, devo rinunziare a te perchè tu sia felice più tardi. Devo trovare nelle mie forze umane la forza spietata di non prenderti, e andarmene, solo, a rifugiarmi chissà dove, io che ti amo, io che non vivo un momento senza pensare a te, io, che dovunque vada, porterò nei sensi e nell’anima la tua memoria, più viva e più terribile di te... Poi, non è tutto. Sei difesa, vigilata; c’è tuo padre, nostro padre, che ti difende. Ogni volta che le mie labbra volessero baciarti, ora lo vedrei. Stanotte, quand’eravamo insieme, quand’eri quasi mia, d’un tratto egli è venuto, l’ho visto. Era lì, fra me e te, che mi guardava con i suoi occhi fermi. La sua faccia si è confusa nella tua faccia. Ho inteso che nostro padre ci malediva. Ed ora il suo fantasma non mi abbandona più. Comprendi, Loretta, comprendi che ne impazzirei?... «Solo ti domando una cosa: abbi pietà di me. Non far nulla per trattenermi, non piangere, non ripetere che avresti voluto esser mia. Invece tu devi odiarmi, perchè questo amore che ho per te, ricórdati! è una cosa orrenda. Fa quello che vuoi: tornatene a casa, o rimani, o va dove sarai felice. Ma non dimenticare che un uomo fugge, butta fuori dalla vita il suo cuore morto, per salvare te, unicamente per salvare dalla rovina la sua sorella che amava... «Più tardi, quando sarai donna, pensa che se la mia colpa fu grande ho anche lottato quanto un uomo può lottare per ribellarmi a questa colpa. E tu non dirmi niente, Lora... non mi cercare mai più. Parto súbito, stamane, fra un’ora...» E partì. * * * * * I Ella rimase in quell’albergo due giorni, sperduta, nell’inerzia, nello stupore, nello smarrimento. Quello che succedeva era nuovo, inatteso, per lei. La rivelazione di questo amor disperato, l’apparenza tragica di questa passione, da prima le dette un senso di dolorosa maraviglia. Ella non intendeva l’amore a questo modo; per lei l’amore non poteva essere che un viluppo romantico di sensazioni tristi e gaie, di parole che vengono alle labbra per tramutarsi in un bacio, di curiosità insoddisfatte, d’aspirazioni veementi verso una contentezza fisica da lei non conosciuta. Per lei dunque l’amore doveva essere una cosa gioconda. Ella non era che una piccola vespa, leggera, volubile, pungente: provava un senso di malessere davanti a questo amore così tragico. S’era invaghita del fratello, ma senza trovarvi un benchè minimo sapor d’incesto; lo aveva infatti amato per istinto, senza pensare al suo nome, senza nemmeno accorgersi di violare un sacro divieto. L’aveva incontrato, quando, nel suo grembo d’amante voluttuoso ed ancor suggellato, ella provava un bisogno di dedizione invincibile, avvolto nelle oscure lascivie che tormentano il fuoco della verginità. Aveva da lui subíta la prima tentazione, per lui s’era sentita nascere nel sangue la prima ed oscura inquietudine dell’amore; il suo grembo di vergine, così, non altrimenti, lo amava. Ella era tanto semplice e tanto perversa insieme, che poteva sentire puramente un amore incestuoso; il male stava così nascosto in lei ch’ella non sapeva d’esserne contaminata. L’uomo, che ne’ suoi atti è sovente un impulsivo, ama nondimeno interrogarsi, discutere le sue proprie passioni; la donna, che invece ha per natura uno spirito riflessivo, quando una forte passione l’avvince non discute più e lascia che il proprio desiderio vi si abbandoni senza ombra di paura. Nessuna cosa è per lei tanto piacevole quanto il sottrarsi al dominio della propria volontà, mentre è sempre con un grande rammarico che noi rinunziamo al potere di noi stessi. In que’ due giorni ella fu malata; languì sotto il peso di una sofferenza opprimente, che le serpeggiava per tutto il corpo, sfibrandola. Od erano invece improvvise accensioni, repentine vampe, tremiti freddi e ardenti, scoppi di lacrime ch’ella non sapeva reprimere; la notte sopra tutto, nell’incubo del dormiveglia, le avveniva di balzar dalla coltre, madida di sudore, convulsa, vedendo insane immagini accendersi nell’oscurità. Allora con la voce dell’anima chiamava il suo fratello scomparso. Poi tornò a casa. Disse che Arrigo l’aveva ricondotta, ed era súbito ripartito per continuare il viaggio da solo. Ma il pronunziar quel nome le faceva male, il pensare a lui la colmava d’un singolare spavento. Dov’era? che faceva? perchè fuggire? perchè lasciarla sola, dopo che insieme erano stati così presso alla felicità? Quando sarebbe tornato?... Forse mai. Le pareva che non lo avrebbe riveduto mai. Ed in tutto il suo corpo rimaneva un bisogno imperioso ch’egli tornasse, per carezzarla, per baciarla, per parlarle ancora una volta con quella sua voce torbida e singolarmente voluttuosa. Un giorno, per curiosità o per noia, non sapendo che fare, non sapendo con qual mezzo distrarre il suo snervamento, pensò di recarsi alla Posta per vedere se, caso mai, ci fosse qualche lettera di Rafa. Non una ne trovò, ma un fascio; lettere che tutte, con ardenti parole, affrettavano il suo ritorno e la supplicavan di scrivergli non appena tornata. Ella non voleva più curarsi di lui, tanto era piena di tristezza e la vita le pareva inutile. Ma i giorni passavano e dal fratello non riceveva parola; più volte giunse fino alla sua casa ed immutabilmente la trovò chiusa. Egli non aveva nemmeno scritto a Filippo; nessuno poteva darle notizia di lui. Quante lacrime pianse, quanti giorni passò di attesa e di malinconia! Era malata: il suo corpo sfioriva. Ma ora una specie di rancore sordo le si levava nell’anima contro lo scomparso, che lontano da lei conduceva una vita ignota, forse gaia, dopo averla condotta su l’orlo del più dolce pericolo; un rancore fatto solo di voglie sensuali, che l’abbattevano sempre più, mettendole intorno agli occhi due grandi cerchi neri e nelle braccia e nelle ginocchia e per tutto l’essere una infinita stanchezza. Si doleva dell’amor perduto, ma insieme di tutte le speranze ch’eran morte con esso. Quei fratello doveva aprirle il cammino della vita, iniziarla per le secrete vie dell’amore, condurla piacevolmente verso il paradiso de’ suoi frivoli sogni. Ed ecco, era di nuovo sola, stretta nei vincoli che aveva desiderato spezzare, con il triste peso nell’anima d’una colpa non vinta nè consumata. Cos’eran quelle orribili parole ch’egli le aveva dette? Cos’era mai quella improvvisa tragedia nel loro sorridente amore? Spesso la memoria di quella faccia sconvolta le incuteva paura; il pensiero stesso di quell’unica notte le riviveva nella mente come la sensazione d’un incubo angoscioso. Cominciò con pensare che, s’egli pure tornasse, non avrebbe più potuto stargli vicino senza tremarne, senza rivedergli nel viso livido la disperazione di quel mattino. Ed ora considerò anche il pericolo di cui egli le parlava, comprese lentamente l’orrore ch’egli le aveva dipinto, guardò nel precipizio sul quale non sapeva d’essersi chinata. Il suo lieve cuore ne fuggì via come una timida farfalla. Intanto avanzava la stagione calda, con certe lunghe snervanti giornate, che la opprimevano di malinconia. Per quell’estate imminente aveva pensato che la sua vita sarebbe ormai diversa, ed eccola invece di nuovo nella odiata bottega, tra i vincoli mediocri della sua famiglia, più malcontenta, più sola che mai. Passeggiava per lunghe ore, sfaccendata, nei parchi ombrosi, rammentandosi ad uno ad uno i suoi piccoli sogni. Si sentiva battere il cuore troppo giovine, aveva una gran voglia di ridere, e non poteva. Camminando, trovava qualche inseguitore; le dicevan cose provocanti, la tormentavano, chi per il suo bel collo nudo, chi per il suo piede fino. Andava oltre senza curarsi di alcuno. Ma ciò che non poteva tralasciare, per quanto fosse malinconica, era di fermarsi davanti alle modiste, con l’ombrellino poggiato su la spalla, un piede innanzi all’altro, in estasi. Che bei cappellini di paglia usavano quell’anno!... Qualchevolta le faceva pure invidia qualche lenta coppia d’innamorati che vedeva camminar sottobraccio per i viali dei giardini. Era il momento che i tigli fiorivano ed i lunghi rami dei lilla si sciorinavano sui prati. La sera, qualche finestra rischiarata le metteva un brivido nel cuore; qualche uomo, per la strada, nel passarle accanto, le faceva sentire il bisogno di stringersi tutta in sè stessa, come se l’avesse toccata; una musica la tormentava, un libro la snervava, e la notte fin tardi non poteva dormire. Un giorno incontrò Rafa. Ne divenne rossa fino alle radici de’ suoi capelli biondi. Voleva non fermarsi, ma egli le si mise appresso. Allora, per liberarsi da quell’inseguimento, su l’angolo d’una piazza, irresoluta, si fermò. Rafa le parve quel giorno più bello che nel tempo trascorso, e quand’egli la supplicò d’un convegno con le più calde parole che sapeva, quando le propose lì per lì d’entrare in una confetteria vicina, dove certo non sarebbero veduti, a ber qualcosa e discorrere un poco... senza sapere perchè ubbidisse, quel giorno Loretta lo seguì. Per inerzia, o perchè s’annoiava, o forse per una tentazione indefinibile, divenne con lui meno severa che per il passato. Ricominciarono a passeggiare luogo il viale solitario, verso la gabbia dei vecchi fagiani, a correre in automobile per i dintorni, a scendere nelle trattorie di campagna per bere il fresco vinetto biondo che una paesanella portava, con due larghi bicchieri, sopra un vassoio d’opaco stagno, pieno di ammaccature. Poi Rafa, con una lenta pazienza, la indusse ad altro. Trovarsi nei giardini, correre le strade maestre, scendere nei villaggi, poteva tuttavia essere un rischio per lei... Venisse per una breve ora nel suo piccolo appartamento: era una casa tranquilla, sicura, lontana dalle vie frequentate; si poteva, da un terrazzo del primo piano, sorvegliar la strada e nessuno l’avrebbe veduta entrarvi nè uscirne, mai. Avrebbero discorso in pace, lontani dalla gente curiosa, ed egli prometteva, giurava, di rispettarla, con tanto maggior scrupolo quanto più ella mostrasse d’aver fiducia in lui... Forse perchè lo voleva ella stessa, un giorno si lasciò persuadere. Nell’afa del caldo mese il pomeriggio abbagliante percoteva i tetti, le finestre delle case; pendeva su la città scintillante una rossa cupola di fuoco. Mentre saliva le scale, si rammentò quel tremore che aveva conosciuto le prime volte nel recarsi a trovare il fratello, e siccome il cuore le batteva troppo forte, sul pianerottolo si fermò a riprender fiato. Ma egli era dietro l’uscio e le venne incontro. — Cosa mi fate fare!... — esclamò Loretta, varcando la soglia. Nel buio dell’anticamera vide un trofeo d’antiche armi, e vide, a ridosso del muro, un lungo attaccapanni tappezzato d’un cuoio fosco. — Siete in casa vostra, — le rispose Rafa con un gesto ed un accento pieni di solenne galanteria, mentre non sapeva come nascondere la propria trepidazione. Grano cinque o sei camere, mobiliate con eleganza, piene di fiori quel giorno; camere taciturne, ambigue, pervase da una certa insidia, che pur tradivan nella squisita leggiadria dell’arredo quella particolare freddezza, quella imprecisabile vacuità, che nelle case degli scapoli grávita come un senso di continua disabitazione. Rafa le serbava di fatti per i suoi piaceri e solo qualchevolta vi dimorava nei mesi d’estate, quando la sua famiglia era in campagna. Benchè di cuore ingenuo, Rafa era per lunga esperienza un conoscitore di donne ed aveva, nel desiderarle, una rara e difficile virtù: la pazienza. Si era spesso trovato a debellare una caparbia onestà, un pudore astuto, sicchè non aveva mai rinunziato a credere che anche Loretta finirebbe tosto o tardi con cedere al suo piacere. Forse capiva ch’ella si sarebbe arresa piuttosto al suo denaro che a lui, ma Rafa era tra quegli uomini avveduti che non si perdono in queste distinzioni sottili. Era un po’ sazio d’amori galanti e trovava o noiosi o pericolosi gli amori dei salotti; era stanco pure di rincorrere le sartine per via, come un inseguitore stradaiolo, quando, nelle sere d’inverno, sciamano dai laboratori nelle contrade buie; stanco di adocchiare sui palcoscenici le mime e le ballerine, di cogliere quelle primizie che le mezzane della città presentavano a lui prima che a qualsiasi altro. Gli bisognava ora un’avventura più complessa e più rara, che potesse in ugual modo appagare i suoi sensi, la sua vanità e quel certo sentimento idillíaco non ancor deluso dalla sua inveterata abitudine di donnaiuolo. Cercava da lungo tempo un’amante, la quale fosse in tutto conforme a’ suoi gusti e lo potesse finalmente riposare da quella caccia infaticabile ch’egli dava ai piaceri fugaci. E Loretta era veramente colei che possedeva tutto il fascino, tutte le femminili attraenze ch’egli poteva desiderare nell’amante sognata; era fanciulla per di più, e la pericolosa delicatezza di questo pregio lo tentava sommamente, pur impaurendolo un poco. C’era un fratello di mezzo, ma non, egli supponeva, un fratello intrattabile. Poi, quanto maggiori fossero i rischi, tanto più grande lo allettava la tentazione. Aveva d’altronde provato a guarirsi di questo capriccio, ma non gli riusciva, e nemmeno era più nel caso di riflettere, perchè ormai s’era così fortemente invaghito della ragazza, che avrebbe corso qualsiasi pericolo pur di non rinunziare a lei. Di Loretta pensava che avesse una virtù irritante ma fragile: qualchevolta s’era persino chiesto se fosse davvero innocente, poichè, sopra tutto negli ultimi giorni, gli pareva di sentirla quanto mai debole contro la tentazione. Fra le quattro mura di una stanza non disperava di lei. Ed ecco, l’aveva nella sua casa, disarmata, sola, fra il gran silenzio di un pomeriggio soffocante; ecco gli stava di fronte, gli sorrideva, un po’ incerta, un po’ confusa. Oh, quante volte aveva immaginata quest’ora! Se ne sentiva commosso in modo singolare, si trovava impacciato, quasi timido, e non sapeva che dirle. Dopo un lungo indugio, la condusse a visitare la casa, parlandole con serietà, per non far nascere in lei alcun sospetto. Così le fece apprezzare un gran numero di quadri, di stampe, di gingilli, di fotografie. Passando per una stanza, intravvidero nell’altra un letto vasto, chiuso da una cortina. — Ebbene? — ella domandò, quando furon tornati nella sala e furon seduti l’uno di fronte all’altra, perplessi. Fuori divampava l’estate, con le sue fiumane di luce, co’ suoi roghi di splendore; lì nella profonda sala, dietro le persiane chiuse, dietro le stuoie calate, alitava una freschezza riposante. Allora egli prese una sua mano, e lentamente, con una specie d’insidia, la carezzò. — È strano, — disse, — ma tu m’intimidisci. Ho sempre avuta una certa paura di te. Su la tua bocca vedo così spesso una specie di derisione... — Davvero? Che bizzarrìa! — Del resto hai ragione: mi devi trovare quasi grottesco. Gli uomini innamorati sono molto spesso ridicoli. — E le donne? — ella fece. — Le donne, io credo, non lo sono quasi mai. — Che? grottesche? — No, innamorate. — Ah, non saprei... Ma certo lo confessano più raramente. — Dimmi, — egli riprese con calore, — dimmi che verrai spesso, che verrai ogni giorno... Io ti voglio vedere ogni giorno! Siamo talmente al sicuro qui... — Ho sete, — ella rispose. Rafa le portò a bere un’aranciata così fresca, che appannava il cristallo della caraffa; poi bevve a sua volta, nel medesimo bicchiere. — Gli altri anni, a quest’ora, sono già in campagna, — disse Rafa. — Il caldo mi fa male. Però quest’anno mi è impossibile partire; l’idea di non vederti più mi riesce insopportabile. Ma tu cosa pensi fare durante l’estate? — Ancora non so nulla; non dipende da me. — E da chi dipende? — Forse da’ miei genitori, forse... — aggiunse con esitazione, — da mio fratello. — E non da me in ogni modo? — Da voi? come da voi? — M’hai detto una volta, nel parlarmi d’altre cose: «La mia famiglia m’annoia; verrà forse un giorno nel quale sarò libera, interamente libera, perchè voglio cantare.» Ti ricordi d’avermi detto questo? — Si, me ne ricordo, e ripeto: Verrà un giorno, forse prossimo, nel quale sarò libera. — Ecco, e pensando a quel giorno, io pure ho fatto un sogno... ma così bello che non oso dirtelo. — I sogni... — ella scherzò, — i sogni han questo di buono, che servono a raccontare le cose troppo difficili a dirsi. — Hai ragione, Loretta, — egli ammise. — Dunque, un sogno. Ch’io ti prendessi una villetta, non troppo lontana da Villa Giuliani, piccola, per te sola. Una villetta nascosta, con un bel giardino, un frutteto, una scuderia. Saresti libera, nessuno saprebbe chi sei. Qualche volta, per non rimaner sola, mi apriresti il cancello. — Ah... ed è questo il sogno? — Sì, è questo. Ella riflettè un momento, poi disse: — Continua. — Che vuol dire? — Dopo l’estate... — Ebbene, dopo l’estate potrai scegliere come ti piacerà. Nell’autunno, per esempio, un bel viaggio, una piccola fuga, in automobile, se vuoi, anche all’estero, se vuoi... E d’inverno la tua casa in città, una dama di compagnia per salvare le apparenze, una maestra che t’insegni il canto. — E di primavera, — ella esclamò, tuttavia tentata, — siccome l’anno rifiorisce, al posto di Lora se ne mette un’altra, e tutto ricomincia: la stessa villa, il viaggio, la casa di città... No, grazie! — Un’altra? Ma cosa dici? Non hai compreso ancora che ti amo, che ti amo da lunghi mesi, ogni giorno più forte? che mi puoi far ubbidire come un bambino, e tu sola, tu sola, devi ridarmi la pace che non ho più?... Un’altra? Questa parola non ha senso! Ma, ragiona un momento. Credi che non sappia a quali rischi vado incontro facendoti questa proposta? Ebbene, che m’importa? Non voglio, non posso più riflettere! Nessun pericolo mi fa paura. Solo dimmi di sì! Domándami quello che vuoi, ma dimmi di sì! — Non domando nulla, — ella fece, pentita di lasciarsi vedere così previdente. — Allora senti, ascóltami... — E s’inginocchiò davanti alla sua poltrona, la ricinse con le braccia. — Che fai? che fai? — Nulla; ti prego in ginocchio. Vóglimi un poco di bene, sii una volta buona con me! Così a ginocchi, proteso verso lei nell’ardore del suo desiderio, con gli occhi appassionati, la voce supplichevole, Rafa era quasi bello, ed ella lo guardò. — Via, lasciami stare... — ella fece, con una certa molestia. Egli la teneva stretta per la cintura, e pesandole un poco addosso, le copriva l’abito, i polsi, di baci minuti. — Quante amanti hai fatto sedere su questa poltrona? — ella domandò subitamente. — Quante? Nessuna. — Eh, via! Te lo domando per curiosità. — Forse — diss’egli — qualcuna è venuta qui, ma non ricordo. Non erano amanti, non erano te. Se non ti piace, cambieremo casa. Non ho avuto nessun amore, prima di conoscere te. Ora tu mi sembri la prima. Ti amo, ti amo in tutti i modi; mi perséguiti e mi piaci. Sei bella. Hai una tal grazia indefinibile, che soffro nello starti vicino. Sii buona con me, non ridere!... Ella rideva infatti, ma d’un riso un po’ nervoso, e la sua bocca, i suoi occhi, le sue mani, non erano più così tranquille. — No, lásciami stare... — supplicò. — Lásciami, ti prego... mi fai terribilmente male... Nella penombra egli la vide impallidire; le nascose la faccia nel grembo, e con le braccia le serrava le ginocchia. Ella cercò di sollevargli la fronte, che bruciava, cercò di respingere quella bocca molesta, ma non potendo vincere la sua forza, con súbita ira gli cacciò le dita convulse fra i capelli. Poi la lotta fu breve: perdutamente la fanciulla chiuse gli occhi e si lasciò portare... Ma vide un’altra camera, di notte, con le finestre aperte sopra un lago bianco di luna, e le stelle vicine, infinite; un altr’uomo curvo su lei, che la copriva di carezze e di baci. E si rivide in quel letto, e rivisse lo spasimo di quell’ora dispersa, e le parve, un attimo, ch’egli fosse tornato, ch’egli fosse lì, a ginocchi, e terribilmente come allora la baciasse, e le sue mani corressero febbrili, ardenti, per tutto il suo corpo irritato, e una bocca salisse, salisse fino alle sue labbra, piena d’angoscia, di febbre, di voluttà e di spavento... Di lì a poco, nella camera vicina faceva buio, e di stanza in stanza, per la casa taciturna, subitamente s’intese il grido della sua perduta verginità. II Verso le cinque del pomeriggio Beppe Cianella entrò al Circolo, e comandata una bibita in ghiaccio, si sdraiò con indolenza sopra un divano di cuoio presso il tavolino dove Gigi Saletta, di soprannome Saponetta, ed alcuni altri giocavano al poker. Beppe Cianella aveva caldo e si tergeva la fronte sudata con un fazzoletto di seta dai colori vivaci. Si sbottonò la sottoveste, accese un sigaro e chiuse gli occhi beatamente come per assopirsi. Ma faceva troppo caldo per dormire. Con la voce tuttavia sonnolenta Beppe Cianella chiamò il domestico, pregandolo di girare il ventilatore verso di lui. Quando l’aria fresca l’ebbe investito, si allungò più comodamente sul divano, e con un senso di vera beatitudine si provò a chiudere i suoi maliziosi occhi. — Rafa Giuliani ha un’avventura, — disse con un leggero sbadiglio. — Tanto meglio per lui! — rispose uno de’ giocatori. Sacco Berni aveva tentato un «bluff» temerario, ma Gigi Saponetta, giocatore abilissimo, lo aveva costretto a dichiarare il punto, e gli altri, facendone risa matte, si beffavano del ciurmadore ciurmato. Il conte Berrini passò nel fondo, in maniche di camicia, sbraitando contro i domestici perchè non trovava un giornale; Lello Fornara, lo svenevole, scriveva in un angolo la sua giornaliera lettera d’amore; per l’uscio aperto, che dava nella sala del bigliardo, si udivan le biglie urtarsi fra gli alterchi rumorosi del vecchio barone Gioacchini e del suo giovane allievo Leonardo Sergi. — Rafa Giuliani ha un’avventura! — ripetè fra uno sbadiglio e l’altro Beppe Cianella, che non poteva prender sonno. Giorgino Prémoli vinse un bel colpo, il che lo mise di buon umore. — Allora dicevi? — domandò al Cianella. — Ha un’avventura, — questi ripetè per la terza volta, contento finalmente che qualcuno l’ascoltasse. — Chi? — domandò il Berni. — Rafa Giuliani! — gridò forte il Cianella. — Ah, va bene. — E con chi? — fece Massimo Ravizzòli, distribuendo le carte. — Non posso dirvelo, — rispose il Cianella, stirandosi quant’era lungo e volgendo la faccia contro la spalliera del divano. — Allora perchè ci secchi? — l’interruppe Gigi Saponetta, ch’era nervosissimo al giuoco. Il Cianella si levò sopra un gomito e disse: — Tu, Saponetta, che pur sei avaro, mi pagheresti almeno cento lire per sapere con chi. L’altro scrollò le spalle; Beppe si ricoricò zufolando. Lello Fornara che aveva finita la sua lettera, s’era accostato alla tavola udendo que’ discorsi. — Io so con chi, — fece. — Dillo, — propose il Cianella con un tono incredulo. — Con l’amante del colonnello Speglia, quella che chiamano la Virtuosa. Tutti si rivolsero verso il Cianella per vedere se fosse lei; ma questi, con una mano, fece segno di no. E disse: — Meglio assai che una colonnellessa! — Oh, allora... con la Spinardi! — fece il Berni. — Chi è la Spinardi? — domandò Giannetto Pigna. — La Spinardi è la padrona dell’«Institut de Beauté». Come? non la conosci? Rafa le faceva la corte. È lei? — Meglio di questo! — ripetè il Cianella, enigmatico. — Una signora dunque? — Ma?... E ne nominarono alcune. Nominarono perfino la Raiberti, che dopo il fallimento del marito, per mandare avanti la famiglia, occupava i suoi pomeriggi nelle case di convegno. — Meglio!... meglio! — ripeteva il Cianella ad ogni nome. Poi disse finalmente: — Una signorina! — Eh?! — fecero alcuni. E la partita s’interruppe. Si misero a cercare fra tutte quelle ch’eran suscettibili d’un qualsiasi dubbio: fecero alcune ipotesi irriverenti, e Lello Fornara, ch’era una persona per bene, se ne scandalizzò. — Insomma, volete saperlo? — domandò il Cianella. — Su, dillo! Si fece un grande silenzio; il Cianella si levò sul divano e prese un’aria trionfale: — Con la sorella di Arrigo del Ferrante! — proclamò con enfasi. — È un pezzo che le correva dietro e finalmente li ho veduti oggi in automobile insieme. — Che? la biondina? — Lei, lei. Ma per amore di Dio state zitti! Se ne fece una chiassata. Alcuni giorni dopo, dal sarto che vestiva tutti i Mammagnúccoli della città, s’incontraron tre gentiluomini ch’eran noti per la loro eleganza: don Antonino Vernazza, che aveva la specialità delle sottovesti, delle cravatte e delle calze, il marchese Minardi che, al paro di Camillo Torretta, sul principio d’ogni stagione passava la Manica per vedere quel che si portasse veramente in fatto d’abiti sportivi, e Max della Chiesa, il quale passava tre mezze giornate dal sarto prima di risolversi a scegliere una stoffa od alle volte si permetteva qualche innovazione ardita, sul taglio delle tasche per esempio, sul numero degli occhielli o su la larghezza dei rovesci. Erano in conciliabolo davanti a cinque o sei pezze di stoffa, da cui pendeva il cartello autentico della ditta inglese, e consultando un fascio di figurini parlavano animatamente col signor Gian Giorgio, proprietario della sartoria e consigliere di mode a’ suoi clienti preferiti. I tre gentiluomini erano in gravi angustie prima di comandarsi gli ultimi abiti per la stagione estiva, quegli abiti che li avrebber fatti ammirare nelle stazioni climatiche e nelle villeggiature d’acque termali. Solevano consultarsi deferentemente l’un con l’altro, perchè ognuno teneva in gran conto l’opinione dell’emulo, ed anche per non cader nel rischio di portare in due la medesima foggia. Don Antonino era solito prender parte a tornei di tennis; or stava in dubbio tra un pantalone color «kaki» ed un altro di color grigio perla, a tramatura diagonale. Il marchese Minardi, ch’era stato ufficiale di complemento, aveva quattro irlandesi saltatori che vincevan molti premi nei concorsi ippici, quando però non erano montati da lui; egli guardava ora l’ultimo figurino dei «riding breeches» e sceglieva distrattamente la stoffa per un «morning-coat». Max della Chiesa, in procinto di recarsi ai bagni, voleva scegliere un «tout-de-même» da spiaggia, ma era incerto fra un seta «shantung» di color paglia ad una tela rigata bianco-avana, forse un po’ rigida. Ognuno discuteva i dubbi dell’altro con somma cortesia ed anzi con quel rispetto che al suo competitore deve un uguale artefice. Inoltre avevano tutti e tre qualcosa da provare; ma i tagliatori erano occupati in quel momento, e, dovendo aspettare, si dilungarono a far quattro chiacchiere. «La marchesa Gordiani andava a San Pellegrino quell’anno, ed il tenente Frangi, naturalmente, avrebbe chiesta la sua licenza in quei giorni; la signora Platania era già partita per il Lido, sola, ma vi aspettava il marito; donna Isabella da pochi giorni era in villa sul lago, ed aveva invitato lui, don Antonino, a pranzo per il sabato prossimo. Egli non sapeva se partire già vestito in abito da sera, con un soprabito, o portarsi l’occorrente in una valigia e cambiarsi all’albergo. Tutta la combriccola del Gigliuzzi, Mazzoleni e San Bassano andavano a Zermatt; benchè il fidanzamento della maggiore Gigliuzzi non fosse ancor ufficiale, il contino Piaggi, nipote del barone Silvestro, vi andava egli pure. Tre o quattro ballerine avevano affittata insieme una villetta sul lago, a due passi dal castello di Venaria... Sarebbe stato allegro laggiù! E la bella Rossana, che non sapeva a chi dar la scelta fra i suoi tre amanti, faceva prima un viaggio in automobile con quel pazzo di Marietta, poi andava ad Aix-les-Bains col suo banchiere, finalmente il Duca le aveva presa una villeggiatura in collina, perchè vi si recasse a far vendemmia...» Da un gabinetto di prova uscì Rafa Giuliani, in fretta e furia, dicendo al sarto che l’accompagnava: — Mi raccomando: per dopodomani! — Sarà servito, signor Conte. Vide i tre gentiluomini, li salutò con un cenno, e si diresse verso l’uscita. — Ohè, Rafa, senti un po’... — gli gridò dietro il Vernazza. — Non posso, ho fretta, — quegli rispose. — Ma che c’è di nuovo? Non ti si vede più! — Ho fretta, — ripetè il Giuliani, e scomparve. — Cosa diavolo ha mai per il capo quel Rafa? — si mise a dire Max della Chiesa. Da qualche tempo è divenuto intrattabile. — È vero, — ammisero gli altri due gentiluomini. Il signor Gian Giorgio, che ascoltava, stando appoggiato col gomito su due pezze di stoffa, si lasciò increspare la bocca da un sorriso discreto e misterioso. — Perchè ride, signor Giorgio? — disse don Antonino. — Oh, nulla, nulla... — egli fece, come chi voglia schermirsi dal raccontare una cosa delicata. — Lei ne sa qualcosa, via! — lo istigarono i tre, incuriositi. — E loro no? loro non san niente? — malignò l’artefice d’eleganze, arrotolando il metro che gli pendeva dal collo. — Noi? Ma niente affatto! — risposero i tre. — Via, ci racconti. — No, no, mi secca... Perchè potrebbe anche non esser vero, ed in ogni modo queste cose è meglio non divulgarle. — Gian Giorgio! Gian Giorgio! non facciamo il misterioso! Con noi... via! — Pare, — disse l’altro a bassa voce, — pare... Ma sanno, io lo ripeto perchè l’ho inteso dire... qualcuno lo raccontava oggi in sala di prova... sarà, non sarà... — Dunque cosa pare? — Che il conte Giuliani abbia un’amante nuova... un’amante incredibile... — E sarebbe chi? — Ah, Dio buono, io non lo posso dire... non lo posso proprio dire... — Coraggio! Il signor Gian Giorgio abbassò estremamente la voce, chinandosi, rimpicciolendosi fra i tre: — Sarebbe nientemeno che la sorella del signor del Ferrante... Tre forti esclamazioni lo interruppero; poi uno disse: — Impossibile! — Insomma è quello che si racconta; io credevo che loro lo sapessero già. Li hanno scoperti che pranzavano insieme; tutti ne parlano come d’una cosa certa e v’è persino chi li ha veduti entrare in una certa loro casa... Una settimana dopo, in città, in montagna, nelle villeggiature, su le spiagge, tutti raccontavano ai quattro venti che il conte Raffaele Giuliani era divenuto l’amante della sorella di Arrigo del Ferrante. III Loretta ritornò a casa tardi perchè Rafa l’aveva trattenuta troppo a lungo presso di sè. I genitori ed il fratello Paolo finivano di cenare; una cena ch’era stata silenziosa e quasi lugubre, perchè ognuno di essi, pur non osando parlarne, pensava all’assente e ne aspettava con impazienza il ritorno. Da una quindicina di giorni ella conduceva una vita insolita; era sempre fuori di casa, mattina e sera, senza dare alcun pretesto e non tollerava più che nessuno le movesse rimproveri. Anche d’aspetto era mutata; ne’ suoi occhi splendeva una luce inconsueta, su la sua bocca rideva una specie di crudeltà; in tutta la sua fisionomia, un tempo così fresca e limpida, s’era mesciuto un non so che di guasto e d’ambiguo, come se il mutamento avvenuto in lei avesse potuto prendere una forma visibile nei suoi lineamenti. Ora vestiva con somma eleganza e più volte nel giorno arrivavano per lei pacchi ed involti col nome dei primi negozi cittadini: abiti dalle sartorie più note, cappelli dalle modiste più rovinose, scarpe e stivalini da’ calzolai di lusso. La sua camera era ingombra di tutte queste cose; un estremo disordine vi regnava; ma ella da qualche tempo aveva preteso che nessuno vi entrasse, anzi, nell’uscir di casa, ne portava sempre la chiave con sè. Paolo non le parlava quasi più, o se le rivolgeva parola era per dirle qualche acerba sgarberia. Aveva tranquillamente consigliato al padre di cacciarla fuori di casa, e la sua faccia per solito mansueta si faceva stranamente oscura quando parlavano di lei. Il padre, pover’uomo, si mostrava debole in questa come in tutte l’altre circostanze della sua vita; vedeva la figlia perdersi, sentiva accadere qualcosa di grave dietro le sue spalle curve sul desco d’occhialaio, ma nel cuore timido ed angosciato non trovava la forza di porvi alcun riparo. Per di più gli erano venuti addosso molti acciacchi; la gotta senile non cessava dal tormentarlo, aveva un poco d’asma, che gli impediva di dormire la notte. Qualchevolta, per consolarsi del suo tacito dolore, andava in casa di Luisa, la sua figlia maggiore, ch’era una brava moglie ed anche una buona donna, benchè forse un pochettino egoista. Per lei la casa del padre non era più la sua casa: dei mali che vi accadevano poteva solo interessarsi fino ad un certo punto, perchè la famiglia del marito era molto numerosa e ve l’avevano accolta come una vera figlia. Inoltre aveva già due bimbi, uno di quattr’anni, l’altro di trenta mesi; due bei maschietti grassi robusti e floridi che le occupavan tutta la giornata. Presso di loro il povero vecchio si riconfortava; prendeva il più piccolo su le ginocchia, e quantunque la schiena gli facesse male, si metteva a farlo ballare e cavalcare, ripetendo le stesse cantilene che tanti anni addietro aveva insegnate a’ suoi bimbi. Si sfogava nel confidare alla Luisa con molti sospiri i malanni della sorella, e questa gli aveva detto: — Mándala qui da me; le parlerò io. Ella pareva contare immensamente su la propria autorità di madre feconda e rispettata. Ma il padre aveva risposto con la solita rassegnazione: — Inutile, figlia mia. Ah, quella nostra Loretta! quella nostra Loretta!... La madre non si accorava gran che di tutte queste cose. Ella non aveva mai presa troppo sul serio la sua missione d’educatrice, ed ogni tanto, fra i suoi capelli grigi, risaltava fuori quella donna ch’ella era stata una volta, capricciosa, bizzarra e priva d’ogni senso morale. Que’ bei vestiti della figlia la empivano di stupore, e come tutte le donne che in gioventù son state disoneste, acquistava con l’inoltrar degli anni un senso istintivo di ruffianeria. Ella ritrovava in questa giovinezza della figlia la sua propria giovinezza, scapata ed avventurosa, ov’erano dopo tutto i più dolci ricordi della sua vita. Solamente l’annoiavano i rimbrotti del marito, il quale, timido con tutti, con lei si permetteva qualchevolta d’essere bisbetico, e non cessava dal ripeterle senza misericordia: — Tu non sei stata una brava madre: éccone i frutti! Ella del resto non si sentiva del tutto vecchia; aveva ancora una certa pretensione di bellezza e cercava di nascondere con molta diligenza i segni del suo disfacimento. Aveva raccolto man mano i capelli caduti, per farsene fare una treccia finta; le mancavan parecchi denti e già da lungo tempo seccava il marito affinchè le desse il denaro necessario per comperarsi una mezza dentiera. Ma questi, che aveva sempre tollerato i suoi capricci, ora, negli ultimi anni, si prendeva quasi una rivincita; la teneva molto a corto di quattrini e la trattava con prepotenza, forse per vendicarsi dei lunghi anni durante i quali aveva taciuto. Della madre, Loretta si curava men che poco; ella era già grandicella quando la madre ancora si concedeva gli ultimi spassi, e così aveva imparato a compatirne gli errori con una specie di disprezzo indulgente, che ora prendeva quasi la forma d’una reciproca protezione. In casa, Loretta non voleva subire l’autorità di nessuno; però bastava che si mettesse a sorridere perchè padre e madre le fossero ai piedi. Ma c’era sempre il Riotti, che, invecchiato, ingrassato, non aveva per nulla perduta l’abitudine d’ingerirsi nelle faccende altrui. La famiglia dell’occhialaio era divenuta un poco la sua propria famiglia, perchè a lui mancava per l’appunto il focolare, quel dolce regno domestico nel quale, fra molti sudditi, avrebbe voluto essere il tiranno. In una famiglia numerosa, con molti bimbi intorno, sarebbe stato magari felice; ma nella sua retrobottega un po’ tetra non v’era che quella placida Eugenia, sempre zitella, che da mattino a sera leggeva o ricamava, ricamava o leggeva. Quanto a Loretta, egli non era molto severo; la compativa con una certa longanimità e della sua perdizione faceva risalire la colpa ad Arrigo. Secondo lui tutto quanto succedeva in casa dell’occhialaio era colpa di Arrigo. Come usava ogni giorno dopo la cena, per l’appunto quella sera egli era da poco venuto nella retrobottega de’ suoi vicini a centellinare il cálice consueto illustrando le più gravi notizie lette nei giornali, quando finalmente Loretta entrò, ansante come se avesse corso ed un po’ scapigliata. Nessuno aperse bocca; ma quel silenzio era pieno di rimprovero. — Sono un po’ in ritardo, — ella convenne. — Scusatemi. — Un po’... dice un po’!... — la interruppe il Riotti, ironico. — Sono le otto e mezzo, nientemeno! — E allora? — ella fece, passandogli davanti con un fare altezzoso. Aveva un mazzo di rose un po’ disfatte alla cintura e si mise davanti ad uno specchio per ravviarsi i capelli. — Allora io dico semplicemente ch’è vergognoso! — decretò il Riotti, gonfiandosi di rabbia per quella risposta provocante. E soggiunse con disprezzo: — Vestita come una ballerina! Loretta lo guardò scherzevolmente, si mise a ridere forte e disse: — Buona sera. — Dove vai? — le domandò il padre. — Vado in camera mia, visto che qui ricevo solo impertinenze. — Via, — disse la madre, — vieni e mangia; ti ho fatto serbare il pranzo. Ella si rimise davanti allo specchio ed incominciò a togliersi il cappello, ma lentamente. — Hai un profumo che dà il mal di testa! — osservò nervosamente Paolo, che poggiato contro la tavola sorseggiava un ultimo bicchier di vino. — Veh, poverino!... — fece Loretta. — Come sei delicato! Contro di lei egli diveniva súbito iracondo; i suoi piccoli occhi si facevan malvagi, la sua bocca prendeva un’espressione dura. — Altro che ironie! — brontolò. — Sarebbe ora che ci spiegassimo una buona volta! Così non è possibile andare avanti. — Giusto, — sentenziò il Riotti. — Almeno lasciatela mangiare... — intervenne la madre. — Discuterete poi. — Macchè! figúrati, mamma! anzi, anzi!.... Non ho fame io. Se c’è da spiegarci, spieghiamoci pure; avanti! E con un’aria baldanzosa venne vicino al fratello. — Sei tu che devi parlare, — disse il Riotti all’occhialaio, facendogli un segno energico. — Va bene, — rispose questi. — Ma ora... ha ragione sua madre: lasciatela mangiare. — Grazie, grazie tanto. Non ho fame; sono qui e vi ascolto. Seguì un lungo silenzio. — Su dunque, — ella disse al fratello, — parla tu che sei tanto linguacciuto! — Eh... se dovessi parlare io! — minacciò il fratello squadrandola. — Ma parla dunque! Nessuno ti prega di tacere. Tanto lo so che mi odii... Dunque parla. L’altro, in silenzio, trangugiò un lungo sorso di vino. — Insomma Loretta, — esclamò di punto in bianco il Riotti, — tu fai una vita che disonora la tua famiglia! Ella si morse le labbra. — Senta lei!... — disse con una voce sibilante; — la prego di dare queste lezioni a sua figlia, che forse ne ha bisogno; non a me; perchè lei qua dentro è un seccatore e nient’altro. Il Riotti scattò in piedi con un’agilità superba; la voce gli gorgogliava nella gola e non poteva dir parola. Finalmente inveì: — Spudorata impertinente! A un vecchio che dovresti rispettare come tuo padre... — Allora vediamo... — intervenne donna Grazia. — Si calmi, signor Riotti. Anche lei l’ha offesa. — Macchè offesa! — Insomma, — disse il padre, radunando a stento la sua poca energia, — chi deve parlare sono io e non altri! La sua voce fu ascoltata. Il Riotti voleva andarsene, ma la curiosità lo vinse e tornò a sedere. Loretta s’avvicinò al padre, gli mise una mano su la spalla, con l’altra gli carezzò il viso. — Via papà, non sgridarmi... — disse. — Che faccio poi di male? Il vecchio tentennò il capo ed ella si piegò su di lui. Era così bellina, sorrideva... Egli non osò più dirle nulla. Ma Paolo ebbe un gesto d’impazienza. — Tu, papà, sei troppo debole con quella ragazza, — disse. Lei ti fa vedere quello che vuole. Fece una pausa, poi soggiunse: — E visto che tu non parli, parlerò io. Si levò in piedi e s’avvicinò alla sorella con un fare minaccioso. — Cos’è questo?! — disse, dando con due dita un pizzico nella stoffa della camicetta. — E questo? e questo? e questo! — continuò con veemenza, segnando la sottana, le scarpine, la pettinatura, i braccialetti. — Roba mia, — rispose Loretta, impallidendo un poco. — Roba tua?... — fece l’altro con disprezzo. — Non è vero! Tu non hai i denari, noi non abbiamo i denari per comprarti questa roba! Egli era straordinariamente eccitato; la sua collera un po’ grossolana gl’infiammava il viso. La madre s’avvicinò a lui cautamente e lo tirò per una manica. — Lasciala stare... — disse, quasi supplichevole. — Dunque, rispondi! — comandò Paolo caparbiamente, senza badare a quel consiglio. — Cosa vuol dire che ti vesti come una marionetta e peggio? che ti profumi? che ogni momento portan roba per te? che vai, che vieni, che porti cose d’oro indosso e ci consideri tutti noi come se fossimo i tuoi servi? Cos’è?... E le stava presso in attitudine minacciosa. Ella mostrò di averne un poco paura, perchè i suoi occhi si fecero grandi, fermi, e s’accostò al padre che taceva. — Non rispondi, eh?... — fece Paolo con un sogghigno. — E fai bene a vergognarti, perchè anche noi, tutti noi, — disse con più forza — abbiamo vergogna di te! Girò sui talloni, dette un pugno su la tavola e si tornò a sedere. Il petto gli ansava per lo sdegnò col quale aveva parlato; si riempì di nuovo il bicchiere, ne accostò l’orlo alle labbra, ma non bevve, e lo depose con forza. Alcune goccie di vino macchiarono la tovaglia. — Finora, — gridò, — in casa nostra nessuno aveva mai fatto questo bel mestiere! Loretta era divenuta estremamente bianca; le sue labbra tremavano un poco, e ansava. Poi si mosse risoluta, andò a prendere il cappellino, i guanti rimasti su la credenza, e, mordendosi un labbro nell’ira taciturna, s’avviò verso l’uscio. Ma su la soglia si rivolse: — Se avete vergogna di me, — disse, — abbiate solo un poco di pazienza; fra qualche giorno me ne vado e non darò più noia a nessuno. — Te ne vai?... — balbettò il padre, alzandosi dalla sedia a fatica. — Sì! — ella rispose implacabile. — Fra pochi giorni avrò ventun anni e nessuno me lo potrà impedire. -Vediamo, vediamo... — intervenne il Riotti con una voce amichevole. — Non bisogna mai scaldarsi la testa, — seguitò, guardando Paolo che aveva i due gomiti su la tavola e fissava immobilmente il bicchiere. — Tu, Paolo, sei stato un poco aspro, e tu Loretta... — Macchè Loretta! — ella interruppe adirata. E uscì sbattendo l’uscio. Il suo profumo, la rosa di Francia, le rimase dietro come una sciarpa. IV Egli era lontano, fuggiva, correva di paese in paese, non dormiva la notte, il giorno era più che mai spossato non trovava pace. Questo amore gli si era veramente confitto nelle carni come un cilicio di rovi e di spini. Lontano da lei, la sua sofferenza diventava più insopportabile; aveva paura della solitudine, ma insieme odiava la gente. Nel silenzio, udiva il rombo del suo proprio dolore; nel frastuono, l’urlo del suo mondo interiore vinceva la sopraffazione delle vite altrui. In tutte le sembianze ritrovava quell’unica, in ogni voce riudiva la sua voce; ogni passo di donna, ogni veste femminile gli rammentava il passo, la figura di lei. Si sentiva perduto; il suo démone interiore l’aveva curvato su quella bocca, su quella sola ch’era peccato baciare; aveva per una sorte irrevocabile amato colei, quella sola, che non è lecito amare. Tutte le vie, per quanto lontane, lo riconducevano verso il peccato; nel fischio di ogni treno partente sentiva urlare la sirena del ritorno. Ogni giorno, cento volte in un giorno, pensava: — «Domani tornerò.» Eppure, fra le angosce della tentazione, per darsi animo alla più lunga fuga, non faceva che ripetere a sè stesso: «Ella mi ha lasciato partire, non s’è aggrappata alle mie ginocchia per trattenermi, non mi ha detto: Resta; non ha pianto.» No: era invece rimasta immobile, con gli occhi spauriti, senza dir nulla. Una sua parola, una sua lacrima sarebber forse bastate per impedirgli di partire. Ma ella non aveva pianto. E invece comprendeva di averle fatto paura. Comprendeva questo solo: «Le ho fatto paura; le ho fatto quasi orrore...» Certo egli l’aveva persuasa con le più calde parole; ma tutto questo in fondo non era che simulazione, od era, se non altro, una scaltrezza involontaria ch’egli aveva usata per meglio guardare nell’ombra dell’anima sua. E sperava di udirla rispondere: «Sì, è vero, è tutto vero quello che dici; ma non andartene via da me, non lasciarmi. O, se vuoi che fuggiamo, prendimi teco, portami via con te. Questo appunto io voglio darti: l’intera mia vita. Essere una piccola cosa tua, per sempre, in tua balìa. Sono ebbra, sono folle come te... Préndimi, portami via!...» Invece aveva taciuto, con gli occhi fermi, la bocca immobile, spaurita. Quel silenzio lo persuadeva che non s’era ingannato nel dirle: «Il tuo amore è un capriccio, una folata di vento, un’ondata sentimentale nel calore dei vent’anni...» E non poteva essere altrimenti che così. Questo amore irremissibile, che tormentava il suo spirito malato, non poteva nascere nei sensi e nell’anima d’una piccola sorella. Bisognava per ciò essere passati oltre tutte le tentazioni e tutte le delusioni dell’amore, averne conosciuti i vizî, averne consumate fino all’ultima le innumerevoli frodi. Bisognava essere, com’egli era, un freddo conoscitore di tutte le lussurie, per comprendere questa, più delicata e più rara d’ogni altra, questa, che chiudeva in ogni bacio un sorso di lentissimo veleno. Ma invece ella passava una crisi, una piccola crisi d’amore, poi sarebbe tornata verso la vita di tutti, avrebbe ripreso ad amare le cose lecite, sarebbe stata d’altri con lo stesso desiderio ismemorato col quale s’era offerta a lui. Quella sua bella bocca vermiglia si sarebbe tesa con la stessa lascivia, con la stessa ingordigia, verso la bocca d’un altro amante; avrebbe dati a lui quei baci tenaci ch’ella sapeva dare. Un altro avrebbe tuffate le mani calde ne’ suoi gonfi capelli, che portavano in sè qualche raggio di sole come la spiga matura; que’ suoi capelli che sapevano d’un odor di piuma ed avevan nei loro riflessi l’irrequietezza d’una cosa viva. Sopra il suo collo, su la gola, tra i seni colmi e già così profondi che potevano tra l’uno e l’altro nascondere tutta una faccia, altre labbra sarebbero passate, calde, struggenti, a prodigarle quelle carezze ch’ella amava... Poich’ella era fatta per godere spensieratamente il dolore altrui, ed aveva in sè, in tutta la sua persona, in ogni movimento, e nella voce, e nello sguardo, il segno visibile d’una violenta sensualità. Pensò: «Non voglio più tornare. Dov’ella vive l’aria è corrotta. Non voglio più rivederla; devo cancellare questa immagine dalla mia mente, strapparmi dal cuore questa pianta velenosa che ha messo radici per tutte le mie vene. Forse io stesso ho creato in me questo amore; io stesso le dò la potenza di cui ella mi dispera. Guárdala meglio: forse non è bella. Vinci la tua perdizione: forse non è temibile.» Pensò: «Ella mi rompe nel mezzo la mia vita e riperderò per lei tutto il cammino compiuto. Non ho più alcun desiderio che non sia questo folle peccato; le cose che più mi tentarono, se le guardo, mi sembran oggi del tutto lontane dalla mia vita. Bisogna che ritorni ad essere l’uomo che fui.» E così ragionando se n’andava da un luogo all’altro, senza trovar pace. Dormiva la notte, nei brevi sonni, immerso nel respiro della sua bocca, fra i suoi capelli, parlando con lei. Le diceva parole piene di delirio, ed ella, nel baciarlo, gli offriva in ogni modo perverso, con esperte lascivie, la sua bocca di peccatrice. Dappertutto era sempre con lui, per ogni angolo, per ogni strada. Gli avvenne anche di non più ricordarsi come fosse precisamente il suo volto; ma ciò che in lui durava era l’impressione d’esserle stato vicino, il bisogno di tornarle vicino, era quell’odor particolare che la sua pelle tramandava, e certi suoni della sua voce, del suo ridere, certe memorie quasi lontane di parole che non osarono dirsi, nel tempo in cui stava per nascere la timida loro complicità. Non era più nemmeno la sua sorella che amava, ma un’altra fatta come lei. E se pur la baciava ogni notte ne’ suoi torbidi sogni, la squallida faccia del padre non veniva nemmeno più a minacciarlo silenziosamente. Volle chiedere a sè stesso come mai questo amore gli fosse nato nell’anima, e non trovò in sè stesso alcuna ragione palese. Era un uomo sano, equilibrato, che si era sempre condotto nella vita con tenace fermezza; nè il suo costume, nè i suoi pensieri, nè le sue letture, nè un esempio qualsiasi, lo avevano mai sospinto a concepire la possibilità di così fatti amori. Ed il fenomeno era nato in lui subitamente, come sboccia un gran fiore perverso in un campo arido. Allora divenne superstizioso; pensò che tutto questo avesse un’origine soprannaturale, fosse un castigo inflittogli da Dio, e pensò alla chiesa, al prete, alla confessione. Ebbe una speranza illimitata in questo sorgere istintivo del sentimento religioso, che forse gli dormiva insospettato nell’anima, come una profonda e miracolosa eredità. Entrò nelle fredde chiese, con la paura dell’errante che tutti respingono; si segnò con l’acqua benedetta, rimase per lunghe ore nell’ombra dei colonnati, presso gli altari sfavillanti, aspettando la grazia, contaminando la preghiera con la sua bocca non guaribile. Una volta s’inginocchiò nel confessionale; ma una paura più forte gli suggellò nell’anima il suo grande peccato. Anche nella chiesa, tra il vapore degli incensi aromatici, sotto la custodia dei simboli sacri, il suo fantasma lo perseguitava. Stando a ginocchi tra le colonne, dove la basilica era più deserta, pur tra la voce dell’organo che talvolta par chiudere in sè la mistica gioia d’una purificazione umana, egli sentiva il bacio di quella bocca vietata risalirgli dalle radici dell’essere come un piacere inebriante, e quando i ceri costellavano l’altare d’una luce vaporosa, pur sotto l’ala misericorde che l’assolveva del suo peccato, egli si coricava perdutamente, in una coltre impura, vicino a lei... V — Non così presto, Rafa! — esclamò giocondamente Loretta serrandogli un braccio. — Non così presto!... Ho paura. La strada si lanciava innanzi, bianca e vampante, sotto la sferza del sole d’estate. L’automobile volava; la campagna carica di messi d’oro mandava una luce abbagliante, fin dove, all’estremo limite, la copriva il cielo. Rafa era curvo sul volante; Loretta vicino a lui, ravvolta il capo in un velo azzurro, guardava la strada fuggire, splendere, ardere: ne sorrideva impaurita. L’automobile era carica de’ suoi bauli; egli finalmente la conduceva nella chiara villa preparata per lei. Dietro di loro la città, ravvolta in un fascio di sole, mandava nel cielo scintillante il fumo de’ suoi laboriosi opifici; le spirali gonfie si allargavan lentamente nello spazio, come strani fiori fatti d’aria e di caligine che il vento sfasciasse a poco a poco. Le prime colline apparivano all’orizzonte, fertili di antichi boschi e di giovini praterie; più distanti, quasi cancellate nella rossa veemenza del giorno, le azzurre Alpi segnavano al confine dello spazio una diga scintillante. La strada, fiancheggiata da pochi alberi polverosi, correva diritta fra campi coltivati, assottigliandosi laggiù, nella distanza, come un brillante sentiero. Tutto all’intorno l’occhio spaziava: i campanili delle chiese, le finestre delle fattorie mandavano di lontano un balenìo fermo, come se dentro le consumasse un incendio. Un branco d’oche traversava la strada; l’automobile vi passò nel mezzo, disperdendole per ogni lato con un furioso battere d’ali, così come il vento sperde una manata di piume. La piccola guardiana scalza, che s’era insiepata, strillò di paura. Loretta si volse a guardare se qualche oca fosse rimasta schiacciata; ma non vide che una nube di polvere, gonfia come un lenzuolo pieno di vento, che saliva in alto, vorticando. — Certo ne hai ammazzata qualcuna... — ella disse con voce piena di compassione. — Corri troppo forte! Rafa si mise a ridere; il meccanico ch’era nell’interno della vettura si sporse avanti e rispose: — No, signora, nessuna: ho guardato io. Loretta si consolò. Erano giunti in fondo alla dirittura, compariva un villaggio e bisognò rallentare. — Per dire la verità, io non ho mai compreso bene come possano le automobili camminar da sole, — confessò Loretta. — Oh!... sarebbe una cosa troppo grave a spiegarsi ora, — disse Rafa sorridendo. Ella parve riflettere un istante, poi domandò: — Potrai una volta insegnarmi a guidare l’automobile? — Se vuoi. — E’ difficile? — Non è difficile, ma bisogna stare molto attenti. Ell’aveva gli occhi pieni di polvere nonostante il velo che s’era calata sul viso, e con un fazzolettino se li ripuliva. — Perchè non metti gli occhiali? — domandò Rafa. — Ho paura che mi stiano troppo male, — confessò Loretta con un sorriso. — Ma cosa dici mai? Tutte le signore li portano in automobile; altrimenti si prende una malattia d’occhi. — Davvero? — Certamente. Ella frugò nella tasca della spolverina, trasse fuori un paio d’occhiali e ridendo se li mise. — Tutto giallo! Tutto giallo! — esclamò. Passato il villaggio, l’automobile riprendeva la corsa. — Non ti pare che si stia meglio con gli occhiali? — Sì, hai ragione. Il vento le mozzava la voce. Rafa l’aveva incaricata di premere ogni tanto sul pedale della sirena, ed ella ne abusava, divertendosi di quel fischio lungo e lamentoso. Ogni volta che vedeva un carro di lontano, dava un colpo di sirena; i carrettieri, lentamente, senza volgersi a guardare, guidavano sul fianco della strada le loro lunghe file di cavalli. Rafa ogni tanto s’appoggiava contro di lei, per domandarle sottovoce: — Mi vuoi bene?... — Ella rispondeva di sì, chinando il capo. Ed ora, per tutto all’intorno, un fertile color d’estate vestiva la campagna gonfia di profumi; qualche bianca villa, sul vértice delle colline, si riposava nella pace degli antichi boschi; nel piano le falci qua e là brillavano, come lampi, ed i villani, arrampicati su le scale a piuoli, caricavano i carri della fienatura. A lei, ch’era vissuta nella città selciata di pietra e soffocata fra i tetti, questo spettacolo di libertà e di pace apriva giocondamente il cuore. — Come sarò felice in campagna! — ella disse con un palpito. — Ho voglia di correre nei prati, di vivere in mezzo ai contadini, di stendermi sotto gli alberi, di buttarmi sul fieno! Poi domandò con sommissione: — Potrò fare queste cose? — Certo, — egli rispose. — Potrai fare tutto quello che ti piacerà. Ella ebbe un sussulto di gioia. — E tu verrai spesso a trovarmi? — Ogni giorno, Loretta. — Quanto è lontana la tua villa dalla mia? — Mezz’ora d’automobile. Elia misurò col pensiero quella breve distanza, poi disse: — Ma la sera probabilmente bisognerà ch’io rimanga sola, è vero? — Non sempre; io potrò qualchevolta rimanere con te, se mi vorrai. — E soggiunse: — Vorrai?.... — Oh, sì... — ella rispose, con una specie di pudore. — Del resto non devi temere affatto, perchè avrai con te la tua domestica ed in fondo al giardino v’è la casa del giardiniere, che vi abita con tutta la famiglia. Li conosco da molti anni e son brava gente. Il paese incollinava; la macchina forte superava le salite senza fatica; il sole già pendeva sul culmine delle montagne. Sorpassata un’altura su la quale torreggiavano i ruderi d’un castello antico, subitamente un lago apparve davanti a loro, placido in lontananza, come una bella turchese incastonata fra le montagne. I battelli a vapore lo solcavano, lasciandosi dietro una striscia di fumo, parendo fermi traverso la distanza e non più grandi che giocattoli di bimbi. Le barche disseminate non segnavano che un punto nero nell’immobile splendore dell’acqua. — Il lago! il lago! — esclamò Loretta, tendendo il braccio. — Sì, ora lo costeggeremo, — egli rispose. Sparve, quando avvallarono, ricomparve quando furon su le alture, sempre più azzurro, sempre più vasto; poi s’imboscaron per una strada forestale, giunsero al sommo d’una tortuosa erta, e videro a’ lor piedi stendersi luminosamente il lago, che il sole fregiava di ricami e d’istorie come un immenso arazzo d’oro. La macchina si avventò per la china con un rimbombo di congegni, svoltò nel serpeggiare del pendìo sotto il morso dei freni potenti, e mentre le sue nubi di polvere turbinavano ancora su l’alto della collina discesa, essa già correva lungo la riva del lago, sotto i terrazzi dei giardini, che lasciavan spiovere su la strada maestra le lor ghirlande di gelsomini e di rose. A poco a poco il sole si ritraeva dalle sponde, che divenivan d’un color viola, e più violento s’accendeva nel mezzo del lago, saettato in giù dall’opposta montagna. Allora una grande tristezza invase il cuore di Loretta, e, correndo per quella riva fiorita, un altro lago le salì nella memoria, più bello ancora e più dolce, dove i giardini andavano a bagnarsi nella pianissima onda e c’erano i rematori che cantavano, di sera, navigando sotto le stelle... Pensò che su quel lago ella era scesa, in una barca fragile, che ad ogni mossa dondolava, e si ricordò dell’uomo ch’era con lei quel giorno, curvo sui remi, con gli occhi pieni di luce, la fronte sudata. Si ricordò della notte che poi era venuta, con tante stelle quante non aveva per l’innanzi vedute mai, della notte ch’era stata la più terribile e la più dolce nella sua vita, quando un profumo troppo forte di magnolie e di gelsomini entrava con l’aria notturna a invadere la stanza, dov’ella, malata d’amore di sogni e di primavera, quella notte non poteva dormire... VI Egli tornò una sera, improvvisamente, perchè il suo fantasma non gli dava pace. Voleva rivederla, e poi forse fuggire di nuovo, per sempre. Ma guardarla negli occhi ancora una volta, saper cosa fosse avvenuto di lei dopo quell’ora di commiato. Le strade che aveva percorse, i letti nei quali era giaciuto, le avventure in cui s’era freddamente involto per cercare uno svago, erano state il calvario supremo del suo disperato amore. La lontananza ed il tempo, che sono per lo più i dissolvitori delle passioni mediocri, non servivano che a rendere più acerbo un amore come il suo. Tornò, dopo aver inutilmente costretta la sua carne ed il suo spirito alla rinunzia di questa colpa, dopo essersi intimorito con tutte le minacce, battuto coi più duri flagelli e persuaso che nessun rimedio, tranne forse il possesso, lo avrebbe mai guarito di questo implacabile amore. Veramente egli sentiva pesare su la sua tremante anima un fato mostruoso; era caduto in balìa di quelle forze che sono maggiori della volontà umana, e non più sperava in sè medesimo per la sua liberazione. Adesso era troppo tardi anche per la salvezza; l’amava; era posseduto di lei, era smarrito nelle oblique vie di questo amore come in un dedalo senza uscita. Perchè tornasse uomo e ricuperasse nel suo senso esatto il valore della vita, gli era necessario sacrificare al suo terribile nemico tutte le paure dell’anima, che lo tenevano prigioniero. Una tempesta sensuale s’era scatenata in lui: quest’uomo s’era lasciato pervadere i sensi da una febbre che lo transfigurava, ed il suo mondo interiore non era più che una vicenda continua di allucinazioni, le quali raffiguravan tutte, benchè diversamente, la nuda gioia dell’amplesso. Quest’atto barbaro e dolce era il centro intorno a cui roteava il suo torbido universo. Da cose fortuite, in lui scaturivan immagini di carnale amore; il suo cervello ed i suoi nervi eran stremati dalla fatica eccessiva di questo continuo desiderio. Non più lei sola egli amava, ma in lei sola tutto ciò che fin dai primi anni aveva tormentato in modi oscuri la sensuale inquietudine, la pericolosa febbre del suo latente vizio. Ed ecco ella diveniva più che mai la forma del piacere inaccessibile, il fuoco dell’ingaudibile amore, il filtro che dà la morte soave, il profumo che addormenta in un sogno di voluttà paradisiaca. In quei giorni di solitudine aveva ripensato alle vicende trascorse. Perchè non aveva egli osato impadronirsene quand’ella si offriva a lui con tanta passione? Una volta ella gli aveva pur detta semplicemente una verità profonda; gli aveva detto: «Il male più grande è non avere il coraggio d’essere felici.» Oh, se l’avesse ascoltata! Ora certo non si troverebbe in quello stremo d’angoscia e d’aberrazione. Perchè non aveva continuato ad essere, secondo il suo principio, uno spavaldo mietitore d’allegrezze, un vuotatore di calici colmi, un di que’ freddi e temerari uomini che sanno escludere da sè stessi la paura del rimorso? A quest’ora forse ne sarebbe sazio, forse continuerebbe a trovare in lei un insaziabile piacere; ma in ogni modo, nel precario senso e nel disordine di tutte le cose umane, la loro colpa non avrebbe avuta la coscienza di urtarsi ad insuperabili divieti, così come nulla impediva che due rondini della medesima covata formassero insieme il lor nido, sotto una gronda, alla nuova primavera. Chi mai s’era levato dalle radici oscure del suo essere a vietargli questo atto di libertà? Quale forza inconoscibile custodiva colei che si chiamava sorella, contro il suo colpevole amore? V’era dunque intorno ai focolari delle famiglie una legge sacra, non fatta solo dall’arbitrio degli uomini, che malediva i connubî incestuosi e puniva con una morte lenta colui che osasse per avventura spingere lo sguardo sotto le coltri delle sorelle addormentate? Perchè mai, se alcune v’erano tra le creature femminili, così inflessibilmente vietate al nostro desiderio, perchè mai queste appunto potevano con tanta veemenza parlare a’ suoi sensi? Perchè mai egli, ch’era stato per l’innanzi uno spavaldo possessore del cuor femminile, tremava ora e di voluttà impallidiva, solo pensando alla forma che aveva il suo polso, all’ombra che si formava leggerissima nella piegatura del suo braccio, a quelle sue fine caviglie, che irrequiete apparivano e sparivano tra il muoversi della balza? Oh, se avesse potuto ricevere da un’altra amante queste gioie tormentose! Ma no! ella era piena d’un sapore che all’altre mancava; su lei era sparsa la tentazione come il profumo è quasi tangibile su le corolle di certi fiori. Si chiamava sorella, e la purezza prestigiosa di questo nome pareva ravvolgerla in un velo che tradisse perversamente la sua scintillante nudità. Tornò con l’anima buia, per vederla o per prenderla, per fuggire da lei o per fuggire con lei, per inginocchiarlesi ai piedi o per rovesciarla brutalmente sotto la forza delle sue dure braccia. Una sola cosa egli conosceva esattamente: l’impossibilità di continuare a starne lontano. Ed anche aveva inutilmente lottato contro una cieca gelosia, poichè sapeva che un altr’uomo le stava intorno, scaltro e paziente, capace di offrirle tutto quello che a lei potesse piacere. Ne avevano celiato insieme i primi giorni, anzi l’aveva egli stesso ammaestrata nel coltivare la sua piccola tresca. Ed ora, quell’uomo, egli l’odiava; non di rado, nel pensare a quell’uomo, egli presentiva un oscuro pericolo, si lasciava prendere da tentazioni criminose. Con la singolare preveggenza di chi ama, egli tornò sopra tutto per impedire che da costui gli fosse tolta. Giunse, quando la città riposava in un lento crepuscolo d’estate, mentre la rossa nube di calore che tutto il giorno l’aveva oppressa ed incendiata, lentamente si andava sciogliendo nella ventilata ombra della sera. Tutto gli parve mutato, nella città che pure conosceva casa per casa, e ch’era stata il teatro delle sue temerarie conquiste. Ed era contento che già fosse la sera, per poterla traversare più facilmente senza incontrarsi con alcuno. Lasciò i bauli alla stazione, e salito in vettura si fece condurre alla casa del padre. Il percorso era lungo; egli guardava distrattamente in giro; gli batteva il cuore. L’avrebbe riveduta fra poco; ella era forse passata di lì, per quelle strade, nella giornata. E la vedeva col suo vestitino di tela chiara, il cappello di paglia che le metteva ombra sul viso, forse un di que’ medesimi che aveva portato nel viaggio, l’ombrellino aperto, poggiato su la spalla, un mazzolino di mughetti alla cintura, le scarpine bianche. Andava rasente il muro, frettolosa come sempre, con la sua vitina snella che riceveva elasticamente le ondulazioni del passo; ogni tanto si fermava davanti ai negozi; la gente la guardava. Una gran pace discese in lui, dopo tanti giorni vissuti con febbre, in una specie d’ossessione. Tornò ad amare la sua città, perch’ella vi abitava, e la vita gli parve nuovamente bella; tutte le aspirazioni che si erano in lui sopite, rinacquero come per incanto. Ebbe voglia di assaporare lungamente questa felicità, volle far qualcosa, una cosa qualsiasi, per convincersi che non era più sotto l’incubo del suo spaventoso tormento; pensò di aver sete, fece fermare ad una bottiglieria, vi discese. Incontrò sul marciapiede alcuni amici, che, già vestiti da sera, andavano probabilmente a pranzare. Egli li salutò chiamandoli per nome, forte allegramente: essi risposero al suo saluto, ma senza effusione e passarono in fretta. Ne rimase un po’ stupito. Vide poi che ciarlavano, e, gli parve, di lui. Ma non fece gran caso: bevve, risalì in vettura. — Via, — disse al cocchiere; — frusta e cammina! D’estate i negozi chiudevano di buon’ora; molte oneste famiglie di piccoli borghesi passeggiavano per le strade in cerca di frescura; i tavolini dei caffè, gremiti di gente, ingombravano i marciapiedi; le tramvie, scorrendo su le rotaie calde, levavan guizzi di scintille azzurre. Sempre più gli batteva il cuore nell’avvicinarsi alla casa paterna. Giunse. La bottega era già serrata; egli restò qualche attimo davanti al portone per non apparir troppo commosso, poi entrò per la corte e li vide seduti in crocchio: il padre, la madre, Paolo, il Riotti, l’Eugenia, che discorrevano prendendo il fresco. E lei? Dov’era?... Il cuore gli tremò. La corte era già piena d’ombra, il lampione della portineria vi spargeva un tremolante riverbero; alle finestre, in alto, v’era gente affacciata: si udiva or una cantilena, or un bisticcio, e qualche scoppio di risa. Al romore del suo passo, taluno del crocchio si volse; l’Eugenia lo riconobbe. — Oh... Arrigo! — fece, e si levò. Tutti si volsero al sopraggiunto. Egli tese loro le mani, poichè non poteva parlare. La madre gli venne incontro e l’abbracciò. — E Loretta?... — egli profferì piano, quasi vergognandosi di quel nome. Non intesero, o non vollero intendere la sua domanda; nessuno rispose. Paolo gli strinse la mano con un mezzo sorriso, il padre disse appena: — Bravo, sei tornato. Era un pezzo! Mai la sua voce era apparsa al figlio così affranta. Ed il Riotti, con una voce piena di cerimoniosa ironia, declamò: — È sempre il benvenuto chi torna fra noi. — State bene tutti? — domandò Arrigo finalmente. Rispose Paolo: — Non c’è male, come vedi. E gli altri tacquero. Cos’era dunque accaduto? Quelle parole brevi, malcerte, avevano quasi l’aria di nascondere un penoso mistero. — E Loretta? — egli ridomandò con voce palpitante. Dopo un silenzio Paolo rispose: — Non c’è. — Come non c’è? È fuori? — Sì, è fuori, — rispose la madre, impacciata. E gli altri tacquero. — Ma voi, scusatemi, da che parte venite? — domandò il Riotti. Egli era rimasto in piedi fra mezzo a loro; lui e l’Eugenia erano rimasti in piedi. — Io? Di lontano... — Ah? un gran bel posto! — commentò il Riotti stropicciandosi le mani. La ragazza intanto lo guardava co’ suoi piccoli occhi attoniti, ed una commozione visibile tremava sul fiore della sua placida inerzia femminile. — Mi sembra che tu non stia molto bene, — osservò la madre. — Ma ci si vede così male qui... — Sono stato un po’ indisposto negli ultimi giorni... È il gran caldo. — Si girò intorno per nascondere una confusione manifesta, poi disse: — Vorrei sapere qualcosa di Loretta. Quando rincaserà? Il padre, la madre, Paolo, si guardaron in faccia un po’ stupiti: supponevano forse ch’egli ne sapesse più di loro. — Questo non si sa! — cantilenò il Riotti, cui piacevano le parti ironiche. — La signorina non ha ore fisse! Il padre si levò; l’uscio della retrobottega era lì vicino. — Vieni, — disse ad Arrigo; — ho da parlarti. E curvo, camminando a passi faticosi, lo precedette. La madre, Paolo, entraron dopo di loro. — Ci sarà un consiglio di famiglia, — malignò il farmacista, con la viva tentazione di seguirli. Ma per convenienza suggerì a sè stesso: — Finisco la mia pipa. — Gesummaria, che faccia hai, Rigo! — esclamò la madre, entrando nella stanza illuminata. — Figlio mio, cosa t’è accaduto? Non sei più tu! Egli era di fatti spaventosamente pallido e magro; gli occhi solo vivevano di una vita febbrile nella sua faccia devastata. Egli cercò di sorridere: — Sono stato un po’ male... Ho avuta la febbre per molti giorni. — Ma l’hai ancora... Se ti vedessi, figlio mio! — No; ora sto bene. Il padre lo considerava mutamente; Paolo s’avvicinò a lui, con la bontà impacciata delle persone semplici. — Vuoi prendere qualcosa? — disse, per mostrare la sua premura. — Grazie, Paolo, nulla. Tutti e tre si guardarono ancora in silenzio. Nella sua casa egli era più che mai un estraneo; perciò non osavan troppo investigare nella sua vita misteriosa. V’eran ancora su la credenza i resti della cena; un’insalata condita con aglio odorava forte. — Allora tu non sai nulla? — domandò il padre. — Io? Nulla! — esclamò Arrigo, ansioso. — Che c’è? — Loretta... — Sì, Loretta, Loretta... — l’aiutò Arrigo, tendendosi a lui con una faccia spettrale. — È via... è partita... è fuggita insomma... — Fuggita!?... Egli barcollò e cadde sopra una sedia. Chiuse gli occhi un momento per riaversi, li riaperse: e rimasero sbarrati, enormi. Tutti e tre allibirono del suo terrore. — Di’, Arrigo, stai male? — fece Paolo, avvicinandosi ancora come per soccorrerlo. — No... no... Fuggita?... Ma dove?... con chi?... — chiese con la voce strozzata. La madre corresse: — Non è fuggita: ha detto che voleva andarsene... l’ha detto prima... Arrigo radunò tutte le sue forze: — Ma dove?! — gridò con ira. — Noi credevamo che tu sapessi tutto, — fece il padre. — Io? Non so nulla! Oppure suppongo, suppongo appena... Paolo camminava per la stanza, a fronte bassa, con le mani in saccoccia. — Sai... è una sgualdrina... — disse. Arrigo scattò in piedi con un balzo. — Cos’hai detto!? L’altro fece con la mano un gesto vago. — Nulla... dicevo così per dire. Seguì un torbido silenzio. Tutti e tre guardavano Arrigo quasi con paura. In lui saliva una orrenda collera, i suoi occhi ne lampeggiavano, i suoi pugni eran frementi. — E nessuno di voi sa dove sia? — domandò con una orribile voce. Tacquero. Egli fece qualche passo indietro, fin contro il muro, e girò su la sua famiglia uno sguardo minaccioso. — Non lo sapete?... Il padre rispose: — No. — Da quanti giorni è partita? — Saranno dieci giorni. — Dieci? — egli ripetè sordamente. E contò nel suo pensiero il tempo da che s’eran lasciati. — Questo avete fatto voi! — gridò con veemenza, buttando innanzi la mano come per insultarli. — Noi?... — mormorò il padre. Paolo scrollò le spalle. — Sì, voi! Non dovevate lasciarla partire, — disse più duramente, con una voce implacabile. La madre s’era messa a piangere in una poltrona; Paolo s’era fermato contro un mobile e fissava Arrigo con stupore. — Noi? — balbettò ancora il padre. — Cosa possiamo fare noi contro voialtri?... Ci ammazzate, e basta! Uno scoppio di tosse rauca gli ruppe il petto senile; piano piano si lasciò calare sopra una seggiola e continuò a tossire. Fra l’uscio apparve la faccia barbuta e lucida del Riotti. — Disturbo? — domandò con mansuetudine. — Sì, disturba, se ne vada! — gl’intimò Arrigo senza muoversi. L’altro volse uno sguardo su quella scena e si ritrasse a malincuore. Arrigo fissò il fratello: — E tu cosa sei qui a fare? — domandò con disprezzo. — Non ti occupi di nulla, tu? Non sai dov’è andata tua sorella? L’altro divenne paonazzo di collera, bestemmiò qualche parola fra i denti, ma non si comprese nulla. Soltanto lo si vide oscillar sui piedi come se volesse affrontare il fratello. Il padre si levò di nuovo, con fatica, per gli spasimi che gli fiaccavano il dorso; la sua mano incerta si tese verso il figlio primogenito; il mento scarno gli tremava nella commozione. Allora, in quel momento ch’egli stava per parlare, per accusare forse, intorno alla fronte di quell’uomo debole che per tutta la sua vita non aveva sopportato se non ingiurie e sventure, una certa solennità si cinse, come se nella sua canizie venerabile, in quella stanza dov’erano la sua donna e due de’ suoi figli, quel vecchio si sentisse veramente il capo della casa, colui che veglia fino all’ultimo sul focolare semispento e può benedire come un santo o maledire senza remissione i figli nati dalla sua virilità. — Con qual diritto, — disse, — ti permetti tu di condannare tuo padre e tua madre? Tu, che nella tua casa non hai portato altro che malanni? Tu, che ci hai lasciati soli quando avevamo più bisogno di te? Cos’hai fatto nella famiglia, tu, per poter giudicare di noi? Ci hai voltato le spalle: ecco quel che hai fatto! Nè più nè meno che tua sorella, peggio che tua sorella, perchè tu eri il primogenito, quello che aveva il dovere dell’esempio. Sei tu che l’hai portata fuori di casa per il primo, che le hai insegnata la via del vizio, e se oggi è perduta per noi, se oggi si disonora, la colpa non è nostra: è tua! tua!... perchè sei stato un cattivo figlio, e in tutta la tua vita non sarai che un uomo cattivo!... La sua voce si estenuava; ricadde su la seggiola, soffocato dalla tosse. Arrigo aveva da principio ascoltata quella voce con un religioso terrore. Ma poi, quando s’intese rinfacciare la sua colpa da colui che non la conosceva, quando pensò che accusavano lui di averla buttata nelle braccia d’un altro, lui che si struggeva d’un amore insanabile, quando sentì che la sua opera nel mondo era stata solamente quella di corrompere, di perdere, di trascinare con sè chi amava, nel suo perverso destino, quando sopra tutto comprese di aver quasi tradito il suo terribile segreto, una ribellione cieca proruppe in lui, contro tutto e contro tutti, contro quel padre istesso che ora l’accusava, quel padre taciturno ch’era venuto a minacciarlo nella sua notte d’amore. Un riso crudele gli salì fino alla gola e risonò contorcendo la sua bocca sinistra. — Va bene, — disse lentamente, — va bene! Poi continuò, scandendo le parole: — Se Loretta è partita con un amante, io sono un uomo rovinato e perduto... — Fece una pausa e ripetè: — rovinato e perduto. Si cacciò una mano fra i capelli, tacendo con la bocca una smorfia di dolore; indi riprese: — Ma non importa. Voi tre... voi tre: padre, madre, fratello, dovevate impedire che partisse a costo di ucciderla. Non lo avete fatto, e siete responsabili di tutto quello che può succedere. Non dimenticatelo: voi tre! E li segnava col dito ad uno ad uno, ridendo di quel suo riso sinistro. Paolo s’avanzò verso di lui, fissandolo co’ suoi piccoli occhi intensi. Quando gli fu vicino, rovesciò la testa indietro, duramente, con un atto di sfida. — Di’ un po’!... cos’hai tu per la Loretta?... — fece, con un tono ambiguo. — Io?... — pronunziò Arrigo, illividendo. — Sì, tu, proprio tu! Cos’hai? Arrigo girò intorno uno sguardo di bestia impaurita e fece atto di rispondere; ma l’altro non gliene diede il tempo, e riprese: — Bene, ti ripeto: lei è una sgualdrina e tu la vali! Arrigo istintivamente levò il pugno sopra di lui: la madre dette un urlo. Ma Paolo, nella sua forza tranquilla, non si scompose. — Ed ora, — disse, — vattene di qui, se non vuoi che ti scacci io! Col braccio teso gli additava la porta. Non fu paura fisica, ma una paura morale, fredda, orrenda che lo vinse. Gli parve che avessero guardato nel suo secreto, che mille bocche urlassero ad alta voce l’infamia di cui s’era contaminato... Chinò la testa silenziosamente, ed uscì. La strada formicolava di gente; la strada gli parve impetuosa, terribile, fragorosa; la strada lo afferrò, lo travolse nel suo flutto, come un naufrago in balìa della fiumana. VII Non seppe mai cosa fece o dove andò quella notte. Una specie di follìa calma e lugubre s’impadroniva del suo spirito, ed egli entrava nella tragedia imminente con una spaventosa lucidità. Non di rado, quando la vita d’un uomo è giunta vicino alla sua catastrofe, il senso inerte e vacuo dell’irreparabilità dilaga nel suo mondo interiore, come se tutta la potenza dell’anima volesse per un istante riposarsi, prima di affrontare, benchè invano, la battaglia definitiva. Egli si senti del tutto solo nella vita, e questo senso della solitudine, che non lo aveva spaventato mai, dette al suo cuore uno smarrimento infinito. Lo avevano messo fuori dalla sua casa, bandito come un essere immondo; gli pareva che tutta la famiglia umana rifiutasse di considerarlo de’ suoi, perchè aveva peccato contro la legge sacra delle parentele, aveva nascosto nella cenere del suo focolare il serpe che avrebbe avvelenata l’ara della pace domestica. Egli, che non aveva mai pensato a discernere il bene dal male, sentì in quell’ora tutte le colpe della sua vita trascorsa. Aveva voluto vincere il proprio destino, arrampicarsi con l’unghie e coi denti per un’erta che non era la sua; spronato da un’ambizione meno che mediocre, tutte le frodi gli eran parse buone per facilitare la sua dura conquista. Ed aveva neglette in quell’opera vana le qualità che avrebbero potuto fare di lui un uomo rispettato ed onesto, forse un uomo veramente superiore. Ma la fatalità lo aveva inseguito, attenta e ben nascosta, nell’ombra del suo cammino. Adesso lo vinceva; i frantumi del suo lavoro paziente cadevano in polvere intorno a lui. Ma tutto questo era ancor poco, in paragone dell’altra sciagura. Quella che amava, quella che un tempo divideva il suo male, rendendolo quasi dolce, quella che si era curvata con lui, più volonterosa di lui, su l’orlo dell’abisso ineffabile, caduta già nelle braccia d’un altro dimenticava il peccato. Per quanto fosse orrida la sua speranza, egli non poteva nemmeno più sperare. Ella si era dunque lasciata vincere dal ribrezzo, si era vergognata, o forse aveva riso di quell’amore ch’era stato fra loro, e con lieta indifferenza si prodigava, nelle braccia d’un altro, il più spensierato oblìo. Egli le avrebbe fatto orrore, se ancora l’avesse baciata come una volta, e di lui non poteva ella provare che una pietà profonda. L’uomo ragionava di queste cose con una tranquillità mortale. Ma una speranza tenue, una di quelle speranze irragionevoli che nascono dalle somme disperazioni, ancor balenava nella sua morte interiore. Era fuggita, ma sola forse, fuggita per cercare di lui... Come saperlo? Si trovò, la mattina dopo, in uno stato quasi d’incoscienza, davanti al palazzo Giuliani. Guardò nella corte; le scuderie eran chiuse; le finestre dei primi due piani similmente chiuse; tutto il palazzo aveva quell’aria disabitata che assumono le case patrizie al tempo delle villeggiature. Entrò in portineria per domandar di Rafa; gli fu detto che lo credevano in campagna, a Villa Ippolita, con tutta la famiglia. Era partito in automobile. — Da quando? — egli domandò. — Forse da una decina di giorni, o poco più. Tornò fuori. Il selciato delle strade, acceso dal sole, gli feriva dolorosamente gli occhi; qualche volta gli pareva che i muri delle case si chinassero su di lui. Nel suo freddo incubo, immaginava ora una scena selvaggia; si vedeva davanti a Rafa, in una stanza chiusa, laggiù, chissà dove, lor due soli. Gli pareva di sentirsi nelle braccia una forza raddoppiata, e che l’altro ne tremasse. Gli diceva (ma non era precisamente lui, e non era la sua propria voce): «Tu me l’hai presa, è vero? tu le hai fatto gridare il suo primo grido... tu l’hai avuta, nuda, fra le tue braccia... è vero? Ed io t’uccido!» In sè, profondamente, sentiva la gioia della morte che avrebbe data. Gli diceva: «T’uccido!... ma lentamente, non súbito, non d’un colpo: devi patire.» S’avvicinava, lo prendeva per la gola, lo spegneva, piano piano... Nella mattinata la città operosa viveva d’una vita confusa ed ilare; il fragore delle strade gli parve assordante. — «S’egli è a Villa Ippolita, ella non dev’essere lontano, — pensò. E poi di nuovo l’assurda speranza s’infiltrava nel suo cervello: — Forse non è con lui; forse mi cerca.» Ma perchè non gli aveva scritta una sola parola, foss’anche per dirgli: — «Mai più»? Si accorse di avere un aspetto bizzarro, perchè molti, passando, lo guardavano. Frattanto studiava il modo migliore per ritrovar le tracce di Loretta; ma nel disordine della sua mente le idee si disperdevan come fumo. Allora pensò di rivedere i consueti amici, poichè, nell’interrogarli destramente, avrebbe forse attinta qualche notizia sul conto di Rafa. Passo passo, meditando, si recò alla bottiglieria dov’era solito fare una sosta prima della colazione. Il consueto crocchio s’era diradato assai, perchè molti eran già partiti per le villeggiature, si erano dispersi qua e là, nei soggiorni estivi. Taluno, al vederlo, ebbe un’esclamazione di stupore: — Oh, Del Ferrante!... Come va? Tornato? Che brutta cera! Cosa ti cápita? Traspariva dalle parole, dagli sguardi curiosi, una celata ironia. Egli rispose a casaccio, qualche breve parola. Tutti gli parvero strani e mutati con lui. Scambiate appena poche frasi di convenienza, i più con un pretesto o con l’altro, si ritraevano a parlar fra loro. Poi c’eran stati alcuni sorrisi rapidi, alcuni segni nascosti, e tutto questo non accadeva fortuitamente; egli lo comprendeva bene. Giorgino Prémoli, dopo aver discusso con altri, gli si avvicinò. Quest’uomo era maligno e crudele come tutti quelli che han molto a farsi perdonare dall’indulgenza del prossimo. — Sei stato via parecchio tempo, — disse per attaccar discorso. — Infatti. — Come mai? — Non stavo bene, non sto bene ancora. — Si vede. Il Prémoli si levò il cappello per farsi vento. — Bella donna! — disse, di una che passava. Poi, con indifferenza: — È vero che vai a stabilirti via? — Io? Perchè? — Ma... lo dicevano... Saranno chiacchiere: a rivederci! E se ne andò fischiettando. Egli rimase lì come inebetito. Cos’erano quelle ostilità nascoste, quelle frecciate che gli lanciavano con parole oscure? Sapevano forse già di Loretta? La voce si era per caso divulgata? O forse, lei e Rafa, s’erano fatti vedere insieme? Pensò di far colazione al Circolo per raccogliere altri indizi. Ma non v’era quel giorno che una piccola tavolata di gente con la quale non era affatto intimo e che lo salutò appena. Si mise ad un tavolino da solo e vide che anche i domestici bisbigliavan nel servirlo. Non poteva inghiottire cibo; accese una sigaretta e si recò nelle sale del Circolo, ch’erano ancor vuote. Solo un vecchio maggiordomo, quello che la sera levava le decime dalle tavole di gioco, andava spolverando qualche mobile con una pigra lentezza. — Signor Del Ferrante, i miei rispetti! — fece, senza interrompersi. Col servidorame Arrigo era sempre stato largo di mance, ben sapendo che la fama d’un gentiluomo è spesso in mano di costoro. — Come stai, Pietro? — gli domandò. — Si tira innanzi come Dio vuole. Ma lei mi pare un po’ dimagrato. — Forse. Cosa c’è stato di nuovo in questi giorni? — Niente: un gran caldo. — E d’altro? — Nient’altro. Cosa vuol mai... le solite commedie! Questo Pietro aveva la filosofica rassegnazione, il freddo compatimento di coloro che da venti o trent’anni, ogni giorno, sbrigano le stesse faccende e vedono succedere le stesse cose. — Baruffe? — domandò Arrigo. — No; son quasi tutti in campagna. — Pérdite forti? — Qualcuna. — Pettegolezzi? — Eh, si sa... di quelli se ne fanno sempre! — Su chi? — Non le saprei dire; io non ascolto nemmeno. Ne ho viste tante!... Entraron Beppe Cianella e Franco Spada, per la partita di dómino che in estate usavano fare ogni giorno, dopo la colazione. Il primo finse di non vedere il Del Ferrante, l’altro di lontano gli disse: — Addio, come va? E si sedettero in fretta nel solito angolo. Pietro portò la scatola del dómino. Mentre giocavano, Arrigo li intese parlar fra loro animatamente; s’avvicinò, studiandone le fisionomie; ma l’uno e l’altro, con la fronte raccolta nella mano, finsero d’essere occupatissimi al loro gioco. Arrigo si mise a cavalcioni d’una seggiola, vicino ai due giocatori. — Che novità? — fece. — Peuh... nessuna! — rispose velocemente il Cianella. E disse allo Spada: — Da questa parte ti chiudo col cinque: pesca! Sopravvenne un certo Ugo Fiorini, biondo e miope, sempre mezzo assonnato, che occupò súbito il divano sul quale usava ogni giorno fare la siesta; poco dopo entraron Lanzo Malatesta e Carletto Santorre con Totò Rígoli. — Eh!... alla buon’ora! si levano i morti! — gridò quest’ultimo al Del Ferrante. — Mi avevano detto che ti eri imbarcato per le Indie, partito per il Polo, andato in cerca d’una miniera... Invece sei qui. Si voleva già mettere il tuo nome nell’elenco dei soci onorari... perbacco! Alcuno rise di nascosto, sogguardando il Rígoli con intendimento. Il Ferrante non rispose nulla; tese la mano ai sopravvenuti e strinse le loro con affetto. Nella sua gran desolazione gli pareva di voler bene a quegli amici, che andavano tessendogli una corona di spine. — Come vedi, — riprese il Rígoli, — siamo rimasti in pochi. Tutti via, coi papà, con le mamme, con le sorelline... in campagna! Egli ebbe una stretta al cuore; di nuovo sentì nascere un riso discreto, ma non osò guardare chi ridesse. A che alludevano quegli scherni velati? Non avevan dunque nessuna pietà di lui? Non lo vedevano morire? — Tutti via, — riprese il Rígoli. — I mariti partono alle cinque col treno dei mariti: è il tempo in cui si fanno i figli legittimi alle proprie mogli. Ci sono poi quelli che vanno in Isvizzera con le ballerine e le inscrivono nei registri degli alberghi sotto il proprio nome, — per esempio: «Monsieur Maxime Ravizzolì et Madame.» Madame, qui da noi, è la Gigetta. — Ci sono gli amanti delle signore, che spendono un occhio della testa in biglietti di andata e ritorno; ci sono gli spiantati che vanno ad Aix-les-Bains od a Trouville, ed infine ci siamo noi, scapoli, senza famiglia o quasi, che restiamo su per giù tutta l’estate a soffiare dal caldo in città. — Accidenti! Non potresti farli un poco più lontano i tuoi sproloqui? — esclamò lo Spada che perdeva la partita. — E poi ci sono i misteriosi... — continuò l’altro, imperterrito. — I misteriosi che non si sa dove vadano, nè con chi vadano, nè perchè vadano dove appunto vanno... Alcuni, che avevan ascoltato noiatamente, si volsero al ciarlatore con un risolino pieno di malizia. — E sono molti quest’anno, riprese il Rígoli. — C’è lo Spronelli, detto Coditrémola, che ha passato la frontiera col suo inseparabile e indispensabile amico Lulù Mattioli... Anzi, la Clementina dice che sono in luna di miele. C’è il tenente Calógero, che ha chiesto tre mesi di licenza, per fare, lui dice, una crociera nel Mediterraneo, ma tutti sanno invece che deve curarsi la sifilide; Tito Gallo che va a fare il Segantini in alta montagna; i due Berni e Giannetto Pigna che vanno a fare una «tournée» artistica nelle bische francesi; Torretta che va ad imparare il «bridge» in Inghilterra... c’eri tu, caro Ferrante, che credevamo scomparso, ma invece sei tornato e non conti più fra i misteriosi... Eccoti in poche parole messo al corrente di tutta la situazione estiva della nostra compagnia. — Ce n’è un altro... — disse ambiguamente il Malatesta, — un altro misterioso... — Ah, sì! — concluse il Rígoli, volgendosi ad Arrigo. — Quasi quasi me ne scordavo! C’è Rafa Giuliani, ch’è partito per ignota destinazione, e quello proprio nessuno sa dove sia, a meno che, per caso, non lo sappia tu... — Pesca! — disse il Cianella allo Spada, soffocando una risata. VIII Egli uscì barcollando. Si sentiva sopraffatto, perduto. Non soltanto l’aveva ella tutto pervaso di un amor senza pace, non solo fuggiva, dimentica d’ogni loro complicità, ma d’un colpo irreparabile aveva pure distrutta la paziente opera della sua vita, mettendo alla gogna il loro nome, dandolo ferocemente in balìa delle vendette pubbliche. Adesso tutti ridevano alle sue spalle, saziavan nello scandalo palese l’odio e l’invidia lungamente contenute. Il nome infamante, l’aspro epiteto di lenone, gli sibilava nelle orecchie ronzanti, lo feriva nel mezzo del cuore, come se ognuno, vedendolo passare, gli lanciasse dietro per beffa questa parola ingiuriosa. Ecco: l’accusavano di aver venduto la sua sorella al ricco libertino, di aver tramato nell’ombra il mercato fraterno, forse di averne già riscosso il prezzo. E la città lo sapeva; per ogni strada la notizia correva di bocca in bocca, ad ogni limitare si parlava di lui, di lei, dell’altro; era un bisbiglio continuo, súbdolo, che saliva, saliva, soverchiando nel suo cervello esagitato la voce di tutte le cose; era il suo nome, il nome di lei, che volava nelle risate della gente. Ora lo avrebbero bandito, si sarebbero precipitati in cento a sbarrare il suo cammino; la fiamma nascosta sotto la cenere avrebbe illuminato di un crudele rossore il suo pubblico dileggio. Strappatagli di dosso la sua veste di gentiluomo avventizio, anche i più benigni non avrebbero ritrovato in lui che il fratello della mantenuta. E udiva rinchiudersi dietro di sè, con un sordo fragore, le porte dei circoli, le anticamere delle sale, tutte le soglie che aveva pazientemente forzate; facce avverse vedeva, bocche orlate di scherno, occhi obliqui volgersi altrove per non rispondere al suo saluto. Tanti anni spesi ad un lavoro ábile, tenace, assiduo, eran ormai sprecati, buttati al vento come pugno di cenere; l’inviolabile signorìa si asserragliava novamente nel suo cerchio di privilegi — e questa volta per sempre. Ecco il dono ch’ella gli aveva apparecchiato per il suo ritorno ed in cambio dell’amore ond’egli si moriva per lei. Oh, se questo avesse potuto almeno liberarlo dalla sua disperata passione! Ma non sapeva odiarla, e, per quanto ella lo ferisse, non gli riusciva d’avere contro lei alcun rancore. Dal fondo invece della sua coscienza risvegliata una voce gli parlava, con le stesse parole del suo padre accusatore: «Sei stato tu che l’hai portata fuori di casa per il primo; se oggi si disonora la colpa non è nostra, è tua! tua!... perchè sei stato un cattivo figlio e in tutta la tua vita non sarai che un uomo cattivo!» Ed allora si ricordò di quel primo giorno ch’ella era venuta nella sua casa, con un braccialetto d’oro al polso, il braccialetto di Rafa, e ricordò tutto quello che avevan discorso fra loro, stando egli supino sul letto, ella seduta su la coltre, quando, fra quel calore, fra quell’odore che veniva da lei, aveva lasciato cadere sopra la sua purezza il primo sguardo colpevole. Invece di ammonirla s’era fatto il suo complice, per farsi amare da lei; giorno per giorno l’aveva quasi ammaestrata nella corruzione, le aveva scaldato nel grembo il piccolo serpe della lussuria, che li aveva poi allacciati insieme nel suo nodo convulso. Atterritamente sentì che una forza invincibile si era drizzata contro la sua colpa e che più non eravi alcuna ribellione da tentare, alcuno sforzo nel quale adergere l’ultima volontà, l’estrema speranza. Il suo nemico non era più solamente racchiuso nella sua coscienza; ora usciva, lo accerchiava, lo batteva da ogni parte. Quest’uomo, che si era sentita forza bastevole per vincere da solo e duramente la sua battaglia, provò allora un infinito bisogno di tutti, e si volse a cercare intorno a sè un amico, un amico fraterno e buono in cui versar la sua pena, un tetto soccorrevole sotto il quale trovar rifugio. Ed allora solamente si ricordò di una donna ch’egli aveva oppressa e fatta piangere, una donna che lo aveva sempre soccorso, ch’era pronta sempre a tendersi verso di lui col gesto ineffabile del perdono. Egli sapeva che da qualsiasi lontananza le ritornasse, dopo quante mai strade, su le sue labbra smorte avrebbe sempre ritrovato un sorriso. Camminò per i marciapiedi avvampati, lungo i muri che gli gettavano in faccia una luce abbagliante; camminò, vedendo solo fulgori e grandi circoli di sole, che gli roteavano intorno come per allucinarlo. Tutti i rumori della strada, anche i più comuni, gli parvero insoliti, e mutati gli aspetti delle cose; in lui scemava perfino la coscienza dell’enorme dolore che lo travagliava. Come se un’immensa catastrofe, d’un tratto, fosse avvenuta in lui, l’anima gli restò sepolta sotto le rovine del suo mondo interiore, ed inerte come un automa egli ubbidì solamente alla sua paura. Quando giunse nella contrada ove abitava l’amante, quando rivide quella casa dall’aspetto un po’ tetro, ma con un suo balconcello fiorito, col suo portone ampio e scuro che dava in una corte vetusta, il cuore gli si aprì di tenerezza come a colui che dopo aver patiti gli insulti, la fame, i rigori della strada maestra, veda finalmente sorgere di lontano il tetto di una casa ospitale. Avviene talvolta che la più antica fra le nostre abitudini ci sembri nuova, ed un luogo per il quale siamo le cento volte passati riévochi subitamente in noi la dispersa memoria d’un’anima che anticamente fu nostra. A nessuno è dato conoscere come un luogo, un oggetto, un essere, siano veramente in sè stessi, fuori dalla nostra sensibilità e svestito dall’immagine che noi gli attribuiamo. È il nostro cuore che fa parlare le cose, e noi, attoniti qualche volta, ne ascoltiamo la voce. Nel salire le scale della casa di Clara Michelis egli provava quel giorno un’onda di sensazioni confuse; guardava con una specie di curiosità l’aspetto di que’ muri adorni d’antichi affreschi, di quegli scalini larghi e lenti, che aveva tante volte contati macchinalmente nel salirli, di quella ringhiera in ferro istoriato, un po’ rugginosa, che portava nelle congiunture de’ suoi fregi una incancellabile polvere; guardava l’aspetto di quel grande arazzo, che pendeva dalla parete sul primo pianerottolo, dove c’era un cassabanco in legno scolpito. E ricordava, ricordava... In un attimo riviveva una storia di molti anni, la storia di tutte le cose ch’eran passate fra loro, dai primi tempi, quando l’amava d’un capriccio forte, agli ultimi, quand’ella era divenuta per lui un peso necessario, anzi una indispensabile ma tediosa catena. La rivedeva, qualche anno addietro, ancor bella e desiderata da molti, co’ suoi lisci capelli neri che le facevan su la nuca un gonfio nodo attorto, col suo viso diafano, in cui gli occhi ardevano d’una vita spirituale; e quand’ella gli si rifiutava con tutte le scaltrezze voluttuose della donna che prevede l’imminenza del suo fallo, e poi le lunghe sere che avevan trascorse nella sala semibuia, tra i molti vasi di fiori che odoravan troppo forte, lei, con le veloci sue dita correnti su la tastiera, lui, poggiato la tempia contro il violino, avvolto nel profumo della sua carne pallida, curvo su lei, desiderosamente... E quel giorno ch’era stata sua per la prima volta, quando già da un pezzo egli si sentiva amato, e già le sue calde labbra si erano date a lui, di sera, nell’ombra, con brivido, su l’orlo d’un pericolo meraviglioso. A quel tempo era singolarmente bella, ravvolta in un colore di poesia, con l’anima che mandava profumo; nella sua semplicità era qualcosa di prezioso; l’essenza intima della sua persona somigliava singolarmente a certe materie fragili, profumate, rare, come l’antico avorio, come l’ambra soave... Poi, lentamente, la sazietà, la noia, il disamore. Quante lacrime le aveva egli fatte piangere! Quante ore di sconforto aveva portate in quella casa, dove adesso tornava, sopraffatto egli pure da una di quelle tempeste che soverchiano il cuore... Ell’aveva ora qualche capello bianco; però non si tingeva, per onestà forse o forse per disattenzione. Ma egli ne aveva rabbrividito qualche volta nel baciarla. E, se non poteva nascondersi l’evidenza di quello sfiorire, il doverlo sopportare in silenzio talvolta gli eccitava nello spirito un rancore ingiusto contro di lei. Nel ridere, la sua bocca un po’ sciupata, i suoi occhi un po’ stanchi, s’increspavano di leggerissime rughe; intorno alle sue narici estremamente fini, e nel cavo degli occhi, sotto il mento, intorno alle vertebre del collo, si raccoglieva talvolta una indefinibile ombra, quell’ombra delle cose che stanno per mutar forma, che già furono belle ed accennano a finire. Ma egli non poteva dirle che sentiva il freddo di quelle ombre, nè dirle che, pur tacendo, gli salivan talvolta fino all’orlo della bocca certi acutissimi scherni... Ell’aveva conservata un’ossatura da signorina; le sue braccia nude, nell’avvincersi a lui, sapevano ancor fare quel nodo lento e forte che fanno le braccia delle amanti giovini; ma il seno fiacco le s’inaridiva; la sua pelle, fattasi quasi opaca, non tramandava più quell’odor lussurioso che la donna sparge fra le coltri quand’è nel suo fiore. Egli doveva qualche volta chiudere gli occhi e sognare un’altra carezza, un altro amore, anche di strada, ma sul quale non fosse caduta la sottile cenere del tempo. E come confessarle: «Non te bacio col mio tepido bacio... non te, ma la giovinezza d’un’altra, e mi riscaldo nel calore d’un’altra e bevo su la bocca d’un’altra questa voluttà che ti simulo...» Come dirle una simile cosa? E però metteva nel saziarla una specie d’involontaria crudeltà, poichè in lei rimaneva la febbre, il desiderio più giovine degli anni, la voglia inestinguibile in tutte le creature, di piacere ad un’altra, di ricevere da un’altra il piacere. In lei rimaneva il triste furore della passione, come un bócciolo ancor verde sopra una pianta che vada sfiorendo; e qualche volta, sotto l’ombra della sua fronte chinata, ella pareva guardarlo con infinita malinconia. C’è un momento nella vita della donna, in cui tutte le virtù che sono state o che potevan essere nel suo cuor femminile par si radunino insieme per comporre una fedeltà unica, una sola poesia. Ed è allora che nel suo amore pénetra un senso vago di maternità, si fonde una tenerezza sororale, nasce un bisogno di proteggere, di consolare, di porgere aiuto, come se nel suo cuore di amante vivesse insieme la casta misericordia d’una suora di carità. Ed è forse l’estrema, involontaria civetteria, della quale si orna la donna, l’ultimo abito che si presceglie e con il quale cerca di piacere. Nel suo commiato dell’amore, che in fondo è per la donna tutta la storia della sua vita, ella vuol essere più bella che può. Due giorni per lei non saranno dimenticabili nella sua fedele memoria — il più voluttuoso ed il più triste: quando sentì per la prima volta il desiderio d’un uomo tremare dietro il lieve muoversi della sua gonna, e quando, in un bacio dell’ultimo amante, s’accorse irremissibilmente che non sarebbe amata mai più. — Clara! Ella entrò nella sala con quel suo passo che non faceva rumore. Soffocata dalla commozione, percossa dallo stupore, non disse parola e restò perplessamente a guardarlo. Dov’era stato? che aveva fatto? quale terribile avventura aveva così travolta la sua vita? Non era più il medesimo, quegli che tornava; non lo riconosceva più. Tutto questo ella pareva esprimere con uno sguardo solo. Talvolta, fra due che s’incontrano, vi son tante e così terribili cose a dirsi, che le parole, tutte le parole, sembrano quel che sono in verità: segni troppo incapaci di esprimere il colore dell’anima nostra. Ed allora si parla solo quando ci si è già del tutto compresi, quando la confessione è già passata dall’uno all’altro, mutamente, e mutamente ha devastate le anime. Un lungo silenzio pesò fra loro, anzi una specie di concitazione così forte, così lucida, che a vicenda potevan leggersi nel volto i loro inconfessabili pensieri. Poi Arrigo si lasciò cadere sopra una poltrona. — Sono stanco... — mormorò, e con le due mani si coverse la faccia. Ella ebbe la bontà suprema di sorridergli, pur nello strazio che dentro la esagitava; e venutagli più vicina, con una mano gli carezzò i capelli come faceva di consueto. Egli prese la sua mano, al polso, e la baciò. Non aveva mai pianto; in quelle lunghe settimane di tormento, mai la dolcezza consolatrice d’una lacrima gli era salita fino alle aride ciglia. E in quel momento, dal suo più profondo essere, sotto la carezza di quella mano timida, sentì qualcosa commuoversi dentro l’anima che non era più disperazione, che non era più furore, ma una voglia d’esser debole, d’esser umile, d’esser buono, quasi di comunicare a lei tutto il male che aveva sofferto, quasi dirle: «Aiútami! guarda nel mio dolore, lasciami piangere, vicino a te...» E dagli occhi riarsi le lacrime caddero, infrenabili. Tacendo, ella si piegò, si pose a ginocchi davanti alla sua poltrona, mise la fronte contr’una sua spalla e rimase ferma. Così lo ascoltava piangere, in silenzio, con una specie di religione, trattenendo a forza le sue lacrime, poichè le parve che il suo proprio dolore non dovesse nemmeno aver luogo vicino al dolore di lui. Lontana, troppo lontana, ricomparve ad entrambi negli occhi la loro storia d’amore. Ed in quell’ora in cui si sentivano per sempre divisi da un ostacolo maggiore di tutte le volontà, l’uno e l’altra provarono ancora il conforto di affacciarsi uniti sopra quella vacuità incolmabile, di fondere il loro spavento insieme, di guardare con occhi fraterni la loro morte interiore. Ella gli passò le mani sul volto, pianamente, come per riconoscerlo, come per cancellarvi le traccie dei dolori patiti; e lo guardava con gli occhi asciutti, fermi, ove splendeva un’infinita bontà, una disperazione infinita. Ella non poteva dimenticarsi d’averlo un tempo veduto, bello e forte, con la bocca un po’ dura, che si contraeva sotto il morso della volontà, nè dimenticare quegli occhi suoi, così lucidi, che parevano pieni di sole... — Sono stanco, — egli ripetè ancora una volta, girando intorno lo sguardo con smarrimento, forse per riconoscere quella stanza, che gli era tuttavia familiare. — So tutto... non parlare... ho compreso tutto... — ella rispose pianamente, quasi con paura, fra una carezza ed un bacio. — Veramente?... — balbettò egli; — sai veramente ogni cosa? E Clara, senza battere le ciglia, lo ravvolse in uno sguardo d’amore, che pareva gli offrisse con umiltà il suo perdono di sorella e d’amante. — Sì, — ella rispose con una voce spenta; — sì, mio povero amico. Ed è forse troppo tardi perchè io possa fare qualcosa per te. Lasciava cader le parole con una specie d’infrenabilità, come fosser lacrime; fra l’una e l’altra metteva i battiti del suo cuore. — Ma quello che non so, — riprese, — è dove sei stato finora, dove sei fuggito, che hai fatto? Egli diede una grande risata, stridula, disperata, che suscitò in quel silenzio un’eco sinistra, e parve il riso implacabile d’un’anima gonfia d’odio contro sè stessa. Poi, di scatto, sorse in piedi, spingendo indietro la poltrona, e, fermo davanti a lei che rimaneva inginocchiata: — Non hai orrore di me? — chiese, fissandola. Clara gli sollevò nel viso gli occhi mansueti: — Povero mio amore... — gli rispose con dolcezza; e si levò. — Non ti faccio orrore, dimmi? — Dolore mi fai, disperazione mi fai... Non altro. Io sarò sempre la tua amica e non ti devo giudicare, io. Egli abbassò la fronte, con vergogna. — L’ami? — ella fece, così piano che appena si udì. E tremava. Ma egli scosse la testa con un moto ruvido e non volle rispondere. — La mia vita è morta, — disse. — Ho tutto perduto in un giorno; tutto. Vivo in una specie di vertigine. Son venuto da te, perchè sei il mio ultimo rifugio. E pensavo che anche tu mi avresti respinto. Poi gli salì un rimorso fuggevole dal fiore dell’anima: — T’ho fatto piangere molto, non è vero? Ella rispose: — Che importa? Allora si risovvenne d’essere donna, d’aver tuttavia qualche grazia nella sua consumata persona, di potergli forse dare un conforto parlandogli con la sua voce più morbida, lasciandolo discorrere della sua pena; e gli si fece presso, gli posò le mani su le spalle con un atto debole e dolce: — L’ami ancora? — domandò. — L’ami ancora molto? — Con furore! con furore! — gridò egli, senz’alcuna pietà. Ella si ristrinse nelle spalle, per dominare un tremito che l’assaliva. — Raccóntami... — fece, con la estrema curiosità del suo tormento. — A me puoi dire tutto, se questo ti fa bene. Io non sono più nulla, tranne che la tua amica... Raccóntami... — Sì? — egli fece, guardandola; — vuoi? Ma improvvisamente ebbe un gesto d’ira: — È inutile! — gridò. — Ora non c’è più rimedio. — Non è inutile, — diss’ella, tentata forse dal gran dolore che ne avrebbe. — Non è mai inutile raccontare quello che ci fa male. — Poichè, infatti, era la mia sorella!... — egli esclamò cupamente, quasi parlando a sè medesimo. E disse tre volte queste parole: «la mia sorella», come se trovasse un’acre sapore nell’orribile nome. Poi le parole gli fluirono disordinate, angosciose: — Non è stata mia! Non ho avuto abbastanza coraggio perchè fosse mia! Lo sapevi? — No, — ella rispose impallidendo. Il fratello di Loretta riprese: — Un giorno, senza ch’io me ne rendessi conto, mi si è attorcigliata intorno al cuore come un nodo vivo e soffocante; un giorno, senza che l’avessi pensato mai, la tentazione mi si è presentata, nuda, folle, terribile, nello spirito, e da questo fantasma non ho avuto più pace. Quando passava, tremavo; la sua voce mi faceva male; l’odore della sua persona, lo sentivo anche di lontano, la notte, il giorno, sempre, su tutte le cose. Nel guardarla, i miei occhi la svestivano; quando mi coricavo, era fra le mie braccia, nel mio letto, coricata. Questo male venne a poco a poco, insidiosamente, come un veleno ch’io respirassi dal suo medesimo respiro. Ed era lei che mi si offriva. Nella sua verginità, piena di nervi, piena d’impazienze, mi porgeva sotto le labbra questo cálice, in cui dovevo non bere. Lo faceva naturalmente, come si offre un sorso a chi abbia sete. Non volevo cedere, ma sentivo che prima o poi questa orribile sete mi avrebbe vinto. È stata una pazzia, che mi è salita lenta, inguaribile, nel cervello. Non devi, anzi, nessuno deve condannarmi. La volontà è un’arma troppo fragile per combattere queste orrende passioni. Sai: veniva nella mia casa; qualche volta si svestiva, lasciava nell’aria, su tutti gli oggetti, un odore incancellabile di sè. Anch’ella soffriva del mio stesso desiderio, e questo appunto m’ubbriacava. Eravamo in due a chinarci sopra un pericolo; lei ridendo, io tremando; e c’era una forza che mi tratteneva, non saprei quale, ma una forza invincibile. Con la sua bocca bella mi parlava, m’accarezzava, piangeva, mi si offriva, ed io non potevo saziare nè lei nè me. Tutte le lascivie che non avevo immaginate per alcuna donna, le pativo per lei nel mio nascosto pensiero. Quando eravamo soli, mi pareva che intorno a noi roteasse tutto un mondo di cose vertiginose... Ma perchè vuoi che ti racconti? — Si fermò affannato, quasi pentito, e súbito ricominciò: — Un altro l’amava, od almeno voleva possederla. A poco a poco son divenuto anche geloso, terribilmente geloso. Non dipendeva che da me l’appagarmi, eppure non potevo! C’era uno spavento, che so? un terrore, qualcosa fra me e lei... ombre, fantasmi, ch’ella non vedeva. Io sì: terribili! Mio padre qualche volta... ed ancor più la mia carne stessa, che non poteva contaminare la sua. Perchè?... Lo sai tu il perchè? Clara lo ascoltava, up po’ ansante, un po’ curva, senza battere le ciglia, senza muovere la bocca, incatenata, affascinata. — Lo sai? No, tu neppure non sai dirmelo. Bisognava osare. Adesso è troppo tardi; un altro me l’ha presa... è tardi! Mi amava: non mi ama più. Si è data, con gioia forse, perchè io l’avevo tormentata, e perchè sono stato anche vile: sono fuggito, lasciandola sola. Ho lottato contro di me, contro di lei, con un eroismo inutile. Bisognava osare. Invece che ho fatto io? L’ho spinta con le mie braccia nelle braccia d’un altro. Li ho lasciati fuggire, intendi? fuggire insieme... Egli fece una lunga pausa, perchè l’affanno lo soffocava; poi ricominciò: — Un giorno, mi ricordo, è venuta nella mia casa, e si è spogliata. Non dimenticherò mai quella prima volta che vidi le sue spalle nude. Ed anche una certa notte non dimenticherò, quando eravamo in un letto, nel medesimo letto, insieme, ed ella mi carezzava con tutta la sua persona profumata, mi avvolgeva, mi tormentava, si attorcigliava contro me con tutta la sua gioia, con tutto lo spavento che può essere nel primo desiderio d’un’amante. Ma, invece di prenderla, invece di concedere a lei ed a me questa felicitò orrenda, sai che ho fatto io?... Sono fuggito. Uno spettro mi ha cacciato indietro, afferrandomi alla gola; uno spettro scarno e livido, che vedrò sempre nella luce della mie pupille, finchè io viva: — mio padre. Sono fuggito lontano, all’impazzata, in cerca d’una liberazione. Mi odiavo, sentivo di me lo spregio che si può avere della bestia più immonda, ma non potevo non amare lei. Questo desiderio mi veniva dietro, fischiando, come un agile serpente. Ho tutto scordato, fuorchè lei: ho rotta la mia vita irremediabilmente, son pieno di rimorso, ne trabocco... e pure non posso vincere la mia colpa, non so concepire altra passione al mondo che il desiderio di possedere lei... Fece un’altra pausa, e si piegò su sè stesso come un uomo ferito nel petto, che voglia contenere la morte. Indi ricominciò: — Vedi? un altro me l’ha presa! C’è ora chi può dirle: «Sei mia.» Un altro le dorme vicino, la gode, la bacia. Ormai tutti lo sanno e se ne parla fino per istrada. Ebbene, che fa? Ne ridono... Che fa? Mi chiudono le porte in faccia dappertutto, mi dileggiano, mi respingono... Che fa? Che fa? Lei sola è colpevole di tutto questo, ma l’amo ancora, e più ancora, sempre più... Forse l’amo con odio, ma il mio odio è così bello e così pieno d’inesorabilità, che deve ancora chiamarsi un terribile amore. Vedi, son pieno di rimorso, e forse ti faccio soffrire, ma lo dico a te per la prima, a te sola... Farle male voglio, anche se grida!... Berle tutto il fiato in un sorso, appagare il mio peccato fino alla sazietà... E dopo? Non importa! Anche se questo mi costasse la vita, che fa, Clara, che fa?... Nella piccola sala, piena di quella voce sorda, un occhio di sole si mise a scintillare sopra una scatola d’argento. IX Faceva una notte di stelle nella piena estate; Lazzara era uscita in cerca di lucciole, e tornava portandone assai, racchiuse in una prigione fatta col suo grembiule riverso. Amava le lucciole, la libertà, i campi; era selvaggia come i suoi capelli, ch’eran d’un biondo pallido, soffusi d’un colore di cenere spenta. — Molte ne ho prese! — gridò verso la piccola veranda. — Guardate, signora: splendono! Lora s’affacciò al terrazzuolo e rispose alla fanciulla: — Vieni su. Ella corse per i dieci gradini con una leggerezza di gatta selvatica, venne davanti alla sua signora e disse: — Guardate. Aperse il grembiule di colpo, e le lucciole, tornate libere, volaron via sguinzagliandosi, tremule, come fuochi fatui, nella notte piena di stelle. Risero entrambe d’un riso chiaro, che squillò dal terrazzo carico di vanzianelle sopra il silenzio del giardino fragrante di póllini maturi. Un lume velato ardeva sopra un tavolino di giunchi; torme di moscerini aliavano per intorno, bruciacchiandosi le ali, seminando il chiaro tappeto d’innumerevoli agonie. Loretta, per aver fresco, s’era messa una vestaglia scollata, in fil di lino. Noiata e stanca, dopo la cena solitaria, non si era sentita la voglia nè di uscire a piedi per i sentieri dei vigneti, ove pesava la vendemmia, nè di correre per le strade maestre, bianche di polvere, tra le infinite messi cariche di frumento, al trotto dei due polledri sauri che Rafa le aveva noleggiati presso un vetturale di que’ dintorni. Ma invece, la sera dolce, inebriandola a poco a poco, l’aveva lentamente addormentata su la poltrona di vimini, presso il lume velato, fra i giornali d’illustrazioni e di mode, ch’eran scivolati a terra in disordine mentr’ella si addormentava. Col suo grido Lazzara l’aveva ridestata; ed ora stavano entrambe a guardar le lucciole, che volavano via spegnendosi a poco a poco, nel buio, come lucígnoli deboli sotto il vento. Nell’aria ferma, poco più su che le cime degli alberi, il calor del giorno pareva esser rimasto sospeso come un gonfio lenzuolo pressochè invisibile; tutto, a perdita d’occhio, pareva sopraffatto ed esausto per la fatica enorme dell’estate. A quell’ora, nella villetta, nella casa rustica del giardiniere, nel villaggio poco lontano, i contadini, gli artigiani, dormivano con serena pace; non si udiva che la cantilena lentissima d’una donna, la quale forse ninnava il suo bimbo. Quando l’ultima lucciola si spense, laggiù, dentro un cespuglio, Loretta disse a Lazzara: — Dove sei stata? — Nei campi. Ed aveva su la gonna infatti qualche fil di fieno. Certo se n’era andata in cerca di lucciole, per trovarsi fuori dal cancello con Benedetto che l’aspettava; poichè Benedetto era un bel giovine e le faceva la corte. Ecco, era tornata con le sue lucciole, co’ suoi capelli sempre spettinati, ed alla cintura portava un garofano rosso che prima era stato all’occhiello del suo galante. — Questa sera non verrà il signore? — domandò Lazzara. — Non verrà. Almeno ha detto che non verrà, — Loretta rispose. A Villa Giuliani quella sera si dava un pranzo e Rafa era costretto a rimanersene in famiglia, dove le sue troppo frequenti assenze, le notti passate fuor di villa ed i mormorii del vicinato avevano già fatto nascere qualche malumore. — A meno che non venga più tardi, — fece Lazzara; — magari dopo la mezzanotte, come sabato scorso. — Può darsi, — rispose Loretta. Ed affacciatasi al terrazzuolo, guardò con uno sguardo errante la fantastica notte, simile quasi ad una bellissima donna ignuda, che ricurva su lo specchio della terra si andasse lentamente pettinando le lunghe sue treccie nere, cosparse d’una polvere d’oro che scintillava e tremava come un denso pulviscolo di stelle. Eran diventate amiche durante quelle poche settimane, poichè l’età le univa e qualcosa forse di concorde nel dissimile cuore. Lazzara si occupava di governar la casa, ripuliva, rassettava, ricuciva, dava di mano alla cuoca, faceva un po’ di stiratura; ma quantunque non avesse che un semplice abito nero e tutta l’eleganza sua fosse ne’ grembiuli fini, questa graziosa villanella era quasi una signorina, una signorina molto strana. E Loretta l’amava; nelle calme ore d’ozio si tenevan compagnia; discorrevano insieme, a lungo, di cose lievi, lievi come le farfalle. Lazzara era la figlia spuria d’una donnaccia del paese, nátale da un amore di strada maestra, fra le calde vendemmie. Costei beveva e la picchiava. Un giorno scomparve. Dissero che fosse andata in città a prostituirsi nella mala vita, e più da quel tempo non la si rivide. Allora Lazzara divenne la più trista e lacera monella che fossevi nel villaggio. Da principio il parroco, un buon vecchio prete, ch’era venuto ai settant’anni senza mai peccare, se l’era tolta seco per far opera di carità e voleva educarla come una figlia; ma non potendola frenare, l’aveva messa in convento. Dal convento era fuggita per un ismodato amore di libertà; e non s’era saputo più nulla di lei, finchè un giorno l’avevan riveduta nel villaggio, e diceva d’aver fatto molto cammino, a piedi, solo per rivedere il suo vecchio prete, che da qualche mese appunto avevano condotto a sepoltura. Adesso aveva più che vent’anni; era bella, era selvatica, e lavorava e le facevan la corte. — Non dormirete, signora? — domandò Lazzara, vedendo che Lora, taciturna, stava con i due gomiti sul davanzale del terrazzo e guardava nella chiara notte, un po’ ebbra di quella solitudine. — Dormirò più tardi, — rispose; — ancora non ho sonno. Si rivolse dalla piccola veranda e tornò sulla poltrona di vimini, presso il lume velato. Un filo d’aria, pur lieve, non moveva le foglie del giardino; le stelle rossastre parevano mandar su la terra un disperato calore. — E tu hai sonno, Lazzara? — L’estate io non dormo che poco, e male, perchè i sogni che faccio mi túrbano. — Raccóntami: quali sono i tuoi sogni? — Son molti e sono pieni di miracolo, signora. Talvolta sogno l’altro mio viaggio, quel lungo viaggio che dovrò fare, assai lontano di qui. — Dunque pensi che ripartirai, Lazzara? — Certo ripartirò. Mi piace la strada, il fiume, il vento; mi piace ogni cosa che va lontano. Lora si sdraiò nella poltrona con indolenza, rovesciò il capo all’indietro, sul cuscino, ed in quella penombra i suoi capelli chiari le mettevano intorno alla fronte una specie d’aurora. — Sei stata in convento, non è vero? — domandò alla fanciulla. — Sì, signora; più di quattro anni. — E ne sei anche fuggita, mi hanno detto. — Sì, una bella notte che non dimenticherò. — Raccóntami ancora di te, Lazzara. Non ho sonno ed amo ascoltare i tuoi racconti. La fanciulla si accovacciò a terra sopra una stuoia, contro le ginocchia della sua padrona, con la pigrizia d’un bell’animale selvatico e docile. Poi si mise a raccontare... Raccontava le preghiere fervide, le canzoni un po’ lente che intonano in coro le monache dalla voce cristallina, e il fumo gonfio degli incensi tra gli altari bianchi di gigli, nei mattini di primavera. E poi, quando il suo fervido cuore, nella cella rigorosa, nei cortili pieni di sole, al di là dalle nude muraglie, risognava l’aperta infinita campagna, ove sono i fiumi dalla corrente limpida, i boschi odorosi di timi e di résine, ove sono i frutteti e le vigne, le messi che ondeggiano, il vento e la libertà. E la rivide, la campagna immensa, e vi si mise a correre, libera, sola, con il cuore che le cantava, in una notte del mezzo Aprile. Aveva risoluta la fuga. Era desta, in un chiarore di stelle, nel silenzio altissimo del monastero, sola, con quel Crocifisso di ferro che dalla nuda parete, immobile e pur vivo, la guardava. Passavan nel cielo, davanti alla sua cella, certe continue vampe di chiarità, quasi tangibili, come fiumane traverso lo spazio, e v’era una chitarra che sonava, lontana continua, straziante allegra, come un dolore che volesse ridere, come un riso che finisse in lacrime, forse da una finestra senza sonno, forse da un ballo in un cortile... E si levò. Scese. Le grandi ombre del colonnato la inseguivano come fantasmi enormi che non facesser rumore. Poi vide nell’ombra due luci, due scintille di fosforo, ferme, che l’impaurirono. Si nascose tra le colonne, strisciò luogo un andito, passò un cortile, giunse nell’orto, si aggrappò ad un cancello, s’inerpicò per un albero, fin sopra il ciglio del muro. E di là vide una fila di case addormentate, con un fioco lume che pendeva da un fil di rame, fra due muri, oscillando; poi vide la campagna, l’infinita libera campagna, simile quasi ad un mare, in quelle bianche fiumane di luce che sopra lei spandeva la navigante luna. Allora, d’un tratto, fragile com’era, paurosa com’era, si fece il segno della croce, e si lasciò cadere... Correva, correva, parendole di volare, buttandosi tutta viva negli odori della notte primaverile, lasciandosi dietro un solco nell’erba rugiadosa, bevendo il vento che le passava tra i capelli e li scioglieva stupendamente, facendoli nella corsa ondeggiare come una bella criniera. Camminò. Le messi abbondavano di spiche mature, le viti pendevano da un albero all’altro, quasi bianche di grappoli in fiore. Passò prati, campi, orti, seminagioni, frutteti; e come in sogno rivide allora fiorir le stagioni, che da tanti anni non vedeva più; rivide la primavera odorosa di fiori, satura di linfe, chiassosa di nidi, limpida di ruscelli, gaia di canzoni; l’estate adorna di pannocchie d’oro, dal cartoccio stridente, con le sue sterminate messi un po’ curve per la ricchezza dei frumenti, ed i covoni e le biche su l’aie scintillanti, ed i bubbolìi freschi dei fonti nell’ora meridiana, ed il guizzo della falce nitida, che va, che va, stanca e senza posa, come una distruzione lenta. Poi sognò dell’autunno, con le sue clamorose vendemmie, dell’inverno, con la sua squallida neve... Camminò. Si mise per lungo un ruscello, che scendeva con una musica lieve, inchinando l’erbe al suo passare, giocando nel suo lesto correre con la scherzosa luna. E le pareva che il ruscello cantasse, piano, per lei sola, una bella canzone: «Séguimi, o tu che vai per tutta la notte senza conoscere la tua strada. Io pure, come te, non conosco la mia meta lontana. Vedi: trascorro e brillo. M’accompagna il chiaror della luna e faccio un lieve romore. Séguimi, o tu che vai per la notte senza conoscere la tua strada.» Camminò. Il ruscello mormorava per lei sola il suo canto notturno; ella ne seguiva la sponda, quasi correndo, e trasognata. Era, nel mezzo Aprile, la notte più stellata. Pareva che ogni stella avesse un’ala invisibile o che un vento leggero, passando, le facesse tremare. E più ella fissava nel cielo i suoi occhi sperduti, più infinitamente vedeva nascere stelle. Ad ogni battito d’occhio alcuna spariva: era un mondo distrutto, un atomo di luce distrutto, non appariva più. Camminò. Il ruscelletto passava sotto piccoli ponti, faceva cascatelle, muoveva i canneti; limpido e lento, fiancheggiava una strada, un podere, una casa; entrava nei prati, pareva perdersi: ricominciava. Lontano, all’orizzonte, con indistinte ombre ventose, apparivano le foreste. Ora cominciò ad abbaiare un cane, ed un altro rispose, più lontano, poi un altro ancora, e quei laìti lugubri empirono la notte serena. Fra i grandi alberi tutte le ombre avevano apparenze umane; s’udivan strepiti nel buio, come di gente che sbucasse dai rami, e le pareva di sentirsi ghermire. Poi, nell’alto fogliame, intese un frastuono, quasi un tonfo, come d’immense ali che calassero giù... Ed era un gufo, o molti, una civetta, o molte, che si misero a cantare la morte. Il ruscello scomparve, si cacciò sotto la terra, nel buio. Ed ella andava, andava, andava, più tra le siepi, più tra le macchie, più tra le forre, toccata in faccia dal vento di quelle ali enormi, perseguitata da quei canti funebri; poi le piombarono tutti addosso, gufi e civette, per ucciderla, per coprire il suo corpo morto con un lenzuolo d’ali immonde... Alla fine, quando l’ebbero atterrata, soffocata, uccisa, le si misero tutti all’intorno, in cerchio, immobili, senza più cantare, simili ad un tribunale di spettri, e stettero a fissarla dai grandi occhi rotondi, fermi, che bruciavano come fiamme di fosforo nella spaventosa oscurità. Quando riaperse gli occhi, dai pertugi della foresta brillava su l’erba il sole mattutino; l’odor selvatico dei timi profumava la terra umida; le capinere del bosco trillavano a voce spiegata... Lazzara tacque. Laggiù nel giardino, tra il folto, avevano entrambe inteso un rumore. Ascoltarono. La notte folle sperperava le sue ricchezze inestimabili, vuotava i suoi tesori di stelle, rovesciava i suoi forzieri traboccanti nella profonda immensità; erano collane favolose, che si spezzavano e rotolavano per l’infinito, corrusco di mille arcobaleni; eran diademi fatti con milioni d’astri, che si rompevano in frantumi e scorrevano tra fiumane di etere fosforescente; erano stelle, stelle senza numero, disseminate nel curvo spazio, che la folle notte rovesciava in una conca scintillante. Ascoltarono, più attente. — Nulla, — disse Loretta; — è nulla; continua. Accovacciata su la stuoia, tenendo fra le mani congiunte le ginocchia pigre, gli occhi un po’ spersi nell’incantesimo della notte d’estate, un sorriso appena visibile su le rosse labbra, Lazzara ricominciò. ... e diceva, battendo agli usci, cantilenando sopra un’aria imparata nel convento: Date un pane, buona gente; nel mio sacco non rimane più niente... Buona gente, chi mi fa per l’amore del Signore la carità? E così, camminando e mendicando, giunse ad un paese che stava sul declivio di montagne gigantesche, e brillava di fiumi scintillanti, ed era tutto imbevuto di primavera come un roseto in pieno fiore. Ad un casolare, certa donna le parlò: — Come ti chiami? — Lazzara. — E che hai fatto sinora? — Nulla: ho camminato. La donna stette un attimo pensierosa, poi disse: — Entra. Così la presero per il tempo della mietitura. Un giorno, nella grande ora meridiana, ella stava sdraiata sopra un mucchio di fieno, tra due siepi cariche di frutti rossi, all’ombra d’un gelso basso e contorto. Di là dalla siepe correva la strada maestra, tutta polvere e sole, tra le fratte arsicce che avvampavan di selci vive e di ginestre in fiore. Venne a passar di lì Cardo, il pastore, che spingeva con la canna la sua mandria lanosa. Una vasta nube di polvere oscillava lungamente sopra la strada prima di posarsi dietro il lor passare; un cagnaccio di pel fulvo, con la coda mozza, si lanciava ringhiosamente contro quelle che disarmentavano. Cardo era un ragazzotto di spalle robuste, con una testa massiccia, crespa di capelli nerissimi, ed aveva il colorito bruno delle ghiande mature. Dai calzoni di frustagno rimboccati a mezzo il polpaccio gli uscivan le gambe, aride, nere, quasi lucenti; i piedi, opachi di polvere, si muscolavano con solidità nelle sue dure caviglie di camminatore. Egli guardò sopra la siepe, vide la fanciulla giacere sul fieno, fece una smorfia e rise forte. — Buon dì! — Buon dì. — Fa sole... — Che sole! Cardo fermò la mandria in un pratello e si misero a merenda insieme. Sul fieno, ella stava con la pigrizia d’una gatta snella e indolente. Allora egli tolse dalla sacca un mezzo pan nero, un po’ di formaggio, una manata di ciriege, e venne a sdraiarsi vicino a lei. Si guardarono in faccia e risero. Entrambi, senza saperne il perchè, risero. — Fa sole... — Che sole! — Già, e non piove... Ella prese tre ciriege, unite per il picciuolo, e stesa com’era se le portò alla bocca. Un rivoletto sanguigno le corse giù per il mento. Guardava lui, che la guardava. Era scalza ella pure, con le braccia mezzo nude, con qualche fil di fieno tra i biondi capelli arruffati, che mandavan riflessi brillanti e bui. Così giacendo, formava un solco profondo nel fieno soffice; la sua gagliarda persona tramandava un odor di selvatico. Ma egli non rideva più: si fece scuro, e, come sentendosi pungere da non so quale molestia, ogni tanto, poichè stava prono, col dorso dei piedi scalzi batteva la terra, ma forte. Non un rumore di gente, o d’animali o di cose, non un correre d’acque, non un tremar di foglie; non altro che un gridìo di cicale, ma così tenace, fermo, continuo, che pareva stranamente fondersi col silenzio ed essere il silenzio stesso. Ella era scalza, ella pure, — e se ne rammentava. La gonnelletta corta, rattoppata, non le scendeva oltre i ginocchi; tra quel fieno, qualche fil di paglia la pungeva nel polpaccio; il suo polpaccio era grasso, tondo — e se ne rammentava. — Che avete, Carlo, a fissarmi così? Allora egli strisciò carponi, sui gomiti, e standole più presso, cominciò a fiutarla con un semiriso d’ubbriachezza, come chi fiutasse a lungo la fermentazione d’un tino di mosto. Era un pomeriggio d’estate, pieno d’iracondia, implacabile, rosso come una fucina rovente, per quel sole che tutto lo incendiava. Ed ella si sentì, tra quel fieno, più nuda e più supina che se fosse adagiata sopra la sua coltre. Sentendosi bella, ebbe vergogna di sè. C’erano intorno sciami di zanzare, che a lei pareva mandassero un gran romore; ed erano forse le cicale, quelle strepitose cicale, che la stordivano così. Poi si misero entrambi a ridere, su la bocca l’un dell’altra, ma d’un riso sciocco. Egli avanzò la mano. — Be’, Cardo, — ella disse — mi fate male!... E i grossi papaveri falciati rosseggiavano in quella calda estate, avanzando il fiore floscio tra il mucchio della fienatura. Cantavano, strillavano, le cicale. Quando l’autunno venne, i vendemmiatori la mandaron via. Ricominciò a camminare, in giù, lungo il fiume, con la rapida corrente. Le avevan narrato di certi grandi velieri, con antenne alte come una casa, e di più grandi navi senza vela, in un porto immenso, davanti all’anfiteatro di una città splendidissima. Certa sera, vedendo un uomo che stava per spingere il suo battello nel fiume, curiosamente si fermò a guardare. L’acqua scendeva, lenta e buia, con brividi luminosi, tra i filari di pioppi dal fogliame d’argento. — È lontana la città? — Lazzara domandò all’uomo che buttava un mucchio di cordami vecchi nel suo battello e stava per saltarvi dentro. — Sette ore di fiume, — questi fece, senza volgersi. — E a piedi? — A piedi? Chi ci va a piedi? — schernì l’uomo; e si volse. — Io ci vado, — ella rispose con serenità. Il battelliere la guardava; aveva egli una barba color di rame con qualche venatura bianca; portava in capo un berrettaccio di lana, che aveva preso il colore dell’acqua e del vento. — Ohibò, con quelle gambe! — disse con un riso bonario. Poi soggiunse: — Ma che ci vai a fare? — E tu? — Porto legna. — Sicchè fammi salire. Egli le venne accanto, le diede un pizzico su la guancia, e disse: — Tanto fa!... il battello è carico; sali pure. Spinsero il battello in acqua, vi montaron sopra tutt’e due, in silenzio, come vecchi amici. Fumando, cantilenando, egli mise una piccola vela quadrata, stese una copertaccia ruvida, lacera, sui duri cordami, e sopra vi si coricò. Lazzara, piena di confidenza, gli si distese vicino. La barra del timone era sopra le loro teste; la vela, appena turgida, ogni tanto s’afflosciava, battendo contro l’antenna con un romor secco come di cosa stracca. Le due rive intanto rabbuiavano; ma c’era un quarto di luna che saliva su, nel cielo, tra fiocchi di nuvole, con rado stelle. — Per caso, — domandò Lazzara, — non avreste un vecchio pane da mettere sotto i denti? — C’è pane e pesce fritto, laggiù, in quella cesta. Ella prese quel po’ di cena e si mise a divorarla con ingordigia. Fumando, il battelliere la osservava. — Ma insomma, — volle sapere, — da che parte vieni, che sei tanto lacera? Ella si mise a narrargli di sè, tutta una fiaba... Cominciavano a navigar tra stelle, fra il cielo che ne accendeva sempre più, e il fiume che per ognuna mandava cento splendori. Il battello scivolava piano piano, facendo sciacquar l’acqua sotto la sua chiglia, lasciandosi dietro, nel fiume sparso di firmamento, una scìa tremantissima. — Come ti chiami tu? — fece il battelliere. — Io, Lazzara. E tu? — Benozzo; io, Benozzo. — Ah... Il battello scendeva senza prender vento, rompendo l’acqua illuminata, che ricadeva in gocciole di stelle. Dalle due rive i pioppi ogni tanto si scuotevano, svettavano, come se li intirizzisse l’algido chiarore della luna, spargendosi di quel bianco tremito che il vento propaga nei boschi d’ulivi; poi, lentamente, l’uno appresso l’altro, riprendevano il sonno interrotto nella vaporosa quiete della notte fluviale. — Lazzara!... — esclamò d’improvviso Loretta, afferrandola per il braccio e balzando in piedi; — Lazzara, guarda... C’è qualcuno laggiù!... In fondo alla scalinata, fra i cespugli, s’era mossa un’ombra nera; due volte, tre volte, visibilmente, s’era mossa un’ombra nera. — No, signora, — disse Lazzara, levandosi a ginocchi su la stuoia, ma un poco impaurita ella pure. — È forse un gatto... forse il vento... — No, taci. L’ombra si moveva, più distinta, più umana. La videro, buia nel buio; l’intesero che si moveva. Ammutolirono. Poi Lazzara balbettò: — Chi può essere? Gli vado incontro, signora... In quel mentre, da dietro i cespugli, nel pieno chiarore del viale illuminato, sbucò fuori una forma d’uomo, curva, irriconoscibile, che fece qualche passo avanti, quasi barcollando, e si fermò. Ma Lora dette un grido, e per non vederlo si coverse la faccia. Lazzara fu meno timida; si fece avanti, su l’orlo della scalinata, volle parlare, forse gridare, ma non potè. Egli ora saliva, lentamente, cupamente, con un aspetto minaccioso, gli occhi nascosti sotto l’ala del cappello, i pugni affondati nelle tasche, forse pronti sovra un’arma invisibile. Si fermò a mezzo della scalinata, guardò in alto, fissamente; poi fece due salti rapidi, e fu sul terrazzo, davanti a loro. — Non gridate! — ingiunse, con una voce sorda. — Non voglio che si gridi! Entrambe, ammutolite, si strinsero l’una contro l’altra, fecero qualche passo indietro; urtaron contro il tavolino di giunchi; la lampada si rovesciò, si spense. Eppure lo vedevan bene, bieco e pallido com’era, tutto curvato innanzi, con una specie di oscillazione, di tremito, nella sua persona sinistra. — Chi è? — bisbigliava Lazzara. — Taci... Allora seguì un grave silenzio, e fu, per l’uomo, un di que’ silenzi ambigui che l’anima più disperata frammette come un indugio davanti al suo più disperato coraggio. Ma súbito egli disse con asprezza: — Voglio rimanere solo con te. Mándala via. Nessuna delle due si mosse; anzi parvero serrarsi ancor più vicine. Allora egli cominciò a guardarla, come sopraffatto da una specie di fascino; e, stando fermo, la investiva con uno sguardo triste, insidioso, miserabile, la ricercava per tutta la persona, quasi che ciò gli facesse un male estremo e la sua volontà fosse del tutto spenta sol per averla un attimo veduta. — Con te sola, — disse un’altra volta, — con te, Lora... Forse già era un’altra voce che pronunziava questo nome, o forse, per quello sguardo pieno di miseria, ella comprese di non doverlo ancor temere; sicchè d’un tratto, abbassando il viso con una specie di obbedienza, disse piano a Lazzara di andarsene via. Costei esitava, ma ella con un moto repentino la sospinse. Allora la ragazza uscì, a passi lenti, cauti, come alcuno che si ritraesse per mettersi a vigilare. Poich’egli s’avvicinava, ella ebbe una invincibile paura e protese un braccio verso la porta ov’era scomparsa Lazzara. — No, no... — balbettava — lásciami... E con la faccia quasi nascosta fra le due braccia tese, s’andò a rannicchiare in un angolo del terrazzo, contro la vetrata, come in un rifugio. Ora, fra quei due che s’erano amati, che avevano vissuto insieme il più terribile dramma d’amore di cui possa l’anima umana contenere il palpito, fra quei due che si erano a vicenda vietato il meraviglioso delitto, forse perchè incapaci entrambi di sopportarne la tragica e disperante felicità, non era più che uno spazio breve come il braccio, lieve come la forza d’un àlito, pericoloso come il gesto di chi ghermisce e di chi si lascia ghermire, mentre intorno a loro un giardino ebbro lanciava in alto vampe di profumi forti come un narcotico, e c’era, lì accanto, una casa pressochè deserta, piene di stanze vuote, profonde, capaci di custodire nel lor silenzio così la più nera complicità come la più efferata beatitudine. E intorno a loro, e fuori, per tutto il cerchio delle cose visibili, roteava una notte quasi magnética, tanto era bella e splendente, quasi inverosimile, tanto nella sua bellezza era qualcosa di eccessivo e di assurdo, quasi di crudele, poichè non dava il sonno, il riposo, la pace nè il dolcissimo oblìo, ma una folle rabbia di peccati e di lussurie, un tetro bisogno di soffocare nello spasimo del rimorso la tremante anima e colmarla fino all’ubbriachezza d’una voluttà oltremortale. Da che parte veniva egli mai, così miserabile a vedersi e così vinto? Quale cammino aveva percorso? Quali tragiche risoluzioni portava in sè? Forse non ricordava più nulla; tutto in lui era scomparso, dileguato, come un fiocco di nebbia nel sole. Ora le stava presso, e mutamente la guardava. La guardava. Era pur lei, vestita di una mussola fina, quasi diafana, in quella notte calda; era pur lei, fra le pieghe di quella vestaglia trasparente, che mal nascondeva il suo petto florido, vasto, calmo, diviso nel mezzo da un’infossatura quasi buia, la qual nasceva tra i due seni distanti, lei, con la sua cintura di vespa e le sue belle ginocchia che davano al camminare tanta grazia lasciva... Era pur lei, con le sue braccia rotonde, senza un segno, appena cosparse d’una vellutatura bionda, con la sua gola sempre un po’ turgida, come se vi tenesse raccolto uno scoppio di riso, con la sua bocca di donna perduta, lei, con la sua viva odorosa capigliatura bionda, splendente come l’avena d’oro, come il riflesso di una cosa d’oro... Sì, certo, era lei, sebbene gli paresse incredibile, sebbene un altr’uomo, con le sue labbra, con le sue mani, con il calore umido del suo corpo, con il fiato greve della sua bocca ansimante, con la sua viscida saliva, con il suo rauco rantolo, avesse ormai toccata e posseduta questa intangibile purità. Certo, era lei; si chiamava Lora, Loretta; era la sua sorella germana; era lì. «Uccídila!» gli comandò una voce, che a lui parve suonasse nel rumore dell’infinito, nell’opaco fervore delle sue vene gonfie di sonorità. E gli venne all’ápice delle dita, nei nodi delle dita, nella muscolatura dei polsi, una voglia rabida di stringere, di affondare l’unghie acute nella sua carne molle, di sentire quel bagnato, quel caldo che fa il sangue quando sprizza, o di mordere forte, coi denti, lì, nella gola, dov’è la voce che canta, che dice le parole d’amore, che rántola, nello spasimo e nel piacere, istessamente... Ma gli sembrò di non poterla toccare ancora, di non essere così forte ancora da poter compiere il suo disegno, poichè, più che tutto, quel soave álito, quel dolce odor di lei lo vinceva, lo stremava, era come una mollezza che gli entrasse nelle vene insidiosamente, che gli desse la voglia di giacerle insieme, solo per carezzarla, per toccarla, per sentirsi ancora su la faccia il flotto de’ suoi capelli disciolti, su la bocca il bacio della sua bocca, e morire in lei come in voluttuoso annegamento... poich’ella poteva, ella sola, fargli attingere da questa inebbriata morte il fervore del rinascimento. Ma queste meditazioni, sebbene concepite in un attimo, lo affaticavano, lo stordivano, ed egli cercò di ribellarsi al lor funesto potere. — Non ancora! — disse aspramente, con un riso di scherno, poichè la vedeva tremare. — Non ancora. Ma ella raccolse nella voce tutta la sua dolcezza, tutta la sua persuasione femminile, con cui sapeva di esercitare un così grande imperio sovra di lui, e sommessamente, quasi proditoriamente, lo chiamò per nome. Con la sua propria fragilità, con la sua propria duplicità di femmina quasi tentava di adescarlo, sentendo il pericolo vicino, indovinando il dramma imminente. — Non mi far male... — balbettò, sempre celata il volto nelle braccia protese. Sopra tutto ella temeva la sofferenza, l’atto brutale di quelle mani minacciose, lo scoppio di quella collera sinistra. E questa viltà lo fece ridere, d’un riso straziante; perch’egli forse avrebbe voluto che si buttasse innamorata e pentita nelle sue braccia, per ritrovare in lui quasi un rifugio, anzichè sentirsi chieder venia paurosamente, come ad uno straniero. Allora egli le disse con violenza: — Guárdami! Poich’ella teneva sempre il volto chino, egli protese ruvidamente il braccio e con l’ápice delle dita le sollevò la faccia. — Guárdami! — comandò più forte. — Vedi cos’hai fatto di me? Buttò indietro il cappello che gli nascondeva gli occhi e le apparve dinanzi a fronte scoperta. — Mi riconosci? Ella ebbe orrore o terrore di quel devastamento, e, quasi una dolcezza ultima dell’amore ch’era stato in lei, la spinse a balbettare una parola incomprensibile, forse di smarrimento, forse di pietà. — No, — egli riprese con scherno, — certo non mi riconosci. Eppure sono ancora lo stesso. Intendi bene quel che dico: ancora lo stesso! La bocca torta, nel ridere, pareva che sui labbri avesse l’amaro d’un veleno. Allora egli si guardò intorno con uno sguardo pieno di avversione, come se odiasse ogni cosa di quel luogo dov’ella si era venduta. Fiocamente illuminata da un raggio di luna si vedeva per le due porte vetrate, aperte sul terrazzo, una vasta sala terrena, piena di quei mobili raccogliticci, che arredano le case d’affitto; mobili comperati a casaccio, collocati nel peggior modo, per riempire un angolo, per soddisfare i capricci d’un locatore estivo. E la luna metteva in quel disordine una specie di azzurra oscurità. L’uomo, lo spettro di colui ch’era stato, s’avanzò fino al limitare, forse per curiosità, forse per vedere se alcuno li spiasse; poi si rivolse lentamente, a volto chino, parendo reggere su le spalle il peso enorme della sua propria disperazione. Col piede urtò nella lampada caduta, la raccolse; non s’era spezzata e la riaccese. Metteva in ogni gesto una lentezza voluta, come se gli piacesse prolungare il silenzio davanti alle parole inevitabili. Ora la luce rosea della lampada velata si spandeva nuovamente sul terrazzo quasi bianco; egli stava nel mezzo, ella nell’angolo, sempre rintanata, con gli occhi attenti ad ogni gesto di lui. Allora il giovine incrociò le braccia, drizzando quasi con fatica la persona stanca. — Lora, — disse, — il giorno che ti sei data per la prima volta all’uomo che paga i tuoi lussi, hai pensato menomamente a quello ch’era stato fra noi? Fece una pausa, ma prima ch’ella potesse rispondere disse con forza, con ira: — No! Poi rise, divenne scherzevole, parve che tentasse d’irritarla. — Infatti, — la beffò, — mi sembri più bella! Questa vita un po’ pigra ti fa bene alla salute. Ingrassi. Bada, forse un po’ troppo... La vestaglia ti si dislaccia... Non eri così quando ti conoscevo io. Forse Rafa ti fa star molto coricata, e il letto ingrassa... bada! Prese uno sgabello e vi sedette. — Discorriamo. Ella taceva. E questo silenzio lo esasperava benchè facesse uno sforzo indicibile per continuare su quel tono di burla. — Mi ricordo, — incominciò, — d’un giorno del mese di Marzo, quando sei venuta a trovarmi nella mia casa per la prima volta. Io dormivo. Allora eri quasi una bambina, o parevi esserlo, e mi hai mostrato un braccialetto d’oro. Già!... e adesso quella casa non l’ho più, o per lo meno debbo lasciarla, perchè c’è stato uno scandalo e si evita di salutarmi... Lo sai? Vuol dire che l’avrai tu, una casa, e più bella e più ricca della mia, poichè Rafa spende volentieri. Se però non ingrassi troppo... Rafa, ti avverto, ha in orrore le donne troppo grasse. Poi mi ricordo anche d’una gita che si fece insieme, su le rive di un certo lago... Ma fu per una notte sola; tu ne hai perduta forse la memoria frammezzo a tante cose. La guardava, la interrogava, la intimidiva con i suoi sinistri occhi. — Raccóntami dunque un po’ della tua vita!... Non ti rimane più voce? La sorella domandò con un accento fermo e semplice: — Perchè sei venuto? Egli la fissò un momento, con gli occhi lucentissimi: — Passavo di qui, — rispose; — il muro non è alto; ebbi voglia di farti una visita. — Perchè sei venuto? — ella ripetè ancora, con una voce più profonda. — Ah!... Forse pensavi di non rivedermi più? Avevi già messo il cuore in pace? In lei, come nel viso del fratello, si dipinse fuggevolmente una malvagia e tetra collera. — Io non t’ho fatto alcun male, — ella disse recisamente, con piena certezza. — Tu? — Alcun male, — ribadì, più recisa. Egli si levò d’un balzo, livido, come per afferrarla. — No, non toccarmi! — ella comandò, proteggendosi con entrambe le braccia. — Se mi volevi, ero tua; di me avresti potuto fare liberamente quello che ti piaceva... Non dimenticartene! — Che dici? — mormorò egli, sorpreso da queste parole, colpito in pieno da questa verità. — Quand’ero, come hai detto, una bambina, quando venni per la prima volta nella tua casa, e dopo, e sempre, fino al giorno in cui fuggisti, potevi fare di me quello che ti piaceva. Io non mi sarei vendicata nè lagnata, mai. Fece una pausa ella pure, poich’egli taceva, percosso di meraviglia. — Ma ora cosa mi domandi? — soggiunse Loretta. — Cosa ti domando?... Un piccolo schiarimento, una cosa da nulla: per qual ragione sei divenuta l’amante di Rafa? Ella volse gli occhi altrove, irresolutamente, verso gli alberi fermi, verso le stelle agitate, verso la luminosa ombra della notte cerulea. — Rispondi! — Non so. — Per amore? — No. — Per denaro? — Neanche. — T’ha forse presa di violenza? — No. — E allora? — Non so, non so!... — ella fece nervosamente. — Perchè mi vuoi tormentare? — Rispondi: lo amavi? lo ami? — No. Ho detto di no. Ella intuì che si salvava con queste parole, e ripetè ancora una volta: — Nè prima, nè ora; non lo amo. Ed inoltre era pur vero. Una specie di vertigine passò negli occhi dell’uomo che la fissava; un segno, quasi già un sorriso, quasi un bacio, increspò l’amara sua bocca. — Ed allora perchè hai fatto questo? — Io stessa non me lo saprei dire, — confessò la sorella. — È stata una follìa, un momento di leggerezza, una cosa impreveduta e facile, senza gravità ma quasi necessaria... Un giorno feci questo, e non so dirti nemmeno la ragione. Forse perchè tu mi avevi molto martirizzata, forse perchè ho commesso l’errore di salire una scala... non so, non so! Ed ora non aveva più paura di lui, gli parlava quasi con dolcezza, riprendendo su le guance floride il suo bel colore, passandosi una mano inanellata su la bianca tempia e ravviandosi i capelli con un suo gesto abituale. — Ed io? — mormorò il fratello, dopo aver taciuto. — Tu? — Sì, Lora, io, che t’amavo con tanta pena, io, che fuggivo disperatamente per non farti male?... Ella esitò un poco, poi disse: — Tu non m’hai voluta... non m’hai voluta nemmeno quando ne piangevo, dunque... Nella terribile semplicità di queste parole ella radunava tutta quanta la logica del suo piccolo cuore di donna, scioglieva il suo piccolo enigma femminile, dove l’amore più folle non era stato in fondo che una torbida curiosità. Ella non poteva andar oltre; tutta la storia del suo grande peccato finiva in questa piccola riflessione: «Tu non mi hai voluta, dunque...» Ed egli chinò il volto, poi si mise a battere le nocche sul tavolino di vimini, che oscillava. — Dunque, — fece, con amarezza e con scherno, — avevi semplicemente bisogno che uno ti coricasse, forte, con le spalle sovra un cuscino, che uno ti facesse dare finalmente quel piccolo grido... Chi fosse costui, poco importava. Io ti avevo molto martirizzata... hai detto martirizzata?... — bene, sia! Ma ti sei scelta in ogni caso un uomo ricco, per addolcire le pene del martirio; hai voluto in cambio qualche abito, qualche gioiello, una casa che finirà con divenir tua... ecco, e tutto questo lo hai! — Ho voluto, — ella spiegò, — scegliermi una vita diversa da quella che facevo: null’altro. Forse mi sono anche ingannata. Egli la fissò ancora con uno sguardo dubitoso, poi mutò pensiero: — Perchè sei sola questa sera? — Sono molte volte sola, — ella rispose. Tacquero; un lungo silenzio dominò la loro inquietudine. Egli aspettava ch’ella parlasse; ella era in attesa delle parole di lui. E si esaminavano attenti; l’uno cercava di leggere nel cuore dell’altra. — Dunque, — egli riprese dopo quella pausa, — dunque non hai nulla a dirmi? — Sì, molte cose... ma ho paura di te. — Ed hai ragione, — disse il fratello. — Io son giunto a quell’ora in cui non si rispetta più nulla e nessuno, in cui tutta una storia va incontro al suo pericolo definitivo. Però t’ascolto, se devi dirmi qualcosa, e ti ascolto ancora con bontà, Lora, perchè io sono ancora lo stesso... ti ripeto: ancora lo stesso. E mise nella sua voce, in queste ultime parole, un accento soave come una carezza. — Siéditi, — soggiunse; — vienmi più vicino. — No! — ella fece due volte, — no. — Hai paura? Non rispose; ma pareva che un’angoscia, una pietà, una compassione quasi vicina al ribrezzo, le soffocasse l’anima in quel rifiuto. Sul limitare della sala semibuia la figura di Lazzara comparve, piena d’esitazione, tuttavia con l’aria d’esser lì per recarle soccorso. L’uomo si volse a lei con una mossa repentina: — Che volete? — inveì. La ragazza non rispose; i suoi occhi spauriti si volgevano dall’uno all’altra, quasi per indovinare. Ma Loretta le disse: — Non temere, Lazzara. Sali nella tua camera e dormi. Fra poco mio fratello se ne andrà. — Vostro fratello, signora?... — profferì la fanciulla, senza poter credere a sè stessa per la maraviglia. — Sali e dormi, Lazzara, — comandò Lora brevemente. Ella si ritrasse a piccoli passi, tacendo, e scomparve nel buio. Indi a poco fra lo spessore dell’antica muraglia scaturì un rumore d’acqua corrente, che nella risonanza della notte riempiva di sonorità la casa profonda. Poi tacque: le alte camere si addormentarono. — Non me ne andrò, — disse il giovine. — Sono venuto a vederti per l’ultima volta, e non me ne andrò così presto. — Ho pensato, — ella fece, — che non vorresti rimanere a lungo in questa casa. — La stessa cosa io pensavo di te. Ma evidentemente mi sono ingannato. Ella non diede alcuna risposta. Invece, dopo un silenzio, gli domandò: — Allora che vuoi? — Prima di tutto ascoltarti. Avevi molte cose a dirmi... dunque parla, e sinceramente, come parlavi con me una volta, quando non avevi paura. Ella intrecciò le dita insieme, e parve cercare in sè profondamente una frase per esprimersi. Veniva ora dalla inoltrata notte qualche alito di frescura, in alto, per le cime degli alberi, sommessamente. La lampada velata ne riceveva i brividi; sotto il respiro del vento la sua morbida luce impallidiva. — Una sola cosa volevo dirti, Rigo, — ella pronunziò infine. — Che anche tu devi per sempre dimenticare i giorni passati e perdonarmi se ti ho fatto male senz’alcuna mia colpa. Nella faccia bianca dell’uomo passò, come una transfigurazione, il colore della sua profonda morte. — Anche tu... anche tu... — egli ripetè macchinalmente, con un atto appena visibile delle labbra. Poi soggiunse: — Questo vuol dire che per tuo conto hai già dimenticato. Ella non rispose da prima; poi ebbe forse pietà di quel dolore. — Non ho dimenticato, — gli disse. — Ma ogni giorno vado facendo uno sforzo continuo per strappare da me questa cosa che non doveva essere... Io sono morta per tutti, per tutti quelli ai quali ho fatto male. Egli la guardò con una specie di sperdimento, quasi cercando nel suo volto un segno qualsiasi che gli permettesse di non credere a quelle fredde parole. Ma in lei vide un’attitudine ferma, risoluta, quasi nemica. E di nuovo si levò: — Senti... Le venne più vicino, si curvò: — Senti... ho corso paesi come un pazzo, per guarirmi; ho sofferto tutto quello che un uomo può soffrire, e son tornato per vederti, solo per vederti. Sono stato nella casa di mio padre, dove tu, dove tu ed io, abbiamo portata l’infamia. Essi mi hanno cacciato fuori come un cane. Sono stato fra quelli che mi chiamavan amico, e tutti han vôlto il capo altrove per non riconoscermi; anzi alcuni m’hanno insultato quasi apertamente, perchè mi accusano di aver concluso il tuo mercato. Ma di questo non ti rimprovero: la colpa è d’entrambi; siamo colpevoli entrambi, sebbene io solo, per ora, ne debba scontare la pena. Invece, se ho bene compreso il senso delle tue parole, in questo momento nel quale una immensa rovina si moltiplica intorno a me, tu che ne sei la causa non trovi per aiutarmi che un solo rimedio, anzi un calmo e ragionevole consiglio: «Bisogna dimenticare.» Non è così? Ella tacque, si restrinse nelle spalle, confusa, umiliata, come se avesse per la prima volta compresa la gravità de’ suoi falli. — È così? — Rispóndimi! — egli comandò, afferrandole un polso. — No, Rigo... no, no... — ella balbettava smarrita. — Guarda: io voglio fare per te, per mio padre, per mia madre, tutto quanto posso... Dítemi solo cosa debbo fare... dítemi... Gli occhi le si empivan di lacrime, come ad una piccola bimba cui si minacci un grave castigo. Egli comprese d’avere davanti a sè l’ineluttabile dell’anima femminile, quel vuoto, quel nulla, che sta in fondo a tanti cuori di donna. Di ciò si avvide con l’intelletto, ma in cuor suo, nell’interiore sua febbre, non volle credervi ancora; cercò di non arrendersi, di riafferrare con un’estrema cecità la sua speranza fuggente. — Lora, tu mi hai detto che non ami Rafa, che non gli appartieni per amore... Dimmi: è la verità? — Sì, è la verità. — Mi hai detto pure che ti sei forse ingannata scegliendo questo cammino, è vero? — Sì, è vero. — Ebbene, senti. La passione che ho per te supera, esclude tutto. Ho mille rimorsi nel cuore, ma ormai non temo neanche il rimorso. Bandito, rovinato, espulso: tutto questo non mi dà un vero spavento. È forse orribile a dirsi, ma io posso dimenticare tutto questo. Non così la mia passione maledetta. L’amore che ho per te, la febbre che tu mi dài, la tempesta che mi susciti nel cervello, nei sensi, questo no, mai! mai!... Così vicino le stava, ch’ella n’era tutta rabbrividita, e si restringeva nell’angolo, s’impiccioliva nella stretta de’ suoi propri gomiti, quasi per accrescere lo spazio che li divideva. Quelle parole, quel suo fiato caldo, quella passione traboccante, quel viso contraffatto, e la minaccia di sentirsi toccata, baciata, posseduta, le davan ormai un invincibile ribrezzo, più forte che la stessa paura, più forte che la stessa pietà. Ma egli, quasi ebbro, continuava: — Se tu vuoi, se tu mi dici una sola parola, io posso veramente scordare tutta la miseria di questi giorni. Se tu vuoi, mi sento la forza di ricominciare un’altra volta la vita, e lontano di qui, lontano da tutte queste memorie, mi sento la forza di giungere ad ogni cosa che tu possa desiderare. Saprò vigilarti, servirti, rendere la tua vita bella, come tu stessa forse non hai sognato ancora. In questo momento comprendo che sono stato un pazzo quand’ho avuta paura della nostra colpa. Noi non abbiamo volontà che basti per lottare contro queste cose immense; anzi troppo spesso, come hai detto, noi siamo vili davanti alla felicità. Ma ora, vedi, son tornato e ti aspetto, e, se vuoi, m’inginocchio per chiederti perdono, e, se vuoi, ti prendo nelle braccia, così come sei, per portarti lontano, attraverso la notte, via di qui, via da tutti, sin dove nessuno al mondo possa più conoscere il rifugio del nostro amore... E già, nell’ebbrezza del suo perdimento, nella vertigine del suo rinnovato sogno, stava per cingerla con le braccia e tendere verso la fredda bocca di lei la sua bocca bruciante, quand’ella dette un grido soffocato, e, prima che potesse toccarla, con un rapido movimento gli sfuggì. Ansante, con i capelli un po’ disfatti, non sapendo come difendersi dal pericolo della sua violenza, indietreggiò fin presso l’orlo della scalinata per aprirsi una fuga verso il giardino. Egli si battè contro le tempie i due pugni convulsi, come per arrendersi al dramma di quell’ora che passava. Poi la guardò. Muto, attento, fermo, per un lungo attimo la guardò. Nelle mosse rapide la vestaglia s’era interamente slacciata, e sotto la febbre di quegli occhi ella s’accorse d’avere le braccia quasi del tutto nude, la gola scoverta, il seno visibile. Per un pudore istintivo cercò di raccogliere la stoffa tenue sul candore di quella nudità. Intorno a lei, su l’alto della gradinata, brillò, sparì, qualche tremante lucciola, che nascondeva in sè un verme buio, come talvolta l’amore nasconde un turpe vizio tra le sue belle fiamme. Egli rimase dov’era, e parlò forte: — Allora una confessione, una sola: Non mi ami più? Ella taceva. — Ti faccio ribrezzo? mi odii?... se ti bacio gridi?... Metteva tra queste frasi una dura pausa, breve come un singhiozzo. — Mi lascerai portare la mia croce da solo? da solo e per sempre? Ella era ferma in capo della scalinata, ferma come una statua; si vedeva soltanto il pizzo delle sue larghe maniche leggermente tremare. Una di quelle sperse lucciole, volando, le si impigliò fra i capelli. Ma ella non sentì quel peso, non si accorse di avere sopra la fronte quella piccola stella. — Rispondi! rispondi! Voglio udire da te l’ultima parola... da te, dalla tua bocca! Un attimo ancora di silenzio: — Non mi amerai più?... Come di schianto, ella si piegò su le ginocchia, si accasciò sul primo gradino, rompendo in lagrime dirotte. La lucciola uscì da’ suoi capelli, si mise a volarle intorno. Allora, fuor di senno, egli s’avventò. Con le braccia pur esauste la raccolse di peso, e perchè non potesse gridare, ben forte, con tutta la mano, le tappò la bocca. Poi, tenendo su le braccia la sua preda, sperduto, si guardò intorno, come un animale in cerca della tana. Ella volle dibattersi con ogni forza, cercò di morderlo, cercò di urlare; ma non poteva, per quella mano irremovibile premuta su la sua bocca. Cercò di fargli male agitandosi quanto potè; ma d’un tratto il peso ch’egli reggeva su le braccia divenne assai più greve, come il peso di una creatura morta; la bocca senza fiato cessò di mettergli bava e sangue nel palmo che la premeva. Allora l’uomo, con la sua preda su le braccia, passò nel raggio di luna che bagnava il terrazzo come un fascio di bianca elettricità, e, traversata la soglia, giunto nel mezzo della prima sala terrena, parve cercasse con gli occhi sperduti un divano sul quale deporla. Quando l’ebbe adagiata, s’inginocchiò. Si mise, come un ebete, ad ascoltare il silenzio. Tutta la casa era morta; la sonorità concava del silenzio vi gravitava immobile, come nei claustri disabitati; la magnificenza del raggio lunare traeva dalle ságome dei mobili qualche fulgore, simile a bianchissimi arcobaleni. Allora egli si guardò il palmo della mano, il palmo che sanguinava, morso da’ suoi denti minuti; poi si tastò il cuore, la fronte, la faccia, quasi per riconoscere sè stesso. Il capo di lei dormiva rovesciato sul bracciuolo del divano; la sua gola nuda era un po’ turgida, il suo petto scoverto quasi non respirava. Aveva le braccia lente lungo i fianchi, le ginocchia unite, i piedi composti, come in una bara; le sue belle treccie, quasi del tutto sciolte, bagnavano il lembo spiovente nel raggio di luna. — «Ora, — egli disse a colei che non udiva, — ora t’ucciderò.» E trasse di tasca un’arma lucida; ma tosto, impaurito, la ripose. Poi gli parve udir rumore, da lontano e da presso; rumore assordante, come di gente che sopravvenisse, urlando, per impedire il suo delitto. Ascoltò: non sapeva ben distinguere se questi rumori fossero nel suo cervello o fuori; ma, ecco, insieme gli pareva che ombre passassero, in torma, dietro le finestre, per gli usci, negli angoli bui. Un sudor freddo gli copriva tutte le membra; dolori acuti come lame gli trafiggevano la carne. Su la bella bocca della donna coricata era impressa una traccia di sangue, che la faceva parere un po’ tumida e le suggellava intorno ai labbri una specie di riso estatico, inerte, come ha talvolta, nel sonno d’un narcotico, la bocca di chi soffre un dolore atroce. Egli v’appressò l’orecchio, per udire se quelle labbra respirassero; ma il rombo delle sue proprie vene soverchiava quel leggero álito. — «Ora, — disse un’altra volta, — ora t’ucciderò.» Le sue dita convulse toccarono con voluttà il freddo metallo dell’arma; di nuovo palleggiò fra le mani il minuscolo ordigno, su cui s’accendevano scintille come sprazzi di fosforo. Premere appena, poggiando la canna sottile contro la sua bella tempia, senza quasi rumore... Una scossa, una breve scossa, a lui nel polso, a lei per tutta la persona giacente; una specie di urto improvviso nelle due ginocchia... qualcosa, come un fiotto d’anima nella gola gonfia... un battito, uno sguardo ancora negli occhi fuggenti, un po’ di saliva lucente agli angoli delle labbra, sotto la traccia rossa... il peso d’un braccio che cade... poi più nulla... nessuna differenza visibile, tranne il senso di questa parola: morta. E un filo di sangue, sottile come la più piccola delle sue vene, giù dalla tempia, su la spalla, senza fiotto, piano piano, senza farle male... Egli pronunziò col pensiero, forse col respiro, questa lieve domanda: — «E poi?» Ecco: e l’enorme vuoto della vita gli apparve, ed anche l’enorme vuoto della morte, se pur si fosse ucciso; l’inanità estrema d’ogni cosa, d’ogni possibilità, quando in lei non fosse più respiro. Sì, uccidersi, ma placarsi prima, concedere un sorso anche minimo alla sua rabida sete, per chiudere con un possesso tremendo la sua vita inutile, per non trascinare al di là dall’ultimo rantolo la sua rabbia insoddisfatta... Allora, lentamente, quasi con la paura di compiere un sacrilegio, immerse le dita aperte nella sua treccia spiovente; ma faceva piano, quasichè non volesse destarla. N’ebbe una così grande gioia, che v’immerse la faccia, ne aspirò, ne bevve il sapore. Ella non si destava; il suo tramortito sonno era profondo. Osò prenderle una mano ed intrecciar le dita fra le sue dita, senza stringerle, con paura. — «Povera piccola mano, — pensava, — sarai morta fra poco, non darai più carezze, povera piccola mano...» E strisciò con le labbra lungo il polso, fin nella congiuntura del braccio, dove tutte le vene, passando, creavano una specie d’oscurità. In quel mentre una grande farfalla notturna entrò per la finestra; si mise a dar di cozzo contro le pareti, rumorosa, dannosa, come un pipistrello. E batteva, e batteva, per la stanza chiusa, in alto, in basso, cercando l’aria stellata nella oscura prigione. Poi si calò sopra l’uomo ricurvo, e stringendo sempre più il cerchio di quel brancolare gli fece sentir su la faccia il freddo pericolo del suo volo. Ma sparve. Il silenzio divenne assoluto in quella stanza quasi azzurra; solamente il raggio lunare saliva come una materia tangibile dentro la bella capigliatura spiovente. E l’uomo che l’aveva amata con tanta disperazione, che si era difeso contro la colpa con un eroismo tanto accanito quanto inutile, ebbe allora la tentazione suprema di possederla pur una volta prima di spegnere la vita in quel lieve cuore, prima di addormentarla nel sonno dal quale non si sarebbe mai più ridesta, nè per stirare in una molle pigrizia le sue membra voluttuose, nè per tendere ad una bocca d’amante il bacio della sua bocca soavissima. E poichè non era stato il primo, voleva esser l’ultimo a possederla, quegli che le darebbe insieme, quasi nello stesso attimo, le due pressochè simili agonìe del piacere e della morte. Voleva tuttavia ferirla nella sua carne più viva, con una forza malvagia, e, tenendola in possessione, vedere come torcerebbe gli occhi sentendosi entrar per le vene la spasmodica voluttà di quella morte. Ora finalmente l’odiava; ora, dopo tante catene, si sentiva capace d’un odio bello, nitido, sicuro di sè. Ed appunto perchè l’odiava, si compiaceva nel dirle, come per ischerno, le più calde parole d’amore; appunto perch’era sicuro di poterla uccidere, si dilettava nel ripeterle cose dolci e lascive, le stesse cose d’un tempo, quand’ella era perduta come lui nel desiderio di appartenergli, quando la sua verginità null’altro era che un brivido, una cosa infinitamente sottile, infinitamente vicina al peccato. Ecco, e di nuovo era in suo possesso: aveva complice l’ombra, la solitudine, il silenzio, e quel suo docile sonno, profondo come un letargo; aveva complice inoltre l’arma vendicatrice, che teneva pronta per il suo primo sussulto. Sottovoce le raccontava i suoi giorni di fuga, le lunghe ore notturne trascorse a possederla inanemente, le voluttà prodigiose di que’ sogni e la fatica enorme dei risvegli logoranti. — «Io t’ho date le più lunghe gioie che una donna mai ebbe dall’amore d’un uomo; io t’ho goduta, — le diceva, — senza numero di volte nella mia solitudine disperata, come tu stessa non potresti concederti ad altr’uomo che a me. Ti conoscevo: so come baci quando ami, so il colore delle tue iridi quando scompaion sotto le palpebre, so come le tue ginocchia stringono e come fai quando gridi... Ma tu stessa, ora che ti vedo, sei più bella ancora, e, così addormentata, mi ricordo che passavi le tue notti nel mio letto, vicino a me. Allora non potevo toccarti: ora ti tocco. Ora mi metto le tue braccia nude intorno al collo, perchè tu morrai tenendomi le braccia intorno al collo. E, vedi? non hai che una vestaglia tenue sul corpo... quasi nulla, un velo appena, e sento già come sei tepida, come sei dolce... Ma perchè vestita?... spógliati... io ti spoglio. Anche un semplice velo è di troppo. Sei bella abbastanza perchè il mantello della morte ti avvolga nuda. Io ti spoglio per l’ultima volta, e in questa luce, ancora più candida sembrerai...» Le correva con la mano per il corpo dolcissimo, la scopriva lentamente, con indugi febbrili, assaporando a poco a poco il gaudio di vederla mirabilmente spogliata. E là dove le vesti s’aprivano, il raggio della luna penetrava, come per stendere una specie di velo glauco su la sua carne scintillante. Ed ecco apparve tutta nuda la gola purissima e la sommità un po’ convessa del petto, in cui nascevano ampiamente, dal suo mezzo fin sotto le oscure ascelle, i due seni robusti, erti, rigogliosi, pieni d’impudicizia e di splendore, simili a due conocchie straordinarie gonfie di lana da filare. Egli si fermò come inebetito, quasi vacillante benchè fosse inginocchiato, con gli occhi pieni di uno spavento enorme, davanti a quella nudità che aveva osato guardare. Il senso delle cose presenti gli tornava a quella vista maravigliosa e peccaminosa, mentre, come un’eco inafferrabile in fondo all’essere la voce del suo démone gli andava sempre più sibilando: «Uccídila! uccídila! Sáziati, e falla morire.» Poi, di nuovo, sottraendosi a quella specie d’incantesimo, si rammentava d’essere un uomo, un miserabile uomo brancolante sopra una femmina seminuda, e questa femmina essere la stessa ch’egli non poteva toccare, la sua sorella giaciuta nella medesima cuna, colei che portava nel grembo l’inconsumabile amore. Ed ebbe uno spavento immenso al pensiero che quegli occhi potevano aprirsi e guardarlo. Si sentì serrare la fronte come da una mano d’acciaio, fredda e forte; si sentì per tutto il corpo trafiggere come da molte lame che gli recidessero i tendini, ad uno ad uno, per sfibrarlo. Aveva complice la notte, la solitudine, il silenzio, e quel suo docile sonno profondo come un letargo, ma non poteva toccarla. E perchè non potrebbe toccarla? Chi dunque lo condannava a doverla uccidere senza godere di lei? «Un nome... — si ricordò ch’ell’aveva detto una volta, — cos’è un nome?...» E dentro, il suo démone beffardo gli urlava con una specie d’implacabile crudeltà: «Sáziati, e falla morire!» Allora la sua bocca malvagia si tese all’ápice d’uno di que’ seni rotondi, per suggerne il forte sapore; quella orrenda lussuria lo istigò a conoscere dappertutto la sua nudità indifesa, e nel baciarla si sentiva pervadere da un’ebbrezza delirante, come se il suo corpo fiaccato, arso, rovente, si empisse all’improvviso d’un ristoro paradisiaco, e, dentro le sue vene lievi, non più sangue scorresse ma una inconsumabile voluttà. E la cingeva, e la toccava, e quel corpo stava per essere finalmente la sua preda sul limitare della morte, nè più sapeva chi ella fosse, nè per qual modo su l’orlo della tragedia inevitabile egli potesse conoscere il principio di una così grande felicità. Anche gli pareva di rammentarsi un’altra notte lontana — quasi dispersa nel vortice del passato — quando parimenti si era trovato curvo su quella amata bocca, pallida, ma non così ferma... — e la baciò. La baciò a lungo, assetatamente, con ira, come si sugge un delizioso veleno. E gli parve, sotto i suoi baci, ch’ella si agitasse un poco; udì un sommesso lamento, che gli parve un lamento d’amore. Traverso il velo di quell’ebbrezza, la memoria del mondo non gli sembrava più che un oceano infinito, la vita stessa una vacuità immensa, colma di piacere. La baciava su la bocca e su la fronte, sui capelli e su gli occhi; e su la bocca e su gli occhi della sorella addormentata balbettava in delirio le sue parole d’amore. — Fammi con le braccia intorno al collo un nodo forte... più forte... Ella aperse gli occhi, e lo guardò. Forse non lo vide, ma lo guardò. E quegli occhi rimasero sbarrati, fermi, tra le palpebre violette, sotto l’arco dei grandi sopraccigli, a fissarlo inesorabilmente. Percosso dal terrore, mentre giungeva per l’ultima volta su l’orlo del peccato, la volontà gli ricadde nell’anima, tutta d’un colpo, infranta. E subitamente, nella faccia della sorella svenuta come nello specchio d’un’acqua senza fondo egli rivide salir la faccia del loro padre taciturno, la pallida faccia senile, emaciata sino al teschio, l’incancellabile sembianza del generatore che separava i suoi figli. Livido, indietreggiò nel buio. La catena delle due braccia inerti si disfece, ricadde come spezzata, mentre, dal divano dov’ella era stesa, il fantasma del padre si alzava più preciso contro di lui, divincolando a fatica da quel sonno le sue membra cariche di squallore. E rivide, come l’ultima volta nella casa dell’umile occhialaio, questo bianco suo padre levarsi con una specie di maestà, per minacciare il figlio primogenito che aveva osato peccare contro la legge sacra delle famiglie e spingere l’occhio lascivo sotto la coltre della sorella addormentata. Ed ora non più lei vedeva; ma soltanto vedeva lo scarno fantasma, vero di una tragica umanità, sorgere contro il figlio maledetto, contro il violatore della bellezza ingaudibile, per respingerlo indietro da lei, fuori dalla casa, fuori dagli uomini, fuori dalla vita... L’incubo sopraffaceva la coscienza dell’uomo dannato, la follìa latente scoppiava nel suo cervello tragico, dandogli quella specie di briaco terrore che invade la bestia accerchiata da un pericolo senza scampo. La pazzìa liberatrice finalmente soverchiava questo mediocre uomo, che aveva osato racchiudere nella pavida sua temerità l’amore maraviglioso d’un dio. E in fuga, davanti ai fantasmi del suo delirio, si cacciò per la notte d’estate, briaca e folle come una baccante, che saliva per i culmini del cielo, tra un’apoteosi di stelle... . . . . . . . Lontano qualche miglio di lì, sotto i fuochi già rossi dell’aurora d’Agosto, un gruppo di terrazzani mattinieri scendeva cantando per il declivio della collina, ciascuno recando su l’ómero la gran falce lunata, che il sole nascente incendiava di tremanti arcobaleni. Andavano a mietitura; la terra pingue di frumenti faceva risplendere di mattutina ilarità l’anima di quegli adusti mietitori. A perdita d’occhio, violastri e biondi come un mare sovra il quale indugino gli ultimi vapori della notte, i campi non mietuti si stendevan nella immensa pianura, ed ogni cosa pareva oscillasse in una dorata inquietudine solare, prima che, nell’irrompere del giorno, tutto bruciasse d’aurora e di fiamma sotto la furia dell’estate. Ed ecco, nella incendiata serenità, il sole sbocciò dall’oriente, come da un paonazzo cratere del fuoco sotterraneo, e gli uomini che andavano per falciare, d’improvviso, lo salutarono col loro canto. Poichè infatti l’avevano lavorata insieme, quella terra onusta di raccolti, gli uomini e il sole. Giunsero al piano, s’incamminarono tra le messi brillanti come un’esca, ricurve sotto il peso delle pannocchie d’oro, che fra i papaveri di campo sgranavano dal cartoccio rotto un enorme riso giallo. Poichè il sentiero fra le due prode facevasi angusto, e di qua, di là, fra gli alti campi si perdeva, gli uomini con le lor falci si misero in fila. E cantavano sempre, nell’aurora vittoriosa, l’inno colonico al sole onnipossente, alla terra libera, fecondata, che dona i raccolti gloriosi, al vómero tenace che spezza la gleba irta di radici, alla falce nitida che stride contro i fusti legnosi, e va, e va, traverso la pazza estate, faticosa ed instancabile... Ma, giunti verso il termine del sentiero, colui che andava in capo della fila si fermò di colpo. — Gesummaria!... — gridò verso i compagni; e con la faccia tutta bianca, rimase incerto se avanzare. — Che c’è? — domandarono quelli che stavano ancora dietro la svolta. E si addossarono a lui, sollevando le brillanti falci, spezzando nella ressa improvvisa qualche fusto di grano. Ma quel che videro li fece inorridire. Lì su la proda, lungo il sentiero nel campo, un uomo giaceva, immobile, contorto, a metà prono, a metà sopra un fianco, la faccia bruttata nella terra tutta molle di sangue. Un grosso can da pagliaio, laido e col pelo irsuto, forse un can sperso, di quelli che van la notte uggiolando fra campagna e campagna, lasciava pendere dalla fauce intrisa la lingua bramosa, e accovacciato su le quattro zampe leccava con una specie d’ingorda sete la pozza di sangue rappresa nel terriccio, sotto la tempia ferita. — Un morto... — bisbigliò quello che stava davanti al gruppo. E raccolta una pietra, la scagliò contro il can errático, dalle orecchie mozze, dagli occhi notturni ed iniettati come quelli d’una jena. L’animale, colpito nel fianco, digrignò senz’abbaiare i denti rossastri, e zoppo sotto il peso del suo ventre gonfio si mise a correre lungo la proda. Quando fu lontano guaì. — Coraggio, — disse il mietitore; — forse non è morto ancora. Però, da solo, non gli bastava il cuore per avvicinarsi. — Fatevi prima il segno della croce, — suggerì cristianamente il più vecchio de’ mietitori. E con la dura mano, sacra di antico travaglio, si toccò la sua fronte rugosa. Gli uomini, sotto il lampo delle lor falci, si fecero il segno della croce. Poi, con paura, gomito a gomito, si avvicinarono. Veduta più da presso, la faccia orrenda li raggelò. Si curvarono. Stretta nel pugno convulso, la sottile arma luccicava, — il piccolo meccanismo d’acciaio, gelido, infallibile che aveva data la morte. Intorno alla tempia bruciacchiata era un grumo di sangue nero; degli occhi, uno era chiuso e pesto, l’altro sbarrato, vitreo, scoppiante quasi dall’órbita, come l’occhio d’un uomo che fosse morto in delirio. Gli sollevarono l’altro braccio, che ricadde come piombo; gli tastaron la fronte fredda, le gambe stecchite, il cuore fermo. — Amen... — mormorò il più vecchio dei mietitori. — Che Gesù Cristo, nostro Signore, raccolga nella sua pace l’anima di questo cristiano. E recitando a bassa voce la preghiera dei morti, santificarono la proda empia su cui giaceva un cadavere insepolto. Poi uno dei falciatori sciorinò il suo fazzoletto di percallo e con pietà lo distese come un sudario su quegli occhi spenti. — Non è di queste parti, — osservò un altro, che aveva, lì nel campo, raccolto un fiore. — Neanche delle nostre ville; certo veniva dalla città. — È sempre la città che li ammazza... — Dal modo com’è vestito sembra uno di quelli che pretendono di saper godere la vita... — Così giovine! — Sì, una trentina d’anni. — Forse anche di più. — Trasportiamolo. — No, — rispose il più vecchio dei mietitori. — Bisogna prima che lo veda il Sindaco. E in silenzio, con le fronti curve, tra il sole che nasceva sul mondo rifecero il cammino. RICHMOND HILL — _Agosto 1908_. AIX-LES-BAINS — _Settembre 1909_. FINE _DELLO STESSO AUTORE:_ L’amore che torna — 1908 Ultima edizione: dal 101.º al 150.º migliaio _Romanzo_ Colei che non si deve amare — 1910 Ultima ediz.: dal 131.º al 180.º migliaio _Romanzo_ La vita comincia domani — 1912 Ultima ediz. dal 106.º al 155.º migliaio _Romanzo_ Il Cavaliere dello Spirito Santo — 1914 dal 41.º al 70.º migliaio _Storia di una giornata_ La donna che inventò l’amore — 1915 Ultima ediz.: dal 96.º al 145.º migliaio _Romanzo_ Mimi Bluette, fiore del mio giardino — 1915 Ultima ediz.: dal 111.º al 160.º migliaio _Romanzo_ Il libro del mio sogno errante — 1919 Ultima ediz.: dal 51.º al 100.º migliaio Sciogli la treccia, Maria Maddalena — 1920 Terza ediz.: dal 101.º al 150.º migliaio _Romanzo_ _Le altre opere sono esaurite o fuori commercio e l’A. ne vieta la ristampa._ NOTA DEGLI EDITORI. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK COLEI CHE NON SI DEVE AMARE: ROMANZO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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