The Project Gutenberg eBook of Storia degli Italiani, vol. 11 (di 15) This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Storia degli Italiani, vol. 11 (di 15) Author: Cesare Cantù Release date: July 4, 2023 [eBook #71115] Language: Italian Original publication: Italy: Unione Tipograficp/o-Editrice, 1874 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 11 (DI 15) *** STORIA DEGLI ITALIANI PER CESARE CANTÙ EDIZIONE POPOLARE RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI TOMO XI. TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1876 LIBRO DECIMOQUARTO CAPITOLO CXLIX. Quadro politico. Sisto V. Sistemazione civile ed ecclesiastica di Roma. Il travaglioso parto della società moderna era omai compito: i Comuni si erano associati coi re per congegnare estese monarchie coi rottami delle giurisdizioni feudali tra cui era frazionata l’autorità sovrana, e far prevalere una volontà unica, intitolata la legge, che mantenesse dentro la pace, fuori l’influenza. Ma dopo tanto declamare contro le repubblichette e la insanabile loro irrequietudine e le guerricciuole del medioevo, dopo tanto adombrarsi che uno Stato italiano non prevalesse agli altri, or giacevano tutti allivellati dalla servitù, impotenti a nuocersi a vicenda, ma anche a resistere altrui: assodaronsi i principati, ma con essi non venne l’unità, non venne la quiete colla tirannide. Dacchè, per la Riforma, l’Europa fu scissa in due campi, il sacerdote non poteva più comandare dappertutto; e se una provincia protestante si volgesse a’ danni di una cattolica, non si poteva che reprimerla; donde una nuova necessità del potere monarchico, che si surrogò all’ecclesiastico con vantaggio forse dell’ordine, non della libertà. E per la necessità dell’ordine vennero dimentichi o conculcati i privilegi; raccolti grossi eserciti, dome le aristocrazie, elise tutte le resistenze particolari; costretta la Chiesa a schermirsi contro la forza, finchè vi soccombesse. Introdurre l’eguaglianza, fiaccare le prepotenze feudali, svegliar nei popoli la coscienza dell’unità mediante una politica nazionale, rendere a tutti accessibile la coltura, ed anche alle classi infime l’industria, estendere il concetto della parità di diritto e della cittadinanza, sono gli uffizj pei quali la monarchia si fa stimare dai popoli: ma quando ai trambusti succede il riordinamento, qualche genio, come Costantino, Carlo Magno o Napoleone, di tutte le attività sa giovarsi al suo scopo; altri credono non poterlo che soppiantando, comprimendo; e così si fece nel secolo decimosesto in Italia. — O Dante, avresti potuto vedere che la pace del despotismo trionfante è la pace del sepolcro. Il commercio, non che fiorisse al chetar de’ tumulti, perì nell’atonia universale; giorni smunti e afosi sottentravano ai procellosi; non apparendo nè l’individuale gagliardia del Cinquecento, nè le complessive aspirazioni del Settecento, interessi immediati e angusti occupavano la scena, dianzi agitata dalle passioni; mancando la patria, mancarono fortezza di guerriero, abilità di politico, libertà di scrittore; al culto del Comune sottentrò l’egoistico punto d’onore, alle battaglie il duello, alle vive credenze canoni legali ed opinioni, al diritto pubblico cattolico una politica d’abilità e di tornaconto, spoglia d’ogni idealità, fondata non sulla ragione ma unicamente sul fatto, non diretta dal sentimento ma dal calcolo e dalla forza. Eppure in nome della religione sobbolliva ancora tutta l’Europa, la quale penò fin a mezzo il secolo decimosettimo per acquistare quell’assetto, in cui, ben o male, doveva adagiarsi poi fin alla rivoluzione francese. L’Inghilterra, violentemente spinta ad uno scisma che attribuiva al re onnipotenza anche nelle cose religiose, lo manteneva con feroci leggi penali, e con due rivoluzioni che, abbattendo il diritto divino dei re, doveano cambiar la dinastia, eternare l’oppressione d’un popolo intero qual è l’irlandese, consolidare e stabilire i privilegi de’ possidenti, ma eriger la nazione al colmo della grandezza politica e commerciale, e a quella civile libertà, che al Governo non rassegna se non la minima parte dell’attività individuale. I Paesi Bassi, ribellatisi alla Spagna, sostennero lunghissima guerra, finchè una parte furono ribaditi alla dominazione austriaca, altri si assicurarono il culto riformato e l’indipendenza, e con questa una meravigliosa prosperità mercantile. La Germania, sbranata fra due parzialità religiose divenute parzialità politiche, scadeva dalla supremazia goduta nel medioevo: a capo de’ Cattolici stava ancora l’imperatore, ma non che ne assicurasse il trionfo, vide le turbolenze scoppiare in guerra aperta che fu denominata dai Trent’anni, in cui quel centro dell’Europa fu corso e guasto da eserciti, peggiori de’ masnadieri. Anche in Francia i Calvinisti detti Ugonotti si sommossero, fin a prorompere in guerra aperta; Enrico III, espulso dalla propria capitale, fu assassinato; Enrico di Navarra, erede delle ragioni alla corona, per ottenerla abjurò al calvinismo, e con un editto di tolleranza accanto ai Cattolici collocava i Riformati, con privilegi, con fortezze, con sospetti, scomponendo l’unità del regno, sinchè Luigi XIV revocò quell’editto; e la Francia primeggiò in Europa, professandosi protettrice de’ Cattolici nel tempo stesso che in Germania sorreggeva i Riformati, per deprimere gl’imperatori. Questi erano elettivi, e pur intitolandosi imperatori romani, non curavano nè la consacrazione pontifizia, nè tampoco di esercitar ingerenza di qua dell’Alpi. Si toglieano sempre dalla Casa d’Austria, la quale a questo titolo d’onore univa il regno di Boemia, sovvertito dalla Riforma; il regno d’Ungheria che la costituiva antiguardo della cristianità contro i Turchi; la Stiria, il Tirolo che la faceano pericolosa vicina della Venezia; e stando nel cuor dell’Europa primeggiava, massime dacchè le linee d’Austria e di Tirolo furono d’accordo: ma la guerra dei Trent’anni dalla posizione offensiva la ridusse alla difensiva. Combinava essa la sua politica coll’altro ramo, a cui obbedivano la Spagna e tanta parte dell’America e delle Indie orientali, vascello immenso, di cui la prora sorgeva alle Filippine, e la poppa alle Antilie. Filippo II (1556-98), succeduto a Carlo V nel regno di Spagna, trovava le idee, gl’interessi, la religione di tutta Europa messi a subuglio dalla Riforma, e diresse tutte le forze sue a rifondare il passato. I dobloni che traeva dalle miniere americane, correvano pertutto a soldare oppositori ai Protestanti; i suoi eserciti li combattevano in ogni plaga; e poichè dopo un secolo di convulsioni egli rappresentava la riazione, rimase bersaglio alle armi e alle diatribe di tutti i novatori del mondo, i quali accordaronsi nel dirne ogni male, e fin nell’inventarne, come nel tragediato episodio di don Carlos suo figlio, e lo tramandarono alla posterità come inventore della politica arcana, come un fantasma assiso sui confini del medioevo, cinto di tenebre illuminate solo da roghi, per impedire il progresso del pensiero e della libertà. Tranquillamente superbo, profondamente religioso, eminentemente spagnuolo, egli mostrò amore e riverenza esemplare a suo padre, del quale rispettò fin le debolezze a segno, che cercò e prese in cura il bastardo di lui, divenuto poi famoso col nome di Giovanni d’Austria. Instancabile al lavoro, postillava e correggeva le lettere de’ segretarj, di proprio pugno scriveva, e bene, quantunque lungo; vide il secolo d’oro della letteratura spagnuola, sebbene non la favorisse; sebbene non guerresco, sotto di lui si vinsero alcune delle maggiori battaglie della storia: nè per avversa fortuna fiaccato, nè per prospera inebbriato, quando l’ammiraglio, a cui aveva affidato l’armamento, a ragione intitolato _invincibile armata_, venne annunziargli ch’era stata dispersa dal turbine, gli disse soltanto, — Duca, io vi avea mandato contro i nemici, non contro gli elementi»; e ripigliata la penna, continuò a scrivere. Stava leggendo la vita di suo padre quando gli fu annunziata la vittoria di Lépanto (tom. IX, pag. 538); e non che prorompere in esultanza, riflettè: — Don Giovanni ha molto arrischiato; come ha vinto, così poteva perdere». Pur seppe rendere omaggio al duca di Savoja; e quando, vincitore a San Quintino, si presentò per baciargli la mano, esso l’abbracciò dicendogli: — Tocca a me baciar la vostra, che compì opera sì bella». Volea veder tutto, e perciò esitava a decidersi: deciso una volta, non recedeva più. Credendosi destinato da Dio a rintegrare la religione cattolica, le discrepanze considerava non solo come eresie, ma come lesa maestà divina ed umana, e tenevasi in obbligo di combatterle come fece dappertutto, senza mai venire a transazione; cercò impadronirsi fin della Francia e dell’Inghilterra per serbarle cattoliche: ma intanto si vide dalla Riforma strappati i Paesi Bassi; esaurì le finanze, scontentò i popoli, distrusse il prestigio della propria potenza. Dopo di lui la Corte spagnuola, separata dai popoli, asserragliata dalle cerimonie, non conobbe l’opinione e gli avvenimenti se non da relatori, nè gli uomini se non traverso alla diffidenza, cascando così nell’inoperosità. Filippo II aveva avuto per ministro il Granuela, uno de’ più abili statisti, che costretto a ritirarsi davanti all’esecrazione de’ Fiamminghi, venne vicerè di Napoli, poi cardinale a Roma. Sotto Filippo III maneggiò ogni cosa il duca di Lerma; sotto Filippo IV il conte duca Olivares, figlio d’un vicerè di Napoli, il più potente e laborioso, e il meno scrupoloso e fortunato ministro di quel secolo. Con Carlo II, men che re e men che uomo, terminò la dinastia austriaca in Ispagna (1700). Tali furono i regnanti di bellissime parti d’Italia. Mentre le nazioni d’Europa si costituivano regolarmente, anche mercè de’ penosi ma fecondi scotimenti dalla riforma religiosa, la nostra era perita; e da centro che era della politica, del commercio, della cultura, più non fu che uno zimbello o un premio. Alla sua libertà, viva la quale sentivano non potrebbero estendere la propria dominazione, aveano attentato gli stranieri ora cospirando ora osteggiandosi: in quel contatto, nocevole se amico e se nemico, gl’Italiani sentivano pericolare l’indipendenza, ma ciascuno pensava alla propria, non a quella dell’intera nazione; ciascuno Stato credeva bastar da sè a superare in forza gli stranieri, come li superava in civiltà; e a tal modo caddero tutti. Per sanare le _piaghe infistolite_, dai politici della risma del Machiavelli erasi bramato una _mano forte_, un principato che vigore e astuzia adoprasse a reprimere i signorotti, stabilisse giustizia eguale, leggi pel bene di tutti, e da tutti osservate: ma la forza prevalsa tolse la libertà, non indusse l’unità, nè tampoco la quiete; piantò irremissibilmente governi di puro fatto. L’Italia forse ancora non avea spento la face del genio, ma erasi levato il sole, davanti a cui questa impallidiva. Dopo esercitata la triplice supremazia delle armi, della religione, delle idee, s’accorge che non ha più in se stessa la ragione de’ proprj movimenti; che di fuori viene l’impulso de’ suoi atti, il seme de’ suoi pensamenti, che la sua storia ideale è interrotta dall’interposizione forestiera; sicchè, invece di spingersi al progresso come un gigante dal suo talamo, bisogna che affatichi alla conservazione. E neppur a tanto riuscirà. Essa che gli ultimi suoi istanti avea confortati almeno con begli atti di coraggio e colla nuova gloria delle arti, più non fece che retrocedere; internamente governi deboli, e perciò violenti; coi masnadieri, fomentati dalla prossimità dei confini, erano costretti a patteggiar l’obbedienza, anzichè poterla imporre; le commozioni, simili a guizzi di cadavere, che a tratto a tratto la scoteano, non erano dirette alla gloria o alla libertà, ma a satollar la fame, a respingere esattori ingordi o inesorabili inquisitori; la letteratura si limitava a imitare, e perduto il senso delle semplici bellezze, si gonfiava e anfanava; in fastosa miseria degeneravano le arti belle. Il nuovo diritto pubblico, che prefiggeva regole alle successioni, cagionò guerre più lunghe e deplorabili, che non le bizzarrie repubblicane. Ai principi sottomettevansi i signorotti; e fin nella Romagna, la battagliera veniva surrogata da una nobiltà di soglio, derivata da parenti dei papi. Alcuni si rassegnarono alle catene, sino a farsene belli; altri mestarono ancora in cospirazioni e sommosse; alcuni, rinvigoriti nelle persecuzioni, nell’esiglio, ne’ patimenti, portarono di fuori un’attività cui la patria non offriva più campo; o l’abilità delle armi e de’ maneggi applicarono a servigio de’ tiranni della patria, per passare dalla classe degli oppressi in quella degli oppressori; assodando quella ragion di Stato, che riducevasi ad ottenere obbedienza a qualunque costo, in nome dell’altare e del trono. Ma tutti gli Stati, guelfi coi Francesi e coi Riformati, o ghibellini coi papi e colla Spagna (così erano cambiate le veci!) compiono l’opera dell’accentramento, distinti soltanto dalle diverse gradazioni d’un debole principato o d’una debole democrazia. L’abolizione del soldato mercenario per sostituirvi truppe regolari, fa che le moltitudini si trovino alleate coi despoti nel respinger le tradizioni anarchiche del medioevo: ma gli svantaggi dell’antico disarmo appajono nella miserabilità di que’ soldati, ridicoli insieme e molesti, buoni per una parata, inetti contro i ribaldi risoluti e contro i banditi. Con eserciti stanziali, colla fedeltà alla bandiera, e l’obbedienza irragionata sarebbe dovuta venire la quiete dei cittadini anche nel fervore delle guerre; ma ignorandosi ancora l’amministrazione militare, e mal provvedendosi agli approvvigionamenti, alle paghe, alla disciplina, i soldati viveano di ruba, spesso si ammutinavano, sempre portavano miserie, che fecero detestar del pari e i nemici e gli amici. Se non che era difficile determinare quai fossero gli amici o i nemici dell’Italia, dacchè essa figurava soltanto come una preda; i trattati non si riferivano a lei, ma a’ suoi dominatori; nè degli abitanti occupavasi la storia, ma del suolo, militarmente occupato. La Spagna possedeva Milano, lo Stato de’ Presidj, il Senese, il marchesato del Finale, la signoria di Pontremoli, l’isola di Sardegna e le Due Sicilie. Poteano fruttare quattro milioni di scudi d’oro, ma una gran parte delle rendite trovavasi impegnata; il resto si consumava nelle guarnigioni e nelle truppe di terra e di mare, ove armava sin cinquanta galee. Ma nè avea modi di rendersi devoti i signori e premiare i suoi fedeli, nè di far pedoni e cavalli; traeva frutto dai tribunali, dalle vacanze di feudi e benefizj, dalle largizioni che doveansi fare alla corte per propiziarsela; dalla Germania, dominata essa pure da Austriaci, non poteva menar eserciti in Lombardia se non traversando il territorio veneto o quel de’ Grigioni, ovvero per mare da Genova. Aspirava dunque a tener amici que’ vicini, e ad estendere il Milanese fino al mare, ovveramente congiungerlo al Napoletano, se non altro col predominio sovra i principotti. La Francia, che avea perduto il Napoletano sotto Luigi XII, la Lombardia sotto Francesco I, il Piemonte sotto Enrico II, agl’incrementi della Spagna ostava coll’allearsi ai Veneti e ai Grigioni. E l’una e l’altra intanto fomentavano i malumori interni, davano ricovero e soccorso ai profughi o ai cospiratori, brigavano nell’elezione dei papi, compravano questo o quello de’ principi, indipendenti di nome, eppur in balìa de’ forestieri per la loro debolezza. Il duca di Savoja era anche principe dell’impero germanico, ma non interveniva alle diete. Poteva contar l’entrata di ottocentomila scudi, e levar dal Piemonte trentamila pedoni, settemila cavalli dalla Savoja, se il Botero non esagera; possedeva due galee mal in assetto, spettanti all’Ordine di San Lazzaro. I Savojardi non sapeano recarsi in pace che il duca vivesse in Piemonte, dacchè erasi volto del tutto verso l’Italia, aspirando ad ottenerne qualche brano col mettere all’incanto la sua alleanza. Se il vicinato e conformità d’indole lo traevano alla Francia, ricordavasi come questa avesse dominato i suoi predecessori; fin d’allora riduceva la sua missione ad arrotondar il proprio paese, e in onta delle tradizioni altrui, ripor in questo fatto la indipendenza dell’Italia dall’autorità pontifizia e dal patronato austriaco; non istancarsi di chieder la resurrezione del regno longobardo, per potere buscarsi almeno qualche porzione di terreno sulla via di Milano o di Piacenza. Ma sentiva che questo ampliamento non era possibile se non mediante un’invasione della Francia, e che questa innanzi tutto avrebbe annichilato il Piemonte medesimo. Perciò, qualvolta patteggiasse con Francia, contemporaneamente ascoltava a Spagna, che lo accarezzava acciocchè recidesse il passo a qualche nuovo Carlo VIII. A Venezia entravano quasi quattro milioni di scudi; ma ingente spesa le cagionava il difendersi dai Turchi e dagli Uscocchi, e il presidiar Brescia, Bergamo, Verona contro le ambizioni di Spagna. Da cinquanta fin a ottanta galee armava essa; conduceva al soldo signori e principi; e difettando di soldati e di grano, quelli avea licenza di levare dagli Stati Pontifizj, questo tirava dal Levante, da Urbino, dalla Mirandola. Attenta all’Oriente come avanguardia della civiltà europea, nella penisola studiava mantenere l’equilibrio, facendo opposizione alla Spagna, naturale nemica delle repubbliche e degli indipendenti[1]. Mentre a Venezia la tirannide del Governo avea mantenuto la pace, a Genova la disunione de’ primati sfaceva il Governo; quella col professarsi neutrale mostrava debolezza, ma sfuggiva ai pericoli in cui cadeva Genova, che, come protetta da Spagna, doveva acconciarsi agli interessi e ai capricci di questa. D’entrambe le repubbliche la prosperità non poteva venir che dal mare. Ora, non tanto le nuove vie del commercio ve le indebolirono, quanto le molestie dei signori d’Italia, obbligandole a mescolarsi delle loro baruffe o a guardarsi dalle loro insidie. Per le conquiste turche Genova avea perduto i possessi di Levante; Salonichi e la Macedonia nel 1421; nel 53 Pera, nel 55 le Focee, nel 65 Metelino, nel 75 Caffa e altre terre di Crimea; nel 61 Totatis e Samastro in conseguenza della caduta dell’impero di Trebisonda; sicchè nel commercio d’Oriente non potè sostenersi che mediante trattati con quei principi, cioè con aggravio di spese e minoramento di sicurezza. Restava signora della sua riviera e delle isole di Corsica e Capraja; se le stimavano cinquecentomila scudi d’entrata, e molto costavano gli stipendj e le sei galee; le gabelle avea quasi tutte oppignorate al banco di San Giorgio. Per Sarzana, che un tempo apparteneva alla Toscana, e per la Corsica, già de’ Pisani, stava sospettosa del granduca; del re di Spagna dopo che questi ebbe occupato il Finale; ma più dovea temere l’avidità del duca di Savoja. Vantava poter mettere in piedi fin sessantamila soldati, migliori in mare che in terra come littorani, eccetto i Corsi. I nobili suoi, copiosissimi ricchi, aveano possessi nel Napoletano e nel Milanese; alcuni attendeano al mare, e servivano a Spagna e ad altri principi; alcuni negoziavano, massime dei tessuti di seta, i meglio stimati di cristianità[2]. Lucca restringea più sempre la sua aristocrazia: una ruota di cinque giureconsulti forestieri decideva le controversie fra i cittadini: entrata di cendiecimila scudi: trentamila gli abitanti, procaccianti principalmente nel setificio. Dal territorio esteso ma montuoso non avea grano bastante alla vita; ma buoni soldati dalla Garfagnana. Per la quale contendeva col duca di Modena; del granduca temea le ambizioni, ma era sorretta da Genova e dalla Spagna, entrambe attente che Toscana non ingrandisse. Ormai però delle antiche repubbliche parlavasi come d’una malattia di cui si era guariti. Le tre di Pisa, Firenze, Siena costituivano il granducato di Toscana, cui si aggiudicava l’entrata di un milione e mezzo di scudi. Il Senese abbondava di prodotti, mentre i Fiorentini bisognava se li procacciassero col commercio e le manifatture; e di molte tasse profittava l’erario, come l’otto per cento sulle doti, e sulle vendite e compre di stabili; la decima delle pigioni, la sportula delle liti, e molte gabelle; al bisogno obbligavansi i più ricchi a far prestiti, non superiori a cinquemila ducati, redimibili per mezzo delle gabelle. Da trentaseimila soldati si arrolavano, esenti i soli preti, i quali pure poteano portar armi in città, e godevano altri privilegi. L’isola d’Elba era ben munita, e buon’armeria a Pisa. Il duca di Mantova avea da trecensessantamila scudi d’entrata: i ducentomila che venivangli dal Monferrato riunitogli, consumava nel fortificarlo; levava moltissimi soldati ed eccellenti cavalli, per militare a soldo altrui. Casa d’Este da Modena e Ferrara ritraeva poco meglio di centomila scudi, di cui quattromila tributava all’imperatore, suo signor sovrano; ma da cinquanta altri mila ne cavava dal vendere i titoli di marchese, conte, cavaliere; altri dalla cattiva moneta e dal tollerare gli Ebrei, massimamente a Carpi. — Quel duca (scriveva l’ambasciatore veneto nel 1575) ha nella città e contado milizie, che passano il numero di ventisettemila; buona gente; avria comodità di far buona e numerosa cavalleria di nobili, i quali si dilettano assai dell’armi, come quelli che in niun’altra cosa si esercitano, ed hanno la maggior parte vissuto nelle guerre... E quando sua eccellenza andò in Ungheria a servizio dell’imperatore nel 1566, in tutto quel campo non era nè la più bella nè la più buona nè la più ordinata gente, sebbene tutti li principi italiani fecero a gara per mostrare all’imperatore le loro forze e grandezza». I Farnesi, duchi di Parma e Piacenza, l’alto dominio della santa Sede riconosceano con diecimila scudi l’anno; i centomila d’entrata raddoppiarono col confiscare i feudi ai Pallavicini, Landi, Scotti, Anguissola, e con nuove imposte che il papa permise. Il duca d’Urbino, anch’egli vassallo della Chiesa a cui retribuiva ottomila scudi, ne ricavava trecentomila, principalmente per l’uscita de’ grani da Sinigaglia: paese pingue, non oppressi i sudditi, e talmente agguerriti, che avrebbe potuto coscrivere fin ventimila pedoni. Aveansi dunque undici dominj; a tacer altri signorotti, simili piuttosto a baroni, benchè godessero pieno impero e zecca, quali il principe di Guastalla, il marchese di Castiglione ed altri di casa Gonzaga, gli Appiani di Piombino, i Pico della Mirandola, i principi di Massa, Carrara, Correggio, e i romani che non battevano moneta[3]. Il principe di Monaco, occhieggiato dai Genovesi e dal duca di Savoja, tenea navi di corso per punire chi passasse senza pagare il pedaggio. Seguivano altri baroni, quali, a dir solo i primarj, i conti Bevilacqua e i Pico di Ferrara; i Malvezzi, i Riario e i Pepoli di Bologna; di Roma Orsini, Colonna, Conti, Savelli, Gaetani, Cesi, Cesarini, vassalli della Chiesa; nella repubblica veneta i Martinengo, i Pesaro, i Sanbonifazj; sotto Genova gli Spinola e i Doria; sotto Mantova i Verua, i Guerrieri, i Castiglioni; in Toscana i Salviati, i Corsini; nel Modenese i Bentivoglio; nel Parmigiano Lupo di Soragna, lo Stato Pallavicino di cui era capo Busseto, e lo Stato Lando di cui era capo Borgotaro, i Sanseverino di Sala, i Sanvitali di Colorno; nei paesi di Spagna i marchesi di Marignano, i Trivulzio, i Borromei, i Caravaggio, i Visconti, i Serbelloni, gli Afaitati in Lombardia, e nel Napoletano i Davalos, i Sanseverino, i Caraffa, i Caraccioli, i Piccolomini, i Gesualdi, i Loffredi, gli Aquaviva, i Lancia, gli Spinelli, i Castrioti, i Toledo. Principotti, deboli per sè e non sapendo farsi robusti coll’unione, si reggeano coll’appoggiarsi ai nemici dell’indipendenza italiana. Il liberalismo consisteva nel resistere, non dico ai re, ma ai governatori del Milanese o ai vicerè del Napoletano; lo che otteneasi coll’aderire ai Francesi non sinceramente, bensì con viluppi e finzioni e rimutamenti indecorosi. Ai principi d’Italia (chè ai popoli non si parlava) ripetea la Francia: — Non vedete che l’Austria vi tiene vassalli? padrona delle due estremità della penisola, detta superbamente il suo volere; traversa i vostri Stati colle sue truppe, le stanzia a svernare nei vostri paesi; arroga a’ suoi rappresentanti i primi onori... Guaj a voi se non vi tutelasse la Francia! Essa, più affine di costumi, è la naturale avversaria de’ vostri padroni; e come salva Germania dagli arbitrj dell’imperatore, così voi dalla tracotanza spagnuola». Massimamente il cardinale Richelieu (-1642), che per lunghissimo tempo tenne in mano le sorti della Francia qual ministro di Luigi XIII, si direbbe non operasse che per salvare l’Europa «dalla oppressura degli Spagnuoli, dalla tirannia di casa d’Austria, la cui avidità insaziabile la rende nemica del riposo della cristianità»; vuol farle restituire ciò che ha _usurpato_ in Italia, e questa assicurare dall’ingiusta oppressione di essa[4]; e da ciò motivava lunghe guerre e intralciatissimi negoziati. Libravasi dunque l’Italia fra quattro sistemi politici, di Spagna, di Savoja, di Venezia, de’ papi; e ne nasceva un giuoco d’altalena, che portò interminabili raggiri e guerre, tutte per talento de’ forestieri, non essendo di origine italiana che quella del papa coi Francesi; e intanto le divisioni si perpetuavano, fino a stabilire nemici un all’altro que’ popoletti, i quali pure non aveano che un nemico solo. Roma, cessato d’essere la capitale del mondo, non nutrivasi più coi tributi di tutta la cristianità, ma soltanto col patrimonio della Chiesa, che così serviva di rinfianco all’influenza spirituale, e che le nuove costituzioni vietavano di smembrare, come si soleva a favor de’ popoli. I papi, scaduti di potenza quanto cresciuti di rispetto, non che contendere del primato del mondo cogli imperatori, neppur di maggioreggiare in Italia poteano lusingarsi, dacchè vi si erano radicati gli stranieri; e sebbene inclini alla Spagna come cattolica e come vicina, a frequenti cozzi si trovavano con essa per quistioni di territorio o di giurisdizione. Lo Stato papale comprendeva l’Umbria o legazione di Perugia, le legazioni di Romagna, di Bologna, di Spoleto colla marca d’Ancona; inoltre il ducato di Benevento nel regno di Napoli, e il contado Venesino nella Provenza; e avea vassalli gran principi, quali il re di Napoli, il duca di Parma e Piacenza e quel d’Urbino: paesi buoni, sebbene alcuni infetti da mal’aria, come Ravenna, Bagnacavallo, Lugo, Bologna, oltre le Pontine. Da questi e dal tributo de’ vassalli traeva mille ottocento scudi d’oro: ma i più erano assorbiti dall’interesse de’ Monti: oltre quel che si profondeva pe’ magistrati e pei nipoti, e il moltissimo in ricomprar feudi da abolire. Alla lista particolare del papa servivano gli uffizj camerali della Dateria, regali che venivano ancora lautissimi[5]. Inoltre egli aveva i migliori modi di premiare, donando senza suo aggravio, e conferendo una dignità pari alla regia. Tutto ciò rendeva potente il papa, e, soggiunge il Botero, — Nulla dico dell’autorità che gli arreca la religione; nulla dell’interesse che gli altri principi d’Italia hanno nella conservazione dello Stato ecclesiastico, la cui depressione sarebbe rovina loro; nulla della potenza con la quale i principi stranieri si moverebbero a prendere la protezione della Chiesa e per vaghezza di gloria e per ragion di Stato. Nella guerra di Ferrara pose in piedi ventimila soldati in un attimo, il che non potrebbe niun principe d’Europa». Quel territorio forniva di grano Venezia, Genova, Napoli, e nel 1589 valutarono se ne asportasse annualmente per cinquecento mila scudi, oltre lino da Faenza e Lugo, canapa da Cento e da Butrio nel Perugino, l’uno e l’altro da Viterbo; vino buono dappertutto, ma distinto da Cesena, Montefiascone, Faenza, Orvieto, Todi, Albano; uva passerina da Amelia e Narni, olio da Rimini, guado e pastello da Bologna e dal Forlivese, cavalli da Campania, manna da San Lorenzo e da terra di Campagna; caccie nel Lazio verso Sermoneta, Terracina, Nettuno, con grossissimi cinghiali: aggiungansi le pescagioni, le saline d’Ostia, Comacchio, Cervia, le allumiere della Tolfa, e cave di marmo, e selve inesauste di ghiande e di legname d’opera, ed altre produzioni vantate. Ancona rannodava commercio con Greci e Turchi, avendo Paolo III permesso a qualunque mercante infedele od eretico di venire a trafficar ne’ suoi Stati, con privilegi, esenzione dal Sant’Uffizio, uso de’ tribunali ordinarj[6]: Giulio III estese quelle concessioni; ma Paolo IV ne escluse i giudaizzanti, cioè i Marani di Spagna e Portogallo. Alcune case d’Ancona in un anno faceano affari per cinquecentomila ducati, e d’ogni paese vi capitavano convogli. Posto nel mezzo d’Italia, il men esposto a invasioni di stranieri, quel paese è il più atto a travagliare o a tener in pace l’Italia; i suoi porti non basterebbero di ricovero a un’armata che assalisse, e la mal’aria sterminerebbe chi accampasse sulle coste. Il papa armava dodici galee, e poteva coscrivere cinquantamila pedoni e quattromila cavalli, oltre i dovutigli da vassalli; ma sistemato il governo, non soldava che cinquemila uomini, la più parte svizzeri. Di rimpatto la capitale non sta nel centro del dominio, le fortezze non sono sufficienti, abbondano i ladri, scarsa la mercatanzia, negletti i gelsi, poca la popolazione, che esce a servigio altrui. Costituzioni provinciali non sussistevano più, bensì corpi privilegiati, come i nobili, i cittadini, le municipalità, principalmente nelle terre deditizie che faceano valere le stipulate franchigie; molte amministravano il proprio patrimonio, levavano soldati e tributi, assegnavano stipendj; e _libertas ecclesiastica_ chiamavasi questa special relazione di diritto pubblico. Nelle frequenti e non brevi vacanze le città rizzavano la cresta, e i prischi signori le pretensioni di dominio; sempre poi stavano in occhi che qualche parente del papa o cardinale non ottenesse diritti a scapito loro, e se ne riscattavano a denaro, a rimostranze, talvolta a viva forza. Faenza festeggiava ogni anno il giorno che, in giusta battaglia, cacciò gli Svizzeri di Leon X; e Jesi quello in cui si sottrasse alla tirannide del prolegato; ad Ancona, al contrario, fu messo il freno con esercito e fortezza; Perugia, che erasi ricusata all’imposta del sale, fu interdetta e doma coll’armi di Pierluigi Farnese, abrogandone gli antichi privilegi[7]. I governatori poteano essere laici, ma le città aspiravano all’onore d’averli ecclesiastici. Al pari dunque dello Stato veneto, l’autorità sovrana rimaneva in man de’ Comuni, che spesso teneano dipendenti altri Comuni; a Venezia soprastavano i nobili, a Roma la curia: ma mentre a Venezia il corpo sovrano considerava come avito retaggio i diritti governativi, alla curia romana gli elementi si cangiavano ad ogni conclave, coll’introdursi parenti e compatrioti del nuovo papa; a Venezia gl’impieghi erano conferiti dal corpo, a Roma dal capo; colà severe leggi imbrigliavano i governatori, qui non li teneva in dovere che la speranza di avanzamenti; colà insomma la stabilità, qui mutazioni continue ad arbitrio. Roma aveva l’aria d’una città di principi, vere corti tenendovi ciascun cardinale, e i Barberini, i Farnesi, i Chigi, i Panfili, altre famiglie vecchie e nuove. Cinquanta ve n’era allora, che contavano più di trecento anni di nobiltà; trentacinque più di ducento; sedici d’un secolo; antichissimi gli Orsini, i Conti, i Colonna, i Gaetani, e que’ Savelli che liberavano uno da morte ogn’anno, e le cui donne non uscivano che in carrozze chiuse[8]. Dalla campagna ove soleano far la vita feudalmente, vennero costoro a Roma quando i Monti lautamente fruttavano, poichè ciascuna casa ne aveva eretti, ai creditori assegnando la rendita de’ proprj beni: ma scemati il credito e gl’interessi, andarono in dechino. Dai Romagnuoli eransi sempre cerniti i migliori soldati, ma il Governo cercava distogliere dalle abitudini guerresche. Il popolo medio e basso attendeva a tranquille fatiche. I nobili, chiamati all’amministrazione municipale, senza industria nè arti nè educazione, s’agitavano in minuziose irrequietudini; i titoli di Guelfi e Ghibellini applicavano a dissensioni nuove; nè città v’era, nè famiglia che non fosse aggregata agli uni o agli altri, distinguendosi nell’abito, «nel tagliar del pane, nel cingersi, in portar il pennacchio, fiocco o fiore al cappello o all’orecchio»; ed esercitavano gli odj col ricingersi di spadaccini. I signori campagnuoli sfoggiavano ospitalità e lusso, teneano relazioni e intelligenze con quei della città, ma più coi proprietarj delle terre, i quali dipendevano da loro alla maniera patriarcale. Anche qualche famiglia paesana conservatasi libera dava di spalla a questa o a quella fazione, sicchè si procurava tenerne amico il capo. Rivivevano dunque i disordini del medioevo, e vi si applicavano i rimedj stessi. Talvolta gente quieta stringevasi in alleanze; come la _Santa Unione_ a Fano, formatasi per reprimere gli assassinj e latrocinj[9], con giuramento di mantenere la pace anche a prezzo della vita. S’allargò per tutta Romagna col nome di _Pacifici_, e fu costituita una specie di magistratura popolare, da cui naturalmente veniva ingrandito il potere pubblico, non meno che dalle rivalità de’ Comuni; l’indipendenza antica soccombeva all’amministrazione regolare, ma lo Stato fondavasi, non sull’ordine, sibbene sulle nimicizie e sul sospetto, e sull’opposizione tra la forza e la legge. Queste gelosie stornavano l’attenzione delle città dai diritti municipali, giacchè ciascuna fazione studiava amicarsi il nuovo legato, anzichè frenarlo; e costringevalo a pronunziarsi per gli uni o per gli altri, anzichè rendere a tutti egual giustizia. Anticamente i signorotti doveano affrettarsi a rinnovare i villaggi man mano che ruinati, se voleano mettere a valore i fondi. Ma dopo che essi furono spossessati o trasferironsi in città, que’ villaggi restarono abbandonati, e al luogo loro il deserto. La peste del 1590 e 91, che uccise settantamila abitanti, spopolò borgate e castelli della Romagna e dell’Umbria, e le campagne rimaste incolte a vicenda divenivano causa di spopolamento. Tal condizione favoriva i briganti, al qual mestiero si buttavano i malcontenti, ostentando come virtù questo abuso della bravura. Con loro metteasi chiunque volesse scialare furfantando, e preti e frati sottraentisi al giogo. I signorotti confinanti gli accoglievano, altri gli adopravano a particolari vendette, o traevano lucro dal comprarne le spoglie, o dall’immunità che procacciavano ai minacciati. V’avea chi mettevasi a vivere ne’ presbiterj alle spalle de’ curati, altri obbligavano i monaci a profonder loro il pane destinato ai poverelli; mandavano bandi in nome del popolo romano; nelle strade più frequentate derubavano i passeggieri, talchè i mercanti non osavano condursi ai mercati; entravano a spogliare i magazzini nel bel mezzo di Roma; impedivano i corrieri; più non era sicuro chi in fama di denaroso; chi avesse un nemico, vedeasi i beni devastati, uccise le mandre, invase le abitazioni, stuprate le figliuole. Divisi in sêtte, distinte per segnali, trucidavano mariti perchè le vedove potessero sposar uno della fazione opposta; costringevano fanciulle ricche a fidanzarsi ad abjetti e banditi, o le traevano di monastero per buscare le doti. Raffinavano anche di crudeltà; ne’ boschi piantavano tribunali, ove prefiggevasi chi svaligiare, chi trucidare e con quali spasimi, o a quanto prezzarne il riscatto. In Roma stessa i signori tenevano buon numero «di quei bravacci che son buoni a far tutto fuorchè bene, anzi che non sanno far altro mestiere che quello o di minacciare o di eseguire, di bastonar l’uno, uccidere l’altro, e tagliare l’orecchio o il naso a questo o a quello». I bandi moltiplicavansi; ma chi avesse adoprato la forza della legge e la giustizia contro alcuno di que’ bravi, più non isperasse tregua finchè non avesse scontato acerbamente la pena; i birri cadevano trucidati nelle pubbliche piazze. Nel 1583 questi colgono un bandito in casa degli Orsini, ma nel partire sono affrontati da un Orsini, da un Savelli, da un Rusticucci coi loro staffieri, che intimano di rilasciarlo, perchè preso in luogo di franchigia. Il bargello ricusa, questi si ostinano, e l’Orsini dà una vergata al bargello, il quale ordina di adoprar le armi; il Rusticucci cade ucciso, gli altri due feriti a morte. I vassalli degli Orsini ne’ giorni seguenti «come in tempo di sede vacante», ammazzano quanti sgherri colgono, fin dentro il palazzo del papa, il quale non potè che lasciar sbollire quella furia; dappoi mandò al supplizio lo stesso bargello, e anche alcuni de’ tumultuanti[10]; «il qual accidente (dice l’ambasciador veneto) per un pezzo sarà di non poco impedimento alle esecuzioni future della giustizia». Dal carteggio di questo ambasciadore abbiamo pure che un Caffarelli gentiluomo, burlando con altri giovani, rotolò giù dalla scalea d’Ara Cœli una botte piena di sassi, ammazzando e ferendo molti popolani che stavanvi a dormire: che un Vincenzo Vitelli, tornando una sera a casa, fu assalito da sette armati, spalleggiati da forse trenta ch’eran disposti nel contorno, ed ucciso[11]. Simili scene menziona ogni tratto. Alfonso Piccolómini duca di Montemarciano, grosso feudatario, cominciò da giovane a bottinare sia come soldato o come masnadiere; e postasi attorno una mano di bravacci, straripò in atroci vendette sopra i Baglioni di Perugia. Gregorio XIII lo scomunicò e ne confiscò gli averi, ond’esso non vedendo più nei governi che la prepotenza, ne’ popoli che la codardia, si pose in guerra colla società; quanti erano ladroni per Toscana e Romagna aggomitolò, e ne somministrava a chi ne bisognasse. Invaso Montabboddo, fece mettervi al supplizio i suoi avversarj fra il ballonzare de’ masnadieri; mandò dire a que’ di Corneto si avacciassero alla mietitura perchè dovea venir a bruciare quella di Latino Orsino; côlto un corriere, gli tolse le lettere senza toccar il denaro. I vicini, che Gregorio avea mal disposti colla sua tenacità ai diritti papali, lo videro volontieri nelle male peste, ed aprivano ricovero ai masnadieri quando fossero rincacciati, sicchè nè la forza approdava nè le scomuniche. Assalito seriamente, il Piccolomini si ritirò sul Toscano; poi nojato dell’ozio, nel 1581 ricominciò i guasti; e il papa dovette calar seco a patti, e per intermezzo del granduca gli restituì i beni, e perdono a lui e a tutti i suoi. Il terribile fece solenne entrata in Roma, prese alloggio nel palazzo Medici, e presentò per l’assoluzione tal lista di assassinj, che il papa inorridì e più al sentirsi intimare che bisognava o assolverli, o vedersi assassinato il proprio figliuolo. Altrettanto imperversava nell’Abruzzo Marco Sciarra, che faceasi chiamare re Marcone, e a capo di seicento banditi, dandosi mano con quei dello Stato Pontifizio, diffondea largo spavento; saccheggiò perfino il Vasto e Lucera uccidendo il vescovo, e per sette anni continuò, ridendosi di quattromila soldati spediti contro lui dal vicerè conte di Miranda. L’eccelsa rappresentanza della cristianità sostenevano i papi coll’opporsi ai Riformati e ai Turchi. Mantenere la lega contro questi procurò Gregorio XIII; soccorse di denari l’imperatore e i cavalieri di Malta; si chiarì per l’indipendenza dell’Irlanda; esultò nell’udire la strage del San Bartolomeo. Per le sue imprese non sovvenivano più i tributi di tutta cristianità; e non volendo lucrare da nuove imposte sui sudditi, nè da concessioni spirituali, pensava sopprimere certi privilegi di stranieri e abusi della nobiltà, revocar alla Camera molti castelli ricaduti o non paganti, e redimere i venduti o ipotecati: ma coll’incarire le dogane sviò da Ancona il commercio, ed eccitò malcontento e resistenza aperta. Gli fu posta una statua, «per aver tolta la gabella della farina, ornata la città di tempj ed opere magnificentissime, ottocentomila scudi distribuiti con singolare beneficenza ai poveri, pei seminarj di estere nazioni nella città e dappertutto onde diffondere la religione, per la carità sopra tutte le genti, per la quale fin dalle estreme isole del nuovo mondo ambasciadori del re del Giappone con triennale navigazione venuti ad offrire obbedienza alla Sede apostolica primamente in Roma ricevette come conveniva alla pontificia dignità»[12]. Com’egli morì, i banditi ricomparvero dappertutto con baldanzosissime iniquità; i frati del convento del Popolo si sguinzagliarono, e ai birri chiamati dal priore resistettero e ne uccisero, poi raccolto il buono e il meglio si salvarono. Il padremastro vide rubati i ricchissimi arredi di cui aveva ornata una cappella della Minerva, e dal dolore morì. Cinque case di cardinali furono svaligiate, e sin quella del Farnese, benchè vi avesse sei guardie e più di trenta cortigiani; alcuni nobili con bande di sessanta, di cento, correano rubando, violando, rapendo, sicchè Roma pareva una foresta; i vicelegati, i governatori, gli auditori profittavano della vacanza per espilar le provincie, scarcerare delinquenti, vendere la giustizia, concedere indulti. Reprimer tanti disordini fu il principale intento del nuovo papa Sisto V (1585). Chiamavasi Felice Peretti, da Montalto presso Ascoli, e dal custodire i majali levollo un suo zio francescano, l’educò, il pose frate. Unitosi a quei che zelavano la rintegrazione della Chiesa, salì di grado in grado fin ai sommi. Rigoroso inquisitore, caldo pei diritti pontifizj, benchè come cardinale frate vivesse di limosina, soccorreva ai poveri, sicchè acquistò venerazione. Non che aspirare al papato, mostrava pensar solo a morire; e le visite consuete prima d’entrare in conclave fece «sputando ad ogni passo, sospirando di dolori ad ogni due, e riposandosi ad ogni tre», come dice Gregorio Leti, in una Vita stolidamente romanzesca (1669). Nel conclave i voti sparpagliavansi, finchè, quasi a loro malgrado, si riunirono sopra di lui, che, mentre prima parea tener l’anima coi denti, subito ringiovanì, gettò via il bastoncello, e a chi gliene faceva l’osservazione disse: — Finora andavo chino perchè cercavo le chiavi; trovatele, guardo al cielo». De’ predecessori suoi parlava senza ritegno, citando il male che aveano fatto, massimamente Gregorio XIII[13]. Non trovandosi parenti che il raggirassero; ascoltando il popolo che chiedeva abbondanza e giustizia, il forte ingegno e un carattere imperioso e violento applicò a restaurare anche esteriormente il papato. Delle truppe e della sbirraglia licenzia gran parte, ma vuol che «i decreti si adempiano senza riguardo a chicchessia, e si comprenda che Sisto regna». Anzitutto bisognava riparare al vuoto dell’erario e ai briganti. Soleva ogni nuovo papa graziare molti carcerati, talchè durante il conclave i contumaci si costituivano nelle prigioni, sicuri d’ottenere l’indulto. Mal per loro, chè questa volta egli volle severa giustizia; e il giorno della coronazione, la folla andando pel Ponte in Vaticano vedeva spenzolar dal castello quattro giovani, côlti con armi corte. Nella cavalcata di possesso a San Giovanni Laterano, minacciò guaj a chi disturbasse con pretensioni: chi suscitasse scandalo con risse, parole, ingiurie o qualsiasi insolenza, avrebbe prigionia di tre anni se nobile, la galera per cinque se persona ordinaria, la frusta se donna. Il canonico Carelli, al quale egli doveva il suo primo innalzamento, aveva un nipote inquisito per ratto; e Sisto il fece impiccare davanti alla casa violata, allo zio dando licenza di sepellirlo in terra sacra e il vescovado di Amantea. Fatto un catalogo di tutti i vagabondi, maneschi, spadaccini, scioperati, rinnova le taglie, ma non si pagherebbero più dalla Camera, bensì dai parenti o dal Comune: dal Comune o dal signore, sul cui territorio avvenisse un ladroneccio, doveano rifarsi i danneggiati. Il Governo napoletano, sulle cui frontiere soleano ricoverare i briganti, lo seconda; e l’impunità promessa a chi consegna il camerata vivo o morto atterrisce quelli che dianzi aveano atterrito. Prete Guercino, che titolavasi re della campagna, scrive a monsignor Odescalchi gli mandi trecento ducati, se no devasterà le sue terre: esso ricorre al papa, che fa arrestar il messo e metterlo in galera. Ma ecco altra lettera del Guercino, che minaccia cento pugnalate all’Odescalchi e bruciargli e sparpagliargli le possessioni, onde quello supplica il papa a liberare il carcerato, come si fa; anzi si pone mediatore di pace presso il pontefice, il quale in fatto assolve il Guercino di quarantaquattro omicidj commessi; e mentre appunto ottiene il perdono, va e uccide quattro suoi nemici[14]. Ora però Sisto n’ebbe la testa, pagata duemila scudi, ed esposta incoronata al ponte Sant’Angelo. Un Della Fara, chiamate le guardie fuor di porta Salara, le bastona, e le incarica de’ suoi complimenti al papa; e Sisto intima ai parenti glielo consegnino o gli impiccherà tutti, e perchè mostrava far da senno, è obbedito. A trenta ritirati presso Urbino, quel duca mandò un carico di vittovaglie ma avvelenate: il conte Giovanni Pepoli di Bologna, per aver lasciato fuggire dal suo castello un bandito, fu strangolato in prigione: fin madri e mogli di masnadieri pagarono colla testa l’averli ricoverati. Un Transteverino era troppo giovane per essere mandato al supplizio, e Sisto disse: — Gli aggiungo alcuno de’ miei anni». Punì di morte l’adulterio e la connivenza de’ mariti; volle che i nobili soddisfacessero i vecchi debiti verso i mercanti; vietò ai signori di far raccomandazioni a pro di qualsifosse criminale; pretese sollecito spaccio e severo rendiconto da tutti i giudici, e gli dessero anche la lista di quanti sfaccendati, tagliacantoni, discoli sapessero nella loro giurisdizione; pensava anche cacciar di Roma chiunque non giustificasse de’ suoi mezzi di vivere. Proibì i soliti viva che suole schiamazzare la plebe dietro ai papi, ma punì severissimamente le pasquinate; di una ove Pasquino esclamava di aver la camicia sporca dacchè la sua lavandaja era divenuta principessa, Sisto volle a ogni modo saper l’autore, e nol potendo altrimenti, promise salva la vita e mille doppie se si rivelasse da sè. L’avidità ingannò il poeta, e Sisto gli fece contare il denaro, ma tagliar le mani e forare la lingua. Con questa fierezza orientale, che, secondo il detto vulgare «non la perdonava neppure a Cristo», in men d’un anno ebbe nettato il paese, e gli furono coniate medaglie col motto _Perfecta securitas, e Vade, Francisce, repara domum meam quæ labitur_. Inesorabile agli individui e sulla violazion delle leggi, negli atti generali mostrossi benevolo, indulgente a chi obbedisse. Non che soccorrere alle fami allora gettatesi con ducentomila scudi, che dichiarò suoi meri risparmj, fondò una frumenteria per mantenere l’abbondanza in Roma: tremila scudi ogni anno destinava a riscattare Cristiani dai Turchi: fondò l’ospizio presso ponte Sisto, «affinchè radunati in uno e bene osservati tutti coloro che van mendicando, senza sapersi se n’abbiano giusto titolo, si esamini in cadauno la sanità dei corpi e la robustezza degli animi, e collo scoprire i pigri e non infermi, taglisi la strada alla poltroneria di quelli che, con finte malattie e affettata povertà, abbandonandosi all’ozio e alla pigrizia, rubano gli alimenti ai veri bisognosi, e dopo fatto l’infermo in alcune ore, in altre sani e robusti corrono alle gozzoviglie»[15]. Alla pia confraternita istituita sotto Gregorio XIII per assistere ai carcerati, concedette scegliesse un visitatore delle prigioni, il quale ogni primo lunedì di quaresima potesse liberare un condannato anche di pena capitale. De’ cardinali prefinì il numero a settantadue, di cui sette vescovi suburbicarj, cioè di Velletri, Porto Santa Ruffina, Civitavecchia, Frascati, Albano, Palestrina, Sabina; cinquanta preti; il resto diaconi. Si distinguevano i cardinali principi, viventi con isfarzo, e che riguardavano gli altri come inferiori; i cardinali politici, che dirigendo gli affari arricchivano; e i cardinali poveri, la più parte frati, mantenuti dai papi o dai cardinali superiori, e dediti agli studj e alla pietà. Sisto voleali sottoposti ai decreti come tutti gli altri, benchè zelasse il loro decoro in faccia ai potentati; fossero principi altrove, ma sudditi in Roma. Alle sette loro Congregazioni, dell’indice, dell’inquisizione, dell’esecuzione e interpretazione del Concilio, de’ vescovi, de’ regolari, della segnatura e della consulta, crebbe importanza, e ne aggiunse otto altre, una per fondare vescovadi nuovi, una sopra i riti, le rimanenti per materie temporali, l’annona, le strade, l’alleggiamento delle imposte, le costruzioni guerresche, la stamperia vaticana, l’Università di Roma. Quella del buon governo dirigeva gl’interessi economici delle comunità. La sacra Consulta rivedeva gli affari criminali, e reprimeva gli eccessi de’ baroni e de’ governanti. Il tribunale delle due Segnature, cioè di grazia e di giustizia, provvedeva sui ricorsi presentati al pontefice per semplice grazia o in materia mista, come la restituzione in intero. La Chiesa erasi sempre tenuta a ordini collegiali e a deliberazioni precedute da discussione; talchè queste consulte e la sacra Rota assistendo al papa, alcune come vescovo nelle cose diocesane, altre per gli affari dello Stato, le più pel governo della Chiesa universale, davano un’aria repubblicana, ma non poteano resistere a volontà assolute come Sisto V. La propria famiglia arricchì egli con proprj risparmj, e con laute parentele; collocò due nipoti nelle famiglie Colonna e Orsini, con privilegio ai mariti di star accanto al soglio quando il papa celebra, e con grado superiore a tutti i signori romani; sicchè questi o per invidia o per inferiorità si divisero dai _nobili di soglio_; ed ebber fine le leghe che, sotto quei due nomi, continuavano a osteggiarsi. Restava l’altra piaga, delle finanze. All’udire i forestieri così concordi nel lamentarsi dell’oro che, prima della Riforma, spedivasi a Roma, si crederebbe che la Camera ne regurgitasse; ma sì poco n’arrivava sin alle mani dei papi, che Pio II dovè limitarsi a un pasto il giorno, e tôrre a prestanza ducentomila ducati per l’impresa contro i Turchi. Nel 1471 si contavano fin seicencinquanta cariche venali, la cui rendita valutavasi a centomila scudi[16], sicchè i proventi ne colavano in mano de’ compratori. Ne’ bisogni dunque (oltre il particolar ripiego delle indulgenze) non si sapeva che crear titoli e cariche nuove: Sisto IV n’aveva abusato strabocchevolmente; Innocenzo VIII, costretto perfino a mettere in pegno la tiara, istituì un nuovo collegio di ventisei segretarj per sessantamila ducati; Alessandro VI, ottanta scrittori di brevi, ciascuno per settecencinquanta scudi; Giulio II n’aggiunse cento degli archivj per altrettanto prezzo, ed ebbe lode di trovar denaro ad ogni occorrenza; lo splendidissimo Leone X introdusse milleducento cariche, del cui valore i compratori riceveano gl’interessi vita durante, onde vanno considerati come prestiti o come rendite vitalizie, che ammontavano fin all’ottavo del capitale. Questo rifondevasi parte con un lieve aumento delle tasse di curia, parte coll’eccedente di quanto si ritraeva dai municipj, dalle cave di allume, dal monopolio del sale, e dalla dogana di Roma. Oggi che si considera come regola il far debiti, e prospero il paese che più ne ha, non vorrassi condannare quegli spedienti, pei quali prosperarono le finanze, in modo da non occorrer più nuovi aggravj allo Stato che fra tutti era il meno pagante, tanto più che non manteneva grossi eserciti, spugna degli erarj. Ma tosto che le casse dello Stato cessarono di dare un avanzo, le finanze crollarono; e tra la Riforma, tra l’essersi i principi opposti all’esportazione del denaro, Leone le lasciò talmente esauste, che Adriano VI dovette sovrimporre mezzo ducato per fuoco; Clemente VII ricorse anche a un prestito semplice di ducentomila ducati al dieci per cento, _monte non vacabile_, o, come diciam ora, debito consolidato, trasmissibile agli eredi, assicurato sopra le dogane. I successivi pontefici ingrossarono quel capitale; e Paolo III rinunziando a rincarir il sale, stabilì il _sussidio_, imposta diretta che prometteva abolir poi, e che già si trovava in altri paesi, coi nomi di donativo a Napoli, di mensuale a Milano, d’altro altrove; e furono trecentomila scudi, ripartiti sopra le provincie, nessuna esentata. Le città fecero ivi richiami; Bologna se ne redense con un capitale alla mano; altre ne vollero rimessa porzione o tutto; ed era un gran che se alla cassa giungeva la metà. Ad ogni modo, l’entrata dello Stato, che sotto Giulio II computavasi di trecencinquantamila scudi, sotto Leone X di quattrocentoventimila, sotto Clemente VII di cinquecentomila, alla morte di Paolo III trovossi di settecentoseimila e quattrocentoventitre scudi. Pure ne’ tempi successivi, dovendo sussidiare i Cattolici sia contro i Protestanti, sia contro i Turchi, bisognarono nuovi acconci, e imposte sulla farina, sulla carne, su altri consumi, e sempre assegnavansi a creditori; talchè dal crescente aggravio de’ sudditi ben poco vantaggiava la Camera, e lo Stato pontifizio restò gravato quant’altri. Secondo il Leti, ai papi entravano di rendita ordinaria 1,273,344 scudi d’oro[17]; di straordinaria e per ammende e diritti di cancelleria, altri 413,480. Sisto V li crebbe con nuove imposte, col riscuotere crediti vecchi, aggravar le ammende, fare ai Giudei pagar la protezione che otteneano dal Governo, e con un’economia di cui si vantava a ragione. Restrinse le spese e gli uffizj di corte: delle cariche venali elevò il numero fin a trentaseimila cinquecencinquanta[18], dalla cui vendita ritrasse 5,547,630 scudi, e ciascuna gravò di tasse; crebbe i monti vacabili e no; pose gabelle sui viveri più indispensabili; alterò fin le monete. Trovato il tesoro esausto, fra un anno v’ebbe avanzato un milione di scudi d’oro, e così ne’ quattro anni successivi: e appena vi contasse un milione, il deponeva in Castel Sant’Angelo consacrandolo alla beata Vergine e ai santi Apostoli, come nell’Antico Testamento serbavasi nel tempio; e nella bolla, assicurando che provenivano da suoi risparmj, stabiliva che a quel tesoro non si dovesse por mano se non per ricuperare Terrasanta, ed anche allora unicamente dopo che l’esercito avesse già passato il mare; o per estrema carestia o peste, o quando alcuna provincia cristiana pericolasse di essere occupata da infedeli, o quando alcun principe portasse guerra allo Stato della Chiesa; ma sempre nell’estremo della necessità[19]. Gravar il paese e far prestiti per riporre denari infruttiferi, è uno sbaglio perdonabile a tempi che non conosceano come il denaro vaglia unicamente in quanto è posto in giro. Con tali mezzi potè restituire qualche splendore alla tiara. Blandito dai potentati pel suo denaro, e’ li chetò di lor pretensioni, e se gli ebbe devoti, quanto avversi il suo predecessore; conciliossi i signori del paese; largheggiò privilegi alle città di Romagna, ad Ancona molti diritti antichi, a Fermo l’arcivescovado, vescovado a Tolentino e al suo natìo Montalto; ridusse a città Loreto; avviò in bene l’amministrazione civica; moltiplicò le spese straordinarie, che prima coprivansi con cenquarantaseimila scudi, e più di tre milioni e ducentomila ne erogò in sole fabbriche; favorì l’agricoltura, e minacciosamente comandò di piantar gelsi; incoraggì i lavorieri della seta e della lana; cercò disseccar le paludi d’Orvieto e le Pontine, spendendo ducentomila scudi per aprire il fiume che serba il suo nome; avrebbe voluto che ciascun nunzio avesse palazzo proprio nella città ove risedeva. Fra tanta parsimonia e tanto pensare positivo, recano stupore i divisamenti suoi fantasticamente grandiosi. Fece fabbricar dieci galee, imponendo settantottomila scudi per la marina. Sperò distruggere l’impero Ottomano, e ne trattò colla Persia, coi Drusi, con alcuni capi arabi; allestì le sue galee, cui Spagna ne aggiungerebbe altre, mentre Stefano Batori dalla Polonia romperebbe la prima lancia. Ito in fumo questo disegno, pensò conquistar l’Egitto; allora, mediante un canale tra il mar Rosso e ’l Mediterraneo, rimetterebbe sulla via antica il commercio; e finchè venisse il destro di ricuperar Terrasanta, pensava rapirne il santo sepolcro, ed erigerlo a Montalto, vicino alla santa casa di Loreto. Dicono trattasse fin con Enrico III di fargli adottare un suo nipote per erede: tanto s’immaginava che tutta cristianità dovesse entrare a piè pari ne’ suoi divisamenti. Fermo alle dottrine del potere spirituale, e che il poter regio derivasse da quel del popolo e della Chiesa, insisteva continuo perchè l’imperatore non tollerasse i Calvinisti, e procurava collegare lui e gli Stati cattolici di Germania col re di Spagna per trionfo dell’ortodossia: ma in Francia vide soccombere la Lega, scomunicò Enrico IV benchè lo stimasse, poi adombrato della prevalenza spagnuola, inchinò verso Francia. Così dai gabinetti europei rispettato e temuto, fu l’ultimo papa che tenesse gran mano nelle pubbliche vicende. Udita la conversione del marchese di Bade Hochburg, fece una processione a piè scalzi, in conseguenza della quale morì, e il nome suo rimase popolare, come avviene de’ forti caratteri; e a lui fu fatto merito anche d’istituzioni ed ordinanze molto anteriori. In questo tempo la città di Roma si può dire si rinnovasse. I lunghi disastri dei tempi dell’invasione, la barbarie, le tante guerre intestine, e forse più che altro la vedovanza avignonese l’aveano resa deserta; e quando i papi vi tornarono, era popolata solo da mandriani, scesi dalle inospite colline ne’ piani lunghesso il Tevere, e quivi annidati in povere casipole, con vie anguste, fangose, oscurate da terrazzi e da cavalcavia. Gli edifizj antichi sfasciavansi; sul Campidoglio pascevano le capre; le giovenche erravano pel Foro romano, donde i nomi di Monte Caprino, Foro Boario, Campo Vaccino: e da San Silvestro alla porta de’ Pioppi (Popolo) non incontravi che orti e pantani, ove si cacciavano anitre selvatiche. Primamente Nicola V si prefisse di ornar Roma con edifizj convenienti alla maestà antica ed alla nuova; i successori lo secondarono, massime Giulio II e i Medici. Nuove fabbriche popolarono le due rive del Tevere, che Sisto IV aveva riunite col ponte che ne serba il nome: Giulio II, a tacere le meraviglie del Vaticano e della Cancelleria, può dirsi ricostruisse la città bassa e la via Giulia, parallela alla Lungàra: cardinali e principi a gara alzavano palazzi, e quelli dei Riario, de’ Chigi, de’ Farnesi, degli Orsini emularono le costruzioni antiche in bellezza, le vinsero in comodità. Il sacco di Roma e la peste la disertarono da capo; ma sotto Pio IV si tornò sul fabbricare, e i palagi risalirono sui colli abbandonati. Egli ampliò la cerchia di Roma formando il borgo Pio; risarcì la ruginante cerchia del Vaticano, rimodernò porta Popolo, e da quella che conserva il suo nome trasse la via diritta fin a Montecavallo. Tornò a pubblico uso la via Aurelia, migliorò l’altra che va alla campagna di Roma; nel palazzo Vaticano fece terminare la sala regia, il magnifico cortile del Belvedere, e due conserve d’acqua; fabbricò il seminario Romano; donò a Venezia il palazzo di San Marco; fece ristaurar le chiese che davano il titolo ai cardinali, e le basiliche nuove non lasciavano invidiare alle prische. Sul nuovo Campidoglio, per opera di lui torreggiò il palazzo dei Conservatori, disegno di Michelangelo; il quale pure sul Viminale alzava la Certosa degli Angeli, adattandovi gli stupendi avanzi delle terme di Diocleziano. Sisto V, quand’era ancora il cardinale Montalto, incaricò Domenico Fontana luganese di far la cappella del presepio in Santa Maria Maggiore; ma privato delle pensioni dal pontefice, sospese la commissione. Il Fontana però invaghitosi dell’opera propria, esibì continuarla del suo: del che gli volle tanto bene Sisto, che venuto papa non solo gli diede a compire essa cappella, notevole per le eleganti proporzioni della cupola, e il vicino palazzo (villa Negroni), ma lo sovrappose a tutte le sue opere, talchè i loro nomi vanno associati. Ripopolarsi non poteano i colli finchè mancassero d’acqua. Pio IV avea già condotto l’Acqua Vergine: poi Sisto V, con impresa degna degli antichi signori del mondo, per ventidue miglia guidò l’Acqua Felice che (cantava il Tasso), dopo il bujo del lungo sentiero, zampillava vivace, per contemplar Roma quale Augusto la vide. Fece spianare il terreno presso la Trinità dei Monti, e preparare la scalea che quell’altura congiunge a piazza di Spagna, aprì la via Felice e le altre che si difilano a Santa Maria Maggiore, collocando al crocicchio le quattro fontane; ampliò la stamperia greca e orientale, e la biblioteca Vaticana, traverso al cortile del Belvedere, con dipinti e iscrizioni che figurano i fasti d’esso papa, i concilj generali, le più famose librerie del mondo, gli uomini illustri per scienze ed invenzioni, sicchè riuscì la più bella del mondo; fabbricò il grande ospedale sul Tevere per duemila poveri, e sempre coll’opera dello stesso architetto, che nella fontana di Termini indicò il miracolo di Mosè: fece la fronte della basilica Laterana verso Santa Maria Maggiore, e il palazzo pontifizio, grandiosa mole di sobrj e corretti ornamenti; la parte del palazzo Vaticano che guarda Roma; lavori attorno al Quirinale, dove nell’allargata piazza collocò i due colossi che ostentano i nomi di Fidia e Prassitele. Degli antichi obelischi restava in piedi quel solo del Vaticano, mezzo sepolto; e per trasportarlo davanti al rinnovato San Pietro si consultarono quanti erano matematici; e di cinquecento pareri fra dotti e bizzarri fu preferito quel del Fontana. Parendo egli troppo giovane, benchè di quarantadue anni, l’attuazione voleva affidarsene all’Ammanati e al Della Porta, ma dal suo papa egli ottenne di eseguir egli stesso quest’operazione, ch’era senz’esempio nella meccanica moderna. L’obelisco, che col rivestimento pesava un milione e mezzo di libbre, doveasi toglierlo dal suo basamento, sdrajarlo sui carri, raddrizzarlo, impostarlo sulla base nuova. Sisto scelse a tale operazione un mercoledì, giorno che diceva tornargli sempre fausto; universale ansietà occupava i cittadini; pena la forca a chi dicesse sillaba, a rischio d’impacciare i comandi dei capi; l’architetto stava sospeso fra la gloria e i castighi minacciatigli dal severo pontefice. E già l’obelisco era trasferito, alzato vicino al posto, ma le tagliuole non poteano avvicinarsi tanto da raddrizzarlo, quando un villano, di mezzo alla tacita folla, gridò: — Acqua alle corde!». Ottimo suggerimento, che impediva si schiantassero, e le accorciava; sicchè ben tosto le campane e il cannone di Castello annunziarono riuscita l’impresa, che fu avuta come la più insigne del secolo. Sisto decorò cavaliere e nobile il suo architetto, gli regalò cinquanta scudi d’oro e tutto il materiale che avea servito, gli assegnò dieci cavalierati lauretani con duemila scudi d’oro di pensione, trasmissibili a’ suoi eredi. Il villano, che aveva affrontato la forca per dar un parere opportuno, chiese in ricompensa pel suo villaggio natìo il privilegio di fornir di ulivi la città per la festa delle palme[20]. Sisto annunziò il fatto ai principi e al mondo, coniò medaglie; tanto si compiaceva d’esser riuscito a quel che gli altri pontefici aveano tenuto impossibile. Dappoi fece erigere gli altri obelischi di Laterano, di Santa Maria Maggiore, di piazza Popolo, e voltò la cupola di San Pietro. Se già Michelangelo aveva adoprato le pietre del Coliseo per murare il palazzo Farnese, e staccato un architrave del tempio della Pace per farne base al Marco Aurelio, non è meraviglia che Sisto, poco devoto al bello etnico, non siasi fatto scrupolo di abbattere il Settizonio di Severo per trasferirne le colonne a San Pietro; pensava demolire il sepolcro di Cecilia Metella ed altri, che gli parevano ingombri deformi; sfasciò la venerabile e caratteristica antichità del patriarcheo papale, sostituendovi il palazzo Laterano senza impronta significativa; quell’Apollo, quelle Veneri non gli pareano arredi da Vaticano; a una Minerva in Campidoglio cangiò la lancia in croce; le due colonne Trajana e Antonina sprofanò col sovrapporvi i santi Pietro e Paolo, e all’obelisco fece innestare un pezzo della vera croce, perchè i monumenti dell’empietà fossero sottoposti al simbolo della fede là dove tanti per questa aveano patito. La popolazione di Roma che, sotto Paolo IV, sommava appena a quarantacinque mila anime, sotto lui arrivò alle centomila, gente d’ogni nazione, il cui vario vestire dava bizzarra vista, e che attaccavasi a corteggiar questo o quel Cardinale, sperando e brigando perchè il loro patrono giungesse al principato o a cariche onorevoli e lucrose. I favoriti poi e i parenti di ciascun papa costituivano una nobiltà nuova e nuove fortune. Qui in sedici mesi si succedettero quattro papi. Urbano VII (Giambattista Castagna) (1590) mostrossi degno del papato ne’ tredici giorni che il tenne. Il Piccolomini, insofferente di requie, si era ricovrato in Francia, poi ascoltando a Spagna, nimicata colla Toscana, con cinquecento masnadieri devastò il Pistojese; respintone per forza, stette nascoso a Piacenza, finchè eletto papa Nicolò Sfondrati milanese cardinal di Cremona col nome di Gregorio XIV, accostossi a Roma col terribile Sciarra e trecento seguaci, imponendo contribuzioni; e il governatore colse una carrozza di denari, archibugi e polvere, che ad essi era mandata da un ambasciadore residente in Roma[21]. Truppe di Napoli e Toscana si unirono alle romane per reprimerlo; in giusta battaglia ucciser ben cento di que’ suoi banditi; poi il conte Enea Montecuccoli, spedito da Alfonso d’Este, sbrattò il paese; il Piccolomini preso a Staggia, per quanto il papa e Spagna lo ridomandassero come loro vassallo, fu fatto appiccare dal granduca; lo Sciarra si resse ancora, finchè stimò bene mutar aria; e molti briganti passarono a servizio di Venezia contro gli Uscocchi. Costoro cresceano i mali gravissimi della carestia che quegli anni desolò la penisola; e il papa restituì il diritto d’asilo alle chiese, e ne’ pochi mesi che campò, spese tre milioni di scudi, anche per sostenere la lega cattolica che allora dal trono di Francia respingeva Enrico IV calvinista, e a sostegno della quale mandò truppe comandate da suo nipote Ercole Sfondrati duca di Montemarciano. Ma Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini) (1592) succeduto a Innocenzo IX (Gianantonio Facchinetti), ebbe la consolazione di vedere re Enrico tornar in grembo alla Chiesa. Dubitava egli che Enrico andasse a messa sol per acquistare il regno; pure sollecitato da san Filippo Neri, dal cardinale Baronio e da altri, accettò questa conversione che rendeva la Francia pacificata e cattolica; onde solennemente festeggiata, se ne perpetuò la memoria con una colonna. Clemente VIII visitò tutte le chiese e i monasteri[22], introdusse il giro delle quarant’ore in Roma: delle consulte non si serviva per pubblicare ciò che avea deliberato da solo: stabilì anche imposte senza sentire i contribuenti, e sottomise i baroni alla giustizia. Al giubileo da lui aperto concorsero moltissimi fedeli, ma mentre prima era un’occasione di smisurati lucri a Roma, i prelati ebbero a mostrar la loro carità col largheggiare elemosine; il santo padre dispose in Borgo un palazzo ove alloggiava per dieci giorni qualunque prelato o sacerdote, ed egli stesso vi tornava sovente, e servivali a tavola o ne lavava i piedi. L’arciconfraternita della Trinità accolse da ducentocinquantamila pellegrini e ducentoquarantotto confraternite forestiere; nobili ecclesiastici e secolari gareggiavano nel servire agli accorrenti, fra i quali vennero incogniti anche gran principi, vennero per curiosità molti eretici e non mancò chi ne rimanesse convertito. Un indebitato rifugge nel palazzo del cardinale Farnese, e i birri pontifizj ve l’inseguono malgrado le immunità; ma i gentiluomini del cardinale li maltrattano, e fan cansare l’inseguito. Il papa in collera ordina si proceda con tutto rigore; ma si oppongono i baroni romani e l’ambasciatore di Spagna, e ne nasceva tumulto se il cardinale non avesse avuto la prudenza di ritirarsi con folto seguito di partigiani e di popolo. Gli uffizj di Ranuccio Farnese di Parma calmarono il pontefice: il popolo gridò — Viva casa Farnese»; ma il cardinale e i suoi, benchè perdonati, non si fecero premura di ritornare[23]. Il papa n’ebbe amareggiati gli ultimi giorni; ne’ quali si abbandonò al cardinale nipote; e la sua casa, fiorente allora di tre cardinali e molti signori, ben presto rimase estinta. Nel conclave prevaleva il cardinale Baronio, se i suoi scritti non gli avessero suscitato l’opposizione di Napoli; tanto che fu eletto Leone XI de’ Medici (1605), parente dei reali di Francia. Morto fra ventisette giorni, gli è dato successore Paolo V (Camillo Borghese), contrario alla parte francese. Studiosissimo, d’illibati costumi, di fare soave, ottenuta la tiara integramente, ne sente la dignità, e si propone di rialzar la morale autorità del cattolicismo. Canonizza san Carlo, approva gli Ordini del Carmine e di san Lazzaro, vuole che in tutti gli Ordini mendicanti s’insegnino latino, greco, ebraico, tanto da non iscapitare a petto delle Università di Germania, e risolutamente esige la residenza de’ cardinali; caldeggiò i diritti della santa Sede quali risultavano dalle decretali, e diè l’ultima mano alla bolla _In cœna Domini_. Questo zelo pei diritti ecclesiastici lo pose in litigio clamorosissimo con Venezia, la quale pretendeva infliggere castighi comuni a persone ecclesiastiche. Trovandola imperterrita a monitorj e scomuniche, cautamente le temperò; in tutte le altre occasioni cercò e diffuse la pace. Sontuosissimo in fatto d’arti, ornò le basiliche Vaticana e Liberiana e il Quirinale; dal territorio di Bracciano tirò l’acqua Paola a vantaggio del Trastevere: ma smodatamente arricchì i nipoti, i quali e sul Pincio, nei beni confiscati all’antica famiglia Cenci, e fuor di Roma fabbricarono con indicibile fasto: il duca di Sulmona accumulò centomila scudi di rendita; il cardinale Borghese, despota della curia, conferiva a’ parenti quanti buoni benefizj vacassero. Gregorio XV (Alessandro Ludovisi) (1621), indebolito e inetto, nè occupato che di pietà, di dotti, d’accademie, lasciò le redini a suo nipote Lodovico Ludovisi. Già era fatto universale quest’uso d’un _cardinal padrone_; e il Ludovisi, giovane d’ingegno, amico del denaro, de’ piaceri, della splendidezza, della giustizia, seppe diriger bene gli affari, e orzeggiare nelle tempeste. La sua casa acquistò il principato di Piombino, e colla erede del principato di Venosa ebbe quarantamila ducati di rendita in tanti feudi del Napoletano. Allora vengono santificati Ignazio da Lojola e Francesco Saverio: frà Girolamo da Narni predicatore insigne dà impulso alla Congregazione allora istituita _de propaganda fide_, da cui partivano gl’intrepidi, che per tutto il mondo portavano il vangelo. Moltissimi anche de’ nostri affrontavano il martirio de’ lunghi e oscuri patimenti, se non era anche quel degli strazj e della morte. Per far solo d’alcuni memoria, dirò come i Cappuccini si volsero principalmente all’Africa, e Giovanni Bellotti da Romano bergamasco scrisse le _Apostoliche giornate, nelle quali rappresenta parte delle sue fatiche nelle missioni sostenute a benefizio delle anime de’ Negri infedeli_. Dionigi Carli piacentino, itovi con Michelangelo Guattini reggiano che colà morì, a Bologna pubblicò i suoi viaggi, con avventure non sempre serie, e con osservazioni superficiali ma schiette; e siccome di paesi incogniti, furono tradotti in tutte le lingue[24]. Giannantonio Cavazzi modenese lasciò la descrizione dei regni di Congo, Matamba, Angola. Girolamo Merolla sorrentino, per sei anni versato fra i Negri del Congo, d’ordine della Propaganda faticò, se non a togliere, a mitigare la tratta di questi infelici. Francesco Maria Maggi palermitano, cherico regolare, dopo otto anni di missioni in Siria, Persia, Mesopotamia, Georgia, portò a Roma la cognizione di quegli idiomi, e dedicò a Urbano VIII _Syntagmata linguarum orientalium_. Le missioni della Cina sono l’epopea de’ Gesuiti, che si può dire, la scopersero; nè fu colpa loro se non venne alla nostra civiltà. Quando vi si avviò primiero Francesco Saverio, vi condusse il padre Paolo da Camerino. Il padre Matteo Ricci da Macerata, mandatovi coi due altri italiani Rogero e Pasio, vi fondò le prime missioni; e conoscendo che bisognava mostrarsi letterato, fece un mappamondo ove collocava la Cina nel mezzo, e un breve catechismo in quella lingua; insegnò chimica e matematica; e le quindici opere sue sono le prime che Europei dettassero in cinese, e alcuna è posta fra le classiche da quel popolo geloso. Avea creduto dover condiscendere ai costumi e alle opinioni dei Cinesi fin dove non cozzassero colla vera fede, onde togliere le repugnanze che un popolo eminentemente storico aveva al cristianesimo: e siffatta tolleranza fu l’accusa più violenta che poi recarono ai Gesuiti quelli che per avventura continuavano a imputare l’intolleranza cattolica. Come superiore di quelle missioni gli fu surrogato Nicola Lombardi siciliano, autore di scritti importanti su Confucio. Il padre Giacomo Ro milanese, dopo predicato molti anni nel Scian-si, fu chiamato alla Corte perchè attendesse alla compilazione del calendario imperiale, come fece col celebre padre Schall; più di cento opere scrisse in cinese di pietà e d’astronomia; ricusò dignità e favori, sol chiedendo agevolezze pe’ Cristiani. Come astronomo e ambasciatore vi fu pure adoperato il napoletano padre Francesco Sambiasi. Frà Castiglione pittore, fattosi converso ne’ Gesuiti, e mandato a Pechino, lavorò per quella Corte anche da architetto. Martino Martini di Trento diede l’_Atlas Sinensis_ (1655), l’opera più compiuta che ancor si fosse vista sul grand’impero, e voltò in quella lingua diverse opere. Il siciliano Francesco Brancato vi pubblicò molti scritti, e specialmente il _Trattenimento degli Angeli_ (1637), catechismo rimasto classico. Luigi Buglio palermitano missionò a Goa, nel Giappone, nella Cina, e morì a Pechino il 1682, lasciando in cinese alquante opere. Giulio Aleni bresciano, professore di matematica a Macao, penetrò nell’impero, e per trentasei anni vi predicò e scrisse, ed era detto il Confucio d’Occidente. Prospero Intorcetta siciliano missionò colà col padre Martini e quindici altri Gesuiti, adoperando zelo immenso: nella persecuzione del 1664 fu condannato alla bastonatura e all’esiglio: calmata l’ira, venne a Roma per implorare nuovi operaj, che esso incoraggì fin alla nuova persecuzione del 90, quando coraggioso affrontò i tribunali: scrisse più libri in cinese e in latino, massime intorno alle dottrine di Confucio, e morì vecchissimo nel 1696. Molto stimato fu pure nella Cina il padre Paolantonio Mainardi torinese, vissuto fin al 1767. Ippolito Desideri gesuita pistojese fu nel Tibet, e con coraggio indicibile traversò paesi ignoti e sostenne avversità. Ivi poi faticò lungamente il padre Della Penna maceratese con altri Cappuccini, ed espose la storia e i costumi di que’ paesi e singolarmente la religione, dove tante somiglianze trovava colla nostra. Più tardi il padre Percoto da Udine tradusse i libri dogmatici de’ Birmani fra cui avea predicato, e ragguagliò sul governo e la religione dei paesi di Ava e di Pegù. Il padre Giuseppe Maria Bernini di Carignano corse l’India, descrisse il Nepal, fece dialoghi in lingua indiana, e ne tradusse varie opere. Antonio Ardizzoni napoletano vi missionò col padre Francesco Manco e altri cherici regolari; dimorò otto anni a Goa, poi lungamente a Lisbona, varie cose dettando in portoghese. Costantino Beschi gesuita arrivò il 1700 a Goa, e molto lavorato nel regno di Madera, e scritte assai cose e nominatamente il _Tembavani_, poema di tremila seicentoquindici tetrastici, con commenti a ciascuno, in lode della Madonna, fece grammatiche e un dizionario tamulo-francese. Gianfilippo Marini da Genova apostolo per quattordici anni nel Tonking, e descrisse le missioni e il paese. Cristoforo Borro da Milano diede una relazione della nuova missione de’ Gesuiti alla Cocincina, e meditava una nuova strada per passare all’Oriente dalla parte occidentale. Apostolo dell’Oriente fu intitolato Alessandro Valignani imolese, che speditovi il 1573, più volte corse il Giappone e l’India. Andrea Borromeo milanese teatino, ito il 1652 nella Mingrelia e Georgia, vi faticò undici anni, e ne lasciò una relazione. In Arabia predicò Alessandro Botto cremonese. Carlo Francesco Breno di Valcamonica, minor riformato, preparò libri pei missionarj in Oriente. Galano Clemente, teatino di Sorrento, stando dodici anni in Armenia, raccolse assai carte, atti e monumenti, che stampò poi a Roma in latino e in armeno[25], e compilò pure una grammatica di quella lingua. Colà Paolo Maria Facentino rese importanti servizj ai Cristiani, stabilì nuove missioni, scrisse pei nuovi convertiti, e tornato a Roma il 1620, fu superiore delle missioni dei Domenicani. Anche il calabrese Piromalli domenicano molti Monoteliti convertì. Fu approvato dal papa a riunire gli Armeni di Polonia e di Russia, e ad Urbano VIII presentò una grammatica e un lessico armeno, oltre lavori di controversia. Ignazio di Gesù, carmelitano scalzo, descrive i Mandaj, cristiani viventi presso Bàssora. Tommaso Obicini novarese minorita, missionando in Oriente, diede una grammatica araba lodata, e un fallace dizionario siriaco. Una grammatica della lingua georgiana e una della turca, oltre molte opere ascetiche, lasciò pure Francesco Maria Maggi palermitano teatino, ito a visitar i conventi de’ suoi fratelli in Oriente e principalmente nella Georgia, e che a Caffa stabilì una casa di Teatini. Pietro Foglia medico a Capua, fatto carmelitano col nome di Matteo di San Giuseppe, missionò nella Siria poi nell’India, facendo anche da medico, e raccogliendo molte notizie botaniche, di cui giovò i dotti. Arcangelo Lamberti teatino diede una relazione della Mingrelia. Gianandrea Carga friulano de’ Predicatori apostolò il Levante, fu vescovo di Sira, ove perì martire de’ Turchi nel 1617. Francesco Giuseppe Bressoni, gesuita romano, predicò ai Canadesi e agli Uroni; preso dagli Irochesi, fu venduto agli Olandesi mutilo e ferito; appena guarito tornò fra gli Uroni, ove i segni del suo martirio lo rendeano più venerabile; distrutti questi, rivide l’Italia, dove si diede alla predicazione, e stese un breve ragguaglio delle missioni nella Nuova Francia. Filippo Salvatore Gilli, gesuita romano, predicò per diciott’anni sull’Orenoco, sette anni a Santa Fè di Bogota, e ne diè la descrizione. E quanto deva la geografia ai missionarj, può raccogliersi da una dissertazione del cardinale Zurla. Pochi noi accenniamo de’ moltissimi che, senz’altra speranza che del paradiso, senz’altra ricerca che delle anime, corsero fra’ popoli selvaggi o fra’ rimbambiti: ma non ci parve dover dimenticare questi eroi della fede e della civiltà, e riposammo sui loro trofei prima di raccontare le troppe miserie della loro e nostra patria. CAPITOLO CL. Savoja. Emanuele Filiberto. Carlo Emanuele. Genova. Congiura del Vachero. Il ducato di Savoja, il principato di Piemonte colla contea di Nizza, la supremazia sui marchesati di Saluzzo e di Monferrato, su Ginevra e il paese di Vaud, la Bresse, il Bugey, il paese di Gex, componevano il retaggio dei discendenti di Umberto Biancamano. I paesi oltremonti divideansi in baliati militari, ciascuno con un giudice, e spesso un ricevitore. Di qua dell’Alpi, il Canavese e val di Susa formavano un baliato, uno la val d’Aosta; gli altri paesi, di cui principali Torino, Carignano, Pinerolo, Moncalieri, Cumiana, Cavour, Vigone, Villafranca, stavano sotto al capitano del Piemonte. Mentre le conquiste del secolo precedente aveano ridotto gli altri Stati italiani ai limiti che ormai doveano conservare, quel paese rimase frastagliato in mezzo a grosse Potenze, e i duchi attesero ad arrotondarlo coll’accorgimento e colle forze militari, ch’essi medesimi capitanavano. Dell’esser vassalli all’imperatore profittavano per ottenerne privilegi qualvolta egli avesse bisogno di loro; le alleanze o le guerricciuole de’ confinanti porgeano occasione d’incremento, come le opportune parentele. Amedeo VIII, ingrandito lo Stato (t. IX, p. 449), ottenne il titolo di duca di Savoja[26] (1416), e stabilì la successione primogenita con rappresentanza all’infinito, di modo che più il dominio non fosse diviso. Da commissarj ecclesiastici e laici, fra cui il cancelliere Giovanni di Beaufort e il segretario Nicolò Festi, avea fatto compilare statuti generali che prevalessero ad ogni statuto locale, e nel proemio avvertiva come le leggi abbiano bisogno di riformarsi a seconda dei bisogni nuovi, delle nuove milizie, della mutabilità delle cose umane. Già v’era di pubblico obbligo il servizio militare, e Amedeo contava ventisettemila uomini abili alle armi; ma esentavansi a prezzo, e vero esercito nazionale si ebbe soltanto sotto Emanuele Filiberto verso il 1560. Il dominio di Nizza diede anche forze marittime; e navi armava il duca Lodovico verso il 1460. Amedeo, senza togliersi del tutto agli affari, ritiratosi a Ripaglia sul lago Lemano, lasciasi eleggere antipapa (tom. VIII, pag. 196); poi per rinunziare alla tiara vuole buoni patti, fra cui il non potersi in dignità ecclesiastiche collocare verun forestiero. Suo figlio Lodovico (1440), accidioso e dissoluto, circondato di mimi, raggirato dalla moglie Anna Lusignano di Cipro, che coi denari di Savoja arricchiva sè ed i Ciprioti suoi, fu costretto ricorrere all’oneroso e disonorevole patronato di Luigi XI suo genero. I feudatarj, tenuti in briglia dai tre Amedei, allora vedendosi posposti, raffittirono trame e sollevazioni, donde supplizj, affogamenti ne’ laghi, esigli, e un esacerbarsi delle fazioni guelfa e ghibellina. Sin Filippo figlio del duca, per odio contro la parte candiota, scommosse lo Stato e uccise Giorgio di Varax. Crebbe il disordine Lodovico, assegnando grossi appannaggi ai molti suoi figliuoli, che arrogavansi ciascuno l’arbitrio principesco fin di assolvere a denaro i delitti, dar moratorie, e altri abusi. Dopo ciò, che importa se Lodovico proteggeva le lettere, e andava talvolta coi principi ad ascoltar i professori dell’Università? Cominciò egli a mettere negli alti uffizj qualche Piemontese; come a quel di cancelliere di Savoja Giacomo Valperga di Masino, che poi dopo lunghi processi fu affogato nel lago di Ginevra e al fisco i suoi beni, indi riconosciuto innocente; Antonio di Romagnano, che a pena colla fuga si sottraesse al supplizio. Amedeo IX succedutogli (1465), fu modello de’ mariti e correttore de’ costumi; guaj a chi bestemmiasse! scostava dal suo servizio il libertino, foss’anche il primo suo ministro; le cause de’ poveri e degli orfani volea riferite le prime nel suo consiglio; moltissimi indigenti alimentava in palazzo, comechè schifosi; la propria collana mandò alla zecca per risparmiare nuove imposte; e a chi lo avvertiva che con quel denaro avrebbe potuto procacciarsi esercito e fortezze, rispose: — Le limosine sono le migliori fortificazioni; e perchè regni l’abbondanza, vuolsi largheggiare coi poveri». Per tali virtù ottenne l’onore degli altari: ma il suo regno fu soqquadrato da incessanti discrepanze de’ fratelli e de’ nobili, scoppiate sino in guerra civile dopo ch’egli infermò e proseguite sotto la reggenza (1472) di Jolanda di Francia sua vedova, turbata anche da invasioni degli Svizzeri che le tolsero il paese di Vaud e Friburgo, de’ Borgognoni che lei chiusero in fortezza, de’ Milanesi che, a titolo di difenderla, occuparono il Vercellese (1482). Morta lei, e poco dopo il giovane figlio Filiberto, Carlo succeduto dovette colla spada recuperarsi il dominio; e ben tosto morendo (1490) dava luogo a una nuova reggenza, disputata sanguinosamente. I marchesi di Saluzzo, i conti di Bresse e de La Chambre a gara si sollevano; l’ambizione di Filippo fratello del defunto sommove il paese, finchè alla morte del fanciullo Carlo II nipote (1496), ottiene il dominio, ma dopo soli diciotto mesi muore anch’esso. Suo figlio Filiberto II il Bello (1498) tentò svincolarsi dai nodi di Francia, rinforzati ne’ precorsi tumulti, ma per avvolgersi in quelli della moglie Margherita d’Austria; vide l’invasione de’ Francesi con Luigi XII, ed ebbe a soffrirne in sei anni d’indecoroso dominio. Suo fratello Carlo III il Buono (1504), che cinquant’anni regnò, le intere mattinate passava a sentir messe e visitar chiese; non isprovveduto d’intelligenza, ma di fortuna: ed oltre vedere i suoi paesi conturbati dall’eresia, corsi da Svizzeri, Francesi, Imperiali a vicenda, Berna invocata dai Ginevrini ch’egli stoltamente minacciava voler ridurre pari ad un villaggio di Savoja, gli tolse il Ciablese, il paese di Vaud, Ginevra e Gex, a suo dispetto piantandovi la Riforma; e Francesco I di Francia i restanti possessi perchè favorevole al cognato Carlo V, e permise che Federico II Gonzaga duca di Mantova (1533) raccogliesse in eredità il Monferrato. Vero è che il cognato imperiale gli donò la contea d’Asti e il marchesato di Ceva. Discordie intestine straziavano intanto principalmente Mondovì, Chieri, Fossano: milizie nazionali non si aveano; nè denaro per soldarne di mercenarie; lo Stato era a brani per moltissimi appannaggi de’ cadetti ducali, aggravato da esorbitanti pensioni alle vedove, dai debiti fatti per le pretese di Amedeo VIII al papato e di Lodovico al regno di Cipro e per amicarsi gli Svizzeri, e da tanti passaggi di truppe[27]. Sua moglie Beatrice di Portogallo gli scriveva che ai figliuoli lasciavasi mancare un giorno il pane, l’altro il vino; da due anni le balie non toccavano stipendio; il pollajuolo, già creditore di mille fiorini, ricusa continuar le forniture, e così il macellajo: le sue gioje del valore di cinquantamila ducati, per diecimila erano impegnate a Genova: nè a tali difetti sapeasi riparare che alienando beni e ragioni demaniali[28]. Quando morì, Carlo non possedeva più che Nizza, Cuneo, Vercelli ed Aosta: Vercelli (1553) stessa fu allora occupata dai Francesi, e intanto i popoli, spensierati, vogliosi di godimenti, correano a brighe e a novità religiose, non per sentimento di pietà, ma per togliersi i freni. Vi pose riparo Emanuele Filiberto Testa di ferro, che giovinetto messosi ai servigi dell’imperatore, erasi immortalato colla vittoria di San Quintino, e nella pace di Cateau Cambrésis (t. IX, p. 519) recuperò gli aviti dominj, sicchè d’allora la Savoja pesa nelle sorti italiane, e adopera a farsi indipendente dalla Francia. Per quanto a questa increscesse d’abbandonare i bei paesi cisalpini, pure, onde imbonirsi il duca che promettevale mille fanti e trecento cavalli pagati, gli cedette Torino, Chivasso, Chieri, Villanova d’Asti, poi anche Pinerolo e Savigliano, che occupava fin a che fossero posti in chiaro i diritti di Luigia di Savoja, avola d’Enrico II. Rilasciando a Berna il paese di Vaud, Emanuele Filiberto assicurossi quanto teneva a mezzodì del Lemano e del Rodano; aspirava a recuperar Ginevra, ma Berna e Soletta colla Francia ne stipularono l’indipendenza. Coll’acquisto di Tenda assicurò il passo dell’alpi Marittime traverso a genti fiere e manesche, e colla compra d’Oneglia si allungò nella riviera genovese. Procurò avere dal senato veneto le qualità di figlio di San Marco, per la quale avrebbe occupato il secondo posto nelle comparse. Conoscendo come a paese che voglia costituirsi son necessarie buone armi, dal famoso Paciotto d’Urbino fece compiere la cittadella di Torino, già disegnata da Francesco degli Orologi, e quelli di Borgo in Bresse e di Cuneo ed una a fronte di Ginevra; e da lui, da Ferrante Vitelli perugino, dal Busca milanese fece fortificare Nizza, Villafranca, Sommariva, Susa, Mondovì, Monmeliano, mentre prima lo stato sarebbesi potuto perdere in ventiquattr’ore: dal piacentino Anton di Leva fece riordinare le milizie, sicchè ciascun Comune dovesse averne, esercitate a tempi prefissi, e allettate con privilegi; mentre i feudatarj lo fornivano di quattro compagnie di cavalli, onde ebbe in armi trentaseimila uomini, ch’egli pagava e armava, escludendo affatto i soldati forestieri. Pose una flottiglia a Villafranca; i cavalieri di san Maurizio per semplice onoranza istituiti da Amedeo VIII, unì a quelli di san Lazzaro destinati a cura degli ospedali; e ad imitazione di quelli di Malta e di santo Stefano, vi pose l’obbligo di mantenere tre galee contro i Turchi, e destinando granmaestro in perpetuo sè e i suoi successori. Fatto forte, potè intervenire a tutte le questioni d’allora, Francia l’adoprò nelle guerre di religione, Spagna per difendere il Milanese[29]. Contava appena settecentomila sudditi nel Piemonte, cinquecentomila in Savoja, e salvo Nizza, poveri, inerti, e tutta rabbia fra Guelfi e Ghibellini[30], Savojardi e Piemontesi, nobili e plebei, Protestanti e Cattolici. Le case si erano scompaginate per le spese della guerra di Francia. Delle savojarde prevalevano i signori de La Chambre, e i conti di Guier, di Rinavia, d’Antormon: delle Piemontesi le Piossasca, Luserna, Valperga, San Martino se eran le prime confederate a casa di Savoja: i signori di Collegno tenevano ventiquattro castelli con giurisdizione di sangue e trentamila scudi d’entrata. Quei che avean servito Francia la rimpiangeano: quei che Savoja, credeansi non abbastanza premiati. Ai ministri poco potea fidarsi, perchè pendeano chi per Spagna, chi per Francia, speculandovi maggior vantaggio che dal mostrarsi italiani. Volea vedersi pagate le tasse? bisognava ricorresse a capi di fazioni, quali il conte Masino o quel d’Arignano, monsignor di Racconigi o quel della Trinità. Nello scompiglio sentesi il bisogno d’un ordine, quand’anche sia a scapito della libertà. Durava nel paese la rappresentanza degli stati, ecclesiastico, nobile, popolano. Destinati a votare i sussidj straordinarj al principe, ne prendeano occasione d’ingerirsi in altri affari, come nelle successioni, nella nomina del grancancelliere; intitolavansi _padri e tutori_ del principe, ne sindacavano le azioni e i casi di guerra e pace; insomma erano una rappresentanza nazionale, quantunque irregolare e senza garanzia. Emanuele Filiberto, avvezzo ai comandi soldateschi, indispettiva di trovarsene or rallentato nelle sue riforme, or impedito ne’ suoi divisamenti; e avendo la Camera de’ conti di Torino ricusato interinare un contratto di lui, esso le scrisse di farlo subito, «altrimenti farem conoscere a voi e a tutti che vogliam essere obbediti, e possiamo far gastigare i nostri sudditi, di qualunque stato sieno, che osassero o tentassero menomamente resisterci, sapendo che facciam bene». Alfine tolse via questa rappresentanza[31], solo mantenendo a Carignano il senato, sul modello de’ parlamenti di Francia, col diritto di interinare le leggi e le grazie del principe. Il suo consiglio di Stato riceveva le suppliche di grazia, e poteva anche derogare le decisioni dei tribunali. Scioltosi dai ritegni, pose moltissime gravezze, cercando vi partecipassero tutti[32]; e la rendita che sotto i predecessori giungeva appena da sessanta a settantamila scudi d’oro, portò a cinquecentomila. Per concentrarne l’amministrazione nominò generale tesoriero Negrone di Negro genovese, il quale introdusse ordine e regolarità nel maneggio del denaro pubblico, e un contrabollatore generale. Pio negli atti[33], l’educazione de’ giovani affidò a quelli che allora godeano maggior grido di virtù e dottrina, i Gesuiti: volle s’imparasse a leggere sul catechismo e sull’uffizio, non sui versi lascivi di Ovidio: la censura delle stampe affidò al senato. Dichiarò inabili a succedere i religiosi nè le fraterie ad acquistare, e ogni vent’anni pagassero il sesto del valore de’ loro beni; fondò uno studio a Mondovì, poi trasferito a Torino, ove insegnarono il giureconsulto Aimone Cravetta di Stigliano, Giovanni Argentaro capo di scuola medica, Agostino Bucci filosofo, il francese Cujaccio, il reggiano Panciroli, il pavese Menochio, il Goveano portoghese; invitò gli stampatori Torrentino e Bevilacqua, e cercò a segretario Annibal Caro e a consigliere Nicolò Balbo. Promosse il commercio marittimo; creò un magistrato sopra la mercatura, uno sopra le acque; migliorò le razze cavalline; favorì il traffico de’ panni di seta, e ordinò di piantar gelsi, fin allora quasi ignoti. Alleviando i dazj, trasse pel suo paese il transito delle merci fra Italia e Fiandra; ma fuori non potea mandare che alquanto bestiame e caci: l’industria era in fasce, e tutto tiravasi dalle fiere di Ginevra e di Parigi. Il 30 ottobre 1561 aboliva ogni resto di servitù, taglia o manomorta, angarie e perangarie, vincolo a testare o contrattar liberamente, facendo così franchi tutti i sudditi. Vietò le armi, sino ai capi delle compagnie giojose e delle maestranze; di servire, di studiare, d’addottorarsi fuor di Stato, e le conventicole politiche, che oggi si chiamano circoli o club e allora abbazie, e l’accordarsi col fisco nelle cause politiche. Insomma governo assoluto, temperato solo dalla prudenza del principe; militare ordinamento del paese, per aver forze da servire all’alleato che le circostanze presentassero; non aderire a Spagna più che a Francia, straniere entrambe, ma a quella che meglio profittasse; invece di tenersi neutrale fra i litiganti, sposarne alcuno; non guardare agl’interessi di veruna terra o città, ma a quel dello Stato, furono le massime ch’egli introdusse, e che trasmise a’ successori suoi. Il paese era già foggiato a monarchia, e un principe nazionale era il ben arrivato dopo gli strazj degli stranieri, tanto più ch’egli non s’abbandonò alle vendette, laonde i popoli, dapprima propensi a Francia cui tanto somigliavano per ordini civili e politici, apprezzarono quello che li redimeva dal giogo forestiero, e presero a considerarsi italiani, per quanto divisi tra la patria oltremontana, la cismontana e la nuova, che fu Nizza. Un profondo motto uscì dalla bocca di lui: — Chi riceve l’ingiuria, spesso la perdona; chi la fece, non mai». Così preparava il regno a Carlo Emanuele (1580), cui si affisse il titolo di Grande per la smania di muoversi e muovere, l’ostinarsi agli intenti malgrado disgrazie e ingiurie, l’accorto valersi degli errori altrui e assodarsi delle altrui debolezze, non curando tanto la propria dignità e il buon nome, quanto il riuscire. Meschino di corpo, vasto d’intenti, unendo a molto coraggio una politica oculatissima, sapea quel che maneggiavasi in ogni gabinetto, mentre si diceva che il suo cuore era pieno d’abissi come il suolo del suo paese; e innanzi al Cordova governatore del Milanese comparve coll’espressiva divisa di una casacca, che da qualunque parte la voltasse, gli stava bene. Fondò chiese e spedali, non men che fortezze e gallerie; proteggeva lettere e scienze, scrisse egli stesso i _Paralleli_ tra i grandi antichi e moderni, e il _Grande Araldo_, compilazione di stemmi, o fece stendere l’_Iconocosmo_ o storia del mondo. Molto si valse di Giuseppe Cambiano granmastro d’artiglieria, che scrisse un pregevolissimo _Discorso historico_, specie di storia universale, estesissima ne’ fatti recenti di cui era stato parte. Alessandro Tassoni, da lui ben accolto, racconta che «desinava circondato da cinquanta o sessanta vescovi, cavalieri, matematici, medici o letterati, coi quali discorreva variamente secondo la professione di ciascheduno, e certo con prontezza e vivacità mirabile d’ingegno; perciocchè, o si trattasse di storia o di poesia, o di medicina o d’astronomia, o d’alchimia o di guerra, o di qualunque altra professione, di tutto discorreva molto sensatamente e con varie lingue». Ebbe dieci figli naturali, e quelli da donne libere riconobbe come signori del sangue. I marchesi di Saluzzo alle falde del Monviso eransi riconosciuti dipendenti dai conti di Savoja, ma spesso dovettero farsi vassalli de’ re di Francia; e tra questa e l’Austria variarono quando Carlo III fu spogliato. Il marchese Lodovico, stato vicerè di Napoli, morendo nel 1504 lasciava quattro figliuoli, di cui nessuno ebbe prole, per malìe (si disse) dei ministri di Francia, alla quale l’ultimo fe cessione forzata. Allora in Francia fervea la guerra tra Cattolici e Calvinisti; e il duca di Lesdiguières, generale d’Enrico re di Navarra, tenendo le migliori fortezze del Delfinato, minacciava il Saluzzese. Carlo Emanuele mal comportava di dovere da Carmagnola udire in Torino il tamburo francese; e con Filippo II, di cui avea sposato la figlia Caterina[34], s’accordò a danno della Francia, e parte corrompendo, parte sgomentando i governatori, occupò quel marchesato (1588), cogliendovi moltissimi cannoni e munizioni; e se dello sleale assalto in giorni così momentosi lagnavasi il re, egli protestava non aver voluto se non impedire che l’occupasse un ugonotto e un ribelle, qual era il Lesdiguières. Questo sollecita contro la Savoja Ginevrini e Bernesi; ma Carlo leva gente, chiede soccorsi e denari professandosi antemurale della cattolica religione, riceve soccorsi dal Milanese, e batte gli eretici. Poi quando Enrico III fu assassinato (1590), invase la Provenza, accolto trionfalmente dai Cattolici, ed agognava d’aver Marsiglia e farsene barriera; ma gli ruppe l’impresa il granduca di Toscana, occupando il castello d’If rimpetto a quel porto. Allora Carlo Emanuele a tacciar il granduca di mercadante, menatore d’intrighi, scribacchiatore, poltrone, ligio a Francia; e il granduca lui di ammazza gente, insaziabile, ambizioso, mancipio di Spagna. Intanto però Marsiglia fu assicurata a Francia, e la guerra tratta in Savoja: poi quando il re di Navarra divenuto Enrico IV (1598 2 maggio) e Filippo II a Vervins terminarono la guerra di quarant’anni, il Saluzzese non fu concesso a Carlo Emanuele che tanto l’ambiva, ma rimesso all’arbitramento del papa. Davanti al quale le due parti sfoggiavano ragioni: Carlo Emanuele che ostinavasi alla guerra, vedendo non venirsene mai a un fine, eccolo in persona a Parigi con nobile comitiva; per mezzo di favoriti e d’amanti istiga Enrico a conquistare il Milanese, sperandone qualche ritaglio, trama col maresciallo di Biron contro esso re, maneggia col Fuentes governatore del Milanese per aver patti migliori. Per ciò Enrico gli rinnovò guerra; preso il forte di Santa Caterina in Savoja, da cui il duca dominava Ginevra, lo regalò a questa Roma de’ Protestanti, lieta di demolirlo; la Savoja fu invasa, stretto Monmeliano, mentre gli Spagnuoli, in vista d’ajutar il duca, occuparono Carmagnola. Tanagliato fra amici e nemici, il duca dovette accettare la mediazione del papa; e nella pace di Lione (1601) cedendo il Bugey col paese di Gex, la Bresse e le rive del Rodano da Ginevra a Lione, si assicurò Saluzzo. Toglieva così a’ Francesi la chiave d’Italia, ponendo le Alpi fra questa e quelli; pure esso non rifiniva di lamentarsene, quasi avesse scapitato al cambio in estensione, mentre in Francia diceasi: — Il re ha fatto una pace da duca, il duca da re; il re trattò da mercante, il duca da principe». Respinta Francia, gl’Italiani si sentirono in balìa della Spagna, e del tristo cambio accagionavano Carlo Emanuele: eppure, come avviene a chi tiene armi fra i disarmati, in lui vedeasi il restauratore della nazionalità, la spada d’Italia, e l’esortavano a far da sè ed assicurare l’indipendenza. Egli, non misurando le ambizioni alle forze, neppur dopo la pace disarmò; ed or si volgeva contro il Milanese, or tornava contro la Francia; dalla Spagna impetrava pensioni per ciascuno de’ suoi figliuoli, che mandava a quella Corte; intanto proponeva parentele ad Enrico, che, quantunque ne sapesse gli avversi maneggi, volea giovarsi dell’ingegno, della forza e della posizione di esso; e nel suo famoso _Piano_, tutto diretto ad umiliare Casa d’Austria, meditava di fondere il Piemonte, il Monferrato, il Milanese col nome di regno di Lombardia, per mettere uno Stato forte a guardia delle Alpi; il Cremonese si cederebbe al duca di Mantova in concambio del Monferrato; a Venezia verrebbe data la Sicilia, sotto l’alto dominio del pontefice; il quale pure diverrebbe re di Napoli; Ferrara e Bologna, staccate da’ dominj papali, entrerebbero come città libere nella repubblica italiana, composta di Genova, Parma, Modena, Mantova, Massa, Toscana; e ne sarebbe capo immediato il papa, ricevendo solo l’omaggio d’un crocifisso del valore di diecimila scudi, ogni vent’anni; la Sardegna rimaneva alla corona di Spagna, a Francia la Savoja. Sogno come tant’altri, incorniciato di commissioni, di diete, di eserciti; in Italia religione unica la cattolica; intento comune la guerra colla Turchia[35]; e fu mandato in fumo dalla morte d’Elisabetta d’Inghilterra, poi da quella di esso Enrico, trafitto da un assassino (1610 14 maggio). Questo colpo parve dovesse abbattere Carlo Emanuele, nè lasciargli altro desiderio che di celarsi: ma alla sua ambizione potevano mancare alimenti? Come principe di Germania aveva intrigato per farsi eleggere imperatore alla morte di Mattia; alla morte di Enrico III aspirò al trono di Francia; ora cercò sposare la vedova di Enrico IV per divenire arbitro di quel regno, lusingato anche da predizioni astrologiche: ma essa il ricusò; la Francia che, stimando il suo valore, disistimava la sua fede, subodorò che trattava colla Spagna; Venezia, a cui egli ricorse abbandonato d’ogni altro[36], non gli badò; il papa l’esortava a metter giù quelle esuberanze. E il duca, per quanto intollerante d’ogni sommessione, dovette mandare il proprio figlio a presentare scuse alla Spagna, la quale, istigata dal Fuentes, cercò persino sbalzarlo per sostituirgli il figliuolo Vittorio Amedeo, nato in Ispagna: si disse anche tentasse avvelenarlo per mezzo del duca di Toscana, che pentitosene mandò il contravveleno. Asserzioni solite de’ partiti. Così cessò il pericolo d’una guerra che gl’italiani aveano creduta imminente, e Carlo Emanuele fremendo mirava dove volgere l’irrequieta sua ambizione. I Medici, i cui padri aveano bottega quando i principi di Savoja già portavano corona, ricordavano di esser principi indipendenti quando Emanuele Filiberto combatteva o governava la Fiandra a servigio di Spagna; quindi emulazione continua fra le due Case, l’una poderosa di armi, l’altra d’una civiltà raffinata. I Medici, non potendo ottener il titolo di re d’Etruria, cercarono quello di granduchi, e come tali pretesero il passo sopra i duchi di Savoja. Questi allora a sollecitare qualche titolo regio, e Carlo procurò far valere sull’isola di Cipro le ragioni tramandategli da’ Lusignani: trentacinquemila Cristiani di colà offrivansegli pronti a insorgere contro i Turchi se appena vi comparissero sue navi; ma i Turchi avvedutisene, molti uccisero e imprigionarono; pure Carlo si titolò re di Cipro, per quanto glielo contrastassero i Veneziani. Non sapeva egli dimenticarsi che i suoi aveano perduta Ginevra, onde ne tentò un’audacissima scalata (1602 12 xbre); già ducento uomini v’erano penetrati, quando furono scoperti ed uccisi. Impresa narrata a disteso dagli storici, cantata dai poeti[37], memorata tuttora dalle canzoni popolari e da annuo digiuno, come quella per cui Ginevra sfuggì al pericolo d’esser cattolica e serva. Fu l’ultimo tentativo di conquiste transalpine; e i duchi, risoluti d’ingrandire in Italia, vedevano l’importanza d’aver un piede sul mare, onde Carlo Emanuele adocchiava Genova. Questa repubblica in dechino (t. IX, p. 464) non sapeva ancora persuadersi che il meglio d’un paese non viene da ripetute innovazioni, sibbene dall’assodare le proprie istituzioni. La libertà che aveale data Andrea Doria era tutta d’aristocrati; essi soli reggeano lo Stato; d’essi i dodici senatori, che eleggevano il doge, biennale come loro; d’essi il collegio camerale di otto senatori pel maneggio delle pubbliche entrate; d’essi i ducento del minor consiglio; al gran consiglio entravano tutti i patrizj, compiti i ventidue anni. Come chi possiede ricchezze e non forza di difenderle, eccitava l’avidità, e intanto s’indeboliva colle irremediabili discordie tra i diversi ordini e tra le famiglie. Dopo la congiura di Gianluigi Fiesco (1547), la legge del Garibetto aveva posto limiti alla facoltà d’aggregare plebei agli Alberghi, ma non sopito i rancori fra i nobili antichi e i popolani. I primi, detti del _Portico di san Luca_, erano legati fra sè pel prestito fatto a Spagna, alla quale perciò aderivano; mentre i nuovi ammessi, o del _Portico di san Pietro_, preferivano Francia, non voleano restrizione all’aggregar famiglie nuove, e davano mano ai rivoltosi di Corsica. Genova in generale era ben disposta a Spagna, sì per memoria di Carlo V che l’avea resa in libertà, e del Doria e dello Spinola che capitanarono le armi di quella; sì perchè quei re prendeano grossi prestiti da’ suoi negozianti, pagandoli colle gabelle del Milanese e del Napoletano, e ne adopravano le navi a trasportar truppe in Italia: spagnuolo si parlava nelle case; spagnuolo predicavasi al popolo. Ma Filippo II mentre blandiva i Genovesi come opportuni ad assodare la sua dominazione sull’Italia, forse meditava l’acquisto della Liguria; confortatone pure dal granduca di Toscana, che ne sperava una parte. Don Giovanni, il famoso bastardo d’Austria, comandando la flotta spagnuola nel Mediterraneo, si lusingò impadronirsi della città (1571) e farsene un dominio proprio; ma i nobili nuovi, apponendone la colpa ai vecchi, arruffarono il popolo, che lo respinse di città. Gregorio XIII coll’imperatore intromessosi della pace, fece riformar lo statuto e ripatriare gli sbanditi; e aboliti i nomi dei Portici di San Pietro e San Luca, nobili furon detti tutti coloro che partecipavano al governo, i quali ripigliarono i cognomi particolari, invece dei comuni degli Alberghi; e si posero un collegio di dodici governatori e uno di otto procuratori, un maggior consiglio di quattrocento e un minore di cento, scelti in quello. Bartolomeo Coronato, che ne’ passati tumulti aveva affettato la tirannia, e che allora vi aspirò colle congiure, ne perdè la testa. Anche Giambattista Vassallo di Portofino, amicatosi Maria de’ Medici regina di Francia, col cognato Gregorio Leverotto medico tornò per dar Genova ai Francesi: la trama fu sventata, ma Genova prese grandi provvedimenti, attesochè v’era complicata la Francia. Più tardi Gianpaolo Balbo, giovane de’ nobili ascritti, ricco, ambizioso, pensò profittare de’ mali umori contro i nobili vecchi. In quel tempo Genova trattava con Spagna la compra di Pontremoli, terra principale della Lunigiana con una giurisdizione di settanta miglia intorno e settantasette villaggi, opportunissimo adito al Milanese, alla Toscana, al Genovesato. Se ne chiedeano ottantamila ducati, e Genova per raccorli pensava vendere la nobiltà a famiglie nuove. Il Balbo, saputone, cominciò a sollecitar l’invidia popolare; il granduca di Toscana attraversò il negozio; i Pontremolesi stessi allegarono che, come feudo imperiale, non poteano esser venduti senza assenso dell’imperatore. Balbo considerò il fatto come suo trionfo, e macchinò d’occupare Genova, e farsi signor della Liguria, e della Corsica sotto la protezione di Francia; e la pratica andò finchè, denunziato da un complice, a fatica potè fuggire. Sulla riviera, oltre un cinquanta terre rimaste feudi imperiali immediati e detti le Langhe, casa Del Carretto avea conservato il Finale, feudo anch’esso dell’Impero; ma venendogliene continui contrasti con Genova, lo vendette a Spagna. Questa da gran pezzo v’avea gola come opportunissimo per trarne il sale e farvi approdar le sue truppe, che pei monti verrebbero nell’Alessandrino senza bisogno di chiedere il passaggio a Genova, e incorporò il Finale al ducato di Milano (1590). Se ne dolse Genova, che infine lo ricomprò dall’imperatore per sei milioni di lire genovine. Ma col crescere i piccoli suoi feudi ella preparavasi inciampi. Scipione Del Carretto avea venduto al duca di Savoja il marchesato di Zaccarello, feudo di pochissima rendita in paese montuoso e sterile, ma che dava i passi dall’Appennino nella pianura d’Albenga, e perciò a turbare la dominazione ligure. Però l’imperatore abrogò quella vendita, e come d’omicida il confiscò e mise all’asta, e Genova comprollo per censessantamila talleri. Carlo Emanuele indispettito, se ne incalorì alle ambizioni, e chiese ajuti alla Francia (1624), sempre disposta ai nemici dell’Austria; e con quel connestabile Lesdiguières, di cui erasi mostrato nimicissimo, fece trama di conquistare e spartire il Milanese, il Monferrato, la Corsica, oltre il Genovesato, del quale la città e la riviera di Levante resterebbero a Francia come valico al Milanese e alla Toscana, a Savoja quella di Ponente. Gli armamenti tradiscono la segreta conclusione, e Italia esclama contro quest’ambizioso che la trabalza in nuove guerre, e le trae addosso i Protestanti. Genova nell’istante pericolo ricorre al governator di Milano, si munisce alla meglio; e sì formidabile pareva l’attacco, che si pensò abbandonare la Riviera, restringendosi a difendere la capitale: ma altri persuasero a sostenere Savona e Gavi, e i ricchi genovesi non le mancarono nel bisogno, giacchè il principe Doria offrì quattrocento archibugieri, ducento Gian Francesco Serra, cento Pier Maria Gentile, e così altri, armati e mantenuti. Irruppero di fatto Savojardi e Francesi, ma non osavano affrontare una città, sempre risoluta nel tutelare l’indipendenza: intanto giunsero oro e galee di Spagna e di Napoli, soldati di Lombardia, il cui governatore obbligò Carlo Emanuele a sloggiare, in Acqui gli tolse i viveri, le munizioni, e fin gli argenti e le livree predisposti pel trionfo. Francia, che gli avea promesso soldati e navi, senza darne parte a lui o a Venezia o al papa, conchiuse con Spagna la pace di Monson[38] (1626). Il duca non potè che sbuffare, e cercar di nuocere alla Francia raccomodandosi colla Spagna; e mentre l’abate Alessandro Scaglia, astuto suo ministro, intrigava contro del ministro Richelieu, egli ridestava in Genova le fazioni de’ nobili antichi e de’ nuovi. Queste ne’ circoli facevano opposizione a ogni atto del consiglio, contrasto ad ogni sentenza de’ tribunali; «sicchè non rare volte il senato (dice il Della Torre) nel deliberare ebbe maggior riguardo a quello che ne avrebbe sentito e detto la piazza dei Banchi, che a quello che buona ragion di governo ne richiedesse; e timoroso il senatore di non spegnere l’aura favorevole che lo condusse a quella dignità, perdeva la libertà di dire, e tardava la risoluzione del deliberare». Uno de’ più schiamazzanti in que’ circoli era Giulio Cesare Vachero, superba natura, arricchito coi traffici e coi dadi, contaminato di sangue e di stupri, e insofferente di star sottoposto a quelli cui credea superare per meriti. Com’è stile de’ pari suoi, gridando patria e libertà, batteva particolarmente il senato, perchè coll’eleggere celibatarj o vecchi o poveri eludesse quel provvedimento del 1575, di ammettere ogn’anno fra i nobili dieci plebei. Carlo Emanuele lo trovò opportuno a guastar Genova, e non rifuggendo dal tramare con ribaldaglia, lo istigò per mezzo d’un Gianantonio Ansaldi, arnese della stessa risma, caro ai giovani perchè urlava contro la nobiltà. Essi dunque, istrutti sul Machiavelli, fidando nel duca che prometteva soldati e mandava pistole, tramarono d’assalire coi Polceveraschi il senato, trucidare i cittadini del libro d’oro, restituire al popolo la libertà, i magistrati, gli onori, erger doge il Vachero, e riformare la costituzione. Ma scoperti (1628), il Vachero fu preso, e feroce sin all’estremo finì sulle forche; il duca, che avea gittato la maschera, e fin minacciato rappresaglia, dovette restarsi colla voglia e colla vergogna. Genova poi, per mediazione del re di Spagna, pagò al duca censessantamila scudi d’oro, e ritenne l’ambito Zaccarello, assicurando l’impunità ai congiurati ch’erano rifuggiti a Torino: e ogni anno al San Bernardo festeggiava la sua liberazione dall’avido vicino[39]. La lunga guerra avea mostrato a Genova la necessità di munirsi; laonde s’aggiunse un quarto ricinto di mura, che per otto miglia dalla Lanterna alla valle del Bisagno, serpeggia su per le creste dei monti; immensa difficoltà, ma il nome del duca di Savoja bastava ad eccitare coll’ira la perseveranza: diecimila operaj vi davan opera, sospesa ogni altra costruzione (1631), e spendendovi dieci milioni, s’ebbe una delle opere più vantate in tutta Europa. Ne fu architetto frà Vincenzo Maculano piacentino, già inquisitore poi cardinale e quasi papa; e che fu pure a munir Malta. Genova procurò domare i corsari, e come portava le reliquie del Battista sul lido onde frenare le tempeste, così sudava a tenersi in pace colle potenze che soffiavano nelle interne fazioni, e a conservarsi neutra fra le pretensioni e le guerre di Francia, Spagna, Impero. Quando i titoli valeano tanto, Genova pensò acclamare la propria indipendenza coll’attribuirsi titolo regio a cagione della Corsica, e investendone la Madonna. Nella cerimonia il doge consegnò lo scettro e la corona all’arcivescovo, che l’accettava per la Madonna; se ne rogò istromento; e levata alla moneta l’antica leggenda di re Corrado II, vi si pose Maria col motto Et rege eos. Il doge dovea vestir porpora, manto reale, corona; a’ senatori e governatori di Corsica, agli ambasciadori e generali di galee il titolo d’eccellenza; il palazzo della Signoria s’intitolasse reale. De’ suoi cittadini non pigliava tanta gelosia come Venezia; lasciava acquistassero ricchezze e Stati da principi forestieri, titoli, comandi di mare e di terra, senza per ciò escluderli dal supremo Consiglio. Però nel 1607 fu ordinata una legge simile all’ostracismo di Atene e al discolato di Lucca; cioè che a certi tempi s’accogliesse il consiglio minore, e ciascun membro di questo notasse i nomi di chi credeva pericoloso alla patria; e se alcuno si trovasse in quattro schede, era relegato per due anni. Iniquità che impediva gli atti vigorosi, non le vere malvagità degli ambiziosi. Il banco di San Giorgio continuava ad essere un modello d’ordine e di buona economia, in mezzo allo scompiglio cittadino. Nel 1627 il re di Spagna dava da otto a dieci milioni a’ privati, assicurati sopra il galeone che arriverebbe dall’India. Or questo non arrivò, ond’egli diede solo cedole, che negoziate perdevano assai: indi pose un nuovo ritardo ai pagamenti, poi li fece in moneta erosa che scapitava. Ne restò scossa la fiducia, e molti ruppero il banco; eppure il conte duca domandava nuovi prestiti, a titolo dell’antica benemerenza. Forse prima d’ogni altra nazione, Genova mostrò conoscere la vera natura della moneta, quando stabilì che i debiti si pagassero in moneta corrente, però coll’aumento da calcolarsi in ragione di quanto era cresciuto il valore dello scudo effettivo dal giorno in cui il debito fu contratto. Temperò l’inquisizione religiosa, ma rigorosissima giustizia esercitava. Nella capitale e in ogni paese del distretto stava nella chiesa principale una cassetta, ove ciascuno poteva gettare un’accusa, col solo obbligo di annunziare i testimonj del fatto. Ogni settimana la aprivano i magnifici procuratori, e procedeano contro i denunziati. Fierissime pene erano stabilite contro i bestemmiatori, fin alla galera. Pena la testa a chi non denunziasse i delitti di maestà, ne avesse anche il più tenue indizio. De’ rei abbattevansi le case, e vi si ergeva una colonna infamante. Morte per l’adulterio, pel parto suppositizio, per la bigamia, per chi manda cartello di sfida; morte pel veneficio; per le pozioni amatorie la frusta, il marchio in fronte, ovvero il taglio dell’orecchio o del naso e il bando perpetuo; per le stregherie, morte, e i consapevoli puniti ad arbitrio del magistrato. CAPITOLO CLI. Governo spagnuolo in Lombardia e nelle Due Sicilie. I paesi sottomessi alla Spagna, destituiti di attività nazionale, non possono narrarci che indecorosi patimenti sotto un governo militare, intento a mietere non a seminare, tenerli in dovere con guarnigioni e fortezze, obbligarli a dar uomini e denari, non a misura del ben loro, ma pel vantaggio e la forza generale della monarchia. Stava inconcusso che il re dovesse governare giusto e paterno, ma con nessun altro limite se non i tradizionali privilegi d’alcuni ordini e d’alcuni corpi. Filippo II avea creato presso di sè un supremo consiglio d’Italia (1562), nel quale, co’ reggenti spagnuoli, sedevano due ministri napoletani, uno milanese, uno siciliano; ma in tanta lontananza conoscevano e potevano pochissimo, mentre l’autorità sovrana era trasmessa ai governatori e ai vicerè, che dirigeano insieme l’amministrazione e la guerra, illimitati a un bel circa come i bascià odierni, potendo levar soldati, disporre degl’impieghi, pubblicare prammatiche, ingerirsi nella giustizia civile e criminale, far grazia, corrispondere direttamente e per ambasciadori colle potenze estere. Avendo la mira non al bene dello Stato, ma a segnalarsi, occupavansi spesso in mosse d’armi, più spesso in contese di giurisdizione cogli Stati vicini, colle autorità del paese, cogli arcivescovi, i quali dopo il concilio di Trento aveano ravvivate le ecclesiastiche pretensioni[40]; teneano politica talvolta differente da quella della Corte; ed avendo il re cassatane la decisione, un governatore non vi diè retta esclamando, — Il re comanda a Madrid, io a Milano». Quasi sempre spagnuoli, e per lo più soldati, arrivavano in paese di costumanze e di pratiche sconosciute; e vi trovavano tal complicazione di leggi, di gride, di privilegi, che lunghi anni e seria volontà si sarebbero voluti a soltanto informarsene; eppure ne’ cencinquanta anni della dominazione spagnuola in Lombardia si mutarono trentasei governatori. Arrivando, mettevano fuori una grida generale che confermava quelle degli antecessori o le modificava, alla rinfusa comprendendovi provvedimenti religiosi, economici, giudiziarj, sanitarj, d’annona e di moneta; di tempo in tempo ne pubblicavano poi altre sopra oggetti particolarissimi, sprovveduti d’ogni vista comprensiva. Duole il riflettere che erano stese da nostri; sicchè quella tradizione di abusi era imputabile ancor meno allo straniero che ai paesani. Il segretario di Stato Arosteghi diceva: — In tempo di guerra io vorrei essere piuttosto governator di Milano che re di Spagna, perchè questo governa colle consulte e i consigli, mentre la condotta della guerra dipende dall’assoluto arbitrio del governatore»[41]. L’interesse portava dunque a perpetuarle; e tanto meglio vi riuscivano, in quanto soltanto per esse la Spagna poteva soddisfare al suo farnetico di mostrarsi la prima nazione del mondo. Il Milanese, «corpo grosso mezzo scorticato, carco di vespe»[42], comprendeva l’antico ducato, il principato di Pavia, i contadi di Cremona, Alessandria, Tortona, Como, Novara, Vigevano, Lodi, Bobbio, con un milione seicentomila abitanti, toccando agli Svizzeri, ai Genovesi, ai Veneziani. Don Ferrante Gonzaga, italiano de’ più spagnolizzati e dispotici, fu detto nuovo fondatore di Milano perchè, postovi governatore da Carlo V (1547), ne migliorò le vie, e circondò anche i sobborghi d’una mura di otto miglia, quasi potesse difendersi una sì gran città in piano, e tanto lautamente guadagnaronvi gl’intraprenditori, che in riconoscenza fabbricarono a lui una suntuosa villa. Per dire alcun che d’altri governatori, e serbandoci a parlare più a lungo del Fuentes, il Carassena mostrò quanto prendesse a cuore il pubblico bene col vietare che le donne pubbliche andassero in carrozza: il Fuensaldagne col proibire di ballar dopo mezzanotte, nè che gli uomini si mascherassero da donna o viceversa: meglio il conte di Ligne interdisse il lotto che allora andavasi propagando, «poichè oltre l’incentivo che porge a molti poveri e vogliosi di migliorar fortuna, con la speranza del guadagno, di consumar quanto tengono per far denari d’arrischiare alla sorte d’esso giuoco, è cagione che diversi ciecamente cadino in sortilegi ed osservazioni superstiziose de’ sogni, che illaqueano le coscienze con grave e scandalosa offesa di Dio»[43]. Il duca d’Ossuna (1670), diverso e non men funesto di quel che vedremo figurare a Napoli, entrò con pompa memorabile anche per quel secolo sfarzoso. Aprivano la processione compagnie di cavalieri, la corazza sul petto, la celata al capo, la pistola in mano: poi cento ronzini, coperti di panno scarlatto e trine d’oro, portavano gli arredi della famiglia, e ciascuno, per briglie di seta e d’oro, veniva guidato da un palafreniere in divisa di scarlatto e d’oro, e pennacchio al cappello: egualmente bardati erano i destrieri del duca, cui seguivano i carabinieri in bell’arnese, ed in più bello i gentiluomini milanesi, fiancheggiati da molti palafrenieri. Comparivano poi tre carrozze del duca, col carro e le ruote intagliati squisitamente, il legno tutto dorato, e grossi chiodi d’oro nella prima, dov’erano la moglie e le figlie, d’argento nelle altre: dentro non si vedeva che oro. Il duca cavalcava tra la prima carrozza ed una fila di guardie svizzere, seguito da lancieri ed altri soldati. Per bastare a tal lusso e a quello che sfoggiò nella Corte, rubava, vendeva le cariche, ed allorchè partì, lasciò all’erario grossi debiti, mentr’egli per regali ammassò ben cinquecentomila oncie d’argento. Il conte Trotti per essere eletto generale gli diede ottantamila scudi di Genova. Avendo un servo di esso duca percosso un cagnuolo della principessa Trivulzio, i costei servi uccisero l’offensore: il duca mandò il capitano di giustizia ad arrestare i delinquenti; ma la padrona, che era spagnuola, spedisce a Madrid a querelarsi della violata immunità di sua casa; viene rescritto che i prigionieri vi sieno ricondotti, e il capitano vada a chiedere scusa d’aver osato in una casa nobile arrestare omicidi. Delle frequenti pasquinate che gli si lanciavano non potendo il governatore altrimenti scoprir l’autore, ricorse ad un negromante; che divisati i suoi pentacoli, chiamò colpevole di ciò un tal frate; un frate per buona sorte; talchè, non potendo essere punito dal fôro secolare, fu soltanto esigliato. Dibattendosi la clamorosa controversia teologica sull’immacolata concezione di Maria, il duca d’Ossuna invita i decurioni comaschi a celebrarla con solenne messa, dove giurassero credere a quel mistero (1672), ed essere pronti a sostenerlo d’ogni lor forza. Che che dovesse parere di questo modo di risolvere dispute inestricabili, vennero essi fra gran concorso nel loro duomo; ma ecco i canonici mettono in campo i loro privilegi, e ricusano dar i cuscini da inginocchiarsi ai devoti padri della patria, nè il celebrante vuole scendere dal _Sancta Sanctorum_ per ricevere il giuramento, onde una lite nuova nasce dal voler sopire la vecchia; l’Ossuna sgrida gli uni, sgrida gli altri; chiama a Milano i più stretti parenti de’ canonici e li tiene prigioni: argomento risolutivo de’ più consueti. Avendo egli tenuto una volta circolo e ragunata la principale nobiltà, parve strano e scandoloso; talmente era consueto il restar isolati. Ma il governatore Vaudemont, testa francese, introdusse di raccorne spesso a Corte; e i giardini della Bellingera, poco fuori di Porta Renza, videro le scene di quelli d’Armida. Allora le donne cominciarono ad essere riammesse ai circoli: ma poichè si era voluto ripararne i costumi colla guardia gelosa, anzichè coll’educazione e colla virtù, ben presto dalla selvatichezza si fece tragitto al libertinaggio; alla gelosia che rendea feroci i nobili, fu sostituito il cicisbeismo che li rese ridicoli. Luigi XII, conquistato il Milanese, v’aveva istituito un senato, a similitudine del parlamento di Parigi, composto d’un presidente, quattordici giureconsulti, sette segretarj, tolti uno da ciascuna provincia. Tribunale supremo e custode della legge, avea diritto d’interinare le costituzioni e le grazie del principe, esaminando se nulla contenessero di repugnante alla giustizia e alle consuetudini; e fin tre volte potea respingerle, dopo di che sorpassavasi all’opposizione, e vi si dava vigore. Era dunque una rappresentanza nazionale, ma la componeano legisti che, avendo propugnato la supremazia assoluta della Corona onde abbattere il feudalismo, or non sapeano che obbedire; mascheravano il despotismo sotto la vanità delle loro forme, subordinavano la libertà alle proprie pretensioni; e invece d’impacciarsi ad impugnarne il diritto, delle loro rimostranze la corona non tenea conto. Gli antichi statuti della repubblica e dei duchi erano stati raccolti da Lodovico Sforza, compiuti da Carlo V che li pubblicò col nome di _Nuove costituzioni_, modificati al novello ordine di cose; ma il senato poteva togliere e dare qualunque disposizione anche contro di quelli: esorbitante autorità, che colla supremazia sulla giustizia dava al presidente del senato un’importanza smisurata e una via ad ingenti guadagni. Restavano dunque incerti i principj del governo quanto i diritti e gli interessi dei privati; e tutto procedea per abusi, che spesso correggevansi un l’altro. Milano era amministrata da un consiglio de’ primarj nobili, indipendente dal re, col quale trattava per via d’ambasciadori; il vicario di provvisione esercitava anche qualche parte di giurisdizione, di polizia, e fin di legislazione, la qual facoltà era molto sbricciolata. Formavansi così due governi paralleli; e il comunale sarebbe bastato a reprimere gli arbitrj del regio, se, dopo ristretta tutta la vita comune negli affari municipali, i suoi membri vi avessero spiegato coraggio e cercata importanza, anzichè ambire distinzioni, cariche, e quel lustro che vien dalla vicinanza al trono. Pur le tradizioni d’autorità, di bontà e beneficenza signorile, di docilità e riverenza popolare avrebbero potuto conservare in fiore il paese, se non lo avesse disanguato il fisco, con gravezze sempre crescenti, in vista della cassa militare non del ben pubblico, e che, poste con insensatezza pari alla cupidità, essiccavano le fonti della prosperità pubblica, punivano l’industria, scoraggiavano l’agricoltura, e si può dire fossero causa di tutti gli errori, e le miserie d’allora. Secondo le costituzioni di Carlo V, per nessun titolo doveano alienarsi regalie ed effetti camerali; e al contrario, già sotto di lui le varie entrate si appaltavano o vendevano, poi si mettea mano sui frutti assegnatine ai compratori; indi creavasene a bella posta di nuove, per venderle; vendevasi l’esazione dei donativi futuri, giacchè i donativi erano la forma consueta delle imposizioni straordinarie. Ogni minimo bracciante sopportava la taglia fin di venti scudi; su ogni consumo, su ogni produzione pesavano balzelli esorbitanti. Dal 1620 al 30 s’inventarono dieci dazj nuovi; e «non v’ha casa nè cosa che sia libera da qualche carico; non v’è cosa sì minima e vile, appartenente al vitto, vestito ed abitazione, che sia libera da gravezze ed imposte.»[44]; dal 1610 al 50 lo Stato pagò più di ducensessanta milioni di scudi d’oro, cioè da milleducento milioni di franchi; infine le taglie sorpassavano il ricavo de’ beni, e Milano, che incassava per un milione e mezzo di lire, dovea pagarne due milioni e centomila, sicchè ridusse gl’interessi al due per cento e pagava in cedole. I Comuni che prima erano liberi, cioè regj, venivano per prezzo infeudati a qualche signore, poi s’inducevano a comprare il riscatto, ma ben presto infeudavansi di nuovo. Si riteneano le paghe delle milizie e de’ magistrati, che erano costretti rifarsi sul vulgo o sui postulanti; obbligavansi i negozianti ad imprestiti; i decurioni doveano rispondere per debiti de’ Comuni; si gravavano le persone e i beni de’ forestieri, si espilavano le banche pubbliche, fatte con depositi privati[45]. Alfine i debiti si accumularono a segno, che nel 1671 si dichiarò il pubblico fallimento. Smunto il capitale riproduttivo, le manifatture si smisero, la campagna restò incolta, i Comuni affogati nei debiti, ogni momento lamentanze al lontano monarca, che non le ascoltava. I molti ozianti e i privilegiati doveano vivere sulle fatiche de’ pochi operosi; quindi parziali scarsezze di grani, che la difficoltà di comunicazioni trasformava in carestie: i ricchi non aveano di che dotar le figlie e adempiere ai legati pii; atterravano le case per non doverne le taglie, o le lasciavano vendere all’asta dai creditori. Non crediate che il denaro passasse in Ispagna: che bisogno ne aveva essa, cui l’America tributava ogn’anno diciotto milioni d’oro? Bensì sperdeasi nell’ingordigia degli appaltatori delle pubbliche gravezze, i quali con inesorabilità smungeano il povero, e accumulavano ingenti fortune collo spropriare i debitori del fisco; governatori e magistrati non voleano aver gettata indarno la bella occasione d’arricchirsi onde si diceva che i ministri regj in Sicilia rosicchiavano, a Napoli mangiavano, a Milano divoravano; inoltre occorrevano ingenti somme ad alimentar le guerre in Italia, compiacenza de’ governatori e grandigia della Spagna. Quell’arbitrio legale che storna la ragione e ammusola il senso comune davanti all’interesse del Governo o d’alcuni privati, volendo di tutto impacciarsi, col titolo di protezione estinse quella libertà che è vita del commercio; aggravava le tasse sulle materie prime, proibiva l’asportazione non solo del grano, ma fin della seta e del panno; or vietava le pecore, perchè non incarisse il fieno con danno del servizio di sua maestà; or di mercatare coi Francesi perchè cattivi cristiani; infinite prammatiche legavano ciascun’arte in maestranze, ciascuna maestranza a mille minute prescrizioni ed ordini e divieti; il tessitore non unisse il cotone colla lana; il mercante di panno non tenesse anche stoffe di filo; e poi bollare, registrare, sindacare; e tutto con comminatoria di sferza, corda, prigione, delle pene insomma che i ladri cansavano. Nel 1588 si proibì di portare le sete fuor di Stato, sperando si convertirebbero in stoffe nel paese; e invece ne restò scoraggiata la coltura. Un grave dazio sull’indaco mandò in rovina i tintori. Una grida del 1655, che pute dell’odierno socialismo, obbligava i negozianti a dar lavoro agli operaj, pena tre tratti di corda e ducento scudi d’oro. In ragione dell’importanza e delle paure popolari, moltiplicavansi i provvedimenti intorno alle granaglie e agli altri viveri. Invece di moltiplicare i venditori e scemar le distanze, se ne voleano pochi e collocati in certi luoghi: i mugnaj non ardiscano di scaricare i muli nelle strade, nè sedere sui sacchi; facciano bollare ciascun mulo; non ritengano in casa crivello o buratto: gli osti non comprino vino se non quindici miglia lungi da Milano; nè se ne porti fuor di Stato senza consenso del governatore; nè si venda sui canti delle vie, ma solo in piazza del Duomo e in Broletto; e i facchini e _brentadori_ non osino, durante i contratti, «nè accennare, nè far gesti, nè ricever denaro per onoranza o malosso, nè avvicinarsi alle bonze per dodici braccia». Non si possa tener pesci nè polli sul ghiaccio, perchè, «sebben paja che si conservino, ad ogni modo perdono della bontà loro». Obbligati i proprietarj a notificare il ricolto (stando a quelle notificazioni, non sarebbesi mai mietuto tanto da vivere sei mesi): proibito il farne prezzo sinchè non fosse segato e battuto: ci andava la vita a portarne fuor di Stato: empire ogn’anno con puerile previdenza i granaj a spese pubbliche: il frumento, comparso una volta sul mercato, non potesse più partirne se non venduto, il che obbligava a finte vendite: i fornaj non negoziassero di grano; andassero almeno dodici miglia di là da Milano a provvederne, nè più di quindici moggia per volta: i conduttori delle biade non andassero più di sei insieme: mille scudi di pena al fornajo che vendesse pane ad un possidente: — regolamenti tutti che, crescendo le angherie intisichivano il traffico. Ai quali se aggiungete gli abusi del vendere a grosso mercato la licenza di cuocer pane e quella di farlo calante un’oncia dal giusto peso; del volere i governatori o i comandanti di certe piazze esser soli a commerciar di frumenti, vi farà maraviglia che le carestie non fossero perpetue. La moltiplicità e improvvidezza rendeva tali prammatiche inosservate, poichè l’uomo vessato ricorre a sotterfugi, a finzioni dove la lealtà non vale, a guadagni illeciti ove gli onesti sono turbati; e come sempre, gl’insensati ordini generavano l’immoralità e il delitto. Che più? lo comandavano; e per reprimere il contrabbando, che è l’inevitabile correzione alle assurde leggi di finanza, il governatore prometteva di poter liberare un bandito per qualsivoglia causa, ancora capitale, a chi prendesse e consegnasse un contrabbandiere o lo ammazzasse in flagrante, «cioè trovandolo a condurre grani fuori dello Stato, mentre non sia meno di stara quattro». Se non che la legge stessa ci assicura pomposamente, che non erano osservati questi ordini; che «nè pene nè provvisioni servono a frenare lo sfroso; che i commissarj se l’intendono coi contrabbandieri». Conseguenza fu il deperire la popolazione, le manifatture, il commercio d’economia, l’agricoltura per mancanza di scorte e di capitali. La sola piazza di Milano nel 1580 facea contratti per trenta milioni; la filatura dell’oro e dell’argento vi dava un utile di ottocentomila lire; di tre milioni le stoffe di seta, di ottantamila l’argenteria. Ma dal 1616 al 24 in Milano mancarono ventiquattromila operaj; le sessanta fabbriche di panno furon ridotte a quindici. Mentre nel 1611 a Cremona trecencinquanta mercanti pagarono di tassa lire duemila quattrocencinquantuna, nel 48 erano ridotti a quarantaquattro, non in grado di darne seicentosessantuna; e la sua popolazione, di quarantaseimila teste ch’erano nel 1584, nel 1669 giungeva solo a tredicimila: le ventimila di Casalmaggiore a seimila e cento: trentamila pertiche di terreno lasciato alle inondazioni del Po; forse più a quelle dell’Oglio, del Serio, dell’Adda. E tutte le città potrebbero offrirci quadro somiglievole; sicchè nel 1668 il senato rimostrava al trono come fosse «interrotta la coltura de’ campi; gli abitanti, senza speme di meglio, profughi agli stranieri; la mercatura snervata dalle ingenti gabelle; Pavia, Alessandria, Tortona, Vigevano fatte un tristissimo deserto, vaste ruine d’edifizj; e il pane, fin il pane mancare ai contadini». V’accorgete che quel governo lasciava almeno la libertà del lamentarsi, e di fatto si stamparono moltissimi e consulti e ragguagli e grossi volumi a rivelar piaghe, alle quali non si pensava poi a rimediare o non si sapeva come. Quando, il 30 marzo 1631, Filippo IV chiese come tornar in fiore lo Stato, i nostri risposero ch’era d’uopo: 1º dar dall’erario le paghe ai soldati; 2º ridurre l’interesse dei debiti pubblici; 3º togliere ai creditori de’ pubblici l’azion solidale per la quale potevano sequestrare i beni d’un qualunque individuo della comunità debitrice; 4º far concorrere ai pesi gli ecclesiastici; 5º adequare i carichi sproporzionati. Anche questi erano provvedimenti, e gli Spagnuoli s’accontentarono di sentirli: ma voi vedete che accennavano ai soli danni immediati: delle buone leggi, del togliere i vincoli e gli arbitrj, dell’assicurare le proprietà, del render pubbliche le tariffe, neppur una parola. La legge mancava de’ suoi primarj elementi, uniformità e sicurezza d’applicazione, essendone eccettuati ora i militari, ora i preti, ora i nobili, ora i membri d’alcune corporazioni, ora gl’impiegati di Corte; ad alcuni pesi rimanevano sottoposti i contadini, non i cittadini, ad alcuni il forestiero non il naturale, ad alcuni l’abitatore soltanto del tal paese; v’avea luoghi dove l’ammogliato pagava diverso dal nubile o dal vedovo, il massajo dal capocasa e dai famigli; l’imposta si misurava ove dal sale, ove dai cavalli d’alloggio; talvolta i vivi doveano contribuire pei morti, i presenti pei fuggiti. Prestabilito che siano allo Stato più utili gli abitanti delle città che non i campagnuoli moltissimi favori serbavansi a quelli, metà del grano raccolto dovea portarsi in città, e quello presentatovi una volta sul mercato non si potea più ritirare. I gran signori pretendevano immune la propria casa e il contorno di essa, e fin i luoghi e le botteghe dove esponessero il proprio stemma; lo pretendevano tanto più gli ecclesiastici; e non solo le persone e le case loro e le chiese coi sagrati, ma volean salvo dalla giustizia secolare e dalla finanza fin chi andasse a braccio con loro; anzi Federico Borromeo avea proposto di sottomettere al fôro ecclesiastico tutti i membri delle confraternite, il che avrebbe sottratta al braccio secolare l’intera popolazione. Al tempo dell’arcivescovo Litta, un sicario presso San Giorgio in Palazzo uccise il cavaliero Uberto dell’Otta; e preso, non potè dire da chi fosse incaricato de! colpo, perchè il commitente che l’avea menato dal Bergamasco, eragli ignoto ed era fuggito. Si sospettò d’un Landriani, allora in lite col dell’Otta, il quale inseguito fuggì in chiesa di San Nazzaro: ma per ordine del governatore fu strappato di là, anzi dall’altare. Allora il Litta a lamentare la violata immunità; non ascoltato, minacciò interdetti, e fece intimare un primo monitorio, poi un secondo senza effetto; il terzo fu stracciato dagli alabardieri, e ferito il prete che lo portava. S’invelenisce dunque la cosa: il governatore Ponce de Leon minaccia far appiccare il Landriani alla porta dell’arcivescovo s’egli fulmina la scomunica: infine il presidente Arese si mette di mezzo, mitiga di qua, di là; ma a poco riusciva, quand’ecco alla corte del governatore si presenta una gran dama in un tiro a sei, e al governatore dichiara aver ella stessa fatto uccidere il cavaliere per un insulto avutone, e si ritira; sicchè il Landriani fu rilasciato. La nobiltà, adottato il fasto spagnolesco, credette avvilimento l’occuparsi dei traffici, onde ne ritirò i capitali per investirli in beni sodi, incatenava le sostanze in maggioraschi e fedecommessi, e circondata di superbia e di privilegi, o eludeva con questi la giustizia, o l’affrontava a viso aperto. Tolta la vita comune, meriterebbe studio la storia delle famiglie, che, a differenza d’oggi, erano ancora qualche cosa nello Stato. L’autorità attribuita dalla costituzione comunale, gli estesissimi poteri del senato, l’arbitrario riparto delle gravezze, davan modo ad alcune d’arricchire; le quali poi prendendo appalti, facendo prestiti, comprando regalìe, venivano a impinguare smisuratamente. Le leggi sulle primogeniture e i fidecommessi impedivano lo spezzarsi di tali fortune: la vanità di dar lustro alla famiglia induceva i collaterali a cumular le fortune sopra un figlio solo. Così i nobili vennero a formare una specie di dominio sul popolo, il quale consideravasi suddito ad essi piuttosto che al re; ed avrebbero potuto facilmente mutar lo stato, se di quella condizione non avessero tratto tanto profitto, da non desiderare di cangiarla. L’uso non permettendo d’impiegare gl’ingenti capitali nel commercio, doveansi erogar in lusso e fabbriche e splendori principeschi; orpello sulla loro nullità. Tutti voleano abitar riccamente, villeggiare suntuosamente, arricchire la propria parrocchiale e le cappelle avite o i sepolcri; e profondeano in beneficenze, per le quali rimangono benedetti fin ad oggi. Molti dei letterati, moltissimi de’ prelati erano di famiglie principali; i più studiavano di legge per patrocinare gratuitamente e farsi scala alle magistrature; altri attendevano alla medicina, il cui esercizio fu dimostrato con lunghi e serj trattati non degradare dalla nobiltà. Compravano dall’erario paesi e terre, sulle quali poi erano quasi sovrani, salvo soltanto la superiore giustizia del senato[46]. Ciascuna famiglia conservava alcune distinzioni sue proprie, tradizionalmente arrivate dal tempo che lo Stato era un aggregato di famiglie: per esempio, a Milano i Confalonieri addestravano l’arcivescovo quando entrasse, e gli portavano il baldacchino; ai Litta incombeva in quell’occasione fare spazzar le strade; de’ Serbelloni dovea uno aver parte a tutte le ambascerie, e andar incontro al governatore fino a Genova, portavano lo stemma della città, e davano doppio voto nel Consiglio de’ sessanta; i Pusterla possedeano trentacinque ville, e in città un quartiere intero. Gian Pietro Carcano lasciò morendo un bambino di tre anni, e dei diciotto che gli mancavano a uscir di pupillo, volle che le rendite andassero per un terzo alla fabbrica del Duomo, uno allo spedale di Milano, uno in istituzioni pie: e la sola parte che toccò allo spedale bastò a fabbricare il gran cortile e le sale che vi rispondono. Bartolomeo Arese, presidente e figlio d’un presidente del senato, possedeva forse un ottavo della Lombardia, e dopo fabbricato palazzi e ville e chiese e monasteri, lasciò di che arricchire le due famiglie Litta e Borromeo[47]. Uno di questi ultimi tramutava un nudo scoglio del lago Maggiore nella deliziosissima Isola Madre, opera da re. Ma non era una nobiltà d’antica giurisdizione, sibbene costituita su brevetti regj, e perciò impotente contro il sovrano; e la sua ingerenza riducevasi a raccomandazioni, appoggi di parentela e di clienti, assistenza di corpi e di denaro. Quelli che non si buttavano in chiassosa rivolta contro la legge, empivano la vita con puntigli d’onore, di cerimonie, di comparse, e spuntar un impegno, e vendette calcolate ed ereditarie, e protezione a ribaldi. Perchè il lustro domestico non si eclissasse, nella propria famiglia rendeansi tiranni condannando i figliuoli ai chiostri o ad una povera e indecorosa dipendenza, acciocchè il primogenito potesse grandeggiare. E perchè a ciò mancavano altre occasioni, e la stima misuravasi dalle spese, si ostentava un lusso stranamente repugnante colla pubblica miseria; e cocchi, e torme di servi, e sfarzose villeggiature, e caccie strepitose, e imitazioni di Corte attestavano la distanza del nobile dalla plebe[48]. Il signore per quel lusso, per un errore, per un evento straordinario scarmigliava i suoi affari? non poteva racconciarli col vendere una parte della sostanza, giacchè era legata in primogenitura e fedecommessi; onde dovea intaccar il capitale circolante, e spogliar i campi delle scorte necessarie, o in casa sottigliare sulle prime necessità, producendo quel misto di magnificenza e di lesineria, che è carattere di quell’età. Altri valeansi dell’accidia del Governo per insolentire sovra la miserabile plebe, e cinti da uno stuolo di bravi, entro un castello sorgente in mezzo alle loro possessioni, o fra i monti, s’un fiume, a cavalcione del confine, viveano come piccoli principi, tratto tratto venendo a battaglie col prepotente contiguo, più spesso concertandosi seco per la reciproca sicurezza, e per meglio tiranneggiare i vicini e sbravare l’autorità, in onta della quale talvolta assalivano i ministri, rapivano i podestà, bastonavano gli sgherri, traversavano a suon di trombe le città. In queste ciascun palazzo era un fortalizio, e protetto dal diritto d’asilo, da robuste porte, da servi; ricoverava non solo il facinoroso padrone, ma i suoi aderenti e quella clientela di bravacci. Chiassose gride riboccano d’intimazioni contro persone anche di gran famiglia; i Martinenghi di Brescia, i Visconti di Bregnano, i Benzoni di Crema, i Seccoborella di Vimercato, i Barbiano di Belgiojoso, i conti di Parco, i Torello, i Tiene, un marchese Malaspina, un marchese Spigno, i cavalieri Cotica e Lampugnani, ed altri illustri che esercitavano in scelleraggini il valore a cui erano mancate migliori occasioni. Coll’indossare la loro livrea e prestargli il braccio, alcuni malfattori assicuravansi l’impunità; altri armati da capo a piede, con folti ciuffi, spettacolose barbe, scorreano il contado taglieggiando, invadeano fin le borgate. Il Governo gl’indicava a centinaja alla privata vendetta, eccitando i singoli cittadini ad assalirli, ucciderli e così meritare un premio: ma la ripetizione delle minacce ne attesta l’inutilità; mentre la vicinanza de’ confini forestieri dava ai banditi agevolezza di scampo. Crebbero dunque sempre più di numero e di baldanza, tantochè nel 1663 fu permesso ad ognun di tener fucili per arrestarli, promesso trecento scudi a chi ne ammazzasse uno; s’istituì contro di essi la guardia urbana; si posero sentinelle sui campanili per annunziare il loro accostarsi: «eppure ogni giorno, anzi ogni ora s’intendeva di costoro omicidj, svaligiamenti, rubamenti di case, secrilegi, violenze, non pur nelle ville e luoghi aperti, ma nella città ancora; e tanto più si confidano a tanti misfatti, perchè sicuri d’essere ajutati da’ capi e fautori loro, e che mediante le astuzie che usano, e le pratiche e intelligenze che professano aver coi notari, bargelli, birri, sperano debbano i delitti rimanere occulti, ed essi impuniti»[49]. Eppure v’avea molti soldati: ma questi erano un nuovo flagello del paese, a difendere il quale erano inetti; alloggiati per le case, malmenavano rubando e violando; spesso non ricevendo le paghe, se ne rifaceano sui tranquilli abitanti; sperperavano il paese o alla cheta coll’esigere braccia, carri, foraggi, o dandosi baldanzosamente a saccheggiarlo. Finita che fu la guerra del Piemonte, molti corpi spagnuoli licenziati si ritirarono nel contado del Seprio e sul territorio di Gallarate, vivendo di ruba, assalendo le terre, e tenendo Milano in lunga angustia, finchè s’impose una taglia di centomila scudi, mediante la quale essi contentaronsi di venir innestati alle guarnigioni imperiali. Contro di loro il governatore Leganes diede un bando severissimo[50], ma inefficace, poichè egli stesso, dieci mesi dipoi, ne discorre di «doglianze che da tutte le parti dello Stato ogni giorno gli vengono fatte»; e i suoi successori replicano tratto tratto la formola stessa, a provarci in che conto si dovessero tenere le milizie d’allora. Fra tali elementi chi non soverchiasse dovea vedersi soverchiato da moltiplici tiranni; non si potea evitar la violenza che coll’usarla, non gli oltraggi che col commetterne. Gli animi erano resi selvaggi e ferini dallo spettacolo della tortura, che su per le piazze continuamente applicavasi, anche per correzione e da minori magistrati; dai frequenti supplizj della fustigazione, del tanagliamento, della mutilazione, della forca, del fuoco, esacerbati ad arbitrio del giudice, e perfin del carnefice. Era naturale che gli studj deperissero. «Quasi (dice il Ripamonti) tra sè facessero a pugni le lettere e la santità della religione, erasi dismesso il buon latino; senz’arte d’umanità, uno squallido gergo offuscava le scienze, solo dirette al vil guadagno ed all’ambizione. Cittadini e nobili non coltivavano più le pulite lettere: alle leggi e al diritto davasi mano unicamente per conseguire magistrati, ricchezze, comandi: ed i volumi de’ giureconsulti, siccome colle molteplici leggi turbarono ed impacciarono il genere umano, così sbandirono il buon sapore della latinità, nelle epistole e nelle magnifiche risposte nulla tenendo di decoroso e d’antico: peggio i medici. Non v’avea trattenimenti od accademie da occupar pubblicamente tanto popolo e clero: licei della gioventù civettina erano le piazze, le pancacce, le botteghe, frivoli giuochi, cavalcate, altri elementi della pigrizia. Tra la quiete avvezzandosi a delicature e comodi, l’ozio e l’inerzia debellavano chi debellò eserciti potentissimi: i cittadini nostri non solo avendo cumulati e cresciuti, ma anche inventati nuovi piaceri fra la lunga pace, fiacchissimi traevano l’età, dimentichi del sapere e della via stretta che mena alla salute. La plebe poi, restìa ai precetti del vero, accorreva sempre là ove fossero guadagno, giuochi, azzardi, balli, tripudj, principalmente ne’ dì festivi. I prepotenti nobili, la gioventù loro futura erede, intendevano l’animo alle ricchezze, ed a quelle cose tra cui si sciupano le ricchezze e si volgono in vizj la fortuna e l’alto animo; onde nimicizie e uccisioni. I cherici, dati al mercatare ed alle donne; alcuni armati, i più semitogati, socj e ministri de’ laici, e partecipi dei peccatori, anzi maestri di peccato, trascurando i tempj e le sacre cose, e facendo tali opere, che il tacerle è bello»[51]. Così sventure ignote alla storia straziavano ciascuno in seno alla propria famiglia, abjettivano il sentimento, spegnevano ogni magnanima risoluzione. Quindi la crudele ignoranza e la ricca indolenza; quindi i nobili tiranneggiati e tiranni a vicenda; quindi viltà negli scrittori, tra la noja de’ quali non appare generosa opposizione agli ingiusti voleri; nessuna premura di rammentare ai posteri come, prima la nazione, poi l’individuo patisse senza colpa e senza vendetta. La plebe poi, sentenziata all’ignoranza, al bisogno, all’improba fatica, e in conseguenza alle colpe, precipitavasi a subugli, non per verun alto fine, ma per avere a miglior patto il pane, meno ingorde le gabelle. Ne’ paesi governati a repubblica, le classi erano state uguagliate per modo, che niuna rimase privilegiata se non per concessioni regie, le quali poteansi abolire col diritto onde erano state concedute. Ne’ paesi invece di governo regio, que’ privilegi di corpo si saldarono, perchè derivati dall’indole stessa del popolo e dalla sua storia. Di qui gran differenza tra la Lombardia e il regno di Napoli, dove Carlo V non avea distrutto gli ordini d’antica derivazione, l’importanza de’ tribunali, le grandi dignità della corona. Per amministrarlo in tanta distanza dalla capitale, vi si mandavan dei vicerè, de’ quali è quasi tipo don Pedro Alvarez di Toledo (1532-53), padre del famoso duca d’Alba. Spagnuolo nel fondo dell’anima, tale avrebbe bramato ridurre l’Italia, e delle ruine di questa costruire una provincia spagnuola. Rassettò il reame da quarant’anni di scompigli, attendendo soprattutto a reprimere le violenze private, e sistemare la giustizia. Col voler vedere tutto e a tutti dare udienza, tolse ai subalterni la baldanza dell’impunità; levò le armi dalle case; represse i conflitti e i frequenti ratti, morte intimando pel furto notturno, pel duello, per chi dopo le due di notte fosse trovato con armi, per chi usasse scale di corda; onde intrighi amorosi menarono al patibolo; morte a chi due volte spergiurasse. Una volta decretò che tutta Napoli mangiasse pane fatto di tuberi di pamporcino, poi sospese dicendo aver voluto sol farne prova per un’occorrenza. Abbattè lo scoglio di Chiatamone, e i portici e le trabacche delle vie, tane d’assassini e di prostitute; queste raccolse in prefissi luoghi; represse i _vendemmiatori_, che in autunno andavano dicendo insolenze o disonestà a chi incontrassero[52]; le _ciambellerie_ che frastornavano le prime sere delle vedove rimaritate, come gli schiamazzanti piagnistei delle esequie. Gli Ebrei, quivi accorsi viepiù dopo cacciati di Spagna, egli espulse per condiscendere a coloro a’ cui interessi nocevano; e perchè allora crebbero gli usuraj, pensò ripararvi istituendo il Monte di Pietà. Procurò buona moneta e proibì di portarne fuori del regno: per bastare all’avida guerra, riordinò la regia camera. Volle i preti usassero sempre abiti ecclesiastici; portandosi il viatico s’uscisse con pallio e torchi, ed egli stesso colla Corte l’accompagnava spesso. Per renderla degna metropoli, cinse Napoli di nuove mura, ingrandendola di due terzi col racchiuder parte del monte Sant’Elmo secondo i nuovi ingegni militari, e con una cisterna che eguagliava la Piscina Mirabile di Baja; aperse la via Toledo, ampliò l’arsenale, condusse fontane, istituì lo spedale e la chiesa di San Giacomo apostolo, ove preparossi il sepolcro per opera di Giovanni di Nola, il migliore scalpello d’allora; sanò le paludi che infestavano Terra di Lavoro, con un fondo per conservarne lo smaltitojo. Difese le coste dai Turchi con fortini, con baluardi le città, sicchè la gente cessò di affluir a Napoli e lasciar deserta la campagna; altri munimenti pose negli Abruzzi e a Capua; e mentre gli abitanti, sgomentati dai sussulti e dalle ceneri pioventi, voleano abbandonar Pozzuoli, e’ vi fece strada, palazzo, torre, fontane, bagni, impedendo così che perisse come Cuma e Baja. Per tutto ciò e per le guerre ricorrenti dovette gravare i sudditi; e mentre erasi convenuto con Carlo V che ogni fuoco pagherebbe sol mezzo ducato, fin due se ne dovettero allora, oltre i donativi. Nel rendere giustizia non badava ad asili o a privilegi di classe; inviò al supplizio uomini principali, come il commendatore Pignatelli, che fidato nelle aderenze, avea fin allora sfidato la giustizia e punito i querelanti; un conte di Policastro e un Mazzeo Pellegrino fece decapitare nel largo di Castello, per quanto esorbitanti somme offrissero; anzi neppur la forca risparmiò a’ nobili; ne fece scannare da un suo servo tre giovanetti per aver investito birri che arrestavano un povero; mandò soldati che la figliuola del principe Stigliano, fidanzata a suo figlio[53], levassero dal monastero ov’era rifuggita; e un ambasciadore ebbe a scrivere che ottantamila persone perissero per man del boja, lui viceregnando. L’eletto del popolo, il quale richiesto dall’imperatore sulla condizione de’ Napoletani rispose che, per tenerli contenti, bisognava procurare abbondanza senza angarìe, e che ciascun mangi al piatto suo colla debita giustizia, e che si togliessero le nuove gabelle messe dal vicerè, fu deposto. Il marchese Del Vasto, il principe di Salerno e molti baroni decretarono a Carlo V l’inaudito dono di un milione e mezzo di ducati, affinchè rimovesse il Toledo: ma ciò valse a saldarne l’autorità, che tenne per vent’anni, finchè, nell’imprendere la guerra contro Siena, morì. Fu imitato dai vicerè successivi[54] nel moltiplicare opere edilizie. Il duca d’Alcala (1559-71) aperse la via da Napoli a Reggio, alla Puglia, a Pozzuoli; e nella capitale quella da porta Capuana a Poggio reale ed a Capua, e la fontana del Molo coi quattro fiumi; i ponti della Cava, di Fusàro, del Lagno, di Rialto, di Sant’Andrea. La porta Pimentella in città e il forte Pimentello all’isola d’Elba, la porta e la fontana Medina e il palazzo a Posilipo, ricordano il nome d’altri vicerè. Il ponte di Pizzofalcone è dovuto al marchese di Monterey. Il conte d’Olivares fece granaj e acquedotti, il conte di Lemos il palazzo reale, suo figlio quel degli studj, sempre coll’opera di Domenico Fontana, s’aprì con solennità straordinaria quell’Università, con statuti e insegne, e che le cattedre si conferissero per concorso e disputa. E tutti i vicerè furono insigni nella prudenza civile, di tutti le prammatiche sono quel più savie che si potesse aspettare, tutti distrussero i giuochi e i banditi, tutti prevennero le carestie, se crediamo al Giannone anzichè ai fatti. Essi doveano in certi casi aver il parere d’un consiglio collaterale di giurisperiti, tre spagnuoli e otto italiani, con un segretario di Stato; e poichè in questo consiglio vennero assorbite le antiche attribuzioni degli uffizj di Stato e di Corte, gli affari tutti vennero sotto la mano del vicerè. Come gran connestabile egli comandava all’esercito, avea Corte propria con un gran giustiziere per le cause criminali, civili, feudali; un grande ammiraglio; un gran camerlingo sopra le rendite e spese; un gran protonotaro, custode delle regie scritture, e primo a parlare nelle assemblee; un gran cancelliere guardasigillo; un gran siniscalco, maestro della real casa, e soprantendente agli apparati, alle razze di cavalli, alle foreste, alle caccie. In conseguenza, il carattere di ciascun vicerè contribuiva grandemente al pubblico stato, secondo erano guerreschi o pacifici, miti o fieri, lenti o solerti, progressivi o remoranti. Toccava ad essi proporre ai varj impieghi, molti de’ quali erano lucrosissimi; occasione di lauti mercati. Sempre forestieri, e inesperti delle cose nostre, appena cominciavano impararle riceveano lo scambio, onde diceasi che, dei tre anni che soleano durare, il primo usavano a far giustizia, il secondo a far denari, il terzo a far amici per essere confermati. Secondo la riforma del Toledo, tre erano gli alti tribunali: il sacro consiglio di Santa Chiara che trattava gli affari in tre istanze, composto di dieci consiglieri italiani e cinque spagnuoli, uno de’ quali facea da presidente; la corte di Vicaria per le cose criminali, e per l’appello delle civili; la camera regia per gli affari fiscali. Seguivano tribunali minori, e vicarj nelle diverse provincie. De’ pubblici uffizj parte si vendeva, parte era conferita ad intriganti: Filippo IV metteva in vendita sin il diritto più prezioso, quello della giustizia «perchè conveniva al suo servigio l’ammassare il maggior denaro possibile»[55]. A volta a volta di Spagna erano deputati visitatori, con facoltà estesissime, talora fin indipendenti dal vicerè; e il popolo reputavasi beato quando li potesse ottenere forestieri: tanto malfidava dei proprj. Il parlamento coi tre bracci continuava, come in Sicilia e in Sardegna; ma il clero fu tenuto umile, e fra gli altri ordini si seminarono gelosie coi titoli e col fasto, per indebolire l’opposizione. I quali ordini erano i baroni o feudatarj, i nobili e il popolo. Re Martino moltissime terre infeudò, che invano volle redimere dappoi; re Alfonso vendeva e investiva per alimentare la guerra di Napoli; talchè di mille cinquecencinquanta Comuni, appena centodue rimanevano demaniali, e qualche barone possedeva sin trecento terre. Gli Spagnuoli perseverarono nel pessimo sistema, onde nel 1559, di mille seicendiciannove Comuni, soli cinquantatre appartenevano al dominio regio, e nell’86 soli sessantasette dei mille novecensettantatre, non computando i casali e i villaggi sprovvisti di rappresentanza municipale. Qualche grosso feudo era ricaduto alla Corona, come il ducato di Bari, dal tempo di Francesco Sforza appartenuto alla famiglia che dominò Milano, fin alla morte di Bona Sforza regina di Polonia, che lo lasciò a Filippo II col principato di Rossano: ma ne rimanevano d’importanti, come il principato di Salerno dei San Severino, quel di Taranto degli Orsini; i quali possedeano ben quarantaquattro luoghi negli Abruzzi, trentaquattro i conti di Celano, venticinque quei di Matera, e molti gli Acquaviva, i Caracciolo, ecc. Erano anche alcuni feudatarj stranieri, come i Farnesi di Parma principi d’Altamura in Apulia, e duchi di Civita di Penna negli Abruzzi; i Medici principi di Capestrano; i Gonzaga principi di Molfetta e duchi d’Ariano; i Cibo duchi d’Ajello. Il Governo mal volentieri divideva l’autorità coi feudatarj, tanto più che recavano ostacolo all’esazione delle imposte, eppure la necessità di denaro obbligavalo a crearne di nuovi. Carlo V avea permesso ai Comuni di riscattarsi, e ridursi sotto l’autorità della corona; e molti il fecero a prezzi enormi, come Amalfi per duecensedicimila censessanta ducati, per cendodicimila Soma sul Vesuvio: per ciò doveano far debiti, e per pagarli ipotecavano o i beni comunali o qualche gabella o infeudavano parte del territorio, sinchè poveri e assediati si rivendeano, fortunati se cadessero in un buon signore. Lo stesso Governo talora dava in feudo quelli ai quali avea già venduta la libertà, se pur non potessero conservarla col pagarla quanto il fisco avrebbe potuto trarre dal venderli. Ai baroni competeva il mero e misto imperio, e non solo alle antiche case, ma a ventisette nuove, poi a molti prelati, che l’indicavano col tenere la forca piantata. Essi giudicavano pure delle cause civili, e nominavano i magistrati, avendo così in arbitrio sostanze e vita dei cittadini. I dipendenti doveano macinare al mulino signorile, e far pane al suo forno, non vender vino, non viaggiare senza licenza del feudatario. Il 29 marzo 1536 l’imperatore avea stabilita una commissione per esaminare senza appello i doveri de’ vassalli: ma le carte presentate dai Comuni non furon rese che sotto il regno di Murat. Le grandi cariche per lo più erano ereditarie, o comprate come titolo nelle famiglie: così erano connestabile un dei Colonna di Paliano; gran giustiziere uno dei Piccolomini di Amalfi, poi de’ Gonzaga di Molfetta, infine gli Spinelli di Fuscaldo; grand’ammiraglio i Cardona; camerieri i d’Avalos e i del Vasto; protonotaro i Doria di Melfi; cancelliere i Caracciolo d’Avellino; siniscalco i Guevara di Bovino. Nella prima metà del Seicento moltissimi titoli furono venduti a gran prezzo; e nel 1675 v’avea cendiciannove principi, cencinquantasei duchi, censettantatre marchesi, innumerevoli conti. I nuovi nobili erano esosi ai nobili vecchi che ne rimaneano scassinati. Per ottenere que’ titoli caricavansi d’imprestiti opprimenti, intentavano processi, eternati dai troppo famosi causidici, e così tornavano poveri e vanitosi. Gli abitanti di Napoli erano distinti in nobili e popolo: questo era partito in ventinove _piazze_, dette anche _ottine_ perchè ciascuna eleggeva otto cittadini, specie di municipio con un capitano; i nobili erano distribuiti nei seggi di Nido, Capuana, Montagna, Porto, Portanuova, forse ai primi due spettando la nobiltà feudale o il baronaggio, agli altri i semplici nobili. Altri sopravvenuti che non poteano scivolare fra’ nobili, rimasero col popolo, e lo ajutarono ad acquistar diritti esso pure e una rappresentanza in urto coi nobili; i quali spesso sostenevano un punto, unicamente perchè avversato dal popolo, e viceversa. Ciò interveniva principalmente in occasione dei donativi al re, coll’abbondar dei quali un ceto compravasi la benemerenza regia a carico dell’altro: invidie delle quali già aveano fatto profitto gli Angioini e gli Aragonesi, e continuarono gli Spagnuoli. Cinque _eletti_ o sindaci toglievansi fra i baroni, ed uno fra i cittadini, il quale s’intitolava eccellenza; veniva investito nel giorno del _Corpus Domini_, e godeva molta autorità; voto pari ai deputati della nobiltà; rendea ragione in affari di polizia, nominava i soprantendenti ai dazj, e il notaro della città; e ritraea grande autorità dal rappresentare tanta popolazione, della quale era il tribuno, e talvolta il martire. Nella carestia del 1582 il vulgo ne imputò l’eletto Starace, e trattolo dal letto ove stava infermo, a insulti lo trucidò. Il vicerè, col trarre a sè il diritto di scegliere l’eletto fra sei proposti, ridusse servile anche il rappresentante del popolo. Tutti insieme gli eletti vigilavano sui privilegi che Fernando il Cattolico e Carlo V aveano conceduti alla città, e che ciascun nuovo re confermava. Fra’ quali era, che i Napoletani potessero chiamare al proprio tribunale qualunque regnicolo, mentr’essi non poteano essere citati fuor del tribunale proprio[56]. Sempre più diminuiti di potenza esterna, i nobili la cercavano nelle cose municipali, in queste esercitando le gare e gli odj; e passo a passo i sedili eransi surrogati all’antico parlamento, che i vicerè più non convocavano se non quando non potessero ottener denaro dai sedili, unico titolo omai delle convocazioni, e che per conseguenza bisognava a ogni modo decretare. Raccolto, esponeansi i bisogni della corona: se rimostravasi come il paese fosse esausto, se ne conveniva, ma il servizio regio bisognare di quella somma, e non restava che a cercarne i mezzi, cioè votare una nuova imposta. V’era dunque una costituzione ma senza garanzia, potendo i vicerè eluderla, e arrestare i deputati dei sedili e fin gli eletti. Monterey li relegò per sette anni a Capri perchè aveano spedito alla Corte un ambasciatore a sua insaputa. Olivares ne fece arrestar due de’ più illustri. Lemos proibì ai sedili di raccogliersi senza sua special permissione. Benavente, per guadagnarsi il popolo, avea fissato il pane a sì vil prezzo, che la municipalità di Napoli dovette compensare i fornaj con duemila ducati il giorno. Gli fu mandata una deputazione, il cui anziano Cesare Pignatelli disse: — Se non fosse la letizia per la nascita dell’infante, noi saremmo comparsi in lutto»; e il vicerè rispose, non sapeva qual cosa il ritenesse dal gittarlo dalla finestra, e gl’inflisse l’arresto in casa. Nel 1625 il duca d’Alba impose una straordinaria tassa di due carlini per fuoco, senza tampoco sentire i sedili; e sapendo voleano mandare una deputazione al re, chiamolli, e intimò che, se lo facessero, «taglierebbe loro la testa e se la metterebbe sotto i piedi». Nel 1638 al duca di Medina si spedirono frati e donne perchè desse ascolto alla deputazione della città: ma avendo in questa lo storico Capecelatro parlato francamente, fu punito in ottocento ducati e otto giorni di arresto, oltre una procedura criminale che poi fu sopita. Le deputazioni, se potean giungere alla Corte, bisognava se l’ingrazianissero con qualche grosso donativo, e il più che ottenessero era lo scambio del vicerè. Il Monterey, passionato pei drammi, quasi ogni giorno ne volle, or pubblici, ora in Corte o nelle case de’ nobili; e in teatro l’insolito comodo d’una loggia unicamente per sè e sua moglie; in ogni solennità ripeteansi, e principalmente nella notte di Natale «al levarsi da uno spettacolo andò alla messa, mescolando i santi misteri colle favole degl’istrioni» (CAPECELATRO). Andando in feluca verso Mergellina e Posilipo menava seco due portenti di quel tempo, Ciucio Pulcinella e Ambrogio Bonomo Coviello, attori che traevano alle loro buffonerie tutta Napoli. Una compagnia spagnuola, venuta a recitare nel 1636 a spese di lui, costò pel solo viaggio quattro in cinquecento ducati: e perchè nessuno andava allo spettacolo, il vicerè ordinò che tutti gli uffiziali e impiegati vi assistessero giornalmente, o si riterrebbe un tanto sul loro soldo. Talmente s’abbandonò a tal passione, che mandato poi a guerreggiare in Portogallo, sottraeva la paga ai soldati per stipendiare commedianti. Un’altra passione avea, quella de’ quadri; perocchè l’arte di Verre fu un nuovo erpete del viceregno, volendo gli Spagnuoli arricchire i loro palazzi di Madrid con capidarte italiani. Il Medina ne tolse quanti potè alla città, e fra gli altri la Madonna del pesce di Rafaello; e perchè il priore di San Domenico reclamava, lo fece da cinquanta uomini a cavallo accompagnare ai confini: levò dalla chiesa stessa un quadro di Luca di Leyda, da Santa Maria della Santità un Rafaello, un Giulio Romano dagli Incurabili; compensando colla fontana che porta ancora il suo nome. Altrettanto usò il Monterey: don Pedro d’Aragona portò via anche sculture, e avrebbe levato la bella fontana di Domenico d’Auria a Santa Lucia se i pescatori non si fossero opposti. La moglie del Monterey era sorella del conte duca d’Olivares, e perciò sublimando di pretensioni, alle dame ripeteva che a lei bisognava dirigersi, non al vicerè, chi volesse grazie; e quando una bella dama impetrò da questo un posto di giudice per suo marito, essa la battè colle pantofole, giacchè le pantofole non lasciava mai. Far denaro, era il supremo se non l’unico scopo del Governo. La tassa de’ fuochi nel 1505 avea versato al fisco 393,517 ducati: quarantacinque anni dopo ne rendeva 700,000: e dopo altri venticinque, l’ambasciador veneto la valutava a 1,040,248; sicchè egli ragguagliava l’entrata del regno a 2,355,000 ducati, cui doveansi aggiungere 600,000 di donativo ordinario, 225,000 pei pascoli della Puglia, 214,500 per le dogane, 375,252 per la decima del clero. Poi nel 1640 la tassa dei fuochi era il doppio del 1505. Carlo V aveva promesso e giurato che nè esso nè i successori metterebbero gabelle sulle Due Sicilie senza permissione della santa Sede; se il facessero, autorizzava il popolo a prendere le armi. Eppure nessun vicerè passò senza imposizioni, sempre più ingorde e irrazionali. Il Monterey riscosse per quarantaquattro milioni di ducati in gabelle straordinarie, per levare truppe a servizio del suo re. Il Medina succedutogli, per quarantasette milioni. Quando gli successe l’almirante di Castiglia, undici milioni di ducati d’oro assorbiva il solo interesse delle gabelle, il cui fondo era stato venduto a novantamila persone, talchè di quell’ingente esazione non un carlino perveniva all’erario. Egli ne sporse doglianze alla Corte, ma venutogli in risposta di mandare nuovo denaro, dovette imporre altre tasse per un milione e centomila ducati, levandole (giacchè più altro non rimaneva) sopra le pigioni. Tal susurro ne nacque, ch’egli stimò prudenza sospenderle; ma «i ministri spagnuoli, deridendo la timidità di lui, lo trattarono da uomo di poco spirito, inabile a governare un convento di frati» (Giannone), e gli diedero lo scambio. La coronazione, le fascie d’un neonato, le pianelle della regina, la spedizione d’Africa, la guerra della Germania, le fortune e le disfortune erano titoli di donativi; a ciascuno metteasi la condizione di non aggiunger altro tributo, e subito se n’inventava alcun di nuovo. Nel 1643, dopo le gravissime sventure, si pagarono in donativi 11 milioni, o almeno furono decreti. Vorrebbesi che da Ferdinando I fino a Carlo II il regno consumasse 90,784,000 ducati in soli donativi, di cui 61,869,787 a carico de’ Comuni, 14,893,000 de’ feudatari 14,020,233 della città di Napoli, oltre 512 mila donati ai vicerè. Moltissimo fruttavano gli _arrendamenti_, cioè proibizioni d’olio, ferro, sale, seta, per asportare o importare i quali bisognava pagare. Le composizioni pei delitti rendeano da 60 mila ducati. Le assurde leggi doganali spingeano al contrabbando, e questo rovinava gli onesti negozianti, mentre i frodatori côlti, o nella prigione si raffinavano al delitto, o si riduceano miserabili per riscattarsi. Oltre le esazioni, oltre i rubamenti dei vicerè e de’ loro aderenti, nei quali il re non avea colpa che di non impedirli, capitavano principi che bisognava festeggiare: poi alla loro partenza regalare i vicerè dell’aver sì bene amministrato. Per far fronte a tante spese si vendevano le gabelle, togliendosi così il modo d’abolirle; poi per nuovi bisogni se ne creavano di nuove, da vendere anch’esse; si vendeano le terre demaniali; i Comuni si gravavano di debiti, e la sola città di Napoli dovea quindici milioni di ducati, il cui interesse pagava colle esorbitanti gabelle; s’introdusse la carta bollata alla maniera di Spagna; si trattò fino d’imporre un grano per testa al giorno ai centrentamila che vivevano alla giornata, uno e mezzo ai centrentamila che viveano di stato mediocre, due grani a’ titolati, gentiluomini, mercanti e altri lauti. Aggiungete le prammatiche sopra le vittovaglie; fin dal 1496 essendosi cominciato a determinare il prezzo del pane e dei maccheroni, bisognò somministrare farina e grani; e in paese pinguissimo si moriva d’inedia. — Qua spiritiamo dalla fame (scrivea un ambasciadore nel 1621); a mezzogiorno non si trova pane alle botteghe, perchè la plebe, all’alba, impaurita se ne provvede, e spesso di più del bisogno, e crede il vicerè voglia metter pena a chi ne piglia più dell’occorrenza quotidiana»[57]. Venduti feudi, titoli, terre, non restava che inventare nuove gabelle sulle frutte, sui capelli, sulle scarpe, sul pane, sull’uva secca, sulle ulive, sui legumi, sul cuojo, la seta, i vini e le botti, gli zuccheri, il sale, i salumi: insomma, com’ebbe a dire il Campanella, pagavasi fin per tenere la testa sul collo. Aggravj più pesanti perchè ne restavano immuni i nobili e il clero. Sotto tante esazioni bisognava gravarsi di debiti, e s’introdussero i Monti, cioè prestiti cumulativi, che cercavansi dalle università, dai Comuni, dai particolari, dai baroni, e che divenivano una nuova complicazione e un nuovo male. E poichè l’esazione era difficilissima, si appaltavano, principalmente ai Genovesi. Questi attivissimi Italiani, di buon’ora e ne’ patrj commerci impratichitisi colle finanze, le esercitarono in tutti i paesi, e già al tempo di Filippo II aveano in mano tutte quelle del regno, e banche, carte dello Stato, debiti pubblici: piaceano alla Spagna perchè solidi; perchè inesorabili erano odiati dal popolo. L’Ossuna voleva che Naselli prendesse in appalto la dogana di Foggia; e perchè scusavasi in vista dei molti che già tenea, gli fu intimato uscisse di paese fra due giorni, pena la vita. Voleva un’anticipazione di ducentomila ducati sopra una gabella; e perchè gli appaltatori si scusavano, ne fece sequestrare provvisoriamente trecentomila ducati[58]. Al disordine delle finanze credeasi provvedere cogli infausti ripieghi di moneta bassa, di soldi sospesi agli impiegati, fin di misurare il pane alle famiglie[59]. Del contante provavasi tanta scarsezza, che nel 1573 si pagava il venti per cento; quattr’anni dopo il trentadue e mezzo sopra Roma; e nel 1621, il trenta per cento sopra Venezia (BIANCHINI). Quindi il mestiero della banca fruttava lautamente ai Genovesi; e fu considerato sventura pubblica il fallimento della casa Mari, che traevasi dietro tutte quelle di Napoli, se il vicerè non avesse per un intero mese dilazionate le scadenze. Quando mancasse d’ogn’altro compenso, il Governo ricorreva ai prestiti forzati. Nel 1605 il Benavente ne impose uno alle banche, e poichè nicchiavano, cominciò a prendere sessantamila ducati sopra sei istituti di beneficenza, promettendo l’otto per cento. La banca del debito pubblico trovavasi spesso in secco; nel 1622 il cardinale Zapata ridusse i capitali deposti a due terzi del valore; nel 1625 per più giorni si sospesero gli affari. Che più? Qualche Comune comprò il diritto di _ribellarsi a nome del re_, onde schermirsi dalle prepotenze del fisco. Uno essendo l’esercito della monarchia spagnuola, soldati nostri guerreggiavano per tutta Europa, in Asia, in Africa, in America; mentre qui di guarnigione avevamo Valloni, Tedeschi, Spagnuoli. Quattromila pedoni sotto un maestro di campo e un auditore formavano il _terzo di Napoli_: la cavalleria contava mille corazzieri e quattrocencinquanta mila armati alla leggera[60]. Vuolsi che il Monterey in sei anni mandasse in campo quarantottomila pedoni e cinquemila cinquecento cavalieri, la più parte indigeni, con ducentotto cannoni, settantamila fucili ed altre armi e galere, navi di trasporto, munizioni ed ogni occorrente: e sul fine della sua amministrazione colpì la capitale con quindici milioni di ducati, che la più parte convertì in armamenti e soldi. Poi se si avvicinavano le flotte francesi, bisognava la città stessa si armasse a propria difesa. L’Alcala istituì i battaglioni nazionali, per cui ogni cento fuochi doveasi dare quattro pedoni e un cavallo, formando ventiquattro o trentamila uomini, obbligati solo a servir in paese, e stipendiati in tempo di guerra. Re Alfonso I aveva introdotto cavalli di Spagna, donde le belle razze che finora non degenerarono. Fernando il Cattolico credette favorire l’industria paesana col gravare l’importazione de’ panni, e soltanto per privilegio concedere a forestieri di quivi fabbricarne: e molto in fatto se ne lavorò a Napoli non solo, ma ad Aquila, Teramo, Ascoli, Arpino, Isola di Sora, Piedimonte d’Alife, e in Calabria. Crebbero poi le seterie, tanto che a metà della popolazione di Napoli davano occupazione di fabbricare stoffe d’ogni qualità, sino ai broccati d’oro, insegnati dai Veneziani; e moltissimi ne consumava la Corte e la nobiltà per abiti e per addobbi delle case. Non che però quest’industria si ampliasse mediante le nuove vie aperte al commercio e le agevolate comunicazioni, fu ristretta da improvvide prammatiche. Principalmente il vicerè duca d’Arcos nel 1647, oltre circuirla di mille ceppi, volle quel lavoro proibire alle provincie; e il vendere, tingere, tessere la seta fu riservato «a’ compratori e agli industriali della regia dogana di Napoli», a cui pertanto i produttori doveano vendere i bozzoli. Nel 1685 fu vietato d’introdurre invenzioni nuove in questa manifattura, nè si esponessero al mercato che stoffe lavorate al modo antico e cogli antichi prezzi. Reca stupore che con tali provvedimenti non sia perita quest’arte; e qui dovremmo ripetere quello che dicemmo della Lombardia sull’improvvida azione governativa. Nel 1618 fu proibito, pena la galera, d’indorar quadri o altro, sinchè non fosse finito d’indorare il nuovo galeone. Per mille altre vaglia la grida che gli eletti della città di Napoli, conforme a molte precedenti, pubblicarono il novembre 1649, portante 1º che nessun tavernajo o venditore di vino a barili o a caraffe tenga o venda vini guasti, spunti, sbolliti, aversiti, aceti o d’altra mala qualità; 2º non mesca il vino mazzacane col vin vecchio; 3º non venda una sorta di vino per l’altra; 4º dia la giusta misura, con le caraffe zeccate dal credenziere; 5º non dia o venda pane minore della misura corrente, nè tenga pane fatto in casa; 6º non compri carne, trippa o altre merci in tempo di notte, ma solo un’ora dopo fatto giorno, acciò possano i cittadini provvedersi; 7º non compri pesce in mare o in terra nel distretto di Napoli, nè di notte, ma vada comprarlo alle pietre alle ventitre ore di sera, o in quaresima un’ora prima di mezzogiorno, e nelle altre vigilie alle due dopo mezzogiorno, acciò possano i cittadini provvedersi; 8º non venda nè giorno nè notte carne o pesce crudo, e neppur cotti da portar fuori; 9º non compri filetti di porco di notte, ma solo di giorno e dopo le diciannove ore». Ciascun punto è corredato di gravissime minaccie pecuniarie e corporali, «e altre pene a nostro arbitrio riserbate giusta li bandi antichi». Di sì opportune coste, di sì grati terreni poco approfittavansi l’industria ed il commercio: le servitù rurali pregiudicavano all’agricoltura, e i pastori conducevano pochi armenti su campagne che sarebbero bastate a nutrire un popolo. Francesco Bobbi scriveva al duca di Firenze l’11 novembre 1549: — Le strade, non solo in questo regno, ma per tutto fino a Roma, sono rotte di sorte, che è impossibile senza una compagnia almanco di cento cavalli, che si possi andare di qui là». Tornava pure di danno la moltitudine de’ frati, propagatori d’una devozione sragionata e d’un profluvio di miracoli, possessori d’immensi tenimenti alla campagna e di estesissimi quartieri in città, perocchè i legulei sosteneano che i proprietarj di case e terre confinanti a monasteri le dovessero ceder loro a prezzo di perizia. Udita quella miseria pubblica, fa meraviglia la ricchezza delle chiese, tra cui basti accennare la certosa di San Martino e la cappella di San Gennaro; la prima tutta a marmi intagliati e musaici, cogli altari di pietre fine, i balaustri di bei marmi e porfidi, e ogni cosa fiorami, rosoni, ghirigori; nell’altra in sole pitture si spesero trentaseimila ducati e un milione nelle altre opere, oltre l’inestimabile tesoro: pochi anni prima della sollevazione di Masaniello, ducentomila ducati vi si erogarono all’altare della Nunziata, macchinosa opera del Fanzaga; e tesori in un ciborio dei Teatini. E veramente le spese delle congregazioni e l’ambizione de’ governatori davano aspetto di gran bellezza e magnificenza a Napoli. Al tempo del Monterey, questa avea ventimila fabbriche, quarantaquattromila fuochi, trecentomila abitanti; giornalmente consumavansi quattromila moggia di grano; ogni mese spendeasi trentacinquemila ducati in legumi e verdure; ogni anno centomila staja d’olio (6400 ettolitri), quindicimila centinaja di carne salata, ventimila di pesci, seimila di caci, centomila bestie da macello; da’ soli pubblici magazzini vendeansi annualmente trentamila botti di vino oltre il particolare. La gabella dei frutti rese ottantamila ducati. Alla dogana riceveansi da seimila casse di zuccaro, duemila di cera bianca, trecento di spezierie, ventimila centinaja di mandorle. Per panni forestieri spendeansi da quattrocentomila ducati, ducentomila per nostrali, trecentomila per tele di lino veneziano, ducentomila per olandesi, cencinquantamila per lavori d’oro, e d’argento. L’introduzione degli spilli guadagnava quarantamila scudi l’anno. Moltissimo usciva in oggetti di lusso, stoffe di seta e d’oro per abiti e per tappezzerie, ricami e simili. E bastava girar Napoli per accorgersi qual ricca città fosse: oltre gli operaj che menano le loro merci in piana strada, oltre quei che hanno manifatture in casa, in ogni via, in ogni viottolo trovasi una quantità di gente che accalcano, urtano, portano senza riposo: entrate nelle chiese dove si predica? vi trovate una folla di persone: andate ai tribunali? stupite di tanto rumore: le strade sono piene di gente a piedi, a cavallo, in carrozza, sicchè ne viene un ronzìo come da un alveare[61]. Ivi e commercio e uffizj dove guadagnare, largizioni da fruire, limosine e scrocchi da godere vi cresceano la popolazione; molte le case forestiere, principalmente di Genovesi, come gli Spinola, i Mari, i Serra, i Ravaschieri. Ma questi incrementi erano a scapito delle provincie, abbandonate a sè. Il popolo dappertutto giaceva inerte, malvestito, malpasciuto, rissoso, pronto alle armi; eppur vile; e come chi sta male, desiderava le novità e le cose in aria, malcontento sempre del Governo, ma non del re; rispettoso a questo, non alla giustizia. Lo spergiuro e il testimonio falso era sì comune che, quando voleasi introdurre la santa Inquisizione spagnuola, si rimostrò che nessuno più avrebbe pace, attesa la consuetudine d’attestare la bugia. Il falsare monete e tosarle era pure divulgatissimo, e preti e frati e nobili e donne, vi si ingegnavano: sotto lo Zapata fu appeso alla forca Lisco di Ausilio, che a diciotto anni con quest’arte erasi formato un’entrata di quarantamila ducati. I nobili si lamentavano di veder dati a forestieri tanti impieghi, creati per loro dai re antecedenti. Ma non aveano nè forza per contrastare alla Spagna, nè generosità per affratellarsi al popolo; e i puntigli d’onore non li rimoveano da bassi delitti; menavano lunghe brighe per titoli sonori o preminenze, o per ottenere di coprirsi il capo davanti al re, come i grandi di Spagna; faceansi vanto dell’ozio, vergogna dell’industria, non badando personalmente ai proprj interessi, ma a caccie, feste, esercizj cavallereschi; e col fasto puntiglioso allontanandosi più sempre dal popolo, colle aderenze lo tiranneggiavano; perchè un dottore non gli diè dell’eccellenza, il principe di Colla gli avventò un campanello, che andò a spezzar la testa ad un vecchio; votavano senza misura le imposte, da cui gli esimevano i privilegi, o che prendevano in appalto impinguandosi della miseria pubblica. Quali costumi poteano aspettarsi da servitù accompagnata con disordine? Alle passioni violente e iraconde lasciavasi corso, non so se col proposito, ma certo coll’effetto di scomporre gli elementi della nazionalità; un Comune nimicavasi all’altro, famiglie a famiglie, città a città; degli antichi partiti aragonese e angioino si resuscitò il nome per rammemorare che si erano odiati una volta, e che doveansi odiare ancora. Lassi i legami domestici, se non quando si trattasse di sostenere puntigli. Donne di primarie famiglie non vergognavano d’essere le palesi drude del vicerè, come la marchesa di Campolattaro di casa Capua, la principessa Conca degli Avalos. Gl’intrighi delle viceregine aggiungeano viluppi alle avventure giornaliere, e qualcuna porgeva lezioni ed esempio di scandali: nel carnevale del 1639 la moglie del Medina diede in palazzo un ballo mascherato, ove essa e ventitre delle più belle figurarono in mitologica nudità. E balli e mascherate e teatri erano spassi desiderati dai vicerè; e nelle loro entrate, o negli avvenimenti della Corte «aprivansi le cataratte del giubilo per versarne torrenti di contentezza». Alle cortigiane era vietato comparire per città in carrozza, nè in barca alla prediletta riva di Posilipo, pena la frusta; e il pernottare nelle osterie: ma grande n’era il numero, e frequentate le loro case da nobili, nuovo incentivo a baruffe e duelli e uccisioni, come le giostre, le corse, i combattimenti d’animali, le passeggiate, i corsi. Di duelli sono pieni i ricordi de’ tempi, sì da formarne il punto più rilevante nella vita de’ giovani nobili. Alcuni servivano nelle armi, i più alla Corte; ma in questa non trovavano nè splendore nè potenza quanto i Francesi; non avendo dinastia nazionale, cui consacrare la loro lealtà, riducevansi a corteggiare un vicerè straniero, effimero e subalterno anch’esso. Ricordavansi dell’età feudale, quando i loro padri somigliavansi a re? era solo per trarne frivole pretensioni; i vicerè piacevansi a mortificarli, e personaggi d’alta nascita sottoposero alle procedure e alle pene ordinarie, sostenuti per debiti, arrestati dai birri. Frequenti si ripetevano i bandi contro i giuochi di zara; eppure dai nobili avventuravansi centinaja di ducati sulle carte o sui dadi: nel 1631 Gian Giacomo Cossa duca di Sant’Agata ne perdè diecimila al tarocco; Vincenzo Capece si fece un’entrata d’oltre sessantamila ducati col prestare somme pel giuoco[62]. Oltre i ridotti privilegiati, vi servivano case particolari; e in quella del cavaliere Muzio Passalacqua, al tempo del secondo duca d’Alcala, Bartolomeo Imperiali perdè una sera seimila ducati: eppur era genovese, riflette il cronista. Altri, rotta nimicizia colla società, si riducevano in bande, che protette da chiunque non voleva esserne straziato, taglieggiavano i viaggiatori, parteggiavano in quelle frequenti sommosse, e non che i birri, affrontavano anche i soldati. Verso il 1660 l’abate Cesare Riccardo uccise il duca di San Paolo, facea scorribande attorno a Nola, e fin in Napoli entrava e usciva sconosciuto, svaligiava i procacci bruciandone le lettere, impedì il trasporto della neve, e minacciò pur quello del grano se non gli si otteneva perdono. La costoro faccenda raddoppiavasi quando, in occasione di conclave, moveansi i prelati. Per reprimerli si nominò un commissario di campagna, che dovea provvedere con piena e sommaria autorità agli attentati in Terra di Lavoro, cioè ne’ dintorni della capitale; avventavansi gride civili e monitorj ecclesiastici, bandivansi taglie fin di trecento ducati per testa, affinavansi supplizj: ma come estirparli quand’erano protetti dai grandi che di loro si valevano? e qual giudice avrebbe osato condannare un nobile e nimicarsi tutta la parentela? I vicerè medesimi accettavano regali per tollerarli; poi o il papa o il granduca li prendeano al soldo per danneggiare i nemici. Urbano VIII gittò sul Sanese il Tagliaferro con una banda d’assassini: Ferdinando II granduca prese a servigio Cesare Squilletta, detto frà Paolo, il quale andò nel Regno a reclutare quanti banditi trovava: Giulio Pezzola ben cinquecento ne adunò, coi quali mise a ferro e fuoco sin i contorni di Roma; un Pagani ne portò un migliajo a devastare Rieti e Spoleto. Un nunzio si querelava che i monasteri fossero il più solito ricovero di costoro: i Benedettini di Montevergine ad Avellino vi teneano mano: e se la giustizia violasse gli asili, ne nasceano dissensioni fra le due autorità. Sotto il duca d’Alcala, Gian Vincenzo Dominiroberto barone di Pellascianello e capobande, essendo stato côlto in una chiesa, fu condannato a morte, per quanto il nunzio e il vescovo reclamassero la santità dell’asilo, e il vulgo mormorasse aspettandone la grazia. Frequentissime rinascevano le quistioni giurisdizionali coi vescovi, caldeggianti le pretensioni curiali, e che non credevano necessario l’_exequatur_ regio alle bolle di Roma; donde gravi sommovimenti. Gli avvocati, al solito, favorivano al Governo; il popolo stava per le libertà; e il Giannone declama vivamente contro le pretensioni dei frati e preti, che in forza della bolla _In Cœna Domini_ resistevano all’aumento delle pubbliche gravezze; e dice che assolveano anche chi le fraudava, perchè imposte senza licenza papale[63]. Viceregnando il cardinale Granuela, un ladro fu côlto dai frati nella chiesa di San Lorenzo, i quali, ben bastonato, lo consegnarono ai bargelli dell’arcivescovo. Il sacrilegio era un caso misto, ove cioè presumeasi competesse il giudizio a chi _preveniva_: ma il Granuela, trattandosi d’un laico, chiese più volte il reo; e negandolo l’arcivescovo risolutamente, mandò a torlo per forza dalle carceri. L’arcivescovo fece dal vicario scomunicare chi avea tenuto mano a tal fatto, e il cardinale fece inchiostrare o stracciare i cedoloni della scomunica, e spicciato il processo, appiccare il reo; insieme ordinò al vicario uscisse dal regno, si arrestassero consultori, cursori, cancelliere, insomma chiunque avea avuto parte alla comunicazione della scomunica. In un caso simile a Milano, il papa avea preteso gli scomunicati andassero per l’assoluzione a Roma: Filippo II approvando l’operato del Granuela, vietò quest’umiliazione; onde il papa a lamentarsi e al fine contentarsi che ricevessero privatamente l’assoluzione. I giureconsulti napoletani acquistarono gran nome col propugnare l’autorità regia; e il Chioccarello laboriosissimamente raccolse in diciotto volumi le scritture favorevoli alla giurisdizione principesca contro le usurpazioni clericali, e un’infinità di decisioni, massime della Rota romana e del sacro consiglio di Napoli; quistioni, controversie, consigli, allegazioni, con citazioni interminabili e conclusioni generali. Sull’orme di lui il Giannone informa de’ giureconsulti, professione moltiplicata siccome via d’onori e guadagno allorchè l’incremento degli affari e la complicazione delle leggi portò ad aumentar giudici, ruote, curiali. Le decisioni di Vincenzo De Franchis, reggente del supremo consiglio d’Italia, erano citate per tutta Europa. Quei paesi diedero anche pensatori robusti, degni di stare fra i rinnovatori della scienza, siccome Bernardino Telesio, frà Giordano Bruno, frà Tommaso Campanella, dei quali a lungo parleremo (Cap. CLVIII). Quest’ultimo si occupò assai di politica e d’economia, favorendo la dominazione papale e la spagnuola; eppure è contato fra i martiri della libertà e dell’indipendenza nazionale. Perocchè da astrologie, dall’Apocalissi, da profezie di santa Brigida, dell’abate Gioachino, del Savonarola, di san Vincenzo Ferreri indusse che il 1600 porterebbe grandi rivolture nel regno di Napoli. Parlasse egli persuaso, o adoprasse le armi del tempo, trovò ascolto (1599), o di lui si valsero i maneschi per tentare novità in Calabria. Frà Dionigi Ponzio di Nicastro avea rotto la testa a un converso, disobbedito al superiore che lo relegava in un convento, preso le armi con banditi per vendicare l’uccisione d’uno zio: e fermato a Stilo, patria del Campanella, e udite le profezie di questo, le divulga in modo che sembra un turcimanno di lui, come altri banditi de’ quali il Campanella valeasi per combinare concordie. Fu dunque creduto cospirassero per la rinnovazione politica del paese, predicando una repubblica di cui sarebbero centro Stilo, e mezzi di riuscita la parola di trecento frati e quattro vescovi congiurati, e le armi di mille ottocento briganti; uccidendo chiunque renuisse, e nominatamente i Gesuiti. Il vulgo si persuade facilmente che un’oppressione venuta al colmo sia vicina a finire: le rivalità della Francia, che fomentava i malcontenti e gli ambiziosi, porgeano speranze; i cospiratori non isdegnarono ricorrere al bascià Cicala: ma eccoli prevenuti; arrestati quei che non poterono camparsi; condotti a Napoli sopra le galee, due furono squartati lì lì per esempio; altri arsi, impiccati, messi al remo. Ai nostri giorni nella Vallintelvi sul lago di Como fu ordita una sollevazione da pochi preti contro Napoleone, certo men seria di questa, e i preti colti furono mandati al patibolo, quando appena meritavano l’ospedale dei pazzi. Ma allora gli ecclesiastici erano protetti dalle immunità, e i frati e il Campanella impetrarono d’essere processati dal Sant’Uffizio, anzichè da’ patrj tribunali. La cospirazione ebbe gli effetti soliti; fughe, morti, multe; il parlamento volle attestare la fedeltà del Regno col decretare al re un donativo di un milione ducentomila ducati, e di venticinquemila al vicerè che aveva campato il paese da tanto pericolo![64] I guaj di Napoli erano comuni alla Sicilia, due cadaveri legati al medesimo patibolo. Si agitavano ancora le sorti italiane nel Cinquecento, e già quelle dell’isola erano state decise, toltale l’indipendenza, e anticipati i mali del servaggio, del quale parvero inseparabili le fami, le sollevazioni, i partiti di famiglia. Ugo di Moncada storico, il primo che unisse il titolo di vicerè a quello di capitano generale del regno e delle isole, vide il popolo levarsegli in aperta ribellione, e lo represse atrocemente. Ettore Pignatelli mandato a scambiarlo, non potè indur pace, anzi col rigore esacerbò i tumulti a Catania, poi peggio a Palermo, ove Gian Luca Squarcialupo congiurò (1517), insorse, uccise i consiglieri, mise a tumulto e ruba tutta l’isola; nè il vicerè seppe opporvi che un’altra congiura, mediante la quale Guglielmo Ventimiglia riuscì a trucidare lo Squarcialupo e moltissimi faziosi: gli altri furono mandati al supplizio alla spicciolata. Ne crebbero i rancori, e gli inveleniva Francesco I; Pompilio Imperatori co’ suoi fratelli, esclusi dal perdono, s’accordarono con Marcantonio Colonna per impadronirsi dell’isola, ma scoperti, diedero altre vittime ai patiboli. A Sciacca intanto fra i Luna e i Perollo ostinavasi da mezzo secolo una nimicizia, che poi proruppe in guerra aperta (1529) e ferocissime vendette, finchè i Luna dovettero rifuggire a Roma presso Clemente VII loro zio. Nè mai l’isola s’incallì al giogo: poi rinnovavansi ogni tratto le correrie de’ pirati, le eruzioni dell’Etna, le devastazioni ora de’ masnadieri ora de’ soldati; sicchè il commercio interno era scomparso, le campagne a mare spopolate e incolte; e dopo speso a fabbricare fortezze, a munir coste, a regalare i soldati che difendeano, toccava di vedere il paese devastato nella peggior maniera. Molto costava alla Sicilia il dominio delle isole, cioè le Gerbe, Malta, Gozo e la conquistata città di Tripoli; finchè Carlo V non cedette Malta ai cavalieri di san Giovanni, che dovevano fare ogni anno omaggio d’un falcone al vicerè di Sicilia. Questa diede denari ed uomini per fortificarvi la Valletta, e ajutare nella spedizione di Tunisi Carlo V, il quale al ritorno approdatovi, in Palermo giurò osservarle i privilegi, ed ebbe un dono di ducencinquantamila scudi. In fatto rimanevano intatti i parlamenti, col diritto di votare; e i re giuravano la costituzione, di modo che la nazione rimaneva distinta dal re. Fin dal 1513 vi si era introdotta la santa Inquisizione, non repulsata come in terraferma, anzi creduta opportuna contro le esuberanze dei magistrati, talchè molti alla giurisdizione di quella si sottoponeano volontarj[65]. Presto cominciò ad operare, non solo indipendente ma come superiore al Governo; scomunicò perfino la gran corte e l’arcivescovo, e convenne che il governatore duca di Feria mandasse mille armati (1602) contro il palazzo ove i padri inquisitori s’erano afforzati. Non per questo si frenarono, e nel 1641 diedero il primo spettacolo d’un _auto-da-fè_ sopra un francese Verron calvinista, un moro battezzato e relapso di nome Tedesco, e un Tavolara calabrese agostiniano. Frà Diego La Matina, uomo erculeo, condannato alla galera dal Sant’uffizio, si adoperò a pervertire i compagni; messo poi in carcere, spezzò le manette, e avventatosi sull’inquisitore venuto alla visita, l’uccise: per ciò condannato al fuoco, fu arso pubblicamente il 1658. Nel 1724 è memoria del supplizio di Gertrude Maria Cordovana, pinzochera Benedettina, e frà Romualdo laico agostiniano, rei di quietismo. Il re aveva nell’isola anche autorità pontificale, in forza della così detta monarchia; e gravi cozzi ne nasceano colla Corte romana, attesochè i vicerè spesso ne abusavano, volendo a quel tribunale trarre le cause direttamente (_per viam saltus_), e non solo per gravame (_per viam gravaminis_); vi metteano giudici secolari; non soffrivano d’appellarsene a Roma; e Pio V e Gregorio XIII n’ebbero lunghe quistioni con Filippo II. Nel 1558 vi fu istituito il tribunale del concistoro, poi riformati internamente i giudizj, coordinando gli appelli. Caddero allora i sommi uffizj della corona; e al gran giustiziere, al gran camerlengo, ai gran cancellieri si surrogarono i presidenti della gran corte, del concistoro, del patrimonio: restavano il gran siniscalco per mera onoranza, e il protonotaro che nelle assemblee prendea la parola a nome del re. La feudalità, che Ruggero e Federico II si erano affaticati a svellere, vi fu consolidata dagli Aragonesi, che nella lotta voleano essere sostenuti dal favore dei Grandi. Re Giacomo alla sua coronazione creò quattrocento militi; più di trecento re Federico, e assai conti; e forse tre quarti de’ Comuni legaronsi in feudi[66]. Carlo V introdusse anche duchi e principi; e la nobiltà feudale vi conservava molta potenza. Il principe di Butéra, primo titolato di Sicilia, nelle solennità pubbliche inalberava lo stendardo regio, come succeduto ai gonfalonieri di Sicilia; poteva anche armare una compagnia di cavalli con trombe, tamburi, insegne, al modo stesso delle compagnie reali. Alcuni baroni univano in sè otto, dieci, fin venti signorie differenti. Tal era «Luigi Ruggero Ventimiglia e Sanseverino dei Normanni, degli Svevi e d’Aragona, per la grazia di Dio XXII conte di Ventimiglia, marchese di Lozana, delle alpi Marittime, conte d’Ischia maggiore, Procida, Lementini, XVIII conte-marchese di Geraci, principe di Castelbuono e di Belmontino, marchese di Malta e di Montesarcio, duca di Ventimiglia, barone di San Mauro, di Pollina, Bonanotte, Rapa, Calabrò, Rovitella, Miano, Tavernola, Plocabiava e Mili, primo conte in Italia e primo signore nell’una e nell’altra Sicilia, grande di Spagna di prima classe, principe del sacro romano Impero, gentiluomo di camera di sua real maestà con esercizio». Ercole Michele Branciforti e Gravina, oltre i diciannove feudi che componeano la signoria di Butera, era principe di Pietraporzia, duca di Santa Lucia, marchese di Militello, Val di Noto e Barrafranca, conte del Mazzarino, Grassoliato, Raccuja, barone di Radali, Belmonte, Pedagaggi, Randazzini co’ suoi casali e pertinenze, signore delle terre di Niscemi, Gran Michele, del lago Biviere di Lentini, dei feudi di Braccalari, Gibilixeni, Sijuni colla torre di Falconara[67]. V’ebbe anche in Sicilia vicerè benefici, e soprattutto fastosi. Garzia Toledo a Palermo fece costruire il molo e la via principale, un arsenale a Messina, una fortezza in Malta, due castelli ad Agosta. Marcantonio Colonna crebbe il fabbricato dell’Università di Catania, abbellì di porte Palermo. Ma quando moltiplicavansi qui pure chiese sontuosissime e di mal gusto, divenivano inservibili i porti, impraticabili le strade; invano Palermo domandava un prestito per fare una gettata allo stupendo suo porto; invano ripeteasi che «per non vi esser ponti in molti fiumi, ogni anno si annegano infinite persone, dal che nasce la perdizione di tante misere anime... in disservizio di Dio ed aggravio della coscienza di sua maestà». — Il vicerè (scriveva il residente pel granduca) usa di tutti gli artifizj per cavar denari assai di questo regno, che è omai ruinato affatto... Il cattivo governo che hanno tutte le città, le conduce a termini disperati...; o per un verso o per un altro, voglion danari; cosa che atterrisce vedendo sete inestinguibile... Le fortezze sono omai state riedificate tante volte; perchè il vicerè del regno e altri ministri hanno avuto, quasi d’ordinario, per fine di far ruinare quelle che ha fatto l’altro, e di nuovo, secondo il suo parere, far riedificare. Il che non è meno d’incredibile spesa alle città del regno, che sia di comodità a’ ministri d’arricchirsi». La prosperante industria degli zuccari perì dacchè si mantenne il dazio sullo asportato, mentre ricevevasi quello d’America. Anche il mantenere la Goletta in Africa porgea pretesto ai vicerè di rincarire e incettare il vino, gli olj, i salumi, il grano, che poi invece si spedivano tutt’altrove. Insomma vuolsi che, ne’ ducenventisette anni della dominazione vicereale, l’isola pagasse a Spagna mille centrenta milioni di ducati, cioè da cinquemila milioni di lire. Poi tra le morìe, le fami, e le enormi esazioni sopraggiungevano irreparate le correrie dei Turchi, contro i quali indarno si mantenevano moltissime galee. Qual meraviglia se il popolo ogni tratto tumultuava? e la parola di quelle inutili sollevazioni era _pane_. Non dimentichiamo come questi mali e questi lamenti fossero comuni ad altri paesi, al par de’ vizj che li producevano. Sotto i suoi duchi la Savoja dovette soffrire senza misura. In Francia nell’assemblea del 15 gennajo 1648 l’avvocato generale diceva: — Ecco dieci anni che la campagna è in ruina, i paesani ridotti sulla paglia dopo venduti i mobili per pagare imposte a cui non possono soddisfare; milioni d’anime sono obbligati a vivere di crusca e avena, e non isperar protezione che dalla propria impotenza. Questi sciagurati non possedono altro più che le proprie anime, perchè queste non poterono esser vendute all’asta. Gli abitanti delle città, dopo pagato la sussistenza e i quartieri d’inverno, le tappe e gl’imprestiti e il diritto reale e la conferma, hanno ancora la tassa de’ benestanti... Tutto il regno è spossato, esausto da tante imposizioni straordinarie che producono un’inanizione, i cui rimedj sono insopportabili quanto il male...». Dove agli statisti non isfuggirà come dappertutto l’arbitrio dello smungere i popoli rovinasse i paesi; mentre l’Inghilterra col solo diritto di esaminar le spese e determinare l’imposta, giunse al massimo grado di libertà civile. CAPITOLO CLII. Il Fuentes. L’Ossuna. Congiura del Bedmar. Masaniello. Il più memorabile fra i governatori di Milano fu don Enrico de Azevedo conte di Fuentes (1601-10). Superbo e dispettoso, pubblicamente rimbrottava i magistrati; coll’immediato intervenire imbarazzava l’amministrazione e la giustizia; infliggeva bastonate e galera senza udir il senato, mentre salvava gravissimi malfattori; negl’impieghi poneva i più striscianti, ma il dar gli stipendj considerava come un favore, sicchè quei che non poteano averli coll’andargli a versi, se ne rimpattavano col lasciarsi corrompere; regali non accettava, ma valeasi a talento del denaro pubblico, e lasciava che i suoi secretarj ricevessero e malversassero; per spie tenevasi informato di ogni minuzia, ammetteva ognuno all’udienza, ma dopo le prime parole interrompeva e rinviava insoddisfatti. Volle accattar fama col costituirsi avversario al re più rinomato del tempo, Enrico IV di Francia; dicea spesso morrebbe contento se morisse guerreggiandolo; quando l’udì assassinato ne prese tal gioja, che, ricevuto il corriere a mezzanotte, fece levar il confessore e tutti i domestici per annunziare l’evento. Enrico IV aveva dovuto sostener la guerra per condurre la pace; ed il Fuentes perpetuava la guerra senz’altro titolo che di turbar la pace. Ebbe continuamente in piedi un esercito fin di trentamila uomini, alimentati dai sudditi che doveano darvi alloggio e una lira per uomo e due per cavallo. Ciò intitolavasi prestito e anticipazione, per soddisfar al quale s’imponeva poi una tassa, ed i sudditi doveano bensì pagarla ma non ricevevano alcuna restituzione. Nel trattato di Lione colla Francia erasi posta la clausola che il Fuentes non sarebbe obbligato a licenziar le truppe che aveva in armi volendo adoprarle ad altre spedizioni: ond’egli con tale esercito teneva in isgomento i vicini, mentre ripeteva solenni proteste di pace, ingelosì il proprio re, che invano gli ordinò di mandare quell’esercito ne’ Paesi Bassi: perchè i decurioni milanesi faceano lamento delle nuove gravezze, e’ li cacciò prigioni; perchè il re lo disapprovava d’aver usurpato le attribuzioni del senato coll’applicare pene, rispose: — Voglio far a modo mio; e chi ne preferisce un altro, può venir a prendere il mio posto, e lasciarmi tornar a casa». Fondato sull’averla l’imperator Venceslao investita a Gian Galeazzo, il Fuentes pretese togliere la Lunigiana al granduca, e spedì armi, mentre lui e i marchesi di Malaspina citava alla camera di Milano perchè rilasciassero quelle giurisdizioni. Il granduca rispose coll’armarsi, e il Fuentes desistette. Però, dacchè Francia ebbe rinunziato a Saluzzo, i politici conobbero che l’Italia rimaneva in arbitrio della Spagna[68]; e il Fuentes volle profittarne subito coll’occupare il marchesato del Finale, posto fra il Saluzzese e Genova, e che metteva la Lombardia in comunicazione col mare, sicchè potrebbe avere truppe di Spagna senza passare pei Grigioni o pei Veneziani. Già l’Albuquerque avealo invaso nel 1571 durante una sollevazione, fingendo temere non l’occupassero i Francesi; ma l’imperatore che n’era signor diretto, lo ridomandò col patto di tenervi guarnigione tedesca. Ora possedendolo l’ottagenario Alessandro Del Carretto, il Fuentes se lo prese con Monaco e Novara, per quanto i principi esclamassero, e sovra tutti il duca di Savoja che da un pezzo v’avea la gola. All’estremità del lago di Como il Fuentes fabbricò un forte detto dal nome suo, per dominar il passo verso i Grigioni, allora padroni della Valtellina, e collegatisi colla Francia e con Venezia. Un altro ne voleva munire a Soncino per intercidere la comunicazione fra Venezia e gli Svizzeri; al tempo stesso che il vicerè di Napoli preparavasi a fabbricarne uno a Longone, che avrebbe comandato a Portoferrajo e a Livorno de’ Toscani, a Civitavecchia del papa, alla Corsica di Genova; oltre che da un forte avanzato in mare imporrebbe agli Olandesi ed Inglesi che frequentavano Livorno, ed agevolerebbe i tragitti di Spagna in Italia. Insomma il Fuentes, dice il Boccalini, «più che al governo de’ popoli, attese alla dannosa agricoltura di seminar gelosie e piantar zizzanie»; ma lo scusa l’essere stato «in Italia un portento non più veduto, officiale spagnuolo nemico del denaro»[69]. Gli fa riscontro don Pedro Tellez y Giron duca d’Ossuna, uno de’ signori della corte spagnuola più rinomati per vivacità ed ingegno. Coi frizzi suoi disgustò Filippo III, il quale lo chiamava il gran tamburo della monarchia; rimosso dalla Corte, guerreggiò in Fiandra, dove Enrico IV dilettavasi dell’ingegno di lui, e Giacomo I di disputar seco sulla lingua latina. Richiamato e colmo d’onori, persuase a riconoscere l’indipendenza dell’Olanda, si oppose alla cacciata dei Mori, ma questa tolleranza e alcune arguzie il posero in briga colla santa Inquisizione. Cansatosene, fu mandato vicerè in Sicilia (1610). Accorto, suntuoso, spirito forte, orditore d’intrighi e tessitore di novità, disposto a valersi di tutta l’autorità concessagli e più, come tutti di quel tempo, adoperava mezzi triviali a disegni giganteschi. Teneva allegra la gente, spesso aperto il teatro, oltre le maschere, il carnevale mandò fuori quattro carri di vino e di prosciutti e di camangiari, che lasciò saccheggiar alla plebe: una volta ordinò che _tutti_ gli abitanti di Palermo il giorno di carnasciale uscissero in maschera; un’altra i magistrati di Messina e tradurre in ferri a Palermo. Avendo fatto prendere e appiccare un prete delinquente ricoveratosi in chiesa, l’arcivescovo lo dichiarò incorso nelle censure, ed egli piantò la forca davanti alla porta del vescovado, minacciandola a chiunque entrasse o uscisse, e fu forza assolverlo. Represse i masnadieri e le correrie dei Turchi, rialzò le vecchie fortificazioni, ed ebbe principal parte alle spedizioni del 1613 e 14, in cui la Spagna si segnalò di vittorie: da cinquantamila Turchi fe schiavi, liberò da diciassettemila Cristiani, delle prede usando gran larghezza ai poveri. Richiamato in Ispagna (1618), fu presto mandato vicerè a Napoli, e venutovi con dodici galee, di cui tre eran sue particolari, e con 200 persone, nella sua prima grida diceva: — Fra gli altri disordini sappiamo esser quello del disprezzo che si fa dalla nobiltà alla plebe, donde l’odio di questa verso di quella, e detrimento alla tranquillità pubblica. Particolarmente dispiace al popolo d’intendere alcuni nobili e titolati servirsi, parlando del vulgo, della parola di _canaglia_. Ciascuno stia nel suo dovere; il vulgo rispetti la nobiltà, e questa si astenga di disprezzarlo... Come in questo regno sono molti gli ecclesiastici e spesso infratellandosi e insinuandosi troppo con secolari, dimenticano l’obbligo che devono al loro carattere, e si fan lecito di parlare in pubblico con petulanza e arroganza di quelli, a’ quali devono onore e rispetto, col pretesto di aver diritto a censurare i vizj, sappiano che, essendo anch’essi sudditi al re, avremo particolar cura che siano rispettati o castigati secondo si comporteranno». Parole che fanno bel sentire ai vulghi. Represse gli ecclesiastici che speculavano sui testamenti; cassò una tassa, concessa ai Gesuiti, su ciascuna libbra di pane; impedì s’impiantasse l’Inquisizione spagnuola sul continente. «Fece buttar un bando, sotto pena della vita ai soldati, che niuno possa cacciar fuori la spada per far briga; e di cinque anni di galera a chi quelli spartisse, non essendo soldato»; e mandò alla forca due fratelli soldati che per difendersi poser mano alle spade. In una festa si fa tumulto? ed esso invia alla galera due litiganti: passando pel mercato, ode il popolo lamentarsi d’un vinajo o d’un gabelliere? esso gli fa dare cinquanta bastonate: un forzato gli grida che il suo aguzzino lo tiene in ferri più del tempo prescritto? il vicerè fa sciogliere il galeotto, e metter al suo posto l’aguzzino. Giustizia sommaria, che Dio ce ne scampi. Due ciarlatani spacciavano contravveleni; e l’Ossuna ordina che entrambi prendano veleni, poi i loro antidoti; uno muore, quel che sopravvive ha una collana d’oro e privilegi. Un cavadenti che gliene ruppe uno in bocca, sentenziò alla galera. Una volta ad una commedia soverchiando la calca, comanda escano tutti, pena cinque anni di galera agli ignobili e cinque di relegazione ai nobili. In un ricevimento di gran nobili s’introduce uno da meno, ed egli il fa prendere e bastonare lì lì. Chiamavasi anche in camera gl’imputati, e con parole dolci o con severe ne traeva confessioni, meglio che colla corda, dice il cronista, e sopra quelle li condannava; se non riuscisse, dall’aguzzino faceva applicar le bastonate in sua presenza. Poneva suoi creati in uffizio nelle varie città, dove rubavano a man salva. Venuti quei di Reggio a lamentarsi d’un Aledo che gli assassinava, li trattò di vigliacchi e minacciò di galera perchè sparlassero d’un suo fidato; talchè, sgomentati i popoli dal portar querele, «ad essi uffiziali restò scala franca di potere assassinare li poveri popoli, e rubavano e assassinavano impune il regno, tanto che non si può scrivere». Essendo poi esso Aledo venuto a Napoli con ottantamila ducati e di molte gioje, il duca gli disse: — Fanno di bisogno a S. M.», e spogliatolo con beffarda giustizia, lo rimandò «all’officio a far peggio»[70]. Il principe della Conca e il marchese di Campolattaro, da lui deputati a visitar i castelli del regno, smunsero per proprio conto ducentomila ducati, nè si pose mente ai reclami; anzi il Campolattaro, accusato pure d’aver procurato l’uccisione d’un frate, fu spedito generale contro i sollevati delle Fiandre. La costui moglie guadagnava ducati a migliaja coll’impetrar favori a questo e a quello. Una volta furono côlte galee turche cariche di zuccaro, che fu venduto a un droghiere. Un turco, se lo liberassero, promise rivelare un gran segreto, e fu che in quello zuccaro erano miste assai gioje e monete, destinate al gransignore. Si arresta dunque il droghiere, per quanto protestasse non aver nulla trovato; nè di liberarsi vide egli altro modo che mandare alla Campolattaro una cedola di mille ducati. L’Ossuna citatolo, mostrógli quella cedola, qual prova di sua reità, e per quanto giurasse che i suoi aveano messo insieme quel denaro a gran fatica, il fece metter alla corda, «ligato a un funicello nuovo, che mentre stiede appeso, sempre voltò intorno; e persistendo tal tormento per un’ora e mezzo, sempre invocando il nome della beata Vergine per ajuto, nè dicendo altro alla interrogazione fattagli, fu disciolto e liberato». Numerosi corsero allora i processi di fatucchieria, fra cui citeremo quest’uno. La baldracca d’un prete confessò a questo una malìa fatta da donna Vittoria Mendoza perchè l’Ossuna non amasse altri che lei e sua figlia e il genero; che di fatto erano saliti in grandissimo favore ed orgoglio. L’Ossuna, uditone, fu da donna Vittoria, e col pugnale la obbligò a confessare, indi riferì l’avvenuto alla propria moglie, attribuendo tale scoperta alle orazioni di lei, la quale non rifiniva di ringraziar Dio che avesse rotto cotesto fáscino. L’accusata però era figlia del duca d’Alcala, moglie del duca d’Ozeda, in parentela con grandi di Spagna; onde l’Ossuna, che del resto l’amava, non pensò a punirla, eseguendo la legge sopra le altre streghe e loro mariti (Zazzera). Siffatte miserie erano intercalate da suntuosissime feste, perocchè altrettante Corti s’aveano a Milano, a Palermo, a Napoli, con ambasciadori, rappresentanze, fasto, protezione di lettere. A quella del conte di Lemos, fu recitato il _Don Juan_ dello spagnuolo Tirso de Molina, che tradotto in italiano, con una nostra compagnia passò a Lione, città mezzo italiana, dove lo conobbe e imitò insignemente Molière. Alla corte dell’Ossuna vivea Quevedo, specie di Voltaire tutto arguzie e buon senso, col quale temperava la foga dell’Ossuna, a cui serviva poi come ministro segreto in tutta Italia. Moltiplicavansi dunque le rappresentazioni teatrali, e cavalcate splendidissime, processioni solenni, corse sul mare, festini, mascherate, cuccagne, giostre, tutto accompagnato da rinfreschi e confortini e ricchi donativi; e spesse volte lasciavasi alla plebe e ai cavalieri da saccheggiare l’apparecchio. Or dodici carri, allestiti ciascuno coi più ghiotti manicaretti, da valere fin cinquecento ducati l’uno, son disputati fra trecento uomini, nudi in calzoni e tinti di pece, e saccomannati, «che fu quanto nuova che bella vista, e con molte grida ed allegrezza del popolo»; or novanta dame vestite da Ischiote vengono in palazzo a portar regali ciascuna, or s’imbandisce per diecimila persone, e singolarmente «per venticinque cortegiane le più famose di Napoli, servite regalissimamente; e volle S. E. andar a vedere e burlare con loro». Talvolta era la viceregina che dava un ballo tutto di signore, vestendole essa del suo; talaltra si rappresentavano in quattro distanze della città le quattro stagioni con emblemi e i frutti e le occupazioni da ciascuna. Qualora il vicerè o la viceregina intervenissero a solennità, erano presentati di molti panieri di frutte e confetture, ed essi le facevano gettar al popolo, il quale vi si avventava «gran furia, non senza gravi pugni e calci, dandosi fra di loro come cani arrabbiati, con gran riso di S. E. e delle dame»; e per ravvivare quello spasso, S. E. buttava una collana d’oro fatta a pezzi, o denaro. Tutto veniva ringalluzzito dal buffone del vicerè, che ora da lui era vestito di toga per cuculiare la magistratura, ora eletto a decidere di litigi ne’ quali alle grottesche sentenze non mancava mai di soggiungere una buona mancia per sè. Con ciò l’Ossuna blandiva la plebe; il suo stipendio divideva tra i bisognosi, e spesso con propria borsa liberò imprigionati per debito; ben ventisette baroni mandò a morte; abolì alquanti balzelli tediosi al vulgo: colla propria spada tagliò la bilancia a un grascino, che sul mercato pesava le civaje per tassarle, dicendo, — I frutti della terra son dono di Dio e premio alle fatiche del povero». Pensate se i lazzari lo portavano in palma di mano! Frattanto nel cuor della pace soldava Francesi e Valloni e costruiva navi; tenne ben venti galeoni grossi e altrettante galee, e sedicimila soldati, e soccorse gli Austriaci in Lombardia e in Germania. Tutto ciò senza vender nulla del patrimonio regio, ma con esazioni straordinarie; levò prestiti forzati, staggì gli averi di negozianti forestieri, alloggiò presso i privati le truppe, le quali rubavano a man salva perfino gli arredi di chiesa; e si vantò d’aver vantaggiato l’entrata di un milione e centomila ducati. Questo, e le sterminate ricchezze, e le potenti parentele «gli fecero sorgere gran libidine di regnare, non più come ministro d’un gran re, ma come sovrano d’un gran regno» (Leti); e cercò intendersi coi potentati d’Italia, massimamente con Carlo Emanuele, irrequietissimo avversario dell’Austria, forse con Venezia, cogli Uscocchi, coi Turchi, certo con Francia. Ma questa, per quanto volonteroso di turbar il Napoletano, pare non gli abbia dato orecchio, forse perchè temeva non giocasse a due mani. Venezia era malvista dalla Spagna, non solo come emula vicina e come repubblica, ma perchè, massimamente dopo la chiassosa sua lite col papa, rappresentava l’opposizione, cioè le idee protestanti; si mormorava desse appoggio agli Acattolici, trattasse coll’Olanda, spedisse denari e munizioni ai Riformati nella guerra dei Trent’anni[71]; onde l’ambasciadore spagnuolo concludeva: _Aut Roma, aut Carthago delenda est_. Uscocchi, che in illirico significa fuorusciti, si chiamavano i cristiani che dalle provincie man mano invase dai Turchi, dalla Croazia, dall’Albania, dalla Dalmazia, erano rifuggiti sulle coste meno accessibili dell’Adriatico: molti aveano avuto ricetto da un Ungherese, signore di Clissa, fortezza inespugnabile sopra Spalatro sulla costa Dalmata; e di là correano addosso agli Ottomani, sinchè ne furono snidati. Segna (_Zengh_), dentro al golfo del Quarnero, tra fondi inaccessibili a navi grosse, era pretesa dagli Ungheresi e minacciata dai Turchi; onde l’imperatore per conservarsela vi lasciò stanziare gli Uscocchi. Quivi non potevano essi vivere che corseggiando, abilissimi fra quell’andirivieni di isolotti e di seccagne; e dal prendere le navi turche passarono a molestare anche le cristiane; e crescendosi con quanti Italiani od Austriaci volessero esercitar il coraggio o continuare i delitti, posero a sacco le città di Dalmazia, e si rideano de’ legni armati a loro danno. Il papa, altri potentati d’Italia e l’imperatore da gran tempo querelavansi che Venezia avesse usurpato come proprio l’Adriatico, anzichè lasciarlo libero a tutti i costieri; ma giacchè se ne intitolava signora, lo tenesse almeno sbrattato: — Impedisca le incessanti molestie ai sudditi nostri», intimavale il Turco: i cavalieri di Malta e quei di Santo Stefano ne coglieano pretesto di predar le navi veneziane, come rappresaglia. Venezia doleasi all’imperatore Massimiliano; e questo impiccava sì qualche Uscocco, ma le costoro braverie trovava opportune a reprimere i Turchi; onde tolse a proteggerli alla scoperta, crescendo baldanza alle loro devastazioni; e in guerra atroce gareggiavasi di supplizj come quando ognuno trovasi per difesa ridotto a farsi giustizia da sè. I Veneziani, non più sicuri nel proprio golfo, e pressati dalla Porta a tor di mezzo que’ masnadieri, entrarono nel Friuli austriaco, assediarono Gradisca (1617), demolirono varie borgate a mare, coviglio de’ pirati, e si allearono colle Provincie Unite e col duca di Monferrato nemici all’Austria. Era succeduto nel governo del Milanese don Pier di Toledo, austero, subito al comandare, fiacco al far eseguire; che tolse di carica il grancancelliere benchè nominato dal re, nulla a questo badando allorchè ordinogli di ripristinarlo. Ricco di coraggio non d’abilità, egli fu lieto d’un’occasione di guerra, ed occupa Vercelli, mentre il vicerè Ossuna spinge sue galee nell’Adriatico, e presi alquanti legni veneziani, ne mena trionfo (6 7bre), ed assume per divisa il cavallo col motto _Vittorioso in mare e in terra_. La pace di Parigi mette in cheto le cose, restituendosi le città all’Austria, che allora frenò gli Uscocchi, trasportandone la più parte nel territorio di confine. Avrebbe essa dovuto rendere anche le prese e pagare un grosso compenso, ma rimandava da oggi in domani, e versava sopra il Toledo e l’Ossuna la colpa del non voler restituire Vercelli e le galee, nè sbandare le truppe. Infatti l’Ossuna, od Alfonso de la Cueva marchese di Bedmar ambasciadore ispano a Venezia, fecero scrivere, probabilmente dal Welser, uno _Squittinio della libertà veneta_, ingiuriosissimo a Venezia: Paolo Sarpi, richiesto dalla Signoria a rispondervi, esso sì caldo impugnatore di Roma, cagliò, onde si ricorse alle penne dell’olandese Gross Winkd e del genovese Rafael della Torre. L’Ossuna mostrava anche a Paolo V come i Veneziani non fossero da tenere per cristiani, giacchè spesso aveano fatto pace e trattati coi Turchi, cacciato i Gesuiti, avversato al papa, favoriti gli eretici di Francia e d’Olanda. Così invelenivansi gli umori e stavasi già in sospetti, quand’ecco il consiglio dei Dieci fa arrestare ed uccidere alquanti stranieri. Che è, che non è, il popolo, nel bujo di quelle arcane processure, bucina che i presi e i morti sieno a centinaja; essersi scoperta una congiura, diretta a mandare in fiamme la città, in rovina la repubblica, e parteciparvi molta nobiltà: e perchè il marchese di Bedmar andossene quei giorni dalla città, si presunse autore dell’ordita. Congetture in aria, tanto più che colla Spagna non s’interruppero le relazioni, e che la signoria non pubblicò veruna informazione, solo ordinando ringraziamenti a Dio per la repubblica salvata. Questo mistero pensate a quante ciancie diè luogo; gli sbizzarrimenti de’ novellieri furono adottati dagli storici; e restò la credenza che il duca d’Ossuna avesse tramato d’annichilare Venezia, mettervi il fuoco, trucidare il doge e i senatori, occupare la terraferma; intendersela a tal uopo con molti Francesi, col Toledo, col Bedmar; già tutto esser sullo scocco, quando il caso o un traditore lo sventò. I critici successivi non poterono venirne al chiaro: ma sembra che una trama fosse in fatto sul telajo, opera di alcuni mercenarj sbanditi da Francia al cessare delle guerre civili, e postisi al soldo di Venezia, e massime di un Giacomo Pierre normando, uom di mano e pratichissimo corsaro, il quale, per guadagnar compagni, prometteva ajuti dalla Spagna: ma la cosa fu sul principio scoperta e sventata colla morte di poche persone[72]. Ma la Spagna v’era implicata veramente? I Governi d’allora davano orecchio e mano a chi tentasse nuocere ai loro nemici; e sembra provato non fosse soltanto millanteria de’ congiurati l’appoggio di essa, benchè la prudenza dei Dieci il dissimulasse onde evitare una rottura. Il Bedmar passava per uno degli ingegni più aperti e istrutti della Spagna, versatissimo nella storia, di modi gentili, di larghi accorgimenti, sicchè rendevasi caro e stimato, e da Venezia fu tolto per portarlo governator della Fiandra, e poco poi cardinale. Ma l’Ossuna vedemmo come spiasse ogni via di pregiudicare Venezia, e come si divincolasse per sottrarsi alla pace; anzi si lasciava intendere di volerla fra poco diroccare; se poi con arti tali, io non l’oso asserire. Certo egli, arrischiandosi viepiù perchè aveva sposato una figlia al figliuolo del duca di Lerma, ministro onnipotente di Filippo III, non dissimulava le ambizioni, graziava condannati a morte, abbondava in limosine e donativi, sorreggeva la plebe contro la nobiltà, blandiva Giulio Genovino eletto del popolo, fazioso uomo che avrebbe côlto volentieri il destro di fare man bassa sui nobili e ottenere al popolo parità di privilegi. Contro l’Ossuna esclamavano dunque i preti di cui non rispettava le immunità, i nobili di cui reprimeva gli abusi, i pii che scandalezzava coi disciolti costumi e cogli scherzi irreligiosi. I principi d’Italia in gran sospetto domandavano fosse rimosso[73]: ma come averne ragione? La Corte gli mandò l’ordine di disarmare, ed esso invece ingrossò le truppe col pretesto d’una spedizione contro i Turchi; e poco dopo fidandosi delle spagnuole, le sparpagliò nelle provincie e sul littorale, e prese al soldo Francesi e Uscocchi. Udendo poi che la Corte gli mandava un successore, disse: — Lo riceverò con ventimila uomini»; e a sua moglie che gl’insinuava d’obbedire, gittò in faccia un piatto d’argento: raddoppiò intrighi col maresciallo Lesdiguières e con Carlo Emanuele; riconciliossi i nobili con cariche e doni, i Gesuiti col confessarsi da loro, la ciurma col lasciare impuniti i misfatti: alla Corte imperiale promise soccorrere con ventimila fanti, duemila cavalli e due milioni in oro se gli fosse prorogato il viceregno; a Madrid profondeva denaro e promesse, e mostrava il pericolo di rimoverlo mentre raffittivano minaccie Venezia e il Turco; avendo chiamato qui suo figlio colla sposa, li festeggiò senza misura, messe fuori le gioje reali, si pose in capo la corona, e domandò ai circostanti se ben gli stesse; ma il principe di Bisignano gli rispose: — Sta bene, ma in fronte al re»[74]. Il cardinale Borgia, destinatogli successore (1621), dovette dunque di sorpresa occupar Napoli; «nottetempo entrò in Castelnuovo; la mattina si cominciarono a sparare tutte le artiglierie piccole e grosse, e il duca si svegliò alla tempesta di tanti tiri, ed ebbe a morir di dolore». Così l’agente del duca d’Urbino, che soggiunge: — Questo è uno dei grandi matti che abbino mai governato questo regno... Si porterà seco ducentomila ducati d’oro, senza quel che ha dissipato e dato via...»[75]. Reduce a Madrid, il debole e corrotto Governo l’accolse magnificamente e quasi in trionfo: ma cambiatisi quell’anno stesso re e ministro, egli fu messo prigione[76] co’ segretarj e gli amici; in un processo di tre anni i Siciliani deposero tanto bene di lui, quanto male i Napoletani; infine s’intese ch’era cascato d’apoplessia. Suo figlio, alcuni anni dopo, venne vicerè in Sicilia. A questi incidenti teneva occhio e aggiungeva importanza la Francia, la cui rivalità con Spagna fomentava i malumori, assicurando un appoggio a chiunque si levasse contro di questa. E principalmente nel regno di Napoli essa diede mano più volte a insurrezioni[77]; e nel 1644 il marchese Saint-Chaumont, ambasciatore pel Cristianissimo a Roma, scriveva distesamente di trame a favor di un signore italiano, che non voleva esser nominato se non al Richelieu, per tentare un colpo sopra il Reame. «Da qualunque lato si guardi, sarebbe di vantaggio a Francia, se non altro per darvi briga a’ suoi nemici, e impedire che ne cavassero uomini e denari per conservazione degli altri Stati». E di interni tumulti occasioni troppe offrivano l’improvvido governare e l’inesplebile esigere; ma le chiassose dimostrazioni riuscivano sempre ad un fine stesso, buone parole finchè il tumulto durava, poi forca e galera. Sotto il Toledo vi fu sommossa contro il dazio sui comestibili; e il Fucillo capopopolo, salito in palazzo a presentar le domande, poco poi fu visto impiccato al balcone tra due fiaccole, e la folla dispersa a bastonate. Sotto il primo duca d’Ossuna sollevossi la plebe pel caro del pane, e incolpando l’eletto Gian Vincenzo Starace d’essere d’accordo col vicerè, l’uccisero, e cavatogli il cuore e le budella, queste e i brani del corpo sospesero per la città. Il vicerè lasciò bollire quel furore promettendo; poi, animato anche dagli esempj di papa Sisto V, fece arrestare i capipopolo, e fin trentasette tanagliare, strascinare, squartare, cinquantotto messi in galera, più di mille banditi; abbattuta la casa d’uno speziale che diceasi sommovitore, ponendovi una colonna infame, attorno alla quale entro nicchie ingraticolate le teste de’ principali. Anche nel 1584 avendo il vicerè imposto un ducato per ogni botte di vino, frà Lupo cappuccino si oppose risolutamente, eccitando il popolo, che di fatto non soffrì tale aggravio. E lamenti e badalucchi rinnovavansi ad ogni nuova imposta, e non impedivano di stillarne sempre di nuove; e diceasi in proverbio che il popolo di Napoli si governa con Farina, Forca, Festini. Nel 1622 «il giorno dell’Epifania il cardinale vicerè era andato all’arcivescovado... e la plebaccia infame, arrecandosi dal Governo quello che gli viene da’ peccati suoi, non solamente maltrattò sua signoria illustrissima di parole, ma minacciò fatti... Vedendosi mancare il pane, prorompe in questi eccessi... Se quando si opposero a quelle gabelle l’estate passata... ne avesse impiccati una dozzina, e poichè non si trovarono i capi, zara a chi toccava, adesso non ardirebbero di perdergli il rispetto... Il popolo, per cagion della fame, si è tre volte sollevato questa settimana... sento che domani si faccia giustizia di grosso numero di quelle persone tumultuose, e particolarmente che se ne faccia morire una mano alla ruota; tormento troppo spaventoso... Oltre all’essere mangiate in erba tutte le entrate del re, e ridotto a tanta miseria il regno..., se qualche corpo di entrata ci è rimasto non intaccato, è rimasto proprio perchè alla Corte stessa non sarà bastato l’animo col suo braccio di cavarne sostanza senza metterlo in rovina»[78]. Il cardinale quassù accennato era Gaspare Borgia di Candia, famoso venditor di giustizia, ma che «si guardava bene da questa canaglia, che sopporta ogni cosa eccetto la mancanza del pane, pel quale non stima la vita»[79]. Il che, tradotto dal linguaggio diplomatico, significa che la _vil plebe_, credendo aver diritto di vivere, pretendeva a ragionevol prezzo il pane da quei che credeansi in diritto di prefiggerne il valore; e per ciò e per la alterata moneta più volte rumoreggiò. Le zannette, piccola moneta, erano ridotte dai tosatori a tale che nessuno più voleva accettarle, nè tampoco a peso. Credette il vicerè di provvedervi coll’abolirle; ma i banchi ne aveano per quattro milioni e mezzo di ducati, moltissime i particolari, perciò trovaronsi buttati in miseria, e non essendovi surrogato altro, ne rimaneva impacciato ogni commercio: nuova cagione di tumulti. Al succeduto vicerè cardinale Zappata, mentre passeggiava fuor di città, s’accostò un povero con quattro pani in mano dicendo: — Vedete, signore, che pane brutto mangiamo!» Il cardinale gli disse: — Va con Dio, capo di popolo». L’uomo rispose arditamente che non era tale, e il vicerè comandò d’arrestarlo: ma quello a strillare; infinito popolo accorre «gridando in faccia al cardinale, — Ah zannettaro cornuto; e con le sassate che piovevano sopra gli staffieri, fecero rilasciar il prigione; e sua signoria illustrissima con la carrozza a volo se ne tornò dentro»[80]. Per tali insulti furono carcerate trecento persone, dieci condannate a morire sulla ruota, dopo tanagliate sopra carri pei pubblici luoghi; i brani de’ loro cadaveri sospesi per le mura a pascolo degli uccelli, e le teste entro gabbie di ferro sulle porte più frequentate; sedici condannati al remo, sdruscite le case, benchè vi stessero solo a pigione, tutti gli altri tormentati orribilmente, indi prosciolti. Quell’anno tutto durò la sollevazione, che raffittì nel febbrajo seguente; e se «gli Spagnuoli non si facevano forti ai corpi di guardia, si rinnovava il vespro siciliano»: nel marzo, tre insurrezioni in una settimana: nel maggio di nuovo, e molte persone «della plebaccia» furono messe alla ruota, tagliata la mano, bruciate le case. La guerra di Valtellina, poi quelle di Genova, di Mantova, di Catalogna, esigevano soccorsi, e i vicerè arrotavano or malfattori or paesani, de’ quali ben di rado ne tornava a casa. Il conte d’Olivares ordinò, anche in tempo di pace, si tenessero allestiti ventimila fanti e cinquemila cavalli per accorrere dovunque fosse bisogno; col che toglieva al paese di poterne dare quando il bisogno s’avverasse. Principalmente viceregnando il marchese di Monterey si cavarono dal Napoletano non solo per la Lombardia, ma per la Catalogna e la Provenza, sin a quarantottomila pedoni e cinquemila cinquecento cavalli, e un valore di tre milioni e mezzo di scudi, oltre il fortificare tutto il regno per paura dei Francesi, e crescere la squadra a sedici galee e ducentotto bocche di cannone. Per bastare alle spese cumulavansi debiti; si staggivano le entrate che vi avessero i forestieri, poi anche quelle de’ nazionali sopra rendite fiscali; obbligavansi i Comuni a caricarsi di debiti; si vendeano terre fin allora regie, benchè si opponessero anche colla forza. Mandato dal vicerè Ponce de Leon per forzare i Comuni a soddisfare al dovuto, il giudice della vicaria nè tampoco trovò letto ove corcarsi; ma ad uno che gli mostrava la miseria e l’impossibilità di pagare, fu risposto: — Vendano l’onor delle mogli e delle figliuole, e paghino». A tali storpi era la più bella parte d’Italia. Invano si deputavano preti e frati perchè in nome del Signore del cielo mitigassero quei della terra; una risposta unica s’ottenea, le necessità della guerra. Il duca d’Alba (1622) nel suo viceregno provò pesti, tremuoti, guerra; pur «non mancò col suo valore andar incontro a’ Fati» (Giannone), e «dimostrò l’animo suo magnanimo e generoso nelle feste per la natività d’una figlia del re e per tosoni d’oro compartiti». Il surrogatogli duca d’Alcala (1629) dovette impegnare i proprj argenti perchè la Spagna tardò ad inviar le galee che il trasportassero; poi incalzato per sempre nuove truppe all’infausta guerra di Lombardia, vendette le giurisdizioni che ancor rimanevano, e che si opposero violentemente. Il duca di Medina, che lasciò il suo nome a una porta, a una fontana e ad un magnifico palazzo a Posilipo, smunse dal regno (1637) trenta milioni di ducati, e quando fu chiamato a renderne conto, sostenne che un vicerè non v’era obbligato, e vantavasi aver lasciato il paese in guisa, che non vi avea quattro famiglie capaci di imbandire buon pasto. Il prode Almirante di Castiglia, succedutogli (1644), trovando vuote le casse ed esigente il Governo, dichiarò non reggergli il cuore di veder un sì prezioso cristallo spezzarglisi nelle mani, ma alle sue rimostranze fu risposto, andasse a regolare un chiostro di frati: e cedette il posto a don Rodrigo Ponce de Leon duca d’Arcos (1646). Intanto i Turchi infestavano le coste, i banditi le terre, i gentiluomini la città con quotidiani duelli, e abbaruffate simili a battaglie vere, don Ippolito di Costanzo e don Giuseppe Caraffa sfidatisi uscirono alla campagna con oltre cinquecento seguaci ciascuno. Si aggiungevano mali naturali; e il 1631 comete strane e fuochi per l’aria, e un mostruoso parto, e sangue gemuto dagli altari parvero preludere alle spaventose eruzioni del Vesuvio, le cui ceneri furono spinte fin di là dell’Adriatico, e ai tremuoti della Calabria, da cui rimasero distrutte molte terre e la città di Nicastro, colla morte di diecimila persone. «Tutto ciò è un nulla (cominciò a predicare il medico Sassonio) a petto di quanto sovrasta; e il regno e il mondo tutto ne andrà a sobisso, il mare uscirà dal letto, pioveranno sassi, i monti vomiteranno fiamme»; e talmente sbigottì, che molti abbandonarono la patria. Regnando Filippo IV, un legno carico di merci e di Cristiani riscattati da Barberia, infettò di peste la Sicilia. Filiberto di Savoja ch’erane vicerè, Giannettino Doria arcivescovo, la magistratura municipale, diedero inutile opera a mitigarla; cresceva di peggio in peggio, finchè qualche pio in una grotta del monte Pellegrino scoprì il corpo della romita Rosalia. Parve miracolo, e a folla i cittadini arrampicavansi su per quella deliziosissima pendice; la terra, l’acque, le pietruzze della grotta divenivano reliquie; l’immagine della santa era affissa per le case e le botteghe tutte; e mentre temeasi che la fatica e il contatto esacerbassero la morìa, il conforto venutone certo la alleggerì, forse la abbreviò. Così si giunse fin al 1647, quando ogni cosa era sossopra; la Germania sanguinava per la guerra dei Trent’anni; la Francia ergeva barricate contro il suo re; l’Inghilterra un patibolo pel suo; in Levante rincalorivano le ostilità dei Turchi contro Candia; in Ispagna il conte duca d’Olivares fece assumere il titolo di Grande al suo povero re Filippo IV, e voleva meritarglielo coll’acquistare nuovi paesi, al qual uopo doveva ai popoli mozzar la libertà per ismungerli senza contrasti: col che infellonì i Catalani che insorsero a rivendicare il diritto di disporre di se stessi; perdette il Portogallo, acquistato sotto Filippo II; de’ Paesi Bassi dovè riconoscere l’indipendenza. Le rivoluzioni sono contagiose; e ricorrendo allora in Sicilia una delle solite fami, se ne incolpava il vicerè Los Velez. Messina grida pane, e il vicerè accorsovi (1647), colle forche insegna a basire tacendo. Più seriamente a Palermo il popoletto attruppatosi, assalì la casa del pretore (20 maggio), minacciandovi il fuoco: nulla profittarono Teatini e Gesuiti, buttatisi fra’ tumultuanti fin col santissimo e colla promessa del pane buonmercato e non più gabelle; stracciati i registri; insultato agli esattori; sprigionati i debitori, i masnadieri e i Turchi, si diede il sacco. Capo del tumulto un Antonio Pilosa, ardito ad ammutinare, e insieme accorto a frenare e dirigersi a un fine. I nobili usciti a cavallo sparnazzando buone parole, indussero il vicerè ad abolir le gabelle sul vino, sulla farina, sull’olio, sulla carne, sul formaggio; ma il popolo non fidandosi, prese Francesco Ventimiglia, discendente dagli antichi Normanni, e il proclamò re. Declinando il pericoloso onore, egli si offre conciliatore fra il governo e la plebe, ma si prorompe alle armi; le corporazioni degli artigiani, minacciati di saccheggio, mettonsi coi nobili e cogli ecclesiastici, che tutti prendono le armi, reprimono gli ammutinati. Le forche fecero il resto: ma più settimane durò il subuglio; e Giuseppe Alesi battiloro, eletto capitano generale del popolo, tolti all’armeria reale fucili e cannoni, assalta il palazzo, proponendosi di cacciar gli Spagnuoli e mettere lo Stato a popolo. Il vicerè campò sulle galee; i nobili, perchè immuni da molte gravezze, perchè attaccati alla Corte da impieghi e da onori, perchè temevano disaumento ne’ fondi che tenevano sulle pubbliche banche, si attestarono per comprimere i ribelli; l’Alesi li chetò con promesse, talchè essi ed i magistrati lo elessero sindaco perpetuo con duemila scudi annui. Egli se ne gonfiò, procedeva fastoso in cocchio dorato, seguito da armigeri; onde perdette l’opinione del vulgo che lo gridava corrotto, o intento solo al vantaggio proprio, e ne motteggiava il lusso: sicchè i meglio stanti ripigliano il sopravvento; Alesi, abbandonato da tutti, è trovato in una fogna; e la sua con tredici altre teste sono portate in trionfo per la città. Sossopravano contemporaneamente altri paesi della Sicilia: ad Agrigento il vescovo non si salvò che col dare ogni aver suo: a Messina trascendevasi in onoranze agli Spagnuoli, per fare l’opposto dell’emula Palermo, ma si domandava di levar le gabelle; pure i baroni riuscirono a reprimere, e il vicerè tornato sicuro fece spianare le case de’ rivoltosi, e colla forca credette restituir vigore alla giustizia; insieme mandava fuori una perdonanza generale, e promessa di abolire le gabelle e stendere migliori regolamenti; ma da Spagna fu trovato troppo morbido, ed egli sofferse tanti dispiaceri, che di crepacuore morì. Il cardinale Teodoro Trivulzio, che, con coraggio e prudenza avea già governato il Milanese, vennegli sostituito (17 9bre), e non che ricoverare in castello, sbarcò in mezzo alla folla, che lusingata di tal confidenza e dell’avere un vicerè italiano, lo accompagnò festiva, gridando, — Pace e libro nuovo». Ed egli colle promesse e coll’affabilità cattivò gli animi, mentre inesorabilmente puniva chi ancora rialzasse il capo. Di maggiori conseguenze tumulto si levò in Napoli. Il cardinale Mazarino, allora ministro di Francia, ed erede dell’odio del Richelieu contro Casa d’Austria, avea più volte tentato il regno delle Due Sicilie, e nominatamente nel 1640 sperò sorprendere Napoli mediante intelligenza col marchese d’Acaja; ma questo scoperto, fu dato al carnefice. I Francesi s’accostarono sbravando fin alla spiaggia di Ghiaja, ma furono respinti. Sei anni appresso, in occasione della contesa col papa pei Barberini, il Mazarino preparò nuovo armamento a Tolone, meditando fare una diversione dal Piemonte allora guerreggiato, col procacciarsi qualche possesso nelle maremme di Siena, e fors’anche ciuffare il regno di Napoli; ma per isminuire l’invidia di tanto acquisto, ne designava re Tommaso di Savoja, che vi teneva partigiani, e che prese il comando supremo della flotta (1646). Approdati con dieci galee, trentacinque navi, settanta legni minori, seimila fanti di sbarco e seicento cavalli, s’impadronirono del forte, delle saline di Talamone, di Santo Stefano, e assediarono Orbitello. Il vicerè di Napoli, cui competeva la difesa di quei forti, vi avea spedito il prode Carlo della Gatta: le navi siciliane e spagnuole, affrontate le francesi (14 giugno) nelle acque di Talamone, si nocquero assai senza venir alle strette; ma nuovi rinforzi costrinsero i Francesi a recedere, perdendo molte artiglierie e l’ammiraglio Brezé. Una nuova spedizione sotto i marescialli La Migliaré e Plessis-Praslin tolse Piombino al Lodovisi nipote del papa, poi Portolongone; riparato così l’onore della Francia, e assicuratole un porto per isbarcare quando volesse a danno di Napoli, contro la quale spingea navi e tramava coi baroni malcontenti. O lasciar prevalere i Francesi o far morire di fame i Napoletani, fu il dilemma, a cui era ridotto il vicerè duca d’Arcos: il quale per salvar l’onore della Spagna, dovette dal già esausto paese smungere nuovo denaro, e costrinse il parlamento a decretargli un milione di ducati. Non potevasi raccoglierlo che colle gabelle, ed essendo tutte vendute, nè sapendosi quali altre inventarne, si ridestò quella sulle frutte, odiosissima alla plebe, a cui quelle sono pascolo desideratissimo nel caldo clima, e dalla natura profuse. Giulio Genovino, che trovammo eletto del popolo e turcimanno dell’Ossuna, al cadere di costui avea avuto condanna di carcere perpetuo in Orano; ma col mandare a Filippo IV un modello in legno della fortezza del Pignone, ottenne la libertà; e reso a Napoli, si vestì prete per trovarsi sicuro e meglio pescare nel torbido. A tal uopo istigò alcuni frati a declamare contro la gabella; metteansi fuori cartelloni, e specialmente uno ov’era effigiata la Sicilia col motto evangelico, _Vi ho dato l’esempio; come ho fatto io, fate voi pure_; e quando il vicerè passava, urlavasi, — Abbasso la gabella. Il giorno della Madonna del Carmine, la gioventù solea dar assalto ad un castello di legno in piazza del Mercato, brandendo canne, e guidato da capi. Uno di questi era Tommas’Aniello d’Amalfi[81], pesciajuolo di venticinque anni, ridotto miserabile dacchè i gabellieri colsero sua moglie con una calza di farina in contrabbando. Franco, vivace, costui era conosciuto dai signori per le cui case portava la sua mercanzia; più conosciuto dalla plebe, come avviene di chi mostrò fierezza e vigore, sincerità e giustizia; e in lui si rimetteano spesso le differenze, a lui chiedeansi pareri. Inizzato dal Genovino e dai frati (1647), mentre colla sua banda munita di canne ed arpioni passava dinanzi al palazzo, mostrarono ai signori di Corte le parti che l’uomo nasconde. Un’altra volta un villano, che non aveva un quattrino, e che sentivasi obbligato a pagar la gabella, butta per terra e calpesta i fichi che avea recati; gli si leva rumore intorno; chi raccoglie i frutti, chi ride, chi freme, tutti schiamazzano come si schiamazza a Napoli, e Masaniello sopraggiunto coi ragazzi dalle canne, difende il fruttajuolo, sbraveggia i dazieri, e che più non si vuol tollerare quell’insolito aggravio. Il magistrato fugge, il tumulto raffittisce, il popolo stringesi a Masaniello, e comincia, come sempre, dal bruciare i registri e i banchi degli esattori, poi si difila sul palazzo del vicerè, protestando devozione al sovrano, ma scontentezza del mal governo. Sbigottito da quel fiotto di popolo vasto e ruggente, il vicerè trova ragionevolissima la domanda: i popolari vogliono tolga pure la gabella sulle farine, ed egli concede: vogliono rintegri il privilegio di Carlo V, e poichè nella lunga tolleranza n’aveano dimenticato il contenuto, vogliono averne in mano l’originale; il governatore accorda tutto, e perdonanza generale, e una pensione a Masaniello se acqueta il popolo. Masaniello nega separarsi dai fratelli, e in poche ore trovatosi padrone della città, obbliga ognuno a prendere le armi, scarcera i contrabbandieri e debitori del fisco, cassa le gabelle, comanda a’ fornaj di fare la libbra di pane di quarant’once per quattro grana; disarma i forti, lascia abbruciare cento ridotti di giuoco, e i settanta casini e gli arnesi della finanza, levandone però i ritratti del re che colloca sui canti tra candele accese, gridandogli _Viva_ mentre ne sconoscevano l’autorità. In simili occasioni tutti abbiamo veduto al popolo torvo e minaccevole profondersi promesse e blandizie, inghiottendo l’ira per rivomitargliela quando sarà intepidito e raccheto. Il vicerè, mentre trattiene i lazzaroni palleggiando, fin cinque assassini manda contro Masaniello; ma il popolo li trucida, e dal sangue passa al sangue, e a sfogar vendette. — Il principe di Cellamare impinguò comprando le gabelle che s’inventavano: a morte! — Il duca di Maddaloni non mi pagava il pesce che gli portava a casa, e mi rispondeva insulti: a morte! — Il principe Caraffa mi costrinse una volta a baciargli il piede: glielo voglio troncare e mangiarmelo. — Morte ai masnadieri! — morte a chi indossa il ferrajuolo, perchè può nascondere armi proditorie! — morte a chi non espone l’immagine del re e di san Gennaro!» Masaniello operava con cuore e non senza senno; ma il prete Genovino spingealo ad esagerazioni (1647), e ne rivelava i divisamenti al vicerè. L’arcivescovo Filomarino, anch’egli come al solito assolveva, benediva, salvava qualche innocente, e per suo interposto il vicerè chiese a udienza Masaniello. Questi voleva andarvi in pure brache e berretto da pescivendolo; ma il cardinale, fin minacciando scomunicarlo, l’obbligò a mettersi un vestone di broccato e cappello alla spagnuola, e i lazzaroni non finivano d’ammirare il loro eroe rincivilito, che a cavallo, colla spada nuda si condusse al palazzo. Prima d’entrare, egli rassicurò la moltitudine: — Io non ho operato se non pel bene di tutti; e appena io vi abbia torni in libertà, ripiglierò il mio mestiero senz’altro chiedervi che un’_Avemaria_ da ciascuno nel punto di mia morte». E come tutti a grandi schiamazzi gliel promisero, seguitò esortando non deponessero le armi se non dopo conseguito l’intento: — Diffidate dei nobili; e se troppo io fossi trattenuto in palazzo, buttatevi il fuoco». Il vicerè gli usò quante cortesie la paura e la perfidia suggerivangli; espresse meraviglia di trovar tanto accorgimento in un pescivendolo ineducato; volea donargli una collana d’oro ch’e’ ricusò replicatamente, solo accettandone una di poco valore in segno della sua benemerenza; e lo chiamava «Figliuol mio», e «Per tuo merito oggi il re può dire d’esser re». Masaniello di rimpatto gli toccò più volte la barba, confortandolo a non aver paura; e poichè il popolo dubitando di qualche violenza al suo capo, tumultuava, Masaniello fecesi al balcone, e con mettere appena il dito alla bocca ottenne silenzio da cinquantamila lazzaroni, e che tornassero a casa. Anche sua moglie si presentò con un bambolo in collo alla signora d’Arcos, e le disse: — Voi siete la viceregina delle popolane. Mio marito governerà il popolo, e il vostro gli Spagnuoli». Si proseguirono le conferenze, e il trattato (1647) conchiuso fra il vicerè e il «capo del fedelissimo popolo della fedelissima città» fu letto alla porta del duomo[82], spiegandolo Masaniello punto per punto a quella ciurma, indi fu giurato sul vangelo e sul sangue di san Gennaro. Masaniello v’accompagnò un’arringa, dove alle cose assennate ne mescolò di pazze; encomiò la condiscendenza del vicerè e l’animo pacifico dell’arcivescovo; poi voleva colà stesso levarsi di dosso quella incomoda vestitura per ripigliare le sue braghesse e il cappello da lazzaro. Non che cercasse levarsi in istato, egli vantavasi anzi della povertà: qualche volta, arringando il popolo, calavasi i calzoni per mostrare il dorso scarnato e il ventre vuoto, in segno della sobrietà conservata anche fra quell’abbondanza. Ai cavalieri che venivano per corteggiarlo, intima: — Via di qua, che non voglio altra compagnia che di scalzi com’io sono». Una volta l’araldo, fra gli altri viva in cui si sfogano le plebi sollevate, intonò anche — Viva Masaniello», ed egli inscurito, afferratogli il ciuffo, glielo tagliò colla spada, minacciandolo di peggio se gridasse altro che — Viva il re e il fedelissimo popolo di Napoli». Un plebeo gli si accosta, e — Non ti fidare se prima non hai in mano le chiavi del Castello»; ed egli, preso un mazzo di chiavi, glielo maneggia sulle spalle, dicendo: — To’; queste son le chiavi di Sant’Elmo». Uno mascherato gli susurra all’orecchio: «Parmi che la fortuna t’apparecchi una nobilissima corona»; ma egli: — Che di’ tu? altra corona io non cerco che quella della Madonna; altro non desidero che di sgravare la città dalle gabelle. Sono pover uomo, e serbato che avrò il paese al re, tornerò a pescare». Hanno bel volerne fare un eroe gli adulatori del vulgo: costui era popolo co’ suoi difetti e le sue qualità; misto bizzarro, non però singolare, di vanità e dabbenaggine, di coraggio e pusillanimità; non elevatosi ad altra idea che di pagar poco, avere il pane buonmercato, e impetrar giustizia e miglioramenti dal re. All’arcivescovo chiedeva: — Eccellenza, sarò arrotato? Eccellenza, un gran peccatore son io, e voglio confessarmi. Per me non dimando covelle: finito quest’affare, torno a vender pesce». Ma eretto dalla plebe, nulla poteva negar alla plebe: permessi alcuni supplizj, prese la passione del sangue e del largire col denaro altrui e del decretar monumenti come un re. Piantava tribunale in piazza, ascoltando le accuse; e per lo più dalla sola fisonomia giudicava; e lì a fianco stava il patibolo, unica pena che infliggesse il disumanato pescivendolo; poi su e giù a rompicollo per Napoli, urtando del cavallo e ferendo, or accipigliato e minaccevole, or gettando zecchini a manciate, e affogava nel vino il poco cervello che gli era rimasto. Vedendolo operare da demente, fu detto che il vicerè l’avesse con tossici dissennato[83]. Se ne stomacano i savj; gliene vuol più bene la plebaglia: ma il fatale Genovino gli tiene addosso gli occhi, e nel convento del Carmine ov’era andato a confessarsi, i sicarj del Governo riescono a trucidarlo. Il popolo, che jeri l’aveva idolatrato, oggi lo strascina a vitupero; ma al domani, vedendo i fornaj tornar il pane a ventiquattr’once, gliene rinasce l’amore, e piange e schiamazza, e gli fa esequie che re mai non ebbe, cioè il pianto di ottantamila cittadini; gli onori dell’armi gli sono renduti da quegli stessi che l’aveano ammazzato, e quarantamila soldati, coi tamburi scordati e l’armi a rovescio, trascinando nel fango le bandiere, ne accompagnarono fra campane e cannoni la bara, dov’era portato sotto un panno ricamato a corone e palme, colla spada e il bastone di generale; quattromila preti e frati celebrarono per l’anima di lui; poi si attestò che il capo riattaccato al busto mosse gli occhi e parlò; che la sua mano strinse un rosario e diede la benedizione: in una settimana pescivendolo, tribuno, re, strapazzato, santificato. Quell’assassinio non chetò la rivolta, che anzi in tutte le provincie la plebe si ribella ai baroni; in Cassano contro il principe dell’Ajerto; a Salerno, ad Avellino contro i Sanseverino; a Serracapriola, a Procida, ad Ischia contro i Del Vasto; a Celano contro i Piccolomini; a Carniola contro il principe di Stigliano; a Nardò contro un Conversano della casa Acquaviva, detto il Guercio di Puglia, che riuscito superiore, gli autori della sommossa mandò tutti al supplizio senza rispetto a grado o dignità; un vecchio di settant’anni fece impiccare pel piede; ventiquattro canonici archibugiare, poi le loro teste collocare coi berretti sugli stalli del coro[84]; e abbattute le case, e confiscati i beni pel valore di diecimila ducati, e altre sevizie di cui restò fin oggi popolare l’esecrazione. Tutto l’Abruzzo, tutta Calabria erano in armi; guaj agli appaltatori od esattori dei dazj! guaj ai ricchi in generale; distruggeansi i mulini, le case, uccideasi a furore; le sopite fazioni rinasceano per aggiunger olio al fuoco; in Eboli un partito fingendo volersi riconciliare con l’altro, ne trucidò tutte le famiglie. Napoli stessa era in uno scompiglio che mai il peggiore. L’abolizione delle gabelle riduceva a miseria migliaja di famiglie che le aveano comprate, e di cui erano l’unica rendita: poi oggi tutte le donne faceano ressa al monte di pietà per riaverne i pegni; domani gli studenti chiedeano s’attenuasse il prezzo delle lauree; poi i pitocchi davano l’assalto ai Certosini pretendendo li frodassero delle limosine; altri ai forni e ai dogli: or plebejamente si applaude, or plebejamente s’accusa: tratto tratto si conciliano paci, ma i _ministri del demonio_ insospettiscono i popolani, e tornasi alle ire, al sangue, al saccheggiare, all’incendiare[85]. Dal primo bisogno di pane passavasi poi a qualche veduta più alta; e mentre l’Arcos tentava eludere i privilegi concessi per la paura, il popolo pretende che le concessioni non fossero chiare abbastanza; chiarite, domanda altre; esige che il popolo abbia eguali voti della nobiltà; comincia a declamare contro gli Spagnuoli e ammazzare quanti ne incontra; vuol avere in sua mano Francesco Toratto principe di Massa, che per gli eccellenti servizj prestati a Taragona avea avuto premj, poi n’era stato frodato, sicchè tenevasi in broncio cogli Spagnuoli: viene creato capitano del popolo, e impetra più larghe condizioni; ma le provincie domandano quel che ottenne la capitale; tutti allettati da quella lusinghiera idea di non pagare più gabelle. Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Filippo IV e grand’ammiraglio di Spagna, giovane di diciott’anni, spedito con grossi navigli ma pochissime munizioni a restaurar la fortuna spagnuola in Italia, accorse colla flotta davanti a Napoli (8bre). Arcos chiama in castello i primarj popolani sotto finta di parlamento, e li tiene ostaggi, e di lassù bombarda la città mentre il secondano le navi; talchè alfine si capitola, e il popolo depone le armi. Era un gran pezzo che Napoli non vedeva alcuno dei suoi reali; onde festeggiò clamorosamente don Giovanni che rabbonisce e promette: ma Arcos, temendo non si volesse per costui mezzo ottenere l’indipendenza, istillò sospetti nel giovane eroe per disamorarlo del popolo; poi quando la città si fu racqueta, ecco le truppe scendono in ordine dai castelli, mentre da questi s’avventano palle e bombe. Il furore spinge alla difesa i Napoletani traditi; resistono, ammazzano, rincacciano; non potendo i soldati venirne a capo in quel labirinto di vie abbarrate, Arcos chiede l’interposizione del cardinale Filomarino; e questo nega, indignato d’essersi veduto stromento all’iniquo sterminio del suo gregge[86] (1647). Il popolo, convertito lo sbigottimento in furore e la quistione fiscale in politica, manda fuori que’ soliti manifesti ove si giura morte alla nobiltà, e s’invita il mondo in ajuto della giustizia; inalbera bandiera rossa; morte a chiunque parli di pace; morte pure a chi propone di buttarsi in braccio alla Francia. Il principe di Massa ne animava il valore e ne dirigeva le difese, ma coll’esitanza di chi sostiene una causa in cui non confida; e perchè cercava di riconciliare o trar in lungo, perde la confidenza, è ucciso, appiccato, e il cuor suo spedito alla moglie. Allora si grida capitano Gennaro Annese, archibugiere coraggioso e, per odio ai nobili più che al re, repubblicante. Egli cercò trar le provincie al medesimo sentimento; e le più avendo aderito, cominciò guerra civile contro i baroni, empiendosi il regno di grida, di furti, di atrocità. Il vicerè aveva invitato tutti i baroni del regno ad accorrere alla capitale e difendere la causa comune; e raccolte masnade, vennero in fatti i duchi di Montesarchi, di Salsa, di Conversano, e principalmente il principe Caraffa di Maddaloni. Costui, a sedici anni capo di gran famiglia e possessore di fortuna principesca, si abbandonò alle consuetudini e al temperamento: con amori chiassosi, chiassosi duelli e molte uccisioni guadagnossi reputazione di gentiluomo compito: teneva la casa piena di bravi, pronti a mettersi ad ogni sbaraglio per difendere od offendere, insultar la legge, frodar la finanza, fare stare i birri e soprusare la plebe. Col fratello don Giuseppe e colle famiglie San Felice e Liguori tiranneggiavano i contorni del borgo dei Vergini, come i Caracciolo di Santobuono, i Minutolo, i Capecelatro molestavano le vicinanze di San Giovanni di Carbonara, altri altrove. Giuseppe Caraffa in pochi giorni per malumore fece uccidere tre persone e due ferire gravemente; Diomede rompere la testa a un mercante perchè era in urto con un altro suo protetto. Il Monterey, risoluto di reprimere esso duca di Maddaloni, che allora aveva appena vent’anni, mandò cento soldati per arrestarlo in una sua villa a Posilipo; ma avvertito egli fuggì: onde si lanciò contro di lui un mandato d’arresto, furongli imposte multe, messi soldati nelle case e nei feudi di lui ed a sue spese; e si computa che in pochi anni dovesse pagare centomila ducati. Eppure fedelissimo al dover feudale, servì all’Austria nella guerra dei Trent’anni, in quella di Urbano VIII menò otto compagnie di suoi vassalli per Maddaloni, dieci per Arienzo, sei per Cerreto; e passava per un de’ migliori nobili; cavaliere d’alto fare, splendido, liberale; piede di casa, servitù, carrozze, cavalli, barche, tutto da gran signore; e diceva che, come i re hanno la ragion di Stato, così i nobili hanno la ragion di famiglia. Masaniello guardavalo con odio particolare, onde nella prima sollevazione gli furono bruciati i magnifici palazzi, ucciso il fratello e altri parenti; ed egli buttatosi alla campagna, fu de’ primi che osteggiasse Napoli, nè mai desistè. Per opera di lui e degli altri baroni erano intercetti i viveri alla città e provveduti i castelli; di modo che le milizie regolari e il nome regio prevalsero. Allora Napoli, ridotta all’estremo, ed essendosi invano esibita al papa come ad alto signore del reame, pensò ricorrere a quella Francia che dianzi aveva esecrata, e i cui ambasciatori aveano soffiato in quel fuoco per nuocere alla Spagna. Vero è che i Napoletani non voleano sottoporsi ad essa, ma esserne ajutati a farsi repubblica: repubblica coll’ajuto di un re. Enrico duca di Guisa, di altissima famiglia francese e discendente dai principi d’Angiò antichi signori di Napoli, condannato di maestà, poi assolto, e rinomato per galanterie, era allora venuto a Roma per far cassare il suo matrimonio onde sposare una civettuola. Colà lo incontrarono alcuni pescivendoli andativi con titolo di ambasciatori; e bello, manieroso, ricco e prode quanto i ribelli s’immaginano facilmente, lo guardarono come inviato da Dio, e lo sollecitarono a liberare il loro paese. Tra per vanità propria e per gratificare a Francia egli accetta, e sfolgora vanti e promesse: promesse e vanti fanno i deputati della _real repubblica_ di Napoli, e che vi troverebbe censettantamila fanti in tutto punto, assai cavalli e munizioni, e tre in quattro milioni, oltre gioje e metalli. Ma egli arriva con non più di ventidue persone, compresi i deputati napoletani e la servitù, pochissimi denari tolti a usura, e qualche barile di polvere, e trova null’altro che coraggio e disordine. Ma che importa? gl’insorgenti si brigano essi mai coll’aritmetica? la gioja va al colmo; si ripigliano gli assalti contra gli Spagnuoli che possedono i castelli e mezza la città; si rincacciano i nobili dalla campagna. Intanto il Guisa, gridato «generale della serenissima reale repubblica di Napoli», con fortunati successi rallegrò la città[87], estese emissarj per tutto il regno; trasse anche molti nobili nel partito popolano (1648); e se avesse lealmente proclamato una repubblica, alla quale partecipassero anche le altre provincie del regno e i cittadini coi nobili, forse si sbarbicava la dominazione spagnuola. Ma, a tacere le sue ambizioni, egli molestava colla solita pecca de’ Francesi, il tentar le donne; reprimeva fin colla morte lo sparlare[88]; e mal soffriva d’avere per eguale Gennaro Annese, che a vicenda non voleva lui per superiore, e che sdegnavasi perchè mai non nominasse il promesso senato. Pure il coraggio cresce all’entusiasmo quando scoprono la flotta francese; e benedicono a Francia: Francia monarchica che viene a stabilire una repubblica in Italia. Se quei ventinove ben provvisti vascelli di guerra, comandati dal duca di Richelieu pronipote del cardinale, avessero assalito la sguarnita flotta spagnuola, certo la sconfiggevano: ma il duca non fece che deporre qualche munizione, e voltò di bordo, perocchè il Mazarino, che nulla rincoravasi del leggero cervello del Guisa, non sentivasi d’impegnare la Francia in una guerra. Al qual Mazarino il duca scriveva: — Ben ho a dolermi d’essere abbandonato dalla vostra protezione nel maggior mio occorrente. Arrischiai la vita sul mare; trassi dalla nostra quasi tutte le provincie del regno; ho mantenuto la guerra per quattro mesi senza polvere nè danari, e rimesso all’obbedienza un popolo affamato, senz’avergli potuto dare in tutto questo tempo più che due giorni di pane; sfuggii cento volte alla morte, minacciatami e col veleno e colle rivolte. Tutti mi hanno tradito, i miei stessi domestici pei primi; l’armata navale non è comparsa che per iscreditarmi appresso il popolo. Ma quello che più mi accora è l’essersi fatta entrare madamigella Ponts donna mia in un altro monastero da quello ov’io l’avea pregata di ritirarsi. Era l’unica ricompensa ch’io pretendessi alle mie fatiche, senza la quale nè di fortuna, nè di grandezze, nè tampoco della vita fo conto; disperato rinunzio ad ogni sentimento d’onore e d’ambizione, nè penso che di morire per non sopravvivere ad un crepacuore che mi fa perdere il riposo e la ragione»[89]. Arcos aveva ricevuto dalla Spagna piena potenza di trattare e concedere; il re ordinavagli, _Ajustareis todas las causas de manera que esos mis subditos recivan la mayor satisfacion que posible, y sean defendidos y mantenidos en la paz y justicia que les deseo y devo administrar_; egli ripeteva amnistie le più ampie: ma poichè conoscevasi odiato da amici e da nemici quale causa di questi mali, fu richiamato (1648 aprile) e datone la patente al conte d’Ognate. Questi con denari e con promesse di perdono e di concessioni divide i rivoltosi, inimica al popolo le cappe nere, e tratto per astuzia il Guisa fuor della città, la occupa; secondato dall’Anese e dagli altri capipopolo, i quali s’accorgevano che la rivolta non facea se non convalidar la nobiltà, e che gli consegnarono la chiave del Torrione del Carmine, ove furono trovate perfin le corrispondenze del Guisa. Allora tutto sonò di viva alla Spagna[90], come dianzi di bestemmie; la quiete tornò, e si rimisero ai mestieri quelli che aveano preferito viver di baccano; il Guisa, fuggendo travestito, fu preso e tradotto in Ispagna; sol dopo qualche anno, per intercessione di principi, fu liberato; e la rivoluzione finì come tutte quelle dove il valore e il furore non son guidati dalla prudenza. Se Francia voleva diroccare l’emula, quello era il momento di far uno sforzo; ma i soccorsi che il Guisa avea caldamente sollecitati arrivarono quando l’ardore popolano era sbollito. Allora, come sempre, si credette che il primo fremito della sconfitta sarebbe un buon appoggio alla riscossa; e il Mazarino, conoscendo che quello era «l’affare più importante che si potesse concepire»[91], cercò riaccendere il fuoco, ma non risolveva se far repubblica, o mettervi un re temperato e amico di Francia. Tornò gli occhi su Tommaso di Savoja, a un cui figlio avea sposata sua nipote Olimpia Mancini; e gli somministrò bella armata e truppe di sbarco, cui si unì una caterva di fuorusciti, che menavano gli stranieri contro la patria, e agli stranieri promettevano una sollevazione paesana per favorirli: ma nessuno essendosi mosso, respinto dai regj, egli dovette ritirarsi; e Piombino e Portolongone furono recuperati dagli Spagnuoli. Questi presero allora a incrudelire, quanto più avevano nella paura condisceso; decollarono l’Anese, sebbene si fosse fatto traditore per essi (1653); appiccarono i migliori de’ suoi compagni; tesserono di que’ turpi processi che sogliono disonorare ogni ripristinazione; bandi e confische colpirono chi colla fuga erasi sottratto alla forca; e intere famiglie rimasero schiantate, molti ammazzati compendiosamente; alfine il boja stesso fu appiccato, convinto d’aver ricevuto denaro per far penare di più gli sciagurati. Quello stesso Diomede Caraffa, ch’era stato caporione della causa regia, sotto altri pretesti fu colpito di grave tassa, poi in prigione, indi trasferito in Ispagna, ove morì. I briganti che più non poteano trovar soldo dai signori, costretti a tenersi ne’ boschi, vi morivano d’inedia e di disagio. Il rigore dell’Ognate parve eccessivo fin alla Corte, che gli surrogò il conte di Castrillo. A quella rivoluzione aveano preso parte molti pittori, o ne furono vittime. Il Falcone, per vendicare un parente uccisogli da un soldato spagnuolo, formò la compagnia della Morte aggregandovi la più parte de’ suoi colleghi e scolari, Coppola, Porpora, Micco, Spadaro, il Po, il Mastuzzo, i due Fracanzano, Cadagora, Vacari padre e figlio. Altri la immortalarono coi dipinti, come Salvator Rosa, Spartaro, Giuliano Finelli scultore di Carrara, Francesco Francanzano[92], il quale poi ne tentò un’altra; ma scoperto, ebbe, per grazia dell’Ognate, invece della forca, il veleno. Don Giovanni d’Austria nella capitolazione, oltre il pieno indulto delle colpe di maestà, e anche di qualunque delitto ordinario commesso durante la turbolenza, sebbene i rei fossero già in carcere e in galera, e sebbene non avessero la remissione della parte offesa, aboliva tutte le gabelle: stolta esagerazione, la quale gettava sul lastrico migliaja di famiglie che le aveano comprate. Furono dunque ristabilite e ordinate meglio, assegnando la parte che competerebbe alla cassa militare. Ma anche molti nobili erano fuggiaschi o in bando, altri stavano di pessima voglia, e guatavano verso Francia[93]; e dopo che Enrico di Guisa ebbe ricuperata la libertà (1654), lo sollecitavano a ritentar la ventura. Il Mazarino lasciò che allestisse una spedizione a proprio conto, promettendo assisterlo nel caso riuscisse. Egli, fatto denaro in ogni modo, veleggia di Provenza con sette vascelli grossi, quindici mercantili, sei galee, sei tartane, ma molte ne perde nel tragitto. Sebbene intanto il vicerè Castrillo si fosse atteggiato a difesa, e avesse promesso perdono a chi ben si comporterebbe, il Guisa sbarca a Castellamare (9bre), e se poteva accelerarsi, occupava Napoli; ma sprovvisto di viveri, non secondato come credeva, aborrito dai contadini a cui spalle doveva vivere, egli fu costretto rientrare in Francia con quei che gli rimanevano, dopo aver saccheggiato la piazza. E la Spagna gettò di nuovo su questo scompiglio il suo manto, ricamato a stemmi e foderato di spine. Alla Spagna n’era venuto profitto per l’abbattimento dell’aristocrazia, fosse nelle stragi fattene dal popolo, fosse poi nel punire; e d’allora cominciò a sminuir la ricchezza delle famiglie e perdersene l’influenza, e molte spagnuole si introdussero nei sedili. La Spagna poteva dire d’essere omai libera nella dominazione napoletana, eppure non la migliorò. Nel 1658 per la nascita d’un erede del trono si chiese un donativo di trecencinquantamila ducati, parola dimentica dal 48 in poi: per trovarli si pose la tassa sul pane, e si cominciò la cantilena d’inventare gabelle, venderle, inventarne di nuove. I banditi ricomparvero, e i falsi monetieri, e i ladri nelle vie della città; i feudatarj, perduta l’autorità del resistere, ricuperarono l’arbitrio del soprusare. La peste (1656) (giunta quasi perpetua ai mali di questo secolo pomposo e sciagurato) imperversava in Sardegna; pure il vicerè di Napoli per le _necessità della guerra_ ne traeva milizie, e con esse l’infezione. Ben potè egli proibire che contagio si dicesse, e il male infierì in città affollata e sudicia, sicchè migliaja al giorno morivano; campi interi e le cave delle pietre furono colmate di cadaveri; i galeotti turchi obbligati all’uffizio di sepoltori, e quando essi pure mancarono, i cadaveri insepolti nuove morti cagionavano. Si sperò salvezza da suor Orsola Benincasa, morta testè in odore di santa; e non che cassette, ma barili si empirono di monete, offerte per alzare un monastero alle sue monache. Poi il popolo incolpava gli Spagnuoli di spargere veleni e unti, e che perciò morissero più vulgari che ricchi; dappertutto vedeva avvelenatori e polveri; e molti scannò a furore, altri processati, come un Vittorio Angelucci, reo d’altre colpe, ma offerto vittima al pregiudizio. Il morbo diffondeasi nella provincia, passava a Genova, che all’interruzione dei traffici preferì questa terribile eventualità; passava a Roma, ove pure fu creduto manifattura degli Spagnuoli, per punire il papa d’aver ricevuto l’ambasciatore del sollevato Portogallo. Insomma il vulgo attribuiva la peste fisica a quelli che n’erano veramente la peste morale. CAPITOLO CLIII. Guerra della Valtellina. Successione di Mantova e del Monferrato. Il Mazarino. Tanto basta a conoscere gli umori de’ governanti di Spagna, e quella amministrazione, di nulla occupantesi meno che del bene de’ popoli; mentre tutta Italia, impotente di sè, trovavasi sbolzonata tra Francia e Spagna, quella rivoluzionaria per interesse, questa conservatrice materiale, «tutta gentilezza, tutta complimenti nelle apparenze, ma a chi ben guardi, tutta superbia, tutta avarizia, tutta crudeltà. Le mani, sproporzionatamente lunghe, distende per tutto ove meglio le torna conto, senza discernere l’amico dal nemico, lo straniero dal parente. Atta a dominare schiavi, incapace di governare uomini liberi, non è mai temibile tanto come allora che, colla corona in mano, tu la vedi trattare vezzi, pieni di pretesti di religione e di santa carità verso il dilettissimo prossimo». Così l’arguto Trajano Boccalini, il quale altrove scrive: — Se l’Italia volesse considerare diligentemente quale sia quella pace di ch’ella forse si vanta, conoscerebbe ch’ella deve altrettanto dolersi di questo ozioso veleno che la consuma, quanto nella sovversione e nella fiamma aperta delle guerre altrui va commiserando i danni degli amici». Egli medesimo introduce Francia a dire alla Spagna: — Con quella libertà che è propria della mia natura, voglio dirvi che l’impresa di soggiogare tutta Italia non è negozio così piano, come veggo che voi vi siete dato a credere. Poichè, quand’io ebbi li medesimi capricci, con mie rovine grandissime mi sono chiarita, che gl’Italiani sono una razza d’uomini, che sempre stanno con l’occhio aperto per escirvi di mano, e che mai si domesticano sotto la servitù di stranieri. E sebbene come astutissimi facilmente si trasformino ne’ costumi denominanti, nell’intimo del cuor loro servano vivissimo l’odio antico. E gran mercadanti della loro servitù, la trafficano con tanti artifizj, che, con essersi posti in dosso un paro di brachesse alla sivigliana, forzano voi a credere siano divenuti buoni Spagnuoli, e noi con un gran collaro di Cambrai, perfetti Francesi; ma quando altri vogliono venir al ristretto del negozio, mostrano più denti che non n’hanno cinquanta mazzi di seghe»[94]. Tutti gl’interessi e le passioni vennero a complicarsi in due imprese che lungamente esercitarono diplomatici e guerrieri; la sollevazione della Valtellina e la successione del Monferrato. Narrammo (Cap. CXLVIII) come la riforma religiosa fosse penetrata nella Valtellina, e quali le conseguenze. Essa valle, cogli annessi contadi di Bormio e di Chiavenna, avea formato parte del ducato di Milano, fin quando i duchi furono costretti cederli ai Grigioni. Di tal perdita non sapeano darsi pace gli Austriaci, poichè, la valle allungandosi da settentrione a mezzodì fra la Lombardia e il Tirolo, e fiancheggiandola i Grigioni a destra e il Veneto a sinistra, opportunissima l’avrebbero avuta a tragittar le truppe dalla Germania in Italia e viceversa, mentre torrebbe alle francesi di passare nel Veneto. Per questi tragitti di truppe Venezia, Spagna, Francia, Savoja aveano rimescolato incessantemente il paese stesso de’ Grigioni, intrigando e comprando le famiglie dei Pianta e dei Salis, corifee di due contrarj partiti. I Grigioni aveano stipulata col Milanese una convenzione di buon vicinato e libero il transito delle merci dirette a loro, purchè essi non lasciasser l’esercito nemico varcare al ducato di Milano. Ma quando prevalsero i Salis fautori di Francia, trassero ad una lega (1603) con Enrico IV difensiva e offensiva, dove nessuna eccezione faceasi a favor del Milanese. Se ne indignarono gli Spagnuoli; e il governatore conte di Fuentes mandò minacciarli; e vedendosi poco ascoltato, fabbricò un forte appunto ove la Valtellina e la valle di Chiavenna sboccano al lago di Como; sicchè di là poteva co’ suoi cannoni impedire e gli eserciti e le merci della Rezia, singolarmente il grano che questa trae dalla Lombardia. Ai reclami de’ Grigioni egli non badò, tanto meno dacchè tenne per nuova onta la loro lega coi Veneziani. Questa scadeva nel 1615, e i Veneziani mandarono a Coira per rinnovarla: ma gli attraversavano da una parte Francia, volendo da se sola dipendenti i Grigioni; l’Austria dall’altra per umiliare i Veneziani, che allora astiava per la guerra degli Uscocchi. Ma i Protestanti, a cui capo Ercole Salis, caldeggiavano gl’interessi veneti per avversione alla cattolica Spagna, e levato rumore (1618) cacciarono e l’ambasciadore francese e gli austrizzanti, e gridando alla corruzione, alla superstizione, piantarono un feroce tribunale (_Strafgericht_) che processò, bandì, multò, uccise gli avversarj, come tali contando gli zelanti Cattolici, e fra questi Nicolò Rusca, veneratissimo arciprete di Sondrio nella Valtellina (tom. X, pag. 571). Questa suddita indoloriva viepiù dal malessere dei padroni; e a tacere la sfacciataggine con cui i magistrati, che aveano compro all’asta le cariche, se ne rifaceano col vendere la giustizia, dai dissensi religiosi erano esacerbati gli animi. Perocchè quei che venivano a governarla dal paese de’ Grigioni, per lo più calvinisti, favorivano ai loro religionarj, de’ Cattolici turbavano le coscienze, il culto collo specioso titolo della libertà; le persecuzioni portavano riazioni; ai supplizj si rispondeva coi coltelli, finchè i Valtellinesi ordirono ed effettuarono un macello universale de’ Protestanti (1620 luglio). Il duca di Feria governatore di Milano, avutane contezza, lusingava di pronti soccorsi l’insurrezione; scoppiata che fu, esitò ad entrare nella valle, prevedendo sarebbe favilla di vastissimo incendio. Di fatto i Grigioni armarono per ripigliarsi le loro suddite; corsero proclami, accuse, giustificazioni, recriminazioni; la risolutezza degl’insorti inanimì i principi cattolici a sostenerli; l’imperatore armò ai confini tirolesi, Spagna ai milanesi; e si cominciò guerra che molti anni fu prolungata. I Grigioni rioccuparono la valle, ma tutti gli sforzi esterni erano elisi dall’intestino cozzarsi tra Cattolici e Protestanti. I primi avendo avuto la peggio, e trovandosi perseguitati ed espulsi, ricorsero agli Austriaci, i quali invasero il paese Grigione, e restituirono il sopravvento alla parte cattolica, che, col solito abuso delle riazioni, spense la libertà. I natìi poco tardarono a riscuotersi, e insorti cacciarono gli Austriaci che non potevano trucidare. Accorsero questi per vendicarsi; e se fossero riusciti a fissare il piede nella Rezia e congiungerla col Tirolo, «poteva dirsi stretto il laccio al respiro e alla libertà d’Italia» (Nani). E ne fu ad un punto, atteso che la Francia avea dato mano sin alla fazione austriaca, per quanto Venezia le intonasse come guasterebbe i proprj interessi col lasciare la Valtellina alla Spagna, che così avrebbe escluso perpetuamente gli eserciti francesi dall’Italia, e assicuratovi il passaggio a’ suoi. La ragione valse a combinare una lega (1622) fra la signoria veneta, il re di Francia e il duca di Savoja; e si fecero sonare tanto alto que’ paroloni d’indipendenza degli Stati e d’equilibrio scomposto, che fu preso il compenso di consegnare le fortezze della valle ai papalini. Acconcio viemeno risolutivo dacchè morì Gregorio XV, che forse meditava farne un appannaggio pe’ Ludovisi suoi nipoti, e Urbano VIII mostravasi disposto a qualunque accordo coi Grigioni (1623), purchè salva la religione cattolica in Valtellina. Di ciò mal s’acquetava la Francia, e in Avignone raccolse a congresso i ministri di Venezia, Savoja, Inghilterra, Olanda, Danimarca ed altri, col titolo di reprimere le trascendenze dell’Austria. Il risultato fu che Richelieu, ministro onnipotente di Luigi XIII, affidò un esercito al marchese di Cœuvres, il quale, ricantando liberazione e indipendenza, trasse le leghe Grigie a giurare la pristina alleanza, e occupò la Valtellina, senza che i papalini facessero ostacolo. Accorse il duca di Feria a chiudergli il varco pel Milanese, e costruttori genovesi oppose ai costruttori veneziani, che al Cœuvres aveano preparato una flottiglia sul lago di Como. Alcun tempo continuarono le fazioni, sin quando (1626), nella pace di Monson (pag. 71) tra Spagna e Francia, si convenne la Valtellina tornasse ai Grigioni, ai patti che godeva nel 1617; sola religione permettendovi la cattolica. Spiacque ai Valtellini il rimettersi a una servitù da cui si erano con braccio forte riscossi; spiacque ai signori di Francia l’abbandono della valle che aveano assunta in protezione; spiacque al papa si fosse stipulato senza sua saputa; spiacque ai Grigioni la restrizione imposta; e alla pace seguì un fremer d’armi universale, complicato dal tentativo che dicemmo del duca di Savoja contro Genova, e dalla guerra di Mantova. Abbiamo veduto (tom. VII, pag. 407) Luigi Gonzaga sottentrare ai Bonaccolsi nella signoria di Mantova col titolo di capitano: Giovan Francesco nel 1433 ottenne il titolo di marchese dall’imperatore Sigismondo, e di vicario perpetuo, il che equivaleva alla sovranità. I successori mantennero la fama di buoni guerrieri, e formato un corpo di valorosi, lo prestavano a chi pagasse (1484). Francesco II stabilì una razza di cavalli, che furono ricercati lungo tempo anche in Inghilterra: combattè col papa, con Francia, con Venezia, della quale comandava già gli eserciti alla battaglia di Fornovo; poi contro di essa nella lega di Cambrai: e caduto prigioniero, smise le armi, e si ritirò a governare in pace il suo paese. Terzo suo genito fu quel don Ferrante Gonzaga che più volte nominammo; il primogenito Federico II succedutogli (1519), ottenne che Carlo V nel 1530 ergesse il paese in ducato, aggiuntavi la signoria di Guastalla[95]. Finita con Giovan Giorgio la stirpe dei Paleologhi (1533), il Monferrato era conteso fra il duca di Savoja, il marchese di Saluzzo, e questo Federico Gonzaga, qual marito di Margherita, nipote dell’ultimo duca. Carlo V, che come di feudo imperiale pretendeva disporne, onde evitare l’incremento della Casa di Savoja, sentenziò a favore de’ Gonzaga (1536), i quali così stettero marchesi del Monferrato per quasi un secolo, fin quando Francesco IV, sposo a Margherita figlia di Carlo Emanuele I di Savoja, non lasciò altro discendente (1612) che Maria fanciulla di tre anni. Il cardinale Ferdinando zio di lei ne prese la tutela, poi anche il titolo di duca di Mantova: ma al Monferrato aspirava Carlo Emanuele con ragioni feudali per se stesso, o come a feudo femminino per sua nipote, con una soprassoma smisurata di dote e di compensi. La realtà si è che quella provincia pingue, padrona del Po, e a due passi da Torino, gli veniva d’estrema convenienza: ma altrettanta fermezza mettevano a contendergliela gli Spagnuoli, conoscendola troppo vicina a Milano, pericolosa in mano di quell’irrequietissimo, per la fortezza di Casale, la più importante d’Italia dopo Palmanova. Per quanto ogni prudente sconsigliasse Carlo Emanuele da un’impresa che capovolgerebbe tutta Italia, e a lui avverserebbe e Francia e Spagna, egli vi si ostinò, tessè molte ritortole, impedì tutti i proposti accomodamenti, e senza compassione per altrui nè timore per sè, minacciava, gridava voler assicurare l’italica libertà, ormai sopra lui solo appoggiata. Poichè le pratiche colla Spagna non valsero, e il duca di Lerma gl’intimò «Obbedisca», egli, trovandosi truppe veterane, e denaro onde arrolare Svizzeri e Borgognoni, sorprende il Monferrato mentre stava sicuro nella pace e nella protezione di Spagna, occupa Trino, Alba, Moncalvo (1613), con crudeltà e prepotenze da nemico. La questione, che pareva semplice, implicava anche allora l’eterna disputa sulla preponderanza straniera in Italia. Il papa ripeteva pace, pace; i Veneziani e il granduca sorreggevano Ferdinando Gonzaga, adombrando degl’incrementi di Spagna; altrettanto faceva il re di Francia, che, mentre dissuadeva Savoja da un’impresa che metteva a repentaglio la pubblica quiete, spediva a sostenere i Gonzaghi un loro parente. Perocchè Luigi, terzogenito di Federico II, nel 1565 sposando Enrichetta di Clèves erede del ducato di Nevers, era divenuto stipite dei Gonzaga di Nevers e Réthel; coi talenti e col valore acquistò nome; e sebbene Sully lo celii perchè «facea la campagna d’inverno entro una buona carrozza col manicotto per riparare le mani dal freddo», prese viva parte nelle guerre di religione, e lasciò memorie importanti su quel tempo. Carlo, costui figlio, spedito a soccorrere il parente, si gettò in Casale. Il granduca invia truppe, denaro ai Veneziani; l’imperatore Mattia ordina al Savojardo che desista dalla usurpazione, se no lo metterà al bando; Spagna fa dal governatore di Milano assalire il Piemonte, e sbarcare truppe condotte dallo stesso figlio di lui Filiberto ammiraglio. Ma nè esortazioni nè minaccie svoltano Carlo Emanuele, che sparpaglia manifesti e messi, blandisce o strapazza gli ambasciadori: «risoluto (scrive uno storico) d’ardere l’Italia purchè restassero le reliquie e le ceneri al suo profitto; gonfio d’ambizione e caldo di sdegno, se vedeva l’armi spagnuole a fronte, minacciava di tirarsi l’armi francesi nel seno; se il pontefice l’ammoniva alla quiete, protestava d’inondare la provincia d’eretici; se i Veneziani soccorrevano Ferdinando, bravava di commovere i Turchi e di spingere nell’Adriatico corsari stranieri». Intanto egli muove mezzo mondo; gli uni lusinga col gran nome d’Italia, altri inizza colle gelosie e coll’avidità; cede quando si trova alle strette, ma subito ripiglia le pretensioni, proclama insaziabile l’avidità degli Spagnuoli, mentre questi lui denunziano ambizioso, e intollerabile sovvertitore dell’italica quiete; anzichè sottomettersi ad atto che implichi umiliazione, egli si rassegna a veder guasti i territorj e i sudditi dalle armi e dall’epidemia. Allora si fissarono gli occhi in esso come nella speranza nazionale; «tutta Italia (scrive il vendereccio Siri) prorompeva colla penna e colla lingua in encomj e panegirici al nome di Carlo, e in affetti di giubilo e in applausi d’aver ravvivato nella sua persona l’antico valore latino; augurandogli la corona del divenire un giorno il redentore della franchezza d’Italia e il restauratore della sua grandezza»[96]; il poeta Marini confortava Venezia a non far pace colla Spagna, ma tenersi unita a quel duca per francare l’Italia dal giogo straniero; il Chiabrera lo celebrava dell’aver «chiuse a nemico piè l’Alpi nevose»; Fulvio Testi faceva che l’Italia, dopo descritti i proprj guaj, si confortasse che egli farebbe degli strazj di lei giusta vendetta, e lo sollecitava a rompere gl’indugi, e compire la grand’opera; al che taluno, in nome di Carlo, rispondeva, s’assicurasse, che la sua politica e il suo ferro sarebbero sempre rivolti a conforto d’Italia[97]. Il Tassoni scriveva le _Filippiche_ contro la Spagna, flagellando la nobiltà italiana «infettata da empj e servili pensieri», e tale che «se anche il Turco venisse in Italia, li troverebbe in gran parte suoi seguaci, più avidi d’assoggettarsi che non gli stranieri di riceverli in soggezione», giacchè «la servitù straniera tutti biasimano, ma tutti adorano, chi per ambizione, chi per avarizia, chi per timore»; e gli esortava ad unirsi a Carlo Emanuele e scuotere il giogo, come aveano fatto i nobili del Belgio e della Germania[98]. Nessuno fu ascoltato; nè la nazione nè gli altri principi operarono all’indipendenza. Osteggiavansi allora gl’Imperiali e i Veneziani a cagione degli Uscocchi; e i due rami austriaci di Spagna e di Germania parendo accordarsi a sottomettere affatto l’Italia, spingeano le galee del duca d’Ossuna e gli Uscocchi a infestare le marine di Nizza non meno che le adriache. Premeva dunque a Venezia che Mantova non cadesse agli Austriaci, i quali così la circonderebbero; laonde l’abate Scaglia, astuto ministro dell’astuto Carlo Emanuele, potè ottenere da essa, non manifesti soccorsi, ma sussidj; Francia stessa alfine si chiarì pel Savojardo; e le spade famose del maresciallo Lesdiguières e di Carlo compromettevano l’onor militare della Spagna. Pure, col trattato di Pavia, mediato dal Cristianissimo, a Ferdinando furono assicurate Mantova e il Monferrato; Carlo Emanuele, non che acquistasse nulla, a fatica ricuperò la toltagli Vercelli; bensì crebbe in bellica riputazione come quegli che con poche forze avea fronteggiato gli Austriaci; tanto che i Boemi, ribellati a questi, pensarono chiamarlo al loro trono. Ma le successioni vacanti doveano essere per un secolo la desolazione dell’Italia. A Ferdinando di Mantova, che avea sposato Caterina sorella del granduca, succede Vincenzo II suo fratello (1620-27), cardinale anch’esso, e che anch’esso, pochi mesi dopo, muore senza figli: ultimo del ramo primogenito di una stirpe che allor allora aveva dato una sposa a Ferdinando II, una a Ferdinando III imperatori, una al re di Polonia. I vizj degli ultimi Gonzaghi gli aveano disonorati[99]; pure Mantova nella sua indipendenza avea goduto d’una prosperità, di cui più non si dimenticò[100], massime atteso i mali che allora le piombarono a ridosso. Perocchè subito sorsero pretendenti al Monferrato Maria nipote di Vincenzo, la costui sorella Margherita duchessa vedova di Lorena e Carlo Emanuele; al Mantovano, Ferrante Gonzaga principe di Guastalla, e più Carlo di Nevers, che nuovi titoli si procaccia collo sposare Maria, unica che dicemmo superstite del ramo estinto. Tutti si allestiscono di congiure, di protezioni, di denaro. Il conte duca Olivares, arbitro della politica spagnuola, propendeva a riconoscere il legittimo erede di Mantova; quando il Cordova, che provvisoriamente governava il Milanese e, come fanno questi soldati, desiderava rimanervi col mostrarsi necessario, fece visto alla Corte di Madrid quanto nocerebbe l’assettarvisi in due posizioni militari capitalissime un principe vassallo di Francia, che questa avrebbe introdotto di nuovo in Italia dopo mezzo secolo d’esclusione; e n’avesse ordini o no, tentò sorprendere Mantova, ma invano. Più di tutti s’infervora Carlo Emanuele, che ricampa le pretensioni sue, e mentre testè cospirava contro Spagna per carpire il Genovesato e spartirlo coi Francesi, adesso s’accorda di spartire il Monferrato cogli Spagnuoli. L’imperatore, desideroso di fare uno smacco alla Francia, trae in campo la sua alta sovranità, e pretende che il Nevers rimetta in lui i suoi titoli. Il papa, sebbene chiamasse Carlo «difensore della libertà italiana» e l’esortasse a fare da sé[101], doveva tenere carezzato l’imperatore, in grazia delle guerre religiose che allora imperversavano in Germania; i Veneziani, che aveano appena racconcio l’affare degli Uscocchi, non osavano contrariarlo: ma il Nevers si risolve alla difesa, e munisce validamente Mantova e Casale; e impegnando il suo patrimonio, compra dodicimila fanti, mille cinquecento cavalli di Francia. L’importanza di Savoja fu posta in evidenza dalla gara con cui Francia, Venezia, Spagna ne sollecitavano l’alleanza. Prevalsero gli Spagnuoli; e il duca, ritortosi contro l’esercito che di Francia calava (1629), al colle dell’Agnello lo sconfigge e disperde. Il Cordova, proclamando il bene dei popoli, il desiderio di liberarli dalla tirannia, e baje siffatte sempre ripetute, sempre mentite e pur sempre credute, con ottomila fanti e duemila cinquecento cavalli entra nel Monferrato e assedia Casale. I Monferrini, benvolti ai prischi padroni e addestrati alle battaglie ne’ tumulti precedenti, resistono intrepidi; i casalaschi sostengono l’assedio, in modo che il Cordova è obbligato impegnar quivi tutto il suo esercito, lasciando che Carlo Emanuele occupi non solo Trino e gli altri paesi a lui predestinati, ma anche taluni devoluti alla Spagna, e dissimulare per paura che colui non voltasse casacca. Di fatto il duca ascoltava proposizioni di qua e di là, e forse mandava vittovaglie ai Casalaschi, mal gradendo che quella fortezza venisse in mano degli Spagnuoli: «sicchè le campagne di Casale, destinate da don Gonzalo per Campidoglio de’ suoi trionfi, servirono di tomba per sepellirvi la sua reputazione e quella delle armi spagnuole». Quando di Spagna gli fu mandato lo scambio, il popolo milanese lo congedò a torsi di cavoli; e la guerra, e incidentemente il governo della Lombardia, furono affidati ad Ambrogio Spinola (n. 1569). Quest’illustre genovese, invogliato delle imprese che udiva compiersi da Italiani in Fiandra, era ito a combattervi; e fatto generale di Spagna, col credito e coi denari proprj raccolse molti venturieri anche italiani; dopo mirabile assedio ch’era costato centomila vite, prese Ostenda e la fortissima Breda; insegnò a sostituire galee alle navi da vela, colle quali meditava anche uno sbarco in Inghilterra; e parve degno di stare a fronte al maggior generale d’allora, Maurizio di Nassau: se non che questi difendeva la libertà, egli la osteggiava. Ma tanta gloria venne a logorarsi sotto Casale: e benchè vi portasse due milioni in denaro e poteri amplissimi sin di pace e guerra, sì bene lo trovò difeso dal marchese di Thoiras, che addolorato da questo primo sinistro delle sue armi, morì. Luigi XIII aveva prodigato promesse al Nevers; e dacchè ebbe faticosamente preso la Roccella, ultima fortezza che rimanesse a’ Protestanti, scese in persona pel Monginevra onde allargar Casale, mentre Nevers e i Veneziani irrompevano nel Milanese; e Carlo Emanuele, sconfitto a Susa, dovette di nuovo lasciare ai Francesi questa chiave d’Italia. Esso duca teneva già le terre che cogli Spagnuoli avea pattuito; laonde, non restandogli altro a sperarne, porse ascolto a Richelieu, che tra lui, Venezia e Mantova combinò una lega per francheggiare l’indipendenza italiana; il papa presterebbe ottocento cavalli, duemila il Cristianissimo, mille ducento Venezia, seicento Mantova, e ciascuno il decuplo di fanti; fu sin detto che Carlo Emanuele se la intendesse col famoso generale tedesco Waldstein, per tentare d’accordo una mossa che desse l’ultimo tuffo a Casa d’Austria. Aveva egli appena conchiuso, che ripigliò dispetto coi Francesi, i quali, fortificando Pinerolo, mostravano intenzione di radicarsi là donde gli avea divelti Emanuele Filiberto; lamentavasi di non avere col loro mezzo potuto ciuffarsi nè il Monferrato nè Genova, e negò il passo agli eserciti loro. Insomma, sentendo che e Spagnuoli e Francesi aveano bisogno di lui, a quegli e a questi perfidiava; prometteva agli uni di vittovagliare Casale, prometteva agli altri di trovare pretesti a non farlo; da Avigliana minacciava abbarrare i passi al Richelieu, dal Po minacciava irrompere nel Milanese: ma quell’interminabile scaccheggiare gli tornò a danno. Perocchè Richelieu, in arnese di cavaliero, e avendo a’ suoi comandi i marescialli di Bassompierre, di Crequi, di Chomberg, varca la Dora, e ad Avigliana lo sconfigge (1630). La successione di Mantova e del Monferrato implicava dunque tutta Europa, atteso l’incremento o la depressione che ne verrebbe a Casa d’Austria. Correva stagione che ai Cattolici sarebbe importato di tenersi uniti per far fronte ai Protestanti nella guerra che poi fu intitolata dei Trent’anni. La durata di questa portò in Germania una trasformazione della milizia; e poichè la feudalità non apprestava soldati per lunghe imprese, si reclutavano da una nuova specie di capitani di ventura, forniti di denaro dai principi. V’entravano prima valletti (_bübe_), poi scudieri (_knappe_), sinchè formavano una lancia (_lanzknecht_), donde il nome di Lanzicnecchi. Ogni loro devozione era pel capitano, non pell’imperatore che nè li pagava nè li ricompensava; e dello scarso e incerto soldo rifaceansi col rubare ad amici non men che a nemici; spirata la capitolazione, per privilegio imperiale poteano mendicare, spigolando come veterani se alcuna cosa avessero lasciato indietro come soldati. Ferdinando II imperatore, che di sue vittorie andava unicamente debitore alla Lega Cattolica, della quale era capo il duca di Baviera e braccio il Tilly, avrebbe voluto un esercito proprio, ma gliene mancavano i mezzi; quando glieli offerse Alberto Waldstein, povero gentiluomo boemo, che a Padova aveva studiato astrologia sotto l’Argoli, combattè nell’Ungheria sotto il celebre Basta mantovano, nella Boemia, nel Friuli, nella guerra degli Uscocchi, poi di nuovo in Ungheria sotto il napoletano Girolamo Caraffa di Montenegro, e fatto potente, nelle stelle credette leggersi pronosticata una suprema grandezza. Ed a questa unicamente egli mirava, non a vantaggi dell’imperatore e della Chiesa: gli studj occulti davangli del misterioso; e raccolto a proprie spese un grosso di Lanzicnecchi d’ogni nazione e d’ogni culto, che teneasi affezionati col saccheggio di tutta Germania, ed innalzato duca di Friedland, divenne arbitro dell’Impero. Molti Italiani militavano sotto di esso, Torquato Conti, Belgiojoso, Savelli, Collalto, Aldobrandini, Ernesto e Raimondo Montecuccoli, Piccolomini, Strozzi, Diodati, Serbelloni, Colloredo, Galasso, Isolani, che poi si arricchirono coi dominj strappati ai ribelli di Boemia: da artisti italiani, e specialmente da Giovan Pieroni architetto e da Baccio del Bianco pittore, fece erigere e ornare i suoi palazzi: e speciale stima avea de’ soldati e degli ufficiali napoletani che seco militarono, quali Orsini, Caraffa, d’Avalos, Caracciolo, Brancani, Toraldo, Tuttovilla, Liguori. A lui i Protestanti opposero Gustavo Adolfo re di Svezia, che rialzata la costoro fortuna in Germania, bravava di voler scendere sull’Italia, Attila novello[102]. Versava dunque in grave pericolo il cattolicismo; eppure la politica prevaleva al sentimento religioso, preparavasi guerra al papa, e Francia ed Austria osteggiavansi mortalmente per un paese che nè dell’una era nè dell’altra. Il conte duca Olivares grida che nell’affare di Mantova va della dignità della corona ispanica: Ferdinando II rimugina i diritti storici su Roma, vuole rivedere l’acquisto di Urbino, e — Sono cent’anni che Roma fu saccheggiata, ed oggi si troverà più ricca d’allora»; a Vienna ripetevasi: — Mostreremo agli Italiani che c’è ancora un imperatore; andiamo ad aggiustare le partite con essi». I fatti secondavano le parole; poichè Carlo di Savoja sperando incremento, salutava col titolo d’altezza il Waldstein, al quale Ferdinando promise la marca di Treviso e il titolo di duca di Verona se traboccasse sopra l’innocente Italia que’ suoi Lanzichnecchi, che da tre anni sossopravano la non meno innocente Germania. Da questa feccia di venturieri, viventi solo di ruba, senza patria nè onor di bandiera nè altro sentimento fuorchè l’avidità, esacerbati nell’atroce latrocinio dal gusto di far male ai Cattolici, essi in gran parte luterani, si schiumarono i più valenti, cioè i più ladri e spietati; e accolti a Lindau sul lago di Costanza, mentre credeasi l’imperatore li voltasse contro la Francia, li diresse invece pei Grigioni verso l’Italia. Erano trentaseimila, sotto Mérode, Collalto, Corrado, Furstenberg, Altringer, Galasso, Baldironi ed altri capitani, i cui nomi ripetevano le madri per isgomento dei figliuolini. Mentre in Francia si declamava e prometteasi salvare l’Italia, i Lanzicnecchi per la Valtellina, già immiserita dalle guerre di religione, scesero in Lombardia, lasciando dappertutto il guasto e l’inverecondia, domandando con superbia, esigendo con atrocità, raccogliendo le maledizioni di amici e di nemici. Il papa, temendo non rinnovassero le scene del Borbone, piantò di fretta fra Modena e Bologna quel che da lui fu detto Fort’Urbano, e affollò truppe a difesa. Il duca di Mantova rifuggì a Crispino, non avendo tampoco da vivere se Venezia non l’avesse sussidiato: i Lanzicnecchi assediarono la sua città, e sebbene certi che, consunta di cibo, solo pochi giorni potea tenere, vollero averla d’assalto (18 luglio) per saccheggiarla. Ciò che di peggio si legge o s’immagina, fu allora fatto per tre giorni dai Tedeschi a Mantova; le ricchezze che in tre secoli v’aveano adunate i Gonzaga, tali da destare invidia ai maggiori monarchi, andarono preda ai brutali; le donne tedesche ai loro cenci sostituivano le migliori vesti che trovassero e pompeggiavano insultando tra il sangue e i pianti; si mangiarono perfino carni umane arrosolate. A diciotto milioni di scudi si stimò il danno, oltre pellegrini capidarte, oltre quel che non ha prezzo, le violenze e le profanazioni[103]. Il _pio_ Ferdinando d’Austria si rammaricò immensamente di quello strazio; più ancora la _piissima_ sua moglie Leonora Gonzaga; ma intanto al popolo, già spoglio di tutto, l’inesorabile Altringer impose la contribuzione di centomila doppie, e a chi tardasse, bastonate. Nè bastava, giacchè que’ sozzi nella lentissima loro marcia lasciarono la peste. Era fresca ancora in Lombardia la memoria di quella del 1576, denotata da san Carlo che ne fu l’eroe a Milano. Una grave carestia, prodotta da insolita quantità di nevi, aveva disposto allora i corpi all’infezione, che venuta di Germania per Bellinzona ed Oleggio, invase Milano e il resto della Lombardia e del Veneto. Venezia spaventossi di dover confessare la pestilenza, che ad un tratto ne svierebbe il commercio e i forestieri; e i professori di Padova, nominatamente i famosi Mercuriale e Capodivacca, sostennero non poter essere contagioso il morbo che serpeggiava, attesochè molto più rapida ne sarebbe stata la diffusione, nè sarebbesi arrestato nelle povere e malsane abitazioni; e in prova esibivano di porsi essi medesimi alla cura: in conseguenza doversi tôrre via le precauzioni che sgomentavano, come le barche imbiancate di calcina che trasportavano i cadaveri e le robe infette. Peggiorata la condizione, tardi si presero saviissimi provvedimenti: per ogni sestiere tre persone illustri soprantendessero alla salute pubblica; una donna patrizia, una cittadina, una popolana per ognuna delle settantadue parrocchie provvedessero al bisogno degl’infermi; pene severissime e fin di morte a chi trasportasse roba da casa a casa; dalle finestre i fornaj ricevessero il pane da cuocere e rendessero il cotto; non più scuole, non cenciajuoli, non accattoni, non frati e monache mendicanti, non gittare immondezze; purgati la notte gli smaltitoj e le fogne, nessuna chiesa si ornasse che colle tappezzerie consuete; non si ricevesse alcuno a bere o mangiare nelle taverne; oltre le provvidenze per le case infette e sospette. E subito che ad uno comparissero i funesti segni, di qualsifosse condizione, era tradotto all’isola Santa Maria di Nazaret, ove per consiglio di Bernardino da Siena erasi, il secolo precedente, eretto uno spedale per gli appestati e la quarantena. Cresciutone il numero, si ponevano entro vecchie galee, e la carità de’ preti, la solerzia de’ medici e degl’infermieri, l’abbondanza di acqua, di farmaci, di viveri, di panni, la sollecitudine de’ vigilanti sopra la salute, la diligenza delle sepolture e degli spurghi, costarono immense somme, eppure non diminuirono il male, che trasse con sè i consueti disordini; e dall’agosto 1575 al marzo 77 perirono da cinquantamila vite. La magnifica chiesa palladiana del Redentore fu poi eretta per voto della liberazione. A Milano, penetrata l’agosto, durò tutto dicembre, uccidendo più di diciassettemila persone, assistite da san Carlo, il quale diceva poi: — Non è stata la prudenza nostra, che al principio della pestilenza rimase così stupida e confusa: non la scienza de’ medici, che non è arrivata pure ad intendere le radici di questo male, tanto meno a trovarvi sufficienti rimedj; non la diligenza intorno agl’infermi, rimasti miserabilmente abbandonati; ma la gran misericordia di Dio, che ha ferito e sanato, flagellato e consolato». Per voto fu alzata la rotonda di San Sebastiano; e dappertutto in quell’occasione si pubblicarono libri, si fecero editti e provvisioni pel caso che il flagello si rinnovasse: ma poco valsero quando, solo mezzo secolo trascorso, si riprodusse. Perocchè sul passaggio di que’ luridi Lanzicnecchi per la Valtellina, il lago di Como, la Brianza, la Geradadda, cominciarono a scoprirsi cadaveri, coperti di sozzi buboni; il popolo era già sbigottito da una cometa comparsa poco prima, e che diceasi nunzia di guerra e di peste; i medici mostrarono il pericolo instante; le città chiesero ripari; ma i governatori erano stretti da doveri ben più imperiosi, la guerra[104]: quel di Milano rispose non saper che farvi, atteso che il passo di quell’esercito «era necessario al servizio ed interesse di sua maestà cesarea, e più presto s’arrischiasse il pericolo temuto, che si perdesse la reputazione dell’imperatore»[105]; e l’Arconati presidente del senato «non sapea darsi a credere che fosse per venirne tanto male». Così il morbo lasciossi propagare in Lombardia ed entrare in Milano, ove ben presto fin cinquemila al giorno perivano. Per tradizione popolare e per componimenti letterarj è viva in tutti la memoria di quel disastro, nel quale basterà qui dire come, nulla giovando gl’inesauribili soccorsi della carità cristiana, i due milioni e più spesi dal Comune, e un milione ducentomila dal cardinale Federico Borromeo, essa città perdette da centomila abitanti, e in proporzione la campagna e le città di provincia. Nè quivi solo, ma per tutta Italia infierì il morbo; in Torino di undicimila abitanti ottomila perirono; diecimila a Como, settantacinquemila a Genova, ottantamila in Venezia e seicentomila ne’ dominj di terraferma: si estese poi al resto d’Italia, ove pare mancasse un terzo della popolazione[106], e molte terre rimasero disabitate, sì che più non si ricuperarono. Fu il colpo di grazia a questo povero paese, ove non si trovò più rimedio allo spopolamento, all’abbandono delle campagne, alla trascuranza delle arti, alla prostrazione degli spiriti sotto d’una sventura così estesa e irreparabile, e nel dubbio d’una altrettanto immensa perversità. Perciocchè gli uomini, che, non potendo querelarsi di Dio, hanno bisogno di svelenirsi contro qualche uomo e mascherare di livore lo scoraggiamento, cominciarono a credere che il morbo fosse propagato con unti micidiali, fabbricati per malizia politica mista a diabolici concerti, e pagati da gran signori, fossero i Francesi, o il duca di Savoja per meglio ingrandire, o il governatore Cordova per vendetta degli sgarbi usatigli dai Milanesi, o qualche ambizioso che nella ruina universale sperava elevarsi. La credenza prese una spaventevole estensione; e l’autorità, forviata dal giudizio popolare, processò alcuni e li mandò ad orribili supplizj, colla legale iniquità dando ragione al furor popolare; ed eresse una colonna _infame_, che doveva ai posteri ricordare non la loro scelleraggine, ma la barbarie dei giudizj o la debolezza de’ giudici, che immolavano fino la legalità al pregiudizio plebeo ed alla paura[107]. Sì orribili miserie non commoveano l’atroce inettitudine o la caparbia ambizione dei padroni d’Italia, nè la guerra nel Monferrato cessò finchè la peste non ebbe decimato e rubatori e derubati, e reso vuoto ed incolto il paese che i forestieri si disputavano. Il veder tanti maneggi riuscire alla perdita de’ preziosi suoi possessi e allo strazio dello Stato, amareggiò Carlo Emanuele, che morì a Savigliano (1630), lasciando di sè fama variissima; lodato da quelli che pregiano l’ambizione d’ingrandire e il proposito di sbrattare dai forestieri e d’unificare l’Italia, quand’anche i mezzi siano conducenti a sbranarla ed a sottometterla ai forestieri. Vittorio Amedeo succedutogli con pensieri più moderati e leali, era cognato del re de’ Francesi, eppure da principio dovette combatterlo non senza abilità. I Francesi, guidati dal maresciallo Thoiras, non riuscivano a liberar Casale, nè gli Spagnuoli a prenderlo; intanto d’ogni parte si combatteva e guastava alla peggio. Giulio Mazarino, nato a Piscina negli Abruzzi, venne per gli studj a Roma, dove suo padre[108] avea servizio in qualità di gentiluomo coppiere nella casa Colonna. Girolamo di questa famiglia, che poi fu cardinale, piacquesi dell’ingegno svegliato del giovinetto, e menollo seco in Ispagna a studiare nell’Università di Alcala, donde ritornò per assistere suo padre accusato d’omicidio. Quando poi il connestabile Colonna levava milizie pel papa, il Mazarino ottenne una compagnia di fanti. Da Torquato Conti, generale delle genti della Chiesa in Valtellina, fu adoprato per trattare coi generali spagnuolo e francese, e su quegli affari stese una relazione, che al papa ne rivelò la capacità. Reduce a Roma, cercò entrare a servizio del cardinale nipote; ma poco profittando alla Corte, attese a studj legali. Quando Gianfrancesco Sacchetti, commissario generale delle armi pontifizie in Valtellina, fu destinato alla guerra di Mantova, Urbano VIII volle espressamente prendesse a lato il Mazarino, di cui subito apparve la destrezza politica nel trattare con Francesi e Spagnuoli, sicchè anche dopo dato lo scambio al Sacchetti, fu lasciato colà, dove impegnatosi di rimettere la pace, correva dagli uni agli altri per ridurvi gli animi, e potè introdurre una tregua, per cui Casale fu data agli Spagnuoli, la cittadella ai Francesi. Vi tenne dietro la pace di Ratisbona, compiuta dal trattato di Cherasco (1630-31), sotto la mediazione di Urbano VIII, stipulandosi che Francesi e Imperiali uscissero d’Italia, l’imperatore desse al Nevers l’investitura del Mantovano e del Monferrato, tenendo però guarnigione in Mantova e Canneto; il Nevers cederebbe alla Savoja Trino, Alba ed altre terre del Monferrato, che fruttassero diciottomila scudi l’anno; Luzzara e Reggiuolo al duca di Guastalla; la Francia serberebbe Pinerolo, Bricherasco, Susa, Avigliana, solo fintantochè il Mantovano e il Monferrato non fossero assicurati al duca di Nevers. A questo fu restituito il funesto Casale; e quando ritornò in Mantova, i principi gli rifornirono la casa depredata, il granduca mobili e paramenti, il duca di Parma gli argenti da tavola, quel di Modena cento paja di bovi con altrettanti agricoltori. Tutte le parti esclamarono contro questa pace: gli Spagnuoli ne vedeano scassinata la loro reputazione in Italia; i Francesi stizzivano d’abbandonare ancora quelle porte della penisola; il duca di Mantova, sì solennemente protetto dalla Francia, trovavasi smebrata la miglior parte del retaggio; laonde già stavasi per tornare alle mani, quando il Mazarino, galoppando di mezzo alle truppe in marcia, e gridando pace di qua, pace di là, riuscì a rattoppare. Vittorio Amedeo, per quanto di pessima voglia, dovette cedere ai Francesi Pinerolo e la val di Perosa, affinchè il Richelieu non gli contendesse la ottenuta parte del Monferrato. Ma le gelosie fra il Richelieu[109] e il conte duca Olivares, quello padrone di Luigi XIII, questo di Filippo IV, intesi a nuocersi in ogni parte d’Europa, e ingrandire i loro padroni, non tardarono a suscitare ostilità nuove tra Austria e Francia. All’una o all’altra si attaccavano i principi d’Italia, indipendenti di nome, servili di fatto. «Il duca di Parma (dice un contemporaneo), quel di Modena, Genovesi, Lucchesi sono deboli. Il granduca, votati gli erarj nelle guerre passate della Germania, non molto applicato agl’incomodi della guerra, con pochi e non sperimentati consiglieri attorno, è mal atto a opporsi; obbligato massimamente anch’egli ad ajutare, almeno in apparenza, gl’interessi degli Spagnuoli. I Veneziani, separati dalla Sede apostolica, che possono fare, se non gridare ad alta voce, _State attenti_, ma senza frutto? Il papa ha gli Stati circondati dagli Spagnuoli; solo non può; con chi farà lega, senza timore di essere abbandonato nel colmo del pericolo, in aperta diffidenza coi Veneziani e col granduca? Sicchè i principi d’Italia poca resistenza possono fare. Potrebbero chiedere ajuto al re di Francia; ma essi fanno come chi elegge morir piuttosto di veleno che di ferro, per allungare poche ore la vita; temono più la spada francese che la lima spagnuola»[110]. Il Richelieu, deliberato a rialzare la fortuna francese in Italia, e temendo che Savoja negoziasse cogli Spagnuoli affine di recuperare Pinerolo, gli intimò o lega o guerra. Vittorio dovette dunque a Rivoli stringere con Francia un accordo (1655 11 luglio) per conquistare insieme il Milanese, e spartirlo, facendo un rimpasto di tutta l’Italia; a Savoja toccherebbe l’Alessandrino, tutto il Milanese e il lago Maggiore, cedendo Cremona al duca di Mantova, creatura dei Francesi, il quale rinunzierebbe il Monferrato; altri vantaggi a Ottavio Farnese duca di Parma, che scontento dell’indiscreta vicinanza degli Spagnuoli, avea fatto gente e accolto i Francesi a Piacenza. Urbano VIII favoriva l’impresa, pur sempre procurando rappaciare mediante l’opera del Mazarino, allora secretario di monsignor Pancirolo legato a latere, e che instancabilmente spiava ed informava: ma Toscana, non sentendosi esposta, poco se ne pigliava briga; gli altri oscillavano; Venezia tenevasi in uffizio di paciera, non mirando tanto ad incrementi proprj o a libertà dell’Italia, quanto a conservare bilanciate Francia ed Austria. Nè di schietta fede operava nessuno; e mentre Vittorio collegavasi colla Corte di Parigi, suo fratello Maurizio cardinale rinunziava al protettorato di Francia per divenir protettore dell’Impero; e l’altro fratello Tommaso passava a servizio di Spagna; il che si credette fatto d’intesa, per trovarsi l’adito in tre luoghi. I Francesi, nojati di tante inquietudini avute da Carlo Emanuele, s’erano fitti a voler la Savoja[111]; e perchè, oltre Pinerolo, non mancasse un altro passo verso l’Italia, pensarono alla Valtellina, le cui sorti non erano ancora state definite. Affine dunque che di là non venissero soccorsi tedeschi al Milanese, rinvigorirono la parte francese tra i Grigioni, e mandarono in Valtellina il duca di Rohan, gentiluomo di gran nome e caporione de’ Riformati. Senza darne avviso egli traversa la Rezia, occupa la Valtellina per _proteggerne la libertà_, e vi esercita maestrevolmente la guerra di montagna. Lombardi si accolgono dal lago di Como, Tirolesi dal Tonale, Tedeschi dal Braulio per _ispennare i galli_, come diceano, e fra ciò trattando da nemico l’innocente paese; ma il Rohan li sbaraglia, e piantatosi nella valle, vi fa da padrone, obbliga i natii a rimettere all’arbitrio del re le loro differenze coi Grigioni, per quanto sapessero come Francia, e il Rohan specialmente per religione, propendessero ai Grigioni. Eppure questi ultimi non s’adagiarono all’accordo proposto; e il Rohan dalla sponda orientale del lago di Como tentava far una punta nel Milanese per dar mano ai Francesi che di Piemonte v’erano condotti dal maresciallo di Crequì. Costui, uom da caccie più che da guerra, con buon esercito assedia Valenza, ajutato dal Farnese duca di Parma, ma con tanta sfortuna quanta inettitudine; passa il Ticino a Buffalora, guastando il naviglio; accampa nella brughiera, desiderando almeno saccheggiar Milano: ma sì improsperamente si conduce, che va fama siasi lasciato corrompere dall’oro austriaco; — frase antica. Se si pensi che le truppe anche amiche ricevevano scarsissima paga, la quale spesso era ritardata, sicchè esigevano imperiosamente il vivere dai privati o dai feudatarj, nelle cui case e terre alloggiavano, si comprenderà qual fosse la miseria di popolazioni, che non sapevano mai fin dove arriverebbero le esigenze di costoro. Vittorio Amedeo, generalissimo della Lega, opera in tentenno perchè non volenteroso, e perchè ingelosito del Crequi, per modo che i Francesi sono costretti a ritirarsi, imputandosi a vicenda la mala riuscita. Il Farnese che aveva osato cimentarsi con Spagna, eccolo esposto ai risentimenti di questa e del papa suo sovrano; il papa si contentò d’intimargli cessasse le armi; il duca di Modena ne invase gli Stati con soccorsi di Lombardia; e li desolarono finchè il papa rannodò la pace (1536), restando Sabbioneta agli Spagnuoli, e ruinato il paese. Francesco di Modena ottenne dagli Spagnuoli il principato di Correggio, tolto a Siro che avea adoprato consulti e coraggio per salvarsi dai Tedeschi, e che ne veniva spogliato col pretesto di adulterata moneta[112]. D’altra parte in mezzo ai Grigioni, sempre scissi tra Francia e Spagna, quest’ultima prevalse, in grazia delle condizioni che il re di Francia avea proposte alla Valtellina, e fece animosi a cacciare i Francesi: il Rohan vi accorse, e preso in mezzo dagli insorgenti, e non soccorso dal Richelieu per invidia, dovette tornarsene al suo paese. Ai Valtellinesi non restò più che rimettere la loro sorte all’arbitramento della Spagna. Un consiglio ecclesiastico a Madrid decise potersi popoli cattolici riporre sotto il dominio d’eretici, purchè cautelati che nella religione non avrebbero molestia; e la valle, dopo tanti patimenti e tanto sangue, fu restituita ai Grigioni. Maggior gola a Francia e a Spagna faceva il Piemonte, sicchè lo rimescolarono fin nelle viscere. Vittorio Amedeo morì a Vercelli (1637) ancor fresco, e sì improvvisamente che la fama il disse avvelenato dal Crequì[113]; e Carlo Emanuele II suo figlio non avendo che quattro anni, Spagna ed Austria s’impegnano per darne la tutela ai zii Tommaso e Maurizio ad esse devoti; mentre i Francesi appoggiano Madama Reale, cioè sua madre Cristina figlia d’Enrico IV e sorella del regnante di Francia, al quale per tal modo riuscirebbe ligio il Piemonte. Qui lunghi intrighi de’ confessori, ch’ebbero sempre grand’entratura in quella Corte[114]. L’imperatore pretende che Cristina produca le sue ragioni avanti a lui: e perchè essa sdegna quest’atto di vassallaggio, egli si chiarisce per gli zii, che ustolando l’eredità del nipote o almeno la reggenza, si rassegnano persino al vassallaggio dell’imperatore, a ricever guarnigione spagnuola in tutte le fortezze, e ad altre dure condizioni; compromettendo l’indipendenza dello Stato, mentre spargono che Madama lo sagrificasse ai Francesi. E danni e pericoli venivano in fatto dalle vivacità francesi, dalla lentezza spagnuola, dalle divisioni intestine; Galli-Piemontesi combattono Ispani-Piemontesi; ogni città osteggia l’altra con insegne avverse e tutte straniere; a gara guastansi campagne e vite; preti e frati parteggiano ed aizzano; i tradimenti si alternano colla forza aperta. Anche il mare è contaminato di stragi; e la flotta spagnuola diretta alla Finale per portare uomini in Lombardia, è assalita dalla francese in vista di Genova e sconfitta, ambedue perdendo il loro generale. Il Leganes governatore di Lombardia, protestando venire in Piemonte soltanto per tutelarlo dall’oppressura francese, distrugge Breme (1639), al cui assedio era perito il Crequì; dopo gloriosa resistenza prende Vercelli, ciuffa Cherasco: il principe Tommaso sorprende Torino, ma le natie contestazioni impediscono d’assediare la cittadella in cui Madama erasi gettata. Il Richelieu volò a soccorrere la sorella del suo re, ma opera interessato; e per trarre dalle strettezze di essa vantaggi alla Francia, fin colle minaccie voleva indurla a consegnare a lui i suoi figliuoli e la fortezza di Monmeliano; il che essa ricusò. Casale, spasimo degli Spagnuoli, torna campo di fiere battaglie (1640), ed Enrico di Guisa conte d’Harcourt ed il maresciallo di Turenne vi esercitano la famosa loro abilità. Leganes, qui occupato, non potè soccorrere Tommaso, che dopo memorabile assedio fu costretto rendere Torino al maresciallo d’Harcourt[115] (17 9bre); e la Reggente vi ricomparve. Consigliere, sostenitore e amico di questa era sempre il conte Filippo d’Agliè, perciò odiato dal Richelieu; e il governatore francese un giorno lo invita a un ballo, il fa cogliere e portar prigione a Vincennes: talmente gli amici erano funesti non men de’ nemici. La pace era fatta, ma Francia non volea sgombrare le terre occupate, non Spagna le sue, i due zii pretendevano piazze forti per propria sicurezza, e si tornava ogni tratto ad avvisaglie. Di tale stata e della debolezza d’una principessa bella, leggiera, adulata, vantaggiavansi i nobili, che soprusavano ai popolani e malversavano il denaro pubblico. Frattanto l’instancabile Richelieu suscita nemici alla Spagna sì in Catalogna, sì in Portogallo, sì nel principato di Monaco. In questo brano della deliziosa riviera ligure, appartenente alla Casa Grimaldi, fin dal 1605 Spagna teneva presidio per concessione del fanciullo Onorato II; ma poichè essa non pagava i soldati, il principe era costretto mantenerli; sicchè, desideroso di sbrattarsene, s’intese coi Francesi, avvinazzò la guarnigione spagnuola, e ne fece macello. I Francesi vi buttarono proprio presidio, nè più ne uscirono, conferendo al principe il titolo di pari di Francia e il ducato del Valentinese. Nuovi accordi del duca Tommaso colla Spagna portarono nuove ostilità; all’assalto d’Ivrea, l’Harcourt diceva ai soldati: — Figliuoli, salvate le mura pel re, tutto il resto è a voi»; ogni cittaduola, ogni bicocca fu assaltata e difesa; sinchè Madama pacificossi coi cognati, troppo tardi scaltriti che mal si compra un trono con braccia forestiere. Nel trattato di Torino ella fu riconosciuta tutrice; però gli editti doveano farsi «con l’assistenza de’ principi cognati e col parere del consiglio». Maurizio, tornato al secolo e sposata Luigia sorella del duca, veniva a governare o piuttosto a regnare su Nizza; Tommaso su Ivrea e Biella; ed esigevano dal Piemonte buoni denari per soddisfare i mercenarj con cui il Piemonte aveano sobbissato. Luigi XII li toglieva a protezione e stipendio, purchè molestassero gli Spagnuoli; che in fatto vennero attaccati in ogni parte, e Piemontesi e Francesi occuparono molte terre lombarde. Moriva tra questo il Richelieu (1642-43), e poco dopo Luigi XIII, di cui quegli era stato l’anima; e sottentrava Luigi XIV ancor fanciullo, sotto la reggenza di Anna, ch’ebbe per ministro Giulio Mazarino, del quale i Francesi dissero tanto male solo perchè italiano. L’abbiamo purdianzi trovato destro negoziatore a Cherasco, altrettanto buon capitano mostrossi in Valtellina, e sebbene coraggioso ad affrontar le spade in duello e le fucilate in una mischia, preferì la vita ecclesiastica, come più opportuna a salire. Di fatto i grandi politici allora formavansi nella Chiesa, che, oltre svolgere le facoltà dell’uomo, vi aggiungeva la dignità del grado. Presa la sottana, fu sommista del cardinale Barberini con ottocento scudi di provvigione, poi vicelegato ad Avignone, poi nunzio straordinario in Francia. Tornato a Roma, gli Spagnuoli lo perseguitarono come propenso ai Francesi, onde il Richelieu, che aveva imparato a stimarlo come nemico, lo invitò in Francia; e Luigi XIII lo naturalizzò e lo propose cardinale; allora andò ambasciadore straordinario al duca di Savoja e plenipotente ad Amburgo: e il Richelieu, che gli aveva specialmente commessi gli affari d’Italia, morendo lo raccomandò come capace di compiere l’opera sua. In fatto egli riuscì a conchiudere la pace di Westfalia (1648), dopo trent’anni di guerre religiose, e dopo che da quattro anni vi disputavano cencinquanta ambasciadori: dove fu rimpastata la carta d’Europa, e alle momentanee alleanze e alla forza sostituito un diritto universale delle genti, arbitrario in parte, ma con garanzie tratte dai fondamenti dell’ordine sociale. Il Mazarino, conquistato il cuore della Reggente per dominarne lo spirito, seguitò perseverantemente il proposito del Richelieu d’indebolire gli Austriaci fuori, dentro abbattere i signorotti onde assodare la monarchia; opera più difficile a lui perchè straniero, senza radice nè appoggio, e con un re pupillo. Trionfò della elegante ribellione di Parigi denominata la Fronda, e questa si vendicò del suo vincitore disonestandone la memoria con un sobisso d’epigrammi, consegnati nelle _Mazarinade_: fatto è che, senza velleità d’innovare il sistema del Richelieu, menollo a fine; conchiuse le due grandi paci di Westfalia e de’ Pirenei; trovò mezza Francia ribellata, eppure senza far morire un sol uomo rese vincitrice la monarchia; seppe ritenerla dagli eccessi, e portare quel regno al colmo del suo ingrandimento intellettuale e territoriale. Simulatore e dissimulatore, più avido della potenza che della gloria, non operando a inclinazione ma a calcoli, non falsando il giudizio per vanità, sagrificando l’amor proprio all’ambizione, entrando negli interessi e nelle viste di quei che voleva persuadere, più che rispetto per sè, cercando infondere disprezzo per gli avversarj, ricorrendo a spedienti spesso vulgari, alla doppiezza ancor più che alla riflessione, non iscrupoleggiando su promessa o moralità, non badando ad affetti o ad ingiurie, nè rincrescendosi di cedere, purchè potesse poi ripigliare e raggiungere il suo scopo. Netto e diritto giudizio in mezzo ai passionati, mente provvida e feconda, benchè neppure nei grandi divisamenti mostrasse ampia veduta, più attivo che creatore, e riponendo l’arte del governare nel negoziare; volontà flessibile non debole, adottò per impresa _Il tempo e me_: mentre Richelieu immolò inesorabilmente i suoi nemici, egli non offese mai alcuno per conto proprio, gli ostacoli rimoveva anzichè spezzarli, e professava che il mondo bisogna comprarlo. Cercò la propria grandezza; sì, ma questa era grandezza del Governo, e il Governo era necessario. Tutto dovendo al re, al re era devotissimo; ma il non essere francese fu il suo scoglio, la causa della sua impopolarità, pochi amici avendo fin tra’ suoi stessi creati. Eppure la condotta di lui, se non fu la più onesta, fu la più utile alla Francia, la quale non può non contarlo fra i suoi Quando a cinquantanove anni morì (1661), lasciava più di cento milioni, di cui seicentomila lire al papa per la guerra col Turco; quattrocencinquantamila alla duchessa di Modena, figlia della Martinozzi sua sorella; a questa diciottomila di rendita perchè continuasse e crescesse le sue carità; alla nipote Olimpia Mancini, che fu madre del principe Eugenio, trecentomila, oltre ducencinquantamila per la sopravvivenza d’intendente alla Casa della regina; alla Corona diciotto grossi diamanti e tappezzerie su disegni di Rafaello; a Parigi il collegio Mazarino con due milioni e colla biblioteca; e una parte del suo palazzo divenne la biblioteca nazionale. Abbiamo trovato e troveremo il Mazarino continuamente nelle vicende d’Italia, dove non cessò mai d’osteggiare la Spagna, fosse nella maremma toscana, fosse in Lombardia, principalmente sull’Adda; e colla duchessa di Savoja conchiuse il trattato del Valentino (1644), pel quale le rilasciava tutte le piazze, eccetto la cittadella di Torino. Allora il duca Carlo Emanuele II potè entrare nella sua capitale, le armi savoiarde presero fin Vigevano, e cooperarono costantemente colle francesi. Ma l’irrequieto duca Tommaso portava il valore e gl’intrighi suoi in ogni parte, agognando sempre un dominio. Si credette complice d’un frà Gandolfo che con altri avea tramato per avvelenare Madama e il giovane duca, e che scontarono colla vita; onde Madama riuscì a torgli Ivrea. Sempre col piede in due staffe, costui, quand’era del partito spagnuolo (dice Alberto Lazzari) seppe servire ai Francesi, e quando militava co’ Francesi prestava servizio agli Spagnuoli (-1656). Quando la Francia si trovò assorta dal tramestìo della Fronda, i ministri di Milano e di Napoli s’accordarono per isnidare i Francesi anche da Piombino e Portolongone, dianzi acquistati, e ne vennero a capo. Al tempo stesso il Carasena governatore di Milano tentava cacciarli dal Piemonte, e alla reggente Maria di Monferrato promise cedere il contrastato Casale appena presolo, purchè ella volesse sconnettersi dall’alleanza di Francia. Fece ella, e il Carasena prese Trino e Crescentino (1652), saccheggiò quant’è fra il Po e la Dora, sempre dando voce che gli acquisti cadrebbero in vantaggio del duca di Mantova. Tra per forza e per corruzione venne dal presidio francese sgombrato Casale; ma mentre lusingavasi di tornare a dominazione italiana, si trovò occupato da Tedeschi e Spagnuoli. Quindi un lungo ed irresoluto battagliare, finchè il Mazarino, ripigliato il sopravvento in Francia, restaurò le cose (1659), e conchiuse la pace de’ Pirenei. In questa si trattò degli Italiani solo in quanto amici o nemici alle due potenze, e si fermò che tra Savoja e Mantova vegliasse il trattato di Cherasco; il principe di Monaco fosse restituito nella grazia e nel possesso; il Cristianissimo renderebbe al re di Spagna le piazze di Mortara e Valenza sul Po; Spagna accoglierebbe amichevolmente il duca di Modena; perdono ai Napoletani che aveano portate le armi nelle passate guerre, od erano fuorusciti. Ma era nei destini che per Mantova vacillasse continuamente in quel secolo la pace d’Italia. Carlo di Nevers lasciò il dominio (1637) al nipote Carlo II, al quale successe Carlo III ancor fanciullo (1665). Cresciuto ne’ vizj paterni, dissipando in feste il denaro, in lascivie la salute, perdè la speranza di figli. Ecco dunque tornare in campo la contesa del succedere; e parendo che la moglie del duca di Lorena, figlia dell’imperatrice ch’era dei Gonzaga, fosse chiamata all’eredità del Monferrato, l’imperatore maneggiò per assicurargliela, vivo ancora il duca. Questi, tribulato dai diversi aspiranti, mostrò inclinare per Luigi XIV, e mandò il conte Mattioli bolognese con carta bianca per trattarne col ministro Louvois, col quale si accordò di consegnar Casale alla Francia. Ma reduce, il disleale manifestò quel maneggio (1679) al conte di Melgar governatore di Milano; onde Louvois, deluso, gli tese un laccio, e coltolo, il gittò prigione a Pinerolo, e poi di carcere in carcere, accompagnato da Saint-Mars destinato a custodirlo, finchè alla Bastiglia morì il 1703. Credesi lui essere quel misterioso, di cui si romanzò col nome di Maschera di ferro. Il trattato falliva, ma non l’avidità di Luigi, il quale colle lusinghe e le minaccie addusse il duca di Mantova a lasciare che Catinat entrasse di guarnigione nella fortezza di Casale. Quel codardo, rotto ad ogni bruttura, e che non bramava se non di imbrutire ne’ carnevali a Venezia, si attirò con quel fatto il disprezzo universale. Invano se ne finse innocente, e giurò sull’ostia di non averne avuto un soldo: i Veneziani a cui era rifuggito, gli tolsero ogni onoranza ed esenzione, proibirono ai loro nobili di aver a fare con esso. Quando poi si ruppe guerra, il comandante francese fece arrestare il mantovano, e Casale restò ai Francesi sino al 1695. CAPITOLO CLIV. Toscana. Così i paesi retti militarmente; la Toscana intanto avea principi e governo non forse migliori, ma volenti la pace, e che confondevano il ben proprio con quello de’ sudditi: onde ebbe a soffrire di meno, e avvolgeva di postumo splendore la decadenza. Cosmo I granduca al duca d’Este scriveva: — Con questi principi grandi è necessario governarsi in modo, che noi consideriamo bene i loro fini, e ci andiamo ajutando con avvertirci l’un l’altro, e opporci alle loro ingiuste mire, in forma che non ci mova la passione di Francia o di Spagna, ma solo il bene universale d’Italia, nostra patria». Vedemmo (t. IX, p. 501) com’egli, strozzata la repubblica colla forza e coll’astuzia, saldasse l’autorità con atti umani e con fieri, carezzando letterati e artisti, lasciando a tutti libertà di scrivergli, ma perseguitando a sangue coloro che si ostinassero sulle antiche reminiscenze. Se è merito ristabilir pace e giustizia a costo della libertà, egli il fece, e fuor di Firenze i Toscani erano contenti di lui. Ma i molti profughi, svampandosi coll’ultimo ristoro de’ vinti, lo sparlare, il disonestarono di nerissime accuse, che ripetute nel secolo passato dai fautori di Casa d’Austria succeduta a’ Medici, e nel nostro da quei che avversano il principato, lo scolpirono nelle storie, ne’ romanzi, nelle tragedie come un Tiberio (1562). Di cinque figliuoli natigli da Eleonora di Toledo, l’epidemia ne rapì di tratto due e la madre; e la malevolenza diffuse che don Grazia in rissa uccidesse il fratello Giovanni cardinale; di che furibondo il padre trucidò l’omicida; ed Eleonora per crepacuore ne morì. Aggiungeano che, feconda di sè, Cosmo desse una sposa al figlio, e più che da padre amasse la figlia Isabella. Nel fare il famoso corridojo che, traverso alle case di mezza città, congiunge i Pitti cogli Uffizj, entrato in casa Martelli vi conobbe la Camilla, e l’ebbe a sue voglie; ma essa si raccomandò a Pio V che lo indusse a sposarla, benchè senza titolo nè onori. Il giorno che egli morì, il successore le intimò di chiudersi nelle Murate, dove essa fece un tal tramestìo, che le monache impetrarono fosse trasferita altrove, e morì imbecille. Il figlio Francesco Maria (1574), non avendo i talenti nè la prudenza di Cosmo, s’abbandonò all’Austria, mentre disonoravasi in amori. Bartolomeo Capello veneziano, da Pellegrina Morosini avea generato Bianca, che bella, giovane e mal custodita dopo la morte della madre, prese vaghezza di Pietro Bonaventuri fiorentino, ragioniere al banco de’ Salviati a Venezia, e uscita una notte per parlargli lasciando socchiusa la porta, accadde che un fornajo di gran mattina andando per l’arte sua, credendola dimenticanza, serrò i battenti (1565 28 9bre). Non potendo più rincasarsi inosservata, ella fuggì all’amante, e venuti a Firenze si sposarono. Il consiglio dei Dieci, sopra istanza del Capello, e supponendola rapita per gola della pingue dote, bandì una taglia sopra il Bonaventuri e suoi complici, esigliò Bianca, confiscandole seimila ducati che teneva della madre. A Firenze ella con filtri e prestigi, come si disse, guadagnò il cuore di Francesco Maria. Il marito oltraggiato le rese la pariglia amoreggiando Cassandra Ricci maritata ne’ Bongianni; finchè Roberto de’ Ricci con altri dodici l’assalì sul ponte Santa Trinita e l’uccise; mentre alcuni mascherati uccidevano nel proprio letto la Cassandra. Il granduca, non solo agli aggressori lasciò tempo di rifuggire in Francia, ma non dissimulò d’essere stato conscio del fatto. Poco poi Giovanna d’Austria, costui moglie, le cui gelosie aveano cresciuto lo scandalo, o sconciando o pel cruccio di quella tresca moriva, e il vulgo susurrò di veleno. Tanto più che, due mesi dopo, egli sposava secretamente la Bianca[116] (1578); poi finito il lutto, il partecipò ufficialmente alla Signoria di Venezia. E questa, ad istanza di lui, nominò cavalieri della stola d’oro il padre placato e il fratello di lei; non che abolir la sentenza e il processo, lei dichiarò vera e particolare _figliuola della Repubblica_, inviandole una corona ducale. Allora letterati e scienziati le dedicarono scritture; Speron Speroni la lodò in versi, la lodò il povero Torquato Tasso[117], al quale largì protezione e una tazza d’argento; che più? Sisto V le mandò la rosa d’oro. Bianca a posto turpemente acquistato si mantenne con intrighi, cinta da gentaglia ordinaria, ebrei, fatucchieri, distillatori, indovini; coi quali si bisbigliava studiasse incantesimi e fatture per mantenersi l’affetto del marito e il modo d’aver figliuoli. A questo desiderio non riuscendo, ne suppose uno, del quale dicono mandasse a male la madre. Più profittevolmente trescava Vittorio fratello di lei, intromettendosi agli affari, e vendendo le grazie; chiese a prestanza dal granduca tremila scudi, ed alterò la cifra in trentamila; del che scoperto, fu dal granduca cacciato. La Corte si modella sul padrone; Piero fratello del granduca pugnalò la moglie per infedeltà, che troppo aveva provocate colle sue; Isabella, suora di lui, pochi giorni dopo è strangolata dal marito fra gli abbracci conjugali. Il granduca Francesco moriva al 20 ottobre 1587, e al domani la Bianca, si disse per opera del cardinale Ferdinando Medici; il quale non soffrì ch’ella fosse deposta nelle tombe ducali, gli stemmi e i ritratti di lei furon levati d’ogni dove, il senato veneto proibì ogni lutto: il figlio suppositizio non fu riconosciuto: Bartolomeo restò ricchissimo ma disonorato, come che quel guadagno fosse «non conveniente alla grandezza dell’animo d’un generoso nobil veneziano che ha il suo fine sol nella vera gloria, la quale può bruttare un sol punto»[118]. Pellegrina, figlia di Bianca Capello, sposò il conte Ulisse Bentivoglio bolognese, il quale avendone ricevuto torti, la fece ammazzare presso Bologna (1598) con due donne ch’erano seco e il cocchiere. Il cardinale Ferdinando succeduto al fratello (1587), trovava tesori procacciati col traffico di diamanti e con due banchi a Venezia e a Roma: altri guadagnò col trarre, in grave carestia, molti grani dall’Inghilterra e dal Nord: quattro navi sue, con patente inglese e olandese, faceano vivo contrabbando in America a danno di Spagna: e impiegando un milione di scudi, sorpassava ogni concorrenza; provvede di denaro l’imperatore contro i Turchi, di truppe il principe di Transilvania; ad Enrico IV mandava secreti sussidj in odio di Spagna, e cercò riconciliarlo col papa; per lo che l’ambasciadore spagnuolo a Roma eccitò il famoso capobande Alfonso Piccolomini a invader la Toscana; ma Ferdinando lo prese, e malgrado i reclami l’appiccò (1591). Tre milioni di scudi si ricavavano fra drappi di seta, tele d’oro e d’argento, e rasce, che esitavansi in Inghilterra e in America; trecentomila scudi l’anno si spendeano in comprare sete greggie di Napoli; esercitavansi pure i rischiosi giuochi di banca; sicchè quando Filippo II fallì, molte case ne rovinarono. Ma già le nazioni studiavansi di non avere bisogno di mercanti forestieri, e viepiù Sully, l’accorto ministro di Enrico IV, sotto cui cessarono i vivi traffici colla Francia, e si chiusero le ultime case fiorentine a Lione. Allora molti che negoziavano fuori, rimpatriati si applicarono all’agricoltura; i Corsini e i Gerini da Londra, i Torrigiani da Norimberga; fiorentini si fecero i Ximenes mercanti portoghesi; il granduca da’ proprj piantonaj distribuiva gelsi a’ proprietarj: insieme si estesero gli uliveti e le vigne, piacque il lusso de’ giardini, ornati con pellegrinità d’Asia e d’America; e i Gaddi, i Salviati, gli Strozzi, gli Acciajuoli, i Riccardi vollero emulare quelli del principe, e scienza cavalleresca parve l’orticoltura, e da tutta Europa si cercavano i giardinieri toscani; molte piante cretesi arricchirono la botanica, e dall’Ida non meno che dal monte Baldo ne portò Giuseppe Casabona; a Matteo Caccini è dovuto il gelsomino arabico, detto mugherino. Francesco Carletti fiorentino, da suo padre negoziante spedito a Siviglia a imparare la professione, in Africa trafficò di schiavi, indi in America, nelle Indie, al Giappone e alla Cina; spogliato dagli Olandesi, a Firenze ad istanza del granduca stese (1601) il racconto de’ suoi viaggi, da uomo incolto, ma buon osservatore; diede le prime esatte notizie sul muschio, sul cocco delle Maldive, sulla cocciniglia, e insegnò l’uso della cioccolata. Filippo Sassetti negoziante erudito, di cui si han buone lettere, specialmente relative ai lunghi viaggi in Europa e in Asia, di là mandava preziose rarità al granduca. Grosseto era stata in man dei Francesi fino al 1559, poi Ferdinando s’applicò a migliorarla, procurandovi acque salubri, scavando fossati, demolendo pescaje; ne alleggerì le imposte, edificò case, fece far le fortificazioni colla bella rôcca e coi bastioni agli angoli delle mura esagone. A Pisa riparò la primaziale, incendiata nel 1595, allacciò molte polle d’acqua salubre per condurle in città, dove edificò un collegio, la loggia dei banchi e il canale Navicelli verso Livorno. Tutto il Val di Chiana può dirsi da lui creato; diè scolo ai traripamenti del lago di Fucecchio, fece canali e dighe nella maremma di Siena, protesse il littorale mediante le navi dell’Ordine di Santo Stefano; le quali, nella memorabile impresa guidata da Jacopo Inghirami (1607) contro Bona, presero undici insegne, millecinquecento schiavi ed armi moltissime. Coi «metalli rapiti al fiero Trace», in un’altra battaglia nell’Arcipelago, Gian Bologna fuse la statua di Ferdinando per la piazza dell’Annunziata. Risoluto, giusto, operoso, ingenuo, eppur cauto, il terzo granduca favorì le scienze naturali e matematiche, fondò il museo di storia naturale a Pisa, ravvivò l’Università di Siena; talvolta raccoglieva i migliori dotti nelle sue camere, e in presenza de’ figli metteali su dispute di fisica, di matematica, di letteratura. Già da cardinale avea aperto a Roma la stamperia di Propaganda, e compratovi la Venere, l’Arrotino, l’Ermafrodito, i Lottatori e la famiglia di Niobe per ornare la villa che ivi eresse sul Pincio. Emilio de’ Cavalieri gentiluomo romano, messo ispettore sulle varie arti, cercò promoverle; e a tacere i lavori d’orefice e giojelliere e musaicista, le fabbriche di cristalli e di majoliche emularono quelle di Faenza, Urbino, Fossignano, Arbisola; le fonderie di Gian Bologna servirono, a tutt’Europa, e Ferdinando si piaceva di regalare alle Corti e agli ambasciatori oggetti d’arte nostrale, e massime commessi di pietre dure. Esso Cavalieri unì lo spettacolo teatrale colla musica, frapponendo al dialogo ariette. Poi si pensò che gli antichi accompagnavano la recita colla musica, onde Giulio Caccini romano maestro di cappella compose arie, Giacomo Peri inventò armonie pel recitativo; e la _Dafne_ di Ottavio Rinuccini fu rappresentata il 1594, poi l’_Euridice_ dello stesso quando Maria de’ Medici sposò Enrico IV nel 1600, indi l’_Arianna_ nel 1608. Cosmo I aveva ordinato che la somma di cinquantamila scudi destinata ai funerali del principe si applicasse agli orfanelli; Ferdinando volle altrettanto; e divennero il fondamento di quel ricchissimo istituto degli Innocenti. Nel cedere Siena, erasi stipulato che i matrimonj de’ granduchi dovessero approvarsi dall’Austria; ma Ferdinando se ne emancipò, sposando una principessa di Lorena. Anche nel resto operò con politica indipendente; in ventitre anni non cambiò di ministri; e mentre Savoja e Spagna sprecavano in armeggiamenti, egli lasciò morendo (1609) dieci milioni di ducati, e due milioni in pietre. Giovan de’ Medici, suo fratello naturale, fu valentissimo capitano nelle guerre di Francia e Ungheria[119]. Suo figlio Cosmo II era stato diligentemente educato da Celso Cittadini, da Giambattista Strozzi, dal Galileo; ma riuscì fiacco di salute e di carattere; abbandonava gli affari alla moglie, alla madre, a Curzio Pichena ministro di suo padre; e limitavasi a maneggiar paci e combinare matrimonj fra’ principi. In mezzo ai dolori della gotta, voleva senza interruzione feste, banchetti, giuochi, spettacoli; onde allora fu introdotta nel palazzo Pitti una società di nani e buffoni, e si videro fin cavalli sulle scene. Ferdinando avea tenuto mano con tutti i bascià rivoltati alla Porta, e con Scià Abbas di Persia. I Drusi, tribù ricoverata sul Libano, di una religione mescolata d’islam e di cristianesimo, resistettero ai Turchi, e fattisi indipendenti, pigliarono a capo Fakr-Eddyn (1613), il quale con un pugno di prodi tenne testa agli eserciti musulmani. Sgomentato da nuovi preparativi, costui fuggì a Livorno colla favorita, la figlia, il visir e molte ricchezze, offerendo di far omaggio del suo Stato a’ principi cristiani, e campeggiar per essi in Terrasanta, se volessero ajutarlo a difendere i proprj dominj. Il re di Spagna ordinò al vicerè Ossuna di rimetterlo ne’ suoi Stati, che in fatto ricuperò ed estese, giovandosi delle dissensioni de’ Musulmani: e continuando relazioni amichevoli col granduca, molti operaj toscani trasse colà. Lasciossi poi persuadere a recarsi a Costantinopoli, ove Amurat IV il tenne in onoranza, poi lo fece strangolare (1635). I suoi discendenti continuarono a dominare nel Libano. Allora il granduca ideò una lega contro i Turchi, che doveva abbracciare tutta cristianità; e sebbene non gli badasse l’Europa, assorta nelle rivalità di Francia e Spagna, egli ne prese occasione di riguarnir la marina toscana, che ricche prede condusse a Livorno. D’amore pubblico più che di prudenza diè segno Cosmo nel suo testamento, ove alla moglie e alla madre, destinate reggenti, proibiva di lasciar in Firenze risedere ambasciadori, massime dell’imperatore o dei re di Francia o di Spagna, nè verun principe forestiero; nessuno estranio in impieghi; non confessori fuorchè francescani; del tesoro ducale non si facessero prestiti od imprese mercantili. Le reggenti di Ferdinando II (1621), sviando da queste intenzioni, empirono la Corte di lusso, d’intrighi, di frati, di garriti teologici; profusero titoli di duchi e marchesi fin a persone di servizio; col trafficare dei grani della maremma senese rovinarono questa provincia; e mentre Cosmo risparmiava trentamila scudi l’anno, si dovette intaccare l’erario. Il granducato era da prima composto dei dominj delle repubbliche fiorentina e pisana, eccetto le isole d’Elba, Pianosa, Montecristo, e il distretto di Piombino, sovranità riservata agli Appiani. Cosmo I nel 1546 avea comprato dai conti di Noceto la rôcca Sigillina nel vicariato di Bagnone; nel 49 dai Malaspina il feudo di Filattiera; nel 51 il castello di Corlaga; a nome di sua moglie Eleonora di Toledo acquistò pure Castiglione della Pescaja e l’isola del Giglio; nel 57 ottenne il territorio di Siena, escluso Orbitello e il resto de’ Presidj, riservati dalla Spagna; dalla quale comprò inoltre il castello di Portoferrajo e sue circostanze nell’isola d’Elba. Dipoi Francesco I acquistò nel 74 Luzuolo e Riccò, e nel 78 Groppoli ed altri distretti in Lunigiana. Ferdinando I comprò dagli Orsini le contee di Pitigliano e Sorano, _solfanello delle guerre d’Italia_, come Cosmo le chiamava: poi Cosmo II dal conte Sforza Santafiora la contea di Scansano nel 1615, nel 16 quella di Castell’Ottieri dal conte Ottieri, nel 18 Terrarossa in Lunigiana dai Malaspina. Infine Ferdinando II dal conte Sforza ebbe nel 1633 la contea di Santafiora, e nel 50, al prezzo di cinquecentomila scudi, dal re di Spagna il distretto di Pontremoli, già feudo imperiale de’ Fieschi, poi confiscato pel duca di Milano[120]. Ancora duravano le forme repubblicane, e rappresentava il popolo un consiglio di ducento cittadini, da cui si sceglievano quarantotto detti il senato; quattro de’ quali per turno di tre mesi componeano il consiglio del duca, e con lui rappresentavano la signoria. Nel resto continuavansi le magistrature repubblicane, traendole a sorte fra i cittadini abili agli uffizj maggiori. I Ducento aveano diritto di convalidare o invalidare gli atti solenni e legislativi; il duca poteva proporre a loro qualunque legge; ma ed esso e quelli non poteano risolvere che coll’approvazione del senato. I due consigli conservaronsi sempre, benchè ai Ducento alla fine non rimanesse che di spedire suppliche di monasteri, concedere certificati di cittadinanza o salvocondotti, deliberare sulle ripudie, sulle emancipazioni, e simili. Coi nomi e le forme antiche, la volontà del principe era però legge unica; nè i Medici applicarono all’uffizio consueto delle monarchie, d’unificare gli ordini e gli uffizj: il Senese e il Fiorentino rimanevano paesi distinti; le città continuavano ad odiarsi per una libertà che tutte aveano perduto; tanti statuti contavansi quante città o borgate o corporazioni. Il magistrato supremo componevasi di cinque senatori, un auditore e un cancelliere, scelti fra i più insigni giureconsulti d’Italia, preseduti da un luogotenente del duca. Molteplici i tribunali, la più parte di mercanti ed artieri, mal distinti d’attribuzione, e perciò difficili e dispendiosi. Così un magistrato di otto conservatori vegliava sull’osservanza delle leggi, giudicando chi le trasgredisse; di sei negozianti componeasi il tribunale della mercanzia; il magistrato delle decime soprantendeva a ciò che concernesse il fisco; il magistrato degli otto di guardia e balìa alle cause criminali; il magistrato di parte guelfa su fiumi, ponti e strade; aggiungete il magistrato dei nove, quelli dell’archivio, quelli dei capitani d’Or San Michele, della dogana, e via là, a tal segno che settantadue tribunali vigevano nella sola Firenze. Cosmo II rese stabile la Consulta incaricata di esaminare le regole di ragione, la quale presto pigliò giurisdizione estesa, e massime sotto le tutrici empì gli affari di fiscalità teologiche e giuridiche, e aperse il campo agli arbitrj. Quante poi le interne diversità! Pistoja e Pontremoli erano governate dalla Pratica secreta, nè poteano scegliere i proprj magistrati. Monte Sansovino, le contee di Pitigliano, Sovana, Scansano dipendeano da due sovrantendenze arbitrarie, che vi delegavano a podestà i loro creati. Nelle città mandavasi un gentiluomo per vicario, o un cittadino per podestà nelle terre e borgate; che conduceva notaro, attuaro, giudice, col consiglio e l’opera loro regolandosi. Ma i ricchi non rassegnavansi ai governi piccoli; i poveri aveano troppi incentivi ad abusare; nè le estorsioni restavano represse dal rigoroso sindacato. Gabelle molteplici e vessatorie, e chi tardasse un’ora a pagarle gravavasi del venti per cento a pro dell’esattore. Pei contratti doveasi il sette e tre quarti per cento; e se non si pagasse, l’atto rimanea nullo. I magistrati dell’abbondanza trafficavano di grani, impinguandosi sulla miseria. Sussistendo qui pure la preferenza degli abitanti della città su quelli della campagna, i foresi venivano sacrificati ai privilegi di quelli. Il Monte di pietà, che ad orfani e vedove sovveniva per interesse moderato, cominciò a prestare alla bisognosa Spagna, e ne ricevette in cambio mercanzie, sicchè divenne e banco e negozio, e concentrò i capitali, col suo monopolio rovinando ogni altro traffico. Sopravvenne la fame, poi la peste del 1630 che sospese per sempre le manifatture: l’erario esausto ricorse al Monte contraendo un debito di ottocentomila ducati. Minute prammatiche e uggiosi divieti impacciavano ogni andamento; quali piante coltivare, come manipolare il pane, dove vendere il pesce e le derrate; vietato uscir di paese per acquistarsi il vitto: un giorno si proibisce aucchiare stami e lane, pochi anni dopo si permette, essendo impossibile far senza: si vieta usar le mortelle per le concerie, poi si concede. Nel 1651 si vieta di portar fuori l’artifizio della seta, pena la vita; e l’operajo che fosse migrato, poteva esser ucciso impunemente (Galluzzi). Intanto cessava il commercio d’economia in grazia dell’operosità d’Inglesi o Olandesi, le manifatture languirono, il popolo mendicava o birbava; anche la terra isterilivasi, il caro del sale disajutava la pastorizia; frodavasi, e ne venivano rovine di famiglie; il popolo vessato dalle maremme fuggiva a Piombino, a Orbitello, in Romagna. La Corte mutò anche in un fasto sontuoso l’antica apparenza cittadinesca; ebbe teatro, nani, buffoni; estese caccie riservate, le quali concedeansi anche a gentiluomini; e sull’esempio de’ principi, i costumi si cangiarono. Francesco I col chiamarsi attorno i feudatarj del ducato innestò l’ambizione delle cariche, per le quali si dismesse la mercatura; Orsini, Savelli, Gonzaga si cercarono titoli di marchese e di conte; s’introdussero servili formole nelle lettere[121]. I titoli di Corte prevalsero alla dignità magistrale, e un senatore s’ebbe da meno che un ciambellano; in conseguenza cercossi il lustro delle famiglie coll’accumulare le sostanze e restringere i diritti della successione femminile qual era portata dall’antico stile repubblicano: ai soli grandi si permise di tenere armi, ed essi ne abusavano per braveggiare. Alla dissolutezza palliata s’univa la manifesta ferocia; bravi dappertutto; e le immunità e gli asili delle chiese arrestavano il corso della giustizia. Quel carattere così proprio e inciso, quell’arguzia, quell’ingegno agile insieme e profondo, quella semplicità che non toglieva gli ardimenti, quella minutezza mercantile che non esinaniva il genio del bello, quell’impronta nel parlare, nello scrivere, nel fabbricare, per cui una cosa si caratterizza fiorentina senza far fallo, sparvero per dar luogo a modi contegnosi e austeri. Ferdinando II, preso a governare da sè (1627), tentò allogare le nocche della reggenza, e insinuare gusto nel lusso, gentilezza ne’ costumi. Eccellent’uomo, rispettoso a fratelli e parenti, nella peste del 1630 girava egli stesso soccorrendo; educato a rispettare i dotti dal gran Galileo, al cui letto di morte assistè, insinuava ai nobili l’amor delle arti; visto in teatro il Chiabrera, se lo volle al fianco per tutta la rappresentazione; interveniva all’accademia del Cimento; invitò il tedesco Giambattista Bulinger, lo scozzese Tommaso Dempster, erudito di ferrea memoria, ma bizzarrissimo, forzoso, accattabrighe, scrittore disordinato, il quale illustrò le antichità etrusche; il naturalista Nicolò Stenon, ed altri dotti stranieri. Torricelli, Viviani, Bellini, Redi, Magalotti fregiarono le Università di Pisa, Firenze, Siena; sorsero nuove accademie; fu rinnovata quella degli Immobili, la prima che si proponesse di divertir il pubblico col teatro della Pergola. Si sanarono maremme, si raccolsero le acque termali, fu estesa la coltura del filugello e d’alcune piante esculente, e vennero in fama gli agrumi toscani. Valent’uomini cercarono pel mondo cognizioni e rarità, onde si fondarono il gabinetto fisico e i serragli d’animali vivi in Boboli, e il museo di fossili e testacei e d’altra suppellettile, che il principe crescea ricambiando i doni colle essenze e le medicine della sua fonderia. Di Livorno, borgo mentovato appena ne’ bei tempi di Pisa, i Fiorentini non tardarono a comprendere l’importanza[122]. Il duca Alessandro vi eresse la fortezza vecchia; Cosmo I un molo a disegno del Vasari, e un nuovo canale, e vi si allestivano le galee pei cavalieri di Santo Stefano; Francesco I con gran solennità gettò le fondamenta delle nuove mura, secondo la pianta del Buontalenti, compite poi da Ferdinando I con belle porte e ponti di pietra e opportuni munimenti, e ogni sorta edifizj, oltre il lazzaretto e il gran molo[123] che univa per centomila braccia la lanterna alla terraferma, sicchè potette considerarsene il fondatore, e la chiamava _la mia dama_. Procurò estendere verso Spagna e Ponente il commercio di cui fallivano le occasioni in Levante: assicurava persone e beni di chi accasasse a Livorno, vero _asilo_ dove non faceasi indagine di qualsifosse delitto anteriore, talchè vi accorreano molti indebitati, corsari arricchitisi, Ebrei e Cristiani nuovi di Spagna e Portogallo, Cattolici fuggenti d’Inghilterra, Greci fuggenti di Turchia, Corsi malcontenti dei Genovesi, fuorusciti di tutta Italia e di Provenza. Ferdinando II fabbricò il quartiere, per somiglianza denominato Venezia, e meglio stabilita la franchigia del porto, fra la guerra universale vi dava ricovero a tutte le navi, per quanto nemiche; sicchè Livorno non crebbe come le capitali, a scapito del restante paese, ma mediante i forestieri; negozianti n’erano i ricchi, e la pigione de’ magazzini rendeva al granduca centomila scudi. Esso Ferdinando aveva dal granturco ottenuto salvocondotto pe’ suoi sudditi in tutti gli scali della Porta; tentò una società mercantile coi negozianti di Lisbona, cui i Toscani avrebbero contribuito quattro milioni di ducati d’oro, assicurati sul magistrato dei capitani di parte guelfa; ma poi reputando o soverchia o scarsa la sua marina, vendette tutti i legni alla Francia (1647), e così Toscana cessò d’essere potenza marittima. Nella guerra di Castro, Ferdinando parteggiò con Venezia e Modena contro le pretensioni pontifizie; onde empì Toscana di lance spezzate, cioè bravacci e malviventi di tutta Italia, chiesti a rinforzo dell’esercito. Il peggiore fu Tiberio Squilleti napoletano detto frà Paolo, perchè cominciò da francescano e finì assassino di mestiere. Livorno era convegno di cosiffatti, che dal Regno e dalla Lombardia vi accorreano in sicurtà, e trovavano chi li reclutasse. Le relazioni fra Toscana e Francia si avvivarono mediante due regine, date dalla Casa de’ Medici. Caterina, figlia di Lorenzo duca d’Urbino e di Maddalena della Tour d’Auvergne, e cugina di Clemente VII, nel 1533 sposò Enrico II, e rimastane vedova, stette reggente nella minorità di tre figliuoli, che successivamente salirono al trono. Era forestiera e perciò i Francesi la denigrarono; fu reggente nel calore delle fazioni, e perciò ebbe accanniti avversarj, i quali la ritrassero come il tipo dell’astuzia e della fierezza italiana, d’una politica egoista, d’una fredda crudeltà, accagionandola di tutte le colpe de’ figli suoi, e fin della strage del San Bartolomeo. Queste dicerie furono accettate dalla storia, scritta con leggerezza, e servile all’opinione forestiera, e che la presenta con ciglio feroce, tra figli carnefici e corte manigolda; e pur testè il Michelet la chiamava un verme sbucato dal cimitero d’Italia. Bella, maestosa, nel vigore degli anni, istruita dalle sventure de’ suoi e dalle proprie, irritata dalle umiliazioni sofferte da un marito che la posponeva alla druda titolata, lui morto più non depose le gramaglie, nè disonorossi con cattivi costumi, quantunque negli altri li tollerasse. Amata da’ suoi figliuoli, benchè li trattasse da assoluta, inarrivabile nel fascinare gli spiriti, teneva la Corte più splendida d’Europa, allettandovi i grandi coll’aumentare a cencinquanta le damigelle d’onore, e divertirli ora con feste e cavalcate e caccie, ora con balletti che ella medesima desumeva dal Furioso o dall’Amadigi: proteggeva artisti e dotti, e all’occasione sapeva mettersi a capo d’un esercito[124]. Lo storico Brantôme, quantunque suo avversissimo, non ne intacca i costumi, e dice che spendeva quanto papa Leone e Lorenzo de’ Medici; magnifica in ogni suo atto, non veniva meno alla grazia e al gusto; e mentre l’accusavano di cumular tesori, alla morte non le fu trovato un soldo, anzi ottomila scudi di debito. Nel governare mostrò abilità insigne, dedotta da quel sentimento d’una grande responsabilità, che si eleva di sopra alle considerazioni secondarie e alle calunnie de’ partiti; sapendo sputar dolce e inghiottire amaro: nel voler conservarsi il dominio conservò la Francia, che minacciava cadere nella tirannide o andare a brani, e si mostrò francese più che i Francesi stessi. Enrico IV diceva al presidente Claudio Groulard: — Affeddidio, che poteva fare una povera donna, rimasta vedova con cinque figliuoli sulle braccia, e le due famiglie di Navarra e di Guisa avide d’usurpar la corona? Non doveva ella sostenere di strane parti per ingannare gli uni e gli altri, eppure salvare come fece i suoi figliuoli, che regnarono successivamente per la savia condotta di donna tanto accorta? Mi maraviglio non abbia fatto di peggio»[125]. Vero è che la politica può scusar fatti, che la morale disapprova irremissibilmente, nè quella di lei era migliore della machiavellica. Questo Enrico IV avea più volte ricorso per denari al granduca Ferdinando I, che gli fece grossi prestiti, esigendo, oltre l’interesse, una sicurtà. A titolo di questa erasi anche impadronito delle isole d’If e di Pomègue in faccia a Marsiglia; per recuperare le quali Enrico spedì a Firenze quel che fu poi cardinale D’Ossat, il quale dopo grandi fatiche riconobbe al granduca il credito di un milione censessantaquattromila centottantasette luigi d’oro, da rimborsare in dodici anni. Enrico pensò spegnere questo debito col chiedergli in moglie la nipote Maria, e l’ebbe col soprappiù di seicentomila scudi di dote. La sposa, nel 1600, mosse da Livorno per Marsiglia su legni altrui, non avendone la Francia, donde s’avviò a Parigi tra feste continue, a gara segnalate. In Avignone, allora papale, entrò sopra un carro tratto da due elefanti, e v’ebbe un accompagnamento di duemila cavalieri, sette archi, sette teatri, giacchè gli Avignonesi vantavano che la loro città avesse il tutto in numero di sette, sette parrocchie, sette palazzi, sette conventi vecchi, sette monasteri, sette ospedali, sette collegi, sette porte; ed oltre le arringhe e i versi, le si offersero molte medaglie d’oro coll’effigie sua e della città. A Lione incontrò il marito, che la trovò assai men bella del ritratto, ingrassata, occhi fissi, modi sgraziati, carattere caparbio; ed essa di rimpatto trovava lui molto vecchio, nè seppe vincere mai la repugnanza che gliene aveano ispirato quand’era eretico. Riuscì dunque infelice quel matrimonio: egli donnajuolo, non la amò neppur quando il fece padre; essa gelosa, veniva a incessanti garriti, nè troppo si dolse allorchè fu assassinato. Fatta allora reggente per Luigi XIII novenne (1610), ella cambiò di politica, chinando a Spagna; e mediocre di spirito e di cuore, lasciossi regolare da Leonora Galigaj sua sorella di latte, e dal costei marito Concino Concini fiorentino. Questi comprò il maresciallato d’Ancre in Picardia, ottenne varj governi, e sorresse potentemente Maria nella lotta che dovea sostenere contro i grandi feudatari e i principi del sangue e i Protestanti, che ruppero in aperta guerra civile. Perciò esoso come chiunque resiste, egli ebbe vituperio di basso ambizioso; e tutta la Corte cospirando contro di lui, persuase al re pupillo di liberarsene. E fu assassinato (1617) e tratto a strapazzo dal popolo; e la marescialla sottoposta a un processo ancor più vile che imbecille, quasi avesse chiamato in Francia ebrei, maghi, astrologi, fatto talismani per soggiogare la regina. — Il filtro che adoprai, è l’ascendente che ogni spirito superiore acquista sovra un debole», rispose la Galigaj, e sopportò dignitosamente le stolte accuse e la morte ignominiosa[126]. Maria, quando imprigionata e allora compianta, quando a capo del governo e allora aborrita, indovinò i meriti del Richelieu, e lo fece innalzar cardinale e ministro; ma ne provò l’ingratitudine e dovette esulare, sempre fra brighe e raggiri finchè morì (1642): giudicata da viva e anche dopo morte dal lato più vulgare. I mali trattamenti di Luigi XIII a sua madre e l’assassinio del maresciallo d’Ancre gittarono zizzania fra il granduca e la Francia. Il parlamento di Parigi nella confisca dei beni del Concini comprese duecentomila scudi ch’egli tenea sul Monte di pietà di Firenze, e mandò a staggirli. L’impadronirsi di somme deposte sotto la pubblica fede, senza un giudizio reso nel paese stesso, repugnava al diritto pubblico, e la Toscana vi si oppose; ma la Corte di Francia tenne per offesa la propria dignità, e ne fece un capo grosso. Colla moglie Vittoria d’Urbino Ferdinando II visse discorde, pur le abbandonò l’educazione di Cosmo III, ch’essa crebbe fra ignoranti, i quali lo svogliarono delle lettere e scienze profane per impanicciarlo di teologia: onde succeduto al padre (1670), in cinquantatre lunghi anni mostrossene troppo degenere. Dai viaggi riportava non cognizioni, ma vilipendio del proprio paese, e il fasto forestiero[127]. La vivace Margherita Luigia d’Orléans, sposatagli nel 1661, sprezzava questo pesante devoto, e Medici e Rovere e Toscana: innamorata d’un altro, aborriva d’esser madre, e serpentò tanto che il marito dovè permetterle di tornare in Francia. Rinchiusa nel monastero di Montmartre, essa vi appiccò il fuoco, e al marito scriveva, tra mille altre sguajataggini: — Quel che mi duole è che noi andremo ambidue a casa del diavolo, e avrò il tormento di vedervi anche colà... Vi giuro per quella cosa ch’io odio più, che è voi, che io patteggerò col diavolo per farvi arrabbiare e per sottrarmi alle vostre pazzie... Che vi serve la devozione? fate quello che volete, siete un fior di roba, che Dio non vi vuole e il diavolo vi rifiuta». Eppure egli n’era geloso; e malevolo, soppiattone, inesorabile, alternava un fasto eccessivo con pii esercizj, e processioni, e offerte a lontani santuarj; fabbricò chiese; pose in venerazione san Cresci, nobilitando la chiesa di esso a Valcava in Mugello, e bandì un Servita che sosteneva apocrifi gli atti del colui martirio, e così eccitò una controversia, a cui presero parte buffa i begli spiriti. Tenea corrispondenze alle Corti de’ principi protestanti, onde trarli alla fede romana. Ito al giubileo a Roma, per poter toccare le sante reliquie, privilegio di canonici, si fece conferire tal dignità, e in abito canonicale mostrolle al popolo[128]. Per voto andando a visitare la tomba di san Carlo a Milano, fu ricevuto splendidamente dai principi, e Ranuccio II di Parma fabbricò apposta il teatro Farnese, dove le allegorie furono divisate dal Pozzi vescovo di San Donnino, e dove si macchinarono spettacoli, più ricordevoli che non la storia del paese. Ai granduchi era stato assegnato il primo posto dopo la repubblica di Venezia, cioè precedenza sopra tutte le repubbliche e i ducati; ma quando il duca di Savoja conseguì gli onori reali, Cosmo reclamò tanto, tanto spese, che l’imperatore gli consentì il grado medesimo, onde prese il titolo di Altezza reale. Profusamente regalava; patrocinava i principi esteri presso la Corte di Roma, il che gli dava aspetto di primo principe d’Italia; e guadagnavasi i ministri forestieri. I suoi vini erano una squisitezza alle Corti di tutta Europa, e gliene venivano in ricambio piante ed erbe pe’ suoi giardini, medaglie e rarità pe’ musei; i missionarj d’Oriente gli inviavano Indiani, due Calmuchi il czar, due Groenlandesi il re di Danimarca. Per bastare a tali splendidezze alternava assurde ordinanze finanziarie e meschinissime grettezze; oltrechè le principali cariche erano messe a prezzo, o date per intrighi di preti e di famigli. Cosmo i processi voleva compendiosi, feroci i supplizj sulle piazze, per le strade; ma ai potenti restava sempre modo di riscattarsi a denaro. Diffondeva spie per conoscere i costumi; mandava attorno frà Domenico di Volterra in equipaggio di Corte a informarsene e correggerli; le discordie tra le famiglie credeva rassettare con matrimonj da lui ordinati, e che moltiplicavano gl’infelici; che più? vietò ai giovani di frequentar case dove fossero fanciulle da marito. Dove non vuol essere taciuto un fatto che a tutta Europa diede a dire. Il cavaliere Roberto Acciajuoli amava Elisabetta Marmoraj, moglie del capitano Giulio Berardi; modesta e virtuosa, quant’egli era colto d’ingegno ed elevato di sentimenti. Rimasta lei vedova, ognuno credeva si sarebbero sposati; ma il cardinale Acciajuoli volea quel suo nipote unire con qualche famiglia romana, che lui ajutasse a divenir papa. Fallitegli le persuasioni e le minaccie, il cardinale ricorse al granduca perchè impedisse quelle nozze; e il granduca, incapace di disdir nulla a un cardinale che potea salir papa, fece chiudere l’Elisabetta in un monastero. Com’è consueto, l’amore del giovane se ne incalorì; non potendo accostarsi all’amata, la sposò per lettera; e fuggito a Mantova, pubblicò l’atto, e domandò le fosse consegnata. Il granduca, l’arcivescovo, i parenti stettero al no; i migliori giureconsulti di Lombardia dichiaravano legale tal matrimonio; ma que’ di Firenze non gli davano che il valore di sponsali. Vacando la santa sede, l’Acciajuoli mandò la storia e le allegazioni a tutti i cardinali, il che tolse ogni speranza del papato allo zio: il granduca si sdegnava di veder palesata la sua ingiustizia; pure alfine restituì la libertà alla dama. Essa corse tosto allo sposo in Venezia a dividerne gli stenti e la persecuzione; ma poichè tutta Italia col prenderne interesse riprovava il granduca, questi domandò alla repubblica glieli consegnasse, col titolo che avessero mancato di rispetto e obbedienza al loro sovrano. Essi trafugaronsi verso Germania in abito fratesco, ma a Trento riconosciuti e menati in Toscana, l’Acciajuoli fu condannato in vita nella fortezza di Volterra, e privato delle sostanze: la dama, se volesse sostenere la validità del matrimonio avrebbe egual trattamento; ma essa vacillò, e all’eterna prigionia col marito preferì il viver solitaria[129]. Il Redi consigliava al granduca il passeggio come rimedio ai mali derivatigli dall’intemperanza; e poichè i suoi esercizj li faceva nella galleria, vi riunì quanto di raro possedeva la sua famiglia, facendo venire da Roma la Venere e gli altri capolavori. Campò ottantun anno (1723). Il cardinale Francesco Maria, fratello di Cosmo, fu secolarizzato; ma Eleonora di Gonzaga sposatagli mai non lasciossi accostare da questo vecchio sciupato, che ribramando gli ozj lasciati, morì il 1711. Ferdinando, primogenito di Cosmo, allievo del Redi, del Viviani, del cardinale Noris, coi vizj rese l’animo e il corpo incapaci di amar la moglie, e morì a cinquantatre anni. Gian Gastone, secondogenito, unico sopravvivente, fu infelice nel matrimonio come tutti i Medici; sua moglie duchessa di Lauenburg, grossolana, disamata, aborrente l’Italia, non volle mai uscire dalla sua Boemia; ed egli alla taverna, al giuoco, a tutti i vizj cercò distrazione dalle miserie che vedeva e prevedeva. Caccia i tanti frati e i tanti delatori; abolisce quelle che il vulgo chiamava _pensioni sul credo_, assegnate a Turchi, Ebrei, Protestanti venuti cattolici, e che mantellavano l’inerzia e l’impostura. Allora alle penitenze sottentrano feste, corteggiamenti, donne, carnevali, e la principessa Violante asseconda quel nuovo andazzo; nelle ville si recitano commedie dai nobili, che vanno alla Corte vestiti alla francese, anzichè coll’abito di gala, e conversano famigliarmente col duca. Disperato d’aver eredi, e considerandosi soltanto usufruttario del paese, Gian Gastone ne trascurò la gloria e il prosperamento: abbandonato ai capricci di uno staffiere, tre sole volte il consiglio di Stato radunò nei quattordici anni di regno; sparagnò sulle prime, poi dettogli che lo spendere giova ai popoli, profuse in gioje, manifatture, capi d’arte, e in garzoni libertini, facendo il popolo soffrire delle crescenti imposte, rese men sopportabili dal terribile gelo del 1709. E di peggio prevedeasi, poichè i pretendenti, che già coll’avidità spartivansi il retaggio del granduca ancor vivo, ad ogni suo mal di capo sporgeano la mano e volean mettervi guarnigioni. Cosmo III avea procurato di prevenire quei mali col far riconoscere il diritto in cui Firenze rientrava di esser libera al cessare della famiglia, a cui, ragione o no, erano stati attribuiti que’ paesi dal diploma del 1530. Ma ridestando la repubblica, Siena sarebbesi staccata, e così i feudi della Lunigiana; i Farnesi metteano in campo la parentela; di fuori poi, se Inghilterra e Olanda vel confortavano, mostravasi contrariissima l’Austria; sicchè Cosmo cercò trasmettere il dominio a sua figlia Anna, moglie di Guglielmo principe palatino. Ma Carlo VI dichiarò che la Toscana, feudo imperiale, a lui ricadrebbe quando vacasse, e con truppe sostenne la impugnata pretensione. Gian Gastone propose unire la Toscana a Modena, di cui era duchessa una discendente da Cosmo I, e l’imperatore non se ne mostrava alieno; ma sopravvennero guerre che sovvertirono i disegni. E così le italiche fortune erano tramenate da capricci, da ambizioni, da pretendenze d’eredità; e questi obbrobrj intitolavansi pace. CAPITOLO CLV. Condizione materiale e morale. Opinioni. Ingegni eterocliti. Settant’anni di pace dal 1559 al 1621, non che sanare le piaghe, le infistolirono,[130]; le ricchezze furono esauste nella fonte; un’oppressione sistematica succedeva alle violenze della guerra; questa finiva senza indurre la tranquillità, giacchè il paese era corso da mercenarj rapaci, o da soldati forestieri che vi spandevano la povertà e la peste. Dappertutto bisogni di principi e miseria di popoli: il supremo interesse di quelli era l’esigere grosse taglie; di questi la paura di morir di fame: e le sollevazioni di Milano, di Palermo, di Fermo, le quasi annuali di Napoli, i divieti d’asportazione, l’assegnar i prezzi, l’istituire prefetti dell’annona darebbero a credere che l’uomo fosse ridotto ai meri istinti. Tronchi i ricambj, così molteplici dapprima, fra Stato e Stato per via d’ambasciadori, negozj, magistrature, guerre, studj, ciascuno s’impiombò al paese, che amava soltanto per abitudine, per comodità: la longanime prudenza o l’astuzia diplomatica si concentrò nelle Corti, disposta a ricorrere a perfidia, a trame, a prepotenza; donde sterminati disegni con debolissimi mezzi; e invece dell’ambizione grande che fabbrica sopra se medesima, quella piccola che tresca in vanità, o colla violenza palesa il difetto di solide qualità. Nulla parendo soverchio per conservare la fede cattolica, la paura della riforma fece ridurre l’educazione a stringimenti e depressioni; alla spontaneità e alla confidenza, viepiù necessarie agli spiriti nel tempo appunto che la natura più si espande, surrogare l’azione perpetua dell’autorità sbigottita: i collegi si ridussero a monasteri, come dappoi a caserme, talchè, se aveansi i vantaggi della pietà e della compostezza, mancava spesso la civile opportunità; si lentavano i vincoli domestici, che possono essere salvaguardia non solo ai figliuoli, ma e più ai genitori; e gli animi o si fiaccavano irremissibilmente, inasprivansi contro la regola e l’autorità, per poi prorompere in violenze. Il sussiego, parola allora introdotta, fa disapprovare una mancanza di convenevoli quanto un delitto, e tutti impronta ad una foggia uniforme; la regolarità s’incarica di spegnere le vivezze, di sostituire (come si disse degli arcivescovi Borromei) il rosario alle spade. Coraggio fisico, viva e pronta intelligenza, se vengano sviluppati, rendono grande un popolo; compressi degenerano in ferocia e in astuzia; come la vivace intelligenza, se rinneghi il calcolo, rovina se stessa. Esclusi dagli affari della patria, i nostri recavano l’ingegno a servigio degli stranieri; sicchè il nome italiano di fuori continuò a tenersi in onore, e la nostra letteratura imitavasi da Inglesi e Francesi, come noi imitavamo la spagnuola. In Francia la buona società modellavasi al tipo italiano, e italianeggiava la lingua: i soldati che avevano fatte le campagne d’Italia, voleano parlarne con termini nostri, e dire _infanterie, cavalerie, embuscade, sentinelle, escarpe_, fino _brave_. Ma i nostri v’erano malvisti, come quelli che si foracchiavano in tutti gl’impieghi[131], e al machiavellismo italiano imputavansi tutti i mali della guerra civile e di religione. Delle consuetudini principesche danno buon testimonio i ricordi, che Francesco Maria II lasciava a suo figlio Federico Ubaldo duca d’Urbino, il 22 marzo 1615. Trascorriamo le generalità del vivere in grazia di Dio, trattare con ischiettezza, non rimettere a domani quel che si può fare oggi, lasciar libero il corso della giustizia, senza che se n’intrighino nè i parenti nè la moglie; e così della liberalità, dell’affabilità, della riconoscenza a chi prestò servigi, del risparmiare la pena di morte, dello spender meno nell’entrata, del non toccare l’onor delle donne e particolarmente delle nobili. Vuol che non abbia intrinsechezza co’ sacerdoti, ma li lasci attendere all’officio loro, egli attendendo al suo senza loro ajuto. Ubbidiente al papa, ardentissimo nel servizio di S. M. Cattolica, andando in guerra s’e’ ci va in persona. Cerchi consiglieri e ministri che vadano per la strada del carro, anzichè voler novità speciose; e anch’egli attenda a far camminare bene le cose antiquate, non facendo decreti nuovi, e piuttosto restringendo i vecchi. Non si dia troppo allo studio delle scienze, bastando intendere bene la propria lingua e la spagnuola, farsi leggere ogni giorno qualche storia, e ragionare delle scienze con quelli che le professano. Faccia esercizj cavallereschi, la scherma, il ballo, il nuoto; giuoco alla palla, caccia, maneggio de’ cavalli, di questi tenendo una razza. Mangi d’ogni cosa, ma moderatamente e senza seguir regole di medici, de’ quali non è a valersi che nelle infermità. Il figliuolo maggiore tratti come un fratello, lasciando che governi e comandi. Se ha un altro figlio, compri per esso uno Stato nel regno di Napoli, con altre entrate per 12,000 scudi l’anno: il che è meglio che dargli beni in paese: così s’hanno fondate due case. Degli altri figli un ne faccia ecclesiastico; e così se ne ha molti, li collochi colla propria parsimonia e col favore di S. M. Cattolica. Il sentimento religioso molto ingagliardì, massime dacchè su quello si piantò l’educazione; e ripullulava traverso ai disordini della vita, sicchè finivano devoti quei che aveano menata vita disonesta o prepotente. La politica professava canoni più sani, dedotti dalla rivelazione; arti e lettere attingevano a fonti ecclesiastiche; sin la fisica appoggiava a principj d’ordine religioso. Molti ottennero gli onori degli altari, ed ai già accennati (t. X, p. 474) vogliam soggiungere Gregorio Luigi Barbadigo padovano, cardinale, vescovo di Bergamo poi di Padova, ove fondò il seminario tanto celebre per gli studj filologici, colla biblioteca; Francesco Girolamo di Grottaglia gesuita, che per quarant’anni diresse le missioni nel regno, predicando instancabilmente, ma breve e con unzione, a soldati, galeotti, pescatori, meretrici, che traeva agli abbandonati sacramenti, sicchè fin otto o diecimila persone a un tratto si comunicavano. Giuseppe da Copertino presso Brindisi, laico francescano, uso ne’ servigi più vili, tutto umiltà e penitenza, è assunto agli ordini benchè ineducato: ma de’ miracoli e delle estasi sue l’Inquisizione e i superiori dubitano e lo credono ipocrite; ed egli soffre rimproveri di colpe che non commise. Sebastiano Valfrè da Verduno nella diocesi d’Alba, mostrò gran carità sin da fanciullo, ed entrato oratoriano, scrisse il _Mezzo di santificare la guerra_, la _Breve istruzione alle persone semplici_; operò molte conversioni a Torino, di cui non volle essere arcivescovo; vivea sempre in ospedali, eppur tenea corrispondenza con vescovi e teologi su punti rilevanti. Veronica Giuliani di Mercatello, vestitasi cappuccina, ebbe visioni, patimenti straordinarj e i segni della corona di spine, e Cristo le impresse le sue piaghe: il Sant’Uffizio ricusò credere questi portenti, il confessore la umiliò in ogni guisa, pur dovette confessare che di speciali favori la privilegiava Iddio. Tra i chiostri troveremmo Pacifico da San Severino, Bonaventura da Potenza, Bernardo da Offida, Tommaso da Cora, che non potendo impetrare d’andar nelle Indie, missionò in paese con gran frutto di conversioni; Bernardo da Corleone in Sicilia, che annojatosi al mestiere del calzolajo, andò soldato, ma messo in carcere per indisciplina, tornò a coscienza, e vestitosi cappuccino fu specchio di virtù. Ma poichè soltanto una grave devozione apriva la strada agl’impieghi e agli onori, degenerava in ipocrisia o in cupa superstizione. Abbondavano le pratiche convenzionali e i fervorini da sacristia, donde il cuore è assente, e che lasciano l’anima senza alimento; i dogmi non eccitavano nè attenzione nè resistenza perchè senza riflessione si adottavano formole di fede che bastava ripetere. Il nome d’eretico faceva orrore a segno, da non voler leggere le migliori opere de’ Tedeschi e degli Inglesi d’allora, nè comunicare di commerci con Olandesi od Ugonotti. La devozione però non salvava da ribaldi disegni; di reliquie coprivansi i masnadieri, impetravasi indulgenza per accingersi a qualche misfatto[132]. Le chiese erano esposte non solo a ruberie, ma a profanazioni, convegno d’amori, o campo di liti fin al sangue. Nel 1630 nel duomo di Palermo facevasi una gran rappresentazione sul riscatto di Gerusalemme; e i Gesuiti, in onore d’una infanta di Spagna allora nata, diedero una commedia con nuvole piene di danzanti, e una cena che costò seicento ducati. Le Benedettine di Donn’Albina diedero pure un dramma, con licenza del papa introducendovi anche uomini. Occasioni di nuovi scandali nelle chiese. Le incalzanti raccomandazioni del concilio di Trento provvidero alla costumatezza e alla dottrina del clero: pure le memorie contemporanee palesano quant’esso conservasse dell’antecedente depravazione e del secolaresco, e all’ombra de’ rinvalidati privilegi mestasse turpemente negl’interessi mondani, fino a guadagnare in botteghe, e convertir chiese e canoniche in magazzini. Nelle visite i vescovi trovavano preti o pubblicamente concubinarj, o violenti fino ad assaltare alla strada, gli assassinj e il contrabbando ricoverando all’ombra degli altari. Tre prevosti degli Umiliati diedero mandato al diacono Farina perchè uccidesse san Carlo, che miracolosamente campò: il prevosto di Seveso aveva ridotta in spelonca di ladri la sua chiesa, e le sepolture coprivano le vittime dei suoi delitti. I conventi popolavansi per convenienza di stato, e non di rado per violenza o seduzione dei padri, volenti alleggerir la casa dai figli cadetti onde assicurare la fortuna de’ primogeniti. Per romanzi divenne famosa Virginia, figlia del conte di Leyva signore di Monza, che costretta ad assumere il velo, si contaminò di gravissimi misfatti, finchè trattane si ridusse a severissima penitenza. Arcangela Tarabotti, a undici anni chiusa in Sant’Anna di Venezia, «non fu monaca neppure d’abito e di costumi, quello pazzamente vano, e questi vanamente pazzi»: benchè nè tampoco a leggere e scrivere le avessero insegnato, pure per sottrarsi all’accidia applicò agli studj, e compose opere, fra cui _La semplicità ingannata, o la tirannia paterna_[133], e l’_Inferno monacale_, libri scomposti ma passionati, dove rivela la usatale violenza, e impreca ai padri che forzano la vocazione de’ figliuoli, e con argomenti e autorità sacre e profane sostiene la libertà della donna nello scegliersi uno stato. Le pie insinuazioni del patriarca Federico Cornaro la fecero prima rassegnarsi, poi compiacersi del proprio stato; «abbandonò le lascivie degli abiti, di cui tanto si dilettava»; e a sconto de’ precedenti scrisse libri di concetto opposto, quali il _Paradiso_, la _Luce monacale_, la _Via lastricata per andare al cielo_, le _Contemplazioni dell’anima amante_, il _Purgatorio delle mal maritate_; e prossima alla morte, supplicò che gli altri suoi scritti fossero dati al fuoco. Da Marcantonio Mariscotti conte di Vignanello e da Ottavio Orsini era nata Clarice, e benchè di buon’ora innamorata delle vanità, dovette professarsi monaca in San Bernardino di Viterbo col nome di suor Giacinta. Tutta capricci e dispetti, volle aver camera distinta, che ornò con suntuosità; i doveri adempiva sbadatamente, assorta in fantasie e vanità: ma côlta di grave malattia, mandò per un confessore, e questo entratole in camera e vedendo quell’incompatibile lusso, la minacciò di perdizione; ond’essa tolse a riparar lo scandalo chiedendo perdono alle compagne, dando alla superiora quanto avea del proprio; e risanata, fu tutta alle austerità, alle macerazioni. Scoppiata un’epidemia, istituì un ospedale e le oblate di Maria, che andassero limosinando per convalescenti, carcerati e poveri vergognosi. Quando i cardinali erano ministri di Spagna, di Francia, governatori, condottieri d’eserciti, come il Richelieu, il Mazarino, il Lavallette, l’Albornoz, il Trivulzio, il Caracciolo, il Granuella, il Grimani, il Borgia, lo Zappata, il d’Aragona; quando ogni Potenza ne teneva uno in Roma che, come suo protettore, dovea maneggiare e intrigare, e della politica il gran punto consisteva nell’acquistar potenza alla Corte pontifizia accaparrandosi i prelati più efficienti, e massime quelli delle principesche case italiane, era ad aspettarsene edificante pietà, nè studio della scienza di Dio? Le case di Savoja e d’Este, i Gonzaga, i Farnesi, i Barberini, gli altieri aveano sempre uno o più porporati, che spesso gareggiavano col papa in splendidezza; e talora, passata la prima gioventù, deponeano la porpora per ammogliarsi. Al cardinale Aldobrandini, quando passò nunzio in Francia nel 1600, furono assegnati mille scudi il giorno, oltre le sue rendite, e grossa somma per le prime provvigioni[134]. Nel 1670 il duca di Parma a complimentare il nuovo papa Clemente X spedì il conte di San Secondo, che andò all’udienza con diciotto prelati e cencinquanta carrozze. Il cardinale Alberto d’Austria (dice il cavaliere Dolfin nella relazione di Roma) in mezzo a strepito d’armi e tamburi fa parlar di sè tanto, che merita posto fra i celebri capitani più che fra i prelati. Il cardinale Rinaldo d’Este aspirava a diventare protettore dell’Impero; ma dagli Spagnuoli tergiversato, piegò a Francia, che fu ben lieta d’acquistare costui, forte per carattere e per relazioni di famiglia. N’era appena fatto protettore, quando entrò in Roma l’ammiraglio di Castiglia ambasciatore di Spagna, che non solo non l’invitò alla sua cavalcata, ma fece côlta d’armi nel proprio palazzo. Altrettanto l’Estense; e di bravi e di nobili venuti da Modena si circondava qualunque volta uscisse. Vano l’interporsi di signori e del papa; aspettavasi da un giorno all’altro un conflitto. Di fatto, scontratesi le carrozze dei due superbi presso al Gesù, s’intese un colpo di pistola; il popolo a fuggire; gli uomini dell’ammiraglio fan fuoco colpendo molti innocenti; poi si danno essi pure in fuga, lasciando scoperto esso ammiraglio, il quale potè andarsene illeso; ma viepiù inasprito, manda a cercar gente e denaro al vicerè di Napoli. Questi però nega secondarne le vane braverie, il papa viene a capo di riconciliarli, e il buon popolo romano applaudisce clamorosamente all’Estense che sì bene aveva sostenuto il decoro di Francia. E continue erano le dispute di precedenza, massime tra gli ambasciadori di Francia e di Spagna; il concilio di Trento ne fu turbato quanto dalle eresie, attesochè il papa, sapendo inimicherebbe a sè e forse alla Chiesa quello che posponesse, non osava pronunziarsi, finchè le guerre civili non l’indussero a preferire il Cristianissimo, come quello ch’era più in pericolo d’apostatare. Il giorno della coronazione di Gregorio XIV, Alberto Badoero ambasciadore di Venezia sostenne di dover comparire immediatamente dopo quel dell’imperatore, e innanzi a tutti gli altri: e perchè il senatore di Roma pretendea quel posto, egli dichiarò non interverrebbe alla coronazione: onde il papa ordinò al senatore di andar via co’ due confalonieri che l’accompagnavano. Il prelato Centurione arcivescovo di Genova e prolegato incontra il cocchiere del cardinale San Giorgio nipote del papa, e perchè non vuol tirare da banda la carrozza vuota, e’ lo bastona: San Giorgio ne porta querela al papa, e non trovandosi soddisfatto, esce dalla città e dallo Stato, per quanto il papa mandi a richiamarlo[135]. Il Portogallo erasi sottratto alla dominazione spagnuola, talchè veniva considerato come ribelle. Avendo mandato il vescovo di Lamego ambasciadore a Roma, il marchese de los Velez ambasciadore di Spagna pretendea non fosse ricevuto; ma il fu, e ordinato il modo di comportarsi, volendo che, se incontrasse l’ambasciadore di Spagna, calasse le cortine della carrozza. Los Velez, saputo che il vescovo era a visitare monsignor de Fontenay, mandò a prendere quantità d’armi, e le distribuì fra’ suoi, coll’ordine che, se le cortine del Portoghese non fossero calate, tagliassero i garetti a’ cavalli. Il vescovo, avvertitone, si pose attorno altri armati, e scontratisi cominciossi il fuoco, dove furono uccisi cavalli e persone d’ambi i lati: allora Roma parteggia; bisogna mandar soldati; raffittiscono le dispute, e i due ambasciadori si ritirano in opposte direzioni. Nella peste del 1656, il vicerè vieta che nessuno entri in Napoli se non con licenza de’ regj ministri; e l’arcivescovo pubblica che per gli ecclesiastici richiedasi la licenza vescovile: quello ricusa, si abbaruffano, intanto che morivano quindicimila persone al giorno. Poi qualche volta di Spagna viene decreto che in tutte le chiese, in tutte le scuole si giuri l’immacolata concezione della beata Vergine: qui i vescovi a protestare contro l’altrui ingerirsi in materia di loro spettanza; i Domenicani a rifiutar di professare una pia credenza, da loro impugnata; i professori a trovare pregiudicata la libertà dell’insegnamento; Roma a negare ai re la podestà di proporre una credenza teologica. Grandi problemi nè morali nè politici non si posarono nè discussero fra noi; eppure puntigli di cerimoniale, dispute di eredità, tafferugli fra vescovi e governatori o col papa per le giurisdizioni, portarono irrequietudini rinascenti e fin guerre; e in privato frequenti duelli sulle vie pubbliche, assalti di villaggi a mano armata; e stimare felicità l’essere annoverato fra l’alta e la bassa domesticità di Spagna, l’ottener titoli desunti dalla mensa, dalle caccie, dalle stalle, dalle anticamere regie; e ciascuno zelare quelli che ereditò e le piccole distinzioni, e pretendere privilegi ch’erano aggravj degli inferiori, e che ricordavano ciò che i nobili erano stati, senza insegnar le ragioni per cui cessarono di essere. Alle processioni, alle comparse, magistrati, preti, maestranze lottavano per l’abito, per lo scanno, pel passo innanzi. Quante volte a Napoli furono ritardate, finchè i cerimonieri avesser proferito! intanto gli uni e gli altri stavano coll’armi in pugno, e i soldati non bastavano a impedire le collisioni: talora moveasi la marcia, ma intimandosi che i nobili titolati procedano distinti, i non titolati spengono i torchietti e se ne vanno. Or si raduna il consiglio, ma un sindaco n’esce perchè non si trova assegnato un sedile conveniente. Or ad una solennità, il governatore si leva indispettito di chiesa perchè vede posare un predellino sotto ai piedi dell’arcivescovo. Or tutta la nobiltà esce dalla messa perchè il vicerè fece situar vicino a sè un nipote. Or un ambasciatore non può essere ricevuto perchè il suo grado di nobiltà spagnuola l’autorizza a trattare il vicerè da pari a pari. Muore una principessa, e l’esequie sono interrotte da commissarj regj, perchè ha stemmi e insegne da più del grado, e bisogna deporre il cadavere in disparte finchè arrivino le decisioni di Spagna. Fra i grandi di Napoli fu un lungo dibattere intorno al coprirsi davanti al re, privilegio di tutto il grandato di Spagna, mentre quella sospirata parola _Copritevi_ era stata detta da Carlo V ad alcuni sì, ad altri no de’ regnicoli. Nelle esequie per la regina di Spagna in quel duomo, l’arcivescovo vuole si dia il piumaccio a tutti i vescovi intervenuti; il vicerè ripudia questa novità; si sospende la cerimonia, e il sontuosissimo catafalco è trasferito nella cappella reale. Ottantadue anni contesero ai tribunali e ne’ libri Cremona e Pavia qual dovesse avere il passo sull’altra, finchè il senato di Milano «con gravissima ponderazione e maturità di consiglio decise di non decider nulla». Il generale Giovanni Serbelloni, nel 1625 combattendo in Valtellina, non volle aprire un dispaccio perchè non v’erano soprascritti i titoli dovutigli; e così ignorò l’accostarsi del nemico, che lo sconfisse. Lo scialacquo di titoli caratterizzava l’orgoglio surrogato alla superbia; l’_illustrissimo_ e l’_eccellentissimo_ davasi a qualunque nobile, e fin a plebei l’_illustre_ e _molto illustre_, che nel secolo precedente bastava a principi. Il conte Olivares vicerè di Napoli li vietò per editto, ma solo si scrivesse _signor duca, signor principe, signor conte_ o _dottore_; ma la prammatica non fu osservata. Lo perchè il papa non volendo accomunati ad altri i titoli dovuti ai cardinali, a questi diede quel d’_eminenza_, ma non potè fare che non se l’arrogassero anche gli Elettori dell’Impero. Il Consiglio della repubblica di San Marino che s’intitolava _illustrissimo_, volle dirsi _principe_. Quanti maneggi, quanto spendere dei principi per ottenere un titolo o un grado superiore all’emulo![136] quanta pompa per ciò e solennità nelle ambascerie! Fino i poveri Grigioni nel 1604 allorchè cercavano l’alleanza di Venezia, vi spedirono sette ambasciadori con cencinquanta persone, che tutti furono mantenuti dalla Signoria, e ricevuti con onoranze quali nessuno da Enrico III in poi; da tutte le città vi andavano incontro cavalieri e fanti; pure non vennero accolti che da quaranta gentiluomini, anzichè sessanta come gli ambasciadori delle potenze; nè ammessi in Pregadi. Era una scienza complicatissima la competenza de’ varj rappresentanti: i quali poi a loro volta sbizzarrivano in prepotenze, volendo immuni le persone a loro addette, la casa, la vicinanza, che diveniva così ricovero di ladri e di contrabbando. Il conte di Cantecroix, ambasciadore imperiale a Venezia nel 1666, della propria abitazione faceva un bordello, tentò assassinare la moglie, fece uccidere il mastro di casa, fabbricare moneta falsa; finchè la Signoria ottenne fosse revocato[137]. Altri esempj incontreremo. Ne derivò l’importanza suprema attribuita al punto d’onore. I duelli per parole offensive e per lesione d’onore, ignoti agli antichi, nacquero nel medioevo dalla prevalente personalità, e dal diritto del pugno che ciascun signore si arrogava; e sopravvissero a quell’ordine di cose, del quale erano un frutto naturale e un correttivo. I principi, traendo in sè le prerogative regie, diedero ogni opera a spegnere il duello; e papa Giulio II, il luglio 1505, avevalo proibito in tutte le terre dipendenti immediate o mediate dalla Chiesa, «per qualsifosse cagione, anche dalle leggi permessa». Ma il 29 giugno 1522 Carlo V, tenendo il parlamento come re di Sicilia, ricevette una rimostranza, qualmente fosse prammatica nel regno, che chi prende a combattere un altro da cui pretende essere stato offeso, viene sottoposto a gravi pene; donde nascono enormi inconvenienti e soperchierie, e di qua bandi, ferite, morti; tutti mali che si eviterebbero qualora essa prammatica fosse cassata, e ognuno potesse soddisfare all’onor suo col duello; poichè molti s’asterriano dal fare offesa, e l’ingiuriato si soddisferebbe sfidando l’avversario senza insulto e soperchianza; supplicavasi perciò la maestà sua ad abolire tale prammatica, e lasciare ognuno soddisfare all’onor proprio. Il braccio ecclesiastico non assentì a tale domanda, onde non fu esaudita[138]. Malgrado i divieti, vigea l’abuso; anzi, cessate le occasioni pubbliche di esercitare il vero valore, rimase questo di parata, e come una scienza entrò nell’educazione cavalleresca non solo l’atto, ma una complicata dottrina della vendetta e dell’armeggiare. Ben cinquanta trattatisti vi applicarono i sillogismi, gli oracoli della giurisprudenza e le autorità di filosofi e poeti non solo, ma dei santi Padri, e di quel vangelo dove è scritto, _Se alcuno vi schiaffeggia sulla sinistra, porgetegli anche la gota destra_. Anzi il Possevino compose un _oremus_, che chi lo reciti prima di venire al combattimento, «acquisterà forze grandissime», e nel quale il duellante promette a Dio che, quando mai ammazzi il suo nemico, «molto gliene rincrescerà». In que’ libri cominciavasi da sottili definizioni dell’onore e delle sue opere, e se stia nell’onorante o nell’onorato: altrettanto dell’ingiuria, considerata nella qualità, quantità, relazione, azione, passione, tempo, luogo, moto, distinguendo le ingiurie voltate, rivoltate, compensate, raddoppiate, propulsate, tornate, ritorte, necessitate, volontarie, volontarie-necessitate, e miste. Suprema era la dottrina del _carico_, cioè dell’obbligo di risentirsi, ributtare, ripulsare, provare, riprovare; dove era aforismo, che il «carico alcune volte nasce dall’ingiuria, ma non mai l’ingiuria dal carico». Altrettanto sottilizzano nel definire l’inimicizia e il risentimento; e qui figurano la vendetta traversale, il vantaggio, la soperchieria, l’assassinio, la via indiretta, il mal modo, il tradimento, la perfidia, quando assumere il risentimento per altri, se un’ingiuria resti cancellata da un’altra pari; una sequenza di presunzioni novera lo _Specchio d’onore_, «tacendo pure le cento e mille altre che si poteano aggiungere». Cardine di questa scienza era la mentita; la quale può essere affermativa, negativa, universale, particolare, condizionata, assoluta, privativa, positiva, negante, infinitante, certa, sciocca, singolare; generale per la persona, generale per l’ingiuria, generale per l’una e per l’altra; cadente sulla volontà, sull’affermazione, sulla negazione; valida, invalida, sdegnosa, ingiuriosa, suppositiva, circoscritta, coperta, vana, nulla, scandalosa; vera, data veramente, falsa, data falsamente; ve n’ha di legittime, ve n’ha d’impertinenti o ridicole, o disordinate, o universali di cosa particolare, o particolari di cosa universale. Quanto sottilizzavano i sopracciò per distinguere le mentite valide dalle invalide, l’attore mentito ingiuriante dal reo mentitore ingiuriato, l’attore provocante dall’attore provocato! Poi discuteano del provare, del richiedere, del mantenere, del verificare, del difendere, del sostenere; e così dell’attore che si finge reo, dell’attore interpretativo che opponga eccezioni di compensazione, dell’attore che tien luogo di reo provocato per la forma di sue parole. Entra allora la discussione del trovar querela, del mutarla, dell’accrescerla, dello stabilirla, del lasciarla, delle eccezioni dilatorie e perentorie. Conosceansi un cinquanta formole o clausole differenti da porre sui cartelli; quando e come ricusare, rifiutare, ributtare? quali sieno le armi cavalleresche? qual movimento è vergognoso? qual pezzo d’arme è più disonore il perdere? s’ha da accettare la sfida da ignobili, o soltanto da uguali? l’eleggere le armi e assegnare il campo tocca al provocante o al provocato? qual si dirà vincitore quando cadano morti entrambi i combattenti? I padrini, allora come adesso, ingegnavansi piuttosto ad esasperare per poter farsi onore dove non correano pericolo: ma se giungessero a conciliare gli animi, allora nuove quistioni rampollavano sulla soddisfazione, sulla pace, universale o particolare, esterna o interna, naturale, civile, pubblica, domestica, e sulle differenze tra pace, riconciliazione ed empiastro, tra soddisfazione e restituzione, pena e castigo, confessione, pentimento e umiliazione, perdono e misericordia, e sulle sei maniere di ridirsi. Ve’ in quale sapienza esercitavano l’ingegno i contemporanei di Galileo, di Torricelli, di Bacone! e per essa vennero immortali Paride del Pozzo, il Muzio giustinopolitano, Giovan da Legnano, Lancellotto Corrado, Giulio Ferretti, l’Attendolo, il Possevino, Camillo Baldi, Belisario Aquaviva, Antonio Bernardi dalla Mirandola, il Birago milanese, il Parisio, Jacopo Castiglio, il Pigna, l’Albergati, il Gessi, l’Ansidei, il Fausto, il Romei, Orlando Pescetti, il Tonnina; nel dialogo di Marco Mantua giureconsulto _si decidono cento e più questioni_; e nella biblioteca di un gentiluomo dovevano trovarsi i _Cinquanta casi_ dell’Olevano, lo _Specchio d’onore_, la _Pace in prigione_, la _Mentita in giudizio_, le _Conclusioni del duello e della pace, evangelisti dell’umana reputazione, le cui parole servono ad empiere di tanti dogmi di fede, d’onore i margini delle cavalleresche scritture_. In ogni paese v’avea qualche gran pratico, che risolvesse i molteplici casi nascenti dal punto d’onore, ricomponesse le discordie, regolasse i duelli, stendesse pareri ai quali procuravasi la firma d’altri armeggiatori; talchè quella pacifica generazione restava di continuo colla spada alla mano e colle dispute sul labbro. A Milano spessissimi ricorrevano combattimenti dei nobili tra loro e cogli uffiziali spagnuoli, e vi prendeano parte i secondi, i terzi, talvolta sei e otto per parte. A Napoli il marchese di Monterey minacciò duemila ducati e il bando di cinque anni a chi duellasse, e per la seconda volta la morte; e multa ai padrini. Nel 1638 in sei giorni v’ebbe cinque duelli di giovani distinti, e vi rimasero estinti Ferrante Caracciolo e Carlo di Sangro, ventenni, per affari donneschi. Poco poi due Pignatelli con loro amici combattono contro Scipione Monforte cavaliere di Malta, e rimangono morti. Talvolta somigliavano a vere spedizioni, e l’ottobre 1630 a San Pietro a Majella successe regolare battaglia fra gli Aquaviva e i Caracciolo, e i birri non poterono separarli prima che rimanesse un morto e una dozzina feriti; gli altri si ricovrarono in Sant’Antonio, difendendosi regolarmente. Queste nimicizie velavansi talvolta co’ nomi de’ Guelfi e Ghibellini, che non erano più due gelosi ma amanti della stessa donna, che si vegliano l’un l’altro, e odiandosi fra loro, pur accordansi nell’amor della patria; bensì emuli di rancori ereditarj, di diuturne vendette, servili all’uno o all’altro de’ comuni nemici; siccome in Bologna i Pepoli tenevano fede a Francia, a Spagna i Malvezzi. Questa potea dirsi la parte legale delle contese: ma altri prepotevano cinti di bravi nelle città; o dal bisognoso erario comprato un feudo, vi si afforzavano per far da padroni e sbucarne al delitto, e fino alla Corte appresentarsi con comitiva più di minaccia che d’onore. Il governatore Fuentes bandì grossa taglia a chi desse morto o vivo Francesco Secco-Borella feudatario di Vimercato, reo di mille prepotenze e omicidj, e principalmente di quel di Lucia Vertenate per la sua virtù: ma il vederlo ripeterla indica che uscì indarno. Gianpaolo Osio signore di Usmate, nel 1608, dalla sua casa in Monza guardando nel convento di Santa Margherita, sedusse suor Virginia de Leyva; penetrò più volte nel monastero, e ne la trasse a voglia; uccise una monaca perchè non rivelasse la tresca; cavatene due altre complici, l’una precipitò nel Lambro, l’altra in un pozzo, dove essa scoperse altri cadaveri, e donde miracolosamente cavata, servì di testimonio contro il ribaldo, il quale in contumacia fu dannato a morte, e sulla distrutta sua casa ponendo una colonna infame. Gianfrancesco Rucellaj, nel 1656 residente pel granduca in Milano, vi fu di bel mezzogiorno assalito, e il governatore e il senato non poterono che condolersene. Dovendo poi egli partire, si annunziò che benemeriterebbe dal re chiunque lo assistesse. In fatto il marchese Annibale Porrone, che in Milano circondandosi di malandrini, ridea di bandi e taglie, mandò cento suoi fidati, che lo scortarono di casa in casa a prendere congedo, poi lo convogliarono sino a Piacenza. Questo Porrone cominciò da mille bizzarrie giovanili, a danno dell’onore e della vita altrui; dispensa bastonate e stoccate; messo prigione trova modo a fuggire; per interposto d’amici e per denaro restituito in paese, non muta costume, e con un famoso suo archibugio fa tacere la giustizia e i giudici; poi ricoverato in un convento, quivi e sul sagrato si dà ad ogni sorta di furfanterie, e brava le ricerche della giustizia, e continua le ribalderie e gli ammazzamenti, finchè andatosene di città, vive a lungo in Venezia dove forse fu trucidato. Bernardino Visconti, costretto per delitti a uscir di Milano, la traversò con un codazzo d’armati e a suon di trombe, passando avanti al palazzo ducale, e alle porte lasciando un’imbasciata di villanie pel governatore; e si ritirò nel castello di Brignano in Geradadda, a cavallo del confine milanese, bergamasco e bresciano, donde insultava l’autorità, con gente tutta di sangue e di corrucci, fin il cuoco e il guattero, fin i ragazzi avendo le mani contaminate di sangue. Molte grida furono lanciate contro di lui inutilmente, finchè le prediche di Federico Borromeo nol convertirono. Un tal Picinelli di Busto, arricchito sull’appalto delle gabelle, destava l’invidia de’ vecchi signori, tanto più che osava perfino visitar le loro carrozze quando entravano in Milano. Avendo voluto esaminarne una del conte Dugnani, al domani un branco di buli bastonò i dazieri; poi esso Dugnani in persona al Picinelli intimò, se lo richiedesse in giustizia, pagherebbe lui pure della stessa moneta, dovesse anche costargliene due o tremila scudi. Il Picinelli sel tenne detto, e nessuna carrozza di casa Dugnani mai più non fu toccata. Lo stesso signore dovea novanta lire a un mercante, che non potendo averle altrimenti, gli mandò un birro con la citazione. Il Dugnani spedì tosto a fare il pagamento, e al birro con novanta bastonate insegnò a più non richiedere in giustizia un cavaliere. Vero è che, portatane querela, il Dugnani dovè ricoverare in un convento, e non spendere meno di duemila scudi per parare la cosa: ma ciò valse a fargli poi portare rispetto. In appresso egli ferì gravemente un capitano, onde dovette rifuggire di nuovo alla stessa chiesa, e tenere numerose guardie per assicurarsi dai parenti del ferito, finchè la giustizia non fu chetata. Già dicemmo di grandi facinorosi toscani e romani; ma n’abbondavano anche in paese di severa giustizia come il veneto. Ottavio Avogadro di Brescia era capo di banditi, e proscritto dai Dieci, ebbe ad intercessori di grazia il granduca ed Enrico IV[139]. Il venerdì santo del 1609 Lorenzo Pignoria (le cui lettere sono delle più vivaci e colte) scriveva da Padova: — Che ne’ giorni santi succedano di qua certi casi tragici, io non so a che me l’ascrivere..... Domenica notte alcuni andarono in casa del padre Marcantonio Corradino, lo ammazzarono, gli sviarono la moglie, la nipote e la serva. La Corte è andata lor dietro, si sono ricondotte le donne a Padova, con essi si sono fatte le archibugiate, feritine alcuni, e tutti salvati. Il Corradino s’era comunicato la mattina, ed era in concetto d’uomo dabbene. Il lunedì sera lo Scola fu in parrocchia nostra assaltato da un briccone, che con un colpo di pistola gli toccò le gambe sotto in maniera, che se vive resterà storpiato al sicuro di tutte due le gambe. E di simili ce ne sariano da raccontare più di due, e non sappiamo vederci rimedio». L’Italia, non formando nazione, non ebbe più eserciti stabili nè occasioni nazionali, onde le mancò l’atto, non l’attitudine del valore: e in tutte le miserabili guerre di quest’età campeggiarono i nostri, potendo dell’Italia dirsi come della Svizzera, che non tenea soldati, ma ne somministrava a tutti. Molti ne nominammo (tom. IX, pag. 521 e seg.); a cui potremmo aggiungere don Giovanni de’ Medici, fratello naturale del granduca, valentissimo capitano nelle guerre di Francia e d’Ungheria; il conte Guido Landi, che pure in Ungheria combattè, stampò molte cose, fra cui un suo viaggio a Madera, e finì nelle carceri di Roma, non si sa perchè; Giacomo Guazzimani di Ravenna, illustratosi contro i Turchi, e che dopo la pace compose versi, e raccolse gli altrui. Altri sfogavano il valore a danno delle società come banditi; e quel re Marcone, quell’Alfonso Piccolomini, quel Corsietto del Sambuco, usciti di famiglie primarie, e il Mancino, e lo Squilletta, e Marco Turano ed altri, un secolo innanzi sarebbero stati cerchi come capitani, mentre allora erano proscritti come masnadieri. Oltre i masnadieri, tanto frequenti, divenivano pericolosi quei che doveano respingerli. Il conte della Saponara napoletano, di casa Sanseverino, nel 1602 tornando di Spagna a casa con equipaggio da semplice gentiluomo, i dazieri di Pont Beauvoisin gli tolsero ducentrentacinque ducati, sotto pretesto che era proibito trar denaro fuori del regno; sebbene egli rimostrasse che tanto appena bastava per le spese del viaggio. Inoltre gli tolsero molte gioje e due braccialetti di diamante, dei quali egli non istette a domandare si facesse menzione nell’atto verbale, per paura ch’esse guardie non se ne sbarazzassero coll’ucciderlo[140]. I soldati non erano più cittadini, eppure a questi non garantivano la pace, perocchè mal pagati, mal tenuti, erano piuttosto masnadieri organizzati[141], sprezzanti la vita dell’uomo e i suoi patimenti, e dai pericoli corsi fatti insolenti in faccia ai pacifici. Il tenersi il popolo sprovvisto d’armi per politica, dava baldanza ai briganti e ai bravi (pag. 94); genìa comune a tutti i paesi, fin a quello che più severamente faceva osservare la giustizia. Perocchè il consiglio dei Dieci al 30 dicembre 1648 ordinava, «che nel termine precisamente prescritto de ore ventiquattro tutti li forestieri di aliena giurisdizione, e sudditi ancora che servono per bravi a particolari persone, e tutti quelli che vivono senza esercizio, arte o professione alcuna fuorchè di bravi, debbano essere usciti di questa città, e dentro altri due giorni da tutto lo Stato, sotto pena d’esser immediate e senza remissione alcuna mandati da’ soli capi di questo Consiglio alle più rigorose pene. Coloro che si serviranno di questa sorte di persone tanto con salario, quanto senza, tenendoli o non tenendoli in casa sua, doveranno esser nello stesso tempo irremissibilmente mandati alle leggi più rigorose, et inoltre condannati a dover far depositare nella cassa di questo Consiglio ducati cinquecento, li quali siano liberamente dati alli captori dei bravi predetti, oltre il benefizio delle armi, le lire seicento di taglia assegnatagli dalli beni del retenuto, o da denari della cassa di questo Consiglio, la qual taglia doverà conseguire l’accusatore o denunziante di essi, che sarà tenuto secreto tutto. Se quelli che ricetteranno o manterranno questa qualità pessima di persone, saranno nobili nostri, oltre le preaccennate pene, s’intenderanno privi del maggior Consiglio per anni cinque continui dopo la loro liberazione». Questo tono ci rivela un’altra delle piaghe di quel tempo, la pessima amministrazione della giustizia, regolata sopra canoni arbitrarj, incerta nell’applicazione, diversa secondo le persone, atroce nei modi, bizzarra nella varietà: la tortura adoperavasi sempre come mezzo di scoprire la verità, di purgare l’infamia, di ratificare le deposizioni spontanee e ad arbitrio de’ giudici e fin del boja; atroci le pene, esacerbata la morte, e spessissimo applicata. Di Milano possediamo cataloghi di quelle eseguite da mezzo il Quattrocento fin a mezzo il Settecento, con dinotati i delitti, e il genere della pena, e particolarità di supplizj da far fremere. Sui primi anni, vanno al boja non meno di otto persone al mese; sul finire non meno di due o tre[142]. Al 2 agosto 1570 si trova il supplizio dei tre prevosti Umiliati, assassini di san Carlo: dopo sconsacrati, ebbero gli onori del palco parato a nero e delle torcie accese, indi appiccati, e al Farina fu recisa da prima la mano dritta innanzi alla porta dell’arcivescovado. Al 19 settembre 1596 un Ponzio de’ Franceschi, capitano disertato ai nemici, fu impeso e fatto a pezzi, portando la testa a porta Ticinese, un quarto a porta Vercellina, uno a porta Orientale, il resto e le interiora a San Giovanni alle Case rotte. Per stregherie vi leggiamo condannati: Giacomo Guglielmetto, Isabella Arienti, Anna Maria Pamolea, Margherita Martignoni, Maria Restelli, Marta Lomazzi, e al 4 marzo 1616, «Caterina de’ Medici, la quale aveva ammaliato il senatore Melzo: fu fatta una baltresca alta, acciò ognuno potesse vedere, e poi abbrugiata, e questa fu la prima volta che si fece baltresca». Fra altri si trova «fatta giustizia sopra un Francesco Famè, messo sopra di un carro, tanagliato per Milano; ed indi squartata e decapitata Camilla Sellari, partecipe del Famè, il quale uccise uno di casa, e lo portò d’indi sotto un corniso sopra la piazza del Castello, ed il corpo dell’ucciso fu messo in San Vincenzo, ed essendo andati in detta chiesa il Famè colla Sellari, le ferite del morto mandarono sangue, e fu detto, _È qui colui che l’uccise_». La confraternita di nobili in San Giovanni alle Case rotte, assisteva ai condannati, poi suffragavali, ed avea il privilegio di liberarne alcuno. Sotto il 12 giugno 1681, «essendo stato condannato ad essere impiccato Antonio Rivolta, detto il Bustofante, per avere ucciso Giacomo Perugia oste della Cervia, con pistola di nottetempo; posto in confortatorio, essendo prefetto della scuola di san Giovanni il signor conte di Melgar governatore, fattosi considerazione sopra il privilegio reale che la scuola istessa tiene di poter liberare due condannati dalla morte di caso graziabile, diede memoriale al senato, e gli fu fatta la grazia; onde il detto Rivolta, tutto vestito di bianco, si levò dal confortatorio, e processionalmente fu condotto alla real Corte, ove era S. E. e tutta la Corte co’ cavalieri e dame, e disse: _Grazie a Dio e alla V. E._, e si portò alla chiesa di San Giovanni, ove vi erano sei trombetta della città, che invitavano tutti a concorrere a tale funzione. La chiesa era tutta adorna di arazzi e pendoni, e l’altare d’argenti bene ornato; ed ove con solenne musica di canti e suoni se li fece sentire la santa messa, dopo di essa fu cantato il _Te Deum_, e fattasi dal rettore di detta scuola al liberato una breve e pia esortazione _de bene vivendo_, fu licenziato: indi condotto nell’oratorio per accondiscendere alla curiosità delle dame e cavalieri ivi adunati, fu colà co’ biscottini e preziosi liquori di Bacco ristorato: portatosi poscia a pranzare in casa del sindaco di detta scuola, fu dopo il pranzo licenziato con la pace del Signore». Del resto gli abusi di giustizia erano comuni a tutti i paesi. Tra le riforme che il Campanella proponeva alla monarchia spagnuola era «quell’abuso dei giudici che più regna ne’ più grandi, i quali, conoscendo uno innocente, pur lo condannano in qualche cosetta per diffamarlo quando la causa è andata in lungo: il che fanno, essi dicono, per donar riputazione alla causa; mentre si deve togliere la reputazione della colpa, e non mettere» (Cap. XIII). Frequentavano esempj di pessima giustizia in Piemonte[143], e soprattutto di accordi fatti co’ rei per rimetterne la pena. Giacomo Rasorio mercante, accusato d’aver introdotto la peste in Torino, ottiene grazia per mille fiorini. Claudio di Seyssel, arcivescovo di Torino, giureconsulto valoroso, ragguagliava il duca Carlo III che Giorgio da Romagnano e due suoi fratelli cherici avevano fabbricato moneta falsa, ma che gli avrebbero fatto qualche regalo, pel quale esso li perdonerebbe. Il presidente Blancardi nel 1673, fatta inquisizione appassionata contro Catalano Alfieri, vantavasi d’aver raccolte prove per motivare una condanna, che procaccerebbe all’erario cencinquantamila ducatoni. Ai frodatori del sale nel 1688 fu comminata la morte e la confisca: nel 1655 Carlo Emanuele II vietava il lotto sotto pena di cinque anni di galera e la confisca. Alcune volte il reo davasi ai parenti stessi perchè l’uccidessero privatamente onde evitare l’infamia del patibolo. Fin nel 1710 un Bocalaro di Caselle fu tanagliato e ucciso per aver fatto un’effigie di cera onde procurar la morte del re; nel 18 condannato al supplizio un canonico Duret per aver cercato tesori con incantesimi; nel castello di Miolans furono chiusi un marchese Risaja per arti magiche, un panieraio che avea rubato un’ostia per valersene a sortilegi, un Francesco Freylino che accusò se stesso ed altri di malìe contro il principe, finchè in articolo di morte confessò aver finto tutto ciò per conseguire qualche impiego; nel 28 fu decapitato in Aosta il conte Andrea Dupleoz per avere con fatucchierie attentato alla vita della moglie. Il che c’introduce a deplorare le vittime delle credenze assurde, popolari e scientifiche. Già abbiam menzionato (tom. X, pag. 845) la terribile bolla di Sisto V, nel 1585 contro la geomanzia, idromanzia, aereomanzia, piromanzia, onomanzia, chiromanzia, necromanzia e d’altro nome incantesimi e fatucchierie. Chi pensi di quali errori fossero conseguenza e fonte tali superstizioni, e quali stromenti sacrileghi vi s’impiegassero, e come palesassero almeno l’intenzione del male, troverà savio che i pontefici li perseguissero severamente; ma è facile scorgere quali conseguenze adducesse questo medesimo divieto. Gregorio XV asseriva che dai malefizj, se anche non venga morte, ne seguono malattie, divorzj, sterilità. Clemente VIII al 1598 era nel sessantesimoterzo anno di vita e nel settimo del pontificato; due numeri climaterici, in grazia de’ quali il popolo aspettava ogni male; laonde egli ripeteva di aver soli sessantadue anni, aspettando che l’influenza passasse. A Paolo V un astrologo dichiarò vivrebbe poco; ond’egli preso da terrore, licenziò il cuoco e lo scalco, di mille precauzioni si circondava, non riceveva nessun memoriale da sconosciuti, e dappertutto vedeva insidie e veleni, sinchè non fu guarito con un rimedio simile al male; poichè un consulto di astrologi dichiarò che per l’influsso pericoloso era trascorso il tempo. La cabala ed altre vanità astrologiche dirigevano le cure de’ medici anche meno pregiudicati, l’astrologia giudiziaria usurpava ancora gli altari all’astronomia, e l’illustre cancelliere di Francia L’Hôpital diceva che a Roma dominavano i matematici e gli astrologi[144]. Paolo Taggia dottissimo modenese scriveva al Gualdo di Padova: — Il matrimonio continua nella congiunta disgiunzione, tuttochè non cessino le orazioni, i digiuni, l’elemosine e gli esorcismi. Questo solo v’è di buono che consta del legame e incanto, sì nel giovane come nella giovane; onde possiamo sperare assai tosto buon fine»[145]. Felice Centino d’Ascoli che bramava vedere papa il proprio zio cardinale, tramò contro i giorni d’Urbano VIII per mezzo di fatucchierie, formando una figura di cera, collo struggersi della quale dovea pur consumare la vita del papa: tradito il suo segreto, egli fu decollato, i complici arsi o mandati alla galera. Il Capecelatro, uno de’ migliori storici anche perchè versato negli impieghi, entrando a descrivere la sollevazione di Masaniello, trova che tali flagelli furono «causati da cattiva influenza di stelle, o pure dall’eclisse del sole, succeduto di mezzogiorno nel segno di leone la precedente estate, il quale segno domina Napoli, predetto da Paolo Cocurullo celebre astrologo di minacciarle rivoluzione e ruina con suo grave incomodo e danno». Egli stesso avverte che tal sollevazione avvenne nel secolo XVII dopo Cristo, XVII anno dopo la famosa peste, nel XVII mese del governo del duca d’Arcos, nel vii anno dopo il 1640, nel VII mese dell’anno, VII giorno del mese, VII giorno della settimana, VII ora del giorno. Durante quella si disse che gli Spagnuoli mandavano streghe ad incantare i posti; la gente arrestò tre vecchie, ad una delle quali mozzò tosto il capo, le altre pose in carcere per essere tormentate; e mandaronsi sacerdoti a esorcizzare que’ posti[146]. Cosmo Ruggeri astrologo e mago, passato in Francia con Caterina de’ Medici, v’acquistò fama per oroscopi, talismani, filtri da ispirar amore o da far morire; e Caterina l’adoprava forse a ciò, più probabilmente a spiare. Per accuse di cospirazioni torturato e messo alla galera nel 1574, poi liberato, sotto Enrico IV fu arrestato di nuovo perchè teneva una figura di cera di questo e la pungeva ogni giorno, ma le istanze di cortigiani e di gran signore fecero sospendere il processo. Pubblicava ogni anno almanacchi; fu fatto abate di Saint-Mabè, e ch’è più strano, storiografo; in morte non volle consolazioni religiose, dicendo non v’ha altri diavoli che i nemici, i quali ci tormentano quaggiù, nè altro Dio che i principi, i quali possono farci del bene; onde il suo cadavere fu trascinato al mondezzajo[147]. Don Domenico Manuele Gaetano conte di Ruggero, maresciallo di campo del duca di Baviera, generale, consigliere, colonnello d’un reggimento a piedi, comandante a Monaco, e maggior generale del re di Prussia, era nato a Pietrabianca presso Napoli, imparò d’orefice, e nel 1695 fu iniziato all’alchimia tramutatoria, probabilmente dal famoso Lascaris, da cui ebbe la tintura bianca e la gialla per fare l’argento e l’oro, ma in piccola quantità. Alla loro scarsità ed efficacia supplì colla ciarlataneria, annunziando poter tramutare metalli in gran copia; e facendone esperienza su piccolissima, ottenne credito. Scorsa Italia, fece per quattro mesi eccellenti affari a Madrid, donde l’inviato di Baviera l’indusse a passare dall’elettore, che allora stava governatore a Brusselle, ed eccitò l’ammirazione, e Massimiliano, posta piena confidenza nelle magnifiche promesse di esso, gli concesse cariche e titoli e sussidj per seimila fiorini: ma scopertolo bugiardo, lo fece buttare in una fortezza. Dopo due anni riuscito a fuggire, comparve a Vienna nel 1704, e qualche projezione gli riuscì sì destramente, che tutta la Corte ne rimase stupita; l’imperatore Leopoldo sel prese a servizio: ma la morte di questo avrebbe intercisa la sua fortuna se non fosse stato assunto dall’elettor palatino, al quale e all’imperatrice egli promise in sei settimane dare settantadue milioni o la sua testa. Prima del termine egli fuggì con una signorina; ed eccolo a Berlino acquistandovi favore col dirsi perseguitato dall’Austria; e re Federico, sentito il consiglio di Stato, che non trovò da opporsegli, ne accettò le proposizioni. Con grand’apparato di testimonj fece alcune trasmutazioni, constatate rigorosamente, e promise fabbricare polvere di projezione quanta basterebbe a far sei milioni di talleri: e bisogna crederlo espertissimo giocoliero al vedere quanti ingannò, e gli onori che ottenne. Pure la promessa al re non veniva ad effetto, nè questo il regalava che a misura; alfine avvertito de’ costui precedenti, lo fece chiudere a Custrin, e non avendo saputo adempiere la promessa, fu processato, e come reo di maestà impiccato a Berlino il 29 agosto 1709, coperto d’un abito d’orpello, con forca dorata. Federico ebbe vergogna o d’essersi lasciato ingannare prima, o d’averlo punito sproporzionatamente, e non volle più che quel nome si menzionasse. Il vulgo intanto delirava dietro alle beffe dei folletti, e alle immanità di ossessi, possessi, circumsessi; cercava nel guardo maligno e nell’incantesimo le cause delle malattie strane, de’ temporali, delle pesti; e ne pigliava vendetta o a furore o ne’ giudizj, principalmente in casi d’epidemia. I processi di stregherie aumentandosi confermavano viepiù la credenza vulgare, alla quale non seppero sottrarsi nè persone piissime come i cardinali Borromeo, nè pensatori. L’Inquisizione procedeva meno contro le eresie, sbandite omai dall’Italia, che contro opinioni fallaci e superstizioni, diffuse anche in libri, dei quali sarebbe curioso più che utile esaminare il contenuto[148]. Ma in questo tempo principalmente furono compilati gli _Arsenali_, le _Pratiche_ e le altre guide nell’esercizio della Santa Inquisizione; la quale con siffatta pubblicità mostrava essere in buona fede, e non operare diverso dai tribunali ordinarj. Il lusso fin là mandava più oggetti fuori che non ne chiamasse qui; i panni nostri, sebbene non più unici, reggevano la concorrenza di quei d’Olanda, di Francia, d’Inghilterra; Lione non toglieva vanto ai tessuti serici di Bologna e Firenze[149]; soprattutto avevamo il primato nelle arti belle, dall’architettura fin all’oreficeria; e come qui erano date le commissioni o chiamati fuori i nostri artisti, così qui venivano tutti quelli che volessero perfezionarsi. Ora anche questo cessò; le manifatture francesi divennero moda universale, lasciando sciopere molte braccia nostre; i vini, o, come diceano, le bottiglie di Francia furono ambite: pure è dovuto ai nostri, e massime a Piemontesi e Mantovani, l’introduzione in Francia delle manifatture dell’acciajo e del cristallo. Sebbene un antiquario italiano abbia scritto che nelle piramidi egizie siansi trovate porcellane della Cina, quest’arte non rimonta che a censettant’anni avanti Cristo; per mezzo de’ Portoghesi venne conosciuta in Europa verso il 1518, e Francesco de’ Medici si propose imitarla, non senza successo; ma come arte si propagò soltanto in Sassonia al 1708. Da noi si continuarono a lavorare le belle majoliche di Castel Durando. Pare allora s’introducessero i lavori in filigrana, attesochè il Cellini non ne faccia mai cenno, e il Baldinucci scriva: — A’ tempi nostri è sorta altra bella invenzione di lavoro che chiamano di filo in grana, colla quale si fanno tazze, punte e manichi di spade...» Delle molte feroci fami, se la ragione non può spesso cercarsi che nella volontà di Colui che le manda, pure anche gli uomini aveano porzione di colpa. I tanti masnadieri toglievano ai contadini la sicurezza necessaria. Contro ribelli e banditi, oltre le altre pene, comminavasi quella di lasciarne i beni incolti. Non pochi, oppressi dalle taglie, abbandonavano i proprj campi, che così rimanevano sodi. Le caccie, fatte con tanto seguito di persone e di cani; le bandite, per cui dovevasi lasciar impunemente la selvaggina guastare i frutti di campagna; la negligenza inerente agli stessi possessori od alle corporazioni; l’abbandono venuto dal mancare all’oberato padrone i capitali onde eseguire le riparazioni campestri; l’accumularsi di possessi nelle manimorte, curanti solo di trarne il necessario, erano cause evidenti di peggioramento. E fin ad oggi si scorge traccia de’ campi e de’ vigneti in quel tempo abbandonati. Trovo nelle cronache di Mantova che il 1561 gelarono le vigne in modo, che il vino valse al carro lire cento, mentre prima aveasi a nove o dodici al più[150]. Restava il capitale fisso de’ terreni fertilizzati, dei grandi canali irrigui e navigabili, tramandato dai tempi liberi, ma andava disperso il capitale circolante, necessario a farlo fruttare. Aggiungete quel profluvio di prammatiche annonarie (pag. 115), per cui si prescriveva, per esempio, di portar sempre grano verso la città e non mai in senso contrario, d’introdurvi la metà del raccolto, non accaparrar grano, non farne prezzo prima che segato e battuto, non riportarlo dal mercato una volta che vi fosse condotto, bollare i muli che lo trasportano: poi mille indiscrete prescrizioni sui mugnaj, sui venditori, sui misuratori, sui mediatori; pena gravissima al fornaio che vendesse pane a un possidente; non tenere buratto o crivello nelle case private. Poi nelle carestie, invece di attirar grano col rincarirne il prezzo, si pretendeva tenerlo più basso del naturale, mezzo sicuro di aggravare le fami. Insomma, invece di star paga a procurare sicurezza, la legge voleva estendere il suo impero dovunque giungesse l’azione del commercio e delle arti; nel che per altro andavano pari i governi forestieri e i nostri, i pacifici e i guerreschi, Roma come Torino, Firenze come Napoli e Milano. Un buon soccorso per altro venne dall’essersi introdotto il granoturco, che utilmente si surrogò all’orzo e ai tanti minuti. Fa meraviglia come rapidamente siasene propagata la coltura, malgrado la consueta repugnanza de’ contadini a cambiare abitudini: ma questo nuovo raccolto non andava soggetto alle decime e all’altre retribuzioni, da antico esatte sugli altri; al padrone istesso non se ne dava porzione, talchè l’agricoltore ne traeva un indiviso profitto, sinchè tardi appare nei contratti l’obbligo di seminarne e di darne anche al padrone. Allora anzi talmente gradì la novità, che si neglesse il frumento; e dagli ordini, principalmente della Repubblica veneta sappiamo che si squarciavano i prati per metterli a granoturco, talchè mancava il foraggio per le bestie, la scarsezza di concio deteriorava i campi, e bisognava introdurre gran numero di bestie da macello. Anche del riso fu allora incominciata o estesa la coltivazione, e vuolsi le prime prove si facessero da Teodoro Trivulzio nel 1552 ai vasti suoi possessi nel basso Milanese. La patata era conosciuta, ma non ancora di uso popolare. Fu sensibile il decrescere della popolazione. Cercavasi trarne dagli Stati vicini, il che non è aumento, bensì trasposizione: cercavasi aumentarla nella città con privilegi, spopolando le campagne, e sminuendo i vantaggi della diffusione. La quale assurda tendenza apparve, non che ne’ provvedimenti annonarj, anche nell’istituto de’ Gesuiti, che non si piantò in campagna come Benedettini, Cistercensi, Francescani, ma nelle città, educando a tutt’altro che alle arti faticose, e brigandosi delle classi scelte. Vero è che ai poveri badavano altri Ordini vecchi: ma questi, se mostrarono miracoli di carità ne’ grandi bisogni del popolo, degenerarono col reclutarsi quasi unicamente fra gente bassa, perchè gli Ordini nuovi traevano a sè gl’ingegni, e la nobiltà produceva reputazione ed apriva le dignità. Allorchè nel 1609 Filippo III cacciò gli ultimi avanzi dei Mori di Spagna, molti si stabilirono in Italia: ma reciprocamente i ministri di quel re procuravano allettare i nostri a quel regno spopolato, e tra altri passarono colà cinquecento Genovesi. Dalla Siria vennero bensì alquante colonie nel Napoletano all’estendersi delle conquiste turche. Vicino a Parenzo sulla costa d’Istria, furono da Venezia raccolte nel 1657 dieci famiglie albanesi, che formarono il villaggio di Pervi, ove crebbero, fin oggi conservando riti, costumi, lingua. La poderosa famiglia degli Stefanopoli, che pretendeansi discendere dagl’imperatori bisantini, costretta a migrare da Maina, dai Genovesi invitata, stanziò a Paomia, un de’ luoghi più ameni della Corsica, ma incolto e spopolato. Molti Mainotti la seguirono per sottrarsi ai Turchi, e se ne formò una popolazione nuova, aristocrati quelli, questi popolani; e a loro la Repubblica genovese assegnò i territori di Paomia, Revida, Salogna in feudo perpetuo; provvedeva a edificar le chiese e le case, e dava le semenze, da rintegrarsi fra sei anni; esercitassero il rito greco, ma sottoposti al papa; giurassero fedeltà e pagassero le tasse alla Repubblica, la quale ogni due anni vi manderebbe un rettore. Là si diedero alla coltivazione; e sebben sulle prime guardati dai vicini in sinistro, s’addomesticarono poi, e conservarono le patrie usanze. Alla popolazione recarono gran detrimento le pesti ricorrenti. Ricordammo già quella del 1576. Torino l’ebbe nel 99, quando il duca, a ristoro delle spese sostenute, concesse al municipio un quinto delle successioni intestate. Di quella attorno al 1630 soffersero tutti gli elementi e le espressioni del viver civile. Infierì di nuovo a Genova nel 1656, col solito corredo d’incantesimi e d’avvelenamenti: supponevasi che l’olio della lampada di San Lorenzo risanasse, onde per l’affluenza cresceasi il morbo: medici e preti vennero da Marsiglia; il doge Sauli stette fermo al suo posto; e molte signore soccorreano ai sofferenti, tra cui Laura Pinella e Sofia Lomellina: soli diecimila abitanti rimasero in città, e la compassione de’ doviziosi fabbricò allora l’Albergo dei Poveri. È tristamente ricordevole come i cadaveri furono buttati entro capacissimi sotterranei all’Aquasola, che servivano di magazzini pel grano: ma quivi gonfiandosi apersero un varco, sicchè alla mesta città crebbe orrore un fiume di tabe. Oltre ciò, rinnovavansi inondazioni e tremuoti, che poi viepiù parvero infierire sullo scorcio del secolo. Nel 1669 l’Etna devasta gran paese dopo orribili tremuoti: a Nicolos s’apre uno spacco di sei piedi, lungo dodici miglia: otto voragini a San Leo, donde uscirono densi volumi di fumo: il monte Fusara da altra voragine buttò un fiume di lava, che devastate in giro le campagne, si drizzò a Catania. Allora preci da ogni parte, e recar in giro le reliquie di sant’Agata, e parve miracolo che quell’onda infiammata, proceduta per quindici miglia, svoltasse e cadesse in mare, formando due montagne: si calcolò che il vulcano avesse eruttato quindici milioni di piedi cubi di materia; e oggi ancora rimangono le traccie di quell’orribile guasto. Nel 72 tremò tutta Romagna, e a Rimini crollarono chiese e palazzi, molti uccidendo o ferendo. Nell’88 fieri tremuoti scassinarono Benevento, Cerreto e altre terre del regno, a Napoli abbatterono insigni edifizj e la cupola del Gesù Nuovo, e il portico dell’antico tempio di Castore e Polluce. Nel 93 cominciò col gennajo a tremare la Sicilia; Messina fu quasi diroccata, ma pochi perirono, attesochè i più si erano ricoverati sotto tende in campagna aperta; per tutta l’isola la desolazione fu orrenda, e poniam pure esagerata. Sotto le rovine di Catania si dissero perite sedicimila persone; quindicimila in Siracusa; ottomila in Augusta, ove anche il fulmine mise fuoco alla polveriera; Noto, Modica, Taormina, e fin settantatre terre andarono a guasto, e alcune sobbissate per modo da non rimanerne vestigio. Il Mongibello spalancò la sua voragine per tre miglia di giro: la Calabria e Malta soffersero di gravissimi disastri. L’8 settembre dell’anno seguente di nuovo tremuoto sobbalzò il regno di Napoli, molti palazzi nella capitale scassinando, per Terra di Lavoro alquanti villaggi distruggendo interamente; e così a Capua, a Vico, a Canosa, a Conza, alla Cava con moltissime morti. Nel 95 il Tevere desola Roma, e ne segue epidemia: poi scuotesi il Patrimonio di San Pietro, e diroccano Bagnarea, Celano, Orvieto, Toscanella, Acquapendente: la marca Trevisana è pur sobbalzata, e mille cinquecento case sovvertite nell’Asolano. Sopravvennero nel 98 tremende eruzioni del Vesuvio, le cui ceneri coprirono i tetti e le strade fin a un piede d’altezza; e devastate dalla lava Torre del Greco e i contorni, da sessantamila paesani rifuggirono a Napoli, alimentati dalla carità dell’arcivescovo Cantelino. Quell’anno stesso la polveriera di Torino scoppiava, con immenso guasto della crescente città. Poi nel 1702 nuove scosse diroccarono Benevento con perdita di centinaja di persone, e così Ariano, Grotta, Mirabella, Apice. Nell’anno successivo ancora inondazioni a Roma, e tremuoto: Norcia fu un mucchio di rovine; così Spoleto, Chieti, Monte Leone; e da trentamila morti si piansero. Nella regione alpina, Udine il secolo precedente era stata sfasciata da moto di terra, poi attorno a quel tempo cominciano a lamentarsi gl’improvvidi tagli de’ boschi, e il conseguente irrompere de’ torrenti e delle lavine. Il 14 agosto 1692 il monte Uda nel Friuli si riversò sopra il villaggio di Borta sepellendo gli abitanti, e abbarrò il Tagliamento, che gonfiatosi in lago ruppe sulle campagne devastando quegli ubertosi dintorni. Già nel 1619 un’altra rovina aveva sepolto il borgo di Piuro vicin di Chiavenna, non campandone persona. Eppure al racconto di flagelli, fami, pesti si alterna quello di feste, conviti, parate, caccie; e che il lusso crescesse a proporzione della miseria non farà meraviglia a chi conosce che la ricchezza sta nella diffusione delle cose necessarie ed utili, mentre allora queste si concentravano in poche persone, le quali poteano farne ostentazione. Forse peggio che altrove trascendeasi a Roma, benchè vi si moltiplicassero prammatiche; e Urbano VIII proibiva il vestir immodesto, alle donne l’imparar suono e canto da uomini, alle monache l’adoprare altro maestro che suore. Il cardinale Mellini tornando dalla nunziatura di Spagna, faceva l’entrata in Roma con cinquantaquattro carrozze a sei cavalli[151]. Il Noris vestito cardinale, scrive: — Vado provando e non posso finire d’addobbar la mia casa, che non è capace di ventotto persone, quante formano la mia corte. Ho comprato cinque carrozze, e tengo otto cavalli; ho speso sopra mille scudi nella cappella, e spesso ripeto con Seneca, _Ubi est animus ille, modicis contentus?_ Non ho piedi per far camminate, perchè li cardinali non possono andare a piedi per Roma; non ho mani per scrivere, perchè sta uno _ab epistolis_ che mi assiste; non per bere, mentre altro _adest a potionibus_. Se mi voglio vestire, mi attorniano tre ajutanti di camera, ed io pajo una statua che viene vestita. Il peggio e a me più strano si è che, sonate le ore quattordici, la giornata non è più mia; ma si deve consumare o in dar udienza o nell’assistere alla congregazione, onde posso dire con san Paolo, _Vivo ego, jam non ego_»[152]. Si stupisce alle descrizioni di solenni ricevimenti in Napoli, in Milano, in Palermo, che pur erano condiscendenze a padroni non amati. Passava da Napoli l’infanta donna Maria d’Austria, sposa dell’imperatore, l’ottobre 1630, andando a Vienna, e pose tanta sottigliezza nel cerimoniale, che le dame compresero sarebbero escluse le più dalla festa in palazzo, perchè l’uso di Spagna a quelle solo di case regnanti o mogli di grandi di Spagna concedeva di seder su guanciali; tutte le altre per terra. S’immaginò dunque lo spediente che la regina non comparirebbe in pubblico, bensì _sotto coverta_, cioè in una loggia chiusa con gelosia, mentre le dame prendeano posto sopra un finto Parnaso tra ciclopi e ninfe, la Notte, la Fama e le colonne d’Ercole; da un carro stellato a quattro cavalli era tratta la Notte sui campi Elisi; una quadriglia di diciotti cavalieri, metà in seta color carne guarnita d’argento, metà in nero, guidavano la danza, e la seguivano l’ambasciadore cesareo, il gran connestabile e la gioventù più nobile: veniva poi la danza colle dame. E per quattro mesi continuaronsi le feste con rovina del vicerè Alcala e della città. Partendo, essa il primo giorno arrivava a Nola, il secondo ad Avellino, il terzo a Mirabella, ad Ariano il quarto, poi a Bovino e a Foggia i due seguenti, il settimo e ottavo a Tormaggiore e a Serra Capriola, il nono e decimo a Termoli e al Vasto, l’undecimo a Lanciano, il dodicesimo a Ortona, poi a Pescara, poi ad Atri, poi a Giulianova, poi alle Grotte, poi al porto di Fermo. Indugiatasi a venerare la santa Casa, solo al vigesimo giorno giungeva a Loreto. In ciascun luogo erasi a gran costo preparato l’alloggio per la regina e il suo seguito[153]. Da qui v’apparve come lento ancora fosse il viaggiare. Il cardinale Bentivoglio passando nunzio in Francia pose tre giornate e mezzo da Ferrara a Gualtieri pel Po, due da Gualtieri a Cremona, e quasi altrettanto da Cremona a Pavia; e le lettere fra Roma e Parigi gli tardavano sin un mese. Uno degli spassi era la visita ai monasteri; e la principessa di Stigliano e sua nipote Anna Caraffa ed altre, ottenuto dal papa di visitare quel di donna Regina, vi spedirono per il pasto tre cignali, quindici caprioli, dodici galli d’India, altrettanti capponi, assai maccheroni ed altre cibarie. Altrove noi recammo la distinta d’un pranzo che certo richiese mesi di preparazione, e quasi intero il giorno per servirlo e consumarlo[154]. Nel 1691 Ranuccio Farnese ammogliando Odoardo suo figlio con Sofia di Neuburg, sorella dell’imperatrice e delle regine di Spagna e Portogallo, spiegò tal fasto che tutto il mondo ne fu pieno. Quando al 1700 il duca di Parma a nome dell’imperatore levò al sacro fonte un neonato di Rinaldo d’Este, meglio di cento tiri a sei gli fecero accompagnamento, poi luminare e feste per più giorni e un suntuosissimo carosello. Nel 1628, pel giorno natalizio di Madama Reale in Torino, si rappresentarono _Il vascello della Felicità_ e _L’Arione_. Allo scoprirsi della sala regia, con musica strepitosa comparvero in cielo gli Dei propizj, ciascun de’ quali cantava un breve recitativo, cui rispondeva il coro: vennero poi gli elementi, simboleggiati l’acqua in un vascello, in un teatro la terra, nel Mongibello il fuoco, in un’iride l’aria. Ed ecco il salone riempirsi d’acqua a guisa di mare, e il vascello lentamente inoltrarsi portando nella prora un ricchissimo trono per la Corte; ne’ lati di qua e di là gli stemmi delle province soggette al duca di Savoja, e in mezzo una tavola per quaranta persone, che dal dio del mare invitate furono servite di suntuosa cena da Tritoni, portanti le vivande sul dorso di mostri marini. Frattanto s’uno scoglio si rappresentò la favola d’Arione, studio di Giovanni Capponi bolognese: la musica fece il prologo; al primo atto Arione partiva dalla patria Lesbo; nel secondo vedevasi assiso, e cantante sul delfino; nel terzo a Corinto narrava a re Periandro le sue sventure, facendosi riconoscere dai marinari[155] che l’avevano tradito; alla fine le sirene menarono un balletto, invenzione del duca Carlo Emanuele. Delle feste del medioevo conservavansi molte, modificandole ai luoghi e al tempo: e se in un torneo a Modena il famoso Montecuccoli uccideva il conte Molza, in Genova solennizzavansi le Casazze, dove le corporazioni a gara sfoggiavano cappe di velluto e ricami d’oro tanto ricchi che i re non n’aveano di migliori, e con torchi grossissimi in pugno andavano processionalmente per le vie, ciascuna confraternita dietro a un crocifisso, nella cui bellezza e dovizia faceasi gara, come nella maestria di saperlo portare senza sbilicare, fra quelle chine e anguste viuzze. Solennissime pure erano le processioni del venerdì santo, che alla spagnuola chiamavansi dell’Entierro. Le rappresentazioni in generale prevalevano al teatro. La musica in questo tempo, siccome dicemmo (t. X, p. 219 e seg.), si raffinò di teorie e di pratica, e universale ne divenne la passione; ma usavasi di più quella di camera e di chiesa, che non la teatrale; e questa pure prediligeva soggetti sacri. La prima opera musicale a Palermo fu nel 1692 la _Santa Rosalia_. Il _Riscatto di Adamo_, ossia il _Martoro di Cristo_ di Filippo Orioles era recitato per tutta Italia. Nell’_empietà della dottrina ariana, conculcata e convinta nel glorioso martirio di sant’Ermenegildo_, opera del cappuccino Federico da Palermo, vedesi il viatico portato a quel re prigioniero. I Travaglini erano i buffoni di quell’isola, come di Napoli i Pulcinella. I cantanti, che furono cominciati a chiamare _virtuosi_, pagavansi ducento, trecento e più doppie, oltre le spese di vestiario, di scene, d’illuminazione. Ferdinando di Mantova spese per una virtuosa quanto avea ricavato dal vendere Casale, e tutto ciò che gli sopravanzava di prezioso. Il trionfo di coteste era Venezia, a’ cui carnevali affluiva gente da tutto il mondo, allettata dagli spettacoli e dalla libertà della maschera. Anche a Roma si scarnevalava suntuosamente, quando nol vietasse qualche austero pontefice. Molti agi s’aggiunsero alla vita; si estese l’uso delle carrozze, s’introdussero il caffè[156], il cioccolatte, la chinachina; anche il tabacco, primamente portatoci dal cardinale Santa Croce dalla nunziatura di Portogallo[157]. I giardini artifiziali più grandiosi si fecero, disponendovi cascate, chioschi, mulini a vento, grotte, tempietti, prospettive, insieme con macchie, cerchiate, siepi, non in modo d’imitar la natura, ma di far la natura servir all’arte. Romitorj, torri cinesi, capanne, castelli in ruina, cappelle gotiche non usavano ancora; bensì disposizione simmetrica, scale avvicendate con pianerotti e terrazzi balaustrati, e un semicircolo detto teatro con nicchie e statue e vasi; e cascate di bacino in bacino con variata disposizione; e veri boschi, come la pineta della villa Pamfili, e lunghissime praterie, incorniciate da pioppi e da siepi. Viali di cipressi conducevano a un casino, ornato d’ogni bellezza, e dal quale godeasi qualche vista meravigliosa. Di tal guisa Giacomo della Porta dispose la Aldobrandini a Frascati, Annibale Lippi la Medici sul Pincio, il Maderna i giardini del Quirinale, l’Algardi la Pamfili a porta San Pancrazio, Marchionne la Albani, e così altre di Roma; a Genova le Groppallo, Parravicini, Doria; a Verona il giardino Giusti; sul lago Maggiore le Isole Borromee: da quelli della Corte di Torino il Tasso cavò l’idea degli Orti di Armida, così poco magici. I ricchi non aveano la passione dell’agricoltura, intorno alla quale pochi cenni ci rimangono. Agostino Gallo bresciano pubblicò nel 1550 le _Venti giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa_, dialoghi prolissi e male scritti, ma con cognizioni pratiche, esponendo ciò che avesse egli medesimo sperimentato, o avuto da persone degne di fede; onde Haller eccede di rigore ove dice che questo _verbosus senex omnia obvia, etiam aliena profert; non satisfecit mihi neque in hortis, neque in agrorum cultu_. Egli parla della coltura del riso e di quella del trifoglio, che ormai non praticavasi se non in Ispagna. Giambattista Cassandri cremonese, nella _Economia, ovvero disciplina domestica_ (Cremona 1616), tratta di tutto ciò che serve a prosperar una famiglia per l’anima e pel corpo. Vincenzo Tanaro bolognese fece l’_Economia del cittadino in villa_ (Bologna 1644), distinta in sette libri intitolati _Pan e Vino, la Vigna e le Alpi, il Pollajo, l’Orto, il Verziere, i Campi, la Luna e il Sole._ Non pare v’avesse pratica personale, ma raccoglieva, e ci tramandò bizzarre particolarità; per esempio l’uso allora più divulgato di sostenere la vite colle canne; la ricca coltura de’ cavoli ne’ paesi di monte; il finocchio di Bologna collo stelo grosso quanto una coscia; le giunchiglie vendeansi molto care a Bologna e le tuberose v’eran di fresco introdotte. Marco Bussato di Ravenna nel _Giardino d’agricoltura_ (Venezia 1592) distendesi sulla potagione e gl’innesti de’ frutti, prevenendo Quintinié, Normand e altri francesi: si vale molto degli antichi, e scrive negletto. Il _Ricordo d’agricoltura_ (1567) di Camillo Tarello dà buoni avvedimenti, non desunti dagli antichi, e fra altri la replicata solcatura de’ campi e la rotazione, volendo che a frumento mettasi solo una quarta parte del fondo, e il rimanente ad altri prodotti; raccomanda di macerar il grano in orina o acqua di calce avanti seminarlo, spargerlo rado e ricalcarlo; loda la coltivazione del trifoglio, e il rimutar di tempo in tempo i prati in campo. Non toccherebbe dunque agli Inglesi la scoperta della rotazione agraria. Di Domenico Maria Clarici anconitano abbiamo la _Istoria e coltura delle piante che sono per il fiore più riguardevoli e più distinte per ornare un giardino in tutto il tempo dell’anno_ (Venezia 1726), con un copioso trattato degli agrumi. Prima che Luigi XIV divulgasse per tutta Europa il tono e le foggie di Francia, s’imitava Spagna nel bene e nel male, nella letteratura come nel vestire. A Napoli predicavasi spesso in spagnuolo, in spagnuolo recitavasi, di spagnolerie empivansi scritture, come oggi di gallicismi, e il discorrere era pieno di _bacio le mani_, _resti servita_, e _buglie_ e _convojare_ e _papelare_ e _montiera_ e _far provecio_ e _alboroto_ e simili. Chè è colpa antica e nuova degl’Italiani l’adottare i difetti dei dominatori quand’anche gli odiano o disprezzano, or le gonfiezze spagnuole, or i gingilli francesi, or la pippa tedesca[158]. Qui sopra divisammo i costumi di Lombardia e del Regno. Firenze, che ci si presentò con Cacciaguida sobria e pudica, poi massaja e operosa ne’ Comuni, poi colta e splendida sotto i primi duchi, può ancora offrirci molti colori a incarnar il quadro degli usi d’allora; ed uno de’ cittadini d’antico taglio, notando sui registri di casa i fatti della giornata, ci ritrae il mutamento operatosi sul dechino del secolo[159]: «Concluso che era un parentado, gl’interessati dell’una e dell’altra banda ne davano conto, o in persona alli più prossimi parenti, o per mezzo di un servitore ai più lontani; poi per il giorno stabilito a uscir fuori la fanciulla in abito di sposa, s’invitavano le parenti sino in terzo grado ad accompagnarla alla messa, e nell’uscir di casa s’incontrava alla porta una mano di giovani, che facevano il serraglio, che era un rallegrarsi colla sposa de’ suoi contenti, e mostrare di non volerla lasciare uscire se non dava loro qualcosa; al che rispondeva la sposa con cortesia, e dava loro o anello o smanigli o cosa simile, ed allora quello che aveva parlato ringraziava, e pigliava a servir la sposa, con darle di braccio sino alla carrozza, o per tutta la strada se s’andava a piedi, ed al ritorno a casa restavano a banchetto tutti i parenti invitati, e quelli del serraglio erano licenziati. L’anello poi si dava in altro giorno, nel quale si faceva una colazione grande di confettura bianca, ed un festino di ballo, dove era sala capace, o pure si giocava a giulè se era stagion da vegliare. Nel mettersi a tavola ai banchetti, c’era un uomo in capo alla sala, che con una lista chiamava per ordine di parentela ciascuno, che così senza confusione andava al suo luogo, le donne da una banda e gli uomini dall’altra. Al banchetto soleva comparire un mandato di quello che aveva parlato nel serraglio, che riportava alla sposa in un bacile di fiori, o con guanti d’odore il regalo che aveva avuto da lei; e lo sposo rimandava il bacile con trenta, quaranta e fino sessanta e cento scudi, secondo le facoltà; che servivano ad una cena, o in fare una mascherata, o altra festa. «Si dismesse poi il serraglio, perchè cominciarono alcuni a servirsi del denaro in uso proprio. Si dismesse ancora di chiamare i parenti nel mettersi a tavola con l’ordine del grado: onde due disordini, cioè che non tutti gl’invitati sanno in riguardo degli altri il loro grado, e si mettono a tante cerimonie per voler mandare in su gli altri, con confusione e disagio per chi è di già al suo posto; l’altro, che invece di molti parenti s’invitano degli amici, che si pongono a tavola mescolati tra quegli, e qualche volta questi amici sono tanti, che escludono dall’invito molti parenti, che si va perdendo quella famigliarità che dovrebbe essere fra i parenti. S’è anco dismesso il dar conto del parentado ai parenti in persona o per mezzo d’altri, ma s’è introdotto di farlo per polizza, scrivendo in un quarto di foglio: _N. dà conto a vostra signoria illustrissima che ha maritato la N. sua figliuola o sorella al signor N., via tale_; e si consegnano ad un servitore o altra persona domestica di casa, che le porta dove vanno, lasciandole in casa di ciascuno; e molti hanno cominciato, per meno briga, a fare stampare queste polizze. «La funzione dell’anello s’è fatta quasi sempre in casa, se bene qualcuno l’ha voluto per devozione dare in chiesa, e le spose vestivano quel giorno di bianco, e con una veste che avea le maniche aperte sino a terra; ma poi s’è dismesso e il colore e la foggia, vestendosi ciascheduna sposa all’uso delle altre donne, e di che colore più le piace. «Subito che qualcuno era morto, se ne mandava a dar conto ai parenti, e s’esponeva il morto in una sala, o camera grande in terreno tra molti lumi, e si parava di rasce nere non solo detto luogo, ma tutto lo spazio ancora che era di lì sino in istrada, sicchè ognuno che passava aveva contrassegno di poter entrare a segnare il morto; e nell’istesso tempo i parenti stavano in una camera con le finestre quasi chiuse, e ricevevano la visita di condoglianza dai parenti e amici senza moversi a riceverli e accompagnarli. Sul farsi notte si portava il morto in chiesa con l’accompagnatura di quattro o sei regole di frati, ed un numero di preti con torcie gialle alla croce ed intorno alla bara, che per l’ordinario sarebbono state diciotto e sedici, ventiquattro e ventotto e più o meno secondo le facoltà: ed in chiesa, mentre si dicevano l’orazioni ordinarie, si posava la bara sotto un’arca di falcole gialle, e poi si dava sepoltura al cadavere. La mattina dopo si facevano l’esequie, alle quali erano invitati tutti i parenti per assistere alla messa di requie, e stavano gli uomini da una banda, e le donne dall’altra in panche parate di nero, con l’ordine della prossimità di parentado, e nel mezzo stava eretto un catafalco con molti lumi di cera gialla. Finita la cerimonia, si raccompagnava i parenti prossimi del morto sino a casa, se era vicino alla chiesa; se non, alla porta della chiesa si licenziava ognuno: ed in tal funzione i parenti stretti del morto portavano un velo pendente di qua e di là dal soppanno del cappello, che arrivava in mezzo al petto. «Si cominciò poi, invece di tener esposto in casa il morto, a mandarlo di notte e privatamente nella chiesa più vicina alla casa, o parrocchia, o confraternita, e quivi si teneva esposto, e di quivi si levava per portarlo come sopra alla sepoltura. Si mutò anche questo, perchè si cominciò a tenere il morto in casa privatamente fino alla sera, che era portato in chiesa, dove la mattina dopo stava esposto a tutte le messe; e si dismesse il chiamare i parenti all’esequie e l’uso della cera gialla, introducendosi la bianca, siccome il chiamar tante regole di frati, ma se ne chiamava una sola, e più numero di preti. «Oggi si tiene il morto privatamente in casa fino alla sera, che si manda alla sepoltura accompagnato da una regola di frati e dal parrocchiano con buon numero di preti, e con cinquanta torcie in circa di cera bianca, le quali si distribuiscono anco tra i frati ed i preti; e perchè la chiesa dove va il morto e la parrocchia devono aver certa partecipazione nella cera, si procura innanzi d’accordarle per sfuggir le liti, e la dichiarazione di che numero di torcie sia alla croce e che numero alla bara, dipendendo da questo la loro pretensione. In chiesa si pone il cadavere sopra una tavola parata di nero tra dieci o dodici doppieri con lumi di cera bianca, e fatte le cerimonie ecclesiastiche, si sepellisce, e se gli fanno celebrare le messe di requie più o meno, secondo la carità degli eredi, e nella medesima chiesa ed in altre, secondo il loro arbitrio. Ed ai parenti si dà conto con polizza, o scritta o stampata, come s’è detto nelle nozze, e vi s’aggiunge, _E non s’incomodino_, che vuol dire che quelli che ne danno conto, non vogliono complimenti di condoglianza in casa. «Nata che era una creatura, il padre invitava un gentiluomo ed una gentildonna per essere compare e comare, e questi andavano a levar di casa la creatura, che in braccio all’allevatrice si conduceva a San Giovanni; e finita che era la funzione, il compare e la comare mettevano al collo della creatura un regalo, che ordinariamente era una collanetta d’oro con una medaglia o reliquia, e tornati a casa visitavano la partoriente, e ne’ primogeniti si faceva una colazione di confetture. Oggi s’è dismesso il regalare (e si fa solamente dai compari gentiluomini alle genti basse, in denari), ed anco bene spesso s’invita solamente un compare senza comare, e il padre della creatura va a levarlo di casa, e lo conduce a San Giovanni, e la creatura viene accompagnata dalla comare se vi è, o da altre parenti; ma si conserva bene l’uso che il compare visiti dopo la partoriente. «È stato sempre uso tra la nobiltà che le donne di parto, particolarmente ne’ primi figliuoli, tenessero visite, e così le spose tre o quattro giorni, e con facilità se ne spargeva la voce per la città; e passati que’ giorni, se fosse arrivata qualche gentildonna, un servitore alla porta la licenziava senza che fosse ricevuta per mala creanza. Tanto segue ancora adesso, ma con questa sola varietà, che prima le spose per se medesime, e le partorienti per mezzo di suocera, madre, cognata, sorella o altra accompagnavano tutte le dame fino alla porta di casa; il che essendosi considerato con il tempo che riusciva di grande incomodo, s’è introdotto di non scendere le scale: e così s’osserva ai festini che si fanno il carnovale, o d’altro tempo di ballo o di giuoco, mantenendosi però in altre occasioni la dovuta creanza civile ed antica accompagnatura. «Tutti i parenti s’invitavano al vestimento delle monache, e all’offertorio della messa si faceva l’offerta, stando la sposa accanto al celebrante rivolta al popolo, con due bacili di qua e di là in mano a due chierici, e tutti i parenti andavano a salutarla con lasciare in quei bacili le mancie. Ed in quei monasteri dove si faceva dentro il vestimento, s’andava a dare detta mancia a una grata della chiesa. S’è poi interamente dismessa quest’usanza della mancia, ed i parenti s’invitano al vestimento con la polizza scritta o stampata come in altre occasioni. Si praticava nel principio del secolo con sincerissima fedeltà, che chi voleva essere sicuro di aver buon luogo alle prediche della quaresima, e non poteva trattenersi per avere a sentir messa o altra occupazione, lasciava sulla panca qualche cosa, come libro, chiave, fazzoletto o altro: il che da chi arrivava dopo s’intendeva per luogo preso, e se gli portava rispetto, ed il padrone al ritorno ritrovava la sua roba ed il luogo. S’è poi dismesso quest’uso, forse per essere mancato la fedeltà; nel 1676 essendo stato in duomo un predicatore con gran concorso, molti gentiluomini, per esser sicuri d’aver buon luogo, hanno mandato a buon’ora uno de’ loro staffieri con la livrea a mettersi a sedere per serbarglielo. «Nell’ultimo del secolo passato s’era incominciato a introdurre l’uso delle carrozze, ma nel principio del seguente non era ancora diventato comune, e molti della nobiltà non la tenevano; ma a poco a poco, con l’occasione di far parentadi o d’altro pretesto, ognuno l’ha messa su, e molti la tengono a quattro cavalli, ed i più ricchi a sei. Da principio le carrozze erano piccole, di cuojo dentro e fuora, e poste sulla sala delle ruote, che andavano assai scomode; poi si cominciò a fabbricarle sulle cigne perchè andassero meglio; e finalmente si sono attaccate dette cigne ad archi di acciajo ben temperati, che cedendo all’urto, fa che vanno assai più comode. Si fanno per i più ricchi di velluto nero, ed anco di colore, e con frangie di fuori e di dentro, e con il cielo di dentro dorato. Fino a mezzo il secolo usarono alcuni più ricchi, per le solennità della città, il cocchio, che di dentro era di velluto per lo più rosino, e di fuora paonazzo con otto pomi alle testate dorati; mai poi si sono intieramente dismessi. Nel 1670 s’è introdotta una foggia di carrozze venuta da Parigi, rette da lunghi cignoni che brandiscono assai, e si chiamano poltroncine, perchè vanno comodissime; e si sono dismessi gli archi, per il rischio di rompersi. «Quasi in tutte le case nobili si teneva un cavallo di quelli chiamati chinea, o un mulotto, che servivano per chi non poteva o non voleva andare a piedi; e si adoperava per la città con gualdrappa di ermisino, ed anco di velluto, o di panno listato di velluto, ed in campagna con sella di corame. Ma con il moltiplicare delle carrozze si sono del tutto dismessi, e solamente qualcuno per diletto tiene un cavallo nobile per passeggiare per la città. Quando le donne andavano in villa, andavano a cavallo, ed i ragazzi sopra un mulo in due ceste: ma oggi vanno in carrozza dove la strada è buona; se non, in lettiga a vettura, che presentemente ne sono moltissime a nolo, quando al principio del secolo non ce n’era se non una, che solamente serviva per tornare un ammalato di villa in città. Qualcuno de’ più ricchi e de’ più infingardi tiene da sè la lettiga per servirsene in campagna. «In questo medesimo tempo che scrivo pare che s’introduca una comodità venuta da Parigi d’una tal sedia coperta, posta su due lunghe stanghe che brandiscono, posate su la groppa d’un cavallo e di dietro su due ruote. A questa tal sedia s’è dato nome di calesse; e sono così presto moltiplicate, che nell’anno 1667 s’è trovato esserne nella città intorno a mille e le lettighe sono in gran numero scemate. Nell’andare per la città si servivano i primi granduchi del cocchio a due cavalli; ma cavalcavano innanzi alcuni gentiluomini in numero di sei o otto, che avevano titolo di lancie spezzate. Il granduca Ferdinando dismesse il cocchio, ed introdusse la carrozza con quattro cavalli, e due cocchieri a cavallo all’uso di Spagna; e le serenissime imitarono con introdurre la carrozza a sei cavalli anco per la città, e lasciarono la cavalcata delle lancie spezzate. Il granduca in città conduce alla portiera a piede il paggio di valigia, ma in campagna va a cavallo dietro alla carrozza: e portava già una valigia dinanzi, dove era un vestito ed ogni altra cosa che potesse occorrere quando venisse occasione di mutarsi; ma s’è poi dismessa questa diligenza parendo superflua. Alle serenissime ancora il paggio di valigia va per la città a piedi alla portiera, ed in campagna a cavallo. «Fuor dei cavalieri di Santo Stefano e di Malta, e gli stipendiati dalla Corte del granduca, non c’era nessuno che portasse spada accanto; e quei pochi gentiluomini che n’avevano da S. A. S. la permissione, usavano di portar solamente il pugnale. Ugo d’Alessandro Rinaldi fu il primo che nel 1616 si cinse la spada, e fu immediatamente seguitato dagli altri giovani nobili, che non attendevano al negozio, avendo anco S. A. S. allargato la mano in concederne a tutti la facoltà, sì che presto si vide la città ripiena di spadaccini; poi a poco a poco s’andò dismettendo, sì che in oggi non solo l’hanno lasciata i gentiluomini, ma ancora i cavalieri e stipendiati di Corte. Nè meno per quasi nessuno si porta il pugnale, benchè S. A. S. ne conceda indifferentemente la facoltà ad ognuno con pagare certa tassa l’anno; e chi crede d’aver bisogno di valersi della spada, o per inimicizia o per altro, se la fanno portar dietro a un servitore, che può riuscire cosa malfatta. L’archibuso non era già concesso ai gentiluomini se non fuori delle otto miglia dalla città, ed a fuoco solamente, e non a fucile e ruota: ma oggi S. A. S. lo concede a tutti a ruota e fucile fino alla porta della città, mediante il pagamento della tassa; ed anco tollera molti che lo tengono nella città, e per passatempo se ne servono in casa per tirare a’ rondoni. Chi ha qualche timore va armato di giaco, e particolarmente la notte; ed oggi S. A. S. ne concede la facoltà ad ognuno, che già erano pochissimi quelli che avessero tal facoltà. Tutti i giovani nobili che stanno su la bizzarria, e che conducono dietro servitori, hanno introdotto di far portare al medesimo servitore sotto braccio una spada assai lunga. «Si teneva già per i più solamente due servitori, uno con titolo di spenditore comprava e teneva i conti delle spese, e l’altro faceva le faccende in casa d’apparecchiare ed altro, andava fuori con la padrona, e faceva ogni altro negozio per la città secondo l’occorrenze; e dove era la carrozza, si teneva di più il cocchiere, al quale si dava di salario dieci lire il mese, allo spenditore dieci, all’altro servitor otto, e tutti vestivano del proprio. S’introdusse a poco a poco l’uso delle livree, e si cominciò a vestire il cocchiere ed il servitore che andava con la padrona, e finalmente a crescere il numero di questi, che oggi la nobiltà della prima riga tiene più servitori a livrea; e le donne ne conducevano almeno due, e gli uomini uno: se gli dà, oltre al vestito, uno scudo il mese. «Le serve erano già tre, cioè una col nome di cuoca faceva le faccende della cucina; un’altra si chiamava donna di mezzo, perchè andava fuora con la padrona, spazzava le camere, rifaceva i letti, e serviva tutti gli altri bisogni, ed anche occorrendo ajutava qualche volta alla cuoca a fare il pane ed altro: ed a queste due si dava, oltre alle spese, un mezzo scudo o lire quattro il mese. La terza donna era di qualche civiltà più, e si chiamava matrona; la quale fuori di casa teneva compagnia ed in carrozza ed a piedi alla padrona, ed in casa cuciva per la medesima, e la serviva nel vestirla ed assettarle la testa, benchè per questa faccenda qualche padrona teneva una fanciulla: e si dava alla matrona sei o sette lire il mese, e la fanciulla in capo a qualch’anno si maritava con dargli cento o cencinquanta scudi di dote. Il servizio della matrona s’è del tutto dismesso, perchè le padrone non conducono fuora più nessuna donna, andando in carrozza sole, ed a piedi s’appoggiano a un servitor di livrea; ma le signore titolate più ricche conducono in carrozza qualche giovane fanciulla che chiamano damigella, e s’appoggiano ad uomo d’età senza livrea; che se gli è dato il nome d’uomo nero o di bracciere. Le artiere, per non andar sole fuori, tengono provvisionato un bottegajo con dargli dieci lire il mese, il quale le feste va ad accompagnarle alla messa ed altrove; e quest’uomo il vulgo lo chiama domenichino, perchè va in opera la domenica. «I giuochi d’esercizio erano, la state quello della palla lesina e della pillotta: ed alla palla lesina si giocava quasi per tutte le strade, perchè i ragazzi nobili di un vicinato si mettevano insieme dopo il desinare, e mandavano al tetto più comodo della loro strada. Questo giuoco è in oggi del tutto dismesso e spento[160]. Per le case, e particolarmente l’inverno, si giuoca alle minchiate ed a sbaraglino: tutti due questi giuochi resi col tempo più belli. Il maglio era in uso come oggi, ma assai più frequentato. Si giocava ancora assai ai dadi, benchè dalle leggi fosse proibito; ma oggi tra i giovani gentiluomini si trova pochi che lo sappiano giocare. S’è aperto da qualche anno in qua una casa su la piazza di Santa Trinita, alla quale hanno dato nome di casino, dove si raguna il giorno e la sera, secondo la stagione, tutta la nobiltà, e vi si giuoca, oltre a’ soprannominati giuochi, anco a primiera, tantio ed altri simili giuochi: e viene da S. A. S. permesso questo pubblico giuoco, perchè non v’intervenendo altre persone che della prima nobiltà, pare che non vi possino avvenire di quei casi, per cagione dei quali sogliono le leggi proibire simili ridotti. «Le donne giocavano già, e particolarmente l’inverno, a giulè; ma una ambasciatrice di Lucca insegnò in una conversazione il giuoco di cocconetto, che a poco a poco si è introdotto per le altre conversazioni, e s’è del tutto dismesso il giuoco del giulè. Per gli uomini s’è introdotto ancora il giuoco del palloncino con la mestola da pochi anni in qua; e qualcuno giuoca al pallone con i bracciali, ma pochi sono i gentiluomini che vi si diano. Il giuoco del calcio, come antico nella città, si procura di mantenere nel carnovale: ma già vi giocavano persone di età e con la barba, che oggi non v’interviene se non gioventù. «Sono state tante le vanità del vestire che in questo secolo sono seguìte, che si rende impossibile di poterle narrare: nel principio del secolo si premeva d’accostarsi all’uso di Spagna, e adesso intieramente alla franzese, e di là vengono tutte le usanze e le mode. Per gli uomini, il vestire è usato sempre color nero; ma per la gioventù si portava il giubbone e le calzette di colore, e con le legacce con merletto d’oro e d’argento secondo che tornava meglio al detto colore; e gli uomini di trentatre a quarant’anni incirca portavano ancor nero il giubbone, ma le calzette sempre di colore. La materia era secondo le stagioni, e per lo più nell’inverno di rascia o perpignano di Firenze o di velluto, e la state di tabì, terzanello ermisino, ecc.; e si guarnivano con molte guarnizioni di raso e tabì ricamate, che venivano ordinariamente da Milano. Ciascuno aveva per stagione un vestito ricamato riccamente di seta nera per servirsene nelle occasioni più cospicue, come nelle foresterie ed altro. Oggi si veste per ognuno interamente di nero, nè si veggono calzette di colore se non qualche volta a qualcuno dei giovani più bizzarri. S’è dismesso del tutto di ricamare i vestiti, ed il guarnirli con quelle guarnizioni ricamate accennate di sopra; siccome s’è ancora dismesso il guarnire con frangie di seta nera, come s’era introdotto a mezzo del secolo; e s’è preso ad adornarli con nastri rasati o tabissati in tanta quantità, che è cosa mostruosa a vedere la quantità delle braccia che si mettono in un vestito. Gli uomini d’età li usano neri, ma i giovani di colore, e molte volte mescolati di più colori, che fa parere un vestito sia un prato fiorito; ed i medesimi nastri si mettono al cordone del cappello. L’inverno la materia è velluto o panno d’Olanda, e la state ermesino o taffetà rasato, ed i mezzi tempi vellutini o grossagrane. «A festini, giostre, cavalcate d’incontri, di funzioni ed altre occasioni speciose, si premeva già di comparire in calza intera con fodera a detta ed al cappotto di teletta d’oro, con stivaletto di marocchino nero con speroni dorati o inargentati o bruniti di nero, secondo la fodera del vestito, e con il collare a lattughe, il quale si portava anco assai spesso fuori delle suddette occasioni. Ma a mezzo il secolo erano tutte queste cose quasi in disuso, ed oggi sono del tutto dismesse, a segno che farebbono ridere se si vedessero addosso ad uno. Ora quasi tutti i giovani hanno introdotto di portar le calzette di colore perlato che pajono vestiti a livrea; ma presto s’è dismesso. Portano la parrucca linda, senza avere riguardo al colore del suo proprio capello, e si radono tutti i mostacci; portano le scarpe piene di nastri, ed anco qualcuno vi mette delle gioje. Son ritornate le frangie di seta nera per guarnire i vestiti. «Le spose comparivano in abito tutto bianco, ma per le altre donne non s’aveva riguardo nessuno nè al colore nè al concerto dell’abito, perchè taluna avrebbe portato una veste gialla ed una zimarra verde; un’altra, zimarra gialla e la veste verde, e così degli altri colori senza nessuna considerazione; e le donne di tempo se eran maritate portavano la zimarra nera, ma la sottana o veste di colore: era però per tutto guarnito ogni cosa riccamente. Si cominciò poi a premere nel concerto, e si portava ogni cosa del medesimo colore, che qualcuna sarebbe parsa botata[161]. Ed oggi finalmente portan tutte l’abito franzese con la zimarra o veste nera di sopra, e di sotto la sottana di colore, che va variandosi come più piace, e si guernisce riccamente con oro o argento, e quella di sopra solamente di nero, e si porta alzata, acciò si vegga quella di sotto. Usavano già il ciuffo e la grandiglia assai grandi, che sono dismesse, andando assai scollacciate, e con molti ricci solamente alle tempia. Le vedove portavano un manto sino in terra e ripiegato sulla spalla, a foggia d’un lettuccio; e poi cominciarono a mettersi in capo quella parte che soleva ripiegarsi sulle spalle, e finalmente hanno lasciato interamente il manto, e vestono di nero del tutto come le maritate, con ricci le giovani, nè son da quelle distinte con altro che con una piccola cuffia nera di velo in capo. Hanno introdotto le giovani di portar sulla fronte un cerchietto di capelli biondi che lo chiamano parrucchino, che sta malissimo a chi ha la capellatura d’un altro colore. «Le meretrici portavano già tutte un segno apparente del loro infame esercizio, ed era un nastro giallo al cordone del cappello, che allora s’usava assai di portare; e quando non l’avevano s’appuntavano un segno giallo alle treccie; e se fussino state trovate senza, sarebbero state castigate. A poco a poco si cominciò a dismettere col pagamento di non so che tassa, ed in oggi non è più in uso, nè si conoscono se non alla loro sfacciataggine. «Gli Ebrei portavano già tutti il cappello rosso, eccetto qualcuno de’ negozianti che per supplica otteneva grazia di portarlo nero. Oggi, qual se ne sia cagione, tutti lo portano nero, nè si distinguono dai Cristiani. «Per paramento della sala e camere non usava altro nel principio del secolo che corame, il quale per i più briosi era dorato, e nelle portiere delle camere v’era l’arme del padrone; poi a poco a poco si cominciò a fare i paramenti nelle camere principali di rasetti, poi dommaschi; e finalmente i più ricchi gli fanno di velluti, telette d’oro e dommaschi con trine d’oro, e le sedie e le portiere compagne; ed alcuni fanno anche tessere a posta le portiere con la loro arme. Le sale si tengono oggi senza paramenti, ma con molti quadri adornate, li quali quadri hanno le cornici dorate tutte e grandi, dove già usavano tinte di nero, con due o tre filetti d’oro al più. Nelle sale ordinariamente c’era un camino grande ed un acquajo, ed in questo si teneva una secchia d’ottone per lavarsi le mani nell’andare a tavola, e vicino v’era la bandinella (che ritengono ancor oggi i frati) per rasciugarsi; si sono poi rimurati questi acquaj ed i camini; ed essendosi cresciuti (come ho detto) i servitori, ognuno si fa dare l’acqua alle mani da’ medesimi servitori in bacile d’argento, e l’inverno per i medesimi servitori si tiene in sala un caldano di fuoco. A tavola s’usava già di mangiare in piatti di terra o di stagno, e così si seguita per i più, adoperandosi però argento nelle sottocoppe, bacili, forchette e cucchiaj e saliera; ma i più ricchi hanno fatto tutti anco d’argento la piatteria, e tengono ancora le camere adornate di vasi d’argento e simili galanterie su tavolini e stipetti di pietra e d’ebano. «In sala usava già tenersi sedie di corame con un’arme piccola del padrone nella spalliera, e sgabelli di noce: oggi vi si tengono per molti panche con spalliera dipinta con l’arme o impresa del padrone, e fanno cassa per servizio de’ servitori; e se pure vi si tengono sgabelli, son rabescati con intagli dorati. «Cominciò nel principio del secolo (o pure si rinnovò) la delizia del bere fresco, ma si procurava di ottenerla dai pozzi col calarvi le bocce del vino qualche ora innanzi il pasto; ed il pozzo di qualche casa, che aveva concetto di fresco, serviva spesso anche per i vicini, che vi mandavano le loro bocce, che per lo più erano di terra. Si cominciò a riporre, l’inverno, il diaccio per valersene l’estate a rinfrescar il vino, l’acqua, le frutte ed altro, e ha preso tanto piede questa delizia, che molti l’usano continuamente anche l’inverno, ed è degno da notarsi l’augumento che ha fatto; perchè l’anno 1609 Antonio Paolsanti, ajutante di camera del serenissimo granduca, prese l’appalto del diaccio per lire quattrocento l’anno, e il 1665 fu appaltato per lire quattromila trecento. E per dir qualche cosa ancora di fuora, in Pisa non si trovò l’anno 1605 chi volesse l’appalto per scudi cinquanta; e oggi è sopra scudi mille novecencinquanta: è però vero che l’appaltatore serve ancora Livorno. Quando l’inverno non diaccia, sono obbligati gli appaltatori, così di Firenze come d’altrove, di far venire la neve dalle montagne, e però procurano di riporla a suo tempo nelle buche fatte a posta per conservarla all’estate. Usano le persone ricche e doviziose di far fare, per bere fra giorno, acque concie di varie sorte con odori di cedrato, di limoni, di gelsomini, di cannella ed altro, raddolcite con zucchero; e ne’ luoghi più frequentati della città ci sono botteghe, dove si vendono in carafine diacciate, che riesce all’universale una gran comodità. «S’è introdotto in Firenze nel 1668 assai comunemente una bevanda all’uso di Spagna, che si chiama cioccolata; ed anco di questa vende uno dei sopradetti bottegaj in bicchieretti di terra, e par che gusti così calda come fredda. «Ciascun padre di famiglia che avea facoltà di poterlo fare, teneva in casa un prete per insegnare ai figliuoli, e per accompagnarli fuori; e ci erano suggetti di lettere e di bontà riguardevoli. E per quelli che non potevano tenere il maestro in casa, c’erano parecchi che tenevano scuola pubblica, e vi si mandavano i figliuoli con un servitore o con altri. Avendo poi preso credito le scuole che tengono i Gesuiti, ognuno s’è voltato a loro per non spendere, e si sono smesse le scuole pubbliche; e quel che è peggio, nessuno studia, o pochi, per fare il mestiere del maestro, perchè questo impiego è svanito, ma ai più basta imparare tanto che basti loro per passare all’esame e divenir preti». Delle persone da tutto il mondo accorrenti a Roma per cercare fortuna, era dimezzato il numero colla riforma religiosa: e i pellegrini della scienza, dell’arte, della civiltà non teneano più di primario interesse Firenze, Venezia, e altre città nostre, quando grandeggiavano Madrid, Londra, Amsterdam, Parigi; v’ebbe colà artisti che pareggiarono e vinsero i nostri maggiori, quantunque si mettessero sull’orme di questi. Pure continuava a visitarsi l’Italia con rispetto tradizionale, e a tacere gli artisti, quasi tutti educati qui, fra i molti viaggiatori vuolsi ricordare l’arguto Michele Montaigne. Avvezzo ad osservare gli uomini e le cose, e paragonare l’antico coll’odierno, ne aspetteremmo fini giudizj: ma preoccupato della sua salute, continuo parla di sè, fin a stomacare chi non consideri che non destinava alla pubblicità quel giornale, di cui una parte scrisse in italiano[162]. Entrato, il 1580, dal Tirolo, a Verona stupì del poco devoto contegno nelle chiese, dove si voltavano le spalle all’altare, e tenevasi il cappello, mostrando badar alla messa soltanto all’elevazione. Che gli alberghi fossero tanto peggiori di quelli di Francia e di Germania, è lamento ripetuto da tutti i viaggiatori, benchè più tardi il presidente De Brosse lo dichiarasse affatto ingiusto. In generale egli trova che qui si mangia in istoviglie, anzichè in peltro e stagno; e disgrada la nostra cucina a confronto della francese. Fin a sette e otto miglia vengono incontro gli ostieri, allettando con buone condizioni a scavalcar da loro. Case cattive, con ampie finestre, grossolani controventi, nessuna stufa, letti duri senza cortine; visite e dogane lo remorano ogni tratto; ogni tratto vede scritto, _Ricordati delle bollette_, ch’erano richieste per ragione di sanità. Padova trae vita dagli studenti; ma i francesi gentiluomini accorrenti a quell’università sono in tal numero, che vivendo tra loro, non imparano i costumi forestieri: anche molte famiglie vengono ad abitarvi a cagione del buon mercato. Di Venezia ripete le solite dicerie; vi conta cencinquanta gentildonne da mercato, che faceano grandi spese in mobili, in vesti, e la nobiltà ne manteneva pubblicamente; vi si vivea con poco, non bisognando gran servi nè cavalli. I giovani nobili (ci vien riferito da altri[163]) vanno alla commedia per ridere delle buffonerie e degli attori, non meno che per atteggiare essi stessi; menano cortigiane nelle loggie, e fanno schiamazzi e atti da non dire; si divertono non solo di sputare in platea, ma di gettarvi la smoccolatura delle candele, massime sopra qualche galante; e per poterlo fare impunemente tengono alla porta dei bravi mascherati. Firenze invece era la città più costosa; le donne ben apparivano con scarpe bianche e cappelli di paglia, i quali vendeansi quindici soldi l’uno, mentre in Francia costerebbero quindici lire; belle le meretrici, raccolte tutte in un luogo; il grano lasciavasi dieci e quindici giorni sul campo, senza paura del vicino; sin le contadine aveano l’Ariosto in bocca. A Siena, sulla piazza più bella del mondo, si celebrava ogni giorno la messa, sicchè gli artigiani la sentivano senza staccarsi dalle proprie faccende. Ornamento del paese sono i portici; e sotto questi i signori a Lucca pranzavano l’estate. Quivi molto si giocava al pallone; gli alloggi erano ad alto prezzo, attesochè non vi capitano forestieri; ma frequentati erano i bagni, intorno ai quali moltissimo si occupa Montaigne. A Pisa ognuno stava occupato a lavorare. Nelle nazioni libere (egli riflette) non si fa distinzione fra le persone; anche le infime tengono alcun che di signorile ne’ modi; fin nel domandare la limosina mescolano sempre qualche parola d’autorità: — Datemi l’elemosina, volete? — Fatemi la carità, sapete?» e uno a Roma diceva: — Fatemi bene per l’anima vostra». A Roma, dopo rigorosissimo rimuginar di bauli, specialmente pei libri, trattenendogli i sospetti, alloggia all’Orso; pranzasi alle due, cenasi alle nove; vi si sentono meno campane che non in qualche villaggio di Francia, e non immagini; le chiese men belle che nel resto d’Italia e in Francia; le abitazioni mal sicure, a segno che chi avesse denari gli affidava ai banchieri. Un predicatore fu arrestato perchè declamò sulle generali contro il lusso de’ prelati. In carnevale facevansi corse or di fanciulli, or di vecchi nudi, or di ebrei o di cavalli con ragazzi, o d’asini, o bufali: gentiluomini e dame vi correano la quintana, e faceano altri esercizj cavallereschi, in cui erano spertissimi; e anche le donne mostravansi senza maschera. Il popolo minuto assai più devoto che in Francia; non così i cortigiani e i ricchi. Vi abbondavano gli spiritati e gli ossessi. Alla processione del Volto Santo forse dodicimila torcie si accesero, e file di Battuti si flagellavano, mentre altri accorreano a confortarli con vino e confetti, e lavar di vino l’estremità del loro staffile. Tutto era pieno di forestieri, sicchè la varietà d’abiti e costumi non facea colpo. Vide arrivarvi un ambasciatore del re di Moscovia, con lettere dirette al gran governatore della signoria di Venezia, credendo questa città fosse nella dizione del papa; invitato a una cavalcata che fu di cencinquanta a duecento cavalli, quell’ambasciatore rise, dicendo che nel suo paese si fanno di venticinque o trentamila. Il veder tante cose, l’udir prediche, il bazzicare cortigiane, che faceano pagare anche la conversazione, cacciavano la malinconia da Montaigne, il quale ambì ed a fatica ottenne il titolo di cittadino romano. La bellezza delle nostre donne non gli pareva poi tanto mirabile; pure di brutte ne vedeva assai meno che in Francia, e migliore la testa e dalla cintola in giù; maggior maestà di comporto, mollezza e soavità; maggior ricchezza nel vestire, tutte perle e pietre; molte appajono in pubblico, però distinte dagli uomini, eccetto che nelle danze, ove procedono con molta libertà. Gli uomini vestono positivo, di nero e di sargia di Firenze, ed hanno apparenza alquanto vulgare, benchè cortesi e graziosi; quantunque i Francesi non vogliano confessare tali quei che non sopportano le loro trascendenze. «E benchè noi (soggiunge) facciamo ogni possibile per iscreditarci, pure hanno affezione antica e riverenza per la Francia, in modo che vi sono rispettati tutti quelli che il meritano, o che si comportano senza offenderli». Da Roma a Milano i mulattieri consumavano venti giornate, e pagavasi due bajocchi per libbra il trasporto delle merci. Tutta la costa era orlata di torri per respingere i pirati; del cui accostarsi correva l’avviso in un’ora dall’estrema Italia fino a Venezia. Loreto era affollata di devoti, e piena di voti e di miracoli. A Pavia trovò il peggior albergo che mai al Falcone; e quivi e a Milano carissima la legna, e rari i materassi. Milano, la città più popolata d’Italia, piena di ogni sorta artigiani e mercanzia, ha aria di città francese. Torino, piccola, in luogo molto acquoso, è mal edificata e non piacevole[164], benchè per mezzo della via corra un fiumicello che la deterge: la lingua popolesca non ha quasi d’italiano che la pronunzia e francesi le parole[165]. Un viaggio in Italia scrisse pure, fra altri, il presidente Misson (Aja 1702), tutto sfavillante di scherzi e rimproveri contro le superstizioni romane; eppure egli stesso empì il suo _Teatro sacro delle Sevenne_ di miracoli, operati a onore de’ Protestanti ivi uccisi. Le potenti individualità, ch’erano comparse al tempo del rinnovamento, dileguavansi entro un’uniformità regolare; non la rompevano che il disordine o il misfatto, i bravi o gli artisti, de’ quali ancora fu spesso bizzarra e agitata la vita. Il Chiabrera ammazzò un gentiluomo romano; il Davila un altro, e al fine egli stesso fu assassinato in viaggio; Torquato Tasso tira stoccate; il Murtola e il Marini si fanno guerra sia di fucilate sia di spionaggio; il Boccalini è battuto a morte con sacchetti d’arena; Annibale Bimbioli, professore di medicina a Padova, fu nel palazzo vescovile trafitto da un Padovano di casa Trivigiani; Giuseppe Ortale, poeta siciliano, era detto il cavaliere sanguinario per la sua maestria nella scherma; Alessandro Stradella, famoso compositore napoletano, avendo sedotta l’amante d’un signore veneziano, questi mandò sicarj a cercarlo per tutto, i quali lo assalsero più volte, lo pugnalarono a Torino, e appena guarito l’assassinarono a Genova; Lorenzo Lorenzini, turcimanno agli amori di Luigia d’Orléans col principe Ferdinando, fu da Cosmo III tenuto vent’anni in fortezza a Volterra, ove studiò le matematiche, e fece il libro XII delle _Sezioni coniche_; Muzio Oddi, convinto di comunicare i secreti del Consiglio alla duchessa, fu dal duca d’Urbino chiuso in prigione per sette anni, ove fabbricatosi inchiostro e carta, scrisse di matematica, e uscitone il 1609, fu molto adoprato come ingegnere militare. E assalti, schioppettate, coltellate s’imbattono nella vita di qualunque, anche più quieto. In Venezia, dov’era proibito portar armi, fu permesso a frà Paolo Sarpi di farsi accompagnare da un frate laico coll’archibugio. Elisabetta, figlia del pittore Andrea Sirani allievo di Guido, e rinomata per la quantità e il merito de’ suoi dipinti e delle incisioni all’acquaforte, a ventisei anni fu avvelenata. Giacomo Torelli di Fano macchinista architetto, a Venezia assalito una sera, difendendosi perdette alcune dita. Il Panigarola, famosissimo predicatore milanese di prodigiosa ritentiva, a soli tredici anni fu mandato a Pavia a studiar leggi, ed è bello udirgli dipingere la dissipazione degli studenti d’allora. — A poco a poco (narra egli stesso) così sviato divenne, che questione e rissa non si facea, dove egli non intervenisse, e notte non passava, nella quale armato non uscisse di casa. Accettò di più d’esser cavaliero e capo della sua nazione, che è uffizio turbolentissimo, e amicatosi con uomini faziosi di Pavia, più forma aveva ormai di soldato che di scolare. Nè però mancava di sentire in alcun giorno li suoi maestri,... de’ quali, sebbene poco studiava le lezioni, le asseguiva nondimeno colla felicità dell’ingegno, e le scriveva; e quando andava talora a Milano, così buon conto ne rendeva al padre, che levava il credito alle parole di quelli, che per isviato l’aveano dipinto. Si trovò egli con occasione di queste brighe molte volte a Pavia in grandissimi pericoli della vita; e fra gli altri trovandosi presso San Francesco in una zuffa fra Piacentini e Milanesi ove fu morto un fratello del cardinale Della Chiesa, da molte archibugiate si salvò colle schermo solo d’una colonna, ove pur anche ne restano impressi i segni». Domenico Moni di Ferrara, strappatosi all’austerità certosine, sposò una fanciulla che amava, e si diede alla filosofia. Non traendone però di che vivere, si fece medico; ma non meno di quelle povere verità gli spiacque (com’e’ diceva) questa ricca impostura. Si applicò alle leggi, e qui pure soffrì disgusti; finchè imbattutosi a vedere il Bastarolo che dipingeva, s’attaccò affatto a quest’arte, e vi fu de’ più fecondi e non dei più infelici; in pochi giorni concependo e finendo quei quadri, di cui è sparso il Ferrarese. Mortagli la moglie, ne concepì fiera malinconia; dominato dalla quale, passò fuor fuori un abate romano che per caso l’urtò, e salvossi presso il duca di Modena. Venuto per una lite a Milano Bartolomeo Dotti della Valcamonica, il senato ebbe a farlo arrestare, e bruciar per mano del boja alcuni suoi scritti satirici contro quei senatori: dal castello di Tortona riuscito a fuggire, e a Venezia preso servigio, meritò il cavalierato, e infine vi si stabilì come agente della valle natìa. Careggiato pel suo motteggiare, ma insieme temuto e odiato, una sera, mentre in pianelle e vestone tornava da un vicino ritrovo, fu trucidato. Vita avventurosissima menò pure il conte Majolino Bisaccioni ferrarese. Servendo agli stipendj di Venezia, ebbe un affar d’onore con un capitano; un altro con Alessandro Gonzaga, sotto il quale avea militato in Ungheria: toltosi dall’armi, fu podestà nel Modenese; accusato d’una fucilata contro un avversario, si scagionò; e il principe di Correggio il prese amministratore civile e militare del suo paese, e con onori compensollo di nuova prigionia inflittagli per sospetti che dissipò; il volle seco a mensa, in carrozza, e a tenere un torneo. Rimessosi militare, difese Vienna nell’assedio del 1618; fu poi adoprato in affari d’importanza anche da Vittorio Amedeo di Savoja, finchè un nuovo duello lo pose in altri guaj. Ritirossi alfine a Venezia, ebbe titoli e onori dal re di Francia, i quali nol tolsero dall’indigenza: scrisse novelle e drammi e apparati scenici, e sull’arte della guerra, e alquante operette storiche, e una violenta lettera _a un certo Fulvio Testi_, che l’aveva attaccato con un libello infame. Se vogliamo seguitare cotesti genj eterocliti, ecco Paolo Beni, reputatissimo letterato, ma accattabrighe in tutte le baruffe di quel tempo; difese il Tasso, e in generale credeva la lingua moderna migliore e più ordinata dell’antica; sul qual conto lanciò severe critiche alla Crusca, non risparmiando Dante, Petrarca, Boccaccio, e tanto meno i viventi, e n’ebbe ripicchi durissimi. Paolo Guidotto Borghesi da Lucca fu pittore, scultore, letterato, astrologo, sonatore, musico, architetto, matematico, insomma quattordici arti possedette, ciascuna delle quali sarebbe bastata a farlo ricco, e tutte insieme nol tolsero di miseria; volle fare sperimento di volare, a grave suo costo; eseguiva gruppi di molte figure, lodati dal Marini e da altri contemporanei; emulò il Tasso, opponendogli la _Gerusalemme rovinata e distrutta_ in altrettante ottave. Antonio Oliva di Reggio in Calabria, teologo del cardinale Barberini, cacciatone per immoralità, si mette capo di briganti, è arrestato, poi uscito di prigione diviene professore di medicina a Pisa, e alla prima lezione recita una diceria del Moreto come sua, e scoperto di tale soperchieria, risponde: — Non volevo dir male, e non avrei saputo dir meglio che colle parole di quel latinista». Eppure nelle grazie del granduca entrò sì avanti, che fu posto uno dei nove nell’Accademia del Cimento, nella quale però non troviamo operasse nulla d’importante, solo avendo l’arte dei ciarlatani che non fan nulla, di farsi credere un ingegno grande. Bentosto scandalose avventure gli resero necessario il ricoverare a Roma, dove come medico avvicinò cardinali e pontefici: finchè scoperto che era uno dei fondatori di una società de’ Bianchi, imputata di oscene adunanze, Alessandro VIII lo fece arrestare: posto ad esame e temendo di peggio, si precipitò da una finestra. Tra gli scrittori bizzarri cerniremo Tommaso Garzoni di Bagnocavallo, che a undici anni compose un poema in ottave sui trastulli fanciulleschi; poi fatto canonico lateranese, crebbe di cognizioni; nel _Teatro de’ varj cervelli mondani_ (1583) passa in rivista i cervelli, cervellini, cervelluzzi, cervelletti, cervelloni, cervellazzi, ciascuno suddividendo in modo da ordirne cinquantacinque discorsi, ove lo spirito è scipito quanto affastellata e indigesta l’erudizione. Nella _Piazza di tutte le professioni del mondo_ discorre su cencinquantacinque professioni, dal re ai dotti, ai ciurmadori, ai mestieranti, a ciascuno soggiungendo quel che gli casca alla memoria. Nell’_Ospedale de’ pazzi incurabili_ passa in rassegna le diverse follie in trentatre discorsi, ognuno de’ quali conchiude con una preghiera a qualche dio per la guarigione delle specie de’ pazzi di cui parlò. La _Sinagoga degli ignoranti_ va sul piede stesso, definendo l’ignoranza, i segni suoi, le cause che la sviluppano e mantengono, le funzioni degli ignoranti, fra le quali è precipua il censurare i dotti, calunniarli presso ai grandi o al mondo. Nel _Mirabile cornucopia consolatorio_ loda le corna a consolazione d’un marito malcapitato. Nel _Serraglio degli stupori del mondo_ distribuiva in dieci appartamenti i diversi soggetti straordinarj, mostri, prestigj, oracoli, sogni, e quanto avea tratto da una indigesta lettura. Queste opere levarono grido e furono volte in francese, ma nessuno più ne sopporterebbe la lettura. Non dimentichiamo Giulio Cesare della Croce, nato a Persiceto nel Bolognese: povero orfano educato da uno zio maniscalco, aperse bottega a Bologna, e invaghitosi dello scrivere, fece molte opere rozzissime, fra cui una che sopravviverà a tutte queste nostre, il _Bertoldo_. Le ripetute edizioni nol trassero dalla sua mascalcìa, e solo invecchiando accettò una pensione da signori bolognesi. Vincenzo Bianchi veneziano a vent’anni supplica di leggere nell’Università di Padova i _Dialoghi di Platone_ gratuitamente: ma i Riformatori rispondono esser legge che niun professore manchi di stipendio. Dal celebre Du Fresne, allora ambasciadore di Francia a Venezia, raccomandato ai ministri e al re, passa in Francia, vi ha grandi accoglienze e facoltà di dar lezioni nel collegio de’ professori regj e di «poter di ciò che più gli piacesse ragionare dalla cattedra»: distinzione che spiacque ai Francesi. Molte cose scrisse, fu in corrispondenza con Keplero; ma credeva fermamente alla predizione degli astri, e si vantava di gran nascita e gran titoli, conte, discendente dai Comneni imperiali, mentre era figlio d’un ragioniere. Lo strano erudito Teofilo Rainaud di Sospello, gesuita, ricusò il vescovado di Ginevra; a Ciamberì essendo entrato in corrispondenza col padre Monod, prigione allora nel castello di Montmeillant per castigo del Richelieu, meritò le costui vendette, sicchè venne côlto e processato; fu scoperto innocente, ma solendo i potenti persistere per non confessare d’aver avuto torto, eccolo di nuovo prigione; poi liberato, s’acquistò la grazia del legato pontifizio, e fu adoprato in varie pratiche. Scrisse ben novantatre opere senza un morso di lima; il genio storico esercitò contro i Giansenisti; la sterminata erudizione sparpagliava col vaglio, talchè il titolo non corrisponde mai alla materia che assume, e per esempio, nel trattato _Della Rosa benedetta_ ragiona della quaresima. Del pari stravagante fu Antonio Magliabechi di Firenze (1633-1714). Messo a giojelliere, la sua passione pei libri gli guadagna il cardinale Leopoldo de’ Medici, e Cosmo III gli affida la biblioteca da lui fondata. Vero divoratore di libri, li esaminava come fanno i giornalisti, cioè leggendo il frontispizio, l’indice, la dedicatoria, la prefazione, al più un’occhiata a ciascuna divisione, e tanto gli bastava per dirne il valore. Quanto leggea restavagli nella ferrea memoria: de’ libri ammonticchiati sapeva per reminiscenza la postura, e rimuginando mettea le mani su quel che gli occorresse. Perciò come a biblioteca vivente ricorrevano a lui i dotti d’ogni parte, ed egli rispondeva a pieno e a fondo, citando fin le parole e le pagine: — Io non ho mai notato (scrive egli al Fontanini nel 1698) cosa alcuna di quelle che mi abbia letto; del che ne sono stato ripreso infino da questi serenissimi principi. Diverse cose ho io in mente; ma non posso fidarmi della memoria, ed il riscontrarle mi si rende quasi impossibile, per aver tutti i miei libri ammassati.... onde per prenderne uno è necessario il rovistarne dugento.... Il nobilissimo signor Rostgaard potrà attestarle che, avendo esso avuto bisogno del secondo tomo delle opere del Libanio, io gli dissi subito dove l’avevo, ma gli convenne levar prima intorno a cinquecento libri in-folio sotto li quali era. Le notizie che ella brama le ho in mente senza aver bisogno di cercarle, ma in nessuna maniera mi fiderei della mia memoria senza riscontrarle ne’ libri, ne’ quali le lessi». Rispondendo a tutti, cercava ingordamente la fama, e l’ottenne estesissima, dando per riavere, lodando in faccia, poi tassando alle spalle[166], e fin al granduca scrivendo lettere ad aggravio ed infamia del terzo e del quarto, e _per le viscere di Gesù Cristo_ pregandolo le bruciasse. Quanto cortese agli stranieri, tanto mostravasi burbero e sprezzante verso i nazionali; ne eccitava le gelosie, lieto di vederli deprimersi tra loro; chiamava asino il Viviani, mordacchiava il Redi, il Magalotti, il Coccapani ed altri: ma trovò chi lo rimorse. Il suo più lungo viaggio fu sino a Prato per riconoscere un manoscritto. Deforme, zotico, strano ad ogni gentil sentire, sempre solitario senza manco un servo, addosso un abito a strappi e a frittelle, non mutando la camicia finchè non gli cadesse a brandelli, stava fitto l’intiero giorno sul suo seggiolone, ivi dormiva, ivi mangiava senza interrompere la lettura, e i rimasugli de’ cibi servivano di segnale ne’ libri, o imputridivano tra la rinfusa congerie di questi, unico arredo di sua casa. Teneva un caldanino per le mani, neppur lasciandolo quando andava dal granduca; e avendogli quello una volta bruciato i panni, egli non se ne avvide che allo scottar delle mani. Nulla scrisse; e noi che vogliamo misurare la potenza dall’atto, temiamo doverlo porre fra quei molti che, per serbarsi in reputazione, hanno duopo di non pubblicare le cose che promettono. Ferdinando Stocchi di Cosenza vantavasi astrologo, e di scoprire colla cabala i ladri, i tesori nascosti, i rimedj contro malattie inveterate. A Carlo Calà, avvocato che coll’arte sua erasi guadagnato tanto da divenire duca di Diano e marchese di Villanova, fece credere d’avere scoperto i fasti d’un suo antenato, discendente da re e morto santo; inventò documenti e reliquie; e queste furono poste sugli altari, quelli esposti in una _Storia degli Svevi e del conquisto de’ regni di Napoli e di Sicilia per l’imperatore Enrico VI, con la vita del beato Giovanni Calà, capitan generale che fu di detto imperatore_ (Napoli 1660): ma un suo complice morendo lo palesò, e le ossa si scoprì essere di un asino. Fra questi tipi bizzarri non dimenticheremo il lucchese Zamet, che condottosi in Francia sotto la protezione di Caterina de’ Medici, e addetto ad Enrico III come calzolaio e guardaroba, si fece gradito coi molti, e mostrò grand’abilità nei maneggi, sicchè presto accumulò ricchezze, e divenne amico di Mayenne, di Enrico IV, di Maria de’ Medici. Applicatosi alle finanze, prese grossa parte negli appalti, fabbricò e addobbò un ricchissimo palazzo, convitava suntuosamente, fu spesso usato a trattare nei tumulti della Lega, e adoprò alla conversione di Enrico IV, che poi se ne valeva quando volesse deporre la regia maestà, e per conversare alla domestica colla Gabriella e con qualche altra, e alla borsa di lui ricorreva, fosse per comprar amici o amiche, fosse per pagare le grosse perdite al giuoco. Anche i primarj signori valeansi di esso; in casa di lui si trattò se accettare il concilio di Trento; con lui Carlo Emanuele menò le tresche a Parigi (pag. 63); da lui scavalcò Maria de’ Medici arrivando sposa del re; e dopo la morte di questo procurò elidere la funesta influenza del Concini sulla Reggente, della quale infine ottenne la confidenza, sicchè spesso ella andava a pranzo da lui e vi riceveva i grandi. Impetrava posti lucrosi, e col denaro sapea farsi perdonare gli abusi; conseguiva favori di grandi e di belle; fu signore, barone, consigliere, capitano, soprintendente alle fabbriche di Fontainebleau e alla casa della regina, insomma quel che volle; e stipulando il matrimonio di suo figlio, al notaro che gli chiedeva i suoi titoli disse: — Qualificatemi signore d’un milione e settecentomila scudi». La sua stirpe fu tra le illustri di Francia. Ivi il banchiere italiano Tonti nel 1653 istituì primamente i prestiti a vitalizio, dal suo nome detti Tontine. Suo figlio cavaliere Tonti, datosi all’armi, e in una fazione in Sicilia perduta una mano, con Lasalle operò assai alla scoperta del Mississippi; e morto quello (1687), vi rimase ad assodare i nuovi possedimenti della Francia; e i cantoni ch’e’ popolò in riva al gran fiume, furono detti Piccole e Grandi Tontine. Famiglia di ben maggiore interesse in Francia fu quella che il cardinale Mazarino chiamossi attorno dacchè si trovò a capo di quel regno, e bisognoso di formarsi un circolo d’amici e parenti ricchi colà dove era sprezzato come uomo nuovo da una nobiltà che nulla valutava il merito personale. Due delle sue nipoti avrebbero potuto divenire regine di Francia s’egli non poneva freno alla benevolenza dei regnanti: una come reggente del ducato di Modena, non si mostrò meno abile di qual altra si fosse gran donna: una indovinò il talento di La Fontaine, e lo incoraggiò sulla via nella quale non dovea trovar competitori: una divenne la madre del principe Eugenio di Savoja. E se la cronaca troppi soggetti di scandalo trasse dai prestigi di loro avvenenza, anzichè bassi istinti e cuore corrotto, palesarono splendide facoltà, come che non dirette, nè sofferenti di freno nel bisogno prepotente d’azione. Lucilio Vanini (1585-1619), prete napoletano, viaggiò Europa sotto diversi nomi, e con alquanti compagni predicando tutt’altro che il vangelo, professandosi scolaro del Pomponazzi, del Cardano, di Averroe, di Aristotele «dio de’ filosofi, dittatore dell’umana sapienza, sommo pontefice de’ sapienti»; e dicendo il diavolo essere più forte di Dio, giacchè tuttodì intervengono cose che non potè volerle Iddio. Le critiche del cristianesimo pone in bocca al terzo o al quarto, fingendosi inorridito all’udirle; come si finge encomiatore de’ Gesuiti, apologista del concilio di Trento, e accannito contro Lutero, egli che pur al cristianesimo move guerra da filosofo nell’_Amphiteatrum æternæ Providentiæ_, da fisico nei sessanta dialoghi sugli _Arcani della natura_, a vicenda panteista e materialista. Nel primo spiegando cos’è Dio, agita il problema della provvidenza e della fatalità, e mostrando ribattere Cardano e gli atei, ne mette in risalto gli argomenti; e le prove della provvidenza riduce agli oracoli, alle Sibille, ai miracoli, cui descrive dal lato debole con un’aria dabbene che non può fare illusione. Fisicamente deriva l’uomo dalla putrefazione e dal successivo perfezionarsi della specie: anche in forza talora è sopravanzato dagli animali, onde non può dirsi a questi superiore in destinazione, e il meglio che può fare si è vivere e godere. «Perduto è il tempo che in amar non si spende»; nè la morale ha fondamento che nelle leggi. Traverso alla Germania, procedette nella Boemia, semenzajo delle dottrine che cagionavano la guerra dei Trent’anni; ivi discusse con un Anabattista, meravigliantesi che i Cristiani disputino di lana caprina; con un ateo ad Amsterdam; a Ginevra coi Riformati, e sentendovisi mal sicuro, passò a Lione; donde per paura del rogo si volse a Londra, e quivi «si attirò la persecuzione de’ Protestanti, tenuto prigione quarantanove giorni, preparato a ricevere la corona del martirio, alla quale aspirava con indicibile ardore»[167]. Scarcerato, viene in Italia, e a Genova apre scuola molto frequentata: ma le sue dottrine ben presto scandolezzano sì, che deve rifuggir a Lione, poi si veste monaco in Guascogna, edifica colle prediche, col confessare, colla devozione, finchè scoperto vizioso viene espulso. A Parigi lo ricoverò il nunzio Roberto Ubaldini, aprendogli la sua ricca biblioteca, donde egli stillava il peggio, e lo diffondeva tra i giovani medici e poeti, sicchè, dice il padre Mersenne, a lui avversissimo, cinquantamila atei contavansi a Parigi. La Sorbona riprovò i suoi _Dialoghi sulla natura_, ed egli piantatosi a Tolosa vi teneva arcane conventicole, apostolava i giovani: e poichè a quelle dottrine cresceva pericolo il fermentare delle guerre di religione, egli fu denunziato al parlamento; e gravemente sospetto anche per esserglisi rinvenuto un grosso rospo chiuso in un’ampolla, venne condannato al taglio della lingua e al fuoco per mago e ateo: accuse per verità repugnanti. Durante il processo avea professato le migliori credenze; condannato, si chiarì empio, ricusò i conforti della religione, si vantò più intrepido del Cristo, il quale avea sudato d’ambascia. Anche Ferrante Pallavicino (1618-44), primogenito d’insigne casa piacentina, canonico regolare a Milano, lodato per dottrina, avvoltolatosi in amori volgari, spendeva, scribacchiava, e ritiratosi a Venezia, dirigeva agli amici lettere come venissero da Lione, da Parigi, d’altrove, narrando finti viaggi: — Stupisce chi mi vede occupato in ogni altro passatempo fuorchè nello scrivere, e pure scorge la frequenza de’ miei libri. Questo stupore mi è sovrabbondante mercede»[168]. In fatto acciabattava libri, storie sacre e profane, novelle, panegirici, epitalamj, talvolta ascetico, sempre ampolloso, rinvolto, bujo e con descrizioni lascive: e per esempio, nelle _Bellezze dell’anima_, trattato spirituale, al capitolo XIII discorre della bellezza delle poppe. Pari contaminazione hanno la _Susanna_, il _Giuseppe_, il _Sansone_, la _Bersabea_. Parlò con disprezzo stizzoso degli Spagnuoli, e dei principi in generale con arroganza, il che gli procacciò reputazione di liberale. In Germania vide messo alla ruota un Calvinista, col quale entrato in disputa sulle cose dell’anima, se ne lasciò convincere, e d’indi in poi menò a strapazzo le cose e le persone sacre. Il suo _Divorzio celeste cagionato dalle dissolutezze della sposa romana, e consacrato alla semplicità de’ scrupolosi_ (1643) fu tradotto in varie lingue dai Protestanti, e continuato probabilmente da Gregorio Leti, dividendolo in tre libri, i _Costumi dissoluti dell’adultera_, il _Processo de’ bastardi di quella_, il _Concorso di varie Chiese allo sposalizio di Cristo_ (1679). Nel Corriere svaligiato spettorò d’ogni genere calunnie contro il papa, i cardinali, i Gesuiti, tutti i governi, i letterati, con oscenità e sali putidi. Lo stampò alla macchia, onde la Signoria di Venezia il fece carcerare; uscitone, infierì peggio di prima contro de’ principi e di papa Urbano VIII e del buon costume, e fra altro scrisse la _Retorica della p... dedicata all’università delle cortigiane più celebri_. Un De Brèche parigino, assoldato dai Barberini, fintosegli amico, lo persuase a ridursi in Francia, dove potrebbe stampare altre opere irreligiose; e così lo menò ad Avignone terra di papa, ove arrestato e messo sotto processo, dopo quattordici mesi fu decapitato a ventisei anni. Subito comparvero due dialoghi intitolati _L’anima di Ferrante Pallavicino_; forse fattura di Gianfrancesco Loredano, ove si malmenano papa, prelati, letterati, costumi. Osteggiò le dottrine cattoliche anche Gregorio Leti (1630-1701) milanese, che dissipato in viaggi ogni aver suo, e impigliatosi coi Riformati, professò il calvinismo a Losanna, insegnò a Ginevra, e scrivendo contro la Chiesa cattolica v’ottenne la cittadinanza. La maldicenza sua il fece presto sgradito, e da «una inquisizione più orribile di quella di Roma» furon dati al fuoco il _Livello politico_, l’_Itinerario_, il _Vaticano languente_, come portanti proposizioni contrarie alla fede, ai costumi, allo Stato, ed egli cancellato di cittadino. A Parigi cercò il favore di Luigi XIV col gonfio panegirico _La fama gelosa della fortuna_. Passò in Inghilterra, ove, dic’egli, dallo scisma di Enrico VIII «sono nate tante disgrazie a quell’isola ed a quei popoli, che si può dire che da quel tempo in poi non hanno avuto momento di riposo i carnefici, essendo un miracolo che la Tamisa si navighi sopra acqua e non sovra sangue»[169]. Da Carlo II ebbe accoglienze e mille scudi per iscrivere l’_Istoria della Grande Brittania_; ma il fece in modo che dovette ancora andarsene, e ingiuriò quelli che dianzi avea blanditi. In Olanda l’erudito Le Clerc, vago di sua figlia, il fece accogliere e creare storiografo della città di Amsterdam, ove morì improvviso. Parodia dilavata dell’Aretino, vivente dal trafficare d’incensi e d’ammoniaca, forse cento volumi lasciò di storie non meditate e prolisse; sulla Francia, il Belgio, l’Inghilterra, la Spagna, Carlo V, Filippo II, il duca d’Ossuna, il presidente Aresi, scambietti di ira o adulazione, zuppe di baje. Vantava aver sempre tre opere ad un tempo sul telajo, e quando gli mancassero materiali per l’una, s’occupava dell’altra: ma non pensava, come dice Bayle, se non a ingrossar volumi e moltiplicare dedicatorie; rapsodo senza pel di critica, e così irriflessivo, che pur abitando in Olanda, disse che la Schelda e il Reno passano per Rotterdam. Chiesto dalla Delfina se fossero vere le mille sciagurataggini che scrisse di Sisto V, di Filippo II, d’Elisabetta, rispose che una cosa ben immaginata piace quanto e più che la verità. Ma la menzogna neppur sa coprire collo spirito e collo stile: sempre negletto e nojoso scribacchiatore, ridicolosamente pretenzioso, grottescamente iperbolico, lonzo, prolisso, nessun mai lo leggerebbe, se non allettassero le invereconde diatribe di cui insozza i suoi scritti, massime contro Roma: e i suoi _Precipizj della Sede apostolica_, la _Strage dei Riformati innocenti_, il _Sindacato di Alessandro VII col suo viaggio all’altro mondo, Roma piangente_, la _Vita di donna Olimpia Maldachini_, il _Nepotismo_, il _P...nesimo romano_, l’_Ambasciata di Romolo ai Romani_ furono divulgati e tradotti per sentimento malevolo; solo un liberalismo limaccioso testè, insultando al buon senso e fidando nei troppi lettori che non l’hanno, osò lodare e riprodurre le costui opere sol perchè codardamente sputacchia papi e preti in seconde edizioni di libri, dove gli avea codardamente leccati[170]. Giuseppe Francesco Borri milanese (1625-95) entrò nella Corte del papa come chimico e medico, e rotto alle peggiori sregolatezze, fuggì castigo col fingersi corretto, e cominciò a dirsi ispirato dal Cielo a riformare il mondo, rimettere la purezza nella fede e ne’ costumi, ridur tutti in un solo ovile, e chi ricusasse, sterminare per mezzo degli eserciti pontifizj, di cui egli sarebbe capitano con una spada datagli da san Michele. Impastò allora una strana religione, secondo la quale Maria Vergine era di natura divina, presente essa pure nel santissimo sacramento, figlia del Padre, eguale in tutto al Figlio, e incarnazione dello Spirito Santo; e questo e il Figlio sono inferiori al Padre. Con Lucifero caddero molti angeli, i quali volteggiano per le regioni dell’aria: e per loro mezzo Iddio creò la materia e gli animali bruti; mentre gli uomini hanno anima divina e ispirata. La creazione non fu atto di libera volontà; ma Dio vi si trovò costretto. I figli concetti nel peccato, ne serbano la sozzura. Attuando la sua Chiesa, dai discepoli, che chiamava Ragionevoli o Evangelici, esigeva voti d’unione fraterna, di segreto inviolabile, d’obbedienza a Cristo, agli angeli, di fervente apostolato, e di povertà; per la quale consegnavano ad esso ogni aver loro, ed egli coll’imposizione delle mani impartiva ad essi la divina missione. Copriva gl’insegnamenti di arcano e di formole iniziatrici: ma venuto papa Alessandro VII, il Borri dovette ritirarsi a Milano, continuando a far proseliti. Come l’Inquisizione sì a lungo il lasciò predicare? peggio gli avvenne quando si scoperse che divisava ribellare Milano e Italia dagli Spagnuoli, e di là estender le conquiste. In contumacia condannato al fuoco e alla confisca, egli era fuggito a Strasburgo, donde ad Amsterdam, ben accolto come vittima dell’Inquisizione; ma in breve caduto di credito, cercò denari cogli strologamenti e coll’alchimia. Le costui dottrine son deposte nella _Chiave del gabinetto del cavalier Giuseppe Francesco Borri, col favor della quale si vedono varie lettere scientifiche chimiche e curiosissime, con varie istruzioni politiche, ed altre cose degne di curiosità, e molti segreti bellissimi_ (Colonia 1681). Fingonsi scritte a principi, e trattano dei segreti della grand’arte; per la quale ottenne molte somme dalla regina Cristina di Svezia per fabbricare oro, molte da Federico III di Danimarca, pel quale dettò anche istruzioni politiche. Ma alla morte di questo, si sottrasse colla fuga all’odio del successore, e avviossi per la Moravia in Turchia: arrestato qual complice delle trame allora ordite in Ungheria, l’imperatore lo fece consegnare al nunzio pontifizio, che lo spedì a Roma. Ivi dal Sant’Uffizio fu obbligato a pubblica e solenne ritrattazione de’ suoi errori e far penitenza nelle carceri: l’ambasciadore di Francia ch’egli aveva risanato, ottenne fosse trasferito in castel Sant’Angelo, ove ebbe anche laboratorio e larghezza fin di uscire, e vi morì di settantanove anni. I suoi seguaci in Milano «dopo lunghi esami, convinti di complicità nelle sue eresie, furono pubblicamente abjurati, e rimessi a tempi determinati e ad arbitrio nelle carceri dell’Inquisizione, con altre penitenze ancora, e con obbligazione di portare per contrassegno de’ loro falli una mantelletta gialla sopra le spalle». Così il Brusoni[171], il quale largamente ragguaglia delle dottrine del Borri «perchè veramente di nessun altro eresiarca si leggono tante e così stravaganti follie nella materia della fede». Pochissimi altri uscirono di patria per professare dottrine avverse alla Chiesa; e dentro non restavano altri eretici che nelle valli valdesi. Nel 1614 fu scoperta nel Napoletano una setta di mistici sotto suor Giulia di Marco di Sepino terziaria di san Francesco, e il padre Agnello Arciero crocifero, e il dottore Giuseppe De Vicarj, che sotto aspetto di gran devozione si abbandonavano a laidezze: scoperta dai padri Teatini, mentre moltissimi li tenevano in conto di santi, il vescovo di Calvi qual legato dell’Inquisizione di Roma cominciò processo, gran rumore levandone i partitanti numerosi e i Gesuiti che credeano alla coloro virtù; sicchè la causa s’impegnò fra due Ordini potenti, e in conseguenza clamorosissima. Pure quei tre furono come eretici condannati a carcere perpetuo. Ma già s’insinuavano nelle menti lo scetticismo e l’incredulità; e se l’errore diffuso dai Riformatori era stato vinto, i giovani attingevano da Hobbes o da Bayle il dubbio e l’indifferenza. Il Magalotti credette doversi opporre a questi nuovi scredenti, e ad un conte, ateo per moda, scriveva: — Voi vi trovate in capitale, nascita, gioventù, robustezza, valore e condotta; vi vedete amato dal vostro padrone, stimato dai vostri generali, e corteggiato dalle dame... Aggiungete tavole, giuoco, conversazioni, delizie, piaceri e fortuna. Questa fa che, se uscite in campagna, tutte le cose vi vanno sempre bene, facendo voi sempre il vostro dovere; se vi battete in duello, ne uscite sempre con vantaggio; se vi è da fare un’azione di brio, siete sempre il primo chiamato; andate, battete l’inimico, tornate, provvedete di sciarpe tutte le pettiniere delle dame. Entrate a tavola in gran compagnia; ecco il discorso della religione in campagna; sentite un brutale discorrerne con poco rispetto; un altro, che ci fa del libertino, portar con derisione un luogo oscuro della Scrittura; accudir quello che ci fa il filosofo, e farne spiccar l’implicanza colla corrotta ragion naturale. Voi ridete e applaudite, e piacendovi tutto quello che tornerebbe comodo all’esigenza del vostro cuore, la compiacenza poco a poco, senza avvedervene, vi tien luogo di persuasione. Intanto mangiate e bevete allegramente; uscite da tavola bollente di vino, di concupiscenza, di vanità; tornate a casa due ore dopo mezzanotte; per poco alzate la canna, e la battete sul capo al paggio che non vi corre subito avanti a pigliare il lume, al valletto di camera che vi si fa incontro balordo dal sonno; talvolta per energia bestemmiate; entrate in letto; per conciliarvi il sonno leggete un capitolo del _Trattato teologico-politico o del Leviathan_, dite subito che hanno ragione, e prima di addormentarvi, cominciate a sognare che Alessandro e Cesare, per dire assai, dovevano essere presso a poco come voi, ma non più, certo. Dormite sino a mezzogiorno; andate in chiesa per vedere il bel mondo; affettate soprattutto l’irriverenza, perchè questa vi pare che rialzi il concetto del vostro spirito, della vostra galanteria, della vostra bravura; e in questo caso solamente, sto per dire, vi rallegrate che vi sia religione al mondo per far gala di non farne caso. Questi sono i fondamenti del vostro ateismo». Alcuni delitti ottennero storica celebrità. Un tesoriere di Pio V si travagliò sì bene, che lasciò ottantamila scudi di rendita al figlio Francesco Cenci, il quale ne usò per voltolarsi nelle peggiori sozzure. Da una condanna per vizio nefando si salvò coll’ammenda di ducento scudi, da altri con cinquecentomila. Odiava moglie e figli, che a vicenda odiavano lui, e cercavano che il papa lo facesse morire, rivelandogliene le infamie: uccisigli due figliuoli, neppure un bajocco volle dar pel funerale, dicendo aspetterebbe a far galloria quando fossero morti tutti. Attentò all’onore di Beatrice, sua bellissima figlia, che maltrattata in guise oscene e feroci, ricorse al papa e non n’ebbe ascolto, mentre il padre sopra di essa crebbe di sevizie e d’oscenità: dalle quali o per salvarsi o per vendicarsi, ella tramò coi fratelli e colla madre di farlo assassinare (1605). Un amante di lei lo promise, poi nicchiò, per quanto ella instasse; ma due vassalli vi s’indussero per denaro, poi fuggirono nel Napoletano. Arrestati, e chiaritasi la colpa, i Cenci alla tortura confessarono, e Beatrice anch’essa, senza voler denunziare il misfatto paterno contro di lei. Valenti avvocati tolsero a difenderla, e principalmente l’illustre Farinaccio, non negando l’uccisione: e papa Clemente VIII, che da prima stupiva si trovasse chi difendeva parricidi, dappoi vi prese interesse. Ma già d’assassinj eransi quell’anno contaminati un Troilo-Savelli che fu mandato al patibolo, e i fratelli Massimi uccidendo la matrigna e fuggendo: poi uno di questi, sperimentato un veleno sopra il cocchiere, lo propinò al primogenito per restare egli stesso capocasa. Intanto poi che agitavasi il processo de’ Cenci, Paolo Santacroce assassinò la propria madre per averne l’eredità. Indignato e sbigottito da tante colpe, il papa lasciò che la giustizia avesse corso; e Beatrice, sua madre e il fratello Giacomo furono giustiziati; il minor fratello Bernardino, conscio e non complice, obbligato ad assistere sul palco al loro supplizio. Guido Reni aveva copiato e tramandò ai posteri l’effigie di Beatrice, compianta universalmente quasi fosse perita per non voler palesare la peggior infamia di quel che avea cessato d’esserle padre; il confessore di lei, mostrandone la testa al pubblico, disse: — Ecco una vittima della propria bellezza»; e fiori ed esequie pomposissime prepararono agli scrittori un tema d’immensa compassione, e talvolta di forsennata bestemmia contro il pontefice, quasi avesse prestabilito una tal fine per impinguare di quelle ricchezze i suoi Borghesi. E molte avventure e assai processi nacquero da gelosia. Perocchè, come ai tempi d’Atene quando la vita pubblica deperiva, la domestica non esisteva ancora, così nel secolo precedente vedemmo le donne per genio d’intrigo più che per furor di passione cercare di rendersi centro del movimento sociale; e poichè parea gli Dei pagani fosser tornati a esultare fra gli uomini, facevansi perdonare il libertinaggio coll’eleganza, e col mescere al filtro della seduzione il miele dell’arte. Ma adesso furono rinserrate nelle case e nelle cerimonie: e poichè la vita domestica era disabbellita dalla prepotenza d’un capocasa, tiranno dei diseredati fratelli, e un austero ascetismo brigavasi di pratiche esterne più che dell’interiore perfezionamento, guardavansi quali schiave, pronte a ribellarsi, come fecero quando irruppe il deplorabile cicisbeismo. Jacopo de’ Salviati, di ricchissima casa fiorentina imparentata coi Medici, marito di Veronica Cibo dei principi di Massa, vagheggiava Caterina Canacci cittadina. La moglie gelosa guadagna un costei figliastro, che staccato il capo alla matrigna, il porta alla principessa; ed ella il presenta al marito. Il governo perseguitò gli assassini, ma non la più rea. Isabella, figlia di Cosmo de’ Medici e sospettata d’infande dimestichezze con questo, fu sposata da Paolo Giordano Orsini duca di Bracciano; e continuò in amoreggiamenti, mentr’esso a Roma faceva altrettanto. Troilo fratello di lui, invaghitosi della cognata, uccise di propria mano un paggio cui ella davasi in piacere. Paolo tornato, chiamò l’infida moglie, e tra gli abbracci conjugali le strinse al collo un laccio. Questo Paolo amoreggiava Vittoria Acoramboni, moglie di Francesco Peretti nipote di papa Sisto: ma mentre due fratelli di essa il favorivano, due sostenevano l’altro amante cardinale Farnese sessagenario. L’Orsini si liberò del geloso marito uccidendolo in Roma stessa, e subito volea sposar la donna se il cardinale de’ Medici non avesse trovato quelle nozze troppo disuguali per un suo cognato, e papa Gregorio gliel’impedì sotto pena di ribellione. Morto questo, e succeduto Sisto, l’Orsini sposò la Vittoria, e temendo non il papa lo punisse del nipote ucciso, ricoverò sul Veneto; e a Salò morì ben presto improvvisamente, chiamata erede la Vittoria, a danno di Virginio partoritole dalla Isabella. I Medici si accinsero a cassare il testamento: ma Lodovico Orsini, che serviva agli stipendj di Venezia, trovò molto più spiccio coll’assalire la casa in Padova dove la Vittoria stava, e scannarla con un cognato. Subito la città dà all’arme; i Dieci ne vogliono giustizia; e l’Orsini, che erasi cogli sgherri fortificato in casa, viene a forza preso e strozzato. E strozzature e avvelenamenti ricorsero spesso nel nostro racconto, e famosi furono i tossici che allora si stillavano, come l’acqua tofána che faceva effetto un anno dopo bevuta; e così l’anello di morte, che a chi lo portasse diveniva letale; e la chiave che il principe Savelli dava ad alcun famigliare per aprir un mobile, dov’era una punta impercettibile, da cui restava appena scalfita la mano, ma ventiquattr’ore dopo seguiva la morte. Casa Medici passava per tremenda mescitrice di letali bevande; e mentre Ferdinando Tacca, figlio dello scultore, avea portato in Ispagna un suo cavallo di bronzo, fu adoperato da don Luigi de Haro o dal conte duca per fabbricar veleni, a richiesta di re Filippo. L’ambasciadore fiorentino a quella Corte, nel riferirne al granduca, aggiunge che il Tacca ne stillò di due sorta, una dal tabacco, l’altra dall’arsenico, e che crede dovessero servire contro il duca di Medina Sidonia, sospetto di voler farsi re di Andalusia, e contro altri grandi, temuti dal conte duca[172]. Insomma nell’altro secolo erasi patito di gravissime sventure esterne, in questo piuttosto d’interna decadenza; colà eranvi bottoni di fuoco e amputazione, qui visceri guasti, e corrotto il principio della vita; e n’era sintomo l’invasione dell’ozio, delle sottilità, dell’enfasi, rivelata nel barocco, ne’ guardinfanti, nelle parrucche. Ampollosa ostentazione di sentimenti non provati, ipocrisia di atti, passioni e nimistà nè sfogate nè dome, limano una gente divenuta decrepita fra patimenti senza lotta, fra miserie deprimenti, e che straziando ciascuno in grembo alla propria famiglia, non ispiravano veruna magnanima risoluzione, ma impotente dispetto o accasciata rassegnazione. Ai costumi antichi signorilmente domestici subentrava un fasto isolante; a quella franchezza alquanto selvaggia, che seconda gl’istinti e abbandonasi all’immaginativa, alla coscienza, ed è forse necessaria a tutelare la libertà, succedeva un orgoglio senza fermezza, un’ambizione senza pubblica virtù; universale adulazione, inerzia senza riposo, apparato e cerimoniale negli atti come nello scrivere, nel fabbricare come nel dipingere, avventure senza gloria, religione abbujata e intollerante, amministrazione ignara, pazienza trascurante, studj senza progresso, miserie senza compianto sono lo spettacolo d’allora. Rimossi dagli elevati interessi sociali e dalle idee che ingrandivano nella restante Europa, i nostri non cooperarono al prosperamento dell’universale civiltà, côlti da letargo in mezzo ai segnalati movimenti. Più non s’acquistava nome che rinnegando l’indole italiana per farsi di modi e di pensare stranieri. L’uomo interno sparisce, o si nasconde sotto le esteriorità; a queste ogni cosa si riferisce, più curando la devozione che la fede, più la creanza che l’onestà, più i convenevoli sociali che non la moralità, più lo scopo pratico e temporale della convivenza, che non l’ideale ed eterno. Lo spirito in conseguenza si esinanisce; stillansi regole e argomentazioni non sull’essere un’azione onesta o no, ma se o no permessa; non sul diritto, ma sul titolo di esercitarlo; come l’acqua ne’ giardini, così la vita e l’arte doveano serpeggiare per canali artefatti; combattere, pregare, vestire, amare, sposarsi, predicare, poetare, tutto doveva essere conforme alle regole; insomma in ogni cosa il sentimento e l’idea subordinati agli artifizj della forma. Allora concesso ad una classe di poter accumulare senza misura e senza frutto: allora ai governatori un potere indisciplinato e, più che tirannico, irragionevole e schifoso, perchè toglieva ogni limite all’esazione, ogni sicurezza ai possessori: allora l’autorità, non limitandosi alla giustizia civile e criminale, s’impacciava direttamente dell’arti e del commercio, sicchè questa impastojava, e a se medesima diminuiva il rispetto: allora sicurezza nella forza, pericolo nell’innocenza; il vulgo arrozzito ed abituato a prostrarsi silenzioso e stupido sotto l’estremità de’ suoi mali; i signori, involti entro una rete di convenienze, più micidiali che non l’Inquisizione e la Polizia; estesi gli oscuri vizj dell’ignavia e della debolezza; mali soltanto in parte medicati da una pietà piuttosto diffusa che profonda, dal rispetto a se stessi e alla famiglia, da qualche resto di consuetudini patriarcali, che davano ancora ai casati e alla città un’importanza, la quale poi andò smarrita nei dissocianti sistemi dell’universale accentramento. CAPITOLO CLVI. Belle arti. Se, non ostante ciò, il nome d’Italia e il carattere si conservarono, n’han merito le tradizioni, gli ordini municipali, la Chiesa, le arti, la lingua e la letteratura; nei quali elementi dee cercarla chi voglia studiar lei, non i suoi padroni. Ma come la patria non avea libertà da difendere e acquistare, così l’arte non avea pensiero proprio da esprimere, e cadeva a contraffare materialmente la natura o servilmente i predecessori, sostituendo l’intelligenza all’ispirazione. La stessa gloria de’ maestri del gran secolo tornava pregiudicevole ai nuovi, giacchè ammirando la grazia di Raffaello, il colorire del Tiziano, lo spiritoso movere del Tintoretto, lo sfarzo di Paolo, la prospettiva del Correggio, pensavano meno ad imitare il vero secondo quelli che a copiarli, alcuni con esatta imitazione, altri con un’imitazione erudita che esprime intelligenza e scelta, sprovvista però del genio e della grazia. Chiamati a proseguire e compiere i lavori di quei grandi, ne riproduceano le figure con capricciosa speditezza, col caricarne i difetti ed esagerarne le bellezze. Pertanto i Michelangioleschi faceano Veneri che pareano Ercoli; i Rafaelleschi pervertivano la grazia in ismorfia; Veneti e Lombardi voleano sempre scorti e vivacità, convenissero o no al soggetto. Abbagliati dalle pericolose meraviglie di Michelangelo, volevano _ingrandire_ lo stile, secco e povero giudicando ogni altro: invece di studiare per quali mezzi egli raggiungesse gli stupendi effetti e quel rilievo delle figure, credettero tutto il suo merito consistesse nell’anatomia, e di questa fecero sfoggio, neppur deducendola dal vero, ma raffazzonandola secondo certe convenzioni, che chiamavano bello ideale. Ragionevolezza nell’insieme, correzione nelle particolarità, finito nell’esecuzione più non si cercava, lavorando di maniera, cioè alla spiccia applicando formole identiche a qualsifosse soggetto e situazione, a scapito dell’individualità: se aspirassero al nuovo, traboccavano nelle bizzarrie. Lasciato il vero pel convenzionale, reputando trivialità un gesto naturale, una piega semplice, tutto fu positure manierate, panni svolazzanti anche in sale chiuse, gesti violenti anche negli affetti pacati, coscie e braccia torose benchè a storia e a dignità repugnassero. E chi più presto, meglio; tirando via a schizzi senza modelli, nè bozzetti o cartone, alcuni si vantarono di coprire dieci braccia di muro in un giorno: volle superarli il Cambiaso col dipingere a due mani. La scultura, che fra gli antichi avea dato norma alla pittura, nei moderni la ricevette, traviò con questa, massime da che le si pose a coadjutrice per le decorazioni, mirando all’effetto per via di spicciative convenzioni, cercando il pittoresco nel panneggiamento, nelle movenze, negli accessorj, con atteggiamenti forzati, contorsioni, musculatura, enormi drappi; la difficoltà credendo merito primo, sommo dell’arte la meccanica, più ammirabile il trapano che lo scalpello. Quando mai il marmo fu condotto meglio che dall’Algardi, dal Bernini, dal Le Gros? ma alla finitezza si sagrificò il bello severo e corretto; e invece dell’affetto che spira dagl’ineruditi tentativi dei trecentisti, s’ebbero esagerazioni in cui l’uomo più non ravvisa se stesso. «Le circostanze che mettono a prova l’ingegno ed il merito degli artisti, erano grandemente diminuite in tutta l’Italia», dice lo storico accademico della scultura: eppure in realtà mai non si fabbricò e lavorò tanto; o per fasto de’ signori, o per pomposa devozione de’ Gesuiti, o pel proposito di cogliere questa gloria quando ogni altra era interdetta; nè v’ha città, ove non fastidiscano chiese, palazzi, cortili, fontane con forme barocche e concetti sottoposti sempre alla decorazione. Roma proseguì le opere del secolo precedente, restaurò le antiche, ne intraprese di nuove; Sant’Agnese, San Carlo, Sant’Andrea, Santa Maria in Compitelli, la Vittoria, le cappelle di Santa Maria Maggiore, il palazzo di Laterano, San Giovanni de’ Fiorentini, ponte Sant’Angelo, la fontana di piazza Navona, le ville Borghesi, Ludovisi, Pamfili, i palazzi del Quirinale e di Monte Citorio ed altri assai, furono eretti ed ornati in quel tempo. Come il gotico era cresciuto nelle fabbriche de’ Francescani, così il barocco sfoggiò a servigio de’ Gesuiti, e stupendo monumento ne sono colà il Sant’Ignazio e il Gesù. Tale ricchezza trascende nelle chiese di Sicilia, ajutata dalle tante pietre fine dell’isola (Cap. CLXII). Indicammo i grandiosi lavori che Domenico Fontana (1543-1607) da Melide presso Lugano terminò a Roma ne’ soli cinque anni di papa Sisto[173]; morto il quale, Clemente VIII, insusurrato da’ malevoli, lo cassò da architetto pontifizio, e volle conto delle somme impiegate; ma il vicerè conte Miranda chiamollo a Napoli, ove raddrizzò vie, palazzi, la piazza del Castelnuovo; fece nell’arcivescovado le tombe di Carlo I, Carlo Martello e Clemenza, il palazzo reale, molti altari, principalmente quello della cattedrale d’Amalfi, e il bellissimo _sottocorpo_ di San Matteo a Salerno; non di rado sagrificando alla novità la correzione. Suo fratello Giovanni fece ripari al Po, servì di acqua molte ville e città, ne condusse da Bracciano al Fontanone di Roma, e di là, traverso a ponte Sisto, all’altra cascata rimpetto a via Giulia. Di Gian Lorenzo Bernini napoletano (1598-1680) furono applauditissimi i primi busti, per facilità e gusto stupendo, e l’Apollo e Dafni, sfoggio di difficoltà esente da convenzionale[174]. La sua santa Bibiana, colla santa Cecilia del Maderno, la Susanna del Fiammingo, e il san Bruno di Houtton sono le migliori sculture di quel secolo. Imbaldanzito, credette poter aprirsi una via che non fosse nè l’antica nè la Michelangiolesca; ma sebbene intendesse la bellezza classica fin ad accorgersi che Pasquino apparteneva ai migliori tempi dell’arte; e sebbene insuperabile nel maneggiare lo scalpello, declinò sempre più al manierato, non nobilitò l’espressione, atteggiò smorfiosamente, mirò più al pittoresco e al lezioso: e il suo movimento non essendo d’ispirazione, sibbene riflesso, faceva epigrammi in marmo; scolpiva al modo onde si dipinge, in onta delle leggi dello stile plastico; alle teste imprimeva il carattere dei dipinti contemporanei, e quando vecchissimo rivide i suoi imparaticci, esclamò: — Ben poco progredii nell’arte, se giovinetto trattavo i marmi a questo modo». La sua santa Teresa nella chiesa eretta a Roma dal Maderno per la vittoria di Lépanto, esprime un deliquio isterico, reso più indecente dall’età adulta dell’angelo. Nel mausoleo di Urbano VIII, tutto a gravissimi drappi, a una polposa Giustizia sgarbatamente preme il turgido seno un lattante; la Morte scrive frattanto sul suo libro il nome del pontefice. In quello d’Alessandro VII ricorre la Carità colla poppa compressa, e il globo terracqueo schiacciato da una Verità, indecentemente ignuda; un enorme tappeto casca sopra la sottostante porta, cui la Morte solleva spargendo la clessidra ad annunziare che l’età è compita. Con tali concetti senza nè studio nè purezza nè convenienza, destava meraviglia, e diventava in lui bisogno il destarla; Urbano VIII, prima d’esser papa, gli teneva lo specchio mentre effigiava se stesso nel David; e alla sua esaltazione gli disse: — Voi vi felicitate di veder papa Matteo Barberini; ma più fortunato si crede egli, che il Bernini viva sotto il suo regno». In architettura con ricca e docile immaginativa e ripieghi inesauribili meritò luogo fra i sommi, sebbene più della vera grandezza affettasse la pompa. Avendo un bel corpo d’acqua in piazza di Spagna, ma senza poterle dar getto, finse la _barcaccia_, che affondandosi preme sull’acqua, e la fa uscire dagli spilli laterali. Al contrario in piazza Barberini avendone un solo filo ma di getto altissimo, finse un tritone che il soffia dalla conchiglia, più bello perchè senza pretensione d’eleganza. Nella fontana di piazza Navona, benchè senza unità di concetto, è grandioso quell’obelisco, circondato da statue di fiumi; Innocenzo X stette due ore ad ammirarla ancora in lavoro, indi partiva esortando a presto finire e condurvi le acque; quand’ecco d’ogni parte zampillarne abbondantissime, onde il papa esclamò: — Questa sorpresa mi prolunga dieci anni di vita». L’esterno del Noviziato de’ Gesuiti a monte Cavallo è il colmo dello stile pittoresco, su piccolissimo spazio, e con cupola ovale di ricchezza estrema. Anche questo secolo faticò attorno al San Pietro in Vaticano, che, cambiati pontefici, artisti, gusto, mancò di quell’unità che forma il vanto delle opere come della vita, e fu non più l’espressione di Dio e dell’universo da lui riempiuto, ma della grandezza dei pontefici. Il Barozzi da Vignola, succeduto a Michelangelo, rispettò i disegni di questo, benchè capace di migliorarli; Giacomo Della Porta finì di coprirlo; la tazza della cupola fu da Sisto fatta chiudere in due anni, e sotto Clemente VIII dal Fontana fu collocata la lanterna. Restava la navata: e Paolo V non volendo si profanasse un pezzo di terreno consacrato dalla tradizione, o parendogli non bastare la chiesa alle maggiori solennità, o perchè nessun tempio cristiano pareggiasse in grandezza quel che era primo in dignità, preferì il disegno di Carlo Maderno (1556-1629) stuccatore di Bissone, che, abbandonando il proposito di Michelangelo di far campeggiare la cupola, aggiunse tre arcate, mutandola così a croce da greca in latina, onde, perduta l’armonia delle parti, sembrò più piccolo del vero quell’immenso monumento; alla fronte allargata mancò la severa bellezza del restante edifizio, tacendo anche la scorrezione delle forme e dei particolari: benchè meglio s’acconciasse ai riti, massime colla loggia da cui il papa benedice _urbi et orbi_. Più d’ogni altro in San Pietro lavorò il Bernini: pose le statue ai piedritti della cupola, ed eseguì l’altar maggiore alto metri ventinove, cioè quanto il palazzo Farnese, con colonne di undici metri torse, quali già vedeansi nell’altare antico, e una farragine di frangie, festoni, volute. Lo compie la cattedra di san Pietro, mole resa ancor più pesante da farraginosi cartocci, eppure sostenuta con un dito dai quattro giganteschi dottori, atteggiati teatralmente: pensiero epigrammatico[175]. Il colonnato della piazza è l’edifizio più magnifico che al mondo s’ergesse per sola bellezza: e il Bernini seppe porlo in armonia coll’immensa mole e col frontispizio bizzarro, disponendo in quadruplice semicircolo ventiquattro pilastri quadrati e cenquaranta colonne per parte, alte tredici metri, sormontate d’un balaustro con censessantadue statue; tutto sì preciso, che chi pongasi ad un fuoco dell’ellissi non vede che una fila sola. Dovendo far la scala, che dal vestibolo mena alla sala regia, senza toccar le pareti, il Bernini trasse dalla difficoltà un motivo bellissimo d’effetto prospettico: nel che lodan pure il Costantino a cavallo in basso rilievo. Colto, di bei modi, e toccando a lui dare le commissioni, il Bernini diffondeva il mal gusto[176]. Non essendosi mai trovato un disegno dicevole per finire il palazzo del Louvre, Luigi XIV mandò invitare il Bernini, come l’architetto più famoso. Di sessantotto anni egli si mosse, da feste e trionfi accompagnato; Ferdinando Medici gli preparò un’entrata solenne in Firenze, alloggio in palazzo, la propria lettiga sino ai confini d’Italia; non men cortese gli fu il duca di Savoja; in Francia le autorità rendevangli onori uffiziali, e uffiziosi i ministri e cortigiani perchè volealo il re. Bernini usava coi principi il genere di adulazione che maggiormente lusinga, quel che s’ammanta di franchezza. Ricevè la regina Maria Cristina in casacca da scarpellino, ed essa toccandola gli diceva, — È più onorevole che la porpora». Avendo essa lodato una sua statua della Verità, egli esclamò: — Siete la prima testa coronata, cui la verità piaccia»; e Cristina: — Ma non tutte le verità sono di marmo». Ritraendo Luigi XIV, proruppe: — Oh miracolo, miracolo! un re sì attivo e francese è stato fermo un’ora!» Un’altra volta andò ad alzargli i capelli sulla fronte, dicendo: — Vostra maestà può mostrar la fronte a tutto il mondo», e subito i cortigiani acconciarono il ciuffo _alla bernina_. Chiesto dalle dame se fosser più belle le italiane o le francesi, — Belle tutte (egli riprese); ma le italiane sotto la pelle han sangue, le francesi latte». Il suo disegno pel Louvre, malgrado molti difetti, fu aggradito; si collocò la prima pietra con una gran medaglia d’oro che ne porta la facciata: ma egli non volle passar l’inverno colà, e subito partito, ogni cosa fu mutata o pel troppo spendio, o per emulazione nazionale; certo non fu squisitezza di gusto il preferire il disegno di Claudio Perrault, traduttore di Vitruvio, il quale chiama il Bernini mediocre architetto, ma assai buono scultore[177], mentre noi lo crediamo insigne architetto, pittore e scultore infelice. Riccamente donato, egli tornò a Roma, per la quale sentivasi nato, e seguitò ad abbellirla fino agli ottantadue anni, dandosi unico riposo il cambiar lavoro. Francesco Borromini da Bissone (1559-1667), lavorando da marmorajo in San Pietro, conobbe il Bernini, e postosi ad emularlo, il punzecchiava. L’avesse fatto per ritornar lui e tener sè nella via buona! ma quando mai i censori mordono i difetti veri, e si propongono l’emenda del censurato? Già farneticavasi per gusto di novità, e si confondeva il campo delle arti diverse; or egli toccò gli estremi, rinnegando ogni principio d’ordine, ogni sistema tradizionale, per unicamente regolarsi al capriccio, e far l’opposto di quel che una volta parea buon gusto. Bando alle rette; sol linee ondeggianti e tortuose in ogni senso, e cartocci e risalti d’angoli. Egli credeasi genio creatore sol perchè combinava o trasponeva a stravaganza, d’un accessorio ornamentale formava un sostegno, dava apparenza leggera a ciò che dovea piantar sodo, sostituiva il falso alla realtà; l’architettura riducendo a tarsia, ad arte d’orefice, a decorazione, che pur considerava come il principale caricando di cincigli le costruzioni. Un campanile fece a chiocciola, uno con due lati convessi e due concavi; la voluta jonica ripiegò in senso inverso; San Carlo alle quattro fontane piantò s’una figura indefinibile; bistorse San Giovanni Laterano. A questo Seneca e Marini dell’architettura, decorazioni e pensioni fioccarono; ma vedendosi disapprovato dai buoni artisti e dal Bernini, cadde in umor sì nero che si passò con una spada. Gli sopravvisse il gusto del difficile senza bellezza, dell’esagerato senza forza, del bizzarro senza novità; poichè supremo carattere della corruzione è il trovare insufficienti i mezzi semplici, con cui s’erano sublimati i maestri. Il barocco, naturalismo difforme e manierismo di pensiero, seguitava a confondere il campo della pittura e della scultura a scapito dell’una e dell’altra, riuscenti monotone per istudio di varietà. Non parvero gli antichi ordini bastare alle nuove fantasie; le colonne s’attorcigliarono, s’avvolsero di viticci di bronzo; in un luogo sembrano spezzate in due, in un altro cascano ma un angelo le sostiene; vi si impostano architravi accartocciati, frontoni rotti e convulsi. Alle chiese nostre ampie ed elevate, volendosi adattare le classiche fronti degli antichi tempj stretti e bassi, convenne porre un ordine sull’altro. Eppure i barocchi han cortili, scale, saloni felici; solida costruzione, talvolta grandiosi insieme, più che nell’armonia di questo delirando nelle particolarità ammanierate, serpentine, repugnanti ai ragionevoli contrasti[178]. Volendosi cacciare statue dappertutto, avvilupparle in nuvole, assiderle sui cornicioni, ergerle sui balaustri, come le censessantadue del colonnato di San Pietro, rannicchiarle ne’ pendenti degli archi come alle Procuratìe di Venezia, non poteasi accurarne l’espressione, e bisognava adagiarsi a facili trovati. Oltre i giganti s’introdussero nani e caricature; angioletti senza affetto sono disposti sui balaustri e sugli altari; o a sostenere un piano su cui sta la Madonna, come nel Rosario de’ Frari; o a portare smorfiosamente simboli, medaglioni, panneggiamenti: si moltiplicano figure simboliche, come sull’altare di sant’Ignazio a Roma l’Eresia calpestata dalla Religione, l’Empietà dalla Fede; e nel coro di Santa Maddalena de’ Pazzi a Firenze, tutto splendidezze e allegorie: molta parte vi hanno gli scheletri, come in S. Paolino a Firenze dove si svolgono dai drappi funerarj: molta le figure femminee del male. Anzichè il riposo proprio delle statue, cercavasi l’atto istantaneo de’ dipinti; se i Michelangioleschi sdrajavano le statue sui frontoni, or si doveano anche drammatizzare, significando affetto, dolore, meraviglia, estasi e spasimi de’ martiri, invece dell’espressione della speranza. Lo scarpello non potendo raggiungere gli effetti del colorito, supplivasi con compensi triviali: ora il santo parla con un angelo, ora uno cerimoniosamente gli regge un libro o la palma o la mitra e il pastorale, o gli stromenti di passione, non soltanto accennati, ma alla grandezza naturale di ruote, graticole, spade, che non capendo nelle nicchie, ne sportano. Riproduconsi altri motivi triviali, la predica, il sonno che deve credersi estasi, e l’estasi congiunta talora al martirio, come a Genova nel san Sebastiano del Puget, e nel san Bartolomeo del David, che ha il petto mezzo squojato, e un angelo sostiene la pelle staccata. Altrove si fanno statue vestite a colori, come il Maragliano a Genova, e come i presepj, allora di moda. Quest’orgoglio d’arte drammatica pompeggiava nei gruppi, che abbondano ne’ giardini e più ne’ sepolcri. Alla ben distribuita cappella di Sisto V in Santa Maria Maggiore lavorarono artisti di merito diversissimo e alcuni buoni: nella Paolina, esuberante come tutte le commissioni in cui quel pontefice profuse tesori, Ambrogio Buonvicino milanese volle far inarcare le ciglia con iscorci e sporti e arditezze di meccanica. Eppure a rimettersi sul buono non avrebbero dovuto che risparmiarsi la ricerca della difficoltà, ed essendosi scoperto in Trastevere il corpo di santa Cecilia, Stefano Maderno, comandato di copiarlo tal quale, ne trasse quell’opera di sì casta delicatezza, che la semplicità rese originale; e dimostra quanto si possa toccar i cuori mediante i contorni soltanto, senza tampoco l’ajuto della fisonomia. Tra la folla discerniamo Alessandro Algardi bolognese (1583-1654), non servile al Bernini, di cui in Vaticano ammirano l’Attila di cinque massi uniti, alto trentadue e largo diciotto palmi; pittura anzichè scultura, con ogni varietà di rilievo, ravvicinando il vero coll’imitato. Di Camillo Rusconi milanese lodansi i depositi di Gregorio XIII e di Alessandro VIII, ma più i due angeli della cappella di Sant’Ignazio al Gesù. Il Fiammingo (Francesco di Quesnoy) (1594-1646) pochi pari ebbe nel ritrarre la grazia infantile e la pastosità delle carni; e nulla è più vago che quelli ne’ Santi Apostoli di Napoli. La sua Susanna nella Madonna di Loreto al fôro Trajano ha pieghe sobrie e dolce espressione; ma nel sant’Andrea pel Vaticano non isguagliò dalle altre opere di quel tempio, che alcuno paragonò alla reggia d’Eolo pei tanti svolazzi in ogni senso. E a chi ci dice sieno necessarj a quell’ampio vaso, dove la correzione riesce meschinità, noi mostriamo il mausoleo di papa Rezzonico. Anche la pittura, in mano di artisti facili e materiali, quali il Nebbia, il Ricci, il Circignani e siffatti, in Roma perdeva l’intimo vigore, crescendo l’esterno finimento. Federico Baroccio d’Urbino, manierato ma di buon sentimento nelle rappresentazioni dilicate e nelle mosse affettuose, con molle e calda fusione di colorito somigliante ad Andrea del Sarto, uscì dalle gofferie de’ michelangeleschi. Sì egli, sì l’imitator suo Francesco Vanni si fermarono a soggetti sacri, e col Cigoli, il Pastignani, il Castello ebbero incarico d’un quadro ciascuno pel Vaticano, con ricche rimunerazioni. La Giuditta dell’Allori è delle più insigni ed espressive opere di quel secolo. Bartolomeo Schedoni da Modena sapea meglio che imitare; ma ridotto a miseria dal giuoco morì giovane. Luigi Caracci bolognese (1554-1619), confrontando i degeneri imitatori coi sommi maestri, credette arte suprema il fondere quanto i varj han di meglio, e cominciò quella scuola eclettica, dove l’artista non superava mai il suo modello, mentre non potea ben imitarne le qualità, derivanti da condizioni di tempo e d’animo. Innamorò dell’arte Agostino ed Annibale suoi cugini, i quali, con un’accuratezza che ai vecchi pareva stento, trionfarono; apersero in casa scuola di nudo, prospettiva, anatomia, con gessi e stampe; Guido, Albani, Domenichino, staccandosi dal Calvart, che fin allora avea tenuto lo scettro in Bologna, passarono nella scuola ove i tre Caracci insegnavano concordi e senza interesse; proponeano storie e premj, non obbligando a questa più che a quella maniera. Essi medesimi variavano stile, facendo una fusione talvolta non isgraziata, ma diretta all’effetto, non all’espressione, supplendo al genio colle rimembranze. Luigi in un quadro solo accostava cinque o sei teste di maestri diversi. Agostino, che scrisse anche le proprie lezioni[179], e incise al modo di Cornelio Cort con miglior giro di tagli e capelli, inferiore a Raimondo per bellezza di contorni, superiore per stile d’intaglio, prevale come inventore, benchè mai indipendente: la sua Comunione di san Girolamo rimane un capolavoro, come l’_Ecce homo_ di Luigi e il san Rocco di Annibale. Quest’ultimo nel palazzo Farnese risuscitò il paesaggio, il colorire dal vero, il disegno franco insieme e studiato, e il conveniente atteggiare; rileva del Tiziano, e ben coglie le forme plastiche del terreno e degli alberi, con una soave tranquillità, un colorire schietto, disponendo in grandi linee e semplici masse. Ma il miglior paesista di quella scuola, non eccettuato l’Albani, parmi Gianfrancesco Grimaldi detto il Bolognese. Domenico Zampieri da Bologna (1581-1641), indeciso fra i modelli, scarso di fantasia, pur non sapeva sostenersi colla sola forma senza il pensiero; e avendo il sentimento del bello ingenuo, mesceasi al popolo per apprendere «a delineare gli animi, a colorire la vita»; le passioni che voleva esprimere eccitava in sè ridendo, piangendo, infuriandosi. Querelandolo i Teatini che da tempo non continuasse la cupola di Sant’Andrea alla Valle, rispose: — Eh! la sto dipingendo continuamente dentro di me», perocchè volea prima aver in sè perfetta l’idea del dipinto; postavi poi mano, tanto persisteva da neppur prendere cibo. Ben adattava le fisionomie ai caratteri, badava a rialzare le anime, coronava le composizioni con bellissime glorie: piacevasi di metter a contrasto i patimenti terreni colle gioje celesti, siccome nella Madonna del Rosario. Giambattista Agucchi dilettante il protesse contro i crescenti emuli, e l’introdusse al cardinale Aldobrandini, che gli fece dipingere il Belvedere. Pel cardinale Farnese eseguì a Grottaferrata i miracoli di san Nilo, stupendi di verità. Nella Comunione di san Girolamo superò il Caracci in varietà di gruppi e finezza d’espressione, e riuscì uno dei tre migliori quadri di Roma[180]: ma voglia paragonarsi alla Trasfigurazione di Rafaello che gli sta di faccia, per vedere quanta distanza corra fra il genio dello studio e la riflessione del genio. Nell’ammirata sant’Agnese affrontò il terribile, del quale poi si compiacquero Guido nella Strage degl’innocenti, Guercino nel Martirio di san Pietro, ed altri di quella scuola. Mentre il Poussin ne diffondeva l’ammirazione in Francia, il Domenichino restava mal conosciuto in Italia; i Caracci, alla cui scienza faceva contrapposto l’ingenuità di lui, gli attraversavano le commissioni, e lo posero in tal diffidenza di se stesso, che più volte fu per gettare il pennello, più volte non s’affidò che sull’orme altrui. Soli cinquanta scudi gli si pagò il san Girolamo[181]; quando poi fu chiesto a dipingere la cupola di San Gennaro a Napoli, assicurandogli cinquanta scudi ogni figura intera, venticinque le mezze, dodici e mezzo le teste, trovò congiurati contro di sè gli artisti di colà, e massime Lanfranco e Ribera, che di veleno il finirono. Anche il suo amico e concittadino Francesco Albani (1578-1660) gustò il disegnare scelto e sodo; ai soggetti adattava vaghe scene campestri, corrispondenti ai drammi pastorali d’allora per sentimentalità convenzionale: e in generale i suoi accessorj valgono meglio che la parte storica e il colorito; i modelli sceglieva felicemente e nobilitava; ben intendeva l’allegoria: scrisse anche intorno all’arte sua. Invidioso de’ contemporanei, vide declinare la sua fama, e morì dimenticato. Eccellente fra gli eclettici, Guido Reni bolognese (1575-1642) al limpido colorito e al disegno sovrappose eleganza e nobiltà e fantasia vivace. Ostinato allo studio, fin da mediocrissimi accetta pareri; la bellezza e varietà dei volti studia nella natura non men che nell’antico, nelle stampe del Dürer non men che in Rafaello e Paolo; vagheggia il soave, non isdegna le biacche come i Caracceschi, e non manca di concepimenti originali. Dicono che Albani, nol potendo deprimere, s’applicasse a corromperlo col giuoco, sicchè buttatosi a frettolosa trascuranza, cadde nell’ideale e nel manierato, finchè povero e screditato morì. Giacomo Cavedone di Sassuolo, esatto nel disegno, tranquillo nelle pose e nell’espressione, vigoroso nel tingere, accorato dalla perdita d’un figlio, morì miserabile. Le ottime disposizioni di Francesco Solimene furono guaste dai maestri, e chiese e Corti per tutta Europa empì d’opere facili, e con forme ignobili, colori esagerati, tocco manierato. Sempre studiar gli antichi! sempre copiare! La natura sia l’unica maestra; unica arte il copiarla tal qual è. Così parve a Michelangelo Merighi (1569-1609), che da Caravaggio venuto a Roma come muratore, si gittò a pitturare, e indispettito de’ precetti arbitrari e dell’arte goffamente accurata, conculcò anche le buone tradizioni. Pretendeva che il quadro fosse copia fedele della natura: ma tumultuando di passioni che reluttavano a ogni freno, sceglie nature vulgari, situazioni tragiche, avventure notturne, ruine, cenci, cadaveri: maledicendo agli azzurri e ai cinabri de’ manieristi, tinge in nero il suo studio, la luce introducendovi solo da un elevato spiraglio, sicchè i modelli acquistavano ombre vigorose e taglienti; e così al rilievo del modello, usanza dei Michelangioleschi, egli surrogò i contrasti del chiaroscuro, eccesso ad eccesso, da cui neppure si temperava nei quadri da chiesa. Rozzo della persona, dei modi, del vestire, vagabondo, spesso mancante del pane, invido, accattabrighe; per omicidio dovette da Roma ricoverarsi a Napoli, di là a Malta; ove insultato un cavaliere, è messo prigione; salvasi in Sicilia, ma sicarj disposti il feriscono, sicchè rifugge verso Roma. Sbarcato, è preso in iscambio e messo in carcere; poi sciolto, trova già partita la feluca su cui era giunto: onde stizzito va e va lungo al mare fino a Portercole; ma il sol cocente gli dà una febbre, di cui muore a quarant’anni. Quella selvaggia violenza in contrasto colla freddezza eclettica, gli effetti del suo tocco vigoroso, il lumeggiare che dava stacco e quasi vita alle figure, fecero perdonare le scorrezioni, la durezza, la vulgarità; e venne considerato capo d’una scuola naturalista, in opposizione ai Caracceschi. Ma alla natura non conviene accostarsi con orgoglioso disprezzo dell’esperienza, nè interrogarla senza scelta, senz’occhio esercitato, senza la verga magica per cui nell’imitazione si conserva la vita. Lionello Spada bolognese, fattorino de’ Caracci, s’innamorò della pittura, ma Guido e gli altri lo celiavano, e diceano andasse a scopare; onde fuggì a Roma, ammirò il Caravaggio da cui contrasse lo spirito litigioso, il dipinger risoluto e dietro natura, e il colorito esagerato; decorò il teatro di Parma più bene che fin allora non si fosse veduto, e meglio lavorò nella Madonna di Reggio col moderato e melanconico Tiarini. Gianfrancesco Barbieri, detto il Guercino da Cento (1590?-1666), prese indirizzo da un quadro di Luigi Caracci, del quale varieggiò il fosco colorito studiando a Roma sopra i migliori, e dal Caravaggio contrasse il gusto pei gagliardi contrasti di luce ed ombra, e pel caratterizzare vigorosamente la realtà. L’artifizio del rilievo lo fece denominare il mago della pittura; accurò il disegno; e il difetto d’eleganza e nobiltà palliò colla facilità del fecondissimo pennello; alfine cadde in un sentimentalismo svigorito. Uomo pacifico e buon cristiano, perdonava le offese, nel che pure distinguevasi dagli altri artisti. Perocchè Tiziano lavorava col coltello allato; Giorgione portava la corazza quando dipingesse in pubblico; al Baroccio fu guasta la vita col veleno a Roma, procurandogli cinquantadue anni di continui dolori; il Domenichino fu più volte insidiato, e alfine morto; anche Guido da Napoli dovette fuggire per le minaccie di quegli artisti, che non miglior sorte prepararono al cavaliere d’Arpino; Gessi allievo di Guido osa andarvi a dipingere la cupola di San Gennaro con due allievi, e questi gli sono rapiti sopra una galea, senza che più se ne sappia; il Tempesta fa ammazzare la moglie, onde subisce cinque anni di prigione; Giorgio Gozzale bresciano nel 1605 fu ucciso dal proprio figlio, pittore anch’esso; Agostino Tassi remando sulle galere imparò a dipingere marine, Simone Contarini pesarese, di merito discreto nel colorire e nel disegnare, credevasi sommo e criticava senza riguardo l’Albani e Guido non solo, ma e Giulio Romano e Rafaello, sicchè detestato dovè passar continuo di paese in paese, e si dubitò fosse avvelenato, come fu certo dalla fante la pittrice Elisabetta Sirani. Mattia Preti di Taverna (1613-78), detto il Calabrese, lavorò a Napoli e a Malta con gran prestezza e di primo getto, senza cura d’abbellire il naturale, imitando il Guercino e preferendo soggetti tragici. Entrato cavaliere di Malta, ferisce uno spadaccino protetto dall’imperatore; onde costretto rifuggirsi sulle galee dell’Ordine, quivi ferisce a morte un cavaliere che avevalo motteggiato sulla sua poca nobiltà. Fugge, e dopo gran tempo rimesso in Roma, ove aspirava terminare le pitture lasciate imperfette dal Domenichino, sfida un critico e feritolo gravemente, ricovera a Napoli: e perchè, essendovi la peste, una sentinella gl’impedisce l’entrata, esso la uccide, disarma un’altra; il vicerè lo salva dal carcere, a patto che sulle otto porte della città ne dipinga i patroni. Vecchio, divenne mite, e non lavorava più che pei poveri. Salvator Rosa d’Arenella (1615-73) da suo padre era distolto dall’arte, che «l’avrebbe condotto all’ospedale»: e in fatti, orfano a diciassette anni con numerosa famiglia e mal avviata, provò tutte le miserie, e dell’alterato sentimento diè prova in quadri aspri e selvaggi, ove non mai calma o sereno, ma scogli, tronchi fulminati, querce nude, aquiloni, torrenti, rovine e streghe, Democrito fra le rovine, Prometeo alla rupe, lo Spettro di Samuele, la congiura di Catilina. Sempre immaginoso, talora in un sol giorno ebbe cominciato e finito un soggetto. Venuto a Roma, il correre attorno ad ammirare i prodigi dell’arte lo ridusse all’orlo del sepolcro; ma come farsi strada tra la folla de’ pittori, che vantavansi originali mentre imitavano o il Caravaggio o i Caracci, lavorando a fretta e furia? Una mascherata in cui, vestito da Orvietano, vendette faceti rimedj alle morali calamità, gli acquista nome, e, più ancora l’ardimento con cui sul teatro deride le farse che in Vaticano facea recitare il Bernini: allora si trovano valorosi anche i suoi quadri, ed esso li moltiplica, guadagna discepoli e denari che profonde. Del nuovo stato viene a far pompa in patria, dove ha a lottare con Giuseppe Ribera, Correnzio Belisario, Giambattista Caracciolo, terribile triumvirato, nemici fra loro ma accordatisi nel proscrivere chiunque desse ombra alla loro mediocrità. Questo Belisario, natìo greco, da Napoli cacciava a coltellate chi fossevi chiesto di fuori a qualche opera, e ottenne di dipingere la cappella di san Gennaro. Caracciolo seguiva i Bolognesi. Ribera (1586-1656), detto lo Spagnoletto perchè nacque da un soldato spagnuolo a Gallipoli, pretto naturalista, cercava i luccicamenti fino allo sgarbo, ed ebbe non poca efficacia sulla scuola napoletana. Appreso il fasto dal duca d’Ossuna, grandeggiava alla spagnuola; carrozza, livree; sua moglie aveva un bracciere che l’accompagnasse uscendo; un alfiere veterano facea da gentiluomo porgendogli i pennelli, e dopo tre ore alla mattina, due al dopo pranzo l’avvertiva, — Signor cavaliere, si è lavorato abbastanza; resti servito di passeggiare alquanto». La sera ricevea in bellissimo alloggio; ma a quest’orgoglio accompagnava una naturale giovialità, amando scherzare, sebbene facilmente s’offendesse. Bella figliolanza e bellissima la maggiore Maria Rosa; ma nel subuglio di Masaniello, don Giovanni d’Austria se ne invaghì, e trassela in palazzo poi a Palermo; onde l’artista, trafitto negli affetti e nell’orgoglio, si disperò, e fuggito con un solo servo, più non se ne seppe; la fanciulla morì poco poi di crepacuore. Anche Salvator Rosa credette all’eroismo di Masaniello, onde dovette spatriare. Orgoglioso, non cerca denaro ma fama, «fra modesti desìi dipingendo per gloria e poetando per giuoco»: sparla arditamente degli altri artisti, che perciò gli suscitano guaj. Sapea poco di lettere, ma l’amicizia di Antonio Abati, povero e lepido poeta, l’invogliò a comporre satire biliose, declamatorie, neglette e originali come il tocco del suo pennello. Non confondiamo le stranezze coll’originalità, nè col genio che finisce lo schizzare dell’improvvisatore. Ben rammenteremo come egli rinfacci i soggetti osceni, le nudità invereconde, i modelli profani adoprati fin a dipingere santi[182]. Il quadro della Fortuna che prodiga i favori, e la satira della Babilonia l’obbligarono a ritirarsi da Roma a Firenze. Quando tornò a Roma, la società degli _Amici delle arti_ collocò i suoi quadri fra gli antichi, onde negli ultimi anni assaporò la gloria e la ricchezza. Le grandi volte di chiese e di sale, genere ignoto agli antichi, offriano campo all’originalità. Giovanni Lanfranco di Parma, spontaneo e robusto, non dotto e riflessivo nè elevato, ai santi e alle madonne nulla infonde di celeste fuorchè l’aureola; ma trascurando certe estreme diligenze, acquista aria larga, fa vivi contrasti; improvvisa farraginosi dipinti, e diviene modello del dipingere in lontananza. Cotesti _macchinisti_ schizzavano con fuoco giganteschi dipinti che il vulgo ammira: ciascuno formava una scuola; ma n’uscivano settarj non pittori, che buttavano giù più facilmente, quanto meno cose aveano ad esprimere. Poco disegno, poco colore, poco condotta ebbe Pietro Berrettini da Cortona, ma molta abilità meccanica, sperienza del sotto insù, artifizio nella gradazione delle tinte; e si possono dire belle la Conversione di san Paolo e le volte del palazzo Barberini a Roma e dei Pitti a Firenze. Più che al concetto badando alla disposizione e ai contrasti di gruppi con gruppi, di parti con parti, dalla facilità degenerò in negligenza, dal gustoso nell’affettato, insegnò ad introdurre figure oziose, ed atteggiarle smorfiosamente. Luca Giordano da Napoli fu soprannominato Fapresto per la celerità con cui finì la galleria Riccardi a Firenze, l’Escuriale e infiniti altri lavori: contraffece la maniera dei varj maestri, e le grandi facoltà riducendo a sciagurata abilità di mano, nocque all’arte come i giornalisti alla letteratura. Come un giornalista, fu debole pittore ma largo di precetti il cavaliere d’Arpino, che scandolezzato degli ardimenti, proclamò l’_idealismo_, e coll’affettata ricerca del bello convenzionale, alle scuole degli eclettici e dei naturalisti unì quella dei manieristi; vulgari tutte, come qualunque non vede se non cogli occhi del corpo; eppure onorate d’artisti degni di stare coi sommi. Carlo Maratta anconitano parve emulare Rafaello per alcune composizioni devote, che gli acquistarono il titolo di Carlo delle Madonne; mentre ha posto fra i gran corruttori, insieme col fratello e colla figlia Faustina poetessa. Luigi Cardi da Cigoli, voltosi al Correggio, un dotto disegno accoppiò a colorito più vivo, benchè gli manchi il contrapposto di tinte e il grazioso scortar del maestro. Poeta, sonatore, accademico della Crusca, anatomico, pittore, scultore, stampò un trattato di prospettiva pratica; dispose in Firenze le decorazioni pel matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV, e disegnò il piedestallo per la statua di questo a Parigi; in Firenze il cortile degli Strozzi, e principalmente il palazzo Rinuccini, e in Roma il sovraccarico palazzo Madama. Molti Fiorentini il seguirono, massime Cristoforo Allori, che poco fece ma insignemente. Carlin Dolce s’ingegna esprimere gli affetti pietosi, accordandovi anche il colorito, niente sfarzoso, ma non abbastanza armonico; altrettanto finisce un Cristo quanto un ubriaco e dalla delicatezza degenera in sentimentalità. Il Sassoferrato (Giambattista Salvi), di scarso vigore ma amabile concetto, disegna correttamente, armonizza il colore, benchè penda al roseo; graziosissimo nel paesaggio e più nelle madonne. Benedetto Luti, nato poveramente, educatosi da sè, acquistò disegno, armonia e buona intelligenza di colorito; ma inesperto agl’intrighi, fu posposto a gente che nol valeva a gran pezza. Matteo Rosselli s’accosta al Domenichino, studia il naturale, sparge una quiete quale l’avea nell’anima; i suoi freschi si direbbero di jeri. Di Bernardino Beccatelli, detto il Poccetti, ne’ freschi della certosa di Firenze, e nella morte di san Bruno si trovano verità, sentimento, calore. Lorenzo Lippi avea per massima di scrivere come parlava e dipingere come vedeva; proposito che nol salvò da metodici artifizj, massime nel piegare. Nella scultura Giovan Gonelli, detto il Cieco da Gambassi, perduta la vista, continuò a lavorare. In Toscana i Feggini, migliori degli altri, sono cattivi; alquanto men depravato Innocenzo Spinazzi, eseguì la Fede velata in Santa Maria Maddalena, e la statua sul sepolcro di Machiavelli. Cosimo Lotti, architetto bizzarro, fece le figure nobili a Pratolino, giuochi d’acqua nella villa di Castello, altri balocchi pei figliolini di Cosmo II; a Madrid una testa colossale, che spalancava la bocca, aggrottava la fronte, stralunava gli occhi; e macchine da teatro per speditamente cambiar decorazioni. Buontalenti Bernardo fu nominato dalla Girandola per avere perfezionato i giuochi d’artifizio, che recò anche in Ispagna; inventò il cannone scacciadiavoli, la granata e il conservar il ghiaccio in estate. Giovan Boccapani, ingegnere militare dell’imperatore, in Firenze eseguì la villa imperiale e il convento di Santa Teresa, e vi professò matematica, applicandola anche alla prospettiva, all’architettura, alla meccanica. Ivi il Nigetti, sopra un pensiero di don Giovanni d’Austria, disegnò la cappella dei principi in San Lorenzo, e lavorò alle pietre dure. Anche Alfonso Parigi, dopo servito d’ingegnere in Germania, rassettò il palazzo Pitti che strapiombava. Più lavori vi fece Gherardo Silvani in novantasei anni di vita, e palazzi che sono de’ migliori di Firenze. Paolo Guidotti Lucchese, conservatore del Campidoglio, oltre pittura e scultura, studiò matematica, astrologia, giurisprudenza, musica; per amore dell’anatomia frugava i cimiteri; fece una _Gerusalemme distrutta_, le cui ottave finivano colla parola stessa del Tasso: cimento pari a quel del volare, ch’egli tentò in patria, e donde riportò una gamba fiaccata. Il gusto dell’insolito e del manierato trasportò in Napoli Cosimo Fansaga bergamasco, che vi fece moltissime chiese e facciate, la bella fontana Medina, il traricco altare della Nunziata, la cappella di san Gennaro con un profluvio di statue, di colonne, d’allusioni, e la splendida certosa di san Martino. Parendo grettezza la semplicità degli obelischi antichi, e’ li straricchì di trofei, come balocchi di zuccaro. Il supremo della difficoltà e delle bizzarrie può ammirarsi a Napoli nella cappella della Pietà de’ Sangri in San Severo. Un Cristo morto, opera del Sanmartino, coperto d’un lenzuolo da cui traspare la figura, e cogli stromenti della passione gettati alla rinfusa, eppur tutto d’un pezzo; non potrebbe censurarsi: e buona è pure la statua di Giovanna di Sangro. Ma ecco il Disinganno ravviluppato in una rete di cui tutte le maglie sono staccate, opera del Guccirolo; ecco l’Educazione del Queiroli, la Pudicizia del veneziano Corradini, che traspare ignuda da un velo; ecco le figure sull’altar maggiore del Celebrano, e gli angeli di Paolo Persico. Massimo Stanzioni napoletano ha sentimento elevato e semplice bellezza. Lodovico del Duca siciliano fuse la statua di Massimiliano I imperatore per l’insigne mausoleo erettogli a Innspruck. I Campi cremonesi empirono di lavori eclettici la Lombardia. Giulio e Bernardino, per disegno e tingere lodevoli, abborracciavano talvolta, come sempre Antonio e Vincenzo. In San Sigismondo (il Panteon di Cremona) Bernardino con effetto stupendo distribuì santi innumerevoli, nè però confusi. Tra’ suoi scolari, lavoratori di pratica, Giambattista Trotti, detto il Malosso, colorisce estremamente chiaro, e disegna gajo; Pamfilo Nuvolone è più solido e men vago; la Sofonisba Anguissola conta fra’ migliori ritrattisti. Ercole Procaccini portò il far bolognese a Parma, con poca prospettiva, debole disegno, facile colore. Suo figlio Camillo molto lavorò nel Milanese con una facilità e naturalezza che piace a prima vista; e meglio in San Procolo di Reggio il Giudizio a fresco, e il san Rocco, che facea sgomento ad Annibale Caracci, invitato a farne il riscontro. Suo fratello Giulio Cesare unì allo studio de’ Caracci quel del Correggio. Carlantonio si voltò al paesaggio e a fiori e frutti. Ercole, figlio di Camillo, deteriorò il gusto de’ molti suoi allievi. Il Salmeggia ormò Leonardo e Rafaello, traendone pennello morbido, grazia di mosse e di espressione, contorni puri ne’ quadri che accurò, come due in Santa Grata a Bergamo, e due nella Passione di Milano. A Milano era perita l’antica scuola del Luini e di Gaudenzio, sicchè i due cardinali Borromei, volendo colle arti crescere decoro al culto, dovettero invitare forestieri. Studiarono fuori il Morazzone (Pier Francesco Mazzucchelli), buon coloritore; e Giovanni Crespi da Cerano, che fu pure architetto, plastico, letterato. Daniele Crespi, studioso de’ Veneziani e degli Spagnuoli, ritrasse con verità, componeva con immaginazione e con energia da naturalista; e non è abbastanza conosciuto da chi non vide la sua storia di san Brunone alla certosa di Garignano. Al duomo di Milano si lavorò scarso e male, e già lodammo valentissimi architetti di quell’età (tom. X, pag. 77 e 102). Dappoi vennero di moda il Bianchi, che piantò San Francesco di Paola in figura di violoncello, e il Croce che il Foppone disegnò in quattro segmenti di croce grandi e quattro piccoli. Martino Lunghi tagliapietre di Vigiù, a Roma divenuto architetto, aggiunse al Quirinale la torre dei Venti, fece molte chiese. La sua famiglia continuò in quest’arte; Onorio fece il grandioso San Carlo al Corso e altri lavori nello stile d’allora; Martino suo figlio lavorò con capriccio più che con arte, e vantasi la bella scala del palazzo Ruspoli. Uomo strano e bestiale, pur lasciavasi battere da sua madre, solo dicendo: — Mamma mia, mi faceste sano, ed or mi vorreste storpiare?» Di Santino Solari comasco è il duomo di Salisburgo, una delle più semplici imitazioni di San Pietro. A Genova la scuola fondata da Perin del Vaga progredì, e i Calvi fecero buone facciate, e storie meno lontane dal costume che non quelle de’ Veneziani. Andrea e Ottavio Semini si attennero a Rafaello. Dugenventi pittori liguri sono noverati nelle scarmigliate biografie di Rafaele Soprani, ma il solo ricordevole è Luca Cambiaso, fecondo d’immagini, ingegnoso negli spedienti; fece le loggie del palazzo Imperiali che vanno tra le più belle: dipinse anche all’Escuriale. Emulo eppure amicissimo ebbe Giambattista Castello, detto il Bergamasco. Giambattista Paggi, nobile e letterato, fuoruscì per omicidio, sinchè cresciuto in fama di pittore fra gli stranieri, fu revocato, e lavorò in competenza di Rubens e Van Dyck. Perocchè i patrizj genovesi chiamarono i migliori artisti, e dalla cieca Sofonisba vi riceveano lezioni i Procaccini, il Roncalli, il Gentileschi, il pisano Lomi, il fiorentino Balli, l’urbinate Antoniano, il Salimbeni, il Sorri, il Dassi, il Vouet, i fiamminghi Rosa, Legi, Wael, Malò, il tedesco Waals ed altri, che vi lasciarono opere. Sopra esempj sì variati potè formarsi la gioventù; e perchè nella ricerca del colorito non negligessero il disegno, il Paggi stampò la _Definizione ossia divisione della pittura_ (1607). Famosa galleria aveva radunata Vincenzo Giustiniani, che fu pubblicata a Roma il 1640 con cinquecenventidue tavole, intagliate da’ migliori. Giovanni Carlone, disegnatore accurato, frescò nitido ed ilare: e più grandioso e diligente suo fratello Giambattista, alla Nunziata del Guastato e alla cappella in palazzo, con teste vivaci, figure rilevate, color vigoroso. Nè valse meno all’olio; e in ambi i generi continuò senza decadenza fino agli ottantasei anni. Bernardo Strozzi cappuccino coprì i palazzi genovesi di affreschi bene immaginati; nelle tele è armonico insieme e vigoroso, benchè volgare nel disegno e ne’ visi di angeli e madonne. Tacendo i molti ritrattisti, nel paesaggio valsero Antonio Travi detto il Sordo di Sestri, e Sinibaldo Scorza di Voltaggio che direbbesi fiammingo: Gian Benedetto Castiglione per animali non cede che al Bassano. La peste del 1657, che parve colpire di preferenza gli artisti, dissipò quella scuola, che poi si ricompose imitando il Moretto; e v’ebbero qualche nome Andrea Carloni, Pellegrino Piola, il Banchero di Sestri, il Parodi scultore e architetto di variati stili, e del quale si ammira il salotto Negroni. Il Moncalvo (Guglielmo Caccia di Montabone) è il solo piemontese che meriti essere nominato per le cappelle del sacro monte di Crea, la cupola di San Paolo a Novara, e le storie ne’ Conventuali di Moncalvo. Torino, occupato nell’armi, poco curavasi d’arti; sebbene al 1652 fondasse una società di San Luca, furono chiesti piuttosto di fuori quei che ornarono i palazzi reali, come Giovanni Miel d’Anversa, Daniele Leiter viennese, Carlo Delfino francese, e il Banier, e il Vanloo. Guarino Guarini teatino modenese, malgrado che avesse letto i migliori e conoscesse filosofia e fisica, empì di cattive opere Torino, quali San Lorenzo dei Teatini, il palazzo Carignano, la cappella della S. Sindone tutta di marmo nero e a forme grandiose, che fa ammirarsi per le difficoltà statiche e stereotomiche da lui vinte onde alzar quella cupola a zone esagone in forma di stelle, disposte in modo da riuscire tutta a trafori, e chiusa in cima da una stella pur traforata, traverso alla quale vedesi un’altra volta. Le contorsioni, il forzato nelle piante, negli alzati, negli ornamenti, le finestre ovali, le colonne torse, i frontoni spezzati, i bizzarri sopraccaricamenti all’ordine dorico non gli tolsero d’essere cercato oltremonti e oltremare. Gli tiene la lancia alle reni il gesuita Andrea Pozzo trentino, che disegnò l’altare di sant’Ignazio nel Gesù di Roma, e del Gonzaga in Sant’Ignazio, portenti di ricchezza e di mal gusto. Nella _Prospettiva dei pittori_ ed architetti diede regole ed esempj che sono il preciso opposto di quel che deve fare chi vuol far bene. Egli stesso eseguì molte finte cupole, e nella tribuna di Frascati fece apparire convessi tutti i membri architettonici sopra superficie concava. Di tali artifizj si abusò stranamente, massime nelle volte, ove si doveano vedere di sott’in su uomini, case, piante; e la quadratura sopraccaricò le architetture di fogliami, vasi, gemme, grotteschi, mostruosità. Girolamo Curti Dentone avea studiato il rilievo in modo che si credette ajutasse con stucchi le sue cornici; tratteggiò d’oro i lavori a fresco. Michelangelo Colonna sapeva adattarsi allo stile de’ pittori con cui lavorava. Giacomo Torelli da Fano a Venezia inventò un congegno per mutar di tratto le scene, alzò a Parigi il teatro del piccolo Borbone, e giovò alle rappresentazioni di Corneille; in patria eresse un teatro che passò pel migliore, tanto che bruciatosi quello di Vienna nel 1699, l’imperatore ordinò si fabbricasse su quel modello. Ferdinando, Francesco e Antonio Galli da Bibiena erano chiamati a gara per ordinare feste, dipingere scene e decorazioni. Fra i Veneziani, Jacobo Palma il giovane guastava l’ottima sua attitudine col credere fosse merito il far presto; Girolamo Forabosco fu terribile ritrattista. Carlo Ridolfi si tenne a’ buoni metodi, e scrisse anche le vite dei pittori di quella scuola. Dario Varotari in Sant’Egidio di Padova mostrasi studioso de’ trecentisti. Suo figlio Alessandro detto il Padovanino scorta con poca intelligenza, e la gentilezza riduce a convenzione. Sebastiano Ricci di Belluno de’ tanti quadri veduti in molti paesi contraffaceva lo stile con facilità. Migliore a fresco. Marco suo nipote e scolaro attese al paesaggio con una fedeltà inusata, e lasciò le migliori opere in Inghilterra. A Venezia toccò la sua parte delle mostruosità scultorie, massime ne’ mausolei. In San Giovanni e Paolo una donna, guardandosi nello specchio, deve vedere uno scheletro che sostiene un cartello lacero e accartocciato, portante l’epitafio: altrove il cartello è portato da un’aquila: nel monumento Mocenigo da due morti nere: nel Valier un immenso manto aggettato rinvolge tre statue lussureggiamente drappeggiate dal Barrata. In San Pier di Castello la cappella Vendramin è manieratissima, tutta a virtù e vizj, e una figura che fa capolino dal sepolcro. Nel mausoleo Pesaro ai Frari, fanno da Atlante al cornicione quattro mori, da’ cui laceri panni traspajono le nere carni: vi sono virtù e vizj, e scheletri che recano epigrafi, e due camelli che sostengono un trono, e angeli e festoni, e putti in bassorilievo, scorrettissime fantasie del Longhena, e buona scoltura del Bartel: fino l’iscrizione è stileggiata colla medesima vanità. Camillo Mazza bolognese fece bella prova nella vita di san Domenico a San Giovanni e Paolo, bassorilievi di bronzo: altri in marmi con poco gusto, ma stupenda condotta nella cappella del Rosario, dianzi consunta dal fuoco. La architettò il Vittoria; fece l’altare e alcune statue il genovese Campagna; vi dipinsero il Tintoretto, Jacopo Palma, Francesco Bassano, Andrea Vicentino, Paolo Fiammingo, Leonardo Corona; intagliò i legni l’inarrivabile Brustolon. Alessandro Vittoria trentino, abilissimo nello stucco, è nobile e pastoso nell’esecuzione, fecondo nelle invenzioni, manierato nel disegno: al vantato suo san Gerolamo che si contorce ignobilmente per isfoggio d’anatomia, preferisco il san Sebastiano in San Salvadore, e il proprio sepolcro in San Zaccaria, dove alludendo ai molti ritratti fu scritto: _Qui vivens vivos duxit de marmore vultus_. Altro tipo del barocco v’è la chiesa dei Gesuiti, che si figura tappezzata, e sul pergamo gettato un gran tappeto, tutto marmo: sull’altare la Trinità s’asside sopra un mappamondo sostenuto da angeli che s’appoggiano sopra nuvole. Le facciate degli Scalzi, di San Moisè, del Ricovero, di Santa Maria Zobenigo sono compassionevoli di rilievi ed ombre. La Salute, eretta da Baldassarre Longhena per voto nella peste del 1630, ne’ cui fondamenti affondaronsi 1,156,657 travi, dentro è ammirata, fuori di bizzarra strabbondanza, pure grandiosa e in armonia cogli edifizj circostanti, e con un insieme di tal effetto, che fa perdonare le irragionevolezze. Nell’altare tutto marmi, il tabernacolo è sorretto da angeli in positure variate, e sopra di esso Maria in gloria, a sinistra della quale una matrona figurante Venezia che la prega di salute, mentre a destra una schifosa vecchia, simboleggiante la peste, fugge, sporgendosi dalla base nuvolosa, insultata da un angioletto: due santi d’assai maggior dimensione, eretti sulla predella dell’altare, guardano a questa scena. Del Longhena sono pure il palazzo Rezzonico in grandiose proporzioni, e il Pésaro, uno de’ più suntuosi d’Italia. Giuseppe Benoni trentino, che come architetto della repubblica attese ad arginar le lagune, su spazio angustissimo fece la dogana di mare, di mal gusto, ma vistosa e pittoresca. Verona nel 1718 fabbricò la fiera in Campo Marzio con ducensettanta botteghe, di disegno migliore che l’esecuzione. Il Ligozzi veronese, non inferiore a nessuno de’ naturalisti pel colorire, e meglio corretto, supera forse tutti i frescanti d’allora nel chiostro d’Ognissanti a Firenze. Nell’incisione, molto progredita al di fuori, poco si fece da noi, e quasi da soli pittori. Distingueremo Francesco Villamena di Assisi; Giambattista Vanni, che all’acquaforte conservò molte opere del Correggio; Stefano della Bella fiorentino, condiscepolo del Callot, col quale eseguì molte vignette per libri; Giambattista Falda di Valduggia che fece le principali vedute di Roma. Giacomo Lauro dopo un lavoro di venticinque anni pubblicò _Antiquæ urbis splendor_ (1612), che sono i monumenti della gran città, mediocri come arte, e con spiegazione in tre lingue. Pietro Sante Bartoli romano incise con sapore e grazia monumenti antichi, conservandone molti che di poi perirono; benchè li riduca a carattere troppo uniforme. In pietre dure incisero Cosimo Sirles fiorentino, Carlo Costanzi napoletano, Francesco Chingi senese, di cui lodatissima una Venere in amatista di centottantuna libbra di peso. Massimiliano Soldati scultore fiorentino fece la storia metallica della regina Cristina in venti medaglie che doveano essere cento, altre per Luigi XIV, i magnifici candelabri di bronzo dorato nella Nunziata di Firenze, un ostensorio per San Lorenzo. Il ferrarese Antonio Contri inventò di trasportare le pitture dai muri su tela. Jacopo Strada di Mantova, che scrisse d’antiquaria e applicò le medaglie alla storia, fu il primo a trafficar in grande di capi d’arte; comprò i portafogli del Serlio a Lione, a Roma quei di Perin del Vaga, tra cui n’avea di Rafaello; a Mantova i cartoni di Giulio Romano, e li rivendette a gran vantaggio in Germania. Il mal gusto diffondeasi nel resto d’Europa, mercè dei nostri chiamati fuori, e delle accademie dai forestieri istituite a Roma per allevare i giovani. A Madrid il Sacchetti di Torino eresse il palazzo di Filippo V; Juvara messinese quel della Grazia; Bonavia lombardo quello d’Aranjuez. Rodrigo Velasquez di Siviglia, venuto in Italia col generale Ambrogio Spinola, guarda tutto, copia molto benchè già illustre in patria; fa stupire Roma coi ritratti, e commette un quadro a ciascun dei dodici pittori che allora tenevano il primato; i quali portati in Ispagna con altri e con modelli, fregiarono i regj palazzi. Il maggiore architetto inglese Jones avea studiato in Italia pittura, e si propose di imitare Palladio: Wren non seppe scegliere miglior modello che il San Pietro per edificare San Paolo di Londra. Su Michelangelo e sui Caracci fermaronsi gli architetti e pittori francesi: il Mazarino, come procacciavasi carrozze fatte a Roma, stipi fiorentini intarsiati d’avorio e di pietre, damaschi rossi di Milano, specchi di Venezia, biancheria e merletti di Genova, e scene, vestiarj, teatranti pe’ suoi splendidi banchetti, così traeva di qui artisti, come il pittore Grimaldi e il Romanelli che fece a Parigi la famosa volta. Nicola Poussin, amico del Marini e de’ nostri migliori, visse quasi sempre a Roma, e in mezzo a quegli sragionamenti meritò essere intitolato il filosofo della pittura. Il Callot si aggregò a una banda di zingari per vedere l’Italia. Anche Claudio di Lorena, venuto a Roma fanciullo, e quivi o a Napoli educato, poveretto da prima e servo del pittore Tassi, s’invaghì del paesaggio, scorreva le campagne osservando senza parlare nè disegnare, e riuscì il maggior paesista, con potenza serena e calma incantando senza esagerazione nè maniera. Di questa invece è tutto infetto Mignard, che imitò i Caracci e Pier da Cortona. Puget, che dissero il Michelangelo francese, lasciò molte opere a Genova. Altri francesi porsero saggio di tribune e stranezze nella cappella di Sant’Ignazio al Gesù di Roma. Luigi XIV, o piuttosto il ministro Colbert, consigliato da Perrault traduttore di Vitruvio, manda a Roma Desgodetz lautamente provvisto per copiarvi i migliori edifizj; i quali poi, incisi da Lepautre che avea studiato sui nostri cinquecentisti, vennero pubblicati con isplendida eleganza. Non mancò chi scrisse delle arti, piantando anche sistemi falsi e teoriche deliranti. Il Bibiena diede un _Corso d’architettura civile_ e la _Direzione ai giovani studenti_. Il gesuita Francesco Eschinardi romano, autore d’una _Architettura civile_ e d’una _militare_, espose molti proprj esperimenti e dissertazioni sull’urto, sulle comete, e sul taglio dell’istmo di Suez, la cui difficoltà riponeva non nella supposta diversità di livello fra i due mari, ma nelle sabbie accumulantisi. Teofilo Gallacini senese (1564-1641), medico poi matematico, scrisse degli errori degli architetti, importante lavoro rimasto inedito come le altre opere sue, finchè nel 1767 fu stampato a Venezia; esame di sicuro gusto. Gianpaolo Baglioni continuò inettamente il Vasari; Gian Pietro Bellori approva gli antichi, e ne trae gusto migliore; Filippo Baldinucci, la storia dell’arte divise in secoli e questi in decennali, sminuzzamento vizioso, come quello in iscuole, generalmente adottato; supplì alle molte omissioni del Vasari, e nel _Vocabolario del disegno_ fa troppo scorgere di non essere artista. Delle varie scuole si hanno storici parziali, Carlo Ridolfi della veneta, Vedriani della modenese, Soprani della genovese, Bongiovanni della napoletana, Passeri dei lavori in Roma; e tutti esaltano i contemporanei per modo che di tutti que’ mediocri ci restano memorie, mentre perirono quelle degl’insigni del medioevo. Cesare Malvasia nella _Félsina pittrice_ impugna accannitamente il Vasari; ma essendo trascorso a nominar Rafaello il _boccalajo d’Urbino_, per quanto se ne pentisse e cancellasse tutte le copie, gli si levò addosso un rumore che non è ancor cessato. CAPITOLO CLVII. Letteratura. Le cause medesime produceano il medesimo degradamento nella letteratura, toltasi anch’essa dall’azione quando non più la vita pubblica batteva sulla selce del genio per trarne faville, la lenta compressione riduceva a studj esanimi, cui unico merito era la manualità; abbandonando lo spontaneo, si cercò o una svigorita imitazione degli antichi, o novità anfanate, sagrificando il bello all’enfatico, l’elegante al pomposo, il vero alla ricerca dell’effetto, a colpi di forza dove l’inanità dell’interno contrasta colla pretensiva esteriorità. Nessun più sa tenere la penna di Machiavelli, non tesser periodi rotondi e corretti come il Casa, non ischerzar leggero e arguto come il Firenzuola o il Berni, non tessere strofe colla lucida agevolezza dell’Ariosto, non descrizioni ampie ed evidenti come Guicciardini: ai tipi d’eleganza surrogansi tipi di mal gusto; l’amore uccide la tenerezza cogli epigrammi; l’ispirazione si manifesta con contorsioni da ossesso. Eppure il Seicento può mostrare bei nomi, fantasie più originali, sentimenti più individuali e patriotici che l’età precedente: or perchè ricordando gli sciagurati che si sfrenarono al mal gusto oblieremo quelli che seppero traversarlo senza contaminarsene? Celio Magno (-1602), segretario del consiglio de’ Dieci e da alcuni chiamato il maggior petrarchesco, celebrò le vittorie de’ Veneziani sui Turchi, e volea stendere sei canzoni su ciascuna di queste parole, _Deus pro nobis natus mortuus resurrexit rediturus_. Fatta la prima, la lesse a una brigata di Milanesi, i quali la trovarono stupenda, e ne scrissero dissertazioni e lodi, col cui corredo si stampò nel 1597 quella «divina canzone, che si lascia di gran lunga addietro quante canzoni sono state mai scritte in questo proposito»: e veramente è delle migliori ed ultime produzioni del Cinquecento[183]. Vanto più durevole ottenne Torquato Tasso bergamasco (1544-95), nato a Sorrento da Bernardo, che conoscemmo gentiluomo e poeta (t. X, pag. 189). Dai primi anni ne attinse amore dei versi e subordinazione di cortigiano; e per quanto quegli il distornasse da una via che avea trovata irta di triboli, egli si prefisse di riuscire poeta. Che natura non ve lo spingesse prepotentemente il mostrò coll’andare tentando diversi generi, senza in uno acchetarsi, come chi opera non tanto pel bisogno di creare, quanto per riflessione sulle opere altrui; egli lirico, egli tragico, egli romanzesco, egli epico, egli cavalleresco, egli sacro e descrittivo. A diciott’anni mentr’era ancora studente, sull’orme paterne compose il _Rinaldo_, e si scusa di non cominciar ogni canto col prologo, di conservare unità d’azione anzichè interrompere il filo. A tali discolpe era ridotto! e davvero la gemebonda melanconia che già vi spira, dovea rimoverlo dalle ebbrezze di moda, e dai gavazzieri poemi cavallereschi: ma nobilmente invidiando alla gloria dell’Omero ferrarese, lo osservò soltanto dal suo debole; e poichè troppo era lontano da tanta ricchezza e padronanza di stile e di poesia, sperò poterlo superare mediante la regolarità che a quello mancava. Di Dante non parla Torquato che tardi[184], e ammirando il portoghese Camoens, prefisse di scegliere, come esso, un argomento moderno, e modellarlo sul tipo virgiliano. Che se Camoens avea cantato le glorie della sua nazione, egli, dopo molto ondeggiare, prescelse l’impresa comune della cristianità, la prima, anzi l’unica dove tutta Europa si unisse a combattere «d’Asia e di Libia il popol misto», per proteggere la severa civiltà della croce contro la voluttuosa barbarie dell’islam, per decidere se l’umanità dovea retrocedere fino alla schiavitù, al despotismo, alla poligamia, o lanciarsi all’eguaglianza ed al progresso. Quanta poesia sgorgava dalla descrizione della prima crociata! quante reminiscenze classiche e quante devote! quanto pittoresco ne’ costumi radunati di tutta Europa! quanta forza e varietà in que’ baroni, ciascun de’ quali formava storia da sè, e com’era re nel proprio castello, così operava indipendente e risoluto e non per cenno di principe, in un’impresa ove ciascuno volea mettere tutti i mezzi e il valor proprio, ma senza sottoporlo a comandi altrui. E quell’impresa, che riusciva a un fine più grandioso, ma diverso dal preveduto, non avea perduto opportunità ai giorni del Tasso, quando ancora i Turchi minacciavano, e contro questi la Chiesa pregava ogni giorno[185]. Un tale soggetto baleni ad un’intelligenza poetica, e ne sentirà l’impareggiabile elevatezza: eppure Torquato esitò fra questo ed altri di troppo inferiore dignità; e il suo peritarsi fra la prima e la seconda crociata sarebbe inesplicabile, se non si riflettesse che, secondo il modulo virgiliano, credeva necessaria l’unità del protagonista. Alla seconda crociata armaronsi i re, nessuno alla prima: onde il Tasso dovette falsarla essenzialmente, attribuendovi ciò che più le repugnava, vale a dire un capo a cui tutte le volontà si sottomettessero nell’intento di «liberare il gran sepolcro e ridurre gli erranti compagni sotto i santi segni». Com’è pio Enea, così pio dev’essere Goffredo; nè soltanto virtuoso come gli eroi di Bernardo Tasso, ma anche religioso. Gli amori formano il viluppo dell’Eneide, e così devono esser qui; e dopo che nei primi due canti ci spiegò innanzi la maestosa marcia di tutta Europa e le opposizioni preparate dall’Asia e dall’Africa, eccolo impicciolirsi nel rinterzato romanzo di Tancredi amato da Erminia e amante di Clorinda, e di Rinaldo vagheggiante Armida. Un «concilio degli Dei d’Averno» si risolve in mandare una fanciulla a sedurre qualche cavaliero. Un incanto della foresta che somministra il legname sospende l’impresa, finchè traverso all’Atlantico due messaggeri, non contraddistinti che dal nome, vanno a svellere dalla voluttà Rinaldo affinchè giunga di sì lontano a recidere una pianta. Allora tutto si ravvia prosperamente; Gerusalemme è presa; è sciolto il voto alla tomba di Cristo: ma la conciliazione d’Armida con Rinaldo è solo lasciata indovinare, è incerta la sorte d’Erminia. Questi amori, che riempiono due terzi del poema, atteggiano a mollezza un’impresa tutta vigoria; e quella regolarità la riduce simile a tante spedizioni, a tanti assedj, che la storia ricanta. Nulla intendendo dell’età feudale, il Tasso fallisce ad ogni convenienza di persone e di età; nè vigoroso quanto bastasse per uscire di sè, trasformarsi negli eroi che descrive, sentire com’essi, come i loro tempi, al soprannaturale del pensiero surroga quel dell’immaginazione; alle stregherie de’ suoi tempi toglie a prestanza un meraviglioso vulgare, mentre i Crociati nella loro concitazione vedeano Dio e santi dappertutto, e apparimenti di angeli nei fenomeni della natura; tutto riduce ad ordine, perchè ordine era la sua mente; a ragione in luogo di fantasia; a calcoli invece d’entusiasmo. Il soggetto lo porta a situazioni confacenti col suo sentire? allora il Tasso è veramente artista, come negli episodj d’Olindo e Sofronia, d’Erminia, d’Armida, tanto ben trovati quanto fuor di luogo; nè la poesia di verun paese ha situazione meglio immaginata che la morte di Clorinda. Ma prima d’ordire il suo poema, il Tasso avea scritto i _Discorsi sull’epopea_, studiato Aristotele, analizzati Omero e Virgilio; ogni poetica che uscisse, egli volea vederla, e forse furono queste che tanto gli tardarono di sentire il bisogno d’un senso profondo[186]: allora al difetto cercò supplire con un’allegoria; oscura superfluità, dove non propone al pensiero che la psicologia, scevera dalla storia e dalla metafisica, le idee separando dal loro principio e dall’applicazione. Camoens doveva insegnargli a far grandeggiare la propria nazione: ma benchè Tancredi e Boemondo gliene offerissero il destro, dell’Italia non fa cenno forse che in due versi. Quella soave melanconia stacca insignemente dal fare burlevole de’ suoi contemporanei, quanto l’aver preso il lato nobile e serio della cavalleria dove gli altri la trattarono da celia, pretendendo frenare le capresterie della cavalleresca coll’epopea classica, unire il Trissino e l’Ariosto, il raziocinio e l’immaginativa; coll’interesse sempre sostenuto, con ostacoli via via crescenti fin ad una catastrofe, alla quale non toglie curiosità l’essere già nel titolo annunziata; sicchè come arte, come romanzo, è stupendamente composto. Però a grandezza vera non sale mai; le occasioni poetiche lascia sfuggirsi. Per dipingere il paradiso traduce il _Sogno_ di Scipione, egli cristiano[187]; delle ambascerie, atti e parole copia da Tito Livio; Goffredo non sa riconfortar il campo se non colle frasi d’Enea; il viaggio traverso al Mediterraneo e all’Atlantico è ricalcato su quel d’Astolfo nell’Ariosto; dalla scienza cavalleresca dell’età sua stilla la descrizione dei duelli[188]; dai libri di retorica i compassati discorsi; da quei di morale scolastica le pompose sentenze del suo Buglione. Questo mostrasi capitano perfetto, ma troppo inaccessibile alle passioni; Tancredi, cavaliere compiuto, si smaschia in amori che nol portano ad altamente operare, ma a femminei lamenti; Rinaldo, bizzarro e passionato, trae unica impronta dal destino che il serba a uccidere Solimano, e divenir padre dei duchi estensi. Perocchè il Tasso pagò largo tributo al genio piacentiero dell’età sua, _spiegando le vele nel mar delle lodi_[189]; al gusto di quella profuse i concettini, di cui a gran torto il vollero inventore; nella grazia artifiziata del suo lavoro cercando le bellezze di tutti i predecessori, o le frantende, o esagerando le corrompe; le situazioni affettuose guasta colle arguzie e coll’eccesso. Eppure quest’opera, sebbene non popolana come l’_Iliade_, ma aristocratica e monarchica come l’_Eneide_, ogni Italiano lesse per la prima, la sa a mente, testè cantavasi sulla spiaggia di Mergellina e nelle gondole di Venezia; tanto sopra un popolo sovranamente musicale può l’armonia poetica! Ma quello che rende popolare il Tasso sono gli episodj; prova che sono sconnessi dal tutt’insieme, e proprj di qualsivoglia tempo; siccome quel tono di sentimento, quell’elegiaco, che egli non depone neppur nella voluttà. Anima buona, amorevole, gemebonda, senza la forza che fa reluttare ai mali e ringrandisce nelle patite ingiustizie; la sensibilità formò il suo merito e la sua espiazione; e il secol nostro, cui più non si confaceva la forma del suo poema, si accorò alla persona di lui ed ai misteriosi suoi sofferimenti. Nella Corte d’Alfonso II di Ferrara fu segno all’invidia de’ cortigiani e all’affetto della duchessa Eleonora. S’indispettì qualche volta della protezione; nella conoscenza del proprio merito, la diffidenza come un’idea fissa lo perseguitava; parendogli essere vilipeso dai valletti, contrariato ne’ suoi amori; Scipione Gonzaga tiene in sua casa convegni dove si disputa del merito delle opere di esso, ed egli dubita di burle; dubita di Orazio Ariosto che lo loda; dubita del conte Tassoni che a Modena lo distrae; dubita del cardinale Medici che gli esibisce ricovero a Firenze se gli Estensi lo abbandonassero; il servidorame ride delle sue bizzarrie; i cortigiani godono deprimere colla compassione quel che li sorpassa in ingegno; ed egli or piagnucola, ora stizzisce, tira coltellate, prorompe in parole ingiuriose al duca; questo gli proibisce di scrivere, ed egli parte per Mantova, per Torino; ben accolto, sta per accettare l’invito del granduca, ma pur torna a Ferrara, e continua le stranezze. Già all’inquisitore di Bologna erasi accusato di dubbj intorno all’Incarnazione, e quello avealo rimandato col _Va in pace_. Malato, gli risorsero que’ dubbj, e il duca gli consigliò di presentarsi al Sant’Uffizio, che ancora l’assicurò o d’innocenza o di perdono; il duca stesso accertollo di non aver nulla contro di lui; ma il Tasso avea trovato quell’assicurazione non essere in forma, non sufficiente l’esame degli inquisitori, e smarrivasi in sottigliezze, e dava a rider colle bizzarrie; sicchè la sua ragione parendo offuscata, Alfonso lo fece chiudere nell’ospedale di Sant’Anna. È uno dei temi più vulgari per declamare sulla tirannide dei mecenati e sui patimenti dell’uomo di genio; e persone di senno consumarono libri per accertare la causa di quella disgrazia, e per iscoprire l’arcano, di cui egli stesso mostravasi geloso allorchè scriveva: — Amico, non sai tu che Aristone giudicava niun vento essere più nojoso di quello che toglie altrui d’attorno la cappa? Or intendi che la prudenza ha per mantello il segreto». In fatti, sebbene tanto parlasse di sè, ci lascia incertissimi su molte sue condizioni e sulla causa di sue ambasce: ma convince ch’egli soffriva d’allucinazioni; da sè confessasi pazzo[190]; cerca guarire or consultando i medici migliori e il famoso Mercuriale[191], or usando rimedj taumaturgici, quali la manna di sant’Andrea; ma perchè lo scatolino arriva dissugellato, egli teme sia veleno, e lo ricusa. Soprattutto si duole della svanita memoria, e la meravigliosa sua lettera a Scipione Gonzaga, del 1579, non è d’un frenetico, ma neppure d’una mente sana. Gli sta fissa l’idea d’essere perseguitato, ma per quali accuse? In tale indagine passa in rassegna tutte quelle che mai possano essergli apposte, falli di gioventù, eresie, e la più vaga di tutte, quella di fellonia[192]. Poi rivolgendosi a Dio, si scagiona delle incredulità: — Non mi scuso io, o Signore, ma mi accuso che tutto dentro e di fuori lordo e infetto de’ vizj della carne e della caligine del mondo, andava pensando di te non altramente di quel che solessi talvolta pensare alle idee di Platone e agli atomi di Democrito... o ad altre siffatte cose di filosofi; le quali il più delle volte sono piuttosto fattura della loro immaginazione che opera delle tue mani, o di quelle della natura, tua ministra. Non è meraviglia dunque s’io ti conosceva solo come una certa cagione dell’universo, la quale, amata e desiderata, tira a sè tutte le cose; e ti conosceva come un principio eterno e immobile di tutti i movimenti, e come Signore che in universale provvede alla salute del mondo e di tutte le specie che da lui son contenute. Ma dubitava se tu avessi creato il mondo, o se _ab eterno_ egli da te dipendesse; se tu avessi dotato l’uomo d’anima immortale; se tu fossi disceso a vestirti d’umanità... Come poteva io credere fermamente ne’ sacramenti o nell’autorità del tuo pontefice, se dell’incarnazione del tuo figliuolo o dell’immortalità dell’anima era dubbio?... Pur m’incresceva il dubitarne, e volentieri l’intelletto avrei acchetato a credere quanto di te crede e pratica la santa Chiesa. Ma ciò non desiderava io, o Signore, per amore che a te portassi e alla tua infinita bontà, quanto per una certa servile temenza che aveva delle pene dell’inferno; e spesso mi sonavano orribilmente nell’immaginazione l’angeliche trombe del gran giorno de’ premj e delle pene, e ti vedeva seder sopra le nubi, e udiva dirti parole piene di spavento, _Andate, maledetti, nel fuoco eterno_. E questo pensiero era in me sì forte, che qualche volta era costretto parteciparlo con alcun mio amico o conoscente...; e vinto da questo timore, mi confessava e mi comunicava nei tempi e col modo che comanda la tua Chiesa romana: e se alcuna volta mi pareva d’aver tralasciato alcun peccato per negligenza o per vergogna, replicava la confessione, e molte fiate la faceva generale. Nel manifestare nondimeno i miei dubbj al confessore, non li manifestava con tanta forza nelle parole, con quanta mi si facevano sentire nell’animo, perciocchè alcune volte era vicino al non credere... Ma pure mi consolava credendo che tu dovessi perdonare anche a coloro che non avessero in te creduto, purchè la loro incredulità non da ostinazione e malignità fosse fomentata; i quali vizj tu sai, o Signore, che da me erano e sono lontanissimi. Perciocchè tu sai che sempre desiderai l’esaltazione della tua fede con affetto incredibile, e desiderai con fervore piuttosto mondano che spirituale, grandissimo nondimeno, che la sede della tua fede e del pontificato in Roma sin alla fin de’ secoli si conservasse; e sai che il nome di luterano e d’eretico era da me come cosa pestifera aborrito e abominato, sebben di coloro che per ragione, com’essi dicevano, di Stato vacillavano nella tua fede e all’intera incredulità erano assai vicini, non ischivai alcuna fiata la domestichissima conversazione». Così penò sette anni (1579-86), supplicando or l’uno or l’altro per la sua liberazione, e intanto altri pubblicò la sua _Gerusalemme_, non ancor bene limata; e tosto volò per Italia coll’esito più desiderabile, cioè con molti strapazzi e moltissima ammirazione. Torquato scese a difendersi, o piuttosto a confessarsi in colpa, giacchè insiste continuo sul non aver potuto perfezionare il poema suo; anzi lo rifuse nella _Gerusalemme conquistata_ (1593), opera più fedele alla storia, più castigata di stile e d’invenzioni, ma che la posterità ripudiò, benchè egli la preferisse all’altra, di cui dicea vergognarsi[193]. Religioso sempre, e più negli ultimi anni, tentò anche un poema biblico, le _Sette giornate del mondo creato_, stucchevole com’è sempre il descrivere senz’azione, quand’anche fosser minori le controversie e più vive le pitture, e in quella fredda enumerazione non lasciasse sentire la fatica d’un poeta, anzichè la voce de’ cieli che narrano la gloria di Dio. Del suo _Aminta_ già parlammo (t. X, p. 217). La tragedia del _Torrismondo_, amore incestuoso di fratello, tiene degl’intrecci romanzeschi che allora piacevano, e degli orrori che oggi ripiaciono. I sonetti e le canzoni di lui diconsi i migliori dopo il Petrarca; ma niun li legge, e pochi le prose, dettate senza pretensione, ma senza forza, perocchè i difetti del Tasso sono piuttosto negativi. Del resto il farne il tipo dell’ingiustizia critica è esagerazione. In sei mesi comparvero sei stampe del _Goffredo_; diciotto in cinque anni; ed una in Francia, dove era veneratissimo, e dove Balzac, dispensiero della gloria, diceva che «Virgilio è causa che il Tasso non sia il primo, e il Tasso è causa che Virgilio non sia solo», benchè il rimproveri perchè mescola il sacro al gentilesco, e come il suo Ismeno, «sovente in uso empio e profano Confonde le due leggi a sè mal note». Malherbe non saziavasi d’ammirare l’_Aminta_, e avrebbe dato (dice Ménage) tutto un mondo per esserne l’autore[194]. In Italia il Tasso ebbe per lo meno tanti difensori quanti aggressori; e ruppero lancie per lui Giulio Gustavini, l’Iseo, Nicolò degli Oddi, Malatesta Porta, Alessandro Tassoni, Giambattista Marini, Camillo Pellegrini, Giulio Ottonelli, Paolo Beni. Che se il Salviati, anche col nome di Ormanozzo Rigoli, Orlando Pescetti, Giovanni Talentoni, Orazio Ariosto, Lodovico del Pellegrino, Francesco Patrizio, Gian de’ Bardi, Orazio Lombardelli il combattevano, serbavangli però altissimo seggio, giacchè disputavano qual fosse superiore esso o l’Ariosto. Ma l’Ariosto è il poeta del libero slancio, della fantasia apparentemente sbrigliata; rinterza quattro o cinque avvenimenti contemporanei, e tutto si fa perdonare colla lucida eleganza e l’animata soavità. Il Tasso non sa ribellarsi nè alla Crusca nè ad Aristotele nè all’opinione, e si sottomette alle credenze, agli usi, ai precetti. L’Ariosto non bada nè ad Omero nè a Virgilio, ma al proprio capriccio; si ride del soggetto, degli uditori, di se stesso; maneggia la lingua da padrone e padrone ricchissimo. Il Tasso s’assoggetta al desiderio de’ dotti contemporanei, che voleano ripristinare la grammatica e la politica antica, non dà un passo se nol giustifichi cogli esempj, non un viluppo arrischia se non serva a tardare o svolgere l’azione principale; e il suo riprodurre i Classici non consiste in reminiscenze, come avviene a Dante e all’Ariosto, ma in imitazioni fino al plagio. Canta armi e cavalieri, ma rimovendo l’ironia per ridursi sentimentale e galante; cerca lo splendore più che l’originalità e l’avventuroso; poeta della grazia artifiziata, della forma plastica inalterabile, povero nella lingua, zoppo nell’ottava, dando ai Secentisti l’esempio del descriver per descrivere e dell’iperbole. L’Ariosto esprime la reviviscenza pagana al tempo de’ Medici, con quell’innamoramento della forma esteriore, della vaghezza corporea, e la foga de’ sensi e della vita, e il barbaglio delle fantasie: il Tasso, sempre in tono di convinzione, sebbene profitti della macchina cavalleresca coi duelli e colle magìe, indica il ritorno dello spirito cristiano nella devota impressione, nella religiosità di quei cavalieri, nelle processioni, nella compunzione, nella costante dignità di eroi, non affascinati dalla verga romanzesca, e ribattezzati nel lavacro di Trento. Se non che da fantasia e memoria lascia usurpare troppo spesso il luogo della fede reale; i prodigi vacillano fra il miracolo e la spiegazion naturale; Musulmani e Cristiani adoprano il linguaggio stesso, amano allo stesso modo; il continuo imitare elide l’impressione d’un’epica originalità; tanta mescolanza di falso e di fittizio, tanta malaticcia dolcezza rivelano il languore che invadeva la letteratura come la nazione, riducendola a falsa retorica, a poesia dotta, come quando è perduto il senso della poesia creatrice. Ma se la fantasia più vivace, le invenzioni più abbaglianti, una più vasta concezione, una maggior libertà ci fanno ammirar altri, nel Tasso amiamo quella mesta armonia, quelle voci di cuore, quella simmetria, quel converger tutte le forze cristiane a un fine grande, al quale mettono capo le molteplici avventure. E que’ sentimenti son ancora d’oggi, più che non le cupe architetture di Dante o il caleidoscopio dell’Ariosto: la gran quistione del recuperar la terra ove nacque la civiltà e fu compita la redenzione, non è per anco risolta; laonde le simpatie sono tuttavia assicurate a Torquato, nel quale amiam pure i difetti e le piccolezze, perchè il gusto di scoprirle ci toglie la mortificazione d’un confronto trascendente. Ma dei difetti del Tasso è colpa in parte l’indole di lui, uno di quelli che pajono predestinati a soffrire. Bisognoso d’uscir da se stesso, di piacere alle donne, alla Corte, ispirazione principale de’ suoi canti; anche dopo scarcerato, e quantunque avesse scritto «non convenire per le ingiustizie degli uomini i buoni ingegni avvilirsi, ma doversi separare dal vulgo con l’altezza dell’animo e con gli scritti, ne’ quali ha poca forza la fortuna, nessuna la potenza de’ grandi», non si sentì forza di abbandonare i principi[195] e raccogliersi nella dignità d’uomo grande. Se si sentisse stanco della continua fatica di piacere, trovavasi senza affetti domestici, senza una patria, senza una dimora fissa; e andava vagando, ricevuto a onore dappertutto; i vescovi si pregiavano di ospitarlo, le città ne registravano sui loro fasti il passaggio[196]; Genova l’invitò a legger filosofia «con la provvigione di quattrocento scudi d’oro fermi e altrettanti straordinarj»: eppure sempre pareagli esser infelice, lamentavasi de’ libraj indiscreti[197], per povertà non potea soddisfare innocentissime voglie, e dovea vendere o impegnare i doni[198]. Continuò querele e preghiere finchè il papa lo chiamò a ricevere in Campidoglio la corona che aveva onorato Petrarca. Venne, ma stremo di salute, benchè ancora in buona età; e non nei palagi degli Aldobrandini, ma si raccolse nel convento di Sant’Onofrio, su quell’altura, così opportuna a contemplare la città delle glorie cadute; e sentendosi finire, scriveva: — Il mondo ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico, quand’io pensava che quella gloria che, malgrado di chi non vuole, avrà questo secolo da’ miei scritti, non fosse per lasciarmi in alcun modo senza guiderdone. Mi son fatto condurre in questo monastero... quasi per cominciar da questo luogo eminente, e colla conversazione di questi buoni padri, la mia conversazione in cielo». E di cinquantun anno morì come un santo, e l’alloro non potè fregiare che la sua bara. Muori in pace, anima gemebonda, e lascia la scena al gran ciarlatano, che alla simmetria virgiliana e petrarchesca surroghi la bizzarria mescolata di audace e di pedantesco. Giambattista Marini da Napoli (1569-1625), toltosi al fôro per seguire il genio poetico, cioè le volubilità del suo carattere, come negli atti così nello stile imitando gli Spagnuoli, voleva il gonfio, il pomposo, il madrigalesco; ponea scopo della poesia l’eccitare stupore[199]; e gli scambietti ginnastici fra gente che si storpiava nella purezza parvero non solo perdonabili ma lodevoli. Tutto prosopopee e lambiccature, le sue intitola _Poesie amorose, lugubri, marittime, polifemiche, risate, fischiate, baci, lacrime, devozioni_... Che ragionevolezza di sentimenti o di frase? che politica? che coraggio? che morale? Allegro cortigiano, non pensa a riformare nè l’arte nè l’opinione; veste al suo ingegno la livrea del tempo, e navigando a fior d’acqua sulla corrente, qualunque soggetto trova buono a’ sonori suoi nulla; mai non osservando il lato serio della vita, indulge a una voluttà sistematica, senza trasporti meretricj, ma senza pudore; soprattutto sa mettere in iscena se stesso, segnalarsi per amicizie e nimicizie, e così scrocca la gloria, com’altri scroccavano un impiego. Chi va curioso sulle velleità della moda, indagherà il perchè l’amore del gonfio e del vanitoso sì nella letteratura, sì nelle arti, divenisse allora epidemico. La Germania anfanò nella scuola del Lohenstein; l’Inghilterra nell’eufuismo; la Spagna principalmente nello stile colto del Gongora. Centro de’ begli spiriti parigini erano Giulia Savelli marchesa Pisani, e Caterina di Vivonne nata a Roma (1600) da un Pisani, poi divenuta marchesa di Rambouillet, che nel loro palazzo, costruito e disposto all’italiana, introdussero le tradizioni del natìo paese sul vivere elegante; e adottato un nome e un linguaggio convenzionale, pretensivo, lambiccato, si fecero legislatrici d’un gusto frivolmente colto, pedantescamente arguto. Se v’aggiungiamo l’azione di Maria de’ Medici regina, circondata di cortigiani fiorentini, è facile comprendere quanto dovesse acquistarvi predominio l’italiano. Giusta i concetti d’allora, chiamavasi Plejade l’eletta degl’ingegni francesi, e questi s’affaticavano dietro ai nostri classici non meno che agli antichi: di Ronsard dicevasi che pindarizzava e petrarcheggiava; di Voiture abbiamo versi italiani; di cose e frasi italiane ribocca Balzac, l’autore allora più rinomato; citazioni di versi italiani frequentano in Racine e Boileau. Ménage, corifeo della consorteria italianizzante, commentò l’_Aminta_ e le rime di monsignor Della Casa; soccorso dal Redi e dal Dati, cercò della lingua nostra etimologie, stravaganti le più e ridicole, tutte senza sistema; ed egli e Chapelain, l’epico aspettato di quell’età, inviavano alla nostra Crusca l’interpretazione di qualche verso del Petrarca. L’abate Regnier Desmarets italianizzò Anacreonte, e a tacer altre opere, fece una canzone che i sopracciò credettero del Petrarca, e gli meritò posto nella Crusca; e il Redi, colla condiscendenza d’amico, asseriva che «scrive prose e versi con tanta proprietà, purità e finezza, che qualsiasi più oculatissimo critico non potrà mai credere ch’egli non sia nato e nutrito nel cuore della Toscana». Reggendo Maria de’ Medici, nell’intervallo tra la potenza del Concini accademico della Crusca e quella del Richelieu, spiegossi colà il furore de’ romanzi, a capo di tutti camminando l’_Astrea_ di D’Urfé, il quale era molto vissuto in Savoja praticandovi san Francesco di Sales, e diceva: — Io ha fatto il manuale de’ cortigiani, come quel santo il manuale de’ devoti». Dietro a lui un armento d’imitatori ebbe rinomanza effimera, ma estesa efficacia sulla società; ed abbandonato il vero nell’invenzione, facilmente se ne staccarono anche nell’espressione, tutta concetti e smancerie. Per trovare il peggior secentismo basterebbe assaggiare un de’ migliori, Gian Pietro Camus vescovo di Belley, che alla pietà credette servire non meno coll’ardentissimo zelo in convertire protestanti che col pubblicare ben cinquanta romanzi, quali le _Memorie di Daria_, dove si vede l’idea d’una vita devota e d’una morte religiosa, l’_Agathonfilo_ o i _Martiri siciliani_, dove si scopre l’arte di ben amare per antidoto alle affezioni disoneste, gli _Spettacoli d’orrore_, l’_Anfiteatro insanguinato_, il _Pentagono istorico_ che mostra in cinque facciate altrettanti accidenti segnalati[200]. Che dirò del Bartas, il quale chiama i venti _postiglioni di Eolo_, il sole _duca delle candele_, i monti della sua Guascogna _infarinati d’una neve eterna_? In questa Francia era venuto il Tasso, e n’aveva osservato con finezza e dipinto con verità i costumi. Vi capitò anche il Marini (1615), e non comprese nulla di quel grand’intrico di furberia e menzogna che fu la Fronda, nè di quella società ove tutti i vizj ammantavansi di tutte le grazie; ove le sollevazioni erano un intermezzo delle galanterie; ove, tra il profondo disordine recato dalla mancanza d’istituzioni, i Francesi apparivano insolenti fin nell’umiliarsi, rispettosi fin nella ribellione. Il Marini non vi riconobbe che materia di ciarlatanesche gofferie: «Mi son dato al linguaggio francioso, del qual per altro fin qui non ho imparato che _huy_ e _neni_; ma neanche questo mi par poco, poichè quanto si può dire al mondo consiste tutto in affermativa o negativa. Circa al paese che dirvi? egli è un mondo; un mondo, dico, non tanto per la grandezza, per la gente e per la varietà, quanto perchè egli è mirabile per le sue stravaganze: le stravaganze fanno bello il mondo; perciocchè sendo composto di contrarj, questa contrarietà costituisce una lega che lo mantiene: nè più nè meno la Francia è tutta piena di ripugnanze e di sproporzioni, le quali però formano una discordia concorde che la conservano; costumi bizzarri, furie terribili, mutazioni continue, guerre civili perpetue, disordini senza regola, estremi senza mezzo, scompigli, garbugli, disconcerti e confusioni; cose insomma che la dovrebbero distruggere, per miracolo la tengono in piedi; un mondo veramente, anzi un mondaccio più stravagante del mondo istesso. «Incominciate prima dalla maniera del vivere: ogni cosa va alla rovescia, e le donne son uomini, intendetemi sanamente; voglio dire che quelle hanno cura del governo della casa, e questi si usurpano tutti i lor ricami e tutte le loro pompe. Le dame studiano la pallidezza, e quasi tutte pajono quotidiane; e per essere tenute più belle sogliono mettersi degl’impiastri e dei bullettini sul viso; si spruzzan le chiome di certa polvere di Zanni che le fa diventar canute, talchè da principio io stimava che tutte fossero vecchie. «Veniamo al vestire. Usano portar attorno certi cerchi di botte a guisa di pergole, che si chiamano vertugadi; questo quanto alle donne: gli uomini in sulle freddure maggiori vanno in camiscia; ma vi ha un’altra stravaganza più bella, che alcuni sotto la camiscia portano il farsetto; guardate che nuova foggia d’ipocrisia cortigiana! Portano la schiena aperta d’alto a basso, appunto come le tinche che si spaccano per le spalle; i manichini son più lunghi delle maniche, onde rovesciandoli sulle braccia, par che la camiscia venga a ricoprirne il giubbone; hanno per costume di andare sempre stivalati e speronati: e questa è pure una delle stravaganze notabili; perchè tal ci è che non ebbe mai cavallo in sua stalla, nè cavalcò in sua vita, e tuttavia va in arnese di cavallerizzo: nè per altra cagione penso io che costoro sien chiamati _galli_ se non perchè appunto, come tanti galletti, hanno a tutte l’ore gli sproni ai piedi: in quanto a me, piuttosto che _galli_ dovrebbero esser detti _pappagalli_; poichè, sebben la maggior parte, quanto alla cappa ed alle calze, vestano di scarlatto, il resto è di più colori che non sono le tavolozze dei dipintori. Pennacchiere lunghe come code di volpi, e sopra la testa tengono un’altra testa posticcia con capegli contraffatti, e si chiama _parrucca_... «Anch’io, per non uscir dell’usanza, sono stato costretto a pigliare i medesimi abiti: oh Dio, se voi mi vedeste impacciato tra queste spoglie da mammalucco, so che vi darei da ridere per un pezzo. In primis la punta della pancia del mio giubbone confina con le natiche; il diametro della larghezza e della profondità delle mie brache nol saprebbe pigliar Euclide; fortificate poi di stringhe a quattro doppj: due pezze intere di zendado sono andate a farmi un pajo di legami che mi vanno sbattocchiando pendoloni fino a mezza gamba colla musica del _tif taf_: l’inventore di questi collari ebbe più sottile lo ingegno di colui che fece il pertugio all’ago; son edificati con architettura dorica, ed hanno il suo controforte e ’l rivellino intorno, giusti, tesi, tirati a livello; ma bisogna far conto di aver la testa entro un bacino di majolica, e di tener sempre il collo incollato come se fosse di stucco. Calzo certe scarpe che pajono quelle di Enea, secondo che io lo vidi dipinto nelle figure d’un mio Virgilio vecchio; nè per farle entrare bisogna molto affaticarsi a sbattere il piede, poichè hanno d’ambedue i lati l’apertura sì sbrandellata che mi convien quasi trascinare gli scarpellini per terra: per fettuccie hanno su certi rosoni, o vogliam dire cavoli-cappucci, che mi fanno i piedi pellicciuti come i piccioni casarecci; sono scarpe e zoccoli insieme insieme, e le suole hanno uno scannetto sotto il tallone, per lo quale potrebbono pretendere dell’Altezza. Paro poi Cibele colla testa turrita, perchè porto un cappellaccio lionbrunesco che farebbe ombra a Marocco, più aguzzo dell’aguglia di San Maguto: infine tutte le cose hanno qui dello appuntato, i capelli, i giubboni, le scarpe, le barbe, i cervelli, infino i tetti delle case. Si possono immaginare stravaganze maggiori? vanno i cavalieri la notte e il giorno _permenandosi_ (così si dice qui andar a spasso), e per ogni mosca che passa, le disfide e i duelli volano... Le cerimonie ordinarie tra gli amici son tante, e i complimenti son tali, che per arrivare a saper fare una riverenza bisogna andare alla scuola delle danze ad imparar le capriole, perchè ci va un balletto prima che s’incominci a parlare. «Le signore non hanno scrupolo di lasciarsi baciare in pubblico, e si tratta con tanta libertà, che ogni pastore può dire comodamente alla sua ninfa il fatto suo: per tutto il resto non si vede che giuochi, conviti, festini, e con balletti e con banchetti continui si fa gozzoviglia... L’acqua si vende; e gli speziali tengono bottega di castagne, di capperi, di formaggi, di caviaro. Di frutti, questo so, ce n’è più dovizia che di creanza in tinello: si fa gran guasto di vino, e per tutti i cantoni ad ogni momento si vede trafficar la bottiglia. La nobiltà è splendida, ma la plebe è tinta in berrettino: bisogna soprattutto guardarsi dalle furie de’ signori lacchè, creature anch’esse stravagantissime e insolenti di sette cotte: io ho opinione che costoro sono una spezie di gente differente dagli altri uomini, verbigrazia come i satiri o i fauni... «Dove lascio la seccaggine dei pitocchi? Oh che zanzare fastidiose! a discacciarle vi vuol altro che la rosta o l’acqua bollita! e vi è tanti di questi furfantoni, e accattano per le chiese e per le strade con tanta importunità, che sono insopportabili. Tutto questo è nulla rispetto alle stravaganze del clima, che conformandosi all’umore degli abitanti, non ha giammai fermezza e stabilità. Il sole va sempre in maschera, per imitar forse le damigelle che costumano anch’esse di andar mascherate. Quando piove è il miglior tempo che faccia, perchè allora si lavano le strade; in altri tempi la broda e la mostarda vi baciano le mani, ed è un diavol di mota più attaccaticcia e tenace che non è il male de’ suoi bordelli. «Volete voi altro? Infino il parlare è pieno di stravaganze; l’oro si appella _argento_, far colazione si dice _digiunare_; le città son dette _ville_, i medici _medicini_, le meretrici _ganze_, i ruffiani _maccheroni_, e il brodo _buglione_, come se fosse della schiatta di Goffredo; un _buso_ significa un pezzo di legno; aver una _botta_ in sulla gamba vuol dire uno stivale»[201]. La futilità non potrà mai arrivare alla grandezza: eppure il Marini trova fortuna in Francia; la società Rambouillet lo corteggia, ed egli sa cattivarsela, e formare scuola di galanti voluttà; canta in seicento versi «lo stupore delle bellezze corporali della regina», e «delle chiome sottil la massa bionda», e «il naso, muro di confine fra due prati di candid’ostro e di purpurea neve», e la «leggerissima foresta» del labbro superiore, e le pupille «dov’è scritto in bruno _Il Sole è qui_», e il seno «valle di giglio ove passeggia aprile»[202]. Mentre il Tasso vi era rimasto e partito col medesimo abito, dovè farsi prestare uno scudo, e gli mancava di che comprar un popone, Maria assegna al Marini duemila scudi, e ferma la carrozza quando lo scontra per via; il Concini gli concede d’andar a farsi pagare cinquecento scudi d’oro, ed egli va e ne domanda mille; e perchè il ministro gli dice: — Diavolo, siete ben napoletano!» egli risponde: — Eccellenza, è una fortuna che non ho inteso tremila; così poco capisco del vostro francese». Quando tornò a Napoli (1624), i lazzaroni furongli incontro ballonzando e spargendo rose; i gentiluomini a cavallo, le signore ai balconi, e s’una bandiera leggevansi applausi al Marini, «mare d’incomparabile dottrina, spirito delle cetre, scopo delle penne, materia degl’inchiostri, facondissimo, fecondissimo, felice, fenice, decoro dell’alloro, degli oziosi cigni principe emeritissimo». Carlo Emanuele I di Savoja, che prima avealo fatto arrestare supponendosi ingiuriato nella _Cuccagna_, dappoi lo protesse, e gli suggerì un’epopea sugli amori di _Adone e Venere_. Addio dunque ogni moralità, ogni sentimento generoso; addio anche l’interesse, che non può legarci al duolo o ai gaudj d’esseri soprannaturali, nè a situazioni che non ci ritornano sovra noi stessi; tutto converrà sostenere sull’ingegno e abbandonando l’istintiva spontaneità, immolar il bello al magnifico, la purezza al barbaglio. E il Marini ne fece un poema più lungo del _Furioso_, cioè di quarantacinquemila versi, ove ogni canto forma quadro da sè, con titolo distinto, come il _Palagio d’Amore_, la _Sorpresa d’Amore_, la _Tragedia_, il _Giardino_. Coloritore fluido, armonico, dovizioso, con versi agevoli, cadenze melodiose, frasi volubili, arte di esprimer le cose più ribelli; pure non una forma nuova creò, non un suo verso rimase nel discorso. Quell’orditura gracilissima e monotona è obbligato riempiere con succedentisi descrizioni, fatte per descrivere, e in un labirinto d’affetti, di voluttà, d’immagini, di pitture, moltiplicar le facili particolarità a capriccio e senza scelta nè castigatezza; centodieci strofe consumando a descrivere una partita di scacchi fra Venere e Mercurio, e riponendo il merito nel litigar colle parole per trovarvi contrasti e giocherelli. Appena il pubblicava di cinquantaquattro anni, l’_Adone_ è levato a cielo; Carlo Emanuele l’orna cavaliero; tutti sono affascinati da quella pittura voluttuosa, tutti adorano costui che avea saputo accoppiare il tipo italiano collo spagnuolo, l’armonia musicale colle sparate: — Nella più pura parte dell’anima mia sta viva opinione che voi siate il maggior poeta di quanti ne nascessero tra Toscani, tra Latini, o tra Greci, o tra gli Egizj, o tra i Caldei, o tra gli Ebrei», dicevagli l’Achillini, che doveva aver letto i poeti egizj e caldei, e che a vicenda poeta anch’egli de’ più strampalati, era messo in cielo, ebbe dall’Università di Bologna un’iscrizione come _Musageti omniscio_, e da Luigi XIII il regalo di quattordicimila scudi per una canzone ove diceva che _A’ bronzi suoi serve di palla il mondo_, e pel sonetto che comincia _Sudate, o fuochi, a preparar metalli_. Dove vuolsi riflettere che prima dell’irruzione dei giornali, scarsissima diffondeasi la fama, pensando gli autori a meritare più che a farsi proclamare, nè essendovi chi per professione trafficasse di lodi e vituperi. Cristoforo Colombo non trovasi nominato da contemporanei che in una lettera del dicembre 1493 del nostro Pietro Martire d’Angera; e nel 1520 persone spagnuole ignoravano se ancora vivesse. Ecco perchè venivano accarezzati quei che alzavano la voce, come vedemmo dell’Aretino e simile schiuma, come ora fu del Leti, del Marini, di cotesti spaccamondo della letteratura, i quali secondavano l’andazzo manufatturando la propria gloria con un branco a sè devoto, blandendo i bassi istinti, celebrando da sè i proprj trionfi, volendo primeggiare qualunque ne fosse la via, e durando così una vita acclamata; — che importa se finirà tutta coll’esequie? Agli applausi però corrispondevano le contumelie; che se il Tasso ne piagnucolava, altri rimorsicavano; e in chiassose baruffe si scanagliarono il padre Noris col padre Macedo, il Mongelia col Magliabechi, il Vigliano con Alessandro Marchetti, il Borelli con molti; il Sergardi vien sino ai pugni col Gravina; alle capiglie fra il Tassoni, il Brusantini, l’Aromatari a proposito d’Aristotele e del Petrarca, intervennero processi e imprigionamenti; svergognatissime contumelie furono avventate al cardinale Pallavicino; Geminiano Montanari filosofo modenese clamorosi litigi sostenne con Donato Rossetti a proposito della capillarità, e molte stoccate diede e ricevette[203]. Avendo il Marini, in un sonetto sulle fatiche d’Ercole, confuso il leon nemeo coll’idra di Lerna, gliene fecero colpa quasi d’un dogma fallito, principalmente Gaspare Mùrtola genovese, segretario di Carlo Emanuele e autore del _Mondo creato_; fioccarono epigrammi, sonetti, libelli: e _Murtoleide_ e _Marineide_ e sconcezze e infamie; il Mùrtola sparò una schioppettata all’emulo; e andava al patibolo se il Marini non avesse intercesso: ma il Mùrtola, cui pesava il benefizio, lo denunziò d’avere sparlato del duca. Anche Tommaso Stigliani della Basilicata, nel _Mondo nuovo_, sfoggio di meravigliosi capricci, sotto il simbolo dell’_uom marino_ malmenò il glorioso, che lo ripagò con sonetti intitolati le _Smorfie_ e con lettere, poi nell’_Adone_, sicchè quegli, spaventato d’un’immortalità di vituperj, si umiliò; ma come l’emulo morì, egli caninamente addentò l’_Adone_ nell’_Occhiale_, ove non trovi pur una buona critica a chi tante ne meritava. Tutto il mondo s’indignò di costui, che osava tirar pietre contro l’altare; Angelico Aprosio di Ventimiglia avventogli l’_Occhiale stritolato_ e il _Vaglio_[204]; Stigliani gli ribattè il _Molino_; Aprosio rimbalzò il _Buratto_. Ma nè ingiurie nè lodi salvarono il Marini dal meritato giudizio, ed egli restò ai posteri come il tipo del gusto dei Secentisti, i quali, invece di opporsi alla letteratura spagnuola almeno per ira contro i dominanti, prosatori e poeti s’anfanarono dietro a costui nel volere per calcolo l’originalità, ma cercandola non nel sentimento e nel vero, ma nelle forme e nelle parole, donde nasce la maniera; e rimbombo di voci oziose in luogo di pensieri e di sentimenti, e insistente gonfiezza, e profusione del superlativo. Chè di tutte le corruzioni la più seduttrice è il pensiero ricercato; e, preso quel gusto, difficilissimo riesce il divezzarsene. A Giambattista delle Grottaglie presso Brindisi, amico de’ migliori d’allora, applaudito per le sue _Poesie meliche_ e più per gli _Epicedj_ tutti turgidezza e traslati arditissimi, alcuni suggerivano di tenersi al Petrarca; ma egli rispondeva: — Non voglio murar sul vecchio, ma fabbricare a mio talento lo stile; che sia di me solo: che ci sarebbe di nuovo se tutti imitassero il Petrarca? e se questi fosse vissuto al nostro tempo, avrebbe mutato modo per ottenere applausi e gloria appresso gli eruditi». La nostra letteratura nasceva nel Trecento, ma da una decrepita, onde alle inesperienze infantili univa i trastulli di rimbambita. Niuna meraviglia dunque se già allora troviamo lo stile a contrasti e l’antitesi; fin nel forbitissimo Petrarca possono indicarsi cotali lambiccature or di senso or di parole. Gl’imitatori pretesero farle passare per bellezze; tanto più che, moltiplicando versi sopra affetti non sentiti, e restringendosi a studiar le parole, doveano supplire con artifizj di testa alla tepidezza del cuore. Nel Cinquecento ne ricorre traccia anche ne’ migliori; ne abbonda il Tasso; ma coi Marinisti l’antitesi non fu più un mezzo, bensì il fine; non un ornamento, bensì la sostanza. Geografia, storia, l’universo non si esaminarono più che per bottinarvi metafore, guardando all’appariscenza dell’immagine non alla proprietà e finezza; niuna cosa dicendo direttamente, ma solo in relazione o contrapposizione di altre o da’ suoi effetti; accostando confusamente due termini di paragone, di cui coglieansi relazioni o dissomiglianze estrinseche e appariscenti; assumendo una voce o un modo in senso metaforico, poi recandone l’azione a senso reale; e così di frasi idropiche infarcendo l’etisia del soggetto, battendo di forza l’incudine sinchè s’infocasse. Aborrita dunque la naturalezza, neglettissima la lingua, unica moda fu l’ingegnoso; e i magnati dello stile e della metafora, al par di quelli che andavano pel mondo, ostentavano oro sull’abito, e non aveano camicia; scambiavano la maniera per grazia, il gonfio per sublime, l’antitesi per eloquenza, i giochetti per leggiadria; barcollanti lunaticamente fra insipida affettazione e trivialità, volendo fuggire il monotono mediante il bizzarro, talento reputavano l’accoppiare idee disparatissime; e poichè la vulgarità si accorda benissimo colla gonfiezza, più non v’ebbe immagine, per isconcia, per frivola, che non si addobbasse di metafore: le stelle sono _narcisi del cielo_, sono _lucciole eterne_, mentre le lucciole risolvonsi in vivi moccoli, in incarnate candele; come il sole è un _boja che taglia colla scure dei raggi il collo all’ombre_; l’Etna nevato, l’_arciprete dei monti che in cotta bianca manda incensi al cielo_: per Ciro di Pers i calcoli sono i marmi che gli nascono nelle viscere per formargli la sepoltura; pel Marini gli sputi della sua bella sono _spume di latte, fiocchi di neve_; gl’insetti del capo della sua son per un altro _cavalieri d’argento in campo d’oro_; un terzo paragona le anime ai cavalli, cui, finita la corsa, è serbata in cielo _biada d’eternità, stalla di stelle_. Vi davano l’intonatura le scuole e le accademie, dove si proponeano argomenti speciosi, paradossali, più spesso insulsi: «che il vizio e la virtù non possono celarsi, — se sia meglio ad una vecchia l’essere in gioventù stata bella o deforme»; ed orazioni sopra soggetti fittizj, finte ambasciate, accuse e difese di delitti immaginarj e perciò stravaganti, e sostenere il pro e il contro, e sempre battersi i fianchi per fare stupire con iscambietti d’ingegno. Questo dovea scintillare nelle raccolte fin dal titolo, _I ruscelletti di Parnaso, I fuggilozio, L’eclissi della luna ottomana_: Carlo Pietrasanta milanese fece gli _Aborti di Clio_; Guasco Annibale una Tela cangiante in madrigali; Marco Boschini veneziano scrisse in quartine _La carta del navegar pittoresco... comparti in oto venti, con i quali la nave venetiana vien conduta in l’alto mar de la pitura come assoluta dominante de quello, a confusion di chi non intende el bossolo de la calamita_; Gianfrancesco Bonomi bolognese, poeta cesareo, pubblicò _Virgulti di lauro, distinti in foglie, rami, bacche, sughi, corteccie e radici_; Alessandro Adimari fiorentino, oltre raccolte col nome di altre muse, pubblicò _La Polinnia, ovvero cinquanta sonetti fondati sopra sentenze di Cornelio Tacito, con argomento a ciascuna di esse, che uniti insieme formano un breve discorso politico-morale_. Abbiamo la _Maschera jatropolitica aspirante alla monarchia del microcosmo_, giuoco serio di Eureta Misoscolo. Il dizionario de’ pseudonimi dell’Aprosio è intitolato _La visiera alzata, hecatoste di scrittori, che vaghi d’andare in maschera fuor del tempo di carnevale, sono scoperti da_ ecc.; e vi mandò dietro una _Pentecoste_. Che più, se gli scienziati stessi v’incolgono? il Torricelli dice che «la forza della percossa porta nella scena delle meraviglie la corona del principato», e che «il famoso Galileo lavorava questa gioja per arricchirne il monile della toscana filosofia». Il Montanari a un trattato contro l’astrologia diede per titolo _La caccia del frugnuolo_: a uno sul fulmine _Le forze di Eolo_; a uno sulle monete _Zecca in consulta di Stato_. Carlo Moraschi fece la _Celeste anatomia delle comete_; Corrado Confalonieri la _Cometa decomata_; Carlo Manono il _Cannocchiale istorico, che fa guardare dall’anno_ 1668 _fin al principio del mondo, e tira appresso le cose più memorabili finora succedute_. _Via lactea_ intitolansi le istituzioni canoniche del valentissimo teologo Chiericato di Padova: al _Gemitus columbæ_ del Bellarmino il padre Gravina oppose la _Vox turturis_ in difesa de’ monaci: alla quale essendo risposto col _Cave turturi male contra gemitum columbæ exultanti_, egli replicò la _Congeminata vox turturis_, ristampata col titolo _Resonans turturis concentus_. Emanuele Tesauro, il Marini della prosa, stese in questo stile un non breve trattato di filosofia morale. Il famoso padre Lana ne scrisse uno _Della beltà svelata in cui si scuoprono le bellezze dell’anima_, e ciascun capitolo presenta una metafora; il sesto è _La regina al balcone_, cioè l’anima che per gli occhi fa vedere le sue bellezze; il decimo _Le bevande amatorie date a bever alla sposa del suo servitore per farla adulterare_, cioè i diletti del corpo che rapiscono l’anima a Dio; e così sempre. Perfino il celebre Lancisi nel 1720 stampava a Roma _De natura et præsagio Dioscurorum nautis in tempestate occurrentium_; i quali Dioscuri sono le parotidi critiche che appajono nelle febbri maligne. Viepiù si lardellarono di tali metafore le dissertazioni accademiche e le tesi. All’Università di Torino, Gianandrea Negro candidato in legge (-1594) sosteneva per quindici giorni novecennovantanove tesi dialettiche, fisiche, magiche, mediche, filosofiche, teologiche, morali, di diritto civile e canonico e di matematiche; Pio Appiani per nove giorni difendeva quattrocento proposizioni legali. Sfoggio di tali ciarlatanerie divenne il pulpito. Era stato proverbialmente famoso il padre Panigarola di Milano, che aveva avuto a maestri in patria gl’illustri retori Natale Conti e Aonio Paleario, e a modello Cornelio Musso (t. IX, p. 289); e dopo una gioventù dissipata vestitosi francescano, levò grido dai pulpiti principali. Caterina de’ Medici il volle a Parigi; per le città d’Italia ove giungeva era accolto a battimani, e spesso costretto a recitar un discorso prima di riposarsi; fatto vescovo d’Asti e da Sisto V spedito in Francia per le contese degli Ugonotti, contro questi pubblicò le _Lezioni calviniche_; e gloriavasi di aver congiunto la predicazione colla teologia, perchè questa gl’insegnò a far più sicure le prediche, quella a far più chiare le lezioni. Il cardinale Federico Borromeo non rifina di lodarlo, anzi da lui toglie il modello dell’oratore perfetto. Se più volte fu ristampata la sua _Retorica ecclesiastica_, e nei sermoni non manca d’un certo calore, benchè fomentato da figure più che da intima vigoria; nello stile barcolla fra il rozzo e l’affettato, e invano vi cercheresti quella cognizione del cuore che scuopre il vizio ne’ ripostigli, quella pratica de’ santi libri che di là toglie tesori di bellezze; nè più alcuno legge le novantasei opere che lasciò. Poi ben presto quell’eloquenza, cui prima lode è la semplicità, non si credette poter conseguire che col pugno teso e coi capelli irti. I titoli medesimi delle prediche d’allora tradiscono quell’infelicissima mania: Cesare Battaglia milanese, fra molti panegirici, ha la _Sacra Torre del Faro_ per santa Caterina, il _Carbonchio fra le ceneri e la lingua immortale_ per sant’Antonio, i _Tesori del niente_ per san Gaetano, il _Briareo della Chiesa_ per san Nicola, e così l’_Archimede sacro_, l’_Esemplare e il diadema del principe_; Mario de’ Bignoni cappuccino veneziano intitola il suo quaresimale _Splendori serafici degli opachi delle più celebri accademie, rilucenti tra le ombre di vaghi geroglifici_; Alessandro Maria Brianto fa l’_Antiparistasi del santo amore_; Tommaso Caracciolo arcivescovo di Taranto l’_Elio clerio, cioè il Sole del beato Gaetano Tiene, intrecciato da un devoto del beato_; così il _Balsamo della Fama Mamertina_, discorso per la sacra lettera di Maria vergine ai Messinesi, del padre Epifania. Bizzarrissime poi le proposizioni: e uno in sant’Antonio riscontrava le metamorfosi d’Ovidio: un altro in san Domenico le fatiche d’Ercole. Giuseppe Maria Fornara nel _Nuovo sole di Milano sotto del santo chiodo ascoso_ provava in sei discorsi quella reliquia essere un sole che nasce, che illumina, che riscalda, che essica, che corre, che riposa. Il gesuita Ignazio Del Vio faceva _Le gare di scambievole amore fra la rosa verginale santa Rosalia, li gigli reali di Filippo V nostro signore, e l’orto della Sicilia Palermo, intrecciate nella solenne festa di santa Rosalia_ (1702). Il Lemene, nell’elogio funebre di Filippo IV, dimostrava che fu _magnum pietate, et magnitudine pium_. Del padre Annibale Adami di Fermo abbiamo «Il santo fra’ grandi di Spagna, grande di quattro grandati; cioè san Francesco Borgia, esprimente nella sua santità e nel suo nome le virtù di quattro santi Franceschi d’Assisi, di Paola, di Savier e di Sales, giusta il detto dell’Ecclesiastico _Fuit magnus juxta nomen suum_» (Roma 1672). Giacomo Lubiani celebrava _il solstizio della gloria divina, la cifera della divinità nell’augustissimo nome di Gesù_, e in sant’Ignazio la _spada infocata_, dimostrandolo «Ercole della Biscaja che porta nelle fiamme del nome l’armeria de’ Serafini, il treno de’ miracolosi spaventi nel fulmine della spada, in cui potresti intagliar più vittorie che non fece Ruggero nella sua», e si scusa di non poterne dire abbastanza «perchè gli manca l’algebra dell’innumerevole». Paolo Arese, autore di sette volumi di prediche lodatissime, a difesa di queste dettò _La penna raffilata_ e _La retroguardia di se stesso_. Frà Giuseppe Paolo comasco così esordisce il suo quaresimale: — Per adunare contro dei vizj, legionarj di Satanno, un esercito numeroso, tocca tamburo questa mattina la penitenza». Gran maestro dell’affastellar le cose più disparate fu il padre Emanuele Orchi, pur da Como, che con brani d’erudizione profana, citazioni, epigrammi, filze di proverbj, divinità gentili, astrologia, regge la tronfia sua grandezza: ivi trovi gli _artificiosi tiriliri_ d’un uccello; ivi bachi da seta, che _mangiano e dormono con saporoso sapore e saporito sopore_; ivi la Maddalena _sollevata di fronte, sfrontata di faccia, sfacciata d’aspetto_; ma udendo Cristo, _le si sveglia nel meriggio del cuore l’austro piovoso di tenero compungimento, e sollevando i vapori de’ confusi pensieri, stringe nel ciel della mente i nuvoli del dolore_. Non rispetto a sè mostra costui, non agli uditori, non a Dio[205], ma sempre l’immagine, la pittura; o ti paragoni l’uomo all’organo, o il peccatore alla lavandaja, che «nudata il gomito, succinta al fianco, prende il panno sucido, ginocchione si mette presso d’una fiumara, curva si piega su d’una pietra pendente, insciuppa il panno nell’acqua, lo stropiccia coi pugni, con le palme lo batte, lo sciacqua, lo aggira, l’avvolge, lo scuote, l’aggroppa, lo torce; indi postolo entro un secchione, ed al fervor del fuoco in un caldajo, fatto nell’acqua con le ceneri forti un mordente liscio, bollente gli lo cola di sopra; giuoca di nuovo di schiena, rinforza le braccia, rincalza la mano, liberale di sudore non meno che di sapone; e finalmente fattasi all’acqua chiara, in quattro stropicciate, tre scosse, due sciacquature, una torta, candido più che prima e delicato ne cava il pannolino». Per poco non prorompeva in applausi l’affollata udienza; dalla quale congedandosi, egli ragiona dell’amor suo che in pochi giorni gigante divenne, poichè la loro attenzione gli fece da balia, il fasciò, il cullò; poi dalle poppe divezzato coll’aloe dell’amara partenza, si pascerà col solito cibo del massiccio affetto: la brama poi di tornar a loro è una gravidanza matura, sicchè egli starà colle doglie del parto, finchè la grazia del cielo non gli serva da Lucina a figliar un nuovo maschio quaresimale. Una volta erige un processo in regola contro il ricco; un’altra espone il giudizio universale, distinto in atti e intermezzi; un’altra architetta un monumento trionfale per la risurrezione di Cristo. Così il padre Caminata, in San Pietro del Vaticano, nel primo sermone fabbricò la statua dell’Ambizione; poi in ciascuno de’ seguenti «le dava quattro martellate» per levarne via le pecche. Alberto Alberti trentino, il quale scagionò la Compagnia di Gesù dalle imputazioni di Gaspare Scioppio con tal calore, che questo, vedendosi stretto e smascherato, dicono ne morisse di dolore, scrisse _Actio in eloquentiæ cum profanæ tum sacræ corruptores_ (Milano 1651), abusando delle forme stesse che condanna. E Federico Borromeo in un’operetta a riprovazione di quel predicare, racconta di uno che, spiegando la tentazione di Gesù Cristo, e come Satana gli mostrò tutti i regni del mondo, fece un trattato di geografia; un altro cavò di sotto la cotta uno stilo; un terzo, esclamando non poter più reggere a tanti orrori, si mosse per andarsene, aspettando che il pubblico lo arrestasse; ma poichè tutti tacquero, egli dovette fermarsi da sè. Nel _Diario romano_ d’un austero cattolico dal 1640 al 50 leggiamo: — Colla quaresima la commedia finisce nelle case e nelle sale, e comincia nelle chiese e nei pulpiti; la santa occupazione della predica serve a soddisfar la sete di celebrità o l’adulazione. S’insegna la metafisica, che il predicatore intende poco e gli uditori niente: invece d’istruire e correggere, si decantano panegirici nel solo intento di far passata. La scelta del predicatore non dipende dal merito, ma dal favore». Nel giornale napoletano dello Zazzera, sotto il dicembre 1616: — Sua eccellenza venne in carrozza con la moglie in San Lorenzo, ove si cantò la messa con musica, e predicò il padre Aqualino cappuccino le sue solite facezie». Insomma dappertutto un gusto licenzioso, che giudica gretto ciò ch’è semplice, non vuol andare di passo, ma a capriole. Nè la moda accecava a segno da non avvedersi di quel delirio: Giambattista delle Grottaglie scrisse la _Censura del poetar moderno_; il gesuita Giuglaris, che nelle prediche tiene il campo di siffatte enormità, dettò piano e composto _La scuola della verità aperta ai principi_. E dettavano castigato quelli che a lode non aspiravano, potendosi ripetere dello stile ciò che alcuno disse della morale, che per esser cattivi bisogna fare uno sforzo. Michelangelo Buonarroti il giovane (-1646) ammira il Petrarca, ma ciò nol preserva dal contagio; e illustrando il sonetto di lui _Amor che nel pensier mio vive e regna_, dice: — Però, cortesissimi accademici, non prenderete ad onta che io intorno a sì alto soggetto ardisca di favellare, ned incolperete me di follìa e di troppa temerità, poichè per obbedire a chi lo mi ha comandato, e che giustamente farlo potea, per sì ampio pileggio e sì pericoloso mare, tra l’onda di non certa lode, in preda ai venti dell’ignoranza e del biasimo che per avventura mi potrebbero sommergere, fiaccamente solcando colla navicella del mio debole ingegno, mi sono impelagato». A questo corvettare credeasi obbligato quando ragionasse a dotti; ma allorchè assumeva il linguaggio del popolo, tornava alla natura, come nella _Tancia_ e nella _Fiera_[206], commedie scritte a bella posta per annicchiarvi una ricchezza di voci popolari, che ne’ libri non si trovavano, e di cui la Crusca voleva esempj pel vocabolario. Certo allora si migliorò l’esposizione scientifica: Galileo vi mette evidenza e forza, emancipandosi dalle aridità scolastiche, e la chiarezza sua attribuiva alla continua lettura dell’Ariosto; gli accademici del Cimento davano a correggere a Carlo Dati le loro sperienze, esposte con eleganza filosofica; e a Firenze un bello stuolo si sceverò da queste ambiziose miserie. Ivi utili fatiche continuava la Crusca, e molti s’industriavano attorno ai classici, principalmente al Boccaccio; a scrutare le opere nuove, o dar precetti di corretto scrivere. E di savj ne esibì negli _Avvertimenti sopra il Decamerone_ Leonardo Salviati, scrittore lonzo, e diffamato dalla bassa persecuzione che portò al Tasso. Celso Cittadini cercò dottamente le origini della favella toscana. Al gesuita Mambelli col nome di Cinonio, dobbiamo le _Osservazioni della lingua italiana_. Daniele Bartoli, nel _Diritto e il torto del non si può_, sostenne non v’esser regola di grammatica senza esempj contrarj, col che precipita nello scetticismo, nè indaga se siano dovuti a scorrezione di testi, o se abbiasi a dedur le norme da un principio più largo. Benedetto Fioretti appuntò la Crusca e le prolissità dei classici, e nei Proginnasmi mostra bastante filosofia di stile. Benedetto Buonmattei avea dato la prima grammatica toscana nel 1643; un’altra ne diede il bolognese Salvatore Corticelli con _Cento discorsi sopra la toscana eloquenza_, le regole deducendo dall’uso, ma uso de’ classici, anzi quasi solo de’ Trecentisti. Jacopo Mazzoni cesenate, nella _Difesa di Dante_, elevasi a generalità estetiche notevoli. Girolamo Gigli da Siena, festevolissimo nelle conversazioni e in commediuole, nel _Pirlone_ adattò il soggetto del _Tartuffo_ alla società nostra, tanto al vivo da eccitare uffiziali lamenti. In Roma pubblicò le opere di santa Caterina, con un dizionario dei modi a lei proprj, valendosene per bersagliare la Crusca, anzi tutti i Fiorentini, neppur i principi risparmiando. Questi ne fecero un capo grosso, e il libro fu bruciato dal boja, messo all’indice a Roma; e il Gigli si ritrattò[207]. Anton Maria Salvini fiorentino (1653-1729), eccitato agli studj ameni dal Redi, cercatissimo nelle buone società[208], conobbe molte lingue, e ne tradusse prosatori e poeti; singolarmente vulgarizzò Omero alla lettera, fatica screditata, ma di cui fecero pro i successivi: scrivendo di proprio, e commentando la _Tancia_, la _Fiera_, il _Malmantile_, usa da padrone la lingua, non solo col riprodurre i bei modi de’ Trecentisti, ma e nuove ricchezze di classici forastieri innestando, e più raccogliendone dalle bocche nel paese natìo, talchè meritò d’esser subito noverato fra i testi della Crusca. Sotto quest’unico aspetto vanno lodati i suoi discorsi accademici, del resto leggeri sempre, spesso vuoti, affrettati, sorreggentisi su qualche autorità in luogo di ragioni. Anche forestieri s’occuparono intorno alla nostra favella: i Francesi imitavano e traducevano i nostri come oggi noi loro, senza discernimento; e come fu ammirato il Tasso, così le _Lacrime di san Pietro_ del Tansillo furono tradotte da Malherbe; imitata la poesia lirica, la descrittiva, il nostro sonetto; il genere eroicomico nel _Virgilio travestito_[209], nella _Gigantomachia_ e simili; il pastorale del Bembo e del Sannazaro, coll’affettazione che di tutte è la peggiore, quella della semplicità. Sui teatri riproducevano le nostre _Sofonisbe_, la _Calandra_ l’_Orfeo_: Rabelais avea tolto da Merlin Coccaj l’episodio de’ montoni di Panurgo, l’arringa di Gianotto di Bragmardo, la disputa al cospetto di Pantagruele, fin il carattere di Gargantua da quel di Fracasso. L’arguto Montaigne scrisse parte del suo viaggio in «questa lingua straniera, della quale si serviva molto facilmente, ma molto scorrettamente» (pag. 322). Le persone più gentili della bella società valeansi di questo idioma dell’ingegno e della cortesia, come la Longueville e la incomparabile Sévigné; le lettere erano picchiettate di frasi italiane; e i modi nostri metteano rischio di far nella lingua francese i guasti che or fa questa nell’italiana[210]. Alla corte d’Inghilterra parlavasi comunemente l’italiano, e verseggiò in questo il Milton, che conobbe Galileo a Firenze, a Napoli il Manso amico del Tasso; a Milano vide rappresentare l’_Adamo_ dell’Andreini, da cui, se non il concetto del suo _Paradiso perduto_, dedusse alcune scene, come altre dall’_Angeleide_ di Erasmo da Valvasone, e nominatamente l’infelice trovato delle artiglierie usate dai demonj[211]. E molto trasse da’ nostri il lirico Dryden; anzi il devoto Ruggero Ascham si lamentava che in Inghilterra si avesse maggior riverenza pe’ Trionfi del Petrarca che non per la Genesi, si reputasse una novella del Boccaccio più che una pagina della Bibbia. A Vienna predicavasi italiano[212], e Leopoldo imperatore v’introdusse un’accademia italiana, di cui erano Raimondo Montecuccoli, il marchese Maffei, Francesco Piccolomini, Giberto Pio di Savoja, Orazio Bucceleni, Mattia Vertemati, l’abate Spinola, Francesco Dolci, Francesco Zorzi, l’abate Felice Marchetti, con domenicali adunanze nel gabinetto stesso dell’imperatore. Non dunque per ignoranza e trascuraggine peccavasi di secentismo; anzi può dirsi che allora per la prima volta si ponesse mente all’artifizio dello stile, a dar modulazione e unità al periodo, a calcolare le cadenze, a dir ogni cosa nel modo migliore. Degli autori antecedenti alcuni pretendeano imitare i Latini, sforzando la tela delle parole; altri s’abbandonavano al naturale, senza il minimo artifizio; Machiavelli non si briga della scelta dei vocaboli; rotto è lo stile del Varchi, contorto quello del Bembo, anelante quel del Guicciardini; gli altri Cinquecentisti si sparpagliano in periodi attorcigliati, e con membri refrattarj, espressioni zoppicanti, immagini irresolute; appena eccettueremmo il maestoso Della Casa, il limpido Annibal Caro, e l’amabilissimo Firenzuola, il quale professa aver «sempre usato quei vocaboli e quel modo di parlare che si permuta tuttogiorno, spendendo quelle monete che corrono, e non i quattrini lisci»[213]. Ma nel Seicento lo scrivere fu ridotto ad arte, il periodo divenne una maestria, e i gesuiti Daniele Bartoli e Sforza Pallavicino ne furono supremi artefici. Il primo (1608-85), nativo di Ferrara, dai trionfi del pulpito chiamato a Roma per iscrivere la storia della Compagnia di Gesù, la distinse secondo le varie provincie, Indie, Giappone, Cina, Inghilterra, Italia. In lussureggianti descrizioni e minute particolarità ostenta varietà stupenda di vocaboli e dizioni; ma quelle frasi uniformemente smaglianti «tutt’oro macinato e perle strutte», quell’ambizione di modi e di numero dove la novità consiste solo nella scorza, dove l’eleganza non conosce la sobrietà, e il pensiero è trascinato dalla frase non mai spontanea, il fanno ripudiare da chi non giudica stile la prolissità senz’affetto, nè gradisce quella letteratura azzimata tutta plastica, intenta unicamente a piacere, e che fu detta gesuitica. Sol qualche retore potè sentenziarlo aquila fra gli storici, lui che mai non ha nè fior di critica nè profondità di sentimento, che vuol esser ammirato non creduto: ben è vero che quando racconta è a gran pezza migliore che ne’ trattati morali[214], lambiccati di titolo, di concetto, d’espressioni scolastiche e declamatorie; e ne’ scientifici sul ghiaccio, sulla tensione e la pressione, sul suono e l’udito, tesi peripatetiche, indegne di venir dopo Galileo. La _Storia del concilio di Trento_ del Pallavicino (-1630) (tom. X, pag. 549), ove si sceveri della nojosa polemica, può servire di modello a chi si contenti alla mediocrità dello stile fiorito[215]. Le sue _Osservazioni dello stile_ sono talvolta sottili, spesso attissime. Il _Trattato del bene_, e quello sulla _Perfezione cristiana_, vanno ingenui d’elocuzione ma freddi. La vita di Alessandro VII interruppe quando lo vide scivolare nel prima disapprovato nepotismo. Ornato della porpora, serbò la religiosa sobrietà. Confutò in latino Giulio Clemente Scoti, il quale ai Gesuiti avea dato un fiero carpiccio[216], mostrando quanto avessero tralignato, nè senza gravissimo pericolo della cristianità potersi lasciare di riformarli, abolirne i privilegi, le cariche spartirne fra altri Ordini religiosi. Gemma di quella società Paolo Segneri di Nettuno (1624-94), abbondantissimo d’ingegno, di dottrine, d’arte, nelle prediche evita la gonfiezza come l’aridità; orecchio delicatissimo a numero oratorio; linguaggio proprio sempre, talvolta semplice e preciso, quando è anche sobrio e affettuoso toglie speranza di far meglio. Ma non di rado abbandonasi ai vizj di scuola; coll’enfasi attizza la vivacità; sfoggia figure retoriche, sospensioni, ritrattazioni, modi litigiosi, esclamazioni, concettuzzi; lardellandosi di citazioni, stravolge i testi per trascinarli alle allusioni sue; falsa la storia per cavarne esempj; stabilisce proposizioni false o puerili o contorte. Sta avanti a tutti i nostri, eppure quanto non dista dai predicatori francesi suoi contemporanei, che uniscono la grandezza del sentimento religioso alla cognizione del cuore umano e al sentimento delle necessità della vita, la coltura dello stile e la popolarità! E parlo sempre del _Quaresimale_; chè nei _Panegirici_ il presunto obbligo d’essere eloquente lo precipita a capofitto nel mal gusto; mentre in alcune opere edificanti, come il _Cristiano istruito_ e la _Manna dell’anima_, porgesi modello di limpida catechesi. Nelle missioni, dove cogliea grandissimi frutti, massime di paci, furono adottati i metodi suoi e le sue laudi, facili al canto e all’intelligenza. Divenuto sordo, pur continuò a predicare, preferendo i villaggi; semplicissimo conservossi anche alla Corte di Roma, ed era oggetto d’un culto popolare, rapendosi i mobili della camera dov’era abitato, e le vesti ch’erangli servite. L’Inquisizione condannò la sua _Concordia fra il lavoro ed il riposo_, ed egli pazientemente aspettò che la si ravvedesse[217]. Molti trattarono soggetti morali fuor della Chiesa, ma nulla di nuovo nè di sentito. Lodano i _Dialoghi_ del Tasso; ma il leggerli è fatica e inutilità. Chi conosce più che di nome la _Nobiltà delle donne_ del Domenichi, la _Istituzione delle donne_ del Dolci, la _Morale filosofia_ di Antonio Bruciati, gli _Avvertimenti morali_ del Muzio, la _Ginipedia_ di Vincenzo Nolfi, e via là? Argomenti comuni ne sono l’amore e l’onore; quello sottilizzato alla platonica, e perciò nè d’opportunità civile, nè di testimonio alla storia; questo stillato nei puntigli della scienza cavalleresca (pag. 271). I _Costumi de’ giovani_ del senese Orazio Lombardelli possono offrire utili confronti agli usi, al lusso, ai vizj d’allora, e sono esposti in candida lingua, sebbene non senza affettature. Giuseppe Passi di Ravenna coi _Difetti donneschi_ in trentacinque discorsi concitò l’ira femminile, come la maschile colla _Mostruosa officina delle sordidezze degli uomini_: oltre l’esagerato e la stucchevole erudizione, ben poco vi si trova di particolare ai tempi e individuale all’autore. Il quale a quarant’anni, stanco de’ tedj provocatisi, andò nei Camaldolesi di Murano, e scrisse contro l’arte magica «piuttosto istoricamente che scientificamente, e ciò per la malvagità de’ tempi». Gabriele Pascoli di Ravenna, dettò un romanzo, che comincia colla battaglia di Lépanto, dopo la quale alcuni combattenti vanno a diporto pel mondo, e uno capita a Genova, donde in Ispagna, e quivi in una selva trova un giovane italiano, scarno e vivente a modo di fiera, che gli racconta quanto soffrì per una bella ingrata. Il viaggiatore lo distoglie dal proposito di morire in quelle miserie, sicchè tornato alla Corte, beffa la beffatrice in modo di trarla a morte. Perciò condannato nel capo riesce a fuggire e rimpatriare. Lasciamo lodare questo romanzo dall’editore. Sono romanzi del peggior genere molte delle biografie del Leti, e gli _Amori di Bianca Capello_ di Celio Malespini veronese, eppur divennero fonte a molti storici. Pierandrea Canoniero genovese stampò a Roma _Discorsi politici sui due primi libri di Tacito_; fu soldato, legale, medico ad Anversa, ove pubblicò _De curiosa doctrina_, il _Perfetto Cortigiano_, _Ricerche politiche_, _morali_, _teologiche_, senza profondità. Ottavio Ferrari milanese, lettore d’eloquenza in patria e a Padova, la esercitava in lodare i principi che il compensavano. La patria lo stipendiò come storiografo; ma forse troppo timido per incarico siffatto, nulla finì, occupandosi piuttosto in gonfj complimenti accademici. Meglio valse nell’antiquaria, e investigò le origini della lingua italiana, sebbene mai non la adoperasse. Lorenzo Magalotti romano (1637-1712), trattenuto in Toscana per ammirazione del suo limpido ingegno, scrisse di mille cose, relazioni di viaggi suoi e altrui, la _Storia dell’Accademia del Cimento_; tradusse il francese epicureo Saint-Evremond, di cui imitava la filosofia spiritosa, gioviale, tutta di mondo: pure scrisse contro gli atei e gl’indifferenti. Il canzoniere _La donna immaginaria_ (già lo mostra col titolo) ha voci di testa non di petto, e il Filicaja scriveagli: — Veggo ne’ vostri versi una tal profusione di bei concetti e di belle idee, che io non so come voi possiate scampare la taccia d’indegno scialacquatore, che non conosce moderazione, vuol sempre mettere in grande tutte le cose più piccole, e farle talmente crescere di statura, che di vane che erano diventino, gigantesche». Degli odori parlava e scriveva in estasi. Sfoggia da ambasciadore; poi richiamato a Firenze, tutto gli pare al dissotto del proprio merito; per iscontentezza si fa prete dell’Oratorio, subito se ne pente, e vergognoso si rintana in villa, finchè ritorna alla Corte. Trajano Boccalini da Loreto (1566-1613), arguto ingegno e immaginazione focosa, fu meno stravagante nello stile che nelle invenzioni. Ne’ _Ragguagli di Parnaso_ finge che Apollo tenga corte, ascolti le querele e decida; invenzione spesso imitata, la cui monotonia è ricattata dall’interna varietà de’ giudizj sopra libri, uomini, casi. Nella _Pietra del paragone politico_ e ne’ _Commentarj sopra Cornelio Tacito_ insegna i modi d’accorciar «la catena che gli Spagnuoli fabbricavano per la servitù italiana; e come non sarebbe difficile scuoterseli di dosso poichè essi non riusciranno mai a naturarsi». Preso Tacito per testo, come Tito Livio il Machiavelli, ne contrasse il veder fosco; pure in modo faceto, ferendo non lacerando, cercò rendere amena la politica, nella quale atteggiasi coi liberali d’allora, cioè nell’odio alla Spagna; declama contro la smania battagliera; loda la libertà, e ammira Venezia perchè sa «perpetuare nella florida libertà», congiungendo nel doge l’infinita venerazione colla limitata autorità, studiando alla pace mentre si prepara alla guerra, e col rigore degli Inquisitori «sepellendo vivo qualunque Cesare e qualsiasi Pompeo che si scoprisse»; col che otteneva una nobiltà inoffensiva, il non salire agli onori sommi se non per la scala de’ minori, il tornare da quelli alla modestia privata, continenza nel maneggio del danaro pubblico, tutti eguali in piazza, cara la libertà egualmente alla nobiltà che comandava e alla cittadinanza che obbediva. Pure il Boccalini non risparmia l’arroganza di que’ patrizj. Nemico de’ villani ricalzati, ai nobili raccomanda la tutela di quella poca libertà che ancora sopravvive. Non vorrebbe dispute religiose, non tirannicidj, non sommosse popolari che sempre riescono infelicissime perchè più saggio è tenuto chi più è temerario, e più zelante della patria chi consiglia cose più precipitose: ma se è bestiale ostinazione a chi è legato al carretto tirar de’ calci nelle ruote e così rovinarsi le gambe, non è a dimenticare che la pazienza degli asini fu sempre la calamita delle bastonate, e alla fin fine ogni popolo ha il governo che si merita; e che la disperazione entrata nei popoli, ancorchè disarmati, imbelli e ignoranti, fa trovare per ogni cantone armi, cuore e giudizio. Avversissimo ai Protestanti e anche alla tolleranza religiosa; deride i riformatori, alcuni de’ quali erano moralisti puri, che davano per rimedio l’obbligare gli uomini alla carità e all’amor vicendevole; altri politici puri, che predicavano di non dare le dignità se non al merito e alla virtù, impedire le monarchie troppo grandi, frenare l’ambizione de’ principi, e la riforma e il governo affidare ai letterati; altri andavano alla radice, chi vedendo ogni male nelle donne e nel matrimonio, chi chiedendo una nuova partizione de’ possessi, chi di togliere affatto l’oro e l’argento, chi invece il ferro; chi di rompere ponti e strade, e proibire viaggi e navigazioni: e conchiude di vivere col mancomale, e far la difficile risoluzione di lasciare il mondo qual si è trovato. Neppure all’evocare il passato sulla scorta di Tacito ad esplicazione del presente e norma dell’avvenire, mostra egli vigore, celiando anzichè bestemmiare: pure eccitò l’indignazione, e una notte fu battuto di maniera che ne morì[218]. Secondo Lancellotti di Perugia (1565-1643), prete e di molte accademie, di stile gretto ma risoluto e con dottrina, tolse a provare che il mondo non era moralmente o intellettualmente deteriorato, nè soffriva traversie peggiori che per l’addietro; e compose _disinganni_, in ciascuno combattendo un pregiudizio con fatti e testi accumulati. Sovrattutto beffa costoro che parlando dell’Italia, ripetono sempre «una volta era, una volta fu»; e vuol mostrare che malanni ella ebbe sempre, sempre imperfezioni e vizj, sempre avversità e disgrazie, eppure sempre per mille titoli fu signora la più bella, la più nobile, la più degna dell’universo. Altrove rivela i _Farfalloni degli antichi storici_, precorrendo a molti moderni negli appunti contro la storia romana, non nella critica sensata che abbatte per riedificare. Alessandro Tassoni modenese (1565-1635), da giovane avea sostenuto che i moderni non sono inferiori agli antichi, combattuto Aristotele retore, cuculiato coloro che credevano «non si possa scrivere dritto senza la falsariga del Petrarca»: e i contemporanei lo tacciavano di avverso a Omero e ai classici, perchè di essi vedeva anche i difetti, e diceva: — Io voglio dir delle novità; chè questo è il mio scopo; e addimando parere agli amici, non perchè mi avvertiscano di quello che ho detto contro Aristotele, ma perchè mi ammendino se ho detto delle sciocchezze»[219]. Pensatore originale, carattere indipendente, grammatico sottile non pedante, serbò gusto e libero giudizio, malgrado l’erudizione; e la facile festività non contaminò coi concetti, benchè manchi della finezza e decenza che costituiscono la grazia. Il poema della _Secchia rapita_ trovò grandissima difficoltà a stamparsi, atteso il continuo suo satireggiare: pure Urbano VIII se n’invaghì; pel pizzicore poetico che aveva, indicò alquante correzioni al poeta, che lo secondò col ristampare i cartini ne’ pochi esemplari offerti al papa. Per vendicarsi del conte Brusantini, dal cui segretario dottor Majolino era stato offeso, lo ritrasse nel vanitoso e ribaldo conte di Culagna. Nè egli si propone che un esercizio letterario; della libertà italiana, delle guerricciuole fra le repubblichette non sa che ridere; e per far ridere s’intresca in sudicerie e lascivie. Il poeta che celia sui cadaveri, non può seriamente piacere: eppure di quei ringhi municipali egli provava le conseguenze, egli che contro gli Spagnuoli avventò le _Filippiche_, chiamandoli «stranieri imbarbariti da costumi africani e moreschi, intisichiti nell’ozio lungo d’Italia e nella febbre etica di Fiandra, come un elefante che ha l’anima d’un pulcino, un gigante che ha le braccia attaccate con un filo; che non reggono in Italia perchè vagliano più di noi, ma perchè abbiamo perduto l’arte del comandare; non ci tengono a freno perchè siamo vili e dappoco, ma perchè siamo disuniti e discordi; pagano la nobiltà italiana per poterla meglio strapazzare e schernire; stipendiano i forestieri per aver piede negli altrui Stati; avari e rapaci se il suddito è ricco, insolenti s’egli è povero, insaziabili in guisa che non basta loro nè l’oriente, nè l’occidente; infettano e sconvolgono tutta la terra cercando miniere d’oro; le rapine chiamano proveccio, la tirannide ragion di Stato; e saccheggiate e disertate che hanno le provincie, dicono d’averle tranquillate e pacificate». Tutta la forza loro consiste «in que’ soldati che, avvezzi a pascersi di pane cotto al sole, e di cipolle e radici, e a dormire al sereno con le scarpe di corda e la montiera da pecorajo, vengono a fare il duca nelle nostre città e a mettere paura, non perchè siano bravi, ma perchè non avendo mai provato gli agi della vita, non curano di perderla a stento: forti solo mentre stanno rinchiusi nelle fortezze, invitti contro i pidocchi, pusillanimi incontro al ferro, questi son quelli che spaventano l’Italia». Non s’accorgea d’indicare appunto ove stava la superiorità degli Spagnuoli, l’abitudine alle armi e alla dura milizia. Così diceva e forse pensava egli quando gioiva de’ favori del duca di Savoja, al quale non cessava di raccomandare d’unirsi cogli altri principi d’Italia, e basterebbe a cacciare i nemici: ma «i satrapi della dottrina, e i più dotti che son sempre i più pusillanimi», diceano impossibile l’impresa; i nobili e i cavalieri spasimavano onori e croci «premj di patteggiata servitù». Il Sozzino genovese, uno «di quegli infelici che godono o almeno non curano di essere dominati da popoli stranieri», scrisse a depressione dell’Italia e a favore della dominazione spagnuola e contro il duca di Savoja; e il Tassoni gli oppose un gran panegirico di questo. Il quale gli promettea pensioni ma non le diede, ond’egli se ne lamentò, e «M’accorsi che nè di pillole dorate nè di cortesi parole dei principi bisogna fidarsi... Al cane forestiero tutti quelli della contrada gli abbajano; i principi hanno sempre le mani lunghe, ma rare volte larghe». Per chetarlo, il cardinale Maurizio lo menò seco a Roma; ma poi vedendolo inviso alla Spagna, della quale ambiva farsi dichiarar protettore, lo scansò e rinviollo, pretendendo avesse pigliato l’oroscopo suo, e predetto indicasse un ipocrito; e per quanto egli si purgasse, disdicesse anche le _Filippiche_, non si lasciò più smuovere perchè «i principi per la loro riputazione vogliono sostenere anche le cose mal fatte». «Questi (dic’egli) furono i guiderdoni e i successi della mia servitù colla casa di Savoja... E confesso che mancai di consiglio, perciocchè, avendo veduto il cavaliere Guarino uscir malissimo soddisfatto di quella Corte dopo dedicata la bellissima sua pastorale, e il Marino carcerato per tanti mesi dopo il merito del suo panegirico, e Obignì strozzato, e tanti altri che avevano fatto naufragio, dovea andar più cauto in avventurarmi in mare tempestoso, che finalmente non ha porto se non per vascelli di piccola capacità». Ben si fece dipingere con un fico in mano, a significare l’unico premio venutogli dalle Corti; ma non le abbandonò, e ai servigi del cardinale Lodovisi e del duca di Modena consumò la restante vita. Come il Tassoni de’ tempi che più non erano, così degli Dei cui più non si credeva volle prendersi burla Francesco Bracciolini da Pistoja (1566-1645). Si levò gran disputa qual di questi due inventasse il genere eroicomico: nè l’un nè l’altro dirà chi abbia letto il _Morgante_, l’_Orlando Furioso_ e l’_Innamorato_. Il Bracciolini, ricchissimo di modi e franco di vena, compose altri poemi, fra cui la _Croce riacquistata da Eraclio_ dicono sia il migliore dopo il Tasso, e nessun lo legge; come non si legge il Graziani, che a ventidue anni fu applaudito per la _Cleopatra_ in sei canti; poi per la _Conquista di Granata_, imitazione dello spagnuolo Mendoza; e molto più, attesa l’attualità, per la sua tragedia del _Cromwell_. E di epopee fu poveramente ricco quel secolo, eroiche, morali, sacre, comiche, e tutte dimenticate. Lasciandole noverare dai bibliografi, noi mentoveremo uno da essi dimentico, Giulio Malmignati di Lendinara, di cui l’_Enrico o Francia conquistata_ (1623) fu probabilmente conosciuto a Voltaire, che finisce il suo poema al modo stesso, che fa pure assumere Enrico IV in cielo a vedere le sedi dei principali illustri, ed esortare da san Luigi a farsi cattolico. Il pittore Lorenzo Lippi (-1664) alla corte di Claudia di Baviera compose un poema, intitolandolo dal nome d’un castello in rovina che l’architetto Paris possedeva presso Firenze, e fingendolo capitale d’un regno, la cui signora è spossessata da una cortigiana, poi ristabilita colla guerra. Difficile sarebbe dire il contesto e tanto meno l’intento del _Malmantile riacquistato_; eppure si legge volentieri, al modo che s’ascolta un bel parlatore fiorentino. Giambattista Lalli da Norcia cantò la _Gerusalemme desolata_; ma presto voltatosi al giocoso, fece i poemi del _Domiziano moschicida_, del _Mal francese_ e l’_Eneide travestita_. Puro ma inelegante è il _Ricciardetto_ di Nicolò Fortiguerra (-1735), scritto per iscommessa un canto al giorno, con pazzesche buffonerie, riproducendo in caricatura gli eroi dell’epopea romanzesca; sempre ridendo senza riflessione nè scopo[220], buttandosi all’osceno, e abusando della facilità nel verseggiare. Francesco Redi di Arezzo (-1694), che di tutto seppe, scrisse perbene molti sonetti, e il _Bacco in Toscana_, brindisi imitato non raggiunto. Fulvio Testi modenese (-1646) di franca facilità e d’un far largo che somiglia a maestà, manca dell’aroma dello stile che eterna le opere, dà troppo nell’ingegnoso e fiorito, accumula sentenze, e verseggia una morale da prediche. Egli si lagnava della prostituzione delle Muse italiane[221]: ma l’ode a Carlo Emanuele (pag. 198), che gli valse una collana d’oro e la non ancora prostituita croce di San Maurizio e Lazzaro, il fece processare ad istanza del governatore di Milano. In contumacia condannato al bando e a ducento ducati, se ne redense con versi in senso opposto. Visse nelle Corti e ambascerie, onorato e invidiato, finchè un illustre personaggio credendosi adombrato nella sua canzone al _Ruscelletto orgoglioso_, lo fece mal capitare. — La poesia è obbligata a far inarcare la ciglia; come il mio concittadino Colombo, voglio o trovar nuovo mondo o affogare»; così diceva Gabriele Chiabrera da Savona (1552-1637), il quale imputando i nostri di timidezza, cercò immagini grandi, espressioni figurate, parole composte, metri insoliti, ne’ quali mostrò squisito senso delle armonie convenevoli alla poesia italiana, mentre le costruzioni nuove date alla lingua non sempre sono acconce, nè desunte dalle popolari. Delle perpetue allusioni mitologiche non lo scusa neppur la necessità di lodare qualche oscuro ginnasta, e principi che non eccitavano entusiasmo. Fece un sobisso di poesie, discorsi devoti in prosa, drammi per musica, cinque poemi epici, e più poemetti senza la lode della regolarità nè il merito dell’ispirazione. I sermoni di genere medio sono tra i migliori nostri. Bellezze molte ha per certo; ma qual cosa di grande, di intimamente sentito? quale delle sue odi vive nelle memorie? Il Chiabrera «in patria incontrò, senza sua colpa, brighe, e rimase ferito; la sua mano fece le sue vendette, e molti mesi ebbe a stare in bando». Carlo Emanuele lo invitò alla Corte, il regalò d’una catena d’oro, lo fece accompagnare in carrozza di Corte a tiro a quattro, e ogni volta che tornasse a Torino gli dava trecento lire pel viaggio: altrettante gentilezze ottenne da Vincenzo Gonzaga, da Urbano VIII, dalla repubblica di Genova, fin di coprirsi quando ragionava a’ serenissimi collegi: e ad ottantacinque anni protrasse sana e placida la vita, non senza cetra. Non mancava dunque favore ai letterati: i pontefici li proteggevano, e più di tutti Urbano VIII; i Medici carezzavano artisti e scrittori; Carlo Emanuele, fra tante brighe non li dimenticò, e spesso li metteva a disputare. Gianvincenzo Pinelli di Napoli faceasi a qualunque prezzo trasmettere quanti libri uscivano, e formò una biblioteca classificata per materie, oltre un museo di globi, carte, strumenti matematici, fossili, medaglie rare. Venduta alla sua morte, il vascello che portavala è predato dai corsari, che buttano in mare o disperdono sulle coste la mal conosciuta merce, i pescatori raccolgono i fogli per ristoppar le barche e far impannate alle finestre; il rimanente è comprato tremila quattrocento scudi d’oro dal cardinale Federico Borromeo, che ne fece fondamento alla biblioteca Ambrosiana. La quale aperse egli al pubblico coll’insolita comodità di tavolini e carta e calamajo; e vi aggiunse un collegio di dottori, che esaudissero alle inchieste degli studiosi, e pubblicassero opere nuove. Andò disperso il museo che avea raccolto Giannantonio Soderini veneziano, il quale pellegrinò in Levante, lodato come dottissimo dallo Spon e dal Weler viaggiatori eruditi, dal Patin, dal Magni. Angelo da Roccacontrata agostiniano (-1620), direttore della stamperia Vaticana, una preziosa libreria donò al suo convento in Roma, detta Angelica, a condizione che restasse aperta al pubblico. Il cardinale Girolamo Casanate napoletano (-1700) favorì i lavori dei dotti, e massime la _Collectanea_ dello Zacagni; e la ricchissima sua libreria legò ai Domenicani della Minerva di Roma, con quattromila scudi di rendita. Un’amplissima ne raccolse pure Francesco Marucelli prelato fiorentino nel palazzo fabbricatosi a Roma, e lasciollo a Firenze. Domenico Molino (-1635), gentiluomo veneto, carteggiava coi principali dotti anche d’oltremonte, ajutava di consigli chi componeva, e di denaro chi stampava. Lorenzo di Federico Strozzi (-1634), massime dopo perduta la vista, nella casa sua a Firenze adunava ogni miglior dottrina; altrettanto a Napoli Giambattista Manso; e in Roma Cassiano dal Pozzo gentiluomo torinese, il quale fece disegnare dal Poussin e da Pietro Testa in ventiquattro volumi le antichità romane, e unì la sua biblioteca a quella di Clemente XI. Giuseppe Valletta (-1658), de’ suoi diciottomila volumi facea comodità a chiunque, perciò in corrispondenza con tutti gli eruditi, e passava pel solo che in Napoli parlasse inglese. I papi fin de’ primi tempi raccolsero carte e libri; san Clemente ordinò a notaj che scrivessero gli atti de’ martiri, alla cui collezione san Gelasio fece mettere qualche ordine, origine degli stupendi archivj del Vaticano. Per quanto piccola ci sia apparsa in altri tempi la Vaticana, rimaneva sempre la principale libreria del mondo cristiano; a Gregorio Magno scriveasi dalla Gallia per averne le opere di sant’Ireneo, e da Alessandria pel martirologio d’Eusebio[222]; sant’Amando vescovo di Tongres chiedeva libri a Martino I, e re Pepino alcuni manoscritti greci da donare alla badia di san Dionigi; Lupo abate di Ferrière a Benedetto XIII i commenti di san Girolamo sopra Geremia, quei di Donato su Terenzio e l’_Oratore_ di Cicerone[223]. Ciò nel più fosco medioevo. Andò poi ampliandosi al risorgimento; e Calisto III spese quarantamila scudi d’oro per salvare libri dai Turchi quando devastavano la Grecia; altrettanto Nicola V alla presa di Costantinopoli, e spediva dotti per tutta Europa a cercarne; Pio IV adoprò ad egual uso il Panvinio e l’Avanzati; più fecero Sisto IV e Leone X; poi Paolo V, spintovi dal Baronio. Quando il duca di Baviera nella guerra dei Trent’anni saccheggiò l’ammirata biblioteca di Eidelberga, Urbano VIII, coll’opera di Leone Allacci, ne raccolse il più che potè, e quattrocentrentun manoscritti greci, mille novecencinquantotto latini, ottocenquarantasette tedeschi ne furono portati alla Vaticana[224]. Alessandro VII e l’VIII v’aggiunsero mille novecento manoscritti varj di Cristina di Svezia e della biblioteca ducale d’Urbino. Difettavasi di manoscritti ebraici, siriaci, armeni, egizj, etiopi, malabarici e simili: ma Gabriele Eva maronita, dalla Propaganda spedito in Egitto, avendovi osservato biblioteche ricche e mal tenute, fu spedito il maronita Elia Assemani a raccorne per la Vaticana; altri le furono regalati o lasciati; poi di nuovi andò a cercarne Simone Assemani, il quale compilò la _Biblioteca orientale_ a imitazione della greca di Fabricio, che è ancora il miglior catalogo che s’abbia in tal fatto. Caterina e Maria de’ Medici regine apersero la Corte di Francia a molti begli ingegni italiani; poi Luigi XIV, che ambiva anche la gloria d’Augusto, molti de’ nostri regalò e stipendiò; Filippo IV, poeta e pittore egli stesso, comprava da Palermo lo Spasimo, da altri la Sacra Famiglia e la Madonna della Tenda, i lavori più insigni di Rafaello, l’Adone addormentato sulle ginocchia di Venere del Veronese, per rivaleggiare col soggetto stesso del Tiziano; al Domenichino diede commissioni, come a Guido, al Guercino, all’Albani, che con tele del Caravaggio, del Cambiaso, d’altri nostri fanno ammirate le gallerie dell’Alcazar e di Aranjuez; e volle più di trecento gessi delle migliori statue d’Italia. Più solenne ricordo lasciò Cristina di Svezia. Uomo d’apparenza e d’atti, negletta nel vestire, semplice nel mangiare, insensibile a freddo, a caldo, a sonno, cavalcatrice instancabile, volubile amante, ereditando il regno e la gloria del gran Gustavo Adolfo, sentì difficile il sostenerla; e desiderando farsi cattolica, essa figlia di quel che in Germania avea dato trionfo alla Riforma, abdicò e venne in Italia (1654). Festeggiata quanto richiedevasi a sì segnalata conversione, alla santa casa di Loreto offerse votivi lo scettro e il diadema; e postasi a Roma nel più bel palazzo del mondo, vi si divise fra studio, divertimenti, onori, quali a pochi principi del suo tempo. Non sapea dimenticarsi d’essere stata regina; e come in Francia fece privatamente giustizia del Monaldeschi suo famigliare, così a Roma essendosi ricoverati nel suo palazzo alcuni malfattori, essa negò concederli alla giustizia, e poco poi s’andò a comunicare menandosi dietro colla sua livrea quegli scampaforca. Il papa le comportava queste ed altre stranianze; tardando la pensione che s’era riservata dalla Svezia, le assegnò dodicimila scudi romani. Ed essa largheggiava a letterati e artisti; fece sterrare le terme di Diocleziano; al Borelli dava i mezzi di pubblicar l’opera sul moto degli animali; al Bernini commise una testa del Salvatore, e la vita di lui fece scrivere dal Baldinucci; tenne per secretario Michele Capellari bellunese, che la lodò in un poema latino; per matematico Vitale Giordano da Bitonto; a Ottavio Ferrari per un elogio regalò una collana da mille zecchini; dal Soldani fece fare in cento medaglie la propria storia. All’Accademia istituita nel suo palazzo intervenivano il Noris che fu poi cardinale, Angelo della Noce arcivescovo di Rossano, Giuseppe Maria Suares vescovo di Vaisons, Gianfrancesco Albano che poi divenne Clemente XI, Manuello Schelestrate, vescovi e monsignori molti, Stefano Gradi bibliotecario della Vaticana, Ottavio Falconieri antiquario, il Dati, il Borelli, il Menzini, il Guidi, il Filicaja che celebrava «La gran Cristina, dal cui cenno pende E per cui vive e si sostien la fama; Lei che suo regno chiama Quanto pensa, quant’opra e quanto intende». Aggiungete il meschino poeta Gian Mario Crescimbeni da Macerata (-1728), che raccolse la _Storia della vulgare poesia_, materia scompigliata esposta prolissamente e con gusto vacillante, pregevole solo per molte cose nuove tratte in luce. Disperando parlare di tutti i poeti celeberrimi del suo tempo, e temendo disgustar quelli che ometterebbe, il Crescimbeni ne imbussolò tutti i nomi, e cavò a sorte quelli di cui parlare; tutto ciò in presenza di testimonj, e prendendone legale protocollo. Morta Cristina[225], egli pensò conservare uniti quei valenti, istituendo l’Arcadia, che divenne l’accademia più famosa d’Italia per meriti e per ridicolo. I quattordici fondatori s’adunarono primamente il 5 ottobre 1690 a San Pietro Montorio, poi negli Orti Farnesi sul Palatino; finchè Giovanni V di Portogallo diè di che comprarsi una stanza propria, che fu il Bosco Parrasio sul Gianicolo. Cresciuti di numero e di corrispondenti, ebbero colonie in ogni parte d’Italia; e doveano fingere un’Arcadia rinnovata, assegnando a ciascuno nomi pastorali e possessi, e conforme a ciò mescendo dappertutto idee campestri e pastorali: emblema la siringa di Pan, serbatojo l’archivio, custode il presidente, contare gli anni per olimpiadi, e gli statuti ne furono scritti dal Gravina nello stile delle XII Tavole[226]: insomma un’idealità senza riscontri, sformata viepiù dallo scegliersi a patrono Gesù nel presepio. Si prefiggevano di purgare il mal gusto; ma se di questo era causa lo scompagnare le cose dalle parole, come sperarlo corretto da gente che s’adunava per recitar versi, versi fatti per recitare? Emendavasi l’enfasi, ma rimanendo nell’artefatto anzichè ricorrere alla natura; e Vincenzo Leonio spoletino, un de’ primi in Arcadia, combattè i traslati e rimise in onore il Petrarca, sicchè andavasi fuor di porta Angelica a leggerlo e gustarlo. Alle convulsioni dunque sottentrava il languore: ma intanto si piegava a correggersi, e i migliori tra quei che nominammo introdussero una maniera diversa e più originale di quella de’ Cinquecentisti. Vincenzo Filicaja fiorentino (1642-1707), per nobile pensare, vigorosa immaginativa, sentimento di religione e di patria sorvola ai contemporanei, e mostra parlar col cuore deplorando l’assedio di Vienna[227], esultando alle vittorie di Sobieski sui Turchi, e gemendo sui mali d’Italia, straziata dalla guerra di successione, e troppo bella o troppo poco forte: pure col ripetere certe formole e certi passaggi rivela la mancanza d’ispirazione, affetta soverchiamente la sonorità, e ancora si pompeggia nei cenci del Seicento; si tiene sulle generali, quasi tema disgustare o i popoli o i re, interi non esprimendo nè la gloria de’ trionfi nè il tripudio della speranza. Visse modestissimo; tardi fu fatto senatore dal granduca; Cristina di Svezia fece educare due figli di esso, raccomandando il segreto, perchè, dicea, vergognavasi di far sì poco per un tanto uomo. Il pavese Alessandro Guidi (1650-1712) cominciò colle solite ampolle[228], poi per consiglio d’amici a Roma si volse a Pindaro, al Petrarca, al Chiabrera; è più immaginoso di questo e del Filicaja, e meglio sostenuto e felice nel maneggio della lingua e nell’onda armonica, professa, dove gli appaja grandezza, scoccare gli _inni dell’alma sua prole immortale_. Comincia magnifico, ma non trattando soggetti di reale interesse, nè con veracità o attualità di sentimento, finisce freddo malgrado il ditirambico disordine, e la troppo apparente cura di reggersi sempre in punta di piedi; a tacere la scipita idealità della vita pastorale anche quando canta sul colle di Quirino, «ove i duci altieri dentro ai loro pensieri fabbricavano i freni ed i servili affanni ai duri Daci e ai tumidi Britanni». Poeta di immagini, sovente le esagera; orna ed amplifica quanto il Chiabrera, profondendo epiteti non, come questo, appropriati al senso ma all’armonia. All’_Endimione_, favola pastorale da lui composta per Cristina, acquistarono fama il credersi v’abbia posto mano ella medesima, e l’averne fatto un commento il Gravina, scegliendola a modello delle regole che prescriveva. Parafrasò in versi sei omelie del cardinale Gianfrancesco Albano; ma anche i santi si atteggiano d’Arcadia. E coll’Arcadia e colla mitologia ristucca Benedetto Menzini fiorentino (1646-1704). Alle satire trae nerbo dall’ira, benchè de’ vizj non gli si affaccino che i più appariscenti, e spéttori invettive da trivio, giudicando che «ai poeti satirici le parole tolte di mezzo alla plebe vagliono altrettanto che le nobili agli eroici; ma non seppe fondere lo stile degli antichi col vivo. Nell’_Arte poetica_ flagella il gusto cattivo, più che non ne insegni un buono. Menò vita agitata, finchè ricoverato sotto il manto papale, strimpellò pastorellerie come è l’_Accademia tusculana._ Giambattista Zappi imolese (1667-1709), dottorato a tredici anni, avvicendò i trionfi del fôro e del Parnaso, ma senza uscire dalla povertà, che divise con Faustina Maratti, _arcades ambo_. Corretto ed elegante, ma senza la divina favilla, fa versi per far versi, non per bisogno d’espandere il sentimento, e sottiglia in arguzie. Carlo Maggi (1630-99), segretario del senato di Milano, molti epigrammi tradusse dal greco, appicciandovi arguzie, come gli scultori d’allora ammanieravano le copie di statue antiche. Componeva felicemente in milanese satire di coraggioso intento e commedie, nelle quali creò i tipi del Meneghino, buon pastricciano, servitore curioso e credenzone, e di donna Quinzia, vecchia dama orgogliosa del suo blasone; e molti suoi motti rimasero proverbiali. Ne’ drammi per l’arrivo de’ nuovi governatori non risparmiava le salacità, che non so come si conciliassero colla grande devozione d’allora, e «coll’aureo irreprensibil costume», di cui lo loda il Maffei. Qualche suo sonetto vigorosamente rimbrotta l’Italia, addormentata in sorda bonaccia, e dove se alcuno provvede ai mali imminenti, non cerca che il proprio scampo, senza curare i danni altrui. Alessandro Marchetti da Pistoja (1633-1711) variò studj, di nessuno soddisfatto finchè il Borelli nol pose alla geometria, di cui fu maestro in Pisa, e dove estese le dottrine di Galileo sulla resistenza dei solidi, troppo però inferiore ai grandi che presumeva emulare. Le sue liriche sono mediocri, come la versione d’Anacreonte; peggio quella di Lucrezio, qualunque sia il parere più vulgato o più vulgare. E più che nel secolo precedente sentivasi il bisogno di fare del nuovo, benchè si cercasse per false vie. Quindi molti cantarono i guaj o le speranze della patria; il Guidi introdusse le canzoni libere, il Tassoni i poemi eroicomici, il Redi la varietà del ditirambo, il Chiabrera metri al modo latino o greco. Pier Jacopo Martelli bolognese (1665-1727), che, oltre sette satire, tre poemi e un profluvio di liriche, fece ventisei drammi col proposito d’innovare l’insulso teatro, acciocchè non fosse mestieri ricorrere a versioni dal francese, ai Francesi s’accostava perfin nella testura del verso, che da lui nominammo _martelliano_. Già monotono a declamare, egli per giunta lo rigonfiò con immagini liriche, similitudini artifiziose, tutto insomma ciò che meno s’addice alla tragedia. E molte tragedie si fecero di quel tempo; molte commedie, fra le quali solo mentoverò quelle del Fagiuoli (1660-1724), fatte per l’Accademia degli Apatisti, che si adunava a Firenze in casa di Agostino Bollettini, e dove intervenivano il Filicaja, il Salvini, il Magliabechi, altri. Condotto dal cardinale Santa Croce in Polonia, come secretario, mostrò abilità agli affari, e da quel punto continuò a notare ogni sera quanto avea visto e riflettuto nella giornata. Reduce in Italia, poveramente visse fin a tarda vecchiaja, e ne’ capitoli berneschi evitò le sudicerie che ne pajono inseparabili. Il teatro, sorvegliato dai vescovi, scemò se non abbandonò le scurrilità del Cinquecento, ma originalità non ebbe. La commedia italiana, nel 1577 introdottasi a Parigi, traeva tanto concorso, che ne ingelosirono gli altri teatri; ma rappresentavansi per lo più burlette da figurarvi gli attori, anzichè i compositori. Nel 1645, per protezione del Mazarino, vi fu recata l’opera italiana. Ma a que’ sommi contemporanei francesi, Corneille, Racine, Molière, nulla abbiamo da contrapporre. Titolo di Sofocle italiano pretendeva Gian Vincenzo Gravina di Rogliano (1664-1718) per cinque infelici tragedie. Nella _Ragion poetica_, trattato che non si disgradirebbe un secolo più tardi, sostiene con lungo raziocinio consistere la poesia nella convenevole imitazione; ma neppure da questo principio sa dedurre tutte le conseguenze. Borioso, mordace, si avversò l’Arcadia coll’arrogarsene tutto il merito, e fu accannitamente percosso da Quinto Settano. Ascondevasi sotto questo nome Lodovico Sergardi senese gesuita, che con satire velenosissime ed eleganti, e diffuse in tutta Europa perchè latine, azzannò i vizj del secolo[229] e gli uomini, fra cui il Guidi, che altri credeva gigante, egli intitolava _pumilio_. Tommaso Ceva milanese (1648-1756) la matematica unì colla poesia latina, agevole coloritore ma di tocco; irresoluto s’adagia negli antichi errori, come più poetici; attribuisce all’abbandono d’Aristotele le eresie di Lutero e Calvino; ribatte i vortici di Cartesio e gli atomi di Gassendi, ma anche il sistema copernicano, come avversi alla fede; e sostiene l’attrazione col nome di simpatia. Meglio procede allorchè si appaga d’essere poeta, come nelle _Selve_ e nel _Gesù infante_; ma si trastulla sempre nell’epigramma: anche volendo fare un quadro grande lo tessella di quadrettini, graziosi sì, ma senza insieme, e tutti immaginuccie di fanciulli, pastorelli, agnelletti; non mai sapendo staccarne la mano o accorgersi delle sconvenienze, tanto meno elevarsi; e per far amare Gesù e aborrire il diavolo non altre vie conosce che le riverenze, il rosario, le orazioni. Alquante vite, di dettatura buona e temperata come il suo spirito, diresse a pio intento; e in quella del Leméne ascende a buone ragioni di arte poetica. Aggiungiamo ai latinisti Publio Fontana di Palusco bergamasco, l’Averani fiorentino, il Capellari, lo Strozzi che cantò la cioccolata; il gesuita Carlo d’Aquino che, oltre un _Anacreon recantatus_ di sentimento devoto, fece un _Lexicon militare_, spiegando i termini di guerra con osservazioni eccellenti ed erudite discussioni. Sotto gli auspicj di Alessandro VII si stamparono a Roma nel 1656 i _Poemata septem illustrium virorum_, detti talvolta _Plejas alexandrina_ e che fu poi ristampata dagli Elzevir nel 1672. Sono Alessandro Pollini, Natale Rondinini, Virginio Cesarini, Agostino Favoriti, Stefano Gradi, e gli stranieri Ruggero Torck e Ferdinando Fürstenberg, il quale ultimo pubblicò ad Anversa le poesie di papa Alessandro col titolo _Philomati musæ juveniles_ (1654). Molti Gesuiti adoprarono il latino, principalmente nelle controversie, ma in generale danno nel declamatorio; colpa forse il cominciare giovanissimi a fare il maestro. E moltissimi libri d’istruzione diedero fuori, certo i migliori di quell’età. Qui pure s’introdussero le difficili puerilità di acrostici, d’enigmi, di versi correlativi o ricorrenti, di poemi figurati[230]; e Baldassarre Bonifazio pubblicò a Venezia il _Musarum liber ad Dominicum Molinum_, che sono ventisei faccie stampate e ventidue incise, rappresentanti i seguenti oggetti: _Turris, clypeus, columna, calaria, clepsydra, fusus, organum, securis, scala, cor, tripus, cochlea, pileus, spathalion, rastrum, amphora, calix, cubus, serra, ara_. Più ampia è la raccolta del Caramuel a Roma nel 1663, intitolata _Primus calamus ad oculos ponens metametricum, quæ variis currentium, recurrentium, adscendentium, descendentium, nec non circumvolitantium versuum ductibus, aut æri incisos, aut busso insculptos, aut plumbo infusos multiformes labyrintos exornat_; e sono ottocentrentaquattro pagine, di cui ventiquattro intagliate, divise in otto parti, cioè _Prodromus, Apollo arithmeticus, Apollo cetricus, anagrammaticus, analexius, centonarius, polyglottus, sepulchralis_. Smisurata fatica d’insaccar vento. Anche qui dunque languidezza o vanità; e la ciarla, al solito, ornava i funerali del pensiero e della nazione. Prolissità e confusione nei più, persino in quelli che raccontano: scarsezza di pensieri, e perciò abbondanza di parole: coloro stessi che si stomacavano delle bizzarie correnti, non cercavano schivarle innalzandosi al sentimento, ma rifuggendo ai Cinquecentisti, al Petrarca, al Boccaccio: — e v’era passata di mezzo la Riforma. I nostri vecchi erano divenuti modelli ai Francesi, agli Inglesi, agli Spagnuoli, perchè erano stati nazionali, cioè aveano svolto il pensiero in modo conveniente a coloro cui si dirigevano: adesso la spontaneità facea schifo, s’imitava, si contraffacea. Alcune menti severe s’approfondirono negli studj, e proclamarono verità che prevenivano i tempi: ma quando l’erudizione vendicatrice venne a dar loro ragione, dove le cercò? in libri non curati dai contemporanei, dimentichi dai posteri; non nella memoria del popolo, non nell’attualità degli affari e delle applicazioni. Non che l’Italia fosse più guardata come la stella polare, i forestieri presero in beffa la nostra maniera: Shakspeare contraffece i concettini degli Italiani; Boileau rese proverbiale l’orpello del Tasso; il gesuita Bouhours, nella _Maniera di ben pensare nelle opere d’ingegno_, bersagliò i poeti nostri e i concettini; il marchese Gian Gioseffo Orsi di Bologna, gran dittatore di scienza cavalleresca, tolse a confutarlo, donde un litigio dentro o fuori, senza però che alcuno si elevasse a liberali pensamenti; e il pesarese Prospero Montani si meravigliava che tutti costoro, invece di stabilire canoni ragionevoli di gusto, volessero appoggiarsi unicamente ad Aristotele, ad Ermogene, a Falereo, dicendola «prostrazione di mente, genio tapino e illiberale, vilissima frenolatria». In fatto l’attenzione volgevasi ai grandi scrittori, ai grandi pensatori di Francia, dell’Inghilterra, della Germania; e sul merito loro, sulle loro opinioni foggiavansi il gusto e il raziocinio, pel bene e pel male; e si pensò tradurli, mentre i nostri cessavano di passar le Alpi. Fin nelle arti del disegno fummo superati; e nella musica si contendeva il primato ai nostri compositori, ai nostri cantanti. Il sapere zoppica quando non sia appoggiato all’azione. Ora in Francia, in Olanda, principalmente in Inghilterra non si troverebbe letterato di grido che non abbia preso parte alle vicende della sua patria, se non altro cogli scritti. Gl’Italiani rimasero sequestrati dal gran movimento politico e religioso. Nella ricchissima letteratura francese vive e spira la storia di quella nazione, perfino ne’ romanzieri, nelle tragedie, nelle commedie; tanto che si potrebbe scriverla, non dico fedelmente, ma interamente sopra di essi. Ma in Italia? la frase non era arma d’attacco o difesa, ma vanità e ozio: ciarla prosastica o poetica, senza serietà nè passione nè grandezza, non favellava al cuore, sì bene alla voluttà materiale o ai vulgari capricci: non si acuiva lo stile per farsi intendere dai partiti, per animar la parola col sentimento comune: a che si aspirava? a destar meraviglia; che cosa si bramava? l’applauso delle accademie; non ascoltando il cuore, non interrogando i profondi misteri della vita, i bisogni della nazione, il suo passato, il suo avvenire. CAPITOLO CLVIII. Scienze morali e filosofiche. Economia. Storia. Della vacuità letteraria non ultima causa fu la mancanza di movimento filosofico. Alla scolastica, che sotto l’apparato dell’argomentazione copriva spesso la nullità, e rigirava sempre entro il proprio circolo, aveano recato multiforme assalto gli Umanisti, i Platonici, i nuovi Peripatetici, i nuovi Pitagorici, i Mistici, gli Stoici, gli Scettici (t. IX, p. 310). Il modenese Mario Nizzoli[231] (-1556) combattè la logica e la metafisica dello Stagirita, non meno che le idee platoniche discordi dall’esperienza, e al barbaro delle scuole cercava sostituire il linguaggio comune e chiare etimologie; onde il Leibniz l’offrì come _exemplum dictionis philosophiæ reformatæ_. Sebastiano Erizzo veneto (-1585) sostenne il metodo analitico (_divisivo_), qualificato da Platone un dono e insegnamento degli Dei. Ma più che dai parziali assalti fu scassinata la Scolastica dalla Riforma, colla quale entrato il dubbio e l’esame, all’_ipse dixit_ si sostituiva la discussione contraddittoria de’ fatti. Non paghi del distruggere, alcuni vollero surrogare artifiziali combinazioni di sistemi antichi e d’immaginazione propria. Principalmente il regno di Napoli diede pensatori originali: ma appena spastojati dalla Scolastica, buttavansi all’entusiasmo, al gusto dello straordinario nell’ordine delle idee e dei fatti, alle aberrazioni ontologiche; mescolando jattanza critica a superstizione e incredulità, con una turbolenza indisciplinata, che manifestavasi anche nella vita loro. Bernardino Telesio da Cosenza (1509-88), studiato nel silenzio fino ai sessant’anni, pubblicò una filosofia naturale (_De rerum natura juxta propria principia_), dove, sbrattando dai commenti la fisica d’Aristotele, riduce i principj ad uno corporeo ch’è la materia, e due incorporei, calore e freddo: non solo attivi, ma intelligenti dei proprj atti e delle mutue impressioni. Il calore risiede nei cieli, unito alla materia più sottile; il freddo nel centro della terra, ove più densa è la materia; lo spazio intermedio è campo alle loro battaglie. Sul moto dei corpi celesti, sui gravi cadenti, sull’angolo d’incidenza e riflessione della luce, sulla direzione dei raggi negli specchi concavi o sferici, reca vedute nuove. Avanti Cartesio e Bacone, ai quali è attribuita la lode d’aver ricondotto gl’intelletti all’esperienza e all’induzione, il Telesio alla moderna indicava tutte le scienze naturali da studiare secondo i principj lor proprj, emancipandosi dai pregiudizj fondati sopra l’autorità e sopra massime a priori, e interrogando la natura: sicchè Bacone lo chiama il primo de’ novatori. A tali meriti partecipa Giordano Bruno da Nola (1550-1600). Stanco di viver domenicano e delle tirannidi nostrali, va a Ginevra, e s’accapiglia co’ seguaci di Calvino e Beza, de’ quali abbracciando le dottrine, non tollerava i limiti; considerato scettico, è perseguitato; passa a combatter dalla cattedra gli Aristotelici in Francia, in Inghilterra e in varie Università di Germania, in nessun luogo godendo tranquillità, colpa forse la smisurata sua superbia[232]. Acutissimo ingegno, istrutto nel greco e nella filosofia antica, robusto ma sfrenato d’immaginazione, sostiene l’originale libertà del filosofare, ma non sa padroneggiare il soggetto e fermarsi a tempo. Strani titoli appone alle sue opere, come la _Cabala del cavallo pegaseo_, la _Cena delle ceneri_, che è un dialogo sulla teoria fisica del mondo, ove sostiene Copernico, cui dà lode non meno d’erudizione che di coraggio[233]; ma l’ipotesi della gravitazione gli sa d’assurdo, attesochè ogni movimento sia per natura circolare. Lo _spaccio della bestia trionfante, proposto da Giove, effettuato dal Consiglio, rivelato da Mercurio, recitato da Sofia, udito da Saulino, registrato da Nolano_, fu creduto qualcosa di tremendo contro Roma, e non è nulla più che un’allegoria per introduzione alla morale. Il mondo, adir suo, è animato da un’intelligenza onnipresente, causa prima non della materia, ma di tutte le forme che la materia può assumere, viventi in tutte le cose quand’anche vivere non sembrino[234]. L’unità è l’essere; ciò che è multiplo è composto; dunque non esiste che l’uno, e in questo vanno confusi finito e infinito, spirito e materia. Presa in sè, l’unità è Dio; in quanto manifestasi nel numero, è il mondo; e ancora il mondo è Dio[235]. Un’unità primitiva sta in fondo all’apparente varietà degli oggetti, che a petto ad essa tutti sono eguali: e nell’osservarli non si vedono sostanze particolari, bensì la sostanza in particolare. Avvi dunque un principio supremo dell’esistenza, cioè Dio, che può esser tutto, ed è tutto; in lui la potenza e l’attività, il reale e il possibile costituiscono un’unità inseparabile; esso è non solo _causa esterna_, ma _fondamento interno_ della creazione. Idee vere non si danno se non nell’essere divino, del quale l’universo è effetto ed espressione imperfetta; e da questo universo noi deduciamo le cognizioni, che non sono idee ma ombre d’idee. Stabilita la relazione dell’intelletto divino coll’universale e cogl’intelletti particolari, e scoperto il nesso fra la verità divina, la verità delle cose e la verità propria de’ nostri intelletti, ne deduce l’armonia di tutte le cose fra loro. Dalla stretta connessione fra i tre grandi ordini di cose, Dio, l’universo, le intelligenze particolari, avendo creduto dedurre l’assoluta unità, aspirò a ridurre l’ideale e il reale, l’ente di ragione e il sussistente in un’unica categoria, la quale abbracciasse l’essere nell’universalità sua, ricondotto alla semplicissima unità. Al qual uopo intensamente s’applicò a perfezionare l’_Ars magna_ di Raimondo Lullo: cattivo modello. Pertanto egli primo nel suo secolo contempla il mondo da puro metafisico; o, come si direbbe oggi, si pone alla ricerca dell’assoluto; e sviando dall’esperienza, le cause de’ fenomeni non indaga nella materia stessa, ma accenna uno spazio infinito, pieno di mondi che splendono di luce propria, d’anime del mondo, di relazioni dell’intelligenza suprema coll’universo; confida nel _lume interno_, nella _ragion naturale_, nell’_altezza dell’intelletto_, e così s’avventura a divinazioni, talora anche fortunate, sopra i moti delle stelle fisse, la natura planetaria delle comete, l’imperfetta sfericità della terra. Risoluto di rivedere la patria, giunge a Venezia, sta due anni a Padova; ma preso, è consegnato all’Inquisizione romana, la quale non potendo indurlo a ritrattarsi, lo dà al braccio secolare, _ut quam clementissime, et citra sanguinis effusionem puniretur_. Condannato ad esser arso in Campo di Fiore, disse ai giudici: — Avete maggior paura voi nel proferir la sentenza, ch’io nel riceverla»[236]. Testè i Tedeschi riconfortarono la memoria del Bruno, indicandovi dottrine affini alle loro e principalmente al panteismo di Schelling, al par del quale il nostro coll’astrazione padroneggia le meraviglie visibili e invisibili dove si confondono il creato e l’increato. Ma le inestricabili divagazioni e la mancanza di linguaggio e di concatenamento scientifico nelle variatissime forme della sua ispirazione resero poco accessibile, e quindi infruttuoso il nostro filosofo. A Stilo, nell’estrema Calabria, nacque Tommaso Campanella (1568-1639), anch’esso domenicano e non meno ardito pensatore, capace di riuscir sommo se non si fosse sparpagliato su tante scienze col proposito di riformarle. Invaghito di Telesio «tanto per la libertà del filosofare, quanto perchè pendeva dalla natura delle cose, non dai detti degli uomini»[237], tentò sottrarsi alle possibilità di Lullo e alle formole della scolastica e fondare una filosofia della natura sopra l’esperienza, combinata però col soprannaturale, cioè colla rivelazione, la quale è fondamento della teologia. Nè in teologia può esser falso quel che sia vero in filosofia, giacchè quella è scienza degli attributi di Dio, questa è scienza della scienza con cui Dio governa il mondo. Vero è che egli come teologo non affronta con indipendenza il problema fondamentale della metafisica, mentre poi troppo ragiona per teologo, nell’intento di raffigurar la rinnovazione dell’uomo mediante la scienza. Prima di Cartesio trasse la prova dell’esistenza dall’attività interna[238]: conobbe ed espresse il bisogno della cognizione razionale e teologica, quantunque lontano dal soddisfarvi: ammirò Galileo, pur dissentendone in alcuni punti, e l’esortava a compiere un corso di filosofia razionale. Suo tipo è il mondo[239], e riprova coloro che all’esperienza antepongono l’autorità e le argomentazioni. Ma vedendo i fenomeni della calamita e il sesso delle piante, credesi appoggiato dall’esperienza nell’asserire che tutto è animato[240]; con eloquenza descrive le simpatie della natura, e lo spandersi della luce sulla terra, penetrandone tutte le parti con un’infinità d’operazioni, le quali è impossibile si compiano senza immensa voluttà. E talmente i corpi godono del mutuo contatto, che non può formarsi il vuoto se non per mezzi violenti. Oltre la metafisica, la fisica, la fisiologia, la filosofia sociale, offre un albero delle scienze, ponendo come capitale e universalissima la metafisica, e sotto di essa dividendo le altre in razionali e reali, cui corrispondono le scienze operative, le pratiche, le discipline e le arti. Troppo più cose asserisce che non ne provi; e lenta le redini all’immaginazione, concitata dalla solitudine e dai patimenti. Sovrattutto s’industria ad opporre un dogmatismo filosofico allo scetticismo, fondandosi sul bisogno che la ragione prova di raggiungere la verità; sicchè per impugnarla lo scettico medesimo ha mestieri di certi postulati. Contro i machiavellici difende la libertà del sapere e i diritti della ragione; ma poi si palesa machiavellico più che il suo secolo, e vorrebbe far dipendere la grandezza d’Italia da quella di Spagna, e questa procacciare con arti tiranniche e corruttrici: perisca la patria, purchè trionfi l’idea. Iddio parlò agli uomini dalla più grande antichità, mediante tutte le religioni; rivelossi agli Assiri cogli astri, ai Greci cogli oracoli, ai Romani cogli auspicj, agli Ebrei coi profeti, ai Cristiani coi concilj, ai cattolici coi papi, ampliando la cerchia delle sue rivelazioni ogni volta che lo scetticismo e l’incredulità attaccavano i popoli corrotti; le scoperte moderne son l’ultimo termine di questa tradizione divina, che, sempre superiore alle miserabili operazioni e alla gretta politica degli uomini, congiungerà finalmente tutti in una sola credenza, in quell’unità del genere umano che Augusto intravvide, e che la ragione esige perchè cessino i flagelli naturali e perchè le regioni più diverse permutino fra loro tutti i beni. La filosofia reale divide egli in fisiologia, etica, politica, economica e _città del sole_; nella qual ultima principalmente spiegò i suoi concetti sociali, e quasi la mancanza d’una patria lo spingesse ad errar nelle utopie, si propose di riformare il genere umano, ripristinando l’integrità e l’armonia della potenza, della sapienza e dell’amore. Delinea dunque una società sul tipo della sua metafisica: e come l’intelletto prevale alle altre facoltà, così il capo della repubblica a tutto l’ordine politico e civile; come l’intelletto è raggio divino, così questo capo è quasi un’incarnazione di Dio; come l’intelletto è per essenza buono, sapiente, potente, così esso capo deve aver tre ministri che rappresentino l’amore, la sapienza, la potenza; e il primo vigili alla generazione e all’educazione, il secondo a propagare la scienza, il terzo al consorzio civile e al mantenimento della vita. Non sarebbe questa la monarchia universale esercitata nel medio evo dalla santa Sede? Frate com’era, prende a tipo il monastero e la gerarchia clericale; tutti i Solari fan voto di frugalità e povertà; quattro ore di lavoro quotidiano basteranno ai parchi bisogni; il resto applicheranno all’universalità delle umane cognizioni. Comunanza dei beni e delle donne; abolizione della famiglia e della servitù; il servizio domestico si trasformi in funzioni pubbliche; e il potere, o, a dir più giusto, la direzione de’ lavoranti sia, ad ogni grado della gerarchia, esercitata da un uomo o da una donna. Chi primeggia in qualsiasi scienza od arte meccanica, è fatto magistrato, e ciascuno li ha in conto di maestri e giudici; essi sopravvegliano i campi e i pascoli; quel che maggiori mestieri conosce e meglio esercita, ottiene maggior considerazione. Ecco la gerarchia della capacità predicata dai Sansimoniani ai dì nostri, non mancandovi tampoco il padre supremo, il papa industriale[241]. Tali magistrati hanno autorità di giudicare e punire fin di morte e sommariamente; al potere esecutivo e giudiziario uniscono il religioso; ricevono da ciascun subordinato la confessione auricolare, e la trasmettono ai superiori colla propria. Il male della società deriva dall’amor proprio; vuolsi dunque affogarlo nell’interesse generale. A tal uopo sopprimasi la proprietà. Nè egli rifugge da veruna conseguenza del comunismo; fino il generare dev’essere sottoposto a norme, onde ottenere il progressivo miglioramento della specie; le donne esporranno i loro vezzi, magistrati apposta sortiranno le coppie, secondo norme che egli divisa cinicamente e secondo le combinazioni planetarie, sulle quali esso si diffonde con una compassionevole sapienza. Così è tolta fin la libertà dell’amore per ottenere quell’educazione onnipotente, che, cominciata prima del concepimento, deve accompagnare il nuovo cittadino sino alla virilità. Mediante questa, i Solari porteranno a perfezione il sapere e la società, faranno aratri che si muovano a vela, bastimenti che navighino senz’antenne o remi; voleranno, discerneranno negli abissi del cielo le stelle più remote, udranno l’armonia delle sfere celesti, arriveranno ad una longevità, ora inattingibile, anzi sapranno ringiovanire ogni settant’anni; tutta la terra sarà coltivata secondo un divisamento unico, come fosse un solo possesso; un nuovo culto senza misteri raccorrà nel tempio stesso le immagini di Pitagora e di Cristo, di Zamolxi e dei dodici apostoli; una lingua universale torrà gli ostacoli alla comunicazione delle idee. Così (oltre far continua astrazione dalle condizioni, dallo spirito, dai costumi d’Italia) colla natura morale il Campanella alterava anche la natura fisica; volea vincere le fatalità della natura, l’imprevidenza dell’uomo, l’antagonismo degli Stati; e mancando d’ogni senso della realità, raggiunge a fatica quel che i mistici comunisti del medioevo già avevano effettuato. Eppure, fra tanti delirj, conditi d’astrologia e d’astrusa scolastica, profonde e nuove osservazioni reca egli sopra la storia e l’alta politica della Corte romana; dalla prigione scriveva a Filippo II, implorando d’andargli a parlare di cose rilevantissime alla Spagna. Nella quale ravvisa il marchio della predilezione divina, come la più cattolica, e che ottenne dal Cielo il nuovo mondo; sicchè tutti devono adoperarsi affinchè consegna l’impero dell’universo, abbatta l’islam e l’eresia, compiendo la sua missione d’assicurare il trionfo della Chiesa. Ciò conseguìto, ristaurata l’unità del mondo, dovrà rifabbricare il tempio di Gerusalemme. Senza libri, e da dieci anni _in tuguriolo angusto_, indovinò il declinare di quella potenza, che allora stava all’apogeo. E per prima causa vi assegna l’isolamento orgoglioso degli Spagnuoli, onde consiglia di favorirne i matrimonj con Fiamminghi, Tedeschi e Napoletani, i quali deporranno le ripugnanze e s’acconceranno ai costumi degli Spagnuoli, giacchè è impossibile piegar questi orgogliosi verso costumi stranieri. — I vostri baroni e conti, spoverendo i sudditi, spoverendo voi stesso (dice al re), vanno vicerè o governatori soltanto per ispendere pazzamente il denaro, farsi de’ creati, e rovinarsi in piaceri; poi dall’ostentazione e dal lusso ridotti in secco, tornano a rifarsene in Ispagna, e rubano a dritta, a sinistra, e arricchiti di nuovo, ricominciano quella vicenda, e mille arti sanno di smungere i poveri sudditi»[242]. E segue suggerendogli le prudenze occorrenti per ingrandire: tengasi amici gli ecclesiastici; mandi cardinali e vescovi a governar l’America, le Fiandre e i luoghi sospetti; remuneri i più sapienti in divinità; ne’ consigli supremi metta Gesuiti, Domenicani, Francescani; nelle guerre ogni capitano abbia un consigliere religioso, massime per sovrantendere alle paghe de’ soldati, giacchè «la rovina di Spagna è che paga e non sa a chi»; tutte le sue imprese faccia dichiarar giuste dal papa. Nei consigli vuole che gl’Italiani siano adoperati principalmente per cose di guerre; ma non trascende i suoi contemporanei, i quali tutti ammettevano il sommo ed assoluto imperio del principe, nè provvedeano a mettere il men possibile d’impacci alla libertà individuale. Coloro che fra le vittime dell’intolleranza ecclesiastica decantano il Campanella, piacciansi osservare quanta egli ne eserciti. Coi novatori insegna di «non disputar le minutezze delle parole sacre, ma solo, Chi vi ha mandati a predicare? o il diavolo o Dio? Se Dio, ciò devano mostrare con miracoli: se no, bruciali se puoi, e infamali; ma mai si devono far dispute grammaticali, nè con logica umana discorrere, ma con la divina, senza moltiplicar parole ed allungare la lite, il che è una specie di vittoria a chi sostiene il torto. Di più condannarli al fuoco per le leggi imperiali, poichè tolgono la fama e la roba ad uomini autorizzati da Dio con lunga successione, come è il papa e’ religiosi, e coll testimonianze e sangue sparso... Il primo errore che s’è fatto, fu di lasciar vivo Lutero nella dieta di Vormazia ed Augusta: la qual cosa, sebbene alcuni dicano averla fatta Carlo per ragione di Stato, acciò che il papa sempre restasse timoroso di Lutero, onde fosse astretto sempre seguire le parti di Carlo, ajutandolo con denari ed indulgenze nelle imprese che faceva per arrivare alla monarchia, temendo non si piegasse ad innalzare Lutero suo emulo; nondimeno si vede essere stato contro ogni ragion di Stato, poichè, snervato il papato, tutto il cristianesimo s’indebolisce, tutti i popoli si ribellano sotto specie di vivere in libertà di coscienza» (_cap_. XXVII). E più volte ricombatte Lutero e Calvino. «La religione che contraddice alla politica naturale, non si deve tenere. La luterana e calviniana che nega il libero arbitrio, non si deve mantenere, perchè i popoli possono rispondere che essi peccano per destino» (_Aforismo_ 84). E quanto all’attuazione esterna della Chiesa, egli professa che «s’inganna chiunque dice che il papa non ha se non il gladio spirituale e non il temporale, perchè la monarchia sua sarebbe diminuita mancando di questo; e Cristo Dio legislatore sarebbe diminuito, cosa imprudente ed eretica da affermarsi. Quella medesima costellazione che trasse fetidi eflluvj dalle cadaveriche menti degli eretici, valse a produrre balsamiche esalazioni dalle rette intelligenze di quelli che fondarono le religioni de’ Gesuiti, de’ Minimi, de’ Cappuccini» (_Afor_. 70). Questi concetti riusciranno bene inaspettati a chi lo giudicò fin ora a detta altrui. Una volta ogni rivoltoso dovea figurarsi come eretico: oggi come italianissimo, e qui pure il Campanella ci raffinisce tra le mani. Perocchè professava che Italia «già mostrò i suoi frutti, e nessuna nazione dopo perduto l’impero potè recuperarlo mai, e tanto meno l’Italia, chè le stelle pur contraddicono, e dove non è che paura tra tutti e poca risoluzione per la salute comune, e nulla per ricuperarle l’impero, aspirando i principi soltanto a conservarsi[243]. Giacchè deve star soggetta, il minor male è che sottostia agli Spagnuoli, e sperare che crescano, anzichè ricever altri forestieri con rovina nuova. Massime che questi, essendo eretici, torrebbero a Italia l’_unica gloria_ rimastale, il papato, donde un infiacchimento che la esporrebbe al Turco». Neppur s’ha a toccare il papa, perchè «solo con la venerazione difende più gli Stati suoi che gli altri principi con l’armi; e quando è travagliato, li principi tutti si muovono ad ajutarlo, altri per la religione, altri per ragion di Stato[244]. E questo è dominio veramente italiano, e perciò chiunque non lascia eredi dovrebbe legare i proprj Stati al papa, e le repubbliche stabilire che a questo siano devolute se mai un tiranno le invada; e così si costituirebbe a breve andare una monarchia italiana. Intanto dovrebbe farsi a Roma un senato cristiano, dove tutti i principi avesser voce per mezzo di loro agenti; il papa vi presedesse per mezzo d’un collaterale; vi si risolvesse a pluralità di voti sulla guerra agli infedeli ed eretici, sulle differenze tra’ principi, obbligando colla guerra qual vi si rifiutasse. Del suo paese dice: «Napoli è popolata di settantamila abitanti, e solo dieci o quindicimila lavorando, vengono prestamente consunti dalla soverchia fatica; mentre il rimanente è rovinato dall’ozio, dalla pigrizia, dall’avarizia, dalle infermità, dalla lascivia, dall’usura; e per maggior disgrazia, contamina e corrompe infinito numero d’uomini assoggettandoli a servire, ad adulare, a partecipare de’ proprj vizj, con grave nocumento delle funzioni pubbliche. I campi, la milizia, le arti sono negletti o pessimamente coltivati con penosi sagrifizj d’alcuni»[245]. Il tanto oro affluito dall’America abbagliò a segno, da far credere che in questo consistesse la ricchezza d’uno Stato; e ogni cura fu dritta ad acquistarlo e conservarlo, non a quelle che ne son fonti, l’agricoltura, l’industria, il commercio: la scienza amministrativa riducevasi a trovare nuove imposte e fiscalità. I nostri le vituperano come esorbitanti, ma non suggeriscono compensi diversi; e il Campanella mostrava quanto male fossero ripartite, come i nobili le riversassero sui cittadini, questi sugli artigiani e sui villani; suggeriva un sistema consono alle nostre imposizioni dirette e indirette, leggiere sugli oggetti di necessità, gravi su quelli di lusso e spasso[246], ed escludendo la capitazione. Indicava pure un ricovero per gl’invalidi, scuola speciale pei giovani marinaj, asilo e doti per le figliuole de’ soldati, monti di pietà gratuiti, banche ove i sudditi deponessero capitali, ricevendo conto dell’impiego e degl’interessi; tengasi buona flotta, perchè la chiave del mare è chiave del mondo; non s’imitino nelle colonie e conquiste i Francesi, _qui, quum multa acquisiverint, nihil servaverunt_, perchè non sanno moderarsi, e da un lato s’arrogano troppo, dall’altro lasciano troppa libertà, oggi trattano i sudditi con molliccia bontà, domani con rigori violenti. Raccomanda pure di svoltare gl’intelletti dalle teologiche sottigliezze verso la storia, la geografia, il mondo reale; un codice uniforme; gl’impieghi aperti a chiunque è capace; poco favore alla nobiltà nata o alla ricchezza; stimolare la gloria e l’onore, proporre elevato scopo alle ambizioni, ridurre uniformi le monete, incoraggiar le manifatture, ben più fruttifere delle miniere. Eccovi concetti nobili al certo, ma non coerenti; sulla libertà professa dottrine false o triviali[247]; vagella nell’economia al punto, che, per impedir le fami, propone il re faccia monopolio del grano, ne vieti l’asportazione, ne assegni il prezzo[248]; cadeva nell’astrologia, nelle scienze occulte, nel misticismo[249]; pretendeva dall’esteriorità del corpo indovinare le inclinazioni dello spirito non solo, ma riprodurle; insomma, al pari del Bruno, molte verità presentì, miste a troppo di falso, e senza quell’unità ragionata che le rende efficaci. Compreso dalle grandi scoperte del suo tempo, ove in cent’anni si era progredito più che ne’ tre secoli precedenti, vagheggiò gl’indefettibili progressi dell’umanità; e nel secolo venturo prevedeva «compiuta la riforma della società; distruzione in prima, poi riedificamento; una monarchia nuova e mutamento totale delle leggi». A tale confidenza il recava, ancor più che la crescente intelligenza, la forza di carattere dell’uomo; e «come s’arresterebbe il libero procedere dell’uman genere, quando quarantott’ore di tortura non poterono piegare la volontà d’un povero filosofo, e strappargli neppur una parola che non volesse?» Accennammo (pag. 126) come, involto nella congiura di Stilo, fosse torturato[250], poi tenuto ventisette anni prigione. È sempre difficile determinare quanto v’abbia di vero nelle processure segrete; ma mentre i declamatori biografi del Campanella tacciano i frati d’averlo perseguitato per eretico, la Spagna lo incarcerava perchè cospirasse coi frati. E d’eresia e d’ateismo è in fatti appuntato da molti contemporanei: certo il suo _Ateismo trionfato_ va così debole, da poter essere intitolato Ateismo trionfante: d’altra parte egli credevasi un riformatore della scienza, inviato dal Cielo ad abbattere i sofismi, tirannide, ipocrisia[251]. Intanto egli studiava politica e filosofia, e mentre prima in favore della Spagna, allora si drizzò tutto a sostener Roma[252]; e se fosse scarcerato, prometteva in libri dimostrare vicina la fine del mondo; palesare una gran congiura di principi, teologi, filosofi e astronomi contro il vangelo; combattere invincibilmente i machiavellisti; dare un rimedio sicuro, senza del quale la cristianità sarà divorata dagl’infedeli; dimostrare venuto il tempo che il mondo riposi sotto una felicissima monarchia; insegnare ad aumentar di centomila ducati le rendite del regno di Napoli con benefizio dei sudditi, e così per gli altri Stati; comporrà un libro per convertire i Gentili delle Indie e convincere i Luterani, gli Ebrei, i Maomettani; andrà egli stesso ad apostolati, con cinquanta discepoli formati a tal uopo; riformerà le scienze naturali e morali secondo la Bibbia e i santi Padri, e le insegnerà tutte in un anno; farà un’astronomia nuova, e mostrerà i sintomi della morte del mondo; di più fabbricherà una città salubre e inespugnabile, e tale che al sol mirarla s’imparino tutte le scienze storicamente; scoprirà il moto perpetuo; farà vascelli che navighino senza remi, e carri che vadano col vento. Insomma anche qui mistura di elevato e di puerile. E dotti e principi presero interesse pel Campanella: Paolo V spedì apposta il tedesco filologo Scioppio a Napoli per trattare di sua scarcerazione, e se non altro gli ottenne di poter leggere e scrivere e mandar lettere. Alfine Urbano VIII, trattolo a Roma col pretesto che competesse al Sant’Uffizio per avere professato profezia, lo restituì in libertà. Passato allora in Francia, trovò amici gli eruditissimi Claudio Peiresc e Gabriele Naudé, Richelieu protettore, applaudenti i Francesi, non tanto come a filosofo, che come a perseguitato della Spagna; pensionato di cencinquanta lire al mese, assisteva alla Sorbona, all’Accademia allora nascente, fin al consiglio di Stato; vi fece molte profezie, riportate dai contemporanei, e compiva le sue opere, dirigendo le quali al granduca, dicevagli averlo Iddio mandato in quel paese certamente per ricostruire le scienze. Avea predetto gli sarebbe funesto l’eclissi del giugno 1639, e tentava sviarlo con ripari astrologici: ma al 21 maggio morì settagenario. _Uomini nuovi_ sono chiamati costoro da Bacone, perchè alla scolastica abitudinaria surrogavano la ragione: e di fatto il Patrizj[253] già asseriva «i particolari sensibili fare strada alla più alta filosofia», e il Campanella che «prima opera del filosofo è comporre l’istoria dei fatti». Ma non si sceverano dalle inveterate prevenzioni; uscendo dal buon senso smucciano nel paradosso, nè alcuno piantò un sistema che comprendesse bastanti verità da signoreggiare l’intelletto, il quale, se ammira un momento le bizzarrie, non riposa che nell’ordine. Bensì il francese Renato Cartesio (1596-1650), vedendo qual cumulo d’errori si adottasse sull’autorità de’ precedenti, propose di disimparare tutto e far tavola rasa, affermando soltanto ciò ch’è evidente; pose insomma il dubbio come portinajo della scienza, e nelle cento pagine austeramente semplici del suo _Metodo_ innovò le scuole. La dimostrazione dell’esistenza dedusse da un fatto della coscienza dicendo: — Io penso, dunque esisto»[254]. Vero è soltanto ciò che ha evidenza interna nella coscienza, o di cui la mente acquista precisa e indubitabile certezza. Dal semplice, che immediatamente si capisce, salgasi al composto, all’oscuro, al difficile, raccolgansi e si discernano i mezzi che conducono al vero, librandoli cogli ostacoli frapposti; non si ammetta un concetto senza ragion sufficiente, nè una cosa si reputi vera perchè altri la crede tale. Rifiutando ciò che non sia evidenza o coscienza, ragione individuale o infallibilità geometrica, concentra dunque le scienze nello studio delle intellettuali facoltà; nulla volendo imparare da altri, si obbliga a rifar tutta la via del pensiero, e ogni scienza trarre dal proprio ingegno: e per quanto sia portentoso che un uomo tante cose compisse, da peggiori falli non campò se non per merito di quegli stessi che rinnegava. Intanto restava eliminata dalla società ogni causa metafisica, facendola prodotta e architettata da una potenza unica, la libertà, il diritto dell’uomo: escluso ogni principio superiore che spieghi ciò che la ragione non può spiegare, la filosofia cartesiana, fin all’ultima sua manifestazione con Hegel, proclamava l’onnipotenza della ragione: ma il razionalismo non può fare che conquiste precarie, continuamente edificando e abbattendo, e vivendo d’incessante variazione. E già i primi suoi seguaci trascesero, e Malebranche introdusse le cause occasionali, e non accettò l’esistenza dei corpi, ma sol quella degli spiriti; l’ebreo Spinosa ridusse a scienza il panteismo, ammettendo un ente unico, un’unica intelligenza; Locke popolarizzò la metafisica con semplificazioni che eliminano le quistioni invece di scioglierle; Leibniz combattè il sensismo sostenendo che solo la fede può conciliare i due termini della conoscenza, il me e il non me. I nostri ammiravano, e imitavano chi l’uno chi l’altro. Giambattista Vico, che prese le mosse dal criticare Cartesio pur ammirandolo, riflette sagacemente che l’assioma _io penso, dunque sono_ prova soltanto il fenomeno; e il fenomeno non è già negato dagli scettici, bensì la realtà di esso; nè questi dubitano della coscienza, bensì della sua validità (_De nostri temporis studiorum ratione_, 1708). Conchiude che non il metodo ma il genio elevò Cartesio a tant’altezza: l’erudizione vi trapela di mezzo all’affettata aridità della sua ragione, come, nel mentre abolisce il passato, lascia scorgere quanto meditasse su questo. Michelangelo Fardella siciliano (1650-1718), dall’_analisi divina_ di Cartesio in molti punti si scostava, e nominatamente sulla certezza, credendo tutt’altro che dimostrata l’esistenza del mondo esteriore: ma all’idealismo di Malebranche opponeva il suo stesso argomento; l’esistenza del mondo esteriore non potersi dimostrare altrimenti che per la rivelazione. Credeva le idee fossero la percezion delle cose, ma ne ammetteva alcune innate, che però non erano immagini della mente, bensì una disposizione di questa ad eccitarle senza impulso esterno. Ma poichè prendeva come unica sostanza l’ente infinito, del quale gli altri non erano che manifestazioni, come sottrarsi al panteismo? Se non che di Cartesio e di Malebranche adottava i sistemi solo in quanto convenissero colla dottrina di sant’Agostino, cui mostravasi devotissimo. Più francamente predicò il cartesianismo Tommaso Campailla di Modìca (1668-1740) nel suo poema filosofico l’_Adamo_, onde fu detto il Lucrezio cristiano. A Napoli l’Accademia degli Investiganti, protetta dal marchese d’Aversa, scosse il giogo d’Aristotele, s’innamorò di Gassendi, della filosofia atomistica d’Epicuro e di Lucrezio Caro, benchè facesse riserve per le credenze cattoliche. Dappoi il famoso medico Tommaso Cornelio vi fece conoscere Cartesio, e questo divenne moda; applicandosi piuttosto alle cose naturali, pigliando per solo criterio l’esperienza del senso esterno ed interno. L’idealità soccombeva dunque al sensismo, del che sbigottiti i monaci, li denunziarono come pericolosi all’Inquisizione di Roma, la quale avviò alcuni processi; ma l’autorità non solo si oppose, ma tolse a quella la facoltà di processare nel regno (1692). Giambattista De Benedictis, gesuita di Lecce, nelle _Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica_, flagellò i filosofi nuovi, e principalmente i napoletani Tommaso Cornelio, Leonardo da Capua, Francesco d’Andrea, Aurelio di Gennaro, Nicolò Cirillo, i quali gli risposero. Elia Astorini da Cosenza carmelitano, che dal peripato passò alla filosofia nuova, fu inquisito per mago od eretico; onde fuggì a Zurigo, poi a Basilea, e in varie scuole della Germania cerco e onorato: ma visto que’ professori di teologia combattersi e scomunicarsi un l’altro, si persuase non darsi riposo che nell’unità cattolica, onde contro Luterani e Calvinisti scrisse con erudizione e solidi ragionamenti; e assolto fu mandato a predicare a Firenze e a Pisa, dove lesse matematica; poi a Roma; infine stracco da nuove persecuzioni, si concentrò nella vita studiosa. Paolo Mattia Doria, ne’ discorsi filosofico-critici, additò per quali ragioni fosse dalla cartesiana tornato alla dottrina platonica, e contro Francesco Maria Spinelli difese l’ideale metafisica antica. Tommaso Rossi ricondusse la fede ad accordarsi colla scienza. Anche nelle scienze più favorite come le teologiche, lo stesso indulgente Tiraboschi confessa non avervi un moralista di polso, non uno che degnamente combattesse nella quistione della Grazia, che empiè di garriti la Francia. Ippolito Maracci (-1765) dedicò tutte le sue fatiche alla beata Vergine; nella _Biblioteca Mariana_ informò di più di tremila scrittori sopra gli attributi di Maria. Luigi suo fratello tradusse il Corano con ampj commenti e con esili confutazioni. Stefano Menochio pavese gesuita fece un buon _Commento di tutta la sacra Scrittura_, più volte ristampato, e _Trattenimenti eruditi_ su molti punti di storia sacra. Vincenzo Gotti bolognese (-1655), domenicano e cardinale, in dieci volumi dimostrò la verità del cristianesimo contro Atei, Pagani, Ebrei, Maomettani. Il padre Domenico Gravina di Napoli, oltre difendere la Chiesa contro Marcantonio de Dominis, fece le _Catholicæ præscriptiones adversus omnes veteres et nostri temporis hæreticos_ (1619). Il padre Francesco Brancati napoletano (-1693) dettò molte opere teologiche, e sull’uso della cioccolata, sulla giurisdizione del Sant’Uffizio, e massime sulla predestinazione, professandosi fedele a sant’Agostino. La morale fu applicata anche all’intera società, nella scienza civile cercando le norme, le cause, la legalità de’ mutamenti che si vedevano. Il diritto pubblico non si considerò più come semplice custode del diritto privato, e l’elemento morale se ne elaborava con maggior cura che il materiale e meccanico, pur volendo sottrarlo ai concetti metafisici. Il diritto internazionale, dapprima ragionato su casi teologici, sulle analogie del diritto positivo e locale, sulle consuetudini, gli esempj e qualche reminiscenza antica, come il gius feciale, allora si costituì sopra un’equità più larga, si riconobbero diritti al nemico e una ragione legittima, anzi che il fatto d’una conquista anticristiana. L’uso di tener ambasciadori fissi nelle Corti straniere fu ignoto al medioevo, quando politica internazionale non può dirsi esistesse, mancando fin l’idea di nazione. Occorrendo, spedivansi oratori o nunzj, ai quali soleano darsi le spese e regali e privilegi. Venezia, a cui metteva capo tutta la politica d’Italia, e in parte anche quella de’ forestieri, teneva e mandava sempre gran numero di ambasciadori: ma quando la politica s’avviluppò, e quelli crebbero a dismisura e si resero stabili, al 5 gennajo 1529 nel maggior Consiglio si prese parte, che, dovendo provvedersi a riparare con risparmj alle tante spese, si cesserebbe dal dare cosa alcuna nè in dono nè in uso ad ambasciadori, non l’affitto e le masserizie delle case, non addobbi, nè barca, nè esenzione di dazj, nè denaro sotto qual fosse titolo: al loro arrivo si potrebbe spendere da cinquanta ducati in una cena e in un presente di confezioni, e alla partenza un dono non maggiore di cinquecento ducati per ambasciadori di teste coronate, e ducento per gli altri. L’appaltatore del vino, che era dapprima obbligato a somministrarne al pubblico ducento anfore per uso d’essi ambasciadori, d’or innanzi pagherebbe in quella vece cinquecento ducati all’uffizio delle Ragion vecchie. Però in quel secolo si trascorse di molto quel segno, ricevendo pomposissimamente gli ambasciadori e donandoli riccamente; si permise loro d’introdur da Fusina certa quantità di pane senza dazio, poi altre licenze, che divennero coperta del contrabbando, sinchè non furono abolite: pure il pretenderle recò gravissimi disturbi alla Signoria[255]. Dilatatosi l’uso degli ambasciadori, l’arte ne fu ridotta a teorie; e Carlo Pasquali da Cuneo, che servì utilmente la Francia col nome di Pascal, stampò il _Legatus_, primo libro ove si trattassero i doveri e le attribuzioni degli ambasciadori. Alberico Gentile, della marca d’Ancona (1551-1611), protestante (tom. X, pag. 407), professando a Oxford preferisce i legisti antichi, disapprovando l’Alciato d’aver tratto partito dalla cognizione dell’antichità, della storia, delle lingue; ma se si guardi all’eleganza, all’erudizione, agli altri meriti di lui, congeneri a quelli del criticato, può supporsi che satiricamente avesse voluto fingere un elogio all’ignoranza dei giurisperiti; non si limitò al diritto romano, ma indagava la giurisdizione naturale; mostrava l’importanza e santità delle ambascerie (_De legationibus_), che non devono essere impedite da differenza di religione, che le azioni civili contro i ministri pubblici possono essere deferite ai tribunali ordinarj. Con questo ed altri libri (_De potestate regis absoluta, De vi civium in regem semper injusta_) fondò la scuola del diritto pubblico; fu il primo a librare sistematicamente il diritto delle genti in guerra (_De jure belli_). Vuole si osservi la parola, disapprovando e Carlo V e Luigi XII; i patti d’alleanza giudica non _stricti juris_, ma _bonæ fidei_. Il suo libro suggerì forse il concetto, certo l’ordine a Ugo Grozio (-1646), il quale restaurò il diritto naturale, ben distinto dalla morale e dalla politica, deducendolo dall’istinto sociale, e fondandolo, non più su cause mistiche, sul gius feudale, sulle costumanze della cavalleria, sui temperamenti ecclesiastici, ma sull’autorità mediante una dottrina etica universale, dove però si confondeano elementi che poi furono distinti. Hobbes e Spinosa invece ridussero egoistica la morale privata e la pubblica. Il mediocre Puffendorf (-1694) cercò discernere la ragione dalla rivelazione, e dedurre il governo civile dalle famiglie primitive. Ma la riscossa cattolica si sentì pure nelle teorie sociali, e qualunque fossero i fatti, non si ostentava più nelle dottrine la colpevole indifferenza tra il bene e il male, tra il vizio e la virtù, in cui s’erano avvolti storici e politici del secolo passato, come Guicciardini e Machiavelli. Donato Giannotti, succeduto a quest’ultimo per secretario della Repubblica fiorentina, ne analizzò il governo, e la incalorì contro i Medici; con senno e con dignità posata e colta esaminò la repubblica di Venezia meglio che non avesse fatto Marcantonio Sabellico, e la paragonava a una piramide, di cui erano base il granconsiglio, mezzo i pregadi e il collegio, vertice il principe, e sperava vivrebbe «qualche secolo, se non per altro, per insegnare alle città d’Italia come elle si hanno a governare se da tiranni non vogliono essere oppresse». Il cardinale Gaspare Contarini ammirò pure Venezia ma da un altro aspetto, applicandole i canoni degli antichi, proclamando la legge come la cosa più vicina alla divinità, e lodando le costituzioni miste. Paolo Paruta veneto (1540-98) vagheggiava soprattutto la libertà, tolta la quale, «ogni altro bene è pur nulla; anzi la stessa virtù si rimane oziosa e di poco pregio... principale condizione nell’uomo che abbia a divenir felice, parmi il nascere e vivere in città libera»[256]; sgomentava dal fidarsi a tiranni, e «chi commette il governo della città alla legge, lo raccomanda quasi ad un Dio...; chi lo dà in mano all’uomo lo lascia in potere d’una fiera bestia». Nei _Discorsi politici_, se non arguto e vigoroso, si mostrò abbastanza franco nel giudicare de’ Romani e de’ contemporanei; sotto quella rusticità si riscontrano idee, delle quali è dato merito a Montesquieu. Più che i fatti di Roma lodando la prudenza di Venezia, non che volere l’ampliamento degli Stati mediante la conquista, come il Machiavelli, cerca la conservazione e la difesa; anzichè, come lui, disperare de’ popoli moderni, li crede capaci di gran fatti, quali ne compirono Carlo V e Solimano. Di politici avvenimenti sparse anche la sua _Storia veneta_, scritta bensì al soldo della Repubblica, ma da uom pratico, e colle particolarità e le applicazioni di cui è digiuno il Bembo, e sottoponendo i fatti parziali a idee generali. Più francamente descrisse la guerra coi Turchi, ch’è veramente l’epopea di quella riazione cattolica, della quale il Paruta stesso risentì, come appare da un _Soliloquio_ sopra la propria vita, confessione delle interne tempeste. La repubblica di Genova fu analizzata da Uberto Foglietta, cui non pareva libertà quella donatale dal Doria, ma voleva che nobili e cittadini fossero eguali in faccia alla legge, senz’altra distinzione che del merito, della virtù e de’ servigi prestati. Cosimo Bartoli ne’ _Discorsi istorici universali_ pende ai Medici, i quali fecero ogni opera per cattivarselo; e ancor più apertamente Giambattista Guarini sostiene l’autorità principesca. Nel _Discorso de’ governi civili_ Sebastiano Erizzo palesa miglior conoscenza dei libri che degli uomini; nè gravità istruttiva mostrano Bartolomeo Cavalcanti _Delle repubbliche e delle spezie di esse_, e Francesco Sansovino _Del governo de’ regni e delle repubbliche_. E a centinaja sono a numerare gli scrittori di politica e di ragion di Stato in quell’età, sotto i nomi di _Tesoro politico_, di _Principe regnante_, di _Segretario_, di _Chiave del gabinetto_, di _Ambasciadore_. Si fan maestri al principe regnante, al principe deliberante, al principe ecclesiastico; al ministro, al segretario, raccogliendo una folla di precetti ed esempj dagli antichi e alcuni dalla propria esperienza, vulgari nel fondo, e rivolti all’intrigo, al riuscire, all’assonnare la coscienza sui mezzi mediante la bontà del fine: spesso volgonsi a privati, insegnando l’arte di adular con accortezza, di dire servilità con apparenza di rustica franchezza e sin di censura; di dar pareri convenienti al tempo e alle persone; di sollecitar favori al momento e all’umore opportuno; di scegliersi amici e confidenti utili o di divenirlo a chi è utile; di corteggiar il potente, sia esso un principe o un arruffapopolo, chè l’uno e gli altri han del pari piacentieri e turcimanni. Tutti pieni di prevenzioni, tutti raccomandano come arte suprema la secretezza, non ostentano più l’immoralità come Machiavelli, anzi la confutazione di questo è luogo comune a tutti: vero è che non rifiutano l’intrigo, il tradimento e la perfidia quando si tratti di miscredenti, di traditori, di ribelli; nella confusione del passato non vedono alcun filo, ma vi trovano esempj per sostenere le più opposte teoriche; insegnano a adulare senza parerlo, a disobbedire pur protestandosi sommessi; librano i diritti e i doveri secondo la media proporzionale d’Aristotele; e sempre parlano a principi e a ministri, i quali non li leggevano, professando di non iscrivere pel popolo; e danno litanie di precetti, tutti metallo sonante e come il suono inutili, o li rinfiancano con autorità classiche o ecclesiastiche, e li dispongono in categorie irreprovevoli, o cercano esempj in Tiberio, in Pilato, in Bruto, per giustificare, o almeno spiegare la notte di San Bartolomeo, il duca d’Alba, Maria la Sanguinaria, e fondando la potenza degl’imperi e la felicità de’ popoli su tesi e antitesi di miope dottrina, e di mediocri combinazioni. Scipione Ammirato da Lecce (1531-1601), prudente più che arguto, ribatte il Machiavelli, massime difendendo la Corte di Roma; colla storia alla mano nega che da questa venisse lo sbranamento d’Italia; esser prosperati alcuni popoli senza quest’unità, la quale poi difficilmente s’accorderebbe colle abitudini e col valore e l’accorgimento italiano; «e se Dio non facesse un miracolo, questa unione d’Italia non potrebbe succedere senza la ruina d’Italia... Desiderano dunque di vedere ogni cosa piena di sangue e di confusione, perchè abbiano a godere i nostri nipoti sotto un principe, Dio sa quale, la mal costante e peggio impiastrata unione d’Italia?» (_Discorso_ V). Una teorica compiuta e ragionata di quanto concerne uno Stato in fatto di legislazione economica, stabilita non su Livio o Tacito ma sul vangelo, cioè sulla giustizia e l’umanità, oppose a quella del Machiavelli[257] Giovanni Botero piemontese (1540-1617), segretario di san Carlo e di Federico Borromeo, poi educatore de’ figli di Carlo Emanuele. Nella _Ragion di Stato_, con fino ragionamento, osservazioni molte dedotte dalla lettura e dai viaggi, e opportune applicazioni, sostiene che l’onesto non va disgiunto dal vero utile, nè l’ingiusto può mai dirsi vantaggioso. «Stato (dic’egli) è un dominio fermo sopra i popoli; e ragion di Stato è notizia de’ mezzi atti a fondare, conservare, ampliare questo dominio. Debbono i governi conservarsi a ogni costo». In conseguenza approva la strage del San Bartolomeo, imputa al duca d’Alba l’avere clamorosamente ucciso Egmont e Horn, anzichè «liberarsene quanto più poteva segretamente»; insieme loda la Francia d’aver concesso libertà di culto ai Protestanti; disapprova la crociata dei Mori di Spagna; contro l’errore crede siano più efficaci i mezzi pacifici. La guerra, quando non sia necessaria difesa, è un latrocinio: i grandi eserciti mostrano la barbarie, anzichè il talento di chi gli adopera: raccomanda la fanteria più della cavalleria, e la milizia nazionale. Non crede utili le dogane, e l’economia nelle spese pubbliche giovar meglio che il cumular tesori: s’incoraggino l’agricoltura e le arti, ma non i matrimonj, nè si tema che parziali celibati scemino la popolazione, la quale s’equilibra coi mezzi di sostentamento[258]. Teoriche di buon senso, che la scienza di poi rabbujò e imbastardì. Nelle colonie degli Spagnuoli e Portoghesi non ravvisa che romanzesche speranze e reali guasti, onde, invece di nuovi mondi, si avranno nuovi deserti. L’ozio è la cancrena d’uno Stato, e perciò vorrebbe obbligati i padri a istruir i figliuoli in qualche arte. Il commercio è il migliore spediente a utilizzar i prodotti superflui: pure crede dannoso l’asportar le materie prime. Ragionò meglio d’ogni altro delle imposte, disapprovando le tasse personali e mobiliari, e tanto più quelle in natura. Non crede che i principi vantaggino dallo scarnare i popoli; bensì dall’averli ricchi in modo, da poter all’occorrenza trarre imposte straordinarie. Si aboliscano le lunghe procedure costose e la folla de’ legulej. Non osteggia la feudalità, ma vorrebbe limiti sull’eccessivo arricchire e alla superbia de’ nobili; amerebbe si distribuissero terre a tutti i cittadini, e segni onorifici a chi ben meritò, per quanto d’umile estrazione; sicchè impediti i vecchi nobili di nuocere, spinti i nuovi a giovare, tutti sarebbero meglio impegnati alla difesa della patria. I vizj del clero derivano da orgoglio e da potenza; mentre ogni sua autorità dovrebbe consistere nella moderazione e nel disinteresse. Del resto egli suppone l’uomo qual dovrebbe essere, non qual è; onde i belli suoi suggerimenti mancano spesso d’opportunità[259]. Nello scompiglio politico dell’Europa d’allora, ribramava l’equilibrio che un tempo erasi stabilito fra i varj Stati d’Italia; e incoraggiando i timidi a valersi dei proprj mezzi, prevedeva il decadimento vicino della Turchia e della Spagna. Per dimostrare la necessità dell’equilibrio politico, dice che natura non lasciò nulla senza contrappeso: «Che cosa più generosa del leone? ha con tutto ciò paura della cresta e del canto del gallo; più forte che l’elefante? e trema tutto alla vista d’un topo; più vasta della balena? ed ha bisogno della scorta del murcolo, pesce piccolissimo; più veloce del delfino? ha la bocca tanto ritirata che, sebbene aggiunga in poco spazio, non può facilmente, per il sito troppo ritirato della bocca, afferrar la preda; il cocodrillo ha il tergo guernito d’una scaglia impenetrabile, ma il ventre delicato e molle, e perciò esposto agli urti del delfino, che cacciandosegli sotto, lo sventra». E per l’equilibrio, più d’una grande monarchia, ama i piccoli Stati che si contrappesino. Come i migliori, si procaccia cognizione esatta e ordinata delle cose reali e sussistenti e della varietà delle attuali contingenze. Anch’egli ammira Venezia, ricca pel commercio, per la zecca, per la dovizia de’ particolari; e quel che altrove si butta in mantenere il re e la sua famiglia, ivi accresce la flotta e le fortezze. Nel 1590 orribil fame guastò tutta Italia, fin le pingui Parma e Piacenza; sola Venezia provvide in modo che nessuno soffrì, e v’ebbe concorso di forestieri; i ricchi adunarono somme pei poveri, e furono imitati nelle altre città. Al qual proposito di Venezia avvertendo che vi si uccide men gente che altrove, disapprova i supplizj atroci, allora usitati: «A che proposito caricar le forche d’appiccati e far beccheria d’uomini senza fine? L’assiduità della forca, perchè le cose alle quali gli occhi sono avvezzi hanno poca forza a far movimenti negli animi, rende così fatta morte meno vituperosa e men aborrevole». Riflessi oggi comuni, allora nuovi. Non crede a Venezia nocesse l’essersi impacciata della terraferma; e ben avvisa come due distinti governi avesse la repubblica, quel di se stessa e quel dei sudditi; e che in lei, siccome in tutte le aristocratiche, non predomina l’impulso guerresco quanto nelle democratiche, perchè colà bisogna che i governanti apprestino i mezzi ed espongano le persone, mentre dove si obbedisce agli schiamazzi, «La sciocca turba grida _Dàlli_, _dàlli_, E sta lontana e le novelle aspetta»[260]. V’accorgete come la scienza degli Stati, ancor novizia nell’elaborar l’idea della suprema tutela de’ governi sui popoli, toccava tutte le materie, mal distinguendo le regole governative dai fenomeni puramente economici. Il Sismondi, nel tanto combattuto capo CXXVI della sua _Storia delle Repubbliche italiane_, asserisce che «appena si trovano due o tre esempj di scritture pubbliche intorno a cose di governo, e i loro autori aveano sempre la precauzione di farle stampare in estero Stato». Oltre un ribocco che ne chiudono gli archivj, se n’ha molte a stampa, dove si esaminava lo stato de’ singoli paesi[261]; domandando, è vero, soltanto miglioramenti parziali, spesso inefficaci, talvolta disopportuni, e scaduti d’ogni interesse dopo passata l’occasione, giacchè nessun grande scrittore prestò la sua voce al popolo, abbandonato ai tumulti e all’arme corte, spediente dei deboli. Gli antichi amministratori delle repubbliche italiane, cresciuti nella vita privata, conoscendo quanto importino il lavorare e il risparmiare, applicarono i canoni della famiglia allo Stato; ben lungi dal riporre soltanto nella guerra la forza degli Stati. Decisa poi la quistione politica inappellabilmente, gl’ingegni si volsero di preferenza sull’economia, tanto più che la mutata via del traffico, e quindi la mutata sede delle ricchezze invitavano a meditar sulle cagioni che mantengono esse ricchezze e la prosperità degli Stati. Praticamente predominante se non unico sistema era il mercantile, designato col nome di Colbert, che facea considerare i metalli come sole ricchezze vere, e le produzioni naturali come mezzi di conseguirle; pertanto restare fissa invariabilmente la somma delle ricchezze, nè una nazione potersele accrescere se non a scapito dell’altra. Di qui la nimicizia reciproca de’ gabinetti di quel tempo; di qui un’ideale bilancia di commercio, per cui importasse aumentar il denaro proprio smungendo l’altrui, escludere le produzioni degli esteri, e obbligar questi a ricevere le nostre; e a tal uopo fiancheggiarsi di privilegi, ordinanze protettrici e azione incessante governativa. Niuna miglior vista aveano i nostri, sebbene siano stati primi a discorrere scientificamente sull’economia pubblica. La modificazione portata dall’oro americano, e la profusione delle monete scadenti concentrarono l’attenzione sul denaro, e il conte Gaspare Scaruffi (1579), direttore della zecca di Reggio, nel _Discorso sopra le monete e la vera proporzione fra l’oro e l’argento_, propose una riforma generale per ridurle uniformi di tipo e di valore; pensiero che finora rimane un desiderio. Bernardo Davanzati parlò delle monete e dei cambj, senza profondità. Gian Donato Turbolo dissertò sui particolari disordini della moneta nel Napoletano, ove era peggiore che altrove. Trattò delle monete Geminiano Montanari modenese (-1687), valente astronomo e fisico, meglio de’ precedenti con chiari principj, sobria erudizione, e prima dell’opera di Locke: raccomandava di serbar le proporzioni comuni nella valutazione dell’oro e dell’argento per non lasciar campo alle speculazioni de’ mercanti; le forestiere non computare al dissopra del valore intrinseco; della bassa lega non valersi che per la sola quantità occorrente al traffico spicciolo. Disapprova l’uso di Bologna di non detrarne neppure il rimedio[262]. Antonio Serra di Cosenza (-1599), stando nelle prigioni della Vicaria come complice del Campanella, diresse al vicerè Lemos un trattato sulle _Cause che possono far abbondare i regni d’oro e d’argento_, vedendo il nesso fra gl’istituti civili e la produzione. Da Napoli si asporta ogni anno per sei milioni di produzioni indigene, non è permesso portar fuori denaro, eppure quello è tanto scarso che bisogna vender le derrate a bassissimo costo, e altissimi sono i cambj con altre piazze, cioè fin il cinque per cento più che a Venezia; la qual Venezia abbonda di denaro, e le derrate vi han prezzo sostenuto, sebbene non ne produca, anzi deva importarne per otto milioni, e il portar fuori denaro non è impedito. Il cambio colle altre piazze è basso e talvolta senza aggio alcuno, e questa appunto è la cagione dell’abbondanza di numerario; sicchè il Governo di Napoli dovrebbe con severe leggi qui pure abbassar il cambio. Così argomentava un Desantis: e il Serra, a questa che allora parea sapienza, rispondeva ragioni patenti; cioè che il denaro è merce come le altre, e come queste si acquista coll’industria; le quali nell’uomo sono fatica e intelligenza; ne’ governi traffico e provvedimenti. Le fonti delle ricchezze fa o naturali, come le miniere; o accidentali comuni che possono trovarsi in ogni paese, come le manifatture, il carattere degli abitanti, l’esteso commercio, il savio governo; o accidentali particolari come la fertilità del suolo e l’opportuna postura. È de’ pochissimi che preferissero l’industria all’agricoltura, perchè un terreno che porta cento moggia di grano non frutterà di più seminandolo per cencinquanta; mentre le manifatture possono anche centuplicare il prodotto senza proporzionato aumento delle spese. Venezia, sprovvista di tutto, supera in ricchezza Napoli, mercè il commercio e la saviezza d’un governo costante, mentre nel Regno cambiasi ad ogni vicerè, nello Stato pontifizio ad ogni papa. Eppure l’alterazione delle monete restava uno de’ più soliti ripieghi finanziarj; e i banchi e i monti, creazione italiana, non estendeano le operazioni in modo da generalizzare il vantaggio. In economia sociale ogni conclusione dovrebbe esser rigorosamente subordinata all’osservazione precedente dei fatti: pure nella statistica, o aritmetica politica, fondata dai nostri nel secolo precedente, ci lasciammo tor la mano dagl’Inglesi, che v’introdussero spirito filosofico. Pietro Rossini, antenato del gran musicante, nel 1700 stampò una statistica col titolo _Il Mercurio errante della grandezza di Roma_. La giustizia a principio aveva aspetto di guerra, quasi gli uomini si trovassero in quella condizione antisociale, in cui fin oggi si riguardano permanere gli Stati. Gli ordinamenti di giustizia (a volerne un esempio), emanati dal popolo e Comune di Firenze dal 1292 al 1324, dispongono poco altrimenti che se si trattasse d’una guerra fra due popoli distinti, il Comune e i nobili. Il gonfaloniere deve esser sussidiato da mille pedoni «buoni e valenti», cresciuti poi a molti più; «e cencinquanta maestri di pietra e di legname e cinquanta picconari forti e gagliardi con buoni picconi», i quali, allorchè esso li chiamasse, doveano seguirlo per disertare il fondo o per abbatter la casa del nobile che avesse offeso il plebeo. In quel tempo nessun popolano dovea rimanere nella casa dei grandi; le botteghe stessero serrate; nessun grande si trovasse dov’era esso gonfaloniere. Si provvede pure alle tregue fra popolani e grandi; gli sbanditi possano esser offesi e morti impunemente[263]. Qualcosa di più civile apparve là dove si costituirono governi robusti, come a Venezia. Venne poi a conoscersi il diritto romano; ma questo era meno acconcio ai bisogni ed alla civiltà nuova, sicchè molti faticarono a tirarlo a questa, non deponendo però la ferocia delle pene, nè introducendo garanzie per l’imputato e umanità, sebbene massime buone si trovino diffuse qua e là. Alcuni giureconsulti filologi applicarono l’erudizione ad emendare i testi del diritto romano e chiarirne la storia, siccome Emilio Ferretti di Ravenna e l’Alciato; non raggiunsero però il Goveano, Antonio Agostino, Cujaccio: bensì l’Averani è un interprete che non la cede ai Belgi e Tedeschi. La storia del diritto fu fondata da Carlo Sigonio e Guido Panciroli da Reggio (-1599), il quale scorse tutte le università italiane per educarsi, fu professore a Padova, a Torino, ebbe scolari Torquato Tasso, Francesco di Sales, Clemente VII, e lasciò la _Storia degli interpreti delle leggi_, ricca di recondite notizie, quantunque non sempre certe nè vagliate. Silvestro Aldobrandini fiorentino, esulante per avversione ai Medici, fu reputato il miglior interprete del suo tempo. Dell’aver abolito la legge d’agnazione e favoreggiato i diritti delle donne, Gaudenzio Paganini (-1638) facea gran colpa a Giustiniano, per ligezza all’antichità invocando la scritta contro la legge naturale; secondato in ciò da tutta quella scuola classica, che credeva un imperatore del Basso Impero fosse necessariamente inferiore ai giureconsulti del secolo d’Augusto, senza ricordare che quello era cristiano. Antonio Fabro, professore a Torino, unico piemontese di genio originale, si mostrò ardito e acuto interprete. Gli storici della scienza dimenticarono a torto Alessandro Turamini di Siena (-1558). Professore a Roma, poi in patria e a Napoli e a Ferrara, e uditore della Rota fiorentina, scrisse sopra il titolo _De legibus_ delle Pandette; come gli altri del suo tempo, avea creduto che maggior merito avesse chi maggiori autorità allegava sopra un caso particolare; ma si convinse non meritar nome di giureconsulto se non chi sappia da molte leggi particolari dedurre una massima generale. Scostandosi da Ulpiano, con san Tommaso intitola la legge di natura «partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole», dandole così per fondamento la volontà del Creatore, manifestata per via della sana ragione; eguale dunque fra tutti i popoli, immutabile ne’ suoi canoni, quanto varia nelle deduzioni. Ma perchè essa, munita della sola sanzione interna, non basta contro le passioni, nè stabilisce la misura e le modificazioni dei diritti, fu duopo d’una legge civile che la supplisca, acconciata ai tempi, ai climi, ai costumi: onde le leggi, anche concernenti oggetti particolari, stanno in armonia col sistema politico della nazione. Le leggi sieno semplici, poche, brevi, effettibili; e nelle pene non compaja la crudeltà dell’uomo, ma la bilancia della legge. L’equità civile emenda la legge quando o troppo generale abbraccia un caso che non dovrebbe, o troppo particolare non lo contempla; e da quella son dettate la più parte delle romane, che il Turamini loda col mostrarle derivate dalla legge naturale. Con Alberico Gentile va posto fra’ primi investigatori del diritto filosofico, e vi si trovano germi dell’opera di Grozio sul diritto della guerra. La seconda metà del secolo XVI fu detta l’età dell’oro della giurisprudenza, e molti nostri la professarono in Francia, in Germania, in Inghilterra. Giulio Claro alessandrino (1525), adoprato in rilevantissimi uffizj, diede _Sententiarum receptarum opus_ e la _Pratica civile e criminale_. Giacomo Menochio (1607), professore a Pavia, alla nuova Università di Mondovì e ad altre, e presidente al senato Milanese, lasciò opere sui possessi, sulle presunzioni, sui giudizj arbitrali, che fin ad oggi non perdettero autorità ne’ tanti casi che il legislatore non può prevedere, o deve abbandonare alle induzioni de’ giudici. Prospero Farinaccio romano (1613), severissimo indagator di reati, de’ quali poi s’insudiciava egli stesso, tanto tenevasi sicuro nella sua pratica, che accettava le cause e buone e cattive, onde acquistò molto denaro, e di questo abusò per abbandonarsi a’ vizj, pe’ quali avrebbe anche dovuto subir gravi pene se papa Clemente VIII non l’avesse graziato. Col riformarsi della giurisprudenza apparve scarso d’erudizione, ignaro delle fonti. Pietro Belli d’Alba (1573), nel trattato _De re militari et bello_ comprende anche molte cose spettanti alla civile amministrazione[264]: e lode ottennero anche gli scritti giuridici di Gianpietro Surdo di Casal Monferrato. Alla crescente folla de’ trattatisti soccorse l’_Indice di tutti i libri di diritto pontifizio e cesareo_ (Venezia 1555) di Giambattista Zilioli, imperfetto, sebbene aumentato sempre in sei successive edizioni; poi Francesco Ziletti stampò in ventotto volumi la maggior raccolta di giurisprudenza col titolo di _Tractatus juris universi_ (Venezia 1584). La scuola Cujacciana segregava la teoria dalla pratica; le consuetudini seguìte nel fôro affatto dissonavano dal diritto romano; i teorici indagavano il senso genuino delle leggi, negligendo le pratiche; le quistioni scioglievansi meno per ragioni che per autorità, al che pensarono rimediare alcuni Stati, proibendo nelle dispute forensi le citazioni d’autori. Non aveansi leggi generali, emananti da un sol potere, nè codici sistematici: in ciascun paese vi erano ordinanze municipali, gride dei duchi, dei vicerè o de’ governatori, le quali duravano sol quanto questi, talchè il successore per primo atto dovea confermarle, con quelle modificazioni o aggiunte che credesse del caso. In quel torno vennero stampati o ristampati gli _Statuti e le consuetudini_, che aveano mero vigor locale, e talvolta soltanto quando non fossero in contraddizione con quelli della città predominante; senz’essere migliorati nè sottoposti a veruna idea scientifica o revisione sistematica, benchè ogni nuova edizione portasse qualche varietà. Il bisogno che ha l’uomo di attenersi a regole fisse, facea dunque attribuire autorità legislativa ai giureconsulti. Non erano più semplici commentatori del diritto romano, ma stendevano opere indipendenti o sovra l’intera pratica criminale, o sovra alcun punto speciale; e dove mancassero leggi espresse, altre ne stiracchiavano per somiglianza, o supplivano con regole fondate sull’equità o sul diritto naturale. E poichè gli uni conchiudevano in un senso, gli altri nell’altro, non mancavano autorità per nessun assunto; ed i giureconsulti pratici s’affaticavano a trovare ed accumulare testi, riducendosi alla casuistica e al probabilismo, non altrimenti che nella teologia. Da tale spirito derivarono molte _Cautele_, cioè artifizj legali, per cui mezzo illudere o violare la legge; come sarebbe, perchè uno non paghi interamente il suo creditore, o non si perda il benefizio per commesso omicidio, o possano dirsi ingiurie impunemente. Ne vennero famosi il Cipolla, il Ferrario ed altri. Di indigesta erudizione e di scolastiche sottigliezze infarcivansi le allegazioni particolari, non meno che le discussioni generali; e ben poco ne profittò la scienza delle leggi. Pure nella pratica, se non si osò innovare, si dovette però ingegnarsi di rendere più equa la civile, men feroce la giustizia criminale; e sarebbe errore l’attribuire ai giuristi le atrocità di questa, mentre seguivano le traccie antiche, tanto più che le prime erano state impresse da que’ Romani, la cui sapienza non dovea revocarsi in dubbio: rimasero infamati perchè a lungo si occuparono di giudizj assurdi, di procedure inumane, eppure è fatto che cercavano rendere più umana la pratica precedente. I Veneziani, tranne lo Ziletti, poco applicarono al diritto universale, dovendo impratichirsi nel loro particolare. Enrico VIII avrebbe dato monti d’oro e la sua benevolenza se i giureconsulti di Verona avessero tolto a difendere il suo divorzio[265]. Nel regno di Napoli prevaleva la giurisprudenza pratica e consultiva; onde voluminose raccolte si pubblicavano, fondate sui casi parziali; avvocati e giudici si puntellavano di molteplici autorità, anzichè di ragioni, dalla pratica istruiti piuttosto che dalla scuola. Vantate erano le decisioni della corte di Santa Chiara a Napoli, e più quelle della Sacra Rota romana, composta di dodici auditori, de’ quali uno francese, uno tedesco, uno aragonese, uno castigliano, proposti dalla propria nazione, uno toscano o perugino, uno milanese, uno bolognese, uno ferrarese, uno veneziano e tre romani. De Luca, fatto cardinale nel 1685, scrisse il _Dottor vulgare_ in italiano, acciocchè la giurisprudenza venisse conosciuta anche ai non professori; e dai cavilli formali e forensi ritraeva alla ragione e al buon senso. Questi però non bastavano nelle quistioni di gius feudale e canonico contro pratiche positive, onde era forza ricorrere alla storia. Così cominciava la giurisprudenza storica, della quale può dirsi innovatore il napoletano Francesco d’Andrea, men tosto colle opere che coll’esempio e le lezioni. Egli informa largamente sui giureconsulti napoletani; ed oltre la perizia delle leggi, introdusse l’erudizione e giusto modo di discutere i punti legali, scrivere pulito, e diffuse migliori insegnamenti; e le scritture sue contro le pretensioni di Luigi XIV sul Brabante e sulla successione di Spagna servirono di modello agli altri che dibatterono quella quistione. Le varie parti del diritto, illustrate, discusse, elaborate distintamente, pensò riassumere e adoperare come materiali ad edifizio grandioso Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), che già incontrammo (pag. 451). Dissertando sull’impero romano volle mostrare che fu giusto nell’origine, regolato colle migliori leggi in un’evoluzione regolare, per cui la podestà passò dal re al popolo, da questo al senato, indi a un principe del senato, che equivaleva ad un re. Nella storia romana vede non coll’acume de’ moderni, ma meglio che i suoi maestri: e gli elogi che prodiga all’impero derivano dal concetto ch’egli erasi formato d’un dominio universale che tutti i popoli d’Europa riunisse sotto alle leggi e alla potenza medesima, e del quale non trovava esempj che dopo Augusto. Nelle _Istituzioni del diritto civile_ seguitò l’ordine delle giustinianee; in quelle _del diritto canonico_ mostrò erudizione e criterio, ma viepiù nell’_Origine e progresso del diritto civile_ (1701-13), ove tentò rialzare la giurisprudenza dallo svilimento cui la riduceva la cura quasi esclusiva data alle scienze positive, in grazia del cartesianismo; e dalle circonvoluzioni di parole ricondurla alla filosofia e alle prische fonti. Nel primo libro traccia la storia del diritto romano, nel quale vede un dramma della vita di tutte le nazioni, e non dei soli Romani; uno spontaneo sviluppo dell’essenza intima sua propria, essendo la ragion naturale applicata alle circostanze esterne. Età antica chiama quella che s’appoggia alle XII Tavole e alla superstizione delle formole: segue la media, degl’interpreti e magistrati, ove l’equità naturale tempera la rigidezza delle parole: varia e incerta è la nuova dei tempi d’Augusto: nella novissima, posteriore a Giustiniano, il diritto fu formato a scienza: decaduto, risorge nelle quattro scuole d’Irnerio, Accursio, Bartolo, Cujaccio, interpreti e chiosatori. Informato della condizione del popolo romano e delle circostanze tra cui crebbe a tanta grandezza, viene ai particolari oggetti in cui progredì la legislazione, tracciando, secondo il desiderio di Leibniz, la storia interna e la esterna. Nel libro secondo ragiona dell’origine del diritto naturale e delle genti, riferendolo alle XII Tavole e alle leggi Attiche. Nel terzo espone quella parte, principalmente di leggi private, che anche nelle XII Tavole pativa difetto, e per oscurità o perplessità bisognava dell’autorità del popolo, come quelle sulla manumissione, sulle tutele, sul matrimonio, sui testamenti, sulla dote, sui fedecommessi. E conchiude che le leggi romane contengono tanta rettitudine, che è impossibile periscano, e non vengano riprodotte dovunque è gente civile. Quell’unità geometrica, per cui dalle cause esterne e interne si vede preparato e svolto il diritto romano come legge, poi come scienza, gli manca: ma l’animosa novità fa perdonargli qualche pedanteria di principj; e veramente la sua fu la prima storia sistematica del diritto esterno romano, ove si distinguessero i tempi e le successive evoluzioni, mediante le quali i giureconsulti meglio si rivelano secondo l’intenzione della loro dottrina. Ma egli ripone il diritto nella storia, sebbene non consideri attentato alla libertà il formare un codice, come l’odierna scuola storica. Nel giurisprudente il Gravina esige perizia di latino, buon raziocinio, giusta storia. E tutto ciò egli ha, e l’arte di copiar bene; riconduce la giurisprudenza alle fonti, anzichè divagare in parole: ma più storico che filosofo, ogniqualvolta dai fatti vuol salire all’ideologia e alla metafisica del diritto, riesce incompiuto e vacillante, e pende alle inumanità di Hobbes, ammettendo il diritto del più sapiente, che, chi ben guardi, si risolve in quello del più forte. Non mostrò accorgersi quanto la giurisprudenza romana fosse giovata dall’avvicinarsele il cristianesimo; nè della giurisprudenza canonica e della feudale ebbe altrettanta cognizione. Bartolo e Gotofredo sbeffeggia, ma dopo essersene ampiamente giovato; come di Manuzio, Cujaccio, Hoffmann. Altrettanto di lui si valsero Terrasson e Hugo; fors’anche se n’ispirò il Vico, intento egli pure ad introdurre la filosofia nel diritto, discernendo la giurisprudenza pratica, la storica e la filosofica, e subordinando i fatti a larghissime astrazioni. Così associavasi la giurisprudenza alla storia. Pari ai grandi dell’età precedente nessuno storico avemmo. Le cronache scomparvero dacchè la vita individuale andò smarrita nei dolori comuni, tacitamente oppressivi a guisa della mal’aria. De’ fatti contemporanei parlarono Galeazzo Gualdo incoltamente; Pier Giovanni Capriata abbastanza imparziale; Natale Conti in buon latino; il Casoni, buono pel secolo xvi, ma del XVII resta solo un’accozzaglia di note, mal riunite dall’editore Benedetto Gritta. Da Girolamo Brusoni di Legnago, senz’arte d’aggruppare e con stile e passaggi vulgari, pagine intere copiò Carlo Botta[266]. Alessandro Zilioli veneziano, erudito e giureconsulto, continuò fino al 1636 le _Storie più memorabili del mondo_ di Bartolomeo da Fano, che aveva continuato quelle del Tarcagnota da Gaeta, e fu continuato egli stesso fino al 1650 dal conte Majolino Bisaccioni ferrarese e dal Birago genovese. Certe _Vite de’ poeti italiani_ d’esso Zilioli, tessute d’aneddoti poco onorevoli, non furono stampate. Pietro Nores narrò la guerra degli Spagnuoli contro Paolo IV. Molti scrissero storie municipali, come la torinese e savojarda Emanuele Pingone; l’inquisitore Cimarelli quella d’Urbino, estendendosi a tutta l’Umbria senese; Pier Gioffredo la nizzarda, innestandovi documenti; il canonico Ripamonti la milanese, con verbosa fluidità latina; Ballarini e Tatti grossolanamente la comasca; Lavizzari quella della Valtellina. La storia di Ravenna di Girolamo Rossi fu pubblicata a spese della città, ed egli fatto dei senatori e medico della città, e col padre e i figli maschi esentato da ogni imposta. Delle napoletane si occuparono moltissimi, tra cui Francesco Capecelatro, imparziale e diligente; il padre Giannetasio in latino; Giannantonio Sumonte, il cui primo tomo, appena pubblicato nel 1602. Anche Camillo Tutini il suo _Discorso sulle leggi e sui sette grandi uffizj_ non potè pubblicare senza molestie. Inveges Agostino di Sciacca in Sicilia diede gli _Annali di Palermo antico sacro_; la _Cartagine siciliana_, storia della città di Carcamo; e una del Paradiso terrestre. Le storie pisane di Rafaele Roncioni procedono ingenue se non meditate e fine. Come storiografo di Venezia il Parata era seguitato in latino da Andrea Morosini, erudito e sperto del governo; poi da Michele Foscarini. Giambattista Nani (-1678) «tra le fatiche e i sudori di molti impieghi, e in più legazioni pellegrino per corti e paesi stranieri» espose i fatti dal 1613 al 71; e il secondo volume riempie colla guerra coi Turchi. Si gloria di voler dire la verità, e di «poterlo, atteso il suo accesso a principi, il negozio coi ministri, il discorrere con gli esecutori delle cose più insigni, il veder i siti,... l’ingresso nei pubblici archivj e ne’ più segreti consigli», e l’essere le imprese state maneggiate in buona parte da’ suoi maggiori e da lui. Chiaro spositore e non inelegante, abbastanza netto da antitesi e metafore, di rado però s’incalora, e nei riflessi va generico e comune. Mentre questi eransi stampati sol dopo morte, a Pietro Garzoni (-1719) impose la Signoria di consegnare, ogni due anni, quanto avesse terminato. Uomo d’affari e testimonio oculare, ebbe a narrare fatti gloriosi, quelli contro Maometto IV e successori suoi; e l’opera fu accolta con gran favore: ma dei sacrifizj a cui lo costringeva la protezione, diede novella prova l’ordine trovato non è guari di sopprimere passi concernenti l’acquisto e la perdita dell’isola di Scio, in cui egli «con pericolosa esattezza avea svelato materie arcane e gelose». Strana è la facilità degli storici d’allora a registrare baje, e scarseggiando d’erudizione, alterare sino o fingere documenti per condiscendenza e adulazione a famiglie. Alfonso Ciccarelli, per avere nella storia della casa Monaldesca (1580) inventato carte false, venne condannato a morte; ma de’ suoi inganni o di simili si valsero altri, come il Sansovino nella Casa Orsini e nelle _Famiglie celebri d’Italia_; Pietro Ricordati nella _Storia monastica_; Ferrante della Marra ne’ _Discorsi delle famiglie estinte e forestiere e non comprese nei seggi di Napoli_; Eugenio Gamuni nelle _Famiglie nobili toscane e umbre_; il Morigia nelle _Famiglie milanesi_; Pier Crescenzi nella _Nobiltà d’Italia_; il Vedriani ne’ _Cardinali modenesi_; ed altri, che provano quanto scarsa fosse l’arte critica. All’opera di Lodovico Della Chiesa sui _Marchesi di Saluzzo_ (Torino 1598) vengono in appendice elogi d’illustri famiglie di colà, Arbazzia, Barbetti, Biandrata, Caroli, Castiglioni, Chiesa, Della Torre, Gambandi, Leoni, Pevere, Romani, Saluzzo, Tiberga, Vacea, probabilmente lavoro del Chiesa stesso, benchè attribuito a un Carlo Ravano cremonese. Antonio Filippini di Vescovato in Corsica, perseguitato dalle alterne fazioni, volle trasmettere ai posteri il racconto delle guerre del 1555 e 64 di cui era stato testimonio, e vi unì tre antiche cronache di Giovanni della Grossa, Pietro Monteggiani e Marcantonio Ciaccaldi, e così formando una storia della Corsica: questi bevono grosso; egli è abbastanza imparziale, ma monotono. Pozzo di Borgo, quand’era ambasciadore di Russia nel 1832, ne procurò una nuova edizione a Pisa, da distribuire gratis a tutte le comunità e famiglie ragguardevoli di Corsica. Esce dalla comune Vittorio Siri (-1685), parmigiano benedettino, che giovane cominciò un ragguaglio delle vicende giornaliere; e levò grido, massime che l’italiano correva allora quanto oggi il francese. Le quistioni per Mantova e il Monferrato ben discute pendendo ai Nevers e alla Francia, onde Richelieu lo favorì, e gli schiuse gli archivj; Luigi XIV il nominò limosiniere e storiografo; le Corti di Firenze e di Modena il regalavano; ministri e ambasciadori il visitavano e porgevangli informazioni a loro modo, affine d’illudere la posterità. Oltre i quindici grossi volumi del _Mercurio politico_ (1635-55), gli otto di _Memorie recondite_ (1601-40) sono ricchi di documenti autentici, benchè raccolti senza fior di criterio; narra prolisso, avviluppa gli avvenimenti, e uccellando a pensioni, collane, impieghi, sagrifica il vero, e secondo il vento sparla di quei che prima aveva incensati. Così l’Assarini, il Brusoni, il Priorato, il Pastori sono novellisti sfacciati e venderecci, dicendo e disdicendo secondo sono pagati: così i tanti storici dei duchi di Savoja, e Giambattista Birago Avogadro genovese, autore del _Mercurio veridico_, che più volte s’abbaruffò col Siri. Del Pallavicino e del Leti parlammo già (pag. 339). Venezia, intermedia all’Europa e al Levante e centro del commercio, era opportuna ad avere e comunicare le novità, onde introdusse i giornali politici, che dalla moneta che costavano si dissero _gazzette_. Dilataronsi, e il medico Renaudot imitolli in Francia nel 1631: crebbero anche in altre nazioni, ma Voltaire raccontava come una meraviglia che al suo tempo a Londra uscivano dodici fogli per settimana. Gianpaolo Marana genovese pubblicò a Parigi lo _Spione turco_, ove suppone che uno scrupoloso Musulmano travestito visiti la capitale di Francia dal 1635 all’82, e ne scriva a patrioti suoi di diverso grado. L’opera fu proseguita da varj, e i primi volumi tradotti in inglese, come dall’inglese in francese gli ultimi. È fondamentalmente falso il concetto di un Turco che scriva tanto; pure piacevano la seria indipendenza onde le ridicolaggini e frivolezze della nostra società erano giudicate da uomo che ne è fuori; e l’osservare da differente punto i casi, gli aneddoti, la politica, le quistioni teologiche e metafisiche d’allora. Nel 1665 era comparso a Parigi il _Journal des savants_, cui tennero dietro il _Mercure galant_, poi i giornali di Trévoux e Verdun, che delle opere nuove davano un sunto, più che un giudizio. A loro imitazione Francesco Nazzari bergamasco nel 1668 cominciò a Roma il _Giornale dei letterati_, che interrotto al 79, fu ripigliato all’86 da Benedetto Bacchini di San Donnino, il quale lo stendeva quasi tutto da sè, quantunque di materie variatissime. Allora si sentì l’importanza delle scritture vecchie; e Gian Pietro Puricelli compulsa gli archivj milanesi, e illustra _Ambrosianæ basilicæ monumenta_; Felice Osio, pur da Milano, mette fuori le cronache di Albertino Mussato, di Rolandino, dei Morena, dei Cortusj e d’altri; Camillo Pellegrino, molte riguardanti il regno di Napoli; Caruso Giambattista, che dagli scolastici erasi vôlto a Cartesio e Gassendi, ito a Parigi e conosciutivi i più famosi, dal Mabillon fu ispirato alle ricerche storiche, e le estese alla sua patria[267]. Tale uffizio venne insignemente applicato alla storia ecclesiastica, e principalmente dal Baronio (tom. X, pag. 550). Gli _Annali_ di esso furono commentati dal francescano Antonio Pagi, correggendone anno per anno gli svarj. Oderigo Rinaldi, trevisano dell’Oratorio, li continuò dal 1198 al 1565; poi lo compendiò con istile più corretto che allora non usasse. Anche le _Vite dei papi e cardinali_ del Ciacconio furono proseguite dal padre Agostino Oldoini e da Andrea Vittorelli. Il polacco Abramo Bzovio, venuto qui domenicano, continuò le vite dei papi e il Baronio[268], al quale possono servire d’introduzione gli _Annali del Vecchio Testamento_ del novarese Agostino Tornielli. La _Storia generale de’ Concilj_ di monsignor Marco Battaglini è prolissa di stile e inesatta di critica; come quella delle _Eresie_ del Bernini, figlio dello scultore. Ferdinando Ughelli, fiorentino cistercese, ordì la serie de’ vescovi d’Italia, divisi nelle ventisei sue provincie, accompagnandola di documenti. Il Mazarino gli mandò un ricco oriuolo, ed eccitò i Francesi ad imitarlo nella _Gallia Christiana_, di cui il primo volume comparve dodici anni dopo l’Ughelli. Niccolò Coleti veneziano lo continuò fino al 1733; Rocco Pirro v’aggiunse la _Sicilia sacra_; Cesare Caraccolo la _Napoli sacra_. Appena merita essere nominato il _Mare oceano di tutte le religioni del mondo_ di Silvestro Maurolico (Messina 1613). Ad Enrico Noris di Verona, agostiniano, per la _Storia del Pelagianismo_, i Gesuiti mossero scandaloso litigio, come inciampasse negli errori correnti intorno alla Grazia; ma Roma lo sostenne, e Cosmo III granduca lo chiamò a dettare storia ecclesiastica a Pisa, ove illustrò i cenotafj di Cajo e Lucio figli di Vipsanio Agrippa, le origini della colonia pisana; poi le êre di alcune città dell’Asia; Innocenzo XII il volle custode della biblioteca Vaticana, poi cardinale: scrisse la storia dei Donatisti e quella delle Investiture. Anselmo Banduri Benedettino raguseo, educato e dimorato sempre in Italia, pubblicò molte opere sulla storia ecclesiastica, l’_Imperium orientale_, i _Numismata imperatorum romanorum_. Il padre Fortunato Scacchi d’Ancona scrisse intorno agli olj (_Sacrorum oleochrismatum myrothecium sacroprofanum,_ 1625); alle epistole ecclesiastiche (1612) e alle concioni sacre (1618) Ottavio Ferrari; ad altri punti di liturgia il Galanti di Monza, Andrea Vittorelli bassanese. Gian Macario fece una _Hagioglypta_ sulle pitture e sculture cristiane, edita appena testè. Il cardinale Querini produsse libri liturgici greci; Alessandro Zuccagni dalla Vaticana trasse documenti sulle prime età della Chiesa; e Giovanni Bona da Mondovì cistercese (-1674), priore d’Asti, poi cardinale, elaborò l’insigne opera _Rerum liturgicarum_, la _Divina psalmodia_, spiegazione dell’uffizio con curiose ricerche sul significato, e i _Principi della vita cristiana_, libro paragonato all’_Imitazione di Cristo_. Giuseppe Maria Tommasi, figlio del duca di Palma e principe di Lampedusa, aveva tre sorelle e uno zio monaci; egli pure si fece teatino e salì cardinale; e studiate le lingue orientali sotto l’ebreo Mosè di Cavi, trovò molte rarità liturgiche (_Codices Sacramentorum nongentis annis vetustiores_, 1680), responsoriali e antifonarj; e per la sua grande carità meritò d’essere beatificato. Anche Clemente Galano di Sorrento, che durò dodici anni in Armenia missionando e cercando documenti storici, stampò la _Conciliazione_ di quella Chiesa colla romana, in latino e in armeno. Giovan Giustino Ciampini romano (-1698) fondò un’accademia per la storia ecclesiastica, poi un’altra per le scienze naturali, sotto gli auspizj della regina Cristina; raccolse ricca biblioteca e statue e anticaglie e lasciò dissertazioni troppe perchè possano essere di gran merito; fra cui primeggiano quella dei _Sacri edifizj di Costantino_, e i _Vetera monumenta_, dando l’origine delle prime chiese, il modo ond’erano costruite e ornate di musaici, e se da principio si adoperasse il pane azimo, quistione per la quale già si erano battuti il Bona e il Mabillon; esaminò pure il _Libro pontificale_ e le _Vite dei papi_ d’Anastasio Bibliotecario. Giannantonio Viperano messinese, vescovo di Giovenazzo, avea sin dal 1569 stampato _De scribenda historia_ con buoni precetti; poi il ferrarese Ducci nel 1604 un’_Ars historica_, di cui è poco meno che traduzione l’_Arte storica_ di Agostino Mascardi da Sarzana (1630), tanto encomiato dal Tiraboschi. Ne vuole lo stile più elevato che nel genere deliberativo; e poichè le guerre ne sono principale ingrediente, non s’impicciolisca la tragedia con minuzie di racconti nè di cronologia o geografia. Chiede la verità, ma con molti riguardi ai grandi, ai quali è vero che intima, come unico modo d’ottenere indulgenza dalla storia, l’esser buoni. Poco fida in chi espone i fatti proprj; ma vorrebbe lo storico filosofo, versato nella scienza sociale, e degno d’esercitare le arti educatrici dei popoli, che sono pittura, poesia, istruzione morale e storia. Approva le arringhe, come tutti i retori suoi pari, ma purchè condotte dal soggetto. La _dicitura istoriale_ vorrebbe tale che conservasse le immagini non le finzioni, l’armonia non la misura della poesia. Anzi che ai precetti di lui e ancor meno agli esempj che diede nella _Congiura di Fiesco_, chi vuol farsi a quest’arte, ricorrerà agli storici stessi, e più agli uomini. Antodio Possevino (1534-1611) nella _Bibliotheca selecta_ esibisce una specie d’enciclopedia col metodo per istudiare ciascuna scienza, e i canoni principali, e un giudizio spesso assennato degli scrittori di esse. La compie l’_Apparatus sacer_, catalogo ragionato di ben seimila autori di cose ecclesiastiche con molti manoscritti. Era da Mantova; dopo servito nelle Corti entrò gesuita, e fu adoperato negli affari, massime contro i Protestanti del Nord; e la sua descrizione della Moscovia (1586) è il primo libro che c’introduca in quella ancor segregata nazione (tom. X, pag. 471). Il _Mappamondo istorico_ del gesuita Antonio Foresti (Parma 1690) vuol menzionarsi come il primo tentativo d’una storia universale: sei volumi pubblicò egli; n’aggiunse quattro Apostolo Zeno, trattando dell’Inghilterra, Scozia, Svezia, Danimarca, Holstein, Gheldria; nell’undecimo Domenico Suarez discorse dei califfi; nel duodecimo, Silvio Grandi della Cina. Altri de’ nostri si occuparono di paesi forestieri. Antonmaria Graziani da Borgo San Sepolcro col cardinale Commendone per venticinque anni girò la Germania e la Polonia, fu fatto segretario da Sisto V, da Clemente VIII vescovo d’Amelia; ed oltre la guerra di Cipro, espose (_De scriptis invita Minerva_) i viaggi di Luigi suo fratello per tutta Europa, in Palestina, in Egitto, informando degli eventi e dei costumi di quei paesi; indi i fatti proprj, ove assai ragiona della Polonia. Pel qual paese combattendo, Alessandro Guagnini veronese vi ottenne l’indigenato; e scrisse _Rerum Polonicarum libri tres_, opera capitale per lo stile e pei fatti. Il gesuita Pietro Maffei da Bergamo, ad istanza del principe Enrico di Portogallo, descrisse le cose delle Indie Orientali in purgatissimo latino. Gianfrancesco Abela illustrò con molta erudizione Malta nel 1647. Gualdo Priorato vicentino, esercitatosi a lungo nelle guerre di Germania, poi in diplomazia, titolato istoriografo da Leopoldo I, scrisse le storie di Ferdinando II e III, del Waldstein, del Mazarino, de’ principi di Savoja; tutto boria e passione. Girolamo Falletti ferrarese (_De bello sicambrico_) narrò le guerre di Carlo V coi Francesi ne’ Paesi Bassi, contro la lega Smalcaldica. Il cardinale Guido Bentivoglio ferrarese (1579-1644) col fasto e colla generosità erasi caricato di debiti, per ispegnere i quali non esitò a vendere il proprio palazzo e restringere il trattamento. Nunzio apostolico ne’ Paesi Bassi per nove anni, ne raccontò le guerre in un italiano nè fino nè grazioso, con zeppe inutili, frasi scolorite, andamento simmetrico, armonia da martello, alla quale sagrifica e la schiettezza e la brevità: le poche volte che aspira ad ingegno, cade in antitesi e concettose insulsaggini. Ma le sue memorie, e le relazioni delle Corti di Fiandra e di Francia sono preziose, e ben caratterizza gli uomini; quantunque, forse pel proposito di mostrarsi imparziale, restasse alla superficie, dilettandosi nella parte più vana della storia, la descrizione dei fatti d’armi. E solo per questi sono pregevoli i sei libri delle guerre di Fiandra di Pompeo Giustiniani (1609); mentre debolissimamente e in compendio le descrisse don Francesco Lanario, figlio del duca di Carpi (1615), che, quantunque soldato, non assistè alle imprese. Guglielmo Dondini bolognese, gesuita, latineggiò le imprese di Alessandro Farnese: ma per le cose belgiche ottiene maggior rinomo il padre Famiano Strada romano (1573-1649). Ebbe moltissimi documenti dal gabinetto di Madrid, ma ignora ciò che concerne i Protestanti; digiuno di politica e d’arte militare, vi supplisce con morale retta ma generica, siccome in libro destinato alle scuole. Ammiratore di Livio, lo sorpassa in prolissità, digredisce ogni tratto su che che gli capita, onde il Bentivoglio diceva che il «difetto dello Strada è l’uscir di strada». Vero è che con queste digressioni ci conservò molte particolarità sopra i personaggi da lui descritti. Compì due sole decadi; e dal 1590 al 1609 lo continuò l’altro gesuita Angelo Galluccio di Macerata[269]. Gaspare Scioppio, autore di una _Grammatica philosophica_, in rotta coi Protestanti che aveva lasciati, coi Gesuiti cui non voleva aderire, co’ letterati che censurava, avventò contro lo Strada l’_Infamia Famiani_, notandovi molte voci barbare, le quali del resto l’offendevano anche ne’ più purgati, nel Manuzio, nel Maffei. Però di gran cognizione del latino diè prove esso Strada nelle _Prolusiones_, precetti ed esempj di retorica, dove, fra altri esperimenti, recasi al difficilissimo di fingere un’accademia, in cui alquanti famosi del secolo precedente recitassero ciascuno un componimento, contraffacendo alcuno dei maggiori poeti latini; e da Giano Parrasi è rifatto Lucano, dal Bembo Lucrezio, dal Castiglione Claudiano, da Ercole Strozzi Ovidio, da Andrea Navagero Virgilio; mentre il Querno, «istromento d’erudita voluttà» a Leon X, improvvisa strambezze. Comunque sia riuscito, vuolsi stupenda dimestichezza coi classici per pretendere di contraffare ciascuno. Il padovano Davila (1576-1631) trasse i nomi di Enrico Caterino dal re e dalla regina di Francia che aveano beneficato suo padre dopo che i Turchi l’ebbero espulso da Cipro dond’era connestabile. Coll’arte e sovente collo spirito degli antichi, e con fino occhio e savia disposizione descrive le guerre civili di Francia, cui prese parte; esatto nei fatti, cognito dei luoghi, de’ costumi, del carattere, non allucinato dalle ipocrisie solite ai partiti; realista più che cattolico, e apologista di Caterina de’ Medici, la politica considera come un giuoco di forti e di furbi, e la strage del San Bartolomeo riprova solo in quanto non raggiunse lo scopo. Dissero che conviene diffidare del Davila quando loda la Corte, e del De Thou quando la biasima. Scarso di lingua, senza testura di periodo, scrive con abbandono prolisso, minuzioso come chi s’avvezzò ad osservare nelle anticamere. Offeso in parole da Tommaso Stigliani, letterato di Parma, lo sfida e passa fuor fuori; allora entra al soldo de’ Veneziani, pei quali guerreggia in Levante; poi va governatore di Brescia, ove dà fuori la sua opera; e poco stante, mentre passava a governare Crema, è per istrada assassinato. Eccellenti materiali alla storia sono i ragguagli degli ambasciatori, di cui larga messe offre l’Italia, e principalmente Venezia e Firenze; semplici con gravità, fermi di giudizio siccome di persone abituate, e valutando i tempi senza le idee preconcette degli storici. Non pari all’aspettazione riescono i frutti de’ viaggi. Cosimo Brunetti fiorentino e Giambattista e Girolamo Vecchietti da Cosenza viaggiarono e osservarono, ma non resero pubbliche le relazioni loro. Pier della Valle romano dopo il 1614 descrisse Turchia, Persia, India in lettere prolisse e vanitose, e indulgendole; ma forma eruditi confronti, e appoggiasi a monumenti. Scipione Amato romano giureconsulto diè la storia del Giappone, ov’era penetrato come segretario d’ambasciadore. Ercole Zani bolognese, partito il 1669 per un lungo viaggio, di cui fu pubblicata postuma la relazione, trovò a Mosca molti Italiani, principalmente occupati a fabbricar vetri. Francesco Gemelli Carreri napoletano compì per terra il _giro del mondo_ nel 1698, e la sua relazione, disposta con metodo, fu tradotta in diverse lingue. Non conosceva gli idiomi de’ paesi che visitò, adagiavasi talora alle relazioni altrui, fossero pure d’un missionario che gli parlasse d’uomini colla coda; e s’anche è vero che diè come veduto ciò che aveva solo udito, le recenti indagini gli tornano credito sopra molte particolarità[270]; e mentre alcuni leggermente asserirono ch’e’ non fosse mai uscito di Napoli, Humboldt riconosce che non poteva se non vedendoli aver descritto i paesi da esso Humboldt pure veduti, e massime le Filippine e il Messico. Livio Sanuto veneziano aspirò ad essere il Tolomeo della sua età, «inventò strumenti per precisare le osservazioni astronomiche, lesse viaggiatori, storici, diarj per ridurre più esatte le carte, e pubblicò la _Geografia_ in dodici libri (1588), dividendo la terra ne’ tre continenti Tolemaico, Atlantico e Australia; ma non compì l’opera. Importa soprattutto la descrizione dell’Africa; e non crede ancora inutile allungarsi nel provare che il Messico non è il Catajo. Il padre Vincenzo Coronelli, scrittore di libri a profluvio, fu chiamato a Parigi a far due globi del diametro di dodici piedi, più famosi per le iscrizioni onde gli ornò a lode di Luigi XIV. Il gesuita Giambattista Riccioli da Ferrara (1598-1671) nella _Geographa et hydrographa reformata_ propostosi, di far meglio de’ vecchi, cominciò dal comparare le varie misure, facendosene mandare i tipi da’ suoi confratelli di tutto il mondo; ma avendoli riferiti all’antico piede romano, non ben accertato, la sua fatica perdette valore. Tentò una misura della terra, con metodi che allora non poteano riuscire a precisione, attese le illusioni della rifrazione orizzontale. La sua geografia contiene da duemila settecento posizioni, nelle cui longitudini non erra più di otto gradi; sicchè è ciancia che Delisle[271] abbia accorciato di trecento leghe il Mediterraneo e di cinquecento l’Asia, mentre quarant’anni prima il Riccioli da mille ducensessanta leghe avea ridotto il Mediterraneo a ottocentottantadue, cioè solo quarantacinque più d’adesso. Volle anche riformare la cronologia, ed espose le particolari de’ diversi popoli; fin settanta sistemi esamina intorno all’anno della nascita di Cristo, preferendo il 5634, secondo i LXX; poi forma una cronaca de’ principali avvenimenti del mondo, dalla creazione fino al 1668, e le tavole cronologiche dei regnanti, dei concilj, delle eresie. Nè egli però, nè il Vecchietti _De anno primitivo_, nè Leone Allacci _De mensura temporum_ raggiunsero il merito cronologico di Petau o di Scaligero. La letteratura orientale fu coltivata al solo oggetto degli studj biblici. Frà Mario da Galusio negli Abruzzi, oltre la grammatica e il dizionario ebraici, fece le _Concordanze bibliche_, stampate postume (1621) a spesa di Paolo V, attenendosi al metodo dal rabbino Isacco Natsan seguito nell’opera simile stampata a Venezia il 1524, correggendone molti svarj, e indicando identica la radice d’alcune voci ebraiche e d’altre lingue orientali. Giambattista Raimondi cremonese nel lungo soggiorno in Asia acquistò famigliarità con quelle lingue, e il cardinale Ferdinando Medici lo prepose alla stamperia sua, dove con quattro caratteri arabi si stamparono nel 1591 gli Evangeli, nel 92 la _Geografia_ d’Edrisi, nel 93 l’Avicenna, nel 94 l’Euclide, stampe di gran lunga le più belle che mai si fossero vedute. Metteva in ordine tutti i libri orientali che venivano mandati a Roma; preparò una grammatica araba e una Bibbia poliglotta, interrotta allorchè Ferdinando divenne duca. Filippo Sassetti, colto mercante fiorentino, pieno d’allusioni ai poeti e alla storia patria, viaggiò alle Indie fra il 1578 e l’88, e descrisse que’ paesi in buone lettere, piene di utili notizie, sebbene egli pure credesse alle virtù misteriose dei corpi[272]: molte volte discorre dell’ananas, e fu il primo che all’Europa desse notizia del sanscrito, e vi trovasse somiglianza coi parlari nostri[273]. In quella lingua fu sì dotto il missionario Roberto Nobili, che gli si attribuì la contraffazione dei libri vedici. Il padre Paolino, austriaco di patria (Gianfilippo Werdin di Hoff), italiano d’adozione, negava l’esistenza dei Veda, appoggiato all’opinione di Marco della Tomba, erudito delle cose sanscrite. Basilio Brollo, nato il 1648 a Glemona nel Friuli, vestitosi minor osservante, partì missionario il 1680, e venuto nel Siam, si diè a studiar il cinese: da Clemente IX nominato vicario apostolico dello Scen-si, vi moriva nel 1704[274]. Appianò la via allo studio scientifico del cinese. Francesco Negri da Ravenna, detto padre dei poveri e protettore degli orfanelli, indusse il papa e il cardinal Rasponi a fondare l’ospizio de’ Catecumeni; e dalla lettura di Olao Magno invogliato a cercar le terre più boreali d’Europa, nel 1666 giunse fino al capo Nord, a traverso pericoli, che allora erano a cento doppj; e ne scrisse otto lettere, stampate postume, con particolarità vere di storia, natura e politica, non infelice dizione, correggendo sbagli altrui. Eppure a’ dì nostri un Italiano vantò essere stato il primo che vedesse cotesta parte estrema, ma lasciò gran sospetto di non esservi stato che in sogno. Il Negri fu curato di Santa Maria _in Cœlo eo_, dove al Montfaucon che visitollo mostrò un rosajo, al cui rezzo poteano stare quaranta persone. Applicandosi all’antiquarja, l’erudizione peccava ancora di minuzie, pure migliorò di accorgimenti; e se nel secolo innanzi erasi creduto ad Annio da Viterbo, or furono presto convinti di menzogna gli _Etruscarum antiquitatum fragmenta_, pubblicati il 1632 da Curzio Inghirami, ingannato o ingannatore. Gian Domenico Bértoli da Udine nel 1676 illustrò le antichità d’Aquileja, ch’egli primo raccolse e salvò dall’essere usate a fabbriche o a fornaci. Lazzaro Agostino Cotta d’Orta fece il museo Novarese (1719), la descrizione del lago Maggiore e altre opere di bastante erudizione, giovandosi della biblioteca Ambrosiana. La numismatica alla storia applicò Filippo Paruta nella _Sicilia descritta con medaglie_ (1612), opera da altri accresciuta, e più dal Torremuzza. Vincenzo Mirabella dichiarò la pianta di Siracusa antica, e Prospero Parisio i più rari numismi della Magna Grecia. Altri si fissarono sulle iscrizioni relative a ciascun paese, quantunque la scarsa critica traesse in errori, che poi a fidanza ricopiavansi dai successivi[275]. Rafaele Fabretti da Urbino (1618-1700), in Ispagna auditore del nunzio, si rassodò negli studj classici; conobbe i dotti del tempo, Ménage, Montfaucon, Hardouin, Mabillon; e tornato a Roma con ricco impiego, dissertò sulle acque e sugli acquedotti romani, monumenti che offrono tanta meraviglia ai curiosi, quanti problemi ai dotti. Sotto ai begli intagli della colonna Trajana del Bartoli avea posato descrizioni il Bellori, piene di sbagli non meno della illustrazione latina dello spagnuolo Chaccon. Il Fabretti correggendo e supplendo faceva una delle più dotte e savie opere di archeologia intorno a quella colonna (1683), e fu de’ primi a comparare colle immagini d’altri monumenti per indurne il carattere e la significazione. Di questi paragoni coi monumenti e colle loro descrizioni si valse pure nell’illustrare la _Tavola iliaca_ del Campidoglio. Gran numero di epigrafi nuove avea egli trascritte girando per la campagna di Roma con un cavallo, il quale avea contratto l’abitudine di fermarsi dovunque apparisse un’anticaglia. Il cardinale Carpegna poi gli aveva affidato l’ispezione sopra le catacombe, e gli donava tutte le iscrizioni che ne uscissero. Ne fregiò esso la propria casa, molte altre ne comprò, sempre favorito dai pontefici Innocenzo XI, Alessandro VIII, Innocenzo XII. Frutto di tali studj e ricerche egli pubblicò quattrocentrenta iscrizioni in otto classi; ma nell’occasione d’illustrarle ne diè fuori quattromila seicento con erudite e sobrie note. È la prima raccolta non riboccante di spurie, e disposte in modo da sussidiarsi a vicenda, e con quella correzione tipografica che è di suprema importanza in tale materia. Il Gronovio, del quale rivelò molti sbagli, rispose acerbamente, e n’ebbe un ripicchio altrettanto scortese. Roma fu sempre il campo delle maggiori indagini, e colà il Falconieri compilò le _Inscriptiones athleticæ;_ Padova fu illustrata da Lorenzo Pignoria, uno de’ più estesi eruditi, che tentò alzare il velo de’ geroglifici egizj e spiegare la _Tavola isiaca_[276]. Degli illustratori di qualche parziale antichità i più scaddero di senso dopo le recenti scoperte. Francesco Bianchini veronese (1662-1729), bibliotecario di casa Ottoboni, tentò un modo particolare di storia universale (1697), il silenzio degli scrittori supplendo coi monumenti per accertare la cronologia. Spiega molti simboli, e s’accorge come alcuni supposti fatti non sieno che miti; la guerra di Troja fa occasionare dal commercio, la cui libertà raffigurasi in Elena; e di tal passo va spiegando la mitologia. Non giunge che alla fondazione della monarchia assira, e le posteriori scoperte lo antiquarono. Valeva assai nelle matematiche, varie scoperte fece attorno al pianeta Venere, e, tracciata una meridiana nella certosa di Roma, intendeva prolungarla fin all’Adriatico e al Tirreno. Ciò nol distolse dall’archeologia, e illustrando il colombario della famiglia d’Augusto, allora scoperto sulla via Appia, chiarì le costumanze romane, mostrando nella casa di quel principe da seimila schiavi, il cui lavoro era tanto suddiviso, che uno non faceva altro che pesar la lana filata dall’imperatrice, uno custodiva gli orecchini di lei, uno la cagnuola. Quantunque tali sussidj estendessero piuttosto le cognizioni che le vedute della storia, il mondo conosceva meglio se stesso, e diveniva sempre più atto a comprendere quella continuità di eventi, che connette le antiche colle odierne generazioni. E un gran passo diede la storia, da pura arte o narrazione elevandosi alla dignità di filosofia collo svolgere dal dramma degli avvenimenti la suprema moralità, osservare gli uomini come una famiglia sola, gli eventi sottoporre ad un solo concetto che ajutasse ad indovinare i futuri. In questo campo primeggia Giambattista Vico napoletano (1688-1744), autore di libri ove si legge assai più di quel che è scritto, ma dei quali tutti parlano con ammirazione, pochissimi con cognizione. Nato poveramente, educato al modo di allora, a sedici anni arringa in difesa di suo padre, e fa stupire collo sfoggio di cognizioni: ritiratosi dal fôro, va insegnar giurisprudenza ai nipoti del vescovo d’Ischia nel romito castello di Vatolla, ove passa nove anni della più florida gioventù meditando su pochi libri; si stomaca «della maniera di poetare moderna», ma poco riesce nella geometria e nella fisica, e s’addentra nelle quistioni sociali, applicate all’antichità; «benedisse il non aver avuto maestro, e ringraziò quelle selve, fra le quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso de’ suoi studj senza niuno affetto di sêtte, anzichè nella città, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere». E appunto egli si ostina a ritroso del suo tempo: questo trascura la buona prosa latina, ed egli la coltiva assiduo; ogni attenzione volgesi alla Francia, ed egli neppur la lingua volle saperne; laonde si trovò «come forestiero nella sua patria, e non solo vi era ricevuto come straniero, ma anche sconosciuto». Chiese di esser secretario municipale, e fu posposto; una cattedra di retorica con cento scudi di provvisione tenne quarant’anni, poi a settanta ebbe il titolo di storico del Regno. Qui faceva versi per occasioni, panegirici ai suoi vicerè, diatribe contro gl’insorgenti oppressi; intanto elevavasi alle più sublimi concezioni, non con un proposito stabilito ma a tentone, posandosi problemi, da ognun de’ quali gliene rampollavano di nuovi, che traevanlo a nuovi modi di risolverli, e a dilatare, tutto solitario, la sfera delle proprie cognizioni e il metodo, non coll’avventurosa inventiva d’altri suoi paesani, ma prendendo le mosse dalla devota erudizione. S’approfonda ne’ classici antichi; da Platone impara le astrazioni generali e le aspirazioni del sentimento, l’uomo filosofico; da Tacito i concreti e il riflettere sopra questi; da Erodoto _un passo d’oro_, che gli fa balenare agli occhi una storia ideale con tre età; ammira Dante, Leibniz, Newton e il _tre volte massimo_ Bacone: ma le idee loro non adotta pienamente, bensì le rimpasta colle proprie, sempre inteso a congiungere il _certo_ della filologia col _vero_ della filosofia. Sopra Grozio e Cartesio, venerati allora restauratori della filosofia e della giurisprudenza, volge principalmente l’acume; e al primo, che spiega la storia coll’individuo e indaga un diritto universale per mezzo dei fatti particolari e del linguaggio, appone di aver raccozzato astrazioni sconnesse dai fatti, giureconsulto de’ filosofi ma non della storia. Cartesio, svolgendo l’intera serie delle umane cognizioni dal fenomeno della coscienza, trascura anch’egli il passato per concentrarsi nella superba evidenza del metodo matematico; e il Vico lo accusa di aver mutilato storia, lingue, erudizione, riducendole a linee geometriche; e col disprezzo dell’erudizione inducendo disprezzo degli uomini, e repudiando i mezzi e gli ajuti che al pensiero offrono le tradizioni delle età passate, pretese evidenza matematica in verità che non ne sono capaci; laonde il metodo suo può produrre dei critici ma nissuna grande scoperta[277]. L’uomo non è pura macchina o cifra; nè storia, politica, morale, eloquenza si regolano a meri calcoli, ma abbisognano congetture, induzioni, somiglianze; il testimonio della coscienza, l’immediata percezione non basta a provar l’esistenza, e il _penso dunque esisto_ riducesi ad una percezione che non colma l’abisso fra la coscienza e l’universo. Laonde il Vico, combattendo Cartesio per la ragione che Cicerone combatteva gli Stoici, abbandona il geometrico processo per gittarsi all’esperienza storica e alle libere induzioni; ripudia la superbia del senso individuale onde rimettere in onore la tradizione; e per contrapposto a quella noncuranza degli antichi, sublima la filologia rendendola la filosofia dell’autorità, l’ordine e la ragione dei fatti, che ravvicinando le idee lontane, le feconda; non abbracciando soltanto le lingue, ma i costumi e le azioni degli uomini; e con una critica ch’egli chiama architetta, s’accinge a _ricomporre, supplire, ammendare, i rottami dell’antichità porre in luce, allogare_. Pertanto indaga le vestigia della sapienza italica nella lingua[278], e attribuisce ai prischi Italiani la metafisica. Qualche scolaro del Sigonio gli objettò, nel _Giornale de’ letterati_, che la sapienza italica sarebbe dovuta investigarsi nell’Etruria e nelle confraternite pitagoriche della Magna Grecia, piuttosto che fra i patrizj del Lazio, gente che colla violenza avea costituito un diritto feudale che la moltitudine soggiogava a pochi. Il Vico comprese la forza di tale objezione meglio del critico stesso, e vi applicò la distinzione che già avea notato fra l’uomo de’ filosofi e quello de’ politici, fra il senso comune dei popoli e le verità assolute delle scuole, fra la tirannide de’ patrizj e l’equità dei giureconsulti, dai quali derivò il moderno diritto delle genti, esposto da Grozio. Fittosi dunque a indagare la storia di Roma nella successione delle sue leggi, e l’asserita sapienza degli Italiani repugnando alla ferocia delle XII Tavole, il Vico, per accordare l’autorità colla ragione, il diritto romano col razionale, ricorre ad un’armonia prestabilita in Dio fra la materia e lo spirito; da Dio emanano giustizia e virtù; la necessità e l’utilità, o, come diciam oggi, gl’interessi disviluppano dalla materia le idee di giustizia; sicchè, mentre gli uomini si acuiscono nel soddisfare i bisogni corporei, la Provvidenza li conduce ad attuare il tipo eterno della giustizia. Concepita la storia umana come una progressiva conquista dell’equità, egli snoda i problemi e le objezioni dei predecessori, in maniera inusata conciliando il diritto ideale di Platone e il politico di Machiavelli. Ma poichè la storia non cominciò con Roma, dovette egli investigare come dallo stato _ex lege_ nascessero le aristocrazie feudali; e immaginò che l’uomo, imbrutalito ne’ ducent’anni che succedettero al diluvio, sino a smarrir le tradizioni tutte e il linguaggio, fosse scosso dallo scoppio della folgore, e allora sospettasse dell’esistenza d’un Dio; dai boschi incendiati dal fuoco celeste toglie una favilla per i bisogni suoi, per le arti, e per bruciare i cadaveri; vergognando de’ promiscui connubj, rapisce una donna e la reca nelle caverne, origine delle famiglie, donde i rifugi, e l’agricoltura, e _il pudore del cielo, dei vivi, dei defunti_; i padri si confederano; il patriziato si stabilisce, conservando i privilegi della famiglia e dei riti[279]. I forti, chiesti protettori dai deboli, se li rendono famuli; ma poichè li tiranneggiano, questi si ammutinano onde strapparne il dominio bonitario de’ campi, lasciando a quelli il dominio ottimo, e gli auspizj che sono indispensabili a render legali gli atti. Intanto si ha la città eroica, composta di educabili patrizj e ineducabili plebei, i quali cominciano lotte interminabili per partecipare anch’essi al diritto civile: e questo trionfa, e ne viene l’età umana delle repubbliche libere, quando unico e supremo è il dominio della legge, commesso alle libere opinioni de’ giureconsulti, che in nome della ragione surrogansi all’arbitrio del privilegio e della forza. Così gli _interessi_ dominanti nel Machiavelli e la _ragione_ esaltata da Grozio vengono a conciliarsi nel fatto, che cancella l’antinomia e la filosofia. Tutti i fatti parziali sono dunque sottomessi a un ampio concetto; e qualunque rozzezza, qualunque iniquità trova spiegazione o posto in quest’ottimismo. Il semplice quanto sublime ordito ingombra egli di dissertazioni e divagamenti, ove profonde tesori di novità storiche, filosofiche, filologiche. La vulgata cronologia degli avvenimenti è dovuta alla boria delle nazioni e dei dotti. Egli primo riconobbe nella mitologia un senso recondito: e nella poesia, parto d’immaginazioni vivaci, la chiave della storia primiera. Le tradizioni popolari han pubblici motivi di vero: i parlari sono i testimonj più solenni delle prische usanze. Parallelo procede lo svolgersi dei popoli e quello delle umane facoltà, sicchè le une fan riscontro alla storia degli altri. È natura dei vulghi l’assomigliare a se stessi l’universo, imporre a tutte le genti la propria origine; e la mente umana dilettandosi nell’uniformità, ai primi cogniti riferisce i nuovi, e gli effetti particolari a cause comuni. Per mezzo di tali _degnità_ viene a scoprirsi che all’incivilimento non presedettero i filosofi, come Grozio vorrebbe; ed Ercole, Teseo, Pitagora, Dracone, Solone, Esopo sono personificazioni de’ loro tempi, e nuclei attorno a cui la tradizione agglomera la vita e gli atti di molti; sono insomma la personificazione collettiva delle persone eminenti, giacchè il senso comune sta innanzi e sopra del senso individuale. Omero stesso, che dapprima egli avea accettato come un poeta cieco, le meditazioni successive lo _strascinarono_, lo _violentarono_ a crederlo un mito; non un poeta ma la poesia; nè mai fu superato, perchè non si supera l’ispirazione spontanea di tutto un popolo. Anche i sette re di Roma dissolve in caratteri politici, a ciascuno de’ quali il popolo appropriò gli effetti di lente rivoluzioni, come alle XII Tavole attribuì anche leggi plebee, ottenute assai più tardi col trionfo della democrazia. Se le genti sono selvaggie da principio, svanisce il concetto dell’antichissima sapienza degl’Italiani: svanisce allorchè sia stabilito che le lingue son fatte dal popolo, non dai filosofi, nè Roma fu governata in origine da un senato di sapienti; talchè il Vico progredendo demolì di sua mano quell’edifizio, nel quale molti nostri, senza conoscerlo, idolatrano ancora la boria nazionale. Sempre vedendo riscontri e similarità, il Vico credeva che, al par de’ Romani, tutti i popoli fosser passati per tre governi: monarchia aristocratica fondata sull’autorità divina; repubblica aristocratica; repubblica popolare, la quale riesce in monarchia popolare; adunque dall’uno si va ai pochi, dai pochi ai molti, dai molti all’uno. Amplia questi teoremi, e l’incivilimento non è opera della filosofia, anzi essa col tempo scaturisce da quello; la storia positiva non può raccontare i primordj del genere umano, perchè precedettero ogni scrittura e monumento: ma se tutte le nazioni dalla barbarie giunsero all’equità, v’è una storia ideale, eterna, comune a tutte esse nazioni, le quali non sono che manifestazioni particolari, mentre colla storia ideale si ricostruiscono le civiltà delle singole nazioni, si trovano i primordj alle storie che ne mancano, si assorbiscono in leggi immortali di ragione i particolari fenomeni di Roma, d’Atene, di Sparta, degli uomini, de’ luoghi, de’ tempi. In essa storia il diritto si realizza, cominciando dalla violenza, poi mascherandola nelle formole solenni, ingentilendosi nelle finzioni che eludono queste, poi diventando equo, sempre sotto l’impulso prestabilito delle necessità e delle utilità, delle passioni e degl’interessi, dalla grotta ove il selvaggio rifugge dal fulmine, sin al trono su cui il popolo colloca, suo rappresentante, l’imperatore che livella il diritto. Questa è dunque una _scienza nuova_ dell’intera umanità. La Provvidenza, che erasi fin allora dimostrata dalla meravigliosa architettura del mondo naturale, il Vico vuol riconoscerla pure nel mondo delle nazioni, non fatto dagli uomini ma da Dio stesso; tutto riducendo all’unità d’una Provvidenza divina, che informa e dà vita al mondo delle nazioni. Scoperta colla meditazione questa storia ideale eterna, egli vi assetta tutti i fatti umani; ne’ quali, eliminate le particolarità di luoghi e di personaggi, sempre appare un eterno consiglio, che ordina le cose massime e le minime. Perocchè nelle sue manifestazioni la natura umana procede per certi principj comuni: gli elenchi della vita morale, cioè religione, giustizia, utilità, bello, filosofia, si collegano per esprimersi in certe forme di rapporti ne’ diversi stadj dell’umanità. Laonde mito, etimologia, tradizione, linguaggio si soccorrono per ispiegare l’attuamento del diritto nelle storie, e per chiarire che in tutte ricorrono i fatti della romana. L’erudizione non possedendo ancora dati bastanti per ismentirlo, lasciavagli campo a divinare sopra la mitologia, espressione lirica della storia primitiva, sopra il vocabolario, deposito delle conquiste della verità e del diritto, fatte sotto l’impulso della necessità; sicchè colla poesia ch’è la favella eroica, e colle frasi espresse per via di fatti, rilesse in tutti i popoli la storia di Roma. Quest’ultima fu conservata dalle leggi; delle altre sussiste qualche frammento appena, ma potranno ricostruirsi sull’analogia di quella; nè v’è tradizione ch’egli non si proponga di ricondurre alla sua preordinata storia romana. A questo procedimento di tutte le nazioni, operanti egualmente in circostanze eguali, nella famiglia, nella città, nella nazione, s’opporrebbe la narrazione biblica. Il Vico, non osando rimpastarla, la rimove, riconoscendo nel popolo ebreo un andamento particolare e indiscutibile. Omero pure vi contraddice, cantando costumi corrotti, lunghi viaggi, divinità avvilite che non hanno a fare col patriziato romano. E il Vico per offrirne spiegazione ingrandisce la propria scienza, e scopre un’età divina, una eroica ed una umana; i caratteri doppii, ed i poeti d’età depravata che fanno se medesimi norma dell’universo, e che ai lontani paesi attribuiscono i nomi de’ proprj, supponendo viaggi assolutamente impossibili a quella rozzezza. Nella civiltà greca come nella romana da principio fu adorata la Provvidenza, poi fantasticato, poi ragionato. Da qui il succedersi dell’età divina, dell’eroica, e dell’umana; ciascuna dotata d’idee e di linguaggi proprj. Vi corrispondono tre specie di costumi; religiosi, violenti, officiosi: tre giurisprudenze; la mistica, la prudente, che ripone il valore nella forma materiale della legge a quella attaccandosi per difesa, e l’umana: tre specie di lingue, di caratteri, di costumi, d’autorità; tre tempi, i religiosi, i puntigliosi, i civili; tre governi, divino, eroico, popolare libero sia monarchia o repubblica, dove però i cittadini son tutti eguali. Via dunque dalla storia il caso; via l’onnipotenza dei grandi uomini; tutto essendo provvidenziale e prestabilito, non solo pel nostro ma pei _mondi infiniti possibili._ Glien’è riprova la barbarie rinnovata del medioevo, dove rinascono i simboli, il linguaggio figurato, le clientele, e un Omero della seconda inciviltà, com’egli arditamente qualifica quel Dante, che al Gravina era parso l’Omero di una seconda civiltà. Il mondo, che ripigliò l’antico corso, ricadrà quandochessia nella barbarie. Benchè egli facesse tutt’uno la scienza e la bellezza, ammirasse i classici e lo stile storico _mezzo fra prosa e verso_, e fosse dai contemporanei lodato come umanista, si rinvolse in una forma scabra e intralciata, che nocque assai all’intenderlo[280]; oltre che una storia, la quale trova riscontro nella letteratura, nel linguaggio, nella geografia, nell’astronomia, nella cosmogonia, se poteva abbracciarsi da un potentissimo intelletto, non doveva trovarsi accessibile alle intelligenze normali. Pertanto i contemporanei nol capirono; e fu inteso sol quando altri già erano arrivati dove lui, e più innanzi. Però, non che fosse un isolato fenomeno in mezzo ad un mondo troppo inferiore, egli si erudì nella sapienza del suo tempo; non distratto dalla Corte e dalla moda come i Francesi, non dagl’interessi politici come gl’Inglesi, meditava que’ libri che altri scorrono; confutò riverentemente Cartesio e Grozio, da cui dedusse l’astratta giustizia; forse il _Nuovo Organo_ di Bacone gli suggerì l’idea d’una scienza _nuova_; profittò del Gravina e del Sigonio, e sovrattutto del platonismo di Leibniz; e criticando il genio, genio si mostrò. Di que’ pochi ch’egli intitola _passi d’oro_, cioè verità quasi sfuggite agli antichi, sol una mente come la sua potette accorgersi, non che interpretarli e indurne leggi universali. Machiavelli, pensatore sì robusto, aveva accettato la storia di Livio come indubitabile e nel senso vulgare; il Boccalini, Annibale Scoti ed altri commentatori di Tacito non faceano che diluirne i potenti riflessi con languide parafrasi e spiegazioni che nulla insegnavano più dell’originale; Grozio, Sigonio, Gravina, non che i minori interpreti, nella legislazione romana vedeano meramente i fatti; mentre il Vico nella storia come nella giurisprudenza s’approfondisce da scopritore, nè altri mai radunò tante verità e principj nuovi, nè tanto valse nel convertire i fatti in idee senza smarrirsi in astrazioni. Quell’erudizione, meravigliosa pe’ suoi tempi, fu mostrata monca dalle posteriori scoperte. Se avesse saputo che fra’ selvaggi il Dio è complice dei delitti, è l’avversario d’una civiltà che incatena gl’istinti, non avrebbe derivato la religione dallo sgomento. Dinotò gli sviluppi dell’umanità nelle formole del diritto romano, ma non avvertì ch’era tradizionale, anzichè spontanea; evoluzione, anzichè passaggio da barbarie a civiltà, attesochè il gran popolo sorgea di mezzo alle città italiche. Attribuisce la potenza di Roma alla sua situazione, eppure confessa che i popoli hanno senno e voglie quali l’educazione li dà. Alle origini dell’improvvisata sua società trasporta le cognizioni delle società già costituite, i bisogni di proprietà, di famiglia, di religione, di schiavitù. Al giudizio individuale di Cartesio surrogando il comune, non s’accorge che spesso l’errore domina intere generazioni, e i miglioramenti nascono da ragione individuale che precede la generale; sicchè il senso comune è l’espressione di uno stadio sociale, anzichè della verità e della ragione. L’erudizione, che lo avea portato a tanta sublimità, fu pure la sua pietra d’inciampo, ritorcendolo verso il passato, fin a rinnegare diciassette secoli di progresso, e l’indefettibilità del cristianesimo, e la non più disputabile emancipazione dello schiavo: l’ammirazione delle passate gli tolse l’intelligenza delle età moderne, e lo persuase che il _ferreo mondo_ fosse in pieno decadimento: osservando declinare l’Italia dopo tanta floridezza, estese quest’esempio a tutta l’umanità, credendone inevitabile il precipitare dopo elevatasi, e le cause del deperimento universale cercò ne’ parziali eventi della nazione che dominava la sua. Il progresso delle scienze fisiche e la conoscenza maggiore del mondo vennero poi ad attestare che leggi dell’universo non sono quelle di Roma e di Grecia; le caute induzioni odierne provando la parentela delle favelle, negarono che le lingue nascessero spontanee ed isolate per uniforme conato della natura umana; le tante genti rimaste immobili nella primitiva selvatichezza, o moventi appena i primi passi nella via della civiltà, le nazioni stazionarie, fransero il circolo similare, entro cui egli avvolge inevitabilmente l’umanità, e chiarirono che il cattolicismo, l’affrancazione dell’uomo, le grandi scoperte impediscono di indietreggiare pei fatali ricorsi. Eppure nel sublime sonnambulismo del genio, dominato da quella _melanconìa che dà grandezza_, fattosi interamente antico, _ficcò_ la filosofia nelle favole, e i deserti antestorici popolò coi figli de’ suoi pensieri, signoreggiando il presente e l’avvenire; e, suo merito supremo, innovando il metodo delle ricerche storiche, fu il primo ad architettare la storia come soggetta a una legge certa, ad un’eccelsa moralità, indipendente da nazioni e da tempo, e la cercò. Poco prima Bossuet vescovo di Meaux, nel _Discorso sulla storia universale_ avea dato una filosofia della storia, ponendole per centro il Calvario, quasi tutte le vicende del mondo fossero preordinate verso il Redentore venturo o venuto. Il Vico, che probabilmente non n’ebbe contezza, considerò le nazioni in sè, e i fatti come fasi della vita, sicchè ne coglieva soltanto ciò che valesse a mostrare la loro opportunità ai disegni di Dio. Trovò i tipi di ragione; enunciò le lingue far parte intima della storia civile; se in cercare nelle radici de’ vocaboli le radici dei pensieri errò sovente, aprì il calle a nobilissimi ardimenti, e divinò quel che altri poi scopersero; alla filologia ampio senso attribuì come meditazione della parola in quanto esprime il pensiero dei popoli, ed è interpretata dai fatti ben più che dai commentatori; avvertì la distinzione fra popolo e plebe: al famoso passo di Clemente Alessandrino sulla scrittura egizia diede l’interpretazione, di cui si gloriano i nostri contemporanei; sminuì le meraviglie cinesi, e presentì l’importanza delle genti scitiche; dettando alcuni canoni di ragione, mettendo in dubbio alcuni pregiudizj, posando molte quistioni e alcune snodando, scoprendo spesso, più spesso ponendo sulla via di scoprire, d’oltre un secolo prevenne gli ardimenti della critica e la creazione d’una storia ideale dell’umanità, dove i secoli passeggeri si contemplano nel lume dell’eterna Sapienza. La lotta dell’intelligenza colla necessità, dell’Oriente coll’Occidente, dell’uno col molteplice, l’objettivarsi dell’idea nella storia, la manifestazione dell’assoluto, le altre forme umanitarie di Schelling, di Hegel, di Fichte, di Cousin rientrano pur sempre nel concetto di Vico, liberato dall’umiliante corollario dell’inevitabile decadenza. Non dimentichiamo che, disapprovando le oziose disquisizioni, il Vico disse la filosofia esser data «per intendere il vero e il degno di quel che dee l’uomo in vita operare»; e, a differenza dei tanti, rivolti solo ad esagerare la degradazione, sostenne che «la filosofia, per giovare al genere umano, dee sollevare e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura, nè abbandonarlo nella sua corruzione». CAPITOLO CLIX. Scienze naturali e matematiche. Meglio delle scienze morali furono coltivate le positive, il cui lustro redime dal decadimento delle lettere e del carattere nazionale. L’intelletto umano non può raggiungere l’assoluto, le origini delle cose, eppure alla ricerca di quelle s’affatica l’attività sua, e, attesa la relativa sua impotenza, dà all’immaginazione grandissima efficacia nelle scienze che non si riducano a puro metodo come le matematiche. Nelle età precedenti aveano delirato le naturali; e invece di raffrontare i pronunziati de’ maestri col manoscritto originale di Dio, cioè il mondo e la natura; spingersi all’osservazione de’ fenomeni molecolari onde scoprire le cause immediate; coordinar le ricerche ad induzioni generali, e valutare l’azione de’ corpi nella loro massima divisione, soffogavano i fatti sotto le argomentazioni, fondavano l’autorità sopra analogie fantastiche: faceano sperienze, ma suggerite da opinioni derivate da un preordinamento di idee allora dominante. Leonardo Dandolo e Zaccaria Contarini, sulle traccie d’Averroe[281], numeravano quanti peli avesse il leone sul capo, quante penne l’avoltojo alla coda, e come sieno sorde le api e cieche le talpe. — A che serve ciò? è ciò vero?» Son domande che non si facevano, bastando si leggessero nelle compilazioni di Ateneo, Oppiano, Eliano, Plinio; dietro ai quali s’investigavano stranezze e mostruosità, anzichè le leggi comuni, quasi la natura fosse una successione di prodigi. I particolari non fanno scienza, diceano le scuole; e avrebbe creduto impicciolirsi il sapiente che studiasse la caduta d’un sasso, lo sbocciar d’un pisello, le metamorfosi d’una farfalla. Che de’ fenomeni straordinarj scopransi le cause dall’esame dei consueti; che leggi uniformi reggano il pianeta nostro e gli altri, la rotazione del sole e il pulsar dell’arteria, il saltellare d’un minuzzolo di carta incontro all’ambra e lo schianto del fulmine, chi l’avesse asserito sarebbe parso delirante. In conseguenza prevaleano le scienze occulte, e le prime edizioni de’ libri di tal materia sono quasi introvabili, tanto si logoravano. Può essercene tipo la _Magia naturale_ di Giambattista Della Porta napoletano (1540-1615), che nel I libro discorre a priori delle cause; nel II, delle operazioni, cioè del fare singolarità e prodigi, come scoprire colla calamita se una donna è casta, far una candela che mostra gli uomini colla testa di cavallo; nel III, tratta dell’alchimia, non senza buone osservazioni, massime sul raffinare metalli; nel IV, dell’ottica, ove descrive la camera oscura. Oltre racimolare negli antichi quanto aveano di meraviglioso, sperimentò egli stesso; poi dopo nuove letture e sperienze e viaggi, rifuse l’opera sua in venti libri, con maggior cura del vero: pure molte cose è ben certo ch’e’ non le avea verificate; d’altre gli si dà merito d’inventore mentre soltanto le compilò od avventurò: nè qualche buona osservazione basta a collocarlo tra i rinnovatori, benchè allora fosse ammirato e tradotto. Eppure la magìa e la medicina taumaturgica, cercando il più recondito e strano delle bestie e delle piante, dall’errore stesso trovavansi obbligate all’analisi e all’osservazione: i musei dove si ostentavano rarità, e pei quali i ciurmadori fabbricavano animali fantastici, giovavano col mettere sott’occhio gli esemplari: tanti viaggi poi in terre inesplorate persuadevano che non tutto era stato detto. Di tal modo alla scienza fatta a priori o sui libri succedeva quella costituita sopra l’esperienza e l’osservazione; raccoglievansi fatti, anzichè compaginare ragionamenti; cominciavasi a dubitare delle asserzioni, a confessar le ignoranze, a non credere che sappia tutto chi di tutto favella, a sostituire il fenomeno evidente alla congettura arrischiata. Alcuni nostri concentrarono l’attenzione su qualche punto speciale, vero metodo di avanzare. Fabio Colonna, erudito eppur osservatore, trattò delle conchiglie e della porpora; Pietro Olina da Orta degli uccelli, con particolarità interessantissime[282]; de’ pesci il Salviani da Civita di Castello. Fabrizio d’Aquapendente, con metodo scolastico, ma con qualche buona osservazione discorse se le bestie abbiano un linguaggio e quale, quanto differente da quel dell’uomo e delle altre specie, a che adoperato, come possa comprendersi, qual n’è l’organo[283]: se possano comunicare fra sè dei fatti specifici, e fin a qual punto associno idee al linguaggio dell’uomo sono problemi ch’e’ non toccò, e che i nostri filosofi non sciolsero finora. I cataloghi di vegetali faceansi per alfabeto, a servizio de’ farmacisti, finchè il Maranta nel 1559 pubblicava un metodo di studiar le piante medicinali. Si ammirano nella biblioteca Marciana alquanti codici botanici, fra’ quali il _Liber de simplicibus_ di Benedetto Rinio veneziano del 1415, con quattrocentrentadue piante mirabilmente ritratte da Andrea Amadìo, e coi nomi latini, greci, arabi, slavi, tedeschi; e una _Storia generale delle piante_ di Pierantonio Michiel, in cinque volumi, con un migliajo di specie disegnate e colorite, i nomi in diverse lingue, e buone descrizioni, e una distribuzione sistematica in tre serie, dedotte dalla struttura delle radici, delle foglie, dei semi. Nel poema _De viribus plantarum_ di Emilio Macro del 1480 furono inserite le prime tavole botaniche, poi nel 93 nell’opera di Pier Crescenzi. Giorgio Valla, Marcello Virgilio, Ermolao Barbaro patrizio veneto, Fausto da Longiano, Nicolò Leoniceno, Giovanni Manardo si limitarono a tradurre o a commentare gli antichi botanici. Andrea Mattioli da Siena, che accarezzato e applaudito viaggiò assai come medico di principi, arricchì Dioscoride di moltissime osservazioni sue proprie, e notizie e disegni di nostrali e di Tedeschi; onde l’opera sua lodatissima fu cerca fin nei regni d’Oriente. Antonio Musa Brasavola (-1577), transizione fra i commentatori e gli osservatori, consigliò al duca di Ferrara un orto elegante, che fu detto il Belvedere, ma che a torto si reputa il primo, giacchè Venezia ne possedeva uno fin dal 1330, a Padova ne istituì un altro nel 1545[284], poi nel 1564 la prima cattedra pei semplici, anzi numerò nelle sue provincie tanti orti quanti in tutto il resto d’Italia. Luigi Anguillara, famoso per la composizione della triaca e direttore dell’orto di Padova, viaggiò e tenne relazioni coi dotti, ai quali dava risposte e descrizioni, che ne formarono la gloria per quanto male ne dicesse il Mattioli, indispettito di vedersi appuntato di qualche sbaglio. Un orto ebbe pure Firenze: quel di Pisa, donato da Luca Ghini bolognese, fu dal granduca Ferdinando arricchito con piante d’Asia e d’America, principalmente per opera di Michelangelo Tilli, buon osservatore e d’estesa corrispondenza, chiesto medico dal bey e dal granturco, e per sua cura vi fiorirono primamente l’aloe ed il caffè (pag. 303). Giambattista Trionfetti bolognese fondò l’orto di Roma, glorioso di possedere da seimila specie[285]. I botanici vi trovavano di belle rarità, massime ne’ giardini veneti; il Brasavola la malva arborea e la cassia in quello dei Cornaro a Murano; il pistacchio di Sorìa in quel del Morosini; il Bacchino nel suddetto dei Cornaro l’uva spina e l’iride fetida; il giacinto orientale, l’eritonio, il galanto in quel di Lorenzo Priuli, ove prima fiorì la scamonea d’Aleppo, ed ove s’aveano la carruba e il leucojo; in quel del Bembo il pisello americano, il cicorio spinoso, ecc.: l’Anguillara vedeva lo storace e l’amomo in quello de’ Michiel; la tuja, il pistacchio selvatico in quel dei Pasqualigo, e la lacrima di Giobbe; Prospero Alpino il laserpizio in quel dei Bembo; in quel de’ Contarini lo stramonio d’Egitto ch’egli denominò Contarenia; in quel del Rannusio il rabarbaro; in quel dei Moro la pianta del balsamo, ch’egli aveva recato dalla Mecca. Que’ patrizj favorivano i cultori di questa scienza: i Calergi, signori del monte Ida a Creta, vi ospitavano gli studiosi di tali rarità; Marin Cavallo, nunzio a Costantinopoli, secondava i viaggi del Guilandino in Oriente; Girolamo Cappello, provveditore in Candia, mandava piante ed erbe ed ajutava le ricerche di Prospero Alpino e i viaggi di Giuseppe Benincasa; Giorgio Emo condusse al Cairo esso Alpino, la cui opera postuma delle piante esotiche fu fatta stampare da Nicolò Contarini; l’Alvise Corner e Giovanni Donà, consoli al Cairo, esploravano col Veslingio l’Egitto. Ulisse Aldrovandi bolognese (1522-1605), di dodici anni fugge di casa per veder Roma, s’accompagna a un pellegrino per San Jacobo di Galizia; sospettato d’irreligione, torna a Roma per giustificarsi; e invaghito agli studj naturali dal Rondelezio e dal Ghini, divien professore in patria, e logora il ricco patrimonio in viaggi e nel mantenere per trent’anni con ducento ducati un pittore d’animali, e molti disegnatori ed incisori, nell’accattar rarità, libri, capi d’arte, e dotare d’un orto botanico la patria. Il senato bolognese non gli mancò d’ajuto; avutone in lascito il doviziosissimo museo e la biblioteca, spese lautamente in terminare la compilazione e la stampa in tredici volumi in-foglio della sua _Storia naturale_. Dove l’ornitologia e l’entomologia, compite dall’autore, sono a gran pezza migliori, con belle tavole in legno, e succinte ma esatte descrizioni; se non che egli, secondando l’andazzo, affoga in citazioni poetiche, mitologiche, araldiche; ad osservazioni proprie intarsia le reminiscenze, a verità naturali le invenzioni degli uomini, e tutte le specie mai che la fantasia chimerizzò; onde quell’opera parve a Buffon potrebbe ridursi a un decimo, ma questo non dispregevole. Giovanni Ciassi da Treviso ben divisò i principali fenomeni della vegetazione; il modo del fecondamento Paolo Boccone messinese; Giacomo Zenoni insegnò a diseccare e conservar meglio i vegetali, e descrisse, quelli del Bolognese; quelli di Sicilia frà Francesco Cupan; i maltesi Filippo Cavallini; Antonio Donati quelli del litorale Veneto; e così d’ogni paese italico. Dal descrivere, denominare, delineare altri avanzavansi all’anatomia botanica, presentendo l’uniforme struttura intima sotto alla differente apparenza degli esseri organizzati. Andrea Cesalpino d’Arezzo (1519-1603) classificò le piante giusta gli organi della fruttificazione, e massime i cotiledoni, primo abbozzo d’un sistema carpologico; i semi rassomiglia alle uova; avverte il sesso delle piante appellando maschi gl’individui provvisti di stami, e femmine quei che portano i frutti; il midollo delle piante considerava come il loro cuore, sede della forza vitale e sorgente del frutto, mentre le altre parti del fiore provenivano dal legno o dalla scorza; dimodochè, a sua detta, il fiore non era che un’espansione delle parti interne; concetto adottato poi da Linneo, e svolto nella _Prolepsis plantarum_. Assodata nel primo libro _De plantis_ la conformazione de’ vegetali, base dell’anatomia e della fisiologia, negli altri quindici li classifica come alberi o come erbe secondo la durata, secondo la postura della barbicella ne’ semi, secondo il numero di questi e le radici, o l’assenza de’ fiori e dei frutti; le classi suddivide in quarantasette sezioni, sovente dietro al carattere di gruppi importanti, riconosciuti oggi come famiglie naturali; ciascun capitolo intitola da una pianta in esso descritta, non però abbastanza vasti per costituir generi, quali sono ora stabiliti. Vero genio scopritore e ordinatore, tardissima fama ottenne, colpa dell’irto stile e dell’inviluppo scolastico; oltre che la venerazione per Aristotele lo arrestava nelle conseguenze, e traevalo a contraddirsi per conciliare le scoperte nuove colle asserzioni antiche[286]. Profittando delle non curate idee di Cesalpino, Fabio Colonna (_Ecphrasis_, 1606) distinse nella botanica i generi, e pel primo sostituì intagli in rame a quelli in legno. Del seme dei funghi, già accennato in Giambattista Della Porta[287], diè poi contezza il Micheli, che nel 1737 fondava un orto botanico a Firenze. Giuseppe Aromatari d’Assisi, in una lettera di quattro pagine (Venezia 1625) sopra la generazione delle piante, assodò l’analogia fra i semi e le uova, e la destinazione de’ cotiledoni: poi la dottrina dei sessi fu posata chiaramente da Grew e meglio dal Camerario. Marcello Malpighi da Crevalcore (1628-94) elevò la botanica a scienza, applicata ai progressi dell’anatomia e della fisiologia animale; la struttura e l’incremento dei semi seguitò con miglior ordine e più concisione di Grew nella _Anatomes plantarum idea_, stampata il 1671 a spese dell’Accademia di Londra. L’esser nuovo lo costrinse ad analizzare ciascuna parte nelle classi e specie diverse, la corteccia, poi il tronco, i rami, la gemma e foglie, frutti, fiori, radici, il germogliare, le mostruosità, gli aborti. Nardo Antonio Recchi da Montecorvo, archiatro di Napoli, avute da Filippo II le note manoscritte di Hernandes intorno alla botanica del Messico, ne fece un’opera che i Lincei tolsero ad illustrare, e fu stampata nel 1615 a Messico. Il punto culminante della botanica d’allora è segnato dalle _Tavole fitosofiche_ del principe Federico Cesi, col sesso delle piante, il doppio sistema de’ loro vasi, i fenomeni delle meteoriche e delle eliotropie, e coi nomi tecnici che poi restarono; sicchè valsero di fondamento ai sistemi di Linneo, di Trembley e de’ seguaci. Ottavio Brembati conte bergamasco, oltre studiar la struttura de’ fiori e quanto vi possa l’atmosfera, e nell’_Anterologia_ e nell’_Architettura de’ fiori_ insegnare bizzarri comparti pe’ giardini, pubblicò un _Modo di cavar le miniere_ (1663): Camillo Leonardo pesarese (_Speculum lapidum_, 1502), e Vanuccio Biringuccio senese (_Pirotecnia_, 1546) sanno poco degli antichi, benchè quello secondi, questo combatta gli alchimisti: e se in Italia eransi fatte le prime indagini mineralogiche, presto la Germania ci tolse il passo, mercè le maggiori sue ricchezze. Sisto V, volendo ogni maniera d’illustrazione al suo pontificato, decretò che in Vaticano, come una biblioteca e una stamperia, così si ponesse una metalloteca, e ne incaricò Michele Mercati da Samminiato (1541-93). Il quale la distinse in _orycta_ e _metalleuta_, cioè metalli proprj e metalliferi. La prima comprendeva tredici divisioni; terre, sale e nitro, allumina, sughi acri, sughi grassi, sostanze marine, pietre somiglianti alla terra, pietre prodotte nell’interno degli animali, pietre idiomorfe, petrificazioni, marmi, silice e fluore, gemme. I sei armadj dell’altra comprendono, il 1º oro e argento, il 2º rame, il 3º piombo e stagno, il 4º ferro e acciajo, il 5º sostanze vicine a metalli, che nascono da sè, il 6º sostanze vicine a metalli, che si trovano nelle fornaci. Suntuosissima la sala disposta a ciò; e magnifica al pari e molto più utile sarebbe stata la descrizione dal papa ordinata, ove il Mercati seguì la partizione degli armadj esponendo le opinioni correnti e le virtù de’ singoli corpi, con tavole di squisita finezza. Morto Sisto, Clemente VIII, particolare amico del Mercati, fece proseguire l’opera, ma morto poco poi l’autore, questa andò in oblio. Nel 1710 nella biblioteca Dati a Firenze si trovò il manoscritto del Mercati; e Clemente XI compratolo, incaricò il medico Lancisi di compierlo e pubblicarlo. Il Lancisi durò fatica a trovare nell’immensità del Vaticano la metalloteca del Mercati, ma n’era stata dispersa la raccolta; e quando l’opera comparve nel 1717, riusciva inutile dopo tanti progressi. Anche nell’osservare la mirabile struttura della scorza del globo terracqueo, furono primi gl’Italiani. I più, preoccupati delle cause finali, tenevano il mondo fosse stato creato tal qual è, perchè esso è il più adattato agli abitanti: ma agli osservatori non ne sfuggivano le irregolarità, testimonj di sovvertimenti. I fossili avanzi di animali marini deduceansi dal diluvio mosaico: alcuni li tenevano meri scherzi della natura, e perfino il Mercati gli aduna in un armadio distinto come «innocente trastullo della natura, la quale volle darci le prime lezioni di scultura e pittura»; e a chi li supponeva reliquie d’animali, domandava trionfalmente in che modo avrebbero potuto essere accumulati negli abissi e su altissime vette? Ma il Cesalpino confutò questo suo scolaro, e iniziò i sistemi fondati sovra la composizione; imperocchè distinse i fossili in terre, sali e sostanze solubili nell’acqua, suddividendo poi secondo caratteri meno importanti: per esempio, le terre in magre, grasse, colorite, mediche; le pietre in roccie, marmi, pietre preziose, e prodotte da corpi organizzati o da piante. Le conchiglie fossili suppone abbandonate dal mare, ritirandosi; le acque termali, dal calore che in sen della terra sviluppano le combinazioni chimiche e le combustioni; crede tutti i minerali suscettibili di cristallizzarsi in forme geometriche; l’ossido di piombo trae da una sostanza aerea, per la quale il metallo aumenta di peso, divinando le lontane scoperte di Haüy e Lavoisier, come antivenne Harvey nell’indicare la circolazione del sangue[288]. E già il veronese Girolamo Fracastoro (1553), ponendo mente alla giacitura delle conchiglie fossili e delle impronte organiche del monte Bolca, aveva indotto non potessero essere d’un’età medesima. Pensavano con lui Leonardo da Vinci e il Cardano, in opposizione al Mattioli ed al Falloppio: Majolo supponevale lanciate da vulcani, come poi sosteneva Lazzaro Moro: Fabio Colonna già distingueva le fluviatili dalle marine. Agostino Scilla messinese (1639-1700), pittore della scuola di Andrea Sacco e studioso delle medaglie, osservando nella Calabria que’ grandiosi letti di testacei in parte già pietrificati, trovolli identici colle conchiglie viventi ne’ mari vicini alla Sicilia. Le sue indagini espose nella _Vana speculazione disingannata dal senso_, con ventotto tavole che rappresentano i principali fossili della Sicilia e di Malta, coralli, madreperle, ostriche, serpule, vertebre, denti, ravvicinandoli alle specie vive. Non esperto naturalista, «So poco (dic’egli), conosco di valer poco, ma di non voler vivere a caso; mi son messo in capo che il dubitar delle cose è il miglior mezzo di conoscerle con più probabilità». Il Vallisnieri, lo Stelluto, il gesuita Cesi e molti si occuparono dei «corpi marini che sui monti si trovano»; non posando però teoriche soddisfacenti. Qui venne a studiare geologia il tedesco Kircher, che si fece anche calare nel cratere del Vesuvio[289]; uno di quei talenti universali, che han bisogno di cogliere idee complesse, quali furono l’unità delle nazioni, la scrittura universale, la stenografia; ma i suoi libri sparse di ciancie e fantasie. Estesa largamente la sua fama, i principi anche protestanti gli mandavano denari per esperienze, e rarità pel museo del Collegio Romano. La svedese Stenon, fattosi cattolico, più scientifico spirito volse alla struttura de’ terreni toscani, e primo avvertendo la stratificazione[290], stabilì siano depositi orizzontali del fluido, che l’accensione di vapori sotterranei, o scoscendimento dei letti superiori, sollevò in montagne ed in variate inclinazioni: riscontra che il terreno toscano, due volte fu piano e secco, due aspro e montuoso, e due coperto dalle acque. Così fondava la geologia e la cristallografia. Bernardino Ramazzini da Carpi (1633-1714) nelle _Effemeridi barometriche_ sosteneva l’influsso de’ cambiamenti atmosferici sopra la sanità; parlando delle fontane modenesi, dà come antichissimi i pozzi artesiani, ove forando la terra con un’_ingente trivella_ «ad un tratto l’acqua erompe con impeto portando sassi ed arena, e quasi in un istante si riempie di acqua il pozzo intero, e in siffatto modo si conserva costantemente»; avverte la temperatura elevata di queste scaturigini, e suppone derivino dal mare per istrati di terre, spiegandone il sollevamento colle leggi ordinarie dell’idraulica[291]. Filippo Bonanni fece una raccolta di testacei, scrisse sulle chiocciole e le loro uova, e sostiene la generazione equivoca, come faceasi generalmente dietro agli antichi. La confutò Francesco Redi aretino (1626-94), che applicò agl’insetti una savia incredulità; e così poi fecero e Swammerdam ed i più fino ai giorni nostri, quando la teoria impugnata tenta risorgere con corredo di scienza e di osservazioni, ristretta però agl’infusorj. Esso Redi scoprì la sede del veleno della vipera: e più che le verità, è notevole il suo metodo d’indagarle, e il dimostrarle con accuratezza, buona fede e temperata polemica; negli sperimenti non traviato dai pregiudizj fra cui era cresciuto, eppur rispettando chi opinava diverso. Accerta che i vermi sviluppatisi nella carne esposta all’aria son deposti da insetti; ma s’accontenta di dire parergli _verisimile_ che le carni putride non offrissero un luogo opportuno alla schiusa delle uova, e un pascolo ai nuovi esseri. Nè crede superfluo il confutare l’opinione che dalle viscere d’un toro nascano le api: non l’avevano asserito i Greci? non l’avea cantato mirabilmente Virgilio? era dunque una verità per quei molti, per cui la scienza riduceasi a una serie d’atti di fede. Alle sue induzioni ne opponevano altre i dotti, alcuni pretendendo anche appoggiarsi all’esperienza. Il Kircher asseriva d’aver fatto egli stesso questa sperienza: prendasi polvere di serpenti, si semini in terreno grasso e umido, si annaffii alquanto con acqua pluviale, si esponga al sole di primavera; e fra otto giorni si vedranno formicolarvi verminetti, che nudriti con acqua e latte diverranno serpentini perfetti, capaci di perpetuare la specie. Il Redi non mette in canzone l’avversario; solo asserisce che più volte ritentò l’esperienza, e non gli è mai riuscita. Venuto in un tempo che ad ogni viscere s’attribuiva un rimedio proprio, ad ogni sintomo uno specifico, e la moltiplicità di questi portava complicatissime ricette, non assicurandosi quali rimedj fossero buoni, egli quasi non ne adoprò veruno, e — Godo (scriveva al Lenzoni) ch’ella sia nel numero de’ professori, che non inquietano i poveri malati con tanti e varj rimedj, sapendo che la natura gode del poco e buono, e si solleva coi semplici rimedj e con la dieta ben regolata; dove, per lo contrario, s’aggrava di molto con quei tanti sciroppi, pillole, elettuarj ed altri galenici composti, inventati, cred’io, non per altro che per ingrassare l’ingordigia degli speziali». L’onorarono gli scolari suoi Bonomo, Castoni, Sangallo, Del Papa e Lorenzini, il quale diè la prima esatta descrizione della torpedine, notando l’organo eccitatore. Intanto col microscopio, consistente però solo in una lente, il Malpighi, Leuwenhoek ed altri avanzavano la conoscenza degli animali infusorj, che pareano sottrarre ai sensi il mistero del loro organismo. Gianandrea Della Croce veneziano (-1575) nella _Chirurgia universale_ espose le scoperte fatte sin allora nell’anatomia. Ad Alessandro Benedetti da Legnago, che come medico in capo degli eserciti veneti, descrisse le battaglie contro Carlo VIII, è dovuta la prima istituzione d’un teatro anatomico, e il primo cenno della notomia patologica e della litotripsia[292]. Benivieni da Firenze eseguì ben prima del Paré la legatura dei vasi, ed operazioni di gran difficoltà, prudenti e felici; notomizzò patologicamente uno scirro allo stomaco, l’ulcerazione dell’omento, i polipi sanguigni, i calcoli biliari[293]. Eppure l’anatomia era sì poco avanzata, che fin contusioni e lussazioni curavansi con droghe e sciloppi: il Guicciardini (lib. VII) narra sul serio che a Giulio d’Este «erano stati tratti gli occhi, ma riposti senza perdita del lume nel luogo loro, per presta e diligente cura dei medici». All’opera del Mondino bolognese, per tre secoli unico testo, aggiungeansi man mano le scoperte in forma di commento. Jacopo di Berengario da Carpi professore a Bologna, raccomanda agli scolari di non acchetarsi al detto altrui ma osservare da sè; egli stesso potè dissecare centinaja di cadaveri, audacia allora senz’esempio fuor d’Italia; e fece molte scoperte, e nominatamente della membrana anteposta alla retina[294]. Andrea Vesalio di Brusselle (1514-64), notomizzando qualunque animale gli capitasse, poi uomini nelle scuole e nei cimiteri, indicò gli sbagli degli antichi, e che le osservazioni di Galeno erano fatte sopra scimie; professò a Pavia, a Bologna, a Pisa; pubblicò tavole anatomiche a Venezia, che levarono rumore quasi d’un nuovo mondo: ma le sue operazioni parvero assassinj, e bandito di patria passò a Venezia, e come medico militare imbarcatosi con Giovanni Malatesta da Rimini per Cipro e Gerusalemme, nel ritorno naufragò sulle coste di Zante, e morì di fame. Gabriele Falloppio modenese (1623-62), pur rispettandolo, il convinse di errori, massime intorno ai muscoli addominali; con sagacia delicatissima distinse lo squisito sistema acustico e la testura delle fosse nasali, della mascella, dello sterno, del sacro; e lasciò il suo nome alle trombe collaterali all’utero. Credette con Galeno che i nervi derivassero dal cuore, e le arterie conducessero gli spiriti vitali da questo a tutto il corpo; ma lo corresse in quanto al cieco ed alla fibra muscolare, da cui escluse i nervi, e mostrò che cessa d’operare se taglinsi le fibre per traverso, no se s’incidano per lungo. Esattamente descrisse l’epiploon ed il piloro, e fece conoscere il mediastino, la pleura e la glandula lacrimale. Di sei o sette cadaveri all’anno potea disporre, e il duca di Toscana tratto tratto gli offriva un condannato a morte, _quem interficimus modo nostro et anatomizamus_. Il medico ridotto a carnefice![295]. Della scoperta della staffa dell’orecchio, Falloppio cede il merito a Gianfilippo Ingrassia siciliano, che restaurò questa scienza nell’Università di Napoli, si segnalò nella peste del 1575, e primo stabilì Consigli di pubblica sanità. Asselio di Cremona indicò i vasi lattei. Bartolomeo Eustachio da Sanseverino (1510-74), professore nella Sapienza di Roma, studiò sui reni, la vena azygos e la struttura dell’orecchio e dei denti; seguì l’andamento d’alcuni nervi in prima arcano, e vide l’origine del gran simpatico. Quarantasei grandi tavole, per mancanza di mezzi, lasciò inedite: quando Clemente XI le fece pubblicare dal Lancisi nel 1714, si vide prevenuta la gloria di Bartolini, di Bellini, di Pequeto, di Lavater e d’altri. Dallo studio anatomico delle parti si passò al fisiologico dell’uso e delle relazioni di esse, dove ottennero lode Redi, Liceti, Baglivi, Pacchioni, De Marchettis. Giambattista Carcano Leone, professore a Padova dal 1573 al 1600, meritò un elogio dallo Scarpa. Col microscopio e colle injezioni si conobbe l’anastomosi delle estremità vascolari, il passaggio del sangue dalle arterie nelle vene, l’azione dell’aria su di esso, l’assorbimento chilifero, la digestione, la generazione ed altri fenomeni, spiegati diversamente dagli jatrochimici e dagli jatromeccanici. Giulio Cesare Aranzi bolognese sottilizzò sul feto e sugl’involucri suoi, avvisando a quell’organogenia, che nacque ai giorni nostri: e profittando delle scoperte di Realdo Colombo intorno alla circolazione, fece passare il sangue non più pei pori del setto, ma per la vena arteriosa ne’ polmoni: sebbene poi anch’esso, come Colombo, si arrestasse all’opinione generale che il fegato fosse organo della sanguificazione. Girolamo Fabrizio d’Acquapendente (1537-1619) continuò Vesalio nel generalizzare le osservazioni anatomiche col paragonarle ad altri animali, e dalle somiglianze e diversità fra le specie derivare conseguenze. I suoi trattati, che sono frammenti d’un _Totius animalis fabricæ theatrum_, divide ciascuno in tre parti: descrizione dell’organo, sua azione, suo uso. Particolare cura pose alle vene, ed osservò le valvole essere dirette verso il cuore, sicchè a lui pare dovuta questa scoperta, piuttosto che al Sarpi, il quale dicono notasse la contrazione e dilatazione dell’uvea. Ricusando mercede dai grandi che assisteva ebbe ricchissimi regali, che dispose in un gabinetto col motto _Lucri neglecti lucrum_. Le ricchezze da lui guadagnate faceano gola ai parenti; e allorchè di ottantadue anni esso ammalò poi guarì, non dissimularono il dispiacere; onde il gran vecchio ne restò amareggiato, ricadde, e protestò essere stato avvelenato. Sotto di lui studiò in Padova fino al 1602 l’inglese Harvey, al quale si dà merito d’avere scoperto la grande circolazione, benchè essa indubbiamente fosse già conosciuta in Italia, ed egli abbia imparato le vere funzioni del sistema vascolare da Eustachio e Rudio[296], cui senza citare copiò. Se non che, giovandosi dei progressi dell’anatomia sperimentale, rimosse le frasi viziose de’ predecessori, assegnò più chiaramente il meccanismo generale della circolazione, ed espose con quella precisione d’idee e di parole che era mancata ai nostri. Il sistema d’Harvey fu favorito anche dalla trasfusione del sangue, già accennata da Marsilio Ficino e dal Cardano, e, prima che a Londra, praticata dal Fracassati, dal Montanari, dal Manfredi, e con più rumore da Francesco Poppi che riuscì a farsene credere inventore. Poi nel 1661 Malpighi accertò col microscopio la circolazione ne’ piccoli vasi e le anastomosi delle arterie e delle vene, meglio analizzò il sangue, scoprì la struttura del polmone e del fegato, vide la lingua e tutta la cute sparsa di papille, animate da fili nervei; rivelò la sostanza del cervello e le minute sue circonvoluzioni, la struttura glandulare dei visceri, e quella del nervo ottico in molti pesci, col che sovvertiva la teorica di Cartesio sopra il passare de’ raggi luminosi per esso nervo al cervello; svolse le spire del cuore, che il Borelli (sei anni prima dello Stenon) aveva dimostrato essere di struttura muscolare; e ben prima d’Albino indicò che il colore dei Negri non risiede nella epidermide, ma nella secrezione del tessuto mucoso fra essa e la pelle. Con mirabile longanimità seguitò l’incubazione dell’ovo, ma si tenne fermo sulle preesistenze e sullo sviluppo centrifugo, benchè cercasse un primitivo tessuto, di cui gli organismi non fossero che modificazioni; e tali giudicasse gli _acini_ o follicoli glandulosi nella loro intima struttura. Gli avversarj, fra cui lo Sbaraglia, ribattè scrivendo la propria vita; le sue osservazioni possono dirsi scoperte; finchè da Innocenzo XII fu chiamato archiatro. Il suo scolaro Antonmaria Valsalva da Imola (-1723) notomizzò il cervello, il cuore, l’apparecchio respiratorio, e meglio l’orecchio, già sessant’anni prima studiato dal piacentino Giulio Casserio; migliorò gli spedali e gli stromenti chirurgici, e meritò essere encomiato e difeso dal Morgagni. S’incominciò pure ad ammirare le analogie fra la struttura del corpo e le funzioni della vita animale, facendo appoggio alla teoria delle cause finali. Il napoletano Marcaurelio Sanseverino diede in barbaro stile il primo trattato di anatomia comparata, stabilendo che gli organi de’ diversi corpi differiscono solo nelle proporzioni fra le specie. Di tutto ciò veniva migliorata la medicina: e poichè si richiedeva coraggio a combattere errori di secoli, non vogliamo essere troppo severi a chi teneva alcuna zavorra di metodi scolastici, di qualità elementari; se preferivansi i casi strani; se contro i sintomi dirigevasi la cura; se eccessiva importanza attribuivasi alle orine e ai casi critici, intorno ai quali il Fracastoro diede una teoria ingegnosissima ma tutta speculativa. Gl’incrementi della matematica eccitarono la pretensione di spiegare i fenomeni della vita colle leggi della statica e dell’idraulica, donde la scuola degli jatromatematici. Santorio Santori di Capodistria durò trent’anni si può dire continuo sulla bilancia per valutare la traspirazione cutanea. Gian Alfonso Borelli messinese (1608-79) trattò dei moti animali, sieno gli esterni volontarj, sieno (studio più sottile e meno certo) gl’interni spontanei, creando la parte più bella e rigogliosa della fisica animale. A forme algebriche sottoponeva non solo la contrazione muscolare, ma tutti i fenomeni della vita, pretendendo assimilare l’equilibrio delle leve coi misteri della fisiologia. Giammaria Lancisi romano (-1720), archiatro e oracolo del suo tempo, trattò del moto del cuore, dell’aneurisma, delle morti improvvise, che al cominciare del Settecento parvero farsi più frequenti; ma meglio attese all’osservazione pratica, e pe’ suoi alunni nell’archiginnasio patrio stese un buon compendio d’anatomia. Lorenzo Bellini fiorentino (-1704), di non venti anni pubblicava l’esercitazione anatomica sulla struttura dei reni, poi della lingua; col non dissimulare l’alto concetto che nutriva di sè, amareggiossi la vita. Che i morbi dipendano soltanto da solidi viziati negò Giorgio Baglivi raguseo (-1706), propagatore della medicina osservatrice, massime nelle costituzioni epidemiche: e col sospettare una forza vitale avviò a congiungere la fisica col vitalismo. Certo il sistema jatrofisico introdotto da lui e dal Pacchioni di Reggio, è quel che conteneva maggior numero di verità. Della febbre petecchiale, che desolò l’Italia nel 1505, priamente descritta con esattezza da Gerolamo Cardano, molti trattarono, e principalmente il Fracastoro e Massa e Andrea Trevisio. Altri esaminarono la tosse convulsiva, il catarro epidemico, e lo scorbuto propagatosi: la rafania fu distinta per morbo particolare. Troppe ricorsero occasioni di osservare la peste bubonica; e le cause assegnatene farebbero ridere, se l’età nostra risuscitandole non ci avesse insegnato a compatire. Giuseppe Daciano di Tolmezzo (-1576) buon osservatore, trattò della peste e delle petecchie, con molte savie osservazioni sue proprie, e fu de’ primi a distinguere la peste bubonica dalle febbri contagiose con cui veniva confusa. I migliori prendevano a considerare le malattie non come enti astratti, ma come modi dell’organismo, perciò studiando le relazioni fra la macchina umana e gli agenti esterni, la cui potenza si deduceva non da teoriche prestabilite, ma dagli effetti; e convinceansi che alle leggi della vita sono inapplicabili quelle della materia inerte, e che unico vero sistema è l’esperimento. Giambattista Montano e Marsilio Cognati veronese (-1572) restaurarono cogli scritti e colla pratica la scuola d’Ippocrate. Giovanni Argentieri chierese contraddisse a Galeno e agli ammiratori degli antichi[297], sbandendo le ragioni sofistiche, e i tanti spiriti cui la scuola ricorreva per ispiegare le funzioni; sottrasse alla volontà dell’anima la forza medicatrice per attribuirla a leggi naturali; discorse ragionevolmente del sonno; negò che le vene nascano dal fegato, e contraddisse Corrado Ghirardelli[298] il quale aveva prevenuto Gall sostenendo la localizzazione delle facoltà intellettuali, e la corrispondenza degli organi loro colle protuberanze del cranio. Anche Girolamo Capodivacca, professando a Padova, combattè Galeno, ma senza sapersene sempre strigare. Fortunato Fedele svertò molti errori correnti, stabilì canoni di filosofia medica, e raccomandò si pensasse a conservare o restituire la sanità, lasciando il resto alla filosofia astratta; parsimonia dei farmachi, non badare alle pretese facoltà naturali de’ rimedj, e tanto meno ai murmuri e agli amuleti. Perocchè i barbassori, disapprovando questi novatori irriverenti alla sapienza di Galeno e degli Arabi, negavano le verità nuove perchè repugnanti alle osservazioni vecchie[299], e perseveravano nelle prescrizioni antiche. A Gregorio XIV fu dato a bere per quindicimila scudi d’oro potabile. In una grotta vicin di Bracciano s’introduceva l’infermo di malattie cutanee dopo averlo purgato, e disteso e nudo sul terreno s’addormentava mediante soporiferi; le biscie tratte dall’alito del sudore, a centinaja attorcigliavansegli al corpo, leccandolo innocuamente; in capo di tre o quattro ore si traeva dalla caverna, e così seguitavasi sino alla tarda guarigione[300]. Più consueto era l’accoppiare alla medicina ricerche ed osservazioni astrologiche. Luca Guarico napoletano vescovo scrisse di questa scienza, e troppi altri rassodarono alla loro pratica; l’illustre Fracastoro assegna ad influssi di stelle le simpatie e antipatie; Lodovico Settala Milanese mette in relazione coi pianeti gli organi tutti, e fin le linee facciali e le rughe e i nêi, e vuol che il sole operi sulla forza vitale, la luna sulla vegetativa, mercurio sull’immaginativa, venere sull’appetitiva, marte sulla repulsiva, giove sulla naturale, saturno sulla retentiva[301]. Non ripeteremo la lunghissima serie dei secretisti ed alchimisti, fra cui Pietro De Platea di Trapani, cerco anche fuori d’Italia, dava i suoi secreti senza interesse. Girolamo Chiaramonti (-1640), autore della _Fenice della medicina_, inventò la polvere di Baida, specifico per cui guadagnò molto, dopochè il duca d’Ossuna la fece provare sopra dodici malati, scelti a caso nell’ospedale dell’Annunziata e che tutti guarirono. Principe de’ rimedj nuovi era la china-china, allora portata dal Perù, e qui diffusa dal cardinale di Lugo e da altri Gesuiti. La difesero i nostri pratici, più attenti a valersi dell’effetto che ad esplorarne la natura: e dopo Sebastiano Bado genovese, Francesco Torti di Modena adoperolla anche nelle febbri perniciose, poi fu estesa ad altre malattie, massime di languore. Perchè i medici francesi repugnavano dal salasso, Leone Botalli d’Asti insegnò che, come in una sorgente più acqua cattiva s’estrae, più ne viene di buona, come nelle mammelle più latte si succhia, di migliore se ne separa, così avviene del sangue; onde i suoi salassavano per ogni male e per corruzioni d’umori. Altri aspettavano miracoli dalle acque minerali, di cui si migliorò l’uso, e da’ bagni, sui quali si stampò una famosa raccolta a Venezia il 1553. A Napoli, in Sicilia, a Malta vennero di moda le cure per mezzo dell’acqua diaccia[302]. D’inferior condizione tenevasi ancora il chirurgo, e faceva pratica sotto ai barbieri, scopando la bottega, pettinando, svellendo i calli. Fin dal 1400 in Sicilia conosceasi l’innesto di nasi e labbra, ridestato da Gaspare Tagliacozzi[303]. L’uso delle armi da fuoco portò a nuove indagini; e capitale è l’opera di Alfonso Ferri napoletano (_De sclopetorum vulneribus_. Lione 1554). Un segreto per guarirle Ambrogio Parè insigne pratico comprò da un medico torinese, facendone stima più in proporzione del prezzo che del valore effettivo. Cesare Magatti da Scandiano attese a semplificare la chirurgia. Girolamo Mercuri (-1615), autore della _Comare_ e degli _Errori popolari in Italia_, uscì di domenicano perchè il vulgo ne rideva, e col nome di Scipione girò tutta Europa, finchè vecchio tornò al suo Ordine. Orazio Monti (_Del governare gli eserciti e i naviganti_, 1627), e con maggiore pienezza Lucantonio Ponzio (_De militum in castris sanitate tuenda_, 1685), cercarono migliorare la sorte de’ soldati, che la società condanna a tanti patimenti incompassionati. Bernardino Ramazzini scrisse sulle malattie degli artefici, delle monache, dei principi. Giambattista Selvatico lodigiano derise l’usare pietre fine per farmaco, e (_Sullo scoprire coloro che fingono malattie_, 1595) parla delle gravidanze simulate o nascoste, degli ossessi, della fascinazione, dell’impotenza, della finta verginità e d’altre finzioni, appoggiandole a storielle curiose. Il siciliano Fortunato Fedeli, profittando de’ lavori di esso e dell’Ingrassia, toccò tutti i punti della medicina legale[304], e alcuni speciali del tempo, come le malìe e la tortura. Con maggior dottrina e senso pratico ne ragionò il romano Paolo Zacchia (_Quæstiones medico-legales_, 1621). Non si conosce forestiero illustre che non fosse allievo delle Università nostre. Paracelso studiò a Bologna, a Roma, a Padova; Solemandro a Roma, a Pisa, a Ferrara; Langio a Pisa prese la laurea, dopo seguìto le lezioni di Leoniceno e di Vigo; Eurnio studiò in Padova e in Pavia; Teodoro, Jacopo e Bonifazio Swinger all’Università di Padova e ad altre d’Italia; Linacro in Firenze e in Roma, come Bruceo; in Padova Struzio Dessinio, primo confutatore di Paracelso; come Erasto che fu poi in Bologna, dove Monavio, De Pratis, Serveto; Cornelio Agrippa qui militò per sette anni, e professò anche in Torino ed in Pavia; Volchero Coitee fu discepolo di Falloppio e di Eustachio; Joubert dell’Argentieri a Torino; Bahuin dell’Acquapendente; in Padova studiò anche suo fratello Giovanni; e Dodoneo che più volte tornò a visitare le scuole d’Italia; Amato Lusitano stette scolaro e professore in Bologna; Rodrigo de Fonzeca a Pisa ed a Padova; Guilandino, dal Falloppio salvato dalla schiavitù algerina, fu alunno e quindi maestro nell’Università di Padova, ove pure studiarono Giovanni Schenk, Spigel, Gaspare Hoffmann, Fyens discepolo di Mercuriale, d’Aranzi, d’Aldrovandi, di Tagliacozzi. Nè cessò col secolo l’affluenza degli stranieri; e la sola Università di Padova noverò fra’ suoi allievi Maurizio Hoffmann, Posthio Gaspare seniore, Tommaso e Gaspare giuniore, Bartolino, Meibomio, Rolfink, Sennert, Wepser, Giovan Giorgio Weslingio, altri ed altri. La chimica, fantasticando a ricercare oro e longevità, era giunta a felici risultanze. I nostri preparavano molti farmachi, il sublimato corrosivo, i saponi medicinali: acque distillate e quintessenze erano prerogativa di Firenze, come di Venezia la teriaca. Alcuni si volsero alla chimica organica; il Servio di Spoleto sul latte, sul sangue il Barbato di Padova, il Baglivi, il Malpighi; e a tacer altri, fiorirono in Germania Angelo Sala (-1639) e in Inghilterra Giovan Francesco Vigani (-1683), vicentini. De’ quali il primo combattè le ciarlatanerie, i rimedj universali, la trasmutazione, e trattando dello zuccaro, del tartaro, della distillazione, dell’antimonio, mostrasi operatore diligente e osservatore arguto, confina colla scienza moderna quando definisce l’olio di vitriolo essere il «vapore solforoso che ha tolto _qualche cosa_ all’aria, all’ambiente». Il Vigani comprese che un composto determinato (sale) risulta dalla combinazione di eguale quantità d’un medesimo acido con una calce metallica (ossido). Quanto alle applicazioni, Antonio Neri, prete fiorentino, nell’_Arte vitraria_ (1612) esibì eccellenti precetti sulla fabbrica degli smalti, de’ vetri colorati, delle pietre artifiziali e degli specchi metallici: Martino Poli di Lucca inventò un secreto per rendere mortalissime le battaglie, e Luigi XIV, cui lo presentò, il colmava d’elogi e di doni, ma gli faceva promettere di non mai propalarlo: Vincenzo Casciarolo di Bologna, studiando le pietre bianche che si trovano ne’ contorni della sua patria, e calcinandole col bianco di ovo e altre materie organiche, ottenne fin dal 1602 un prodotto nuovo che dava luce anche la notte, e ch’egli chiamò _pietra solare_, prevenendo di mezzo secolo la scoperta del fosforo di Brandt. Nella matematica alcuni lavoravano alla sintesi antica, altri perfezionavano l’algebra. Federico Comandino urbinate (1509-75) col tradurre e commentare antichi fe’ progredire la scienza, e senza di lui le collezioni matematiche di Pappo forse sarebbonsi perdute, e con loro tante notizie della matematica antica: tradusse i _Galleggianti_ di Archimede, le _Sezioni coniche_ di Apollonio, gli _Elementi_ d’Euclide, il _Planisfero_ e l’_Analemma_ di Tolomeo, ed altri, ristabilendo i testi. Vanno con lui Francesco Galigaj, che nella _Somma d’aritmetica_ sciolse le equazioni di secondo grado indeterminate difficili; Giambattista Benedetti veneziano, che a ventitre anni pubblicò la _Risoluzione di tutti i problemi d’Euclide con una sola apertura di compasso_ (1553), ardua condizione cui superò con grande sagacia. Il Patrizio voleva introdurre la metafisica nella geometria, e dimostrare gli assiomi. Francesco Maurolíco messinese (1494-1575) cominciò un’enciclopedia delle matematiche pure e applicate, e traducendo e commentando Archimede, Apollonio, Diofante, li trasse a nuove risultanze. Rifece il perduto quinto libro di Apollonio sulle sezioni coniche, intorno alle rette che finiscono alle circonferenze di quelle, e determinò il centro di gravità di molti solidi. Bella applicazione fu il riflettere che le curve tracciate dallo stilo del gnomone solare sono sempre sezioni coniche, variate secondo la natura del piano su cui si projettano; prima volta che la gnomonica si considerasse sotto aspetto geometrico. Attentissimo osservatore e arguto filologo, scrisse poesie italiane e sicule, e di filosofia, grammatica, teologia, e principalmente di ottica. La sua città, da lui protetta di fortificazioni, gli assegnò cento scudi d’oro perchè continuasse i suoi lavori e la storia patria; Carlo V e il suo bastardo don Giovanni lo onorarono pei calcoli astrologici, coi quali avea predetta la costui vittoria sui Turchi. Bernardino Baldi, allievo del Comandino, tradusse gli _Automi di Jerone_, ben trattò della gnomonica, compose paradossi matematici, e preparava una biografia de’ matematici. Già l’indicammo fra’ poeti (Cap. CXLII); inoltre fece una raccolta d’iscrizioni, e tentò interpretare le eugubine; studiò l’ebraico e il caldaico per capir la Bibbia, e l’arabo e l’illirico sotto Raimondi che presedeva alla tipografia orientale de’ Medici; possedette sedici lingue, e lasciò novanta opere, notevoli per molti rispetti[305]. Ignazio Danti domenicano, vescovo d’Alatri, tradusse la prospettiva di Euclide e di Eliodoro e la sfera di Proclo, con annotazioni non ispregevoli, come quelle che fece sul Vignola e sul trattato del radio dell’Orsini; nelle _Scienze matematiche ridotte a tavole_ diede una genealogia di esse; accennò la diminuzione dell’obliquità dell’eclittica, dedotta dal paragone delle antiche colle nuove misure. Cosmo granduca gli aveva affidato il progetto d’unire il Mediterraneo coll’Adriatico, e gli fece fare grandi carte geografiche, e tracciare la meridiana in Santa Maria Novella a Firenze. Il linguaggio algebrico era al balbettare; sapeansi risolvere solo le equazioni determinate di primo e secondo grado e alcune derivatene, nè s’era volta la considerazione sulle radici negative o immaginarie. Ma Scipione Del Ferro bolognese, risolto un caso parziale d’equazione cubica (_x^3 + px = q_), ne comunicò il segreto ad Antonmaria Del Fiore (1535), il quale pubblicamente sfidò Nicola Tartaglia in Venezia. Questi, già vittorioso d’una disfida di Giovanni De Tonini, confuse il nuovo emulo con una soluzione più generale, e sotto giuramento l’insegnò a Girolamo Cardano milanese, il quale pubblicolla nella sua _Ars magna_ (1545), applicandole il proprio nome che le è rimasto. Essendosene il Tartaglia querelato, venne a sfida di trentun problemi col Del Ferro, e ne propose di più ardui, dove appare algebrista superiore. Queste sfide e nove libri di risposte che il Tartaglia dava a quesiti speditigli dai principi, monaci, ambasciadori, architetti, attestano con quanto ardore si proseguissero tali studj. Il Tartaglia (1550-57) nasceva da un cavallaro; nel sacco di Brescia ebbe tagliata la lingua, donde il suo soprannome; visse povero e tutto nelle matematiche; applicò la geometria a determinare il movimento curvilineo e la caduta de’ gravi, e tentò ricostruire la meccanica; molto attese alla balistica e a problemi d’artiglieria, e ne’ _Quesiti e invenzioni diverse_ dà la dimensione dei pezzi da guerra, e il modo di servirsene e stabilirne la capacità. Ingegnosi suoi trovati sono il misurare l’area di un triangolo a lati conosciuti senza cercare la perpendicolare; e la _travagliata invenzione_ per rimettere a galla qualunque nave affondata, per pesante che sia. Il Cardano, che già conosciamo come singolare intreccio di sapere e di stravaganza, trattò di tutto con analisi inventrice: sulla meccanica spinse giudiziose osservazioni, valutò la gravità e resistenza dell’aria, cercò una misura del tempo nella pulsazione dell’arteria; insegnò un lucchetto a combinazioni mutabili, che si chiude sotto la parola _serpens_, invenzione che mal s’arrogano i Francesi[306]; riconobbe la più parte delle proprietà delle radici, indicò le negative nelle equazioni quadrate, ogni equazione cubica avere una o tre radici reali, e queste sapeva raggiungere per approssimazione, indicarne il numero e la natura, o secondo i segni, o secondo i coefficienti; trasformare un’equazione cubica perfetta in un’altra mancante del secondo termine; inventò il calcolo delle radici immaginarie, tanto spediente all’analisi; pubblicò pure il metodo di sciogliere le equazioni biquadrate, trovato da Lodovico Ferrari di Bologna; applicava l’algebra alla geometria dei problemi, prima di Vieta e Cartesio; prima di Harriot, cui Montucla ne dà il merito, fece l’equazione eguale a zero; in un tempo in cui al Tartaglia pareva un gran che l’avere scoperto il cubo di _p + q_ e l’equazione tra il cubo e una linea, e tra due porzioni di questa, fu trovata la bella sua formola, fondamento ai lavori più insigni e perfino all’elegante generalizzazione di Harriot: anzi è notevole che da questo in poi non si è dato un passo nella soluzione completa delle equazioni letterali. Rafaele Bombelli bolognese (_Trattato d’aritmetica_, 1572) fu il primo che desse regole onde calcolare le quantità radicali immaginarie, e un metodo uniforme per risolvere le equazioni di terzo e quarto grado. Pier Antonio Cataldi, professore a Bologna, lavorò l’analisi indeterminata e sui numeri perfetti; nel _Metodo brevissimo di trovar la radice quadrata_ insegna ad accostarvisi colle serie infinite mediante un processo uniforme; e nell’uso delle frazioni continue, di cui si fa merito ad altri, indica il primo passaggio dal finito all’infinito. Francesco Barozzi veneziano s’occupò del tracciare gli assintoti: e fu processato nel 1587 dall’Inquisizione per libri proibiti ed arti magiche. Il piemontese Peverone calcolò le probabilità. Di Tommaso Guerrino, che per povertà servì d’alabardiere alla città di Milano, si hanno a stampa l’_Euclide in campagna_ (1663), e trattati di gnomonica, stereometria, geodesia. Profittare di tutte le scoperte, chiarire le vie, ridurre le ipotesi a scienza, fu il merito di Keplero che con ardite ipotesi raggiunse le vere leggi mondiali, e del nostro Galileo Galilei[307]. Questo, mentre nella patria Università studiava medicina e filosofia, s’appassionò delle matematiche, e a vent’anni già era uno de’ geometri più robusti. Vedendo in chiesa dondolare una lampada, riflette che le oscillazioni grandi o piccole ne succedono in tempi eguali; sicchè può prendersene una misura del tempo. All’uopo stesso di crescere forza e precisione ai sensi, inventa il compasso di proporzione, il microscopio[308], il termometro; e sebbene nol riducesse comparabile mediante un punto fisso di partenza, mai fin allora non erasi applicato un fenomeno fisico a misurare l’intensità d’una causa. Della meccanica, stazionaria da Archimede in poi, sodò i principj, trattando della statica e della dinamica; e mercè il suo teorema dell’equilibrio de’ pesi disuguali o delle velocità virtuali, provvide all’insufficienza e all’eccesso degli sforzi. Da questi canoni del moto accelerato e ritardato dedusse corollarj importantissimi. Bamboleggiando con Aristotele, si stampava che la palla, uscendo dal cannone descrive due lati d’un parallelogrammo: — Non è vero (diceva Tartaglia), ma la retta descritta al primo uscire, e quella del cadere sono tangenti d’un arco di cerchio». Vedendo che la forza necessaria per sostenere un peso sovra un piano inclinato diviene zero sopra uno orizzontale, ed eguale al peso in uno perpendicolare, il Cardano conchiudeva tale forza variare in ragione diretta dell’angolo che il piano fa coll’orizzonte. Alquanto meglio il Benedetti attribuiva la forza centrifuga dei corpi all’inclinazione loro a moversi in linea retta. Il moto composto si trova indicato in Aristotele, e implicito nei ragionamenti d’altri autori, pure sembra che nessuno se ne valesse di proposito prima che Galileo dimostrasse parabolico il moto de’ projetti; donde venne pure a comprendere la deflessione curvilinea, cagionata da forze operanti in tempi infinitamente piccoli. Mentre con Aristotele diceasi che la caduta de’ gravi s’accelera in ragione diretta del peso e inversa della densità del mezzo, Galileo sperimentò che nel vuoto cadono con eguale velocità il cotone e il piombo, e diede la legge dell’acceleramento dei gravi e della discesa per piani inclinati; volersi una forza maggiore dell’ostacolo per movere un peso, o supplirvi colla maggiore velocità. Poi per ragionamenti chiarì che gli spazj percorsi nella caduta stanno come i quadrati de’ temi, e crescono giusta i numeri dispari; e che lo spazio intero è metà di quel che sarebbesi percorso uniformemente fin dal principio colla velocità finale. Sul resistere de’ solidi alla frattura delle loro parti, espose principj oggi assentiti, benchè da Cartesio derisi. Nel trattato _Delle cose che stanno nell’acqua_, stabilì quel che chiamasi paradosso idrostatico, conoscesse o no le opere di Stewin; e mostrò che la forma dei corpi non contribuisce a renderli più o meno galleggianti. Il medico Fracastoro, uno de’ primi a surrogare alle cause occulte l’azione degli atomi, e che considerava i corpi come attraentisi un l’altro, ed assegnò un principio imponderabile ai fenomeni elettrici, magnetici e fisiologici, combattendo gli epicicli spianò la via al sistema copernicano, ed erasi pel primo valso di lenti astroscopiche[309]. L’invenzione rimase sterile, fin quando si udì che in Olanda erasi trovato un non sapeasi quale istrumento, che ingrossava alla vista gli oggetti lontani. Galileo studiò le leggi della refrazione, tanto che si chiarì potere ingrandirsi fin trenta volte il volume d’un objetto, e regalò uno strumento da ciò al senato veneto, che ricompensollo largamente. Quale smania prese allora tutti di mettere l’occhio a quello stromento, che poi da Denissiano fu detto telescopio! Il Sirtori, costruitone uno, andò sul campanile di San Marco per fare osservazioni, scevero dalla moltitudine: ma appena il riconobbero, ecco salir curiosi in folla, ed egli dovette per più ore lasciarli guardare; nè potè sottrarsi alle inchieste che fuggendo dalla città[310]. Subito Venezia si empì di fabbricanti di cannocchiali, cercatissimi dappertutto: ma Galileo gli applicava ad altro che a curiosità. Il suo telescopio componeasi puramente d’un objettivo convesso e d’un oculare concavo, sicchè dava appena un’ampliazione lineare di trentadue volte, e angustissimo campo abbracciava, di che cresce la meraviglia come gli sia bastato a scoperte più magnifiche che mai non si facessero con raffinatissimi stromenti[311] e che pubblicò nel _Nuntius sidereus_ (1610), appena dieci mesi dopo trovato quell’istromento. Della luna vide scabrosa la superficie e i contorni, e vi suppose montagne, anche più alte delle nostre, argomentandolo da’ varj tempi e gradi con cui riflettevano i raggi solari; e il color cenerognolo della sua parte oscura attribuì alla luce del sole ripercossa dalla terra. I pianeti gli parvero corpi rotondi come la luna, mentre le stelle fisse v’aveano solo sembianza di corpi scintillanti. Nelle plejadi conta non meno di quaranta stelle; e d’una infinità scorge composta la via lattea e la nebulosa di Orione. Notò le fasi di venere; avvertì che saturno pareva avesse ali, le quali poi si trovò essere l’anello. Il sole, che reputavasi fiamma purissima, e’ dichiarò corruttibile e roteante, inducendolo dalle sue macchie. Ravvisa attorno a giove quattro minori astri, che al domani han mutato posto, e gli accerta lune, scoprendo[312] così quel bel sistema, che offre il compendio del solare di cui fa parte, e in un sol tratto espone all’occhio parti che nel sistema planetario riuniamo soltanto col raziocinio. Stupiva egli, stupiva il mondo di sì nuovi trovati, e indarno la grave invidia credeva screditarli dissimulandoli. Egli stesso non affrettavasi a pubblicarli, o gli annunziava mascherati; il che poi diede appiglio a dispute di priorità[313]. Ancor più delle invenzioni sono memorabili i raziocinj suoi, quel filo d’idee esposte con limpidezza, sebbene talvolta prolissa; e i metodi che insegnò, e gli errori di cui scaltrì. Non chetarsi all’autorità; negligere le ricerche intorno all’essenza delle cose, le dimostrazioni _a priori_, le astrazioni assunte come realità, le ipotesi adottate, come le teoriche; tenere il dubbio _qual padre delle invenzioni_ e strada alla verità, e la verità sola volere, e riscontrarla coll’osservazione scrupolosa[314], col calcolo, collo scandaglio geometrico, anzichè affidarsi alla dialettica, la quale può bensì dimostrare il trovato, ma non trovare nulla; non opporre autorità ad autorità, bensì alle asserzioni de’ filosofi il gran libro della natura, la quale «opera molto con poco, e le sue operazioni sono tutte in pari grado meravigliose». Tale è il metodo di Galileo, col quale già metteva in pratica ciò che Bacone ridusse poi a teoriche. Meglio di questo[315] merita dunque il titolo d’instauratore della filosofia e della scienza, e comprendiamo quel che significasse allorchè dicea d’aver consumato più anni nella filosofia che mesi nella matematica, oltre che Bacone, se dà il programma delle scoperte future, nessuna ne fa, sprovveduto di spirito inventivo; possiede un metodo mirabile che descrive con precisione, celebra con entusiasmo, predica con eloquente apostolato, ma non ne fa alcun uso insigne. Eppure minor efficacia di Cartesio e di Bacone ebbe il nostro, perchè a convincere gli altri o spingerli alle ricerche badò meno che chiarir se stesso e ad applicare. In fatto l’isocronismo del pendolo usò a misurare le pulsazioni dell’arteria e il tempo; stabiliva le leggi della consonanza e dissonanza, e dei colori nel trattato perduto _De visu et coloribus_; sulle fortificazioni scrisse un’opera rimasta inedita fino ai giorni nostri; dai satelliti di giove conosce potran determinarsi le longitudini, ed offre quest’applicazione alla Spagna, che non ne indovina l’interesse[316]. Per comprendere la grandezza di lui vuolsi paragonarlo a’ suoi contraddittori. I Platonici credeano il cielo governato da forze speciali, che nulla avessero di comune colla terra; i Peripatetici eransi fabbricata un’astronomia a priori; il dottissimo gesuita Clavio quando udì la scoperta dei satelliti di giove, dicea che per vederli occorrerebbe primo un istromento per fabbricarli; Sizzi, astronomo di Firenze, negava potersi dare più di sette pianeti, perchè sette sono i rami del candelabro ebraico, e a sette mesi il feto è perfetto; rappresentavansi mascherate per celiare le lune di Giove; la Corte di Francia esibiva doni a Galileo se trovasse astri da chiamare borbonici, come medicei aveva intitolati quelli; e allorch’egli, lasciando cascare un grave dalla torre inclinata di Pisa, convinse d’erroneo il teorema d’Aristotele che proporzionava la celerità ai pesi, destò un tale vespajo, che dovette da quell’università passare a quella di Padova, sotto un Governo che nelle opinioni filosofiche consentiva la libertà negata nelle politiche[317]. Benché i più con Tolomeo tenessero l’immobilità della terra, e attorno ad essa roteare i pianeti, pure Nicolò da Cusa avea preconizzato il sistema pitagorico[318], che pone per centro immobile il sole, e fu fatto cardinale, e morto a Todi, venne sepolto in San Pietro in Vincoli a Roma. Nicolò Copernico polacco (1473-1545) da Thorn, allievo dell’Università bolognese e maestro della romana, appoggiato al metafisico argomento che la natura adopera sempre le vie più semplici, e che bellezza e semplicità appariscono meglio nel sistema pitagorico, sostenne che la terra, come gli altri pianeti, giri attorno al sole. Prelati insigni lo eccitavano a far pubblico questo sistema; nel dedicare le sue _Rivoluzioni degli orbi celesti_ a Paolo III, tratta d’assurda la immobilità della terra, e — Se mai ciancieri, ignoranti di matematiche, pretendessero condannare il mio libro mediante qualche passo della Scrittura, male stirato al loro proposito, ne sprezzerò i vani attacchi... Lattanzio ha detto baje sulla forma della terra: e in soggetti matematici si scrive per matematici»; dai giudizj falsi e dalle calunnie chiede protezione al capo della Chiesa, tanto più che questa può trar vantaggio da tali ricerche sulla durata dell’anno e sui movimenti della luna. Appena usciva quell’opera, Copernico morì; ma l’anno stesso Celio Calcagnini aveva sostenuto _quod cœlum stet, terra autem moveatur_. Anteriormente a tutti questi Gian Alberto Widmanstadt, trovandosi a Roma nel 1533, in presenza di Clemente VII, di due cardinali e d’illustri personaggi espose il sistema pitagorico, e n’ebbe in dono dal papa un bel codice dell’opera greca _Del senso e del sensibile_ di Alessandro Afrodiseo, sul quale, ora conservata in Monaco, egli medesimo fece annotazione di questo accidente. Il padre Antonio Foscarini carmelitano da Napoli, partendo per predicare a Roma, scrisse al generale del suo Ordine, cercando appaciare il sistema de’ Pitagorici e di Copernico coi passi scritturali che sembrano repugnarvi; lettera lunga, non inelegante, e sgombra dalle sofisterie solite in chi toglie a difendere o condannare di proposito[319]. Mentisce dunque chi imputa la Chiesa di nimicizia originale contro una dottrina che non l’offendeva. Dicasi piuttosto che questa era contrariata nel vulgo dal testimonio dei sensi, e dai pregiudizj negli scienziati, cui rincresceva disimparare l’imparato, e rinnegar la fede in Tolomeo e in Aristotile. Il Chiaramonti di Cesena, in un’opera del 1632 ne argomentava in modi siffatti: — Gli animali che si movono, hanno membri e flessure; la terra non ne ha, dunque non si move... I pianeti, il sole, le fisse, tutti sono d’un genere solo, che è quello di _stelle_; dunque o tutti si movono, o tutti stanno fermi... È un grave sconcio il mettere fra i corpi celesti così puri e divini la terra, ch’è una fogna di materie impurissime». Esperienza, esperienza, esclamavano altri: un sasso gittato in alto non ricadrebbe tante miglia lontano quante la terra ne girò in quell’istante? l’uccello spiccatosi dal suo nido, saprebbe più ritrovarlo se la terra si fosse roteata sotto di lui? Inoltre non è accertato che la luna gira attorno alla terra? perchè essa sola avrebbe tal proprietà? Alessandro Tassoni, pensatore così ingegnoso e indipendente, faceva questa objezione, che ridicola oggi, pure molti allora cattivò: — Stiasi uno nel mezzo d’una camera fermo, e miri il sole da una finestra prospiciente a mezzogiorno. Certo se il sole sta fermo nel centro e la finestra gira con tanta velocità, in un istante sparirà il sole da’ colui occhi»[320]. Il Vieta, perfezionatore dell’algebra, intelletto eminentemente filosofico, nell’_Harmonicum cœleste_ che giace autografo alla Magliabechiana, sostiene che il sistema copernichiano deriva da una geometria fallace; Cartesio lo negò in alcun luogo; Gassendi non ardì proclamarlo; Bacone lo derise come ripugnante alla filosofia naturale; Claudio Berigardo francese, professore a Pisa e a Padova, e autore dei _Circoli pisani_, reputato fra i più arguti pensatori e novatori in filosofia, lo confutò nelle _Dubitazioni per la immobilità della terra_. Non soli ignoranti dunque, non frati soli impugnavano una verità, annunziata imperfettamente, e non corredata di tante prove quante oggi. Gli è vero che le fasi di venere e di mercurio accertavano il girar di questi attorno al sole; la scoperta dei satelliti di giove e di saturno, l’assicurata rotazione di marte e giove traevano ad argomentare che altrettanto avvenisse della terra, giacchè ad un osservatore posto in quelli si offrirebbero i fenomeni stessi che a noi; ma troppi dubbj restavano quando non s’erano ancora poste in chiaro l’aberrazione, la depressione della terra ai poli, il gonfiarsi delle acque sotto l’equatore, il variar del pendolo col variare di latitudine. Gran difficoltà facea pure la distanza delle stelle fisse, incalcolabile, attesa la mancanza d’ogni parallassi annuale. Copernico credea _necessariamente circolare_ l’orbita degli astri, onde, se spiegava l’alternar delle stagioni mediante il parallelismo che in tutto l’anno conserva l’asse della terra, era costretto attribuire siffatta conservazione ad un terzo movimento. Galileo stesso racconta press’a poco: — Avevo finita la filosofia quando qui venne da Rostok un tal Cristiano Wurstizio, discepolo di Copernico, che ne diede alquante lezioni in un’accademia a numeroso uditorio. Io pensai che i più cedessero al fascino della novità, e convinto che tal sistema fosse d’un pazzo avido di celebrità, non volli tampoco assistervi. Interrogai alcuni uditori, e tutti mi dissero v’andavano per pigliarsene gabbo. Un solo mi assicurò che la non era cosa ridicola; e poichè io il conosceva uom calmo e riservato, m’increbbe di avere negletto le lezioni di Cristiano; e qualvolta incontrassi un partitante di Copernico, io lo richiedeva se sempre fosse stato di tal opinione. Ognuno m’assicurava d’avere lungo tempo tenuto la contraria, e che soltanto la forza degli argomenti ne lo aveva smosso. Feci a ciascuno le objezioni della parte avversa, e alle loro risposte mi convinsi non aveano adottato quel sentimento per ignoranza nè leggerezza. D’altro lato, s’io chiedeva a Peripatetici e Tolomeisti se avessero letto Copernico, m’accorsi del no, o che non l’aveano compreso. Pertanto cominciai a credere che, se un uomo ripudia un’opinione succhiata col latte e comune colla pluralità, per accorne una di pochi proseliti, anatemizzata dalle scuole, avuta per paradosso, egli dovette esservi spinto e quasi violentato da argomenti irresistibili; e mi infervorai di conoscer il fondo della quistione»[321]. Anche dopo convinto del sistema vero, Galileo non osava professarlo alla scoperta, per tema delle beffe colle quali, allora come adesso, la vulgarità persegue chiunque ad essa sorvola. Non si dissimuli che Galileo erasi fatto una folla di nemici, parte per la instintiva malevolenza del bel mondo contro gl’ingegni segnalati, parte perchè egli stesso, dimenticando che lo sbaglio è talvolta via alla verità, e che chi sostiene un errore antico non sempre è stupido e vile, atteso la forza d’inerzia insita agli spiriti come alla materia, flagellò gli Aristotelici inesorabilmente, gli attacchi ripulsò con sarcasmo spietato, assalì alcune volte senza rispetto all’ingegno e alle sventure. I rettili poi, che ormeggiano ogni uomo illustre, per ferirlo obliquamente, cominciarono a sbigottir la coscienza contro il sistema fin allora reputato innocuo; insulsi predicatori lo tacciarono d’ereticale[322]. Roma che, in tempi di contenziosa novità, non potea tenersi indecisa nella proclamazione del vero, dovea prender ombra d’un filosofo che alle operazioni dell’intelletto accettava per unica norma le leggi di natura; sovvertite le quali, restava a temere anche per le verità metafisiche e morali. Finchè il moto della terra rimaneva ipotesi, non vedea necessità di acconciarla ai passi scritturali, come quando la dimostrazione fosse data per certa. Galileo stesso pretese insegnare in qual senso fossero a intendere, e appoggiò a passi dei Padri teoremi che richiedevano dimostrazione dal calcolo e dall’esperienza. Egli diceva che «nella Scrittura si trovano proposizioni false quanto al nudo senso delle parole; che nelle dispute naturali essa dovrebb’essere riserbata nell’ultimo luogo; che per solo rispetto d’accomodarsi all’incapacità del popolo, non s’è astenuta la Scrittura di pervertire i principalissimi dogmi; che nelle cose naturali prevale l’argomento filosofico al sacro». Da qui nacque la persecuzione tanto ricantata dal secol nostro, quasi esso non abbia mai visto perseguitati gli alti ingegni. Cotesto compromettere le sacre carte in quistioni scientifiche spiacque, e Galileo fu denunziato al Sant’Uffizio. Gl’Inquisitori soleano rimettere l’esame del fatto a _qualificatori_, specie di giurati che pronunziavano su materie a loro note. Come gli astronomi spagnuoli aveano disdetto Colombo, come gli accademici di Napoleone vilipesero i battelli a vapore, così questi qualificatori dichiararono _falsa e contraria alle divine scritture_ la mobilità della terra. La risposta che Clavio e tre altri Gesuiti diedero al cardinale Bellarmino, attesta che con rispetto accettavano le nuove osservazioni: pure trovavasi arrogante il darla, non soltanto per opinione ipotetica, ma per verità assoluta; e gl’Inquisitori pretesero sopra informazioni altrui condannar opinioni, ch’eransi già proclamate all’ombra del papato. A Galileo dunque, senza verun castigo o penitenza (1616), dalla Congregazione dell’Indice fu intimato non parlasse più del sistema copernicano[323]. Pure egli continua a discuterne, e mettere in ridicolo gli oppositori in Roma stessa. Paolo V l’assicurò che, vivo lui, mai non sarebbe molestato. I Lincei stampando il suo _Saggiatore_ (1629), lo dedicarono ad Urbano VIII, che già da cardinale avea lodato in versi il Galilei, e che lo raccomandò caldamente al granduca, e assegnò una pensione a lui ed a suo figlio[324]. Nel 1632, con approvazione del maestro del sacro palazzo, se non carpita, sottratta con quegli artifizj che conosce chi ha a fare colla censura, Galileo pubblicò il _Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolomaico e copernicano_, ove di quest’ultimo dà spiegazioni false o manche, attribuisce al moto della terra il flusso e riflusso[325], e non sa dissiparne le assurde conseguenze, talchè molti e valenti il confutarono. Mentre però ed esso e i dotti ne faceano materia di utile discussione, gl’invidiosi insusurravano Urbano VIII, perchè Galileo, dopo sì ben trattato, non solo mancasse alla promessa, ma in quel dialogo lo avesse adombrato nel grossolano Simplicio. Urbano mandò da esaminar il fatto ad una congregazione di cardinali, e questi lo rimisero all’Inquisizione. Galileo aveva avuto l’intimazione e la violò[326]; il tribunale procedette coi modi proprj del tempo. Citato (1633), fu sostenuto «con insolita larghezza e comodità, assegnategli tre camere con libera ed ampia facoltà di passeggiare per spazj ampli, data facoltà di tener il servitore, e di godere dello squisito governo della cortesissima casa del signor ambasciadore e della signora ambasciadrice»[327] di Firenze Niccolini; poteva andar in ville lontane e far passeggiate a piedi; poi fu messo nella casa propria d’esso ambasciadore. Lasciamo ai sofisti il supporre fin la brutalità di sevizie personali[328]: abbastanza avrà patito quel grande nel vedersi obbligato a dimostrare le sue opinioni a gente incapace d’intenderlo. La persecuzione ebbe i soliti effetti immorali, que’ giudici disonorandosi colla presunzione, disonorandosi Galileo coll’abjurare opinioni di cui era convinto, e colla propria disdetta facendo credere ragionevole la persecuzione. E fu «condannato alla prigione per quanto tempo piacesse»; ma Urbano gliela commutò subito in relegazione nel giardino dei Medici sul delizioso Pincio. Vi si aggiungeva l’obbligo di recitar una volta la settimana i salmi penitenziali; ma questo se lo assunse sua figlia suor Maria Celeste, le cui lettere, scrittegli dal convento di San Matteo in Arcetri, piene d’affetto e di pietà, sono come un riposo soavissimo fra le tempeste di quel tempo e le sue. Roma sapeva dunque rispettare un grande, di cui credea dover disapprovare gl’insegnamenti; mentre l’età nostra ha dato ben diversi esempj in casi dove la persecuzione non era tampoco giustificata dalla persuasione del pubblico vantaggio. Presto fu trasferito a Siena nel palazzo dell’arcivescovo suo amicissimo, e appena a Firenze cessò la peste, fu reso alla sua villa d’Arcetri, ove proseguì i lavori fin quando perdette la vista[329]. Il granduca, che non l’avea saputo schermire dalle vessazioni, prestava al Galileo la venerazione onde lo circondavano vicini e lontani. Frattanto se ne diffondevano le dottrine e, che più cale, il metodo; e Roma tra le prime chiamava a insegnarlo Benedetto Castelli suo scolaro. Questi col calcolo e coll’esperienza appoggiò alcune, altre chiarì od applicò delle verità scoperte dal maestro: notò l’irradiazione delle stelle e l’attrazione del magnete; prima d’Evelio mostrò l’opportunità dei diafragmi negli stromenti ottici; conobbe che i corpi al sole diversamente riscaldansi secondo il loro colore; e creò la scienza del movimento delle acque. Soprattutto animava i giovani alla geometria, e vi determinò il Cavalieri, Michele Ricci, il Nardi, il Maggiotti, il Torricelli, che a Roma spingeano innanzi la filosofia sperimentale. Di questi ultimi, che chiamava il mio triumvirato, e del Peri, dell’Aggiunti, del Soldani si compiaceva l’annoso Galileo, che spirando (1642) fra le braccia del Torricelli e del Viviani, li lasciò eredi della dottrina e della missione sua. Intanto l’astronomia ampliavasi; e quasi per allettare a studiarla, natura sfoggiava insoliti spettacoli. Il gesuita Grossi (_De tribus cometis_, 1619) pel primo studiò le comete quali pianeti descriventi vastissima ellissi attorno al sole. Ignazio Danti già detto, uno de’ riformatori del calendario, scoprì (_Trattato dell’astrolabio_, 1568) il variare dell’inclinazione dell’eclittica, quattro anni prima che fosse pubblicato il _De nova stella_ di Tycho Brahe, cui n’è dato il merito. Gian Alfonso Borelli messinese (1613-79), che incontrammo fra i medici, e che ridusse gli elementi dell’antica geometria a ducento proposizioni (_Euclides restitutus_), indicava già che i pianeti attorno al sole e i satelliti attorno ai pianeti si muovono con una legge generale[330], e che tal virtù, cui sorgente è il sole, li collega in modo, che non possono scostarsi dal loro centro di azione. Sottopose a calcolo l’apparenza e i movimenti delle comete, ritenuti come anomali; e al padre Stefano De Angeli, lettore di matematica a Padova, sopra quella del dicembre 1664 scriveva non potersene il movimento rappresentare nè col sistema di Tycho nè con quello di Tolomeo, ma soltanto col pitagorico; aver dal calcolo compreso che descrivono attorno al sole una parabola, e chi potesse a lungo osservarla, riconoscerebbe un’orbita ellittica[331]. Non abbiamo le dimostrazioni ch’egli promette, ma intanto è qui prevenuto Newton di tre lustri, e dato chiaro ciò che confuso appariva a Dörfel. Nella _Teoria de’ pianeti medicei_ s’abbandonò alle ipotesi; ma paragonando i satelliti alla luna, pel primo usò il canone della reciproca attrazione, il più fecondo che potesse applicarsi all’astronomia. Peccato che la gloria sua offuscasse coll’invida malignità! Sbandito per la sollevazione di Messina del 1676, ricoverò a Roma, ove la protezione di Cristina di Svezia nol salvò di patir la fame, sinchè trovò ricovero nelle Scuole Pie. L’idraulica, così importante nel paese nostro, era abbandonata a meri pratici; sicchè ne’ bisogni maggiori si ricorreva a matematici ed astronomi, i quali da principio fallavano per amor di teoria, ma presto acquistavano esperienza e divenivano valentissimi. Nicolò Cabei ferrarese (-1650) ne filosofò al modo antico, benchè enunciasse verità nuove: toglie a Galileo per dare al genovese Giambattista Bulliani la dimostrazione della crescente velocità dei gravi cadenti. Domenico Guglielmini (-1710) fu da’ suoi Bolognesi adoprato nella quistione con Ferrara pel corso del Reno; scrisse sulla natura dei fiumi, e su una nuova misura delle acque correnti. Ma creatori della scienza idraulica furono il Castelli e il Torricelli, scolari di Galileo. Il primo diede corso agli stagni dell’Arno; nella _Misura delle acque correnti_ (1628) fa la velocità ne’ fluidi proporzionata all’altezza da cui discendono, mentre Torricelli provò essere come la radice d’essa altezza. Ad Evangelista Torricelli di Faenza (1608-47), professore nello studio fiorentino, morto di soli trentanove anni, è dovuta la prima idea dell’ingegnoso e utilissimo canone, che due travi connessi, per modo che il centro di gravità non s’alzi nè abbassi per mutare di situazione, tengonsi sempre in equilibrio. Vide che l’acqua esce da un pertugio colla velocità che acquisterebbe un corpo cadendo dal livello della superficie a quel d’esso pertugio; teorema fondamentale al moto de’ fluidi: delle lenti da cannocchiale per lungo calcolo determinò la curva più opportuna: semplificò il microscopio di Galileo, e forse ajutò a perfezionare il termometro, di cui il granduca Ferdinando pel primo si valse a misurare la variazione della temperatura giornaliera. Perchè l’acqua, nel sifone e nella pompa aspirante, non s’eleva al di là dei trentadue piedi? I Peripatetici s’accontentavano d’una frase, l’_orrore al vuoto_. Galileo n’aveva cercata invano una ragione. Torricelli per forza d’induzione l’attribuì al premere della colonna atmosferica sopra il liquido, che nel vuoto alzasi proporzionatamente ad esso peso. Ne fece la riprova sostituendo all’acqua il mercurio, che pesando tredici volte più di essa, si fermò a un tredicesimo d’altezza. Varierà questa dunque a proporzione della gravità dell’aria; ond’ecco inventato il barometro. Esso Torricelli informandone il Ricci gli scriveva «di potere col suo istromento giunger a conoscere quando l’aria sia più leggera o più grave»; e che questa «gravissima alla superficie terrestre, si faccia sempre più lieve e pura secondo che c’innalziamo sulle più alte cime de’ monti»: divisamento che Claudio Beriguardi applicò a misurar la torre di Pisa, cinque anni prima che Perrier e Pascal misurassero l’altezza del Puy de Dôme[332]. — Ah perchè non è toccata al mio maestro la sorte di accorgersi degli effetti della pressione dell’atmosfera?» esclamava il buon Torricelli. Ferdinando granduca e suo fratello Leopoldo erano assidui nel cercar nuovi stromenti, e migliorare od applicare gli antichi, onde giungere al vero dei fenomeni naturali: il primo inventò un igrometro e un idrostammo, combattè le influenze lunari, conobbe che il calorico tende all’equilibrio, e i corpi lo trasmettono qual più qual meno; trovò pure di condensar il vapore contenuto nell’aria ambiente, e quel di varj spiriti senza elevarne la temperatura, il che si disse distillare a ghiaccio: vide i vermi dell’aceto, e come l’argento cresca di peso dopo la coppellazione, mentre i sali disciolti nell’acqua non cangian natura coll’evaporarsi di essa: le lunghe sue osservazioni sui pendoli giovarono a determinar la propagazione della luce e del suono, e alle esperienze balistiche. Leopoldo poi ogni parte dello scibile coltivava, in compagnia de’ migliori; e come a Roma il marchese Federico Cesi fin dal 1603 aveva istituito i Lincei per coltivare la filosofia naturale, così divisò l’Accademia del Cimento che proponevasi di _provare e riprovare_. Oltre il Borelli e il Redi già detti, un de’ membri principali ne fu Vincenzo Viviani (1622-1703), che non secondo a nessuno per ispirito geometrico e candida ricerca del vero, trattò della resistenza dei solidi, ampliò la dottrina dei galleggianti, e fin d’allora intravvide la teoria delle ondulazioni, che prima applicata all’acustica, poi generalizzata, ci addentrò in tanti arcani della natura. Supplì il quinto libro perduto di Apollonio da Perga sulle sezioni coniche; e quando l’antico fu rinvenuto, apparve che il moderno l’avea, non solamente indovinato, ma sorpassato. Egli propose a tutta Europa questo problema: «Tra gli antichi monumenti di Grecia è un tempio, sacro alla geometria; circolare il piano; coronato d’una volta emisferica, la quale è forata da quattro finestre eguali con tal arte, che il rimanente della volta può perfettamente quadrarsi. Come ciò fu fatto?» Subito i dotti furono attorno a questo problema, nè d’altro si parlò per un pezzo: ma Leibniz, L’Hôpital, Bernoulli, Wallis, Gregori lo sciolsero in differenti modi colla geometria nuova, a gran meraviglia di lui, che però vi dava una soluzione diversa[333]. Il comasco Michelangelo Ricci, che poi fu cardinale, dilatò oltr’Alpi le scoperte del Torricelli e i lavori dell’Accademia del Cimento di cui era corrispondente; ai Tedeschi diè miglior concetto degli algebristi italiani, ed era per tutto ricercato giudice della sapienza contemporanea. I _Saggi_ de’ principali sperimenti dell’Accademia furono da Lorenzo Magalotti segretario scritti con lingua e stile ben diversi dai correnti; onde restano anche monumento letterario, quando tutta Europa non gli avesse ricevuti pel primo modello di ricerche sperimentali[334], argutamente avendo indagato sulla pressione dell’aria, gli effetti del vuoto, le proprietà del caldo e del ghiaccio, la propagazione del suono, della luce, del calorico, i fenomeni magnetici, le attrazioni elettriche, la leggerezza positiva, i projettili, la digestione, la fosforescenza, non negligendo le osservazioni astronomiche. Dell’acqua tentarono la compressibilità chiudendola in una palla d’oro, e questa premendo, ma poichè la videro schizzar dai pori, la dichiararono incompressibile: nè in fatto potè dimostrarsi il contrario fino alle recenti sperienze di Canton, Perkins, Oersted. Sciagurate emulazioni tra il Viviani e il Borelli scomposero l’accademia del Cimento; il principe Leopoldo passò cardinale a Roma: sicchè quella perì dopo solo dieci anni. Ma l’esempio fruttò; nel 1645 fu fondata la Società di Londra, nel 1666 l’Accademia di Parigi, la quale per mezzo di Thévenot, che qui aveva conosciuto i nostri, si pose in corrispondenza con quella del Cimento, a malgrado del Borelli, il quale temeva che «delle invenzioni e speculazioni dei nostri maestri e di quelle che abbiamo trovate noi, se ne abbiano, secondo l’usanza vecchia, a far autori e ritrovatori gli stranieri». Il Gabrielli avea fondato a Siena i Fisiocritici; e il padre Lana e Bernardino Boni i Filoesotici (_Academia Philoexoticorum naturæ et artis_) a Brescia nel 1686. In quell’intermezzo il Vieta avea perfezionato la lingua algebrica; Napier trovato i logaritmi, Harriott compito la genesi delle equazioni. Alla teorica degl’infinitesimi si era avvicinato Galileo, trattando di un cilindro tagliato in un emisfero (_Dialogo primo sulla meccanica_): discorse anzi specialmente degl’indivisibili nei _Dialoghi delle nuove scienze_; ma la quantità divisibile suppose composta di indivisibili senza estensione; talchè, non osando affermare nè negare che gl’infiniti siano tra loro eguali, disse solo che i termini indicanti eguaglianza od eccesso non possono applicarsi che a quantità fisse, e tornò al metodo d’esaustione di Archimede. Bonaventura Cavalieri milanese (1598-1647), frate gesuato, professore di matematica a Bologna, dopo avere sciolto il problema proposto da Fermat di assegnar la minor distanza da tre punti dati, applicandovi un teorema che dà la quadratura d’ogni triangolo sferico, aveva già nel 1626 compiuto la sua _Geometria degli indivisibili_, fondata sul considerare i solidi siccome composti d’un’infinità di superficie sovrapposte, e le superficie come un aggregato di linee, e queste un aggregato di punti. Sapevasi sommare una serie indefinita di termini in progressione aritmetica, com’è quella de’ diametri dei circoli decrescenti nel cono, i quali circoli stanno come i quadrati loro. Il Cavalieri trovò che, in termini infiniti, la somma dei quadrati descritti sopra linee crescenti in proporzione aritmetica risponde al terzo del quadrato maggiore, moltiplicato pel numero de’ termini; in altre parole, che il cono è il terzo d’un cilindro della medesima base e altezza; il che ad altri solidi può applicarsi. Fu il primo introdursi dell’infinito nella geometria in forma sistematica. Vide egli stesso che il suo era un corollario del metodo di esaustione, e confessava non saperne dare una dimostrazione rigorosa: pure nel considerare la linea, la superficie, il solido come generati dal punto, dalla linea, dalla superficie, prevenne Keplero e somministrò a Newton l’idea e il nome del calcolo delle flussioni. Erano ardimenti nuovi nella geometria, che veniva applicata pure in maniera generalissima ad ardue ricerche. L’area della cicloide prendeasi per un segmento di circolo; Galileo nel 1639 diceva d’avervi pensato quarant’anni addietro, senza trovarne indirizzo; poi il Torricelli la eguagliò a tre volte l’area del circolo generatore, invenzione disputatagli invano da Roberval. Esso Roberval, Cartesio, Fermat, Wallis, Bernoulli fecero giganteggiare la geometria, finchè potè spingersi alla maggiore delle scoperte, quella del calcolo differenziale. Leibniz tedesco e Newton inglese se la disputarono, e nella contesa chiesero giudice l’abate Antonio Conti padovano. Questo gran dotto associò cognizioni diversissime, e cercò di conciliare spiriti opposti: molte opere commentò, fra cui la storia critica della filosofia dal secolo XV in poi; indi la estrinse alle opinioni sul principio del mondo e sull’immortalità dell’anima; infine a quelle sulle cose incorporee; ma nulla finì; e i frammenti che ne pubblicò il Toaldo fanno rincrescere ch’ei deve collocarsi fra quegli ingegni, che per troppo estendersi nulla conchiudono. Amontons, Leibniz e Huygens riduceano scientifica la meccanica. In ottica il Maurolíco avea dato un’argutissima spiegazione del modo con cui si vedono gli oggetti (_De lumine et umbra_), e come l’umor cristallino concentri sopra la retina i raggi, spiegando la varia conformazione dell’organo ne’ presbiti e nei miopi. Era dunque a un punto di accorgersi delle immaginette che si dipingono in fondo all’occhio, tanto più che altrove spiega la formazione dell’immagine in uno specchio concavo; ma forse lo rattenne il non sapere spiegare come noi le vediamo dritte sebbene si dipingano capovolte. Giambattista Porta trattò di varj fenomeni della visione nella _Magia naturalis_: ma ritenendo che nell’occhio si effettuasse come nella camera oscura[335], non comprese in qual parte gli oggetti si dipingessero, e suppose organo principale della vista l’umor cristallino. Molto pure si occupò degli specchi piani, concavi, convessi, ustorj. Il gesuita Francesco Grimaldi nel 1665 pubblicò a Bologna varj casi ottici importantissimi, tra cui l’inflessione della luce e la diffrazione prodotta dal cadere del raggio solare sul prisma; problema ch’egli spiegava con un alternato condensarsi e spandersi, invece di dedurne la rifrangibilità della luce; e sebbene poco arrestasse i curiosi, Newton seppe cavarne profitto; sinchè Antonio Dedominis vescovo di Spalatro (_De radiis lucis in vitreis perspectis et iride_) i colori dell’arco baleno scoprì provenire dalla rifrazione, come mostrava coll’opporre una boccia d’acqua al sole, dove il raggio arrivava agli occhi dipinto di colori variati secondo l’angolo con cui v’entrava: sagacia meravigliosa in uomo che nessun’altra prova ne diede. Ben presto Huygens porgeva la teorica della luce per mezzo delle ondulazioni, e Newton per mezzo delle emanazioni: ma ventisei anni prima che si stampasse l’_Ottica_ di questo, Giuseppe Antonio Barbari da Savignano, morto in odore di santità, ripudiando l’opinione di Aristotele, tolse ad esaminare i colori dell’iride prima e della seconda, nella quale si trovano in ordine inverso; la loro figura costantemente circolare, e la posizione loro rispetto al sole; per qual causa se ne renda visibile una sezione maggiore quanto più il sole è alto sull’orizzonte; esser necessario che la nube risoluta in minutissime goccie venga percossa dal sole di faccia, effetto che succede pure nelle pioggie artifiziali, nelle fontane, nelle boccie d’acqua rimpetto al sole, nelle quali, fin alla declinazione di 42 gradi del raggio visuale sulla linea che passa pel centro solare, vedonsi distintamente i colori dell’iride, mentre all’inclinazione di 52° appajono in senso inverso. Tutto ciò con grand’uso della geometria e trigonometria[336]: eppure rimase ignoto, nonchè agli stranieri, perfino ai nostri. La prospettiva fu studiata in servizio dell’arti belle, e soli italiani ne scrissero, quali Piero della Francesca da Borgosansepolcro e Luca Paciólo; e compiutamente Daniele Barbaro veneziano (1568), poi il Barozzi ed altri. I principj geometrici ne furono generalizzati e bene esposti da Guidubaldo marchese del Monte; il quale, sempre intento ad applicare la geometria alla meccanica, in un trattato di questa pel primo indicò il principio delle celerità virtuali nella leva e nella taglia. Alla meccanica pratica attesero molti. Il Ramelli non ha novità nelle sue macchine; di più Fausto Veranzio veneto di Sebenico (_Machinæ novæ_), tra le quali un ponte sospeso a catena e il paracadute, e tentò fare in Venezia fonti salienti. Fu vescovo in Ungheria, e gli dobbiamo una logica e un dizionario poliglotto. Il padre Lana Terzi (1687) esaminò la costituzione dei monti bresciani; procurò coi sali imitare le cristallizzazioni naturali, sebbene con teoriche dappoi ripudiate; inventò un seminatore prima dell’inglese Tull; nel _Prodromo dell’arte maestra_ (1670) accenna come insegnare ai sordimuti a scrivere e anche parlare, a scrivere ai ciechi nati, e a nascondere i loro pensieri sotto cifre misteriose; come estrarre la radice quadrata colla somma e la sottrazione; tentò oriuoli perpetui a sabbia, ed altri a olio che s’abbassa all’arder d’una lampada; fare uccelli che volassero, e altri segreti più vaghi che fondati, ne’ quali piacevasi meglio che in sodare norme scientifiche. Non vi manca la pietra filosofale, ma il più ricantato è d’una barca portata in aria da quattro palloni metallici vuoti d’aria: i calcoli ne furono trovati giusti anche dal Leibniz, ma al Lana mancarono i mezzi di tentarne la prova. Giovanni Torriano cremonese, meccanico di Carlo V, ricostruì a Toledo la macchina, fatta dagli Arabi, che l’acqua del Tago distribuiva per la città; pensava rendere navigabile quel fiume sino al mare; e sebbene Filippo II preferisse usare quella somma a fabbricar l’Escuriale, i Toletani l’onorarono d’un busto in marmo e d’una medaglia. La proposta fu rinnovata il 1641 da Giulio Martelli e Luigi Carduchi, e Filippo IV non comprese che questo sarebbe stato il vero modo di ricuperare il perduto Portogallo[337]. Nelle _Macchine del signor Giovanni Branca_ (Roma 1629) stanno il disegno e la spiegazione di una, ove ad una caldaja bollente in figura di testa sfugge di bocca il vapore, che soffiando contro una ruota alata, move i congegni di due pile. È la prima applicazione del vapore a un’utilità, benchè operi direttamente sulla ruota, non per la tensione come nelle macchine odierne. Nel _Novo teatro di macchine_ del Zonca padovano, un girarrosto è mosso dall’aria rarefatta dal fuoco. Da tutte queste scienze ajutata, e da’ migliori stromenti[338], l’astronomia vedea trionfare il vero sistema mondiale. Ben alcuni tentavano acconciare l’opinione nuova con quella della Chiesa, sia piegando il fatto alla Bibbia, come aveva usato Tycho Brahe, sia la Bibbia al fatto, come Foscarini. Il gesuita ferrarese Giambattista Riccioli (1593-1671), che nell’_Almagestum novum_ raccolse quanto aveano pensato gli astronomi fino al suo tempo, aggiungendovi osservazioni proprie, il sistema di Copernico trova ben ideato, ma falso; e non volendo accettare le grandi scoperte di Keplero perchè questi negava l’eclissi avvenuto alla morte di Cristo, nè chetandosi ai sistemi di Tycho e di Rheita, ne produsse un nuovo che non urtasse i pregiudizj, e dove luna, sole, saturno, giove girano attorno alla terra, ma mercurio, venere, marte sono satelliti del sole. Nella luna, con un cannocchiale di quindici piedi, noverò fin seicento macchie, cioè cinquanta più di Evelio, alla cui nomenclatura prevalse quella del nostro, come pure la sua teoria delle librazioni. Col Grimaldi crebbe a trecencinquanta stelle il catalogo di Keplero. Gli fu inflitta una penitenza per aver preferito il calcolo della versione dei LXX. Il gesuita francese Fabre, gran penitenziere a Roma, per avere pubblicato che, dimostrato una volta il moto della terra, la Chiesa avrebbe chiarito in che modo intendere figuratamente i passi della Scrittura, ebbe processo dal Sant’Uffizio, e arresto di cinquanta giorni. Effemeridi, cronologie ed altre opere astronomiche stamparono il bolognese Cornelio Malvasia (-1664), e i modenesi Geminiano Montanari (-1687) e Gaetano Fontana (-1719). Il Montanari diede pure l’idrografia del mare Adriatico e sue correnti; pel primo dubitò del calor lunare, messo fuori di dubbio appena oggi dalle sperienze del Melloni. Il Bianchini portò buone osservazioni sopra venere, e tracciò il gnomone di Santa Maria degli Angeli. Antonio Magini padovano, professore a Bologna, scrisse molto di geografia e astronomia, non adottando il sistema copernicano, ma svolgendo teoremi che si credettero scoperti solo a’ dì nostri: era in corrispondenza con Tycho Brahe e con Keplero, che gran conto faceva del sapere di lui, e che dall’Università bolognese fu invitato a succedergli. A sgombrare i vecchi errori operò grandemente un error nuovo, quali erano i vortici di Cartesio, venuti di moda anche nelle scuole italiane. Alfine prevalse Newton, posando la legge universale della gravitazione, e innovando meccanica, ottica, astronomia. Nessun nome noi abbiamo ad opporvi, ma vantiamo un’intera famiglia d’illustri. Gian Domenico Cassini (1625-1712) di ricca gente nizzarda, allevato dai Gesuiti, s’applicò segretamente all’astrologia, la quale lo invogliò dell’astronomia; a venticinque anni già la leggeva in Bologna, succeduto al Cavalieri, e gran lode ottenne, qualunque erroneo, il suo esame della cometa del 1652. Risolse il problema fallito a Keplero e Bouillaud, «dati due intervalli fra il luogo vero e il medio d’un pianeta, determinare geometricamente il suo apogeo e l’eccentricità»; determinò la rotazione di varj pianeti mediante le macchie, e nel 1668 diede effemeridi de’ satelliti di giove, mirabili pel tempo. Compivasi così la scoperta di Galileo; i naviganti aveano un modo di conoscere le longitudini; e lo spettacolo d’un altro sistema planetario che in piccolo rappresenta il nostro, confermava l’insegnamento di Pitagora e di Copernico, offrendo una riprova delle leggi che eransi assegnate ai movimenti della terra. Cassini migliorò le tavole di rifrazione; costruì la meridiana in San Petronio a Bologna, un de’ più grandi stromenti, mercè del quale precisare la legge degli spostamenti diurni del sole. Al quale problema applicossi il Cassini per verificare un punto fondamentale della teorica di Keplero, cioè che si rallenti la terra quand’è più discosta dal sole, e s’acceleri quando vicina; e vi riuscì. Accertò parimente la importantissima legge delle rifrazioni, indicata già da Tycho; ma mentre questi credeva cessasse dacchè l’astro saliva più di 45 gradi sopra l’orizzonte, Cassini mostrò che altezza nessuna rompeva quella legge. Così fu l’astronomia ridotta capace di misure delicatissime, e parvero un miracolo le sue tavole del sole, che alla secentista intitolò _Oracolo d’Apollo_: fece conoscere la librazione della luna: trovò o perfezionò il modo di calcolare per tutti i paesi gli eclissi solari mediante le projezioni dell’ombra della luna sul disco della terra, e di dedurne le longitudini terrestri. Per determinare i confini tra la Toscana e lo Stato pontifizio, col Viviani studiò il corso del Po e della Chiana, le giaciture degli Appennini e le conchiglie fossili che vi si trovano. Il papa in benemerenza lo nominò ispettore delle acque; l’Accademia delle scienze francese l’ebbe corrispondente; poi chiamato da Luigi XIV, fu in Francia naturalizzato. Ivi con Picard promosse il viaggio a Cayenne per osservare la parallasse di marte e la solare, che si trovò appunto di dieci secondi, com’egli aveva congetturato. Egli intanto meditava sulla luce zodiacale, indicata fuggevolmente da Keplero; e stabilì che il sole sia circondato d’una specie di nebulosa, prolungata nel senso del suo equatore fin di là da venere. Dacchè Huygens ebbe scoperto il primo satellite di saturno, quattro altri egli ne osservò, non accorgendosi dei due che poi ad Herschel si offersero nel 1789, e dell’ottavo scoperto nel 1848 da Lassen. E sebbene veruna capitale scoperta egli facesse, la natura delle sue ne popolarizzò il nome per modo, che molti lo tennero quasi creatore dell’astronomia in Francia, tutti per uno de’ migliori ornamenti del regno del gran Luigi. Il genio per l’astronomia parve ereditario in sua casa; e Giacomo suo figlio (1677-1756), aggregato di diciassette anni all’Accademia delle scienze e di diciannove alla Reale di Londra, girò l’Europa, poi reduce coadjuvò il padre nel prolungare la famosa meridiana dell’Osservatorio di Parigi, cominciata da Picard nel 1669, ed ora spinta fino al Rossiglione e a Dunkerque. Più esatte misure de’ meridiani si ottennero dal viaggio ai poli; e allora Cesare Francesco Cassini corresse i lavori del padre, e recò il meridiano ad esattezza sufficiente per divenire base della grande operazione geometrica, alla quale tre generazioni di quella famiglia aveano faticato. FINE DEL TOMO UNDECIMO INDICE LIBRO DECIMOQUARTO CAPITOLO CXLIX. Quadro politico. Sisto V. Sistemazione civile ed ecclesiastica di Roma _Pag_. 1 CL. Savoja. Emanuele Filiberto. Carlo Emanuele. Genova. Congiura del Vachero » 50 CLI. Governo spagnuolo in Lombardia e nelle Due Sicilie » 77 CLII. Il Fuentes. L’Ossuna. Congiura del Bedmar. Masaniello » 136 CLIII. Guerra della Valtellina. Successione di Mantova e del Monferrato. Il Mazarino » 190 CLIV. Toscana » 229 CLV. Condizione materiale e morale. Opinioni. Ingegni eterocliti » 257 CLVI. Belle arti » 350 CLVII. Letteratura » 384 CLVIII. Scienze morali e filosofiche. Economia. Storia » 455 CLIX. Scienze naturali e matematiche » 531 NOTE: [1] Nel carteggio del residente veneto a Roma, sotto il 18 dicembre 1569 leggesi che il papa disse al cardinal di Gàmbara che «sa che la repubblica di Venezia è principe libero, e che non ha superiori, e che è il sustentamento della libertà e della gloria d’Italia, la quale, se non fusse il petto di quella serenissima repubblica, sarìa già molto tempo in preda delli oltramontani: e che voleva farli sapere una cosa in gran secreto, che non aveva mai più detta a niuno; che tutti gli altri principi dal maggiore al minore hanno in odio la serenità vostra e ne dicono male, e che ognuno si risente che la serenità vostra non stima niuno, e che non cerca di gratificarsi niuno. Il cardinale ha detto che non è da meravigliarsi di questo, perchè li principi non amano l’un l’altro se non quanto importa il suo conto, e che li italiani non amano la serenità vostra per invidia, e li oltramontani perchè li impedisce li suoi disegni in Italia». [2] Secondo note del doge Matteo Senarega, esistenti nella biblioteca della Università ligure, Genova nel 1597 contava 61,131 abitanti, di cui 2319 poveri soccorsi dal pubblico, 589 preti o frati, 1278 monache, 28,740 soldati, non contando la milizia forestiera: la rendita era di lire 428,264; le spese di lire 383,172 del bilancio dello Stato; 32,000 del bilancio del Comune; 164,873 di quel delle galee; 198,595 di quel di Corsica. Negli stessi archivj è il catalogo delle sostanze delle famiglie genovesi nel 1636, in occasione che vi fu imposta la tassa dell’un per cento; ove se ne contano quattordici che aveano fra 1,012,777 lire e 3,928,333. [3] _De principatibus Italiæ_, 1628, nella raccolta elzeviriana delle _Repubbliche_. Nell’archivio Mediceo, fra le _Carte strozziane_, filza 320, è un manoscritto anonimo col titolo _Relazione delle entrate, spese, forze e modo di governo di tutti i principi d’Italia_, che sembra appartenere alla prima parte del secolo XVII. Secondo quello, lo Stato pontifizio in guerra traeva Dall’Umbria fanti 10,000 cavalli 3000 dalla Romagna » 20,000 » 4000 dalla Marca (bravi ed armigeri) » 15,000 » 2000 da Bologna e Ferrara » 25,000 » 6000 —————— ————— in tutto fanti 70,000 cavalli 15,000 e sul mare cinque galere, ma poteva armarne otto. Nel 1675 Gregorio Leti (vol. II dell’_Italia regnante_) attribuiva allo Stato papale la rendita di tre milioni di scudi; e numerando le forze delle diverse provincie e le artiglierie delle fortezze, presentava queste cifre: Uomini atti alle armi 400,000 Presidj, tra fanti e cavalli 4,000 Esercitati alle armi e sempre in pronto per la guerra, ma a casa e non retribuiti che di alcuni privilegi 80,000 fanti, 3500 cavalli De’ quali può armare senz’aggravio de’ sudditi e pagare in guerra, oltre i presidj 30,000 » 3000 » Oltre le armi di questi esercitati 83,500, n’erano nelle fortezze di Ferrara, Bologna, Castel Sant’Angelo, in Vaticano, Ancona e Ravenna per 60,000 uomini, e munizioni in gran copia. Le armi si fabbricavano nello Stato, e specialmente a Tivoli. Alessandro VII aveva messa e dotata una fabbrica. In Civitavecchia, oltre munizioni molte, stavano dodici galere ben armate. «Con tutto ciò (diceva il Leti) bisogna essere buon principe, e non semplice prete, perchè dalla qualità del petto e dal valore del papa dipende la prima forza dello Stato». Raccogliendo quanto partitamente aveva scritto dei principi d’Italia, esso Leti dava alla penisola, assai meno popolosa d’oggidì, Uomini atti alle armi 1,972,000 In servizio e obbligo di guerra 369,000 fanti, 32,200 cavalli Guarnigione o presidj a piedi e a cavallo 27,400 Milizie che possono assoldarsi senz’aggravio de’ sudditi sulla somma di 401,700 149,500 » 16,000 » In mare cento galere, e quattordici navi a vela ben armate. [4] _Testamento politico_. [5] Comuni a tutte le Corti erano i gran donativi, e ogni affare trattavasi col profonderne a tutti quelli che poteano ajutarlo. Voigt, nella _Storia di Prussia_, dice che questo paese nel XIV secolo regalava al papa quattromila ducati d’oro; al cardinale De Fargis nipote di esso, cento doppie (di 17 fr.); venti a quel d’Albano; quattrocentottantasette ducati d’oro e venticinque doppie tra varj altri famigliari; oltre quel che davasi ad avvocati, notaj, staffieri, ecc. Pertanto l’ambasciadore portava sempre gran provvigione di galanterie. Giovanni di Felde, andando a Roma nel 1391, avea seco venticinque tazze d’argento, quindici piatti simili, e moltissimi anelli. Lo stesso Voigt riferisce il dono di dodici apostoli d’oro, fatto dall’ordine Teutonico a Leone X, che poi li vendette; e dà la lista de’ regali fatti in non si sa qual anno del secolo XV per Natale. La riferiamo anche per la curiosità dei prezzi: 1. Per un velluto turchino, al papa ducati 83 2. Per un boccale dorato, al medesimo » 64 3. Per la fodera d’un mantello d’ermellino, al medesimo » 14 4. Per tredici chicchere d’argento, ai camerieri del papa » 117 5. Al protettore dell’Ordine » 110 6. Per confetti dispensati ai cardinali » 70 7. Per confetti agli auditori » 31 8. A due avvocati » 24 9. A due procuratori » 20 10. Al maestro di scuderia del papa » 3 11. Ai guarda-portoni » 30 12. Per un cavallo regalato » 30 13. Una sella per il medesimo » 1 14. Un cavallo ciascuno al protettore dell’Ordine, al cardinale di Novara, al protonotario Ermanno Dwerg; due al priore che suole introdurre le persone al papa. [6] _Universis et singulis mercatoribus, cujuscumque nationis et professionis vel sectæ, etiam Turcæ, Judæi, vel alii infideles essent, ad civitates, terras, castra et loca Marchiæ anconitana, cum familia ac mercibus ac bonis eorum quibuscumque vel sine illis, veniendi, aut in eis standi, manendi, et negotiandi, ac ab illis pro eorum libito voluntatis abeunii et recedendi etc._ Bolla 21 febbrajo 1547. Vedi il _Viaggio_ di Montaigne, e le Relazioni d’ambasciadori e del Botero. [7] TONDUZZI, _Storia di Faenza_, p. 605. BALDASSINI, _Memorie storiche dell’antichissima città di Jesi_. Jesi 1774, p. 256. SARACINELLI, _Notizie storiche della città d’Ancona_. Roma 1675, II. p. 335. MARIOTTI, _Memorie storiche civili ed ecclesiastiche della città di Perugia e suo contado_. Perugia 1806, p. 113. Su tutto ciò vedi RANKE, _Die Fürste und die Völker etc_. [8] Secondo Gregorio Leti (Vita di Sisto V, part. II. 1. 4), al venire di papa Sisto quest’erano le entrate delle primarie case romane: Dei Colonna, don Marcantonio gran connestabile del regno di Napoli, duca di Pagliano, principe di Sonnino scudi 120,000 Il duca di Zagarola, principe di Gallicano conte di Zarno » 30,000 Il principe di Palestrina cavaliere del Tosone » 25,000 Degli Orsini don Paolo Giordano, duca di Bracciano, grande di Spagna » 100,000 Don Giovan Antonio, duca di San Gemini, cavaliere del Santo Spirito » 50,000 Don Bertoldo, marchese del Monte San Sorino, conte di Pitigliano » 200,000 Don Latino, principe di Matrice » 12,000 Don Virginio, duca di Gravina, che poi sposò la pronipote di Sisto. » 18,000 Dei Savelli don Federico, principe d’Albo e del sacro romano Impero » 50,000 Il duca di Riccia » 20,000 Il duca di Sermoneta » 20,000 Il duca di Sermoneta della casa Gaetana di Spagna » 50,000 Il duca di Carpineta della casa Conti » 18,000 Don Lottarino Conti, principe di San Gregorio e duca di Palo » 12,000 Don Giorgio Cesarini, duca di Civitanova » 30,000 Il duca Sforza, duca di Segni, principe del sacro romano Impero » 40,000 Don Gregorio Buoncompagni, duca di Sora, marchese di Vignola, conte d’Arpino, nipote di Gregorio XIII » 45,000 Don Antonio Farnese, duca di Farnese » 12,000 Don Angelo Altemps, duca di Gelasi, conte di Soriano » 24,000 Don Federico Cesis, duca d’Acquasparta » 70,000 Inoltre furono trovate fin a cinquanta famiglie con una rendita ciascuna dai cinque sino ai diecimila scudi al più, e sino ai mille almeno. Trovò pure: monasteri di regolari viventi in povertà 316 monasteri di monache sotto alla povertà 67 monasteri di regolari con rendita 128 la quale per tutti insieme era di scudi 168,300 monasteri di monache con rendita 54 che era » 66,410 [9] AMIANI, _Memorie di Fano_, pag. 609. [10] LETI, _Vita di Sisto V_, part. II. lib. I. c. 3. Nel carteggio del residente veneto a Roma, oltre moltissimi aneddoti congeneri, si legge di un Diedi di Ravenna che, innamoratosi d’una fanciulla Rasponi, l’ebbe alle sue voglie, poi a sposa. Il fratello di questa, tenendosi ingiuriato, raccolse una sera da cento uomini, ed entrò in città scalando la mura e con fiaccole; ed assalita la casa de’ Diedi, vi trucidò gli sposi, un fratello canonico, sorella e padre del marito, e servi, e fin quello ch’eragli stato spia e guida; poi se n’andò dal regno pontifizio. Al 25 febbraio 1576. Ivi si parla a dilungo del Piccolomini e de’ suoi: — Ultimamente si messero per forza ad abitare in un palazzo del signor Bonello per far scorta al mietere di alcune possessioni confiscate del Piccolomini; con il qual sono centottanta bravi, che si fanno strada ove lor piace. Et egli, avendosi lasciato crescere li capelli con una ciera horribile, mette gran spavento a tutti, e se ne va errando quando in una, quando in altra parte ecc.». Al 1581. [11] Carteggio 10 settembre 1585; 16 agosto 1586. [12] _Le langage du papa est italien sentant son ramage boulognois qui est le pire idiome d’Italie, et puis de sa nature il a la parole mal aysée. C’est un beau vieillard... le plus sain et vigoureux qu’il est possible de désirer... d’une nature douce, peu se passionnant des affaires du monde, grand bâtisseur... Il n’est nulle fille à marier, à laquelle il n’aide pour la loger... Ses réponses sont courtes et résolues, et perd-on temps de combattre sa réponse par nouveaux arguments. En ce qu’il est juste, il se croit; et pour son fil mesure, qu’il aime furieusement; il ne s’ébranle pas contre cette sienne justice. Montaigne._ [13] Vedansi gl’importantissimi dispacci veneti, pubblicati dal Mutinelli. La ciarlatanesca vita scrittane dal Leti è confutata ad ogni passo da quella seria dell’Hübner. [14] Dispacci veneti del 16 gennajo 1584. [15] _Bullarium romanum_, tom. II. _Constit. Sisti V_, 56. [16] Manoscritto Chigi, citato dal RANKE, lib. IV. 2. [17] Nei quali la dogana di Roma figura per scudi 182,450 la dogana di Ancona » 15,500 la dogana di Civitavecchia » 1,977 le allumiere della Tolfa » 31,780 i censi di Spagna, Urbino, Ferrara, Parma, e altri feudatarj nel giorno di S. Pietro » 35,500 Fra i titoli che vendevansi erano i cavalieri Piani, del Giglio, dei santi Pietro e Paolo, dello Speron d’oro, Laterani. In un libro di conti cogl’introiti e spese dello Stato Pontifizio nel 1585, posseduto dal Coppi, le rendite ascendono a scudi 1,318,414; gl’interessi de’ luoghi di monte, cioè del debito importavano scudi 281,968: dedotti i pesi, alla tesoreria avanzavano scudi 449,756. Un altro conto del secondo anno di Sisto V segna le entrate dello Stato papale in scudi 1,599,303. [18] LETI, part. III. l. V, secondo il quale tali cariche, oltre l’onore, rendevano il sette, il dieci, fin il quattordici per cento. Lo stesso, part. III. l. III, dice: — Quando un papa vuole fa miracoli, e miracoli fece sempre Sisto perchè governò col capo e col petto; ond’è che di lui fu detto che aveva il capo di ferro, il cuore di Marte, il petto di bronzo, la mano d’acciajo, il piede di Mercurio. E benchè dall’Evangelio non ne tirò mai la semplicità della colomba, ne succhiò con tanto più ardore la prudenza del serpente e forse il naturale; poichè non schizzò mai veleno contro alcuno, che non fosse stato prima toccato. Non intraprese mai cosa senza prima maturare i mezzi come dovea fare per sostenerla; e da qui nasce che mai gli venne a vuoto impresa alcuna, che si può dire quasi un miracolo in lui, perchè non formava i disegni alla cieca, ma con cento occhi come Argo; e dopo formati adoprava cento braccia come Briareo per farli riuscire; di modo che con ragione dicevano gli ambasciatori: _Sisto ci dà a tutti guanciate terribili ma con una così gran forza di spirito, che bisogna dire_ Amen _senza lamenti_». [19] I grossi debiti contratti da Urbano VIII e Innocenzo X fanno credere che quei milioni fossero consumati. Nel marzo 1793 Cacault scriveva alla Convenzione di Francia, che in Castel Sant’Angelo esisteva ancora un milione di scudi del tesoro di Sisto V. [20] Il Fontana stesso descrisse il _Modo tenuto nel trasportare l’obelisco Vaticano_. Su quell’operazione fu consultato anche Camillo Agrippa milanese, filosofo e matematico, che stampò _Nuove invenzioni sovra il modo di navigare_, ed altre opere; e condusse l’Acqua Vergine sul monte Pincio. Adamini di Montagnola, compaesano del Fontana, e il francese Montferrand eressero, pochi anni fa, la colonna in onore di Alessandro I a Pietroburgo, che è il maggiore monolito del mondo. Il fusto solo di essa pesa chilogrammi 293,820 cogli apparati » 423,500 Mentre l’obelisco nudo pesava » 337,000 cogli apparati » 375,922 * Il fatto del villano è messo in dubbio da taluni, ma il Cancellieri nella _Descrizione delle funzioni della settimana santa_, pag. 195, cita ANGELO ROCCA, de Bibl. Vat., 250, _Taja_, _Descrizione del palazzo Vaticano_, 440, e CHATTARD, _Nuova descrizione del Vaticano_, tom. III, p. 20, che dicono quel fatto effigiato sopra la finestra seconda della biblioteca vaticana. Colui fu un bravo marinajo di San Remo, e i Bresca di colà conservano il privilegio di somministrare le palme alla solennità di Roma. Il privilegio dice: _Equidem nos minime latet te ex ea natum familia, ex qua vir extit, qui provido sane consilio, utilique monitu, in Vaticano obelisco efferendo multam diligentemque operam adhibuit, ac propterea a rec. mem. Xisto V prædecessore nostro præcipuum privilegium obtinuit, cujus vi ipse tantum, ejusque posteri, ceteris exclusis, perpetuum jus haberent ferendi Romam palmeos ramos pro pontificio sacello, aliisque urbis templis_. Allorchè Pio VII stava prigioniero in Savona, il dottor Giacomo Bresca, allora investito del privilegio, gli spediva le palme: e quando esso papa ritornava a Roma, il Bresca gli mosse incontro con una schiera di fanciulli, portanti bellissime palme: e il pontefice in segno di gradimento fe collocare due di queste sulla sua carrozza. [21] Carteggio veneto al 24 novembre 1590. [22] De Maisse, ambasciadore a Venezia, scriveva al suo re il 4 ottobre 1592: _Il ne se parle à Rome que des réformations. Le pape va en personne visiter les cellules des moines, et les va trouver jusque dans le lit. Il les veut faire comme frères égaux et en commun, et réduire trois monastères en un: chose qui leur sera difficile à supporter, étant accoutumés dans leur aises et commodités_. [23] Nelle notizie del Nores leggesi invece che il birro fu assalito da un cane, e che Gabriele Foschetti, mastro di casa Farnese, fu preso e decapitato il mercoledì santo del 1592. Il Muratori pone il fatto al 1604. [24] _Il Moro trasportato in Venezia, ovvero Racconti de’ costumi, riti e religione de’ popoli dell’Africa, America, Asia ed Europa_. Reggio 1672. [25] _Conciliazione della Chiesa armena colla Chiesa romana sopra le autorità de’ padri e dottori armeni_. [26] Secondo il cerimoniale allora prefisso, i baroni, i cavalieri e le damigelle doveano dirgli, _Monsignore mio fratello_, ed egli a loro _Bel fratello, Bella sorella_. Nelle funzioni procederebbe il fratello di mezzo passo, e se a cavallo, della lunghezza del collo del cavallo. I piatti doveano servirsegli coperti. Cavalieri e dame nel presentarsegli e nel partire doveano inclinare alquanto i ginocchi. Vedi CIBRARIO, _Origini e progresso delle istituzioni della monarchia di Savoja_. Torino 1854. [27] Carlo III rimostrava all’imperatore Carlo V che _par trois fois que l’armée de l’empereur y a été, ce Piémont a été mangé, pillé, composé et rançonné en toute extrémité, et non point en un seul lieu, mais généralement par tout le pays_. [28] Nel 29 maggio 1613, il cardinale Maurizio di Savoja scrive a suo padre Carlo Emanuele, che con grandissima difficoltà potè trovare cinquanta scudi; che il principe Tommaso di Carignano era senza vestiti nè altre cose più necessarie; e il 29 settembre 1614, che non si potè trovar oro per le catene da regalare agli ambasciadori svizzeri. [29] L’ambasciator veneto Gian Francesco Morosini, in una bellissima relazione del 1570, loda le galee di Emanuele Filiberto di Savoja come delle migliori di Ponente, e soggiunge: — Tratta sua eccellenza le ciurme di queste sue galere, come quello che n’ha poche, eccellentemente; dando, oltre le minestre, nei giorni ordinarj trentasei oncie di pane per cadauno, dove il signor Giovanni Andrea Doria non ne dà più di trenta; per il che il galeotto, oltre il suo bisogno, ha pane che gli avanza, il quale può vendere a chi più gli piace, e delli denari comprarsi delle altre cose; e comprano per lo più il vino, il quale in quelle parti si ha per bonissimo mercato, tanto che rari sono quelli che bevano mai acqua. Oltre questi, hanno quasi tutti essi forzati anco delli altri denari; perchè, quando non sono impediti dal navigare, fanno quasi tutti qualche mestiero, e tra gli altri calzette di riguardo, delle quali cavano ogni anno molti denari: e nell’ultima andata a Nizza di sua eccellenza non fu alcuna di quelle sue galere che non vendesse calzette alli cortigiani per centoventi o centocinquanta scudi d’oro almeno per cadauno. «Oltre ai sessanta marinari, suole mettervi sino a ottanta o cento combattenti; e a questi fa portare due archibugi per uno, con cinquanta cariche, acconciate in modo con la polvere e palla insieme ben legate in una carta, che, subito scaricato l’archibugio, non ci è altro che fare, per caricarlo di nuovo, che mettere in una sola volta quella carta dentro la canna con prestezza incredibile, e ciò in tempo di bisogno fa fare da uno delli forzati, avvezzato a questo, per ogni banco; onde, mentre che il soldato attende a scaricar l’uno l’archibugio, il forzato gli ha già caricato e preparato l’altro, di maniera che, senza alcuna intermissione di tempo, vengono a piovere l’archibugiate con molto danno dell’inimico e utile suo... «Sempre negozia in piedi o camminando; sta pochissimo in letto; parla poche parole, ma piene di sugo. È tutto nervo con poca carne, ed ha negli occhi ed in tutti i movimenti del corpo una grazia, che quasi eccede l’umanità; in tutte le sue azioni ha una gravità meravigliosa e grandezza, e veramente par nato a signoreggiare; parla italiano, francese, spagnuolo, tedesco e fiammingo, sì che par nato in mezzo a loro. Accetta di sua mano tutte le suppliche, volendo che la giustizia si distribuisca sì al povero che al ricco; fa grandissima professione della sua parola; invece di gentiluomini di bocca e di camera non si serve che di cavalieri di san Maurizio, per indurre i nobili ad entrarvi. A tavola si fa leggere sommarj di storie, delle quali si diletta moltissimo; poi si ritira a lavorar d’artiglierie, di modelli di fortezze, di fuochi artificiali con bravi artefici che trattiene; ha gusto di conversare con uomini dotti in qualsivoglia professione, e ragiona sempre con loro. Nella Germania è stimato tedesco per essere della casa di Sassonia; da’ Portoghesi, portoghese per sua madre; tra’ Francesi, francese per i parentadi vecchi e nuovi; ma lui è italiano, e vuole essere tenuto per tale». [30] Il Boldù, ambasciatore veneto, scriveva il 1561: — Vi sono più cause di alterazioni e divisioni fra i sudditi di sua altezza, come l’antica causa guelfa e ghibellina che ancora in qualche parte regna; d’una delle quali è capo il signor di Racconigi, che è la guelfa; e della ghibellina il signor di Masino; dai quali due personaggi però si può dire che dipendano quasi tutti i gentiluomini di Piemonte. Nell’entrata che fece sua altezza a Mondovì furono per tagliarsi a pezzi duemila uomini delle ordinanze per questa causa». E il Morosini: — I suoi popoli non sanno industriarsi ad altro servizio che di lavorar le terre, e lo dimostrano molto bene le case loro, nelle quali non si vede tanta roba che vaglia quattro denari: ma parlo degli uomini del contado e del popolo ancora, perciocchè neppure hanno letti sui quali dormire, ma in cambio di quelli usano certi sacconi pieni di foglie d’alberi, godendosi il mondo appunto in quel modo, nel quale lo trovarono quando ci vennero. I Piemontesi nascono buoni soldati, ma non si curano nè d’arti di commercio ad imitazione dei nobili, e lasciano che i forestieri s’arricchiscano; non hanno altro pensiero che di attendere a mangiare, a bere ed ai piaceri; e credami vostra sublimità, che non v’è artefice tanto basso che non vuol mangiare salvaticine e darsi piacere. Il duca impiega ogni opera per risvegliarli, ma con poco profitto. Li popoli che abitano la Savoja sono timidi e vili, non si danno ad alcuno esercizio, nè tampoco a quello delle armi; e fecero vedere questa poca inclinazione allorquando il signor duca ordinò una milizia per la quale avendo speso più di seimila scudi in armi, in poco tempo ritrovorno che de’ morioni e corsaletti se n’erano serviti in far delle pignatte e degli spiedi. Li nobili e feudatarj (della Savoja) sono superbi, altieri e poco migliori della plebe». [31] Nella abolizione degli stati Emanuele Tesauro riponeva la causa delle guerre civili di Piemonte nel seicento: — Nei tempi andati quando i Sovrani di Savoja erano meno potenti, ed i popoli erano più liberi, sentendo ancora qualche odor di repubblica, signoreggiava nella Savoja e nel Piemonte un potentissimo ed ai suoi monarchi formidabilissimo tribunale chiamato la unione delli tre stati, ecclesiastico, nobile e popolare, il quale usurpando una suprema ed illimitata autorità, chiamava se stesso padre e tutore del principe, anzi principe nato a distinzione del succeduto. Questi, allora che moriva il sovrano, traeva a se medesimo tutta la sovrana potestà, ordinava la repubblica, giudicava delle tutele e delle successioni contenziose tra dimestici o stranieri pretensori del principato e ducato. Anzi facendo il pedagogo sopra il principe adulto, censurava le sue azioni, esaminava le risoluzioni della guerra e della pace, rifiutava o limitava le dimande delle contribuzioni, opponeva ragioni alle ragioni, e talvolta forza alla forza, non avendo allora il principe altro erario che la libera volontà degli Stati, nè altre armi che le armi loro. Onde non è meraviglia se in alcuni regni la baldanza degli altri Stati sia giunta a segno di mettere le mani sopra il suo re. Ma questo tribunale, dopo che i principi di Savoja sono divenuti più forti e perciò più liberi, altrettanto ha perduto di forza e di libertà, ed a poco a poco abbassato, finalmente fu estinto. Chi volesse parlare oggidì di rinnovare il tribunale dei tre stati, sarebbe reputato reo di maestà. Parlo dei tre stati formati, e non materiali, uniti in un corpo con piena e libera autorità giudiciale, e non partitamente richiesti dei loro voti, che sogliono darsi a genio del più forte». _Origine delle guerre civili del Piemonte in seguito dei campeggiamenti del principe Tommaso di Savoja, descritti dal conte e cavaliere gran croce don Emanuele Tesauro, che serve per apologia contro Henrico Spondano_. In Colonia 1673, appresso Giacomo Pindo, pag. 12-13. [32] Il suo inviato alla credenza generale di Lanzo, nell’aumentare il prezzo del sale, ragionava: — Sua altezza non la ricerca per altro, salvo per poter rimediare alle fortificazioni, monizioni, artiglierie, ed altre cose in conservazione del Stato e suoi sudditi, e _tanto più_ che per questa via resterà meno gravato il populo, poichè vi concorrono preti, frati, signori, monache ed altri privilegiati». [33] — Dovendosi partire sua eccellenza (Emanuele Filiberto) la mattina seguente per andare all’esercito (sotto Hesdin in Fiandra), fu veduto, nell’imbrunire della sera innanzi, uscir dal palazzo con un servitore solo, quanto incognito si poteva; onde ognuno che lo vide e intese ciò, giudicò, come giovane che egli era e a cui non spiacevano le donne, ch’egli andasse a pigliar licenza da qualche sua innamorata. Niente di manco si seppe di certo poi, che sua eccellenza andò al monastero di San Paolo, dove essendo stato tutta la notte, si confessò, e la mattina seguente, comunicato che si ebbe, e raccomandatosi a Dio, s’avviò di lungo al carico suo del generalato dell’esercito». BOLDÙ. * E l’ambasciatore veneto, al 21 gennajo 1599, scriveva alla sua repubblica: «Il signor duca è andato nove giorni continui alla Madonna di Mondovì, trattenendosi ivi dalla mattina assai per tempo fin quasi la sera, replicandovi, com’è costume, ogni dì nove volte l’orazione efficacissimamente. La quale non si discerne se sia o per dar grazia dell’essere uscito dai passati pericoli, o se per fine abbia pur solamente la dimanda di restar salvo da’ futuri». [34] Che nelle nozze si stipulasse che il primo figlio erediterebbe il Milanese col titolo di re di Lombardia, lo credo un sogno del Litta nelle _Famiglie celebri_. Nel capitolato per l’elezione di Leopoldo I, il duca di Savoja si fece confermare il titolo di vicario imperiale. [35] Secondo il divisato d’allora, per l’esercito comune contro i Turchi avrebbero dovuto dare: fanti cavalli cannoni vascelli Il papa 8000 1200 10 10 Lombardia 8000 1500 8 6 Venezia 10000 1200 10 25 Repubblica italiana 10000 1200 10 8 [36] Nel 1607 il duca di Savoja sbrigò e ottenne dall’imperatore d’andar ambasciadore straordinario a Venezia per la pace che trattavasi con Paolo V. Tre ragioni adduceva di questo desiderio: 1º perchè, se la guerra divampasse, egli sarebbe il primo a sentirne i danni; 2º perchè voleva distruggere l’opinione che godeva d’irrequieto e smanioso della guerra; 3º perchè l’imperatore, il quale parlava di sposare la sua figlia, vedesse che l’ambizione non era il suo vizio. Il Senato avea stabilito che sessanta senatori col doge andrebbero incontrarlo all’isola di San Clemente, ma il doge non uscirebbe dal bucintoro; sessanta senatori lo condurrebbero all’udienza, ma il doge lo porrebbe alla sinistra, e gli darebbe solo il titolo d’eccellenza. Per manco di denaro o perchè non soddisfatto degli onori che la repubblica gli destinava, l’ambasciata non ebbe luogo. Suo figlio Tommaso fu pure incaricato di altre che guastò colle pretensioni. Vedi VICQUEFORT, _L’ambassadeur et ses fonctions_. Colonia 1690. [37] Vinciolo Vincioli aveva già preparato una canzone sull’impresa di Ginevra, e fu pubblicata benchè riuscisse a male. Sola speme d’Italia e primo onore D’Europa, alto stupor del secol nostro, Saggio invitto guerrier, folgore e scoglio Di Marte, che di senno e di valore Sei dei principi altero e raro mostro, Che in verde etade hai mostro D’esser nato a domar l’antico orgoglio Del barbaro vicino, e di quegli empj Che, fuggendo il tuo scettro, ebber ardire Fabbricar nuova fede e nuova legge... Così dic’egli a Carlo Emanuele; lo felicita d’aver vinto l’empio Bretone, il Gallo audace, l’invido Germano; e che Dio avesse «percosso di sua mano l’alto tiranno che regnava tra l’Alpe e tra Pirene», cioè Enrico IV; e così via bestemmia tutti i popoli miscredenti. Or chi fia più che guerreggiare ardisca Teco, signor, se in tua difesa hai l’ira Di Dio, che al fondo i tuoi nemici ha messo? Credo che in ciel s’ordisca Che debban l’arme tue con breve guerra Vincer tutta la terra, La qual vinta che sia, dall’Indo a Tile Sarà solo un pastor, solo un ovile. Intanto lo sollecita contro Ginevra: Nè gioveralle il lago e la palude, Nè i fiumi che difendon l’alte mura: Già da lontan s’ascolta Il pianto e ’l grido dell’afflitte genti E lo strido e i lamenti, E già veder il Rodano mi pare Portar il sangue invece d’acque al mare... Fa la pace fiorir di qua dall’Alpe, Mentre di là fera discordia ogn’ora Tiene in travaglio i popoli, che sono Verso Dio divenuti aspidi e talpe. Poi nel trattato di Bruzolo del 1610 il duca combinava una nuova lega con Enrico IV, stabilendo di ottenere il Milanese dopo conquistatolo, a patto di cedere a questo la Savoja, distruggere il forte di Monmeliano, e consegnargli due fortezze del Milanese. Protezione disinteressata! [38] Il maresciallo di Crequi scrive a Luigi XIII: _Le duc de Savoie accuse monsieur le connétable de n’avoir pas voulu laisser prendre la ville de Gênes parce qu’il entretenait des intelligences secrètes avec les principaux magistrats. Je ne dissimulerai point à votre majesté que nous pouvions prendre Gênes, mais on n’a pas cru que le service de votre majesté le permit. Monsieur le duc de Savoie se serait mis en possession de la ville, et aurait voulu la garder pour lui. Si votre majesté veut entreprendre une guerre avantageuse en Italie, envoyez-y, sire, sous la conduite d’un de vos bons généraux, une armée nombreuse et supérieure à celle de Savoie, de manière que vous puissiez faire la loi à monsieur le duc, et qu’il ne prétende pas disposer de tout à sa fantaisie_. Su quest’età spargono moltissima luce le lettere del D’Ossat, oscuro francese, assunto alla porpora pei proprj meriti, massime per la ribenedizione d’Enrico IV. Era stato segretario del cardinale d’Este nel 1582, poi direttore dell’ambasciata francese, infine ambasciadore a Firenze, a Venezia, a Roma, Amelot de la Houssaie, noto pubblicista, corredò quelle lettere di note, che anch’esse illustrano la condizione del nostro paese e i personaggi che vi figurarono. D’Ossat, nemicissimo al duca di Savoja, gli suppone i disegni più ribaldi. Nella lettera CCXXXII avvisa Enrico IV de’ disegni di esso contro di lui, e soggiunge: _J’ai horreur de vous ajouter une autre chose, que gens de qualité m’ont dit qu’il attend avec plus de désir et d’espérance que tout cela; mais je ne dois et ne puis vous faire plus longuement. C’est le succès et événement des embuches et assassinats qu’il a dressés et apostés en diverses façons contre la vie de votre majesté, dont Dieu vous préservera, et le confondra lui, comme il mérite, moyennant la précaution, dont votre majesté et vos serviteurs useront. Ces choses ne se disent pas par tenans et aboutissans; mais le naturel et la façon de procéder de l’homme les rendent trop vraisemblables, et méritent que votre majesté et tous ses serviteurs y prennent garde_. E nella seguente: _Monsieur de Savoie vous a meshui fait assez connaître, qu’il n’a point de conscience, ni de crainte de Dieu, et moins soin de son honneur et réputatation, ni aucune vergogne des hommes_. Interrogato dal papa del suo parere sulla guerra tra Francia e Savoja nel 1600, insiste perchè il papa ne levi l’occasione col far che il duca restituisca Saluzzo, paese dovuto alla Francia, e necessario all’equilibrio d’Italia, dove altrimenti rimane despota la Spagna. Divisando i caratteri de’ combattenti dice: _Monsieur de Savoie est de telle complexion qu’il veut prendre l’autrui et sur plus grands qu’il n’est, et ne veut point rendre; veut encore contracter et faire des accords, promettre, signer, confirmer et reconfirmer, et ne point tenir, ne rien exécuter, prenant pour galanterie de violer la foi... Avec tout cela il pense de se mantenir en cette façon de procéder par son bel esprit, fertil en toutes sortes d’inventions et de déguisements, et par les forces d’Espagne, et par l’autorité de votre sainteté, sachant le respect que le roi vous porte, et l’extrême désir que vous avez de conserver la paix_. All’acquisto di Saluzzo erano contrarj tutti i principi d’Italia, e offrivano denari perchè Enrico rompesse il patto; D’Ossat lo considera sempre come un’usurpazione, e non sa darsene pace; e rammenta al re come, lasciandolo al duca, _perdrait beaucoup la réputation, qui est celle par laquelle les rois et princes se maintiennent bien plus souvent que par toutes leurs forces et moyens_. Ben sel sapeva il duca, il quale diceva: la reputazione esser la pupilla del principato». Amelot de la Houssaie, nelle note alla lettera LVII del D’Ossat, dice di Carlo Emanuele: _Ce due était si ambitieux, si entreprenant et si déloyal, que l’on se défiait autant de lui quand il avait de bonnes intentions que lorsqu’il en avait de mauvaises. Tous les historiens de son temps ont loué hautement sa valeur militaire, son intrépidité, sa liberalité, sa pénétration, son expérience, mais ils l’ont tous accusé d’avoir été sans foi_. — Siri, nelle Memorie secrete, VII: «Principe per vastità d’ingegno e per intrepidità di cuore incapace di sgomento; de’ maggiori che habbino regnato lungo tempo avanti di lui; fregiato d’eccelse virtù e imbrattato di molti vizj, che lo resero notato nel mondo per turbolento, ambiziosissimo, infido, ecc. — Il cardinale Bentivoglio nelle _Memorie_: «Queste sì rare virtù venivano sommamente oscurate dall’ambizione, la quale regnava in lui con tal eccesso, che portandolo continuamente a torbidi, vasti, e per lo più fallaci disegni, faceva ch’egli, invece di misurarsi con la misura sua propria, usasse molto più quella dei re, alle cui prerogative non potendo soffrir di cedere, come principe di tanta eminenza anch’egli, e d’una casa tutta mista di sangue regio ancor essa; perciò cercava sempre inquietamente con tutti i mezzi di rendere alle grandezze loro, quanto più poteva, uguali le sue». — E il procuratore Battista Nani dice che questo duca «al solo interesse immobilmente indirizzò le sue azioni». [39] Un fatto particolare mostri la natura delle relazioni internazionali. È noto che l’Inghilterra si era sottratta al papa e al cattolicismo. A Roberto Dudley, duca di Northumberland, erano stati dal re d’Inghilterra sequestrati i feudi; ed egli si volse all’imperatore, volendo ancora considerarlo come signor sovrano quale nel medioevo, e questo emanò una bolla, ove cassava la confisca. Tale bolla fu confermata dal papa, il quale al vicario generale dell’arcivescovo di Firenze commise di procedere e giudicare la causa fra il duca e il re. E il vicario sentenziò doversi il duca reintegrar nelle sue ragioni e risarcirlo con otto milioni ducentomila sterline; sentenza della quale poteasi eseguire la disposizione sopra qualunque Inglese non cattolico per via d’arresti, esecuzioni, sequestri (1626). Ma per eseguirla voleasi la forza; e Dudley non sentendosela, divisò di vendere quel titolo ad alcun potente, che se ne valesse in occasione di guerra. La offrì dunque al duca di Savoja, il quale peritossi alquanto, poi stimò più prudente informarne il re d’Inghilterra, avvertendolo tenersi in guardia, che non avvenisse come sotto Urbano VIII, quando ai sudditi inglesi fu nociuto assai con sequestri di gran valore. SCLOPIS, _Relazioni politiche tra la dinastia di Savoja e il Governo britannico_. 1853. [40] Nel 1615, 5 giugno, si fece un concordato tra il fôro ecclesiastico milanese e il secolare, diviso in quindici capi. [41] PIETRO GRITTI, _Relazione di Spagna, letta al senato di Venezia l’ottobre_ 1620. [42] TASSONI, nelle _Filippiche_. [43] Il lotto, detto del Seminario, pare fosse introdotto a Genova al principio del secolo XVI: speculazione privata, che andava a usufruttare la credula avidità anche in altri paesi. I principi di Savoja lo proibirono, ma per fiscalità, anzichè per intento morale; e Carlo Emanuele II, che v’avea sin comminata la galera per cinque anni e la confisca nel 1655, nel 1674 permetteva a Cesare Chiapissone d’introdurlo ne’ suoi Stati, col solo aggravio di cinque doti da cento lire da distribuirsi a povere fanciulle. Nel 1696 appaltavasi per lire settemila cinquecento. [44] CAVAZIO DELLA SOMAGLIA, _Alleggiamento dello Stato di Milano_. 1653. [45] Filippo II di Spagna in dote a sua figlia, sposata al duca di Savoja, diede di percepire all’anno sessantamila ducati dalle rendite del Milanese, e ottomila da quelle di Napoli. [46] Erano feudatarj, i Visconti a Gallarate, a Dairago, a Pontirolo, a Binasco, a Olgiate Olona, Ossona, Canonica; a Busto i Marliano; a Landriano i Taverna; gli Arconati a Dairago; i Fossati a Nerviano; i Castelli a Parabiago; i Missaglia a Seregno; i Bigli a Saronno; i Gallarati a Concesa; i Mariani a Mariano; i Pietrasanta a Galliano e Paderno; i Cusani a Chignolo; i Branda a Castiglione, ad Appiano e nel Varesotto; i Trivulzi a Settala; i Medici a Melegnano; i Biumi a Binasco; i Crivelli ad Agliate; i Sirtori a Torrevilla; i Brebbia a Barzago; gli Airoldi a Lecco; gli Sfondrati e i Dal Verme a Nibionno; i Durini a Monza; gli Archinti a Ficino; i Visconti Sforza a Caravaggio; i Monti nella Valsassina; gli Aresi a Osnago, a Meda e Barlassina; i Borromei a Valcuvia, a Brebbia, a Robecco, ad Arcisate, nell’Alessandrino, sul lago Maggiore; e così nel Pavese i Mandelli, i Beccaria, i Belgiojoso, gl’Isimbardi, i Gattinara; nel Cremonese i Melzi, i Del Mayno, gli Schinchinelli, i Rosales, gli Schizzi, gli Affaitati, i Salazar, gli Stampa; nell’Alessandrino gli Spinola, i Trotti, gli Stampa, i Bonelli, i Pallavicini di Genova; nel Tortonese i Cavalchino, i Marini, gli Spigno; nel Comasco i Gallio duchi d’Alvito, i Crivelli, gli Alberti, i Lambertenghi, i Riviera; nel Novarese i Tornielli, i Bolognini, i Caccia, i Serbelloni, i Trivulzi, i Modroni, i Somaglia, i Masserati... [47] Gregorio Leti ha una romanzesca vita dell’Arese, e tra altre cose narra che un suo cameriere accumulò un tesoro col farsi dar dieci soldi da ciascuno che presentasse un memoriale pel presidente. Il Leti apre essa vita con queste frasi: — Ah! fia possibile che sia morto l’Arese! Ah Parca micidiale, chi ti diè il potere di satollarti di simili squisitezze? E vuoi poi essere chiamata Parca, se sei sì ingorda e famelica? Va, hai vinto, morte, ma la tua vittoria non ha riportato che una corona languida, frale, arida ed arsiccia, posciachè colla tua falce non hai potuto recidere quello stelo che fa rivivere immortale nel mondo la fama del presidente Bartolomeo Arese... Se i caratteri non hanno ritegno per inoltrarsi nella posterità più remota, va, io ti rendo priva di molti trofei la tua vittoria, giacchè con queste linee ti tolgo l’opimezza che speravi con questo tuo colpo». [48] Il duca di Rohan, verso il 1600, dice di Milano: _Sous cet Etat et celui de Naples, les gentilshommes ne sont point marchands, comme par tout le reste de l’Italie, et son fort somptueux en riches habillements et pour eux et pour leurs chevaux; appliquent toute leur industrie à faire quelque jour de parade et particulièrement au carneval, que leurs riches habillements suppléent au défaut de leur bonne mine, ce qui a tellement fait adonner les artisans à bien travailler, qu’ils se sont rendus excellents, chacun en leur métier, surtout ceux d’Italie; de façon que qui veut avoir de belles armes, de belle étoffe, de beaux harnais de chevaux, de toute sorte de broderie, et bref de tout ce qu’on peut souhaiter, il n’en faut point chercher ailleurs si Milan n’en fournit_. Della cittadella dice che _c’est la plus accomplie que j’aie jamais vu, n’y manquant rien, à mon jugement, sinon que la garnison n’est pas française._ [49] Varie gride. E vedi i nostri _Ragionamenti sulla storia lombarda nel secolo_ XVII. [50] «Non avendo sua eccellenza desiderato mai cosa che la quiete e sollevamento delli vassalli di questo Stato, che tanto lo meritarono per la loro fedeltà e divotione al servigio di sua maestà, e mostrando l’esperienza che la principal rovina che sentono dipende dalli eccessi e rapacità d’alcuni soldati mal disciplinati, dalle cui male attioni risulta, non solamente discredito a quelli che si contengono nell’osservanza delli ordini, ma inconvenienti, danni e molti delitti gravi ed enormi, e che la maggior parte dei disordini procedono dal mal esempio, negligenza, tolleranza, dissimulazione dei capitani...» Grida 4 marzo 1637. [51] Istoria milanese in latino. All’opposto il Boccalini, nella _Pietra del Paragone politico_, loda i Milanesi «virtuosi italiani, i quali per la mirabile fecondità delli ingegni loro, nati all’invenzione di cose eleganti, da Apollo meritamente vengono chiamati _primogeniti delle lettere_». [52] In tempo di simile baldoria capitò ad Acerra una compagnia di commedianti, e subito fu presa a motti dai vendemmiatori; quelli risposero, ma furono sopraffatti dalle arguzie d’un Puccio d’Aniello. Laonde quei commedianti proposero a costui d’entrare nella loro banda, ed egli colle buffonerie sue traeva gran gente ai loro spettacoli. Morto, altri l’imitarono, e vuolsi da ciò cominciasse la maschera del Puciniello o Pulcinella. [53] _Tesoro politico_, tom. I. p. 317; CONTI, _Storia de’ suoi tempi_, lib. II. 37. [54] Dei vicerè un solo napoletano, il conte di Santa Severina; come un solo milanese governatore a Milano, il cardinale Teodoro Trivulzio. Ecco i vicerè di Napoli. 1501 Don Gonsalvo di Cordova. 7 Don Giovanni d’Aragona, conte di Ripacorsa. 9 Don Ramon di Cardona. 22 Carlo di Lannoy. 27 Don Ugo di Moncada. 28 Filiberto di Châlons, principe d’Orange. 29 Cardinale Pompeo Colonna. 32 Don Pedro Alvarez di Toledo. 53 Cardinale Pacheco. 55 Ferdinando di Toledo, duca d’Alba. 59 Don Perafan di Rivera, duca d’Alcala. 71 Cardinale Granuela. 75 Don Inigo Lopez Hurtado di Mendoza, marchese di Mondejar. 79 Don Giovanni di Zuniga, principe di Pietraporsia. 82 Don Pedro Giron, duca d’Ossuna. 86 Don Giovanni di Zuniga, conte di Miranda. 95 Don Enrico di Guzman, conte d’Olivarez. 99 Don Ferrante Ruiz di Castro, conte di Lemos. 1603 Don Giovanni Pimentel d’Herrera. 10 Don Pedro di Castro, conte di Lemos. 18 Don Pedro Tellez y Giron duca d’Osanna. 21 Cardinale Borgia di Candia. Cardinale Zapata. 22 Don Antonio di Toledo, duca d’Alba. 29 Don Ferrante Afan di Ribera, duca d’Alcala. 31 Don Emanuele di Guzman, marchese di Monterey. 37 Don Ramiro Guzman, duca di Medina las Torres. 44 Don Giovanni di Cabrera, ammiraglio di Castiglia. 46 Don Rodrigo Ponce di Leon, duca d’Arcos. 48 Don Inigo Velez, conte d’Ognate. 53 Don Garcia di Haro, conte di Castrillo. 59 Don Gaspare Bragamonte Guzman, conte di Pegnaranda. 64 Don Pasquale cardinale d’Aragona. 66 Don Pedro Antonio d’Aragona. 72 Don Antonio d’Alvarez, marchese d’Astorga. 75 Don Ferrante Fajardo, marchese di Los Velez. 83 Don Gaspare di Haro, marchese del Carpio. 87 Don Francesco Benavides, conte di Santo Stefano. 96 Don Luigi della Cerda, duca di Medina Cœli. [55] È caratteristico il bando pubblicato dal vicerè in Palermo il 28 maggio 1621: — Convenendo al servizio di sua maestà cumulare et ammassare quella maggior somma di denaro che si può dal suo real patrimonio, per soccorrere et subvenire alle urgentissime necessità che soprastano, ed alla conservazione degli Stati e dominj di sua maestà e sua real corona, per esecuzione di ordine dato per sue reali e duplicate lettere a sua eccellenza dirette, colla deliberatione, voto e consiglio del tribunale del real patrimonio, ha deliberato vendere ed alienare, cossì a tutti passati, come per termino ad redimendum, ogni giurisditione di mero e misto imperio, alta e bassa, cum gladii potestate, a tutte quelle città et università e terre del regno che la vorranno comprare; nec non vendersi a tutti e qualsivoglia signori, baroni di vassalli, feudatarj e pezzi di territorj e burgensatici etiam che dette baronie, feudi, territorj e burgensatici fossero posti e siti dentro o fora di territorj e giurisditione di università; pretende sua eccellenza vendere a tutti passati tutte quelle giurisditioni di mero e misto imperio, venditi et alienati cum certa gratia redimendi, a tutti passati absque spe redimendi; e questo per quella maggiore somma e prezzo che potrà convenire, cossì de’ contanti, come ad tempus. Per tanto in virtù del presente bando si notifica a tutte e qualsivoglia persone, officiali di università, signori, padroni di stati, di terra et habitatione, baroni e feudatarj, e qualsivoglia padroni di territorj e burgensatici, che volessero attendere alla compra del mero e misto imperio in larga forma di dette università, loro territorj, e di detti stati, baronali e feudi e loro territorii e di detti stati, baronie, feudi e loro territorj, e delli sudetti burgensatici e territorj, e che sieno situate nelli territorj delle città demaniali o di altri, habbiano e debbiano comparire nel tribunale del real patrimonio con loro memoriali oblatorj, che si accetteranno le offerte proficue al servitio di sua maestà, e che il prezzo sia parte di contanti e parte ad tempus. E di più si notifica a tutti officiali di università, e signori padroni di vassalli, feudatarj et altri, che avessero comprato mero e misto imperio con certa gratia redimendi, che vedendo quella comprare con loro memoriali oblatorj, che si accetterà l’offerta che sarà parimenti proficua per il servizio di sua maestà e della forma e maniera di sopra espressate. _Promulgetur: Corsettus F. P. — Billia Attuarius_». [56] Opera capitale è CAMILLO TUTINI, _Dell’origine e fondazione dei seggi di Napoli_. 1644. [57] Carteggio del residente del duca d’Urbino. In una grida, spesso ripetuta con qualche varietà, leggiamo: — Essendo pervenuto a nostra notizia che, per l’avidità di alcune persone poderose ed ingordigia dei venditori, il prezzo dei grani ed orzi si è alterato dal tempo della raccolta in qua a prezzi eccessivi, in grandissimo danno e pregiudizio dei poveri di tutto il regno, ecc.... e volendo rimediar come si conviene a cosa di tanto pregiudizio del regno, ecc.». [58] ZAZZERA, _Governo del duca d’Ossuna_. Perciò il Boccalini, nella _Pietra del Paragone politico_, dice che la Spagna «figurata da una potente reina, ha il corpo pieno di sanguisughe, per la maggior parte genovesi; e ve ne sono di quelle grosse come anguille di Comacchio». [59] Il residente del granduca scriveva al 27 luglio 1606: — Qui si sta senza pane e senza vino, con imposizione di nuove gabelle». 5 settembre 1606: — Qui si contano li homini per quartieri e per le case; e si sta in tanta necessità, che danno cinque tornesi di pane per bocca; e chi ne vuol più, ha da comprarse lo pane fatto fare per forestieri, che è piccolissimo». 23 aprile 1607. — La carestia è per lo Regno tanto grande, che vengono le comunità insieme in Napoli, e vanno gridando per la città pane. Ed è calata tanta poveraglia, che piaccia al Signore che questa città non si appesti, perchè le genti muoiono per le strade». 10 marzo 1609. — Per beneficio di questa città si erano messe gabelle sopra ogni sorta di legno e legnami, e sopra ogni sorta di corami, con mira di vedere di poter rimediare in qualche parte tanto debito. Ma questo popolaccio di Napoli, non potendo comportare questa repentina novità, è stato per farne tumulto». Francesco Palermo pubblicò nell’_Archivio storico italiano_ una preziosa raccolta di documenti intorno alla condizione economica del Regno dal 1522 al 1647. In lettere del residente in Napoli pel duca d’Urbino leggiamo: 31 dicembre 1611. — Il signor conte (di Lemos) ha con dolce maniera indotti i trattenuti a sottoscriversi di restar contenti di sei mesate del loro soldo, facendo dire che non forza nessuno, ma che mirerà con buon occhio quelli che lo faranno, e gli altri no; e che gli uni saranno nell’avvenire ben pagati, e gli altri male. Così tutti corrono a gara a far quello che sua eccellenza desidera, e vi è chi perde tre o quattromila ducati, che non ha altrettanto al mondo». 17 luglio 1621. — Qua la moneta è tanto scarsa, che ogni mille ducati non sono scudi quattrocento d’argento, per esser moneta piccola, tagliata e falsa: e così non potendo nè avendo modo il creditore dove investire detta moneta, s’induce a calare a sei ed a sei e mezzo per cento». 4 febbrajo 1622. — La confusione e danno incredibile che tuttavia si va augumentando in questa città e in tutto il regno per cagione di queste zanette da cinque grani, infamissime e vituperose, non si può esprimere. Basta solo a dire che è difficilissimo il poter trovare da vivere con questa sorta di moneta, e d’altre non se ne vedono: e se dura niente più, si morranno le genti di necessità, sendo la roba rincarita eccessivamente tutta, e quel che è peggio, non se ne può avere». [60] Così dice la Relazione elzeviriana che enumera le seguenti torri del littorale: In Terra di Lavoro 32 Nel Principato citeriore 69 Nella Basilicata 7 Nella Calabria citeriore 27 Nella Calabria ulteriore 50 In Terra d’Otranto 65 In Terra di Bari 16 Nell’Abruzzo citeriore 7 Nell’Abruzzo ulteriore 6 Nella Capitanata 22 Essa Relazione dà che il Napoletano rendeva due milioni cinquecentomila ducati, compresovi un milione ducentomila che il popolo dà al re ogni due anni a titolo di donativo, e trentun grano che paga ogni fuoco per gli alloggi, e sette grani pei custodi delle torri marittime, e nove per la manutenzione delle strade, e cinque pei bargelli di campagna; ma la rendita basta appena alle spese. [61] GIULIO CESARE CAPACCIO, _Il forestiere_. Napoli 1634. [62] GUERRA e BUCCA, _Diurnali_. [63] Lib. XXXIII. c. 4. Della condizione delle Due Sicilie ben informa Federico Badoero nella relazione che, reduce dall’ambasceria a Carlo V, nel 1557 fece al senato veneto (_Relazione d’ambasciadori veneti_, vol. III, serie 1ª). Ne scerremo pochi passi caratteristici: — È il regno di Napoli reputato il primo del mondo per fertilità, considerata la quantità e la qualità delle cose che vi nascono. Di grani ne vengono in Venezia, e ne vanno in Genova e Toscana. Ha animali assai, ogni sorta di frutti, di mandorle, noci ed aranci, de’ quali ne vanno in Barberia ed Alessandria, e ne vengono in Venezia in gran copia. Di zafferani ne manda per tutta Italia e Germania per più di centomila scudi, e Roma suol ricevere dal regno gran parte del suo alimento. Di olio ne spedisce un milion d’oro in diverse parti, e sete a Genova, Lucca e Milano, e così bambage, lana, galla e comini. Tutti li luoghi del regno tra città, terre, castelli, borghi e villaggi sono duemila seicento in circa. Quelli che hanno nome di città sono più di cento, ma da Capua, Gaeta, Otranto e Cosenza in fuora, sono tutte di cattive abitazioni, sporche e piene di gente vile: ma si vedono in Napoli raccolte tutte le belle parti che potriano adornare molte di loro, la quale abbonda di tutte le cose necessarie al vivere, ed è piena d’ogni sorta d’artefici e mercanti; ha eziandio un deposito di trecentomila scudi per le occorrenze della difesa del regno, de’ quali tengono li deputati una chiave e un’altra il vicerè. Vi è numero assai di gente da prender l’armi; tutti i tribunali di giustizia sono in essa; vi si vive religiosamente, e vi si trovano persone assai divote, specialmente le grandi, le quali fanno molte elemosine e altre opere piissime. Tuttavia è quello il peggior regno del mondo per uomini di cattiva vita, i quali pare che da natura nascano inclinati ad ogni tristizia. Sono molto audaci e dediti alla lussuria, e le donne quasi tutte meretrici. Fanno spese magnifiche nel vestire, ma stanno in casa vilissimamente. Sono ambiziosi e presuntuosi, desiderosissimi di vendicarsi, adulatori grandissimi e loquacissimi, bugiardi, e par loro che l’osservare sia paura, e di tutte le cose si burla questa pessima generazione. Al governo delle cose famigliari sì gli uomini come le donne bene attendono, e vagliono assai, e sono atti a’ negozj per l’acuto ingegno che hanno. Si dilettano di lettere, e massimamente di poesia, e fanno professione sopra ogni altra cosa dell’armi. Le donne sono di maniere assai graziose, ed esse e gli uomini di bella forma, e vivono comunemente fino a sessant’anni; la loro complessione è sanguigna e collerica. Gli abitanti del regno si sono trovati essere due milioni cinquecentomila e trecento... Uomini d’arme mille quattrocento, in gran parte gentiluomini, e tutti di bella e buona complessione di corpo, di cuor grande e d’intelligenza e valore. Hanno fatto prova nelle guerre di Piemonte, Toscana e Germania, e tutte le compagnie si trovano benissimo armate, e molto meglio fornite di cavalli, perchè vi sono delle razze assai, e ben tenute da’ contadini e signori; e di quella del re, che è numerosissima di giumente, se ne prevagliono a conto delle loro paghe. Sono per lo più li cavalli napolitani di mediocre vita, non vaghi come li giannetti, ma più belli che li frisoni, forti e coraggiosi; ed usano di armarli in guerra di pettorale e frontale. I cavalleggieri sono ordinariamente duecento delle qualità predette; vi è poi una compagnia di cento gentiluomini, la metà italiani, e l’altra metà spagnuoli, chiamati li Continui, anticamente deputati a far la guardia al re, e il pagamento di ciascuno è di centocinquanta ducati all’anno e trentasei per le tasse. «Di gente a piedi si potrebbero fare ventimila fanti, ma farebbe bisogno trovare tutte le sorta d’arme per ciascuno, essendo loro vietato il tenerne; e se verso sua maestà fossero amorevoli, se ne potrebbero mettere tanti insieme, che le genti del papa con quelle del re di Francia e un terzo appresso non sarebbero bastanti a fermar il piede in niuna parte di esso regno; e li fuorusciti e quelli che vanno fuori per elezione, che ve ne sono sempre tra due e tremila, servendo chi il suo re, chi quello di Francia e altri, fanno riuscita di valorosi soldati. «Di galere ne tiene ordinariamente esso regno cinque, ma fino a venti si stima che ne potrebbe fare, ma di qualità piuttosto inferiori che pari a quelle di Sicilia... «L’entrate ordinarie di sua maestà da fuoghi, dogane, gabelle, dazj e tratte di varie cose, sono di ducati intorno ad un milione, e li donativi ogni due o tre anni, ora di seicento, ora di ottocentomila ducati, ma delle ordinarie ne ha già sua maestà impegnato per cinquecentomila ducati. «De’ signori temporali, i principi sono tredici, i quali hanno di rendita da sedici fino a quarantacinquemila ducati; li duchi sono ventiquattro, con rendita fino a ventiseimila ducati; i marchesi venticinque con rendita da quattro a ottomila; li conti novanta, de’ quali alcuni ne hanno duemila, alcuni mille, ed altri soli cinquecento ducati; e i baroni sono presso a ottocento; onde l’entrata di tutti insieme può ascendere sino a un milione e mezzo d’oro; e quella delle terre franche è così picciola cosa, che non accade farne menzione alcuna. «Quanto all’animo de’ sudditi verso sua maestà, si può dire che il maggior numero di essi abbiano lui e tutta la nazione spagnuola in odio, parte come parenti di tanti fuorusciti, parte come quelli che si vedono privi di molti e diversi gradi ed utili, che per privilegio del regno dovevano esser dati loro, e non a’ Spagnuoli. Li ben disposti sono quelli che hanno avuto beni dei fuorusciti, e che per dubbio di perderli sostengono le parti di sua maestà regia. Ma in generale quei popoli che hanno l’umore non più inclinato a’ Francesi che a’ Spagnuoli, non l’amano, per le tante e continue gravezze che sono costretti a pagare, e per la loro naturale disposizione, che è di esser più desiderosi di novità che d’altri del mondo. L’obbligo poi de’ signori è di servire con la persona quando il regno viene assaltato; ma alle volte hanno usato di pagare fino a centocinquantamila scudi tra tutti per non andare ecc.». Altri ragguagli si raccolgono dall’informazione di Michele Suriano al 1559: — Non si può immaginare alcuna via da cavar denari da’ popoli, che non sia in uso in quel regno. Onde i regnicoli per la maggior parte sono falliti e disperati, e molti si mettono alla strada per non avere altro modo di vivere; onde nasce tanto numero di ladroni e fuorusciti, che non ne sono altrettanti in tutto il resto d’Italia. La causa di così grande strettezza è notissima, che l’entrate del regno sono vendute ed impegnate per la maggior parte, e la spesa non si sminuisce, ma s’accresce degl’interessi aggiunti, ed oltre di questo dagli accidenti straordinarj, che hanno bisogno di provvisioni estraordinarie, come l’anno del 1557, che il regno fu assaltato da’ Francesi... «La spesa dannosa è quella di tante fortezze che non sono manco di venti o venticinque per il regno, e se n’aggiunge ogni dì qualcuna per appetito delli vicerè, li quali per accomodare alcun suo creato trovano un sito, e principiano a fortificarlo per mettere costui alla custodia con una compagnia di fanti con quattrocento o cinquecento ducati di provvisione all’anno; il che è causa di molti danni, perchè le fortezze non si forniscono, e restano imperfette ed in pericolo d’esser occupate e tenute dalli nemici, o se pur si forniscono, hanno bisogno di molta spesa e di molta gente, e di molti capi per custodirle. «Nelli capi v’è questa difficoltà, che un solo che sia di poco valore o di poca fede, tradendo la sua patria, può mettere in confusione tutto il regno. Ma nelle genti ve ne sono due: l’una in tempo di pace, che per guardar tanti luoghi bisogna mezzo un esercito; l’altra in tempo di guerra o di sospetto: che se la provvisione che si fa nel regno si parte per le fortezze, si perde la campagna, e se si sta in campagna, si perdono le fortezze, perchè non si può sapere il disegno de’ nemici, e non si può esser in tempo a soccorrerle da ogni parte; e provvedere per le fortezze e per la campagna è impossibile... «Dell’animo dei popoli mi basterà dire quello che è solito dirsi de’ Napoletani, che ogni governo li sazia ed ogni stato li rincresce; e benchè le cose siano ridotte in termine che la corona di Spagna, per un continuato possesso di tanti anni e per la grandezza della sua fortuna, ha spente tutte le passioni antiche del regno... però il re presente non sarà sicuro della volontà di quei popoli, quando avesse qualche sinistra fortuna o in Italia o in altre parti. E tanto più quanto li baroni e li privati sono malcontenti; questi per le troppe gravezze, e quelli per la poca stima che è fatta di loro, ed universalmente tutti per molti difetti che sono in quel governo, che sono tre specialmente. L’uno è, che sua maestà tiene quel regno in forza, perchè dubitando dell’animo de’ regnicoli vuole avervi sempre una guardia di Spagnuoli; e sebbene si tollera il tener con forza esterna li Stati che s’acquistano di nuovo, però in un regno antiquato nella Casa e fatto già ereditario, le forze forestiere sono più per afflizione de’ popoli che per custodia del regno. Il secondo difetto è che le utilità e onori del regno, che dovrebbero essere distribuiti fra li regnicoli, si danno per l’ordinario a Spagnuoli ed a Giannizzeri, che così chiamano quelli nati di sangue misto di Spagnuoli e di quelli del regno; onde li regnicoli non possono sperare per alcuna via d’aver gradi nelle loro patria nè appresso il loro principe, e tutti quei popoli premono in questo più che altra nazione del mondo. Il terzo difetto è nelle cose della giustizia, la quale è eseguita in quel regno senza far differenza alcuna fra nobili e ignobili; e sebbene nel viver politico la giustizia distributiva vuol esser regolata con proporzione geometrica, che è secondo la qualità delle persone, altrimenti non è giustizia (come si vede che la pena dell’infamia è ad un ignobile poca, e ad un nobile grandissima), però quei ministri procedono nelli meriti e demeriti, nelli favori e disfavori de’ nobili ed ignobili con un’istessa misura, non avendo considerazione alla diversità che ha messa fra questi e quelli la natura e la fortuna, che non si può mutare chi non muta la natura e i costumi di tutto il mondo. Di qui nasce che li nobili si disperano, vedendosi abbassati al pari di quelli che gli sono inferiori; e gl’ignobili, per essere trattati come nobili, diventano insolenti e presuntuosi. Tutti questi rispetti, e altri che lascio per brevità, fanno stare quei popoli malcontenti in modo, che sarebbe pericolo che in qualche occasione che si appresentasse fossero facili a mutar principe, credendo di mutare fortuna; sebbene hanno provato molte volte, che quel male è come la febbre d’un infermo, che per cambiarsi di un letto in un altro e d’una camera in un’altra, non per questo l’abbandona, ma la porta seco in ogni luogo. «Ma li Siciliani non hanno causa di desiderare mutazion di stato se non fosse per le parzialità che sono fra loro; le quali sebbene don Ferrante Gonzaga ed altri vicerè hanno cercato di comporre, non hanno mai potuto far tanto che basti, perchè la discordia invecchiata è come un’infermità velenosa sparsa per tutto il corpo, che sebbene per forza di medicine ed empiastri si mitiga da una parte, però dà fuori dall’altra, e da quella dove manco s’aspetta; e le discordie fra cittadini, massime quelle fra nobili e plebei, hanno sempre causato grandissimi danni nelle città e nei regni. Per questo pericolo fu già consigliato l’imperatore a fare una fortezza in Palermo per tener in freno quella città, la quale per essere grossissima, e piena di baroni e signori e principali capi di quel regno, è seguitata nelle azioni sue o buone o cattive da tutto il resto dell’isola ecc.». [64] Come di tutte le cospirazioni fallite, si disputò se realmente sussistesse. Il Botta non fa che copiare elegantemente il Giannone, il quale copiò materialmente il Parrino. Guglielmo Libri, nell’_Histoire des mathématiques_, vol. IV. p. 151, asserisce che _il est difficile de ne pas voir en Campanella un martyr de l’indépendance italienne!_ Del Campanella come filosofo e politico parliamo a disteso nel Cap. CLVIII. Ma qui serve mostrare con qual politica egli insegnava alla Spagna a farsi forte nella penisola. — Quella parte d’Italia che da’ suoi principi è retta, è istigata all’odio degli Spagnuoli; però essa in due cose minaccia il re: l’una è con chiamare Francesi in sullo Stato di Milano, al che il re può provvedere col presidiar bene i confini, e levar via li villaggi senza mura, che sono preda delle prime scorrerie, e far che, all’usanza di Ungheria, tutti i beni stieno nelle città, e gli armamenti dell’armi meccaniche ancora. Genova è opportunissima per soccorrere, e Napoli ancora quando il re facesse un’armata, perchè il signor del mare sempre della terra fu signore, che quando li piace sbarca le sue forze osservando il tempo e il luogo. Ma neanco i Franzesi possono senza chiamata. Onde, per meglio ovviare, deve il re tenere confederazioni con Svizzeri e Grisoni suoi convicini e pagare trentamila di quelli ordinariamente con mezza paga, come fanno i Veneziani, e al bisogno opponerli ad ogni possanza. E acciò che moltiplicando tali popoli non invadino sopra il ducato di Milano, come hanno fatto al tempo de’ Romani, è bene disgiungerli spesso in Fiandra e nel Mondo Nuovo ed in Napoli. Certo, se questi popoli s’accordassero, l’Italia sarebbe loro; ma mentre servono a diversi re e repubbliche, come hanno cominciato, mai non si uniranno in moltitudine contro l’Italia; e perciò bisogna cautelarsi con tenerne assai di loro. L’altra minaccia d’Italia è l’unirsi col papa e Francia a danno di Spagna; ma questa cosa è delusa se il re vuole; imperocchè nessuno di loro si fida solo far questo, senza il papa e Francia, poichè a mantenersi appena bastano, e non cercano acquistare se non per qualche gran rivoluzione, come fecero i Veneziani a tempo delle guerre papali con gl’Imperiali, e nel passaggio d’Oltramontani. Dunque se il re col papa s’accosta, mai può temere; perchè nessun regno d’Italia senza suo volere mai si mutò, e tutte le mutazioni di Napoli egli le fece. E se il papa vuole contro qualche duca o repubblica d’Italia armarsi, subito vince, quando usa tutti i rimedj, cioè bandire l’indulgenze contra, e assolvere i vassalli dal giuramento, e chiamare a danno loro altri, come fece Giulio II quando scomunicò i Veneziani e perdettero ogni cosa. Or ceda il re al papa anche l’_Exequatur_, e gli doni l’autorità dell’ultima appellazione, che due vescovi col re, come clerico, siano giudici d’ogni appellazione, secondo che fece Costantino, e faccia patto col papa che gli altri, i quali non cedano, perdano lo Stato. Perchè se gl’Italiani signori alcuni o tutti cederanno, il re, come vindice delle giurisdizioni papali, con crociate ed altre forze del papa, ad uno ad uno gli abbasserà tutti sotto il suo dominio; e mentre cede al papa guadagna l’animo e le forze sue, e delli principi italiani le forze. Questo si può fare al tempo suo; ma stando le cose come oggi stanno, deve sforzarsi il re di tenerli disuniti servendosi di Parma o d’altri, e gli altri curando, chiamando i Veneziani padri dell’Italia per onorarli, e chiedendo loro alcuni giudici nobili per mandarli al governo di Fiandra, perchè quei popoli più si confanno con li Italiani, massime con Veneziani, e gli deve premiare di qualche baronia, già assicurato che essi sono giusti e magnanimi, e deve procurar anche che gli Olandesi piglino legge da Venezia. Ma se si potesse con tal arte indurre i Veneziani alle mercanzie del Mondo Nuovo, levandoli quelle d’Alessandria e Soria per il mar Rosso con le navi portoghesi, sarebbe un insignorirsi di Venezia come di Genova. Però per assicurarsi da’ Veneziani, non solo è buona l’armata che corseggi l’Italia, ma le forze dell’arciduca di Gratz ancora, e de’ Grigioni loro confini, servendosi di quelli in guerra con suo utile e paura de’ Veneziani. Da Toscana poi e Venezia deve il re ricettare tutti li banditi, e servirsi di loro in guerra e remunerarli perchè chiamino gli altri, e gli abbia opportuni contro la patria loro, come spesso fece il duca di Milano e il re di Francia coi fuorusciti genovesi e fiorentini. Onde oggi li Piccolomini e li Strozzi insieme con Don Pedro de’ Medici sarebbono di gran paura al granduca di Fiorenza. Ma se il re ha caro di fare che si disuniscano, non faccia paura a loro, poichè la paura di Spagna mantiene l’Italia unita: però bisogna mostrare poca voglia contro di loro. Con la religione nè si devono nè possono disunire, ma con i benefizj come fu detto. Ma se un papa austriaco si facesse, sarebbe finita l’Italia. Il trattare con Genova è ottimo come fa, perchè ha Genova per suo erario, e se ne serve ad abbassare i baroni delli altri Stati per navigare. Ma se gli deve mantenere in modo che non per necessità lo servino, ma per amore. Così li debiti a loro non deve estorcere, nè terre di presidio assai deve a loro dar in pegno, che in una rivoluzione d’Italia potrebbono alzar la bandiera per Genova. Sempre dunque il re avrà l’occhio fisso sopra queste due repubbliche floridissime, Venezia e Genova, delle quali è senza dubbio che Venezia avanza di gran lunga Genova e di stato e di grandezza: e se ne cercheremo la ragione, troveremo ciò essere avvenuto perchè i Veneziani attendono alla mercanzia libera, e si sono arricchiti mediocremente in particolare, ma infinitamente in comune, ma all’incontro i Genovesi impegnandosi affatto in cambj, hanno arricchito immoderatamente la facoltà particolare, ma impoverito altamente le entrate pubbliche. E per conto di questa diversità avrà il re diverse maniere di trattare con l’una e l’altra repubblica». _Della monarchia di Spagna_, cap. XXI. [65] Il Badoero, nella succitata relazione, dice: — Due si possono chiamare le metropoli di quel regno, Palermo e Messina, perchè nè l’imperatore nè il re hanno mai voluto decidere la precedenza tra loro, parendo che torni a maggior sicurtà ed utilità del re lasciarle in questa emulazione. Da queste due in fuori, che sono grandi e belle, dell’altre non è da farne gran stima, se ben non mancano di cose necessarie al nutrimento, ma sì d’artefici, facendo l’abbondanza i paesani negligenti, e solo li forestieri che sono andati ad abitarvi, cioè Genovesi, Fiorentini, Lucchesi, Pisani e Catalani, hanno tirato varie industrie. «Nelle cose della religione vivono quei popoli molto divotamente, ma da pochi anni in qua vi si sono scoperti dei Luterani, e l’uffizio di quell’Inquisizione è intorno ciò molto occupato, e si può senza pregiudizio de’ buoni ben affermare essere verissimo quel detto di san Paolo, che disse che tutti gl’isolani erano cattivi, ma i Siciliani pessimi; e vien giudicato che non solo niuna bontà si ritrova, ma niuna giustizia, anzi ogni tristizia. Sono audacissimi, nel mangiare parchi, e universalmente sobrj nel bere, e più che continenti nelle cose veneree, vivendo in così gran gelosia delle loro donne, che le tengono ristrette; fanno acerbissime vendette sopra chi dà loro sospezione; ma elle sono grandi meretrici con parenti e servitori. Peccano eziandio forte i Siciliani in avarizia, che con vergogna e strettezza fanno le spese per il vivere, vestire ed ornamenti di casa. Sono ancora alteri, e dove non è differenza grande di titolo, non si cedono l’uno all’altro. Sono ardenti amici e pessimi inimici, subiti ad irarsi, invidiosi, di lingua velenosa, d’intelletto secco, atti ad apprendere con facilità varie cose, e in ciascuna loro operazione usano l’astuzia. In Catania vi è uno studio di legge, ma non notabile per alcuna cosa. Vivono intorno a sessant’anni: sono di statura mediocre, bruni alquanto e di complessione caldissima... «Fa esso regno mille seicento cavalli, e potria accrescerli fino a tremila, oltre che vi stanno ordinariamente trecento alla leggiera e tre compagnie di cappelletti, e la descrizione fatta dei fanti è di diecimila; ma se ne potriano metter insieme forse altrettanti... «Di galere non si è sua maestà fin qui servita di più di dodici, ma ne potria fare sino a venti, avendo pegola, sevo, biscotto, marinarezza, ciurme e comodità di legnami dalla Calabria, e anco di maestri, i quali però sono poco intendenti e tutti pigri. Di capitani non ve n’è alcuno segnalato nè in questa milizia nè nella terrestre, e pochi ancora di piccola condizione... «Trae sua maestà d’ordinario tra le dogane di Palermo e Messina, gli uffizj di mastro secreto e portolano, decime, composizione e tesoreria ducentosessantamila scudi l’anno; e di straordinario, che è fatto ordinario, centocinquantamila scudi per tre anni, non si computando che esso regno dà dodici galere, e mantiene tremila fanti spagnuoli alla guardia de’ castelli, e che dalli ufficj ne cava sua maestà una gran somma di denarj da far ponti e pagar fabbriche ed altre cose necessarie. Occorre anco molte volte che sua maestà, non ostante esso donativo ordinario, ne dimanda un altro in essi tre anni di centomila scudi, e più o meno, secondo che giudica di poter ottenere. Trae anco dalle imposte de’ grani un anno per l’altro intorno a centomila scudi, che in tutto è oltre a mezzo milione. «Solevano i vicerè mandare centocinquantamila scudi a sua maestà ogni anno: ma ora che tutte le entrate ordinarie sono impegnate, manca il modo di pagar gl’interessi, e di ciò si lamentano assai li particolari, vedendo che vien posto il più sopra il capitale... «Essi popoli in generale non amano il re loro, e dagli effetti che fecero contro don Ugo di Moncada e altri vicerè, molti hanno fatto giudizio, che se avessero veduto presidio atto ad assicurare la loro libertà avriano mutato il governo del re e della nazione spagnuola, odiandola sommamente; ma la discordia fra Palermitani e Messinesi fa contenere ciascheduno in ufficio». [66] Gregorio, nella _Bibliotheca aragonensis_, riferisce una _Descriptio feudorum sub rege Federico_, ove si vide di quanta potenza dovean essere i feudatarj, possessori di moltissime castella ciascuno, segnatamente le famiglie Ventimiglia, Palizzi, Sclafani, Barresi, Passaneto, Chiaramonte, Montaperto, Lanza, Rubeo, Tagliavia, e tre aragonesi degli Alagona, Moncada, Peralto. Ciascun feudo abbracciava molti territorj e signorie e città, che ognuna da sè avrebbe potuto costituir un feudo: così alla contea di Modica appartenevano Modica, Ragusa, Chiaramonte, Monterosso, Scicli, Comiso, Spaccaforno, Giarratana, Biscari, Odogrillo, Dorillo ed altre terre; diciannove feudi riuniti formavano la signoria di Butera, inoltre alla camera reginale appartenevano Siracusa, Paternò, Mineo, Vizzini, Lentini, Castiglione, Francavilla, Villa Santo Stefano, Avola, Pantellari ed altri, sottoposti all’amministrazione della regina. [67] Chi desiderasse molti esempj simili, non ha che a vedere VILLABIANCA, _Sicilia nobile_, part. II. t. I. * Un rapido e succoso cenno sulle condizioni della Sicilia nel 600 può vedersi nella vita d’Ottavio d’Aragona, _Archivio storico italiano_, t. XVII. p. 25 e seg. [68] «Il granduca ed altri principi detestavano la pace d’Enrico IV con Savoja, perchè rinunziando col marchesato di Saluzzo tutte le piazze che riteneva in Italia la Francia, si portava troppo pregiudizio alla libertà d’Italia nel lasciarvi solo la grandezza spagnuola senza alcun freno che la moderasse... Tutta Italia diveniva visibilmente schiava: il conte di Fuentes piantava delle fortezze, sopra gli occhi non solo de’ Grisoni ma dei Veneziani, burlandosi della Francia: tutti li principi d’Italia sentivano bene che loro si metteva poco a poco il giogo sopra il collo, e nondimeno non ardivano mostrare d’accorgersene, veggendo che le porte erano serrate, e li passi del soccorso chiusi». _Osservazioni sopra l’Istorico politico indifferente_. [69] Ciò contraddice quel che si narrava allora, aver egli ritenuto otto mesi della paga de’ soldati, e lucrato un milione d’oro (Lettere del cardinale d’Ossat, CCLXXXIV). Don Carlos Colonna, nella _Storia della guerra di Fiandra_, lib. VIII, asserisce che, all’uscir dal governo de’ Paesi Bassi, egli ricusò i ricchi presenti fattigli dalle città, solo accettando un’impugnatura di spada, dove erano rilevate in oro le imprese di lui. In grazia del suo disinteresse il Boccalini (_Pietra del paragone politico_) fa che Apollo il riceva in Parnaso, e tenendolo in conto di «sommo amator della giustizia e capital nemico degli sgherri, della qual immondizia avea purgato lo Stato di Milano e d’essa caricato le galere di Spagna», lo costituisca in autorità di punire certi poeti satirici infamatorj, lezzo del Parnaso; ma colla _ristrettiva_ di non uscir di casa nel mese di marzo, perchè questo mese avea con esso comune il difetto «di commovere negli uomini umori perniciosissimi senza poterli risolvere». — Sappiate (dice il Torre nel _Ritratto di Milano_) che questo fonte navigò a Milano la Quiete, la quale per molti anni stettesi fuggiasca; nell’onde sue s’affogarono i malviventi; istigò coi suoi saggi umori il milanese terreno di lodevoli dipartimenti, perchè introdussesi in trionfo la Modestia; ed il Gastigo, spassionatosi di aver per famigliare l’Interesse, con egual forza maneggiava la sferza». [70] Sono, come quasi tutto ciò che precede, parole del giornale del Zazzera, adulatore dell’Ossuna in principio. Dell’Ossuna romanzò una vita Gregorio Leti. [71] Vedi tom. X, pag. 536. — Nel 1603 il nunzio a Venezia mosse querela perchè l’ambasciadore d’Inghilterra facesse tener pubbliche prediche in sua casa; veramente in inglese, ma potrebbe presto venir a farlo in italiano. La signoria rispose che essendo quel d’Inghilterra sì gran re, e di preziosa amicizia, non poteasi impedire al suo ministro l’esercizio del proprio culto; però sarebbe pregato di non ammettervi stranieri. WICQUEFORT, _L’ambassadeur_, 416. Questo dice che la _République de Venise est admirable en toute sa conduite et en toutes ses maximes_. [72] Giambattista Patavino secretario fece due comunicazioni in senato sopra la congiura, il 17 maggio e il 17 ottobre 1618, donde risulta che il Toledo doveva contemporaneamente sorprendere Crema. Nel _comunicato_ 26 settembre del consiglio dei Dieci è detto: — La macchinazione fu trovata certissima, fondata nel vero, e senz’alcuna immaginabile dubitazione». Nei Dieci i consultori frà Paolo e Servilio Treo fecero le loro objezioni, vale dire le difese, a cui fu risposto, e si prese parte di far uccidere Jacques Pierre in secreto, «serbando in ciò l’istituto d’altri antichi e moderni principi contro ribelli di questa qualità, nell’estinzione de’ quali ogni celerità fu sempre stimata tarda». Si dibattè nel consiglio dei Dieci se convenisse produrre in pubblico l’informazione della congiura, e dev’essere prevalso il no, giacchè non si fece, malgrado che già l’avesse stesa frà Paolo. Il ragguaglio uffiziale più esteso è il _comunicato_ da detto consiglio ai savj del collegio dell’11 ottobre 1618, che noi riproducemmo nella _Storia universale_. Ivi Pietro Dardaino, secretario dei Dieci, conchiude: — Furono, per decreto dei Dieci, fatti morire fuori capitano, Giacpier, Langlada ed il Rossetti secretario di Giacpier. In questa città ebbero già l’ultimo supplizio Nicolò Rinaldi e li due fratelli Bulleò, ed ultimamente Giovan Berardo e Giovan Forniero; rilasciati e liberati il capitan Baldissera, Juven, Arsilia sua donna, e quattro altri tutti francesi, che erano stati retenti per il trattato di Crema. Restano altri sei o sette carcerati e indiziati, de’ quali anco seguirà tosto la espedizione. Vi sarebbe qualche altro nominato o sospetto nel processo: ma per essersi sottratti dalle forze nostre, il divenirsi ora ai proclami contra di loro merita esser considerato prima bene». Il sunnominato Quevedo ebbe mano in quell’intrigo, e ne scrisse: vedi _Lince d’Italia_. Il Daru ne tesse un romanzo di nuovo genere, supponendo Venezia d’accordo coll’Ossuna per ergerlo re di Napoli a danno di Spagna, e che scoperto avesse mandato al supplizio centinaja di persone innocenti, che poteano rivelare l’ordito. Vittorio Siri, nelle _Memorie recondite_, adduce interrogatorj e lettere relativi a quell’affare. Altri documenti molti pubblicò il Tiepolo nelle note al Daru, ma s’appoggiava a un _Sommario della famosa congiura_, che si rinvenne nella biblioteca imperiale di Parigi, e tutto favoloso. Il Botta dice: — Più di cinquecento persone furono giustiziate, immensa carneficina, degna di un immenso tradimento». Egli il perpetuo panegirista di Venezia, sta col vulgo al romanzo di Saint-Real; ma vedasi meglio RANKE, _Ueber die Verschwörung gegen Venedig in Jahr_ 1618, Berlino 1832. Nel carteggio degli agenti del duca d’Urbino in Napoli, pubblicato nell’Archivio storico, tom. IX. 229, sotto il 14 aprile 1617 si legge: — Perchè le cose che corrono aspettano tanto o quanto a vostra altezza serenissima, ancorchè non si possino senza pericolo scrivere, non debbo tacergliele. Si armarono qui otto tra galeoni e bertoni, senza sapersi a che effetto; ma poi si è saputo dal medesimo duca d’Ossuna che si erano armati per mandarli in golfo a’ danni dei Veneziani. Per l’istesso fine se ne armarono ora altri quattro, e si è presa da sua eccellenza in prestito dalla città quell’artiglieria che si conservava in San Lorenzo. E perciocchè il papa si era alquanto risentito di tal armamento, si dice che sua eccellenza gli abbi scritto che i Veneziani meritano questo per molte loro colpe, con altre parole. Si fabbricano diece barche lunghe con la canna piana per consignar agli Uscocchi, li quali si sono dato vanto di prender Venezia e abbrugiar quell’arsenale. Agli stessi Uscocchi è stato per pubblico editto concesso scala franca per tutti i porti e per marittime di questo regno; di maniera che non mancheranno guaj per mare». E una lettera del Dolisti al duca di Toscana, 8 gennajo 1618, narra che l’Ossuna, essendo a tavola con molti baroni, si millantò che ai Veneziani _averia messo il cervello a sesto_. D’altra parte il concetto d’un accordo dell’Ossuna con Venezia apparirebbe da un colloquio avuto dal maresciallo de Lesdiguières, capo de’ Protestanti, con Angelo Contarini ambasciador veneto, il quale così lo riferiva nel dispaccio 4 gennajo 1620: — Avea io disegnato un bel colpo, l’impresa del duca d’Ossuna quando voleva impadronirsi di Napoli; io la fomentava, era io quello che suggeriva i modi per facilitarla; e se il duca di Savoja, com’io aveva consigliato, gli avesse inviato sette o ottomila fanti, e che la repubblica avesse accettato due o tre porti nell’Adriatico, come lo stesso Ossuna si era offerto di darglieli, la cosa era fatta, perchè bastava di farlo dichiarare, e tal dichiarazione era quella che metteva in sicuro il tutto, fermava la volubilità di Ossuna, confondeva gli Spagnuoli, eccitava altri spiriti, svegliava altri interessi, e ajutava mirabilmente i progressi di Alemagna». * Era allora ambasciadore presso il duca di Savoja Reniero Zen, e fece officio presso di questo affinchè esaminasse i Francesi che passassero pe’ suoi Stati, se mai fossero di quelli che aveano tramato a danno di Venezia. Nello spaccio del 5 giugno 1618 alla sua repubblica egli riferisce come il duca abbia fatto fermare alcuni Francesi in abito di pellegrini, ed esaminatili in persona: e come gli dicesse: — Questi tristi di Spagna li volevano dar alla radice: questo colpo toccava per prima alla repubblica di Venezia, ma feriva anche me; anzi faceva cascar la libertà d’Italia, perchè il colpo era nel cuore; e levando l’oro e l’arsenale, cascava in tutto e per tutto il modo di più difendersi, quando anco la città si fosse ricuperata». E soggiungeva: — Che doveria vostra serenità non solo darne conto, com’è solito, alli principi, ma pubblicarla stampata a tutto il mondo per render maggiormente esosa, come merita, quella nazione, e render cadauno cauto a ben guardarsi, ed a non creder più agli Spagnuoli: che doveriano pur li principi d’Italia ora aprir l’occhio, vedendo com’è stata sopra un sol punto la libertà loro e di tutta la provincia... Soggiungendomi: «Scriva, per l’amor di Dio, a quei signori che si guardino, perchè non è ancora cavata la radice: sono ancora in steccato ed in battaglia: hanno solo parato un colpo, e glielo ha parato Dio, ma combattono ancora: non è morto l’inimico, ma tesse trama e tramerà nuove insidie, sino alla loro e comune distruzione». Mi disse e giurò che, sotto Asti, mai volle avvelenar le acque agli Spagnuoli, sebben le fu proposto, con diverse altre cose che restò pur di fare, perchè non sono azioni di principi nè da buona guerra; ma che questo era un eccesso di malignità che quasi non si può capire: poichè, distrutto ed abbrugiato l’arsenale, cascava pur la difesa della cristianità contro gl’Infedeli, non potendosi in molti e molti anni metter insieme quelle che par che Dio abbi ivi preparato per la comune difesa. Et infine mi disse: «Signor Zeno, se quei signori non si avvantaggiano ora, e non pubblicano con termine proprio e giustificato questa scellerata operazione con tutti li particolari, due cose seguiranno: una, andranno gli Spagnuoli dicendo ch’è stata un’invenzione ch’essi v’abbiano avuto parte, ma esser opera dei malcontenti di Venezia, e cose così fatte; e già le vanno disseminando, anzi pubblicano che quelli che si fanno morire segretamente sono li nobili che vi hanno tenuto mano; che il loro ambasciadore è accarezzato, ed è stato in collegio a giustificarsi, anzi per far castigare alcuni che dicevano venir dagli Spagnuoli questa operazione... L’altra cosa è che, nutrendosi il serpe nel seno, non stimando il pericolo e non rimediandovi, voglia Dio (e qui calò sua altezza un ginocchio a terra, mirando il cielo) che non vedano la loro e la mia total jattura... Questi concetti di tenerci tutti bassi e mortificati, e per conseguenza dipendenti da loro, è dottrina in che accordano Francesi e Spagnuoli. E giacchè non si possono spartir gli Stati d’Italia, vogliono almeno spartirsi il predominio e l’arbitrio di essa...» [73] Il cardinale Bentivoglio, al 24 aprile 1619, scrive da Parigi: — Qui si conclude fra questi ministri regj che, per assicurare la quiete d’Italia, niuna cosa potrebbe essere più a proposito che di veder levato di Napoli il duca d’Ossuna, e che a questo fine potrebbero giovar molto gli officj di nostro signore fatti opportunamente; e non è dubbio ch’egli è un uomo turbolento e pieno di stravaganti capricci: e fin dal tempo che io lo conobbi in Fiandra, fu tenuto sempre in quest’opinione. Vedesi ch’egli non vuol obbedire, anzi che vuol far nascere qualche occasione necessaria di guerra, ed è stato un brutto termine quello di aver ricettato quel capo d’Uscocchi, e peggiore è quello di non voler restituire quei vascelli e robe dopo tanto tempo. Ed il male è che non si crede che questi siano suoi capricci, ma che il tutto venga di Spagna; onde le genti si disperano alfine, e se il fuoco si accende in Italia, sarà impossibile che i Francesi non s’interessino coi Veneziani e con Savoja, e che non si venga in ultimo a rompimento fra le due corone. Abbiamo l’esempio fresco dello stato in che aveva ridotte le cose di Lombardia don Pietro di Toledo con le sue stravaganze. Lamenti consimili suonano nei dispacci de’ residenti veneti. [74] I dispacci del residente a Napoli, pubblicati dal Mutinelli (_Storia Arcana_, vol. III), tolgono ogni dubbio sulle intenzioni dell’Ossuna. Uno acchiude un cartello, stato allora affisso, che può mostrare i concetti di qualche studente, come or farebbero le declamazioni di qualche giornale: «Allégrati, o nobile Italia, ed essendo stata padrona dell’universo, non ti confondi perchè, non aprendo gli occhi, sei stata tanto tempo disunita, e per questo soggetta: che ritornerai in felice stato, sarai presto repubblica unita; li tuoi Stati e regni governati dai loro naturali, pronti alla general difesa e beneficio dei loro figli; e così non ti sarà levato il sangue da stranieri nè si dirà, come si dice, che son men valorosi e savj di altre nazioni che comandano nelle lor case». [75] Carteggio ai 5 e 12 giugno 1620. Il medesimo avvenne anco al cardinale di Granuela, che «dopo d’essere stato qua per vicerè dal 1570 alcuni anni, fu licenziato, e non volendo obbedire... fu necessitato don Zunico di Mendoza che gli successe nel governo, dopo d’aver avuta gran pacenza, di venire una notte, ed entrare all’improvviso in Castelnuovo». Il giornale del Zazzera racconta le cose assai più per disteso; interessantissimo testimonio del disordine d’allora e della universale prepotenza. [76] Fatta la parte debita all’esagerazione di chi soffre, è però opportuno conoscere la supplica sporta al re di Spagna nel 1620 «intorno al miserabile e pericoloso termine, al quale si trova ridotta la città e il regno di Napoli: — I. Si è perduto il rispetto a Dio e alla religione; con aver introdotte nuove sêtte, si vive con libertà di coscienza: si procura con violenza o tema o interesse di levar l’onore alle case principali, e anco violare i monasteri di monache: si va lasciando la frequentazione dei sacramenti: nella cappella reale non si sente più messa, nè vi resta più esempio di cristianità: e non si tratta più con persona alcuna, se non con ruffiani e manigoldi. «II. Si pratica con parecchie case il _crescite_, e anche in pubblico, con scandalo universale: essendo che in mezzo del mare, e sopra li cocchi di molti, in mezzo delle strade, s’incontra la notte l’infame e infelice Dorotea, facendo cose, per rispetto delle quali tutti quanti hanno paura che si apra la terra. «III. Jer mattina, sopra il mostacchio de’ titolati e ministri per il quarto dell’udienza, entrorno due careghe (LETTIGHE) con quattro donne, e li portatori pubblicamente le serrarono nel portico con complicità e scandalo notabile: e si vocifera che adesso si fa una grotta sotto terra per andar al convento in un monasterio di monache: e quelli, i quali non vogliono lasciarsi levare l’onore, vengono perseguitati come se avessero commesso il crimenlese. «IV. Si va perdendo l’amore e il rispetto dovuto al re nostro; così per la tirannide di chi lo governa, come per quello che si dice in dispregio del suo nome reale in pubblico e tra i ministri. In particolare, un giorno ragunandosi il collaterale e la sommaria, e trattandosi della rovina e distruzione di questo regno per rispetto della libertà che si dà ai soldati, che non v’era riparo nè mezzo alcuno per rimediar a quel ramo di peste (quale è cresciuto tanto, e ogni dì va crescendo più), rispose che importava più a lui acquistarsi la benevolenza della soldatesca, per mezzo della quale egli avrebbe fatto tremare il re, e costretto fare al suo modo, che non toccava a lui la conservazione del regno di Napoli, il quale suo figlio non avea da ereditare. «V. Si piglia informazione degli uomini più ricchi e più comodi, acciò con testimonj falsi se li levi la roba: come si vede ogni dì con spavento universale di tutti, e si va cercando vanie e calunnie per opprimer quelli i quali non voglion consentire a sì fatte scelleraggini. «VI. Si fa vanto in pubblico d’aver ucciso parecchi, i quali sono stati contrarj a’ suoi umori; e in particolare d’aver fatto morire nel tempo del conte di Lemos un alfiere spagnuolo qual venne di Sicilia a Napoli: e questi giorni passati s’è trovato segato e spartito per mezzo un putto della marchesa di Campolattaro, e vassi vantando di quello come se egli avesse combattuto con il Granturco in uno steccato, per l’onore di Dio e del suo re: e ogni cosa si fa per mettere paura e spavento, e mostra ch’egli può levare la vita e la roba _impune_. «VII. Tiene il regno pieno di capitani a guerra, e ha un principe di Conca visitatore generale delle milizie e del regno di Napoli, e il marchese di Campolattaro con una compagnia di cavalli, e il marchese di Sant’Agata (che possa essere ammazzato subito!), con lettere patenti, e aperte, saccheggiando e rovinando il regno, acciò col sangue di tanti orfanelli e povere vedove e disgraziati sudditi del regno, remunerarli e resarcir l’onta e vergogna che patiscono concedendo a ciascuno di questi cento ducati di piatto ogni giorno. E quello che è peggio assai, è che hanno messo imposizioni e dazj generali di tanto aggravio, come se fossero tanti re ognuno nel suo regno: cosa che già mai il re non consentì per suo servizio senza il consenso espresso delli stessi popoli, ragunati in parlamento e assemblea generale: sicchè non si vede nè sente altro che chiamare Dio, chiedendo giustizia. «VIII. Ha sostentato una compagnia di cavalli un anno e più il marchese d’Arena con la medesima provvisione di cento ducati il dì, e di più, della contribuzione di altri mille cinquecento il mese: ed è poco tempo ch’egli l’ha riformato, e nel suo mostaccio in pubblico il disse, che sapeva benissimo che egli aveva avanzato da quarantamila ducati, e che per certi buoni rispetti era restato di gastigarlo. «IX. Tutti li governi del regno sono spartiti tra scavezzacolli, ruffiani e becchi di volontà: e perchè non bastano, ogni dì si va trovando nuovi carichi e nuove patenti; e se le università e Comuni vengono a domandar giustizia e misericordia, li fa cacciare in una galera: sicchè non v’è altra speranza di quella di Dio in poi. «X. Il patrimonio del re è in tutto e per tutto esausto e perso, sì come s’è potuto conoscere per mezzo dei bilanci mandati dalla Camera reale; e ogni dì più si va rovinando e distruggendo senza sorte nissuna di reformazione, nè speranza di rimedio: non considerando che il patrimonio che possiede sua maestà in questo regno non lo cava di miniere d’oro e d’argento, nè manco della pescaria delle perle, come quelle dell’Indie; ma che è solamente il sangue umano, qual si concede al re per sostegno della sua monarchia e del regno stesso, e non perchè si dissipi e diffonda in dissolutezze, e in offesa di Dio e di sua maestà. «XI. Si va rovinando il commercio, essendo che tutti quanti i mercanti vanno ritirando i loro effetti e mercanzie; ed escono del regno per tema della violenza che li vien fatta; massime in quest’ultimo sequestro fatto alle nazioni forestiere. «XII. S’è fatto una confusione in tutto l’ordine del governo, imperocchè non v’è uffizio che s’eserciti per la sua strada solita: e questo per cavar profitto della confusione e porre le mani in tutto, senza che se ne possa avvedere: e così vengono violate le leggi e le prammatiche a non aver più forza; eccettuate pur quelle che sono fatte subito, alle quali con violenza o ingiustizia si dà esecuzione senza il parer del collaterale o di nissun altro: e a nissuno fa grazia, meno che alla richiesta di sue favorite e altri tristi e scellerati: e non si trova più notaria di ragione, o tesoraria, o vedoria nel regno; ogni cosa resta estinta e confusa. «XIII. Li tribunali della giustizia si posson chiamare d’ingiustizia e di gravami; giacchè avendosi fatto quello sconcerto e disordine di roba, di vita e d’onore, ella si dà e si nega conforme a quello che esigano gl’interessi. Si vede venir fuora della cancelleria o notaria i più stravaganti ordini che possano immaginarsi: e come egli vede l’ingiustizia che si fa, per non esser costretto e sforzato di correggerla, tiene chiusa la porta dell’audienza; dandola solo spasseggiando e camminando quando esce per la sala da basso fino al quarto della guardia; trattando così male ognuno, che nissun uomo onorato e qualificato ardisce parlare con lui. «XIV. Si vede la nobiltà strascinata e buttata per i corridori del palazzo con un dispregio incredibile e non immaginabile; e quando sperano poter parlarli, scampa in una carega, correndo in mezzo di tutti, stimando poco ognuno: gl’infami e interessati lo comportano per suoi interessi; ma li signori onorati sono costretti di ricorrere al palazzo, e passare per tutte quelle indegnità: per che, occorrendo che quell’uomo faccia ad essi persecuzioni, chi saranno quelli che vorranno pigliare la lor protezione? «XV. È uscita dalla città la maggior parte della nobiltà, parendo ad essi con lui metter in pericolo il loro onore; non v’è mercatante che tenga in bottega cosa di momento, massime li orefici e mercanti o tessitori di tela d’oro; perchè la roba vien tolta ad essi con violenza senza mai pagar nissuno; e l’istesso vien anche praticato nelle cose del mangiare. «XVI. Non si vede in tutta la città altro che gente sollevata e ammutinata: talchè tutto il popolo ha fatto provvisione d’armi per quel che potrebbe accadere: e già s’è dato principio di rumore nel tumulto che occorse alli 3 ottobre. E di più, vedendosi levar _impune_ la roba e la vita e l’onore, peggio che disperati gridano ad alta voce, che non aspettan altro se non che alcuno si faccia capo per arristiar il restante. Che se questo accadesse (che Dio per sua bontà infinita con voglia permettere), si vedrebbe per queste strade e rughe correre il sangue (e il sangue dei più fedeli vassalli ch’abbia il re) per l’obbligo di difendere il suo capitano generale. «XVII. Si vedono spogliati d’arme tutti i castelli e frontiere del regno, e della migliore e più fiorita artiglieria che tenga monarchia; e quello per armar solamente un galeone: il quale con ogni poco di burrasca e fortuna può andar con malora, e così restar estinta la difesa e conservazione del regno. Si vede la gente per le strade col viso e la faccia per terra, lagnando e piangendo l’onore e la reputazione persa; che per tutto il mondo non si tratta d’altro che di Napoli infame, Napoli pieno d’onta e di vergogna, Napoli spedito. «XVIII. Si vede la nazione spagnuola gettata in un carrettone alla peggio e sprezzata, e non solamente trattata con parole indegne, ma con fatti, per aver bandito e confinato di lei la maggior parte, e mandato in galera un numero infinito, dandoli il titolo di traditori e marrani; e anche facendo più conto della nazione francese, stimandola e impiegandola più presto che la spagnuola, di modo che è lei adesso tanto vilipesa. E le altre volte era in bando la francese; ma ora quelli che trattano o parlano con Spagnuoli par che commettino qualche delitto. «XIX. È tale e così grande la stravaganza di questo governo, che tutti non aspettano altro che il fine di esso: e quasi la maggior parte vanno discorrendo, che disarmandosi il regno d’artiglieria, e la nazione spagnuola perdendo così la sua fama e riputazione, occorrendo che si sollevino li stranieri e sediziosi del regno e gli antichi devoti della corona di Francia, e lui parlando ad ogni ora di quello e fuora di proposito, mostra che aspiri egli stesso a farsi re del regno: ma però quella opinione già mai non ha trovato loco nell’animo mio, nè mi posso immaginare ch’egli se la pensi, non solamente per rispetto che non tiene a sua divozion le forze, ma anco perchè in tal caso il regno lo sepellirebbe sotto i sassi, e anche per la gran fedeltà che ha al suo re, e per l’odio e rabbia che ha conceputo contro di esso. Ma con tutto ciò è cosa miserabile che un vicerè d’un regno dia cagione di parlare e discorrere e anco sospettare di tai cose. «XX. In fine, si passa il tempo e tutte l’ore in offendere Iddio e il re, e procurare l’ultima rovina di questo regno: il qual si lagna, e dice isbigottito e spaventato di se stesso, che cosa abbia fatto al suo re, perchè debba comportare la sua distruzione? in che cosa abbia tralasciato di far vedere al suo re il suo amore e la sua fedeltà? se ha mai richiesta cosa importante al servizio del suo re, che non abbia concessa? non è egli stato sempre col petto aperto per difendere tutto quello che gli avanzava di sangue e di roba nel sol nome del re nostro signore? «XXI. Si legge veramente nelle antiche storie le tirannidi e casi spaventevoli di pessimo governo, come di Nerone, Vitellio e altri sì fatti; ma eglino sono stati imperatori, nè manco hanno avuto notizia di Dio, o superiorità alcuna sulla terra: ma nel tempo d’adesso, che si conosce il vero Dio, nei giorni d’un monarca così cattolico e cristiano, difensore della legge di Dio, e geloso dell’utile de’ suoi sudditi, che un ministro suddito abbia ardire di delinquere sì sfrenatamente contro il suo Dio e suo re, distruggendo il più florido regno del mondo, la pupilla degli occhi della corona di Spagna, gran miseria, gran calamità, grande infelicità, e caso lamentevole! «XXII. Tutti lo sanno, tutti non trattano d’altro: ma non basta l’animo a nessuno di pensare, non che di domandare o ricercar il rimedio da sua maestà, per paura che quello venghi all’orecchio di questo tiranno, e non si faccia di loro strazio; e così solamente dalla mano di Dio s’aspetta che ispiri a sua maestà, che con la sua mano poderosa e reale vi apporti presto rimedio. «XXIII. Questo rappresento per compire con vostra maestà quello che deve un vero e fedel suddito, conforme all’obbligo che conviene, non stimando il pericolo nel quale egli s’espone, caso che si sapesse. Mandi sua maestà ad informarsi di tutto questo per ministro non appassionato e manco dipendente, ma geloso della sua santa intenzione; che troverà che quanto si dice qui non son menuaglie e bagatelle, rispetto a quello che ogni momento si va commettendo e aumentando in disservizio di Dio e di sua maestà». Quando poi l’Ossuna fu scambiato, vennero spediti alla Corte i seguenti carichi; esagerati certo quanto i precedenti, ma che mostrano quanto potesse un di questi vicerè: «I. Contro la volontà di sua maestà, ha tenuto nel regno di Napoli e città molta quantità di soldati, li quali per li loro mali portamenti hanno messo a perdere tutto il regno; sopportava che facessero latrocinj, omicidj, adulterj e stupri notabili; s’alcuni si querelavano, quelli non gastigava, ma essi maltrattava, con minacce di galere, fruste e altri gastighi. «II. Ha posto il patrimonio reale in destruzione, e il patrimonio della città, con aver levato li dritti perchè non pagassero. «III. Inviava le compagnie de’ soldati alli alloggiamenti nei luoghi del regno; e i poveri volendosi liberare da questi aggravj, andavano dalla sua amica; la quale per li doni otteneva levarsi detti soldati, e li mettevano in altre parti; le quali, per levarsi da questi travagli, facevano il medesimo: e di questa maniera devastava tutto il regno. «IV. Ha inventato a molti vassalli di sua maestà molti delitti enormi; e questo perchè avessero paura che il detto duca li mandasse a giustiziare corporalmente; e con questa taccia faceva in maniera che si componevano, e pagavano molta somma di denari per liberarsi da questo travaglio: e se alcuni procuravano di mostrare la loro innocenza, e altri che non hanno avuto tanta comodità, li ha fatti morire senza processare, a modo di guerra... «VI. Quando don Gabriel Sanchez cappellano maggiore rinunziò la cappellania, gli disse che non faria mutazione, perchè egli non avea da udir messa nè altri uffizj divini: dal che si crede per certo che non creda in Dio; così per non lo aver visto mai confessare nè comunicare. «VII. Levò dalla chiesa dell’Annunziata la custodia del santissimo sacramento, e la tenne per sè senza averla pagata. «VIII-XI. _Molte disonestà._ «XII. Passando per Santa Lucia entrò in una carrozza con Giovanna Maria, donna pubblica; e ambidue passeggiavano in presenza di molte persone onorate. «XIII. Ha tenuto sempre seco un Moro, il quale aveva comunicazione con il Turco; e molte volte condusse al detto regno molte persone turche, che tenevano molta comunicazione con lui. «XIV. Essendo una gran lite tra il principe Scilla e quel di Andria, in Santa Chiara volse per forza che si componessero, contro li termini di giustizia. «XV. Fece eletto un Giulio Genuino, con il quale si era accordato ch’aveva da convocare il popolo contro i nobili: ed egli per questo ordine fece molte sedizioni e delitti. «XVI. Con questo concerto andava per la città di Napoli animando il popolo che il chiamassero signore e padrone; e per riuscire con questo, andava dando denari. «XVII. Così medesimamente andava persuadendo il popolo, che facesse uscire della città le persone che li volevano contraddire, perchè avevano da procurare che non tenessero soccorso per vendicarsi di quelli. «XVIII. In confirmazione che non credeva in Dio, stando alla messa, nel tempo che alzavano il santissimo corpo di Gesù Cristo, mirava un doblone d oro che aveva nella mano. «XIX. Ebbe un figliuolo da una Turca, il quale morì nel palazzo, e non volse che ’l battezzassero; oprò che facessero con esso le cerimonie maomettane; e tenendolo sopra la terra con lampade accese, il fece adorare; il portarono alla casa della Mecca, e mandò due lampade che ardessero avanti il cancarone di Maometto; e il Turco li scrisse aggradimenti... «XXI. Procurò, per mezzo di Camillo della Marra, la firma in bianco di molti cavalieri di titolo, come essi hanno dichiarato. «XXII. Per mezzo del detto Camillo prese molta quantità di denari dalla dogana, per modo di donazione; e in questo furono complici molti Napoletani. Di tutto vi sono bastanti informazioni e d’altri carichi disonestissimi, che per essere tanti non si dicono qui». L’ambasciadore di Firenze a Napoli scriveva al granduca il 20 settembre 1622: — Fra le robe che sono in vendita del duca d’Ossuna, è una carrozza, di fuora di velluto piano nero, di dentro di tela d’oro, e guarnita tutta d’argento, con le colonne di argento, e altri ornamenti nobilissimi. Onde sarebbe questa occasione di fare una bella spesa, e di cavare di qua effetti non solamente senza danno, ma con utile; poichè quest’argento, che è di lega solita di Napoli, non ne domandano più di ducati undici la libbra, che costà presuppongo che deva valere l’istesso o più; e tanto sento se ne caverebbe anche in Roma, dove tratta di fare questa spesa il contestabile Colonna, sebbene non è per concludere così presto. E la tela d’oro, il velluto con tutti i guarnimenti, rispetto a quello che costorno, si arebbero per pochissimo, e l’argento solo arriva a libbre dugento; sì che fo conto che con scudi due mila o poco più si arebbe quello che non è fatto nè si farebbe nè con tre nè con quattromila. È cosa invero tanto bella, che se ne può onorare un re, e pochissime volte è adoperata; ed alla peggio, con disfarla si caverebbe costà del peso dell’argento quasi l’istesso che si spende, e verrebbe estratto quest’effetto senz’il danno del cambio. Se bene la cosa è tanto bella, che son sicuro che dopo vista non si penserebbe a disfarla; e però ho voluto proporla a vostra signoria illustrissima per in caso che sua altezza o il signor cardinale avessero gusto d’attenderci». [77] Vedi DARU, _Storia di Venezia_, libro XXXI in fine. [78] Carteggio del residente d’Urbino, nell’_Archivio storico_. [79] Ivi, 28 gennajo 1623. [80] Carteggio suddetto, al 29 aprile 1622. E il Giannone, al lib. XXXV. 5, scrive: — La _vil plebe_ che vuol satollarsi, nè sapere d’inclemenza de’ cieli o sterilità della terra, _vedendosi mancar il pane_, cominciò a tumultuare e a _perder il rispetto_ ai ministri che presiedevano all’annona». E più avanti egli nota di questo lazzaro che avvicinatosi al cocchio del Zappata con una pagnotta, gli disse: — Veda, eccellenza, che pane ne fa mangiare». E perchè il cardinale sorrise, il vulgo _temerariamente_ gli disse in faccia: — Non bisogna riderne, eccellenza, quando è cosa da lagrimare», seguitando a dir altre parole _piene di contumelie_. Eccovi, o lettori popolo, il liberalismo del secolo passato. [81] Nativo di Napoli. Vedi VOLPICELLA, _Della patria e famiglia di Tommaso Aniello_. [82] È in ventitre articoli, e cinque d’aggiunta, e trovasi nel LUNIG, tom. II. p. 1368. Fra gli altri v’è la promessa di abolire le gabelle _che non fossero state vendute_. Ora tutte quante erano vendute. [83] Gli storici parziali videro pazzia dov’era tutt’altro. Per esempio, Tommaso De Santis racconta che Masaniello gridava al popolo, — Non sarai sicuro finchè tu non faccia un ponte da Napoli a Spagna per farti intendere da sua maestà»; ed ecco il Capecelatro reca come sintomo della pazzia di lui che avesse divisato far un ponte da Napoli a Spagna. Le migliori storie contemporanee sono quelle del Turri, del De Santis, e la _Partenope liberata_ del dottor Donzelli, gran partigiano di Masaniello. Il conte di Modéne francese, compagno del duca di Guisa, scrisse Memorie, ristampate il 1826 a Parigi dal marchese Fortia, che vi appose il catalogo ragionato di tutte le opere relative al tumulto di Masaniello, e che sono cinquantotto in italiano, in francese, in inglese, in spagnuolo, in tedesco. Dopo d’allora furono stampate parecchie scritture in tal proposito, fra cui il _Diario di Francesco Capecelatro contenente la storia degli anni_ 1647-1650, Napoli 1850, con ricchissime note del marchese Angelo Granito. Un esame degli storici napoletani di questo tempo fu fatto da Alfredo di Reumont al fine della sua opera _Die Carafa von Maddaloni_, Berlino 1851. Altri ne fecero soggetto di dissertazioni erudite, di storie passionate, perchè allusive; fra cui citeremo _Insurrection de Naples en 1647 par le due de Rivas, traduit de l’espagnol et précédé d’une introduction par le baron Léon d’Hervey Saint-Denys_, Parigi 1849. Nelle migliaja di carte stampatesi e nelle assai più ancora inedite trovansi molti spagnolismi, frequenti goffaggini e stile curiale, ma pochissime delle metafore scientifiche. [84] Credo alluda a questo fatto il Colletta, ove dà come positivo e di tempi ordinarj e per semplice litigio quella baja vulgare delle teste di ventiquattro cattolici, fatte mettere dal Nardo sugli stalli del coro. [85] Grida del 24 luglio 47 del duca d’Arcos: — Ancorchè per altro banno de’ 22 del corrente, de ordine nostro pubblicato, si è proibito di non possersi bruciare case nè robe in questa fedelissima città, suoi borghi e casali; con tutto ciò intendendo che alcune persone poco amorevoli della quiete pubblica, per aver occasione di rubare, procurano sotto varj pretesti sollevare questo fedelissimo popolo, e perturbarlo per indurlo a far bruciare le case de’ cittadini, ecc.». [86] Come testimonio delle impressioni del momento è curiosa una delle molte lettere del gesuita Magnati al cardinale Brancaccio, il 12 ottobre 1647; — Non scrissi a vostra signoria le successioni, stante l’imbecillità dell’animo mio, non avendo a parteciparle che sangue, fuoco, orrori, paventi, stragi e morti. Più mostruosi successi non credo che sieno seguiti giammai nè in questa città nè altrove». E qui divisa il tentativo di don Giovanni di far disarmare il popolo, poi gli assalti dati alle barricate: «E benchè l’esperienza militare degli Spagnuoli eccedesse quella dei popolani, prevalsero con tutto ciò sempre il valore e la bravura di questi. Supponevano gli Spagnuoli di debellare tutto questo popolo con le minaccie, ma non poterono che occupare una parte della città per via d’intelligenze coi capi, e si combattè accanito... Fecero i popolani istanza a sua altezza di tre giorni di tregua; nè volendogliela dare, seguitarono intrepidamente a combattere. Ma vedendo sua altezza il giorno seguente andar le cose di male in peggio, fece pubblicare bando, nel quale concedeva il perdono a tutti, purchè si fosse desistito dalla pugna, e che si fossero deposte le armi. Gli fu risposto che non si curavano di perdono, anzi che bramavano la guerra, la quale gliel’intimavano per dodici anni... Cominciò a sentirsi una gran carestia, sicchè la povertà moriva di fame, e non si parla che di uccisioni, non si discorre che di esterminj ecc. Sono indicibili le continue scaramuccie seguìte giorno e notte, non avendo gli Spagnuoli potuto avanzare un palmo di terreno... Con tutta la loro armata e la loro potenza, non sono stati bastevoli a resistere, non che a superare la forza e costanza di questi popoli... Mentre ondeggiava la certezza, si vide in un batter d’occhio da quei popoli di Porto gettar dalle finestre e case infinita quantità di legni, materassi e tavole a terra; ed alzando in faccia a Castelnovo una grossa trincea con due buoni pezzi, attesero a difendersi con più sicurezza. E benchè dal castello si procurasse impedirli con il cannone, non fu possibile che quelli volessero desistere da porla in perfezione come ferono. Lascio di suggerirle le continue cannonate, che avrebbero di sicuro spaventato il mondo non che il popolo, il quale è risoluto piuttosto morire che rendersi. Il padre Lanfranchi teatino, che si è interposto per qualche aggiustamento, ha giurato di non aver veduto mai animi così risoluti come questi del popolo, il quale per accordarsi domanda partiti esorbitanti: che il popolo non voleva fare più capitolazioni, ma che facendole li Spagnuoli, le avrebbe sottoscritte: quando che no, non pretendevano altro se non che gli Spagnuoli deponessero le armi in mano loro, e gli dassero in poter loro tutti tre i castelli; che avrebbero poi aggiustato il rimanente». [87] Il Guisa nelle sue _Memorie_ racconta, nel solito tono di fanfara, le accoglienze fattegli a Napoli: — Sul fine della messa, il cognato di Gennaro Anesio venne farmi complimento da sua parte, e scusa se non veniva a ricevermi, non credendosi sicuro fuor della torre del Carmine, dove m’aspettava colla massima impazienza. V’andai difilato, e lo trovai s’un terrazzino davanti al suo alloggio, ove con un arruffato complimento mi mostrò la gioja del vedermi, per quanto l’ignoranza e l’incapacità gliel permettevano. È un piccinaccolo, grosso, bruno, occhi affossati, capelli corti che lascian vedere grandi orecchie, bocca svivagnata, barba rasa brizzolata, voce grossa e chioccia, e non sapeva dir due parole senza esitare; sempre in apprensione, sicchè sbigottiva al minimo rumore: l’accompagnava una ventina di guardie, di cera nulla miglior della sua. Aveva un colletto di bufalo, maniche di velluto cremisi, calzoni di scarlatto, un berretto di tôcca d’oro del colore stesso, che penò a levarsi salutandomi; cintura di velluto rosso con tre pistole per parte; non spada, ma alla mano un moschettone... Introdottomi in sala, e fattala ben chiudere, gli presentai la lettera del marchese di Fontenay, l’aprì, vi diede un’occhiata da tutte quattro le faccie, poi me la rinviò dicendo che non sapeva leggere, e glien’indicassi il contenuto... «Fra ciò urtossi alla porta, e udito che era l’ambasciador di Francia che volea vedermi, fu aperto... e vidi un uomo senza cappello, colla spada alla mano (_Gian Luigi del Ferro_) e due gran rosarj al collo, uno per pregare Iddio pel re, l’altro pel popolo, e che sdrajandosi quant’era lungo e gettando la spada, mi strinse le gambe per baciarmi i piedi... Il popolo schiamazzava d’abbasso per vedermi, onde mi feci al balcone, e Gennaro mi fece portare un sacco di zecchini e uno di denaro bianco che gettai al popolo; e mentre s’arrabattavano per coglierli, chiesi da desinare, non avendo mangiato da Roma in qua. Gennaro mi fece le scuse della penitenza che dovrei fare, non osando, per paura di veleno, usar altro cuciniere che sua moglie, mal destra a questo mestiere quanto a far la dama. Essa portò il primo piatto, messa con una vesta di broccato celeste a ricami d’argento e guardinfante, e una catena di pietre fine, un bel collare di perle, orecchini di diamante, spoglie della duchessa di Maddaloni; e in questo superbo arnese era bello vederla far la cucina, lavar i piatti, e dopo desinare far bucato e sciorinare la biancheria... «Il resto della giornata si passò nel consiglio... Gennaro volle dormissi con lui, e dicendoli io non volevo scomodasse sua moglie, rispose, ella dormirebbe s’un materasso davanti al fuoco con sua sorella; ma che alla sua sicurezza importava d’avermi seco in letto... Per dormire mi condusse alla cucina, ove trovai un letto ricchissimo di broccato d’oro; moltissima argenteria bianca o dorata era ammontichiata nel mezzo; da molte cassette semiaperte uscivano catene, braccialetti, perle e altre pietre; alcuni sacchi di scudi, altri di zecchini, mezzo sparsi; mobili ricchissimi, bellissimi quadri colà alla rinfusa davano a vedere quanto avesse profittato del saccheggio delle migliori case... Dall’altro lato vedeasi un’abbondanza di tutto l’occorrente alla cucina, rubato di qua di là, con ogni sorta di cacciagione, salvaggina, carne salata e d’ogni comestibile, ne tappezzavano le pareti... Luigi del Ferro non volle che altri mi levasse gli stivali, dicendo che toccava a lui rendermi fin il minimo servigio... «Il sabbato mattina andai con Gennaro a sentir messa al Carmine, ed egli come generale del popolo teneasi sempre alla mia destra. Luigi del Ferro, camminandoci davanti senza cappello e colla spada nuda, e per meglio rassomigliare a Francese con gran capelli, portava una parrucca nera di crine di cavallo, come quelle che diamo alle Furie nei balli, e gridava senza riposo: — Viva il popolo, viva il generale Gennaro, viva il duca di Guisa!» Tutte le strade dove passai erano tappezzate, alle finestre donne che mi gettavano fiori, acque odorose, confetti e mille benedizioni. Le persone che uscivano dalle porte venivano a stendere sotto i piedi del mio cavallo tappeti e i loro abiti, e le donne con cazzuole bruciavano profumi al naso del mio cavallo e i poveri incenso entro scodelle». [88] Il sunnominato gesuita Magnati al 18 marzo 1468 scriveva: — Il Guisa sta con un colore di morte, smagrito e smunto per il timore d’essere ammazzato. Perciò sta ritirato nella casa del principe di Santo Buono, difesa da cannoni, cavalleria e fanteria, per assicurarsi da chi gli macchina la morte. La mattina del 13 stante mandò una delle compagnie dei lazzari alla casa di Antonello Mazzella eletto del popolo; e condotto da quelli nella sellaria, gli fu mozzo il capo, spogliato, strascinato, e poi appiccato per un piede nel mercato senz’averlo fatto confessare. E dicono che forzassero Ciccio Gensale, genero del Mazzella ed eletto prima consigliere della repubblica, a strascinare cogli altri il suo suocero; poi fu saccheggiata la casa fin alli chiodi, essendo richissima di denari e mobili. Il Mazzella nel principio dei rumori si ritirò a Procida sua patria, e ne fu cavato a violenza da gente popolare per farlo eletto, _ipso renitente_». [89] Vedansi le _Memorie_ della Motteville, che fa tristissimo ritratto di questo eroe scenico. Mazarino ai 23 aprile 1648 scriveva al gran principe di Condé: _Il me faut travailler incessamment pour soutenir les affaires de Naples, lesquelles, faute de conduite de celuy qui les a entre les mains, sout tous les jours en estat d’estre entièrement ruinées. Dieu pardonne à qui en est cause; car pour moi je ne vois rien que je ne prévisse bien lorsque je fis tous mes efforts pour empêcher le voyage de monsieur de Guyse dans le dit royaume_. [90] «Fu vista troppo superba il vedere gli abbracciamenti, li baci, le allegrezze che facevano tutti, non eccettuandosi nè persona, nè sesso, nè religiosi, nè qualsivoglia altra persona, e baciavano il terreno di questo nostro quartiere che li aveva liberati da mano de’ lazzari; e quello che recava stupore a tutti era il vedere li scambievoli abbracciamenti che si facevano gli Italiani con li Spagnuoli, e con le lacrime agli occhi gridavano: _Viva Spagna che ci ha liberato dai lazzari e dai Francesi_; e molti voleano baciare li piedi alli Spagnuoli... Il Guisa, avvisato del successo, si mangiò le mani e disse: _Io merito questo e peggio, d’essermi fidato d’un popolo così barbaro ed incostante_». Lettera del 6 aprile al cardinale Brancaccio. [91] Il Mazarino, in una lettera al maresciallo Du Plessis-Besançon del 16 luglio 1648, chiamava la spedizione di Napoli _l’affaire de la plus grande importance qui se puisse presque concevoir_. E al 15 agosto scriveva allo stesso Plessis e al principe Tommaso: _Jamais la conjoncture n’a été plus favorable pour causer une révolution dans ce royaume, pourvu que l’on vous y voye en état de l’appuyer, les principaux de la noblesse étant dans la dernière méfiance des Espagnols, et ayant refusé à don Juan d’Autriche de se rendre près de lui, et les peuples ayant ajouté à la haine implacable qu’ils avaient déjà contre cette nation, dont ils ont donné de bonnes marques depuis un an, le désespoir et la rage de s’être laissé tromper et de voir ostensiblement que les Espagnols leur préparent des chaînes et un joug bien plus dur_. — Ducento anni appunto più tardi noi leggevamo lettere dell’egualissimo tenore. Del Mazarino furono pubblicate altre lettere relative a questo affare del Pastoret e dal Fortia. Tra altre al Fontenay scriveva: _Je regrette fort qu’ on ait imprimé les lettres où vous traitez ce peuple de république. Heureusement ils ont souscrit la leur des mots_, Votre très-humble servante, _la république de Naples; ce qui les a rendu ridicules, et c’est beaucoup. Ces imaginations de république seraient de tout point funestes, car on ne peut chasser les Espagnols tant que la noblesse tiendra pour eux, ou que la république pourra mettre le pouvoir aux mains du peuple. Ainsi point de république: beaucoup de promesses générales, en se gardant toujours le moyen de profiler des événements sans contrevenir à sa parole; et puis du temps, du temps surtout. La patience doit finir cette affaire aussi bien qu’ elle l’a commencée_. Da quelle corrispondenze appare che la condotta del Guisa e la sua cattura, avvenuta fin dal 1º aprile, ignoravasi ancora a Parigi dal Mazarino il 22. [92] Tutti costoro sono dipinti come eroi nella _Vita di Salvator Rosa_ di lady Morgan, che tanto male vi dice dell’Italia, per amor dell’Italia. Il Rosa, nella satira _sulla guerra_, cantava, Senti come cangiato ha il mio Sebeto In sistri bellicosi le zampogne, Nè più si volge al mar tranquillo e cheto... Mira l’alto ardimento, ancorchè inerme; Quante ingiustizie in un sol giorno opprime Un vile, un scalzo, un pescatore, un verme. Mira in basso una tale alma sublime; Che per serbar della sua patria i pregi, Le più superbe teste adegua all’ime. Ecco ripullular gli antichi fregi De’ Codri, e degli Ancuri e de’ Trasiboli S’oggi un vil pescator dà norma ai regi. [93] Nel 1652 il conte d’Argenson, ambasciatore a Venezia, scriveva che «coll’ajuto di Dio, si trattava di repentinamente strappar di mano degli Spagnuoli il regno di Napoli, di fare riuscire una trama da lungo tempo ordita». Nel 1682 altri discorsi di simili macchinazioni; nel 76 di nuovo; e così in appresso. [94] _Pietra del paragone politico_. [95] Guastalla, il cui nome suona scuderia delle guardie (_Ward Stall_), fu fabbricata da’ Longobardi sul Crostolo, e dopo una tempestosa libertà Luchino Visconti l’acquistò al Milanese, e Gianmaria la infeudò a Guido Torello nel 1406: Filippo Maria vi aggiunse il castello di Montechiarugolo nel Parmigiano presso l’Enza, dove un ramo de’ Torelli dominò, dipendendo dai Farnesi, finchè il conte Pio fu mandato al supplizio dal duca di Parma nel 1612. Da Salinguerra, costui fratello, derivarono i Torelli di Francia e i Ciolek Poniatowski, de’ quali fu l’ultimo re di Polonia. Il ramo primogenito, sovrano a Guastalla, finì nel 1522 col conte Achille, uomo di costumi perduti; e Lodovica Torello superstite, a cui era disputato dai parenti, vendè il contado a Ferdinando, figlio cadetto di Francesco II Gonzaga di Mantova (1539), allora vicerè di Sicilia; e fondate le _Angeliche_ e le _Signore della Guastalla_ a Milano, vi si ritirò a vita devota e morì nel 1569. Ferdinando suddetto fu celebre capitano, e contribuì alla vittoria di San Quintino. Cesare suo figlio sposò Camilla sorella di san Carlo Borromeo, nelle braccia del quale morì il 1577. Ferdinando II suo figlio fece erigere il contado di Guastalla in ducato dall’imperatore Ferdinando II, il 2 luglio 1621. All’estinzione della linea principale, pretese a tutto il ducato di Mantova, ma nella pace di Cherasco ottenne solo terre per la rendita di seimila scudi, che furono Dossolo, Luzzara, Suzzara, Seggiolo. Ferdinando III ebbe sol due figlie (-1678), una delle quali sposò Vincenzo Gonzaga duca di Melfi e d’Oriano, il quale ebbe quell’eredità e pretese anche tutto il Mantovano; ma quando l’imperatore tenne questo per la sua casa, al duca di Guastalla lasciò solo i principati di Bozzolo e Sabbioneta, colle terre d’Ostiano e Pomponesco, appannaggio un tempo d’altre linee finite. Vincenzo lasciò (1714) due figli che si succedettero; Antonio Ferdinando (-1729), e Giuseppe Maria (-1746), con cui finì la linea. [96] _Memorie recondite_, III. p. 367. [97] Ma qual fin sarà il mio se tu ti adorni In pace col vicin? Se del Sebeto Stringe e le mani tue comune oliva? Miserabile Italia! Allor ben pormi Dell’Ossuna in un punto e del Toleto Sento a laccio servil la man cattiva. Di pace intempestiva Deh non t’alletti, o figlia, il suon non vero. Sostieni e spera, e pria te stessa uccida Che giammai ti divida Dal duca alpin l’insidioso Ibero. MARINI. Carlo, quel generoso invitto core Da cui spera soccorso Italia oppressa, A che bada, a che tarda, a che più cessa? Nostra perdita son le tue dimore... Gran cose ardisci, è ver; gran prove tenta Tuo magnanimo cor, tua destra forte; Ma non innalza i timidi la sorte, E non trionfa mai uom che paventa... Chi fia se tu non sei che rompa il laccio Onde tant’anni avvinta Esperia giace? CHIABRERA. Chi desia di sottrarti a grave pondo Contro te non congiura; ardisci e spera. Ma non vedran del ciel gli occhi giocondi Ch’io giammai per timor la man disarmi, O che deponga i soliti ardimenti. TESTI. [98] — E fino a che segno sopporteremo noi, o principi e cavalieri italiani, di essere non dirò dominati, ma calpestati dall’alterigia e dal fasto de’ popoli stranieri?... Parlo a’ principi e cavalieri, chè ben so io che la plebe, vile di nascimento e di spirito, ha morto il senso a qualsivoglia stimolo di valore e di onore, nè solleva il pensiero più alto che a pascersi giorno per giorno... Tutte le altre nazioni non hanno cosa più cara della loro patria, scordandosi l’odio e le inimicizie per unirsi a difenderla contro gl’insulti stranieri... Fatale infelicità d’Italia che, dopo aver perduto l’imperio, abbiam parimente perduto il viver politico... e abbiamo in costume d’abbandonare i nostri e aderire alle armi straniere per seguitare la fortuna del più potente... «Se alla Spagna riesce d’occupare il Piemonte, principi e cavalieri italiani che speranza vi resta? Non consiste il vero dominio nel riscuotere le gabelle, nel mutar gli uffiziali, nell’amministrare la giustizia ecc.; queste cose le hanno ancora i signori napoletani; ma consiste nel poter comandare e non obbedire... «Umilissimi quando sono inferiori, superbissimi nel vantaggio, non regnano in Italia perchè valgano più di noi, ma perchè abbiamo perduto l’arte del comandare; e non ci tengono a freno perchè siam vili e dappoco, ma perchè siamo disuniti e discordi: non durano insomma in Italia perchè sieno migliori de’ Francesi, ma perchè sanno meglio occultare le loro passioni e i disegni loro; pagano la nobiltà italiana per poterla meglio strapazzare e schernire; stipendiano i forestieri per aver piede negli altrui Stati: avari e rapaci se il suddito è ricco, insolenti s’egli è povero; insaziabili ecc. «Sommo pontefice, repubblica di Venezia, granduca di Toscana, ben sarete voi goffi, se avendo veduto il signor duca di Savoja tenere il bacile alla barba di questo gran colosso di stoppa, non finirete voi di rintuzzargli l’orgoglio; le vostre lentezze, le vostre freddezze, i vostri timori sono stati quelli che gli hanno dato baldanza». Nel _manifesto_ e nelle lettere famigliari è a vedere come della Corte di Torino si chiamasse poi mal soddisfatto il Tassoni. [99] La Casa Gonzaga si suddivise in molte, e la sua storia non è più onorevole che quella delle altre dinastie italiane. Paola Malatesta, moglie di Francesco Gonzaga, trasse alla fede cristiana un Ebreo, concedendogli anche di portar il cognome di lei. Eusebio Malatesta, come costui si fece chiamare, ottenne grazie e stato presso il marchese di Mantova, e allora si spacciò per vero discendente dai Malatesta. Non gliel sofferse Antonia Malatesta, moglie di Rodolfo Gonzaga signore di Castiglione, onde egli la accusò presso il marito come cospirasse ad ucciderlo; e Federico la fece decapitare sulla piazza di Luzzara. Il popolo compassionò la bella, sposa da soli due anni, e ignorò il motivo di questo supplizio. Don Ferrante Gonzaga dei marchesi di Castiglione delle Stiviere, servì utilmente coll’anni e ne’ governi gl’Imperiali e la Spagna. Ebbe moglie Marta Tana di Santena da Chieri, dama favorita d’Isabella di Valois, che fu moglie a Filippo II. Il suo primogenito, rinunziato al secolo per entrar gesuita, ebbe venerazione col nome di san Luigi. Rodolfo secondogenito, che dominò invece di lui, voleva pure il marchesato di Solferino, che suo zio Orazio morendo improle lasciò invece a Vincenzo Gonzaga di Mantova, e il marchesato di Castelgoffredo, d’un altro suo zio Alfonso, il quale gli destinava sposa l’unica figlia. Ma Rodolfo era secretamente marito di Elena Aliprandi; onde nacquero resie; e improvvisamente Alfonso si trovò ammazzato (1596), e Castelgoffredo occupato da soldati di don Rodolfo, che col terrore impose silenzio. Ma alcuni fan giura e lo trucidano, e rendono Castelgoffredo al duca di Mantova. Donna Marta, che aveva un figlio santo e l’altro morto scomunicato, fa da reggente a Castiglione, sinchè l’imperatore ne investe il terzogenito di lei, Francesco, che non si fece amare, anzi i sudditi ribellati gli uccisero i figli, ferirono donna Marta, la quale però guarì e prima di morire potè veder sugli altari venerato il suo Luigi. Francesco dovette poi cedere Castelgoffredo al duca Vincenzo; ma non fu amato dai sudditi se non dopo morto nel 1616. Castiglione delle Stiviere fu dichiarato città dall’imperatore Mattia con diploma del 23 ottobre 1612, ed era frequentatissimo pel culto di san Luigi. Contro Ferdinando stettero lungamente ribelli i sudditi; infine egli fu cacciato dagl’Imperiali nel 1692, e quel paese occupato a vicenda da Cesarei e da Francesi; finalmente distrutto il castello e il palazzo di Castiglione, e molte memorie di san Luigi. Ferdinando morì a Venezia; suo figlio, maritato in una Anguissola, andò in Ispagna e visse povero, come i suoi figliuoli, in servigi di corte ed armi, finchè nel 1773 Luigi vendette all’Austria il principato di Castiglione, il ducato di Solferino, il marchesato di Medole per un’annua pensione primogeniale di diecimila fiorini. Questo Luigi fu anche letterato, e amò la Corilla Olimpica; e con lui finì quel ramo dei Gonzaga. Quello di Novellara, discendente da Feltrino, cadetto di Luigi che fu capo del Mantovano nel 1328, si estinse nel 1728. Di questa casa uscirono insigni donne: Ippolita duchessa di Mondragone (-1563), cantata da Bernardo Tasso e da altri: Lucrezia maritata in Gian Paolo Fortebraccio Manfrone (-1576), che nelle lettere ci lasciò testimonj di suo sapere e coraggio; Giulia Gonzaga di Melfi; Isabella duchessa d’Urbino, quella che il Barbarossa pirata cercò rapire (-1566); Caterina duchessa di Longueville (-1629), che a Parigi fondò le Carmelitane; Maria Luigia, moglie di Casimiro V re di Polonia (-1667), del quale sostenne il coraggio e ajutò l’abilità a ricomporre il regno. [100] Da antico dimoravano gli Ebrei in Mantova; ma una grave persecuzione fu suscitata contro di loro in occasione delle prediche fattevi da frà Bartolomeo di Solutivo nel 1602 contro i ciuffi e le vanità. Si disse che gli Ebrei lo schernissero, onde a furia di popolo alcuni furono impiccati pei piedi; si trattò di cacciarli affatto, poi si stabilì portassero un segno al cappello, e si discorse di fare il ghetto, compito poi nel 1610. [101] Urbano VIII diceva all’ambasciadore Lodovico d’Agliè: — Alla gloria del signor duca di Savoja, il quale si può chiamar difensore della libertà d’Italia, compie il terminare da sè solo questa differenza senza intervento di Spagna e di Francia. E quando ciò non si possa senz’opera di mezzano, farlo per la via nostra o d’altro principe che non sia straniero, e che non abbi in mira di rifabbricare la sua monarchia sopra le ruine degli altri». Lettera 26 febbrajo 1628. [102] Egli perì poi vincitore alla battaglia di Lutzen nel 1632, nella quale combattevano Borso e Foresto d’Este, Mattia e Francesco de’ Medici, Ernesto Montecuccoli di Modena, Ottavio Piccolomini duca d’Amalfi, Luigi e Annibale Gonzaghi, uno Strozzi; e sussidj d’uomini e di denaro aveano mandati all’Impero Lucca e i duca di Modena e Toscana. Il Waldstein fu fatto trucidare dall’imperatore coll’opera di Ottavio Piccolomini d’Aragona duca d’Amalfi, mosso da invidia, o da fedeltà. Al Waldstein resero omaggio i nostri anche dopo la disgrazia: il conte Gualdo Priorato, che sotto di lui aveva combattuto, ne spose la vita, e a lungo ne parlò nelle storie: così Vittorio Siri, il Bisaccioni, il padre Ricci bresciano, Paganino Gaudenzio, e poeti e oratori non pochi. In alcune lettere di Ottavio Bolognesi al duca di Modena, pubblicate nell’Archivio storico (_Nuova serie_, tom. III. p. 80) leggiamo: — Dio ha voluto dar il tracollo a Friedland col mezzo dell’astrologia. Avea richiesto l’astrologo Giambattista Seni genovese a specolar bene se poteva essere corrisposto dal Piccolomini in un grave negozio che voleva appoggiargli; ed avendo avuto risposta che le figure confrontavano talmente che sarebbero stati concordi fin alla morte, esso, che non credeva Dio ma sì astrologia, senza esitazione comunicò al Piccolomini i suoi progetti di ribellione». Il Piccolomini, secondo le lettere stesse, diceva che il Waldstein pensava abbatter del tutto Casa d’Austria, eriger Milano a repubblica, o darlo al duca di Savoja. Il Priorato si lagna che «di tanti fedeli del Waldstein, nessuno lo difendesse, ma subito morto, tutti credettero guadagnar merito coll’esagerare contro le sue azioni: li più obbligati, gli amici più stretti, i confidenti più cari parlavano contro di lui come se fossero de’ maggiori ingrati». Ad Ottavio Piccolomini furon dati i beni pel valore di quattrocento mila talleri, e il titolo di principe dell’impero. Egli erasi mostrato eroe alla battaglia di Lutzen, e non lasciò figlio, essendo invenzione di Schiller il Max. Ottavio stese una relazione della morte di Waldstein, gravandolo d’ogni colpa. Nel manifesto pubblicato dalla corte di Vienna è professato che nessuna legislazione sensata, nè le leggi dell’impero esigono procedura e sentenza formale _in criminibus proditionis perduellionis vel lesæ majestatis notoriis_, e che in tali casi _executio instar sententiæ est_. [103] Credesi allora rapita la Tavola Isiaca, che era reputata il più insigne monumento egizio, e che ora sta nel museo Torinese non tenuta per autentica; una magnifica sardonica figurante una panegiria, or conservata nel museo di Brunswick. I quadri del palazzo di Mantova furono portati a Praga, dove Cristina di Svezia li comprò e trasferì a Roma: indi comprolli il duca d’Orléans reggente di Francia. La continuazione del _Fioretto delle cronache di Mantova_ del Giunta al 1630 dice che a Mantova nell’assedio il frumento pagavasi 24 scudi il sacco; una libbra di oncie 23 di pane, lire 3, soldi 4; un boccale di vino lire 6; una libbra di formaggio lire 8, d’olio d’uliva lire 24, di lardo lire 6, un uovo lire 5: la doppia d’Italia di lire 29 spendeasi 150; lo zecchino di Venezia di lire 16 soldi 10, andò a lire 72. [104] _Sed belli graviores causæ_: risposta che lo storico Ripamonti mette in bocca al governatore Cordova, e che più o meno sfacciatamente si ripete ogni tratto. [105] TADINI, _Ragguaglio... della gran peste contagiosa_. E su tutti questi fatti vedi la nostra _Lombardia nel secolo XVII_. [106] Una relazione del contagio di Firenze in vulgare per Luca Targioni, una in latino pel dottore Alessandro Righi, stampate dal Targioni Tozzetti, _Viaggi_, vol. IV, p. 298-316, sommano a nove mila i morti tra Firenze e il contorno. Geri Bocchineri scriveva al gran Galileo, allora detenuto presso l’Inquisizione di Roma (18 maggio 1633): — La nostra sanità sta in questo grado; ogni giorno di Firenze si mandano al lazzaretto un numero di dieci, o dodici, o quindici, o diciotto malati, ma rare volte si arriva a’ diciotto; li morti sono (dico in Firenze) ora uno, ora due, ora tre, ed ora quattro il giorno, e qualche volta nessuno; a cinque non si è arrivato mai, che io sappia, e rarissime volte a quattro. In questo contado ci è qualcosetta di male, ma non gran cosa; e qualcosa è in Poggibonzi, dove si trova il signor canonico Cini a sopraintendere. Il resto dello Stato sento che è sano. Il male, che fino a ora è stato così velenoso che pareva senza rimedio, ora pare che cominci a cedere a’ medicamenti, essendo al lazzaretto persone che guariscono. Séguita la clausura delle donne, di quelle però che non possono andare a casa nella propria carrozza. Li contadini non si ammettono in Firenze, fuori quelli che portano roba da gabellare, e si continuano e s’introducono nuovi e buoni ordini. Sabato si condurrà solennemente in Firenze la miracolosa Madonna dell’Impruneta, e si faranno processioni ed altre devozioni per placare l’ira di Dio, il quale ci perdoni a tutti, e guardi vostra signoria a cui bacio le mani. «PS. Il male nelle case dei nobili non si fa più sentire». Le cronache veneziane ricordano pesti negli anni 954, 958, 1007, 1010, 1073, 1080, 1093, 1102, 1118, 1137, 1149, 1153, 1157, 1161, 1165, 1169, 1170, 1172, 1177, 1182, 1203, 1205, 1217, 1218, 1248, 1249, 1263, 1275, 1277, 1284, 1293, 1301, 1307, 1343, 1347 (la famosa morte nera, per cui si estinsero cinquanta casate nobili) 1350, 1351, 1357, 1359-60-61, 1382, 1393, 1397-98, 1400, 1413, 1423-24, 1427-28, 1447, 1456, 1464, 1468, 1478, 1484, 1485, 1498, 1503, 1506, 1510-11-13, 1527, 1536, 1556, 1565, 1575-76, 1580, 1629-30. In quest’ultimo vi morirono quarantaseimila cinquecentotrentasei persone, e comprendendovi Murano, Malamocco, Chioggia, ottantaduemila centosettantacinque. Ap. GALLICIOLLI. * Fra i tanti scritti sulla peste del 1630 è notevole _Andrea Taurelli j. c. de peste italica, libri duo_, Bologna 1641, ove discorre peripateticamente le cause e gli accidenti di quel contagio, ma specialmente in Bologna, intorno a cui versa un capitolo intero. Fu asserito che i Gesuiti si sottrassero alle cure de’ malati. Il Torelli smentisce, perocchè, a pag. 110, ricorda con quanta carità vi si adoprarono Cappuccini, Certosini, Gesuiti, tra i quali nomina specialmente, _ut cæteros omittam_, il padre Orimbelio veronese, teologo e predicatore, e capo dell’ospedale, e Giambattista Martinengo bresciano. [107] A tacere i cronisti, e quelli che dettavano sotto l’impressione del terrore, anche storici pensatori adottarono quella credenza. Il grave Nani nella _Storia di Venezia_ scrive: — La peste spopolava intere provincie: nel Milanese particolarmente, all’ira del cielo la scelleraggine umana lavorando i fulmini, si trovò una colluvie di gente, rimescolata d’Italiani e Spagnuoli, che, inventando nuove foggie di morte, procurò con peste manufatta estinguere, per quanto poteva, il genere umano. Il veleno di misti mortiferi ed abominandi col solo contatto uccideva senz’alcuno scampo, mentre l’insidie occulte si trovavano in ogni parte, essendo per le chiese e per le strade sparse le stille di sì fiero liquore. I nomi di costoro non meritano che l’oblivione, delle azioni scelleratamente famose giustissima pena. Se ben veramente l’immaginazione dei popoli, alterata dallo spavento, molte cose si figurava, ad ogni modo il delitto fu scoperto e punito, stando ancora in Milano le inscrizioni e le memorie degli edifizj abbattuti, dove que’ mostri si congregavano». Più la adottarono gli storici lontani, giù fino al Giannone, che, al solito ricopiando i precedenti, nè un’ombra di dubbio palesò sul fatto o di disapprovazione sui modi. Che più? Carlo Botta, medico, nella _Storia d’Italia in continuazione al Guicciardini_, lib. XXI, pone: — Era sorta una voce per tutta Italia, _voce non vana, ma dai fatti comprovata_, che certi scellerati la corressero con proposito di spandervi la peste, comunicandola alle acque pubbliche ed alle acque benedette delle chiese. Qual cosa si debba credere di questo modo di comunicare il veleno pestifero, _certo è bene che questi uomini abbominevoli ciò facevano_, sia che solamente spaventando volessero aprirsi via al rubare, sia che veramente con più scellerato fine le acque attossicassero. Parecchi di codesti mostri furono in Milano scoverti, e siccome meritavano dati alle forche, le loro case stracciate, e con infamatorie inscrizioni notate». [108] Pietro, siciliano: il connestabile Colonna gli diede moglie una sua figlioccia e il governo d’una sua terra. Un altro figlio di questo fu arcivescovo d’Aix, provveduto di cinquantamila scudi, e cardinale e vicerè di Catalogna. Vedi _Negoziati di monsignor Giulio Mazarino_ in appendice alla _Storia d’Italia_ del Brusoni; ELPIDIO BENEDETTI, _Vita del Mazarino_; PRIORATO, _Istoria del ministero del cardinale Mazarino_, Colonia 1669; e un’infinità di scritture, anche recentissime. [109] Richelieu, di Angelo Cornaro ambasciadore di Venezia in Francia, valevasi ne’ consigli più scabrosi, e finito il tempo, pregò la Repubblica a prolungarglielo. Vicquefort cita molti Veneziani lodatissimi come ambasciadori, quali Aluise Contarini, che durò tutta sua vita in tali uffizj, e fu al congresso di Münster; Angelo Contarini, Giambattista Nani storico, Guglielmo Soranzo ecc.; inoltre l’abate Scaglia e il cardinale Alessandro Bichi, il quale avrebbe potuto avere la prima importanza presso il Richelieu se fosse stato più astuto. [110] Manoscritto del 1634 di Pietro Nores. * Giambattista Livizzani modenese col nome d’Ausonio Fedeli publicò un _Applauso poetico_ al divo Luigi il Giusto, re cristianissimo, ottimo massimo; ma poi nel _Zimbello o l’Italia schernita_ (1641) deplorò le miserie della guerra di Monferrato, rimproverando agli scrittori e a se stesso le bugie che dicevano e le adulazioni. [111] Una nota contemporanea che trovasi nel _Carteggio degli agenti toscani_ al 1636, dice: — Il disegno è che il duca di Savoja si faccia re di Napoli; il signor cardinale suo fratello resti principe di Piemonte; a’ Francesi resti la Savoja, Nizza e Villafranca; il duca di Mantova sia duca di Milano; Parma n’abbia una parte più vicina a lui: e alla casa Barberina si lasci uno Stato nel regno, e resti libero». Segue divisando i modi. _Archivio storico_, tom. IX. p. 318. [112] Nel 1617 Girolamo Zambeccari inquisitore lagnasi che il principe di Correggio non assistesse abbastanza il Sant’Uffizio, e chiedeva gli fossero consegnati Gianpaolo e Ottavio Pestalozzi, accusati d’eterodossia; anzi con un pugno di sgherri venne in Correggio, e presili si avviò con essi a Reggio. Siro, saputolo, fa inseguirli, e il frate fu coltellato, ma riuscì a fuggire. Paolo citò Siro al Sant’Uffizio in Milano, ove fu convinto del delitto; ma il papa gli perdonò, purchè difendesse Correggio dagli Spagnuoli, dandogli in penitenza di edificare la Madonna della Rosa. [113] Adelaide Enrichetta, figlia di Vittorio Amedeo, nel 1650 sposò Ferdinando elettore di Baviera, e pare traesse a quella Corte le famiglie Piossasco, Pardo, Lugo, Monasterolo, Simeoni, da cui derivarono famiglie di colà. Anche un Garnerin, presidente al senato di Chambéry, si mutò in quel paese, e fu avo del conte di Montglas, ministro del primo re di Baviera. [114] Le brighe del Monod, del Rovita, di che altri Gesuiti so io, leggonsi con minuziosa diligenza raccontate nel Botta, lib. XXII, che in queste materie di frati e di confessori è a pasto. [115] Vuolsi che a quell’assedio per la prima volta Francesco Zignone bergamasco inventasse di gettare in città bombe piene di polvere e di sale, per supplire alla mancanza che ve ne aveva. Vi fu ucciso un capitano tedesco, il quale si trovò essere donna. [116] Il Bonaventuri fu ucciso in principio del 1570; la granduchessa morì il 10 aprile 1578; le nozze colla Bianca avvennero il 5 giugno. [117] Esso la chiama _sublime donna_; ne canta _la nobiltà ch’è del valor colonna_; e lodati i meriti insigni del granduca, maggior di tutto trova il discernimento suo, pel quale, come Paride, seppe preferir Bianca, che ha _vero candore, anzi splendor sereno e vero e casto amore_; e non rifina sui vanti di questa. Casta beltà ch’alto giudizio elesse, Pudica moglie in lieta pace e santa, Che di candore e d’onestà s’ammanta. [118] MOLINO, ap. Cicogna, _Iscrizioni venete_, tom. II. [119] Però nella relazione dell’ambasciadore veneto, 14 febbrajo 1609, viene dato conto del testamento del granduca, e come vi indicasse per tutrice del principe la moglie, ma poi rinserrandola «così strettamente, ch’ella se ne duole molto. Vuole che abbia sei consiglieri, che siano il signor Don Giovanni, don Antonio, et quattro altri, che dice saranno nominati, con due mille scudi l’anno per uno, ma il nome di questi non è stato ritrovato; et poi aggiunge che non possa metter capitano alcuno di nation francese in alcuna piazza; che non possa havere presso di sè nè fratelli, nè parenti, nè altri di nation francese che un semplice valletto di camera che sappia scrivere, per poter mettere una lettera in francese, quando le occorresse; che non possa prestar denari ad alcuno de’ suoi, nè farglieli prestar dal Monte, nè far obbligar li sudditi per loro, nè in alcun modo introdurre alcun di quelli in questo Stato. Ordina, che ogni anno debba riporre trecentomila scudi o almeno ducentosessantamila, et che contrafacendo a quanto è predetto cadi subito dalla tutela. Le lascia ducento mille scudi oltre la sua dote, la quale si valuta intorno a seicentomila, et quando ella voglia levarla, non vuole che habbia altro, ma non la levando le lascia ventiquattro mille scudi l’anno, et le rendite di Montepulciano, Serezana et Pietrasanta, che possono importare intorno ad altri quattro mille, et che volendo habitare in alcuno di detti luochi lo possa fare. Per fine poi lascia a due figliuole, che erano a quel tempo nate, trecento mille scudi di dote per una, et prega il principe, che occorrendo, per accomodarle bene, da lor davantaggio, lo faccia. Comanda che non gli siano fatti funerali, ma che siano messi quaranta mille scudi sul Monte, del tratto dei quali siano maritate ogni anno tante zitelle, parte della città, et parte dello Stato, et questa è la sua ordinatione. Non ha lasciato denari questo principe, anzi intaccate tutte le rendite, perchè tanto ha speso questi ultimi anni in fabbricar vascelli, nel comprarne, noleggiarne, et armarne, e nell’armare estraordinariamente galee, et havendo havuto anco ultimamente la spesa delle nozze, è morto mezzo fallito; si dice però fallito di denari correnti, perchè delli reposti non si parla, et quanto a questi havendo fatto diligenza per sapere appresso a poco quanti siano, non ho ancora potuto dar in persona che con fondamento me lo habbia saputo dire, ma non si crede a gran giunta quanto si è cercato sempre di dar ad intendere». [120] Pietro Leopoldo nel 1770 comprò poi da Malaspina di Mulazzo il territorio di Calice e Veppo nella Lunigiana: ma questa provincia restò immediata fin al 1815. L’isola d’Elba fu unita al granducato nel trattato di Lunéville del 1801: nel 1808 i Presidj: nel 1814 il principato di Piombino, cessando allora ogni giurisdizione baronale dei feudatarj imperiali di Vernio Montanto e Monte Santa Maria. Il Lucchese fu aggregato nel 1847. [121] «Nel principio del secolo non era a Firenze chi avesse giurisdizione, se non alcuni della famiglia de’ Bardi per l’antica signoria di Vernio, e Lorenzo di Jacopo Salviati che aveva ereditato la terra di Giuliano nelle campagne di Roma con titolo di marchese. Cominciò poi Vincenzo di Antonio Salviati a procurare dal granduca il titolo di marchese, con la compra del castello di Montieri nello Stato di Siena; e questo esempio fu subito imitato da tanti altri, che oggi non c’è quasi famiglia cospicua che qualcuno non porti il titolo di marchese; chi l’ha procurato per la medesima via di compra nello Stato del granduca, chi nel regno di Napoli, e chi l’ha ottenuto per ricompensa di servizj prestati a sua altezza; chi ha procurato il titolo solamente dall’imperatore, chi dal re di Spagna, chi dal papa; e finalmente è venuta a tal segno questa vanità, che s’è cominciato a chiamar qualcuno marchese per adulazione, e molti se lo lasciano dare senza replicar niente. I Bardi, signori di Vernio, hanno assunto il titolo di conti; e quelli della famiglia del Nero, di baroni di Torciliano, che è un casale nella campagna di Roma, con aver ritrovato che già vi era certa giurisdizione: e l’istesso hanno fatto gli Alamanni per un casale presso a Napoli, ereditato dalla famiglia del Riccio; ma in quest’ultimo tempo hanno procurato dal re di Spagna il titolo ancor loro del marchese: c’è anco chi ha ottenuto dall’imperatore il titolo di conte d’imperio; ed insomma, se non fosse che il granduca non fa differenza nessuna nella nobiltà tra chi ha titolo o no, si stimerebbe quasi infelice chi non potesse conseguir un titolo di marchese o di conte. Nell’introduzione comune del titolo di marchese, il marchese Jacopo del soprannominato marchese Lorenzo Salviati, per continuare a differenziarsi dagli altri, ottenne da papa Urbano VIII il titolo di duca, il quale esempio fu seguitato dal marchese Luigi Strozzi... «La nobiltà nel cominciare del secolo non usava altro nelle lettere tra loro che _molto illustre_ nella soprascritta ed il _vostra signoria_ nel corpo della lettera, e in voce e nella cortesia diceva _affezionatissimo servitore_; e quando un nobile capo di famiglia avesse avuto a scrivere a un altro nobile, ma giovane e figlio di famiglia, gli avrebbe dato dell’_illustre_, e ricevuto come sopra del _molto illustre_; e nell’istessa maniera trattavano tra loro un nobile dirò di prima classe con un altro di più recente nobiltà. Con l’introduzione de’ titoli di marchese si cominciò a introdurre nella soprascritta il titolo d’_illustrissimo_, che fu subito abbracciato da ogn’altro nobile, e poi introdotto ancora nel corpo delle lettere, con la cortesia di _obbligatissimo_, _devotissimo_, _umilissimo servitore_, _servo_ e simili, secondo che più o meno si è voluto adulare o mostrarsi ossequioso. E finalmente s’è così introdotto di dare l’_illustrissimo_ anche in voce, che lo sanno dare ai gentiluomini anche le persone basse, e fino i poveri nel chiedere la limosina; ed il _molto illustre_ è trasportato nei bottegai; ed alli due duchi Salviati e Strozzi si dà dell’_eccellentissimo_ ed in iscritto ed in voce; ma nella cortesia la nobiltà di prima classe pretende trattarsi del pari». RINUCCINI, _Ricordi storici_. [122] Nell’_Archivio delle riformagioni_ è questo decreto del 7 agosto 1645: — Considerato che l’opera del canale e porto di Livorno, a giudicio di ogni persona intendente, è cosa molto magnifica e molto degna, e da dare col tempo, quando avrà avuto la sua perfezione, gran comodità ed utilità alla città nostra... desiderando non rimanghi imperfetta... si nomina una balìa di cinque uffiziali ecc.». [123] Il molo di Livorno fu disegno di Ruperto Dudley conte di Northumberland, famiglia perseguitata in Inghilterra e accolta da Cosmo II in Firenze; ove esso Ruperto stampò l’_Arcano del mare_, magnifica raccolta di carte geografiche e idrografiche, trattando pure della scienza delle longitudini e del navigare. [124] Il Correr, ambasciatore veneto nel 1569, scriveva di essa: — Ritiene quella regina dell’umore de’ suoi maggiori; però desidera lasciar memoria dopo di sè, di fabbriche, librarie, adunanze d’anticaglie. E a tutte ha dato principio, e tutte ha convenuto lasciar da parte, e attendere ad altro. Si dimostra principessa umana, cortese, piacevole con ognuno. Fa professione di non lasciar partire da sè alcuno se non contento, e lo fa almeno di parole, delle quali è liberalissima. Nelli negozj è assidua, con stupore e meraviglia d’ognuno, perchè non si fa nè si tratta cosa, per piccola che sia, senza il suo intervento. Nè mangia, nè beve, e dorme appena che non abbia qualcuno che le tempesti le orecchie. Corre là e qua negli eserciti, facendo quello che dovrebbero fare gli uomini, senza alcun risparmio della vita sua. Nè con tutto ciò è amata in quel regno da alcuno; o se è, è da pochi. Gli Ugonotti dicono che ella li tratteneva con belle parole e finte accoglienze, poi dall’altro canto s’intendeva col re cattolico, e macchinava la distruzione loro. I Cattolici, all’incontro, dicono che, s’ella non gli avesse ingranditi e favoriti, non averieno potuto far quello che hanno fatto. Di più, egli è un tempo adesso in Francia, che ognun si presume; e tutto quel che s’immagina, domanda arditamente; ed essendogli negato, grida e riversa la colpa sopra la regina, parendo loro che, per essere forestiera, quantunque ella donasse ogni cosa, non per questo darebbe niente del suo. A lei ancora sono state sempre attribuite le risoluzioni fatte in pace o in guerra, che non sono piaciute, come se ella governasse da sè assolutamente, senza il parere e consiglio d’altri. Io non dirò che la regina sia una sibilla, e che non possa fallare, e che non creda troppo qualche volta a se stessa: ma dirò bene che non so qual principe più savio e più pieno d’esperienza non avesse perduto la scrima, vedendosi una guerra alle spalle, nella quale difficilmente potesse discernere l’amico dal nemico; e volendo provvedere, fosse costretto prevalersi dell’opera e consiglio di quelli che gli stanno intorno, e questi conoscerli tutti interessati e parte poco fedeli. Torno a dire che non so qual prencipe sì prudente non si fosse smarrito in tanti contrarj, non che una donna forestiera, senza confidenti, spaventata, che mai sentiva una verità sola. Mi son meravigliato che ella non si sia confusa e datasi totalmente in preda ad una delle parti: che saria stata la total rovina di quel regno. Perchè essa ha conservato pur quella poca maestà regia che si vede ora a quella Corte, e però l’ho piuttosto compassionata che accusata. L’ho detto a lei stessa in buon proposito; e ponderandomi sua maestà le difficoltà nelle quali ella si trovava, me le confermò, e più volte di poi me l’ha ricordato. So bene che è stata veduta nel suo gabinetto a piangere più d’una volta: poi fatta forza a se stessa, asciugatisi gli occhi, con allegra faccia si lasciava vedere nei luoghi pubblici, acciocchè quelli che dalla disposizione del suo volto facevan giudizio come passavano le cose, non si smarrissero. Poi ripigliava i negozj, e non potendo fare a modo suo, si accomodava parte alla volontà di questo, parte di quell’altro; e così faceva di quegli impiastri, de’ quali con poco onor suo n’ha fatto ragionare per tutto il mondo». _Relazioni_, II. 154. [125] _Mémoires de Groulard_, nel vol. II della collezione di Petitot, pag. 384. [126] Guido Bentivoglio, letterato e prete, e non avverso al maresciallo d’Ancre, racconta l’assassinio di lui coll’indifferenza del Machiavelli: — Il favore e l’autorità in che la regina madre avea collocato il maresciallo d’Ancre, avea passato ogni termine. Onde il re finalmente s’è risoluto di farlo ammazzare, e ciò seguì jeri 24 (aprile 1617), mentre egli entrava nel Louvre a piedi con grandissimo accompagnamento secondo il solito. Il signor di Vitry n’ebbe l’ordine da sua maestà e... l’ammazzarono con tre pistolettate. Succeduto il caso, se ne sparse la voce per tutta Parigi, e tutta la nobiltà subito concorse a trovare il re, il quale pieno d’allegrezza abbracciò tutti, e replicò spesso queste parole: — Io sono ora il re; il tiranno è ammazzato». _Lettere diplomatiche_. [127] Nelle citate corrispondenze d’ambasciadori veneti si legge sotto il 30 luglio 1661: — Nella occasione degli sponsali, havendo voluto la principessa sposa far apparire la grandezza e generosità del suo animo regio, ha dato materia di molta alteratione al granduca, et agli altri principi della Casa, mentre hanno ben scoperto, che la principessa, privatasi di diverse cose più preciose, e di suo uso e bisogno, ne habbi fatto dono a dame, et ad altri soggetti venuti con essa di Francia. La granduchessa di questo n’ha passata indolenza, et il granduca parimenti se n’è risentito a segno, che son nati tra di loro disgusti, e male soddisfationi, quali continuano tuttavia. Il principe sposo medesimamente ha verso di lei qualche sentimento, atteso che molto gli spiace la libertà colla quale la sposa si tratta, che sebbene si accostuma in Francia, è però differente assai da quello si pratica in Italia, come di già n’è stata la detta principessa avvertita. Molti altri sconcerti son pur sortiti per causa della sua famiglia troppo licentiosa, che ha obbligato questi principi a far che la principessa dia combiato quasi ad ognuno prontamente, havendola in pari tempo provveduta d’altri soggetti di questo Stato per la sua Corte, tanto nobile, che di particolare suo servitio, non essendo restati dei Francesi che alcuni pochi riconosciuti per li più moderati. Il re di Francia havendo fatto dono, al partire della medesima principessa da Parigi, di una credenziera di argenteria di molta vaglia, coll’arma sopra dei gigli e della Casa Medici, quale non essendosi veduta mai comparire, si è finalmente scoperto che la principessa l’habbia, nel viaggio, donata a madama di Baloè, prima che arrivasse a Marsiglia, onde anco di ciò provatosene gran disgusto, se n’è scritto in Francia per haverlo indietro, e se ne spera l’intento...» Il 27 agosto: — Il maggiordomo della principessa sposa, gentilhomo francese, per parlare stranamente di questa Casa, et anco per qualche altro riguardo, è stato costretto, per ordine del granduca, di entrare in una carrozza improvvisamente (senza haver tempo di mutarsi di vestito), e con iscorta di diversi armati a cavallo passar a Livorno alla custodia del governatore di quella piazza; e benchè da lui si fosse fatta istanza di poter parlar prima alla principessa sua padrona, niente gli è stato permesso, anzi rigorosamente gli fu comandato a non dover più capitar in queste parti, ma che da Livorno senza ritardo si metta a viaggio per Francia, o per dove gli fosse più piaciuto. Intanto si parla che per tal novità la medesima principessa sposa habbi provato un gran sentimento, sebben, con molta prudenza, finga e mostri di non molto curarsene, come d’alcuni altri simili disgustosi successi...» Il 15 ottobre: — È qui comparso un padre dell’Oratorio di Parigi, mandato dalla duchessa d’Orléans per intendere dalla voce di questa principessa sposa sua figlia, che qualità di disgusti essa passi con questa Casa, per iscoprire se viene trattata nelle forme dovute, e proprie alla grandezza del suo sangue, e alle conditioni della medesima principessa, la quale ha già rappresentato con sue lettere alla detta duchessa madre molte sue amarezze, e poche soddisfationi che andava ricevendo da questi principi...» Il 29 ottobre: — Il padre francese sta maneggiandosi, e pare che dopo il suo arrivo la principessa sposa si dimostri assai sollevata, cercando ben lui tutti li modi per levarle dall’animo la melanconia, e farla rimaner allegra e consolata, havendole promesso che certamente o dalla duchessa sua madre, o dal re le sariano soddisfatti alcuni debiti che haveva contratto per far donativi a chi la condusse di Francia». [128] Del resto anche Enrico IV desiderò d’essere e fu canonico lateranese. [129] GALLUZZI, lib. VIII, c. 10. [130] Federico Schlegel nel _Quadro della Storia moderna_, c. 9, ammira l’assetto dato allora alle cose nostre da Carlo V, «al quale l’Italia è debitrice del felice riposo, di cui godette nei tempi seguiti». «Niun secolo fu mai all’Italia così tranquillo e sicuro come il XVI. In mezzo a un sì dolce riposo, pareva ecc.» Son parole del TIRABOSCHI, _Storia della letteratura italiana_. «Se noi eccettuiamo il reame di Napoli... possiamo stimare che, per tutto quello spazio che corse dal 1559 al 1600, deve contarsi fra i più felici che mai godesse l’Italia, e si continuò quasi nel medesimo stato sino al 1625». DENINA, _Rivoluzioni d’Italia_, XXII. 4. [131] Al tempo di Mazarino cantavasi: _Si vous n’êtes italien,_ _Adieu l’espoir de la fortune;_ _Si vous n’êtes italien,_ _Vous n’attraperez jamais rien._ Nelle lettere del cardinale D’Ossat occorrono moltissimi italianismi: _Aigrir les matières, ne pouvoir mais, marcher de bon pied en une affaire, entrer en mauvaise satisfaction, scopes, ayant tardé plus qu’il ne soloit; m’embrassa, me tenant serré une bonne pièce_ (buona pezza); _il me tournait à dire encore; la religion pâtit trop en temps de guerre_. Reciprocamente poco era conosciuto qui il francese, poichè egli stesso ogni tratto mette: _Le cardinal d’Ascoli me fit lire et expliquer en italien la lettre: monsieur le cardinal Lancelot me fit lire et interpréter en italien la lettre que votre majesté lui écrivoit etc_. E a Venezia: _Je bailli au duc les lettres de votre majesté avec une traduction en langue italienne, laquelle j’avais faite sur la copie que vous m’en aviez envoyée_. Negli archivj veneti trovansi carteggi di varie Corti, e singolarmente della inglese, stesi in italiano: l’ambasciadore francese parlava a quel senato per via d’interprete, locchè non faceva lo spagnuolo: il doge rispondendo a quello, scusavasi se non avea ben capito, se non intendea bene il francese ecc. [132] «Il duca di Savoja ottenne questi giorni dal papa che tutti i soldati del suo esercito possano, una volta in vita e una in punto di morte, essere assolti da tutti i peccati e casi riservati alla santa sede... Questa domanda mi ha dato a pensare che voglia farli combattere non solo in giusta guerra contro gl’Infedeli, ma in qualche tristo disegno che possa avere». D’OSSAT, _Lettre_ CCLVI. [133] L’edizione elzeviriana del 1654, dedicata a Dio e coll’epigrafe _La divozion forzata al Signor non è grata_, è rarissima. [134] D’OSSAT, _Lettre_ CCXLIII. Il cardinale Francesco Barberini teneva presso Enrichetta di Francia regina d’Inghilterra agenti che, oltre le funzioni di ministri papali, procuravano vi si ristabilisse la religione cattolica. Singolarmente vi si adoperò il conte Carlo Rossetti, che cercava ottenere libertà di coscienza e di culto pe’ Cattolici, e anche di convertire il re. L’arcivescovo di Cantorberì si mostrava disposto andare a Roma se gli fosse assicurata la pensione di quarantottomila lire; ma il popolo di Londra, avutone sentore, assalì il Rossetti, che dovette fuggire. WICQUEFORT, _L’Ambassadeur_. [135] D’OSSAT, Lettere del 1598. Quelle lettere riboccano di siffatte pretensioni. [136] Uberto Languet si ride della vanità de’ principi italiani, che cercavano il titolo di re alla corte dell’imperatore: _Nam de ejusmodi nugis tanto conatu in hac aula agitur ab ipsis, ut nobis ampla materia ridendi præbeatur... Novit aula cæsarea uti vanitate Italorum ad sua commoda; quare non est quod Sabaudus speret se per Hispanum aut quemquam alium consecuturum id quod ambit, nisi multum pecuniæ in eam rem impenderit_. Lettere da Praga, agosto 1575, marzo 1578. [137] WICQUEFORT, _L’Ambassadeur_. Famose questioni in tal proposito ebbe la corte di Torino colla romana. Quando i residenti di Savoja chiedessero udienza straordinaria, il maestro di camera rispondeva: — Il signor residente venga alla tal ora, che nostra santità lo sentirà». Nel 1701 il marchese Garneri fece la domanda, e monsignor Ruffo gli rispose che «troverebbe l’anticamera aperta, e in lui ogni attenzione per servirlo». L’inviato se ne tenne offeso, e interpostosi il cardinale Barberini protettore di Savoja, si rattoppò. Il Garneri, chiesta novamente udienza per mezzo del suo cavallerizzo, ebbe a voce risposta dal maestro di camera: — Il cardinale nostro viene oggi alle ventidue ore, e crederei di poter servire il signor residente». Il cavallerizzo domandò se avesse informato sua santità; e il Ruffo rispose: — Lei vuol saper troppo...». Il residente l’ebbe per ingiuria; il Ruffo negò d’avere data tale risposta; il papa mostrò che dovea credere a questo più che al cavallerizzo; il duca ordinò al residente di partire, e ne venne una lunga interruzione diplomatica. [138] _Capitula regni Siciliæ edita ab ill._ Fr. TESTA; tom. II. pag. 57. [139] D’OSSAT, _Lettre_ CXLVIII. [140] D’OSSAT, _Lettre_ CCCXIX. [141] In una petizione del 1645 i Milanesi dicevano alla Corte: — Giammai si prostrarono ai piedi di vostra maestà nè così lacrimevoli nè più afflitti i suoi fedelissimi vassalli, e la città e Stato di Milano non fu mai tanto bisognevole di soccorso e rimedio della sua real grandezza, come in questo punto, tanto fatale per quella povera provincia che ha dato in servizio di vostra maestà vita sangue e roba, e la stessa speranza che di vita sopravanza. Disperata per un prolisso e confuso alloggiamento, coi medesimi disordini, con gli stessi abusi e con i medesimi inconvenienti tante volte rappresentati a vostra maestà, avendo quell’esausta provincia negli ultimi sforzi del suo amore speso quattordici milioni di reali in plata doble nel corso di questo tempo. E quel ch’è peggio, quando immaginava recuperar le sue forze con un abbondante ricolto per abilitarsi più a servizio della maestà vostra, il principe Francesco (di Savoja) entrando per l’Alessandrino, Lomellina, Novarese, Vigevanasco, Tortonese, ha sradicato e incenerito quel paese senza essergli stata fatta opposizione alcuna per parte di vostra maestà; ed è così grande il danno ricevuto che non venne lasciato ai fedelissimi vassalli della maestà vostra pure una sola spica di grano». E Fulvio Testi faceva dire all’Italia: Nè tante angustie a me recaron l’armi Di mille squadre a mia ruina armate, Quante vidi nell’ozio offese farmi Da quelle turbe invidiose, ingrate; E pacifica poscia odo chiamarmi Che m’hanno i tempj e le città spogliate; Ma se predar, se disertar le terre Dimandan pace, e quai sarian le guerre? È delle più ghiotte curiosità di quel secolo la vita dei soldati di ventura. Pei principeschi se ne vedano alcune in Mutinelli, _Storia arcana_, vol. I. p. 68; pei gregarj n’ho pubblicato io una nella _Scorsa negli archivj veneti_. Un’altra ricavo da un processo erettosi a Milano il 1659 contro don Mario Piatti, fabbricatore di monete false. Per ispenderle si valeva egli d’un tal Ignazio Casta côrso, il quale in giudizio esponeva la propria vita con parole che noi accorciamo, mantenendone il senso: — Io venni sette anni fa da Meti mia patria a Roma, dove mi assentai per soldato al servizio di Santa Chiesa; ho servito due o tre anni incirca; poi avendo inteso che il signor duca di Modena faceva gente contro lo Stato di Milano, m’absentai da Roma, e venni a Modena per servire quel signor duca, che fu al principio della campagna che esso signor duca fece l’anno 1655 prossimo passato con l’assedio che pose sotto Pavia; al qual assedio io assistii sotto lo stendardo del tenente Angelo Casabianca, qual fu sostituito capitano in luogo di Nicola Frodiani, quale d’ordine del detto signor duca, avanti di venir in campagna sotto Pavia, era stato fatto prigione sotto pretesto ch’esso signor capitano tenesse dalla parte di Spagna. E così essendo sotto detto assedio m’absentai, ed andai a Sant’Angelo con otto o nove camerata, dove mi resi volontario a certi signori della parte del re di Spagna, quali mi condussero con detti miei camerata a Milano in corte dove abita sua eccellenza, dove fui trattenuto la notte con una razione di pane per ciascuno, e poi la mattina seguente fui licenziato con detti miei camerata, e così s’avviassimo subito alla volta di Crema, della repubblica di Venezia, e dietro la strada io con detti miei camerata stabilissimo di colà farci soldati al servizio de’ signori Veneziani, promettendomi detti miei camerata di farmi uffiziale. Ma giunti che fossimo a Crema, essi miei compagni s’assentarono per soldati, senza procurarmi l’offizio che mi avevano promesso di farmi avere: per il che io mi scorrucciai seco, e perciò li piantai, e me n’andai a Brescia, dove anch’io m’assentai per soldato nella compagnia del capitano Pier Andrea Bergolaschi, nella quale servii due o tre mesi: e poi essendo stata riformata detta compagnia, ed io ammalatomi, per il che fui necessitato andar all’ospitale, in questo mentre restai casso. E dopo essermi trattenuto in detto ospitale quindici o sedici giorni, essendomi risanato e trovandomi casso, me ne ritornai alla volta di Modena, ove m’assentai di nuovo soldato, servendo quattro o cinque mesi dell’inverno seguente all’assedio di Pavia. Poi mi partii da ivi, e andai a Verona, dove m’assentai soldato nella compagnia del capitan Bernardino de’ Bernardini, e vi servii tre o quattro mesi. E perchè il detto capitano non potè compire la sua compagnia che allora andava facendo conforme li ordini, dovendo essere di sessanta uomini, io, benchè fossi assentato, essendo stato dato di casso a detta compagnia, mi partii da Verona, ed andai a Parma, dove mi misi al servizio di quel signor duca nella compagnia del signor conte capitano Tocoli, dove servii dieci o dodici mesi; poi per cercarmi maggior avvantaggio, m’assentai da Parma senza licenza, e me ne ritornai a Verona, dove fui fatto alfiere nella compagnia del capitano Felice Moradi, nella quale ho servito dal mese di settembre 1657 fino al mese d’aprile susseguente, che poi me ne ritornai alla volta di Roma, passando per Fiorenza, pensando di trovar ivi da far bene. Ma non avendo trovato bona occasione conforme il mio pensiero, seguitai il viaggio fino a Roma, ove mi fermai da quattro o sei giorni, e poi m’incamminai alla volta di Perugia, dove mi son trattenuto circa un mese in occasione di riscuotere certi denari... Poi venni a Ferrara, dove di nuovo mi feci soldato nella compagnia del capitano Giambattista Nochierigo, nella quale ho servito dal mese di settembre dell’anno prossimo passato sino per tutto aprile ora scorso, che poi partii con licenza di detto mio capitano, sotto pretesto di andar a Bologna per miei negozj, con limitazione di giorni venti a ritornare. Ma per cercarmi miglior fortuna, in cambio d’andar a Bologna m’incamminai alla volta di Modena, dove avevo amici, camerata e paesani; dove giunto, mi trattenni tutto il mese di marzo aspettando qualche fortuna per farmi offiziale; e attempandomi, nè vedendomi la conclusione di quanto desideravo, deliberai partirmi come partii, ritornandomi a Brescia, dove mi misi nella compagnia del capitano Santo Bozzio côrso mio amico, nella quale mi trattenni circa quindici giorni, cioè sino fatte le feste di pasqua. Nel qual tempo essendo capitato a Brescia un sargente reformato che era stato al servizio del duca di Modena, mio conoscente ed amico, chiamato Santuchio côrso, con un cavallo che disse aveva comprato, col quale andava cercando anch’esso sua fortuna, io domandai a detto Santucchio come amico, se mi poteva imprestare da otto o dieci doppie, con quali avevo pensiero d’andar alla casa di Loreto: qual Santuchio mi rispose che non aveva altrimenti comodità di farmi servizio se non vendeva il cavallo; dicendomi che, se lo glielo voleva andar a vendere, che era patrone; sicchè io lo pigliai, e per segno era un cavallo di pelo morello, castrato, ordinario e bello d’anni sette con sua sella e brida, e così me ne venni in Stato di Milano, e lo vendei in una terra che non so come si chiami, che è tra Novara e Turbìco. Nella qual terra avendo trovato accidentalmente da quattro o cinque che parevano soldati, fra’ quali uno ben vestito, che pareva un offiziale che parlava milanese, mi domandò se quel cavallo era da vendere. Io gli risposi di sì, che mi dovesse dare otto doppie di Spagna di peso a venti lire l’una. Perciò mi diede in pagamento ventitre filippi intieri, e il resto moneta, cioè parpagliole, quattrini e sesini, pregiandomi essi filippi lire sei soldi per ciascuno. Poi venni a Turbìco ove mi fermai la notte seguente nell’ostaria attacco al porto, e la mattina seguente m’imbarcai nel naviglio e venni a Milano...» * Nel dispaccio 25 settembre 1618, il residente veneto a Napoli scrive: «Mando qui aggiunta una nota capitatami questa sera delli mali fatti da una sola compagnia di Valloni nella terra di Calvello, luogo della signora principessa di Stigliano, la qual nota servirà per quelle delle signorie vostre eccellentissime che per curiosità volessero intender et comprender le miserie di questo Regno. Eccessi et delitti fatti dalla compagnia del capitano Gabriello di Elissch, che al presente alloggia nella terra di Calvello. In primis hanno ammazzato con un’archibugiata in testa Col’Angelo Lombardo. Item, hanno menato un’archibugiata ad una donna, et l’hanno ferita ad una coscia, con grave pericolo della vita, con haverle ammazzato un figliuolo che teneva in braccio. Item, hanno ferito a morte Roberto di Pieri, fantoccio di Santa Maria, con una stoccata nel petto e per tal guisa è morto. Item, a Carlo Camerotta hanno tagliato un braccio. Item, hanno tagliato tre dita a Luc’Antonio Maffeo. Item, hanno ferito Michelangelo Mastello con avergli tagliate le vene di tre dita. Item, hanno dato una cortellata nella testa a Gianfilippo Riviello Item, hanno dato una stoccata alla moglie di Giacomo Abriola. Item hanno menato una archibugiata alla immagine di San Giovanni Battista pitturata sopra la chiesa matre. Item, come hanno frustato Pietro Antonio Pugliese senza legittima causa. Item, come hanno ferito in una mano Flaminio de Masellis. Item, come hanno passata la faccia da una parte all’altra con una picca a Rosato Focone. Item, Polito Antonio Focone, suo figlio, venne ferito con una stoccata in faccia. Item, Andrea di Varlo fu ferito con una spada. Item, Flaminio de Laurenzi ferito nella coscia con una picca. Item, il clerico Antonio Varano ferito con una cortellata al braccio. Item, hanno fatto mangiar carne per forza alli cittadini le vigilie venerdì et sabbato. Item, come a Millo Vertuccio, non volendo mangiar carne, buttarono nella gola lardo squagliato e bollente, et bisognò medicarlo bene. Item, come Andrea Apretina ammazzò un vallone, vedendo ferito Pietro Saccomano suo cognato in un braccio, et Francesco Castellano, amico del detto Andrea, ferito nel collo. Dopo la morte del vallone li soldati ponendosi in rivolta per la terra commisero li seguenti delitti: A Carlo Fascone tagliarono due dita. Ferirono in testa, con una spada, Giacomo Peluso. Ferirono Gallieno de Majo, Angelo Latella, la moglie di Giovanni Camillo Venuto, et Lucio Marsiano, hanno cacciato un occhio a Filippo Recco; hanno ammazzato il cantore prete, perchè non volevano che fosse andato alla chiesa, don Ottavio de Tommasi prete, don Giulio Frisone, don Gallieno Casello, il chierico Giovanni Santociano, et tutto non per altro perchè andavano dicendo buone parole ecc. ecc. [142] Di essi cataloghi io diedi notizia nel _Milano e suo territorio_, vol. II. p. 395; poi ne parlò l’_Italia musicale_, 1855, n. 31. [143] CIBRARIO, _Istituzioni della monarchia di Savoja_. p. 247. [144] _Impia nam tota dominatur in urbe Mathesis,_ _Chaldæi volitantque domos atque atria circum:_ _Tempus ab his, certique dies, horæque petuntur,_ _Et fortuna, salusque hominum dependet ab astris..._ _Quidam animos etiam pariter cum corpore nostros_ _Interitum sentire volunt, unaque resolvi;_ _Et veteris promissa, novæque uberrima legis_ _Vana putant, ipsum patriis detrudere regnis,_ _Si possint, Dominum conantur more gigantum._ HOSPITALII Epist., lib. III. [145] 2 gennajo 1610. E vedi indietro al Cap. CXLIV. Fra i dottori scelti da Federico Borromeo per la biblioteca ambrosiana era Antonio Rusca, che scrisse _De inferno et statu dæmonum ante mundi exilium, libri V, in quibus tartarea cavitas, cruciamentorum genera, ethnicorom de his opiniones, dæmonumque conditio usque ad magnum judicii diem varia eruditione describuntur_. Milano 1621. * Il 21 luglio 1612 una donna a Firenze fu condannata ad essere appesa alle forche, poi bruciato il cadavere e confiscati i beni, come convinta e confessa d’aver avuto commercio nefando con un demonio che chiamava Bigiarino, il quale in forma di caprone la portò più volte ai sabati al noce di Benevento; ella stessa, trasformata in gatta, succhiò il sangue di molti ragazzi. Provavano il fatto molte madri, che certe malattie de’ loro figliuoli attestavano guarite da questa strega, mediante segni e parole inintelligibili. E poichè i fatti parean meno credibili, i giudici sottoposero la rea alla tortura probatoria, nella quale essa confermò tutte quelle fantasie. PAOLETTI, _Istituzioni criminali_. [146] DONZELLI, pag. 194. [147] La moglie dell’ammiraglio Coligny era accusata d’eresia presso il duca di Savoja, e di stregheria per denunzia di un’ossessa. Il cardinale d’Ossat nelle lettere del 1597 molto ne parla, e adopera per salvarla, mostrando come non s’abbia ad aver fede al diavolo, padre della menzogna, e come esso non vorrebbe denunziare i proprj devoti: al tempo stesso crede accorgersi che il duca di Savoja non aspira ad impadronirsi dei beni di lei per _servir de partage à un du tas de petits louveteaux qui se nourrissent au pié de ces monts_, alludendo ai molti figli naturali del duca. [148] Nella _Breve informatione del modo di trattare le cause del Sant’Offizio a Modena_ (Modena 1619) trovo questo catalogo di libri proibiti, speciale del paese, oltre quelli generali. Che non si lascino vendere alcuna delle Istorie seguenti, per contenere esse respettivamente cose false, superstitiose, apocrife e lascive; cioè: _Orazione di san Daniele. — Oratione di santa Helena_, in ottava rima. — _La Vergine Maria con gli Angeli santi — Oratione e scongiuri di santa Maria_: «Con il priego suo, che la dirà, ecc. O somma sacra ecc.». — _Il contrasto di Cicarello. — Egloga pastorale di Grotolo e Lilia. — Oratione di san Brandano — Vita di san Giovan Battista_, in rima. — _Oratione di santa Margarita_, in ottava rima, per le donne di parto: «O dolce Madre, di Gesù vita». — _Beneditione della Madonna_, in ottava rima: «A te con le man giunte, ecc.». — _Historia o martirio de’ santi Pietro e Paolo_, in rima: «Al nome sia di Dio glorificato, ecc.». — _Confessione della Maddalena_: «Altissima benigna, e benedetta». — _Pianto della Madonna_, in ottava rima: «Chi vuol piangere con la Vergine, ecc.». — _Contrasto del vangelo col demonio_: «Madre di Cristo Vergine Maria, ecc.». — _Historia di santa Chaterina vergine e martire. — Legenda devota del Romito de’ Pulcini._ — Confitemini _della beata Vergine. — Oratione contro la peste. — Epistola della Domenica_, in ottava rima: «Viva divinità dove procede; ecc.». — _Opera nova delli dodici venerdì:_ «A laude dell’eterno Redentore». — _Opera nuova del Giudicio generale_, in rima: «A te ricorre eterno Creatore». — _Oratione trovata nella cappella dove fu flagellato nostro Signore in Gerusalemme:_ «Madonna santa Maria, ecc.». — _Christo santo glorioso, laude devotissima:_ «Christo santo glorioso, che patesti, ecc.». — _Oratione ascritta a san Cipriano contro i maligni spiriti:_ «Io son Cipriano servo di Dio, ecc.». — _Historia di san Giorgio_, in ottava rima, in quarto: «In nome sia, ecc.». — _Oratione di San Giacomo Maggiore_, in versi, in ottavo: «Immenso Creatore, e con tua morte, ecc.». — _Oratione di santa Maria perpetua_, in prosa, con la rubrica: «Quest’è una devotissima oratione, ecc.». _Oratione della nostra Donna devotissima_, e in versi e in rima: «Ave, Madre di Dio, ecc.». — _Oratione di san Stefano_: «Superno Padre eterno Redentore, ecc.». Un catalogo di _operette et historiette prohibite_ più esteso e aggiunto al _Sacro Arsenale della Santa Inquisizione_, Bologna 1665, e la più parte sono preghiere e storie devote, massime in versi; vale a dire che espurgavasi piuttosto dalle superstizioni, a tal uopo proibendo in generale «tutti li libri che trattano d’insogni o loro ispositioni», o d’astrologia giudiziaria, o d’indovinare. Anche nelle _Regole del Sant’Uffizio_, ristampate a Milano il 1689, è una lista di libri proibiti, che sono quasi tutte orazioni o pie leggende. [149] In Francia Enrico II fu il primo che portasse calze di seta; e allora si cessò di nettar il naso nella manica dell’abito; NAUDÉ, _Giudizio di guanto si pubblicò sul Mazarino_. È bizzarro un _Regolamento per erigere le manifatture in Francia, e toglier il corso dei drappi di seta che rovinano lo Stato;_ lavoro di Laffemas, Parigi 1597. In quel tempo un pajo di calze di seta valeva in Francia lire dodici, che oggi equivarrebbero a sessantaquattro. [150] Il carro mantovano, equivalente a otto sogli, vendevasi lire quaranta, prima della ruina dei vigneti. [151] _Correspondance inédite de Mabillon et de Montfaucon aree l’Italie._ Parigi 1846, tom. I. 210. Tra le feste più pompose variate per bizzarria di componimenti, son quelle fattesi a Venezia il 1587 in occasione che vi apparvero alcuni principi del Giappone, probabilmente impostori, ch’erano stati a venerare il papa a Roma. Vedi SANSOVINO, _Venetia città nobilissima et singolare ecc_. [152] Lettera del 1695 nella collezione _Clarorum venetorum ad A. Magliabechium_, tom. I. [153] GUERRA e BUCCA, _Diurnali napoletani_. [154] _La Lombardia nel secolo_ XVII, dove si troveranno altre particolarità di costumi. [155] Vedi ARTEAGA. Chi voglia può leggere _Teti e Flora, prologo della gran pastorale recitata in Parma nel meraviglioso teatro ecc.; Mercurio e Marte, torneo regale fatto nel superbissimo teatro di Parma, ecc._, opere dell’Achillini. [156] Nella _Relazione_ dell’ambasceria a Costantinopoli di Gianfrancesco Morosini, bailo della repubblica di Venezia il 1585, si legge: — Tutta questa gente è molto vile, di costumi bassi, e di pochissima industria, di maniera che per il più consuma il tempo in grandissimo ozio. Quasi di continuo stanno a sedere, e per trattenimento usano di bevere pubblicamente così nelle botteghe, come anco per le strade, non solo uomini bassi, ma ancora de’ più principali, un’acqua negra bollente, quanto possono sofferire, che si cava d’una semente che chiaman cavée, la quale dicono ch’ha virtù di far stare l’uomo svegliato. Altri mangiano l’haccì per stare allegri, alcuni teriaca, ovvero letificante di Galeno, e cose simili; delle quali par che sii impossibile che i Turchi di qualcheduna non vogliano usare. Quelli poi che bevono vino, lo fanno di tal maniera che non si levano da mangiare e bere sino che non sono ubriachi; vogliono passeggiar mai, anzi si burlano quando veggono Cristiani a farlo, e dicono che sono pazzi a camminar senza necessità». Uno de’ primissimi libri che trattasse del caffè è _De saluberrima potione Cahue, seu Cafè nuncupata; discursus Faustini Naironi Banesii maronitæ_, Roma 1671. Ma un’eccellente descrizione di quella pianta è data da Prospero Alpino. [157] Castore Duranti cantava: _Hanc Sanctacrucius Prosper, cum nuncius esset_ _Sedis apostolicæ Lusitanas missus ad oras,_ _Huc adportavit, romana ad commoda gentis._ Quasi al tempo stesso Giovanni Nicod ambasciatore francese in Portogallo, l’introduceva in Francia, dov’era detta nicodina; e poi erba della regina perchè se ne valeva Caterina de’ Medici. [158] Nel 1648 il principe di Roccaromana descrivendo una vittoria da lui riportata, diceva: — Sto quasi morto di stracchezza per aversi peleato (_combattuto_) otto ore... me ne rallegro con vostra eccellenza, essendo risultato il tutto dal suo amparo (_protezione_). Il sergente Garzia merita la piazza dell’alfier morto, ed io ce l’ho promessa: vostra eccellenza faccia complirlo». Ap. CAPECELATRO, _Diarj_. [159] Lo compendio da una nota del cavaliere Tommaso Rinuccini, che sta ne’ _Ricordi storici di Filippo di Cino Rinuccini_, pubblicati a Firenze il 1840. [160] «La palla lesina era della grossezza d’una piccola pesca od albicocca, fatta di pelle di castrone ben seccata e ripiena di borra sì fortemente che riuscirà sodissima, e balzava altissimo: per darle s’adoperava mestole di un braccio incirca o poco più, di legname leggiero ed incartate di cartapecora nel luogo dove dovea dar la palla, che, colta bene, andava con tal velocità, che io scrittore mi ricordo di aver visto, quando era ragazzo, Pietro Berti ammazzare una rondine, che a caso s’incontrò nella palla alla quale lui aveva dato. La palle si facevano quasi per tutto il contado, ma le migliori e più stimate venivano da Panzano ed in giuoco si pagavano un testone la dozzina». [161] Molte erano quelle che, per aver fatto alcun voto, portavano una veste tutta scura. [162] Incomincia: — Assaggiamo di parlare un poco quest’altra lingua, massime essendo in questa contrada (Lucca), dove mi par sentire il più perfetto favellare della Toscana». [163] _La ville et la république de Venise_, Parigi 1680; opera anonima dedicata al conte d’Avaux, ambasciadore di Francia a Venezia. Merita pure essere veduto il viaggio in Italia del celebre Burnet vescovo di Salisbury. [164] Non siffatta dovea sembrare a Pietro Paolo Gileto milanese, che fece un poema _Torino in ogni parte ammirabile_; Milano, Malatesta, 1661. Egli stesso scrisse un altro poema in quattordici canti in ottava rima, _Mondana politica, con varietà di successi significata_, diretto a Carlo Emanuele II. [165] _Journal du voyage de Michel Montaigne en Italie en 1580-81._ Roma 1774. A Cristoforo Leuschner, che veniva in Italia, Giorgio Fabrizio dirigeva questi consigli: _Œnotri fugias ardentia munera Bacchi:_ _Sobria Aminæum temperet unda merum..._ _Adriacæ blandæ sunt vultu et voce puellæ:_ _His si credideris, postea nullus eris._ _Nec Daphnea tibi circumibit tempora laurus,_ _Ni vites cupidæ furta proterva Deæ._ _Non colit illa Gnidum, non amplius illa Panormum;_ _Tota habitat veneta mollis in urbe Venus._ _Hanc quoque dum vitas, alias vitare memento:_ _Serpit enim ex illa latius urbe malum._ _Uni etiam et noto tua pectora crede sodali:_ _Nec cole multiplices cautus amicitias..._ _Non inimicitias cum quoquam suscipe; lauda_ _Quod potes, et tacita cetera mente preme._ _Nec studia illorum studiis tua præfer: in illis_ _Non vult ingenio cedere nemo locis._ _Erga omnes facilis sis verbis; credito paucis;_ _Deque bonis studiis sit tibi sermo frequens._ [166] Perocchè dietro all’uscio ei te l’attacca, E dà il nero di fumo e la vernice A chi in presenza diè pomata e biacca. Viso di Fariseo spiritato Perchè de’ libri il frontispizio ho letto, Si crede esser fra’ dotti annoverato. MENZINI. [167] _Amphiteatrum_, pag. 118. [168] Prefazione al _Principe ermafrodito_. [169] _Vita di Sisto_ V, lib. I. [170] — L’inverno credo che fa freddo, perchè in quei tempi non ho mai sentito caldo che vicino al fuoco...», pag. 151 della _Vita dell’Aresi_. Chiama Luigi XIV «l’invincibile tra’ guerrieri, l’eroe tra’ Cesari, l’augusto tra’ monarchi, il prudente tra’ politici»; ed esclama: — O Luigi, o pianeta illustrator dell’universo, o orizzonte lucidissimo della religione cristiana, e chi potrà mai fissar gli sguardi se non sono d’aquila, ad un sole così alto, ad un merito non mai eclissabile, ad un Giove terreno così maestoso?» _La Fama gelosa della Fortuna_, 1680. Nella prefazione alla _Vita di Cromwell_, scritta dal Leti medesimo, si legge: — Può dirsi che le opere date in luce dal signor Leti a quell’anno 1692, giungano al numero di ottanta, senza comprendere il _P...mo moderno_, il _Conclave delle P...._, il _P...mo di Roma_, il _Parlatorio delle monache_, il _Ruf... del gobbo di Rialto_: delle quali opere vogliono autore il signor Leti, che però da lui si nega: ed a’ suoi confidenti, allorchè l’interrogano sopra tale materia, suol rispondere: _Delicta juventutis meæ et ignorantias meas ne memineris, Domine..._ In italiano ha ancora fatto stampare molti epitalamj, come il _Letto fiorito_, il _Trasporto d’amore_, la _Rôcca assediata_, il _Vicino avvicinato_, l’_Oriuolo sonoro_, ed altri versi». [171] _Historia d’Italia_; Torino, Zappata, 1680. [172] La costui menzione ci offre un nuovo esempio dell’appena credibile mancanza di denaro nella Corte spagnuola. Il granduca Ferdinando II nel 1639 fatto eseguire da Tacca esso cavallo di bronzo pel re di Spagna, imbarcollo a proprie spese fino a Cartagena. Piacque assai al re e al conte duca, ma non avean denaro per farlo trasferire al Buenritiro ove dovea collocarsi; nè lo trovarono finchè il granduca non mandò ordine agli artisti di ritornarsene. E poichè il conte duca diè commissione ad esso Tacca di quattro leoni da porgli attorno, il granduca gli permetteva d’accettare questo lavoro, suggerendogli però di farsi pagare anticipato. Vedi _Gaye_, _Carteggio_, III. 543. [173] A questo presentò un disegno per la chiesa di Montalto, e sentendoglielo lodare assai, disse: — Non l’ho fatto io, ma un giovinetto romano», che era Girolamo Rainaldi, e gli chiese licenza di presentarglielo. Questi fanno il preciso contrario! [174] Su quella Dafni fece un buon epigramma Urbano VIII: _Quisquis amans sequitur fugitivæ gaudia formæ_, _Fronde manus implet, baccas sed carpit amaras._ [175] Carlo Maderno cinse la confessione col gran balaustro, a cui sono affisse centododici lampade di bronzo dorato. Carlo Fontana luganese (1634-1714) allievo del Bernini, e che, se meno scorretto, avrebbe avuto campo a segnalarsi nelle grandiose commissioni, quali San Michele a Ripa, i granaj a Termini, la cupola del duomo di Montefiascone, il modello di quel di Fulda, ebbe incarico da Innocenzo XI di stendere la descrizione della basilica Vaticana. Calcola egli che fino al 1694 vi si fossero spesi quarantasei milioni ottocencinquantamila scudi romani, non computando i modelli, gli edifizj demoliti, un campanile del Bernini, costato centomila scudi ad alzarlo e dodicimila ad abbatterlo; nè le pitture, gli arredi, le macchine: nell’altar maggiore andarono ventidue milioni, cinquecentomila chilogrammi di bronzo, tolto alla copertura del Panteon, e cinquecentrentacinquemila scudi in operaj; centosettemila costò la cattedra. Il Maderno consigliava d’abbattere le case fin al Tevere, tirando fin a San Giacomo Scosciacavalli due portici, finiti con un arco trionfale, e preparare strade nel contorno: impresa che finora non si ardì. Singolarmente egli tende a scagionare il Bernini d’aver indebolito la cupola col fare nicchie e scale ne’ piloni, prova che quei vani s’erano lasciati dai primitivi architetti, per asciugare i massicci. Non parvero soddisfacienti le spiegazioni, e temendosi per la cupola, sorsero vivi dibattimenti tra artisti e matematici, e progetti or ingegnosi or ridicoli per corroborarla. Giovanni Poleni padovano rassicurava d’ottime ragioni i timorosi; pure, forse per condiscendenza, propose di fasciarla con cinque cerchi di ferro, che dovettero piuttosto nuocerle pel tanto battere e scarpellare. [176] Anche le lodi sono caratteristiche. Fulvio Testi lo chiama «il Michelangelo del nostro secolo, tanto nel dipingere quanto nello scolpire, e che non cede a nessuno degli antichi nell’eccellenza dell’arte. È veramente un nome da far impazzire le genti, perchè sa molto anche di belle lettere, ed ha motti e arguzie che passano l’anima. Lunedì fa recitar una commedia da lui composta, dove sono cose da far morire dalle risa chiunque ha pratica della Corte, perchè ciascuno, sia piccolo sia grande, prelato o cavaliere, ha la parte sua». John Evelyn, nelle _Memorie e Diario_ del viaggio che allora fece in Italia, stampato a Londra il 1827, dice che il Bernini diede un’opera, ove egli stesso dipinse le decorazioni, scolpì le statue, inventò le macchine, compose la musica, scrisse le parole, fabbricò il teatro. Per la fontana del Vaticano Girolamo Preti cantava: Ondosa mole ognor d’acqua feconda A piè del Vaticano il capo estolle; L’alto di spuma è biancheggiante, è l’onda, Benchè gelida sia, gorgoglia e bolle. Quasi corona il marmo orna e circonda, Misto a perle stillanti argento molle; Cade un fiume dintorno e l’aria inonda, E par che procelloso ondeggi un colle. Meraviglia di Paolo; i marmi e i monti, Nuovo Encelado santo, innalza e move, E trae, nuovo Mosè, da pietre i fonti. E mentre è il ciel sereno, il nostro Giove Che i torrenti sotterra al cenno ha pronti, Gl’innalza, e senza nube i nembi piove. È notevole l’opera: _Numismata summorum pontificum templi Vaticani fabricam indicantia, chronologica ejusdem fabricæ narratione ac multiplici eruditione explicata... a patre_ PHILIPPO BONANNI SOCIETATIS JESUS. Roma 1696. [177] Voltaire, colla solita impudenza, scrisse: _A la voix de Colbert, Bernini vint à Rome:_ _De Perrault dans le Louvre il admira la main;_ _ — Ah (dit-il) si Paris renferme dans son sein_ _De si rares talents, un si puissant génie,_ _Fallait-il m’appeller du fond de l’Italie?_ Era Levau che allora dirigeva i lavori del Louvre, succeduto a Lemercier; e gl’intrighi d’una consorteria, animata da Carlo Perrault, svogliarono il re d’adoprare il Bernini. [178] Lavori più o men peccanti lasciarono Flaminio Ponzio, Giovan Fiammingo, Costantino de’ Servi fiorentino, Carlo Lambardo d’Arezzo, Giovan Battista Soria romano che fece San Carlo de’ Catinari e la facciata di San Gregorio. A Carlo Rainaldi sono dovute le facciate delle due chiese in piazza del Popolo, e quella di Sant’Andrea della Valle, una delle migliori d’allora, la villa Pinciana, il duomo di Ronciglione, e il palazzo dell’Accademia di Francia. Il palazzo Altieri al Gesù magnifica l’abilità di Giannantonio De Rossi bergamasco, il quale pure non sapea disegnare di propria mano. La porta bugnata fu aggiunta da Mattia De Rossi romano, il quale succedette in quasi tutte le cariche al Bernini, e fu chiamato anche in Francia. [179] Egli rivela il suo metodo nel famoso sonetto a lode di Nicolino dell’Abate, dove la poesia non val meglio che il precetto: Chi farsi un buon pittor brama e desia, Il disegno di Roma abbia alla mano, La mossa coll’ombrar venezïano, E il degno colorir di Lombardia; Di Michelangiol la terribil via, Il vero natural di Tizïano, Di Correggio lo stil puro e sovrano, E di Raffael la vera simmetria; Del Tibaldi il decoro e il fondamento, Del dotto Primaticcio l’inventare, E un po’ di grazia del Parmigianino: Ma senza tanti studj e tanto stento Si ponga solo l’opre ad imitare Che qui lasciocci il nostro Nicolino. [180] Il soggetto stesso era trattato da Lorenzo Leonbruno mantovano, morto il 1537, emulo di Giulio Romano, e ignoto ai biografi contemporanei. [181] Secondo le note che si conservano alla biblioteca Ercolani a Bologna, il Guercino toccò per l’Agar 70 scudi, lire 1, soldi 8; pel san Brunone, scudi 781; pel san Girolamo desto dalla tromba, scudi 295; per un’Angelica e Medoro, scudi 351; pei ritratti del duca e della duchessa di Mantova al naturale, scudi 630. Dall’archivio dell’ospedal di Milano raccolgo che l’Annunziata ivi posta gli fu pagata lire milanesi 3167. Il san Girolamo fu pagato al Correggio 47 zecchini e cibo per sei mesi da Briseide Cossa: v’aggiunse due carri di legna, un porco grasso e frumento. Il re di Portogallo ne esibì 40,000 zecchini; poi il duca di Parma offrì un milione perchè i Francesi nol rubassero, e non si accettò. [182] Queste pitture ignude e senza spoglia Son libri di lascivia. Hanno i pennelli Semi, da cui disonestà germoglia... Chè nelle chiese, ove s’adora e prega, Delle donne si fanno i ritrattini, E la magion di Dio divien bottega... E per farsi tener de’ più majuscoli Spogliando i santi, vuol mostrar che intende I proprj siti ed il rigor de’ muscoli. Le attitudini sì che son tremende! Qual fa corvette, qual galoppa o traina Con cento smorfie e torciture orrende... Chè d’un Angelo invece e di Maria D’Ati il volto s’adora e di Medusa, L’effigie d’un Batillo o d’un’Arpia... ROSA, _Sulla Pittura_. [183] Marcantonio Magno (-1550) suo padre, sbandito per delitti, viaggiò, ebbe impieghi nel Napoletano, e principalmente di visconte di tutti i castelli di casa Caraffa; fu poeta di prima risma, talchè l’Ariosto gli diede a limare un suo canto; gli furono anche coniate medaglie. Ma delle sue lambiccature ecco prova in questo epigramma: Caron, Caron! — Chi st’importun che grida? — Gli è un amante fidel che cerca il passo... — Chi è stato sto crudel, quest’omicida Che talmente t’ha morto? — Amore, ahi lasso! — Non varco amanti; or cercati altra guida. — Al tuo dispetto converrà ch’io passo, Ch’ho tanti strali al cor, tant’acqua ai lumi Ch’io mi farò la barca, i remi e’ fiumi. Il pio Giannangelo Lottini scultore e poeta fiorentino fece trentotto discorsi di commento alla _Vergine Bella_ del Petrarca. — 1629. [184] Dal Capurro a Pisa nel 1831 furono stampate le postille sue alla Divina Commedia, fatte con indipendenza, ma pedantesche. [185] Urbano VIII nell’inno a san Martino scriveva: _Tu natale solum protege, tu bonæ_ _Da pacis requiem Christiadum plagis,_ _Armorum strepitus et fera prœlia_ _In fines age thracios._ _Et regum socians agmina sub crucis_ _Vexillo, Solymas nexibus exime,_ _Vindexque innocui sanguinis, hostium_ _Robur funditus erue._ Le poesie di Urbano VIII furono stampate un secolo dopo da un inglese: _Maphæi suæ reverendissimæ eminentiæ cardinalis Barberini, postea Urbani papæ VIII poemata; præmissis quibusdam de vita auctoris et annotationibus adjunctis edidit_ Josephus Brow. Oxon. 1736. [186] Vedi la sua lettera al Gonzaga del 15 giugno 1575. [187] Ancor più pedestre imitatore del _Sogno di Scipione_ mostrasi nella canzone in morte d’Ercole Gonzaga, dov’egli contemporaneo di Galileo e posteriore d’un Secolo a Colombo e a Vasco, canta: Vedi come la terra in cinque cerchi Distinta giace, e che ne son due sempre Per algente pruina orridi e inculti; Deserto è il terzo ancora, e che si stempri Pare, e si sfaccia negli ardor soverchi; Restan sol quelli frequentati e culti, Ma sono all’un dell’altro i fatti occulti. Quante interposte in loro e vaste e nude Solitudini scorgi, e ’n ogni parte Quasi macchie cosparte, Lor come isole il mare intorno chiude; E quel che ’n voce e ’n carte È Ocean chiamato, ed ampio e magno, Che ti sembra or, se non un piccol stagno? Il concilio dei diavoli è tolto dalla _Cristiade_ del Vida. [188] Il Tasso era il Giustiniano dei duellisti di quel secolo, citandosi le sue decisioni come oracoli: prova che fu infedele ai tempi che descrisse. [189] Vedi a pag. 232 le sue lodi a Bianca Capello. Ha una canzone in lode del terribile Sisto V, ove mostra di andar cercando la clemenza dappertutto senza trovarla: Ove fia ch’io la scerna? Più bella che ’n avorio o ’n marmi o ’n oro Opra di Fidia, in te (se ’l ver contempio) Ha la clemenza e nel tuo core il tempio. Ad esso papa dice: — Tu sei Tifi, e la tua nave è Argo». [190] Vedasi, tra le altre, la lettera a Maurizio Cattaneo: — Una lettera è sparita, e credo se l’abbia portata il folletto... e questo è uno di quei miracoli, che io ho veduto assai spesso nello spedale; laonde son certo che siano fatti da qualche mago; e n’ho altri molti argomenti... Oltre quei miracoli del folletto, vi sono molti spaventi notturni... ho vedute ombre... ho udito strepiti spaventosi... e fra tanti terrori e tanti dolori m’apparve in aria l’immagine della gloriosa Vergine col Figliuolo in braccio... E benchè potesse facilmente essere una fantasia, perchè io sono frenetico, e quasi sempre perturbato da varj fantasmi e pieno di malinconia infinita, non di meno, per la grazia di Dio, posso _cohibere assensum_ alcuna volta..... S’io non m’inganno, della frenesia furono cagione alcune confezioni ch’io mangiai tre anni sono... Dappoi la malìa fu rinnovata un’altra volta... La qualità del male è così maravigliosa, che potrebbe ingannare i medici più diligenti; onde io la stimo operazione di mago e sarebbe opera di pietà cavarmi di questo luogo, dove agl’incantatori è conceduto di far tanto contro di me... Del folletto voglio scrivere alcuna cosa ancora. Il ladroncello m’ha rubati molti scudi di moneta, nè so quanti siano, perchè non ne tengo conto come gli avari; ma forse arrivano a venti: mi mette tutti i libri sossopra, apre le casse, ruba le chiavi, ch’io non me ne posso guardare». 25 dicembre 1585. [191] — Io mi purgo, nè voglio, nè posso disubbidire ai medici, i quali hanno ordinato che io non istudii nè scriva... Mandatemi qualche consulto di medico che non vi costi». Ad Antonio Sersale, 1585. [192] — L’accuse datemi d’infedele al mio principe, mescolate con quell’altre primiere accuse, fecero un torrente e un diluvio d’infortunj così grande, che argine o riparo d’umana ragione, o favore delle serenissime principesse, che molto per mia salute s’affaticarono, non furono possenti di ritenerlo. Or che risponderò a queste grandi accuse?» E qui s’avviluppa in distinzioni aristoteliche sul prevalere dell’intelletto o della volontà; poi dopo lunghissimo divagare torna in proposito: — La principale azione della quale sono incolpato, e la quale per avventura è sola cagione che io sia castigato, non dee essere per avventura punita come assolutamente rea, ma come mista: perchè non per elezione la feci, ma per necessità; necessità non assoluta ma condizionata; e per timore ora di morte, ora di vergogna grandissima d’infelice e perpetua ingratitudine. E perciocchè Aristotele pone due maniere d’azioni miste, una degna di laude e l’altra di perdono, sebbene io non ardisca di collocare la mia nella prima specie, di riporla nella seconda non temerò. Nè giudico meno degne di perdono le parole ch’io dissi, perchè fur dette da uomo non solo iracondo, ma in quella occasione adiratissimo... Ma molte fiate, ove l’ira più abbonda, ivi è maggiore abbondanza di amore. Ed io, consapevole a me stesso, ne potrei addurre molti testimonj che in amare il mio signore, e in desiderare la grandezza e la felicità sua ho ceduto a pochi de’ suoi più cari; e nel portar affezione agli amici, e nel desiderare e procurar lor bene quanto per me s’è potuto ho avuto così pochi paragoni, come niuna corrispondenza. E se Dio perdona mille bestemmie con le quali tutto il dì è offeso da’ peccatori, possono bene anche i principi alcuna parola contro lor detta perdonare.... Il dar per castigo ad un artefice che non si eserciti nell’arte sua è certo esempio inaudito... Il principe volle con ciò per avventura esercitar la mia pazienza o far prova della mia fede, e vedermi umiliare in quelle cose dalle quali conosceva che alcuna mia altezza poteva procedere, con intenzione poi di rimovere questo duro divieto quando a lui paresse che la mia umiltà il meritasse... Ma io non solo poco ubbidiente in trapassare i cenni del suo comandamento, ma molto incontinente eziandio in lamentarmi che mi fosse imposta sì dura legge, partii, non solo scacciato, ma volontario da Ferrara, luogo dove io era, se non nato, almeno rinato, e dove ora non sol dal bisogno sono stato costretto a ritornare, ma sospinto anche dal grandissimo desiderio che io aveva di baciare le mani di sua altezza, e di riacquistare, nell’occasione delle nozze, alcuna parte della sua grazia». [193] Lettera al Panigarola. E nel XXIII de’ sonetti eroici: Scrissi di vera impresa e d’eroi veri, Ma gli accrebbi ed ornai, quasi pittore Che finga altrui di quel ch’egli è migliore, Di più vaghi sembianti e di più alteri. Poscia con occhi rimirai severi L’opra; _e la forma a me spiacque e ’l colore_, E l’altra ne formai, mastro migliore; Nè so se colorirla in carte io speri. Come poco avesse progredito nel sentimento storico ed estetico appare dalle lodi ch’egli dà al nuovo poema, le quali si riducono all’aver imitato di più Omero, e la flotta, ed Ettore e Andromaca, ecc. La _Gerusalemme conquistata_ fu proibita in Francia per decreto del Parlamento di Parigi in grazia delle ottave che si riferiscono alle turbolenze di quel regno, dando per motivi che «contengono idee contrarie all’autorità del re e al bene del regno, e attentatorie all’onore di Enrico III e IV». Certo il Tasso vi sostiene la padronanza del papa sovra i re: Ei solo il re può dare al regno E ’l regno al re, domi i tiranni e i mostri, E placargli del cielo il grave sdegno. XX. 77. [194] Si suole dai nostri rimbrottare Boileau d’aver opposto all’_or de Virgile le clinquant du Tasse_: ma già prima la frase era stata adoprata in paragone molto più basso da Leonardo Salviati nell’_Infarinato Secondo_, lamentandosi di chi pretende «agguagliare all’_Avarchide_ il poema del Tasso, secondo che s’agguaglia anche l’orpello all’oro». [195] Ciò spiegasi dalle condizioni sociali d’un tempo, in cui Chaudebonne diceva a Voiture: _Vous êtes un trop galant homme pour demeurer dans la bourgeoisie: il faut que je vous en tire_. [196] Vedi la raccolta delle lettere fatta dal Guasti, vol. V. pag. 97. [197] — Io non pensai mai di stampare a mie spese, perchè non ho molti scudi oltre i cento, i quali non mi basteranno quest’anno a vestire ed a mangiare. Sono sfornitissimo di tutte le cose necessarie. Avrei voluto (poichè gli stampatori non hanno discrezione o pietà o coscienza alcuna) ch’alcun mio amico facesse la spesa, e poi ritraesse i denari». Al Costantini, 12 settembre 1590. [198] — Appena questa state ho comperato per mio gusto due paja di meloni; e benchè io sia stato quasi sempre infermo, molte volte mi sono contentato del manzo per non ispendere in pollastro; e la minestra di lattuca e di zucca, quando ho potuto averne, m’è stata invece di delizia». Al Costantini, 12 ottobre 1590. — Io vendei in Mantova per necessità per venti scudi un rubino, già donatomi dalla signora duchessa d’Urbino, il quale era stato stimato, da chi più, settanta scudi; da chi meno, trentacinque... I trentadue scudi non mi furono dati per pagamento d’un anello, ma per quel d’una collana, la quale io gli diedi da vendere, ed egli la vendè quattro scudi meno di quel che pesava l’oro». A Curzio Ardizio 1581. — Io sottoscritto dichiaro d’aver ricevuto dal signor Abram Levi venticinque lire, per le quali ritiene in pegno una spada del mio padre, sei camiscie, quattro lenzuoli, due tovaglie. A dì 2 di marzo 1570». TORQUATO TASSO. [199] È del poeta il fin la meraviglia: Chi non sa far stupir vada alla striglia. [200] In predica diceva che _après leur mort les papes deviennent des papillons, les sires des sirons, les rois des roitelets_; e a proposito del nuovo titolo di eminenza dato ai cardinali, dice che questi aveano lasciato ai vecchi l’_illustrissimo_ e il _reverendissimo_, come ai loro camerieri regalavano gli abiti logori di pavonazzo e la biancheria sudicia. Il padre Basquier di Mons predicatore fece il _Petit rasoir des ornements mondains; il Fouet de l’Académie des pécheurs_, ecc. Altri titoli di prediche sono: _Fusil de pénitence pour battre le caillou de l’homme; Petit pistolet de poche pour tirer aux hérétiques; la douce moëlle et la sauce friande des os savoureux de l’Avent_. Fra i Tedeschi è per simili scempiaggini famoso il predicatore Abramo di Santa Chiara, morto il 1765. * Gay de la Brosse nel 1628 dedicando a Richelieu il suo _Dessein d’un jardin royal_, diceva: — _Encore que le temple de votre vertu incomparable ne soit honoré que de vœux d’un grand prix, et qu’une petite offrande aurait mauvaise grâce au rang de celles de valeur; sans vanité je ne laisse d’espérer que ces nouvelles pensées des plantes y pourront trouver quelque place sortable à leur bassesse.... Les plantes, pour être filles de la terre, ne sont tant abjectes qu’elles ne méritent la faveur des Dieux: l’ambroise, le nectar et la panacée chérie des immortels sont de leur famille... Ainsi que le soleil qui ne reluit pas seulement sur les hauts pins des montagnes et sur les chênes les plus élevés des forêts, mais encore sur les herbes les plus basses, il se pourra faire que vous, soleil des esprits, après avoir dissipé par la force de votre splendeur les épais nuages de la faction rebelle, que couronné de lauriers immortels et la palme à la main, vous rayonniez sur cette œuvre des plantes, sur les fleurs et les fruits de votre humble créature etc._ [201] Un uomo ingegnoso in quel tempo stesso descriveva Parigi con altrettante arguzie, ma con ben altro spirito d’osservazione. È messer Giovanni Sagredo, di cui altrove parleremo, e in alcune _Lettere_, pubblicate a Venezia il 1839 per nozze, scrive a Giorgio Contarini: — Eccomi in Francia: o che Parigi è un piccolo mondo, o che il mondo è un gran Parigi; o che non vi è paradiso in terra, o che Parigi è il paradiso terrestre. La fendono, o piuttosto la vettovagliano due grandi fiumi; città paragonabile ad una provincia a segno, che se alcuno commette un delitto da una parte di questa grande metropoli e fugga dall’altra, non è più conosciuto come se fosse passato in altro paese. «La sera verso al piegar del sole fui condotto al corso, dove intervennero le maestà regie, e perciò frequentato da innumerabili carrozze. Pria che vi si entri si traversa un esercito di paggi e di staffieri coperti di livree di varj colori, esercito libertino senza capi che lo dirigano e perciò non poco insolente. «Il corso è guarnito di verdeggiante tappezzeria naturale, formata da molti alberi piantati in fila, che per un terzo di miglio distesamente dilatandosi formano ombrosi e lunghissimi viali, sotto i quali si gode una deliziosa frescura ed aria amena. Che vi dirò delle donne che vi passeggiano? sciolgono la voce e cantando incatenano, augelli al suono, angeli al volto. Si sentono le più belle arie del mondo, ed esse hanno un’aria celeste. «Il susseguente giorno fui introdotto nel gabinetto di una principessa, frequentato dalle più elette bellezze; per entro non si vedevano che oro e pitture, e risplendevano in tanta abbondanza i lumi a traverso dei cristalli, che la stanza mi sembrò un cielo illuminato da stelle. «Che dirò dell’affabilità, della libertà, del brio, dello spirito pronto, dell’ingegno versatile delle dame? Parlano di tutto, hanno o pretendono di avere qualche cognizione d’ogni cosa; spesso, a dirvela schietta, non è che semplice tintura, e talvolta spropositi dicono, ma con sì belle parole che pajono belle cose. Discorrono della guerra come se avessero diretti eserciti, parlano di politica come se si fossero consumate nei gabinetti. Quelle poi della Corte penetrano nei secreti più reconditi, e fra i divertimenti d’un balletto si fabbricano da loro talvolta trame di famose rivoluzioni, si formano partiti per abbattere i favoriti, e taluna si è trasferita sino in Ispagna per procurare da quel re sostegno alla propria fazione. «Vi sono le dame dameggianti che in francese si nomano _coquettes_, le quali godono d’essere intrattenute con allegri racconti, che ognuno spasimi per le loro bellezze, e si compiacciono delle lodi e delle lusinghe. Scaltre però e raffinate all’estremo, grande cautela si vuole per resistere ad un misto di vivacità e bellezza, e guaj a chi cede ad un cuore che pare di fuoco e non è che di ghiaccio; e solo l’orgoglio spesso, talvolta l’interesse, mutano il fuoco in ghiaccio, il ghiaccio in fuoco. «Alcune altre, più serie e più gravi dell’aspetto, sono chiamate les précieuses, non sputano che sentenze, hanno del sussiego, aborriscono sentir parlare dell’amore, sebbene talvolta facciano all’amore più delle altre; ogni sentenza loro è un aforismo. Visitai, pochi giorni sono, una di queste, e non avendo soggetto così pronto per intrattenerla, sapendo che il di lei marito esercitava nel campo carica principale, l’interpellai se tenesse freschi avvisi del campo. Rispose che si trovava il re non lungi dalle sue truppe per invitare gli Spagnuoli a qualche azione. Soggiunsi che dove si ritrovava il re, dove assisteva la sua nobiltà fiorita e generosa, non poteva disgiungersi la vittoria. La preziosa, postasi in contegno grave, replicò che gli esiti delle battaglie erano incerti, che la fortuna ne prendeva una buona parte, che il principio delle imprese dipendeva dall’arbitrio dell’uomo, il fine dal volere di Dio. In altra occasione dissi: «Come vi sentite voi, madama, negli effetti dei correnti eccessivi calori?» Mi rispose, che nel teatro del mondo ciascheduna delle stagioni dell’anno fa il suo carnovale, e rappresenta quella parte che la natura le ha assegnato; che se l’inverno si trasvestisse da estate e l’estate da inverno, e se l’autunno da primavera e la primavera da autunno, e non avessero le loro temperanze, si disordinerebbe la rappresentazione, e si scomporrebbe l’architettura dell’universo. «Da ciò comprendere potete che, per non andar male colle prime, basta infilzare complimenti ed avere scorso qualche romanzo; per riuscire colle seconde si ricerca più massiccia dottrina, o far mostra d’aver molta dottrina e non parere di essere soltanto infarinato. Anco tra le mogli dei parlamentari ed altri ministri di palazzo vi sono rare bellezze e spiriti elevati. Quelle poi dei mercatanti tengono la scrittura, girano partite, trafficano e dirigono i capitali come fra noi i più eccellenti negozianti. Insomma qui le femmine sono più donne delle nostre, e talvolta non la cedono agli uomini. «I cavalieri poi e la nobiltà s’esercita nelle accademie, si istruisce colla visione di paesi lontani, e pochi son quelli che non sappiano addestrar un cavallo, sonar un liuto, tirar di spada: inceneriti fra le dame, insanguinati negli eserciti, Marte ed Amore hanno la direzione dei loro spiriti, ed al rimbombo della tromba spogliano Amore delle sue piume, e se le pongono sopra il cappello, ed impugnate l’armi si scordano le delizie dei gabinetti, e sono lor delizie gli eserciti e le battaglie. «Andai dopo _au Palais_, che è come la nostra Merceria, dentro una gran sala. Là sì che bisogna porre il lucchetto alla borsa chi non vuol spendere! cento mode che allettano, mille lavori leggiadri e bizzarri che invitano, donne leggiadre che costringono a comperare le loro merci con assalti di cortesia e di galanteria, che all’istessa avarizia conviene arrendersi a discrezione. «Non mancano i divertimenti. Sono sempre spalancate le porte alle visite, abbondano gli accoglimenti e le parole cortesi, anche se negano od insultano; abbondano le passeggiate, le veglie, le colezioni, i balli, i violini, i luoghi suburbani, a segno che le dame fanno sempre carnovale, e perciò van sempre in maschera. «Parigi è il cielo delle dame, l’inferno dei cavalli, il purgatorio delle borse. E vi saluto». Egli stesso, arrivato in Inghilterra al tempo che Cromwell avea chiuso il parlamento, perchè egli stesso parla e mente abbastanza, scrive che a Londra «non si veggono dame alla Corte, ma solo damme da chi va alla caccia; non più cavalieri, ma cavalli e fanti; non si parla d’amore ma di Marte, non commedie ma tragedie, non sopra i volti mosche ma sulle spalle moschetti; non veglie ma ministri severi che danno la veglia a quelli del contrario partito. Insomma tutto è pieno di dispetti, di sospetti, di bruttissimi aspetti». [202] Il Marini volle impacciarsi anche delle quistioni religiose di Francia, e nella _Sferza, invettiva a quattro ministri dell’iniquità_ (Napoli 1626) percosse quattro autori d’un’opera eretico-democratica. Mentre i parlamenti imputavano di tirannicidio i Gesuiti, egli sostiene che i Calvinisti sono nemici dei re; e conchiude questa volta senza metafore, che «al fuoco dannare si devono tutti coloro insieme con quei libri dove tali dottrine si contengono; deonsi punire gl’impressori e i venditori di essi;... deonsi spianare le loro cattedre e diroccare le loro chiese». [203] Il Marini esprime giudizj sopra suoi contemporanei colla solita sguajataggine. Al Franco che fu impiccato fa dire: Tentai farmi eminente, E in altro monte ove di rado uom sale E in altra pianta ove volai senz’ale Restai, canuto il pel, cigno dolente Spettacolo pendente. Dal Bonfadio, anch’egli finito sul patibolo: Ed Omero Maron nella Scrittura Imitai pria vivendo; Ma Troja nell’incendio e nell’arsura Imitai poi vivendo. Ella preda del foco, Io delle fiamme giogo: Ma diversa cagion d’arder ne diede, Elena all’una, all’altro Ganimede. [204] L’Aprosio nello _Scudo di Rinaldo_ critica le mode d’all’ora, e nell’_Atene Italica_ mette in vista i principali uomini d’Italia. [205] — Oh adesso sì, grida Dio, che mi fai dar nelle rotte. — Ma Signore, a che giuoco giochiamo? — O Signore, avete imparato a vostre spese a portarvi così; quante volte siete stato burlato!» [206] È in venticinque atti, e fu recitata in cinque giorni nel 1611. [207] Benedetto Aresi milanese, nato nel 1673, lasciò manoscritti sette volumi di «voci e frasi italiane più usitate, e che non si trovano ne’ vocabolarj». Buoni appunti alla Crusca fece Giulio Ottonelli, che nel 1609 scriveva ad Alessandro Tassoni ancor principiante, di evitare le parole vecchie e disusate, adducendo in prova il Pinelli che volle abbellire con esse la sua traduzione dei salmi di san Bonaventura, e «pensando acquistarsene lode, ne ha avuto biasimo da tutti, e da’ suoi proprj accademici della Crusca». _Lettere d’uomini illustri_, Venezia 1749, pag. 478. In questa raccolta ve n’ha molte di bellissime del Pignoria. [208] Egli era galantuomo e cortigiano A un tempo stesso, ch’egli è come dire Fare un tempo da basso e da soprano. FAGIUOLI. [209] L’_Eneide travestita_ del Lalli è del 1633; è del 1648 _Le Virgile travesti_ di Scarron, e il _Virgilio deguisato en langue gasconne_ del signor Des Valles de Mountech. [210] _Entremêler souvent un petit_ e così, _Et d’un_ son servitor _contrefaire l’honnesté._ Enrico Stefano scrisse _Dialoghi sul nuovo parlar francese italianizzato_ (1578), ove introduce un Filausonio che lo parla: _Il n’y a pas longtemps qu’ayant_ quelque martel en teste _et à cause de ce estant sorti après le past pour spaceger, je trouvai par la strade un mien ami. Or voyant qu’il se monstroit estre tout sbigottit de mon langage, je me mis à ragioner avec luy_, ecc. Alcuni degli italianismi da lui disapprovati rimasero nel francese, come _accommoder, concert, caprice, contraste, manquer, réussir, se ressentir_, ecc. Di quel del D’Ossat già parlammo. [211] Milton ebbe pure, e fors’anche tolse dai nostri molte sconvenienti metafore. Il tuono e i fulmini gli sono _artiglieria del cielo_ (canto II); l’ora matuttina, il _ventaglio dell’Aurora_ (ivi); gli sporti degli alveari, _i sobborghi della cittadella di paglia delle api_ (c. I); dove inoltre troviamo e alberi maestosi che sbocciano quasi danzando dal sen della terra, e ampie ferite aperte nel seno della montagna per trarne le costole d’oro, ecc. [212] Nell’_Istruzione_ a monsignor Pignatelli nunzio apostolico presso Leopoldo I, che forma parte dei _Secreti di Stato dei principi d’Europa_ (Colonia 1676), si legge: — La buona memoria del defunto imperatore (Ferdinando III), curioso dell’idioma italiano, aveva in modo introdotta nella Corte cesarea la nostra lingua, che quasi non si parlava di continuo con altra, onde i cavalieri a gara procuravano di viaggiare in Roma per rendersi possessori di questa. Vostra signoria procurerà quanto sarà possibile non solo di conservare tale uso, ma ancora di dilatarlo, obbligando con termini gentili sua maestà a frequentare le prediche italiane, procurando a questo fine che si predichi in alcune chiese, e che vi sia nella Corte un predicatore de’ più valorosi, che possa predicare in certi giorni più comodi a Cesare; ed è certo che da ciò se ne cava grande profitto, investendosi i Tedeschi pian piano d’una inclinazione verso la nostra nazione». [213] _Dialogo sulla bellezza_. [214] La _Ricreazione del savio_; l’_Uom di lettere_; i _Simboli trasportati al morale_; la _Povertà contenta_; l’_Eternità consigliera_, ecc. Nella _Coagulazione_, VIII. 721, dice che questa «diversamente lavora e distilla e rettifica e dissolve e coagula e fermenta e precipita e mischia e incorpora e sublima e fissa». [215] Dopo la prima fece una nuova edizione, forbendone la lingua acciocchè fosse citato dalla Crusca, «onore ch’egli stimava più del cardinalato». [216] _De monarchia Solipsorum. De potestate pontificia in Societatem Jesu_. 1646. [217] Paolo Segneri juniore attese alle missioni, e le diocesi sel disputavano; fra le turbe sbigottite a Roma dai tremuoti del 1703 si buttò insegnando a temere e sperare. [218] Il Boccalini morì a Venezia _da dolori colici e da febbre_, dice il necrologio. Le sue osservazioni sul II libro di Tacito furono offerte al consiglio dei Dieci da’ suoi figli Ridolfo e Aurelio, i quali, noverando i meriti paterni e i proprj, chiedeano soccorsi. E il consiglio _andò parte_ che fosse loro concessa facoltà di poter permutare la condanna d’un confinato in prigione a tempo, in relegazione nell’Istria o altrove. Vedi Cicogna, _Iscrizioni venete_ in San Giorgio Maggiore, pag. 365. [219] Lettera a Camillo Baldi. [220] Non è figlia del Sol la musa mia, Nè ha cetra d’oro o d’ebano contesta; È rozza villanella e si trastulla, Cantando a aria conforme le frulla.., Ma canta per cantare allegramente, E acciò che si rallegri ancor chi l’ode; Nè sa, nè bada a regolar niente, Sprezzatrice di biasimo e di lode. [221] Loda lo spagnuolo Lope de Vega perchè Ciò che scrisse e cantò tutto fu d’oro; ... Ma le castalie scuole Da lui prendano esempio, e imparin come Più bel s’eterni in carmi onesti un nome. Non ha dunque Elicona Per dilettar altro che amplessi e baci? Che Salmace nel fonte, Adon nel bosco? Bell’Italia, perdona A’ detti miei se ti parran mordaci: Fatto vil per lascivia è il cantar tosco; Già dilatato il tosco Serpe per ogni penna; e mostrar nude Prostitute le muse, oggi è virtude. _Sacco di Mantova_, nelle nozze di Margherita Farnese e Francesco II d’Este. [222] GREGORIO, _Memorie_, vol. IX. ep. 50. [223] Baronio al 549; CENNI, _Codex Carolinus_, i. 148; ANTIQUITATES ITALICÆ MEDII ÆVI, III. 855. [224] I Francesi nel 1797 tolsero a questa biblioteca cinquecento manoscritti, de’ quali poi, ne’ trattati del 1815, furono restituiti a Eidelberga trentotto greci e latini, provenienti da questa compra d’Urbano VIII, fra cui l’unico esemplare di Anacreonte e dell’Antologia di Costantino Cefala, oltre gli ottocenquarantasette tedeschi. [225] Il mausoleo di Cristina, opera di Carlo Fontana, a marmi di diverso colore e bronzi, rappresenta il suo ritratto, sopra un cartello, portato da un teschio coll’ale di cherubino. [226] In un secolo così poco repubblicano, il sentimento della sovranità del popolo si rifuggì in quelle leggi, dov’è scritto: _Penes commune summa potestas esto_. [227] All’assedio di Vienna si riferisce il poema rimasto popolare del _Meo Patacca_, scritto in romanzesco dal Berneri nel 1683. Meo, spavaldo romano, si propone di raccorre un pugno d’altri prodi per affrontare il Turco; invano vorrebbe rattenerlo la bella Nuccia; l’ardor bellicoso di lui prorompe in ciance e bravate, e intanto giunge l’avviso che Vienna fu liberata da Sobieski: Meo ha il merito dell’eroismo senza i pericoli, gode le stupende feste con cui Roma celebra quell’evento, e torna alle braverie ed agli amori. [228] Ne’ _Pensieri eroici spiegati dalla penna d’A. Guidi_ incomincia: — Consagro alle Altezze vostre (i Farnesi) le infelicità de’ miei inchiostri, perchè so che all’ombra delle loro porpore sapranno cangiarsi in macchie di luce, et indorar ai lampi di sì generosa Potenza le gramaglie della propria fortuna. Non potevo scegliere al sostegno della mia penna Heroi più luminosi nelle sfere della Grandezza, nè cercar trofei più cospicui negli Erarj del Merito per illustrare le debolezze del mio Destino. Le glorie delle Altezze vostre risaltano per quei prodigi d’oro de’ scettri che coronano di splendori la Fama, et innestano alle spoglie dell’Eternità i fregi più dovitiosi della Maestà e del Valore. Sfavillino nelle ceneri di tanti Secoli le pompe del loro sangue, decrepite fra i Manti degli Imperj e fra gli Ostri dei Trionfi, che le generose prove del lor Animo sdegnando mendicar lumi dall’ombre degl’Antenati e di suscitarsi dagl’antichi Sepolcri le Fenici di Gloria, stabiliscono le machine de’ suoi applausi nel centro delle più eroiche attioni». [229] Chi ricorda il sermone di Giuseppe Zanoja, ne troverà il preludio in questo: _Nec juvat argentum, cum non licet amplius uti,_ _Extrema in tabula superis donare, Deusque_ _Esto hæres, dicas. Renuunt patrimonia Divi_ _Fœnora quæ sapiunt, quamquam fraterculus ille_ _Piscator cælo adscribat, geniisque beatis_ _Expiet, et fœdæ quæcumque piacula vitæ_ _Crimine si partum moriens levaveris assem_ _Cœlitibus. Miseri! quantum falluntur avari!_ _Marmore quæ pario fabricatis templa, cruorem_ _Et lacrimas redolent, venis quem pauper apertis,_ _Expressitque olim madido provincia vultu._ [230] Belli anagrammi furono i nomi di _Evangelista Torricellius_ convertito in _En virescit Galileus alter_; _Antonius Magliabechius_ in _Is unus bibliotheca magna_; _civitas Cremona_ in _Ecce nos tui Maria_; _Isabella Andreini_ in _Alia blanda Sirena_. [231] _De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos._ Parma 1553. [232] Bruno era riconoscentissimo verso i principi suoi protettori; vedasi la sua _Oratio consolatoria, habita in illustri academia Julia, in fine solemnissimarum exequiarum illustrissimi et potentissimi principis Julii ducis Brunsvicensium_, 1º _julii_ 1589, _Helmstadii_. Di se stesso parlando dice: _In mentem ergo, in mentem, Itale, revocato, te a tua patria, honestis tuis rationibus atque studiis pro veritate exulem, hic civem; ibi gulæ et voracitati lupi romani expositum, hic liberum; ibi superstitioso insanissimoque cultui adstrictum, hic ad reformatiores ritus adhortatum; i lic tyrannorum violentia mortuum, hic octimi principis amœnitate atque justitia vivum_. Scrive _ad excellentissimum academiæ Oxononiensis procancellarium, doctissimos doctores, atque celeberrimos magistros, Philotheus Jordanus Brunus nolanus, magis laboratæ theologiæ doctor; purioris et innocuæ sapientiæ professor; in præcipuis Europæ academiis notus, probatus, et honorifice exceptus philosophus; nullibi præterquam apud barbaros et ignobiles peregrinus; dormitantium animorum excubitor; præsumptuosæ et recalcitrantis ignorantiæ domitor; qui in actibus universis generalem philanthropiam protestatur; qui non magis Italum quam Britannum, marem quam fœminam, mitratum quam coronatum, togatum quam armatum, cucullatum hominem quam sine cuculla virum, sed illum, cujus pacatior, civilior et utilior est conversatio, diligit; qui non ad perunctum caput, signatum frontem, ablutas manus, et circumcisum penem, sed (ubi veri hominis faciem licet intueri) ad animum ingeniique culturam maxime respicit; quem stultitiæ propagatores et hypocritunculi detestantur, quem probi et studiosi diligunt, et cui nobiliora plaudunt ingenia_. [233] _Heic ego te appello, veneranda prædite mente,_ _Ingenium cujus obscuri infamia sæcli_ _Non tetigit, et vox non est suppressa strepenti_ _Murmure stultorum, generose Copernice, cujus_ _Pulsarunt nostram teneros monumenta per annos_ _Mentem, cum sensu ac ratione aliena putarem,_ _Quæ manibus nunc attrecto teneoque reperta,_ _Posteaquam in dubium sensim vaga opinio vulgi_ _Lapsa est, et rigido reputata examine digna,_ _Quantumvis Stagyrita meum noctesque diesque_ _Græcorum cohors, italumque, arambumque sophorum_ _Vincirent animum, concorsque familia tanta;_ _Inde ubi judicium, ingenio instigante, aperiri_ _Cœperunt veri fontes, pulcherrimaque illa_ _Emicuit rerum species (nam me Deus altus_ _Vertentis sæcli melioris non mediocrem_ _Destinat, haud veluti media de plebe ministrum),_ _Atque ubi sanxerunt rationum capere veri_ _Conceptam speciem, facilis natura reperta;_ _Tum demum licuit quoque posse favore Mathesis_ _Ingenio partisque tuo rationibus uti,_ _Ut tibi Timei sensum placuisse libenter_ _Accepit, Agesiæ, Nicetæ, Pythagoræque._ [234] Che tutte le cose vivano egli vuol dimostrare in un dialogo che accorciamo. _Teofilo_. L’opinione comune non è sempre la più vera. Ma non basta, perchè una cosa sia vera, che si possa sostenerla; bisogna anche dimostrarla. E ciò non mi sarà difficile. Non vi furono filosofi che dissero il mondo esser animato? Perchè dunque non diranno quei saggi che anche tutte le parti del mondo sono animate? _Diosono_. Lo dicono di fatto, ma lo dicono di cose principali e di quelle che sono vere parti del mondo, ciascuna delle quali contiene l’anima intiera; perocchè l’anima degli animali che noi conosciamo è tutta intiera in ciascuna parte del loro corpo. _Teofilo_. Che cosa è dunque ciò che voi credete non essere realmente parte del mondo? _Diosono_. Quelle cose che non sono primi corpi, come dicono i Peripatetici; la terra con le acque e le altre parti che, secondo voi, costituiscono l’intero animale, la luna, il sole e gli altri corpi: oltr’a ciò, io chiamo animali principali quelli che non sono parti primiere dell’universo e che dicesi avere chi un’anima vegetativa, chi una sensitiva, e alcuni anche una ragionevole. _Teofilo_. Ma se l’anima, appunto perchè è nel tutto, si trova altresì nelle parti, perchè non volete ch’ella parimenti esista nelle parti delle parti? _Diosono_. Acconsento, ma solo nelle parti delle cose animate. _Teofilo_. Quali sono le cose non animate o che non fanno parte di cose animate? _Diosono_. Forse non ne abbiamo assai sotto gli occhi? Tutte quelle che non hanno vita. _Teofilo_. E quali sono le cose che non hanno vita, o almeno un principio vitale? _Diosono_. Insomma volete voi che ogni cosa abbia un’anima ed un principio vitale? _Teofilo_. Ciò appunto pretendo. _Polinio_. Dunque un corpo morto ha un’anima? dunque le mie maniche, le mie pianelle, gli stivali, gli speroni, l’anello, le forme delle mie scarpe saranno animate? la mia zimarra, il mio tabarro animati? _Teofilo_. Io dico che la tavola come tavola non è animata, nè l’abito come l’abito, nè il cuojo come cuojo, nè come bicchiere il bicchiere; ma che, come cose naturali e composte, hanno in sè la materia e la forma: per piccola e grama che sia una cosa, essa contiene una parte della sostanza spirituale, la quale, ove il soggetto si trovi disposto, si estende in modo da diventare una pianta o un animale, e riceve le membra d’un corpo qualunque di quelli che comunemente si chiamano animati: perchè l’anima si trova in tutte le cose, e non v’ha il menomo corpuscolo che non ne contenga la sua porzione. _Polinio_. _Ergo quiquid est, animal est_. _Teofilo_. Non tutte le cose che hanno un’anima, si chiamano animate. _Diosono_. Dunque tutte le cose hanno per lo meno una vita? _Teofilo_. Accordo che hanno l’anima in sè, hanno la vita quanto alla sostanza, e non quanto all’atto ammesso dei Peripatetici e da tutti coloro che definiscono la vita e l’anima in una maniera troppo grossolana. L’opinione di Anassagora, che ogni cosa è in ogni cosa, perchè lo spirito o anima o forma universale trovandosi in tutte le cose, ogni cosa può da ogni cosa prodursi, non solo è verisimile ma vera, perchè codesto spirito esiste in tutte le cose, le quali se non sono animali, sono però animate; se non sono secondo l’atto sensibile di animalità e di vita, sono però secondo un principio ed un atto primo qualunque d’animalità e di vita. [235] _Est animal sanctum, sacrum et venerabile mundus_. De immenso, lib. V. [236] Il famoso Scioppio il supplizio del Bruno raccontò in lettere ad un altro Luterano. Comincia: — Ti do la mia parola che niun Luterano o Calvinista è qui punito di morte, nè tampoco sta in pericolo, seppur non sia recidivo o scandaloso. È mente di sua santità, che ogni Luterano viaggi liberamente, e vi ottenga benevolenza e cortesia. Nel mese passato fu qui un Sassone, ch’era vissuto un anno con Beza, e fu umanissimamente accolto dal cardinale Baronio confessore del papa, e assicurato, purchè non desse scandalo». Segue narrando il processo e la condanna del Bruno, credendolo meritevole come ateo, e apostolo di dottrine assurde. Eppure si dubita se veramente sia stato arso. Vedasi DOMENICO BERTI. Il Botta si sbriga di quest’insigne Italiano colla frase seguente: — Non fermerommi a parlare del Bruno, perchè avendo insegnato che i soli Ebrei erano i discendenti di Adamo (?), che Mosè era un impostore ed un mago, che le sacre Scritture sentivano del favoloso, ed altre bestemmie ancora peggiori di queste, fu arso a Roma al modo di Roma nel 1600: rimedio abominevole contro opinioni pazze». Lib. XV. Queste parole egli copia letteralmente dal Giannone, l. XXXIV. c. 8, che copia il Capasso e il Parrino, e dice: «Discreditarono l’onorata impresa (di innovar la filosofia) due frati domenicani, li quali non tenendo nè legge nè misura, e oltrepassando le giuste mete, siccome maggiormente accreditarono gli errori delle scuole, così posero in discredito coloro che volevano allontanarsene ecc.». [237] _De libris propriis_. [238] «Esser noi e poter sapere e volere è il certissimo principio primo». _Universalis philosophia_, I. l. 4. Secondo lui, l’intelletto consiste nel sentire, cioè accorgersi delle modificazioni del nostro essere; e memoria, riflessione, immaginativa sono varie determinazioni della sensività; il pensiero è il complesso delle cognizioni poste nella sensazione, la quale dà a conoscere soltanto gli oggetti individui, non la loro realtà nè le generali relazioni. Tutto il creato, a dir suo, consta di essere e non essere; il primo è costituito da potenza, sapienza e amore, che hanno per iscopo l’essenza, la verità, il bene: mentre il nulla è impotenza, odio, ignoranza. Nell’Ente supremo le tre qualità primordiali stanno unite in incomprensibile semplicità, senza mistura del nulla; une, benchè distinte. L’Ente supremo, nel trar le cose dal nulla, trasporta le inesaurabili sue idee nella materia sotto la condizione del tempo e sulla base dello spazio, e agli enti finiti comunica le tre qualità, che divengono principj dell’universo, sotto la triplice legge della necessità, della provvidenza, dell’armonia. Sopra siffatta metafisica impianta una filosofia fisica, una psicologica, una sociale. Nella filosofia fisica considera l’universo come un complesso di fenomeni materiali, svolgentisi nel tempo e nello spazio. La materia posta in questi è un corpo, non costruito ma proprio alla costruzione; e opera per via di due agenti, calore e freddo. Quello formò il cielo dilatando, questo la terra condensando la materia; e dalla loro combinazione nascono tutti i fenomeni. La luce è tutt’uno col calore, solo denominati altrimenti secondo operano sul tatto o sulla vista. Nella fisiologia considerando gli enti come vivi e sensibili, distingue nell’uomo una triplice vita, corrispondente a triplice sostanza: l’intelligenza; lo spirito, suo veicolo; il corpo, veicolo ed organo dello spirito e dell’intelletto. Gli esseri tendendo a conservarsi, sono provveduti d’istinti e della facoltà di sentire in differente grado. Che se l’uomo possiede un’intelligenza immortale, quanto meglio il mondo che è più di tutti perfetto? Mani sue sono le forze espansive; occhi le stelle; linguaggio, i raggi di queste; col cui ricambio forse comunicano esse tra sè, dotate come sono di vita sensibilissima. Gli spiriti beati che le abitano, vedono quant’è nella natura e nelle idee divine. [239] Il mondo è libro dove il senno eterno Scrisse i proprj concetti... Ma noi strette alme ai libri e tempi morti Copïati dal vivo con più errori, Li anteponghiamo a magistero tale. O pene, del fallir fatene accorti, Liti, ignoranze, fatiche e dolori: Deh torniamo, perdio, all’originale. _Poesie filosofiche_, pag. 11. [240] _Inveniemus in plantis sexus masculinum et fœmineum, ut in animalibus, et fœminam non fructificari sine masculi congressu. Hoc patet in siliquis et in palmis, quarum mas fœminaque inclinantur mutuo alter in alterum, et se se osculantur, et fœmina non impregnatur nec fructificat sine mare, immo conspicitur dolens, squalida mortuaque, et pulvere illius et odore reviviscit_. [241] E neppure il concetto delle epoche organiche e critiche; poichè, ribattendo le obiezioni, dice che la Città del sole «durerà fino ad uno dei periodi generali delle cose umane che danno origine ad un nuovo secolo». _Questioni sull’ottima repubblica_. In lui sono pure quelle teorie sulla natura de’ popoli settentrionali e meridionali e sulla loro missione, che credonsi trovati moderni. «Dio, per fecondare li meridionali di gente e d’armi, e li settentrionali di scienza e religione, usa di mandar quelli a questi, insertandoli come arbori per farli più generosi». _Aforismo_ 72. D’altra parte potrebbe dirsi che egli adombra i circoli di Vico entro cui l’umanità si rigira, e la provvidenza di Bossuet che anche gli errori trae a vantaggio: _Religiones cunctæ atque sectæ habent proprium circulum, veluti et respublicæ... Illi cupiditate auri et divitiarum novas quiritant regiones; Deus autem altiorem finem intendit_. [242] _Sulla monarchia spagnuola_. Fu ristampata a Berlino il 1840. [243] _Discorsi politici_, passim. _Faciat_ (Hispania) _ut dominia et prædia nobilis regni Neapolitani, Mediolani... ab exteris emantur... quo fiat ut barones indigenæ humilientur.. Cavendum est ut loca munita unquam baronibus concedantur_ (De monarchia hispanica, c. XIV). _Elaborandum est regi ut principum italicorum dissidia alat_ (c. XXI). _Curandum præterea ut omnes baronum filii magistros hispanos habeant, qui hispanizare illos doceant in habitu, moribus et modis hispanicis_ (c. XIV). [244] _Discorso_ II _del papato_. [245] _Città del sole_. Nel _Discorso sopra l’aumento delle entrate_ confessa che «il più gran male di questo regno è la carestia», cap. 3. [246] _Vectigal exigatur pro necessariis rebus parvum, pro superfluis largius... non alia bona quam certa et stabilia graventur_. [247] Vedansi esposte da un suo ammiratore nella prefazione alle opere del Campanella. Torino, Pomba, 1854. [248] «È pericoloso in ogni verso il negozio dei grani in nome d’altri che del re, che è padre e pastore della repubblica, e a lui tocca pascere i figli e distribuir il pane». _Sopra l’aumento delle entrate_. «Se il re in Calabria pigliasse tutta la seta come la si vende a venti carlini la libbra, trasportandola a Napoli dove si vende trenta o più, raddoppia il tributo. Ed in tutte cose si può far questo, e non lasciare li mercanti facciano quel guadagno con danno dei popoli e del re... Il re sarìa tiranno manifesta se lasciasse senza necessità urgentissima al cristianesimo trasportar li grani di questo regno in altro regno». [249] I Solari son molto sani, e Campanella indica i rimedj con cui s’ajutano. «Sanano le quartane incutendo improvvise paure, o trattandole con erbe _d’indole opposta alla quartana_, o con altre _simili cose_. Uno studio maggiore pongono a guarire le febbri continue e sforzansi d’arrestarle studiando le stelle e le erbe, e _levando preghiere al cielo_. Il morbo sacro combattono con preghiere, indi rinvigorendo il sistema nervoso del capo mediante sostanze acide od eccitanti». [250] «Fu ad istanza del Sancez fiscale (che andò a Roma _personaliter_ per tal licenza) tormentato quarant’ore di funicelli _usque ad ossa_, legato nella corda colle braccia torte, pendendo sopra un legno tagliente e acuto, che si dice la viglia; li tagliò di sotto una libbra di carne, e molta poi n’uscio pesta e infracidata; e fu curato per sei mesi con tagliarli tanta carne, e n’uscir più di quindici libbre di sangue delle vene e arterie rotte... nè confessò eresia nè ribellione, e restò per pazzo, non finto, come dicono». _Narrazione attribuita al Campanella_. Nei _Secreti_ del senato veneziano è notato come nel 1593 frà Giordano Bruno sia stato rimesso da Venezia al Sant’Uffizio di Roma, e nel 1594 frà Tommaso Campanella, Giambattista Clario da Udine e Ottavio Longo da Barletta, carcerati in Padova. [251] Io nacqui a debellar tre mali estremi, Tirannide, sofismi, ipocrisia; Eletto sasso A franger l’ignoranza e la malizia; Stavano tutti al bujo, io accesi un lume. _Poesie filosofiche_, pag. 26, 141, 116. Tra le sue lettere vi sono confessioni esplicite d’ortodossia, e dice che il dogma della predestinazione «fa li principi cattivi, li popoli sediziosi e li teologi traditori». [252] _Discorsi della libertà e della felice soggezione allo Stato ecclesiastico_. Sempre nella signoria papale vedeva la libertà; e nella XXXII delle poesie canta: Vedi i tiranni e le leggi perire E Pietro e Paolo in Roma comandare. [253] Secondo il Patrizj, dalle prime monadi nascono le altre, dalle monadi le essenze, da queste le vite, dalle vite gl’intelletti, dagl’intelletti gli spiriti, da questi la natura, da cui le proprietà, dalle proprietà le specie, dalle specie i corpi, i principj delle cognizioni vengono da’ sensi, ma prima dalla luce; dalla luce celeste, immagine di Dio, noi saliamo alla luce primogenia che è Dio stesso: la luce tutto fa, tutto vivifica e forma. Le quattro parti di sua filosofia intitolò Panarchie, Pancosmie, Panaugie, Panpsichie. Studiò la teoria della luce, nel senso materiale e nel figurato, e sopra quella fondò la sua filosofia: come per la materiale vedono gli occhi del corpo, così per l’intelligibile sono illuminati quelli dell’anima: questo mezzo universale del conoscere viene da Dio, sorgente d’ogni luce. Francesco Giorgio minorita veneziano, dedito alla Cabala mescolata ai libri sacri e ai peripatetici ragionamenti, compose l’_Armonia del mondo e i tremila problemi_. Da Dio trino, che è ternario semplicissimo, derivano con ternario quadrato tre novenarj, onde nove sono i cori delle intelligenze, nove i cicli, nove i generi delle cose generabili e corruttibili; e nel ternario cubo si compiono tutti i novenaij. Gli angeli sono distribuiti secondo il novenario semplice, corrispondente al ternario, onde i più vicini a Dio somigliano al ternario semplicissimo; gli altri si racchiudono nel duplo, poi nel triplo: e per quest’ordine tripartito noi possiamo ascendere a Dio, e Dio discende a noi. BRUCKER, _De restauratione philosophiæ pythagoricæ, platon. cabbal_. § V. [254] L’argomentazione cartesiana dell’_io penso, dunque esisto_ trovasi in Bernardino Ochino, _Catechismo_; Basilea 1561: _Ministro_. Ti prego, illuminato mio, che tu mi dica s’egli ti par essere o no. _Illuminato_. Mi par essere: ma per questo non so certo che io sia; imperocchè in parermi essere, forse m’inganno. _Min_. È impossibile che, a chi non è, gli paja d’essere; però, poi ch’ei ti par essere, bisogna dire che tu sia. _Illum_. Così è vero. La soggettività della sensazione era stata predicata da Galileo nel _Saggiatore_, dicendo: — Che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi e veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi, le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i moti, ma non già gli odori nè i sapori nè i suoni, li quali fuor dell’animale vivente, non credo che sien altro che nomi, come appunto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse le ascelle e la pelle intorno al naso». [255] Vedi la _Scrittura di Marco Foscarini circa le franchigie concesse agli ambasciadori esterni residenti presso la repubblica di Venezia_, 1725. [256] _Della perfezione della vita civile_, lib. III. p. 134. [257] Non lo nomina; ma ciò professa negli _Uffizj del Cardinale_, lib. I, p. 64. [258] «Ricercandosi due cose per la propagazione dei popoli, la generazione e l’educazione, sebbene la moltitudine de’ matrimonj ajuta forte l’una, impedisce però pel sicuro l’altra». [259] La sua _Ragion di Stato_ fu tradotta in tutte le lingue. L’opera sulla _Grandezza della città_ fu volta in inglese il 1635. Delle sue _Relazioni universali_ è un estratto la _Politia regia_ di Reifenberg: e la _Politica tratta dalla sacra Scrittura_ di Bossuet fu forse ispirata dalla sua _Regia sapientia_. [260] _Relazione della repubblica veneziana_, 1605. [261] Soltanto pel Milanese citiamo le voluminose opere del Somaglia, dell’Opizzoni, del Piazzoli, del Tridi. [262] _Zecca in consulta di Stato; Trattato mercantile della moneta._ [263] Pubblicati al fine del vol. I della _Storia dei municipj italiani_ del Giudici. [264] _De re militari et bello tractatus, divisus in partes II, in quo, præter ea quæ de re militari tractantur, obiter multa quæ ad civilem administrationem pertinent attinguntur, omnibus judicibus apprime necessarius._ Fu ristampato nel tom. XVI della gran collezione dei _Tractatus juris universi_. [265] MAFFEI, _Verona illustrata_, part. II. 312. [266] VEDI LANZA, _Considerazioni sulla storia di Sicilia_, p. 142. [267] _Memorie della Sicilia_; _Historiæ Saracenosiculæ varia monumenta_; _Bibliotheca historiæ Siciliæ._ [268] Il Pignoria, 18 luglio 1614, dice: — A scrivere istoria ci vuol altro che vivacità di cervello; e il padre Bzovio averà ben che che fare a continuare Baronio, nel quale _longe erit a primo quisque secundus erit_». [269] Abbiamo pure _Guerra della Germania inferiore_ di GERONIMO CONESTAGGIO genovese, 1634; _Impresa di Fiandra di Alessandro Farnese_ di CESARE CAMPANA, 1595; ecc. [270] La reputazione del Gemelli Carreri fu rivendicata in un’appendice al tom. XIII della traduzione dei _Viaggi_ intorno al mondo del Berenger, Venezia 1795; poi più estesamente da Ignazio Ciampi nel _Filodrammatico_, giornale di Roma del 1858. [271] Quest’asserzione proviene dall’elogio di Fontenelle, ed è ripetuta generalmente, pure fin la _Biographie universelle_ conviene dei meriti anteriori del Riccioli. Le carte di Delisle comparvero nel 1699: nel 1661 l’opera del Riccioli. Questo pone tra Gibilterra e Gerusalemme la differenza di 47° 37′, che sotto quel parallelo valgono 714 leghe marine, ossiano 983 leghe da 20 al grado. Invece non è che di 40° 25′ 40″, equivalenti a 606 leghe marine, o 848 comuni. Si levino 11 leghe che sono da Gerusalemme a Giaffa, presa per l’estremità orientale del Mediterraneo, e si avranno 882 leghe secondo il Riccioli, e 837 al vero. [272] In una del 1580 da Lisbona loda infinitamente le qualità della pietra bazar, cioè del belzoar, che si sa essere una concrezione intestinale; e come operi prodigi per far uscire le petecchie, provocando sudore e secrezioni, e guarisca della peste per testimonianza di Galeno, degli Arabi e di Alberto, sebbene egli non possa capacitarsi come ciò avvenga, atteso che la peste è corruzione, e la corruzione è mancamento del calore innato nell’umidità; mentre quelle pietre sono fredde e secche di complessione, sicchè non possono ristaurar il calore. D’esso bazar usano in polvere pigliandone tre o quattro grani, con acqua di rose, o la mettono nelle posteme velenose; legate in oro le portano al collo come virtuose più della brettonica per cacciar la melanconia, guardar da veleni, ecc. E dall’India e dal Portogallo spedisce ogni tratto pietre e legni di specifica meraviglia, per tornar il latte alle donne, per chetare l’epilessia, ecc. [273] «La lingua in sè è dilettevole e di bel suono, per i molti elementi ch’egli hanno fino a cinquantatre, dei quali tutti rendon ragione, facendoli nascere tutti dai diversi movimenti della bocca e della lingua... In quella sono molti de’ nostri nomi, e particolarmente de’ numeri il 6, 7, 8 e 9, Dio, serpe, et altri assai...». [274] _Memorie del padre Basilio da Glemona dell’abate_ PIETRO DELLA STUA. Udine 1775. [275] Ecco però una prova del quanto fosse bambina la filologia. Sulla chiesa di San Giorgio in Palazzo a Milano stava un’iscrizione, e non sapendosi leggere dai nostri, fu da Gianpietro Puricelli mandata a Luca Olstenio a Roma per mezzo di Leone Allacci, dubitando fosse armena o russa o schiavona o gotica, «lingue che han caratteri simili al greco». Egli s’accorse ch’era latina con lettere greche affatto rozze (_Lettera_ 2 agosto 1647, nel _Catalogo_ del Crevenna). Un altro dotto milanese, il Castiglioni, asseriva che a San Vincenzo in Prato v’era stato un tempio di Giove, perchè vi fu trovata una lapide che diceva DIO VI ET PROBO V. L’Olstenio senza più asserì che doveva essere un frammento, da compirsi così: _arca_DIO . VI . ET . PROBO . V... _coss_. cioè essendo consoli Arcadio per la sesta volta, Probo per la quinta. [276] _Characteres ægyptii_. Venezia 1605; _Mensa isiaca_, 1669. Il più insigne documento egiziano che si avesse prima delle recenti scoperte era la _Tavola isiaca_ di bronzo, lunga cinque, larga tre piedi, coperta di smalto nero, su cui sono disegnate figure a contorni d’argento. Dopo il sacco di Roma un fabbro la vendè al cardinale Bembo, dal cui museo passò a quel di Mantova. Nel sacco del 1630 fu rubata, nè più se ne seppe, finchè più d’un secolo dopo fu trovata nel museo di Torino; ove (dopo essere stata nel museo Napoleone a Parigi) ancor si conserva, e fu studio dei principali antiquarj, sebbene ora si giudichi non lavoro originale, ma dei tempi d’Adriano imperatore. Vedi pag. 210. [277] _De nostri temporis studiorum ratione_, 1708. [278] _De antiquissima Italorum sapientia, ex originibus linguæ latinæ eruenda_, 1710. [279] _De universi juris principio et fine uno_, 1714; _De constantia philologiæ_, 1721. [280] Perchè dei moderni editori nessuno pensò a dargli punteggiatura e divisione alla moderna? Facendo quel che si praticò col Guicciardini, ne sarebbe grandemente agevolata l’intelligenza. Si dovrebbe anche far sparire la nojosa e inutile vicenda di carattere tondo e corsivo, che corre da capo a fondo dell’opera. [281] Anche il De Rossi, nel _Dizionario storico degli autori arabi_, fa di Averroe il primo traduttore d’Aristotele: ma ora è certo che, tre secoli innanzi, era stato vôlto in arabo, non dal greco ma dal siriaco; e che Averroe nè altro arabo di Spagna conosceva il greco. In quella vece s’aveva una traduzione in latino; e l’averroismo, tanto coltivato nella scuola di Padova e anche dal Pomponazzi che pur mostra continuamente confutarlo, non deriva che obliquamente da Aristotele, mescolandovi le dottrine neoplatoniche e le interpretazioni de’ Nestoriani. [282] _L’uccelleria, ovvero discorso della natura e proprietà de’ diversi uccelli, e in particolare di quelli che cantano_. Roma 1622, con figure del Tempesta e del Villamene. [283] Da scrittori e dall’esperienza, massime di cacciatori e pastori, induce che le bestie, variando l’emissione de’ suoni, fanno quel che facciamo noi co’ suoni letterali, e ne formano di elementari di tempo determinato. A manifestare certe emozioni valgonsi del gesto, dello sguardo, del suono, del grido, della favella. Così un cane volendo scacciarne un altro da un posto ove egli vuol collocarsi, comincia a guardarlo iroso, poi fare movimenti significativi, poi ringhiare, finalmente abbajare. I vermi e simili animali inferiori possedono solo i due primi modi: alcuni pesci mandano un suono per le natatoje o per le branchie. Agl’insetti Fabrizio nega la voce, benchè esprimano i sentimenti per via di suoni; bovi, cervi ed altri quadrupedi hanno piuttosto una voce che un linguaggio; ma linguaggio vero han gatti, cani, uccelli, inferiori però all’uomo che articola più chiaro e distinto. Le bestie capiscono quel che loro diciamo: onde a ragion più forte noi dobbiamo capir loro. Delle quattro passioni di gioja, desiderio, dolore, paura, esamina Fabrizio l’espressione sopra il cane e la gallina, confessando non avere imparato gran che: ma la parola nostra è più complessa, perchè di più rapidi e numerosi elementi; oltre che avendo noi labbra e lingua più flessibili, ne nascono la varietà e complicazione che costituiscono la favella. Nessun animale potrà gareggiare coll’uomo, atteso che il principale loro strumento è la gola, che a noi serve soltanto per le vocali. [284] È il primo destinato agli studenti di medicina. La repubblica lo fondò con decreto 31 luglio 1545, ad istanza di Francesco Buonafede padovano, e sopra disegno di Andrea Moroni da Bergamo; n’ebbe la direzione Luigi Anguillara, cui succedette Melchior Guilandino di Königsberg, pel quale nel 1564 istituì la cattedra di botanica. [285] Anche privati ne formarono, quali il Priuli, il Molin, il Michel, Gianfrancesco Morosini lodato da Linneo, ed altri a Venezia, Giulio Moderato a Rimini, Vincenzo Montecatino a Lucca, Sinibaldo Fieschi a Genova, Vincenzo Pinelli a Napoli, Gaspare Gabrielli a Padova, Scipione Simonetta a Milano. Vedi a pag. 304, e VIVIANI, _Delle benemerenze de’ Veneti nella botanica_. Il Pignoria a’ 26 dicembre 1614 da Padova scriveva a Paolo Gualdo in Roma: — Non occorre che mi faccia gola dei fiori che si vedono costì, perchè jer sera alla cena lucullea del signor Sandelli «io mangiai degli sparagi belli, verdi e freschi; s’immagini mo il resto». Al quale Gualdo il Welser da Augusta avea scritto, a’ 10 gennajo 1610: — Se Padova e Vicenza si voltano a domandar semi e piante da queste parti, si può dire che _ipsi fontes sitiunt_. Le fritillarie di qua sono poche, e tutte venute o d’Italia o di Fiandra: vero è che quelle di Fiandra pare facciano miglior riuscita». [286] «Tale opera dovea condurre ad una felice rivoluzione nella botanica: ma niuno allora volle seguirlo nel cammino segnato, perchè si era di troppo lasciati addietro i contemporanei. Gaspare Bauhin afferma d’aver pensato distribuire il suo _Pinax_ secondo il metodo di Cesalpino, ma confessa che non lo comprendeva abbastanza. Inoltre era costume vedere le opere di botanica adorne di figure, e Cesalpino le avea sbandite dalla sua. Torto suo più reale fu il non esporvi la concordanza della nomenclatura degli autori che l’avevano preceduto e dei suoi contemporanei; indica le piante con nomi suoi particolari, o nomi vulgari in alcuni paesi d’Italia; principalmente nella Toscana, onde fu malagevole determinare di quali parlasse, e Bauhin sovente vi s’ingannò. Per la stessa ragione non si può determinare il giusto numero delle specie, di cui fa menzione: quei che lo portano ad ottocento, non hanno contato che le principali, e ammontano a mille cinquecentoventi secondo Haller... «Nella prefazione, piena d’osservazioni nuove e filosofiche che annunziano un ingegno superiore al secolo, in una pagina concentra i principj e pone le basi su cui stabilire i metodi ed i sistemi di botanica; tutti i vantaggi che se ne possono trarre, nel cui numero mette la conoscenza della proprietà delle piante, che si può dedurre conformemente alle loro affinità o alla somiglianza delle loro forme esterne. Malgrado i lavori posteriori su tale argomento, non si è potuto aggiunger nulla d’essenziale a tale schizzo; dimodochè se di tutte le sue opere ci fosse rimasta questa pagina sola, basterebbe ad assicurarne per sempre la gloria». DU PETIT THOUARS. [287] Nel capitolo II del libro V della _Phyllognomica_, il Porta scrive, _contra antiquorum opinionem, plantas omnes semine donatas esse_, e vi dice: _E fungis semen perbelle collegimus exiguum et nigrum, in oblongis præsepiolis vel liris latens e pediculo ad pili circumferentiam protensis, et præcipue ex illis qui in soxis proveniunt_ (intenderebbe i licheni?), _ubi decidente semine, feracitate seritur et pullulat etc_. Pag. 367 dell’edizione di Francoforte 1591. Il Porta prevenne Lavater e Gall insegnando che il corpo s’impronti dei moti dell’animo, e dagli umori e temperamenti derivino i costumi: persino le disposizioni possono modificarsi correggendo le conformazioni esterne; _De humana physionomia_. Eppure ancora insegna che _varii sunt plantarum bulbi qui animalium testes mentiuntur, præsertim luxuriosorum... Natura, hominum generationi satagens, hac testiculorum imagine ad vires venereas, ad conceptum, ad prolem eas valere significavit_. Lib. IV. c. 18. E cap. I. _Plantarum partes scorpionem integrum præsentantes, ad ejus morsus valere_. E lib. III. c. 51: _Fructus uterum referentes et fructuum involucra, ad secundinas valere_. E così ogni tratto. [288] Nel febbrajo 1856 l’ingegnere Quintino Sella all’accademia delle scienze di Torino produceva un passo d’un discorso, dal dottore Domenico Guglielmini di Padova recitato nel 1688, dove riconosceva i cristalli non come giuochi della natura, ma effetto di forze molecolari, rette da leggi costanti ed invariabili; che i cristalli della medesima sostanza sono poliedri, i cui angoli diedri rimangono sempre i medesimi, sicchè non vi manca che la proporzionalità dei lati per essere poliedri simili; che ogni cristallo è un aggregato di molecole aventi la forma stessa del cristallo; che dalla forma unica prima delle molecole derivano quelle che una sostanza può rivestire, e che perciò sono definite. Se avesse pensato applicare il calcolo allo studio de’ cristalli, preveniva la gloria di Romé de l’Isle e di Haüy. Anche Giovanni Pona fece una descrizione delle rarità di Montebaldo. L’Imperato (_Historia naturale_, 1599) sostiene che i polipi calcari non erano pietre vegetanti come teneansi generalmente. [289] _Mundus subterraneus_; 1662. [290] _De solido intra solidum naturaliter contento_. È anteriore di un anno all’opera dello Schiller: la _Protogea_ di Leibniz è del 1683. [291] _De fontium mutinensium admiranda scaturigine_. Secondo Gianfrancesco Rambelli (_Lettere intorno le invenzioni e scoperte italiane_ Modena 1844), la prima memoria de’ pozzi forati in Modena sale al 1479, poichè ne’ _Ricordi di Gaspare Nardi_ si legge che Giovanni Bentivoglio cominciò a far fare una fontana in Bologna, e che andò colà «uno maestro de Regio, che forava con un trivello de capo de uno abedo, e insediva l’uno abedo de co’ de l’altro, e per questo modo andava giuso quanto voleva, in modo che andò sotto piedi centosessantadue se rompè dentro quello con che forava». Giovanni Agazzari nella cronaca inedita di Piacenza, al 1478 scrive: _Nota quod hoc anno repertus est quidam novus modus fodendi et eaciendi fontes vivos et salientes super terram per quosdam parmenses, et res mira et grandis valde, argumento cujusdam physici regini_. Ap. PEZZANA, _Storia di Parma_, IV. 23. [292] _Aliquis intus in vescica sine plaga lapidem conterunt ferreis instrumentis_. Il Benivieni racconta che, non trovando modo d’estrarre a una donna un calcolo voluminoso, _insolitum sed tamen opportunum consilium capiens... ferramento priori parte retuso calculum ipsum percutio, donec sæpius ictus, in frusta comminuitur_. Il primo moderno che scrivesse sopra l’estrazione della pietra fu Mariano Scotto, ma tutto gonfiezze e astrologia; e per operare attende le stagioni e i congiungimenti di stelle. [293] _De abditis nonnullis ac mirandis morborum et sanationum etc_. [294] Ch’egli primo adoperasse il mercurio contro la sifilide non può più credersi dacchè nella _Cronaca perugina_ del Matarazzo si legge: «E perchè li Franciosi erano venuti novamente in Italia, se credevano li Italiani che fosse venuta tale malattia da Francia; e li Franciosi se credevano che fusse una malattia consueta in Italia, perchè ancora loro ne acquistaro la parte loro; e li italiani ne chiamavano lo mal francioso, e li Franciosi ne dicevano lo male italiano, del quale portaro el seme in Francia». Data la più estesa descrizione di questo morbo, indica la ricetta trovata più efficace, la cui base è già l’_ariento vivo_ oncie due. Benvenuto Cellini insulta il Berengario d’avere «con una sua unzione fatto molte migliaja di ducati da signori, che ha stroppiati e mal condotti». [295] Ma si vuole che questo passo siasi interpolato quarant’anni dopo la sua morte. Vedemmo molte istanze della facoltà di Pavia per ottenere i cadaveri de’ giustiziati nel Milanese. [296] Sprengel vorrebbe che Berengario negasse il trasudamento del sangue attraverso al setto; ma sebbene egli lo dica _satis notabilis substantiæ, quæ est etiam satis densa_, pure ammette i forellini di Galeno. Esso Sprengel invece vuole che Colombo supponesse tal passaggio, mentre dice evidentemente che chi ciò asserisce erra, _longa errant via_. Vedi DE RENZI, _Storia della medicina_, vol. III. p. 307. [297] _De erroribus veterum medicorum_, 1653; _In artem medicinalem Galeni_, 1566: — _Oportet_ (scrive egli) _de scriptoribus ita sentire ut eos homines agnoscamus et non tanquam deos veneremur; nobiscum antiquam libertatem relinquamus... probationes ex nostris sensibus nostroque ingenio ducamus. Nemini credamus, sed liberi contra omnes quod putemus verum proferamus. Eorum opiniones refellamus qui in magno sunt precio, quorum auctoritas infirmis ingeniis obesse potest_. [298] _Cefalogia fisionomica_, 1673. [299] Nella biblioteca di Parma è un esemplare della _Zelotypia veritatis in veterum fallacias_, opera di Gianpaolo Ferrari del 1690. A quelle parole di pag. 26, _quod evenit etiam in quibusdam antiquioribus, cædentibus colaphis alumnos qui veritatem neotericam convincere videbantur_, è manoscritta questa nota: — Il signor dottore Antonio Zanella, lettore pubblico in Parma, percosse con uno schiaffo il signor Giambattista Pedana parmigiano studente nel pubblico studio, perchè con la forza degli argomenti lo costrinse a confessare la circolatione del sangue, che da esso lettore veniva acremente negata: e dopo andò a chiedergli perdono a casa ecc. l’anno scorso 1690». [300] KIRCHER, _Da arte magnetica_, lib. III. part. 7. Basti il titolo d’un opera di Marcantonio Zamara di Galatina in terra d’Otranto, professore a Padova: — _Antrum magico-medicum, in quo arcanorum magico-physicorum, sigillorum, signatarum et imaginum magicarum, secundum Dei nomina et constellationes astrorum, cum signatura planetarum constitutarum, ut et curationum magneticarum et characteristicarum ad omnes corporis humani affectus curandos, thesaurus locupletissimus, novus reconditus; cui medicamenta etiam varia chimica ex mineralibus et vegetabilibus conficiendi modus, tractatus item de rebus quæ humano corpori eximiam et venustam formam inducunt, de variis etiam metallorum et mineralium præparationibus et experimentis plurimis tractatio subjungitur: accessit motus perpetui mechanici, absque ullo quæ vel ponderis adminiculo conficiendi documentum_. Francfort 1625. _Antri magico-medici pars secunda, in qua arcana naturæ, sympathiæ et antipathiæ rerum in plantis..... omniumque corporis humani morborum, imprimis podagre, hydropis, pestis, epidemiæ et cancri exulcerati cura hermetica, specifica, characteristica et magnetica continentur: accesserunt portæ intelligentiarum... et canones hermetici de spiritu, anima et corpore majoris et minoris mundi_. Ivi 1626. [301] Di lui è rarissima l’opera _De ratione instituendæ et gubernandæ familiæ_. Suo figlio Manfredo seppe le matematiche e molte lingue, viaggiò lontano, s’industriò a costruir macchine, principalmente microscopj e specchi ustorj, e un museo d’ogni sorta rarità naturali e d’arte, porzione del quale fu posto nella biblioteca Ambrosiana. [302] Vedi RENZI, _Storia della medicina_, vol. III, pag. 68. Turre di Padova, col titolo _Junonis et Nerei vires in humanæ salutis obsequium traductæ_ (Padova 1668) tratta delle acque minerali. [303] Vedi la _Vita di Camillo Porzio_, scritta da Agostino Gervasio, 1832. [304] _De relationibus medicorum libri_ IV, _in quibus ea omnia quæ in forensibus ac publicis causis medici referre solent, plenissime traduntur_. Palermo 1602. [305] AFFÒ, _Vita di B. Baldi_. Nell’opera _Delle macchine semoventi_, pag. 8, parla d’un Bartolomeo Campi da Pesaro, «che ardì di porsi a levare dal fondo del mare la smisurata mole del galeone di Venezia; il che sebbene non gli successe, lo scoperse però giudizioso inventore della macchina, atta per sua natura ad alzare peso maggiore». È dunque italiana l’invenzione, di cui oggi menano tanto vanto gl’Inglesi. [306] _De subtilitate_, Basilea 1607, lib. XVIII. pag. 1074: _Serra, quæ sub quocumque nomine claudi potest_. — Cossali (_Storia critica dell’Algebra_, 1797) occupa quasi intero un volume a provare il merito del Cardano, restituendogli le scoperte che Montucla attribuiva ad altri, e massime a Vieta. * Vedasi anche _Di alcuni materiali per la storia della facoltà matematica nell’antica Università di Bologna_ del dottor SILVESTRO GHERARDI, 1846. [307] Nacque in Pisa il 18 febbrajo 1594 a ore 21; e alle 23 del giorno stesso moriva a Roma Michelangelo. Ma non è vero morisse il giorno che nacque Newton, poichè questo nacque il 25 dicembre 1642, che corrisponde al 5 gennajo 1643 della riforma gregoriana; mentre Galileo morì l’8 gennajo 1642. [308] Bartolomeo Imperiali da Genova, 5 settembre 1624, ringraziava Galileo dovergli regalato un microscopio: «e di questo è verissimo quel che accenna, perchè io scorgo cose in alcuni animaluzzi, che fanno inarcar le ciglia, e danno largo campo di filosofare novamente. Di cosa sì rara ho ambizione d’essere stato favorito io il primo in Genova, e me lo tengo carissimo. Sono molti che ne desiderano, e lo lodano fino alle stelle; e io non ho poco che fare in dar soddisfazione a tanti». [309] Narra come, per osservar le stelle, usasse certi vetri, per cui la luna e le stelle non pareano più elevate che alte torri (Sez. I. c. 23), e soggiunge: «Se alcuno guardi con due di questi vetri oculari, collocandoli un sopra l’altro, vedrà tutti gli oggetti più grandi e più vicini» (Sez. II. c. 8). [310] _Del telescopio_, pag. 486. [311] Nel Collegio Romano esistono manoscritte (_Codice_ B, f. 15) alcune lettere di Galileo all’illustre matematico e teologo gesuita Cristoforo Clavio di Bamberga, uno dei riformatori del Calendario. Questa del 17 settembre 1610 mostra com’erano imperfetti i mezzi delle sue osservazioni: «Molto reverendo signore, mio padre colendissimo, «È tempo che io rompa un lungo silenzio, che la penna più che il pensiero ha usato con vostra signoria molto reverenda. Rompolo hora che mi trovo ripatriato in Firenze per favore del serenissimo granduca, il quale si è compiaciuto richiamarmi per suo matematico et filosofo. La causa perchè io l’abbia sino a questo giorno usato, mentre cioè mi sono trattenuto a Padova, non occorre che io particolarmente lo narri alla sua prudenza; ma solo mi basterà rassicurarla che in me non si è mai intiepidita quella devotione, che io devo alla sua gran virtù. Per una sua lettera scritta al signor Antonio Santini ultimamente a Venezia ho inteso come ella, insieme con uno dei loro Fratelli, havendo ricercato intorno a giove con un occhiale dei pianeti medicei, non gli era succeduto il potergli incontrare; di ciò non mi fo gran meraviglia, potendo essere che lo strumento o non fusse isquisito, siccome bisogna, o vero che non l’avessero ben fermato, il che è necessarissimo, perchè tenendolo in mano benchè appoggiato a un muro, o altro luogo stabile, il solo moto delle arterie, ed anco del respirare fa che non si possono osservare, et massime da chi non gli ha altre volte veduti, et fatto, come si dice, un poco di pratica nello strumento. In oltre alle osservazioni stampate nel mio avviso astronomico, ne feci molte dopo, sinchè giove si vidde occidentale; ne ho poi molte altre fatte da che è ritornato orientale mattutino, e tuttavia lo vo osservando; et havendo ultimamente perfezionato un poco più il mio strumento veggonsi i nuovi pianeti così lucidi e distinti, come le stelle della seconda grandezza con l’occhio naturale: sì che volendo io, quindici giorni or sono, far prova quanto duravo a vedergli mentre si rischiarava l’aurora, erano già sparite tutte le stelle, eccetto la canicola, et quelli ancora si vedevano benissimo con l’occhiale; spariti dopo questi ancora, andai seguitando giove, per vedere parimente quanto durava a vedersi, et finalmente era il sole alto più di quindici gradi sopra l’orizzonte, et pur giove si vedeva distintissimo et grande in modo che posso esser sicuro, che, seguitandolo col cannone, si saria veduto tutto il giorno. Ho voluto dar conto a vostra signoria molto reverenda di tutti questi particolari, acciò in lei cessi il dubbio, se pure ve n’ha mai avuto, circa la verità del fatto, delli quali, se non prima, li succederà accertarsi alla mia venuta costà, sendo io in speranza di dover venire in breve a trattenermi costà qualche giorno ecc.». [312] _Nescio quo fato ductus_, dic’egli. A Peiresc scintillò tosto l’ingegnosa idea, che le loro occultazioni potessero servire a determinare la longitudine. Furono confutati quelli che attribuiscono ad Harriott la scoperta dei satelliti di giove e delle macchie solari. [313] Galileo, temendo che la scoperta delle fasi di venere gli fosse rapita da altri, eppure non avendo osservazioni bastanti per accertarle, la pubblicò con questo anagramma: _Hæc immatura a me jam frustra leguntur, o. y._ L’enigma riuscì indicifrabile, finchè egli a richiesta dell’imperatore lo spiegò con quest’altro, avente le lettere stesse: _Cinthyæ figuras emulatur mater amorum._ Si sa che Newton inventò il calcolo delle flussioni nel 1655, e per undici anni non ne parlò, finchè udito che Leibniz possedeva un’analisi simile, gli mandò un anagramma in cui esprimevasi la base della sua. [314] I limiti dell’autorità e dell’esperienza cercò assegnare Galileo in una lettera alla duchessa di Toscana: — Stimerei che l’autorità delle sacre lettere avesse avuto la mira a persuadere principalmente agli uomini quegli articoli e proposizioni che superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza nè per altro mezzo farcisi credibili che per la bocca dello stesso Spirito santo... Ma che quello istesso Dio, che ci ha dotati di sensi, discorso ed intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sicchè anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate esperienze, o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi agli occhi e all’intelletto, dobbiamo negare il senso e la ragione, non mi pare che sia necessario il crederlo... Mi pare che, nelle dispute de’ problemi naturali non si dovrebbe cominciare dall’autorità de’ luoghi delle scritture, ma dalle sensate esperienze, o dalle dimostrazioni necessarie, perchè procedendo di pari dal Verbo divino e la Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio... pare che quello che gli effetti naturali o la sensata esperienza ci pone innanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser rivocato in dubbio, non che condannato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante, poichè non ogni detto della Scrittura è legato ad obblighi così severi, come ogni effetto di natura ecc.». [315] Bacone conobbe le opere di Galileo. Vedi _Organon_, lib. II. afor. 39; _Sylva sylvarum_, Nº 791. — Per quanto gl’Inglesi idolatrino per patriotismo Bacone e Harriott, pure la loro lealtà rende segnalata testimonianza al nostro Galileo, come può vedersi nella vita scrittane di recente da Drinkwater Bethune, nell’_Introduction of the literature of Europe etc_. di Hallam, nel _Preliminary dissertation to Encyclop. britan._ di Plyfair, il quale dice che «di tutti gli scrittori vissuti al tempo che lo spirito umano sviluppavasi appena dagl’impacci dell’ignoranza e della barbarie, Galileo più d’ogni altro colse il tono della vera filosofia, e restò più mondo dalla contaminazione del tempo rispetto al gusto, ai pensieri, alle opinioni». [316] Galileo dovette dolersi di non riceverne mai risposta: ma ora si sa che il granduca Cosmo scrisse a Filippo III, non avrebbe lasciato andar Galileo, s’egli non gli concedesse di mandare ogn’anno franche due navi dal porto di Livorno alle Indie spagnuole. NELLI, _Vita di Galileo_. [317] Dapprima vi fu chiamato con fiorini cento. Il Fabroni racconta che un malevolo denunziò Galileo al senato veneto di vivere in adulterio con Marina Gamba; e il senato rispose che, se ciò è vero, egli avrà maggiori bisogni per sostentare la propria famiglia; e in conseguenza ne crebbe il trattamento a trecentoventi fiorini. Egli ebbe infatti due figli e una figlia fuor di matrimonio. Alfine gli furono assegnati mille fiorini. [318] Credeva inoltre che la terra col sole si movesse attorno al polo del mondo, che è incessantemente variabile. Vedi CLEMENS, _Giordano Bruno et Nicol von Cusa_; 1847, pag. 97. [319] È ristampata fra le opere di Galileo a Firenze, tom. V. 1854: — Da questi fondamenti e dalle dichiarazioni loro si manifesta l’opinione pitagorica e la copernicana essere tanto probabile, che forse non è altrettanto la comune di Tolomeo; perchè da quella se ne deduce un chiarissimo sistema ed una meravigliosa costituzione del mondo, molto più fondata in ragione ed in esperienza, che non si cava dalla comune, e si vede chiaramente che si può salvare; di modo tale che non occorre ormai più dubitare che ripugni all’autorità della sacra Scrittura, nè alla verificazione delle proposizioni teologiche; ma anzi con ogni facilità non solo i fenomeni e le apparenze di tutti i corpi, ma scopre anco molte ragioni naturali, che per altra strada difficilmente si possono intendere». [320] _Pensieri diversi_. [321] _Systema cosmicum_, dial. II. p. 121. Poi a Keplero scriveva nel 1597: _Multas conscripsi et rationes et argumentorum in contrarium eversiones, quas tamen in lucem hucusque proferre non sum ausus, fortuna ipsius Copernici præceptoris nostri perterritus, qui licet sibi apud aliquos immortalem famam paraverit, apud infinitos tamen (tantus enim est stultorum numerus) ridendus et explodendus prodiit_. KEPLERI Opera, tom. II. p. 69; Lipsia 1718. Ho letto nel ricchissimo archivio Rinuccini a Firenze un autografo di Galileo, degli ultimi anni di sua vita, dove, qual che ne sia la ragione, si ricrede e disdice della teoria copernicana, e mette in evidenza gli argomenti fisici che le ripugnano. Per verità erano tali, che un savio non poteva acchetarsi del tutto in quella sentenza; come sarebbe impossibile il dubitarne oggi, dopo gli argomenti d’irrecusabile evidenza che i contemporanei di Galileo ignoravano. [322] _Viri Galilæi, quid statis aspicientes in cœlum?_ fu il testo preso da un predicatore a Firenze. Un’altra applicazione felice di testo trovo in una lettera del Pignoria, 26 settembre 1610: — Le do nuova come in Germania il Keplero ha osservato anch’esso i quattro pianeti nuovi, e che vedendoli esclamò, come già Giuliano apostata, _Galilee, vicisti_». Guglielmo Libri, che denigra a tutta possa l’operar della Chiesa in quest’affare, non tace che, quando il domenicano Caccini declamò contro Galileo, il Maruffi generale di quell’ordine ne scrisse scuse a Galileo, dolendosi di dover essere partecipe a qualunque bestialità facessero trenta o quarantamila frati. In Inghilterra, nella patria de’ grandi pensatori e non cattolica, e molt’anni più tardi, quando Newton insegnò il metodo delle flussioni, v’ebbe dottori che dal pulpito metteano in avviso contro codesti «novatori, gente perduta che cadeano nelle chimere» ed esortavano ad evitare il loro commercio «pernicioso per lo spirito e per la fede». SAVÉRIEN, _Dictionnaire des mathématiques_, tom. I. La lettera di Galileo al padre Ranieri, dove racconta per disteso il suo processo, e che dal Tiraboschi fu data come autentica, è apocrifa. [323] — Noi Roberto cardinale Bellarmino, rilevato avendo come il signor Galileo è stato calunniato, e come imputato gli fu d’aver fatto un’abjura in nostre mani, e d’essere stato condannato a salutar penitenza; dietro ricerca fattacene, affermiamo conformemente alla verità, che il predetto signor Galileo non ha fatto abjura di sorta alcuna, nè in nostre mani nè in quelle d’altre persone, per quanto è a nostra conoscenza, nè a Roma nè altrove, d’alcuna delle sue opinioni e dottrine; ch’ei non è stato assoggettato a veruna salutare penitenza di qualsivoglia specie; che solamente gli si è partecipata la dichiarazione del nostro santo Padre, pubblicata dalla Congregazione dell’Indice, cioè come la dottrina attribuita a Copernico, che la terra si muova intorno al sole e che il sole occupi il centro del mondo senza muoversi dall’oriente all’occidente, è contraria alla sacra Scrittura, e che in conseguenza non è permesso difenderla nè sostenerla. In fede di che abbiamo scritta e sottoscritta la presente di nostra propria mano, questo giorno 26 maggio 1616. Roberto, cardinale Bellarmino». Non è inutile ricordare che nel Bellarmino stesso l’opera _De romano pontifice_ fu messa all’Indice, poi levatane. La Chiesa non considerò mai come infallibili i decreti delle Congregazioni. [324] _Dilecte fili, nobilis vir, salutem et apostolicam benedictionem. Tributorum vi et legionum robore formidolosam esse Etrusci principatus potentiam, Italia quidem omnis fatetur: at etenim remotissimæ etiam nationes felicem vocant nobilitatem tuam ob subditorum gloriam ac Florentinorum ingenia. Illi enim novos mundos animo complexi, et oceani arcana patefacientes potuerunt quartam terrarum partem relinquere nominis sui monumentum. Nuper autem dilectus filius Galilæus æthereas plagas ingressus ignota sidera illuminavit, et planetarum penetralia reclusit. Quare, dum beneficum Jovis astrum micabit in cælo quatuor novis asseclis comitatum, comitem ævi sui laudem Galilæi trahet. Nos tantum virum, cujus fama in cælo lucet et terras peragrat, jamdiu paterna charitate complectimur. Novimus enim in eo non modo literarum gloriam, sed etiam pietatis studium; iisque artibus pollet, quibus pontificia voluntas facile demeretur. Nunc autem, cum illum in urbem pontificatus nostri gratulatus reduxerit, peramanter ipsum complexi sumus, atque jucunde identidem audivimus florentiæ eloquentiæ decora doctis disputationibus augentem. Nunc autem non patimur eum sine amplo pontificia charitatis commeatu in patriam redire, quo illum nobilitatis tuæ beneficentia revocat. Exploratum est quibus præmiis magni duces remunerentur admiranda ejus ingenii reperta, qui Medicei nominis gloriam inter sidera collocavit. Quinimo non pauci ob id dictitant, se minime mirari tam uberem in ista civitate virtutum esse proventum, ubi eas dominantium magnanimitas tam eximiis beneficiis alit. Tum ut scias quam charus pontificiæ menti ille sit, honorificum hoc ei dare voluimus virtutis et pietatis testimonium. Porro autem significamus solatia nostra fore omnia beneficia, quibus eum ornans nobilitas tua paternam munificentiam non modo imitabitur, sed etiam augebit._ Di questi fatti si vedano le prove in GIAMBATTISTA VENTURI, _Memorie e lettere inedite e disperse di Galileo Galilei_, Modena 1818. [325] Ma in una lettera a frà Micanzio, del 1637, scrive: — Or che dirà la P. V. R. nel confrontare questi tre periodi lunari coi tre periodi diurno, menstruo ed annuo nei movimenti del mare, de’ quali, per comune consenso di tutti, la luna è arbitra e soprantendente?» [326] L’ordine era stato del 1616; e del 1624 n’abbiamo una lettera ove il sistema copernicano è appoggiato di ragioni matematiche. L’ambasciadore Niccolini informa il granduca che l’accusa consiste in ciò che, «sebbene (Galileo) si dichiara voler trattare ipoteticamente del moto della terra, nondimeno in riferirne gli argomenti ne parla e ne discorre poi assertivamente e concludentissimamente, e che ha contravvenuto all’ordine datogli nel 1616 dal cardinale Bellarmino d’ordine della congregazione dell’Indice» (27 febbrajo 33). Mentre appunto Galileo stava in arresto, il padre Castelli gli scriveva d’aver anch’egli un fratello ingiustamente carcerato e condannato a Brescia, e lagnavasi che _inter hos judices vivendum, moriendum, et, quod est durius, tacendum_; 23 luglio 1633; nelle _Opere di Galileo Galilei_, tom. IV. Firenze 1854. [327] Lettera del Geri Bocchinieri. L’ambasciadore Niccolini «gli fece assegnare non le camere o secrete solite darsi ai delinquenti, ma le proprie del fiscale di quel tribunale; in modo che non solo egli abita fra i ministri, ma rimane aperto e libero di poter andare fin nel cortile... In questa causa s’è proceduto con modi insoliti e piacevoli;... nemmeno si sa che altri, benchè vescovi, prelati o titolati, non siano, subito giunti in Roma, stati messi in castello o nel palazzo dell’Inquisizione con ogni rigore e strettezza». 16 aprile 1633. [328] Il Bernini, nella _Storia delle eresie_, fa star Galileo prigione cinque anni; Pontécoulant dice che, anche nelle carceri dell’Inquisizione, sostenne la rotazion della terra; Brewster, che fu tenuto prigioniero un anno; Montucla riporta altri che dicono essergli stati cavati gli occhi ecc. Il Libri s’ingegnò di ravvivare queste accuse, che le _Memorie e lettere_ pubblicate dal Venturi aveano sventato. Abbastanza torti ha l’Italia verso i suoi grandi, senza apporgliene di falsi. Il processo originale di Galileo fu portato a Parigi nel 1809, e non fu restituito nel 1815; solo Pio IX potè riaverlo, e lo restituì alla vaticana nel 1850. Monsignor Marini ne diede informazione nell’opuscolo _Galileo e l’Inquisizione_. Comprende anche il processo del 1615, ma per mal consiglio non lo diede intero. In questi ultimi anni se ne parlò moltissimo, e per opera di Domenico Berti può dirsi chiarito il vero contro i volgari declamatori. Negli altri processi, dopo fatto al costituito l’intimazione di dire la verità, se egli negò, segue questa formola: _Tunc DD. sedentes etc., visa pertinacia et obstinatione ipsius constituti, visoque et mature considerato toto tenore processus... decreverunt ipsum constitutum esse torquendum tormento funis pro veritate habenda... et ideo mandaverunt ipsum constitutum duci ad locum tormentorum etc_. Qui invece, dopo la negativa di Galileo, si soggiunge: _Et cum nihil aliud posset haberi, in executione decreti, habita ejus subscriptione, remissus fuit ad locum suum_. Qual era il decreto che si eseguiva? Quello del papa, ch’è inserito nel processo, ove diceasi: _Sanctissimus decrevit ipsum interrogandum esse super intentione, et comminata ei tortura, ac si sustinuerit, previa abjuratione etc_. [329] Giuseppe Toaldo professore a Padova pubblicò nel 1748 il _Dialogo intorno al sistema copernicano_, che manoscritto esisteva presso quell’Università; credette dovervi premettere la protesta dell’autore, e che il moto della terra non possa sostenersi che come ipotesi; corresse i passi dove era dato in modo assoluto; e vi antepose la dissertazione del Calmet, ove i passi scritturali sono cattolicamente spiegati. Fino al 1835 si trovano nell’Indice de’ libri proibiti Copernico e Astunica _donec corrigantur_; Foscarini, Keplero _Epitome astronomiæ copernicanæ_; Galileo, _Dialogo, et omnes alios libros pariter idem docentes_; ma nel 1820 era stato permesso di trattare della mobilità della terra anche senza forma d’ipotesi. Benedetto Castelli, ai 16 marzo 1630 scriveva a Galileo: — Il padre Campanella parlando i giorni passati con nostro signore, gli ebbe a dire che aveva avuti certi gentiluomini tedeschi alle mani per convertirli alla fede cattolica, e che erano assai ben disposti; ma che avendo intesa la proibizione del Copernico, erano restati in modo scandalizzati, che non ne aveva potuto far altro; e nostro signore gli rispose le precise parole seguenti: _Non fu mai nostra intenzione, e se fosse toccato a noi, non si sarebbe fatto quel decreto»_. _Le opere di Galileo Galilei_, tom. IX. p. 196. Galileo a frà Fulgenzio Micanzio scriveva da Arcetri il 26 luglio 1636: — Di Roma intendo che l’eminentissimo cardinale Antonio e l’ambasciatore di Francia han parlato a sua santità cercando di sincerarla come io mai non ho avuto pensiero di fare opera sì iniqua di vilipendere la persona sua, come gli scellerati miei inimici le aveano persuaso, che fu il primo motore di tutti i miei travagli; e che a questa mia discolpa rispose, _Lo crediamo, lo crediamo_, soggiungendo però che la lettura del mio dialogo era alla cristianità perniziosissima». Un poscritto alla stessa lettera dice: — Godo da otto giorni in qua qui appresso di me la dolcissima conversazione del molto reverendo padre Bonaventura Cavalieri matematico dello studio di Bologna, _alter Archimedes_, il quale con riverente affetto la saluta, e le fa offerta della sua servitù». E allo stesso il 16 agosto: — Quanto al padre matematico di Bologna, egli è veramente un ingegno mirabile, e credo che darà segno alla P. V. R. della stima ch’egli è per fare della sua grazia». Poi il 18 ottobre: — Sento gran consolazione della soddisfazione ch’ella mostra della contratta corrispondenza d’affetto col padre matematico di Bologna». Ciò vaglia a smentire il Libri, che del Cavalieri fa un nemico plagiario di Galileo, unicamente, a quanto sembra, perchè lo credette gesuita, mentre era gesuato. [330] _Sui satelliti di Giove_, 1666. [331] In un’altra lettera del 4 maggio 1665 al granduca ripete, non potersi la via delle comete credere rettilinea, ma una curva simile alla parabola. ZACH, _Zeitschrift für Astronomie_, vol. VIII. p. 379. an. 1827. [332] In onore di questa invenzione, l’Università di Wittenberg un secolo dopo istituì le feste _Secularia Torricelliana_. [333] _Ænigma geometricum a_ D. Pio Lisci pusillo geometra, _che è anagramma di_ A postremo Galilei discipulo. Nel 1659 il Viviani scriveva che Vincenzo Galilei nel 1649 intraprese di fabbricare un oriuolo, da Galileo ideato; onde «procurò d’aver un giovane che vive ancora, chiamato Domenico Balestri, magnano in quel tempo al Pozzo del Pontevecchio, il quale aveva qualche pratica nel lavorare grandi oriuoli da muro, e da esso fecesi fabbricare il telajo di ferro, le ruote con i loro fusti e rocchetti, senza intagliarle, ed il restante lavorò di propria mano facendo nella ruota più alta, detta delle tacche, numero dodici denti con altrettanti pironi scompartiti in mezzo fra dente e dente, e col rocchetto nel fusto di numero sei; et altra ruota che muove la sopraddetta di numero novanta. Fermò poi da una parte del braccio, che fa croce al telajo, la chiave o scatto, che posa sulla detta ruota superiore, e dall’altra impernò il pendolo, che era formato di un filo di ferro, nel quale stava infilata una palla di piombo, che vi poteva scorrere a vite, a fine di allungarlo o scorciarlo secondo il bisogno d’aggiustarlo col contrappeso. Ciò fatto, volle il signor Vincenzo che io (come quegli ch’era consapevole di questa invenzione, e che l’avevo stimolato ad effettuarla) vedessi così per prova e più d’una volta la congiunta operazione del contrappeso e del pendolo; il quale stando fermo tratteneva il discender di quello, ma sollevato in fuori e lasciato poi in libertà, nel passare oltre il perpendicolo, con la più lunga delle due code annesse all’impernatura del dondolo, alzava la chiave che posa ed incastra nella ruota delle tacche, la quale, tirata dal contrappeso, voltandosi colle parti superiori verso il dondolo, con uno de’ suoi pironi calcava per di sopra l’altra codetta più corta, e le dava nel principio del suo ritorno un impulso tale, che serviva d’una certa accompagnatura al pendolo, che lo faceva sollevare fino all’altezza d’ond’era partito; il quale ricadendo naturalmente e trapassando il perpendicolo, tornava a sollevare la chiave, e subito la ruota delle tacche in vigor del contrappeso ripigliava il suo moto, seguendo a volgersi e spingere col pirone susseguente il detto pendolo». Vedi _Giornale dell’Istituto lombardo_, 1854, novembre. Galileo, il novembre 1637, scriveva a frà Micanzio: — Per ora sono intorno al distendere un catalogo delle più importanti operazioni astronomiche, le quali riduco a una precisione tanto esquisita, che mercè della dualità degli stromenti per le osservazioni della vista e per quelli co’ quali misuro il tempo, conseguisco precisioni sottilissime quanto alla misura _non solamente di gradi e minuti primi, ma di secondi, terzi e quarti ancora_; e quanto a’ tempi parimente, esattamente si hanno le ore, minuti primi, secondi e terzi, e _più se più piace_; mercè delle quali invenzioni si ottengono nella scienza astronomica quelle certezze che sinora co’ mezzi consueti non si sono conseguite». Qui c’è evidente esagerazione, essendo noi ben lontani da tanta finezza d’istromenti, quantunque assai migliorati. All’Esposizione universale del 1855 a Parigi era esposto un pendolo applicato alla misura del tempo, secondo una lettera di Galileo, troppo distante dall’odierna precisione. [334] Furono ristampati in occasione del Congresso scientifico del 1841, con una storia di essa Accademia, per Vincenzo Antinori. Nel proemio si opina che l’anima porti seco idee innate e queste sieno una piccolissima cosa: — Non è però che la sovrana beneficenza di Dio, nell’atto ch’egli crea le nostre anime, per avventura non lasci loro così a un tratto dar un’occhiata, per così dire, all’immenso tesoro della sua eterna sapienza, adornandone, come di preziose gemme, de’ primi lumi della verità». [335] La camera ottica era già stata trovata da Leon Battista Alberti; ma anche prima del Porta la camera oscura trovasi descritta da Leonardo da Vinci e dal Cardano (Vedi LIBRI, _Histoire des mathématiques en Italie_, nº 2 del vol. IV), e massime dal Cesariano (_Commenti a Vitruvio_), nel quale (allo stesso foglio XXIII) è descritta la macchina a vapore eolipila. [336] _L’Iride, opera fisica matematica_; Bologna 1678. Alle pagine 28 e 29 annunzia chiarissimamente la rifrazione. [337] Vedi FORD’S _Handbook_. [338] Giuseppe Campani di Bologna verso il 1650 facea le lenti più cercate, e fece osservazioni insieme col Cassini. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 11 (DI 15) *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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