Title: La rovina della civiltà antica
Author: Guglielmo Ferrero
Translator: Leo Ferrero
Release date: August 11, 2023 [eBook #71390]
Language: Italian
Original publication: Milano: Athena
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)
GUGLIELMO FERRERO
LA ROVINA
DELLA
CIVILTÀ ANTICA
TRADUZIONE ITALIANA DI
LEO FERRERO
EDIZIONI ATHENA
1926
MILANO — Via Vigentina, 7-9
PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda.
Copyright by G. Ferrero 1925
Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di questa edizione che non porti il doppio timbro a secco della Società Italiana degli Autori.
— Arti Grafiche G. MONFRINI — Milano — Via Vigentina, 33 —
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I cinque capitoli di questo libro furono scritti in francese per la «Revue des deux mondes», e pubblicati in altrettante puntate della famosa rivista. Il fastidio di tradurmi da me, e la ripugnanza di farmi tradurre da un estraneo nella mia propria lingua, hanno ritardato sin’ora questa pubblicazione, per quanto da me desiderata. Trovato finalmente un traduttore, che non era l’autore e che non era neppure un estraneo, sono lieto di offrire questo piccolo libro al pubblico italiano.
Questo piccolo libro racconta in succinto e indaga uno degli episodi più grandiosamente tragici della nostra storia della nostra civiltà. Sebbene l’Europa sia oggi molto più ricca colta, [6] potente, che 17 secoli fa, credo non sia del tutto inutile, in questi tempi difficili, ritornare per un momento a questa grande esperienza del passato. Essa può mostrarci alcuni pericoli, che minacciano la nostra civiltà, come già distrussero la civiltà antica. Con questo spirito il libro è stato scritto, e con questo spirito spero che sarà letto.
G. F.
Firenze 1 Febbraio 1926.
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È convinzione di molti che la civiltà antica si sia spenta a poco a poco, dopo un’agonia di secoli; ma bisogna persuadersi, quando almeno si consideri l’Occidente, che la verità è tutt’altra. Allorchè l’imperatore Alessandro Severo fu trucidato dalle legioni, nel 235 dopo Cristo, la civiltà antica era ancora intatta in Europa, in Africa, in Asia. Nei templi edificati e restaurati durante gli ultimi secoli, con la magnificenza della prosperità, gli dei greci e romani, e gli dei indigeni ellenizzati o romanizzati delle provincie vegliavano ancora sull’ordine e sulla prosperità dell’impero. Dal fecondo seno del politeismo era nato, nei due [8] ultimi secoli, un culto nuovo: il culto di Roma e dell’Augusto, che al principio del terzo secolo unificava ancora, dal Reno all’Eufrate, la maestosa vastità dell’Impero. Una mistura cosmopolita di romanismo, di ellenismo e di orientalismo si stendeva su tutte le provincie come una vernice luccicante sopra una rustica terracotta. Due aristocrazie, l’imperiale, vivente in Roma, e la provinciale, disseminata nelle città minori, erano preparate o dalla cultura greca o dalla cultura latina o da tutte e due, a governare l’Impero con saggezza, giustizia e magnificenza. Le Arti — scultura, pittura, architettura — benchè avessero perduto la semplicità e la purezza delle grandi epoche, per sodisfare un pubblico più numeroso ed eterogeneo, fiorivano ancora; la filosofia e la letteratura erano coltivate con un ardore un po’ superficiale e senza grande originalità, da uomini e donne, nelle classi medie e nelle classi alte. Dappertutto, anche nelle piccole città, pullulavano scuole. La disciplina più studiata e pregiata era la giurisprudenza; qualità, che fanno un giurista, la perspicacia, la sottigliezza, la dialettica, l’equità, l’inventiva nell’ordine dei principii, aprivano la [9] via alle cariche della corte e dell’esercito. Il grande impero, fondato con tante guerre, voleva dare al mondo la giustizia, con una legge che fosse pura opera della ragione e dell’equità: missione nobilissima tra tutte, nella quale si attuava la dottrina di Aristotele, che non la ricchezza e la potenza, ma la virtù è il supremo fine dello Stato. Le piccole città rivaleggiavano con le grandi nel costruire begli edifici, nel fondare scuole, nell’organizzare feste e cerimonie sontuose, nell’incoraggiare gli studi in voga, nel provvedere al benessere delle plebi. Prosperavano l’agricoltura, l’industria, il commercio; le finanze dell’impero e delle città non pericolavano ancora, anche se già erano oberate; e l’esercito era abbastanza forte, da imporre il rispetto del nome e delle frontiere romane.
Cinquant’anni dopo l’impero è una rovina. La civiltà greco-romana agonizza nel politeismo. Gli dei si nascondono nelle campagne, fuggendo i templi rovinati e deserti. Sono sparite le aristocrazie, che governavano con tanto splendore e che avevano eretto il grande monumento del diritto razionale. L’Impero è preda di un dispotismo violento e debole, che [10] racimola i funzionari civili e militari fra le popolazioni più barbare. Rovinato è l’Occidente, compresa la Gallia, compresa l’Italia. Si spopolano le campagne e le cittadine, uomini e ricchezze vanno a congestionare pochi grossi centri; spariscono i metalli preziosi; deperiscono l’agricoltura, l’industria e il commercio; decadono le arti e le scienze. Mentre i due secoli precedenti si erano sforzati di sovrapporre una grande unità politica a un’immensa varietà di religioni e di culti, la nuova epoca crea una grande unità religiosa sulla frantumazione dell’impero. La civiltà greco-latina, distrutta nella carne dall’anarchia, e dallo spopolamento e dalla miseria, è scompaginata nello spirito dal cristianesimo, che scaccia gli dei del politeismo per far posto a Dio e cerca di costruire una universale società religiosa, mirante solo alla perfezione morale, sulle rovine dell’esercito e dello Stato romano. Come si spiega questo mutare del destino? Che cosa è successo in quei cinquant’anni?
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Per rispondere all’oscuro quesito, bisogna risalire agli inizi dell’Impero e intendere che cosa fu veramente l’autorità imperiale. Gli storici odierni si ostinano a fare dell’imperatore romano, nei due primi secoli dell’era volgare, un monarca assoluto, sul modello delle dinastie che governarono l’Europa nel ’600 e nel ’700. L’imperatore romano rassomigliavasi ai monarchi degli ultimi secoli, perchè il suo potere durava quanto la vita, e perchè questo potere, senza essere proprio assoluto, era così vasto che spiriti abituati alle forme e ai principii dello Stato moderno possono facilmente confonderlo con il moderno potere assoluto. Eppure l’Impero romano si differenzia dalla vera monarchia, antica o moderna, perchè non ha mai riconosciuto, fino a Settimio Severo, il principio dinastico o ereditario.
L’imperatore come i magistrati repubblicani, è investito dei suoi poteri da un’elezione; la [12] parentela o la nascita non sono mai state considerate titoli legittimi della sua autorità; e se talora una stessa famiglia conservò il potere per parecchie generazioni, ciò accadde per ragioni non di diritto, ma di fatto. Basterebbe questa differenza a farci concludere che fino a Settimio Severo l’Impero non fu una monarchia assoluta, senza che, per questo, possa essere definito una repubblica. Fu un regime intermedio fra i due principii; e questo incerto carattere è stato una ragione di debolezza che gli storici hanno avuto il torto di non studiare a fondo.
In ogni sistema politico fondato sulla scelta, la grande difficoltà sta nel salvare il principio elettivo dalla frode e dalla violenza. Per molte ragioni che qui sarebbe impossibile di studiare, ma quasi tutte nascenti da questo carattere incerto dell’autorità imperiale, Roma non riuscì a fissare le regole dell’elezione imperiale in modo da rendere impossibili le esitanze nella procedura e da render vane le tentazioni della frode e della violenza. Il principio voleva che l’imperatore fosse eletto nei comizi dal popolo romano; tanto è vero che del potere era investito con una lex de imperio; la quale, almeno fino a Vespasiano, fu sottomessa ai comizi [13] e formalmente approvata. Ma noi sappiamo che sotto l’impero i comizi erano una finzione costituzionale, e che, votando la lex de imperio, sanzionavano soltanto il testo del Senatus consulto, col quale il Senato aveva assegnato all’imperatore il potere. Il corpo che per davvero legittimava l’autorità dell’imperatore, investendolo del potere costituzionale, era dunque il Senato. Il Senato avrebbe dovuto scegliere l’imperatore, poichè esso aveva il diritto di legittimare il potere. Ma per diverse ragioni d’ordine politico e costituzionale il Senato non fu sempre in grado di esercitare questo diritto in tutti i casi e con la necessaria libertà: cosicchè scelse qualche volta il capo e lo impose all’Impero; ma gli capitò anche, altre volte, di essere costretto a ratificare la scelta fatta al di fuori di lui. Per esempio: Nerva fu scelto dal Senato; ma Tiberio fu imposto dal Senato da una situazione politica e militare, che non corrispondeva punto con le preferenze e le vedute dell’illustre assemblea; Claudio e Nerone furono imposti dai pretoriani; Vespasiano dalla vittoria e dai soldati. Da Nerva a Marco Aurelio, durante il periodo più brillante dell’Impero, prevalse un sistema misto: [14] l’imperatore sceglieva nel Senato e d’accordo col Senato, l’uomo che gli sembrava più adatto a succedergli; lo adottava come figlio e lo associava al potere, cosicchè, assegnando al figlio adottivo il potere imperiale, dopo la morte dell’Imperatore, il Senato ratificava ormai una scelta, alla quale aveva già consentito. C’era insomma nell’Impero un corpo che poteva e doveva eleggere l’Imperatore; ma questo corpo, il Senato, non sempre ebbe l’autorità e la forza necessaria per esercitare il suo diritto; e, spesso, invece di eleggerlo, si limitò a legittimare un imperatore scelto da altri. Ma questa funzione almeno gli fu riconosciuta senza contestazione, cosicchè l’autorità di nessun imperatore fu legittima, prima che il Senato, volente o per forza, gliela avesse conferita con la lex de imperio. Il Senato romano sotto l’Impero potrebbe dunque paragonarsi ai parlamenti di molti Stati moderni, i quali in teoria dovrebbero scegliere, ma in realtà spesso legittimano soltanto, con la loro approvazione, dei governi eletti dalla corte o composti da potenti consorterie, estranee al Parlamento. Per questa ragione gli storici moderni han l’aria, di solito, di disdegnare il Senato dell’epoca imperiale, che [15] considerano come una mummia lasciata in eredità dalla repubblica: mummia venerabile, certo, ma inutile e ingombrante, nella nuova costituzione. Il secolo XIX ha fatto troppe rivoluzioni, e s’è troppo abituato a confondere l’autorità con la forza, per poter valutare equamente una istituzione, che aveva per compito di imprimere sull’autorità imperiale il carattere indelebile della legittimità. Tanto più sarà utile e savio che ci sforziamo di capire come la prosperità dell’Impero, durante il primo secolo, fu opera di un’istituzione, la quale sembra a molti storici moderni inutile, perchè ebbe una funzione, invece che sostanziale, formale.
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Benchè la maggior parte degli storici moderni, seguendo l’esempio del Mommsen, si ostinino a immolare il Senato, come vittima espiatoria, sulla tomba di Cesare, certo è, invece, che il Senato non solo potè ancora vivere e governare dopo la morte di Cesare, ma che nella seconda metà del I secolo ringiovanì come un albero invecchiato dopo un innesto. Si rinnovò, acquistò nuovo prestigio e vigore, governò l’Impero con un’energia e una saggezza che possono essere paragonate ai tempi più grandi della Repubblica. Per quali ragioni? Quale fu l’innesto miracoloso?
Durante il primo prospero e pacifico secolo dell’Impero, molte famiglie dell’Italia settentrionale, della Gallia, della Spagna, dell’Africa settentrionale, si arricchiscono e creano delle nuove, piccole aristocrazie locali. La ricchezza, come al solito, risvegliando il desiderio di distinguersi e di dominare, queste famiglie cercano [17] un modello da imitare per raffinarsi e divenire una vera aristocrazia, staccandosi dal maggior numero non solo per l’opulenza ma anche per la superiorità intellettuale e morale. Salvo qualche rara famiglia, che cerca questo modello fra le ceneri ancor calde delle tradizioni e della indipendenza nazionale, le altre lo trovano a Roma, e nella nobiltà romana; e non tanto nella nobiltà divisa, prodiga, fastosa, inattiva, indocile e debole del tempo dei Giuli-Claudi, quanto nella figurazione solenne e venerabile che Cicerone, Sallustio, Orazio, Virgilio, Tito Livio, avevano tracciata della vecchia aristocrazia romana; poichè la letteratura latina non fu una semplice distrazione per ricchi signori oziosi e curiosi, ma il più nobile organo della potenza romana, il veicolo elegante, che propagò la conoscenza della lingua latina, il gusto delle lettere e le dottrine morali e politiche in cui credeva l’aristocrazia tra nuove élites che emergevano dalla confusa eguaglianza dei vinti nelle provincie dell’Occidente e dell’Africa. Educate da precettori latini, le nuove generazioni studiarono i grandi autori come maestri non solo della forma, ma anche del pensiero e del sentimento; crebbero con il meraviglioso [18] modello dell’antica nobiltà romana, innanzi agli occhi, della nobiltà non quale era stata, ma come l’aveva dipinta, purificandola dai vizi e dalle debolezze, nella cornice della sua storia immortale, il pennello di Tito Livio; s’innamorarono delle sue virtù, rese ideali dall’arte: la semplicità, l’abnegazione civica, il coraggio, la fedeltà alle tradizioni civili e religiose; si persuasero che, per un uomo, la più alta ambizione fosse d’essere accolto in quella aristocrazia, e nel Senato, che la rappresentava.
Tuttavia, fino a Nerone, la vecchia aristocrazia romana non disserrò le sue porte. Poche furono le grandi famiglie provinciali, che riuscirono a penetrare nel Senato. Il quale era quasi esclusivamente composto di famiglie dell’Italia centrale: aristocrazia, in verità troppo ristretta per un impero così grande, e rosa da troppi vizi, antichi e nuovi. Un secolo di pace non era riuscito a spegnere le discordie, gli odii e le rivalità da cui quelle famiglie erano state sempre divise; aveva anzi esaltato i due vecchi vizi, l’orgoglio e lo spirito di cricca, aggiungendo a questi dei difetti nuovi: la frenesia del lusso e un certo scetticismo, che non [19] aveva paura di scherzare con gli esotismi più pericolosi. Fu responsabile dei torbidi da cui fu agitato, da Augusto a Nerone, l’impero; questa aristocrazia troppo orgogliosa e superba l’avrebbe forse trascinato alla rovina, se, nelle provincie, non si fosse formata un’aristocrazia nuova, che, innestata sul vecchio tronco, doveva ringiovanire il Senato.
Vespasiano fu l’imperatore che fece, e con felice successo, in tempo opportuno, l’innesto riparatore. L’atroce guerra civile, che si scatenò dopo la morte di Nerone, vince l’egoismo e l’esclusivismo secolare dell’antica aristocrazia. Il pericolo era stato così grande, che tutti gli uomini di buon senso capirono essere necessario rinnovare e rinforzare il corpo politico, a cui spettava di scegliere e aiutare gl’imperatori; e Vespasiano potè, senza troppe difficoltà, compire la gran riforma, che, qualche anno prima, sarebbe stata impossibile. Gli storici dell’antichità ci raccontano che assunta l’autorità di censore, scelse mille famiglie fra le più importanti delle provincie, le iscrisse nell’ordine senatorio e nell’ordine equestre, e facendole venire in Roma ricostituì l’aristocrazia romana. Per questa riforma, Vespasiano merita [20] d’essere considerato come il secondo fondatore dell’Impero, dopo l’Augusto. Siccome veniva dalle provincie, quest’aristocrazia era più parsimoniosa, più semplice, di costumi più austeri, più attiva, più seria, e sopratutto più devota alla grande tradizione romana, repubblicana e aristocratica, che non la vecchia aristocrazia originaria d’Italia, guasta dalle guerre civili, dal successo, dalla ricchezza e dalla pace del primo Impero. Per una di quelle sorprese di cui la storia è piena, i nipoti dei Galli, degli Iberi, degli Africani, vinti da Roma, vennero a Roma, quando l’Urbe li chiamò, più romani che i discendenti di quelle famiglie dell’Italia centrale, da cui l’Impero era stato fondato. Lo spirito di Roma, moribondo in Italia, riviveva nelle provincie.
Tacito, Plinio il vecchio e Plinio il giovane nella letteratura, Traiano e Adriano nella politica, rappresentano questa nuova aristocrazia provinciale che, con sincerità e fermezza, applicò nel governo dell’Impero i principii morali e politici della Repubblica, adattandoli al nuovo stato del mondo, conciliandoli con l’arte e la filosofia dell’ellenismo e del romanesimo, e creando la vera civiltà dell’Impero. Il secolo [21] in cui quest’aristocrazia governò fu tranquillo e prospero, perchè rispettò insieme l’autorità del Senato e quella dell’Imperatore; cosicchè non nacquero mai, fra i due poteri, quegli urti e quegli antagonismi, immaginati dagli storici, i quali, a tutti i costi, vogliono fare dell’impero, già nei due primi secoli, una monarchia. Come abbiamo detto, il Senato sceglieva, d’accordo con l’Imperatore, colui che doveva succedergli; lo Stato era una vera repubblica, governata dal Senato e dall’Imperatore, quest’ultimo rispettoso dei diritti del primo, e il primo ossequiente all’autorità del secondo, come al più illustre e al più potente dei suoi membri. Non ci fu mai, per un secolo, nessuna incertezza a proposito dell’elezione degli imperatori e delle condizioni richieste perchè fosse legittima. Il maggior difetto della costituzione imperiale parve miracolosamente medicato; l’autorità di Traiano, di Adriano, di Antonino, e di Marco Aurelio fu riconosciuta da tutti, senza essere minata, come quella di Tiberio, di Claudio e di Nerone, dall’opposizione segreta e inesorabile della nobiltà; e poichè non era più infirmato da discordie troppo violente, infurianti in seno al gruppo onnipotente che teneva [22] il governo, lo Stato romano riuscì, durante quel secolo, a compiere grandi opere di pace e di guerra nell’immenso Impero.
Ma i principii su cui posa una civiltà, e le classi che hanno il compito di attuarli, si logorano con il tempo. Anche questa nuova aristocrazia, originaria delle provincie, si disgregò a poco a poco, per interno esaurimento, parte per l’azione delle filosofie e delle religioni di spirito universale. Dottrina nazionale e aristocratica, e perciò esclusivista; simile ad un’armatura, nella quale un popolo e uno Stato si chiudevano, per isolarsi, il romanesimo era in contradizione con le filosofie e con le religioni universali, come lo stoicismo e il cristianesimo, che mescolavano tutti gli uomini e tutti i popoli in un principio di uguaglianza morale. Senonchè già indebolita per l’esaurimento interno e per l’azione delle filosofie e delle religioni universali, quest’aristocrazia fu sorpresa da una crisi politica, che l’annientò, dando [23] la prima spinta alla rovina della civiltà antica. Marco Aurelio è uno dei più celebri tra gli imperatori, perchè i suoi pensieri sono uno dei più bei monumenti della saggezza umana. E’ però necessario riconoscere che la filosofia, chiamata, nella sua persona, a governare il mondo, fece un curioso passo falso nella questione della successione, che imperatori meno filosofi avevano così bene risolta. Invece di intendersi, come i suoi predecessori, con il Senato, e di scegliere Claudio Pompeiano che il Senato giudicava il più degno, Marco Aurelio, nel 177, si diede per associato all’Impero, e con potestà tribunizia, il figlio Commodo, quindicenne. Che proprio un filosofo stoico dovesse tentare di introdurre il principio dinastico nella repubblica aristocratica, a cui l’impero obbediva, è per noi un mistero singolare e pur troppo inesplicabile, con quello che sappiamo. Ma le conseguenze dell’errore furono terribili. Quando Marco Aurelio morì nel 180, Commodo, che era diciottenne, non aveva nè l’età, nè la preparazione necessaria, per sobbarcarsi a un compito così grave; onde parte per la maniera con cui Commodo era stato imposto, parte per l’inettitudine sua non tardò a nascere, fra il [24] Senato e lui, un conflitto così violento che, dal tempo di Domiziano, non se n’era visto l’eguale. Come ai tempi di Domiziano, questa nuova lotta fra i due supremi poteri dello Stato, si chiuse con una congiura; ma mentre, dopo la morte di Domiziano, il Senato aveva potuto dominare gli eventi e imporre il suo candidato nella persona di Nerva, questa volta, dopo l’uccisione di Commodo, non riuscì ad assicurare la trasmissione legale dell’autorità suprema. Le legioni si mossero; incominciò, come dopo la morte di Nerone, una guerra civile, che inalzò l’assolutismo militare di Settimio Severo sulle rovine dell’autorità del Senato.
Settimio Severo apparteneva a una famiglia di Lepti, molto ricca e assai colta, ma di nobiltà fresca, poichè egli stesso per primo sedeva in Senato. Aveva coltivato con uguale ardore le lettere latine e le greche; ma aveva anche sposato Giulia Domna, discendente di una delle più ricche famiglie siriache, alla quale doveva i suoi più celebri sacerdoti il culto del Sole. Africano di nobiltà recente, ellenizzato e romanizzato ma con forti influssi dell’Oriente asiatico, Settimio Severo non era uomo da rispettare — come l’aveva rispettata un secolo [25] prima, il grande Traiano — l’autorità del Senato, massime poi che il Senato si era schierato contro di lui nella guerra civile. Se il Senato, per ragioni che non conosciamo, aveva messo al servizio dei suoi nemici l’autorità di cui disponeva, l’Africano se ne vendicò dopo la vittoria, lavorando a disfare l’opera di Vespasiano. Appoggiandosi alla fedeltà delle legioni, indebolì e impoverì quando potè, con esecuzioni e confische, l’aristocrazia storica; l’umiliò, diminuendo i suoi privilegi e il suo prestigio a favore dell’ordine dei cavalieri; a questi assegnò molte cariche, tenute, fino allora, soltanto da senatori; e cominciò a costituire fra i cavalieri una nobiltà di funzionari scelti e dipendenti da lui, alla quale dette nuovi titoli onorifici (vir egregius, vir perfectus, vir clarissimus); esercitò apertamente il potere assoluto, rinvigorì il principio dinastico, e trattò apertamente l’impero come una proprietà di famiglia, dividendolo fra i due figli; fece dell’esercito una potenza politica superiore al Senato, considerando il favore dei soldati e la forza che gliene veniva, come titoli d’autorità più validi che la scelta del Senato. Settimio Severo fu insomma il primo vero monarca assoluto, [26] o quasi assoluto, dell’Impero; quello che osò farsi chiamare, ufficialmente, dominus; che rese giustizia nel suo palazzo, e colpì l’autorità del Senato con una umiliazione, dalla quale non potè più riaversi. Fece insomma nell’Impero quella rivoluzione, che troppi storici troppo frettolosi attribuiscono a Cesare!
Ora, da principio, non sembrò che l’Impero avesse a lagnarsi di questa profonda rivoluzione, per cui il potere aveva mutato natura e carattere. L’abbassamento del Senato potè anzi, nei primi tempi, essere salutato come guadagno e beneficio, non solo dall’ottimismo ufficiale, ma anche dagli osservatori imparziali. Il governo degli ultimi Antonini, specialmente quello di Marco Aurelio, era stato giusto e chiaroveggente, ma assai debole, lento, poco attivo, come sono spesso i governi delle aristocrazie invecchiate. Il governo di Settimio Severo fu agile, risoluto, fecondo in ardite iniziative, quale poteva essere la dittatura di un guerriero fortunato, intelligente, e nel quale c’era la stoffa di un vero uomo di Stato.
Ma i pericoli, insiti nella sua rivoluzione, si fecero manifesti, quando lo strumento così ben maneggiato da Settimio Severo passò in mani [27] più fiacche. Settimio Severo aveva lasciato il potere, come cosa sua, ai figli: Caracalla e Geta. Ma i due eredi non andaron d’accordo; Caracalla assassinò il fratello; e, rimasto solo padrone dell’Impero, cadde a sua volta, poco tempo dopo, vittima di una congiura militare, che proclamò imperatore il prefetto del pretorio, Marco Opelio Macrino, un semplice cavaliere. Era la prima volta che i soldati osavano scegliere un imperatore fuori del Senato; ma la proclamazione dei soldati, benchè Mommsen abbia sostenuto il contrario, non era senza l’investitura del Senato, titolo legale di autorità; non conferiva che un potere di fatto, fragile e incerto. Ciò che un gruppo di legioni aveva decretato, un altro gruppo poteva disfare, se l’imperatore scelto non era uomo molto forte e di gran prestigio personale.
Infatti, Macrino cercò di assicurarsi la ratifica dal Senato. Ma mentre stava negoziando e maneggiando per far legittimare la sua autorità, un’altra rivolta militare, fomentata dalla famiglia di Settimio Severo, lo rovesciò, proclamando imperatore Eliogabalo. Appena quattordicenne, e non avendo, come titolo, che il favore mobile dei soldati, neppure Eliogabalo [28] conservò a lungo il potere. Dopo quattro anni, i soldati che l’avevano inalzato all’Impero lo rovesciarono; e non rimase, come Imperatore, che il cugino di Eliogabalo, Alessandro Severo, il quale era stato, un poco prima della strage, associato a Eliogabalo, per volontà dei soldati e della famiglia imperiale. Ma queste rivoluzioni militari e l’instabilità del supremo potere avevano tanto spaventato le classi governanti, compresa la famiglia di Settimio Severo, che tutti si rivolsero ancora verso il Senato, per ristabilire un governo forte e rispettato, il quale potesse, con incontestabile legittimità, imporsi all’osservanza delle legioni.
Alessandro Severo rinnovò dunque, e persino esagerò la politica di Traiano, di Antonino Pio, di Marco Aurelio. Rifiutò il titolo di dominus, soppresse il cerimoniale, trattò i senatori da pari a pari, affidò di nuovo al Senato la scelta dei funzionari più importanti, compresi i governatori delle provincie; formò, con dei senatori, il Consilium Principis; volle che i senatori assistessero i governatori, e non solo limitò l’autorità dei procuratori imperiali, ma li fece anche eleggere dal popolo. Come Silla, Augusto e Vespasiano oppose alla forza scatenata [29] della rivolta militare, il Senato, rocca della legalità. Ma fu l’ultima volta. Le legioni non erano più, come ai primi secoli dell’Impero, reclutate quasi unicamente fra gli italiani, che per tradizione veneravano il Senato come il padre della loro nazione: erano piene di provinciali, calati dai paesi barbari dell’Impero, pei quali il Senato appariva un’autorità vaga, lontana, che si rispettava solo in ragione della forza. Inoltre lo spirito severiano del potere assoluto, l’ambizione di essere unico sostegno dell’autorità imperiale, era troppo penetrato nelle legioni, perchè si inchinassero davvero e sul serio dinanzi al Senato.
Le circostanze infine favorirono il loro spirito di rivolta. In quel momento critico della storia d’Occidente, scoppiò una grande rivoluzione in Oriente: l’ultimo re dei Parti è rovesciato, e risale sul trono la dinastia nazionale dei Sassanidi, risoluti a sterminare in Persia la cultura greca che era stata agevolata, nella sua diffusione, dall’Impero dei Parti, e a riconquistare i territori dell’antico impero persiano, soggetti, allora, a Roma. L’Impero Romano si trovò tutto a un tratto impegnato in una guerra con la Persia. Alessandro Severo riuscì a respingere [30] l’invasione persiana, ma impiegando tutte le forze dell’Impero, comprese quelle che difendevano le frontiere d’Occidente. Ed ecco gli Alamanni e i Marcomanni ne approfittano per guadare gli uni il Danubio, gli altri il Reno. Impegnato in Oriente, Alessandro Severo giudicò di non poter respingere l’invasione, con la sola forza delle armi, e ricorse ai negoziati e ai sussidii. Ma i soldati scontenti di non sentirsi più padroni dello Stato, come ai tempi di Settimio Severo e di Caracalla, colsero questo pretesto, accusarono Settimio Severo di render l’Impero tributario dei barbari, si rivoltarono e sterminarono con lui tutta la famiglia imperiale. Dopodichè proclamarono imperatore il capo della congiura, un ufficiale superiore nato in Tracia, soldato valoroso, ma che sapeva appena balbettare il latino: C. Giulio Vero Massimino.
Questa rivolta segna l’inizio di un interminabile seguito di calamità, guerre civili, guerre [31] esterne, pesti e carestie che per cinquant’anni, spopolarono e impoverirono l’Impero, distruggendo le élites che l’avevano governato, pacificato, e incivilito durante il primo e il secondo secolo; e con queste élites, le arti della pace e la parte migliore della cultura greca e latina.
Si cercano da secoli le ragioni per cui la civiltà antica è scomparsa: e si capisce che l’argomento abbia tentato e tenti gli spiriti, perchè poche civiltà sono state, nel loro fiore, più gloriose, e hanno, nello stesso tempo, subito un destino più fatale. Quando noi consideriamo quale fu la sorte della civiltà che, dall’anno mille, cominciò a rifiorire in Europa sulle rovine della antica, non possiamo non domandarci perchè l’Europa goda da 9 secoli di uno sviluppo quasi ininterrotto, in cui le conquiste e i profitti accennati sorpassano sempre le perdite; e perchè, invece, la civiltà antica, vigorosa e creatrice, è stata vittima di una terribile catastrofe, in cui doveva essere, quasi interamente, sommersa. Si accusano da molti, le invasioni dei barbari; e si dimentica che è necessario, allora, spiegare come un sì grande Impero, che possedeva tutta la scienza militare dell’epoca, [32] non sia stato capace di difendere le sue frontiere, contro quei popoli che da lui avevano imparato i primi rudimenti dell’arte della guerra e del governo. Altri storici attribuiscono questa rovina al cristianesimo; altri ancora alla preponderanza che presero, nell’Impero, le classi inferiori e le popolazioni più barbare; altri al fiscalismo spoliatore e all’assolutismo. Ma tutte queste spiegazioni, in parte giuste, non spiegano nulla; se non si spiega nello stesso tempo perchè il cristianesimo potè, in certo momento, imporre all’Impero dottrine e istituzioni, che dovevano annientare il suo vigore politico e militare; se non si spiega per quali ragioni le razze, che popolavano l’Impero, si mescolarono insieme, diventando barbare; e come e perchè lo Stato finì per strangolare l’Impero con il suo assolutismo e la sua finanza insensata. Tutti questi fenomeni di decomposizione dovevano avere una causa prima, che bisogna chiarificare.
Questa causa prima è un grande disordine politico: proprio quel disordine politico, che fu generato dalle guerre civili seguite alla morte di Alessandro Severo e che continuò per mezzo secolo. Ma quale fu a sua volta la causa di questo [33] disordine politico? L’annientamento assoluto dell’autorità del Senato, che tanti storici considerano come ingombro inutile nella struttura dell’Impero. Il Senato fu distrutto dalle legioni barbare che, a un certo momento, non s’inchinarono più alla sua autorità secolare; dalla paura che lo paralizzò dinanzi alla forza scatenata delle legioni, quando s’accorse che il suo prestigio, tutto morale, non esisteva più; dalla distruzione delle famiglie più illustri e più rispettate; dagli elementi nuovi, incolti e grossolani, che riempirono i vuoti della vecchia aristocrazia, decimata dalle guerre civili. Ma quando il Senato fu spogliato della sua autorità, non ci fu più in tutto l’Impero un’autorità capace di legittimare l’imperatore; venne cioè a mancare ogni principio di legittimità, in nome del quale si riconoscessero tutti obbligati a obbedire all’Imperatore; e con questo principio sparì ogni traccia di procedura legale per l’elezione dei capi dell’Impero. Le legioni scelsero gli imperatori, e il loro favore divenne unica fonte dell’autorità suprema; ma le legioni eran molte, stazionavano in paesi lontani, di rado si trovavano d’accordo, e spesso cambiavano idea.
Come si sarebbe potuto, se non con la guerra [34] e la spada, fare una scelta, fra imperatori che tutti si riconoscevano lo stesso diritto, poichè tutti erano egualmente eletti da legioni, il cui voto conclamatorio aveva il medesimo valore? Onde l’interminabile seguito delle guerre civili; perchè non c’è verdetto della forza contro il quale non si possa ricorrere alla forza. Non era la prima volta che, nel mondo antico, un popolo restava come sospeso in aria, dopochè erano cadute quelle istituzioni con cui s’era, per secoli, governato.
Ma quelle crisi, benchè spesso rovinose, erano state circoscritte, trovandosi quei popoli attorniati di Stati, in cui l’ordine legale non era turbato, e in cui il potere si basava su un principio di legittimità ancora solido. Il popolo in rivoluzione poteva sempre prendere in prestito ai paesi confinanti questo principio di legittimità e il modello delle istituzioni, che su quello posavano, per ristabilire, presto o tardi, un governo. Quando in un popolo l’anarchia durava tanto tempo da inquietare i vicini, si trovava sempre tra questi vicini, uno Stato, pronto a imporre con la forza quell’ordine, che non sapeva darsi da sè. Per questo, nell’antichità, le [35] guerre sono tanto spesso legate alle rivoluzioni interne degli Stati.
Invece, per la prima volta nella storia del mondo antico, nel terzo secolo nella nostra era, un immenso Impero si trovò senza un principio con cui distinguere l’autorità legittima dall’usurpazione violenta, senza nessuna istituzione politica abbastanza forte per imporre tale principio. Ma questo immenso Impero, che comprendeva una parte dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, era, per la sua stessa grandezza, al sicuro di un intervento, che vi avrebbe ristabilito l’ordine, imponendo altri principii e altre istituzioni; e non poteva d’altra parte attingere in nessun paese un nuovo principio di legittimità, perchè a settentrione, a occidente, a mezzogiorno, confinava con una turbolenta barbarie; a oriente con un Stato non barbaro, l’Impero persiano, ma di recente fondazione, uscito appena da una guerra civile, ostile e quanto diverso per storia ed aspirazioni! L’Impero Romano fu dunque abbandonato a sè stesso e costretto a risolvere il tremendo problema di trovare, con le sue forze, un nuovo principio d’autorità e di legittimità. Donde la formidabile esplosione di violenza, che distrusse [36] a poco a poco la più grande e miglior parte della civiltà antica.
Sarebbe un errore il voler negare che la civiltà greco-latina, in apparenza ancor florida al principio del terzo secolo, fosse già sordamente minata da un travaglio di lenta decomposizione.
Questa civiltà posava sul politeismo e sopra uno spirito di tradizione locale, che noi troppo facilmente confondiamo con lo spirito nazionale della nostra civiltà, benchè fosse cosa molto diversa. Senonchè il cosmopolitismo dell’Impero, le mescolanze delle razze delle religioni dei costumi delle culture, l’unificazione del governo, lo sviluppo del commercio e dell’industria, le nuove dottrine religiose e filosofiche, favorite dal cosmopolitismo, avevano ferito a morte il politeismo e lo spirito della tradizione locale. La prosperità stessa, quella relativa facilità di arricchirsi, di istruirsi, e di [37] salire nelle classi superiori con la ricchezza o con l’istruzione, o con ambedue insieme, erano state segrete ma profonde cause di indebolimento. La civiltà greco-latina era aristocratica; la sua forza stava nelle sue élites molto ristrette, ma molto intelligenti; quanto essa guadagnava in diffusione, perdeva in intensità. L’umanismo egualitario, che si sviluppò durante l’Impero in forme così varie, doveva indebolirla nella religione, nello Stato, e nei costumi.
Ma tutte queste cause nascoste e profonde non avrebbero mai partorito una catastrofe così vasta, se non fosse sopravvenuto un formidabile accidente politico, che precipitò le cose e impedì ogni tentativo di salvarle. Questo accidente fu la distruzione dell’autorità del Senato, opera della rivoluzione di Settimio Severo. Bastò questa distruzione perchè tutto l’Impero restasse senza un principio di legittimità con cui riconoscere l’Imperatore che aveva il diritto di comandare; e l’assenza di questo principio scatenò rivoluzioni e guerre quante bastarono in cinquant’anni ad annientare quasi tutta l’opera di tanti secoli.
La rovina della civiltà antica è dunque il resultato [38] di una decadenza lenta, dovuta a malattie organiche, e di un terribile accidente che, distruggendo con una scossa vigorosa la chiave di volta di tutto l’ordine legale, gettò questa civiltà già indebolita, per la sua massa e per la sua decadenza interna, nelle convulsioni del dispotismo rivoluzionario. Questa terribile esperienza merita di essere meditata dalla nostra epoca. Da cinquant’anni la civiltà occidentale s’è indebolita per la crescente confusione delle dottrine, dei costumi, delle classi, delle razze e dei popoli; per una specie di anarchia intellettuale e morale a cui nessuna istituzione o tradizione o dottrina ha resistito; per lo spossamento del lavoro continuo, rapido e senza riposo, per la mobilità via via crescente di tutti gli elementi della vita sociale; per una specie di febbre universale, che sovraeccita le volontà e le intelligenze, rendendole atte a sforzi molto intensi, ma corti e poco profondi; per la volgarizzazione di tutte le attività dello spirito e di tutti i beni della terra. Mentre eravamo in questo stato di indebolimento interno, è sopravvenuto un accidente terribile, il più terribile, forse di tutta la storia....
La guerra mondiale può ricordare, per le [39] sue conseguenze, ed in grande, la rivoluzione di Settimio Severo, perchè ha distrutto o indebolito tutti i principi d’autorità o di legittimità che sostenevano l’ordine sociale. Due erano questi principii: il diritto divino delle dinastie nelle potenti monarchie dell’Europa centrale e settentrionale; la volontà del popolo, nelle democrazie dell’Europa occidentale. Con la caduta dell’Impero russo, dell’Impero austro-ungarico, e dell’Impero tedesco, il diritto divino ha ricevuto un colpo, da cui è ben difficile che possa rialzarsi. Ma è dubbio che l’opposto principio approfitti della sua rovina. Questo principio, di per se stesso poco chiaro e di applicazione difficilissima, esce da questa grande crisi debole e screditato a tal punto, che il suo inatteso trionfo negli imperi del centro e nell’impero russo non suscitò sette anni fa nè speranza nè entusiasmo nel resto dell’Europa; è stato seguito da una sua clamorosa rovina in Italia, e sembra oggi, sette anni dopo la fine della guerra, pericolare in molte nazioni, perfino in Francia e in Inghilterra, dove è risalito da molte parti in vigore.
Come l’Impero romano al terzo secolo, l’Europa sta dunque per trovarsi senza un principio [40] chiaro e preciso con cui riconoscere chi e in che limiti ha il diritto di comandare e chi, e in che limiti, ha il dovere di obbedire? Nessuno potrebbe oggi rispondere risolutamente nè sì nè no. Ma appunto perchè non si può rispondere risolutamente di no, non sarà inutile ristudiare un po’ la vecchia storia di Roma, la quale ci mostra che cosa può capitare ad una civiltà, la quale lasci cadere tutti i vecchi principii di autorità, che sono il fondamento del diritto di comandare, sia che non sappia sostituirli con dei nuovi, sia che si illuda essere cosa facile di sostituirli.
[41]
Alessandro Severo fu ucciso al principio del 235, da una rivolta militare, capeggiata da un Trace, Massimino. Giunto grazie al suo valore e alla protezione della famiglia di Settimio Severo ai più alti gradi della milizia, benchè parlasse assai male il latino, Massimino rappresentava le razze più barbare dell’Impero, che, approfittando del dispotismo orientale della famiglia di Settimio Severo, cercavano di prendere il posto delle vecchie famiglie di nobiltà senatoria. Morto Alessandro Severo, le legioni lo proclamarono imperatore a Magonza. La rivolta contro Alessandro Severo, [42] che voleva restaurare l’autorità del Senato, e l’elezione all’Impero di questo Trace, acclamato dalle legioni, erano due sfide gridate dal nuovo dispotismo militare al solo principio di legittimità che esistesse allora; due sfide, per conseguenza, anche all’ordine legale, che si basava da tanti secoli sull’autorità del Senato. Settimio Severo e i suoi successori avevano ancora cercato di giustificare il loro dispotismo, invocando, almeno per la forma, l’autorità del Senato; ma con Massimino la rottura diventa aperta. La forza rinnegava il solo principio di autorità che poteva giustificarla, e affermava la sua volontà di trovare in sè stessa i titoli necessari all’esercizio del potere.
Massimino infatti non si preoccupò che di aver l’appoggio delle legioni; non cercò neppure la convalida del Senato, e governò come se il Senato non esistesse. Ma per quanto indebolito e depresso, il Senato non era ancora giunto a tanto, da sopportare, da parte di un Trace, questa umiliazione. Non sappiamo bene ciò che successe allora a Roma; e possiamo appena intravederlo, attraverso le frammentarie informazioni che ci son date: certo è che il Senato nominò due Imperatori, Pupieno [43] e Balbino, il primo un soldato di gran valore che, partendo dal nulla era giunto ai gradi più alti; il secondo, un senatore di intelligenza mediocre, ma molto stimato e di grande casata. Il merito personale e la nobiltà della razza erano dunque invocati, dal Senato, a difendere insieme la sua moribonda autorità. Un principio di legittimità ha sempre bisogno, per farsi rispettare, della forza; ma non è detto che se questo principio e questa forza entrano in lotta, proprio il primo sia destinato sempre a soccombere; perchè rivoltandosi contro il principio di autorità, di cui dovrebbe essere solo strumento, la forza talvolta s’indebolisce. Così avvenne allora. I due imperatori, con l’aiuto del Senato, riuscirono a costituire un governo, che fu riconosciuto legittimo da un certo numero di provincie, e che oppose all’usurpatore un esercito. Massimino non tardò a capire, che se il governo di Roma si consolidava sarebbe diventato pericoloso pel suo potere, il quale s’appoggiava soltanto sul favore di qualche legione; e per rovesciarlo subito venne, con il suo esercito, in Italia. Ma in Italia tutto il popolo era favorevole al Senato, e contrario all’usurpatore; Aquileia chiuse a costui [44] il passo, obbligandolo ad assediarla; a contatto del rispetto universale, che il Senato ispirava ancora, la fedeltà delle legioni incominciò a vacillare; Aquileia, resistendo, compì l’opera nella primavera del 238. Massimino fu assassinato sotto quelle mura inespugnate, dagli stessi soldati che l’avevano portato in trionfo.
Il Senato, Roma, l’Italia e la legalità avevano trionfato delle legioni semibarbare e della forza in rivolta. Ma questa vittoria della legalità sulla forza durò poco. Presto nacque discordia fra Pupieno e Balbino; il Senato non seppe approfittare della vittoria e irritò i soldati senza disarmarli; e prima della fine del 238, una nuova rivolta militare mandò a morte Pupieno e Balbino e proclamò imperatore Gordiano. La forza aveva avuto la sua rivincita. In questo tempo i Carpi e i Goti traversavano il Danubio; i Persiani invadevano la Mesopotamia e minacciavano la Siria. Gordiano, che era giovane e inesperto, aveva avuto la fortuna di trovare come prefetto del pretorio Timesiteo, un uomo intelligente, avveduto e — qualità rara, allora — fedele. Timesiteo rimise in ordine l’esercito e cacciò i Persiani, i [45] Goti e i Carpi. Queste vittorie, e il pericolo attenuarono la discordia tra il Senato e le legioni, tra la legalità e la forza; cosicchè, sebbene eletto dalle legioni Gordiano non incontrò, nel Senato, opposizioni. Il suo governo era legittimato da un consenso posteriore. Disgraziatamente Timesiteo morì nel 243, e Gordiano non trovò, per sostituirlo, che un alto ufficiale dell’esercito, Giulio Filippo, un arabo. Era un soldato valoroso, ma non così fedele come il suo predecessore. Volle essere, non il subordinato, ma il collega di Gordiano, costrinse i soldati a domandare per lui quell’onore; e, siccome Gordiano rifiutava, lo fece assassinare. Per la quarta volta, in pochi anni, la rivolta militare trionfava, la forza si imponeva alla legalità indebolita e screditata; ma questa volta, e appunto perchè era la quarta, la rivolta si propagò rapidamente in tutto l’Impero. Indebolita al centro l’autorità imperiale l’esempio diventa contagioso. Se proprio le legioni devono eleggere l’Imperatore, perchè questo privilegio sarebbe concesso alle legioni di una provincia e non a quelle di un’altra? Ogni gruppo di legioni vuole il suo Imperatore; i pretendenti pullulano nelle provincie. Il pericolo [46] divenne di nuovo così grave, che avvenne una reazione in favore del Senato, e che spaventati, i tempi si volsero verso il solo principio di autorità che sussisteva ancora, a dispetto di tutti gli oltraggi. Per quanto arabo, Filippo cercò di farsi legittimare dal Senato, per avere quella convalida che sarebbe mancata ai suoi concorrenti. E il Senato si rassegnò a riconoscerlo, preferendo avere in Roma un imperatore che almeno cercava, quantunque eletto da una sedizione, d’essere confermato dal suo consenso. Ma invano gli uomini ricorrono, nella necessità, a quel principio d’autorità che hanno indebolito, per sodisfare le loro ambizioni. Mentre Filippo cercava di rafforzare il suo potere in Italia, facendolo legittimare dal Senato, i Goti invadevano di nuovo l’Impero; e le legioni del Danubio, scontente di veder che l’Imperatore s’adagiava in Italia, quando le frontiere dell’Impero erano violate dai barbari, annullarono i decreti del Senato e proclamarono Imperatore il governatore della Dacia e della Mesia, Decio. Scoppiò una nuova guerra civile. Decio venne in Italia, vinse Filippo a Verona e lo uccise; poi ripassò le Alpi per andare a combattere i Goti. Ma senza [47] gran resultato, perchè, nel 251, morì sul campo di battaglia. Era il primo degli imperatori romani che cadeva combattendo i barbari. È facile immaginare l’impressione fatta da questo avvenimento. Le legioni, che ormai credevano di poter disporre dell’Impero, s’affrettarono a proclamare Imperatore il governatore della Mesia, Treboniano Gallo. Ma anche Treboniano, invece di combattere i Goti, preferì trattare e comprare, a peso d’oro, la pace. Allora le legioni si rivoltarono di nuovo, e elessero all’Impero il Governatore che gli era successo in Mesia, Emiliano. Scoppiò una nuova guerra civile, in cui Treboniano fu sconfitto. E l’autorità del Senato fu di nuovo invocata, perchè desse al nuovo Imperatore un carattere legittimo, atto a fortificarlo nel suo governo. Il Senato riconobbe Emiliano; ma Emiliano, appena riconosciuto, fu trucidato dalle legioni, che si rivoltarono, acclamando imperatore Valeriano (253).
Dalla morte di Alessandro Severo sono trascorsi diciotto anni in continue sedizioni. L’autorità del Senato è distrutta e con essa la pietra angolare della legalità. Qualsiasi regola e principio per l’elezione dell’imperatore messi [48] da parte, l’elezione è abbandonata al capriccio delle legioni; si moltiplicano le rivolte militari, stimolate dall’emulazione, dalla certezza dell’impunità e dalla speranza del bottino; le guerre civili nascono l’una dall’altra, indebolendo dappertutto la difesa delle frontiere. L’Impero comincia a diventare preda dei barbari che, incoraggiati dalla crescente debolezza del colosso, lo attaccano da tutte le parti. Fra il 254 e il 260 i Goti invadono di nuovo la Dacia, la Macedonia, l’Asia Minore; gli Alamanni e i Franchi si gettano sulla Gallia, una nuova razza germanica, quella dei Sassoni, fa la sua comparsa sul mare, lungo le coste della Gallia e della Bretagna; dei gravi torbidi scoppiano in Africa, e nuovi pericoli minacciano l’Oriente dove l’Armenia e la Persia ricadono sotto l’influenza persiana. E come se tutte queste disgrazie non bastassero, una epidemia di peste infuriò, in quegli anni, spopolando intere legioni dell’Impero. Valeriano il quale era un senatore di nobile famiglia e di una certa intelligenza, s’intese col Senato, e, d’accordo con l’alta assemblea, cercò di provvedere alle terribili difficoltà del momento con un ripiego che, a poco a poco, doveva dislocare tutta [49] la civiltà antica; nominando Cesare suo figlio Galieno, assegnandogli le provincie dell’Occidente, e tenendo per se l’Oriente; spezzando per la prima volta l’unità dell’Impero. Chiara sembra l’idea ispiratrice di questa riforma: rinforzare l’autorità imperiale, e con essa il governo indebolito, rimpicciolendo l’area troppo vasta, in cui doveva operare. Ma era questo un rimedio di natura, per così dire, geometrica, che poco poteva curare un male di natura morale. Il governo era debole, perchè non aveva più titoli indiscutibili e universalmente riconosciuti; la divisione del potere non poteva annullare questo incorreggibile vizio d’origine. Mentre Galieno faceva del suo meglio per arginare le invasioni germaniche in Occidente, Valeriano tentava una grande spedizione contro la Persia. Ma nel 259 o nel 260 è fatto prigioniero dai Persiani, e va, non si sa dove nè quando, a morire in prigionia. Pochi anni prima, un imperatore era caduto sul campo di battaglia, combattendo i barbari; ora un imperatore era catturato, e andava prigioniero nel campo nemico. Fu un colpo terribile per l’autorità imperiale; e se ne videro presto le conseguenze: alla catastrofe segue una specie [50] di smembramento dell’Impero.
Già sino dal 258 le legioni della Gallia avevano acclamato imperatore Postumio. Postumio, che era un uomo di molti meriti, riuscì, dopo la morte di Valeriano, a farsi riconoscere in Spagna e in Britannia, e fondò un Impero gallo-iberico, che durò nonostante gli attacchi di Galieno, fino al 267. Nello stesso tempo, in Oriente, un generale di Valeriano, Macriano, con l’aiuto della città di Palmira e di Odenato che era il più ricco e il più potente dei suoi abitanti, aveva di propria iniziativa, combattuto contro i Persiani, ricacciandoli e salvando le più ricche provincie d’Oriente. Ma incoraggiato da questi successi, pensò di impadronirsi anch’egli dell’impero a favore dei suoi figliuoli.
Odenato rimase invece fedele all’Imperatore, e col titolo di Dux Orientis si mise a far guerra a Macriano. Ma l’Occidente e l’Oriente erano già smembrati, o sul punto di smembrarsi, e l’audacia dei barbari aumentava, quanto più si indeboliva l’Impero. Nel 261, gli Alamanni riescono a invadere l’Italia, e Galieno li sconfigge soltanto alle porte di Milano. Poco dopo, i Franchi invadono la Gallia [51] e la Spagna, e si spingono, a quanto pare, sino in Africa. I barbari dell’Europa Centrale, i Goti, gli Eruli, i Sarmati saccheggiano le coste del Mar Nero, forzano i Dardanelli e penetrano in Grecia e in Asia. Nel 267, gli Eruli bivaccano in Grecia, a Atene, a Corinto, a Argo, a Sparta. Il mediocre Galieno non sa come opporsi a tante calamità; la disperazione si impadronisce dei popoli; ogni provincia e ogni regione, sperando di difendersi meglio da sola, si rivolta e si da un imperatore suo proprio. Durante gli ultimi anni della vita di Galieno, i pretendenti — i tiranni, come disse — sono così numerosi e transitori, che è quasi impossibile di raccontarne, ad uno ad uno, la storia. In Germania, dove la guerra contro l’Impero Romano stava per diventare diremo per adoprar parole moderne la «grande industria nazionale», si capì ch’era il momento di tentare un grosso colpo. Molti popoli germanici s’intesero per formare, sotto il nome di Goti e di Alamanni, una potente coalizione contro l’Impero; e nella primavera del 268 un forte esercito passava sulla riva destra del Danubio, invadeva la Macedonia Orientale, la Grecia, le Cicladi, Rodi, Cipro, e le coste dell’Asia Minore. [52] Nello stesso tempo un altro esercito entrava nella Mesia e s’inoltrava in Macedonia. Il piano era chiaro: conquistare la penisola balcanica e tagliare in due l’Impero, interponendosi tra le provincie d’Oriente e quelle di Occidente.
Da trent’anni l’Impero era preda del dispotismo militare, delle invasioni, della guerra civile, dell’anarchia, della peste, della carestia. Le guerre civili della repubblica, erano state a paragone piccolezze, perchè non avevano mai minacciato gli elementi vitali della civiltà.
Ora è altra cosa: tutti questi elementi, a cominciare dalla popolazione, sono colpiti a morte, nelle provincie occidentali. Già troppo scarsa in tempi prosperi, la popolazione era decimata dalla guerra, dalle invasioni, dalla generale insicurezza, dall’impoverimento, dalle epidemie. L’ostinazione con cui anche i più saggi imperatori continuarono a trapiantar barbari nei territori dell’Impero e specialmente in [53] Occidente, nonostante il manifesto pericolo, è la prova più luminosa di questo bisogno d’uomini. Lo spopolamento, effetto della povertà, ne era a sua volta una causa, poichè rovinava l’agricoltura, l’industria, il commercio. I coltivatori, così i coloni liberi come i lavoratori schiavi, si diradavano; s’assottigliava la piccola proprietà, s’allargava la grande, dilatavano le terre incolte e abbandonate. L’industria, così florida in tutto l’Impero sotto gli Antonini e anche sotto i Severi, aveva profondamente sofferto, un po’ per la morte di molti artigiani, che avevano portato nella tomba il segreto delle difficili perfezioni, un po’ per la povertà crescente, che diminuiva il consumo.
Molte miniere, massime le miniere d’oro, sono abbandonate o per mancanza di braccia, o perchè le regioni sono invase dai barbari; i metalli preziosi sono tesaurizzati e nascosti, il capitale si fa raro e l’interesse del 12 per 100, considerato ai tempi di Nerone come eccessivo, diventa l’interesse mensile. La insicurezza generale, la difficoltà delle comunicazioni, le restrizioni imposte dalla crescente povertà, rallentano anche il commercio. Le piccole e le medie fortune spariscono, e in mezzo [54] alla miseria che aumenta, le ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Le piccole città sono abbandonate e si spopolano. Invece, nelle grandi, la popolazione si accumula e aumenta il numero dei miserabili che, sotto una qualunque forma di mendicità, vivono a spese dei ricchi e dello Stato. Lo Stato diventa la provvidenza e il tormento di tutti. Il suo fiscalismo, imposto dalla moltiplicazione della burocrazia, dalla mendicità delle masse, dall’aumento delle spese militari, dalle inutili e dispendiose costruzioni, è atroce e implacabile. Il peso delle imposte è accresciuto dalla perturbazione monetaria. Parte per rimediare alla crescente scarsezza dell’oro, parte per far fronte alle spese di guerra e alle altre spese pubbliche, senza inasprire le imposte, gli imperatori alterano il peso e la lega delle monete. Sotto Caracalla il peso dell’aureus era disceso a 6 gr. 55, ma dopo Alessandro Severo diviene così irregolare, che i pagamenti in oro si fanno soltanto con la bilancia. Peggio ancora, per le monete d’argento: le proporzioni della lega del denarius e dell’antonianus argenteus, emessi per la prima volta da Caracalla, erano già aumentati senza misura fino [55] dai primi anni dopo la morte di Alessandro Severo. Ma sotto l’imperatore Claudio il Gotico, l’antoniano non ha più che quattro o cinque parti di argento su cento! Non si distingue dalla moneta di bronzo che per il colore, fornito con un bagno d’argento e qualche volta di stagno. Anche le monete di bronzo sono coniate a peso ridotto. Di qui un vertiginoso aumento e una pazza irregolarità dei prezzi, che riduce alla disperazione le disgraziate popolazioni, e contro cui gli imperatori cercheranno invano di lottare a colpi di editti; di qui un continuo impoverimento delle classi più numerose aggravato ancora, per i disgraziati sudditi, dall’ordine, di pagare le imposte in oro. Lo Stato rifiutava la cattiva moneta, di cui inondava l’Impero!
Dal disordine politico e dalla povertà il caos sociale. Sterminate o disperse l’aristocrazia e la classe agiata, che durante il primo e il secondo secolo erano stati i sostegni dell’Impero e ne avevano creato la brillante civiltà fondendo l’ellenismo e il romanismo, le loro ricchezze, o almeno quelle che non sono distrutte, e la loro potenza passano a una nuova oligarchia d’arricchiti e di alti funzionari, civili o militari, reclutata [56] quasi tutta fra le classi inferiori e tra le popolazioni più barbare, che solo da lontano avevan sentito l’influenza del romanismo e dell’ellenismo. L’Impero ridiventa barbaro, e dall’interno ancor più che dal di fuori, con questo arricchire e salire degli elementi più rozzi, ancor più che per le invasioni dei barbari dell’altra riva del Reno o del Danubio. S’abbassa, dappertutto, il livello della cultura, nella filosofia, nel diritto, nella letteratura; perchè i nuovi dominatori, quando non la sprezzano, la ignorano.
Una raffinata cultura, fra i potenti, non è più regola, ma eccezione. E la decadenza si stende a tutte le industrie e a tutte le arti, in cui la civiltà greco-romana aveva eccelso e che ora diventano più rozze e volgari; all’arte degli scultori, all’arte degli orafi, all’arte degli architetti. Gli avanzi della ricchezza passata sono sprecati in un lusso barbaro di cattivo gusto, spettacoloso, pesante, fatto per sbalordire la gente rozza; o in piaceri e in feste violente e disordinate o in edifici giganteschi e inutili, che ingombrano più che non abbelliscano le poche città ancor floride in mezzo alla rovina delle piccole. E più l’Impero si impoverisce e più [57] l’architettura pubblica colossaleggia. Inoltre, e questo è il colpo di grazia alla civiltà antica, la religione che era stata il fondamento dello Stato e della coltura antica, il politeismo agonizza. I culti orientali irrompono dappertutto, minacciano di sconvolgere moralmente il mondo, già così perturbato dalle guerre e dalle rivoluzioni.
Tuttavia, benchè dalla morte di Alessandro Severo e per più di trent’anni, l’Impero in apparenza si sia abbandonato come un corpo morto ai mali che lo distruggevano, c’erano ancora, in questa civiltà agonizzante, ma che per tanti secoli era stata così vigorosa, le forze atte a tentare una disperata resistenza. Nonostante la barbarie invadente, le alte classi erano ancora sotto l’influsso di una cultura troppo antica, troppo ricca e troppo grande, perchè gli avanzi dovessero cessar di operare; e contavano ancora persone di grande animo e di alta intelligenza. Nel 268 una congiura di generali trucidò Galieno, e proclamò, questa volta, [58] per succedergli non già un inetto o un intrigante, ma il migliore uomo di guerra del tempo, Claudio. Claudio, non lontano dall’antica Naissus (Nisch) sorprese il grosso dell’esercito nemico, l’annientò e ne inseguì i resti con spietato vigore. E chi sa quanto bene avrebbe potuto fare, se la peste non l’avesse ucciso nel 270! Ma ebbe per successore, acclamato dalle legioni di Pannonia, l’uomo che egli stesso aveva designato, uno dei generali che aveva combattuto con lui contro Galieno, Aureliano. Forte carattere e grande ingegno, come Claudio, Aureliano, arrivava al buon momento, perchè i Goti, vinti da Claudio, erano soltanto un’avanguardia. Nel 270, l’Italia era invasa dai Vandali e dagli Alemanni, i quali, nel 271, distruggevano addirittura un esercito romano presso Piacenza!
Aureliano fu il primo che cercò di fermare la decomposizione dell’impero e il suo rimbarbarimento, con un vasto piano coerente di riforme e di guerre. Vinse e distrusse a Pavia e a Fano l’invasione germanica, liberandone l’Italia; ridusse di nuovo sotto il dominio romano, l’Oriente, una parte del quale si era staccata dopo la morte di Odenath, formando [59] un impero di Siria sotto lo scettro della vedova Zenobia; sbarazzò l’Impero da tutti i pretendenti e da tutti i piccoli imperatori locali, pullulanti negli anni precedenti, e lo riunificò; circondò Roma con la potente cerchia delle mura gigantesche che si ammira ancor oggi. Per tutti questi meriti può con ragione essere chiamato restitutor orbis.
Ma era una mente troppo vasta, da non capir che la ricostituita unità sarebbe presto distrutta di nuovo, se non si trovava, pei mali dell’Impero, qualche rimedio radicale. Due sue disposizioni meritano d’esser segnalate, più che le altre. Pensando con ragione che l’Impero era troppo esteso per le sue forze diminuite, Aureliano risolvè di abbandonare il pericoloso saliente della Dacia, irrorata dal sangue dei legionari di Traiano e dal sudore di molte generazioni di coloni, dando il nome della provincia abbandonata a quella parte della Mesia che si stendeva sulla riva destra del Danubio. L’altra disposizione è d’ordine politico e religioso. Aureliano istituì ufficialmente il culto del Sol invictus, proclamando religione di stato il mitraismo latinizzato.
Per capire il valore di questa grande riforma, [60] bisogna ricordare che il mitraismo era un culto asiatico, nato da una fusione del masdeismo con la teologia semita e con altri elementi, presi in prestito alle religioni indigene dell’Asia Minore.
Era, come quasi tutte le religioni asiatiche, assolutista e monarchica, perchè insegnava che i monarchi regnano per grazia divina e come tali ricevono da Mitra gli attributi della divinità e ne diventano consubstanziali. L’adozione del mitraismo come culto ufficiale era dunque un atto di profonda politica; rappresentava uno sforzo, per trovare nell’assolutismo mistico un principio di legittimità, che sostituisse l’antica convalidazione del Senato, ora inefficace, e sottraesse l’autorità imperiale ai capricci delle legioni, sempre in rivolta. In mezzo all’anarchia in cui naufragava l’Impero, Aureliano cerca insomma un nuovo principio d’autorità, e lo cerca là dove soltanto poteva trovarlo, ora che s’erano estinti i principii creati dal mondo greco e romano; nelle grandi monarchie assolute che confinavano con l’Impero Romano dalla parte d’Oriente. Dopo la caduta della repubblica, dopo la caduta del governo misto di monarchia e di repubblica, [61] ma di struttura greco-latina, con cui l’Impero si era governato per più di due secoli, dopo la caduta della dittatura militare dei Severi, pareva che non rimanesse ormai più, come forma di governo, che l’assolutismo orientale, fondato sul principio religioso, e in cui il sovrano era Dio.
Aureliano cerca insomma di tramutare l’impero greco-romano in un impero asiatico. Tuttavia, questo sforzo, benchè ampiamente giustificato dalle necessità politiche, sembra aver cozzato con una forte opposizione. Verso la fine del 275, Aureliano cade a sua volta vittima di una congiura di generali. Per che ragioni? Il punto è oscuro. Noi sappiamo che, come rappresentante del Sol invictus, Aureliano aveva incominciato risolutamente a ristabilire, nel vasto impero, l’ordine; onde non pare improbabile che il suo zelo nel reprimere gli abusi di cui soffriva il mondo romano, gli avesse procurato molti nemici. Ma non è impossibile che la congiura sia stata in parte un movimento di reazione del vecchio spirito greco-latino, contro l’assolutismo mistico dell’Oriente, ormai vincitore. Un fatto curioso, che altrimenti resterebbe inesplicabile, tenderebbe a [62] persuadercene; le legioni, dopo la morte di Aureliano, non vollero acclamare l’Imperatore e vollero invece affidarne l’elezione al Senato. Sorpreso da un rispetto a cui da molto tempo non era più avvezzo, il Senato cominciò col rifiutare; scelse poi il più antico dei suoi membri, il princeps senatus, Marco Claudio Tacito. Ma non si era più ai tempi di Traiano, e per aver voluto governare come Traiano, Tacito fu trucidato dalle legioni, pochi mesi dopo che era stato eletto.
Ricominciò la guerra civile. Una parte delle legioni elesse Floriano, un’altra Probo, che era uno dei migliori generali di Aureliano. Probo prevalse; e quantunque discepolo di Aureliano, continuò la politica di Tacito; riconobbe l’autorità del Senato, cercando così di consolidare la propria; gli restituì il diritto di giudicare in appello nei processi penali, di nominare i governatori, e anche di ratificare le costituzioni imperiali. Come spiegare questo ultimo tentativo di governar l’Impero con l’appoggio del Senato, dopo 50 anni di torbidi e guerre civili, proprio quando il Senato non era più che un’ombra, se non si ammette che l’assolutismo mistico di Aureliano [63] aveva irritato o spaventato quanto sussisteva ancora dell’antico spirito latino? Ma questo tentativo non riuscì meglio che il precedente. Benchè Probo fosse stato un generale molto abile, fu vittima, anch’egli, dell’implacabile violenza delle legioni; e ritornò l’anarchia. Le legioni elessero allora M. Aurelio Caro, che si affrettò a dare ai suoi figli, Carino e Numeriano, il titolo di Cesare, e si mise immediatamente in guerra con la Persia. Aveva già occupato Seleucia e Ctesifone, quando, alla fine del 283, perì colpito, secondo gli uni dal fulmine, secondo altri da una congiura militare. Numeriano, che l’aveva accompagnato, era un poeta, inadatto a comandare l’esercito, in un’impresa così difficile. Fu dunque deciso il ritorno. Ma per la strada anche Numeriano morì. Si accusò allora, apertamente, il prefetto del pretorio. Un’inchiesta fu ordinata e affidata a un tribunale di generali, che elesse imperatore, il 17 settembre del 284, il comandante delle guardie del corpo: Diocleziano.
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Diocleziano è dopo Claudio e Aureliano, il terzo dei grandi uomini usciti dal barbaro caos del terzo secolo. Egli riprende risolutamente il piano di Aureliano, arrestato dall’ultima reazione del vecchio spirito romano e senatorio: fare, dell’Impero romano un impero asiatico, nelle mani di un sovrano assoluto il quale, agli occhi dei sudditi, sia come la incarnazione della divinità. Vedremo più innanzi come cercò di mettere in pratica questo vasto disegno e a che cosa riuscì. Per ora, ci limiteremo a osservare che la trasformazione dell’Impero in una monarchia asiatica, e la divinizzazione del sovrano, tentata da Aureliano e ripresa da Diocleziano, erano i soli mezzi ai quali potesse ricorrere lo Stato per ristabilire, nel caos in cui si dibatteva, un principio di legittimità sostituibile all’autorità del Senato. E si sarebbe detto che tutte le condizioni per il successo concorrevano [65] in quel tempo. Le tradizioni greco-romane erano troppo indebolite per opporre una lunga resistenza. La ricostruzione di un governo, che non disponesse solo della forza, ma anche di un’autorità morale, era oramai, nell’Impero, necessaria perchè si trattava di vita o di morte. In tutto il mondo civile conosciuto dai Greci e dai Romani, non c’era allora altro principio d’autorità che potesse essere assunto dall’Impero in rovina. Il lungo duello fra l’Asia e la Grecia, tra l’Asia e Roma, pareva esser sul punto di finire col trionfo completo dell’Asia; perchè erano esaurite tutte le forze di resistenza che la civiltà greco-latina aveva opposto all’assolutismo mistico dell’Oriente. L’Europa stava per diventare un’appendice dell’Asia e cadere anch’essa sotto uno di quei governi assoluti, che aveva per tanti secoli disprezzati. Quando tutto a un tratto si levò un altro avversario, ben più formidabile della cultura greco-latina, addirittura invincibile: il cristianesimo.
Durante i lunghi torbidi del terzo secolo, il Cristianesimo si era sparso in tutto l’Impero e in tutte le classi, era penetrato nell’Esercito, nel Senato, nella Corte; aveva conquistato i [66] poveri e i ricchi; gl’ignoranti e i colti; aveva già creato una abbondante e profonda letteratura teologica; aveva costituito una gerarchia semplice, ma solida, e non fondata sulla forza, come la gerarchia imperiale, ma soltanto sull’autorità.
Ogni chiesa contava un clero numeroso, composto di Diaconi, i quali formavano il personale di servizio, di Anziani, che formavano il personale dirigente, e del Vescovo che era, con pieni poteri, il capo della chiesa. Il vescovo, nominato a vita, era eletto dal clero, con il consenso dell’assemblea; nominava i diaconi e gli anziani, e, all’epoca di cui ci occupiamo, era già un personaggio importante nella città, non solo perchè molti erano i fedeli, ma anche perchè il cristianesimo aveva già organizzato quel meraviglioso sistema di opere di assistenza e di beneficenza, che fu la sua più grande creazione sociale e una delle cause del suo trionfo. Le comunità cristiane provvedono dappertutto, non solo alle spese del culto e al mantenimento dei suoi ministri, ma anche al soccorso delle vedove, degli orfani, dei malati, degli impotenti, dei vecchi, degli operai disoccupati, di quelli che sono stati condannati per [67] la causa di Dio; si occupano di riscattare i prigionieri portati via dai barbari, di fondare delle chiese, di prendersi cura degli schiavi, di seppellire i poveri, di ospitare i correligionari stranieri, di raccogliere delle sovvenzioni per le comunità in bisogno e minacciate. I beni, che posseggono le comunità cristiane, provengono per la massima parte da doni dei ricchi, che in gran numero, sia in vita che dopo la morte, lasciano alla chiesa una parte o tutta la loro sostanza. La chiesa accumulava così i beni di una parte delle classi superiori, in una gigantesca mano morta, le cui rendite erano spese in favore di tutti gli uomini colpiti dalla sventura, sotto ogni forma. Non è difficile capire che strumento di potenza quella ricchezza accumulata, e le istituzioni di assistenza e di beneficenza che poteva sostenere, fossero in mezzo alle calamità del terzo secolo... Le chiese cristiane apparvero allora come un porto nella tempesta. Mentre le anime elevate arrivavano al cristianesimo attraverso le prove del loro dolore e la visione del dolore altrui, o con uno slancio supremo verso la pace e la beatitudine, per il disgusto del mondo contaminato e sconvolto, le folle erano attirate alla [68] nuova fede dalla generosa assistenza di cui la chiesa era larga ai miseri e che animava un soffio divino di carità, sconosciuto all’assistenza ufficiale, o alla protezione politica delle grandi famiglie dell’antico Stato pagano. Se la fede legava i fedeli alla Chiesa, altri legami materiali rinforzavano efficacemente la potenza e l’autorità della religione; le elemosine, i sussidi, l’assistenza, le funzioni, le cariche ecclesiastiche e le rendite annesse, la gestione delle terre di recente acquistate, che impiegava un numero grande di agenti, di schiavi, di lavoratori, di coloni, di amministratori.
Il Cristianesimo era dunque diventato una potenza spirituale e temporale insieme. Ma non godeva affatto, come il mitraismo, della benevolenza imperiale. Se è esagerato dire, come pretendono alcuni storici, che tutti gli imperatori del terzo secolo furono contrari ai Cristiani, è certo che il Cristianesimo ebbe in quel mezzo secolo a soffrire gravi persecuzioni e che fu sempre considerato dalle autorità pubbliche, anche nei momenti in cui le sanguinose persecuzioni erano sospese con un’ostile diffidenza, che contrasta assai col favore concesso al mitraismo. Quale è la ragione profonda di questo [69] atteggiamento, che ha lasciato dei ricordi così tragici nella storia della Chiesa? Lo spirito stesso del Cristianesimo.
Alla stregua dell’Impero e dei suoi vitali interessi politici, non c’è dubbio che il Cristianesimo era una forza di dissoluzione. A mano a mano che si aggravava il disordine del terzo secolo, la nuova religione osa sostenere, con più o meno fervore, a seconda delle sette, che il cristiano non deve cercare nè le cariche pubbliche, nè gli onori, nè i posti in cui la fede possa essere in pericolo, ossia i posti più alti e i più importanti; perchè, se non vuol perdere l’anima, gli è proibito di prender cura dei templi, di organizzare i giochi dei circhi, di giudicare e perseguitare i suoi fratelli. Il mondo in cui gli altri uomini vivono e godono, è contaminato da una religione e da una civiltà che Cristo ha maledette; non v’è gioia, nè dolore, nè prezzo, nè castigo, che possano indurre a partecipare alle pericolose vanità di quella corrotta esistenza il perfetto cristiano, che aspira solo a uscire quanto prima da questa valle di peccato e di lagrime. A rigor di logica, dovere del cristiano sarebbe distruggere l’impero; non lo fa, come dice Tertulliano, perchè [70] è troppo compenetrato dalla dottrina e dall’abitudine della dolcezza, e perchè la violenza gli ripugna. Ma che non si mescoli mai alla sua vita di peccato e di empietà! Piuttosto la morte o la miseria.
Possiamo facilmente immaginare che effetto, sugli spiriti alti, producevano queste dottrine, in tempi in cui le funzioni pubbliche diventavano così pesanti e così pericolose; in cui le razze barbare si impadronivano dello Stato, e le qualità violente dello spirito umano erano sempre più necessarie al governo. Il Cristianesimo distruggeva l’impero con l’astensione, privando l’amministrazione imperiale e le amministrazioni municipali di un grande numero di persone intelligenti e colte delle classi superiori; accaparrandosi e unendo gli uomini migliori, le anime nobili e alte.
La vita di S. Agostino ci mostrerà un po’ più tardi, in un caso celebre, come gli spiriti superiori, preferivano alla fine la religione alla politica, la Chiesa alle cariche pubbliche. Ma già al terzo secolo molti cittadini, destinati dalle leggi alla gestione degli affari pubblici, preferivano dare i loro beni alla Chiesa e sottrarsi con la povertà alle pesanti responsabilità del [71] potere; altri sfuggivano con diversi mezzi che saranno parzialmente biasimati dagli stessi imperatori cristiani; il celibato, santificato dalla religione, si diffonde ancora più che nei momenti critici del mondo pagano. E l’esercito soffriva di questa astensione anche più che gli impieghi civili. Già fino dal secondo secolo, il cristianesimo aveva dichiarato che non era permesso d’essere «uomo di spada» e che «il figlio della pace», il quale non può nemmeno intentare un processo, può ancor meno prender parte a una battaglia; aveva insomma affermato che il servizio militare e il cristianesimo erano incompatibili poichè «il signore, disarmando Pietro, dimostrò chiaramente la volontà che ogni soldato deponesse la sua spada». Al soldato cristiano non restava dunque che «abbandonare immediatamente l’esercito, e risolversi a soffrire per Cristo la sorte di tutti gli altri cristiani». I canoni della Chiesa di Alessandria sconsigliavano il volontariato e affermavano con autorità che il cristiano non deve portar armi. Lattanzio mette sullo stesso piano l’impossibilità di eseguire o di aiutare ad eseguire una condanna di morte e di prender parte a una guerra, perchè al principio divino [72] che proibisce di uccidere «non si può fare nessuna eccezione». S. Agostino dimostrerà un po’ più tardi, che per il buon cristiano è indifferente vivere sotto questo o quel Governo, obbedire all’Impero o ai barbari, purchè lo Stato non l’obblighi a commettere empietà o iniquità.
In tutta la storia del genere umano non v’è forse tragedia comparabile a questa. Per dieci secoli, la civiltà antica aveva infaticabilmente lavorato a creare lo Stato perfetto: saggio, umano, generoso, libero, giusto, capace di far regnare nel mondo la bellezza, la virtù e la verità. Questo Stato perfetto era stato la suprema ambizione della Grecia e di Roma, di Roma repubblicana come di Roma imperiale. Guerrieri e uomini di stato, filosofi e oratori, poeti e artisti, avevano consumato il fiore delle loro energie, per secoli e secoli, in quest’opera immensa. Aristide e Pericle, Scipione e Augusto, Platone e Aristotele, Demostene e Cicerone, Omero e Virgilio, Orazio e Tacito, Vespasiano e Marco Aurelio, erano stati i collaboratori di quell’unica creazione. E questo sforzo meraviglioso di tanti secoli e di tanti geni, terminava nel terzo secolo della nostra era, [73] nel maggior caos di disordine, che si fosse mai visto; nel dispotismo violento e corrotto della forza bruta spoglia di ogni autorità morale; nella distruzione della più raffinata civiltà, nella necessità d’inginocchiarsi innanzi a un sovrano asiatico come se fosse un Dio incarnato, per riuscire a salvare quello che poteva essere ancora salvo del vecchio mondo e dei suoi tesori. Il servaggio monarchico, che per tanti secoli era apparsa allo spirito greco-romano come la più abbietta e la più ignominiosa delle schiavitù, era la ricompensa suprema dello sforzo con cui i due più grandi popoli antichi avevano voluto creare lo Stato perfetto! Quale civiltà, dinanzi a questo disinganno, non avrebbe disperato di sè e dell’avvenire?
Ma il Cristianesimo salvò il mondo antico da questa suprema disperazione, con la più audace, originale, e grandiosa rivoluzione spirituale che la storia ricordi, rovesciando il punto di vista antico, affermando che l’essere uno Stato buono o cattivo, giusto o iniquo, saggio o folle, poteva importare a coloro che governavano o che commettevano il male; ma lasciava indifferenti i governati o coloro che avessero a soffrire dell’iniquità dei potenti. Fine supremo [74] della città è la perfezione religiosa e morale del singolo; a questa perfezione ognuno può arrivare con il suo sforzo personale, qualunque sia il governo, buone o cattive che siano le sue istituzioni. L’uomo non ha che un solo padrone vero: Dio; se serve con pietà il Signore unico e supremo, se merita il suo amore e le sue lodi, il resto non conta. I potenti della terra diventano impotenti.
Questa nuova visione della vita, con la quale il Cristianesimo capovolse le basi intellettuali e morali della civiltà antica, trionfa definitivamente, in mezzo al terrificante disordine del terzo secolo, come suprema reazione a questo disordine. Immensa sarà l’influenza, che questa nuova visione della vita dovrà esercitare sul futuro, perchè darà per secoli una nuova direzione a tutta la civiltà occidentale.
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L’uomo che le legioni avevano eletto per succedere a Caro, era un dalmata, come Claudio e come Aureliano, benchè fosse di nascita anche più oscura. Una tradizione lo vuole persino figlio di liberto. Fin dalla prima giovinezza era stato soldato, e s’era fatto alla scuola di tre grandi generali: Claudio, Aureliano e Probo. Ma questo barbaro e questo soldato era un uomo di genio.
Appena eletto, Diocleziano dovette sostenere una guerra civile. Carino, che aveva combattuto [76] contro gli Jazigi, non voleva rinunziare alla successione del padre. Le due parti si prepararono molti mesi alla battaglia; e nella primavera del 285 si diedero battaglia in Mesia. Sembra che Diocleziano avrebbe avuto la peggio, se Carino, non fosse stato ucciso da uno dei suoi ufficiali. Ma la nuova guerra civile aveva provocato una di quelle perturbazioni, a cui l’Impero ormai era avvezzo. Le provincie, abbandonate a sè medesime per lunghi mesi, s’erano messe a proclamare nuovi pretendenti. Una rivolta di contadini rovinati e di debitori insolvibili, l’insurrezione dei Bagaudi era scoppiata in Gallia. Sulle frontiere, i barbari ricominciavano ad agitarsi e i pirati a turbare le coste della Gallia e della Britannia. Diocleziano capì che il compito era troppo pesante per un solo imperatore; e poco dopo la sua elezione, nella seconda metà del 285, chiamò a dividere le responsabilità del potere un compagno d’arme, Massimiano, figlio di un colono della Pannonia, dei dintorni di Sirmio. Soldato valoroso, ma solamente soldato, è probabile che Massimiano fosse scelto dapprima non come collega, ma come luogotenente sicuro e fedele, tanto è vero che non ricevette il titolo [77] di Augusto, ma quello di Cesare. Senonchè Massimiano essendo riuscito a domare la rivolta dei Bagaudi in poche settimane, Diocleziano nel 296, mutò parere, gli conferì il titolo di Augusto, e rese pari, almeno in teoria, i poteri dei due capi di stato, senza alterare l’unità politica e legislativa dell’Impero. Ciascuno dei due Augusti aveva, è vero, il suo esercito, il suo prefetto del pretorio, il suo bilancio particolare, ma comuni restavano le leggi e il danaro, e gli atti pubblici apparivano firmati dai due nomi insieme. Il nome di Diocleziano, tuttavia, era primo, e la sua volontà era sempre preponderante, perchè, quantunque il suo potere non fosse più grande di quello di Massimiano, la sua autorità e il suo valore erano ben superiori. L’amministrazione e le forze militari degli Augusti erano distinte ma senza limiti invarcabili, poichè essi non esitarono mai a penetrare per qualunque motivo nei territori che erano loro rispettivamente affidati.
A capo dell’Impero, insomma, non c’era più un imperatore, ma due, uguali in potenza, così come durante tanti secoli, c’erano stati due consoli alla testa della Repubblica. Del resto questa riforma, già tentata da Valeriano, era [78] ormai necessaria, poichè l’Impero era minacciato da tutte le parti. Approfittando della rivolta dei Bagaudi, di nuovo Eruli, Burgondi, Alamanni passavano il Reno; il comandante della flotta incaricata di dar la caccia ai pirati sassoni e franchi, un certo Carausio, s’accordava segretamente con loro, e, condannato a morte da Massimiano, prendeva in Britannia il titolo d’Augusto, e si impadroniva dell’isola e di qualche città della costa della Gallia e creava una flotta potente, con la quale sfidava l’autorità dei due imperatori legittimi. Le cose non procedevano meglio in Oriente, ove l’Impero continuava a essere minacciato, come dopo Valeriano, ossia da quando Roma aveva perso la sua difesa maggiore contro il nuovo impero dei Sassanidi: l’Armenia. Non erano dunque troppi due imperatori, uno in Oriente e uno in Occidente. Infatti, mentre Massimiano riusciva a respingere, sul Reno, la nuova invasione germanica, Diocleziano cercava di rientrare in Armenia con gli intrighi più che con le guerre, approfittando di alcune contingenze favorevoli. La guerra civile aveva indebolito l’Impero persiano, a tal punto che il re Bahram aveva mandato ambasciatori a Diocleziano sollecitandone [79] l’amicizia; l’Armenia era stanca e scontenta del dominio persiano; l’erede della corona armena, Tiridate, viveva a Roma in esilio, e del tutto contro voglia. Diocleziano lo spinse e lo aiutò segretamente a riconquistare il trono; e Tiridate, approfittando delle difficoltà del Re di Persia e dello scontento dell’Armenia, riuscì, con un colpo di mano abilmente preparato, a riprendere possesso del regno dei padri. L’Armenia si trovò di nuovo sotto l’influenza di Roma; e il re dei Persiani, che non era in grado di ricorrere alle armi, si rassegnò a riconoscere il fatto compiuto.
Questo buon successo sollevò le sorti dell’Impero in Oriente benchè un nuovo nemico — i Sarracini, venuti dai deserti di Siria e d’Arabia — fosse comparso in territorio romano, saccheggiando, e benchè l’Egitto si agitasse per ragioni che non conosciamo. Ma in Occidente non diminuivano le difficoltà. Massimiano non aveva potuto debellare Carausio, che aveva arruolato un esercito di Franchi e di Sassoni; di nuovo si avvertivano minacciosi movimenti in Germania, dove Goti, Vandali, Gepidi e Burgondi erano in armi. Nell’Europa Orientale si agitavano anche i Sarmati; e ricominciavano [80] le sedizioni degli indigeni nella Mauritania e nella Numidia. I due Augusti si sforzavano di tener testa a tutte queste difficoltà, volando da un capo all’altro dell’Impero, conferendo a questo o a quel generale i più estesi poteri civili o militari, facendo talvolta di necessità virtù e riconoscendo, poichè non lo potevano vincere, Carausio, come terzo Augusto.
Ma dopo alcuni anni Diocleziano e Massimiano si convinsero che anche due Augusti non bastavano al compito; e nel 293, Diocleziano divise ancora l’Amministrazione dell’Impero, dando ai due Augusti due nuovi collaboratori ufficiali, ma di grado inferiore: i Cesari. Uno dei due ufficiali chiamato a così alta carica fu Galerio, soldato energico e valente, senza cultura raffinata, originario della Dacia. L’altro, Costanzo, soprannominato Cloro per la sua cera pallida, discendeva per linea materna da Claudio il Gotico; era di famiglia facoltosa, di dolce temperamento e di spirito colto: un aristocratico smarrito tra gli uomini nuovi che governavano l’Impero. Le provincie furono distribuite fra i quattro imperatori, in questa maniera: Diocleziano si tenne [81] la parte più orientale dell’Impero, la Bitinia, l’Arabia, la Libia, l’Egitto, la Siria; Galerio ebbe la Dalmazia, la Pannonia, la Mesia, la Tracia, la Grecia, e l’Asia Minore; Massimiano ebbe Roma, l’Italia, la Rezia, la Sicilia, la Sardegna, la Spagna e tutto il resto dell’Africa; Costanzo, la Bretagna e la Gallia. Per le ragioni stesse della loro nomina i capi dell’Impero non dovevano risiedere in Roma, ma vicino alle frontiere: Diocleziano a Nicomedia, in Bitinia; Galerio a Sirmio, in Pannonia; Massimiano a Milano; Costanzo a Treviri, in Gallia.
La moltiplicazione degli imperatori, come abbiamo già osservato a proposito di Valeriano, era un rimedio di natura geometrica, mentre il male di cui moriva l’Impero era un male di natura morale. Da solo, questo rimedio non poteva essere più efficace ai tempi di Diocleziano che in quelli di Valeriano. Avrebbe anzi potuto affrettare lo smembramento dell’Impero, [82] spingendo gli imperatori a rendersi indipendenti. Ma Diocleziano integrò questa divisione dell’Impero con una profonda e organica riforma di tutta la suprema istituzione. Nel 293 questa grande riforma era compiuta, e doveva dare ai quattro imperatori una legittimità più certa e rispettata insieme con più potenti ed efficaci organi di governo, aumentando nel tempo stesso la forza e l’autorità della carica suprema. Ripigliando la via che Aureliano aveva seguita, ma con più prudenza, Diocleziano accettò solennemente il principio della divinità degli imperatori, facendola però derivare non da un Dio orientale ed esotico, ma da due antiche divinità dell’Olimpo romano — Giove ed Ercole — le quali così venivano ad assumere l’ufficio proprio di tanti dei, di Mitra per esempio, nei culti asiatici, di protettori e legittimatori della monarchia. Egli tenta insomma di infondere nelle arcaiche forme del politeismo romano e repubblicano, un po’ dello spirito monarchico dei culti asiatici.
Gli imperatori sono a Deis geniti et deorum creatores; Diocleziano prende il titolo di Jovius poichè il Dio da cui discende è Giove, la mente suprema; Massimiano quello di Herculius [83] poichè discende da Ercole, il dio della forza e il collaboratore di Giove nella lotta contro i Titani; i sudditi e l’esercito giurano sul loro nome, come un tempo su quello di Giove e di Ercole[1].
Questa nuova maestà divina dell’Impero è inculcata in forme tangibili e visibili nella coscienza dei sudditi. I rapporti fra costoro e gli imperatori, e tutti gli atti esterni della sovranità, sono legati da un cerimoniale, ignoto nei primi due secoli della nostra era. L’Imperatore deve portare un diadema a raggiera, come i grandi monarchi orientali; le sue vesti e le sue calzature sono adorne e sparse di pietre preziose. Non è più, come Augusto, Trajano e Vespasiano, un semplice mortale, che tutti possono avvicinare a qualunque ora del giorno, o che s’accosta agli altri uomini con familiarità, aprendo facilmente la casa a tutti i cittadini liberi. Per rivolgergli la parola bisogna osservare un protocollo e quando si è arrivati al suo cospetto è di rigore prosternarsi in segno [84] di adorazione. L’assolutismo orientale trionfa finalmente sulle rovine dell’ellenismo e del romanismo, quasi distrutti dalla grande crisi del terzo secolo, nell’Impero che ormai popolano in gran parte, e governano i barbari.
Ma non sarebbe stato così utile conferire al potere supremo una più grande autorità e un prestigio divino, se la pluralità delle persone, che dovevano adoperarlo, ne fosse stata un indebolimento. Benchè diviso tra quattro sovrani il potere supremo, secondo Diocleziano, doveva restare una monarchia, ossia un’unità. Come cercò di risolvere l’insolubile problema di costruire un governo dotato di unità forte con quattro sovrani? Prima, subordinando i due Cesari ai due Augusti e assicurando a se stesso, tra i due Augusti, l’ufficio di regolatore e di coordinatore supremo. Il suo titolo di Jovius accanto a quello di Herculius, concesso a Massimiano, indica una superiorità. Inoltre applica alla monarchia divinizzata, mediante l’istituto romano dell’adozione, il principio dinastico della monarchia asiatica, che già nel primo e nel secondo secolo s’era infiltrato nella costituzione dell’autorità suprema dell’Impero romano. Augusti e Cesari formano una [85] sola famiglia; e come Massimiano era stato adottato da Diocleziano, i due Cesari sono adottati dai due Augusti, ripudiano le loro mogli per sposare le figlie degli Augusti, che li hanno adottati come figli; specie di incesto dinastico, che ci richiama la monarchia egizia dei Faraoni e dei Tolomei. Aggiungendo al principio religioso e al principio dinastico il principio della cooptazione, si poteva creder risolta, con una contaminazione di romanesimo e di orientalismo, tra le questioni dell’autorità suprema, quella più spinosa, che, da più di tre secoli, turbava invano l’Impero: la successione. Morendo un Augusto il suo Cesare doveva prenderne il posto e nominare a sua volta un altro Cesare, che farebbe entrare nella famiglia divina dei padroni del mondo.
Ma non solo d’autorità aveva bisogno il potere supremo, per guarir le piaghe d’Europa; gli era necessaria anche la forza, ossia organi abili, sicuri, obbedienti. Diocleziano cercò di infondere questa nuova forza nello Stato, creando una burocrazia che non dipendesse più dal Senato, ma unicamente ed esclusivamente dall’Imperatore-Dio, come nelle monarchie asiatiche. Forse non trascurò di rendere nota al [86] Senato la sua elezione al trono e le elezioni successive, nè di rispettare certe forme consacrate dalla tradizione. Ma è certo che il Senato, come corpo politico, è annullato, perchè se si possono ascoltare ancora i suoi consigli, non c’è più obbligo di seguirli; perchè non ha più provincie da amministrare, tutte essendo passate sotto la giurisdizione dell’imperatore; perchè è escluso dalla direzione politica e sostituito dal concistorium principis, composto da tutti i grandi funzionari dello Stato. E’ questo il corpo nuovo che esamina, come l’antico Senato, le questioni di carattere legislativo. Tutta l’Amministrazione dipende dunque dall’Imperatore e dal concistorium principis, che ne è il rappresentante supremo; è composta da una burocrazia reclutata senza considerazioni di rango sociale, di origine o di nazionalità; e in cui tutti i sudditi dell’Impero, e anche gli stessi barbari, non tarderanno a essere ammessi a condizioni pari.
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Era questa, dal punto di vista delle tradizioni greco-latine, una grande rivoluzione. Tanto la civiltà greca come la civiltà latina posavano sul doppio principio aristocratico dell’ineguaglianza necessaria e quasi mistica dei popoli e delle classi; ossia sul principio della superiorità innata ed eterna dei greci o dei romani sugli altri popoli; e su quello della superiorità innata ed eterna delle classi che avevano il privilegio di comandare sui semplici mortali. Perciò i governi greci e latini furono quasi tutti aristocratici, e si ressero sul privilegio ereditario di una piccola oligarchia, che sola aveva le qualità del governo; mentre i tentativi di governi veramente democratici, in cui potevano regger le cariche uomini d’ogni classe, anche di quelle medie e popolari, furon rari e di poca durata. Il più celebre fu quello di Atene, ma sappiamo come andò a finire. Quanto a Roma, non fu mai governata dalla democrazia, anche ai tempi più agitati della Repubblica; e lo stesso Impero romano, fino [88] a Caracalla, cioè fino al principio del terzo secolo, era ancora governato da quella che potremmo chiamare l’aristocrazia di una aristocrazia. L’ordine senatorio e l’ordine equestre, a cui spettava il privilegio di reggere tutte le alte cariche dell’Impero, erano un’aristocrazia raccolta fra i cittadini romani, che, a loro volta, nobili e plebei, ricchi e poveri, colti e ignoranti, costituivano tutti insieme, tra le popolazioni dell’Impero, una seconda aristocrazia, dotata da importanti privilegi e sottomessa a uno speciale diritto penale. La civiltà greco-latina era dunque fondata sulla potenza delle élites; e questa potenza, a sua volta, era fondata sull’idea che gli uomini e i popoli sono moralmente disuguali. Una delle conseguenze di questo carattere aristocratico dello Stato e della società greco-latina, era la limitazione di tutti gli organi politici e amministrativi. Riesce difficile a noi capire perchè Roma, all’apogeo della sua potenza, esitò così spesso ad allargare le sue conquiste e ad ingrandire l’Impero. Ma un’aristocrazia è un corpo chiuso, che non si [89] improvvisa e non si sviluppa a volontà, come si può improvvisare e sviluppare una burocrazia raccolta in tutte le classi e in tutte le nazioni; per questo Roma dovette badar sempre a non far l’Impero così grande, che il numero degli amministratori e degli ufficiali superiori, dei quali unica fornitrice era l’aristocrazia, non diventasse, a un tratto, insufficiente; e per questo anche si sforzò sempre di amministrare l’Impero con la minor quantità di funzionari, che gli era possibile. Benchè non ci sia possibile citare cifre esatte, risulta indirettamente da tutto quello che sappiamo sulla storia interna ed esterna dell’Impero, che i quadri dell’Amministrazione romana furono, relativamente, assai ristretti, sino al termine della dinastia degli Antonini. Amministrare con un minimo di funzionari fu regola costante del governo imperiale, appunto perchè era un governo aristocratico.
Nei tempi, di cui parliamo ora, il Cristianesimo aveva già inflitto, nel dominio ideale, un colpo mortale allo spirito aristocratico della civiltà antica, affermando che tutti gli uomini, come figli dello stesso Dio, sono uguali innanzi a lui. La dottrina dell’uguaglianza morale [90] degli uomini era già stata enunciata da alcuni grandi filosofi dell’antichità; ma solo il Cristianesimo riuscì a farla penetrare nella coscienza universale, distruggendo fino dalle fondamenta il vero governo aristocratico, e creando la democrazia moderna. Dal giorno in cui fu distrutto, nella coscienza delle masse, il principio che affermava esser gli uomini, anzichè uguali, moralmente disuguali, l’aristocrazia rimase ancora come convenzione sociale, accettata, in certe epoche, per utilità, ma cessò di essere quella forma organica e quasi sacra della società civile, che era stata nell’antichità. Il che spiega come nel mondo cristiano e mussulmano i governi aristocratici sono stati sempre governi deboli, e nulla più che pallide imitazioni delle vere e grandi aristocrazie del mondo antico.
A sua volta Diocleziano inflisse al principio aristocratico, nell’ordine reale, un colpo mortale, con la sua riforma dell’amministrazione.
Non si può non sospettare un nesso segreto tra questi due fatti, perchè i progressi del Cristianesimo furono una preparazione necessaria per la riforma di Diocleziano. Ma ragioni di ordine sopratutto politico spinsero l’Imperatore [91] a questa riforma; e, fra queste ragioni, la più grave fu la necessità di sostituire all’organizzazione aristocratica dell’Impero, distrutta dalle turbolenze del terzo secolo, una nuova organizzazione che fosse adatta alle esigenze politiche e militari, create da queste stesse turbolenze. La scarsezza del personale, la piccolezza degli organi politici e amministrativi, paragonati alla grandezza dell’Impero da governare, erano state tra le cause della catastrofe, nella quale, durante gli ultimi cinquant’anni, l’aristocrazia dell’Impero era perita. Bisognava creare una amministrazione, che disponesse di forze e di organi adeguati, non solo alla grandezza dell’Impero, ma anche allo sforzo sempre più intenso che lo Stato doveva compiere, per arginare l’universale dissoluzione. E come raccogliere quest’amministrazione, ora che l’aristocrazia, già insufficiente nel secondo secolo, era ormai quasi totalmente scomparsa, se non scegliendo i funzionari in tutte le classi e in tutte le popolazioni?
La moltiplicazione delle cariche e dei funzionari, in alto e in basso, fu dunque uno dei principii della grande riforma di Diocleziano. Per la prima volta, nella storia di questo Impero [92] fondato da un’aristocrazia militare, Diocleziano separa l’amministrazione civile dall’amministrazione militare, e mette alla testa di ogni provincia due funzionari con i loro rispettivi impiegati; il praeses, o governatore civile; il dux o governatore militare. Questa riforma, imitata forse dall’antico impero persiano, aveva certo due fini; rendere più difficili, con la divisione dei poteri, i pronunciamenti delle legioni nelle provincie, e le continue proclamazioni dei nuovi imperatori, vero flagello del terzo secolo; rimediare all’insufficienza dell’elemento militare che, reclutato quasi unicamente nelle provincie meno civili, non aveva sempre le qualità necessarie al governo civile di un impero, erede ancora, per quanto in decadenza, di una gloriosa cultura.
Ma intanto è distrutto un altro principio vitale della civiltà antica: l’unità di tutte le funzioni pubbliche. La divisione dell’autorità civile dall’autorità militare, che ci sembra uno dei progressi politici più importanti della storia della civiltà, appare per la prima volta nella storia dell’Impero romano come un espediente di tempi in decadenza. E non basta: a questa è legata un’altra riforma, che si potrebbe definire [93] lo spezzettamento delle provincie. Diocleziano non si limita, come Valeriano, a moltiplicare il numero degli imperatori; moltiplica anche quello dei governatori, assegnando a ciascuno un territorio più ristretto perchè possa governarlo più facilmente, e perchè, disponendo di poche forze, non diventi pericoloso. Così, nell’anno 297, invece di cinquantasette, come erano al tempo dell’elezione di Diocleziano, troviamo novantasei governatori civili per le provincie.
Nello stesso tempo, per impedire che lo spezzettamento delle provincie indebolisse l’Impero e la forza dell’autorità centrale, Diocleziano istituì la Diocesi. Le Diocesi erano state fino ad allora suddivisioni fiscali e giudiziarie delle provincie. La Diocesi di Diocleziano è l’aggruppamento di molte provincie in una circoscrizione superiore, sotto gli ordini di un magistrato nuovo: il vicario. I vicari sono dodici: cinque in Oriente, coi nomi di Oriens, Pontica, Asiana, Thracia, Moesiae; e sette in Occidente, coi nomi di Pannoniae, Britanniae, Galliae, Viennesis, Italia, Hispaniae, Africa. D’ora innanzi, ci saranno dunque, alla testa dell’Impero, due Augusti e due Cesari. Immediatamente [94] sotto di loro dodici vicari alla testa di altrettante diocesi; e al fianco di costoro, e allo stesso piano, i proconsoli, governatori di certe provincie privilegiate. Finalmente, sotto i vicari, i praesides, o alle volte dei consulares o correctores come sono detti indifferentemente i governatori delle nuove provincie ridotte. A fianco di questa gerarchia civile stanno i duces, capi militari, che hanno poteri territoriali per ragioni militari, senza corrispondenza con le provincie o le diocesi in quanto all’estensione.
Ma la moltiplicazione dei capi dello Stato e la loro distribuzione in determinati centri strategici; la divisione del potere civile e del militare non bastavano, per rinforzare la difesa dell’Impero. La riforma amministrativa doveva essere integrata con l’aumento dell’esercito. Si dovettero quadruplicare le guardie del corpo degli imperatori, aggiungere agli antichi nuovi pretoriani, che saranno i milites Paladini e Comitatenses. Fu necessità anche aumentare gli effettivi militari. Diocleziano li accrebbe da 350.000 a 500.000 uomini, e, in proporzione, accrebbe ancor più il numero degli ufficiali. Per inquadrare più solidamente le legioni e assicurarsene la fedeltà, ridusse gli effettivi e [95] moltiplicò i tribuni militari.
La pluralità delle corti, lo sviluppo della burocrazia centrale e provinciale, e l’aumento dell’esercito esigevano molto danaro. Diocleziano provvede a tutto con energia e ingegnosità. Comincia, decretando una revisione generale del valore delle terre; un nuovo catasto, si direbbe oggi; e a poco a poco, introduce un nuovo sistema di imposte, uniforme per tutte le provincie, ma che doveva anche tener conto rigorosamente della qualità e del rendimento delle terre. Crea una nuova unità fiscale, che, secondo i luoghi, risponde ai nomi di jugum, caput, millena, centuria, che comprende delle terre di natura diversa e di diversa estensione, ma che, nell’insieme, deve avere sempre un valore identico, e fornire la stessa contribuzione. Per esempio: 5 iugeri di vigna e 20 iugeri di terre coltivabili di prima qualità facevano un jugum, mentre, per arrivare a quello stesso risultato, ci volevano 40 jugeri di seconda qualità, e 60 di terza; e, con qualunque coltivazione, ce ne volevano di più se il terreno era in montagna, e meno se era in pianura. La riscossione delle imposte è regolata con cura. La somma stabilita dallo Stato per una circoscrizione [96] fiscale, che comprende un certo numero di juga, è notificata ai decurioni (i membri del piccolo senato di ogni città) i quali ne distribuivano l’ammontare fra proprietari e fittavoli del suolo pubblico (possessores) eccettuando coloro che ne avevano una parte troppo piccola e sorvegliando da vicino la riscossione, perchè erano responsabili di quello che sarebbe mancato. Il sistema tributario sembrava dunque ottimo e di sicuro rendimento.
Con la riforma di Diocleziano, l’Impero romano esce rinnovato dal caos del terzo secolo. E’ ormai una vasta cosmopoli di razze diverse, le più semi-barbare, governato dal dispotismo asiatico di quattro sovrani-Dio, sottomesso a una numerosa burocrazia; e che grazie a queste grandi riforme politiche e amministrative, ritrova in parte almeno per qualche tempo l’antica pace e l’antica prosperità. Diocleziano riuscì, in una certa misura, a ricostituire la potenza e l’unità dell’Impero. Riconquistò [97] la Bretagna, dopochè Carausio era stato ucciso da uno dei suoi ufficiali, che si era illuso di succedergli (296); salvò l’Egitto, dove un’insurrezione aveva tentato di opporre un pretendente ai sovrani legittimi (296); assestò felicemente, approfittando di circostanze favorevoli, le cose di Oriente. Nel 294 il Re di Persia, Barahram era morto, e gli era successo il figlio, Narsete, sotto il regno del quale la politica conciliante del predecessore cadde in disgrazia; onde, nel 296, mettendo a profitto la lontananza di Galerio, che era in Pannonia, e di Diocleziano che era in Egitto, Narsete si gettò sull’Armenia, minacciando la Siria. Galerio richiamato da Diocleziano, commise l’imprudenza di attaccare i Persiani nella stessa regione in cui, tre secoli e mezzo prima, le legioni di Crasso erano perite. E anch’egli fu sconfitto. Diocleziano dovette rifare l’esercito distrutto, arruolando molti Goti e Daci, per tentare di invadere il paese nemico, seguendo le vie montagnose dell’Armenia.
Il nuovo esercito fu affidato a Galerio, che smaniava di vendicare la disfatta, e ci riuscì. Con un impetuoso attacco notturno non soltanto distrusse il campo persiano, ma catturò [98] la famiglia reale, fuorchè Narsete. E già sognava, inebriato come un nuovo Alessandro, la conquista della Persia. Ma i barbari minacciavano di nuovo le frontiere; in questo stesso anno Costanzo era costretto a partire per la Britannia, e, mentre i Germani, approfittando della sua assenza, minacciavano la Gallia, Massimiano doveva correre in Africa, teatro di un’altra rivolta.
Diocleziano dunque era disposto a far la pace; e al principio del 298, questa pace era conchiusa veramente, a condizioni che potevano ricordare i tempi lontani, in cui Roma trionfava in ogni terra. Tutta la Mesopotamia, conquistata un tempo da Settimio Severo, era restituita all’Impero; inoltre, il re di Persia cedeva cinque provincie armene dell’alta valle del Tigri, conquistate una volta, da Sapore I, ma intorno alle quali le fonti non si accordano. L’Armenia fino a Zinta, nella Media Atropatene, era riconosciuta a Tiridate, l’Iberia (attuale Georgia) diventava uno Stato vassallo, non più della Persia, ma di Roma. L’Impero romano riconquistava in Oriente una frontiera strategica ottima per la difesa della Siria e dell’Asia Minore, e acquistava preziosi alleati, [99] con una pace che doveva durare quarant’anni.
Nel tempo stesso Diocleziano riusciva a ristabilire l’ordine nell’interno. All’anarchia cronica succedeva dappertutto un governo stabile e regolare. Pilotata con fermezza dai due Augusti, dai due Cesari e dalla volontà sicura e dalla mente vigorosa del primo Augusto, la nave dello Stato gonfiava le sue vele verso un ridente avvenire. La meticolosità delle leggi pesava sui sudditi, ma li univa anche in una forte disciplina pubblica; persino l’aumento delle imposte sembrava quasi compensato dalla nuova ripartizione, dai metodi ragionevoli della riscossione e dal risorgere di una generale prosperità. La nuova famiglia imperiale godeva del favore universale; la sua divinità non scandalizzava più nessuno, ma era anzi adorata dai popoli soggetti, e la felicitas saeculi sembrava dovesse coronare i durissimi sforzi compiuti in diciotto anni di lavoro faticoso. La grande perturbazione politica e militare, cominciata con la morte di Alessandro Severo, sembrava finita.
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Senonchè, disgraziatamente, c’era nell’opera di Diocleziano, una contradizione che sotto sotto la minava. Diocleziano aveva cercato di salvare l’Impero dai barbari che lo attaccavano dal di fuori, facendolo barbaro dentro. Aveva distrutto definitivamente il romanismo e l’ellenismo, già guasti dal caos del terzo secolo, riordinando l’Impero su principii opposti a quello su cui si basava lo Stato greco e latino; annientando quello che era stata l’anima, la forza, il sostegno dell’ellenismo e del romanismo: l’unità delle funzioni pubbliche, l’organizzazione aristocratica della società, lo spirito politico, il politeismo. Diocleziano sostituiva a una meravigliosa civiltà, che era stata per secoli, nei suoi organi diversi — religione, famiglia, Stato, cultura, unità viva — un sistema di istituzioni che, salvo qualche ricordo storico della grandezza di Roma, aveva come solo principio spirituale il culto asiatico del sovrano Dio: principio troppo nuovo e troppo meschino per animare una mole come l’Impero. [101] L’Impero dioclezianeo sembra un corpo troppo grande con un’anima troppo piccola, e che va alla cerca di un’anima proporzionata.
L’ordine, instaurato da Diocleziano, era un ordine vuoto; e in questo ordine vuoto nascono e si sviluppano due correnti contrarie. Una tende a risuscitare, nella pace ristabilita, la cultura antica — letteratura, arti, filosofie, religioni servendosi di ciò che resta; perchè questa cultura era stata così ricca, così gloriosa, che molti non si potevano ancora persuadere, anche dopo tante calamità, che fosse morta, e volevano a ogni costo farla rivivere nella sua antica unità. L’altra corrente tende a riempire il vuoto dell’ordine ristabilito, con la nuova dottrina cristiana, che rovesciava l’antica concezione della vita e dello Stato. Distruggendo per sempre la struttura aristocratica della società antica, Diocleziano aveva tolto di mezzo il principale ostacolo alla cristianizzazione dell’Impero; e per quanto formidabili fossero ancora gli ostacoli non distrutti non potevan certo scoraggire una dottrina animata da tanto slancio e da così salda coscienza della sua missione rigeneratrice.
Posti fra queste due correnti, Diocleziano e [102] i suoi colleghi cercarono di favorire la prima, senza opporsi alla seconda con intransigenza. Si sforzarono di rimettere in onore lo studio della giurisprudenza, della letteratura, dell’architettura, proteggendo le scuole e i professori, ricompensando e onorando gli uomini grandi. Così Diocleziano chiamò a Nicomedia il grammatico Flavio e il retore Lattanzio; protesse la scuola di diritto di Berito e cercò di attirarvi allo studio anche dei giovani Arabi. Così Costanzo Cloro scelse dapprima per magister memoriae il famoso retore Eumene, nominandolo poi professore della celebre scuola di Augustodunum (Autun). E’ dottrina ufficiale del nuovo regime, esposta da Eumene in pagine eloquenti, che le lettere siano la sacra fonte di tutte le virtù e la miglior preparazione a tutte le carriere, anche a quelle dell’armi. Nè questa sollecitudine per la vita intellettuale è difficile a spiegarsi; perchè, per quanto, dopo tante calamità, l’Impero fosse decaduto e quasi totalmente governato da barbari, aveva sempre bisogno di quella grande coltura che l’aveva formato, adornato e vivificato per tanti secoli. E’ invece più difficile capire come l’Impero abbia potuto vivere così a lungo, fino [103] all’anno 303, in pace col cristianesimo, che in tante questioni capitali era contrario allo spirito della riforma di Diocleziano. Ma i Cristiani erano già a quel tempo, molto numerosi in tutta l’amministrazione e nella corte stessa; sembra anzi che l’imperatrice e sua figlia avessero avuto qualche contatto col nuovo culto. Diocleziano era troppo savio e troppo giudizioso da non capire, quanto pericolosa all’unità e alla pace dell’Impero sarebbe stata una persecuzione, e durante molti anni si rifiutò di trattare da nemici i cristiani. C’era tuttavia alla corte un partito molto potente, con a capo Galerio, che non approvava questa saggia politica. E questo partito alla fine prevalse, a quanto pare, per le difficoltà che il cristianesimo creava all’autorità imperiale, specialmente nell’esercito e nella disciplina militare. C’erano ancora fra i cristiani dei fanatici che si rifiutavano al servizio militare, come quel Massimiliano, che fu messo a morte il 12 marzo del 295, sebbene, man mano che la nuova religione guadagnava proseliti, il numero dei cristiani che si rassegnava a fare il soldato fosse sempre più grande.
Ma se diminuiva la ripugnanza alla guerra, [104] la difficoltà, che rimaneva insoluta e insolubile, era il culto degli imperatori. I cristiani non potevano riconoscere e adorare il Sovrano Dio; ma il culto del Sovrano-Dio era la base stessa della disciplina militare. Su questo punto non c’era accordo possibile; e doveva scoppiare un giorno o l’altro il conflitto. Nel 302 un editto cacciò dall’esercito tutti i cristiani, e fu seguito, un anno dopo, il 24 febbraio del 303 da un altro editto, il primo editto di Diocleziano veramente contrario ai cristiani, che imponeva la distruzione dei templi e dei libri cristiani, la dissoluzione delle comunità, e la confisca dei loro beni, proibiva le assemblee dei fedeli ed escludeva costoro da ogni carica pubblica. L’editto era relativamente moderato, poi che non conteneva nessuna minaccia di morte; ma dopo che fu bandito, seguirono gravi perturbamenti. Scoppiò in Siria una rivolta; il palazzo imperiale di Nicomedia fu quasi distrutto da un incendio. I nemici dei cristiani li accusarono di essere gli autori di quei disordini; a loro volta i cristiani accusarono i loro nemici di eccitare contro di loro, con tumulti, sollevati intenzionalmente, la collera di Diocleziano.
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E’ impossibile decidere da che parte fosse il torto. E’ certo invece che quei tumulti provocarono un secondo editto, molto più duro, il quale ordinava l’imprigionamento dei vescovi, dei preti e dei diaconi, che si sarebbero rifiutati di consegnare i libri sacri. Ma a Diocleziano ripugnava di spingere all’estremo gli eventi; tanto è vero che, nella seconda metà dello stesso anno, il 17 settembre del 303, prese occasione dalla grande solennità pubblica dei Vicennalia, cioè delle feste in onore del ventesimo anniversario del governo dei due Augusti, per promulgare una specie di amnistia generale. Tutti i prigionieri cristiani che si dichiaravano pronti a ritornare apertamente nel seno della religione antica, dovevano essere rimessi in libertà. Gli altri invece non potevano approfittare della grazia, e dovevano anzi, in ragione della loro insensata ostinazione, essere, nel futuro, trattati con maggior severità.
Questi editti sono il documento più eloquente della potenza del cristianesimo, poichè mostrano quanto Diocleziano esitasse a impegnarsi sul serio contro un nemico così numeroso e così forte. Come sempre, quando uno Stato si trova alle prese con un pericolo che non ha [106] la forza di distruggere, anche Diocleziano ricorreva alle mezze misure, le quali non potevano che aggravare il male. L’amnistia esasperò la resistenza dei cristiani più fervidi; e l’Impero fu costretto a prendere le misure di rigore, dalle quali in principio si era astenuto. Alla fine del 303 o del 304, Diocleziano cadde gravemente ammalato e Galerio assunse la reggenza in Oriente. Prevalsero allora nel governo consigli di lotta a oltranza; e l’accordo di Galerio e Massimiano strappò a Diocleziano l’ultimo editto di persecuzione: un editto che faceva obbligo a tutti i sudditi dell’Impero di sacrificare agli dei, sotto minaccia di gravi castighi corporali ai recalcitranti.
Otto anni durò questa persecuzione. Ma benchè fosse stata la più violenta e la più sistematica di tutte le persecuzioni che il cristianesimo subì, non ebbe quella implacabile ferocia che doveva poi attribuirgli la tradizione ecclesiastica. Fu applicata variamente, con maggiore o minore durezza, secondo i paesi e l’umore dei Cesari e degli Augusti. Costanzo Cloro, per esempio, distrusse soltanto qualche chiesa, senza perdere il tempo a violentare la coscienza dei fedeli; e se anch’egli dovette ordinare [107] delle esecuzioni, accadde in gran parte per la vivace reazione e la vera sete di sacrificio, che spingeva molti fedeli, gioiosamente, al martirio. Ma Diocleziano ebbe solo una piccola parte nelle diverse vicissitudini di questa lunga persecuzione, di cui studieremo più innanzi la grande importanza storica. Venti anni di governo avevano stancato il vecchio imperatore, e benchè non ancora sessantenne, la sua robusta costituzione era stata, prima dell’età, minata da una vita febbrile e strapazzosa.
Da molti anni pensava a un ricovero, donde potesse assistere, come spettatore disinteressato, all’applicazione delle sue grandi riforme, senza essere dappertutto presente a dirigerla. E si faceva costruire a Salona, nella sua Dalmazia, un eremo per ritirarsi. Aveva anzi voluto qualcosa di più: non essere solo a mettersi fuori degli affari dello Stato, ma trascinare con sè il fedele compagno delle sue fatiche, Massimiano, al quale aveva fatto giurare contemporanea abdicazione. Questo diligente amministratore sembrava preso dalla pericolosa curiosità di sapere che cosa succederebbe nell’Impero, dopo la scomparsa di coloro che l’avevano restaurato!
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E suonò finalmente la grande ora, il 1 maggio del 305. Quel giorno, a tre miglia da Nicomedia, sulla cima di un poggio che s’alzava dolcemente dalla pianura, ai piè di una colonna che sosteneva la statua di Giove, là dove egli stesso aveva offerto la porpora a Galerio, circondato dagli alti personaggi dell’Impero e dagli alti dignitari dell’esercito, Diocleziano si spogliò del diadema, dello scettro, del mantello imperiale e proclamò suo successore Galerio, al quale diede, a sua volta, per Cesare, un ufficiale dei protectores, Massimino Daia.
Lo stesso giorno, forse alla stessa ora, si svolse la stessa scena a Milano, dove Massimiano cedeva il suo trono a Costanzo e poneva la porpora dei Cesari sulle spalle di un altro ufficiale: Severo.
Cominciò allora per lui e per Massimiano quell’epoca della vita, nota nella storia col nome di quies Augustorum. Ma pare che durante gli otto anni in cui Diocleziano continuò a sopravviversi, nel suo immenso palazzo di Salona, tra mare, cielo e monti passando dalle grandi cacce all’umile orticello, l’Augusto vecchio e stanco non fosse mai considerato come uomo privato. Fino all’ultimo giorno della [109] vita conservò tutti i titoli e accolse tutti gli omaggi che meritava il suo passato; rimase, pei nuovi principi, «nostro signore e nostro padre». E quando arrivò la sua ultima ora, il Senato di Roma lo onorò con quella apoteosi che si concedeva soltanto agli imperatori.
Ma visse abbastanza per vedere la conclusione della lotta tra l’Impero e il cristianesimo, che aveva voluto evitare, come una terribile calamità, e per assistere al definitivo trionfo del cristianesimo, che doveva sembrargli un avvenimento più funesto ancora di quella lotta, già tanto temuta. Questo trionfo, era nel tempo la fine della civiltà antica, e la conseguenza necessaria di tutta l’opera, che egli aveva compiuta mirando a altro fine.
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Diocleziano aveva cercato di restaurare l’autorità su tre principii: la divisione dell’Impero, la divinità degli imperatori, la scelta per cooptazione. Il suo sistema era dunque più complicato e raffinato che il sistema della monarchia asiatica, fondata sui principii dinastici dell’eredità e, in certa misura, dell’unità, perchè era una contaminazione di orientalismo e di romanesimo. Nel suo sistema il figlio non era il divino successore del padre, ma il successore [112] scelto diventava, per adozione, figlio del predecessore, proprio come nel secolo degli Antonini. Così, nell’ultima ripartizione dell’Impero, Diocleziano aveva escluso dal trono il figlio di Costanzo Cloro, Costantino, e il figlio di Massimiano, Massenzio. Come supremo omaggio alla civiltà greco latina che, in punto di morte, aveva generato quel sistema e il suo creatore, Diocleziano aveva voluto salvi i diritti sovrani dell’intelligenza, non affidandosi per la scelta dell’imperatore a quell’accidente di un accidente che è la nascita, e sforzandosi di evitare nello stesso tempo, a ogni successione, quelle lotte di ambizioni che avevano già fatto tanto danno all’impero.
Ma questa contaminazione di monarchia asiatica e di scelta aristocratica era troppo complicata per le passioni violente e la cultura grossolana di quegli elementi quasi barbari, nelle mani dei quali era caduto l’Impero. Nemmeno un anno dopo l’abdicazione di Diocleziano e di Massimiano moriva Costanzo Cloro, lasciando, come si è detto, un figlio, Costantino, che Diocleziano, nella nuova ripartizione del potere, aveva escluso. Ma Costantino era un giovane intelligente, energico, molto ambizioso; [113] e appena morto il padre, pensò bene di farsi proclamare Cesare dai suoi soldati, a Eboraco, senza aspettare le decisioni degli Augusti (28 luglio del 306). Questo colpo di testa riuscì. Per evitare la guerra civile, Galerio, che era il più antico e il più autorevole dei due Augusti, riconobbe il fatto compiuto e proclamò Costantino Cesare, dando a Severo il rango di Augusto. Ma la guerra civile, ch’egli aveva sperato di evitare, cedendo in Gallia, scoppiò poco tempo dopo in Italia, appunto perchè egli aveva ceduto in Gallia. La vecchia Roma tollerava con malumore il rango di città di provincia, in cui era caduta. L’assenza della Corte e dell’Imperatore feriva l’orgoglio e danneggiava insieme gli interessi della metropoli. Il Senato non aveva più autorità, i pretoriani non contavano più nulla; mancavano al popolo i grandi spettacoli e tutti i profitti dei tempi passati. Cosicchè, valendosi di un pretesto offerto da un nuovo censimento, ordinato da Galerio, il popolo e il corpo dei pretoriani si sollevarono, proclamando Augusto il figlio di Massimiano, Massenzio, che viveva poco lontano da Roma e che voleva pure, dopo la nomina di Costantino, salire al trono imperiale (27 ottobre [114] 306). Massenzio, per essere più saldo nel potere, persuase il padre, malcontento del suo ritiro, a riprendere il potere imperiale. La tetrarchia era distrutta; l’Impero contava oramai sei imperatori: quattro Augusti e due Cesari!
Questa volta Galerio non volle (o non potè) riconoscere il fatto compiuto, e incaricò Severo di riconquistare l’Italia. Ma il nome di Massimiano, dell’antico collega di Diocleziano, era ancora una tale forza, che i soldati di Severo non vollero combattere contro il vecchio generale e preferirono passare al nemico. Severo, fuggito a Ravenna, restituì a Massimiano la porpora di cui Massimiano stesso, poco prima, l’aveva insignito (307). Un secondo tentativo contro Massenzio, fatto da Galerio, in persona, non ebbe esito più felice, perchè l’Italia, mal contenta del nuovo regime e dei nuovi signori che le erano stranieri, s’era tutta dichiarata solidale con Roma e con Massenzio; e le città sbarrarono le porte al legittimo erede della potenza di Diocleziano. Galerio giudicò savia cosa non assediare Roma, che Aureliano aveva così ben fortificata; uscì dalla penisola; e invitò a Carnunto (in Pannonia) Diocleziano stesso, sperando nel suo consiglio e nella sua autorità [115] per trovare una soluzione del conflitto, che minacciava di smembrare l’Impero.
Era questo un grande omaggio fatto al fondatore della tetrarchia; ma il risultato fu mediocre. Nemmeno l’uomo che l’aveva creata riuscì a riorganizzarla. L’avrebbe forse potuto, riprendendo il potere, ma non volle, sebbene Massimiano, che aveva già litigato con il figlio, e Galerio cercassero di persuaderlo. La conferenza decise soltanto che un nuovo Augusto, un antico compagno di Galerio, Luciniano Licinio, sarebbe sostituito a Severo, nel governo dell’Illiria (novembre del 307); che Massimiano sarebbe rientrato a vita privata, e Massenzio escluso dall’Impero. Il rimedio era peggiore del male. Massenzio conservò l’Italia a dispetto delle deliberazioni di Carnunto; Massimiano non depose la porpora e cercò di intendersi con Costantino, al quale diede in moglie la figlia Fausta, sperando da lui l’appoggio che non aveva trovato in Massenzio; la nomina di Licinio creò nuove difficoltà. Licinio saliva al primo posto dell’Impero senza essere passato attraverso il grado di Cesare, lasciandosi così indietro Massimino Daja e Costantino. I due Cesari protestarono; il primo [116] si fece proclamare Augusto dalle sue truppe, e il secondo reclamò per sè, da Galerio un’altra investitura. Al principio del 308 c’erano quattro Augusti, oltre Massenzio e Massimiano, senza che, fra questi quattro Augusti, apparisse più nessun rapporto di subordinazione. Tutti gli sforzi di Diocleziano erano fatti sterili per le ambizioni rivali degli Augusti e dei Cesari; l’unità dell’Impero era di nuovo rotta; l’incertezza del principio d’autorità, sul quale posava la carica suprema, questa malattia mortale che dalla morte di Augusto aveva continuato a tormentare l’Impero, generava ora una nuova crisi, che non doveva chiudersi senza fiumi di sangue. La prima vittima fu Massimiano, scomparso in circostanze misteriose. Si buccinò che avesse cospirato contro il genero, e certo è che Costantino lo fece arrestare a Marsiglia, e poi, due anni dopo, sparire per sempre (310) senza curarsi dei grandi servizi che aveva resi all’Impero. Ma proprio in mezzo a questi disordini e a questi intrighi, tutto a un tratto, nel 311, tre dei quattro imperatori legittimi, Galerio, Costantino, Licinio, promulgavano un editto, che sospendeva la persecuzione del Cristianesimo.
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Come spiegare questo improvviso cambiamento di una politica che durava da tanti anni? Per quale motivo i Cristiani vedevano finire ad un tratto l’ultima delle grandi persecuzioni? In che misura le convinzioni personali degli imperatori sia stata cagione di questo mutamento, non ci è possibile dire; più facile ci riesce determinare l’influenza che potè avere sulla decisione lo stato interno dell’Impero. Era evidente che fra i cinque Augusti, l’accordo non poteva durare a lungo, ora che tra di loro non c’era più un’autorità preponderante; e che presto o tardi scoppierebbe una nuova guerra civile. Ma Massenzio e Massimiano Daja erano favorevoli all’antico culto pagano e contrari ai cristiani; anzi Massimino Daja cercava di dare al paganesimo un’organizzazione più forte. È dunque verosimile che gli altri Augusti abbiano pensato di procurarsi, con quel decreto, l’appoggio dell’elemento cristiano, così potente, per gli eventi dell’avvenire. [118] In altre parole, i cristiani approfittavano dell’indebolimento dell’Impero, nato da questa nuova crisi del potere supremo.
Il decreto del 311 è dunque uno dei segni che annuncia, dopo tanti altri una nuova guerra civile. Parve infatti che scoppiasse subito dopo la proclamazione dell’editto, alla morte di Galerio. Licinio e Massimino si prepararono subito a disputarsi la successione con l’armi, ma si accordarono poco dopo, dividendosi l’Oriente. Massimino prese l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto; Licinio, il resto delle provincie orientali, dal Bosforo all’Adriatico. La guerra doveva scoppiare poco dopo, non in Oriente, ma in Europa. Da almeno due anni Costantino, che si era già fatto notare in guerre fortunate contro i Franchi e gli Alemanni, sorvegliava attentamente gli affari d’Italia, dove Massenzio apprestava degli eserciti, destinati, si diceva, a strappare la Gallia a Costantino e l’Illiria a Licinio; e intanto si avvicinava a Massimino, che continuava a perseguitare vigorosamente i Cristiani in Siria, in Egitto e nelle altre provincie. Costantino a sua volta si riavvicinò [119] a Licinio, al quale diede in moglie la sorella Costanza, preparò un esercito, si creò in Italia delle segrete intelligenze, per non ripetere l’errore di Severo e di Galerio, entrando nella penisola come in paese nemico. Quando gli parve di essere pronto, al principio del 312, passò le Alpi con circa 50.000 uomini, che per metà erano legionari scelti e temprati; ruppe facilmente le prime resistenze, s’impadronì della valle del Po e marciò contro la metropoli. Massenzio non s’era mosso da Roma, confidando nella posizione forte della città, nei suoi molti eserciti, e in tutti gli ostacoli che avevano fatto fallire le spedizioni di Severo e di Galerio. Ma Costantino aveva preparata meglio la sua spedizione, e s’appoggiava a una parte della popolazione: i cristiani. Non lo trattenevano perciò quelle difficoltà e quelle resistenze, che avevano già fermato Severo e Galerio. Quando Massenzio seppe che Costantino si avvicinava a Roma, a capo di un forte esercito, e che le popolazioni stanche del suo governo avevano favorito l’invasione, comprese che non poteva restar chiuso nelle mura aureliane e uscì dalla città per affrontare il nemico in campo aperto. La battaglia avvenne a [120] Saxa o a Castra Rubra, vicino all’attuale ponte Milvio, e finì con la disfatta di Massenzio. Massenzio stesso perì nel fiume con grossa parte dell’esercito (25 ottobre del 312). Il giorno dopo il vincitore entrava in Roma, dove il Senato, lusingato da un discorso che quasi prometteva la restaurazione delle sue antiche prerogative, gli conferì il titolo di primo Augusto e gli decretò un arco trionfale, che si può ancor oggi ammirare. I Romani lo adornarono con le spoglie dell’arco di Trajano.
La conquista dell’Italia, a cui avrebbe seguito tra poco la conquista dell’Africa, alterava seriamente l’equilibrio delle forze dei tre imperatori, e a scapito precipuamente di Massimino. Per intendersi appunto sul nuovo stato delle cose, Licinio e Costantino si incontrarono, al principio del 313, in Milano. Non sappiamo quali questioni furono trattate in quella nuova conferenza, perchè la misera tradizione storiografica del tempo tace totalmente su [121] questo punto. Non è tuttavia arbitrario supporre che, Licinio acconsentendo al nuovo ingrandimento di Costantino, ottenesse da costui libertà d’azione contro Massimino. Ma il congresso di Milano, intorno al quale siamo così male informati, è famoso nella storia per un’altra ragione; perchè promulgò un nuovo editto di tolleranza, in favore dei Cristiani, che è generalmente considerato come il trionfo definitivo del cristianesimo. Quest’editto, a dire il vero, non riconobbe ancora la nuova religione come superiore a tutte le altre, nè come la sola vera religione, o come il culto ufficiale dello Stato; si contentò di convalidare il precedente del 311 con una forma enfatica, concedendo di nuovo ai cristiani la libertà di culto già concessa due anni prima; tolse qualche ultima restrizione che era rimasta, e offrì una nuova sanzione pratica della volontà degli Augusti, ordinando che fossero restituiti alle chiese cristiane i beni sequestrati durante la grande persecuzione. Della crisi del potere supremo continuavano ad approfittare i cristiani: i due imperatori accarezzavano i cristiani, quanto più Massimino nelle provincie orientali li maltrattava, ordinando le ultime persecuzioni; il cristianesimo [122] e il paganesimo diventavano nelle mani degli imperatori rivali, armi di guerra civile. I due imperatori non avevano forse nemmeno pensato, che la storia darebbe un giorno tanta importanza al loro editto; è anzi probabile che, fra le questioni trattate, quest’ultima sembrasse loro di importanza relativa, a paragone d’altre questioni di cui la storia non doveva occuparsi più. Ma quando mai gli uomini di stato, occupati a disputarsi il potere, hanno capito il vero oggetto delle loro lotte, e il vero significato del loro operare? Non vedono e non s’appassionano che al piccolo gioco in cui son mescolati. Infatti Massimino lesse subito chiaro nel gioco degli avversari, e non esitò un momento a muoversi; mentre Licinio era ancora in Italia, invadeva già la penisola balcanica, assaliva prima Bisanzio e poi Perinto, spingendosi verso Adrianopoli. Licinio dovette accorrere e mettersi sulla difensiva. Ma una grande battaglia, combattuta non lontano da Perinto, a circa diciotto miglia da Eraclea, il 30 aprile del 313, mutò le sorti della guerra. Massimino sconfitto, fuggì in Cilicia, dove morì.
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Poco prima Diocleziano era morto a Salona, dopo aver assistito alla rovina del suo sistema. La sua tetrarchia era ormai ridotta a una diarchia, che si reggeva soltanto e per miracolo sull’equilibrio della forza. Quanto tempo durerebbe questo equilibrio, che minacciavano di continuo la diffidenza, l’ambizione, la rivalità, tutte le violenti passioni dell’epoca semi barbara, in cui nessun principio sovrano d’autorità dominava? Non tardò infatti a scoppiare una guerra tra i due Augusti sopravissuti. Pare che Costantino ne abbia preso l’iniziativa, con un qualunque pretesto; e Licinio fu battuto a Cibale, in Pannonia, sulla Sava (oggi Vinteow) l’8 ottobre del 314, e poi di nuovo in Tracia. Ma nè l’una nè l’altra furono battaglie decisive. Costantino comprese che per vincere definitivamente il rivale, bisognava portar la guerra nel cuore dell’Oriente, adoperando la maggior parte degli eserciti e impoverendo la difesa delle frontiere, sempre minacciate. [124] Non avendo forze sufficienti per tale impresa, preferì un accordo. A sua volta Licinio, che era stato vinto, consentì a trattare. Costantino ebbe l’Illiria, la Grecia, una parte della Mesia, la Macedonia, l’Epiro, la Dardania, la Dalmazia, la Pannonia, il Norico. Con questo accordo, l’equilibrio delle forze tra i due imperatori, fu ricostituito e si conservò per circa nove anni; durante i quali l’impero conservò la forma equivoca di una diarchia, in cui la potenza degli imperatori era limitata soltanto dalla diffidenza e dalla paura reciproca.
Ma non fu che una lunga tregua. Il sistema di Diocleziano era distrutto mancando un Augusto che ne fosse, con la sua autorità, il dominatore; e le ambizioni dei due imperatori e delle due corti concorrevano, con le forze delle cose, a spingere l’impero verso la monarchia unitaria ed ereditaria. In quei nove anni i due imperatori si prepararono alla lotta risolutiva in tutti i modi, organizzando gli eserciti, cercando alleati, e sfruttando sopratutto la lotta tra l’antica religione moribonda e la nuova, che la sostituiva con tanta energia. Costantino si sforzò, quanto potè, di assicurarsi l’elemento cristiano; Licinio, per opposizione, mutò [125] politica e cercò il favore dell’elemento pagano. Quando scoppiò la guerra nel 323, Costantino non rappresentava soltanto l’Occidente contro l’Oriente, aveva con sè anche i voti dei cristiani, contro il rivale, a cui guardavano con fede e simpatia i pagani. E’ noto che la vittoria arrise al campione dei cristiani. Il 5 luglio del 323, i due eserciti si incontrarono nella pianura di Adrianopoli; Licinio fu vinto, e dopo avere combattuto con energia, si richiuse in Bisanzio, che sbarrava la strada terrestre dell’Asia mentre la sua flotta potente sbarrava quella del mare. Ma la flotta di Costantino era comandata dal primogenito dell’imperatore, Crispo, che, ancora molto giovane, s’era già distinto in precedenti operazioni contro i Franchi e aveva ricevuto il titolo di Cesare. Crispo sconfisse l’armata di Licinio allo sbocco dell’Ellesponto. Licinio abbandonò Bisanzio e cercò di sbarrare a Costantino le vie dell’Asia Minore; ma circondato dal nemico, dovette combattere vicino a Chrisopoli (Scutari), dove fu vinto ancora (18 settembre del 324). Si rese allora al vincitore che, pur avendogli promessa vita salva, lo fece uccidere l’anno seguente.
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Con questa vittoria, cadevano le ultime vestigia del sistema di Diocleziano, e la monarchia ereditaria poteva finalmente governare tutto l’Impero, ricomposto di nuovo nell’antica unità. La lunga evoluzione della grande repubblica aristocratica, riordinata da Augusto, stava per chiudersi. Costantino avrebbe dunque la gloria di creare la dinastia, che governerebbe il vasto impero, come i Tolomei avevano governato l’Egitto. Il frutto sembrava questa volta maturo; poichè, morte ormai le ripugnanze dello spirito e della tradizione greco-latina, non c’erano più istituzioni così forti da opporsi; e la dinastia era pronta, Costantino avendo abbattuto tutti i capi che nutrissero ambizioni rivali, mentre l’Impero aveva bisogno di un’autorità unica e forte, solida e permanente.
Senonchè tolte di mezzo tutte le altre difficoltà, ne sorse una nuova, quella a cui abbiamo già alluso, più formidabile che le precedenti: [127] il cristianesimo. Costantino, che nella sua lotta contro Licinio, s’era appoggiato sui cristiani, non poteva più governare che d’accordo con i cristiani, e rispettando le loro credenze gli apologisti cristiani videro più giusto di molti storici moderni, quando hanno detto che la vittoria di Costantino su Licinio fu la vittoria decisiva del cristianesimo sul paganesimo. Dopo la vittoria, di fatto se non di diritto, il cristianesimo è già la religione ufficiale dell’Impero; e non tarderà molto a diventare tale anche di diritto. Costantino poteva dunque introdurre nell’Impero le istituzioni e il cerimoniale delle monarchie asiatiche, ma non la dottrina che il sovrano era un Dio, perchè questa idolatria politica avrebbe fatto orrore a tutti i cristiani. Se aveva potuto istituire un potere più forte che quello di Diocleziano, evitando la divisione dell’autorità suprema tra quattro sovrani, doveva rinunciare per riguardo ai cristiani, al principio della divinità degli imperatori, e per questo lato, il suo governo sarebbe stato più debole che quello di Diocleziano.
La monarchia assoluta ed ereditaria è un sistema politico molto comodo, sopratutto perchè scioglie con molta semplicità i due problemi [128] maggiori, che stanno dinanzi a ogni governo: l’unità e la continuità. Ma fra gli inconvenienti, ce n’è uno particolarmente grave: la difficoltà di giustificare l’attribuzione di poteri così illimitati a una sola famiglia, come un privilegio ereditario. Gli antichi, i quali nelle loro concezioni politiche facevano spesso prova di un’audacia ingenua che manca ai moderni, avevano trovata una soluzione di questa difficoltà radicale, facendo del sovrano una divinità. Come dei, i re potevano avere dei privilegi, che sarebbero stati assurdi per uomini. Il cristianesimo ha distrutto questa giustificazione del potere monarchico che appare un po’ grossolana, ma che è ottima per gli spiriti semplici; e questo spiega come il governare gli stati sia divenuto, dopo il trionfo della nuova religione, molto più difficile e complesso di prima.
Costantino ne fece a sue spese la prima esperienza. Se ci fu mai un imperatore, che compì tutti gli sforzi dopo la sua vittoria su Licinio, per ricostituire l’unità dell’Impero, per dargli di nuovo un governo coerente e potente, la sua cultura e le sue arti, le sue leggi, questi fu certo Costantino. Quanto ricca, varia e [129] tenace ci appare l’opera sua! Rimaneggiò definitivamente il sistema politico e amministrativo di Diocleziano, cercando di rinforzare lo Stato. Se il sovrano non è più considerato ufficialmente come un Dio, la corte diventa totalmente orientale; la pompa del cerimoniale, la complicazione dell’etichetta, il lusso dei cortigiani, il mistero in cui si nasconde l’imperatore sono accresciuti. I grandi dignitari hanno, sotto la loro dipendenza un numeroso personale, minutamente gerarchizzato. Sono il Questor Sacri Palatii che accoglie le istanze e prepara e controfirma le leggi discusse dal Concistorium; il magister officiorum, una specie di ministro della casa reale, che dirige il personale della polizia, le guardie del palazzo, gli impiegati dell’amministrazione centrale; i due ministri delle finanze, il comes sacrarum largitionum e il comes rerum privatarum. Anche il nuovo Consiglio dell’Imperatore, il Concistorium, diventa più regolare che ai tempi di Diocleziano.
Sotto il Concistorium e i ministri della casa imperiale sta la burocrazia, creata da Diocleziano e notevolmente ingrandita. L’incremento della burocrazia è uno dei fenomeni, che [130] accompagnano la decadenza e la dislocazione dell’Impero.
Tutti gli alti funzionari dell’Impero hanno ai loro ordini, un ufficio o scrinium; e ogni scrinium ha un personale gerarchizzato, che servirà di modello alle monarchie assolute della prima storia moderna.
L’organizzazione provinciale è sempre quella di Diocleziano. Invece di quattro tetrarchi c’è un solo imperatore; ma la divisione amministrativa, creata da Diocleziano, è ancora in vita. L’Impero è diviso in due o tre, forse anche quattro sezioni; alla loro testa stanno appunto i prefetti del pretorio che, dopo la scomparsa dei pretoriani, son divenuti dei grandi funzionari, civili e militari. Da costoro dipendono i vicari, dai vicari i praesides o i consulares o i correctores. Ma sembra che il numero delle provincie, in cui l’Impero era diviso, sia stato ancora accresciuto; e per quelle stesse ragioni, che avevano spinto Diocleziano alla sua riforma delle provincie.
Che fanno durante questo tempo le vecchie magistrature e il Senato romano? Roma conserva ancora il suo Senato, i suoi consoli, i suoi pretori, i suoi editti, e i suoi tribuni. Ma [131] queste gloriose magistrature non sono quasi più che delle cariche municipali. L’esercito resta quello di Diocleziano con alcune riforme, che in parte, ne esagerano, in parte, ne alterano il carattere originale. Gli effettivi di ogni legione continuano a esser ridotti; il comando militare è distinto dal civile; anzi, quello della cavalleria è separato da quello della fanteria; il servizio dei viveri e del soldo, da quello del movimento degli eserciti. Tutto l’Esercito è diviso in tre grandi sezioni. La prima è rappresentata dalla milizia palatina (domestici, protectores, scolares) che può essere paragonata all’antica guardia pretoriana, e comprende un quinto o un sesto di tutti gli effettivi, formando come un esercito di riserva e seguendo nelle spedizioni importanti, l’imperatore. La seconda sezione è rappresentata dall’esercito di linea o comitatenses composta di cittadini e di barbari, sparsa in piccole guarnigioni nelle città dell’interno. La terza sezione comprende le truppe delle frontiere (riparienses, castriciani, limitanei) reclutata sopratutto tra i barbari e nei bassifondi delle popolazioni. Valevano meno dei comitatenses; il loro servizio, era più lungo, e più piccola la loro retribuzione; dovevano restare [132] in permanenza nelle zone determinate della frontiera, o nei castelli, nelle fortezze, nei campi di concentramento. Una parte di queste truppe erano coloni.
Si scopre subito il difetto di questo sistema; mentre il corpo scelto, la milizia palatina, era più che altro una truppa di parata, il nerbo dell’esercito (i comitatenses) è suddiviso in piccoli nuclei e sperso in piccole città dell’interno, per mantener l’ordine pubblico; fa dunque l’ufficio di una gendarmeria più che quello di un vero esercito. Di più nelle tre sezioni dell’esercito, abbondano i barbari. Costantino apre ai barbari persino le porte della milizia palatina; e in una sola volta recluterà 40,000 Goti.
Anche la legislazione economica di Costantino è molto importante. Pare che proprio Costantino abbia avviato l’impero all’organizzazione coercitiva del lavoro e della produzione. La ragione principale che ci induce a crederlo [133] è che nel codice teodosiano (XIII-5) le leggi più importanti che organizzano il servizio dei navicularii sono di Costantino, e che le leggi degli imperatori successivi, relativamente a questo servizio, alludono spesso ad altre sue leggi, che non ci sono arrivate. Queste leggi ci danno una idea abbastanza precisa dell’organizzazione dei trasporti marittimi nel quarto secolo; e non sarà inutile fermarci un momento su questo argomento, per capire in che condizione si trovavano ridotti il lavoro e la produzione durante l’agonia dell’Impero. I navicularii erano gli armatori, che facevano i trasporti marittimi per conto dello Stato (grano, marmi, soldati, oggetti necessari agli eserciti); e formavano in tutte le provincie una corporazione, i cui membri venivano indicati dal governo secondo certe regole fissate dalla legge. Erano sempre scelti nelle classi possidenti; e se, come membri della corporazione, godevano di molti privilegi, non potevano nemmeno rifiutare di farne parte, quando voleva il governo; era, anzi, per i cittadini scelti, un dovere com’è ai giorni nostri, il servizio militare; e un dovere che si trasmetteva con le proprietà. Chi comprava o ereditava i beni di un [134] navicularius, ne assumeva anche il compito. In che cosa consisteva, questo compito? Il navicularius doveva costruire un bastimento secondo il disegno che gli forniva lo Stato, e tenerlo a disposizione dello Stato, per ogni sua necessità. Riceveva dallo Stato, gratuitamente, il materiale necessario per la costruzione e delle sovvenzioni (subsidia) per le spese di navigazione; pare che lo Stato lo garantisse anche contro i naufraghi e gli altri accidenti. Le spese di riparazione e l’eventuale differenza tra il costo reale dei viaggi e i subsidia allogati dallo Stato erano a carico del navicularius.
Al principio del quarto secolo troviamo dunque nell’Impero una organizzazione coercitiva di trasporti marittimi fatti per via di requisizioni, che doveva essere una novità, poichè non se ne trova traccia nei secoli precedenti. Tutto ci fa credere che, nel primo e secondo secolo, i trasporti marittimi fossero liberi; gli imperatori, allora, si limitavano tutt’al più a incoraggiare, con sovvenzioni e favori, gli armatori che si dedicavano particolarmente al servizio dello Stato. Questo sistema di requisizione, del resto, doveva essere molto oneroso per i navicularii, com’è provato dagli sforzi [135] che si facevano per sfuggire a quel dovere, e dai molti inconvenienti ai quali le leggi han cercato di rimediare. Anche questi inconvenienti sono curiosi a studiarsi. Il maggiore era la lentezza voluta dei viaggi. Siccome i trasporti erano onerosi per i navicularii, costoro avevano interesse di viaggiare, per conto dello Stato, il meno possibile. La cosa era, a quei tempi, molto facile, perchè la navigazione non poteva sfidare le tempeste e il cattivo tempo, come la navigazione moderna, che dispone di navi di ferro e di macchine a vapore. Bisognava aspettare il bel tempo, rifugiarsi quando si avvicinava la tempesta, nei porti. Col pretesto di non esporre il bastimento, di cui lo Stato, in qualche maniera, era comproprietario e garante, al pericolo del naufragio, il navicularius poteva fermarlo per strada fin che voleva, cercar dei noli per conto di privati, tentare di ricavare un profitto personale dal servizio oneroso, che gli imponeva lo Stato. Questo inconveniente era così inerente al sistema, che, come ci insegna il codice teodosiano, Costantino dovette concedere ai navicularii due anni di tempo per ogni viaggio di andata e ritorno nel Mediterraneo. Se non riportava, nei [136] due anni, all’autorità che gli aveva affidato le merci, le securitates, o ricevute di quelle merci, consegnate dall’autorità a cui eran dovute, il navicularius viaggiava a suo rischio e pericolo; lo Stato non garantiva più la perdita in caso di naufragio del bastimento. Tanto era l’interesse del navicularius a viaggiar lentamente, che lo Stato si accontentava di esigere, per suo servizio, da ogni bastimento e durante due anni, un solo viaggio: questo era il significato della legge. I trasporti marittimi erano insomma paralizzati a mezzo, in un impero che aveva nel Mediterraneo la grande via di comunicazione tra le provincie!
Ma il codice teodosiano ci fa sapere che anche questa generosità dello Stato non bastò a impedire nuovi abusi. I due anni, conceduti da Costantino per ogni viaggio, bastavano ampiamente ai navicularii abili e senza scrupoli, per fare affari dannosi all’interesse pubblico. Quelli che trasportavano del grano lo vendevano spesso nel primo porto di scalo, sopratutto durante gli anni di carestia, per ricomprarlo a miglior prezzo l’anno di poi. Ci volle una legge che, pur concedendo per il viaggio due anni di tempo, obbligava il navicularius a [137] consegnare il carico nel primo anno (Cod. Teod. XIII, 5, 26).
Costantino ha dovuto rassegnarsi a un sistema così imperfetto, così oneroso, così pieno di abusi, solo perchè non poteva più servirsi, come gli imperatori del primo e del secondo secolo, della navigazione libera. Ma perchè non poteva più servirsi della navigazione libera? Su questo punto non abbiamo nessuna informazione diretta. Ma abbiamo un documento della maggiore importanza, che ci permette di attribuire questa difficoltà straordinaria ai prezzi eccessivi a cui s’erano alzati i trasporti marittimi, come ogni oggetto e ogni genere di lavoro, al principio del quarto secolo. Questo documento è il famoso editto di Diocleziano, de pretio rerum venalium, che tassa le merci fissando i prezzi che commercianti e clienti non possono oltrepassare, sotto pena di morte. Questo editto non ci ha soltanto trasmesso informazioni preziose sulla carezza della vita al principio del quarto secolo; ma lo precede una lunga prefazione dell’imperatore, nella quale il fenomeno della vita cara è analizzato e deplorato con molti particolari e molta forza, benchè in un latino oscuro e bizzarro. [138] È detto chiaramente, in quella prefazione che i prezzi esorbitanti di tutte le cose stremano le risorse dell’amministrazione militare, in modo che tutti i tesori raccolti in tutto l’Impero per mantenere l’esercito, appaiono ogni giorno più insufficienti.
Senza dubbio Costantino ha dovuto ricorrere all’organizzazione coercitiva dei trasporti marittimi per conto dello Stato, perchè i trasporti liberi gli sarebbero costati somme enormi. Per giungere sino alla causa profonda di questa crisi, resterebbe dunque da spiegare perchè i prezzi avessero tanto aumento da disorganizzare tutta l’Amministrazione.
Diocleziano, che deplora il male e vuol guarirlo col ferro, non fa nessuno sforzo per ritrovarne le cause. Ma noi possiamo indovinarle anche dopo tanti secoli; erano la distruzione degli uomini e delle ricchezze, prodotta dalla guerra, le carestie, le epidemie, e la svalutazione del denaro. L’Impero non aveva più nè gli uomini nè le ricchezze necessarie, per mantenersi nella civiltà che aveva raggiunta; siccome voleva conservare una amministrazione e una organizzazione sociale troppo costose per la sua diminuita ricchezza, tutto rincarava — lavoro [139] e oggetti — come capita sempre quando si chiede a un mercato più di quel che può dare. La svalutazione del denaro, di cui abbiamo già visto le ragioni, doveva anche allora generare quegli effetti che ha prodotto in tutte le epoche. Una volta falsificata l’unità di misura dei valori economici, nessuno sapeva più precisamente quanto valevano le cose; tutti i valori diventavano mobili; per mettersi al sicuro dal fluttuare del denaro, la gente ricorreva al solo mezzo che sembra esistere contro un male così capriccioso: guadagnare il più possibile, vendendo tutte le cose ai prezzi più alti.
La guerra e l’anarchia decomponevano dunque l’agricoltura, l’industria e il commercio, con cui si era sostenuta fino allora la vita materiale della civiltà antica. Costantino cercò di fermare questa decomposizione, con una organizzazione coercitiva. Siccome le cause di questa decomposizione persisteranno, questa organizzazione s’allargherà; a poco a poco, durante il quarto e il quinto secolo, la vita economica dell’Impero si muterà in un sistema complicato di requisizioni sempre più tiranniche, e che alla fine lo soffocheranno.
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Tra le riforme più famose di Costantino, è necessario annoverare anche uno degli atti più audaci che potesse immaginare un capo di Stato. Egli riprese il disegno di Antonio; tolse a Roma la sua corona; e trasportò in Oriente la capitale dell’Impero.
La sua azione è larga, forte, profonda, ricca di idee generali; è la manifestazione di un genio politico e amministrativo di prim’ordine; ma è anche la prova luminosa che la monarchia pura era ancora più debole che con il sistema di Diocleziano. Si potrebbe definire la politica di Costantino dicendo che, per conquistare e esercitare da solo il potere assoluto, ne aveva indebolito, appoggiandosi sul Cristianesimo, le basi che Aureliano e Diocleziano avevano cercato di consolidare coi culti orientali.
Per che ragione Costantino avrebbe complicato ancor più il cerimoniale e moltiplicato la burocrazia, se il suo governo non si fosse sentito più debole del precedente, nonostante [141] la concentrazione di tutti i poteri in una sola mano? Allo stesso modo, non si può spiegare che un soldato e un uomo di Stato di tanto genio abbia frazionato e immobilizzato l’esercito in un sì gran numero di guarnigioni, nell’interno e lontano dalle frontiere, se non si ammette che l’esercito doveva ormai servire a conservare con la forza l’ordine interno, minacciato da tante cause di dissoluzione, più ancora che a difendere l’Impero, dai nemici esterni. Non si può nemmeno spiegare come Costantino abbia così facilmente aperto ai barbari i ranghi delle legioni, senza ammettere che si sentiva impotente a lottare contro la ripugnanza della nuova società cristiana verso la vita militare. E’ finalmente impossibile di spiegare, se non come segno di indebolimento dell’Impero, la fondazione di Costantinopoli. Se molte furono le cause di questo avvenimento, la prima dev’essere cercata nella decadenza delle provincie occidentali, devastate dai barbari, impoverite, spopolate. Come lo sviluppo delle provincie occidentali, e sopratutto della Gallia, avevano fissata in Italia la sede dell’Impero, allo stesso modo l’Impero si spostava verso l’Oriente, cioè verso le provincie [142] più ricche, più popolate, meno tocche dalla perturbazione dei tempi, ora che l’Occidente cadeva in rovina. Costantino scelse il posto con intelligenza straordinaria, perchè Costantinopoli si trova nella situazione ideale per essere capitale di un Impero che è metà in Asia e metà in Europa. Ma trasportare sul Bosforo la capitale dell’Impero era come dichiarare che il compito di Roma in Occidente, l’ultima grande opera della civiltà antica, era finito, e che la storia aveva voltato pagina.
Nè Costantino riesci a ricostituire, col principio dinastico, l’unità e la continuità del potere supremo. La dinastia, che vuol fondare, è subito minata dalle discordie, dai sospetti, dalle gelosie; ai mali che avevano afflitto sino a quel tempo l’Impero si aggiungono le sanguinose e oscure tragedie dinastiche. Nella famiglia stessa del fondatore comincia una lunga storia di rivoluzioni di palazzo, della quale, per molti secoli, sarà teatro Costantinopoli.
Già nel 326, per ragioni ignote, Costantino fece uccidere il figlio Crispo, vincitore dei Franchi e di Licinio, e poco dopo Fausta, la sua seconda moglie e la figlia di Massimiano. Nel 333, compì un atto meno tragico, ma ancor [143] più significativo, come prova della debolezza dell’edificio politico che egli aveva costruito. Divise l’Impero tra i suoi tre figli e uno dei suoi nipoti. Assegnò a Costantino la Spagna, la Gallia, la Britannia; a Costanzo l’Asia, la Siria, l’Egitto; a Costante, l’Italia, l’Illirico, l’Africa; e il titolo di Augusto a tutti e tre; al nipote Dalmazio, col titolo di Cesare, la Tracia, la Macedonia, l’Acaia. Finalmente, a un fratello di costui, Annibaliano, erano assegnati, col titolo di re dei re, il trono allora vacante dell’Armenia, e le regioni limitrofe del Ponto. A che dunque aver tanto lottato e sparso tanto sangue, per rovesciare la tetrarchia di Diocleziano, se poi la ricostituiva più debole e in forma più pericolosa? Ma nemmeno Costantino aveva la forza di risolvere la terribile questione del principio legale della suprema autorità. Anche il principio dinastico, spoglio del carattere divino, era debole, incerto, oscillante, come tutti gli altri principii che l’Impero aveva provati. Costantino comprese che non aveva nè la forza, nè l’autorità necessaria per imporsi alle ambizioni di tutti i membri della sua famiglia e trasmettere il suo potere a uno solo dei suoi figli; preferì di rompere [144] l’Impero, coll’illusione di assicurargli più facilmente la pace, soddisfacendo a tutte le ambizioni rivali che non poteva sopprimere.
Ma questa divisione dell’Impero, pur annullando, nella sua parte sostanziale, l’opera di Costantino, non era il pericolo più grave. Non rompeva infatti che l’unità materiale! Molto più grave era il pericolo che minacciava l’unità morale dell’Impero col cristianesimo trionfante. Costantino, e lo dice egli stesso, in un editto che citeremo più innanzi, si era avvicinato al cristianesimo e l’aveva favorito con l’idea di ricostituire l’unità morale dell’Impero. Costantino era ancor troppo un uomo politico d’idee antiche, per non considerare, alla romana, la religione come uno strumento della politica. Poi che il cristianesimo era oramai più diffuso e più forte che il paganesimo, la saggezza politica consigliava di accelerare la cristianizzazione dell’Impero. Ma il cristianesimo non era una religione che potesse servire [145] di strumento politico, nelle mani dello Stato, come le varie religioni pagane. Aveva una morale e una dottrina tutte sue, indipendenti e tali che nessuno Stato poteva modificarle per i suoi fini politici. Costantino non tardò ad accorgersene, quando le eresie, limitate a lungo dalle persecuzioni, scoppiarono, come una forza distruttiva, nella pace e nell’ordine, appena il cristianesimo trionfò con l’aiuto e l’appoggio dell’imperatore. Non è esagerato dire che Costantino, cercando di ricostituire l’unità dell’Impero con l’aiuto del cristianesimo, vi ha introdotto una nuova forza dissolvente; le dispute teologiche. Ne è prova la storia della grande eresia ariana. Un prete di Alessandria, Ario, aveva cominciato a sostenere, da qualche tempo, che Dio ha creato il Cristo, o il Logos, per adoperare la lingua teologica, dal Niente, come tutte le altre creature, e non dalla sostanza divina; che l’aveva adottato come figlio, prevedendo i suoi meriti, ma senza che da questa adozione dovesse risultare una partecipazione della divinità. Ario negava così l’identità delle persone della Trinità e la divinità del Cristo. In Oriente, dove la cultura filosofica e la passione della dialettica erano ancora [146] ben vive, questa eresia, che non era nuova, aveva sollevato questa volta una tempesta formidabile, perchè da quando i cristiani non avevano più da temere le persecuzioni dei pagani, s’erano messi a discutere con fervore sulla divinità di Cristo. Il vescovo di Alessandria, Alessandro, sostenuto dal voto di un sinodo di cento vescovi, aveva espulso nel 321 Ario dalla comunità cristiana. Ma Ario non era solo: la semplicità della sua dottrina la rendeva più accessibile alla media degli uomini, che la dottrina opposta, molto oscura e profonda, della Trinità; le simpatie che egli ritrovava nel neo platonismo pagano così diffuso in Oriente, gli odi e i rancori lasciati dalle precedenti eresie, le molte discordie che dividevano il mondo cristiano, gli dettero subito un partito numeroso, se non scelto.
Immediatamente i sinodi cominciarono a opporsi ai sinodi; gli animi si accesero; alle dispute teologiche seguirono i parapiglia, i colpi, le violenze nella strada. La sicurezza di cui godevano dopo il trionfo, favoriva anche frammezzo ai cristiani l’esplosione delle cattive passioni. Poteva Costantino, che era stato spalleggiato dai cristiani, nei suoi sforzi per [147] ricostituire l’unità dell’Impero, vedere con indifferenza questo disordine religioso, che stava quasi per mutarsi in guerra civile? No, certamente. E così fu preso nel vortice delle dispute teologiche.
Ciò che egli pensasse, col suo senso politico, di quelle dispute, lo sappiamo dalla lettera, che rivolse ai cristiani dissidenti:
«M’ero proposto di ricondurre a una unica forma l’opinione che tutti i popoli si fanno della divinità, perchè sentivo bene che, se avessi potuto, su questo punto, ristabilire l’accordo come volevo, ne sarebbe stata facilitata la gestione degli affari pubblici. Ma, oh divina bontà! che novità ha ferito crudelmente i miei orecchi, anzi il mio cuore! Vengo a sapere che ci sono tra voi più dissensi che in Africa nei tempi passati. Eppure mi par che la ragione sia ben piccola, e assolutamente indegna di tante contestazioni... Tu, Alessandro, hai voluto sapere ciò che pensavano i tuoi preti sopra un punto della legge, anzi soltanto sopra una parte di una questione, priva, assolutamente di importanza; e tu, Ario, se pensavi così, dovevi tacere. Non si doveva nè interrogare nè rispondere, poichè si tratta di problemi che non v’è [148] nessun bisogno di discutere, ma che suggerisce soltanto l’ozio, dato che, tutt’al più, son buoni a aguzzar l’ingegno. E’ forse giusto, che per delle vane parole, impegniate una battaglia tra fratelli e fratelli? Son queste cose volgari, degne di bambini senza esperienza, non di preti o d’uomini di senno. Ridàtemi dunque, vi prego, giorni tranquilli e notti senza inquietudini, in modo che possa anch’io, nell’avvenire, goder della pura gioia di vivere».
Il senso della lettera è chiaro. Costantino, che concepiva la religione come uno strumento politico per mantenere l’ordine nello Stato, considera insensato quel furore di discussioni teologiche. Una religione che, invece di aiutare l’imperatore gli crea delle difficoltà, sembrava a lui, fedele interprete del pensiero romano, una mostruosa assurdità. E infatti, approfittando dell’autorità di cui godeva tra i cristiani, prese l’iniziativa di un gran concilio, che doveva metter fine alla questione. A Nicea, nella primavera del 325, si riunirono più di 250 vescovi di ogni parte delle provincie orientali, e Costantino inaugurò il Concilio con un assai modesto discorso. Ristabilendo la concordia nella Chiesa, l’assemblea avrebbe fatto [149] un’opera che sarebbe piaciuta a Dio e avrebbe reso un gran servizio all’Imperatore. Il concilio era presieduto da uno dei suoi segretari, il vescovo Osio, avversario dell’arianismo; onde le influenze imperiali agirono tutte contro questo partito.
Ario fu dunque rinnegato ancora una volta. Il Concilio decretò che Cristo non era stato creato dal niente, e che non era diverso dal padre, ma che invece era stato fatto da Dio, dell’essenza del padre «vero Dio del vero Dio» e che gli era consubstanziale.
Ma poco durò l’illusione d’aver così ricostituita l’unità morale dell’Impero. Ciò che sembrava pazzia furiosa al suo senso politico di romano, era qualcosa di così profondo, che tutta l’autorità dell’Imperatore riusciva impotente a combatterla. Condannato dal concilio di Nicea, Ario era andato in esilio; ma l’arianismo era diffuso e potente; aveva, anche a corte, degli amici fidati, tra i quali Costanza, la sorella di Costantino; non rinunciò dunque alla lotta. Approfittando degli errori degli avversarii, addolcendo la sua dottrina. Ario e i suoi partigiani riuscirono a riguadagnare il favore di Costantino, persuadendolo che era possibile [150] una riconciliazione. L’Imperatore, sempre animato dal desiderio di ristabilire l’unità morale dell’Impero, tentò allora questa riconciliazione; ma si urtò in un’opposizione invincibile specialmente da parte del nuovo vescovo di Alessandria, Atanasio. Questa intransigenza degli avversari spinse finalmente Costantino verso Ario. Il favore imperiale rese coraggio alla setta, che, nel 335, riuscì a far condannare Atanasio al concilio di Tiro. A sua volta Atanasio fu esiliato in Gallia e i suoi partigiani più in vista vennero perseguitati e dispersi; Ario rientrò come trionfatore; la corte fu invasa dagli ariani, che in quasi tutto l’Oriente divennero il partito prevalente della Chiesa cristiana. Ma il partito avverso non disarmò; e da quel momento una lotta immensa, di furore implacabile, squassò tutto l’Impero, aggiungendo, alle altre più gravi, una causa nuova di debolezza.
Come spiegare questo fenomeno quasi incredibile? Queste dispute teologiche, che sono state parte così importante nella storia del cristianesimo, [151] sembrano a noi moderni, come a Costantino, quasi un’inconcepibile pazzia! Ma qui si pone una grave questione. Come mai tutta la forza e la saggezza dell’autorità imperiale furono impotenti contro questo che è, o sembra a noi, un delirio? Come han potuto, quegli uomini, odiarsi, perseguitarsi, massacrarsi per tanti secoli, spingere alla rovina un grande impero per questioni così astruse e sottili? Perchè a noi, che non vediamo più ciò che si nascondeva dietro, quelle dispute sembran fatte soltanto di parole. Ma giudicar così significa non capire uno dei più grandi drammi della storia umana. Che vita anima quelle discussioni oscure, quando le ricollochiamo nel disordine dell’immenso impero che crollava, perchè non possedeva più un principio d’autorità solido e sicuro da sostenere l’ordine sociale: nè l’antico principio greco latino, aristocratico e repubblicano, consacrato dal politeismo, che era caduto definitivamente; nè il nuovo principio asiatico e monarchico, che non riusciva ad abbarbicarsi con radici resistenti. Le lotte teologiche di quest’epoca non sono che uno sforzo titanico per costituire una disciplina intellettuale di ferro, una dottrina della [152] vita, indiscussa e indiscutibile, forte contro tutti gli assalti degli interessi e delle passioni, in un momento in cui l’autorità politica barcollava, l’autorità religiosa era ancora divisa e debole, e tutte le tradizioni erano state scompaginate dalle rivoluzioni, dalle guerre, dalle mescolanze delle classi e delle popolazioni, dalle infiltrazioni dei barbari. Se ogni cosa, nel mondo era instabile, le leggi, le tradizioni, le forze dello Stato, le fortune e gl’interessi degli uomini e delle famiglie, stabile e fermo fosse almeno il pensiero umano, nella dottrina che Dio aveva rivelata agli uomini per mezzo del Messia e degli Apostoli, trasmessa in un’edizione autentica e in aeternum, nei libri santi. Tale è il pensiero profondo, che si trova in queste terribili e oscure lotte teologiche. Molte, se non tutte le grandi lotte dell’ortodossia e contro l’eresia, si spiegano e si comprendono, quando ci si rende conto che dietro le questioni teologiche, sottili, in apparenza, e puramente teoriche, era nascosta la questione, ben altrimenti grave, dell’unità e della stabilità delle dottrine fondamentali del cristianesimo, e che questa unità e questa stabilità era l’ultima base dell’ordine, in un mondo che si decomponeva, [153] perchè non aveva trovato un sicuro e solido principio d’autorità. L’arianismo è un caso particolarmente chiaro e istruttivo di questa verità. Separando Cristo da Dio come una delle sue emanazioni ed esteriorizzazioni, l’arianismo ammetteva implicitamente che altre emanazioni e esteriorizzazioni potevano seguire quelle di Cristo. Come Dio aveva di sua volontà creato dal nulla e poi adottato Gesù Cristo, così potrebbe di sua volontà creare dal nulla e adottare altri redentori. Dunque il libro della rivelazione non era chiuso; potrebbe continuare in volumi nuovi; potrebbero comparire ancora altri Messia, e la dottrina del cristianesimo si muterebbe in un continuo divenire come lo concepiscono certe sette del protestantesimo più radicale, che in Ario hanno trovato veramente un precursore. Ma questo continuo divenire della dottrina doveva spaventare, come una pazzia criminale, in mezzo alla dissoluzione universale delle leggi, dei costumi, degli Stati, gli spiriti illuminati e profondi che sentivano quanto fosse necessario di dare agli uomini, disperati per l’universa mobilità, qualcosa di solido, di fisso, d’incrollabile a cui potessero abbrancarsi. Per questa ragione [154] tanti grandi spiriti si opposero all’eresia ariana, fino a sfidare, per questo, l’esilio e la morte, per questa ragione le dispute sulla consubstanziazione poterono riscaldare tanto gli animi, da provocare battaglie nelle strade e continue effusioni di sangue. Se Cristo era figlio di Dio, consustanziale del padre, vero Dio nato dal vero Dio senza romperne l’unità, il mistero dell’Incarnazione era unico e definitivo in eterno; un altro Messia non verrebbe più; il libro della Rivelazione era chiuso per sempre e l’umanità aveva ormai trovato il fondamento indistruttibile della perpetua verità, sul quale potrebbe costruire l’ordine morale e sociale a condizione di interpretarli alla lettera, nei due Testamenti.
Non è difficile di spiegare l’ardore terribile delle grandi lotte teologiche in mezzo a cui si è formato a poco a poco il dogma, quando queste lotte si intendano in questa maniera. Che volevano i grandi fondatori e difensori dell’ortodossia? Unificare e fissare le credenze sulla base della rivelazione e dei libri santi, con la forza del pensiero, e sopratutto con quello strumento particolare dell’intelligenza che è la dialettica. Ma il pensiero è uno degli elementi [155] più mobili dell’universo; e la dialettica uno strumento potente, ma poco sicuro perchè sa servire tutte le passioni, anche quelle che seminano i torbidi e il disordine negli spiriti e nel mondo. Se n’erano già serviti i filosofi greci, per distruggere più che per sostenere le credenze e le tradizioni del mondo antico, sostituendo loro l’eterna mobilità delle passioni e degli interessi, mascherati con ingegnosi sofismi. Inoltre, se il pensiero dell’uomo ripugna sempre a sottomettersi a una forte e seria disciplina, vi ripugna di più in tempi d’anarchia politica e sociale. Voler ricostituire l’ordine nell’anarchia di un immenso impero crollante incominciando dal pensiero, era iniziar l’opera proprio dalla parte più difficile, seguire la linea dello sforzo più grande, affrontare, con dei ragionamenti, tutte quelle pericolose passioni scatenate dall’anarchia, che cercano sempre di prolungarla, perchè vivono di lei!
Se quell’opera era necessaria per salvare una parte del mondo da una catastrofe totale, che avrebbe annientato tutta la civiltà antica; [156] era certo la più difficile che si offrisse allo spirito umano. Non bisogna dunque meravigliarsi se in quella gigantesca difesa dell’ortodossia, apparvero tanti uomini straordinari per grandezza intellettuale e morale, che la Chiesa ha santificati. La grandezza della natura e del genio umano non si vedono che in tempi di calamità, di fronte alle imprese difficili e quasi impossibili.
Ma che cosa rappresentavano, a paragone di questo sforzo ultra umano, per unificare la verità con la dialettica e l’eloquenza, e per adoperare i più potenti strumenti della cultura antica in vista di un fine così nuovo, gli sforzi di Costantino per salvare i resti della cultura antica? Anche in questa direzione Costantino aveva saggiamente continuata l’opera di Diocleziano.
Nella nuova capitale dell’Impero aveva fondato quella che noi chiameremmo una università, ove professori pagati dallo Stato insegnavano la lingua e la letteratura greca e latina, la retorica, la filosofia, la giurisprudenza, per preparare all’Impero dei funzionari. Ci restano ancor molte leggi di Costantino che concedono privilegi e vantaggi, o che assicurano la [157] vita ai medici, ai grammatici, ai professori di belle lettere in tutte le città dell’Impero. Ma quegli sforzi restavano sterili. Burocratizzate in un insegnamento ufficiale, non avendo più nell’agonia del paganesimo da compiere un’opera viva e vitale, le letterature e le filosofie antiche si disseccavano nella mediocrità dei professori di mestiere, che volevano vivere e farsi una posizione a spese dei geni del passato, mentre i nuovi geni, gli spiriti di grande forza, voltavan la schiena al presente, sprezzavano la protezione ufficiale, si davano tutti alla grande opera vivificatrice dei loro tempi....
Uno dei più grandi libri dell’antichità, le Confessioni di S. Agostino, ci fa vedere sul vivo questa crisi spirituale della cultura antica.
S. Agostino aveva ricevuto dalla natura tutti i doni necessari per diventare un grande scrittore; l’immaginazione, il sentimento, lo stile, la lingua, lo spirito sintetico e filosofico. La forza della dialettica era in lui pari alla potenza delle immagini; lo slancio della fantasia e del sentimento alla profondità del pensiero. E pure era diventato uno di quei professori ufficiali di letteratura, che l’Impero pagava e onorava perchè conservassero viva la tradizione della [158] letteratura antica. Una volta tanto, l’insegnamento ufficiale aveva messo la mano sopra un vero genio... Ma l’Uomo di genio ci ha lasciato un’indimenticata descrizione della misera esistenza, che egli condusse facendo il professore a Cartagine, a Roma, a Milano; l’inquieto scontento che lo rodeva in quegli anni, il furioso agitarsi del suo grand’ingegno nel vuoto di quella cultura ormai esaurita e schematizzata nel quadro convenzionale di un insegnamento ufficiale. Quando un giorno, in un villaggio vicino a Milano, si fece la luce in quella grande anima, disgustata dal vile mestiere, a cui voleva condannarlo una civiltà moribonda. Il professore di letteratura abbandonò la cattedra, gettò i vecchi libri morti e come un ardito palombaro si cala nel mare, scese negli abissi teologici della grazia, della predestinazione, del libero arbitrio, per gettare laggiù i piloni del gran ponte sul quale l’Europa doveva fare il lungo e difficile passaggio dalla civiltà antica a quella moderna.
Costantino insomma non fallì, ma riuscì solo a mezzo; e contribuì a evitare per il momento la catastrofe, prolungando l’agonia. Dopo di lui, l’Impero visse ancora, ma tra scosse [159] continue, e indebolendosi ogni giorno di più. Aumenta la povertà; lo Stato si disorganizza e si fa insieme più violento, oppressivo e rapace, il fiscalismo imperiale imperversa, si rinnovano le atroci tragedie dinastiche; l’esercito si decompone; vacilla la difesa delle frontiere, le campagne si spopolano affollando le città; le piccole città, a vantaggio delle grandi, rovinano; i barbari s’infiltrano dappertutto; la cultura, dalle arti alla filosofia, si deteriora; s’inaspriscono le lotte religiose; si spezza l’unità dell’Impero; si separano l’Oriente e l’Occidente. L’Oriente si difende meglio che l’Occidente, contro la decadenza, perchè la monarchia assoluta, ritornando come nel suo paese di origine, vi si stabilisce con maggior facilità e solidità, e può arginare la dissoluzione generale con più forza e più lungamente che in Occidente. Così che la forza dell’Impero si ritira, a poco a poco, verso l’Asia, fino al giorno in cui l’Occidente cade sotto i colpi rinnovati dei barbari. La civiltà antica è allora, in Occidente, distrutta quasi del tutto. Per secoli, non ne resteranno più, in quelle immense regioni ridiventate barbare e deserte, molte delle quali son colonizzate dagli invasori [160] germanici, che dei vaghi ricordi e poche vestigia frammentarie, tra cui, unico elemento vitale, la teologia creata negli ultimi secoli dell’Impero per unificare la dottrina della nuova religione. La teologia è stata, per lunghi secoli, in Occidente, l’ultima forma di alta cultura sopravissuta in mezzo alla rovina di tutte l’altre, quella che ha salvato l’Impero dalla barbarie piena e definitiva. Da questa ultima forma sopravissuta infatti, sono a poco a poco uscite, per svilupparsi di nuovo, la filosofia, la letteratura, il diritto, tutto il grande movimento intellettuale, che culminò nella Rinascenza. Nella disciplina intellettuale, conservata dal dogma attraverso il gran caos del medioevo, l’Europa a poco a poco ha ritrovato e sviluppato i principii d’autorità, che l’Impero aveva cercati invano, e che gli hanno permesso di ricostituire dei governi solidi e forti. Ma a mano a mano che ricostituiva l’autorità dei governi e si sottometteva a una vigorosa disciplina politica, l’Europa è diventata più intollerante di quella unità e disciplina intellettuale che, dall’epoca di Costantino alla Riforma, gli erano parse necessità vitali, più dell’organizzazione degli Stati e degli eserciti. Incominciano [161] nello stesso tempo a formarsi i grandi Stati e il pensiero umano si rivolta contro tutte le autorità, alle quali s’era sottomesso nel medioevo; doppio movimento parallelo e inverso che doveva svilupparsi per tre secoli e sbocciare nella situazione attuale: Stati di una potenza formidabile, come non se n’erano mai visti, che s’appoggiano sopra una delle più grandi anarchie intellettuali e morali della storia, ossia sul vuoto. Schizzeremo rapidamente, nell’ultimo capitolo, l’ultima fase, quella più importante, di questa straordinaria trasformazione del mondo.
[163]
La rovina della civiltà antica è stata effetto di cause profonde e complesse. Ma la nostra ricerca sembra provare che essa è incominciata con una grande perturbazione politica, che scatenando un’incurabile anarchia ha distrutto a poco a poco la civiltà antica nei suoi elementi essenziali. E’ anche possibile spiegare il procedimento di questa crisi. L’impero romano aveva cercato di conciliare due diversi principii d’autorità; il principio monarchico che aveva avuto un grande sviluppo in Oriente, in Asia Minore, in Siria, in Egitto con le dinastie anteriori e posteriori alla conquista di Alessandro; il principio repubblicano, che si era sviluppato [164] in Europa, sopratutto in Grecia e in Italia, nelle istituzioni della città antica. La conciliazione che l’imperator o il princeps simboleggiavano, era sempre stata difettosa perchè non era riuscita a definire il principio costituzionale, donde doveva uscire l’autorità suprema di quella monarchia repubblicana, questo principio non essendo nè l’eredità, come nelle monarchie, nè una regolare elezione, che avesse procedura fissata dalle leggi e dalle tradizioni, come nelle repubbliche. Tuttavia, fino che conservò l’antico prestigio e la sua immensa autorità, il Senato fu generalmente riconosciuto come la fonte della legittimità imperiale. Un imperatore era considerato legittimo, appena il Senato aveva approvato la sua elezione. E infatti il Senato riuscì, per due secoli, a prezzo di lotte talora molto violente e di una sanguinosa guerra civile, a render sicura la continuità legale del regime. Ma indebolita l’autorità del Senato dalla vittoria di Settimio Severo, e dall’istituirsi di una vera monarchia assoluta non rimase più nessun principio di legittimità, chiaro e forte, per la scelta dell’Imperatore: nè l’eredità, nè l’elezione, nè la convalida del Senato. Da questo nacque il grande [165] tumulto di rivoluzioni e di guerre che, come abbiamo detto, ha tutto distrutto.
In fondo a questa immensa crisi storica, troviamo dunque la lotta di due principii politici opposti, che invece di conciliarsi, come si vorrebbe, finiscono per distruggersi. Una forte conferma di questa visione storica è appunto data dalla diversa sorte dell’Impero d’Oriente e dell’Impero d’Occidente. La rovina dell’Impero Romano è in verità la rovina dell’Occidente. Indebolita da un’incurabile anarchia, sommersa dai marosi delle invasioni, l’Europa romana si spopola, ridiventa barbara, è spezzettata in un gran numero di Stati, che per secoli hanno il carattere comune di una continua instabilità. In Oriente invece l’autorità imperiale, sotto forma di monarchia assoluta, resiste ancora ai colpi della sorte per secoli; riesce a mantenere un certo ordine, una forza militare, una tradizione di cultura, a salvare quella parte della civiltà antica che aveva potuto sfuggire al caos del terzo secolo e non si trovava in contradizione troppo violenta con lo spirito cristiano. In grazia appunto di questa resistenza l’Oriente può diventare una seconda volta l’educatore dell’Occidente, rimbarbarito. [166] Ma questa vitalità dell’Impero d’Oriente può solo spiegarsi con le diverse vicissitudini della crisi politica. La monarchia assoluta e ereditaria, fondata da Costantino, è riuscita meglio in Oriente che in Occidente, perchè si è ritrovata nel paese d’origine e perciò sopra un terreno più favorevole, preparato dalla tradizione. In fondo, l’Oriente non aveva visto, nell’Imperatore romano, che il successore e il continuatore di quei re, i quali, sotto nomi diversi, avevano governato gli Stati asiatici nei secoli anteriori alla conquista romana. L’Oriente aveva capito la repubblica aristocratica di Augusto, come una monarchia unificata e universale. Anzi, proprio quel sentimento monarchico con cui l’Oriente considerò la persona e l’autorità dell’imperatore, contribuì reagendo sull’Occidente, a indebolire nei primi secoli dell’Impero il carattere repubblicano della costituzione di Augusto. E appunto perchè era abituato da secoli a un governo di funzionari, l’Oriente sentì meno, nel terzo secolo, la distruzione della costituzione aristocratica, che scosse tutto l’edificio sociale in Occidente. Insomma, una volta distrutta la costituzione aristocratica della società imperiale insieme col regime [167] mezzo repubblicano e mezzo monarchico dell’Impero, l’Occidente non ha più governo. Le vecchie istituzioni repubblicane non son più possibili, la monarchia assoluta o ereditaria, fondata da Costantino, non trova radici vive nel sentimento dei popoli; è debole, instabile, inetta a difendere le provincie contro le invasioni dei barbari e a mettere un po’ d’ordine nell’interno. A poco a poco la civiltà si decompone e scompare. In Oriente è più forte il principio monarchico, perchè trova un terreno già preparato dalla storia; la monarchia assoluta e ereditaria può, nonostante le cospirazioni di palazzo, le rivolte militari e le crisi dinastiche frequenti, governare, mantenere un certo ordine, difendere il paese dai nemici esterni. Faticosamente, la civiltà continua a vivere.
Veduta così, questa esperienza storica è molto importante per la nostra epoca. Noi ci troviamo in una situazione che, con un fondo più vasto e in forme più complesse, ha profonde analogie con quella descritta. Ho alluso a queste analogie nel primo capitolo; ma sarà utile di ritornarci sopra. Il mondo non s’è ancora accorto dei risultati politici che ha avuto la [168] guerra mondiale, indipendentemente dalla volontà e dai piani di quegli uomini che pareva guidassero gli avvenimenti; e ragiona ancora come se ci trovassimo all’indomani del trattato di Utrecht, come se non ci fosse stato che un trasporto di potenza e di prestigio, da alcune ad altre nazioni. Non s’è ancora accorto che nel marzo del 1917 uno dei due principii politici sui quali s’appoggiava tutto l’ordine sociale in Europa, il principio monarchico, ha ricevuto un colpo tremendo con la rivoluzione russa; che ne ha ricevuto un secondo e questo definitivo e mortale, nel mese di novembre del 1918, quando l’Impero degli Asburgo e quello degli Hohenzollern si sono sfasciati. Non ha ancora capito che la caduta del principio monarchico in Europa è un avvenimento di formidabile importanza; in quanto chiude una crisi politica cominciata due secoli fa; e che l’Europa rischia di nuovo, come nel terzo secolo, di trovarsi senza nessun principio d’autorità.
Una rapida occhiata agli avvenimenti dei due ultimi secoli, dopo questo lungo studio sulla crisi della civiltà antica, potrà forse illuminare un poco le spesse tenebre dell’avvenire. L’Europa cristiana, venuta fuori, a poco a poco, [169] dalla catastrofe della civiltà antica, aveva trovato una soluzione del problema politico, che, nel quadro delle idee religiose dominanti allora, era quasi perfetta. Aveva dato un carattere sacro a tutti i governi, repubblicani o monarchici, aristocratici o democratici, che fossero legittimi, che cioè dovessero la loro origine a un atto legale di validità indiscutibile, o che fossero stati legittimati dal tempo. L’obbedienza a quei governi era un dovere imposto da Dio ogni volta che quei governi non imponevano alcunchè di contrario alla legge divina. Quanto agli errori e alle colpe dei governi legittimi, non bisognava, secondo questa concezione dello Stato, dare loro troppa importanza, quando non minacciavano di produrre una depravazione generale, perchè, essendo la perfezione morale e religiosa dell’individuo il fine supremo della vita, a questa perfezione si poteva giungere indipendentemente dalla perfezione del governo. Gli abusi dei governi nuocevano a chi li faceva, molto più che alle vittime, perchè costoro dovevano soltanto subire delle pene materiali e delle sofferenze, mentre gli altri si gravavano la coscienza con un peccato, di cui dovrebbero un giorno rendere [170] conto a Dio.
Questa concezione del governo accordava assai bene il dovere dei capi di ben comandare, il diritto dei popoli, d’essere ben comandati, e la necessità di una certa tolleranza per le colpe dei potenti! Ma per quanto perfetta, non poteva mantenersi che nel quadro delle idee religiose, dominanti allora. Cominciò a esser scossa dall’ondata di incredulità che percorse la classe dirigente di tutta Europa dopo la guerra dei trent’anni: quella guerra che, facendo apertamente del cattolicismo e del protestantesimo delle armi per una grande lotta politica, fu per l’Europa la prima grande scuola di scetticismo religioso. Il settecento le oppose inoltre la concezione filosofica e razionalista che culminò nella Rivoluzione Francese. L’autorità è cosa umana, la sua fonte è nella volontà stessa di coloro che obbediscono e che hanno, per conseguenza, il diritto di controllarla; il vero sovrano è dunque il popolo; la legge, per esser giusta, non deve esprimere che la sua volontà. La teoria era seducente, e sedusse infatti lo spirito di un secolo illuminato, che era scontento per molte ragioni, del suo regime, rimproverandogli, in fondo, sotto [171] il nome di tirannia, la sua debolezza, la sua lentezza, il suo spirito di routine, il suo rispetto delle tradizioni e dei diritti acquisiti.
La Rivoluzione francese cercò di applicare il nuovo principio. Ma non tardarono ad apparire le difficoltà dell’applicazione. Che cosa era il popolo? A che segni si riconosceva la sua vera volontà? Con quali organi si potrebbe esprimere? Sappiamo con quante oscillazioni la Rivoluzione francese cercò di rispondere a questi quesiti. Basta seguire tutte le costituzioni che elaborò in pochi anni, per vedere quanto difficile fosse l’applicazione del principio della sovranità del popolo. Ora il suffragio universale, ora il suffragio doppio, ora il suffragio censitario le sembrarono via via espressione vera della volontà popolare, sinchè alla fine, la volontà popolare non diventa che una formalità per legittimare una dittatura militare, fondata con la forza e molto più assoluta, nel suo esercizio, che quella della monarchia dell’antico regime. Ma questo brancolare si spiega facilmente, quando si guarda il nuovo sovrano che doveva sostituire gli antichi, perchè il popolo, la cui volontà avrebbe dovuto governare lo Stato, aveva poca voglia e poca capacità di [172] esercitare il suo potere, anzi mostrava certe volte il desiderio di rinunziarci e di ristabilire le autorità a cui avrebbe dovuto succedere. Si poteva lasciare a questo nuovo sovrano la libertà di abdicare? Tutta la Rivoluzione francese si è dibattuta in questa contradizione insolubile, perchè la Rivoluzione è stata, in fondo, lo sforzo di una élite relativamente ristretta contro la volontà profonda delle masse, compiuto in nome della sovranità popolare.
Infatti, tutti i regimi fondati allora sopra un principio così oscillante e poco chiaro, sono stati deboli e instabili: persino la dittatura militare che è stata il coronamento di tutti gli sforzi della Rivoluzione. Sostenuta dalle vittorie, si sfascia quando la vittoria l’ha abbandonata. Messa sottosopra da tante guerre, sconvolta per la lotta dei due principii antagonisti d’autorità, l’Europa fa allora un grande sforzo per conciliarli e ristabilire un ordine duraturo. E’ questa l’opera del congresso di Vienna e della Santa Alleanza. Mentre il congresso delibera di ricostituire l’Europa sul principio della legittimità, di riconoscere cioè come titoli legittimi di autorità il tempo e la fedeltà dei popoli, la maggioranza dei grandi Stati crede che sia [173] necessario rinforzare il principio di legittimità con la concessione d’istituzioni rappresentative. La dinastia legittima rientra in Francia con la Carta di Luigi XVIII. L’Imperatore di Russia ambisce di far la parte di protettore della libertà. Anche il re di Prussia ha promesso una costituzione al suo popolo. Solo fra i grandi Stati l’imperatore d’Austria resta fedele alla dottrina assolutista. Le altre grandi monarchie inclinano con maggiore o minor risolutezza verso una conciliazione dei due principii politici, basata sulla subordinazione del principio nuovo all’antico. La monarchia resterà il principio sovrano di Europa; le istituzioni rappresentative funzioneranno sotto il suo controllo; la pace aiuterà questa conciliazione. Le idee rivoluzionarie avevano scosso le istituzioni monarchiche con l’aiuto della guerra. La Santa Alleanza sarà una tregua conchiusa tra le monarchie d’Europa, per non facilitar troppo, con le loro lotte, il compito della Rivoluzione.
Ma la conciliazione fallisce. In Francia, la dinastia legittima non riesce che con grandi sforzi a mantenere la Camera nella posizione subordinata che le impone la Carta, benchè il [174] Parlamento non sia eletto che da una minoranza di ricchi. La lotta tra la corona e il parlamento, tra il diritto divino e la sovranità del popolo, fra la vecchia aristocrazia e la borghesia, è continua, accanita, implacabile. Questa lotta, per le inquietudini che solleva, contribuisce a far vincere pienamente il partito assolutista in tutta Europa dopo il 1821. Si dimenticano dappertutto le promesse fatte di concedere una costituzione e il diritto divino trionfa. A sua volta, questo trionfo universale del diritto divino in tutta Europa reagisce sulla Francia, dove, con Carlo X, vince il partito monarchico a oltranza. La lotta tra i due principii s’inasprisce, fino a scoppiare nelle giornate di luglio, nel 1830.
La dinastia legittima è rovesciata. Il principio della sovranità popolare esce vittorioso da una lotta sanguinosa che dura tre giorni. Ma non osa sfruttare a fondo la sua vittoria, proclamando la repubblica e coronando il popolo sovrano dello Stato. Anche Lafayette esita; e quando, il 31 luglio, il duca d’Orléans si presenta al Municipio per rendere omaggio nella sua persona al popolo sovrano, Lafayette esce sul balcone, insieme a lui, con una bandiera [175] tricolore. Una cricca di parlamentari abili, maneggiata abilmente da un banchiere, prepara una nuova conciliazione tra i due principii: la monarchia borghese, o, come la definì proprio Luigi Filippo, un trono circondato da istituzioni repubblicane. Il re riconosce la fonte della sua legittimità nel popolo e nel parlamento che lo rappresenta; è abolito il diritto ereditario dei pari; il diritto elettorale è un po’ allargato pur restando strettamente censitario. Il popolo, che governa la Francia è rappresentato da 200.000 elettori. Ma la nuova conciliazione non riuscì meglio della precedente. La contradizione tra il carattere censitario del suffragio e la dottrina della volontà del popolo, si poteva ancora tollerare sotto la monarchia legittima, la quale affermava d’essere l’autorità, e non riconosceva alla volontà popolare che una parte subordinata di collaborazione, per così dire. Ma la monarchia borghese, invece, non era più che una delegazione del popolo, sottomessa al popolo, che l’aveva creata con la sua volontà. Come si poteva riconoscere il popolo sovrano in una piccola minoranza di 200.000 possidenti? Appunto tra il 1830 e il 1848, per reazione a questa [176] mostruosa contradizione, la dottrina del suffragio universale diventa l’espressione quasi mistica della sovranità popolare.
La rivoluzione del 1848 è la sua grande rivincita. La Francia rovescia la monarchia borghese e proclama la sovranità del popolo nella repubblica, basata sul suffragio universale. L’Europa segue il suo esempio, si solleva quasi tutta contro la monarchia assoluta, domanda delle costituzioni. Lo slancio fu così grande, che tutte le monarchie, salva la Russia, furono costrette a cedere, anche l’Austria e la Prussia. Come in Francia, il suffragio universale è proclamato fonte di tutta l’autorità, al posto di Dio, quasi in ogni grande Stato d’Europa. Ma si ripete allora sopra una scala più larga ciò che era già successo più oscuramente all’epoca della Rivoluzione; passato il primo entusiasmo, il suffragio universale esita ad esercitare il potere supremo; diffida delle sue forze, guarda intorno a sè per cercare appoggi, e si rivolge finalmente verso l’antico principio d’autorità che avrebbe dovuto sostituire, per scaricarsi su di lui della sua responsabilità. L’Assemblea nazionale, eletta nel 1848 dal suffragio universale, è composta per metà di partigiani [177] degli antichi regimi monarchici, e per metà di una grossa maggioranza di repubblicani improvvisati e di una piccola minoranza di repubblicani sinceri e fervidi. La sua volontà è così confusa ed incerta, così debole la sua fiducia nella propria autorità, il suo operare così poco energico, che un gran disordine invade la Francia. La rivoluzione si trova presto in faccia a questo problema paradossale: ha il suffragio universale, che è pure un sovrano, il diritto di abdicare la sua autorità suprema in favore degli antichi regimi? Si può o si deve fargli violenza, per obbligarlo a governare, nonostante le sue riluttanze? Nelle sanguinose giornate di giugno l’ala estrema del partito repubblicano si leva contro l’Assemblea e il suffragio universale, che accusa di tradire la Rivoluzione! E’ vinta; il suffragio universale resta in teoria il padrone dello Stato; ma si indebolisce, si scoraggia ogni giorno di più, di fronte alle crescenti difficoltà interne ed esterne, fino al giorno in cui, chiamato a scegliere il presidente della repubblica, ha l’idea di darsi col cappello e la spada di Napoleone, l’aria e l’aspetto di un vero sovrano. Da quel giorno il destino della repubblica è deciso: il suffragio [178] universale non servirà più che a legittimare con un consulto teorico, una monarchia militare, fondata con un colpo di Stato sul prestigio di un nome. Lo stesso dramma si svolge più rapidamente e in forma più semplice nella Germania. Che cerca, appena eletto dal suffragio universale, il parlamento di Francoforte? Un imperatore per tutta la Germania. Non ambisce che di sostituire il papa del medioevo, nell’unzione di un nuovo imperatore. Il parlamento si rivolge all’Imperatore d’Austria, all’arciduca Giovanni, al re di Prussia; quando s’accorge che il suo richiamo rimane vano, si lascia dissolvere senza resistenza, come se non avesse più niente da fare.
Fallisce dunque dappertutto la rivoluzione del ’48. La sovranità del popolo non dura che un momento. Delle costituzioni timide e sospettose, che subordinano le istituzioni rappresentative al potere monarchico, come nella Carta di Luigi XVIII; ecco quanto rimane nei paesi in cui l’assolutismo non riesce, come in Austria, a ritirare tutte le sue concessioni. Lo scacco è così grande, che i partiti e le dottrine democratiche ne resteranno scoraggiati per tre generazioni. Ma il principio vittorioso, il diritto [179] divino, non è meno indebolito, dalla sua vittoria, che il principio vinto, dalla sua sconfitta: questo è il controsenso tragico del 1848, ed è la chiave di tutta la storia dell’Europa fino alla guerra mondiale. Il principio vittorioso non è soltanto indebolito dalle concessioni, che dovette fare, sotto la minaccia della rivoluzione; dalle istituzioni parlamentari adottate dopo il 1848 in quasi tutti i grandi Stati d’Europa; ma anche dalla discordia che s’è insinuata tra le grandi e le piccole monarchie dell’Europa. La rivoluzione del 1848, se non ha sradicato la monarchia dal suolo dell’Europa, ha rotto la santa Alleanza e la tregua delle dinastie. Governata dal nipote di Napoleone, la Francia non poteva più far parte di un sistema che era stato organizzato contro la famiglia del nuovo imperatore. Il piccolo re di Sardegna aveva osato, nel 1848, primo di tutti, strappare i trattati del 1815 dichiarando la guerra all’impero d’Austria. Il parlamento di Francoforte, se non aveva trovato un imperatore, era però riuscito a gettare la diffidenza e il sospetto fra la Prussia e l’Austria, offrendo la corona al Re di Prussia; presto la guerra di Crimea inimicherà per sempre gli Asburgo e i Romanoff. L’accordo [180] tra le grandi corti settentrionali che era, nel sistema della Santa Alleanza, il fondamento della potenza monarchica in Europa, è spezzato definitivamente, l’Europa è come abbandonata a se medesima, in un disordine inquieto, pieno di discordie. Vittorio Emanuele II e Cavour furono i primi a approfittare di questo disordine e di queste discordie. Sfruttando la gelosia e la diffidenza nate, per il ristabilimento dell’Impero, tra la Francia e l’Austria, riescono a trascinare Napoleone III in una guerra contro l’Impero degli Asburgo; inalberando la bandiera liberale e costituzionale, riescono a provocare, dopo Solferino, un largo movimento in tutta la penisola, che permetta loro di riunirla in un solo Stato. Le piccole corti assolute sono sostituite, in Italia, da una sola monarchia costituzionale. Ma gli avvenimenti d’Italia non sarebbero bastati, così da soli, a far uscire l’Europa dal suo stato di incertezza e di torbidi, se il Piemonte non avesse aperta la strada alla Prussia, e se con un colpo di fantastica temerità, Bismarck non fosse riuscito a risolvere la situazione incerta, creata in tutta l’Europa dalla rivoluzione del 1848, a profitto della Germania e del principio monarchico. [181] Approfittando della discordia che la rivoluzione del 1848, la guerra di Crimea, la guerra d’Italia, la rivoluzione di Polonia, han fatto nascere fra l’Austria e la Russia, tra la Russia e la Francia, tra la Francia e l’Inghilterra; servendosi dell’esercito prussiano riorganizzato e della dottrina rivoluzionaria del suffragio universale, riesce, contro la volontà del parlamento prussiano, a vincere l’Austria e a fondare la confederazione del Nord, sotto l’egemonia prussiana; lancia la confederazione contro la Francia e fonda l’Impero tedesco, sotto un capo per diritto divino e con un parlamento eletto dal suffragio universale.
Bismarck sembra aver risolto il problema che Luigi XVIII e Carlo X non avevano potuto sciogliere: far collaborare il principio monarchico e il principio democratico, subordinando questo a quello. Per quaranta quattr’anni la Germania ha attuato con successo il piano politico, che aveva fatto cadere, in Francia, la dinastia legittima. Per questa ragione la guerra del 1870 era sembrata ai partiti conservatori del mondo intero la rivincita della monarchia sulla rivoluzione del 1848, il gran trionfo del principio monarchico. Durante questi quaranta [182] quattr’anni, la monarchia si consolida in apparenza al punto che non ha nemmeno più paura di molte dottrine e istituzioni democratiche, considerate, fino ad allora, come incompatibili con ogni governo monarchico. Si generalizzano le istituzioni parlamentari; soltanto la Russia resiste fino al 1905; e la base delle istituzioni elettive diventa sempre più larga. Lo stesso impero d’Austria adotta, alla fine, il suffragio universale. Le idee repubblicane si spengono a poco a poco; la Francia se riesce, con sforzi tenaci e continui, a organizzare una repubblica basata sul suffragio universale e sull’opinione pubblica, resta però sola, tra le grandi potenze d’Europa, e può continuare il suo sforzo audace perchè approfitta dell’ordine generale, assicurato in tutta l’Europa dalla potenza delle monarchie. Pare che la monarchia abbia definitivamente vinto nella grande lotta con le dottrine democratiche, cominciata nel 1789.
Ma è ancora un’illusione. L’accordo tra le grandi corti settentrionali, Berlino, Vienna, Pietroburgo, pietra angolare del principio monarchico, è spezzato per sempre. Vani sono tutti gli sforzi fatti da Bismarck per ristabilirlo. La Russia finisce per allearsi con la Francia. [183] Gli eserciti di coscrizione, dono pericoloso lasciato dalla rivoluzione alle monarchie, si sviluppano sopratutto in Germania e in Russia. Il prestigio del principio monarchico è aumentato da questi nuovi eserciti di Serse, comandati da tanti re e imperatori. Ma nessuno pensa che una potenza troppo grande può diventare più pericolosa che una debolezza. E poi, il sistema monarchico dell’Europa riposa tutto sull’egemonia della Germania, e questa egemonia può mantenersi a lungo solo mostrando che la forza da cui era stata fondata, era ancora preponderante come nel 1870, o più? Presto o tardi sarebbe arrivato il giorno in cui la Germania avrebbe dovuto dare questa prova al mondo! Arrivato questo giorno, la Germania e l’Austria hanno attaccato la Russia, con gli eserciti immensi che la coscrizione e i progressi dell’industria avevan permesso loro di mettere insieme. Ne è nata una guerra senza limiti, in cui l’Austria e la Germania, han distrutto la Russia, e distruggendola si sono suicidate. La rivoluzione russa, con l’esempio e col vuoto che ha creato nel fianco degli imperi centrali; la guerra illimitata, con l’esaurimento atroce di tutte le energie dei due paesi, hanno provocato [184] la rivoluzione tedesca e la rivoluzione austriaca. La caduta degli Asburgo e degli Hohenzollern, dopo quella dei Romanoff è stata la catastrofe finale del principio monarchico, cioè del principio d’autorità che dominava la maggior parte dell’Europa!
La grande lotta contro il principio monarchico, cominciata nel 1789, è dunque finita. Il principio monarchico è morto. Già scosso dall’incredulità, dal razionalismo, dalle dottrine ugualitarie, dalle guerre e dalle rivoluzioni di un secolo, è stato pienamente sradicato dalla guerra mondiale. Si trovano ancora, qua e là, dei troni in Europa, come rocce che emergono dal diluvio; ma coloro che li occupano non sono dei re, sono delle ombre. L’Europa potrà assistere ancora a parziali restaurazioni; ma queste restaurazioni non saranno più che espedienti e combinazioni politiche, le quali dureranno quanto durano le combinazioni politiche! Il rispetto, l’ammirazione, la fiducia, quasi religiosa in quel principio, sono morti. Troppo terribile è stata la catastrofe, che li ha rovesciati! Ma il principio opposto, quello che avrebbe dovuto approfittare della catastrofe del principio monarchico, potrà sostituirlo? In [185] questo sta il tutto. E purtroppo il desiderio di rispondere di sì, deve frenarsi innanzi alla fredda considerazione dei fatti, i quali risvegliano il dubbio anche negli spiriti più fiduciosi.
Innanzi tutto gli eventi della Russia. La repubblica democratica è durata dal marzo al novembre del 1917. Nel mese di novembre del 1917 il popolo sovrano, dopo un regno di otto mesi, era costretto ad abdicare, spossessato dalla dittatura del partito comunista, o, per essere più esatti, dalla piccola oligarchia che domina questo partito. Sciolta la Costituente, che era la legittima rappresentante della volontà della Russia, questa oligarchia ha preso a combattere accanitamente i principii democratici dell’Occidente, opponendo all’ideologia borghese delle democrazie, la dottrina della dittatura del proletariato, che non è poi altro se non la giustificazione preventiva di un regime di assolutismo. Nè meglio danno da sperare i casi dell’Ungheria, dove la repubblica democratica, è caduta in pochi mesi sotto la dittatura del proletariato, per ricadere poi sotto la dittatura militare. A questi devono aggiungersi gli eventi dell’Italia, dove le vecchie forze [186] dirigenti, alleatesi con elementi nuovi e di origine rivoluzionaria, hanno preferito tentare addirittura una restaurazione della monarchia assoluta del 1815, anzichè sostituire un vero e proprio regime rappresentativo integrale, simile a quello dell’Inghilterra e della Francia, al governo misto di democrazia e di monarchia, con cui il Regno si era retto dal 1860 in poi.
Nè uno spirito chiaroveggente può chiudere gli occhi alle penose difficoltà, contro cui lotta la repubblica tedesca, al malcontento contro le istituzioni parlamentari che agita sotto sotto la Francia e perfino l’Inghilterra, alla popolarità forse incauta e superficiale, ma diffusa, di cui godono le dottrine dittatoriali, presso i popoli che hanno la fortuna di non saper più o di non sapere ancora che cosa è davvero una dittatura senza patenti legittime.
Se il regime rappresentativo non riuscisse a mantenersi nel maggior numero degli Stati di Europa, la guerra tra i due principii di autorità — il monarchico e il democratico — incominciata nel 1789, terminerebbe con la sconfitta di tutti e due; e l’Europa si troverebbe in quella stessa stretta, in cui si trovò l’impero romano, [187] nel terzo secolo, dopochè il Senato fu esautorato dalla vittoria di Settimio Severo: senza un principio di autorità universalmente riconosciuto, e forte abbastanza da reggere l’ordine sociale. Come allora la dittatura della forza farebbe le veci del governo legittimo; e non sarebbe una sola, ma molte, e ciascuna diversa, da Stato e Stato; e tutte cercherebbero di giustificarsi; come i governi di Aureliano, di Diocleziano e di Costantino, aggrappandosi ai ricordi più vecchi del passato o alle speranze più immature dell’avvenire; e sarebbero necessariamente trascinate a farsi la guerra fra loro. La pace non può in Europa mantenersi che fra governi legittimi. Quale sarebbe il destino della civiltà europea, come potrebbero sussistere le genti che si affollano nel continente, in mezzo a tanto disordine e a tanta insicurezza, è difficile a dire.
Non è detto però che ciò debba accadere. Non ostante le mille difficoltà che rendono ardua l’impresa, i maggiori Stati europei potranno governarsi con gli istituti del regime rappresentativo, se le classi governanti capiranno che gli sforzi e i sacrifici necessari per adattare ai tempi nuovi le vecchie forme, sono piccola cosa [188] a confronto dei danni, di cui il regime della forza sarebbe cagione a tutti. Dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Germania sembra dipendere l’avvenire dell’Europa. Se questi tre Stati non rinnegheranno le tradizioni e i principii del regime rappresentativo, ma sapranno ringiovanirne le istituzioni, il loro esempio si imporrà e tutta l’Europa potrà ritrovare l’ordine interno e la pace nella saldezza di governi universalmente riconosciuti come legittimi. Se anche questi governi cedessero alle forze del disordine, che li travaglia, un’èra di lunghi torbidi comincerebbe, di cui tutta la civiltà occidentale avrebbe certo a soffrire.
L’ora, è per l’Europa, piena di pericoli. Possa l’antica storia, che qui abbiamo narrata imparzialmente, illuminare anche da noi gli spiriti eletti, far loro vedere questi pericoli, armare la loro volontà della chiaroveggenza che è necessaria, per combatterli con intelligente fermezza.
[189]
Prefazione | Pag. 5 | |
I. | Le cause profonde | 7 |
II. | La crisi del terzo secolo | 41 |
III. | Diocleziano e la riforma dell’Impero | 75 |
IV. | Costantino e il trionfo del Cristianesimo | 111 |
V. | Dal terzo al ventesimo secolo | 163 |
1. Questo carattere mezzo arcaico, mezzo rivoluzionario, della riforma politico-religiosa di Diocleziano è stato acutamente illustrato da G. Costa, Religione e politica nell’impero romano, Bocca, Torino, 1923, N. 183 sg.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.