The Project Gutenberg eBook of Lodovico il Moro

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Title: Lodovico il Moro

o Condizioni, usi, costumi, singolarità e memorabili avvenimenti di Milano sulla fine del secolo XV. Romanzo storico

Author: Giovanni Campiglio

Release date: August 14, 2023 [eBook #71403]

Language: Italian

Original publication: Milano: Gaspare Truffi, 1837

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This transcription was produced from images generously made available by Bayerische Staatsbibliothek / Bavarian State Library.)

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LODOVICO IL MORO


LODOVICO
IL MORO

O

CONDIZIONI USI COSTUMI SINGOLARITA E MEMORABILI AVVENIMENTI DI MILANO SULLA FINE DEL SECOLO XV.

ROMANZO STORICO

DI

GIOVANNI CAMPIGLIO

AUTORE
DELLA STORIA GENERALE D’ITALIA

MILANO
PER GASPARE TRUFFI
MDCCCXXXVII


INDICE


[iii]

Lettore

Vari anni sono io diedi in luce alcuni romanzi storici; ma sebbene già in essi mi ingegnassi di dare a questo genere di componimenti la legge severa di rispettare non falsandola la storia, tuttavia debbo confessare che troppo imperfetti più o meno riuscirono in varie parti que’ miei lavori; che io forse riprodurrò in avvenire meglio raffazzonati, per ora limitandomi a ringraziare il Pubblico [iv] della indulgenza che verso di essi ha dimostrata.

Questo nuovo mio componimento di egual genere venne da me con maggior studio lavorato; e spero quindi possa meglio meritare l’attenzione degli Italiani, a cui presenta al vivo un tempo assai memorabile. Se io pinsi con fedel pennello lo stato di Milano sul terminare del secolo XV; se ritrassi le glorie non meno che le colpe di quell’età notevole; se spiegai con grandi tratti il carattere di quel Lodovico il Moro tanto celebre e tanto poco a tutta prima comprensibile; e se, ciò facendo, composi un libro che istruisce allettando, e diedi al genere di componimento che trattai un’importanza maggiore che non ne abbia in generale; avrò raggiunto appieno lo scopo che mi sono proposto.

[1]

Capo I. PRELIMINARI STORICI

Nel 1476, il giorno di santo Stefano, era stato ucciso Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano: i congiurati, Giovanni Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati, e Carlo Visconti, credettero far cosa meritoria nel levare dal mondo quel principe, cui contaminava una sfrenata libidine, e talora esecrabile crudeltà: ma il popolo milanese non odiava al par di essi il suo signore; perchè egli allettava la [2] plebe colle pompe, profondea tesori, mostravasi affabile tutti ammettendo alla sua presenza coloro che a lui per alcun motivo ricorrevano, e come buon parlatore li rimandava soddisfatti. E veramente questo duca, colla sua manìa di grandeggiare, avea contribuito non poco durante il suo dominio ad ingentilire i costumi; non già per lo sfoggio straordinario degli abiti che videsi nella sua corte, e per le pompe inaudite che egli mise in uso; ma perchè, seguendo l’esempio del padre suo Francesco, favorì le lettere, promosse l’arte tipografica allora recentissima, e fu egli stesso scrittore; diè incremento alla musica ch’ei sommamente amava, tenendo trenta cantori oltramontani al proprio servizio; e, della pittura pure dilettandosi, diè lavoro al pennello di molti artisti, specialmente ne’ suoi castelli di Milano e di Pavia; finalmente la città di Milano fu da lui molto abbellita, ed anche tutta di nuovo lastricata nel 1470.

Alla sua morte, egli lasciava varii figli naturali, ed alcuni legittimi: fra questi Gian-Galeazzo gli succedeva; fanciullo ancora, e sotto la tutela di Bona di Savoia sua madre: donna di carattere dolce e soave dotata, ed anche di bastante saggezza; ma che [3] ebbe avversi i tempi; poichè l’ambizione de’ suoi cognati, e particolarmente di Lodovico il Moro, ben presto la travagliò; onde, ad essa cedendo, sacrificato agli odii loro il calunniato di lei fedele ed avveduto ministro Simonetta, non tardò a dover dimettersi dalla tutela e dalla reggenza in favore di Lodovico allora duca di Bari; il quale ostentando una rara saggezza, mentre si acquistava gli encomj generali, mirava in suo cuore a salir più alto che potesse; tanto che, come gli parve fattibile, pensò anche ad usurpare la sovranità.

Fu nel 1480 che Lodovico Duca di Bari giunse allo scopo che dapprima si prefisse la sua ambizione; cioè al conseguimento della tutela del giovinetto nipote, e della reggenza dello stato. Il modo con che egli governò lo renderebbe meritevole di una gloria immortale, se fini meno retti non avessero contaminate le sue azioni: egli si cinse degli uomini più dotti della età sua, de’ più distinti artisti; alzò magnifici monumenti, quali pel decoro della città, quali pel pubblico servizio; Milano proclamò lui suo novello fondatore; la poesia, la musica, la pittura, la scultura, come l’architettura, fecero gran progressi, [4] ajutate dal suo potente favore; gli studi più gravi non mancarono di onorare la sua età, e di riconoscere in lui un caloroso protettore: e il tempo di Lodovico il Moro fu veramente il secolo di Pericle per Milano: onde merita che noi qui ne facciamo un po’ distintamente parola.

Di già i Visconti aveano dato il bell’esempio di proteggere gli studj; e questi erano in tanta stima allorchè la loro linea si spense, che proclamatasi alla morte di Filippo Maria la repubblica nel 1447, e ricusando Pavia di essere soggetta, si stabilì in Milano una splendida università; sebbene tempi fossero quelli turbatissimi, per la guerra che sostener si dovette contro potenti nemici. Quando poi Francesco Sforza si impadronì del ducato, il bisogno della nuova università cessò: ma non lasciarono di rimanere in Milano buone scuole. Francesco Sforza abbellì questa città con varie fabbriche; e protesse i letterati e i dotti, promovendo la stampa a’ tempi suoi introdotta. Galeazzo Maria in questo seguì le sue tracce, come dicemmo: e Lodovico il Moro, che aspirava a conseguir fama, ed anche se era possibile ad usurpare il potere, si circondò più che mai [5] dello splendore che gli studj e le arti riflettono su un principe loro protettore.

Il castello di Porta Giovia abbattuto poc’anzi, il ducale palazzo, erano stati riedificati da Francesco Sforza; il quale fece eziandio fabbricare il magnifico ospitale di Milano, eccitatovi dalle prediche del beato Bernardino da Feltre e da fra Michele da Carcano, sacri oratori lodati di que’ tempi: architetto di quest’ultimo edifizio, che allora era una delle più belle fabbriche d’Italia, fu Antonio Filerete. Galeazzo Maria Sforza abbellì anch’egli la città; e passato dal ducale palazzo ad abitare nel castello, non poco vi ampliò ed ornò l’abitazione ducale, la quale sembra che non venisse involta già prima nella demolizione che alla morte di Filippo Maria i milanesi fecero di quella fortezza. Ma i vanti di Lodovico sono ben maggiori. La magnifica fabbrica dell’università di Pavia riconobbe lui per suo fondatore; in Milano nel 1489 alzò il Lazzaretto, situato fuori della porta Orientale, per collocarvi gli affetti di peste, edifizio di cui si attribuisce il disegno al Bramante; del quale Bramante sembrano anche la tribuna e cupola di S. Maria delle Grazie, il portico innanzi al tempio [6] di S. Maria di S. Celso, la chiesa di S. Satiro di cui vuolsi che sua almeno fosse la sagrestia: la porta Lodovica ricorda anch’essa il Moro, che la fece aprire per agevolare ai divoti l’ingresso al tempio di S. Celso: ed altre fabbriche erano pure allora state innalzate: mentre il cardinale Ascanio suo fratello, imitandolo, erigeva a sue spese nel 1492 il bel claustro di S. Ambrogio, disegnato dal Bramante, del quale chiostro fece dono alla congregazione cistercense; come l’arcivescovo Antonio Arcimboldo alzar fece il palazzo arcivescovile. L’architettura e la scultura, che ancora tenevano della antica rozzezza, vantarono allora progressi mirabili. Lodovico, per perfezionarle, avea fondato in Milano un’Accademia, della quale erano stelle Leonardo da Vinci e Bartolommeo Soardi detto Bramante da Milano.

Della corte di Lodovico, un poeta di quei tempi diceva:

Quivi è il Sol di Parnaso, il Monte santo;

E come l’ape al mel viene ogni dotto.

Nessuno infatti allora tanto quanto il Moro proteggeva i belli ingegni di qualunque sorta [7] essi si fossero; incoraggiandoli con stipendj, o largizioni e ricompense. Milano deve a lui il risorgimento e la perfezione delle lettere e delle arti. Faceano corona a questo principe Lucca Paciolo dell’ordine de’ minori, versatissimo nell’aritmetica, algebra e geometria; Demetrio Calcondila ateniese, professore di lingua greca; Giorgio Merlani, detto Merula, scrittore di antichità; Alessandro Minuziano, valente nelle cose storiche e nell’arte oratoria di cui fu professore, e tipografo rinomato; Gabriele Pirovano milanese, medico ed astrologo, giacchè era in credito presso Lodovico l’astrologia, sprezzata da Francesco Sforza suo padre; Franchino Gaffurio lodigiano, dottissimo nella teorica della musica; e molti altri, fra i quali Corio, Tristano Calchi, e Donato Bossi, storici di bella fama, de’ quali almeno i due primi erano al suo soldo. Varj de’ professori ora nominati davano lezioni, per commissione di Lodovico, pubblicamente: Vinci insegnò la pittura; Bramante l’architettura; Paciolo la matematica; Gaffurio la musica; ed ogni scienza ebbe un professore. Un teatro fu anche aperto, perchè si gustassero le produzioni drammatiche, che allora cominciavano a farsi più ordinate. Esempio [8] fruttuoso fu poi una tanta munificenza verso i dotti; perchè anche i privati lo seguirono; onde Bartolommeo Calchi, un Grassi, un Piatti, pure fondarono a proprie spese alcune scuole.

Lodovico, cintosi di tanti uomini egregi, godeva di vederli adunati nella propria corte per dare a vicenda prove d’ingegno ed incoraggiarsi l’un l’altro negli studj. «Minerva, dice il Corio, procacciava a tutto potere di onorare la sua gentile accademia; giacchè uomini dottissimi avea da ogni parte di Europa tratti il Moro. Quivi nel greco, nel latino, persone versate; poeti, scultori, pittori; ed insomma moltissimi uomini singolari vi erano stipendiati largamente». Così; mentre artisti e scienziati decoravano per merito del principe la ricca Milano, varj poeti la rallegravano co’ loro carmi amorosi; fra i quali Gaspare Visconti, consigliere ducale, e il fiorentino Bernardo Bellincioni: e i giovani delle più cospicue famiglie distinguevansi ne’ cavallereschi esercizj, che trovavano luogo presso la corte splendida degli Sforza. Lodovico poi, uomo grave e di modi dignitosi, coltivava egli medesimo le lettere; come le coltivò anche il Duca suo pupillo, di carattere però timido, [9] e degli affari poco curante. Lodovico non lasciava passar giorno senza dare qualche tempo agli studj, come ce ne assicura Filippo Beroaldo; e particolarmente amava udire qualche tratto degli storici antichi. Egli era cogli eruditi assai cortese, e pronto sempre ad onorarli. Nell’esercizio di sì munifica protezione verso i belli ingegni gli erano poi di ajuto i suoi ministri Bartolommeo Calchi e Jacopo Antiquario, illustri presso i letterati di quella età per l’Italia gloriosa.

È facile concepire quanto stimasse giovargli la fama di uomo sapiente, se riflettasi che spesso Lodovico diceva, che non di rado la penna vale più che la spada. Lodovico aspirava niente meno che a figurare come l’uomo più saggio dell’Italia, quello più che altri capace per la sua prudenza di sublimarla e renderla felice. Procede da questa pretensione, invero nobile e generosa, la scelta ch’egli fece del proprio stemma; consistente nell’albero moro, che Plinio ci fa sapere essere simbolo della prudenza, perchè tal pianta tardi fiorisce onde non incorre ne’ danni del gelo, e subito matura i proprj frutti. Il grido di Moro Moro era quindi divenuto un grido di entusiasmo presso molta parte del popolo milanese; [10] e già Lodovico si pensava aver omai raggiunta l’ardua sua meta. Avea egli fatto dipingere, nei Castello Giovio ove abitava, l’Italia in forma di regina, cinta di una veste d’oro ricamata a ritratti di città: dinanzi stavale uno scudiere moro con una scopetta. Un ambasciator fiorentino chiese, che cosa facesse lo scudiero; — la pulisce di ogni bruttura, rispose il Moro. — Il fiorentino replicò, che in tal caso correa rischio di lordarsi egli stesso: e veramente fu profetico il suo detto.

Mentre sul Moro riflettevasi tutto lo splendore del trono; il Duca di lui nipote perdeva di giorno in giorno del suo potere, senza avvedersene. Quel giovinetto, era stato educato, piuttosto che come principe, come distinto privato: inetto per gli affari, delle cose dello stato non partecipava che agli onori, del suo grado non conosceva che i sollazzi. Timido di carattere, coltivava con qualche successo le lettere. Mattia Triviano, uomo assai erudito, fu suo istitutore; e suo maestro fu Bartolommeo Petroni di Cremona, che lo era stato anche di suo padre. Coltivava il giovinetto particolarmente la poesia volgare, nella quale agevole eragli e grato l’esercitarsi; conversando con tanti poeti allora rinomati, fra [11] i quali, oltre quelli che già nominammo, erano Serafino Aquilano, Filoteo Achillini, Benedetto da Cigoli, Vincenzo Calmeta, il Cornazzano, ed altri. Trovansi varie sue poesie nelle rime del Bellincioni: egli, come lo zio, amava i letterati e gli proteggeva.

L’amore non era solo allora il grand’oggetto dei poetici componimenti, ad imitazione del Petrarca; ma era eziandio la passione predominante fra i favoriti della fortuna: tanto più che la corruzione, allora rapidamente cresciuta, ne agevolava la strada. Le leggi erano severissime nel punire tutti gli attentati contro il pudore; e l’adulterio, il ratto, eran puniti di morte; di grave multa tassavasi la donna che si lasciasse sedurre ancora non essendo maritata: ma la gravezza stessa delle pene le rendeva nulle; perchè l’accusa non potea portarsi che dai prossimi parenti, onde quasi mai non avea luogo. Per ciò, malgrado che leggi così severe sussistessero, la corruzione era cresciuta. Il Corio dice, che a questi tempi alla scuola di Cupido per ogni parte conveniva la gioventù; che i padri vi concedevano le figliuole, i mariti le mogli, i fratelli le sorelle, e che di tal modo senza alcun riguardo molti concorrevano all’amoroso [12] ballo, «che cosa stupendissima era riputata per qualunque l’intendeva». E infatti in questi tempi moltissimi principi vedonsi cinti di bastardi; e non solo il libidinoso Galeazzo Maria molti ne noverava, ma ancora varj ne lasciò Lodovico il Moro che alla fama di eminente saggezza aspirava. Gaspare Visconti, gentil poeta milanese di quell’età, facendo parlare il carnevale spirante, gli pose in bocca tal consiglio al bel sesso:

Ciascuna il suo amator dunque contenti

Fin ch’avete i crin d’oro e i dolci sguardi;

Acciò di voi alcuna non si penti,

E non vaglia il pentir per esser tardi, ec.

Quest’era la dottrina più accetta nei circoli galanti di quel tempo: nè è quindi a maravigliare se il giovinetto principe Gian-Galeazzo, dallo zio espressamente nella mollezza e ne’ sollazzi educato, di buon’ora si manifestasse assai dedito ai voluttuosi piaceri; tanto che poi molti a conseguenze della sua stemperatezza in questi attribuirono la sua morte.

[13]

Capo II. LE NOZZE

Era presso a spirare l’anno 1488 quando Lodovico il Moro, che già nel 1487 avea dato un segno poco equivoco di ambizione disponendo, non si sa sotto qual pretesto, del castello di Pavia e dandolo a sue creature; Lodovico, io dico, sapendo che Alfonso duca di Calabria nutriva forti sospetti intorno alle sue intenzioni; per mostrare queste leali e favorevoli al duca suo nipote e pupillo, pensava effettuare il [14] matrimonio di lui con Isabella figlia di esso Duca di Calabria; matrimonio già concertato da molti anni, quando gli sposi erano ancora fanciulli e tuttavia viveva il padre di Gian-Galeazzo. In questa circostanza poi Lodovico pensava a dare un chiaro segno della alta considerazione che egli nutriva per la corte di Napoli, festeggiando in modo veramente regale la giovinetta sposa.

Per condurla a Milano furono spediti Ermes Sforza, fratello del Duca, e Gian-Francesco Sanseverino conte di Caiazzo; e questi erano accompagnati da trenta giovani della più scelta nobiltà di Milano. Già assai riccamente usavasi vestire dai nobili nella città nostra, che allora era oltre ogni modo fiorente; ma in quest’occasione lo sfoggio passò ogni misura: e fuvvi chi ne’ braccialetti spese sette mila fiorini d’oro; mentre le vesti furono, per alcuni, di drappi d’oro o d’argento, come stati fossero re; e per gli altri, almeno di drappi di raso e velluto, ma per lo più con ricchi ricami ed ornamenti; portando poi tutti al collo e giù sul petto ricchissime e grosse catene d’oro, ed avendo ciascuno da dieci a sedici servi vestiti di vesti seriche ed anche con preziose armille al braccio sinistro, siccome era [15] allora in uso. Questa scelta schiera di nobili coi loro seguaci, che in tutto si componeva di meglio che quattrocento persone, si poneva in viaggio nel mese di dicembre, e recavasi a Genova; onde poi passare a Napoli per la via del mare. Essi ovunque erano ammirati; e veramente facevano di sè bella mostra, perchè Corio dice, che sembravano tanti principi: ma più bella ancora fatta l’avrebbero se in quel frattempo non fosse morta Ippolita madre della sposa; per cui, tranne che nelle occasioni più solenni, tutta quanta quella brigata vestiva il cupo colore del lutto.

In gennaio del 1489 aveano luogo in Napoli gli sponsali; e allora particolarmente brillò la scelta schiera de’ nobili milanesi. La morte di Ippolita però fu cagione che le nozze non si celebrassero in Napoli con pompe clamorose; chè male colà sarebbero convenute al duolo verace in cui tutta la corte era immersa. Ippolita infatti, figlia di Francesco Sforza, si era fatta stimare come persona molto istrutta e saggia; ed aveva essa stessa educata la figliuola, stringendo così vieppiù il laccio naturale che ad essa la legava. Adunque la recente sua morte rendeva impossibile ad Isabella e al di lei padre prender parte [16] in una gioia romorosa. Come tutto ciò che avea a farsi poi fu compiuto, e come furono in ordine le persone destinate ad accompagnare la sposa; le quali, compresi i donzelli e valletti, furono più che quattrocento, fra cui quattro nobilissimi personaggi dei quali uno era il Duca di Amalfi; quando tutto fu pronto, si diedero le vele ai venti; e lieti e regalati lasciarono la bella Napoli, per recarsi a Genova, e di là a Milano che impazientemente li attendeva.

Siccome il viaggio per mare però recava dell’incomodo alla giovinetta sposa, così non si lasciò di prender terra in più luoghi; ed ovunque essa mostrossi, venne con liete accoglienze festeggiata. Essa fe’ posa per breve tempo a Gaeta, a Civitavecchia, a Porto Ercole, a Livorno. In Livorno venne a incontrarla Lorenzo de’ Medici, con onorevole seguito, e la festeggiò. Passata a Portovenere, poi a Portodelfino, di là giunse finalmente a Genova; ove ebbe termine quel penoso viaggio di mare, per riposar dal quale ella dovette in questa città soffermarsi varj giorni. Genova allora dipendeva dal Duca di Milano; onde con grande tripudio vi fu la sposa accolta a suono di trombe e campane, ed a spari di [17] schioppi e bombarde. Immensa era la moltitudine che accalcavasi per ammirare la bella aragonese; i magistrati e la nobiltà facevano a gara a complimentarla: le fu presentato un ricco vaso d’oro; ed allorchè partì, anche sui monti fu salutata con spari di bombarde.

Posto piede sulle terre del Ducato, avvicinandosi a Tortona, la sposa venne incontrata dallo sposo, da Lodovico suo zio, e da vari primarii cittadini, non che da tutti i magistrati della città. In questa entrando, trovò le vie tutte ornate di rami di alberi verdeggianti, di statue posticce, ed altri simili ornamenti. Era destinato per albergarla il palazzo di Bergonzio Botta: sulla soglia di questo una statua equestre, che rappresentava un moro armato, per celato ordigno al suo passaggio le cavava il cappello e la salutava; mentre un fanciullo in essa nascosto, che operava tai movimenti, cantò de’ versi, che non furono ascoltati perchè la pioggia allora messa sì forzò gli sposi a non badare al giovinetto cantore.

Del resto il nobile cittadino tortonese che nella propria casa accoglieva i suoi sovrani nulla avea ommesso per fare che degno di loro riescisse e l’alloggio e il trattamento. Tutto [18] l’interno del suo palazzo era stato addobbato di ricchi parati e tappeti: tutto ivi respirava un lusso veramente regale; e la cena che alla illustre coppia fu imbandita venne rammentata dagli storici per la sua sontuosità. Infatti, per tacere del numero grande e della quantità delle vivande, basti il dire, che tutte erano portate in tavola da finti personaggi della mitologia; i quali recitavano complimenti poetici, manierati un po’ sì ma graziosi, alla sposa: e dopo la cena que’ personaggi diedero alla duchessa uno spettacolo allusivo alle fauste sue nozze.

Il giorno appresso gli sposi passarono a Vigevano, ove pure vennero festosamente accolti. Il Duca poi recavasi in fretta a Milano, per ricevere solennemente Isabella; la quale dal canto suo si portava ad Abiategrasso. In quel castello, residenza favorita di molti dei nostri principi, la festeggiavano la duchessa vedova Bona con un scelto corteggio di donne e donzelle milanesi. Da Abiategrasso poi si fece il solenne ingresso in Milano; venendovi su barche regalmente addobbate, che lentamente solcarono le acque del Naviglio che da Abiategrasso conduceva fino al Castello di Porta Giovia, principale fra le fortificazioni [19] della capitale del ducato. Bona e le sue figlie già l’aveano preceduta il giorno innanzi.

Ecco con qual ordine effettuossi il solenne ingresso dell’aragonese principessa in Milano, il giorno 10 di febbraio. Partita che essa fu da Abiategrasso, le venivano incontro Bianca ed Anna, sorelle del duca, con uno stuolo scelto di milanesi matrone; di poi veniva Lodovico Sforza, reggente dello stato, con varj grandi del ducato. Il Duca recossi a ricevere la sposa a capo del Naviglio, cinto dalle guardie addette alla sua persona; e quanto avea di più distinto la città di Milano qui si recava per festeggiare la giovine duchessa. Lo sfoggio negli abiti era grande; i collegi dei medici e de’ giureconsulti vi erano con abiti di porpora; nessuno era che non avesse almeno vesti seriche; molti ostentavano ornamenti di oro, molti d’argento: i ricchi monili erano assai frequenti. Giunte le navi a toccar terra, scendevano prima le matrone milanesi, poi la sposa, tenuta per mano dal Duca; e tutti al Castello si avviavano, fra il clangor delle trombe ed il fragore delle artiglierie che da tutte le mura del Castello scaricavansi.

[20]

Il Castello di Porta Giovia poi, al quale Isabella perveniva, ed ove solevano abitare i duchi di Milano in questi tempi, era tutto festosamente ornato; per corrispondere all’esultanza che in tutti destava quel fausto avvenimento. Non solo l’appartamento ducale era stato qui ampliato, là abbellito, colà di ricchi arredi e tappezzerie fregiato, profondendosi la seta non pure ma l’argento e l’oro; bensì anche tutto il restante del castello era stato festosamente ornato di verdeggianti rami, con archi trionfali, ne’ quali eziandio splendea l’oro, e vedevansi gli stemmi degli Sforza, non che quelli delle città del ducato, ed in uno i ritratti dei duchi. All’entrare di Isabella le artiglierie raddoppiarono i loro colpi, e il tripudio si fece più che mai clamoroso. La principessa aragonese fu accolta sulle scale del palazzo ducale dalla duchessa vedova Bona; colla quale trovavansi, per festeggiarla, molte gravi matrone milanesi. Bona condusse la sposa al di lei appartamento, ed al talamo. Una regale eleganza avea preseduto all’ornamento di quella camera: un padiglione color scarlatto copriva il letto maritale, e un fregio elegante di verdi foglie correva in giro a quel padiglione, e fra [21] quelle foglie erano vezzosi puttini d’argento i quali scherzavano e giocavano in più maniere; e inoltre v’erano quindici leoni formati con pietre preziose, dei quali quattro vedevansi negli angoli, ed uno nel mezzo di ciascuno de’ tre scompartimenti.

Il dì seguente poi i due sposi recavansi in Duomo cioè nella cattedrale, per rinovarvi la cerimonia delle nozze. Fu allora che Isabella potè appieno vedere quale ricca e popolosa città fosse a que’ dì Milano. Tutta quanta la strada che dal Castello conduceva alla piazza del Duomo era coperta da strati di lana; e fu veramente allora tenuta qual mirabil cosa che tanta copia di drappi si trovasse per tale oggetto: parati di varie sorta e rami d’alberi verdeggianti ornavano le porte e le finestre, affollate di persone, spesso sfarzosamente vestite: ma soprattutto la ricchezza della città appariva dal corteggio che accompagnava i principi. Verso il mezzogiorno uscivano gli sposi dal Castello; mentre ovunque una folla di popolo accalcavasi ove passar dovevano, e loro era venuto incontro il clero. Uscivano dalla rôcca prima i magistrati, in grande numero; i grandi dello stato erano con questi; indi veniva il Duca, colla sposa [22] alla sinistra: tutti a cavallo. Ogni sguardo a sè attirava la sposa, la quale era ornata di una veste aurea alquanto aperta sul petto: la sua bellezza era da tutti notata; tutti ammiravano il di lei matronale ad un tempo e verginale contegno; e l’alterezza del padre suo in lei traspirava, non meno che la modestia del suo sesso. I suoi occhi grandi e pieni di fuoco, l’aria un po’ imperiosa del suo volto, il vivace colorito, il crine che in trecce tutte coperte di gemme giù per gli omeri le scendeva, la persona di statura mediocre sì ma agile e leggiadra; tutto rendeva quella giovine principessa oggetto dell’ammirazione comune e simpatìa. Ma anche il Duca, coperto di abito ricchissimo per drappo d’oro e ricami preziosi, facea bella mostra di sè; giacchè, giovane di vent’anni, di bella statura e di leggiadre forme, ne’ lineamenti del volto mostrava la bontà di cui era fornito e la dolcezza del suo carattere; e parea ben degno di essere compagno ad una principessa tanto nobile ed avvenente. Il conte Giovanni Borromeo e Gian-Francesco Pelavicini, primari vassalli dello stato, stavano alle staffe dei principi, e procedendo a piedi facevansi notare per la bella persona e per la loro aurea [23] toga. Sopra il capo de’ principi un baldacchino candido era sostenuto per mezzo di aste inargentate dai medici alternativamente e dai giureconsulti, vestiti di toghe purpuree orlate di preziose pellicce; abito usato solamente nelle più solenni occasioni. Dopo la sposa poi venivano Bianca ed Anna, sorelle di Gian-Galeazzo; quindi la moglie del Duca di Amalfi e quelle di altri principi napoletani; poi molte matrone milanesi; corteggio femminile in numero di sessanta persone, tutte a cavallo: fra queste, sei erano dal capo a’ piedi vestite di drappo d’oro, e trenta aveano auree tuniche; e distinguevansi particolarmente la figlia e la nuora del Conte Giovanni Borromeo, e perchè bellissime erano e perchè le loro tuniche auree erano mirabilmente ricamate e il petto e le braccia aveano coperte di preziose gemme. Misti fra queste dame poi erano i loro mariti, o padri o fratelli, tutti del pari in abito pomposissimo; giacchè fra essi uomini, che erano in numero assai maggiore che le dame, si contarono centosedici toghe tessute d’oro ed argento, ed alcuni si distinguevano per ricami tempestati di pietre preziose. — Giunta alla contrada degli Orefici, la sposa fu complimentata [24] da un amorino, che apparve sulla strada presso una colonna; alla quale, senza che apparisse, era sospeso: il fanciulletto cantò alcuni versi con molta leggiadria. Ciò piacque a Isabella, ed essa ammirava l’abbondanza della popolazione, il lusso, la ricchezza generale che in ogni cosa appariva; ma allorchè fu giunta alla piazza del duomo, venne assai più colpita alla vista di uno stupendo edifizio posticcio alzato davanti alla porta di quel tempio.

A tale edifizio posticcio conduceva un arco trionfale, e poi una breve strada tutta coperta di rami verdeggianti di ginepro. L’edifizio di cui io parlo era vastissimo, sostenuto da otto colonne, ornato di statue rappresentanti le muse ed altre vergini illustri: le vôlte di esso erano ornate di verdura; colonne minori, amorini dipinti, ed altri varj ornamenti, ne abbellivano l’interno e l’esterno; e mirabile soprattutto era la sua cupola, vastissima, che nulla avea di simile per dimensioni se si eccettui quella del Panteon di Roma e quella ancora che allora ammiravasi nella chiesa di S. Lorenzo a Milano.

All’avvicinarsi della sposa alla piazza, il che fu annunziato non solo dallo strepito [25] de’ cavalli ma ben anche dal suono delle trombe che la accompagnavano; una schiera di nobili donne che tenevasi nel vicino palazzo dell’Arengo era tosto stata fatta passare nel grande edifizio di che parlammo, per accogliere la duchessa e condurla nel tempio. Giungeva la sposa; ammirava il macchinismo alzato per onorarla; riceveva cortesemente e ricambiava i saluti delle nobili matrone che le si faceano incontro; ed entrava di poi nel tempio, ove nuovi oggetti mirabili le si offerivano alla vista. Il grande edifizio infatti della celebre cattedrale di Milano, già per sè stupendo, era stato tutto adornato festosamente di più generi di ornamenti. Un colonnato posticcio di diciassette paia di colonne era stato disposto dalla porta all’altar maggiore, e la lunga volta che le sormontava era tutta ricca di fogliami e di bandiere ducali e regie. Essa poi era qua e là traforata; onde vedeasi anche la parte più eccelsa del gigantesco tempio: ai lati pendevano cerchi e semicerchi di rami verdi, ne’ quali stavano incluse immagini di ninfe e di centauri. A capo del peristilio, si saliva per un tavolato, che leggermente andava montando, fino all’altare: e su un tavolato superiore erano [26] disposti in gran numero argentei vasi preziosi, che per quella solennità vi avea fatti portare Lodovico il Moro.

In duomo si rinnovarono le nuziali cerimonie, alla presenza de’ grandi, feudatarj, legati delle città suddite, nobili di ogni sorta; e con grandissima pompa, onde il Calchi dice, che i sacerdoti sembravano tanti pontefici. I principi sedettero sotto un padiglione d’oro; e intorno al Duca stavano i legati dei principi amici, non che i di lui zii Lodovico e Filippo, ed Ermes suo minor fratello: mentre, di rimpetto, Isabella era circondata dai principi napoletani, dalle sorelle del duca, e dalle principali fra le giovani e matrone nobili milanesi. V’erano anche presenti i due Senati, cioè i membri del Consiglio di Stato e di quello di Giustizia; non che i collegi de’ medici e de’ giureconsulti, che a que’ tempi godevano di grandissima considerazione; come pure il collegio de’ mercanti. L’anello da porsi in dito alla sposa era una maraviglia di que’ tempi; perchè formato di una sola preziosissima gemma traforata. In un discorso tenuto da un vescovo di casa Sanseverina, si lodò la sposa, lo sposo, ma particolarmente Lodovico, che con mirabile [27] sapienza tenea le redini dello stato. Compiuta la sacra cerimonia, a suono di trombe e tibie si tornò, a un dipresso coll’ordine con che si era venuti, al Castello; non senza aver prima il Duca, come era uso allora in simili circostanze, creati due cavalieri; che furono un ambasciator de’ fiorentini, e Bartolommeo Calchi suo primo segretario, cui, fattili vestire di aurea toga con sproni dorati, cinse della spada e dei balteo cavalleresco.

Così clamorosamente fu festeggiato in Milano l’arrivo di Isabella; la quale fra quelle pompe veramente regali si ripromise la felicità; ben lontana dall’immaginare che questa continuamente sarebbe andata dileguandosele dinanzi.

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Capo III. ALTRE ALLEGREZZE

Ne’ sei giorni che tennero dietro a quello che ora abbiamo descritto, nel quale rinovaronsi le nuziali cerimonie di Isabella, si continuò in più modi a festeggiare questa giovane principessa. Canti, suoni, rappresentazioni mimiche, doni che le si presentarono per parte delle città suddite e per parte di principi e re amici, ed anche de’ grandi del ducato sia feudatari sia semplici nobili, banchetti [29] sontuosi, giuochi stupendi; tutte queste cose concorsero a far gustare alla illustre sposa ne’ primi giorni della sua luna di mele de’ piaceri vivi che la inebbriavano. Cavalcando per Milano, essa ebbe anche campo a vedere minutamente questa città superba; che allora passava, si può dire, per la prima nell’Italia, e fuori pure avea ben poche competitrici nell’Europa. Scorsi al fine questi primi giorni di continua romorosa festa, Isabella collo sposo passò a Pavia: e colà, scelti a restar presso di lei sessanta ministri fra garzoni ed ancelle, gli altri congedaronsi; dopo aver fatto dono a cinque delle primarie matrone di auree vesti, ed ordinato che tutte fossero spesate fino al loro imbarcarsi a Genova le persone che a Napoli faceano ritorno.

Qualche storico dice che Lodovico il Moro quando ebbe veduta Isabella, si sentì preso d’amore per tanta beltà. Ciò può essere, poichè si sa che il Duca di Bari era esso pure dedito alla galanteria, ed avea avute particolarmente due amiche rinomate per vezzi e per spirito, che furono celebrate da poeti di quell’età. Quel che è certo però si è, che da principio nulla Lodovico tralasciò per onorare e ricreare Isabella; la quale dal canto [30] suo, sebbene dal proprio padre avvezzata a riguardar il Moro con occhio sospettoso, non poteva però non sentire del rispetto per lui, che tanto la floridezza avea saputo promovere del ducato. Infatti, sebbene la pestilenza avesse nel 1486 spente in Milano, dicono, cinquantamila persone, pure per la beata condizione del paese la popolazione vi era ancora numerosissima; alimentata dal fertile suo territorio, e dai prodotti ragguardevolissimi delle manifatture e di un commercio oltre modo attivo. E quanto al commercio, è certo che nei primi anni del governo di Filippo Maria Visconti, fra gli stati del duca e Venezia, mettevansi in giro pressochè tre milioni di ducati ogni anno: ma in ogni cosa poi giammai più prospera fu la città nostra del tempo in cui ne ebbe il governo il Duca di Bari. Molte case nobili allora si erano grandemente arricchite col traffico, come aveano fatto fra gli altri i Borromei; la manifattura delle armi era oltremodo accreditata; si tessevano moltissimi panni, e drappi di seta. La popolazione poi era tanta, che le produzioni del territorio mal bastavano a nutrirla; ed alcuni calcolano che in Milano fossero circa trecentomila uomini, considerando che il Biglia dice, che la [31] città potea porre sotto le armi trentamila persone. L’agiatezza ovunque si manifestava con novelle fabbriche; sebbene tuttavia non molto si conoscesse il lusso de’ grandi palazzi, che però andavasi introducendo: e l’amore che manifestavasi in tutto pei modelli antichi, faceva che anche l’architettura abbandonasse le forme gotiche, per avvicinarsi a quelle dei greci e de’ romani; e Milano già presentava un miscuglio di due generi di fabbriche, perocchè fra le maestose e gravi ma talora tetre case gotiche di cui in generale si componeva, vedevansi sparse altre che annunziavano che il gusto di tempi più antichi e più colti si cominciava ad apprezzar meglio ed avrebbe col lungo andare trionfato. Tuttavia nell’ordine gotico allora era ancora il maggior numero de’ palazzi; dei quali ora non ne resta omai se non se qua e là qualche scarso vestigio. Pertanto tutto indicava che Milano era città floridissima: un gran numero di banchieri, mercatanti, artisti, le arrecavano splendore, ed in ciò alcuni la stimavano la prima d’Europa: copiosa era la varietà de’ mestieri che in essa si esercitavano; nè altrove era maggiore il numero degli artigiani, i quali anche aveano fama per genio inventivo e per l’eccellenza [32] con che esercitavano le proprie arti. Tutto insomma comprovava il proverbio italiano, che per dinotare una ricchezza inestimabile diceva, ricco quanto Milano. Lodovico poi avea in molti modi abbellita questa città; vi avea alzate fabbriche sontuose; nè del tutto mendace era il titolo con che veniva onorato, chiamandosi il suo nuovo edificatore.

Io non so se alla simpatia di Lodovico per Isabella o solo ad oggetto di renderla indifferente intorno alle sue usurpazioni di potere, si dovessero le feste con che egli si ingegnava tener divertita la giovine duchessa. Certo si è, che non le mancarono sulle prime brillanti trattenimenti; e che di uno ci fu anche conservata distinta memoria. Leonardo da Vinci, che deve aver presa non piccola parte nell’immaginare i macchinismi con che onorossi la duchessa al suo arrivo in Milano, fu, essendo eccellente meccanico, l’autore eziandio del congegno con cui alcun tempo dopo la si festeggiò. Tale macchina chiamossi Paradiso, ed era un grande emisfero, con molte lampade sospesevi, e sette fanciulli; così si rappresentavano i movimenti delle stelle e de’ pianeti: ed i fanciulli, [33] che raggiavano quasi genii di ciascun pianeta, a misura che girando la macchina avvicinavansi agli augusti sposi, cantavano versi in lode della duchessa, i quali erano stati espressamente composti dal Bellincioni.

Pare però che ben presto l’avversione contro il Moro in Isabella si manifestasse, vedendo che il marito era affatto allontanato dagli affari e solo godeva degli onori della sua dignità. Infatti Lodovico di ciò dovette informare il Duca di Ferrara; la cui figlia già da anni gli era stata promessa in isposa, e di cui ora, cresciuta in età opportuna, si pensava effettuare il matrimonio. Infatti dice il Corio, che il suo futuro genero e la sua promessa sposa animavano Lodovico ad usurpare quel governo di cui egli, ora che il duca suo pupillo era omai vicino ad uscir di tutela, si credeva alla vigilia di essere spogliato. Lodovico il Moro era timido di carattere: egli sapeva che, malgrado il suo buon governo, tuttavia non gli erano ancora troppo affezionati molti potenti cittadini. Infatti, benchè tutti confessar dovessero i rari meriti di lui, e la plebe lo festeggiasse, come dicemmo, al suo comparire col grido di Moro, Moro, che spesso risuonava per la città; [34] pure i due partiti Guelfo e Ghibellino di lui non erano molto soddisfatti, perchè ciascuno credeva di non essere abbastanza favorito; il che veramente a novella lode tornava di quel reggente, che mirava a trattare tutti in modo indistinto i cittadini. Nel 1484 varj Guelfi aveano congiurato contro di lui; perchè, a parer loro, trascurava soverchiamente la loro fazione, che era quella degli Sforza: il sicario che dovea spegnerlo, preso, fu decapitato e fatto in quarti, che vennero posti alle porte della città a terrore de’ macchinatori; mentre gli altri congiurati salvaronsi colla fuga. Ma se i Guelfi non erano soddisfatti; malcontenti pure erano i Ghibellini, perchè, sebbene favoriti dal Moro, erano per altro stati non poco frenati nelle loro strabocchevoli pretese.

Temendo adunque il Duca di Bari di perdere quando che fosse la propria autorità, e desiderando di conservarla, andava in più modi facendosi gagliardi amici, e rimovendo dal potere le persone che a sè avverse sospettava, per sostituirvene altre che a lui devote fossero appunto perchè tutta a lui dovessero la propria fortuna. Per ciò in quest’anno, sotto varj pretesti, egli rimoveva [35] i castellani di Milano, di Trezzo, e di altri luoghi; per sostituirvi de’ suoi creati. Il castellano del castello di Milano, Filippo Eustacchio, fu anche imprigionato, per accusa di aver ordita una trama, che i più credettero supposta; e quel castello fu poi affidato a Bernardino Curti famigliare e già stato paggio del Duca di Bari, costituendolo prefetto, e creando capitano il di lui fratello Giacomo. Innoltre in questo torno Lodovico stringeva legami colla possente famiglia de’ Sanseverini, concedendo Bianca sua figlia naturale in moglie a Galeazzo Sanseverino, giovane di spiriti animosi e che in molte solenni giostre avea ottenuti i primi onori. In quella famosa che i Veneziani diedero nel 1484 per festeggiare la pace allora conseguita, egli con un suo fratello, figli del celebre Roberto Sanseverino, aveano riportato il premio consistente in un drappo d’oro e uno d’argento, ed aveano ricevuti non pochi onori da quel Senato. Piacque a Lodovico così amicarsi i tre fratelli Sanseverini, perchè due di essi, Galeazzo e il Conte di Caiazzo, aveano nome di buoni capitani; il terzo, Fracasso, era chiaro per valore personale, tanto che chiamato era il novello [36] Achille. Il loro padre, è vero, da una bastarda della casa Sanseverina era nato; ma allora poca differenza in Italia, per testimonianza di Comines e come dimostrano mille fatti, faceasi fra i figli naturali ed i legittimi.

Le nozze di Lodovico con Beatrice figlia di Ercole duca di Ferrara ebbero luogo al principio del 1491. Le feste che si fecero in quell’occasione furono, è vero, d’assai minori a quelle fatte per le nozze del Duca di Milano; ma tuttavia annunziarono la potenza di Lodovico, ed il suo grande credito presso il nipote. Con grandissimo corteggio fu condotta a Milano la sposa; le si preparò nel Castello un appartamento ricchissimamente addobbato; si costrusse una nuova gran sala per di lei uso, la quale, dipinta da eccellenti pittori, superiormente era rivestita di panno color di cielo con stelle d’oro. Ad incontrare la principessa estense recavasi cavalcando fin fuori della città la duchessa Isabella, che fermossi nella chiesa di S. Eustorgio; e colla duchessa erano molte matrone e fanciulle della più scelta milanese nobiltà, tutte adorne di sontuosi abiti, e tutte pure a cavallo: giunta la sposa a S. Eustorgio, dopo le più amichevoli accoglienze, fu condotta ad una [37] lauta colazione: ad essa venivano allora incontro, preceduti da gran corteo di persone a cavallo, molti insigni personaggi; v’erano gli ambasciatori di varj principi stranieri, e i legati delle città del ducato; fra gli oratori napoletano e veneziano, e alcuni vescovi ed altri grandi, veniva il Duca; e quindi Lodovico il Moro, che dopo aver ricevuto la sposa a Pavia era volato a Milano per concertare questo solenne ingresso: Lodovico era cinto di veste aurea, e stava in mezzo de’ fratelli Sanseverini: venivano dipoi i due Senati, i magistrati civici, e quindi una folla di cittadini accorsi a godere di quello spettacolo. Quando questa numerosa e splendida comitiva fu giunta colà ove la sposa si trovava, seguivano i vicendevoli saluti; di poi posti gli ospiti alla destra de’ milanesi si avviò nella città, al suono di trombe numerose. Alle porte della città incontraronsi i medici e i giureconsulti di Milano, vestiti delle loro toghe vermiglie e scarlatte e formanti una sola schiera: nella contrada degli Armaiuoli tutte le botteghe si trovarono tappezzate di bellissime armature, rappresentanti anche uomini coperti di ferro, qui a piedi, là a cavallo. Giunta nel [38] Castello poi, la sposa vi era accolta da Bona madre del Duca e dalle di lui sorelle circondate da altre matrone e nobili donzelle. Nei due dì seguenti furono alla sposa presentati varj regali dai primarj personaggi dello stato. La cerimonia nuziale però ebbe luogo nella cappella privata del principe, come che addobbata con pompa regale.

Ma altre feste seguivano: nella gran sala espressamente costrutta si diede un trattenimento di ballo; e tre palchi ivi erano eretti, uno coperto da padiglioni messi a oro ed argento, destinato pei principi; un altro per mettervi in bella mostra i vasi e le argenterie stupende di Lodovico; il terzo pei suonatori, ed era nel mezzo. I principi sfoggiarono vesti oltre modo sontuose, e smaniglie e collane di gemme di grandissimo prezzo: de’ loro ornamenti il minore era il drappo d’oro. Le principesse poi aveano tutte abiti a foggia spagnola, cioè alquanto aperti sul petto; cosa che prima d’allora non vedevasi in Milano, per una riserva estrema che vi dominava: aveano un manto che dal destro omero passava al lato sinistro; ed i capegli sparsi sulle spalle, in trecce gravi di pietre preziose. I primati del ducato e le loro mogli e figlie gareggiavano [39] pure coi principi in isfoggio, e il taglio degli abiti era eguale. Come furono assisi in luogo eminente cinquantadue de’ principali personaggi d’ambo i sessi, vennero prima rivestiti di auree toghe e creati cavalieri un legato del Monferrato e un fanciullo figlio unico di Pier Francesco Visconti; e quindi si aprì il ballo dalle duchesse; il cui abito con strascico solo permise una danza grave e lenta, sebbene riuscisse assai dignitosa e graziosa: dopo di che balli più vivaci ebbero luogo fra cittadini distinti d’ambo i sessi mascherati, e fra mimi di professione vestiti di varj costumi, quale alla francese, quale alla spagnola, quale alla egiziana, o alla turca, e di quest’ultimo costume particolarmente: quel sollazzo fu protratto fino a notte. Il dì seguente ancora si danzò; ma tutti aveano mutato di abito, essendo usanza che i più distinti cittadini avessero da poterne cambiare quattro o cinque. Dopo il ballo si assistette ad alcune giostre, nelle quali mostrò sua bravura Galeazzo Sanseverino, che ruppe più aste e scavalcò l’avversario Giacinto Simonetta.

Un altro giorno avea luogo poi uno spettacolo ancora più solenne; che fu un torneamento [40] fra varj campioni nobilissimi, alcuni de’ quali travestiti in nuove fogge e singolari. A quest’oggetto nella spianata davanti alla fronte del Castello era stata alzata una palizzata; con un palco ampissimo da una parte, da cui potessero i primari cittadini godere lo spettacolo, e tutto coperto di panni a più colori alla sforzesca, cioè bianchi, rossi, e celesti: un palco separato era destinato per i principi e le più distinte donne. Era trascorso il mezzo dì, e già il popolo accorso empiva la circonferenza dello steccato, ed empìto era pure il palco destinato ai più scelti cittadini; quando, giunti i principi, lo spettacolo ebbe cominciamento. Entrava nello steccato pel primo Francesco Gonzaga, principe mantovano, condotto dal Duca medesimo e da Lodovico; e con lui erano diciannove cavalieri tutti con vesti di seta succinte ed eguali, e varii con collane d’oro: quindici pedoni venivano con esso, col petto coperto una metà di drappo d’argento, e l’altra di drappo di seta; e questi erano destinati a servire all’uopo i cavalieri. Venne quindi Annibale Bentivoglio, che pure fu dai principi nostri accompagnato, e che seco conduceva tre compagni d’arme tutti splendenti d’oro e d’argento e con bellissimi cimieri.

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Dopo questi due distintissimi personaggi venivano altri minori, ma pure nobilissimi: Gaspare Sanseverino, detto Fracasso per la sua grande vigorìa, guidava un carro trionfale tratto da tre cavalli, due rappresentanti due liocorni, il terzo un cervo: Galeazzo suo fratello, genero di Lodovico, compariva dipoi, raffigurando un re indiano tratto da mostri ed accompagnato da selvaggi; ed un araldo lo annunciava, recitando un complimento diretto al Duca; mentre i selvaggi suonavano fistule di nuova foggia. Altri vennero dopo, chi vestito alla tedesca, chi alla turca, e chi in altre guise. In tutto i combattenti furono cinquantasei; e nessuno di essi v’era che non avesse almeno vesti seriche tessute con oro ed argento. Intanto le trombe suonavano con grande clangore: ma poi si tacquero; ed incominciò il combattimento, disposti in vari gruppi i combattenti. Giostrarono fra loro prima Francesco Sforza e Pietro Bolognini; poi Fracasso e Andreino Mirandolano; indi molti altri: finchè fu rimessa la continuazione del gioco al dì vegnente.

Al dimane ancora giostrava Galeazzo Sanseverino; ed altri combatterono dopo di lui, che ruppe ben dieci aste. Il combattimento [42] venne quindi sospeso; ma quelle prove di valore doveano riprendersi il dì dopo, in cui si sarebbe deciso a chi spettasse il vanto e il premio della vittoria.

Adunque nel terzo giorno tornavano a giostrare gli stessi principi; e il Bentivoglio riportò nella mano una ferita, non abbastanza difendendolo l’armi nelle quali era chiuso. Però, fra tutti, palese apparve che per bravura distinguevasi Galeazzo Sanseverino, allora elegantemente ornato di un serico sorcotto. Pertanto i giudici che pronunziar doveano della vittoria, a lui attribuirono i primi onori; e gli decretarono il miglior premio, che era un drappo scarlatto: un altro simil premio fu poi diviso fra due altri nobili campioni: dopo di che i principi fecero ritorno nel Castello, al suono delle trombe e de’ timpani.

Così terminarono le feste nuziali; nelle quali l’accordo fra il Duca di Milano e Lodovico apparve perfetto, in cospetto di tutto il mondo: sebbene essendo poco prima comparsa in cielo una cometa, molti in que’ tempi superstiziosi pronosticassero disgustose vicende. La gioja generale, ispirata da questi divertimenti, veniva poi anche accresciuta dal [43] mettere in luce che pochi dì dopo fece Isabella il suo primogenito, che dovea succedere al padre nel ducato. Tutti esultarono per così prospero avvenimento; tranne forse Lodovico, i cui pensieri forse vagamente vagheggiavano il berretto ducale di Milano, e la cui ambizione ora veniva spronata dalla giovine sua sposa, donna avida di comandare. Tuttavia la concordia durò ancora per qualche tempo. Le due spose erano non di rado divertite con spettacoli mimici, giostre, tornei, balli, cacce nel giardino ampio del castello di Milano e nell’altro ancor più vasto di quello di Pavia; e tutto sembrava agli occhi del pubblico che passasse in ottima armonia. Però il non pensar Lodovico a deporre la tutela, e l’alterezza di Beatrice d’Este sua moglie, che andava crescendo quanto più Isabella mostrava di offendersene, finirono per destare fra quelle donne inestinguibile il fuoco d’una funesta discordia.

Infatti vivendo le due principesse nella medesima corte, ben presto la loro segreta antipatia tramutossi in odio aperto. La moglie di Lodovico, vedendo che in sostanza chi avea il potere e lo esercitava era suo marito, cominciò a trattare la Duchessa di Milano [44] nella guisa medesima che il marito proprio trattava il giovine Duca, non qual sovrana ma come pupilla; affettando anche di soperchiarla nel fasto con che viveva e vestiva, e in quelle dimostrazioni d’onore con che voleva essere ossequiata da tutti. Ultimamente, avendo avuto un figlio, si vociferava che sarebbe fatto riconoscere come Conte di Pavia, affinchè succedesse nel Ducato. La Duchessa, risentita, non tacque a Beatrice, che in lei non volea riconoscere che una sua suddita; e che una principessa della casa reale d’Aragona era ben altra cosa che la figliuola di un duca di Ferrara. Dopo di che, piena di rancore, col giovine marito si restrinse; colle lagrime e con pungenti motti cercò di destarlo dal suo letargo, ed indurlo ad intimare a Lodovico, che omai rinunziasse alla tutela; e come lo ebbe alquanto scosso, mandò un suo cameriere a pregare il Moro, perchè con qualche sollecitudine si recasse al di lei appartamento; ove ebbe luogo la scena seguente

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Capo IV. IL GIUSTO SDEGNO

In una sala del Castel Giovio la quale formava parte dell’appartamento del giovinetto Duca, la duchessa Isabella riccamente vestita, e adorna di una beltà altera; col volto commosso e pieno ancora di quella tempesta che il recente contrasto coll’ambiziosa Beatrice d’Este avea in lei destata; rugiadosi gli occhi lucenti di stille di pianto cui lo sdegno frenava, e mostrando nel labbro [46] e nella guancia fremente la profonda indegnazione e il dispetto di cui era compresa; trovavasi fra le braccia del duca Gian-Galeazzo: il quale, bello e nel fiore dell’età, vestito di un elegante abito corto di seta con ricchi fregi d’oro e pietre preziose, guardando la diletta moglie con aria piena di bontà e benevolenza, procurava calmare gli spasimi che l’eccesso dello sdegno avea destati nell’offesa giovinetta.

— Datti pace, Isabella, farò tutto quanto tu desideri; ma Lodovico nostro zio è uomo degno, che operò sempre pel ben mio e dello stato; e con lui vuolsi cautamente e amicamente procedere. Tutta Italia lo onora per la sua saggezza; i più bei genj della nostra età s’accordano a formarne l’elogio; Milano lo saluta suo nuovo fabbricatore: per lui questo stato florido non paventa il confronto di qualsiasi altro d’Italia; i principi Italiani cercano la nostra amicizia ed alleanza; l’Imperatore, come che avverso perchè considera gli Sforza quali usurpatori del ducato di cui loro non diede egli l’investitura, pure sta in rispetto, e tace; e finalmente questa città è fatta vero luminare d’Italia e d’Europa, per ricchezza, sapere, religione, e gentilezza. Tu [47] vedi adunque, o cara Isabella, che con quest’uomo venerabile conviensi agire con rispetto, come la riconoscenza esige; tu sai poi quanto egli sempre con noi usasse di ogni riguardo che ci è dovuto: il carattere di sua moglie ti offese; ma egli non ne ha colpa: io so di certa scienza, che più volte ne la biasimò del suo sconveniente contegno: ma l’amore acceca; e d’altro canto, che può fare il buon zio con quella altera! Sì, io voglio bene compiacerti; ma le cose devono procedere pacatamente, e in modo che il Duca di Bari non rimanga offeso. Io amo che non si usurpi il mio potere; ora, il vedo, è omai tempo che le redini del governo mi sieno consegnate; ma qual mano più degna di aiutarmi nel reggerle, del mio rispettabile e buon zio Lodovico? nè sarebbe senza giusto rimprovero per me di ingratitudine, se io colla durezza e la diffidenza rimeritassi quel grande personaggio di tutto ciò ch’egli fece a pro dello stato durante la mia minorità!

Il Duca qui faceva una posa; quasi per dar tempo ad Isabella di replicare, o convenire. Ella, tutta commossa, diè in un dirotto pianto: il Duca la stringeva al petto, e baciava; indi riprendeva:

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— Ma perchè nuovo pianto; perchè sì commossa? Non temere! non parlai io secondo esige l’onore e il dovere? che ti affligge? perchè non ti acqueti? di che dubiti, o sospetti? Su via, il tuo sguardo incredulo chiude un mistero! favella!

— Ah tu sei troppo buono, sclamò Isabella, tu tutta non misuri la tua situazione: tu ti credi signore, mentre languisci in una intera schiavitù! Il Moro ti affascina: inganna te; come ingannò me, e tutto il mondo: tu non arrivi a scandagliare la profondità del suo cuore! sotto un manto di bontà, di magnanimità, di disinteresse, egli chiude un’anima avida di potere, di fama, di ogni sorta di grandezza; fredda sui mali altrui: il suo sorriso è glaciale, e fa sparire la vita de’ sentimenti veramente generosi di chi lo avvicina: egli ti stende una mano, mentre stringe coll’altra lo scritto in cui nel capo ti condanna! sotto l’aspetto della saggezza, asconde perfidia, inganni, e tradimenti! oh di che non è capace l’ambizion sua? egli sacrificherà il sangue, i sudditi, ed anche il suo dio e le speranze di una vita futura in cui forse mal crede, al soglio: sì, io non m’inganno; egli mira al soglio che tu possedi; e se, [49] per occuparlo, converrà abbatterci, lo farà!

— Quai terrori ti finge la tua immaginazione, Isabella, riprese sorridendo il di lei debole e buono consorte! quanto la tua fantasia è prodigiosamente attiva nel tormentarti! le chimere che tu crei non sono smentite dai fatti, dal rispetto che sempre per me e te dimostrò Lodovico?

— Ah, il cielo lo volesse, che chimere queste fossero! Ma tu ti inganni, Gian-Galeazzo; i fatti, i fatti più eloquenti, stanno contro il Moro: non dispose egli de’ castelli e della forza militare? Or che varrà il nostro dritto, se per lui saranno le armi? Nè qui s’arrestò: questo stesso castello non è egli in mano di un suo fidato; onde alzati i ponti levatoi noi possiamo essere da un istante all’altro suoi prigionieri, come lo fu già Bernabò Visconti di Gian-Galeazzo? E non governa egli omai non più a modo di tuo tutore, ma come vero principe? non si tolse anche (estremo di sfrontatezza e audacia!) in suo potere il tesoro? e vôlte le milizie in suo potere, di suo arbitrio non esige dai sudditi sussidj, dispone delle entrate, stringe trattati, comparte le grazie; e tutto a lui obbidisce! Chi a te o a me si rivolge mai per cosa alcuna? non è egli e la [50] sfacciata sua moglie che sono corteggiati come sovrani: e non ardisce ornai Beatrice anche nelle solenni comparse usurparmi il posto d’onore che mi si compete? — Credimi, il male è estremo; conviensi usare mezzi estremi! Forse Lodovico non ardirà gittare del tutto la maschera, e noi potremo rialzare l’autorità nostra; ma se ciò non accade, io non spero più che nell’armi di mio padre: ed ancora la speranza è incerta; e più certa io vedo la rovina tua, la mia, e quella de’ nostri figli!

— Lo sdegno ti rende bene eloquente, Isabella; e quasi mi spaventi! ma Lodovico non è sì malvagio, credimi, come lo pingi. L’essermi io poco occupato degli affari, fece che egli tutte a sè le redini dello stato traesse: io non dubito però, e cento volte me lo disse, che condotte le cose al miglior ordine, a me saranno da lui trasmesse; ed allora, dopo le cure che egli spese per render lo stato florido, noi raccoglieremo parte dell’onore che una saggia amministrazione rifletterà sul principe che seppe secondare lo zelo di un ministro sì intelligente!

— In breve noi vedremo se ciò sia vero, sclamò Isabella: il cielo voglia che mi ingannino i miei sospetti! Ora, poco può stare a [51] giungere Lodovico i sentiremo i suoi sentimenti! — E, dette tali parole, la duchessa si svincolò dal consorte; si assise ad un bellissimo tavolino ornato di scolture e fregi di avorio, sul quale erano alcuni fiori in vasi d’argento eccellentemente lavorati e smaltati, con altri ornamenti preziosi; ed appoggiando la faccia rorida di pianto ad una mano gentile, che poteva essere invidiata da un Ebe, serbò il silenzio. Gian-Galeazzo gittò un sospiro; si alzò; passeggiò per la camera; si affacciò ad una finestra i cui vetri colorati erano aperti, e diè un’occhiata mesta alle mura del castello che Isabella ora gli avea dipinto come una splendida prigione; ed all’udire aprirsi una porta si rivolse indietro.

— È qui il Duca di Bari, disse un paggio annunziandolo; debbo farlo entrare?

— Entri! replicò Gian-Galeazzo: e corse incontro allo zio, con un affetto in parte naturale in parte forzato, per abbracciarlo.

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Capo V. I RIMPROVERI

Appena che il Duca di Bari fu comparso, il nipote lo abbracciò, e baciò in fronte. Egli poi ritirossi indietro; e Lodovico, fermo in piedi innanzi al tavolino ove sedeva Isabella, ma ad alcuna distanza, tutta spiegava la dignità della sua persona. Di statura maestosa, di età matura, cinto di una veste lunga turchina con fregi d’oro e che ben si addiceva al grave suo portamento; il suo volto pallido e un po’ oscuro non tradiva alcuno dei suoi pensieri, ed avrebbe annunziata una perfetta calma se il fino indagatore non avesse [53] nel fuoco di un occhio ombreggiato da un grave sopracciglio veduto i segni di una profonda simulazione. Col berretto in mano; col volto eretto; movendo uno sguardo scrutatore rapidissimo sul nipote, e poi fissandolo con finta benignità su Isabella; egli proferì queste parole, con un tuono in apparenza di rispetto:

— L’Illustrissima Duchessa che ha da comandarmi?

E poi se ne stette in silenzio.

— Sedete, Duca di Bari, allora tosto rispose Gian-Galeazzo, accennandogli una ricca sedia che era vicina a quella ancor più ricca a braccioli nella quale era adagiata la giovine sua consorte; sedete, e vi esporremo il tenue motivo per cui abbiamo dovuto incomodarvi. — Così dicendo, e mentre il Moro accettava l’invito, il giovinetto duca, bello per un’ingenua espressione di bontà, accostò alquanto un’altra sedia a quella dello zio, ed anch’egli s’assise.

— Il motivo per cui abbiamo incomodato l’Eccellenza Vostra, è questo; che voi probabilmente già indovinaste. Da qualche tempo la duchessa Beatrice vostra consorte per un amore femminile di grandezze, che io nel [54] cuor mio vorrei volentieri perdonare quando non ostasse la convenienza e il rispetto che si deve alla Illustrissima mia consorte; la duchessa Beatrice, dico, affetta nelle occasioni solenni una superiorità su Isabella che non le si compete; e che voi pure, mio zio, avrete forse alcuna volta notato e biasimato. Il ciel mi guardi dal volervi recare dispiacere alcuno, dopo le tante prove di affezione e fedeltà che date mi avete; ma ora, trattandosi di cosa in apparenza grave, io vi debbo pregare che, con quei modi blandi che la vostra esperimentata prudenza vi saprà suggerire, ammoniate Sua Eccellenza la degnissima vostra consorte; perchè le cose procedano per l’avanti con più regolarità, ed a norma di quel cerimoniale che è stabilito dall’uso e che si conviene al decoro del grado dell’Illustrissima nostra consorte; a cui questa trascuranza reca dispiacere, nel che noi sentiamo (e voi ne converrete) che ella non ha il torto.

— Illustrissima Duchessa, rispose pacatamente il Moro: se me[1] sia permesso esternarvi [55] un mio parere; io vi direi che, convenendo che il motivo delle lagnanze vostre è giusto, mi pare però che de troppo ne esageriate l’importanza. L’Illustrissimo Duca non ha ancora toccata appieno l’età perfecta de venti anni; e deve quindi riconoscere la nostra tutela. E noi, pronti a rinunziare al governo quando lui sarà diventato maggiore, purchè il bene suo e dello stato lo consentano; ora però siamo ancora costituiti governatore dello stato, e come tale figuriamo sovente nel primo grado in quelle funzioni pubbliche a cui Sua Signoria Illustrissima non interviene. Sua Eccellenza la duchessa Beatrice, usa a stare al nostro fianco, ed a conseguire in tali casi i primi onori, si è forse un po’ troppo dimenticata in qualche occasione che l’Illustrissima Duchessa era presente: e di tale inavvertenza noi la abbiamo infatti amorevolmente ammonita. Me se permetta però el dirlo, Vostra Signoria Illustrissima, duchessa Isabella, con troppo rigore ha trattato la nostra zovene consorte per un sì piccolo mancamento; e ricordandole la superiorità del suo grado con asprezza, ha cagionato un profondo dolore in Beatrice, i cui sensi leali non dovrebbero essere posti in dubbio, nè [56] di cui tanto ferita io averia desiderata la sensibilità!

Una vampa di sdegno imporporò le guancie della fervida Isabella: essa alzò gli occhi che fin allora avea tenuti bassi; e fissando uno sguardo splendidissimo che indicava viva indignazione sul volto impassibile del Duca di Bari, e ritraendo la persona quasi per una spinta segreta e irresistibile di una indomabile antipatia, così prese a dirgli:

— Duca di Bari: si può abusare delle parole, ma non è comportabile quando l’eccesso è spinto a tanto segno! Io, duchessa di Milano, superata nello sfoggio, nelle pompe, nell’autorità, da Beatrice vostra moglie mia suddita, tacqui e sopportai: ma offendendosi anche le vane apparenze di una preminenza illusoria, sdegnandomi, sarò accusata poi qual troppo rigida ed altera se muovo una lagnanza che già da tanto tempo avrei dovuto farvi sentire! No, le cose sono spinte ad un punto che più non ponno correre. Mio marito fra giorni esce di minore età; conviene disporsi a cedergli il governo; deporre un’autorità che non vi fu conferita che a tempo; ed intanto non violare quei confini che sempre devono separare chi ha il comando [57] di diritto da chi per dovere è suddito e deve obbidire!

— Isabella, tu mi offendi così parlando al mio buon zio, la interruppe il duca Gian-Galeazzo; calmati: la tua asprezza è fuor di luogo: non dubitare, che il Duca di Bari è uom d’onore, e saprà sempre calcare la strada che il dovere gli prescrive; come con tanta gloria la ha percorsa fino al presente!

— Che potrei io replicare agli amari rimproveri de sua Signoria Illustrissima, la duchessa Isabella! le ricorderò solamente, che essendo noi costituiti nel grado di tutore dell’Illustrissimo di lei consorte, non doveremmo essere tractati se non con quel rispetto che se conviene alla nostra dignità: ma io voglio condonar tutto al foco giovanile; e lascerò che l’Illustrissima Signoria sua sulle cose che me disse ci pensi bene questa notte; e poi domani le daremo tutti quelli rischiarimenti che potranno essere del caso.

— Che io ci pensi questa notte! E quante notti non vi ho io pensato; quante notti non mi restarono per piangere l’umiliazione e l’avvilimento a cui avete ridotta me, e quest’angelo, questo innocente e sacrificato agnello che mi è consorte; nè solo le notti sono testimonie [58] delle mie lagrime; ma i lunghi giorni solitarj che io passo in questo castello, ove solamente di puro titolo io sono la sovrana! Quante volte, nello stringermi al petto il bambino che solo mi consola, io non sospirai pensando che forse altra donna ne nutricava un altro che l’avrebbe soperchiato, che occupato gli avrebbe quel trono che a lui il vero diritto riserba! — E voi mi parlate di una notte per riflettere! no, non è necessario! Duca di Bari, o voi siete uomo d’onore, e dovete omai dimettervi dal governo...; o, mostratevi più generoso, dichiarateci aperta guerra, innalzate il vessillo dell’usurpazione; ma non abbatteteci colle armi del tradimento!

— Frénati, mia consorte, frénati; tu eccedi: sclamò il buon Gian-Galeazzo, alzandosi dalla sua sedia e prendendo ad Isabella la mano che ella levava in atto di esecrazione.

— Illustrissima Duchessa, voi dai rimproveri passate agli insulti! Voi ve lagnate di mancare di un condegno corteggio in questa vostra corte: ma chi non sa che avendovi noi assegnati diciotto mila ducati per vostra provisione, somma bastante avuto riguardo allo stato di minorità in cui vi trovate, voi ne spendeste in capo all’anno, una volta sette [59] mila, poi undici mila, di più; facendo debiti che noi non abbiamo lasciato di pagare! E quanto al fasto della corte, se questo non giunge alla profusione di Galeazzo Maria, non lascia però de essere conforme che il grado richiede; essendovi ricca stalla, e cappella fornita di cantori; essendo onorata dalle persone più distinte dell’Italia; ed essendosi anche alzato un teatro per diletto vostro e di tutti, non meno sontuoso di quello che decora Ferrara! Che se le cure del governo ci circondano di gente a cui dobbiamo dar ordini e direzione, come è nostro dovere; vi lamenterete voi, Illustrissima Duchessa, che sulle nostre spalle sia il grave fardello dello stato?

— È di questo fardello che voi ora dovete alleggerirvi, replicò punta e sempre più indignata con vivacità Isabella; ora il mio consorte è maturo di senno per reggersi da sè; uomini distinti ne convengono: sul passato si stenda un velo; i vostri segreti pensieri forse svelandosi deturperebbero quella fama splendida che di voi s’aggira per l’Italia, e che vi fa passare come uomo di singolare saviezza: tacciasi del passato; ma a patto, che ora vi pieghiate a fare il dover vostro!

[60]

— L’Illustrissima Signoria Vostra la me offende colle sue parole.

— E voi mi offendete coi vostri fatti! Non dubiterò io di voi, vedendo che a voi attiraste tutte le forze dello stato; che da voi dipende il Consiglio di Stato, cui avete composto a vostro piacere; che da voi sono tenute le fortezze, da voi presidiate e date a vostre creature; che da voi è disposto del tesoro? — Che resta a noi, se non se il grido impotente della disperazione!

— E se le cose fossero in questo stato, sarebbe egli prudente per voi, Illustrissima Duchessa, far sentire questo grido! Tornate in senno, giovinetta; e siate più saggia nel valutare i fatti di un uomo che si è meritata la stima di tutti i principi d’Italia, ed anche d’oltremonti!

— Quest’uomo però ora aspira a calpestare i diritti del nipote; a farlo credere un imbecille, per trar a sè il potere e perpetuarlo nella propria casa! Si dice che al figlio che v’è nato pensiate persino a dare il titolo di Conte di Pavia!

— Vostra Signoria eccede ne’ termini: el suo carattere el va facendosi sempre più incomportabile: con questo suo tuono altero e [61] imperioso, ella ha indisposto omai tutti li suoi servitori: io sono l’ultimo a stancarmi: ma chi potrebbe reggere; la pazienza di Job forse non basterebbe a tanto; e la mia è grande, ma non credo che tanto oltre arrivi quanto quella di Job!

— Moro, voi già assai potete nuocerci; voi ci avete omai rovinati: forse voi ci volete morti: almeno non fateci morir di spasimi; siate un ardito usurpatore come Gian-Galeazzo Visconti: vi mancheranno, per noi, una prigione e un veleno?

— Se può offendere de più un uomo onorato e probo, replicò il Moro: con tanto astio che voi me mostrate, come potrei io rinunziare alla tutela, e tenermi securo della vita! Confessate, o Duchessa, che voi altro non desiderate ora che la mia morte!

— Sarò più sincera e franca di voi: sì ben io veggo che in questo istante solo la vostra morte potrebbe ristabilire i miei interessi, e darmi trionfo! — Proferendo queste parole, Isabella mostra vasi agitata dalla più violenta passione.

— Ah Isabella, Isabella! sclamò il giovine duca.

— Allora converrà che io me guardi molto [62] bene, replicò il Moro; e intanto ghe leverò el disturbo di mia presenza. — E ciò detto assai commosso, ma frenandosi, partì. — Il Duca gli tenne dietro, nell’intenzione di placare l’anima esacerbata dello zio.

[63]

Capo VI. LA LETTERA SECRETA

Non appena il Duca di Bari fu partito che la duchessa Isabella diede in un grande scoppio di pianto; e quell’anima fiera trovò alcun sollievo alle sue pene in uno sfogo per essa inusato; appunto come il torrente, cruccioso se l’argine lo ritiene, più mite e placido diventa allorchè rompe le dighe e tutte allaga le vicine campagne. Immersa nelle lagrime sue abbondanti ella stette per alcun [64] tempo; e la debolezza feminile trionfava della di lei altera natura: però non andò molto che si riscosse; dell’usato fuoco rianimò lo sguardo; e tergendosi gli occhi ancora pregni del liquido lucente che velati gli avea, e frenando le lagrime pronte a sgorgare un’altra volta, tutta concitata il bel seno da un alito affannoso, disse a sè stessa: — Che vale il pianto, quando operar conviene! — e recatasi ad un tavolo ove erano, con un calamaio di argento dorato e riccamente intagliato, parecchi fogli di una carta azzurra profumata, scrisse al padre questa lettera; che divenne famosa, e che fu riferita da varj storici, e particolarmente dal Corio. Allora la lingua colta in Italia era ancora la latina; ed in latino scrisse Isabella, squisitamente educata dalla propria madre che nelle lettere era assai versata: noi però, sapendo che tal lingua non è ora più tanto comunemente intesa, la daremo ai nostri lettori volta nell’idioma volgare; procurando però, più che ne sia fattibile, di conservare quello stile concitato nel quale essa fu dalla infelice donna che la scrisse concepita.

«Già molti anni sono, o Padre, che me univi a Gian-Galeazzo, il quale giunto che [65] fosse ad età virile dovea reggere i propri stati, nel modo stesso che e Galeazzo padre di lui, e l’avo Francesco, ed i proavi Visconti, un tempo fatto aveano. Or egli è già uomo e padre, ma di sè appena può disporre; ed a gran stento, e a forza di preghiere solo, da Lodovico e da’ suoi ministri ottiene ciò che è necessario pel decoroso suo sostentamento. Tutto è da Lodovico amministrato a suo grado; ei tratta la pace e la guerra, sanziona le leggi, concede i diplomi e le immunità, le imposte ed i sussidj impone, le suppliche spedisce, raccoglie il danaro; tutto è fatto a’ suoi cenni; e noi di ogni appoggio privi, delle ricchezze spogliati, come privati viviamo; nè Gian-Galeazzo, bensì Lodovico, sembra dello stato il sovrano: il qual Lodovico diede egli castellani alle rôcche, a sè legò la forza militare, ampliò i magistrati; e tutte le funzioni di principe adempiendo, di vero duca compie gli ufficj; e avendo testè dalla moglie avuto un figlio, è fama generale voglia farlo Conte di Pavia affinchè nel principato succeda; e alla puerpera tutti gli onori di principessa resi furono: mentre noi siamo trascurati, insieme coi nostri figli, nè senza pericolo sono i nostri giorni in podestà di [66] lui; che per insidie può spogliarci di questa vita che a lui è grave, benchè già quasi vedova mi vegga, e desolata e d’ogni soccorso priva. E sì che non manca a noi nè ardire, nè ingegno, nè l’amor de’ popoli, nè la compassione loro; mentre egli, che per sete d’oro li aggrava, è odiato e maledetto: ma le nostre forze sono inferiori, e cedere ne conviene, e duopo è soffrire ogni sorta di avvilimento; non essendo a me neppur dato di confidar ne’ nostri servi, che da lui dati ci sono ed a lui sono fedeli. Or se paterna compassione ti move; se l’amore per me, se le mie lagrime ponno piegarti; se magnanimità è in te, col regal sangue; togli la figlia tua ai mali del servaggio, alle contumelie che soffre; e rendile il trono, a lei con inganno rapito. Che se di me poi pensiero alcuno non ti prende, gioverammi piuttosto di propria mano cadere, che sostener il giogo altrui; chè nel mio stato tollerare una emula nel dominio non è a me per ogni verso cosa comportabile.»

Scritta questa lettera, la giovine duchessa parve più sollevata dalle sue pene acerbe: cessava il suo affanno, scomparivano le lagrime. — Ora converrà trovar mezzo sicuro [67] per mandarla al suo destino. — Ma a chi fidarmi? — Di tante persone di cui Lodovico mi cinse, quale potrà moversi a pietà di me, tanto che con proprio pericolo si pieghi a giovarmi in questa circostanza? Tra coloro che per ossequio mi visitano chi potrò io credere a me fedele? — Ma poco sta la donna a trovar una strada per uscire da’ suoi imbarazzi: un istinto di accortezza, continuamente fedele, la ispira: ella talora non pensa, non ragiona; ma risolve come se preseduto avesse alla sua decisione la meditazione più sagace! È a questo istinto che essa deve quell’impero che sì spesso esercita su di un sesso per tanti altri versi a lei superiore.

Fra le sue ancelle, Isabella una ne avea che a se affezionatissima riputava, e non a torto, e stimava in tutto fedele e devota alla propria persona. Sebbene dal Moro, come tante altre, anch’essa fosse stata scelta, le pene morali di Isabella aveano nella giovinetta risvegliate le più dolci simpatie. Carolina era il suo nome: piccola era la sua statura; ma ella era veramente una piccola perfezione: una taglia snella e gentile, una testa da Psiche, due occhi tra il nero e l’azzurro notanti in un fluido brillante e tagliati a forma [68] di mandorla respiravano la dolcezza e i più soavi sentimenti; bionde ciocche di capegli aggiungevano vezzo a un viso già bello, siccome ricca cornice dorata accresce l’effetto ad un quadro da maestra mano dipinto: il suo abito era d’ordinario semplice, di una stoffa di seta, ma elegante; una croce sul petto raccomandata ad una fila di bei coralli, e due anelli nelle orecchie, gentili quanto tutta la persona di questa vaga angioletta, erano i soli ornamenti abituali di quella simpatica creatura che era ad un tempo la cameriera più zelante e l’unica confidente di Isabella.

Isabella sonò due volte l’argenteo campanello vagamente intagliato che stava fra altri minuti oggetti di un lusso regale sul suo tavolino; e quasi nel momento stesso la leggera Carolina comparve, per ricevere i suoi ordini. Un’occhiata sola bastò alla intelligente fanciulla, per indovinare che una gran tempesta agitato aveva il cuore della sua padrona diletta. Ella però non aprì labbro. Isabella la fissò con occhio scrutatore. — Carolina, le disse; più volte tu mi protestasti di amarmi, di non essere tale da venir confusa con tante mie ancelle mercenarie, che stanno intorno a [69] me pronte piuttosto a spiare la mia condotta che a prestarsi in mio servizio e all’uopo giovarmi: posso io crederti sincera veramente; confidare, ed appoggiarmi a te in una mia necessità?

— Ah, Illustrissima mia Signora! Io mi credea bene, dopo tante carezze che m’avete compartite, di non meritarmi questo vostro dubbio, che profondamente mi trafigge. Comandatemi pure ogni cosa che onesta sia; e vedrete, coll’effetto, se io non vi amo, se per voi non sia pronta a sagrificare anche me stessa!

— Mia cara, io ti credo, replicò Isabella; ed una sua mano corse ad accarezzare il mento gentile della sua prediletta cameriera. — Or bene, dimmi, mio angelo, hai tu un amante?

La povera giovinetta arrossì: rimase alquanto confusa: esitò a rispondere.

— No, mia cara, non arrossire! Non disdice alla tua età, a’ tuoi vezzi, l’essere amata; e forse più d’uno spierà in secreto il tempo di dichiararsi tuo adoratore: oh, con qual piacere poi io stessa presederò alle tue nozze! Ma ora ciò m’importa sapere, Carolina: sei tu amata? hai tu un giovine che, adorandoti, [70] ti possa servire in un bisogno con fedeltà? Io ho una lettera pel padre mio; a lui solo la potrei affidare!

— Mia Illustre Signora, allora prese a dire l’amabile Carolina, con una voce che ricordava assai quella melodiosa del flauto: io me ne viveva ancora tranquilla, e se non intatta almeno non agitata dagli strali dell’amore, quando un avvenimento sono pochi mesi cambiò la condizione di mia esistenza. Era il carnevale; e quella stagione lieta che avvicina, con danze e giochi, la gioventù dei due sessi diversi, agitava leggermente il mio cuore come quello di tutte le altre del nostro sesso; quand’io mi accôrsi che un giovine cavaliere compiacevasi di accostarmisi e trattenersi meco particolarmente. Era questi Gaspare Visconti, consigliere ducale, le cui rime graziose circolano fra i crocchi più scelti della città; e che ebbe già in moglie una figlia dell’infelice Simonetta, la quale però poco stette a raggiungere in cielo lo sventurato genitore. Egli mi stancò con mille assiduità tutte le volte che mi vide; ed ora non cessa di spiare ogni occasione per trovarsi meco e favellarmi.

— Egli è un cavaliere assai pregevole, [71] Carolina! Ma ti dichiarò egli apertamente il suo affetto?

— Un giorno che molte donne e fanciulle con me erano adunate; e trattenevamoci in piacevoli ed onesti discorsi con alcuni giovani, fra i quali per ispirito e gentilezza il Visconti assai distinguevasi; disse Gaspare maliziosamente, che le donne erano d’un animo più crudo che le serpi, poichè non uccidevano col loro veleno tostamente ma la vita lentamente de’ loro adoratori struggevano. — Orsù, replicò alcuna, voi siete ben innamorato, o Gaspare; e ben severa esser deve colei che nelle sue reti vi stringe, perchè teniate di questi propositi? — Ben v’apponete, madonna, egli rispose: ed oh foss’io per natura meno pronto ad accendermi per chi il cielo mi viene mostrando come mia stella: ma già io lo dissi, e il scrissi,

«Amore è in me come il natare al pesce

E sì come agli uccelli il suo volato!»

— Ippolita, mia compagna, allora gridò: — E chi è costei che, tanto avendovi il cuore acceso, poi col suo rigore indebito vi tormenta ed uccide? — Chi è chi è? molte altre [72] sclamarono. — Signore mie, rispose il giovine, non mai io vi paleserò quel nome purissimo che di proferire non son degno: e in questo dire uno sguardo rapido e loquace egli mi gittò, che alquanto mi fe’ arrossire. — Però, soggiunse un istante dopo, io vi mostrerò le sue fattezze angeliche, se ciò vi piace, per non sembrare con voi scortese: e, così dicendo, si trasse dal petto un piccolo ritratto, che andò mostrando alle mie compagne tutte, senza che alcuna ne indovinasse il sembiante: chè a caso quella vezzosa miniatura comperato egli avea, come poi mi disse. Ma allorchè fu a me davanti, egli volse destramente il ritratto, e mi presentò il suo rovescio, che era un pulito specchio d’argento; ed io, mirandovi me stessa, mi vergognai: egli, dopo una tale non più equivoca dichiarazione, continuò a simulare; e riponendo il piccolo quadro, proseguì a parlare dell’amor suo, dichiarando che fervidissimo era, e che altro non desiderava fuor che l’occasione di poter provare alla sua bella che da altri un tale affetto giammai essa non avrebbe potuto conseguire. — Dopo questa scena, tre altre volte ei mi vide; mi parlò di nodi eterni, se io vi avessi acconsentito; ed [73] ultimamente mi fece pervenire un suo amoroso sonetto.

— Tu l’hai certamente indosso, mia cara; tu ti copri di rossore; io ho indovinato! Via me lo mostra!

Eccolo, replicò ingenuamente Carolina; traendosi un foglio candidissimo dal seno. — Isabella lo prese, e lo lesse.[2]

Specchio nel qual la mia donna mirando,

Conobbe la cagion che il cor mi opprime,

E vide il dolce sguardo che m’imprime

La voglia dove ognor mi struggo amando:

Specchio che discopristi, allora quando

Mi fu men duro l’idol mio sublime,

Con nova arguzia le amorose lime

Che l’alma mi consuman desiando;

Perchè non ritenesti in te l’effigie

Che sola è Sol splendente agli occhi miei,

O delle luci sue qualche vestigie?

Chè col pensier, che or giace in mille omei

E sì ritrova in le più basse stigie,

Beatissimo in ciel mi troverei!

Io vi confesso, amo il Visconti; ma essendomi egli per condizione d’assai superiore, [74] temo che il suo amore mal possa essere per me costante; e tardo ad acconsentire a diventar sua!

— Mio angelo, sclamò Isabella, quanto sei buona e saggia! — Ma io non ho altro mezzo; Visconti è uom d’onore, lo conosco; nè ama il Moro, che gli spense il suocero: lui incarica, in nome dell’amor che ti porta, di far per mezzo sicuro pervenir questa mia lettera al Duca di Calabria mio padre. — Se il tempo verrà (come può essere in breve) che io sia felice, Carolina, io ti innalzerò a tal grado, che non avrai più a dubitare di non essere degna del gentile e nobile tuo adoratore! — E, in così dire, porse alla ancella favorita la sua lettera: Carolina arrossì un’altra volta; si terse una lagrima di commozione, e baciando la mano della sua signora che l’andava accarezzando, fatto un leggiero inchino si ritirò.

Isabella rimasta sola gittò un sospiro. — Ah, il cielo in mezzo a’ rigori suoi sempre alcun raggio ci serba di sua benevolenza! Fra i patimenti angosciosi del mio animo, io non posso al tutto chiamarmi infelice, avendo figli che dolcemente le mie viscere commovono, un consorte adorabile, ed una sì ingenua e sincera amica!

[75]

Un momento dopo ricomparve il Duca. — Egli non fece rimproveri alla diletta sua sposa. — Riuscii a placare Lodovico, diss’egli: mia cara, se m’ami, frena con lui il tuo sdegno: credimi egli è assai migliore che tu non lo stimi.

Isabella, valutando il contegno generoso verso di lei del debole suo marito, nulla replicò: ma slanciossi fra le sue braccia, e vi stette singhiozzando per qualche tempo.

[76]

Capo VII. IL MAL CONSIGLIO

Intanto Lodovico il Moro, dopo essersi diviso dal nipote; al quale fece pienamente comprendere la sconvenevolezza della condotta della duchessa Isabella, e come tutto quello che fin allora da lui si era fatto era stato operato con viste leali e generose; di che Gian-Galeazzo parve pienamente persuaso: dopo ciò, dico, egli passò nell’appartamento proprio posto, come il lettore sa, nel castello [77] medesimo, e non molto discosto da quello del duca di Milano; e quivi, fatto un cenno leggero alla moglie Beatrice che trovò in colloquio col Maestro generale della corte, con essa passò a restringersi in una appartata e segreta stanza.

— Beatrice, diss’egli in un tuono alquanto grave ma non privo di benevolenza; col vostro contegno poco prudente voi ne avete posto in un gravissimo imbarazzo!

La donna a cui parlava, e che gli era moglie, trovavasi allora nel più bel fiore dell’età; altera ed ambiziosa, di persona dignitosa, di lineamenti belli sì ma maschi, distinguevasi per un aria grave e imperiosa. Vestiva principescamente; il suo sguardo respirava il comando; il sorriso non atteggiava il suo labbro; ma appariva però in esso una specie di giovialità di condiscendenza. Tale era questa donna, che non poco impero seppe esercitare sul marito stesso; il quale tanto sapea raggirar gli altri. Mancava a Lodovico il Moro l’ardimento; ed era Beatrice che in questa parte sempre veniva in suo soccorso. Al rimprovero del marito, ella crucciò le ciglia, e rispose: — Or che avvenne? qual mistero chiudono le vostre parole?

[78]

— Io fui insultato dalla Duchessa: essa si lagnò palesemente meco del potere che mi avvoco, della reggenza che non dimetto, degli sprezzi che da voi riceve, dell’autorità che voi ve assumete, degli onori che le usurpate. Essa sembra decisa a rompere meco; e se non fosse che il Duca di me continua a fidarsi, io temerei l’eccesso del suo risentimento. I cittadini sono sempre affezionati ad un signore che se rappresentò loro come di eccellente carattere e che veramente è tale, se non se faccia caso della sua poca capacità per li affari: odierebbero me, se supponessero volessi usurpare lo stato a un giovine inocente; e già sapete lo sparlare che si fece, quando per esperimentarli facemmo correr voce che el nostro fiolo stato sarebbe creato Conte di Pavia. Tutto questo, vi confesso che me imbarazza non poco; e conviene assolutamente che voi cediate alquanto, e rinunziate a una parte degli onori che vi si rendono a favore di quella giovine piena di ardimento di Isabella, che veramente col suo fuoco la me spaventa; e la pare la voglia tirare la mia casa in precipizio!

— Lodovico, ecco la vostra saggezza vinta dalla vostra pusillanimità! — E dimenticate [79] in questo momento che le fortezze sono in vostre mani, che da voi dipendono i soldati, che in podestà vostra è il tesoro, che i membri del Consiglio di Stato sono vostre creature; e che molti principi d’Italia, all’uopo, sembrano disposti a favorire la vostra causa, del qual numero non solo è mio padre, ma, come sembra, anche il Marchese di Mantova, e i Veneziani, e probabilmente l’Imperatore che non volle riconoscere Gian-Galeazzo perchè discendente da Francesco vostro padre il quale invase il ducato senza riportare il suo consenso e ricevere la sua investitura!

— Sì, voi dite bene: ma se se facesse una pubblicità, tutto questo non so come l’andrebbe a finire. I soldati son buoni, ma i populi sono ancora miglior sostegno; e noi siamo stati nella necessità di aggravarli per far fronte ai bisogni dello stato e per adunar tesoro, gran movente per effectuare le rivoluzioni: questo non è il momento, credetemi, de tentar novità; e intanto nuocer ne potrebbe non poco Isabella col suo odio a morte.

— Col suo odio a morte! spiegatevi: da che desumete che spinga a tanto gli sdegni suoi l’altera aragonese!

[80]

— L’è subito detto: ella stessa l’ha avuto el coraggio de dirme netto, che solo la mia morte in questo momento le darebbe certo trionfo!

— La vostra morte! Ebbene, con tale parola, ella ha pronunziata la sua condanna. Chi vi potrà ora biasimare, se per salvar la vostra vita, quella della consorte vostra, di vostro figlio, voi v’appiglierete a qualsiasi partito? Moderato non sembrerà, in questo caso, quello stesso dell’usurpazione? Che è lo stato a petto della vita! moderato voi sarete togliendo a Gian-Galeazzo la sovranità, quando, se ei la serba, pericola la vostra vita! I popoli, che ciò sapranno, vi compatiranno. D’altronde, non usurpò lo stato colla forza e col tradimento Francesco Sforza, e poi fu amato dai cittadini! Tutti per saggio vi conoscono; voi v’impadronite dello stato e diminuite le imposte, ed eccovi un dio per la nazione! — Lodovico, noi dobbiamo rallegrarci della imprudenza di Isabella!

— Ma ella la potrà mettere ne’ suoi interessi el padre, e l’avo: una guerra me disturberebbe!

— Invigiliamo, per ora, che nessuno ad essa si accosti che non sia de’ nostri: poniamoci [81] in ordine per resistere: il Re de’ Romani Massimiliano è sempre in bisogno di danaro; amichiamocelo col sovvenirlo.

— Un altro pensiero m’è venuto in testa più volte, ed è che in tal caso noi potremo impacciare el Re di Napoli col movergli contro le armi del Re di Francia. Sapete che la casa reale di Francia ha delle pretese al trono di Napoli.

— All’uopo anche questo si potrà fare: ma con cautela! Sapete i diritti che vanta la casa d’Orleans sul milanese, per le ragioni di Valentina Visconti: il duca d’Orleans potrebbe diventar re di Francia; e, occupato Napoli, potrebbe tentarlo il milanese.

— In ogni caso anche a questo se penserà. — Ah sì, vedo bene che converrà andar cauti: ma conviene operare! Quella serpe di Duchessa la mi spaventa! Se aveste veduto che fuoco, che sdegno: come fremendo la mi minacciava ancora più cogli occhi che colle amare parole, colle minacce mortali! — Ah, Beatrice, un tal entusiasmo nell’odio fa grande effecto! Io tremo, io tremo: i miei passi verso l’impero, da te eccitati, furono troppo precipitosi: io ora ho speranze; ma certezza nessuna! Anche Simonetta era forte; ma perdette [82] la testa sul rivellino di Pavia: anche Bona avea armi e tesoro, ma le perdette successivamente, e le si strappò il potere fuor di mano! Un uomo di me più ardito; l’insorgere del populo a favor del Duca, mosso dall’eloquenza di quella femmina ardente, potrebbero rovinarci tutti. Che cosa è vostro padre, Duca d’Este, a petto del Re di Napoli! Il favor di Massimiliano è incerto; la Francia non è in grado di moversi sull’istante... Ah, Beatrice, questo è un punto tremendo di crisi... Se il temporale ruggisse, che si farebbe!

— La morte non ci potrebbe aiutare allora? manca forse un veleno!..

— Come un veleno! Vorreste che me avvelenassi mi, voi, e nostro fiolo, per non soccombere nella lotta!

— E se voi non volete morire, converrà allora spegnere il nipote: in tal caso i suoi figli rimarranno sotto la vostra tutela per lungo tempo; e voi avrete il campo di consolidare il vostro potere!

— Ah, Beatrice, queste cose non sono de quelle da tractarsi sui due piè! il timor di Dio... e poi il pericolo di una tal azione... che indisporrebbe gli animi contro de noi!...

[83]

— Quanto al timor di Dio, io vi osservo, che l’uccidere per non essere uccisi è di diritto naturale (questa donna obbliava che ciò è solo allorchè la morte nostra certa sarebbe e immeritata)... In secondo luogo, e quanto alle apparenze, un lento veleno le salverebbe: tutti sanno che voluttuoso è il Duca; e lieve ci sarebbe far credere, che, snervato dai piaceri, egli spirasse di languore e consunzione!

— Questi sono mezzi cattivi, Beatrice; questi son mezzi estremi!... Ora conviene che, per salvar le apparenze, me porti un poco al circolo solito de’ nostri letterati e artisti che se adunano nella sala a terreno.

Egli vi si recò infatti. Stavano adunati, come era uso in varj dì della settimana, pressochè tutti i dotti e gli artisti che da Lodovico ricevevano o stipendi o favori. Il Duca di Bari fra loro mostravasi piuttosto come un padre fra i figli o un amico di grado distinto fra gli amici, che non come governatore e padrone. Il suo umore era sempre il medesimo, era una gravità piena di dolcezza. Egli questi incoraggiava nelle sue opere, quegli consigliava, l’altro eccitava: spesso li consultava su varj oggetti tendenti ad accrescere [84] lustro alla città, decoro ai cittadini. Talvolta in gravi discorsi si passavano le poche ore che durava il dotto congresso: talora il sollazzo prendeva il luogo della scienza, e i belli spiriti reciprocamente eccitandosi, come selce che dà scintille, brillavano di una luce istantanea ma assai viva. Alcuna volta la musica avea la prima parte, e i cantori della cappella di corte soavemente faceano eccheggiar le vôlte de’ loro melodiosi concenti. Talora, quando l’estro era forte, vedevansi il da Vinci, il Bramante, ed altri poeti di quel tempo, recitare animati carmi all’improvviso, di quel fuoco improntati che tanto possente rende l’immaginazione, e che raddoppia l’effetto de’ suoi parti coll’ispirare all’oratore che li declama un’enfasi sì gagliarda che gran parte forma di quella stessa poesia! — Or bene, Lodovico, in questo giorno sì terribile in cui l’anima sua era tanto conturbata, in cui timore l’agitava per la vita propria e di quanto al mondo gli era più caro, la moglie e il figlio; egli che paventava troncati i suoi disegni ambiziosi, forse a lui più cari della vita stessa di sè, della moglie e del figlio; quest’anima nell’interno straziata e bollente, non corrugò per nulla la sua fronte grave, non tradì l’abituale [85] suo sorriso, non commosse la sua voce. Tanto è vero ciò che lasciò scritto di lui il Corio suo cameriere, che tanto bene lo conosceva: «In lui si dimostrava una tale maestà che pareva precedesse alle altre; modesto nel parlare, dissimulava le cose presenti, aspettava le occasioni al vendicarsi, mai non era superato da collera quantunque ancora alla sua presenza ricevesse dispiacere; ogni cosa dimostrava egualmente udire, e quantunque a lui fosse stata cosa deterrima e dispiacevole nondimeno dissimulava essere ingiuriato.»

[86]

Capo VIII. PERICOLI E RAGGIRO

La lettera di Isabella andò al suo destino: Gaspare Visconti, che sebbene fosse consigliere ducale in suo cuore odiava non poco il Moro il quale avea contribuito alla morte del Simonetta suo suocero, la consegnò ad un altro individuo pure a Lodovico aversissimo, perchè la trasmettesse al duca di Calabria. Era questi un vecchio Ebreo che il Visconti conosceva a cagione di una bellissima sua figlia, ch’egli, facile a recar omaggi [87] al bel sesso, ammirò ed amò per qualche tempo, cioè finchè la conoscenza di Carolina non ebbe dal suo cuore dissipata quella incipiente infelice passione, quell’amore che nasceva senza speranza; giacchè virtuosissima era l’ebrea, e di nozze non era molte a sperare, perchè troppo ella amava il padre, troppo tenace delle proprie opinioni era, per abbandonare di leggeri la religione antica de’ suoi avi.

Or Isacco, il quale, come che assiduo nel traffico, avido ed alquanto avaro (doti in generale della sua nazione), era un buon diavolo che all’uopo sapea privarsi di una dozzina di fiorini per sollevare un galantuomo di sua nazione ed anche un cristiano se gli era amico; in questi giorni stava maledicendo il Moro a tutto potere, perchè costui, non contento degli appoggi terrestri per montare al soglio, amando interessarvi (come ei credeva) anche la divinità, ordinato avea che rigorosamente si eseguisse un suo decreto già prima emesso, col quale scacciavansi da’ suoi stati tutti gli ebrei e cattivi cristiani, loro non permettendo più d’allor in avanti se non se di passarvi celeremente ed al più di farvi una brevissima dimora. L’intolleranza funestò [88] l’Italia per molto tempo, cresciuta nel secolo XIII, e d’allora in poi più o meno mantenutasi da tutti i governi italiani e da molti stranieri fino sul finire del XVIII, e più oltre. E in un tempo in cui i veleni erano usati alla corte di varii cattivi principi d’Italia; in cui guerre senza fine morale; in cui estesa corruzione; in cui la vera moralità era spesso soffocata dai pregiudizi popolari, e da quelli di una religione superstiziosa; per colmo de’ mali si credette espiare molte colpe col perseguitare i non credenti, volgendo la dottrina del Cristo, che fondasi sull’amore dell’umanità, in codice di odio e distruzione!

Non v’è ape che offesa non usi del suo veleno. Isacco appena gli si parlò della misteriosa incumbenza, che con piacere se ne incaricò: egli dovea passare a stabilirsi a Roma; di là, con mezzo sicuro ed espresso, avrebbe trasmessa la lettera affidatagli al personaggio eminente a cui era diretta. — Oh, potesse questa far cadere una pioggia di carboni ardenti sul capo dell’iniquo Duca di Bari; una pioggia di fuoco come erasi già rovesciata su Sodoma e Gomorra! potesse aver la virtù di fargli sotto i piè spalancare la terra, per divorar lui, sua moglie, e suo figlio, [89] come già furono inghiottiti gli scellerati Coro, Datan ed Abiron! — Isacco non stette molto a partire colla diletta sua figlia, Ester; e questa innocente creatura cogli occhi pieni di lagrime sdegnose lasciò una terra ingrata cui abbellita avea colle sue virtù e colle celesti sue attrattive: — Oh non avremo noi dunque pace, perchè la religione nostra è la madre della loro, diceva l’infelice: quand’è mai che si vide la figlia dannare ad esiglio la propria madre! Forse che il dio di Mosè non è ancora loro dio! Ma sia fatta la sua misteriosa volontà: soffriamo finchè non giunga il messia a liberarci dalle nostre catene; soffriamo finchè l’anima nostra non salga ad abitare le brillanti stelle! — Addio città che io amava come patria, scordandomi Gerusalemme: addio, cielo ridente di Lombardia, campi fecondi, popolo dolce ed amoroso! Satána che vi regge tolse a noi la pace, e non andrà molto (l’opere sue esser diverse da sè non ponno) che a voi pure la toglierà; e fra il pianto desidererete, come me, che su lui si aggravi la vendicatrice mano del signore! — Così lasciavano la diletta terra fatta lor nido queste vittime dell’intolleranza: sperando recar seco il seme di una terribile [90] vendetta; nel che veramente non andavano errati.

Giunto Isacco a Roma, spedì tosto per espresso la lettera affidatagli al Duca di Calabria. Tutto lo sdegno antico contro di Lodovico il Moro, nel quale già prima avea sospettati disegni avversi al suo genero, avvampò nel petto suo irascibile alla lettura delle concitate espressioni della diletta sua figlia. Egli cercò far passare l’ira sua nel re di Napoli Ferdinando, suo padre; ma questi, più freddo calcolatore, non adottò i consigli estremi del figlio, e deliberò usare i mezzi più miti de’ negoziati, anzi che quello da Alfonso suggerito delle armi. Lodovico Duca di Bari non tardò ad essere informato che una lettera di Isabella contro di lui era pervenuta al Duca di Calabria; e ordinò, che sorvegliata fosse rigorosissimamente Isabella, affinchè nuovi messi non potesse al padre inviare per modo alcuno, e venissero questi trattenuti; mentre per scolparsi presso il Re, che allora si era anche collegato col papa, delle imputategli colpe, fece scrivere a Gian-Jacopo Trivulzio, riputato capitano ed accorto diplomatico che serviva il Re di ordine del Moro o per meglio dire del Duca di Milano, [91] fece scrivere, dico, da un suo cancelliere la lettera seguente; che può vedersi nel barbaro italiano usato di que’ tempi in Milano, fra i documenti inediti che illustrano il libro V della storia del Trivulzio compilata dal diligente storico Carlo Rosmini.

«Ho fatto vedere all’Ill.mo sig. Lodovico quello che avete scritto per attestargli la buona disposizione della maestà del Re e dell’Ill.mo sig. Duca verso la Signoria sua; il che gli riuscì gratissimo, dicendo parergli di doverlo credere facilmente, perchè così richiede ogni ragione, avendo la Signoria sua fatto a beneficio loro quello che ha fatto. Poi soggiunse, che, dicendo voi che la Signoria sua vi deve credere in questo, sembragli che voi pure dobbiate credere a lui quello che dirà; e quindi cominciò a osservare, che non solo in Italia ma anche fuori era divulgato che per l’accordo della Maestà Reale e del papa dovea essere egli levato dal governo di questo stato; e che delle parole fatte in Francia circa questo ne era ben certificato, mentre poi per Roma altro non dicevasi ed eravi anche stato chi avea scommesso che non vi starebbe per tutto maggio.

«Da Siena dice aver avuto avvisi di simile [92] tenore; da Genova ancora, e da molte altre parti; e che lungo saria riferire come se ne parlava pubblicamente, dicendosi fra le altre cose che bastato sarebbe per lui di rimanere il podestà di Milano; tanto facile consideravano una tal cosa: non pensando come, grazie a dio, egli trovisi sì bene securo qui (e sono sue parole), che ardiva dire senza presunzione, che tanto fermo era in questo stato quanto mai lo erano stati gli Ill.mi signori suo padre e suo fratello, ed altri; e che non era lecito credere che alcuno colla forza il leverebbe. Egli osservava bensì che quelle dicerìe si facevano per danneggiarlo; ma ei non se ne curerebbe: convenendo però, che vero è, che sonovi persone che lo vorrebbero vedere non pur levato di posto ma anche morto; fra le quali è la sua Ill.ma nipote Duchessa di Milano, la quale pensa di dover governare essa quando egli sia escluso dagli affari; il che non le riuscirà, perchè nè l’Ill.mo Duca suo consorte nè altri glielo permetterebbero: mentre poi, quand’anche regnasse, (cosa che non avverrà) giammai far ella non saprebbe quello che fatto ha la Signoria sua, ad esaltazione e benefizio della prefata Maestà e del sig. Duca, come mostrano i fatti. Lagnavasi [93] poi non pertanto che, o pel desiderio di ciò o per propria indole, la detta Duchessa così male con lui si comporti, ch’egli non sa quale sia l’uomo al mondo che tollerarla saprebbe; e disse che i modi suoi insomma sono pieni di superbia, crudeltà, invidia, e maldicenza, sicchè non solo non sa vivere con sè, ma nè col marito nè coi servi proprj, talmente è strana e crudele con tutti; e in ispecie sembra ad altro non pensi che a fare a lui dispetto. Osservava, che essa ha di provisione dieciotto mila ducati, che pur bastare le dovrebbero, ed oltre ciò ha i doni che le fa il Duca; ma essa, non contenta, studiasi di fare che in capo all’anno resti grandemente in debito, ora di sette mila ducati ora di undici mila, come le è accaduto in questi due anni passati, i quali debiti (dice) si sono pagati; nè ancora è contenta, nè valgono onori e carezze per ammansarla verso sua Signoria. Anzi oltre che ebbe a dire che essa allora trionferà quando sua Signoria sarà morta; i modi suoi ancora più chiaro mostrano la verità di questo suo desiderio, ogni dì peggio diportandosi; onde dovete pensar voi con qual pazienza, e per essergli nipote e per averla la Signoria sua qui condotta, ei [94] la debba tollerare; sì che non sa se Giobbe ne avesse tanta quanto ne ha la Signoria sua; concludendo volere che vi scrivessi tutto questo, acciò possiate comprendere se o Lei o la Signoria sua abbia cagione di dolersi: ripetendo, che Essa è ben trattata, e a torto si duole di sua Signoria, e si comporta malissimo, come avete inteso; il che si ha da attribuire alla triste sua indole, o a quello che ha detto intorno alla brama di lei che sua Signoria venga esclusa da questo governo, pensando governar essa, cosa che non le potrà riuscire».

Il Duca di Bari ancora non tardò a sospettare del modo con che la lettera di Isabella era stata trasmessa al Duca di Calabria: fra i camerieri e le ancelle della duchessa, Carolina era la sua prediletta, e quella di che il Moro omai più non avrebbe potuto fidarsi pe’ suoi fini. Un giorno adunque essa fu chiamata dal Maestro generale della corte, minacciata di essere torturata se non confessava la cosa, e interrogata insidiosamente del modo con che avea fatta passare a Napoli la lettera della Ill.ma sig. Duchessa. Il terrore della tortura, la credulità femminile che le fece suppor noto ciò che ancor non era, cioè che [95] a lei quella lettera fosse stata affidata, la atterrì; ed essa, tacendo dell’amante, disse, che ad Isacco ebreo che partir dovea per Roma avea consegnato il foglio. — Basta, replicò il Maestro generale; e recossi ad interrogare il Duca di Bari su ciò che far dovesse. Mezz’ora dopo, un’ancella della duchessa Beatrice, di matura età, comparve con uno sconosciuto; ingiunsero a Carolina di seguirli; fu posta in una carrozza ben chiusa, vi salirono essi stessi, e dopo cinque ore di cammino smontarono ad un monastero, ove fu lasciata quella angelica giovinetta tutta pallida e sbigottita. Fu accolta con amorevolezza: nessuna però di quelle religiose per tutto il tempo che ivi quella buona creatura rimase, non ardì mai scoprirle il nome del luogo in cui si ritrovava. Tal precetto rigoroso esse aveano ricevuto. — Ella era in un monastero di Pavia. — La duchessa Isabella fremette allorchè le si annunziò, che Carolina non era più al suo servizio, chiamata premurosamente alle paterne case da un inaspettato cenno del genitore: essa nulla di ciò credette; ma, per non avvilirsi chiedendo cose che non le sarebbero state svelate, nulla replicò.

Frattanto il Duca di Bari pensava seriamente [96] ai modi di sfidar la procella che contro di lui si condensava; tanto più che a ciò egli era potentemente spinto dalle lagrime della moglie ancora più di lui ambiziosa, e dai consigli del suocero Duca di Ferrara. Il Re di Napoli, lungi dal deporre il pensiero di giovare alla causa di Isabella e di Gian-Galeazzo, mandava in Milano due oratori a Lodovico, perchè con bei modi lo esortassero a dimettersi dal governo. Questi, introdotti alla presenza del Moro, gli tennero un lungo ed elaborato discorso. «Lo ringraziavano da parte di Re Ferdinando del modo saggio con che avea retto il Ducato di Milano, elevandolo all’antica sua maestà; la qual saviezza reso lo avea come l’arbitro dell’Italia e l’autore della pace che ora la rallegrava: lodavalo d’aver riacquistata Genova, quando era insorta; di aver aiutato Ercole Estense contro i Veneziani, di aver debellati gli Svizzeri, dato lo stato a Caterina Sforza, e al Saluzzese restituito il suo; di aver, nuovo edificatore di essa, decorata Milano di innumerevoli e magnifici edifizi, di templi sontuosi, tanto che questa città splendea come principalissima nell’Italia; commendavalo della liberalità con che facea pervenir sussidj ai cristiani che trovavansi nei [97] luoghi sacri presso il Santo Sepolcro; cose tutte delle quali pur lo ringraziava il nipote di lui Gian-Galeazzo. Ora però il Re desiderava, che a questo giovine principe lo stato si rimettesse, giacchè era in età da poter reggerlo nè mancava della debita capacità; bensì egli col consiglio proseguisse ad aiutarlo. Gli soggiungevano finalmente, che il dimettere il comando stata sarebbe per lui cosa oltre modo gloriosa, come un tempo lo fu in Isparta per l’immortale Licurgo». — Lodovico udì l’orazione de’ due ambasciatori; rispose loro in modo vago, ma senza nulla promettere; e li licenziò onorevolmente, nel modo stesso che li aveva ricevuti.

E per premunirsi nel caso che Re Ferdinando avesse posto mano alla forza, come sembrava che far volesse; non molto fidandosi de’ Milanesi che temeva odiar dovessero la sua usurpazione a danno di un nipote innocente e di una giovine principessa, la cui depressione era atta a movere la generale simpatia; deliberò di opporre alle armi degli Aragonesi quelle di Francia; per occupare siffattamente i suoi nemici in propria difesa, che pensar non potessero a molestar lui. — Regnava allora in Francia [98] Carlo VIII, principe in età assai giovenile, che pieno di audacia e di desiderio di segnalarsi, sebbene poco colto, come erede di Carlo d’Angiò avea pretese stimate assai legittime sul Reame di Napoli. Lodovico cominciò adunque a stimolarlo al conquisto di quel regno, non risparmiando di spargere il danaro fra i di lui ministri per riuscire nel suo intento.

E mentre Carlo con trattati agevolava l’impresa già ideata di Napoli, il Duca di Bari pensando omai a far suo del tutto il ducato di Milano; per poter opporre alle forze di Ferdinando ed Alfonso non solamente le armi ma ancora un giusto titolo di diritto, mandava all’Imperatore ai 10 di maggio del 1493 un suo fidato, Erasmo Brasca, con ampia facoltà di obbligarlo per qualunque somma di danaro purchè gli ottenesse da quel principe l’investitura del ducato milanese stata già negata al nipote suo ed agli altri Sforza suoi predecessori. Quell’istesso Erasmo poi da Gian-Galeazzo, ignaro degli intrighi dello zio, riceveva contemporaneamente, e anzi nell’istesso giorno, il mandato di trattar il matrimonio tra il Re de’ Romani Massimiliano figlio del regnante imperatore Federico III, e Bianca Maria sua sorella.

[99]

Massimiliano, dopo lunghi negoziati, accettò la mano di madonna Bianca Maria Sforza dei Visconti sorella di Gian-Galeazzo, a condizione gli si mantenessero i patti stipulati col Brasca; i quali le costituivano una assai ricca dote. Il medesimo Re de’ Romani poi prometteva innoltre al Duca di Bari, che subito che per la morte di suo padre egli sarebbegli succeduto nell’Impero, gli concederebbe in feudo il Ducato di Milano e la Lombardia, il Contado di Pavia, e gli altri dominj di città e terre, in quella maniera e forma che altre volte furono concessi dal serenissimo Vencislao Re de’ Romani a Gian-Galeazzo Visconti primo duca milanese; e ciò non solo perchè ne fruisse esso Lodovico, ma perchè il dominio ne passasse anche a’ suoi figli maschi, e discendenti, a perpetuità. Per la dote e per gli ottenuti privilegi, Erasmo prometteva quattrocento mila ducati in oro; venticinque mila tosto, e settantacinque mila fra due mesi dopo, celebrata la confermazione di que’ capitoli; il restante in varj tempi.

La fortuna fu anche propizia al Duca di Bari; perchè di lì a poco moriva Federico III imperatore, e gli succedeva Massimiliano; che subito gli mandò legati per stabilire [100] i contratti sponsali, che vennero confermati. Giunti poi nel novembre a Milano gli ambasciatori del Re de’ Romani, furono nel Castello albergati con grandissimi onori; ed al primo del prossimo mese, le strade dal Castello fino al maggior tempio essendosi ornate e coperte di finissimi drappi, la Bianca giovane avvenente, con Beatrice moglie di Lodovico, su di un carro trionfale tratto da quattro nivei cavalli, venne condotta al duomo, accompagnata degli ambasciatori tedeschi, dal duca Gian-Galeazzo, da Lodovico Sforza, con tutti i feudatarj dello stato e un numero assai grande di donzelle e primarj cittadini milanesi, tutti vestiti molto riccamente come usavasi in quella pomposa età. Ivi, assistito che ebbero ai divini uffici, la Bianca colle debite cerimonie venne dai due legati a nome del serenissimo Re Massimiliano per moglie sposata, e poi come regina coronata; dopo di che, essendo fatta montare su un docile e riccamente bardato cavallo, con sommo giubbilo di ognuno fu ricondotta in Castello. Due giorni appresso essa partì per la Germania, dalla parte di Como. Fin a questa città fu accompagnata, oltre alla regia comitiva, dai due duchi di Milano e di Bari, da Beatrice, e da [101] Bona di lei madre che d’ordinario viveva nel Castello di Abiategrasso; non che dal giovinetto Ermes Sforza suo fratello, con ingente seguito di persone.

Ancora Lodovico mandava in Francia il Conte di Caiazzo fratello di Galeazzo Sanseverino, con Carlo Balbiano conte di Belgioioso e Galeazzo Visconti, per istigare Carlo VIII ad affrettare la disegnata impresa, e mostrargliela favorevolissima anche per agevolare la spedizione che, per coprirsi di gloria immortale (come ei pensava), egli intendeva imprendere contra il Turco. Gli offeriva il Moro, col loro mezzo, soccorsi di uomini e danaro; e il Belgioioso era incaricato di disporre coi doni i confidenti del Re a secondarlo. Il Re di Francia accolse con bontà l’invito di Lodovico, sì perchè conforme ai desiderj suoi, come anche perchè veniva da un principe che grandissima fama godeva di avvedutezza e prudenza. Radunato il suo generale consiglio, ei fece esporre dal Belgioioso il motivo della imbasciata, e dichiarò poi egli stesso la propria intenzione di passare in Italia: invano alcuni grandi si provarono di dissuaderlo, giudicando quell’impresa incerta e pericolosa; il voto favorevole prevalse, [102] e perchè molti erano stati corrotti dall’oro del Duca di Bari, e perchè altri vedevano brillare la speranza di individuali vantaggi durante l’assenza del Re. Galeazzo Sanseverino, che era pure stato al Re mandato dal Moro, si era poi cattivata la benevolenza di Carlo VIII facendosi ammirare come compitissimo cavaliere.

I principi Italiani, penetrata la cosa, tutti condannarono concordemente il Duca di Bari, che si fosse avvisato di turbar l’Italia chiamandovi le armi francesi. Il pontefice stesso Alessandro VI tentò tutte le vie per indurlo ad unirsi invece con lui e col Re di Napoli, contro la Francia. Intanto Carlo VIII, venuto a Lione, volle che il suo parlamento dichiarasse la validità de’ suoi diritti sul Regno di Napoli. Il Duca di Bari allestiva pure l’esercito; ed erasi assicurato del soccorso de’ Veneziani e del signor di Bologna, nel caso che il Re di Napoli lo assalisse. Il Re Ferdinando, spaventato del proprio pericolo, incaricava il figlio Duca di Calabria degli apparecchi per l’esercito di terra, e don Federico suo secondogenito per quelli della flotta. Egli poi moriva improvvisamente, ai 25 di gennaio del 1494; ed Alfonso Duca di Calabria [103] gli succedeva. L’esercito napoletano avanzossi verso la Lombardia, malgrado che Gian-Jacopo Trivulzio presso il Re di Napoli si ingegnasse di ristabilir la concordia fra esso e il Duca di Bari: e Lodovico sospettoso, credendosi tradito dal Trivulzio della cui fedeltà sembra già prima assai dubitasse, levava a lui tutte le pensioni che dal governo di Milano riceveva; e movea a propria difesa l’esercito ducale comandato da Sanseverino suo genero, il quale si accampò nel contado di Imola, e in breve (agosto 1494) si unì colle genti francesi spedite sotto la condotta del signor di Obigny: onde gli Aragonesi dovettero depor l’idea di entrare in Lombardia; e, per l’inazione del Conte di Pittigliano, poi si videro anche costretti ad indietreggiare, sì perchè il papa ritirò le sue genti, e sì per essersi alcune città, come Cesena e Bologna, ribellate a favor de’ Francesi, che già nell’Italia col loro Re si innoltravano. Ritirandosi gli Aragonesi, non si soffermarono che a Roma.

In questo mezzo Lodovico Sforza, che non mai abbastanza sicuro si reputava, sollecitava per legati Massimiliano a mandargli, secondo i patti stretti fra loro, la convenuta investitura. [104] Questa giunse infatti ai 5 dicembre di quell’anno 1494; ma per allora si tenne segreta. Un privilegio posteriore poi accordava a Lodovico che, mancando i suoi figli legittimi, gli succederebbero i naturali; e finalmente Massimiliano facea una dichiarazione, che sebbene l’imperatore suo padre e lui fossero stati più volte da Lodovico pregati di concedere a Gian-Galeazzo Sforza il milanese ducato, essi farlo non avevano voluto, essendo usanza dell’Impero non investire alcuno di uno stato ch’egli abbia usurpato: però, trovando tanto benemerito nel suo governo Lodovico (e poteva soggiungere trovando che tanto bene sapeva pagare), a lui col consenso degli Elettori lo conferiva.

E il povero Duca Gian-Galeazzo? Egli giaceva allora gravemente ammalato, e andava struggendosi ogni dì più. Molti accagionavano i disordini di sua gioventù di tal disgrazia; altri sotto voce si dicevano misteriosamente, «di fermo egli ha ingollata la pillola!» Egli si era traslocato nel castello di Pavia. — Così Isabella vedeva ad un tempo il padre minacciato dalle armi francesi; lo sposo in grave pericolo di morire; e compirsi il trionfo dell’odiato Duca di Bari, e della ancora più abborrita sua rivale Beatrice d’Este.

[105]

Capo IX. I FRANCESI IN ASTI

Carlo VIII nell’anno vigesimo secondo dell’età sua, indolente per ciò che spettava agli affari, ma pieno di amore della gloria, si mosse per la spedizione di Napoli sino allora non del tutto stabilita. Partiva da Vienna il 23 di agosto; e passava nell’Italia per la montagna di Monginevra molto più agevole a varcarsi che quella del Moncenisio. A Susa per le poste era corso ad incontrarlo Galeazzo [106] Sanseverino; il quale, come si disse, già si era acquistata la sua benevolenza quando avea visitato quel Re in Francia. Passava Carlo a Torino, dove si fece prestare dalla duchessa di Savoia vedova del duca Carlo le sue gioie, a fine di impegnarle per dodici mila ducati. Infatti Carlo, che impresa avea la sua spedizione con forze non molto ragguardevoli veramente ma sufficienti se abbiasi riguardo alla condizione dell’Italia in que’ tempi, egli, dico, difettava però oltre modo di danaro. Egli avea, è vero, presi in prestanza con grossa usura cento mila franchi dalla banca Sauli di Genova; e cinquanta mila ducati gli erano stati affidati da un mercante milanese senza obbligo di interesse, e ciò per conto di Lodovico il Moro sebbene non apparisse; ma queste ed altre sovvenzioni non erano sufficienti al grande suo bisogno, giacchè vôto era il suo erario. Nè molto ben provveduto era il suo esercito, di cui svizzeri e tedeschi formavano il miglior nerbo; perocchè quanto ai francesi, gran parte erano persone di perduti costumi, fuggiti alla giustizia, e che portavano lunghi capelli e barba per nascondere le orecchie che loro erano state fatte mozzare dalla giustizia per marchio d’infamia: e se è vero che seco il [107] Re avea altresì una fiorita e valorosa schiera di giovani gentiluomini, avidi di segnalarsi, a questi per altro mancava non poco la militare disciplina. — Il Re giunse ad Asti il dì 9 di settembre: il caldo ancora grande avea affaticate le sue genti; i vini, in quell’anno assai acidi, loro riuscivano ributtanti; già della spedizione si era quasi noiati, e molti, fra i quali il Comines storico assai notabile, stimavano tuttavia incerta cosa che avrebbe luogo. «Se questa a buon termine è condotta, soleva ripetere il Comines, egli è gran segnale che ci aiuta Dio, giacchè nè nel Re nè ne’ suoi capitani nè nei suoi tesori vedo poter contare. Il Re per la sua età è savio, ma esce adesso solo dal nido: e quelli che lo maneggiano a lor modo, Stefano di Vers senescalco di Beauchere e il generale Brissonetto, sono uomini non solo di bassa condizione ma senza esperienza. Quanto a me però, io sono pronto; e mi vanto anche di essere stato il primo a montare a cavallo».

In Asti per altro accadevano cose che accrebbero il coraggio del Re; il quale dal suo canto non mancava di fermezza ne’ suoi disegni; fermezza che anzi talora era tale che, [108] al dir di Guicciardini, degenerava in ostinazione. Infatti colà giunsero a Carlo buone notizie, cioè quelle della vittoria riportata dal Duca d’Orleans a Rapallo sulla flotta aragonese; il che servì pei francesi di lieto augurio. Innoltre a confermar Carlo nella già cominciata impresa, giungeva il Duca di Bari, accorso a complimentare il Re, insieme colla moglie, col Duca di Ferrara, e un seguito brillante di gentildonne milanesi.

Lodovico era stato informato assai bene dell’umore del Re di Francia, e della sua propensione fortissima per il bel sesso e pei sollazzi. Un cavaliere animoso, elegante e destro, una bella donna, trovavano sull’istante grazia presso di lui. Per ciò egli avea ricolmato di carezze Galeazzo Sanseverino, genero di Lodovico; il quale allorchè portato si era in Francia, v’era andato molto bene accompagnato, con gran numero di bellissimi e buoni cavalli, con molte ricche armature per giostrare e correre la lancia, e si mostrò in tali esercizi abilissimo, essendo giovine oltre modo destro e gentile. Il Re gli diede allora, il suo ordine di San Michele; ordine insigne, i cui membri si chiamavano fratelli del Re; e con esso decoravansi [109] di una collana d’oro da portarsi sempre in memoria del dato giuramento. Verso il bel sesso poi il Re era propensissimo; poichè giovane era pieno di ardore, sebbene gracile di complessione. Per queste cose Lodovico avea pensato di fargli piacere venendolo ad incontrare con una scelta e lietissima brigata. Le matrone che egli seco conduceva come seguito della moglie, erano tutte assai belle; e forse nessuna era tanto schiva da rifiutare i favori di un Re di Francia.

Con molta curiosità questa brillante comitiva osservò il Re che non tardò ad ammetterla in sua presenza. Era Carlo allora, come già dicemmo, giovinissimo, ed era brutto e contraffatto anzi che no della persona, notevole per una forte sproporzione delle sue membra: ma l’aria del comando e le ricche vesti davangli una certa qual dignità; e l’occhio suo brillava di una vivacità non ordinaria. Portava allora una lucidissima armatura, tutta ornata d’oro, e coperta di una sopravvesta turchina di velluto tempestata di gigli d’oro: in capo avea una preziosa corona; ed era decorato del suo ordine di S. Michele. Del resto, era piccolo, di corpo mal sano; ed erano i suoi lineamenti non [110] belli, benchè indicanti forse fermezza e l’impero, ed anche una certa bontà che alcuni però dicevano remissione d’animo e freddezza. — I gentiluomini del suo seguito vestivano con eleganza, e riccamente: portavano vesti con tagli alle maniche di panno fino o di velluto, che scendevano fin sotto le ginocchia o a mezza gamba od anche fino a terra, e che d’ordinario stringevansi ai fianchi da un cinto; berretti di velluto, con piume preziose; collari pur di velluto, con trine d’oro e bottoni d’oro; e giustacori sotto, di raso od ormesino bianco e d’altri colori, ricchi, e con fregi pur d’oro: i panni di gamba erano sì stretti, da apparirne non solo i muscoli ma ancora le vene: cingevano lunghe spade; teneano, come era uso, il capo coperto anche alla presenza del Re, tranne il caso che questi loro dirigesse la parola.

Dal loro canto il Re e i suoi favoriti consideravano essi pure il corteggio milanese, non meno brillante e notevole. Lodovico il Moro si presentò al Re di Francia in abito solenne; portava una veste fino a’ piedi di damasco cremisino ricamata con oro, e cinta con un cordone di seta morello pur con oro tessuto: gemmato era il berretto morello ch’ei tenea [111] in mano. La capigliatura sua, vera o posticcia, scendevagli ricca fino al collo con un’onda maestosa; il collo era nudo, se non in quanto che in parte lo celava la candida camiciuola crespata che dall’abito alcun poco sorgeva: le calze erano morelle; d’oro ricamate le scarpe. Beatrice sua moglie mostrossi ancora più riccamente abbigliata: la sua testa, da cui spirava un’aria virile, era adorna di alcuni ricci che ne cingevano la fronte candida; mentre trecce ben acconciate erano poi di questa il principale ornamento, con varie gioje: sopra i capelli di dietro, un velo appuntato scendeva maestosamente, in preda agli scherzi dell’aura: era di seta, vergato d’oro, di trine pur d’oro contornato; e scendea a coprire tutta la sopravveste; ed un capo di esso, tirato sotto il braccio sinistro, era attaccato sopra il petto: la sopravveste che portava era di velluto verde stampato, ornata di passamani e ricami d’oro, e lunga fino a terra: molte ricche gemme ne fregiavano il collo e le smaniglie: qua e là brillare vedevansi bottoni d’oro e di perle. Il Duca di Ferrara era a un dipresso vestito come Lodovico, tranne che variava il colore dell’abito, che era scuro.

Le gentildonne del seguito di Beatrice distinguevansi, [112] come si è detto, per beltà; e molte erano rimarchevoli pel loro spirito. Varie erano le loro acconciature, varie ancora, ma meno, le fogge delle vesti. Alcune serrati aveano i loro capegli con una rete d’oro, sprigionandosene però ciocche alle bande che loro pendevano graziosamente giù per le tempie: altre aveano ricci molto belli attorno alla fronte; e le trecce ben crespe ed in anella cadevano in giri voluttuosi sulla superficie della testa: sulle quali alcune aveano fermati veli, trapunti d’oro o d’argento. Tutte al collo portavano assai ricchi monili, di gemme sfolgoranti o di pallide perle. Le vesti seriche erano spesso seminate di fioretti d’oro: ricchi cinti, pure d’oro, di gemme fiammeggiavano: varie di tali vesti erano aperte d’avanti, onde apparivano sottane di velluto o damasco figurato; di dietro, un po’ di strascico: altre al contrario erano bottonate davanti con bottoni d’oro, talora ricchi di pietre preziose. — I gentiluomini milanesi poi, che erano al seguito del Duca di Bari portavano, i più attempati, vesti lunghe fino a terra, sia di damasco sia di velluto, di color vario; con berretti serici: ed i giovani sfoggiavano abiti più eleganti; avevano berretti [113] di velluto cinti da trecce d’oro; giubboni di seta con tagli artificiosi per mostrare le fodere di diversi colori; e pur con tagli erano i loro panni da gamba, talora di due colori: bottoni d’oro e monili accrescevano lo splendore de’ ricchi abiti, i cui colori variavano, e che talora ammettevano leggeri cappe eleganti; nè escludevano il lusso delle smaniglie, per lo più ricche di gioie preziosissime.

Quest’era la pompa esterna di quella doppia schiera elegante che a vicenda si visitava: ma chi era più addentro ne’ segreti della galanteria de’ tempi, potea eziandio dagli abiti delle signore milanesi scoprire, in parte almeno, i loro sentimenti. Imperocchè la moda, sempre ministra dell’amore, avea allora messo in uso un muto linguaggio, onde i varj colori a cui le belle davano la preferenza nel loro abbigliamento erano loquaci e spiegavano le interne loro inclinazioni; questo alludeva alla speranza che lasciavano alla persona a cui mostravansi, quelli equivalevano ad una dichiarazione d’amore; e, come si esprime un poeta milanese di que’ tempi, molto si potea sapere intorno al grado a cui montava (mi si perdoni quest’ardita espressione) [114] il termometro del loro cuore, conoscendo,

Che significa il verde, il bianco, il giallo,

Morello, e negro, e perso, e colorito;

Che spesse volte chi il colore intende

Del pensier dell’amato assai comprende.

Era quella un’età nella quale l’amore non di rado andava sciolto da quel velo misterioso che pur lo rende più caro.

Due giorni si fermò Lodovico presso al Re; poi ritirossi a Nom, castello del ducato di Milano discosto solo tre miglia da Asti. Il Re, cresciuto appresso alla sorella sua Anna di Francia stata reggente, ed educato nella petulanza muliebre, come si esprime il Corio, non tardò molto a dar saggi del suo umore scherzoso; e con varie dame si mostrò tosto assai vivace e galante, obbliando la propria dignità. Egli fu da varie di esse molto bene corrisposto; poichè l’eminenza del grado facea loro obbliare i torti della natura: e, profuso in mezzo all’estrema penuria di danaro in che trovavasi, ei fece a queste vaghe sue favorite ricchi donativi di anelli preziosi. Ma mentre Carlo perdevasi nelle delizie de’ voluttuosi piaceri, il Duca di Bari [115] ed Ercole Estense duca di Ferrara consideravano invece le forze di lui, cui essi opponevano ai parenti di Isabella che liberarla volevano dalla schiavitù dello zio usurpatore.

Computando la gente che erasi recata a Genova e quella che coll’Obigny militava in Romagna, Carlo avea per la sua impresa oltre 200 gentiluomini della sua guardia; 1600 uomini d’arme, dette lancie, ciascuno dei quali (come in Francia usavasi) avea due arcieri, sicchè sei cavalli erano sotto ogni lancia; sei mila fanti svizzeri; sei mila fanti francesi, metà dei quali guasconi, che passavano allora per più valorosi. Per unirsi a quest’esercito erano state condotte per mare a Genova quantità grande di artiglierie da battere le muraglie ed usare in campagna: e queste non già bombarde pesantissime e difficili a maneggiarsi, come si usavano in Italia ove erano trascinate da’ buoi; bensì pezzi più spediti, chiamati cannoni, con palle di ferro, agilmente sulle loro carrette tirati dai cavalli, ed i cui colpi spessi facevano effetto ben più formidabile contro gli oggetti cui erano rivolti. E se le armi erano più terribili, più terribili pure erano gli animi de’ combattenti; perchè molti erano in quell’esercito gentiluomini [116] avidi di segnalarsi; e in generale i soldati erano migliori che quelli d’Italia; ove le compagnie, più spesso arruolate dai condottieri e da loro mal pagate, erano composte di vera feccia, nè aveano i loro numeri interi, nè erano troppo bene di cavalli ed armi provvedute; per tacere del carattere impetuoso de’ francesi, che per amor d’onore sanno far grand’impeto, almeno sulle prime, al che pur li eccitavano i premj, consistenti negli avanzamenti, che erano graduati fino al capitanato. E quanto ai capitani e baroni poi, essi nulla più desiavano che di segnalarsi agli occhi del re, nè accadeva fra loro quello che avveniva in Italia; ove i condottieri erano men zelanti e mal fidi, non badando che a’ loro privati interessi, ed abbandonando spesso un principe se vedeano di poter prender servizio con più vantaggio sotto il suo nemico; ed ove perciò bastava a que’ soldati avari, fatto un prigioniero, rimandarlo spogliato delle armi ed in camicia. Ancora poi era notabile questa diversità nel modo di combattere tra i fanti francesi e gli italiani, che questi combattevano sparsi per la campagna e disordinati; mentre i francesi, come gli svizzeri, pugnavano con schiere [117] ordinate, e distinte a certo numero per fila, opponendo a’ nemici un muro di armi più formidabile.

Tanta superiorità di forze fece quasi sbigottire il Duca di Bari, timido e sospettoso. Guai se al Re venisse in mente di ajutar il nipote suo, pensando che uno stretto parente, come gli era Gian-Galeazzo, gli gioverebbe meglio sul trono di Milano che non un estraneo! E d’altro canto, i popoli aggravati di imposte presentavano facilità grande ad essere mossi. Egli deliberò adunque di tentar ogni mezzo perchè il Re presto sgombrasse, attraversandola, la Lombardia. Ma, per mala sorte, Carlo appunto allora cadeva ammalato di vajuolo; onde si dovette fermare in Asti molti giorni, distribuito l’esercito in quella città e nelle terre vicine. Quella malattia fu pericolosa; ma la febbre avventurosamente fra sei o sette dì cessò. Risanato il Re però, non sapeva ancora ben risolversi a proseguire il suo viaggio; perchè di danaro difettava, e considerava che le sue forze erano ben tenui per attraversare tutta l’Italia e giungere abbastanza grosso da abbattere un nemico che egli giudicava assai potente. Molti fra i suoi cortigiani lo dissuadevano ancora da [118] una spedizione, il cui esito sembrava tuttavia tanto incerto.

Ma Lodovico il Moro seppe toglierlo dalle sue perplessità. Ogni giorno egli intrattenevasi col consiglio che l’andava regolarmente a trovare nel suo castello di Nom; e poichè il Re si fu alquanto ristabilito, a lui recatosi, cominciò con un eloquente ragionamento ad esercitare su di esso quell’influenza potente, che sapea far sentire a tante persone autorevoli nell’Italia, ed al proprio nipote.

— Siate di buona fede, signor Lodovico, diceva il Re dal letto in cui stava ricuperando le smarrite forze; allora voi non mi consiglierete già di andar oltre con mezzi sì scarsi di gente e danaro, come sono quelli che trovansi a mia disposizione: su via, rispondete a questo! È su ciò che io voglio sentirvi!

— Sire, rispondeva nell’idioma francese il Moro, i vostri timori dileguate: voi sapete, che ora le vostre genti unite alle milanesi respingono il Duca di Calabria inoltratosi nella Romagna; mentre sul genovese otteneste già altri successi. E quanto a quest’Italia che vi dà a pensare, piacciavi, o Sire, considerare, che essa si compone di molti [119] stati poco ragguardevoli, i quali nulla ardirebbero contro la Maestà Vostra: in Italia soli tre pontentati noveransi che noi riputiamo grandi; e sono, Milano, i Veneziani, e il Regno di Napoli: or voi ne avete uno tutto vostro; l’altro, che sono i Veneziani, stanno neutrali, desiderando anche il male del Re di Napoli che essi odiano; e quanto al regno di Napoli, esso è pronto ad insorgere a favor vostro, tanto sono colà i baroni malcontenti e i popoli oppressati. Voi trionferete agevolmente, credetemi, de’ vostri nemici; e ricordivi che furonvi de’ vostri predecessori che ebbero vittoria su altri molto maggiori. Questo è momento opportunissimo per coprirvi di gloria immortale. Se voi mi prestate fede, io ajuterovvi a farvi maggiore che non fu mai Carlomagno; perchè tosto che sarà in poter vostro il Regno di Napoli, cacceremo il Turco dall’impero di Costantinopoli; e di tal modo la vostra fama brillerà più splendida di quella di tutti quanti i vostri predecessori!

A tali idee di gloria, il Re rianimava il fuoco degli occhi cui la grave malattia alquanto avea spento. — Ma, mio caro signor Lodovico, soggiungeva poi, io manco [120] di danaro; e voi forse non amerete spoverire per me il vostro tesoro, che pur passa pel più ricco della cristianità?

— Voi mi offendete, Sire; per quanto il permettono l’angustie dei tempi, voi mi troverete sempre pronto a sovvenirvi; ed io vi farò sborsare ora, senza indugi, una somma; ed altra vi sarà consegnata a Pavia.

— Ah, così, va bene, così va bene! con questi sussidj, noi potremo quanto prima metterci in cammino; ed essendoci Firenze amica, non nemica Venezia, cercheremo accordarci col papa; e riserberemo il ferro contro il solo Reame di Napoli, alla cui conquista però spero ci sarà giovevole la crudeltà di que’ principi, che tanto disaffezionò, dicono, la loro nazione e più ancora que’ baroni!

Di tal modo Carlo si risolvette a proseguire con celerità la sua impresa: è vero che qualcuno non cessava di sconsigliarlo, e fra questi il generale Brissonnetto; il quale disse anche apertamente al Re, che Lodovico tutti li ingannerebbe: ma, poichè esso era assai leggero nelle parole, molto non gli si badò; benchè dicesse il vero. Il Re deliberò di mandare ambasciatori a Venezia; ed uno di questi fu lo storico Comines, che in tal occasione [121] potè considerare per la prima volta la ricca ed ampia città di Milano, e il suo territorio. — Intanto il Re, dopo circa un mese di dimora in Asti, ne partiva il 6 di ottobre, lasciando al governo di quella città il Duca d’Orleans suo consanguineo; e il dì 8 giungeva a Casale, ove dalla Marchesana fu ricevuto con splendidezza. Questa vedova, giovane e valorosa, mortale nemica del Duca di Bari, era figliuola del re di Servia; ed essendo stato il suo paese occupato dal turco, l’imperatore suo parente, appresso al quale si ricoverò, data l’avea in moglie a quel marchese. Essa prestò, ella pure, le sue gioie al Re di Francia, come fatto avea la Duchessa di Savoia, perchè le impegnasse a ricavarne danaro. Il Re si trattenne in Casale il giorno 9, per solennizzare la festa di San Dionigi protettore di Francia; e il dì vegnente andò a pernottare a Mortara. Quindi la sera dell’11 fu a Vigevano; ove il Duca di Bari avea di già fatti fare molti apparecchi per riceverlo, ed al suo arrivo venne ad incontrarlo colla moglie ed onorevolissimo seguito. Vi si trattenne il dì dopo, che era domenica; e il giorno appresso fece poi la sua solenne entrata in Pavia; ove casi più degni della nostra attenzione stanno per presentarcisi.

[122]

Capo X. GLORIE ED USI DI MILANO

Ma prima di narrare ciò che accadde durante il soggiorno del Re in Pavia, piacemi un istante tener dietro al bravo Filippo Comines che con stupore osservava la Lombardia, sclamando che essa era il più bello e più ricco paese del mondo; e considerava attentamente lo stato materiale e morale della nostra città.

Egli trovò nel Castello di Pavia Bernardino Corio, storico anch’esso, e che era cameriere [123] ducale: in breve l’uno imparò a stimar l’altro; e Corio volle essere guida al Comines, non solamente in Pavia, ma eziandio in Milano ove si propose di condurlo egli stesso. Pavia a que’ tempi era città assai più florida che poi non fu; perocchè molte volte venne in appresso saccheggiata nelle guerre che seguirono al principio del successivo secolo XVI. Un’iscrizione, più antica di un secolo e mezzo del tempo di cui parliamo, le dava il titolo di seconda Roma. Corio fece osservare al Comines il bel ponte di pietra su cui si passa il Ticino, fabbricato nel 1351-52; e posteriormente abbellito, fortificato, e coperto, da Galeazzo II Visconti che a torto il Morigia dice fondatore di quello. Nel mezzo, avea una torre con ponte levatojo. I più antichi templi della città pure furono dal Corio additati al Comines, varj de’ quali ricordano la dominazione de’ Longobardi: in uno di questi, chiamato S. Pietro in cielo d’oro, gli mostrò l’arca marmorea di s. Agostino scolpita vagamente da uno scolare del Balducci, come si crede, nel secolo XIV; mostrogli la torre rotonda ove gran tempo stette imprigionato Boezio, e che da lui avea preso il nome; torre che allora [124] veniva creduta dal volgo abitata dagli spiriti, perchè all’intorno era fregiata da alcune immagini di terra cotta le quali, essendo vote internamente, al soffiar del vento producevano un sibilante mormorio, sia per caso sia per invenzione dell’artista che le costruì. Mostrogli pure il Palazzo del comune; la statua di bronzo di Antonino Pio, che i Pavesi tolsero ai Ravennati, e collocarono sopra una colonna nella piazza davanti alla cattedrale; nè lasciò di far notare al distinto straniero l’università, fondata essa pure da Galeazzo II Visconti, principe che per crudeltà e tirannide si segnalò, non meno che per la protezione che impartì alle lettere. Lodovico il Moro stava allora facendo erigere il magnifico edifizio che egli destinò ad essa università, famosa e allora frequentatissima (edifizio che tuttora si ammira); come poi più tardi, cioè nel 1496, con un suo editto, dopo aver lodati quegli studj, volle che i collegi de’ giureconsulti, degli artisti, de’ medici e de’ filosofi, fossero esenti da ogni gravezza. Per ultimo il Corio mostrò al proprio ospite il famoso castello o palazzo alzato da Galeazzo II Visconti, col magnifico parco unitovi, allora celebratissimi per tutta l’Italia.

[125]

Di quel Castello famoso, di cui gran parte tuttavia si conserva, noi daremo piena notizia al lettore, avido di confrontare gli oggetti del lusso antico con quelli del presente. L’edifizio è di forma quadrata: e nel mezzo ha una gran corte, che comodissima riusciva per eseguirvi giostre, torneamenti, ed altri giochi, allora assai amati da’ principi; intorno alla quale sorgono bei porticati, tanto di sopra quanto di sotto, colle loro colonne di marmo, e con scale fatte in maniera che vi si potesse salire a cavallo fino alla cima. Le sale e camere, tanto superiori che a terreno, erano tutte in vôlte, e quasi tutte dipinte a varie vaghe istorie e lavori, coi cieli colorati di finissimo azzurro, e ne’ quali campeggiavano diverse sorta d’animali fatti d’oro, come leoni, leopardi, tigri, levrieri, bracchi, cervi, cignali, ed altri: di queste camere, le più vagamente ornate erano quelle della parte del castello che guardava verso il parco; ed era colà che trovavasi un gran salone, lungo circa sessanta braccia e largo venti, tutto istoriato con bellissime figure rappresentanti cacce, pescagioni e giostre, con varj altri trattenimenti de’ duchi e duchesse milanesi. Di tutte queste pitture, una gran parte era stata fatta [126] eseguire da Galeazzo Maria Sforza, padre del duca vivente, il quale si era servito del valente pennello di Bonifazio Bembo, pittore cremonese; e gli avea fatte rappresentare soprattutto molte circostanze solenni della propria vita, le quali erano appunto cacce, ambascerie ricevute, solenni entrate, e cose simili. Nel mezzo della sala ora descritta poi, v’era un gran finestrone, largo dieci braccia ed alto dodici, con un gran balcone davanti, munito di cancelli di ferro, e sporgente sei braccia sopra la fossa, che larga e piena d’acqua gira intorno al castello; balcone sul quale usavano i duchi, nella state, cenare per prendervi il fresco, al suono di tromboni, cornetti, flauti, e d’altri stromenti. Il Castello poi avea quattro torri assai belle, a’ suoi angoli; delle quali quelle volte verso il parco furono dalle artiglierie francesi abbattute nel 1527. Sopra quella che era alla mano destra della porta maggiore per cui entravasi nel castello, era un orologio di maraviglioso meccanismo, già fatto costruire da Gian-Galeazzo Visconti, e che non solamente colla freccia e col suono della campana indicava le ore, ma mostrava ancora il corso de’ pianeti e segni celesti. Nella sala che stava nell’altro [127] torrione, v’era la copiosa libreria che Galeazzo Visconti avea pel primo raccolto e poi era stata ampliata da’ suoi successori, e soprattutto da Galeazzo Maria Sforza, padre del giovinetto Gian-Galeazzo. Tal libreria era allora fra le più belle che si potessero vedere nell’Italia: i suoi libri eran tutti di pergamena scritti a mano, con bellissimi caratteri e iniziali; e ve ne era di ogni qualità, trattando altri di teologia, altri di filosofia, astrologia, medicina, musica, geometria, rettorica, istorie, ed altre scienze: in tutto però erano solo 951 volumi[3]; ma erano coperti, quale di velluto, quale di damasco o di raso, qual di broccato d’oro o d’argento, con le loro chiavette e catenelle d’argento colle quali stavano fermati ai banchi, che erano foggiati come quelli delle pubbliche scuole, ma più belli. Colà conservavasi pure un corno di liocorno quasi lungo un braccio, oggetto prezioso e singolare. Il pavimento era fatto a quadretti di diversi colori, con una vernice vitrea che ne accresceva la bellezza. Nel torrione che restava a mano sinistra verso [128] la porta della sala, era, dabbasso, una sala larga quanto capiva il quadrato del torrione, e che si chiamava la camera degli specchi; perchè tutto il vôlto era coperto di vetri quadrati larghi quanto il palmo della mano, tutti variati di colori e dipinti con figure d’uomini o animali o piante o fiori, fatte d’oro, onde percossi dal sole sul mattino splendevano in modo maraviglioso e la vista abbagliavano: il pavimento di questa camera era a mosaico con varie storie e antiche poesie: in giro erano archibanchi per sedere, tutti intarsiati e con spalliere alte più d’un uomo. Il quarto torrione a destra verso il parco finalmente, con altre stanze vicine serviva di armeria; e vi erano aste, archi, balestre, ed una sterminata quantità di saette, frecce, verettoni e dardi, con molta copia di targhe, targoni, altri scudi che chiamavansi lunghi, rotelle, ed altri strumenti da guerra antichi. Altre curiosità di diverso genere poi il Corio ci fa conoscere come esistenti in questo castello, forse nella cappella; ed erano una testimonianza di più della grossolana credulità di quel tempo: tali supposti preziosi oggetti erano, fra altre cose, una ciocca di capegli della Beata Vergine, alcun poco del [129] sangue e del manto di Gesù Cristo, il corpo intero di un innocente, un braccio della Maddalena, un dente di San Cristoforo, un pezzo della verga di Mosè con cui fe’ scaturire dal macigno il fonte miracoloso.

Al di là della fossa del castello, estendevasi da un lato una cittadella: uscendo da questa poi, trovavasi bella e lunga piazza ove tenevasi una grande fiera franca due volte l’anno; alla quale concorrevano da lontane parti mercanti, con varie sorta di mercanzie preziose, come d’oro, di gioie, sete, lane, ec.: era verso il mezzo di tal piazza che sorgeva allora la torre di Boezio. Nella cittadella poi ammiravasi un gran salone, lungo 120 passi, largo 24, e altrettanto alto; stato fabbricato per potervi i duchi giocare al pallone e ad altri giochi, ne’ giorni piovosi.

Quanto poi al parco e giardino uniti al Castello, essi erano veramente regali. Il giardino era composto di 448 pertiche; ed era tutto ripieno di quante sorta di frutti si potessero immaginare, con bell’ordine disposti. Esso era tutto cinto da muri, con fosse, e porte con ponti levatoi. Intorno a queste mura vedevansi bellissimi pergolati con ogni qualità di uve che si conoscessero, ed i muri [130] erano coperti di spalliere di noccioli. Nel mezzo del giardino, era una grande peschiera, lunga forse trecento passi e larga venticinque, la cui acqua era sì limpida che anche il più piccolo pesce vi si scorgeva; e piccol tratto lontano da questa, era una bella vasca quadrata, di diciotto passi in quadro, tutta lastricata di marmo bianco, e che dicevasi il bagno, servendo nella state per bagnarsi ai duchi e alle duchesse: essa riceveva l’acqua dalla peschiera; ed era cinta da un edificio di legno coperto di latta raffigurante un padiglione, e riceveva la luce da quattro grandi finestre con vetri colorati. Nel parco poi erano rinchiusi molti animali, come cervi, daini, caprioli, che si facevano ascendere a meglio che cinque mila capi. Al tempo della state, perchè questi animali non distruggessero i seminati, erano chiusi entro alcuni steccati; e v’era un luogo particolare pei conigli, un altro per li struzzi, e va dicendo: v’era anche un serraglio per alcuni orsi, detto orsería; era cinto da un alto muro. Il circuito di tal parco, veramente magnifico, era di quindici miglia; e giungeva fino alla famosa chiesa con monastero della Certosa: in esso erano varie abitazioni, e, al dire del Morigia, eziandio dei palazzi.

[131]

Il Corio mostrando Pavia al Comines non lasciò di informarlo, che essa allora era, senza dubbio, una delle prime città d’Italia; che era sufficientemente fortificata; che quattro erano i suoi borghi; che avea diversi ospitali, per gli infermi, gli esposti e i pellegrini; e che veniva retta da dieci deputati, e due dottori col nome di abati, ma che ne’ casi gravi si radunava il consiglio generale composto di tutti i cittadini più ragguardevoli; che v’erano poi anche molti monasteri di ambo i sessi.

Il signor Filippo Comines avrebbe veduto volentieri il giovine Duca, che gli aveano rappresentato come un uomo debole il quale tutto fidante nello zio d’ogni cosa lo facea partecipe, e mal sapeva secondare la moglie, avida al contrario di impero. Il buon principe, gli diceva il Corio, giace a letto gravemente ammalato. Il Corio lodava la dolcezza di questo giovane; che Comines, dalle cose sopra dettegli, stimò invece dappoco, e quasi scemo di cervello: e il bravo storico milanese vagamente fe’ sentire all’oltramontano, che Lodovico potesse aver propinato il veleno a quel suo nipote. «È crudel cosa, egli diceva, che questo dabben duca, non avendo ancora compiuti i 25 anni, come immaculato agnello senza alcuna [132] cagione sia spinto dai numero de’ viventi: tutti ne sono addolorati!»

Da Pavia venendo a Milano, il Corio non tralasciò di far ammirare a Comines la Certosa insigne alzata a cinque miglia da quella città da Gian-Galeazzo Visconti primo duca di Milano, per soddisfare alla pia volontà di Caterina sua moglie; e che fu cominciata nel 1396; mentre tre anni dopo, essendo la fabbrica della chiesa ben avanzata e terminato il monastero aggiuntovi, furono chiamati 25 monaci certosini ad uffiziarla; loro assegnando delle possessioni vicine, sì pel loro mantenimento, come pel compimento di quel ricco edifizio, che al tempo in cui Comines lo vide era tutt’altro che compito. Quel tempio assai bello facea presentire i progressi della moderna architettura. Esso era allora tenuto in conto di fabbrica sontuosa, che forse non avea pari al mondo.

Comines col suo distinto amico ed i suoi servi cavalcando, e seguíto da muli che portavano i suoi effetti; dopo varie ore di viaggio per un paese fertilissimo ed ameno, tutto da canali intersecato, con praterie grandissime ove pascolavano pingui armenti che danno il miglior formaggio del mondo; giugneva a [133] Milano, città che non poco, per la fama di che godeva, destava la sua curiosità. Il circuito di questa città era allora minore del presente; giacchè le nuove mura sono opera posteriore degli Spagnoli. Allora sussisteva ancora il giro di mura stabilito dopo la distruzione che di Milano nel secolo XII fatto avea l’imperatore Federico I detto il Barbarossa; il quale circuito è appunto là dove ora sono i così detti terraggi, come il nome stesso lo indica, e come lo mostra eziandio il corso del naviglio che ne formava la fossa. Le mura che allora vedevansi, con oltre cento torri, erano state fabbricate da Azzone Visconti, che compì sì bell’opera nel 1338. Bensì v’erano fuori delle porte i borghi, assai popolati; e che poi vennero aggregati alla città mediante il nuovo recinto.

Il Corio invitò Filippo Comines ad albergare con sè nel Castello Giovio; ma questi ne lo ringraziò, osservandogli, che per uno straniero avido di conoscere le costumanze dei paesi per cui passa, egli stimava più opportuno il porsi su d’un albergo: e d’altro canto i servi che erano col Comines non avrebbero potuto trovar alloggio seco nel ristretto appartamento del nostro Bernardino. Comines, [134] al contrario, tanto insistette perchè il Corio seco si fermasse a desinar all’albergo ove scavalcò, che il nostro storico milanese non giudicò ben fatto di dover ricusare.

Allora in Milano, oltre le taverne ove solo vendeasi il vino al minuto alla popolazione, v’erano ancora de’ comodi alberghi per alloggiarvi i forestieri; a un dipresso come ora accade in ogni parte d’Europa: perocchè la nostra città, allora ricchissima per i suoi traffichi, le sue manifatture, la floridezza della sua agricoltura, già avea fatti notevoli progressi verso un vivere colto e gentile. Non eravamo più in que’ tempi rozzi in cui sovente il forestiere dovea mendicare presso i privati un’ospitalità che egli non lasciava d’ordinario di pagare anche senza risparmio; mentre solo pei poveri servivano gli spedali aperti a ricovero de’ pellegrini. L’albergo a cui smontò il Comines era uno dei più belli che la città potesse vantare, ed era nella porta Ticinese, quartiere allora abitato in particolare dai nobili, e precisamente trovavasi vicino alla Palla. Il suo fabbricato era un ricco palazzo, se abbiasi riguardo ai tempi: le sue finestre serbavano ancora l’arco acuto; ma erano ornate di bassirilievi in terra cotta: [135] un porticato abbelliva la corte interna: la porta era adorna di colonne e bassirilievi; e la facciata era dipinta con qualche gusto. A quel tempo, molte case in Milano appartenenti ai più ricchi e nobili cittadini a questa somigliavano: e l’uso del dipingerle al di fuori appunto allora introducevasi.

Comines ebbe diverse stanze per sè e i suoi famigli; e i suoi muli trovarono ottima stalla. Ma il nostro storico, poichè col Corio ebbe pranzato trattenendosi in discorsi di vario soggetto, volle con questo passare nella sala comune a terreno, per godervi de’ piaceri della milanese società. Era allora omai caduto il giorno; e la sala ove il distinto nostro straniero recossi trovavasi piena di varj gruppi di persone, che stavano sedute a diversi deschi, quali già cominciando e quali aspettanti il pasto della sera.

La ragione per cui sì di buon ora tutta questa gente attendeva al cenare, era semplice: in primo luogo, allora l’uso generale era di pranzare a mezzodì o circa; in secondo luogo, innoltrata di alcune ore la notte, al terzo tocco della campana di palazzo, tutte le osterie e taverne doveano chiudersi, nè più era permesso vendere cosa alcuna, se non [136] ai forestieri che nelle prime alloggiavano. Così portavano gli statuti; i quali provvedevano a mantener i costumi de’ cittadini semplici e frugali. Corio, che osservò ciò al signor d’Argentone (che tale era lo storico francese), gli disse anche, come per non indurre ne’ cittadini il vizio dell’ubbriachezza, i tavernai doveano vendere il loro vino, bene misurato, alle porte delle loro botteghe, e non altrimenti; e che solo nelle osterie, ossia ove albergavansi i forestieri e davasi eziandio a mangiare, era permesso di fare diversamente.

Il Comines si assise col Corio ad un desco; e mentre che fra loro in varj discorsi trattenevansi, non lasciavano di quando in quando di osservare quello che intorno ad essi accadeva. V’erano nell’albergo allora varie qualità di persone; semplici cittadini, cavalieri, uomini di toga. Corio ne fece osservare al dotto suo compagno la varietà costante nelle vesti. Questa, gli disse, proviene dalle prescrizioni severe de’ nostri statuti; tendenti ad eliminare più che sia possibile il lusso, sempre rovinoso per la maggior parte delle famiglie. «I nostri statuti, proseguiva, proibiscono alle donne, eccettuate le mogli [137] de’ militi, di portar perle sulle vesti, o in monili attorno al collo, o nell’acconciatura del capo: e lo stesso è vietato agli uomini, tranne i militi. Così è proibito portare sui cappucci, o in altra parte degli abiti, fregi d’oro o d’argento, ad eccezione dei bottoni alle maniche, i quali ponno essere o di questi metalli composti o anche più ricchi ed ornati di pietre preziose e di perle. Si può portare però il vescapo d’argento: e ai dottori di legge ed altri giurisperiti non sono vietati que’ fregi che ai militi, ossia cavalieri, si concedono, come anche gli abiti ricchi di raso od armellino, o le vesti di porpora o tessute d’oro o d’argento, che alla generalità non sono concesse. Il maggior sfoggio permesso ai semplici cittadini ed alle loro mogli consiste in fodere listate d’oro o d’argento, che loro sono accordate. Multe assai gravose colpiscono i contravventori di tali statuti. La legge poi, che pone un freno alla vaghezza di brillare con abiti sfarzosi, comanda anche la decenza nella foggia delle vesti; nè una donna potrebbe mostrarsi con un abito scollato, senza pagar una multa, essa e il suo sartore.

Allora si accorse il signor d’Argentone che dagli abiti egli avrebbe potuto distinguere benissimo [138] la qualità delle persone. Egli chiese al Corio, se in altri modi questi statuti milanesi, solleciti nel mantener semplici i costumi regolassero le pompe de’ cittadini; e Corio così gli disse. Gli statuti della nostra città reputansi molto savj in ciò, che per ogni verso frenano la mania che nasce naturalmente negli uomini di voler distinguersi nelle occasioni solenni. Così, dalla legge viene limitato il corredo che lo sposo fa alla sposa, e viceversa; e tutto deve stare nei limiti di una stretta modestia: è regolato il lutto; che non può assumersi che dalla moglie del defunto e dai figli o figli de’ figli: sono regolate le pompe de’ funerali; ove solo ai militi e alle persone qualificate è permesso un qualche sfoggio. In quest’occasione poi, solo i primarj cittadini ponno ornar la bara di bandiere, di un dato numero di torcie, e farla seguire dal cavallo dell’estinto; portar anche il cadavere scoperto e vestito riccamente; mandargli dietro un grosso codazzo di gente; usar ricchi drappi, pagar donne per fare romoroso pianto innanzi la casa, e dare ricco banchetto a tutti gli amici del trapassato: i semplici cittadini non ponno che onorare con esequie modeste i loro morti, e banchettare quel giorno coi più stretti parenti.

[139]

— E quali sono le persone che si considerano come qualificate in Italia? domandò il signor d’Argentone.

— Queste sono, rispose il Corio, i militi, i giuristi, i rettori delle città; e, dopo questi, i fisici: le prime tre classi specialmente godono della maggior considerazione. Il collegio de’ giurisperiti di Milano fruisce di varj privilegi: oltre ciò che già vi dissi intorno alle pompe di cui è loro permesso cingersi, essi non sono obbligati a marciare all’esercito se non sieno serviti di carrozza, ed anche in tal caso ponno farsi supplire da altre persone: lo stesso è pei notari, e pei governatori degli statuti del comune di Milano. Così, nessun giudice del collegio è tenuto a far la guardia di notte, se non quando si convochi l’esercito generale; nel qual caso è loro permesso ancora mandare un supplente: nè può egli essere fidejussore nel comune. I fisici, come anche i maestri di grammatica, essi pure devono in carrozza esser condotti all’esercito, e ponno mandar chi li supplisca; nè ponno aver il carico di esercitar le funzioni di anziano o di auditori. Privilegi simili hanno i medici che aggiustano ossa infrante e slogature. I chirurgi che compongono [140] il collegio de’ chirurgi, non sono tenuti che a mandar quattro di loro all’esercito: nè alcuno può esercitar chirurgia se non è, dopo opportuno esame, ammesso a formar parte di quel collegio. Bensì medici, fisici, chirurgi, sono obbligati tutti a visitare i poveri gratuitamente. — E anche gli scolari sono esenti da alcune incombenze, e dall’andare all’esercito; sia che imparino la legge, sia che attendano alle scienze filosofiche ed alla medicina.

Non aveva il Corio terminato di dar queste notizie intorno ai nostri usi al suo amico, quando una nuova brigata assisasi lor vicino, e servita di cena, cominciò ad attrarre la loro attenzione, e finì quasi a congiungersi con loro: erano quelli quattro cittadini che nulla aveano di notabile negli abiti, sebbene uno d’essi poi non poco distinguesse la giusta posterità: quest’era Bramante, pittore ed architetto; il quale, malgrado il suo merito, però, amando la buona compagnia e l’allegria, era spesso ridotto al secco; nel qual caso il sollazzevole compagnone diventava poeta, e con sonetti si raccomandava a’ suoi protettori per averne danaro, che poi sciupava di nuovo così presto come il primo. Il Bramante [141] salutò il Corio, da lui conosciuto nel Castello ove avea spesso lavorato; e così pel di lui mezzo quella lieta brigata coi due nostri storici non fece quasi che una sola società.

Si discorse di molte cose; e soprattutto della prossima venuta de’ Francesi a Pavia, ove si stavano facendo magnifici preparativi per onorare il Re cristianissimo. Alcuno si proponeva di recarsi in quella città per vedere l’ingresso di sua maestà, di cui il Comines descrisse l’aspetto e il carattere. Uno di quel piccolo crocchio si fe’ notare particolarmente col suo cicaleggio: era costui un omicciattolo che nulla avea di veramente distinto, se non se una faccia che ben osservata nulla prometteva di buono, e due occhietti piccoli e furbi che faceano presentire in lui tal persona con cui non era bene di troppo confidarsi. Costui magnificava, senza serbar modo alcuno, la saviezza di Lodovico il Moro; il quale si era meritato non pure, diceva egli, l’affezione de’ popoli, ma anche la piena confidenza del Re di Francia: la venuta del Re avrebbe di non poco accresciuto il lustro degli Sforza; poichè l’alleanza di questa casa col Cristianissimo dovea aumentarne, [142] in modo incalcolabile, l’importanza. Il Re avrebbe trovato nel Moro un uomo saggissimo, che assai gli avrebbe giovato co’ suoi consigli e co’ suoi danari. Il Moro, già, era splendido: egli sapea, all’uopo, sussidiare gli amici!...

— E pagar scarsamente gli operai, l’interruppe il Bramante.

— Eh via, so bene che scherzi, amico, soggiungeva l’adulatore: egli è che voi altri artisti non siete mai sazj, e sempre vi lamentate; ma quando mai vi fu per voi miglior tempo di questo! Egli è che tu butti il tuo; ma del resto il Moro anche a te lascia forse mancar lavoro? E chi potrebbe mettere in dubbio la sua inclinazione a beneficar tutti, e particolarmente i bei talenti!...

— Come sei tu, l’interruppe di nuovo il Bramante: i talenti tuoi oratorj intorno alla bontà del governo del Moro sono certamente ben pagati: tutti almeno lo credono.

— Eh, datti pace, che io parlo per pura giustizia: che del resto, se il Moro mi fa del bene a chi non ne fa? Il signor d’Argentone vedrà, se vorrà darsene la briga, in quanti modi, il Duca di Bari benefica la città nostra ch’egli regge: e più farebbe se fosse egli il padrone....

[143]

— Il duca Gian-Galeazzo però gli dà poca briga! soggiunse l’incorreggibile Bramante.

— Il Duca, da saggio giovane come è, lascia governare allo zio; perchè ne conosce la virtù....

— Sì, forse come Bernabò conobbe quella di Gian-Galeazzo Visconti suo nipote! — E questa arditissima replica di Bramante, che alludeva al sospetto che il Duca fosse stato dallo zio tradito e avvelenato, fece seguire un istante di silenzio; disapprovando ognuno di tal modo l’imprudenza del mordace artista.

— Amici, disse il Corio, cambiam discorsi! non è bene parlar di cose di cui ci si potrebbe domandar conto un giorno! Tutti sanno che Bramante è assai pungente ne’ suoi detti, e nessuno vorrà far caso della sua leggerezza, e di ciò che dice per puro spirito di contraddizione! Del resto, chi non ammira i veramente sommi talenti e meriti del signor Lodovico!

— Che il nostro amico qui, soggiunse Bramante, è pagato per far conoscere a tutto il mondo; togliendo a te, caro Bernardino, il mestiere di stendere le storie! — Ma, via, se dobbiam tacere, si taccia: chè in buon punto ecco entrano due suonatori colla viola e il flauto.

[144]

Così era infatti: i due discepoli d’Apollo cominciarono quindi a far ammirare la loro abilità: varie sonate vennero spacciando al loro lieto uditorio; e raccolsero un premio abbondante della loro fatica. In fine la notte era già alquanto innoltrata; e si udì l’ultimo tocco della campana che invitava ogni uomo a ritirarsi: immediatamente tutte le pratiche dell’albergo sgombrarono la sala; i suonatori divennero muti, nè più udironsi partendo, essendo a quell’ora proibito far alcuna serenata: più non restarono nell’albergo se non se le persone che vi doveano passare la notte. Il Corio, poco dopo, si licenziò dall’amico, promettendogli di tornare a lui il dì seguente di buon mattino.

Il Comines si trovò assai comodamente alloggiato nell’osteria che scelta gli avea lo storico milanese. Il lusso delle camere allora, è vero, non era grande; ma tutto ciò che que’ nostri antichi padri in generale usavano pei loro comodi, non mancò allo scrittor francese che fra noi facea soggiorno. Un buon letto, sedie, tavole, alcuni vasi per lavarsi, casse e cofani per riporre le vesti e la biancheria, scrigni per mettervi oggetti meno voluminosi, ecco i mobili ordinarii di un appartamento [145] di que’ tempi; se vi aggiungi qualche bello specchio di Venezia, per colmo di ornamento: or tutto questo comodo arredamento aveano le camere destinate al Comines. Solo ne’ palazzi de’ grandi vedevansi, oltre a queste cose, ricche tappezzerie, ed altri oggetti di un lusso maggiore e ognor crescente.

La notte fu dal nostro straniero passata assai tranquillamente, poichè la legge allora proibiva ogni strepito importuno, persino, come dicemmo, i dolci suoni degli amanti sotto le finestre delle loro belle. In breve la romorosa città di Milano fu sopita tutta in un profondo sonno; e il silenzio era sì alto, che i leggeri movimenti de’ cavalli che eran nelle stalle dell’albergo solo interrompevano quella quiete generale e solenne. Il signor di Comines, per tal modo, potè ottimamente riposare dalle sostenute fatiche; e non svegliossi il giorno appresso se non se quando il dì era già alquanto avanzato. Poco dopo, a lui fu annunziato che il Corio abbasso lo attendeva: e molto non stette a raggiungerlo, a fine di far una corsa con esso per la città, scinti però entrambi delle loro armi, così essendo rigorosa prescrizione degli statuti di quel tempo.

[146]

Capo XI.[4] SEGUE LO STESSO ARGOMENTO

Comines poco potea trattenersi in Milano; onde non osservò allora di fretta se non la cose più notevoli. Egli ammirò l’antico tempio di Sant’Ambrogio, ove erano pel passato coronati i Re d’Italia; ammirò il Duomo cominciato da Gian-Galeazzo Visconti, probabilmente per espiare l’avvelenamento dello zio; come forse poi per consimile motivo Lodovico il Moro alzò il tempio della Vergine presso S. Celso. Ma la città, sebbene [147] abbellita qua e là da moderne fabbriche alzate dai ricchi milanesi e dai principali feudatarj dello stato, desiderosi, come accade, di brillare alla corte elegante de’ loro principi; malgrado ciò, dico, era in gran parte composta di case antiche abitate da artigiani numerosi, e con vie anguste e irregolari; come in generale erano quasi tutte le città a que’ tempi. Tra i palazzi più cospicui di allora se un avanzo il mio lettore desidera di conoscerne, osservi la casa de’ Borromei, e il Broletto che era stato l’abitazione del famoso Carmagnola, condottiero notevole pel suo valore, per la sua infedeltà, e pe’ suoi delitti. Varie case poi non erano state rifabbricate, ma solo abbellite col dipingerne la facciata e ornandola anche di bassirilievi. In generale però si era fatto molto; e il Lazzaroni ebbe a dire, che Milano di rugosa vecchia era diventata un’avvenente donzella, per merito di Lodovico. I Visconti aveano poi qua e là alzati alcuni palazzi, ma più notevoli per vastità che per bellezza; e tali erano quelli dell’Arengo o Broletto vecchio ove ora è il palazzo vicereale, quello di S. Giorgio, quello di S. Giovanni in Conca; come anche quello, più antico di [148] tutti, sulla piazza de’ Mercanti, detto il Broletto nuovo, che era il palazzo del comune. Nel Broletto vecchio risedeva allora il Consiglio di Giustizia. Il Lazzaretto, fuori della città a qualche distanza, pure fu dal Comines osservato e lodato; e visitò anche la Certosa di Carignano, alzata dall’arcivescovo Giovanni Visconti: del resto per que’ tempi era cosa sontuosa non meno che nuova il portico de’ Figini, eretto da Pietro Figini in occasione delle nozze di Galeazzo Sforza, ed a decoro, come una lapide ricorda, della sua florida patria. Il tempio di S. Maria delle Grazie coll’unitovi chiostro non era ancora (se vogliamo credere al Morigia) stato alzato da Lodovico; come pure una parte di quelli altri edifizi di questi tempi di cui già tenemmo discorso al nostro lettore.

Finalmente egli osservò il bellissimo castello della città che passava per il più sontuoso dell’Italia. Rialzato da Francesco Sforza, ei non l’abitò; ma tosto vi si ricoverò il suo successore, Galeazzo, che molto ampliò la ducale abitazione di esso, e moltissimo la abbellì di opere di pittura, arte della quale assai si compiaceva. Ricchissima era la stalla degli Sforza: la loro cappella vantava musici [149] eccellenti; poichè non poco se ne dilettarono que’ principi, come anche Lodovico il Moro. E sempre nuovi abbellimenti andava poi ricevendo quella magione ducale; ed anche al tempo in che la visitava il Comines vi lavorava il celebre Leonardo da Vinci, pittore, scultore ed architettore eccellente, e celeberrimo meccanico. In quel giorno stesso Vinci si era recato a Pavia, per dar ordine alle feste che far colà si doveano per la venuta del Re; e Corio, dolente di non poter far conoscere al francese istorico quell’uomo già celebre, gliene narrò la vita, e gli mostrò le sue opere. Noi faremo lo stesso col nostro lettore; ma servendoci ancora di materiali estranei alla narrazione del Corio.

Leonardo da Vinci nacque in un piccolo castello posto in Valdarno da non legittima alleanza nel 1452: ma allora in Italia, come lasciocci scritto il Comines e come i fatti mostravano, poca differenza facevasi, noi il dicemmo, fra il figlio legittimo ed il naturale. Ser Piero suo padre, vedendone l’ingegno perspicacissimo, per cui a molti studj attendendo in tutti assai riusciva, e tali erano l’aritmetica, la musica, la poesia, il disegno; ma accorgendosi che nel disegno poi facea progressi [150] maravigliosi; lo pose a studiar quest’arte bella presso Andrea Verocchio, valente pittore, scultore ed architettore; e ben presto il maestro fu dal discepolo superato. E già era celebre e come artista e come meccanico, quando il Duca di Bari lo prese al suo soldo, circa al 1483, incaricandolo fra le altre cose di formare una statua colossale equestre di bronzo rappresentante il glorioso suo padre Francesco Sforza; al cui modello in creta subito ei pose mano. Uomo ingegnoso oltre modo, fu a lui, credesi, che nel 1489 venne commesso di dirigere la pompa delle nozze del duca Gian-Galeazzo; e nel 1490 poi regolò gli spettacoli che si diedero per quelle del Moro. Ma l’incarico principale che il Duca di Bari affidò al Vinci, fu la direzione dell’accademia di arti, da lui stabilita col pretesto di dare al nipote un’educazione quale a gran sovrano conveniva. Lodovico infatti, non contento di aver ornata Milano di pace, dovizia, templi, e magnifici edifizj, volle ancora arricchirla di mirabili e singolari ingegni, i quali a lui da ogni parte allora concorsero; onde Bellincioni poeta fiorentino, da Lodovico pure a sè chiamato, in un suo sonetto in lode di questo principe disse, [151] che Milano per scienza era una novella Atene.

Vinci, oltre all’occuparsi intorno al modello per la detta statua equestre, e dirigere all’uopo gli spettacoli che davansi ora dal sovrano ora dai gentiluomini, lavorava anche come pittore; ed egli fece i ritratti di due donzelle amate dal Duca di Bari, cioè Cecilia Galleriani e Lucrezia Crivelli, dalla seconda delle quali Lodovico ebbe certamente uno de’ suoi figli naturali, che fu Gian-Paolo; il quale poi si distinse nel 1513 nella difesa di Novara contro i Francesi, ed ebbe nome di prode guerriero. I costumi di Lodovico non erano men rilassati che quelli di tanti altri del suo tempo; e i ritratti delle sue belle furono lodati senza mistero, in versi, dai poeti corrotti di quei dì.

Le altre opere insigni che Vinci fece in Milano sono posteriori all’epoca di cui parliamo. Egli era un vero genio; esperto non solo in tutte le belle arti, ma ancora in molte scienze: e precedè il Galileo nell’attenersi all’osservazione della natura ed inculcarla come norma sicura a’ suoi seguaci. La pittura, la scultura, l’architettura, la geometria, l’idrostatica, la meccanica, la musica, la poesia, [152] furono quasi ad un tempo oggetto de’ suoi studj, ed in tutte riuscì eccellente. E a penetrante ingegno congiungevansi in lui bellezza di volto, grazia di favellare, e soavità dì tratto; sicchè era l’oggetto della maraviglia e dell’amore di tutti. Egli percepiva da Lodovico l’annuo stipendio di 500 scudi d’oro. — Le opere più insigni che fece in Milano furono, oltre il modello della statua colossale di Francesco Sforza (il quale fu poi dai soldati francesi vandalicamente atterrato nel 1499), il Cenacolo stupendo dipinto nel refettorio nel convento di S. Maria delle Grazie; e l’unione dei due navigli, dell’Adda e del Ticino, col mezzo di un canale di comunicazione introdotto in Milano, superando mediante sei conche o sostegni la differenza assai notabile di livello che a ciò si opponeva.

Corio ragionò altresì al Comines d’altri uomini sommi che il principe proteggeva: fra’ quali v’era il Bellincioni, dal Moro amato singolarmente, e di doni ed onori colmato, ed anzi di alloro solennemente ancora, se è vero ciò che si dice, incoronato: egli morì nel 1491; e stimate furono a’ tempi suoi le sue poesie burlesche.

Altro poeta era quel Bramante cui Comines [153] visto già avea, e delle cui opere di architettura già altrove alcuna cosa toccammo: egli era stretto in grande amicizia con Gaspare Visconti, poeta allora celebre, come si disse: e, al pari del Vinci, era abilissimo nel dir versi all’improvviso al suono di cetra. Aveva da Lodovico un modico stipendio; onde, sempre in bisogno, mostravasi mal contento della propria sorte, ed era costretto a ricorrere agli amici; e sì che anche di pittura sapeva lavorare! Più tardi, ei da Milano passò a Roma; ove fu il primo a disegnare quella gran basilica Vaticana; cominciata nel 1506.

Franchino Gaffurio, nativo di Lodi, a ragione tenevasi pure per un distinto ingegno. Insegnò musica in Verona, in Genova, in Napoli, nella sua patria; e nel 1482 venne eletto dal Moro capo de’ cantori di Milano, ove insegnò l’arte sua, componendo a un tempo opere che gli acquistarono molta fama.

E d’altri personaggi ancora, allora famosi, il Corio parlò al sig. d’Argentone; ma noi non ne terremo parola; perchè ora la troppa età sparse largo obblio su la loro rinomanza e le loro opere; e frate Luca Pacciolo, famoso nelle matematiche, e Demetrio Colcondila greco [154] versato nella letteratura sua patria e nella latina, entrambi da non confondersi con altri nomi minori, vennero più tardi ad onorare la corte del Moro, cioè nel 1496 il primo, e nel 1492 il secondo. Noi piuttosto non passeremo sotto silenzio due benemeriti ministri del principe che sì splendida protezione prestava alle lettere, e sono Bartolommeo Calchi e Jacopo Antiquario.

Bartolommeo Calchi di antica e nobile famiglia di Milano, avendo fatti negli studj notabili progressi, fu dal duca Galeazzo Maria, poi da Lodovico, dichiarato primo segretario, e adoperato a consiglio ne’ più rilevanti affari. Molti dotti gli dedicarono le loro opere, celebrandolo come cultore degli studj e loro mecenate. Egli a proprie spese, come in parte si disse, fabbricò in Milano due scuole che minacciavano rovina, e le provvide di buoni maestri. Sopravvisse alle sventure del Moro; e morì di 74 anni nel 1508, — Jacopo Antiquario venne pure lodato assai dai letterati de’ suoi tempi che dedicarongli loro opere; uomo probo e liberale, era generalmente amato ed onorato. Perugino di patria, servì come segretario Galeazzo Maria Sforza, il figlio di lui, e Lodovico il Moro: [155] amava convitare i dotti suoi amici; ma egli era sobrio oltre ogni dire, e di semplici costumi. Scriveva con eleganza, ed era anche buon verseggiatore.

Il Comines non mancò eziandio di interrogar il Corio intorno alle cose del governo e dell’amministrazione dello stato; e Corio gli fu assai largo di particolari su questo proposito.

Un Consiglio di Stato ajuta il Duca nell’esercizio del potere legislativo e negli affari concernenti propriamente lo stato: in questo consiglio, oltre i consiglieri dello stato, entrano il castellano della rôcca Giovia, il primo segretario, il maestro generale di casa, il camerlengo, i commissarj generali della gente d’arme, e qualch’altro dal principe a ciò autorizzato. Tale consiglio non è mai composto di meno di venti membri: e radunasi nel Castello, avanti al principe. — Un Consiglio di Giustizia, assai meno numeroso, ha sede nella corte ducale dell’Arengo a canto al Duomo, e delibera intorno alle cause civili e criminali.

I Maestri delle entrate hanno la cura delle entrate; e pongono all’incanto i dazj dì Milano, facendo incantar quelli di fuori dai referendarj: [156] fanno riscuotere le entrate, e le mandano al tesoro: sono sorvegliati dal principe e dal Consiglio di Stato. Un magistrato straordinario si stabilisce per le entrate straordinarie. Durante le guerre, Lodovico creò i deputati del danaro, a fine di trovar danaro e far le spese straordinarie. I commissari del sale hanno cura delle saline di Bobbio, ec.; prodotto il sale essendo per lo stato assai rilevante. Il tesoro resta nella rôcca di Porta Giovia sotto la custodia di tre chiavi. I referendarj della città attendono all’esazione delle entrate.

Sonovi quattro vicarj generali per fare i sindacati; tre di questi son forestieri, affinchè riescano più imparziali; uno è milanese, per dare quest’onore alla città primaria dello stato. Il capitano di giustizia, il podestà di Milano, e il vicario di provvisione di questa città sono pure cariche eminenti. Alle podesterie delle città minori si eleggono uomini di grado onorevole; ed essi tengono giudici e vicarj sotto di sè secondo il bisogno, e famiglia per eseguire i loro ordini. Le terre minori hanno anch’esse i loro ufficiali. Cinque conservatori degli ordini attendono a fare che le cose camminino rettamente e secondo [157] il giusto ordine. Minori ufficiali sono i cancellieri, i ragionati, ed altri. Vi sono, un ufficio delle vettovaglie, che invigila che lo stato non manchi di biade; uno di sanità, che sorveglia al mantenimento della salute pubblica. Il papa nomina ai beneficii vacanti; ma il principe propone il candidato.

Un maestro generale della corte osserva gli ordini del palazzo e li fa osservare dai senescalchi. Al servizio della corte v’è un numero grande di persone, fra i quali i camerieri di camera.

L’Inquisizione attende a purgar lo stato dagli ebrei e dai marrani; qualche volta essa fa ardere stregoni: e così mantiene pura la fede. — Le pene sono spesso ridotte a multe: la tortura giova ad ottenere le confessioni de’ rei: sonovi confische; ma ad esse procedesi lentamente: talora la pena di morte è esacerbata da tormenti: così gli uccisori di Galeazzo Maria Sforza, fra cui l’Olgiati, furono tanagliati e squartati vivi, per porsene le membra sulle porte della città, a terrore di chi fosse tentato di imitarli.

Infatti gli statuti sono abbastanza saggi per rispetto al tutelare la roba; ma troppo crudeli nel togliere per motivi poco gravi la vita. [158] Eccone un’idea. Nessuno deve porsi alla tortura se non quando, imputato di grave delitto, abbia contro di sè forte indizio: gravi delitti consideransi quelli di eresia, sodomia, di aver turbata la quiete pubblica; aver commesso assassinio, stupro, veneficio; aver sostenuto alcuno in privato carcere; aver commesso falso, saccheggio, furto, incendio, ed alcuni altri misfatti pei quali corre pena di sangue. Il testimonio poi non può torturarsi, se non vacilli o dica il falso. Una sentenza criminale è inappellabile; ma il reo entro un mese dopo che fu preso deve essere dal podestà o condannato o rilasciato: e le sentenze devono emettersi in un luogo pubblico, cioè o nel Consiglio pubblico, o nel Broletto nuovo, o nella Corte dell’Arengo. Trattandosi di pene pecuniarie, se ne perdona la metà a chi prontamente confessa il proprio delitto.

L’omicida è decapitato; e se fugge gli si confiscano i beni, tranne una parte concessa a’ suoi eredi, che è la metà circa. Di morte è punito chi rapì una donna onesta colla forza e la violò: se non concorse la forza, paga grave multa. Uccisa è pure l’adultera; ma non può esser accusata che dai più stretti parenti: la donna non maritata che spontaneamente [159] si abbandona ad un amante è gravemente multata, ma non può pure accusarsi che da stretti parenti: e vanno eccettuate le pubbliche meretrici. Il reo di sodomia è abbruciato. Chi tiene privato carcere, è punito di morte: rigorosamente è punita ogni violenza: il ladro è impiccato: uccisi sono venefici e incantatori; il ladro famoso è appeso alle forche per la gola: per furti piccoli, foransi al reo le orecchie con un ferro rovente, ed è frustato per le strade; ma se è recidivo, è impiccato, o per grazia multato: per un terzo furto, è impiccato irremissibilmente. Ma un furto di pochi soldi non viene però come furto punito. L’assassino è tratto alle forche a coda di cavallo, e quivi appiccato per la gola: e come assassino è considerato tanto colui che per prezzo uccise alcuno, quanto quegli che pagò per farlo uccidere. — Per ferite, ingiurie, ec, corre multa a favor del comune: le multe sono più o meno gravi a norma della gravità della ferita; p. e., per aver cavati gli occhi ad uno pagavansi cinquecento lire di terzuoli. — Chi ricovera un reo di gravi delitti, è considerato come esso reo. — Il fabbricatore di moneta falsa viene abbruciato: chi falsa carte importanti, paga il quadruplo [160] ed è esposto in pubblico per tre dì: se è recidivo, gli vien troncata una mano; la terza volta è abbruciato. — I comuni devono risarcire i danni fatti in essi. — Chi tiene giuochi proibiti, è multato gravemente. — Di notte dopo il terzo segno, nessuno può andar con armi col lume, o senza armi e senza lume. Nessuno poi può portar armi proibite per la città, se non uscendone o entrandovi.

Anche le leggi civili sono convalidate spesso da gravose multe. Non sempre è permesso appellarsi a un giudice maggiore nelle cause civili; nè mai poi più d’una volta. Nelle successioni, i maschi sono assai vantaggiati in confronto delle femmine: le donne, dotate che sieno, altro non ponno pretendere. La moglie non può dal marito ereditare più del quarto de’ suoi beni: ha poi diritto sempre agli alimenti se non abbia del suo, morendo il marito; come pure lo hanno gli ascendenti.

Nè noi lasceremo di qui accennare, che le professioni erano libere; tranne alcune poche per le quali viene dagli statuti stabilito ciò che far devesi in proposito. Era proibito esportar grano senza licenza; e v’erano regolamenti concernenti i mulinai, i venditori di farina, i prestinai, gli osti, i macellai, [161] gli speziali, i rivenditori, i pescatori; affinchè tutti non pregiudicassero i loro avventori nell’esercizio della loro professione. Così v’eran regolamenti opportuni intorno ai pesi e alle misure. Anche altre professioni aveano le loro prescrizioni; come ve ne erano per regolare i prezzi di varie merci, ec., i dazi che esse doveano pagare, e cose simili.

Gli ecclesiastici avevano i loro giudici ecclesiastici, ossia il loro foro separato: giudici proprj v’erano altresì pei mercanti; la cui società proteggeva i proprj membri, e concorreva alla difesa della città. I mercanti eleggevano 12 loro consoli annui; due de’ quali aveano titolo di Abati, che duravano due mesi: tali consoli giudicavano secondo la legge e la consuetudine, e vegliavano sulle cose relative al commercio. — I mercanti di lana aveano particolari statuti: eleggevano quattro consoli con giurisdizione intorno alle cose spettanti alla loro arte, e ciò senz’altro appello fino alla somma di lire 10 terzuole: e tale società avea altri regolamenti concernenti i suoi particolari interessi: nessuno poi potea lavorar lana se ad essa società non apparteneva; nella quale non entravasi se non presentando idonea cauzione. — Gli usurai, saviamente [162] non erano considerati come mercanti. — Il mercante che fuggisse per non pagare, era perseguitato, lui e della sua famiglia i membri che con lui convivevano.

Eranvi poi, oltre le leggi suntuarie, altri regolamenti, rispetto alla caccia; alle meretrici, a cui non era permesso abitare che in un luogo solo della città, nè mostrarsi in pubblico se non sotto alcune condizioni; e contro i bestemmiatori che venivano condannati ad una multa.

Però se varie delle pene erano gravi, quella età concedeva talvolta ad esse alcun temperamento; poichè v’aveano gli asili de’ templi, ove ricoverando spesso il reo dovea trovare salvezza. Tuttavia pare, che l’abuso degli asili fosse maggiore ne’ tempi successivi che in quello di cui parliamo: come che pure allora sussistente, era meno esteso.

Infine, fuori della città ogni comunità del milanese era obbligata ad aver campari, i quali custodissero le proprietà de’ loro abitanti; ed erano poi tenute le varie terre a reintegrare i danni che in esse venissero a chi che si fosse recati.

Ma tornando agli ordini del governo, il Duca, osservava Corio, ha quattro segretarj; [163] il Calchi, è alla testa degli affari di stato ed ha sotto di sè varj cancellieri, uno per la Germania, un altro per Venezia, ec.; il secondo segretario, Jacopo Antiquario, è per le cose ecclesiastiche; un terzo, per gli affari di giustizia, e singolarmente criminali; l’ultimo è incaricato degli affari della Camera, e fissa la lista delle spese de’ salariati, ed altre, spedendole ai maestri delle entrate perchè ne facciano seguire i pagamenti: e questi segretarj abitano nel Castello ove risiede il principe.

Ora è cosa rara che si aduni il Consiglio Generale della città; ma questo si convoca però ancora nelle circostanze più gravi: per altro i Duchi hanno ormai paralizzate le facoltà di tal consiglio.

Il duca sceglie i castellani a cui sono date in consegna le fortezze dello stato; esse sono ottantotto. Quanto alle milizie, queste si compongono di uomini d’arme, cavalli leggeri, e provvisionati; ed hanno i loro capitani e capi. Le guardie del principe chiamansi lance spezzate. In tempo di pace si tengono 1200 uomini d’arme, cioè 200 della famiglia, 300 lance spezzate, ed il resto camerieri e gentiluomini di casa del Duca, e capitani, [164] condottieri, ed altri capi; 500 cavalli leggeri, e 600 provisionati. In tempo di guerra queste truppe si aumentano, giusta il bisogno. La paga è data alla famiglia d’arme e lance spezzate dai deputati a quest’ufficio: mentre gli uomini d’arme e cavalli leggeri de’ capitani e condottieri vengono pagati dai loro padroni, secondo che è specificato nelle condotte loro; i quali ponno anche cassarli e rimetterli; avendo però obbligo di tenere compagnie buone, fedeli, e ben in ordine. — Alle genti d’arme tutte sono deputati due commissarj generali, i quali ne abbiano cura. — La custodia della rôcca di Porta Giovia è raccomandata al suo castellano.

Finalmente il Corio diede al signor di Comines varie notizie sulla condizione de’ cittadini. Il commercio gli arricchisce grandemente, egli diceva; le manifatture sono floride, e consistono particolarmente nella fabbricazione famosa delle armi, e in quella de’ panni, e de’ drappi serici. Ma il traffico non si limita a questi soli oggetti: grande è il numero dei banchieri e mercanti: grande è la varietà dei mestieri, e la copia degli artigiani. Coll’agiatezza de’ cittadini, cresce la gentilezza de’ costumi: e il lusso della corte di Lodovico ne [165] è fomite ed esempio; qui infatti spettacoli, qui giostre, qui tornei, qui teatro, qui musica, ec. Lo sfoggio, in generale, è nelle vesti; ma talora si grandeggia anche nei pranzi, negli addobbi, e in mille altri modi: se non che ora comincia a introdursi del manierato ne’ nostri modi del conversare. — E veramente allora Milano, per testimonianza anche del Guicciardini presentava un aspetto invidiabile. «Pienissima di abitatori, dic’egli, mostravasi; e per la ricchezza dei cittadini e per il numero infinito delle botteghe ed esercizj, per l’abbondanza e dilicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e sontuosissimi ornamenti così delle donne come degli uomini, e per la natura degli abitanti inclinati alle feste ed ai piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia, ma floridissima e felicissima sopra tutte le altre città d’Italia.»

Da altri particolari che al Comines erano dati dal Corio però rilevavasi, che un velo di superstizione ancora in generale ingombrava le menti: e lo stesso Lodovico il Moro prestava fede all’astrologia giudiziaria che universalmente era in voga. Si credeva ne’ presagi, negli auguri; e ad ogni tratto si stimava di [166] vederne: e la plebe era in mille altri modi ancora superstiziosa. Già si disse della credenza nelle stregherie; prestavasi fede nella magia; e gli impostori poteano ciurmare i popoli quanto loro piaceva. Il clero, sì regolare che secolare, generalmente, era ignorante e corrotto. Molti erano i monasteri; ma non tanti però come furono ne’ tempi seguenti. Se non che la cultura, che ora si promoveva, era sperabile avrebbe prodotti favorevoli cambiamenti. Virtù non rara però era allora la beneficenza: l’ospitale maggiore ne aveva varj altri sotto la sua direzione; e ne esistevano ancora per l’alloggio de’ pellegrini poveri; ed uno per ricoverarvi un dato numero di vecchi.

Il Comines fu soddisfattissimo di tutte le notizie importanti dategli dal Corio; tanto più che da sè male avrebbe saputo procurarsele, poco potendo trattenersi in Milano, come già dicemmo: egli, partendo, strinse cordialmente la mano all’amico, che pure dovea recarsi a Pavia; e gli disse: Noi ci rivedremo, probabilmente; ma in ogni caso io mi ricorderò mai sempre con piacere del saper vostro e della vostra cortesia; e ringrazio il cielo che mi abbia mandato un uomo tanto in ogni [167] cosa versato, per farmisi interprete di ciò che v’ha di meglio in questa veramente splendida città! — Corio sorrise; e disse, che egli pure ringraziava la fortuna che gli avesse fatto conoscere un uomo di rara penetrazione, e tanto erudito delle cose de’ suoi tempi; come era il signore di Argentone. — Quando l’amicizia sorge dalla stima, in poco d’ora si fa grande e rimane poi durevole.

[168]

Capo XII. GRAVISSIMI ACCIDENTI

Ora dobbiamo un po’ da lungi riassumere le cose del duca Gian-Galeazzo, e di Isabella d’Aragona sua moglie. Dopo che la Duchessa ebbe avuta certa notizia che la sua lettera scritta al padre era stata fedelmente a lui inviata, ella piena di ridenti speranze si lusingò, che in breve la sua sorte fosse per mutarsi: ella non tacque allora più oltre al giovine suo consorte ciò che fatto avea; questi, come [169] che dolente perchè al Moro forse recherebbesi un disgusto non meritato, pure non ardì rimproverare la diletta sua sposa; mentre alla fine essa non desiderava se non se quello che a tutto buon diritto le si competeva.

Ma allorchè al Duca di Bari giunsero le notizie di ciò che era accaduto; ed egli se ne conturbò ma nel tempo stesso, dalla moglie e dal suocero confortato, risolvette di non cedere, e far anzi ogni sforzo per consolidare in sè il potere col far credere il nipote ancora men atto agli affari che egli non era; allora, dico, Lodovico, preso in disparte il nipote, con lui tenne questo discorso.

— Nipote mio, l’ambizione della vostra sposa minaccia di prezipitare questo stato. Voi sapete che per non essere ancora voi stato riconosciuto dall’Imperatore come legittimo duca ne’ vostri dominj, potrebbe quando che sia l’Impero turbare le cose nostre: e i Milanesi sarebbero ben contenti de tornare sotto la dominazione di Cesare; poichè, dove nei tempi degli imperatori non se pagava che mezzo ducato per fuoco, ora la chiesa, i nobili, e il popolo, per la malvagità dei tempi e il decoro della vostra ducal corte, sono assai aggravati, e pagansi seicentocinquanta [170] mila e fino settecentomila ducati: onde i popoli secretamente non cercano altro che mutazione di stato; e il vostro trono è ben lontano dall’essere ancora così consolidato, come, col tempo, ricevendosi l’investitura dall’Imperatore, spero di rendervelo.

— Oh quanto siete saggio, mio Zio! sclamò allora Gian-Galeazzo; ed abbracciò Lodovico, che gli rese in modo grave quell’abbraccio.

Lodovico quindi, vedendo ben avviata la cosa, prese un aspetto ancora più grave e pensieroso, e proseguì: — Ma, nipote caro, la vostra moglie, per un desiderio vano di comando che non se addice al suo sesso ed alla sua età, nella quale poca esperienza può avere di cose tanto gravi come sono quelle dello stato; la Illus.a duchessa Isabella l’ha fatto la ragazzata de scrivere al Duca di Calabria suo padre una lettera piena di amarezze e lamentanze contro di me; per istigare suo padre e l’avo, che trovino maniera de tormi ogni ingerenza negli affari, per darla a voi, sperando ella di maneggiar poi lei ogni cosa come sarà il suo capriccio! — Allora, nipote mio, come le cose andranno io non so!.. Voi siete omai giunto a età maggiore; io continuava a governare per torvi l’imbarazzo di [171] tanta mole de affari, e pensava di farlo finchè l’Imperatore vi riconoscesse. A quest’oggetto io medito offrire con bona dote la mano di Bianca vostra sorella al serenissimo Massimiliano Re de’ Romani, per averlo favorevole, ed ottenere, una volta che el sia imperatore, questa benedetta investitura: ma se le cose così non vi piaciono, io sono disposto a renunziare fino da questo giorno el governo; e voi farete di me quello che crederete più opportuno; oppure mi ritirerò in qualche castello, a darme agli studi, che dio sa quanto desidero di finire a questo modo la mia vita.

— Ah, ottimo mio Zio, no, voi non dovete lasciarmi: fate tutto quello che credete per il mio bene, e continuate; finchè l’orizzonte non sia tranquillo, a reggere in mia vece!

— Quand’è così, farò, per vostra considerazione, quello che voi volete: ma allora l’Illustrissima signora Duchessa dovrà....

— Mio Zio, compatite la sua feminile ambizione; a lei non badate: è poi del resto così buona!... lasciatele soddisfar qualche sua fantasia; lasciamole onori, danari; non disgustiamola con altri patti!...

— Come s’ha da far così, converrà però, [172] che almeno voi me informiate di tutti i suoi passi pericolosi, perchè non precipiti le cose nostre: diversamente come si fa a dover vivere in sospetti continui!

— Orbene, io così farò: se ella prenderà qualche risoluzione ardita, me la confiderà, sono certo; ed io non mancherò di avvertirvene.

— Ebbene siamo intesi, caro nipote: e non dubitate, che mi troverete sempre premuroso nel corrispondere a quella bontà che sempre me avete dimostrata. Ora devo andare in Consiglio, per gli affari di stato. Addio.

— Addio, mio Zio, possa il cielo a lungo preservare i vostri preziosi giorni!

Lodovico partì: egli in sè giubilò dell’ottenuto trionfo: il nipote infatti, in lui ciecamente fidando, all’uopo gli rivelava tutto ciò che Isabella faceva o far voleva: così tutti i di lei piani furono sempre sventati: allora fu che Carolina venne tolta dal fianco di Isabella; e Lodovico tranquillamente, e senza trovar ombra di ostacolo, battè la strada dell’usurpazione che al trono dovea condurlo. Egli trattava con ossequio la Duchessa, che lo abborriva; facea sentire ai magistrati da lui creati, che la caduta di sè stata sarebbe il preludio ancora della loro rovina; i parenti del duca [173] blandiva col danaro e coll’onorificenze; cercava per sè l’investitura del ducato, dando la nipote al Re de’ Romani; e finalmente traeva in Italia il Re francese. Il nipote, cieco, e poi per sopraggiunta caduto infermo, mai non si oppose a nulla; i secreti maneggi dello zio sempre ignorò, non avendo amici i consiglieri di Stato nè i segretarj ducali; e la debolezza sua fu anche esagerata, e presa per compiuta imbecillità, tanto che di lui qualche storico parlò con assai disprezzo. Così, per esempio, il Comines nelle sue memorie lasciò scritto di Isabella e di lui queste parole: «Sforzavasi questa donna valorosa e di gran cuore di riporre il marito in credito e dignità; ma di vero egli era troppo imprudente e di poco cervello, e per giunta rivelava tutto ciò che ella diceva.» Ed altrove: «Lodovico allora non aveva altro competitore che la moglie del nipote, benchè essa potesse poco; sapendosi il Re pronto a venire o a mandare un esercito in Italia; ed essendo il Duca di lei marito non solo imprudente, ma quasi di cervello scemo, come quello che riferiva tutto ciò che ella conferiva seco allo zio.»

Della condotta imprudente del Duca non si tardarono a vedere i tristi effetti. Il Duca [174] di Bari, più sicuro, potè ricusare ciò che il Re di Napoli con ambasciata solenne gli fece chiedere, che cioè rimettesse il governo al nipote; e mentre in apparenza non lasciava di onorare la duchessa Isabella, in realtà, cinta ovunque da persone scelte da lui, essa era vera prigioniera nel suo stupendo Castello. — L’animo di lei altero, di rado le permetteva sfogo al dolore: col marito poco si lagnava, vedendo di dargli dispiacere; nel padre, di animo bollente e al Moro avverso, confidava.... ma come fargli sicuramente pervenir nuove lettere.... In tale angosciosa situazione, abborrendo mostrar le proprie pene a tante persone o indifferenti o a lei avverse che la circondavano, solo qualche volta fra i boschetti solitarj del giardino e parco che al Castello erano uniti sfogavasi in pianto abbondante, e in esecrazioni contro lo zio simulatore, che le ammaliava lo sposo, le toglieva gli amici, ed usurpava quello stato che ella sperava trasmettere al proprio figlio; bambinello che era il suo unico conforto in mezzo ad una vita dolorosa benchè condotta in una reggia.

Il vecchio giardiniere del castello Giovio ed un suo figlio, erano i soli, si può dire, [175] che a caso trovavansi a parte della situazione oltre modo deplorabile della Duchessa. Essi soli la videro talora cogli occhi di pianto rosseggianti, conducendo per mano il proprio figliuolino; che da essa, infantilmente giojoso, si staccava, o per tener dietro ad una farfalletta splendente de’ più leggiadri colori, o per cogliere qualche fiore da presentare alla madre, che ne lo rimunerava sempre con un bacio o una carezza tenera ed un sospiro. Il duca stesso Gian-Galeazzo poco sospettava che sì ferita fosse l’anima della propria consorte; e, pieno di brio giovanile, spesso usciva per darsi al favorito suo sollazzo della caccia: trattenimento che formava il diletto ancora di suo padre, di cui il Corio disse, «Grandemente si dilettava di uccellare e cacce di cani, onde una volta all’anno intorno a questo spendeva sedicimila ducati: un Giovanni Giramo custodiva i cani, volendo imitare l’antico uso de’ suoi; quantunque quel canattiere non fosse sì inumano e crudele: le pertiche degli astori, falconi, sparvieri, erano adornate con pezze di velluto ricamate d’oro ed argento all’insegne ducali... Oltremodo avea bellissima stalla di cavalli...» — Il giovine Duca, più saggio e frenato da Lodovico, non davasi [176] veramente in preda a un lusso sì smoderato; ma non lasciava però di amare gli spassi; e moltissimo tempo consumava fuori cacciando, e passava per tal oggetto da uno nell’altro de’ suoi castelli di Cusago, Abiate, Monza, Desio, Melegnano, Carimate, Pavia, e talora anche ne’ più remoti. Lodovico vedea volentieri che il nipote stesse lontano dalla capitale; poichè il lasciarsi scorger di rado in Milano gli togliea la popolarità. — Egli al contrario spessissimo era a cavalcar per la città, ove godeva che la plebe lo salutasse col grido Moro, Moro; e talora coi benefizi e la liberalità l’affetto de’ cittadini eziandio si cattivava.

Il giovanetto Duca, dedito a’ suoi piaceri, non lasciava anche di fare qualche volta alcun torto alla giovine sua moglie; col darsi ad altri amorucci, che, brillanti come quelle stelle che talora solcano il cielo principalmente nelle notti d’estate, come esse però appena accese declinavano finchè spente di sè più non lasciassero alcuna traccia. La sua complessione, fra tali disordini giovenili, si affievoliva: e il Moro con gioia vedea dei sintomi che sembravano annunciargli, che egli come fiamma troppo viva in breve avrebbe per mancanza di nutrimento cessato di esistere. Forse [177] un tal pensiero in altri sorse, e concorse a persuadere che impunemente e senza pericolo di esserne accagionati poteasi al giovine principe propinare un lento veleno. Questo gli fu dato? non lo so: ma molti lo credettero; ed alcuni stimarono di averne rilevati i segni certi! Qual mano lo propinò? chi la spinse? supponendo il fatto vero, anche questo è un arcano: se ne incolpa il Moro; ma potrebbe anche esserne stata rea Beatrice sua moglie; e forse nessuno lo fu; ma bisogna convenire che, dal complesso de’ fatti, non si può dubitare, che entrambi non ne fossero capaci; a che non spinge una sfrenata ambizione!

Pertanto alla Duchessa crescevano i motivi di dolore. Essa viveva appartata, senza darsi nessun sollazzo. Uno de’ suoi diletti era, nel giardino passeggiando, trattenersi col tenero suo figlio, o col vecchio giardiniere: le sembrava che la persona più lontana dalla corte dovesse essere la più innocente, quella che all’uopo avrebbe sentito un poco di pietà per la sua misera situazione!

— Ambrogio, le disse un giorno, voi siete ben vecchio: ditemi, trovaste voi sempre deliziosa la vita?

[178]

— Eh, Illustrissima, rispondeva sorridendo il giardiniere: un poco di male un poco di bene: ma tant’e tanto ci sto volentieri; e spero durarla ancora, per vedere altri accidenti oltre quelli che già ho veduto, che non sono poi tanto pochi.

— Vi credo bene! Quanti anni sono che servite in corte?

— Che servo in corte! Io sono nato qui; è ben vero che non sempre continuai a starci. Io mi ricordo, Illustrissima, di quando viveva il duca Filippo Maria: avea 25 anni allorchè è morto. Che uomo stravagante, Illustrissima! allora il Castello non era sì bello come adesso, e neppure il giardino! Egli viveva sempre chiuso nelle sue stanze; di rado veniva a passeggiar qua giù! molto tempo passava ad Abiate, dalla signora Agnese del Maino: in città non si vedeva mai! — Qui, si tremava al vederlo; nel tempo stesso che non ci volea male: in ultimo era divenuto cieco; e involto nella guerra, si fece più intrattabile ancora. Un giorno ci fe’ dar la corda a tutti di nostra famiglia, perchè non trovò certi legumi; ed era passata la stagione. Ma, morto lui, le cose si cambiarono; il Castello fu diroccato, il giardino imboschì; noi continuammo [179] a coltivarlo per nostro conto; pagando un canone alla Repubblica. Allora fu un tempo di grandi pazzie! si parlava dagli oratori per le piazze; si era in continue faccende: anch’io più d’una volta dovetti servire nelle file de’ Capitani e Difensori della libertà! mi sono ingegnato; ho menate le mani meglio che ho potuto! Basta: la Repubblica finì; perchè il conte Francesco Sforza la tradì, come l’IIlustrissima saprà; e nel blocco ultimo, i prodotti dell’orto erano sequestrati dal vicario di provvisione; io ne fui escluso, e dovetti per la fame mangiarmi perfino le suole delle scarpe. Quando dio volle il conte Francesco entrò in città; le cose tornarono quiete; e il Castello si rifabbricò, e io tornai al mio posto. Il Duca Francesco e la Illustrissima signora Bianca erano brave persone; ma non vennero ad abitare qui. Venne poi il duca Galeazzo Maria: egli amava lo sfarzo, e abbellì non poco il Castello, ove cominciò ad abitare. Egli avea talora delle pazzie per il capo, e amava troppo i suoi piaceri, e vendeva la giustizia per aver danaro; ma spendeva assai; era uomo generoso; e mi fabbricò l’abitazione, e regalò spesso di molti ducati! che il Signore gli dia riposo; è morto [180] in chiesa e riconciliato con Dio, essendo la seconda festa di Natale. Sotto di lui si cominciò ad ampliare il giardino, unendovi quel parco che ora l’Illustrissima vede, cinto di muraglia per lo spazio di tre buone miglia: egli amava tanto la caccia delle selvaggine, che volea divertirsi anche senza andar lontano, il povero duca! Dopo, venne l’Illustrissimo duchino Gian-Galeazzo, che il cielo ci conservi per molti anni; e l’eccellentissimo Duca di Bari, che il cielo pure benedica; e Lei, che possa avere tutte le prosperità!

— Tieni, Ambrogio, disse Isabella regalandogli una moneta d’oro. Lasciami sola!

— Il cielo le dia grandi contentezze! disse il buon vecchio ringraziando; e ritirossi.

Come Isabella si fu trovata sola, fissò gli occhi a terra; e sclamò «Che il cielo benedica il Duca di Bari!» Ecco come tutti gli sono devoti! Io non troverò dunque un’anima che con me si accordi ad odiarlo; non troverò mai chi faccia eco a’ miei sospiri, non potrò mai rinvenire un compagno che mi aiuti a colorire i miei disegni! Il simulatore colla sua lingua eloquente affascinò il giovine mio consorte, come l’augelletto è ammaliato dalla lingua della serpe insidiosa: io [181] sola resisto alle sue arti; ma egli sempre mi vince, e ogni giorno più trionfa! Oh mio dio, mio dio, non troverò io mai neppure un solo servo fedele!

— Ah, Illustrissima, voi ne avete uno che morrebbe per voi! —

A questa inaspettata interruzione, Isabella trasalì. Ella guardossi intorno; e vide uscire da una vicina macchia Carlo, il figlio unico del vecchio giardiniere.

— Foste voi, Carlo, che pronunciaste ora alcune parole!

— Ah, Illustrissima, mi perdoni: io da lungo tempo mi rammarico delle sue afflizioni: io vorrei alleggerirle, potendo: se un servo fedele vale a giovarle, io sarò quello; e sua Signoria Illustrissima mi troverà sempre pronto a ogni suo cenno, dovessi per lei entrare nel fuoco ancora!

— Giovine generoso, io vi ringrazio de’ vostri sentimenti: forse in breve metterò alla prova la vostra fedeltà! — gli rispose in tuono grazioso ma solenne l’infelice Duchessa; e da lui si allontanò.

[182]

Capo XIII. SEGUE LO STESSO ARGOMENTO

Un mese dopo il giorno di cui parlammo nel capitolo precedente, il vecchio giardiniere si lagnava che già da tre settimane suo figlio mancasse dalla paterna casa, senza dargli novella alcuna di sè: e la Duchessa cercava consolarlo con doni replicati! — Isabella poi una sera, fatto a sè venire un frate Carmelitano che la confessava, a lui palesò, come ella temeva di aver cagionata la perdita [183] di un suo fedele servo, da lei incaricato di portare una lettera al Duca di Calabria suo padre! Il Carmelitano impallidì; ed esortò la sua penitente a deporre l’odio suo abituale contro il Duca di Bari: ma essa allora, tutta commossa, in sì doloroso sfogo di lamenti sciolse il suo cuore, che il buon religioso ne fu scosso fin nel fondo dell’anima! Egli le impartì la propria benedizione; e quindi, risoluto di servire egli stesso piuttosto alla giustizia che alle mire dell’ambizioso Duca di Bari, le disse:

— Illustrissima Signora, la sorte del giovane di cui mi dite non mi è nota: ma la sua scomparsa avrà destati sospetti nel Maestro generale della corte; e potrebbe essere stato inseguito e raggiunto, e Dio non voglia che di peggio gli sia accaduto dell’essere stato rinchiuso in qualche forte ad espiare il suo fallo! Ma se V. S. Ill.a ha alcun’imbasciata da far giungere al di lei padre, io ne darò incombenza a un mio collega che deve passare a Roma; e che se ne incaricherà, ne sono certo; e solo sarà necessario che voi gli diate un segno, perchè gli venga creduto allorchè recherassi alla corte del Re di Napoli.

— Ebbene, questo anello è una memoria [184] di mia madre, che Alfonso mio genitore ben conosce; eccovelo: il nunzio che s’incarica della missione faccia intendere a mio padre, che io sono in questo castello come prigioniera, e che non solo il comando ci è tolto ma ancora la libertà: e lo esorti, se pietà sente di me, a non tardare ad accorrere a liberare la sua figlia, e il Duca che pure è vostro legittimo signore.

— Il mio dovere non mi proibisce che io eseguisca tutto ciò: io servo a’ miei legittimi principi; non servo che alla verità!... Se il signor Lodovico scoprirà quello che feci, io corro, il so, grave rischio: ma sia fatta la volontà del cielo! Il mio collega è mio amico; è un uomo dabbene, pronto a soffrire per la giustizia, e non dubito assumerà l’incarico, tanto più non dovendo tornare probabilmente da queste parti: Insomma, datemi l’anello e il vostro messaggio avrà luogo.

Isabella, consegnando l’anello, strinse la mano del buon religioso con gratitudine, e la bagnò delle sue lagrime. E bello era veramente quel quadro, ed affettuoso! il frate, di età matura, di nobile sembiante, con un volto che indicava la penitenza e la contemplazione; [185] mostrava la dignità dell’uomo generoso che sacrifica sè stesso alla giustizia di una causa, a servir contro la quale in sostanza era destinato: e d’altro canto, tenero contrasto facea la Duchessa, giovine; bella ancor più per l’aria sua d’afflizione che spargeva un incanto celestiale ne’ suoi lineamenti; appoggiata la testa alla mano del suo buon direttore, bagnandola di pianto e lambendola di un bacio, che scese al cuore del vecchio, che si sentì per esso trasfondere una illimitata divozione per l’alta donna, una eroica disposizione a sacrificarle ancora la vita! Era pietà, amore della giustizia, od amore, quell’affetto del buon religioso? Era di fermo un misto di tutti questi affetti; ma la pietà era illuminata, l’amore della giustizia era ardente come l’amore, e l’amore era puro come quello degli angeli.

Ma la sorte non fu propizia alla principessa: passò un mese, e poi due e tre, che il frate era partito, e di lui non si seppe più novella: nè giunse certo a Roma; giacchè questo solo fu saputo! Il confessore continuava a veder la Duchessa; ma un dubbio crudele lo funestava: il frate suo amico era scomparso; Lodovico non gli avea di nulla parlato, ma [186] sembrava che i suoi andamenti fossero spiati; egli anche in breve ammalò; e dopo lungo languire, andò a ricevere in una vita migliore il premio delle sue virtù! — Che non pianse della sua morte Isabella! Il padre di Carlo poi, il vecchio giardiniere, un giorno le palesò, che dicevasi per la città che alcuni messaggeri che ella mandava al padre erano stati affogati![5] Povero vecchio, ei non sapeva ancora che uno di questi era suo figlio! — Isabella rabbrividì; e si propose di non più spedirne altri, piangendo già la morte di tre generosi che, come Carolina, furono vittime di essersi sagrificati alla di lei causa: infatti poteva essa dubitare, in un tempo in cui l’uso ne era sì frequente, che il veleno le avesse tolto ancora il suo venerabile confessore!

Vedendosi a mal in cuore troppo vicina all’abborrito suo nemico e alla di lui non meno odiata consorte, volle finalmente passare nel Castello di Pavia: ma quivi, tremando, cominciò ad avvedersi che anche la salute del marito suo andava deperendo. Che pensare di ciò? Era allora il tempo in cui [187] suo padre, salito al trono, faceva sforzi per spingere le armi sue in Lombardia; e Lodovico già avea contro di lui chiamate le armi francesi. La malattia del Duca andava aggravandosi: doveva ella pensare che, la malizia del suo rivale fosse giunta al punto di attentare alla vita del giovine suo sovrano; di quel buon principe che nel Moro tutta avea posta la sua confidenza? O dovea credere, che, in un momento in cui tutte le disgrazie sembravano accumularsi sulla sua famiglia, il cielo inesorabile volesse altresì flagellarla col lasciar lei vedova, ed orfani i teneri suoi figli?

Essa era in tali angustie, allorchè la pietà le suggerì di invocare una protettrice celeste, della quale la fama magnificava allora i frequenti luminosi favori. Era questa la Vergine, che per mezzo di una sua immagine miracolosa, rinnovava, dicevasi, in que’ giorni non infrequenti portenti. Un monastero di Pavia racchiudeva in una sua cappella interna questa effigie sì benefica: quel monastero ricordava antichi patimenti di una bellissima donzella latina che, dopo aver destato un violento amore in un Re longobardo, in quel chiostro, magnifico per que’ tempi, era andata [188] ad espiare alcuni momenti di debolezza, a piangere sulla memoria di un amatore che appieno ella non seppe obbliare giammai. La pietosa storia di Teodota, l’inclita donzella italiana, quante volte poi a un dipresso non s’era rinnovellata fra quelle mura tranquille; ove una quiete benefica, se non un perfetto riposo, aveano alfin trovato de’ cuori cui le passioni più violente aveano agitato nel tempestoso oceano della vita! Ivi un devoto esaltamento era spesso succeduto ai palpiti di un amore, che poi fu rimeritato da tradimenti; ed aveva ancora di qualche fiore abbellita un’esistenza, che una volta non si era creduta più capace se non se di un martirio interminabile!

La Duchessa pertanto un giorno recossi al monastero che la fama le indicava come un ultimo raggio di stella amica oramai vicina a sparire! Quel monastero era quello detto della Pusterla, ma che era stato alzato col titolo di Santa Maria e di Teodota. Una ricca chiusa lettiga coprì di mistero quella sua andata; nessuno la seppe: fu una gita furtiva; un atto di pietà da cui ogni mondana pompa venne divisa! Ella giunse inaspettata fra quelle religiose, a cui solo un istante prima era stata [189] annunziata la sua visita: poteva essa infatti por tempo in mezzo, se trattavasi di abbreviare i patimenti dello sposo addolorato e febbricitante? Con venerazione fu raccolta l’inclita donna; tosto fu condotta alla interna cappella della immagine miracolosa: palpitando, la Duchessa si accostò alla soglia del sacrato recesso, appunto come un tempo non senza trepidazione sì si accostava all’arca d’un dio terribile, che colle vampe, colle voraggini aperte, colle onde sdegnose, coi serpenti, puniva i suoi nemici; ma che sapeva ancora all’uopo, pe’ suoi fidi, dividere il mare e i fiumi, far piovere il nutrimento, addolcir le onde, e trarre dalle pietre un rivo abbondante!

Ma chi è quella pia, che, prostrata avanti alla sacra effigie, mormora umili preghiere, avvolta il capo modestamente in bianco velo, di lane candide vestita la piccioletta persona gentile! Al vederla, più d’una delle religiose che accompagnavano la Duchessa trasalì! Lo strepito insolito, ecco le ha fatta rivolgere la testa graziosa; le rosee guancie apparirono, il dolce sguardo modesto, la bocca che rassembra a un fiore vermiglio or ora fatto sbocciare dalla primavera! — Carolina! gridò la [190] Duchessa. — Un istante dopo, Carolina era a’ suoi piedi; e questa la alzava, e stringevala con tenerezza fra le sue braccia!

— Non indarno io qui venni, o Vergine santa, se tu di già mi ridoni un’amica; di cui tal bisogno prova il mio cuore, che più non è desiderato raggio di sole da pellegrino sorpreso in via da una notte di dense tenebre e procellosa! — Ah il Duca pericola della vita: tutte preghiamo per lui! — E poichè devotamente ebbero orato avanti al sacro altare, rinnovava gli abbracciamenti la Duchessa alla sua diletta; la baciò in fronte, al seno la strinse: mentre dal suo canto Carolina copriva di baci teneri e di lagrime abbondanti la mano della sua illustre benefattrice. — Pochi istanti dopo entrambe trovavansi nel Castello di Pavia. — Il Moro, non crudele veramente di indole, non volle privare di quel conforto Isabella; nè si oppose che la diletta sua amica restasse ulteriormente al suo fianco e la consolasse nelle afflizioni che su quella inclita donna si andavano accumulando.

Ma la salute del giovine Duca non migliorava: egli andava anzi struggendosi ogni dì più; ed ogni tentativo della arcana scienza chiamata in suo sussidio, sembrava riescir [191] vano; come indarno le onde vanno facendo impeto contro un macigno che immobile le fende; o come lotta invano contro i flutti chi è travolto fra le acque frementi e rapide di un improvviso torrente!

[192]

Capo XIV. LE FESTE IN PAVIA

Pochi giorni dopo questa scena pietosa, Pavia assumeva l’aspetto d’una città in cui entra un trionfatore. Era il 13 di ottobre: tutte le campane suonavano a festa; la strada che dal ponte sul Ticino conduce al palazzo della città era tutta di frondi e fiori ornata; e le finestre erano addobbate di arazzi e drappi in modo vario, e mille e mille curiosi vi stavano in attenzione di veder passare il monarca [193] francese. La stagione ancora mite contribuiva a rendere più brillante quella festa: poichè il cielo era limpidissimo, il sole mandava una luce viva e lieta; e la natura, come gli uomini, sembrava tutta compiacersi della venuta di un Re, di cui pronosticavansi le gesta famose contro il nemico della civiltà, che tanti progressi fatti avea; un Re che forse ristabilirebbe in breve l’Impero d’Oriente, respingendo il Turco da quelle regioni colte che come fiume traboccante avea invase, soffocando ogni germe di bene e floridezza fra i popoli caduti sotto la fanatica sua scimitarra! La curiosità di godere di tale spettacolo era tanta, che coloro che non aveano potuto aver luogo alle finestre erano saliti sui tetti; e le torri, di cui abbondava la città, anch’esse ove la vista potea spingersi sulla strada che percorrere dovea il Re, erano tutte traboccanti di gente, avida di veder da lontano il passaggio di lui, il suo corteggio brillante.

Erano due ore dopo mezzo giorno, quando lo sparo de’ schioppi e delle bombarde annunziò ai cittadini, che Re Carlo allora stava per entrare nella città: egli fermossi un istante di là del Ticino, a contemplare la città che [194] da quella parte offriva bellissima prospettiva, sì per la moltitudine delle sue torri e delle sue case, come per quella delle chiese e de’ suoi palagi. Passato che ebbe il ponte che mette alla città, tra il fragore delle artiglierie, gli applausi popolari dinotavano ovunque, a mano a mano, che compariva la pomposa comitiva. Dapprima passò uno stuolo a cavallo di gentiluomini francesi riccamente armati; e di questo, parte corse a prender in custodia le porte della città; veniva poi un drappello di musici, che eccheggiar faceano l’aria del suono de’ loro strumenti, che erano trombe, ciaramelle e pifferi; appresso veniva parte delle guardie del Re. Il Re seguiva dopo esse, a cavallo, ricchissimamente armato, col suo manto reale ampio, e colla corona in testa: cavalcava un candido destriero, che era condotto a mano da due palafrenieri vestiti di seta con ricami d’oro. Dietro al Re venivano i primarj de’ suoi cortigiani, fra i quali Stefano di Vers, e il generale Brissonetto, suoi favoriti; in mezzo a questi, tutti a cavallo e sfarzosamente abbigliati, cavalcavano pure Lodovico Duca di Bari e Beatrice sua moglie, donna animosa, non che il padre di lei, Duca di Ferrara, ed [195] alcuni de’ loro cortigiani. Seguivano poi altre guardie del Re; e per ultimo le guardie ducali, ossia le lance spezzate, che erano al soldo di Lodovico. Una folla immensa di popolo, come accade, stipavasi dietro la festosa comitiva; festoso egli stesso, rapito dalla solennità di quell’avvenimento, e senza pensar oltre alle conseguenze che da esso doveano seguire. — Lodovico il Moro avea fatto regalmente addobbare il Palazzo della città, per albergarvi il Re. Carlo però, a cui soffiava negli orecchi sospetti il general Brissonetto, avea voluto che delle porte di Pavia alle proprie genti affidata fosse la custodia; e ciò gli era stato concesso.

Poco dopo che egli fu giunto al palazzo per lui destinato, essendo pronta, la mensa, il Re con Stefano di Vers e il generale Brissonetto, Lodovico il Moro con Beatrice sua moglie, Ermes Sforza, Galeazzo Sanseverino colla moglie bastarda di Lodovico, il Conte di Cajazzo, ed alcune poche nobilissime gentildonne della ducal corte, non che pochi altri baroni francesi, passarono nella grande sala, ove era disposta una mensa sontuosa. I valletti e camerieri ducali diedero da principio odorose acque alle mani de’ [196] convitati; e questi poi, al suono di trombe, flauti e pifferi che di quando in quando faceano sentire una musica lieta e vivace, si assisero al desco, sul quale erano disposte in numero grandissimo le vivande; che furono più volte tutte mutate per sostituirne altre di varia specie e di forme diverse. Come era loro uso, i Francesi salutarono il loro Re prima e dopo che ebbe bevuto, ma del resto tennero il capo coperto; ed i soli suoi ufficiali domestici stavano colla testa nuda e senza manto. Sarebbe poi noioso il riferire minutamente di che si componesse quel banchetto, veramente degno del personaggio per cui era imbandito; ma non possiamo tacere alcune singolarità di esso, che il nostro lettore troverà curiose. Fra le diverse vivande che comparirono sulla tavola, varie erano fregiate d’oro; indorato era il pane, indorati varj confetti; i gigli di Francia da per tutto splendevano agli occhi de’ risguardanti; mentre l’adulazione avea poi fatte dimenticare le armi ducali. Nulla rammentava il duca Gian-Galeazzo che stava presso a morire nel Castello, nè Isabella d’Aragona, che sola fra il comun giubilo era avvolta in una mestizia mortale!

Del resto le vivande erano qui a profusione: [197] carni di ogni qualità di animali domestici, selvaggina, volatili di ogni specie, con salse e senza. Talora grossi animali pelati ma interi, col ventre gravido d’altre vivande; talora statue e storie in rilievo, sia di paste sia di burro, artistamente lavorate: comparve ancora un pavone vestito delle sue penne; e così alcuni fagiani; e poi un cervo colle sue corna: offrivansi gelatine in conche d’argento; torte indorate. Fra un portato e l’altro, di nuovo erano date acque odorose alle mani: le vivande inargentate succedevano alle indorate; le meno sostanziose alle più succulente; le salse più stimolanti alle dolci; i vini più generosi ai meno prelibati: infine comparvero frutte e fiori; varie paste in vario modo foggiate; e confetture ben lavorate, fra le quali era un Bacco tratto dalle tigri; con che volle l’artista alludere alla impresa di Re Carlo, il quale mirava, come quell’antico dio, a trionfare anche nell’oriente, dopo che conquistato avesse il Regno di Napoli che in forza de’ suoi diritti gli si competeva.

Sul terminar della mensa, erano poi stati introdotti musici, che intonarono canti melodiosi; e buffoni che danzarono e fecero molti [198] giochi di equilibrio e destrezza, e ballarono sulla corda. Scudieri vestiti di seta con fregi in oro servivano i commensali: il senescalco più volte mutò di vesti, sempre ricchissime, ed era fregiato di collane d’oro e di pietre preziose: in ultimo, fu data di nuovo acqua di rose alle mani; e il Re passò in altra sala riccamente addobbata, ed in cui erigevasi un trono disposto a riceverlo.

Qui nuovo spettacolo e più maraviglioso lo attendeva; perocchè un artista ingegnosissimo, il celebre Leonardo da Vinci, per la prima volta offrì a Carlo un omaggio, che poi fu da lui forse ripetuto per Lodovico XII e Francesco I, restandoci memorie che tutti questi principi ricordano aver fruito di una simile adulazione: infatti non fu appena il Re seduto sul trono per lui apparecchiato, che vide nella sala, a passo misurato, entrare un leone di legno, grande al naturale, ben fatto, e in viso mansueto; e questo, poichè fu presso al monarca, arrestossi, e colle zampe si squarciò il petto, che mostrò di essere tutto pieno di gigli. Di tal modo si veniva a dire a Carlo, che la sua forza era ad ogni altra superiore; appunto come ad ogni belva minore sovrasta il terribile chiamato re della foresta.

[199]

Il monarca fu sì contento di questo inatteso spettacolo, che desiderò di vederne l’autore: allora fu introdotto Leonardo da Vinci: la sua età cominciava a declinare; ma vedeasi in lui un uomo di robustezza straordinaria, dignitoso nel portamento, di bella persona, di lineamenti nobili e regolarissimi, con una barba che già traeva al bianco. Il Re lodò l’industria sua; e soggiunse che la fama di lui era di già sì grande che anche in Francia risuonava: Leonardo, contento di quella lode, piegando un ginocchio innanzi al Re lo ringraziò della bontà sua; poi fattasi recare una cetra di nuova foggia, diede a Carlo un saggio di altra sua abilità, nella quale riusciva pure eccellente.

L’istrumento che Leonardo da Vinci cominciò a far sentire con un preludio assai animato, era d’argento in gran parte; in forma di teschio di cavallo, acciocchè l’armonia fosse con maggior tuba, e di voce più sonora: con questo, per testimonianza del Vasari, egli avea superato tutti i musici che eran concorsi alla corte del Duca di Bari. Lodovico il Moro si compiaceva non poco di ascoltar i suoni armoniosi e variati che il Vinci sapea trarre dalle tocche corde di quell’istrumento di sua [200] invenzione. Ora Leonardo, poichè ebbe fatta ammirare l’impareggiabile sua abilità anche nella musica, facendo giungere alle orecchie del Re nuovi suoni, nuove melodie, e molte variazioni su un tema dapprima semplice e solenne; incominciò a sposare ai suoni della cetra quelli di una voce robusta e armoniosa, ed improvvisò i versi seguenti:

Trascorsa è già la tepida

Lieta stagion de’ fior;

Pure la bella Esperia

A te sorride ancor!

Te, Re possente e intrepido,

Vedendo, ella esultò;

Chè, sotto tua grand’egida.

Di pace il don sperò!

Pace, che ferma e stabile

Cresca il nostro gioir;

Che un fortunato secolo

Guidi al comun desir.

L’Aragonese, pavido

Non meno che crudel,

Già incoronata vittima

A te destina il ciel.

Poi d’Orïente i barbari,

Tuo acciar debellerà;

E allor per te la Grecia

Giorni miglior vedrà!

[201]

Onde, di serto splendido

D’alloro cinto il crin,

Fra il plauso allor che reduce

Fie al patrio tuo confin,

Potrai tu del Macedone

Sorte miglior goder:

Felice fra una gloria

Che giovò al mondo inter!

— Il Re gustò moltissimo il complimento; e stupì quando seppe, che que’ versi erano stati improvvisati. Quanto natura è larga cogli ingegni d’Italia, pensava egli: pochi istanti bastano ad essi per offrire animati fiori poetici, che altrove non crescono che a grande fatica! — Il dir versi all’improvviso è un dono raro, che il ciel concede in abbondanza ai figli d’Esperia. — Leonardo, dopo, si ritirò.

Fra questi spettacoli variati e il tripudio della mensa, de’ suoni e de’ canti, il giorno era omai caduto: e il Re venne allora invitato a cavalcare dapprima qualche istante per la città, che vagamente erasi illuminata; e ad assistere poi ad un fuoco di artificio espressamente disposto da qualche giorno nella bella piazza avanti al tempio maggiore di Pavia, ove era stato rizzato un palco pel Re e il distinto suo seguito. Gli fu osservato, che quel [202] fuoco sarebbe stato disposto nel parco del Castello, quando non fosse stato infermo il Duca, da cui per conseguenza conveniva allontanare più che possibile ogni indiscreto romore.

A questa parola di Castello, il Re, come afferrando un’idea che le diverse scene piacevoli cui assistito avea da lui allontanata contro sua voglia aveano, disse al Duca di Bari: — Sì, noi di buon grado goderemo di quanto all’Eccellenza Vostra piacque disporre per onorarci, di che grati vi siamo; ma, diteci, voi ci avrete bene apparecchiato alloggio nel Castello?

Lodovico stupì a tale domanda: perocchè egli avea disegnato albergare il Re nel palazzo del comune; sì per allontanarlo dal nipote, come anche, timido e sospettoso com’era, per riservare in proprio potere il forte castello. Egli quindi si trovò allora alquanto imbarazzato.

— Sire, ei rispose, l’alloggio che vi preparai è nel Palazzo. Il Castello, già occupato dal Duca nostro nipote che per essere gravemente ammalato non potrebbe ritirarsi, offrirebbe a Vostra Maestà una stanza troppo incomoda ed angusta.

[203]

— Non importa, replicò Carlo, a cui il generale Brissonetto a forza di dire aveva inspirata alcuna diffidenza contro il Moro: noi ci adatteremo a stare come si potrà; ma uso nostro è di alloggiare mai sempre in un forte, di cui la guardia sia data alle nostre genti: nostro padre ce ne ha dato un costante esempio; nè noi possiamo da questa massima derogare.

— Permetta allora la Maestà Vostra, che io vada a dare degli ordini in proposito, troppo necessarj; ma di che temete, o Sire, in questa città che appartiene ad un principe di voi amico non solo ma parente, come è nostro nipote l’Illustrissimo duca Gian-Galeazzo? —

— Di lui, vi assicuro, io non ho alcun timore! disse sbadatamente il Re.

— Temereste adunque forse di me? disse conturbato il Moro.

— No, Lodovico; so che mi siete amico, e che a ciò vi spinge anche l’interesse vostro; nè di voi quindi temo: ma rispettate, vi prego, una mia volontà: tutti sanno che ai miei voleri io non sono mai molto disposto a rinunziare!

— Allora si farà come desidera la Maestà Vostra! E, così dicendo, si allontanò dal Re; [204] il quale col suo senescalco Stefano di Vers, col giovine Galeazzo Sanseverino luogotenente del Duca di Bari, ed altri grandi, cavalcò per la città, ad ammirare le luminarie per lui disposte, e godere dello spettacolo lieto di un fuoco artificiale eseguito colla polvere da cannone, che il più splendido non si poteva desiderare. Tali fuochi allora erano assai usitati, e conoscevansi non di rado sotto il nome triviale di falò. — Intanto il generai Brissonetto, sempre sospettoso, d’intelligenza col Re, partiva per visitare il Castello, e porvi doppia guardia di uomini d’arme francesi, osservando ogni cosa per la sicurezza del principe che vi doveva abitare. Egli prese per compagno e guida il cameriere ducale Bernardino Corio.


Lodovico il Moro egli pure al Castello si volse, tutto conturbato. Se il Re vede il nipote, pensava egli; se per lui prende interesse; se la mia nemica Isabella lo muove in proprio favore; le armi francesi potrebbero rivolgersi contro di me, ed io avrei riscaldata nel mio seno la serpe funesta che mi porterebbe irremediabile ferita! Se Carlo mi costringe a depor la reggenza; se nuovi consiglieri [205] di Stato si creano in sostituzione di quelli che mi sono fedeli; se il figlio del Duca è riconosciuto come suo successore; ecco tutti i miei disegni caduti, ed io per sempre precipitato, disprezzato dalla Duchessa, e forse costretto all’esiglio per ottenere personale sicurezza! Almeno in tal frangente vivesse il nipote; che mi è favorevole, e mi proteggerebbe; ma egli è vicino a spirare; nè la sua vita potrebbe a lungo ancora conservarsi: nessuna forza umana omai sottrar potrebbe Gian-Galeazzo alla tomba! — Io sono in una perplessità mortale! Chi mi può consigliare, fra tanti sospetti e terrori? I miei nemici trionferebbero essi adesso! mi rovinerebbe la lingua del generale Brissonetto!

Non valendo la sua prudenza a mostrargli un raggio di luce consolante in mezzo all’improvviso nembo che sembrava adunarsi sul suo capo, egli volle squarciar il velo denso che il suo futuro destino gli celava; ed almeno anticipare a sè una certezza che, come che crudele, meno atroce egli allora a sè stimava di questo dubbio angoscioso. Non sembra egli infatti, che quando la sciagura ci flagella, natura reagisca e ci somministri una forza maggiore per sopportar la sventura!

[206]

Con tal pensiero, Lodovico salì alla più eccelsa stanza della torre dell’orologio del suo Castello; aprì una porta; e trovossi in presenza di un uomo attempato, coperto d’una lunga veste scura, e con berretto nero in capo; il quale stava leggendo un libro antico in pergamena, sulla coperta di cui, allorchè il chiuse, vidersi in oro impressi i segni del zodiaco. La camera nella quale questo uomo grave si trovava era tutta sparsa di libri e varj strumenti; fra cui notavasi un globo magistralmente lavorato, che dinotava tutti i movimenti delle stelle e de’ pianeti, e che un tempo avea appartenuto al duca Filippo Maria Visconti. Era quello l’osservatorio dell’astrologo di Lodovico; uomo che ottenea gran fede dal suo signore, e che all’uopo sapeva a lui impartire i lumi di una scienza cieca, che a que’ tempi, mercè la infinita credulità umana, trovava ancora grande credito eziandio presso persone per altri lati assennate e rispettabili: una scienza che, se star si dovesse alle testimonianze della storia, molte cose previde in modo stupendo; se non che tali fatti (come di molti si sa certo), sono per lo più da credersi inventati e sparsi fra il popolo dopo gli avvenimenti.

[207]

— Almodoro, disse Lodovico: le stelle mi annunzierebbero esse in questo punto alcuna disgrazia?

L’astrologo si alzò, si trasse il berretto, condusse il suo signore ad una finestra che guardava a perfetto oriente, e quindi diceva. — Se io considero la posizione degli astri in quest’istante, tutto mi indica al contrario che V. E. è in breve per sorgere al punto più eminente della sua grandezza. Vedete voi là quella stella brillante che ora sorge sull’orizzonte? ebbene questa vi predice uno splendore non molto dissimile a quello che ci trasmette la chiara e scintillante sua fiammella: e ancora, se io osservo fra gli altri punti del cielo, tutto sembra che il firmamento in quest’istante a voi arrida. Qualunque siensi le apparenze terrene, di nulla paventate, o principe; stelle benefiche splendono per voi di una luce propizia; e le cose terrene che hanno consenso colle celesti, per influsso di queste, e non altrimenti, devono camminare. Colla protezione de’ pianeti erranti e delle stelle fisse, procedete, Eccellentissimo Duca, nella onorata vostra carriera; che tutto sembra predirmi che questa verrà con rara felicità da voi compiuta!

[208]

— Tu mi ridoni la vita, Almodoro! gridò Lodovico con un moto vivo, tanto in lui straordinario che l’astrologo stesso ne stupì. Il Duca quindi strinse la mano del suo amico, nella quale lasciò cadere alcune auree monete; e con uno slancio insolito sparì da quella camera. Egli diede poi ordine, che tutto nel Castello si disponesse per ricevere il Re di Francia; egli e i suoi seguaci sarebbero invece andati, per quel poco tempo che Carlo si fermasse a Pavia, ad alloggiare nel palazzo della città; il Castello venisse pure dalle genti del Re presidiato; ed al Re, la notte, il castellano consegnasse le chiavi della fortezza!

[209]

Cap. XV. IL VELO RIMOSSO

Allorchè il generale Brissonetto ebbe munito il castello delle genti del Re; e si fu assicurato che facevansi premurosamente tutti i preparativi per riceverlo, ed erano stati dati ordini al castellano perchè le chiavi ponesse a disposizione del Re di Francia; egli più nessun pensiero si diede di ciò; ma, prendendo il Corio per braccio, gli disse: Il signor d’Argentone scrisse ad alcuno de’ nostri [210] che voi assai bene l’istruiste sulle cose di Milano e che siete un bell’ingegno che anche di presente attendete a stendere la storia della vostra patria. Di grazia, lasciando il rumore che ora circonda il Re, vogliate in questo bel parco meco passeggiare un’ora, e narrarmi con qual arte il signor Lodovico, la cui astuzia tanto si cita, seppe far cadere l’accreditato ministro Cicco Simonetta, e poi salire a quell’alto posto di potere per cui ora il suo signore stesso padroneggia.

Corio fu lusingato dalla lode meritata, il cui suono sempre dolce al nostro orecchio perviene: egli ringraziò l’illustre personaggio che tanto lo lusingava; e si disse disposto a compiacerlo, per quanto potesse valere l’incolto suo ingegno. Essi trovavansi allora in quel parco delizioso sì celebre a que’ tempi, pei frutti, e gli animali di tante specie, che racchiudeva; per alberi già cresciuti a bellissime dimensioni; per la disposizione artistica di verdi ajuole, di cespugli in mille modi fra loro diversi, e di ruscelli, di bacini d’acqua, di fiori, che in cento guise ne variavano la scena. Il cielo sereno compiva quel quadro delizioso; e una leggier’aura sospirando, sembrava disporre al melanconico [211] racconto che allora il nostro storico milanese, non senza suo diletto, imprendeva a fare all’ospite di Francia. In quel momento Corio non sentivasi troppo ben disposto verso di Lodovico, considerando la venuta de’ Francesi siccome una punizione celeste per l’Italia; nè era poi ai francesi avverso, non riguardandoli egli che come uno strumento di dio. Così portavanlo a pensare le idee religiose de’ tempi! Egli ancora non senza dolor vedeva il giovane duca Gian-Galeazzo spinto a morire da una malattia, che agli occhi suoi, come di tant’altri, non era senza alcun sospetto di veleno.

— Signore, se io avessi minutamente a raccontarvi le cose degne di passare ai posteri, che accaddero intorno al soggetto su cui mi interpellate, non che un’ora o due mal basterebbe a noi l’intera notte. Per appagare quindi le vostra brama, io sarò breve; e non toccherò che i sommi capi del gran dramma, lo scioglimento del quale ancora non si vede, ma sembra vicino ad accadere. Morto il duca Galeazzo Maria per mano de’ congiurati, subito si levarono i ponti del Castello di Milano; e, gridato il nome di Gian-Galeazzo suo figlio come vero [212] duca, si abolirono le nuove gabelle dall’estinto imposte, e fu confermato general segretario Cicco Simonetta, il quale già fin dai tempi di Francesco Sforza era alla testa degli affari. Indi si ordinarono due Senati; uno, stabilito nella Corte dell’Arengo, ossia vecchio palazzo ducale, e composto di patrizi ed altri i quali amministrassero le cose civili, si disse Consiglio di Giustizia; l’altro, che Consiglio di Stato si chiamò, adunavasi entro il Castello, e trattava delle cose di stato. Tutrice e reggente del figlio venne eletta la duchessa vedova, Bona di Savoia; donna di cuore eccellente, di indole soave, e che all’uopo non mancava anche di fermezza e coraggio; i suoi costumi fino a quel punto erano stati superiori ad ogni censura; e credo che, se di poi vacillò in forza d’una passione, non cadde però giammai interamente, nè calpestò per feminil debolezza i proprj principali doveri; ora poi essa mena una vita irriprensibile, fra le pratiche di una fervorosa divozione. E certamente stabilite le cose nel modo in cui furono, il Ducato avrebbe goduto di una perfetta tranquillità; ma disgraziatamente il fanciulletto principe avea zii ambiziosi ed avidi di potere, i quali tutto in breve vennero a conturbare.

[213]

Questi erano Sforza Maria già stato dal Re di Napoli creato Duca di Bari, e Lodovico che diciamo il Moro. Relegati in Francia, da alcuni mesi, perchè scoperta una loro trama, tornavano alla morte del fratello a Milano; e malcontenti che loro si negasse accordar ingerenza negli affari, tramavano di bel nuovo, e meritavansi nuovo bando. Sorgeva quindi guerra fra i Fiorentini da una parte, il Papa e il Re di Napoli dall’altra; e avendo il nostro Duca mandati ajuti ai primi, il Re di Napoli gli fece ribellar Genova, animò gli Svizzeri ad eseguire un’irruzione in Lombardia, e per ultimo istigò il Duca di Bari e Lodovico Sforza a tornare in Milano e deprimervi il Simonetta; ed essendo morto il Duca di Bari, Lodovico che ebbe il suo ducato, a malgrado della pace che allora si era conclusa, ajutato da Roberto Sanseverino, pensò a proseguire il suo disegno; e, trovato modo di aver per tradimento Tortona, riescì anche con secreti maneggi a riconciliarsi colla Reggente.

Chi particolarmente persuase la Duchessa a riconciliarsi con Lodovico, fu Antonio Tassino ferrarese di lei cameriere favorito. Quella donna si lasciava da quest’uomo guidare, [214] spinta da un affetto prepotente. Era Tassino giovine di bei modi, aggraziato, elegante. Prevalendosi del favore di Bona, egli tendeva ad elevarsi ed acquistar potere: Simonetta con tutte le sue forze s’ingegnava di deprimerlo e tenerlo basso: egli facea il dover suo; ma Tassino gli divenne capitale nemico. Roberto Sanseverino impetrò il favore di questo Tassino per sè e pel Duca di Bari, con una lettera; ed egli si impegnò in loro vantaggio presso la Reggente; mostrandole, di concerto con tutti i Ghibellini, che tal riconciliazione era desiderata dai popoli, i quali stanchi della guerra gravosa vedeano nel cambiamento una speranza di maggiore tranquillità. La Duchessa, che nulla sapea negare al suo diletto cameriere, e che anche fu persuasa dalle ragioni addottele, richiamò il Duca di Bari, ed appresso il Sanseverino. Lodovico comparve quindi nel Castello, inaspettato da tutti coloro che non sapeano l’accordo; e Simonetta ne fu informato solo dagli applausi dei Ghibellini che eccheggiarono per Milano alla sua venuta. Questo vecchio allora misurò d’uno sguardo profetico tutto l’avvenire, per sè e per la incauta Duchessa; e recatosi alla stanza di Bona, le [215] disse: «Eccellenza Illustrissima, voi cessaste, me ne avveggo, d’avere in me confidenza; ma io vi darò un saggio estremo della mia accortezza: sappiate adunque, che, ora che il Duca di Bari è qui giunto, io perderò la vita, ma voi ancora perderete in breve lo stato.» — E così fu.

Tuttavia il principale autore della morte di Simonetta non fu Lodovico; di sua natura, veramente, moderato, ed alieno dalla crudeltà: ma furono gli altri suoi nemici. Le sette ostili de’ Guelfi e de’ Ghibellini, che tanto sangue sparsero per l’addietro, erano state compresse saviamente dai migliori de’ Visconti; i quali per altro d’ordinario erano considerati del partito ghibellino, che, come sapete, un tempo era quello dell’Impero. Ma gli Sforza, succeduti nel ducato contro la volontà imperiale, consideravansi ed erano di partito guelfo: or, col cambiamento che evidentemente rovinava lo stato di cose attuale, i Ghibellini vedevano lucer la speranza di rialzare la loro autorità e riprendere la antica influenza: essi quindi favorirono il ritorno di Lodovico; e precipitarono dipoi la caduta del fedele Simonetta, che da Lodovico, come pare, stato sarebbe risparmiato.

[216]

Infatti allora tutti i capi della fazione Ghibellina amici del Duca di Bari e del Sanseverino, assediarono la Duchessa reggente, mostrandole, che Cicco era il solo ostacolo che si opponesse alla tranquillità dello stato; e che, se egli si manteneva nel posto eminente su che trovavasi, la guerra civile era inevitabile. Essi, timorosi che Lodovico col Simonetta si accordasse a loro danno, presero anche le armi, e fecero sentire al Duca di Bari, che nato sarebbe tumulto se il Simonetta non davasi loro nelle mani. I Guelfi bensì anch’essi prendean le armi allora, e si mostravano dispostissimi a far loro aspro riscontro: ma Lodovico paventò tale scissura; cedette al desiderio de’ suoi partigiani; e fin d’allora determinò sacrificar loro, innocente vittima, il fedele ministro, tanto più che anche il Sanseverino facea vive istanze perchè questo si deponesse, senza di che mal sicuro egli diceva stimar sè in Milano dove era richiamato. Allora la Duchessa, persuasa, cedette; e ai 10 di settembre segnò il decreto dell’arresto di quell’antico suo servidore. Veniva quindi a Milano il Sanseverino; e il Duca di Bari entrava in luogo di Cicco, e cominciava a distribuire cariche ed onori a’ suoi amici.

[217]

Cicco e Giovanni suo fratello vennero chiusi in questo castello di Pavia, nel settembre del 1479; Orfeo da Ricano, e Antonio figliuolo di Cicco, furono mandati nel forte di Trezzo. Cresceva poi ogni dì più l’autorità del Duca di Bari; ma contemporaneamente ancora ogni dì più se ne arrogava il Tassino. La duchessa, di que’ tempi, poco si curava delle faccende; essa attendeva solo a’ suoi piaceri, del Tassino invaghita: invano ambasciatori del Duca d’Austria pregarono per la liberazione di Cicco, nel febbrajo del 1480; la morte del vecchio settuagenario venne risoluta; e in agosto la Duchessa con una sua lettera ordinò a Bertino Colli capitano di giustizia, assistito da Filippo Aliprandi e Teodoro Piatti giureconsulti, e Francesco Bolla causidico, tutti suoi nemici, di istituire il processo del decaduto ministro. Accuse enormi, ma evidentemente false, furono messe in campo contro di lui: d’aver spesso contro innocenti usato il ferro e il veleno; di aver mantenuta la guerra; di aver tentato di farsi principe di Lombardia, oltre molte altre colpe: venne torturato più volte senza risparmio; e finalmente, terminato un informe processo, fu condannato nel capo. Il penultimo [218] giorno di ottobre fu l’ultimo dì di quel ministro fedele, che con tutto lo zelo avea tanti anni vegliato per la causa de’ suoi principi. La sua testa, venerabile per canizie, cadde sotto il ferro del carnefice su quel rivellino che ci sta davanti gli occhi. Egli era allora infermo di gotta; e se i suoi nemici l’avessero risparmiato, non gli avrebbe di certo nojati con una troppo lunga esistenza! Così fu compiuta la vendetta de’ suoi nemici! — Giovanni suo fratello, eccellente e come uomo e come scrittore, fu relegato a Vercelli.

Ma poichè l’infamia della morte del fedele Simonetta fu di tal modo lasciata ricadere sulla debole ed ingannata Duchessa e i di lui giudici malvagi, si pensò anche ad abbassare il Tassino, che scandalosamente allora omai d’ogni cosa disponeva. L’innamorata Duchessa, senza badare quasi alle cose dello stato che l’annojavano, non attendeva che ad arricchire il suo cameriere prediletto; ed egli per la città spesso in groppa venia portandola dimesticamente; e non faceansi tutto il dì che feste e danze: Lodovico e Sanseverino, che ciò da principio vedevano di buon occhio, aveano anche dato per maggior comodità al Tassino alloggio presso alle [219] stanze di Bona. Ma il Tassino delle ricchezze ond’era colmato non andò pago: egli cresceva ogni ora più in alterigia; e per l’autorità che gli concedeva la Reggente, rivocava stoltamente gli ordini del Consiglio a suo capriccio, toglieva e distribuiva gli uffizj a chi più gli piaceva, riformava le guardie e componevale di persone disposte ad ubbidirgli; e perchè il Castello omai da lui dipendeva, tranne solo la rôcca, la quale però potea all’uopo a tutto il castello dar legge, egli importunava la Duchessa perchè essa rôcca al proprio padre Gabriele concedesse, togliendola a Filippo Eustacchio che era il castellano a cui dal morto Duca era stata consegnata.

La Reggente stava anche in ciò per compiacerlo; ma Filippo Eustacchio allora dichiarò, che per una promessa fatta al morto Duca ei non mai avrebbe ad altri la rôcca consegnata tranne che a Gian-Galeazzo fatto d’età maggiore. La Duchessa minacciò di dichiararlo ribelle; ma invano: il castellano anzi, consultatosi con Palavicino de’ Palavicini zio del giovinetto principe, questo nella rôcca condusse il dì 7 di ottobre del 1480, dichiarando che ciò facea per assicurarlo contro le trame di Gabriele Tassino. Fremette la [220] Duchessa; ma non potè ridire sul fatto; ed anzi, essendosele presentata in nome del Duca una carta con che esigevasi, in termini rispettosi sì ma risoluti, che i Tassini fossero banditi, ella dovette, avvedendosi che vana sarebbe la resistenza, segnare il decreto di esiglio dell’amante e del di lui padre.

Allora il Duca di Bari prese egli, in sostanza, le redini del governo. Dal canto suo, Bona, priva vedendosi di Antonio Tassino che formava le delizie della sua vita, e trovandosi umiliata per la separazione del figlio e pel potere che ogni dì più arrogavasi il Duca di Bari, dichiarò di voler dimettersi dalla tutela: fu pregata dal figlio a non far ciò, e per qualche tempo soprasedette; ma finalmente, essendosi messo a morte il Simonetta, Lodovico non lasciò, facendo rinnovar la corte della Duchessa, di recarle nuova offesa; tanto che essa, oltre modo sdegnata, rinunziò alla tutela. Si accettò allora la rinunzia; assegnandosele però una pingue pensione di venticinque mila annui ducati, e per dimora il Castello e il luogo di Abiategrasso. Partita lei, il Duca elesse per suo tutore Lodovico; e Bartolommeo Calchi sostituissi presso quest’ultimo in luogo del Simonetta.

[221]

Così il Duca di Bari pervenne alla tutela e al governo che desiderava: egli però, conviene confessarlo, fece buon uso del potere; e non solo non lasciò alzare il capo ai Ghibellini, che speravano poterlo fare sotto di lui; ma nemmeno lasciò crescere audacia al suo antico collega Sanseverino, che divenne suo mortale nemico: e invano poi si cospirò contro di lui. Lodovico fece molte cose per far fiorire Milano, abbellirla, ingentilirla; ma traendo a sè ogni autorità e forza, agì in modo che il nipote, anche uscito di minore età, non valse ad avvocare a sè le redini dello stato; di che, per vero dire, egli non mai mostrò vivo desiderio, sebbene ardentemente a ciò aspirasse la di lui moglie. L’ultimo colpo fatto dal Duca di Bari per assicurare la propria potenza, fu di tôrre il Castello di Milano al suo castellano Filippo Eustacchio, tosto che s’avvide che Isabella moglie del Duca avrebbe desiderato il potere. Ciò avvenne nel 1489.

Chi è padrone del Castello di Milano è padrone anche della città; e questa trae seco il restante dello stato. Ciò considerando, il Duca di Bari fece credere al nipote che quel castellano cospirasse a favore dell’Imperatore: [222] e lo indusse a uscir seco, a fine di farlo prigioniero; giacchè Filippo Eustacchio mai non abbandonava la rôcca. Così fece Gian-Galeazzo; e collo zio tornando al Castello, quando il Castellano venne sul ponte levatoio scortato da molti soldati per fargli riverenza e introdurlo, il Duca fermossi alquanto fuori del ponte, onde il Castellano fu costretto farsi avanti uno o due passi per baciargli la mano: or, mentre ciò facea, venne afferrato da due de’ figli di Roberto Sanseverino che sotto il Duca aveano preso servizio; e così fu tenuto stretto. I suoi soldati alzavano bensì con prestezza il ponte; ma il Duca di Bari, fatta accendere una candela, loro dichiarò, che se non cedevano il Castello prima che fosse consunta, egli a tutti loro avrebbe fatto troncare la testa: onde a quella minaccia impauriti gli diedero la fortezza nelle mani. Il Castellano fu processato; furono imprigionati alcuni tedeschi come mediatori del trattato da lui intavolato, ma poi vennero rilasciati; e anche Filippo Eustacchio, dopo alquanto di prigionia, trovò grazia, in considerazione dei suoi precedenti servigi. Ma forse la congiura fu supposta dal Duca di Bari, per ottenere il suo intento, che era di porre un castellano a sè [223] ligio nella rôcca; come fece. Nè poi tardò ad avocare a sè ogni cosa, cioè governo, fortezze, armi e tesoro: ed ora chiamò il vostro Re per opporlo ai parenti della Duchessa, perchè lo voleano spogliare della sua autorità.

Il Brissonetto udì con molta attenzione il racconto del fedele storico; ed esclamò in fine: Gran briccone questo signor Lodovico: e il Re tanto se ne fida! — Ma andiamo, mio amico, incontro a Sua Maestà, che ora indubitatamente sarà per giugnere al Castello.

[224]

Capo XVI. DUE VISITE SINGOLARI

La notte era già innoltrata quando il Re, che era stato raggiunto dal Duca di Bari e più tardi anche dal generale Brissonetto, tornò al Castello, ove avea risoluto di fissar dimora: al comparire innanzi al ponte levatojo, il Castellano, cinto da famigli con torce, si fece incontro al monarca presentandogli su un bacile d’argento le chiavi. Il Re entrò; e condotto nell’appartamento per lui destinato, in [225] breve tutto fu silenzio in quel vasto edifizio. Il sonno scese universalmente a portare il riposo ai corpi affaticati; e se alcuno vegliava in quelle ore di quiete, era il giovine duca, Gian-Galeazzo a cui la febbre ardea le vene, era la giovine duchessa Isabella che vedea addoppiarsi i proprj mali coll’essere minacciato il padre suo dalle armi del potente Re di Francia; e fu anche per qualche tempo il generale Brissonetto, pieno il capo di fantasimi infami, di calunnie, veleni, e tradimenti, di cui avea recentemente sentite varie storie rispetto all’Italia, e per cui gli sembrava, e con varj lo disse, che non senza perigli il Re dimorasse in quel castello.

Il giorno seguente, al levarsi del Re, il Duca di Bari e Beatrice, i fratelli Sanseverini e varj altri distinti personaggi, non lasciarono di visitarlo. Udita insieme la santa messa nella cappella sontuosa e riccamente addobbata del Castello, Lodovico invitò Carlo ad assistere ad un torneo che dovea aver luogo in una vasta lontana prateria del parco. Il Re accettò con piacere quest’invito, confacente ad un principe bellicoso. Nel luogo stabilito per il finto combattimento, un sontuoso palco era stato innalzato pei distinti personaggi che doveano [226] assistervi. Intorno intorno al campo girava poi un parapetto che lo tenesse sgombro; perchè si era lasciato l’adito a molti cittadini curiosi, di assistere e prender parte ad un divertimento allora assai gradito. Si cominciò lo spettacolo da alcune giostre; e corsero l’asta anche varj cavalieri francesi: Galeazzo Sanseverino, al solito, si distinse in quest’esercizio, avendo rotte più lance e scavalcato più d’un rivale. In tale congiuntura però la sorte non sempre protesse il merito più chiaro; e qualche cavaliere stimato dover tornare vittorioso, fu abbattuto da un rivale oscuro, il cui nome allora corse di bocca in bocca fra la curiosa moltitudine. Infine si cessò dal giostrare, ed ebbe luogo una corsa a cavallo, il vincitore della quale fu premiato con un palio scarlatto: in ultimo vennero introdotte due schiere di venti cavalieri ciascuna, armati di tutto punto; una era contraddistinta da una sopravvesta bianca, l’altra l’avea rossa: dopo varii giri fatti con bell’arte, i due drappelli si incontrarono, e in simulata guerra si batterono fra loro aspramente; finchè, dopo molte vicende; la vittoria si dichiarò pei bianchi; con applausi generali degli spettatori. Chi più si distinse nel conflitto, a giudizio del Re di Francia, fu premiato con generosità.

[227]

Quando il Re fu di ritorno nel Castello, si restrinse un istante con Lodovico il Moro, e trattò con lui del nuovo prestito promessogli in danaro. Lodovico disse che già avea dati gli ordini perchè quella somma da Milano gli fosse mandata, e che la mattina seguente prima che Sua Maestà partisse alla volta di Piacenza gliela avrebbe sborsata. Il Re, tranquillo su questo particolare, non pensò più agli affari di cui era suo costume darsi poca briga; e chiese allora di visitare l’infermo duca Gian-Galeazzo. Lodovico rimase un po’ contrariato da questo desiderio: timido come era, paventava che il Re si movesse a pietà di quel giovine suo parente e della duchessa sua moglie; tanto più che questa, malgrado i suoi patimenti, conservava ancora una gran parte della sua avvenenza, cui la mestizia anzi dava per così dire quello spicco che sempre aggiunge la meditazione a due occhi lucenti e ad un volto fatto per invitare all’amore. — Ma ricordandosi del favorevole pronostico del suo astrologo, nè potendo negare al Re ciò che bramava, si limitò a fargli sentire, che per non pregiudicare all’infermo nipote la visita avrebbe dovuto esser breve: ogni commozione un po’ forte, [228] nello stato in cui si trovava, osservogli, gli potrebbe essere dannosa; e solo dalla quiete era a sperarsi quella crisi che salverebbe il buon Duca da quel periglio in cui pure con suo grande rammarico, soggiungeva, egli si trova. Se egli morisse, sarebbe una gran disgrazia per l’Italia: ed a lui perdere sembrerebbe piuttosto in esso un figlio affezionatissimo, che non un sovrano; poichè tanta bontà ebbe per lui quel nipote che lo onorava come padre!

Il Re guardò bene in viso a Lodovico allorchè proferì queste parole: egli, indisposto contro di lui dal Brissonetto, non dubitò che quella non fosse finissima simulazione; egli si ricordò allora del solo latino fattogli imparare dal padre suo, gran maestro di finzioni, Lodovico XI, Qui nescit simulare nescit regnare: ma, con suo stupore, nulla vide ne’ lineamenti di Lodovico che tradisse le sue parole; e il giovine principe quasi lo credette sincero; non sapendo di quanta profonda finzione egli fosse capace. Egli l’assicurò, che solo pochi istanti durata sarebbe la propria visita; e che non avrebbe in modo alcuno portato il tumulto ne’ sentimenti di quel giovine sventurato, col rammentargli cosa che lo potesse [229] menomamente turbare; le sue parole state sarebbero brevi e generali. — Allora Lodovico condusse il principe alla volta dell’appartamento occupato dal Duca suo nipote: e Carlo con sè volle venisse anche il proprio medico, Teodoro di Pavia.

Era Gian-Galeazzo cugino germano del Re; perchè entrambo nati da due sorelle, figlie di Lodovico II duca di Savoia: avvertito della venuta di Carlo, egli a stento si alzò a sedere sul ricco suo letto; onde, ammesso Carlo, questi potè appieno contemplare quel volto livido e sparuto, cui la malattia crudele di che era aggravato andava di dì in dì rendendo ognora più scarno e languente. Il vigor degli sguardi era scomparso; le labbra vedevansi dai denti informate; le orbite degli occhi sembravano di una grossezza straordinaria, pel dimagramento estremo delle sparute guancie; e i capegli, rari, dinotavano già apparsi anche gli estremi segni della etisia che lo divorava. — Il Re commosso a lui si avvicinò.

— Cugino, gli disse, quanto volontieri vi vedo; ma mi spiace, che la vostra malattia mi tolga di potervi godere più a lungo!

Gian-Galeazzo stese la mano al Re; e, con difficoltà traendo dal petto il respiro, gli disse:

[230]

— Vi sono grato, o Sire!

Lodovico Sforza, accostandosi al nipote, gli chiese dolcemente: Come vi sentite, Illustrissimo Duca?

— Male, mio zio; male! rispose il giovine, a stento parlando, ed alzando su lui due occhi spenti d’ogni fulgore!

— Fatevi coraggio, replicò allora Carlo; supererete, tutti lo sperano, quel morbo che ora vi molesta; la vostra gioventù ve ne deve dare le più fondate lusinghe.

Gian-Galeazzo dimenò la testa; dando così segno che egli non ne era persuaso.

— Non vi smarrite di spirito, cugino caro, proseguì il Re; il coraggio è la medicina più valida: non lasciatevi morire per abbattimento; credetemi, il vostro pericolo non è ancora sì grave come stimate. — Ma io non voglio disturbarvi di più: voi avete bisogno di riposo.

Gian-Galeazzo stese la mano al Re di bel nuovo; e presa quella di Carlo che gliela porse, a sè con lieve sforzo lo tirò. Il Re secondò quel debole movimento. — Ho tre figli; un maschio di quattro anni e due femmine di età ancor minore, disse il Duca: se muojo, li raccomando a voi, cugino: mi promettete di far [231] loro da padre? L’unica consolazione che dar mi possiate in questo momento, è di promettermelo! Vi raccomando altresì l’infelice mia moglie!

— Ben di cuore, cugino, ben di cuore; state su ciò tranquillo: ma non disperate della vostra guarigione! rispose Carlo alquanto impietosito.

In questo, entrò nella camera la duchessa Isabella; che avvertita della visita del Re, tosto si affrettò di accorrere per parlargli: essa tenea per mano il suo piccolo bamboletto. La dolente si prostrò innanzi alle ginocchia di Carlo; e gli presentò il figliuoletto tutto scosso dalla novità di quella scena.

— Alzatevi, Duchessa: or che fate voi! sclamò Carlo; cui lievemente commosse quell’atto pietoso, e la beltà non ordinaria di Isabella!

— Ah, no, a me si conviene questa posizione umile e di dolore! O Sire, abbiate pietà di noi: io vi prego, perchè ci siate favorevole; perchè non solo abbiate a cuore gli interessi di questo infelice fanciullo e del di lui genitore, ma ancora siate generoso col padre mio e colla mia famiglia, a cui so voi movete la guerra!

[232]

— Signora, disse il Re, le cose sono troppo ora innoltrate perchè possa seguir pace fra me e il Re di Napoli: però, assicuratevi che esso in Carlo, quando il cielo mi dia la vittoria come spero, troverà un nemico nobile e generoso! — E così detto, rialzò la afflitta donna; e prendendo commiato, si ritirò. — Lodovico il Moro allora respirò dell’ottimo esito che ebbe quella visita! — Il Re interrogò di poi il proprio medico Teodoro di Pavia, il quale non avea lasciato di esaminare durante la visita del Re l’infermo duca; e fremendo da lui intese, che quel giovine principe non potea ancora vivere che qualche giorno, e che v’era più d’un indizio che attestava che un veleno lento andava conducendolo alla tomba. Ciò fece una viva impressione sull’animo del Re; a cui parve allora quasi di trovarsi insidiato egli stesso in quel castello. Ma dopo, tanti erano i segni di cordiale amicizia che gli dava Lodovico; che quel principe leggero, in mezzo alla gioja del circolo brillante di dame e cavalieri fra cui passò, dimenticò quasi affatto la luttuosa scena a cui era stato presente.

Dopo un pranzo sontuosissimo che venne apparecchiato nel Castello; ed in cui di nuovo [233] la musica, la danza, la poesia, e il vino soprattutto, concorsero a rallegrare il Re e cancellare interamente l’impressione dolorosa ricevuta la mattina nel cuor suo, non troppo fatto pel nobile sentimento della pietà, sebbene non fosse nè d’animo duro nè spoglio di bontà; dopo il pranzo, dico, lo si fece assistere ad un breve spettacolo teatrale, che si era apparecchiato per festeggiarlo: era questo un’azione mitologica, e precisamente la rappresentazione della vita di Ercole: adulavasi con essa smaccatamente il Re; cui di quando in quando gli attori al semidio paragonavano. L’apoteosi di Ercole ricordava a Carlo la lode immortale che lo attendeva, dopo le geste luminose che egli in quel tempo nell’animo suo vago di gloria avea meditate. — Più tardi, fece una partita di palla, gioco allora assai usitato, e caro al Re di Francia.

Infine, venuta la sera, il Re assistette ad un ballo apprestatogli nel Palazzo della città; ove convennero avvenenti dame di Milano e di Pavia. Il Re con varie danzò, e con alcuna si trattenne in colloqui famigliari; obbliando anche spesso, come gli soleva intervenire, la regia dignità. Si vide in quell’occasione, che i suoi più intimi cortigiani [234] con lui trattavano famigliarmente, nè egli con essi riteneva sussieguo o impero alcuno. Lodovico il Moro lo volle qualche volta impegnare in serj discorsi di stato; ma il Re sempre li troncò, avido invece di piaceri: onde il Duca di Bari si confermò sempre più, che il Re di Francia era su tal proposito molto spensierato. Il Re si divertì assai quella sera; ma dovendo il giorno dopo continuare il suo viaggio, e preoccupato da altre idee, dopo alcune ore lasciò la festa; che subito languì, e non tardò molto a finire.

Il Re, ritiratosi nel Castello, e passato nelle sue stanze, stette in conferenza col suo senescalco, il quale andò e tornò più volte: sembrava che di alcun affare misterioso fra loro si trattasse. Il Re mostrava dell’impazienza: infine una notizia favorevole venne a rallegrarlo. Alcune parole del suo favorito lo posero di buon umore; e con lui in colloquio intimo e vivo si strinse, appoggiato alla soglia di una finestra che guardava nel parco al castello unito, cui una notte serena vestiva dell’ombra sua sentimentale.

Frattanto in mezzo al tripudio generale due cuori palpitavano pieni di dolore; ed erano quelli della giovine duchessa Isabella che sì [235] poco frutto si accorgeva d’aver fatto presso il Re, di cui accusava l’insensibilità; e quello della sua affezionata ancella, la tenera Carolina, in cui sempre trovavano un eco i sospiri della sua sovrana. Mentre tanti petti si aprivano ad una gioja romorosa, esse angosciose non faceano che rivolgere per la mente triste immagini di dolore, ed accrescere il numero de’ loro lugubri presentimenti. Così per loro trascorse buona parte della notte; e già era vicina la metà di questa, allorchè sull’infelice Isabella scese finalmente un sonno pietoso a por tregua a’ suoi lamenti. — Allora anche Carolina si ritirò nella stanza, che assegnata le si era poche ore avanti, per quella notte; stante il trambusto, così le si disse, recato dai nuovi ospiti nel castello.

Poichè chiusa ebbe la porta della sua cameretta, ella si gittò su un inginocchiatojo! Ma per chi sì a lungo prega quell’angelo, allorchè tanto bisogno pure prova di un riposo che allevii gli spasimi del suo cuore compassionevole! — Ah ella vorrebbe piegare il destino, un destino crudele, inesorabile, intorno alla sorte del giovine duca e della di lui addolorata consorte!

Ma ad un lieve romore come di cardine [236] che strida, ella trasale; si volge indietro interrotta nella fervida sua preghiera, e vede da una porta ascosa sotto la tappezzeria comparirgli dinanzi in abito succinto il Re di Francia. — Ella rimase interdetta e trasognata: egli chiuse la porta, e a lei si accostò. Il libertino adocchiata l’avea, portandosi dal Duca per visitarlo; la notò; ne parlò col suo siniscalco, e ben tosto si combinò fra lui e i cortigiani di Lodovico di mutar di camera Carolina, per metterla a disposizione del Re, che di essa s’era acceso d’una di quelle fiamme che nascevano in lui ardenti un giorno per essere spente ed obbliate colla seconda aurora.

— Gentile fanciulla, le disse accostandosele, non gradirai tu una testimonianza di amore dal monarca di un Regno sì splendido come è la Francia!

Carolina nulla rispose; ma si gittò alle sue ginocchia, e gli abbracciò i suoi piedi!

— Via, mia bella, che è questo pianto! quante donne non andrebbero superbe di quel favore che io ti offro! Via, fa cuore; non si macchia colei che si piega alle voglie di un principe così possente qual io mi sono!

— Sire, disse Carolina, ricusando di alzarsi [237] dal suo supplichevole atteggiamento; per quella madre casta che vi generò, per l’amore che recate alla vedovata vostra consorte, per ciò che avete più caro al mondo, per la immacolata Vergine, vi prego, non calpestate una innocente creatura, che essendo in vostra balìa osa però sperare non le verrà meno la vostra vantata umanità.

— Per bacco! tu mi commovi, mia bella! Ebbene..., io ti mostrerò, che il mio amore per te è di assai cresciuto in questo momento...; poichè io rispetterò i tuoi virtuosi sentimenti! Or, ricevi in segno della mia stima quest’anello! — E così dicendo si trasse dal dito per presentarglielo un ricchissimo anello di diamanti.

— No, Sire, la vostra bontà non ha bisogno di oggetti sensibili che me la tengano presente; il trionfo che or riportate su voi stesso mi ispira per voi tale stima, che non si potrà in me cancellare giammai: questo dono che io da voi accettassi, credetemi, sarebbe un testimonio troppo infedele di ciò che accadde in questa notte, per me a un tempo terribile e memoranda!

— Stefano di Vers! gridò il Re al suo ministro che non tardò a comparire: sii testimonio, [238] che la virtù di questa fanciulla mi ha fatto arrossire! Mentì colui che tutte corrotte ci fece credere le donne d’Italia! — Mia buona e saggia fanciulla, addio! — E il Re si ritirò.

Carolina, spaventata, corse presso la camera della Duchessa; e quivi chiusasi passò quella notte, tutta conturbata, su una seggiola a bracciuoli; ove, dopo alquante ore di veglia angosciosa, un breve sonno scese a tranquillare un istante i suoi spiriti agitati, per lasciarla coll’aurora. — Il giorno dopo, il Re di buon mattino abbandonò il Castello di Pavia. Lodovico, che gli sborsò una somma come promesso gli avea, partì con lui alla volta di Piacenza!

[239]

Cap. XVII. LO SCOPO RAGGIUNTO

Trascorsi alcuni giorni che il Re di Francia ebbe lasciata Pavia, il Castello di questa città, che poco prima era stato testimonio di gioie romorose, risuonò tutto di singulti e di pianti. Il giovane duca era allora omai giunto agli estremi della sua vita. Bona di Savoja sua madre era accorsa da Abiategrasso; sebbene già le afflizioni e la austerità, in che passava la vita dopo che ebbe perduta la reggenza, [240] avessero assai logorata la sua salute. Vittima ella stessa un tempo dell’ambizione di Lodovico, essa veniva a piangere su un’altra vittima, come credevasi, di quella stessa malefica passione, che spinge a crudeltà anche anime mansuete che natura a tutt’altro scopo sembra aver destinate. Povera madre! ella dovea essere testimonia della morte di un figlio che essa amava, che di carattere dolce e rimesso tanti segni dati aveale di rispetto e di affezione! Per lei natura invertiva le sue leggi; e colui che destinato era a chiudere a lei, già avanti in età, gli occhi di morte gravati, quegli da essa aspettava ora quest’uffizio di pietà sì doloroso!

Ermes Visconti fratello del Duca era anch’esso accorso, per assistere a quella scena desolante. Il giovinetto sospirava per l’immaturo fato d’un fratello che amava! Ingannato dalle arti di Lodovico, egli non potea capacitarsi che il veleno avesse consunta la vita di Gian-Galeazzo; ma un terrore indefinito però nel contemplarlo morente scorrevagli per le vene: sembrava presago di nuove sciagure per sè stesso. — Ma tuttavia il suo terrore era fallace: il Duca di Bari, di indole benigna, era alieno dal sangue; ed una vittima [241] già di troppo pesava sulla sua coscienza!

Ma il dolore, cupo nella madre, vago e frenato nel fratello del duca, non trovava omai più freno nella giovine sua sposa. Isabella, quasi fuori di sè, stava sospesa con angoscia mortale sul letto del marito agonizzante; notava tutti i cambiamenti che succedevano in quella fronte pallida e bagnata di freddo sudore; tremando, misurava il respiro del morente, che ognora più andava facendosi affannoso; e finalmente allorchè il Duca, chiedendo il crocifisso che gli si era posto sul guanciale, baciandolo esalò sull’immagine di quella venerabil vittima della umana scelleratezza l’ultimo alito di una vita cui la scelleratezza umana pure troncava; la miseranda Isabella mise un acuto grido di disperazione; ed a tal segnale tutto fu un pianto clamoroso in quella stanza: pianto che di là si diffuse in breve per tutto il castello, ove persona non era che non amasse il buon Duca: nè quivi si restrinse, ma trovò pure molti echi nella città di Pavia, che conosceva quanto indegno di quella morte immatura fosse il giovinetto che vi era stato spinto; e ne trovò in Milano, ove pure deploravasi la sciagura di quel principe, [242] che nel fiore dell’età e senza colpa alcuna, ma anzi svegliando tutte le simpatie che mai non lasciano di ispirare gli oppressi, da una morte crudele era tolto alle braccia di una consorte infelice che vivamente lo amava, ai figli ancora teneri, ad una madre a cui la sciagura novella troncato avrebbe quella vita che solo a un debil filo ancora si atteneva!

Frattanto la notizia che il duca Gian-Galeazzo toccava omai gli estremi della sua vita era pervenuta a Piacenza, al Re di Francia ed al Duca di Bari: questi tosto chiese al Re licenza di accorrere per assistere il nipote; promettendo però di tornare, subito che questo fosse spirato. Ma strada facendo, egli seppe da un nunzio novello, che Gian-Galeazzo più non esisteva, e che l’anima sua era volata santamente a ricevere il premio delle proprie virtù. Allora il Duca di Bari cangiò direzione; e ratto recossi a Milano; ordinando che il corpo del nipote infelice in questa città venisse recato, per essere sepolto in Duomo cogli onori solenni che competevansi al suo grado eminente.

Giunto poi egli stesso in questa città, e stando tuttavia nel maggior tempio esposto il corpo di Gian-Galeazzo vestito delle insegne [243] ducali, si accinse all’ultima scena di quel dramma cui avea tanto avanzato la sua simulazione. Convocati entro il Castello Giovio i primati della città, fra i quali erano molti ghibellini suoi aderenti, loro propose, si passasse a creare il nuovo duca; e soggiunse che Francesco Sforza figliuolo del morto principe pareva conveniente che al padre succedesse. I suoi partigiani però, con ragioni in parte vere, lo contraddissero.

Osservò Antonio Landriano, che essendo stata la Lombardia tanto bene retta dal Duca di Bari, pareva che in quel tempo pericoloso in cui le armi francesi scorrevano l’Italia, altra mano non dovesse reggerne il freno se non se quella che fin allora l’avea governata. Che sarebbe mai per essere di Milano, se un accidente qualunque l’avesse a privar ora della sagacità di un personaggio tanto avveduto e prudente come era il Duca di Bari! Assolutamente, concludea, non doversi correr il rischio di novità che potrebbero riescire allo stato fatali!

Nessuno osò contraddire a tali osservazioni, che pure erano vere: Galeazzo Visconti e Baldassare Pusterla anzi le applaudirono grandemente.

[244]

— Ma io non amo che si pregiudichino i diritti del figlio di mio nipote, osservò il Moro con finta modestia; e il peso dello stato ancora me spaventa!

Allora sorse Gian-Andrea Cagnola celebre giureconsulto, e fece notare, che gli Sforza non aveano già avuto il ducato dall’Impero, che loro avea sempre negato sue investiture (non si conosceva dal pubblico ancora l’investitura poc’anzi concessa dal Re de’ Romani a Lodovico il Moro); ma lo aveano bensì avuto dalla libera voce del popolo: che da questo popolo adunque emanando il diritto che i principi di tal famiglia serbato aveano, potea esso popolo, massime in vista di tanta necessità, scegliersi quel signore che più gli sembrava opportuno. Egli osservò ancora, che una specie di diritto al trono ducale serbava Lodovico; poichè nato da Francesco Sforza eletto signore di Milano, laddove Galeazzo Maria era dal padre stato avuto prima di essere duca. Finalmente osservò, che, in ogni cosa pubblica, la salute generale era la legge suprema; e che tale salute, per non correr rischio di avere o un governo debole o un governo discorde, esigeva che si proclamasse duca il Duca di Bari. Che se questi poi [245] ripugnava ad assumersi un incarico che in que’ tempi più che mai arduo dovea sembrare, pensasse che, ove la patria lo esiga, ogni buono cittadino deve rassegnarsi a rinunziare alle proprie private inclinazioni, per obbedirle: il dovere andar avanti ad ogni altro riguardo!

Allora tutti, convinti da tal discorso, proclamavano Duca Lodovico Sforza: pochi furono che serbarono il silenzio; nessuno contraddisse. — Lodovico allora disse: — Ebbene, se tale è il vostro fermo parere, io acconsentirò a sacrificarmi per la patria!

Fattasi quindi portare una veste di drappo d’oro, e montato a cavallo, scorse, per la città, a fine di farsi proclamare Signore. Il popolo, sentita la deliberazione de’ primati, e già avvezzo a festeggiare il Moro che sapea colla liberalità renderselo favorevole, o tacque od applaudì al suo passaggio: pure alcuni maledissero in loro cuore la sua perfidia; persuasi che di veleno spento avesse il nipote, e vedendo che l’avidità del comando cavalcar lo facea per Milano mentre ancora la miserabil salma di Gian-Galeazzo non avea ricevuta la sepoltura[6]. Lodovico portossi al [246] tempio di Sant’Ambrogio, per orare; e le campane vi fece sonare in segno di allegrezza. Ma mentre il tripudio sembrava circondarlo, egli nell’interno era invece pieno di neri presentimenti: la coscienza lo rimproverava fortemente; ed una voce segreta pareva dirgli: Inulta non resterà l’ombra di Gian-Galeazzo, e una fine di lui più crudele in breve ti aspetta: egli morì compianto fra le braccia di una sposa, di una madre diletta, e di un fratello che lo amava; e col sorriso dell’innocenza: tu morirai fra gente che ti sarà nemica; coll’amarezza de’ rimorsi nel cuore; e temendo i giudizj terribili della posterità!

Lodovico era troppo prudente, per indisporre il Re de’ Romani, con accettar lo scettro solo come datogli dai cittadini: egli quindi tornato nel Castello, chiamato a sè un pubblico notaio, in sua presenza, sebbene privatamente, [247] protestò, che non solo dalla volontà del popolo milanese ma ancora dall’investitura poc’anzi accordatagli da Massimiliano egli intendeva riconoscere il nuovo suo titolo e la presente sua autorità. Dopo di che, diede parte a tutti gli stati d’Italia dell’accaduto.

Ecco, nel rozzo suo testo, una delle lettere che scrisse in tale circostanza ad uno de’ principali suoi condottieri d’eserciti.

«Credemo havereti havuto notitia del caso dell’Ill.mo Signor Duca nostro nepote quale mancoe heri de la presente vita, e ne havereti sentito insiema cum noi molestia. Dopoi questa mattina recercati instati e pregati da li Consilieri, Magistrati et Principali de questa città et molti delle altre del dominio ad acceptare el dominio de questo stato, demostrandone incredibile affectione et fede et desiderio de havere la persona nostra per Signore con affermare non possere de alcuno altro restare ben contenti, non c’è parso lassarli mal contenti et cossì con consentimento et grandissima alegreza et applausu d’epsi et de tutto el popolo questa mattina con la gratia de Nostro Signore Dio siamo stati creati et assumpti in Signore di questo stato: del [248] che ce parse avisarne la Signoria Vostra perchè non dubitamo che lei in particolare ultra el respecto publico ne habia sentire grande piacere come po et deve però che avendola noi in quello loco de amore che epsa è, se ha ad reputarse in bona parte de omne nostro bon successo.»

Egli quindi si recò a Pavia; ove per suo ordine era stata la duchessa Isabella custodita, sicchè uscir non potesse dal proprio appartamento! L’afflitta donna, caricando di esecrazioni lo zio, stavasene fra i piccoli suoi figliuoletti immersa nella più profonda desolazione. Ella giaceva, nel forsennato suo dolore, sulla terra nuda; scarmigliata, e tutta di lagrime coperta. La duchessa Bona, più insensibile resa dall’età e dall’abitudine di rivolger ogni suo affetto a dio, mostrava segni meno aperti di dolore; ma in lei questo dolore, meno intenso e più concentrato, non lasciava però di essere al pari crudele ed anche più micidiale. — Lodovico ebbe la fronte di presentarsi alle due dolenti donne; a cui già si era prima annunziato, che egli era stato in Milano proclamato duca.

Egli dovette sentirsi scagliare in volto acerbi rimproveri e maledizioni dalla furente giovane [249] Duchessa: egli tutto sopportò: poi con voce commossa la assicurò: che se il voler del popolo tolto avea al di lei figlio lo scettro; egli gli avrebbe però fatto da padre; e ad ogni suo bisogno e di lei largamente avrebbe provveduto. Giunse perfino a chieder perdono a Isabella, se pel passato le avea recato alcun disgusto; e tanto seppe simulare, che quella donna ebbe a dubitare che egli reo veramente fosse della morte del marito, e senza divenire a lui favorevole, sentissi però verso di esso meno acerba.....


Alcuni giorni dopo essa con alcune sue ancelle fedeli trovavasi nel Castello di Abiategrasso; e quivi, dal dolore logorata, terminava la sua vita Bona di Savoja, madre dell’infelice duca Gian-Galeazzo!

[250]

Capo XVIII. NOVELLE SCIAGURE

Noi non siamo qui per narrare tutti gli accidenti della vita ulteriore di Lodovico il Moro; noi lasceremo alla storia ed alla musa sua severa il registrare gli avvenimenti complicati che segnalarono la fine del secolo XV; e solo qui accenneremo, come, laddove Lodovico sperava che la spedizione di Carlo VIII dovesse essere infelice; sicchè, chiamato egli come mediatore, assestando le cose altrui [251] avrebbe le proprie potuto assicurare; invece una non sperata fortuna secondò il Re di Francia; il quale senza quasi trar colpo giunse a Napoli, e vi fu incoronato. — Allora i principi dell’Italia si riscossero; e temendo de’ Francesi, formarono una Lega per opporsi ad essi; ed in questa entrò pure Lodovico Sforza, di tal modo divenendo nemico di quel monarca cui egli prima esortato aveva a passare nell’Italia. Tuttavia, vittorioso nella battaglia di Fornovo, il Re di Francia, cui contendevasi il ritorno, potè ricondursi coperto di gloria militare nel suo Regno; non senza aver segnata la pace col Moro; al quale prima il Duca d’Orleans avea tolta Novara.

Allora il Duca di Milano mirando a chiudere l’Italia agli stranieri che egli stesso avea dianzi chiamati, segretamente soccorreva contro i Francesi il Re di Napoli Ferdinando. Carlo VIII quindi di nuovo minacciava di rompere col Duca di Milano infedele; ma l’oro di questo, sparso fra i confidenti del Re, sembrò dissipare la procella. Se non che, per sua sventura, Carlo morì; e gli succedette il Duca d’Orleans, che avea pretese, pei diritti di Valentina Visconti sul Ducato di Milano, [252] e che privati rancori nutriva contro Lodovico da cui era stato insultato. Il nuovo Re Luigi XII adunque non molto tardò a mover le sue armi contro il Moro; e Trivulzio che le capitanava, col terrore che sparse, e colle mendaci promesse che sotto i Francesi più state non vi sarebbero gabelle, vinse i ducali, e fece vacillare la fedeltà de’ popoli: il Duca, che perduta la moglie Beatrice d’Este morta nel 1497 non avea più in lei chi ne’ casi difficili sostenesse la sua vacillante fermezza, non seppe resistere alla procella, e dovette, non senza sentir per via esecrare il suo nome, per la strada di Como ritirarsi; seco recando i suoi tesori in Germania, ove sperava che finalmente mosso si sarebbe Massimiliano Re de’ Romani in suo ajuto. Luigi XII, venuto a Milano, vi ordinò un nuovo governo, istituendo un Senato con ampi poteri: tutto ciò nell’anno 1499: tornando in Francia, egli poi ottenne dalla duchessa Isabella il di lei figlio Francesco; cui fece rinchiudere nel monastero benedettino di Marmoustier, assegnandogli le ricche rendite di quell’abbazia, ove poi morì giovinetto ancora per una caduta di cavallo durante una caccia. — Ma i popoli non tardarono a rinvenire dal loro [253] grossolano errore, per cui credevano l’età dell’oro sotto i francesi dovesse rinovellarsi. Non solo continuarono, infatti, ancora quasi tutti i dazj vecchi, di cui solo qualch’uno fu soppresso; ma altri motivi di malcontento, e maggiori, davano la rapacità, libidine, dei francesi, non che l’altero contegno del Trivulzio, che soprattutto i Ghibellini come fautori di Lodovico il Moro diedesi a deprimere: e varj grandi erano indisposti eziandio dall’aver il Re di Francia dichiarate nulle varie donazioni state fatte loro dal loro Duca partendo. Perciò non si tardò a formare un partito potente, di Ghibellini specialmente, disposto a favorire il ritorno del Moro.

Partendo da Milano Lodovico, mirando a rendersi benigne tutte quelle persone che potesse aver offeso, non solo rese i loro beni a molte famiglie cui ne avea confiscati; ma offrì anche alla duchessa vedova Isabella di condur seco in Germania il di lei figlio Francesco; se non che ella negò di acconsentirvi. Il Moro però allora, volendola guadagnare colla generosità, a lei fece dono del suo ducato di Bari e del principato di Rossano. L’infelice donna, che di Lodovico avea diffidato, confidò poi soverchiamente nel Re di [254] Francia allorchè le chiese, come dicemmo, il figlio: ma poichè di questo essa si fu privata, divenendole odiosi que’ luoghi ove tante ingrate memorie la assediavano di perdite antiche e recenti, risolvette lasciar la Lombardia e recarsi nel suo ducato di Bari.

Però, prima di ciò fare, ella volle veder assicurata la sorte della giovane Carolina; la quale, piena de’ sentimenti più generosi, avea sempre negato di scostarsi dal di lei fianco. Gaspare Visconti, che più non l’avea veduta dopo che essa ebbe lasciato Milano, ne avea perduta la memoria; erasi dato alquanto alla melanconia, come attesta qualche suo sonetto; ed infine nel marzo di quell’anno stesso 1499 era morto: un giovane figlio di un ricco feudatario di una terra vicina, di cui la relazione che io seguo non m’accenna il nome, visitando spesso la vedova Duchessa si era fortemente innamorato della soave sua compagna. Quel giovane chiamavasi Antonio***: Isabella volle, che quelle due anime, nate per amarsi e farsi felici a vicenda, si unissero in nodo indissolubile prima della sua partenza.

Il tripudio più romoroso sorse nel castello del padre di Antonio allorchè quella fanciulla, [255] già famosa per la sua virtù, entrò in quel soggiorno, e ne salutò il signore, che afflitto dalla gotta a mal in cuore non avea potuto andare a incontrarla; lo salutò, dico, come suocero. Un gran banchetto, fuochi d’artifizio, suoni di campane, spari di mortaletti, una fontana da cui zampillò vino tutto il giorno ed alla quale i villici lieti attinsero, giuochi pubblici della cuccagna, del tirar il collo all’oca, rallegrarono quella giornata solenne. Gli uomini d’arme del barone mostraronsi con ornamenti pomposi. Le principali persone della terra vennero ad ossequiare la sposa, che tutti trovarono avvenente e gentile; il pretore, ossia giudice del barone, fra questi; e per contrassegno di esultanza, il vecchio feudatario volle che si desse la libertà ad alcuni malviventi che stavano nelle sue prigioni; secondo l’uso di que’ tempi, in cui un barone signore di feudi facea in suo nome, fino ad un certo punto, amministrare la giustizia. Questo giorno festoso fu il 10 di gennaio del 1500.

Ma la disgrazia più fiera dovea succedere a tanta esultanza: un distinto personaggio che occupava un grado eminente nella milizia francese, avendo addocchiata la sposa, famosa [256] per aver resistito al Re di Francia, si sentì di lei acceso per modo, che deliberò di far qualsiasi tentativo per averla in suo potere. Infatti, informatosi che alcuni dì dopo Antonio per ordine del padre erasi recato colle sue genti d’arme a Milano, ove i grandi Ghibellini tramavano segretamente di rendere lo stato a Lodovico il Moro; egli assistito da alcuni suoi fidi, mediante scale di corda, seppe introdursi nel castello, e pervenne fino alle stanze di Carolina: questa allora, sbigottita, s’alzò e si pose in fuga, gridando e serrando gli usci dietro di sè; ma la meschina, non ancora consapevole di tutti i secreti di quell’antico palazzo, pose fatalmente piè in una stanza riposta, di cui sforzò la porta chiusa bensì a chiave ma cadente per vetustà: essa mise piè, dico, su quel pavimento; ma il pavimento mal fermo cedette, ed essa precipitò in un pozzo, ove altre ossa da secoli biancheggiavano attestando la crudeltà degli antichi possessori di quel castello! Il di lei persecutore, spaventato dal romore, si era frettolosamente ritirato.

Il vecchio barone, poichè seppe l’accaduto, urlò di dolore, e corse malgrado le gotte per salvare l’infelice; ma essa già più non respirava [257] nell’oscura cisterna ove era precipitata. Il giovane Antonio, come seppe la sua sventura, più non visse che per vendicarla!

Era ben certo che un francese era stato l’autore de’ suoi mali; i servi suoi ne aveano uditi gli accenti mentre fuggiva: egli pieno di furore e disperazione tornò a Milano; e, sapendo che Lodovico il Moro assoldate genti svizzere e borgognone tornava in Lombardia, fu uno de’ principali istigatori di quel tumulto che, crescendo sempre più giunte le genti dello Sforza a Como, obbligò il Trivulzio ad abbandonare la capitale.

Un tal tumulto era stato l’opera de’ Ghibellini, assai più forti de’ Guelfi fautori del Trivulzio: allora tutta la città si era divisa in que’ due infausti antichi partiti, che nei momenti di anarchia risvegliavano le loro antipatie, per lo più contrassegnandosi con un distintivo: i Guelfi in questi tempi portavano delle piume da una parte nel berretto, i ghibellini dall’altra. Primi ad assumere l’infausto segno eran i bravi, o sia i facinorosi servi de’ grandi: in breve tutti i cittadini li imitavano.

Il giorno 3 di febbrajo poi, entrava in Milano il Cardinale Ascanio fratello di Lodovico il [258] Moro, ecclesiastico savio e benefico, con quattromila Svizzeri; e il giorno appresso giungeva lo stesso Lodovico. I popoli tripudiarono al suo comparire; poichè, in mezzo ai delitti privati che gli consigliò la sua ambizione, sempre retto avea con bastante saviezza. D’altra parte, quand’è che il volgo non applaude al vincitore! Ma un giorno solo si trattenne Lodovico in Milano; ove il Castello presidiato dai Francesi gli resisteva. Egli lasciò il Cardinale suo fratello ad espugnare questo forte; e passato a Pavia, arrolando nuove genti, recossi contro Vigevano, che fu presa; e poi pose l’assedio a Novara, che gli si arrese, tranne il castello.

Ma così lieto principio non ebbe fine corrispondente: i Veneziani, che aveano lusingato Lodovico di alleanza, si impadronivano invece di Lodi e Piacenza; ed il nemico riceveva grosso rinforzo, venuto insieme col Signore della Tremoille e il Cardinale d’Amboise primo ministro del Re, col titolo di luogotenenti generali. Per giunta poi, a total rovina del Duca di Milano, accadde che un ordine veniva agli Svizzeri che in gran numero militavano ne’ due campi, di far ritorno ne’ loro paesi; ma, per corruzione del corriere, [259] quest’ordine tardò a giungere nel campo francese, sicchè il Moro si vide pel primo abbandonato.

I comandanti francesi, istruiti del fatto, il dì 4 di aprile condussero il loro esercito sotto Novara, per provocare il Duca al combattimento. Lodovico allora, a tutto fare, ottenne che gli Svizzeri suoi, non per combattere ma solo per apparenza, uscissero dalla città schierati in ordine di battaglia: egli sperava colla propria cavalleria composta di tedeschi ed italiani, mentre cominciavasi un fatto d’arme, far impeto, e passando fra le schiere nemiche giungere in salvo a Milano, ove il fratello gli avea messo in piedi diecimila uomini. Ma gli Svizzeri male lo secondarono; il disegno del Duca andò vuoto d’effetto, ed egli dovette col suo esercito rientrare nella città.

Allora Lodovico, vile di animo, si tenne per perduto: diessi a trattare col Conte di Ligny; ma la convenzione non fu confermata dagli altri capitani del campo francese, benchè il duca si obbligasse a ritirarsi alla corte di qualche principe suo amico. I capitani sforzeschi gli suggerirono di montar a cavallo colla sua cavalleria, far impeto nel nemico, [260] aprirsi il passo, e congiungendosi colle genti del fratello, difendere la sua capitale; ma Lodovico non si sentì tanto coraggio di tentare l’ardita impresa. Egli quindi, alternando i consigli e le risoluzioni, incerto, piangendo e singhiozzando, non sapea a quale partito appigliarsi. Alcuni capitani svizzeri gli proposero di trasvestirsi, e confuso fra le loro schiere in abito di semplice fantaccino sottrarsi al nemico. Lodovico a questo consiglio si appigliò; e, per non dar sospetto ai Francesi, continuò a spedire messi al Conte di Ligny.

Intanto all’alba del giorno 10 di aprile gli Svizzeri del campo sforzesco, ottenuto dai comandanti francesi di poter cogli onori militari, passando nel mezzo del loro esercito, ritirarsi ne’ proprj paesi, a due a due, siccome volle il Cardinale di Amboise, sfilavano fra le schiere nemiche divise in due ale paralelle; il che, come diceva il Cardinale, accadeva per salvarli da ogni insulto. Lodovico avea pregato il Conte di Ligny, che adunati tutti i capitani in consiglio di guerra deliberassero intorno al conchiuso trattato: egli stimò così sviare la loro attenzione sul suo passaggio. Ma alcuni de’ capitani svizzeri misleali [261] lo tradirono: questi furono, al dir del Giovio, Gaspare Silen di Uri e Rodolfo di Salis grigione. Il Duca fu di tal modo riconosciuto, e fatto prigioniero coi fratelli Sanseverini che erano travestiti con lui. — Le genti d’arme italiane, commosse a quell’accidente, non si perdettero di animo; e, fatto impeto per mezzo al campo nemico, con lieve perdita si posero in salvamento: il Cardinale poi lasciò anche andar libera l’infanteria.

Lodovico il Moro, in quell’umile arnese di svizzero fantaccino nel quale si trovava, venne condotto in presenza del maresciallo Gian-Jacopo Trivulzio. Quest’uomo che dal Duca ricevuto avea varie ingiurie, invece di mostrarsi con lui magnanimo in quella terribile circostanza in cui tanto la sorte lo umiliava, gli volse amare parole, rinfacciandogli il bando che un tempo dato gli avea: «Sforza, gli disse, tu vedi che le ingiurie a me recate ti sono ora pagate con giusta misura.» Ma il Duca della Tremoille, in custodia del quale il principe passò, lo trattò con più umanità; provvedendolo di abiti e di quanto alla sua condizione conveniva. Condotto però a Lione, invano Lodovico pregò di essere ammesso alla presenza del Re. Fu chiuso dapprima nella [262] torre de’ Gigli di S. Giorgio nel Berry; poi, avendo tentata una fuga, venne sotto più stretta custodia trasferito nel Castello di Loches, pure nel Berry; ove fra i patimenti di spirito e di corpo visse ancora fino ai 27 di maggio del 1508, anno in cui morì.

Ascanio Sforza suo fratello, che di già avea spedito al Ticino, in soccorso di Lodovico chiuso in Novara, un grosso corpo di milizie, allorchè ne intese la prigionia, con pochi Ghibellini che compagni esser vollero di sua sorte, lasciò quel giorno stesso Milano; e coll’animo di recarsi a Roma, andò a Rivolta, castello sul piacentino di giurisdizione di Corrado Lando suo parente: ma i Veneziani ciò saputo assaltarono quel castello e fecero il prelato prigioniero; essi lo consegnarono poi al Re di Francia, che lo fece chiudere nella torre di Borges; ma che in capo a un anno gli diede la libertà, per gli uffici del Cardinale di Amboise: visse alla corte di Francia fino al 1503; indi passò a Roma, ove morì di peste nel 1505.

La memoria di quest’ultimo personaggio ci è conservata in Milano dal bel claustro di S. Ambrogio: altri insigni monumenti attestano il favore impartito alle arti da Lodovico: [263] la storia letteraria non si stanca di lodarlo, per aver premiati i begli ingegni: ma la memoria della perfidia di lui lo rese esecrato anche più che famoso presso la posterità; e l’Italia fu poi per molto tempo agitata da guerre ed afflitta da mali, di cui egli posto avea il seme, per assicurarsi un trono, che poi tante amarezze gli costò, tanti rimorsi, ed in ultimo ancora estremi patimenti.

FINE


[264]

INDICE

Capo
I. Preliminari storici pag. 1
II. Le nozze 13
III. Altre allegrezze 28
IV. Il giusto sdegno 45
V. I rimproveri 52
VI. La lettera secreta 63
VII. Il mal consiglio 76
VIII. Pericoli e raggiro 86
IX. I Francesi in Asti 105
X. Glorie ed usi di Milano 122
XI. Segue lo stesso argomento 146
XII. Gravissimi accidenti 168
XIII. Segue lo stesso argomento 182
XIV. Le feste in Pavia 192
XV. Il velo rimosso 209
XVI. Due visite singolari 224
XVII. Lo scopo raggiunto 239
XVIII. Novelle sciagure 250

NOTE:

1.  Sarebbe insoffribile ch’io usassi il corrotto italiano che parlava il Moro come il più dei milanesi del suo tempo; ma non credetti del tutto però mutarlo perchè più al vivo appaia quel personaggio.

2.  Trovasi fra le rime del Visconti; stampate nel 1493: ivi anche è narrata quest’avventura.

3.  V. Stefano Breventano, Storia delle cose notabili di Pavia: 1570.

4.  Il presente capitolo può anche saltarsi a piè pari da chi non ama le letture quasi puramente istruttive.

5.  Il Comines riferisce anche egli questa accusa che davasi al Moro.

6.  Lodovico, nel suo testamento scritto alcuni anni dopo, e nel quale dettò le norme del come contener si dovesse suo figlio durante la sua minorità, gli proibisce espressamente di ciò fare, dicendo: «Volemo, et comandamo sotto pena della maledictione nostra a nostro fiolo successore non cavalchi la terra per farsi invocare signore, nè facij altro acto per segno de tore el dominio prima che sarano facte le esequie nostre, e lo corpo nostro sarà reposto al loco suo.»

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.