Title: Prima di partire
nuovi racconti
Author: Enrico Castelnuovo
Release date: September 18, 2023 [eBook #71678]
Language: Italian
Original publication: Milano: Treves
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
PRIMA di PARTIRE
NUOVI RACCONTI
DI
Enrico Castelnuovo
MILANO
Fratelli Treves, Editori
1896
—
Secondo Migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
Milano. — Tip. Treves.
Prima di partire (diario di Elena) | Pag. 1 |
Fuori di tempo e fuori di posto | 72 |
Il salottino giapponese | 200 |
Nell’andare al ballo | 258 |
L’eredità di Giuseppina | 274 |
Il natale di Ninetta | 303 |
La nipote del colonnello | 318 |
La zia Teresa | 338 |
La bambina | 352 |
[1]
Venezia, lunedì, 31 maggio 1886.
Quest’album è invecchiato con le pagine bianche. L’ebbi in dono dieci anni fa dalla povera mamma, quando, dopo aver letto Miranda del Fogazzaro, mi venne il ghiribizzo di aver anch’io un album per scrivervi, come Miranda, giorno per giorno i miei pensieri. Poi non vi scrissi nemmeno una riga.... Può darsi che io sia volubile e capricciosa, ma se debbo esser giusta ho pure un fondo di sincerità e di schiettezza.... Riflettendoci bene, mi parve che questo registrar solennemente tutte le fanfaluche che ci passano pel capo sia una bella caricatura, tanto più che in via ordinaria la vita d’una ragazza non è piena di avvenimenti, nè il suo cervello è fecondo di pensieri che meritino di esser raccomandati alla posterità.... E dicci anni or sono la mia vita si svolgeva placida, come acqua tranquilla di fiume dentro i suoi [2] margini, e in quanto a pensieri.... ne avevo così pochi!... Più tardi capitarono i guai, e volti diletti si scolorarono e care voci ammutolirono per sempre.... oh mi sarebbe parsa una profanazione il sedermi a tavolino con la penna in mano per dare una forma letteraria a’ miei sentimenti.
O dovevo forse notare le freddure di qualche bellimbusto, dovevo descrivere la corte che qualcheduno mi fece nei tempi lieti, salvo a piantarmi in asso nei tempi della sventura? No, no, abborro le inutili querimonie.
Avrei potuto invece, come usano tante, seccare il prossimo, affannarmi a raccogliere autografi illustri, detti memorabili, aborti poetici e sgorbi pittorici; o, più modestamente, seguendo l’esempio della mia amica Dall’Orno maritata a Vicenza, riempire il mio album con le oleografie della Mode Illustrée.... Ho preferito lasciarlo dormire per dieci anni.
Oggi l’ho tirato fuori dal suo cassetto, l’ho spolverato, l’ho aperto, e son qui, son proprio qui, seduta al tavolino, e la mia penna corre su queste pagine, e nonostante la mobilità del mio carattere credo che per qualche settimana ancora dedicherò a tale occupazione un’oretta al giorno.
Gli è che mi trovo in un momento solenne della mia vita, un momento di cui desidero raccogliere e serbar tutte le impressioni e tutti i ricordi. Sto per abbandonar forse per sempre la mia città, la mia patria, sto per andar a migliaia e migliaia di miglia da qui, in un paese di cui ignoro la lingua, dove sarò a poco a poco dimenticata da conoscenti ed amici, dove, passati alcuni mesi, non mi giungerà più una parola dalla mia Venezia.... Non è morire, ma ci somiglia.
[3]
Scommetto che chi leggesse queste righe direbbe: — Ah, una ragazza che si marita all’estero.... Solite smorfie.
Non mi marito. Senza esser bella non sono neanche un mostro, ma il fatto si è che ho venticinqu’anni compiuti e il mio sposo è sempre di là da venire. Intanto vado a Tiflis a raggiungere un mio fratello che è stabilito laggiù e al quale, dopo la morte del povero zio, il mio unico sostegno da quando son rimasta orfana, dovevo pur scrivere per dir ch’ero sola e che, una volta venduti i quattro stracci che avevo, sarei rimasta sul lastrico. Fu una grande umiliazione, perchè di quell’Odoardo, sebbene mio fratello, io rammento appena la fisonomia; perchè ci siamo scambiate con lui forse tre lettere in tutta la vita; e perchè infine, com’io sento pochissimo la famosa voce del sangue, così non posso pretendere che la sentano molto gli altri.... Che cosa importa chiamarsi fratello e sorella quando non s’è cresciuti insieme, quando non s’è avuta nessuna comunanza di pensieri, di dolori, di gioie?
Eppure, come si fa? Con l’educazione da signorina che ho ricevuto, guadagnarmi di punto in bianco da vivere m’era impossibile. Non sono un’ignorante, ma non so nessuna cosa in modo da accingermi ad insegnarla; non l’italiano e non il francese, non la musica e non il disegno. Forse con un po’ di studio, con un po’ di pazienza ci riuscirei, e in verità quello ch’io desideravo da Odoardo, il quale ha voce d’essersi messo da parte una discreta fortuna, si era ch’egli mi passasse un modesto assegno mensile fintantochè io fossi in grado di bastare a me stessa. Egli però, con tutto il suo comodo, mi rispose che [4] poteva fare una cosa sola: prendermi seco. Avrei avuto una posizione agiata, indipendente, sicura, e lo avrei certo risarcito ad usura dell’ospitalità ch’egli mi offriva tenendogli in ordine la casa, o a meglio dire permettendogli di avere una casa propria in luogo di essere in balìa di gente mercenaria. Ci pensassi su, e se accettavo la sua proposta gli spedissi un telegramma. Egli mi avrebbe subito rimesso i fondi per il viaggio. Un viaggio, a sentir lui, che non deve spaventarmi. Io non avevo che da prendere il vapore fino a Costantinopoli; egli mi sarebbe venuto incontro colà, dove lo chiamavano alcuni affari e dove si sarebbe trattenuto fino alla metà di luglio; da Costantinopoli un altro piroscafo ci avrebbe condotti insieme a Odessa, nel qual porto gli conveniva pure di fare una piccola sosta; di là ci saremmo imbarcati per Batum. Da Batum a Tiflis c’è la strada ferrata. Badassi bene di telegrafargli entro una settimana dall’arrivo del suo foglio; prima almeno del 30 di maggio, giorno in cui egli doveva partire senza fallo per Costantinopoli.
Questa lettera, lo confesso, mi suscitò una tempesta nell’anima. Rispondere di sì era proprio giocare un terno al lotto; se c’era incompatibilità di carattere tra mio fratello e me, se il clima di Tiflis non si confaceva alla mia salute, se m’assaliva la nostalgia?... Ma d’altra parte risponder di no era precludermi la sola via d’uscita dagl’impicci in cui mi trovavo, era mettermi nella necessità di batter di porta in porta alla ricerca d’un’occupazione pur che sia, e, peggio ancora, espormi alla mortificazione delle beneficenze mal simulate; inviti a desinare o in campagna, regali d’abiti dimessi e altre cose simili.... Alla lunga [5] poi, qualcheduno mi avrebbe detto: — Ma, cara Elena, perchè vi siete lasciata sfuggir la buona occasione? — E allora mi sarebbe convenuto scrivere di nuovo a mio fratello, spiegargli le mie contraddizioni, pregarlo di compatirmi, d’accogliermi!... No, no, a questo non volevo assolutamente arrivarci.... Aggiungasi al resto il colèra che ha spopolato la città, che mi toglie perfino la speranza di procurarmi qualche lezione....
Troncai gl’indugi, e prima che spirasse il termine stabilito spedii il dispaccio.... Adesso attendo il danaro.
Non m’ero consigliata con anima viva. Consigliarsi in cose di poco rilievo, passi; ma in cose gravi, Dio mio!... È il vero modo per non venir più a capo di nulla. Ognuno dà un parere diverso e si finisce coll’aver la testa come un cestone.
Così, quando, dopo l’invio del telegramma, annunziai alla signora Celeste, la mia padrona di casa, che probabilmente sarei tra non molto partita, per Tiflis, nel Caucaso, ella rimase fulminata. Non occorre dire che le cognizioni geografiche della signora Celeste sono men che mediocri, e che quest’era la prima volta ch’ella sentiva parlare del Caucaso e di Tiflis.... — Vergine Santissima! — ella esclamò — e che paesi sono? — Ma.... paesi alquanto lontani. — Più lontani di Verona? — ella chiese. — Verona dov’ell’ha una cugina maritata è il punto estremo a cui la signora Celeste si sia spinta nello sue peregrinazioni. — Molto, molto più in là — risposi sorridendo; — paesi che son fuori d’Europa, in Asia. — La signora Celeste che non ha idee chiare delle cinque parti del mondo congiunse le mani in atto di dolorosa maraviglia. — In Asia! Dunque più in là anche di Milano?
[6]
— Più in là, più in là — replicai.
Un’idea terribile balenò nella mente della signora Celeste.
— Andrebbe, Dio guardi, fra i Turchi?
— Ci sono anche dei Turchi, ma la città appartiene ai Russi, che sono cristiani.
— E ha preso una risoluzione simile così su due piedi? — seguitò la buona donna che non sapeva darsi pace. — E può serbar questa calma?
— Cara signora Celeste — dissi io — bisogna far di necessità virtù.
Del resto, la mia calma non era che apparente, e poi che fui nella mia stanza ed ebbi dato il chiavistello all’uscio mi gettai con la faccia sul letto, e inondai i guanciali di lacrime, e mi parve che sarei stata tanto contenta se avessi potuto ritirare il telegramma e non partir più. Ma ormai non c’era rimedio.
Il male si è che quanti più giorni passano tanto più sanguina la ferita che questo prossimo distacco dalla mia patria mi ha aperto nel cuore. Provo dentro di me un non so che d’inesplicabile. Questa città dove son nata e cresciuta, di cui ho percorso forse tutte le strade e calcato tutte le pietre, acquista ora per me un fascino nuovo; non posso uscir di casa senz’aver qualche argomento di sorpresa. Dico a me stessa: — Come? Non m’ero mai accorta di quell’effetto di luce, di quel contrasto di colori, di quello scorcio così pittoresco? Cara, cara Venezia!... Mi piacciono persino le suo brutture, le sue bicocche più diroccate, le sue calli più anguste, i suoi rii più sudici. E anche questa è curiosa. Cento faccie indifferenti che ho incontrato mille e mille volte sul mio [7] cammino, cento faccie di persone delle quali ignoro il nome pigliano oggi a’ miei occhi un aspetto insolito; mi sembra quasi ch’esse mi guardino con simpatia; mi sembra che, s’io le incoraggiassi, le loro labbra si moverebbero per consigliarmi di non partire, di restar qui, in mezzo ad amici.
Illusioni, fantasie d’un cervello malato. Evidentemente è così, ma sento anche che quando sarò nella terra d’esilio, quando non vedrò più il bel cielo d’Italia nè al mio orecchio sonerà il nostro dolcissimo idioma, sarà un conforto per me il cullarmi in queste fantasie e in queste illusioni. Voi mi aiuterete a evocarle, o pagine discrete, alle quali confido i miei pensieri più intimi.
Martedì, 1º giugno.
In casa della signora Celeste, ch’è vedova d’un impiegato e alla sua magra pensione aggiunge il po’ che guadagna affittando camere ammobigliate, ci sono, oltre a me, due inquilini, il professor Verdani, bolognese, che veggo di rado e non sento mai, e il cavaliere Struzzi, colonnello in pensione, che non veggo quasi mai e che sento sempre.
La sua camera è dirimpetto alla mia, dall’altra parte del corridoio, e io comincio a gustar le gioie di sì amabile vicinanza la mattina quando la Gegia, la donna di servizio, va per tempissimo ad aprirgli le imposte. Allora egli inizia la giornata scagliandosi contro di lei o perchè è venuta troppo tardi o perchè è venuta troppo presto, e le dà della marmotta, della buona a nulla, concludendo col dire ch’è veneziana, [8] e tanto busta. Poichè il colonnello, sebben veneziano nelle midolle, ostenta un grande disprezzo pel suo paese e pe’ suoi concittadini. Più tardi il bizzarro uomo si raddolcisce con la Gegia, ma ne fa la sua vittima in un altro modo, costringendola a ricevere i suoi sfoghi contro tutto e tutti, dai cuochi della trattoria che lo avvelenano coi loro manicaretti sino al ministro della guerra che lo ha messo in pensione prima di nominarlo generale. E una volta toccato questo tasto, non la finisce più. A differenza dei veterani che si vedono nelle commedie, ruvidi, brontoloni, ma pronti a rasserenarsi se possono discorrere delle loro gesta, il colonnello o si pente, o finge di pentirsi di tutto quello che ha fatto. È stato un prode, ha preso parte alle guerre d’indipendenza dal 1848 in poi, s’è guadagnata la medaglia al valor militare sul campo di Custoza e dichiara che doveva invece tenersi un banco di lotto come aveva suo padre, e non mischiarsi di politica, e non andar incontro alle palle e alle sciatiche per quelle fanfaluche che si chiamano libertà e indipendenza. Ma che libertà! Ma che indipendenza! Valeva la spesa di gettar via gli anni più belli della vita perchè cinquecento arruffoni potessero empir di chiacchiere quella loro gabbia di matti a cui diedero il nome di Parlamento?
Queste filippiche si rinnovano più volte nel corso della giornata sotto forma di soliloqui, specialmente quando il colonnello legge i fogli che gl’irritano i nervi, ma dei quali non può star senza. — Buffoni! — egli esclama di tratto in tratto rivolgendosi a interlocutori immaginari — Asini e buffoni!
Alle quattro pomeridiane il mio bell’originale esce di casa e va a deliziare con la sua festività i tavoleggianti [9] del caffè e del restaurant; rientra poi alle dieci, e nelle rare occasioni in cui è di buon umore dice alla Gegia nell’atto di prendere il lume dalle sue mani: — Vado a mettermi orizzontale — locchè significa che va a letto. Se invece ha la luna a rovescio, ed è ciò che accade per solito, borbotta quattro impertinenze a modo di felice notte e si chiude con malagrazia nella sua camera per riaprir l’uscio di lì a poco e gettarne fuori gli stivali che talora vengono a battere sulla mia parete.
Ebbene; non c’è dubbio che il colonnello sia un vicino poco piacevole; ma in fin dei conti non fa male a nessuno e sento che mi parrà molto strano di non udir più la sua voce.
In quanto al professore Verdani egli è il perfetto contrapposto del colonnello. È un giovine pallido, studioso, timidissimo, taciturno. Lo incontro spesso per le scale ed egli si fa piccino piccino, e tenendosi alla propria destra rasente al muro si tocca col dito la tesa del cappello e bisbiglia un impercettibile: — Riverisco.
Il buon professore è l’idolo della signora Celeste. Così scrupoloso nel pagar la sua mesata, così pieno di riguardi, così affabile con lei e con la Gegia! È una brava persona anche, un uomo che col tempo diverrà famoso. La signora Celeste non se ne intende, ma glielo assicurò il bidello della scuola ove il professore dà le sue lezioni.... Ha ormai stampato dei libri!... A questo proposito la signora Celeste mi mostrò in gran segretezza un opuscolo ch’ella aveva preso sulla tavola del Verdani, un opuscolo composto proprio da lui e del quale egli aveva ricevuto dallo stampatore una cinquantina di copie, tantochè non [10] si sarebbe nemmeno accorto del piccolo furto. Quell’opuscolo la signora Celeste non lo leggeva, perchè già non aveva confidenza con la lettura, e in ogni caso l’argomento era troppo difficile per lei.... Ma se volevo darci un’occhiata io che avevo studiato alla scuola superiore femminile?
Lo apersi per curiosità, e lessi il titolo: Angoli di due spazi contenuti nello spazio a N dimensioni.
Santo cielo! Questo è arabo, persiano, sanscrito.
So dalla Gegia che oggi i miei due coinquilini si sono occupati entrambi di me, mostrandosi, ciascuno a suo modo, dolenti della mia partenza. — Chi sa chi verrà in luogo suo — brontolò il colonnello — quella lì almeno non recava disturbo.
E il professore disse: — Mi dispiace davvero. Una signorina tanto per bene.
Mercoledì, 2 giugno.
Il colèra è da lunedì in qualche descrescenza, ma seguita a colpire più d’una trentina di persone al giorno. La città è squallida e triste. Dietro le vetrine delle botteghe non si leggono che avvisi mortuari di persone uccise dal fiero morbo, dal crudo morbo, dall’inesorabile morbo, eleganti perifrasi per indicare il colèra senza nominarlo. Le muraglie sono coperte di manifesti sesquipedali che vantano al pubblico le glorie di questo o quel preservativo infallibile.
Si vanno aprendo collette e istituendo comitati: della Croce verde, della Società del Bucintoro; si annunziano distribuzioni gratuite di commestibili, questue per le case, ecc., ecc.; tutta roba che fa salir la [11] mosca al naso al colonnello Struzzi. L’ho sentito stamattina esprimere le sue opinioni in proposito alla Gegia. Che Croce rossa, o verde, o bianca?... Buffonate di gente che vuol mettersi in evidenza e magari buscarsi un cavalierato.... Ci credete voi al colèra?.... Non vi domando il vostro parere; può importarmene molto del vostro parere!... Ma vi dico io che non c’è colèra, non c’è che un branco di vigliacchi che scappano e un manipolo di vanitosi che si arrampicherebbero sugli specchi per richiamare l’attenzione sopra di sè.... Come quei dottorini della policlinica che girano per la città in cerca di colerosi, e quando non ce ne sono se ne inventano.... Saltimbanchi, saltimbanchi!... Oh nel 1849 sì che ci fu il colèra a Venezia, e avevamo più di quattrocento casi in un giorno.... Ma già voi non eravate neanche nata nel 49... Peggio per voi che vi toccherà stare di più in questo mondaccio.... Cosa c’è? Dove andate?
— Ma.... — balbettò la ragazza — hanno suonato alla porta di strada.
— Che aspettino.... Fin che parlo io, voi dovete rimanere.... Dove avete imparato la creanza?
In quel momento suonarono di nuovo, e siccome sapevo che la signora Celeste era uscita e ritenevo quindi che fosse lei, andai io stessa ad aprire.
Era invece il professore Verdani che aveva dimenticato la chiave di casa e veniva a prenderla. Figuriamoci com’egli rimase quando vide me sul pianerottolo, come arrossì, e quante scuse mi fece. Gli dispiaceva proprio d’avermi disturbata.
— Un disturbo piccolo — risposi; — La Gegia è tenuta in chiacchiere dal signor colonnello.
— Ah! — fece il professore.
[12]
E voleva aggiungere qualche cosa, e qualche cosa volevo aggiungere anch’io. Ma eravamo imbarazzati tutti e due e ci limitammo a un saluto più espansivo del solito.
A guardarlo bene il professore non è mica un brutto giovine....
Probabilmente la lettera di Odoardo è in viaggio. Ma da Tiflis a Venezia le lettere ci mettono un paio di settimane, sicchè ho da aspettare almeno dieci o dodici giorni. Sono curiosa di vedere quanti danari mio fratello mi manda, e aspetto la sua rimessa prima di fare alcune spese necessarie pel mio viaggio e di comperare qualche regaluccio per le mie amiche. S’egli non mi spedisce che quanto occorre strettamente pel tragitto a Costantinopoli, mi converrà vendere o impegnare i pochi oggetti preziosi che conservo come ricordi di famiglia.... Sarebbe un principiar molto male.
Sabato, 5 giugno.
Questa mattina la signora Celeste s’era fitta in capo di condurmi alla chiesa della Salute, ove c’è una funzione solenne per invocar dalla Madonna la cessazione del morbo che ci affligge. Io rispetto le credenze di tutti, ma non so simulare una fede che non ho. Rifiutai quindi d’accompagnare la mia padrona di casa nel suo pellegrinaggio, e per quietarla le promisi di non partir da Venezia senza essermi recata una domenica con lei a San Marco, all’ora della messa grande.... Ci andrò volentieri; la basilica è tanto bella! E poi non sono mica una giacobina, [13] non ho mica l’orrore dei templi, non mi atteggio io, povera donna, ignorante, a libera pensatrice, a spirito forte.... Ho una ripugnanza invincibile a fingere, ecco tutto.
Del resto, la signora Celeste non è punto intollerante e fanatica. Siamo uscite insieme anche stamane di buonissimo accordo; ella andò alla sua chiesa, io andai da altra parte. Nel ritorno presi il vaporino a San Moisè e mi trovai seduta poco distante dal dottor Negrotti, il nostro medico antico, quello che mi ha vista nascere. Volevo salutarlo, ma egli era in compagnia, e miope com’è non mi ravvisò.
Passammo dinanzi alla Salute. La superba chiesa era aperta, sfavillante di ceri; moltissime gondole erano ferme dinanzi alla riva, quelle tra l’altre del Municipio, con le bandiere a prora e i barcaiuoli in tenuta di gala.
— Dottore — disse qualcheduno — ci crede lei alla Madonna della Salute quale specifico contro il colèra?
— Caro mio — rispose il medico — credo appena al laudano, e poco anche a quello.
Seguitarono così per un pezzo, tirando giù a campane doppie contro i pregiudizi popolari, contro le processioni di fanciulle scalze, contro la Giunta municipale che interveniva in pompa magna a una cerimonia religiosa.
— Meno male la Giunta! — sospirò con comica gravità il dottor Negrotti, — il peggio si è che ha voluto intervenirvi mia moglie, pigliando per sè la gondola e sforzandomi a girar per la città in vaporetto.
Il dottor Negrotti è molto invecchiato d’aspetto, ma è sempre lo stesso uomo, scettico, sarcastico; e [14] non dubito che si sarà conservato buonissimo di fondo, caritatevole e leale a tutta prova.
Avevo rinunziato a salutarlo per oggi, quando alla stazione della Cà d’Oro vidi con piacere ch’egli s’accommiatava dagli amici e scendeva con me.
Me gli accostai tendendogli la mano. — Dottore, non mi riconosce?
— Oh! — fec’egli con un sorriso cordiale. — L’Elena?... Era in tram?
— Sì certo.... e a pochi passi da lei.... Ma non osavo disturbarlo.
— Perchè, perchè?... Oh come sono lieto di quest’incontro!... Dopo tanto tempo! E come va, cara Elena?
Una volta il dottor Negrotti mi dava del tu; adesso si capisce che gli faccio soggezione.
Camminavamo a fianco; egli era diretto dalla stessa parte ov’ero diretta io. Gli raccontai le mie ultime vicende, la solitudine in cui ero rimasta, la decisione che avevo presa di raggiunger mio fratello a Tiflis.
— Oh diavolo, diavolo! — esclamò il dottore. — Che cosa mi narra?... Ma lei deve appena conoscerlo quest’Odoardo. Era poco più d’una bambina quando partì.
— Fu nel 66. Avevo cinqu’anni.
— Sicuro. Tra voi altri due ci devono essere almeno quindici anni di differenza.
— Sedici ce ne sono.
— Già.... Odoardo è ormai un uomo maturo.... Come passa il tempo!... Allora era un bel giovinetto.... molto vivace.... forse troppo vivace....
Io non dissi nulla.... Pensavo alle lacrime che quel ragazzo aveva fatto spargere a’ miei genitori.
[15]
— Non cattivo però — soggiunse Negrotti. — Era di quelli che hanno bisogno di libertà, che non sanno adattarsi a star nelle file.... Ma una volta che si sono aperta una strada, metton giudizio.... Deve aver girato molto....
— Oh moltissimo!... Non s’è fissato a Tiflis che nell’83.
— E non ha mai fatto una corsa sin qui?
— Mai.
Il dottore rimase un momento soprappensiero; poi mi domandò: — È rimasto scapolo?
— Sì.
— Capisco — riprese il vecchio medico. — Lei non ha altri appoggi, non ha altri parenti....
— Nessuno, nessuno.... Ma — esclamai — sia sincero.... Crede che io stia per commettere un grande sproposito?
— No, cara Elena, no.... È probabile che al suo posto avrei fatto lo stesso anch’io..... A ogni modo, lei è una ragazza coraggiosa; se non si trovasse bene saprebbe tornare nel suo paese.
— Oh! — diss’io.... tentennando la testa — non tornerò più.
E mi salivano le lacrime agli occhi.
Il dottore rallentò il passo, e mi mostrò un portone all’angolo della calle. — Debbo fermarmi qui.... Ma lei non parte mica subito?...
Gli risposi che ritenevo di non partire prima della fine del mese.
— In tal caso spero che ci rivedremo — egli replicò. — Venga da me un dopopranzo.... Anche mia moglie la saluterà volentieri.... Si conoscevano una volta.... quando viveva la sua povera mamma.
[16]
Gli promisi d’andare, ma non andrò. Sua moglie è una superba che dopo le nostre disgrazie si degnò appena di guardarci; chi sa con che aria di protezione mi accoglierebbe! Io credo che non rivedrò più nemmeno il buon dottore.... Fu proprio un caso ch’io l’abbia incontrato oggi.
È curioso! Anche senza lasciar la patria, ci son tante cose e tante persone che a poco a poco si dileguano dai nostri occhi e dalla nostra memoria. Eppure, persino di quelle indifferenti, persino di quelle moleste è triste il dover dire: le vedo per l’ultima volta!
Il dottore Negrotti mi mise una pulce nell’orecchio con quella sua domanda se Odoardo sia rimasto scapolo. In vero, chi mi assicura che mio fratello non prenderà moglie più tardi? E allora che vita mi si preparerebbe?
Domenica, 6 giugno.
Venticinquesimo anniversario della morte di Cavour, e festa dello Statuto! Sarà l’ultima a cui avrò assistito. Dopo qualche tempo passato laggiù fra i barbari mi ricorderò appena chi fosse Cavour e che cosa significhi questa che chiamiamo a ragione la festa nazionale. O belle bandiere, belle bandiere tricolori che ho viste oggi sventolar sulle antenne di San Marco, non dovrò vedervi più mai!
Chi sa che anche il colonnello Struzzi, se fosse nei miei panni, in procinto di abbandonar per sempre l’Italia, non proverebbe una commozione uguale alla mia!
Stamane, mentre il cannone tuonava da San Giorgio, [17] il colonnello tuonava dalla sua camera. Era pieno di stizza per lo spreco di polvere che si faceva da un capo all’altro della penisola, s’arrabbiava con sè stesso che aveva potuto prender sul serio simili bambocciate, e perfino dopo essere stato messo in pensione aveva continuato per due o tre anni a vestire in questo giorno la sua uniforme e a sfoggiare le sue medaglie. Ma oramai egli lasciava che lo stato maggiore della territoriale si pompeggiasse nelle sue spalline e facesse batter sui ponti le sciabole; non voleva aver da restituire il saluto militare a quegli ufficialetti da burla venuti su come funghi dai negozi della Merceria e dai caffè della Piazza.
La Gegia, la solita confidente del colonnello, uscì dalla camera intontita: — Creda a me, signorina — ella mi disse — quell’uomo finisce matto.
Non so s’egli finirà matto; è certo che impazzirebbe chi dovesse viver sempre con lui. Ed è certo altresì che il possedere un carattere allegro è la più grande fortuna che ci possa esser concessa.
Oggi è venuta a farmi visita la Gemma Norini, la mia antica condiscepola che ora è maestra comunale e che, nonostante le innumerevoli noie della sua professione, conserva l’umore festevole che aveva quando sedevamo sullo stesso banco della scuola.
Aveva sentito la gran novità e si lagnava, non a torto, che non gliela avessi comunicata io. Ella però non è donna da rancori: era sicura che non sarei partita senza prender congedo da lei. Per bacco! Andavo a Tiflis! Un bel coraggio. Ell’era subito ricorsa ai testi e scommetteva di saperla molto più lunga di me sul paese ove stavo per fissare il mio domicilio.
— Fa conto — diss’io — che ne so molto poco.
[18]
— Son qua per illuminarti — ella soggiunse. — A proposito, una nipote della mia direttrice ha il colèra. L’hanno curata coll’ipodermoclisi, e pare che del colèra guarisca, ma muore della cura.... Torniamo a noi. Tu sei capacissima d’ignorare che vai nella Transcaucasia o Russia asiatica occidentale?...
— So all’ingrosso che vado al Caucaso e che il paese appartiene alla Russia.... Ma la vostra scuola è chiusa per questo caso di colèra?
— No, no, la nipote della direttrice non abita mica con lei.... Siamo incaricate di vigilare sulle bimbe, sulla regolarità della loro digestione.... mi capisci.... Ma non distrarmi.... È questa situata (s’intende la Transcaucasia) a mezzodì del Caucaso fra il Mar Nero e il Caspio, e forma un’altra possessione della Russia meno estesa della prima ma più favorita dalla natura....
— Non potei a meno di mettermi a ridere: — Hai imparato la lezione.... E la prima? Qual’è la prima?
— Che prima?
— Oh bella! Quella prima possessione che dovrebb’essere più estesa ma meno favorita dalla natura che la Transcaucasia?
— È giusto.... Non ci avevo pensato.... Ma niente paura.... Ho meco il suggeritore.
La Gemma cacciò la mano in una saccoccia del vestito e ne estrasse un volumetto, il Nuovo compendio di Geografia teorico-pratica del Comba, edizione Paravia: lo aperse alla pagina 243, e dopo averci dato un’occhiata, si picchiò la fronte dicendo: — Stupida! Dovevo immaginarmelo: la prima regione è la Siberia... Ma adesso tieni pur tu il libro e guarda un po’ se non sono sicura del fatto mio.
[19]
— Pazzerella! — esclamai. — Conservi sempre la tua memoria?
— Sempre. Sta a sentire; ripiglio dove abbiamo smesso. Essa (cioè questa seconda regione) fu accresciuta nell’ultima guerra delle tre provincie di Kars, Ardahan e Batum, staccate....
— Tira via.... tira via.... Questo m’importa poco.
— Preferisci che ti parli del clima? Ecco: dolce e salubre in generale; il suolo fertilissimo dà i prodotti dell’Europa centrale.
— Veniamo a Tiflis.
— Ti servo subito: Tiflis, con 61 mila abitanti nella Georgia, è la città principale, assai importante per il commercio di transito per l’Europa e la Persia. In questa città, centro di un attivo commercio, risiede il governatore.... Va bene?
— Benone.
— Aggiungerò poi una notizia che ho trovata in un altro libro. La città è posta sul Kur, con sorgenti termali solforose da cui prende il nome, che significa città dalle acque calde..... Nientemeno.... Tutta questa roba nella parolina Tiflis.... Ma che ti pare della mia erudizione?
— Sei un portento....
— La geografia è stata sempre il mio forte.... Invece quella povera Martinetti.... Te ne ricordi?
— Sì. Ebbene?
— La incontrai ieri, e avendole annunziato che vai a Tiflis, disse pronta: In America!
— Brava! E che cosa fa la Martinetti? Non voleva tentare il teatro?
— Sì, studiava il canto al Liceo Marcello, ma non avendolo imparato, lo insegna.
[20]
— Sei un capo ameno!... Hai un certo modo di dir le cose.... Dunque la Martinetti dà lezioni?
— Lezioni di canto, a cinquanta centesimi l’una.
La Gemma seguitò a chiacchierare su questo tuono, rievocando gli anni della scuola, facendomi rivivere in mezzo alle antiche compagne, non dimenticandone una, nemmeno quelle che io avevo dimenticate da un pezzo, nemmeno quelle ch’erano morte, o scomparse, perdute oramai nella folla....
— Ah! — dissi, quando la mia amica fu per accommiatarsi, — se potessi condurti meco a Tiflis, come mi parrebbe meno amaro l’esilio! Con te non ci son malinconie....
Ella replicò con la sua aria scherzevole: — Conducimi.... pur che tuo fratello mi sposi.... Che stampo è?
— Te lo scriverò da Tiflis.
— Eh, no — rispose la Gemma, quasi parlando a sè stessa. — Tuo fratello non mi sposa.... È in mezzo alle Georgiane che passano per esser tra le più belle donne del mondo.... Me non mi sposa nessuno.... Sono uno stecco.
— Quest’è vero, ma non è una buona ragione. Non si sposano mica solamente le donne grasse.
— Basta — concluso quello spiritello della Norini — resterò zitella.... Santa Gemma, vergine e martire.... per forza.... Ma già neanche maritarsi come la Lucia Mazzuola per stentare il pane e far due figli all’anno....
— Ih, che spropositi dici!... Due figli all’anno....
— Press’a poco.... Andrai a vederla....
— Senza dubbio.... Eravamo inseparabili.... Adesso si abita ai due capi estremi di Venezia.... Prima di partire però....
[21]
— La troverai in mezzo a uno sciame di bimbi.... Oh, addio addio.... e arrivederci, s’intende....
— Sì, arrivederci.
Io dico arrivederci a tutti. E bisognerà pure che uno di questi giorni cominci il mio giro di visite di congedo.... Non ho tempo da perdere.
················
La passeggiata di beneficenza iniziata dalla Società del Bucintoro fu oggi una distrazione in mezzo alle tristezze dell’epidemia. I soci, giovani tutti, erano divisi in squadre, e annunziati da squilli di tromba percorrevano, tra un aquazzone e l’altro (poichè il tempo era piovoso), i vari sestieri della città. Li percorrevano per terra e per acqua nei loro agili battelli che paiono fatti apposta per insinuarsi nei meandri de’ nostri rii. Allo squillo delle trombe la gente s’affacciava alle finestre, usciva sulla strada, e chi dava del danaro e chi qualche oggetto di biancheria e di vestiario; anche dalle abitazioni più povere i bimbi e le donne portavano il loro soldo. Curiosa popolazione! Altrettanto pronta a donare quanto a stender la mano!
Allorchè i questuanti passarono da noi, il colonnello Struzzi non era in casa. Non era nemmeno in paese; era a Padova per non tornare che alla sera con l’ultima corsa, a pagliacciata finita, come egli disse alla Gegia.
Lunedì sera. 7 giugno.
Mi pare che la signora Celeste avrebbe dovuto avvisarmene. De’ suoi tre inquilini io son la sola ch’ella tiene ordinariamente a dozzina, ma oggi c’era a desinare [22] con noi anche il professore Verdani, e sembra che ci sarà per tutto il tempo che dura il colèra.
La signora Celeste, che ha una tenerezza particolare pel giovine matematico, non capiva in sè dalla gioia. — Ce n’è voluto — ella diceva scodellando la minestra; — ce n’è voluto a persuadere il nostro professore a cambiar per qualche settimana i suoi pranzi di trattoria con un po’ di cucina casalinga.... E scommetto che non se ne sarebbe fatto nulla senza le inquietudini della sua mamma.... Per me, lo confesso, oltre che l’onore, è una grande soddisfazione.... Quell’altro di là.... — e la signora Celeste alludeva al colonnello — quell’altro di là se vuol crepare che crepi.... Anzi, non lo vorrei alla mia tavola per tutto l’oro del mondo.... Un accattabrighe, un basilisco....; ma il nostro professore è una perla e lo considero uno di famiglia....
— Grazie, signora Celeste, grazie — biascicava il professore sforzandosi invano di porre una diga a quel torrente di parole.
La signora Celeste si appellava a me, si appellava a una sua nipote ch’è spesso sua commensale e ch’era stata invitata da lei anche oggi. Noi potevamo testimoniare s’ella aspettava che il professore fosse presente per discorrere di lui in questi termini.
Io che non amo queste interpellanze a bruciapelo me la son cavata con qualche monosillabo, ma la Giulia Sereni (ch’è la nipote) spiegò una parlantina maravigliosa tanto per confermar le cose dette dalla zia quanto per aggiungerne altre di suo.... Anch’ella aveva una grande ammirazione pel professore, una così brava persona e così modesta... Una persona di cui non si sentiva dir che del bene da tutti.
[23]
Evidentemente Verdani era sulle spine, e pare che la signora Celeste se ne sia accorta, perchè fece segno alla Giulia di smettere. Allora la ragazza chinò in atto verecondo gli occhi sulla zuppiera e si risolvette a mangiar la minestra.
La Giulia Sereni, ch’è direttrice d’un giardinetto froebeliano, deve aver circa la mia età, piuttosto meno che più, e non è mica brutta, tutt’altro; anche di modi, quando la si trova a tu per tu, è simpatica; ma se c’è gente ha il vizio di voler far la ruota come il pavone. Sarà forse un vizio comune. Noi usiamo montar sui trampoli per parere più alti.
Secondo me, la Sereni sbaglia strada, ma non c’è dubbio ch’ella aspira a far colpo sopra ogni nuova persona che le accade incontrare. Studia i movimenti, le parole, i sorrisi, e non si lascia sfuggire nessuna opportunità di mettere in mostra il suo mediocre corredo di cognizioni. Oggi ha ripetuto a sazietà che non c’è al mondo un gusto maggiore di quello d’istruirsi, e ha soggiunto, guarda che combinazione! che a lei sarebbero piaciute immensamente le matematiche.... se il coltivarlo non fosse stato superiore alle forze di una donna.... Ma quei risultati positivi, quella certezza assoluta....
Il professore che fino a quel momento aveva taciuto gettò dell’acqua fredda su questa fiamma d’entusiasmo. — Eh, cara signorina, i recenti progressi della scienza non ci permettono più nemmeno di esser sicuri che due e due fanno quattro.
Non so se Verdani volesse scoccare un epigramma alla sua interlocutrice o alla scienza; so che la Giulia ne rimase un po’ sconcertata e che la signora Celeste colse il destro per tirare il discorso sopra un tema [24] più alla portata della propria intelligenza. E deplorò la stramba idea che m’era venuta di andar tra i selvaggi, in un paese di cui ella non riusciva mai a rammentare il nome.
— Tiflis. Tiflis — saltò su la Sereni, beata di alludere per incidenza alla Colchide, al Vello d’oro, agli Argonauti, a Giasone e a Medea e di fare altre citazioni erudite per uso del professore che parve divertirsene mediocremente. Allora la nipote della mia padrona di casa lasciò la mitologia per la didattica e domandò l’opinione di Verdani sul metodo Froebel.... Ma Verdani confessò che il metodo Froebel lo conosceva appena di nome.
Se, come io mi son fitta in capo, la Sereni, d’accordo con la zia, considera il professore quale un marito possibile e s’adopera per conquistarlo, bisogna convenire che le prime avvisaglie non furono fortunate. Vedremo in seguito.... Che la Giulia sia una donna adattata pel professore, questo no e poi no. Del resto, a me la cosa non deve importare nè punto, nè poco; anzi se la Sereni riesce a sposarsi ne sarò contentissima per lei.... Ne ha tanta voglia!
Mercoledì, 9 giugno.
Oggi sono passata a informarmi d’una vecchia amica di mia madre, la signora Della Riva, ch’è malatissima. Mi ricevette la figliuola, l’Augusta, un’altra delle mie condiscepole. Povera Augusta! Son quindici notti che non va a letto, son quindici notti che lascia appena per pochi minuti la camera di sua madre. E non c’è speranza, pur troppo, non si tratta [25] che di prolungare la vita per alcuni giorni, forse per alcune ore. Nel dirmi così, l’Augusta appoggiò la testa sulla mia spalla, e mi ricordò il tempo in cui le nostre due mamme, sane e robuste tutt’e due, ci conducevano insieme ai Giardini. Anche la mia amica resterà molto sola; non ha che un fratello il quale viaggia spessissimo per affari. È vero ch’ella crebbe al fianco di questo fratello, è vero ch’ella lo conosce a fondo, è vero ch’ella non lascia il proprio paese.... Il suo caso è ben diverso dal mio. All’annunzio della mia prossima partenza pel Caucaso, ella non potè trattenere un’esclamazione dolorosa. — Fin laggiù te ne vai! — Tu non ci anderesti? — io chiesi. Ella rispose con enfasi: — Con un uomo a cui volessi bene, andrei fra gli Ottentotti, ma se no.... — S’interruppe, e temendo di essere stata troppo brusca, troppo recisa, soggiunse: — A ogni modo, chi sa? Bisogna trovarsi nelle circostanze.... Ci rivedremo, non è vero?
— Sì, sì.
Mi mossi di là con un’impressione singolare nell’animo. Se v’è una figliuola buona, affettuosa, sollecita è certo l’Augusta; se v’è dolore sincero è il suo.... Eppure, o io m’inganno, o l’acerbità di questo dolore è temperata in lei da qualche gioia, da qualche speranza segreta; persino il suo viso pallido e smunto mi apparve oggi trasfigurato.... In collegio, rubiconda e fiorente, era proprio bruttina, più brutta di me che non sono una Venere; oggi, a’ miei occhi almeno, era bella, e giurerei che sarebbe tale anche agli occhi degli uomini.... Dicono che l’amore soltanto opera di questi prodigi; ch’ella ami, che sia amata?
A casa m’aspettava una gradita sorpresa. La Gegia [26] mi consegnò un libro francese lasciatole per me dal professore Verdani. S’intitola: Le Caucase et la Perse, e ha un segno al principio del capitolo che tratta di Tiflis — Ne ho già scorso alcune pagine.... La descrizione che vi si fa del mio futuro soggiorno è meno sconfortante ch’io non credessi; tuttavia quanto stenterò ad avvezzarmici, quante volte fra quei Georgiani, quegli Armeni, quei Persiani e quegli Europei semibarbari correrò col pensiero al mio popolo arguto e gentile, al molle e melodioso dialetto delle mie lagune!
L’attenzione usatami dal professore mi fece molto piacere e ne lo ringraziai vivamente a ora di pranzo. — Non vale la spesa di ringraziarmi per così poco — egli disse: — se il libro non appartenesse alla biblioteca della Scuola, la pregherei di portarselo seco: però è libera di tenerselo fino al giorno della sua partenza.
Sarà una pura combinazione, ma è un fatto che, senza la Sereni, ce la passammo più allegramente. Il professore aveva dimesso ogni sussiego, e discorreva di tutto con la facilità e col garbo d’un uomo altrettanto ricco d’istruzione quanto scevro di pedanteria. Capisco che la sua timidezza è più apparente che reale; è la timidezza d’un uomo non avvezzo a perdere il suo tempo nei salotti eleganti, nè a sciupare il suo ingegno nelle giostre di spirito. Dev’essere un insegnante modello; ha la parola chiara, sobria, precisa, di quelle che scolpiscono l’idea....
Verso di me egli fu cortesissimo anche oggi, e nell’ipotesi assai verosimile ch’io vada a imbarcarmi a Trieste per evitare le quarantene, mi offerse una lettera per un parente di sua madre che abita in quella [27] città e potrebbe venirmi a prendere alla stazione e accompagnarmi fino a bordo del vapore del Lloyd, e raccomandarmi in particolare al capitano.
— Bah! — disse la signora Celeste, — io spero che la nostra Elena resti con noi.
— O come? — esclamai.
— Giurerei che suo fratello ha mutato idea.... Vede che non le scrive ancora.
— Cioè la lettera non può essere ancora arrivata — io soggiunsi. — Se mutasse idea sarei in un bell’impiccio.... Dopo aver preso una risoluzione di questa natura, il meglio è di poterla mandar presto ad effetto.
— Ha quasi furia di piantarci.... Eppure si persuada che il suo è stato un colpo di testa.... Una ragazza de’ suoi meriti avrebbe trovato non uno ma mille modi di vivere onoratamente a Venezia.... Adesso, si capisce, col colèra tutto è difficile.... ma non ha mica da durar molto questa maledizione.
Io ero troppo commossa da replicar nulla. Davanti alla gente faccio la disinvolta, dico che vorrei esser fuori di questo pensiero, giunta ormai alla mia destinazione; ma poi dentro di me provo un affanno, uno struggimento!...
Il professore fece un’osservazione giusta. Egli dichiarò che, secondo lui, con un po’ di buon volere si può trovarsi tollerabilmente dappertutto, giacchè noi portiamo in noi stessi il segreto della nostra felicità o infelicità.
— Dunque — domandò la signora Celeste — lei approva il partito preso dalla signorina?
— Non ho il diritto di approvarlo nè di disapprovarlo — rispose Verdani; — le auguro e spero ch’ell’abbia sempre a lodarsene.
[28]
Era un’idea cortese, cortesemente espressa. Ma noi siamo incontentabili. Avrei preferito che il professore mi biasimasse.... Perchè?... Non lo so neanch’io.
Giovedì, 10 giugno.
Grande scompiglio nelle vicinanze. C’è un caso di colèra in una calle che sbocca nella nostra. Una donna, moglie d’un gondoliere, fu colta iersera dai primi sintomi della malattia e oggi è in fin di vita. Non volle lasciarsi trasportare all’ospedale; quindi la posero sotto sequestro, isolata dal rimanente della famiglia. Il marito viene ogni tanto dal suo traghetto a prender notizie, e forse por ingannare il dolore è sempre ubbriaco, e urla contro il municipio, contro i signori e contro i medici; i figliuoli son dispersi per la strada, confusi con altri monelli della parrocchia. Noi sentiamo dalla finestra i commenti romorosi delle donnicciuole. Come il solito, l’inferma s’è procurata lei stessa il suo male. Ha mangiato questo, ha mangiato quello; un piatto d’insalata verde secondo siora Beta e una granseola secondo siora Barbara; ha camminato per la casa a piedi scalzi, ha bevuto sei bicchieri d’acqua di fila. Dopo di lei la colpa ce l’ha il dottore ch’è venuto tardi, che non le ha permesso di prendere il sal di canale ch’era la sua medicina ordinaria, indicatissima pei disturbi di visceri, che l’ha costretta a bevere alcune goccie di quel liquore denso, nerastro che chiamano laudano, che finalmente l’ha spaventata con quella maledetta denuncia e col sequestro.
La signora Celeste la quale finora non aveva mostrato [29] d’esser paurosa, oggi è in un’agitazione estrema, un’agitazione che le fece persino andar di traverso la parrucca. Una scena comica nella sua violenza successe fra lei e il colonnello attraverso il buco della chiave. Ella pretendeva disinfettargli la camera e tenendo in mano una vaschetta d’acido fenico diluito nell’acqua picchiò due volte all’uscio del suo amabilissimo ospite.
— Chi è? — ruggì l’orso dal di dentro.
— Sono io.... Mi permette d’entrare?
— Entrare?... Perchè?... Che cosa vuole?...
— Ma.... Glielo dirò meglio se apre....
— Non apro.... Dica prima....
— Ecco.... vorrei.... spargere un po’ d’acido feni....
Il colonnello non le lasciò terminar la parola.
— Via subito.... Ah vorrebbe appestarmi la camera.... Non ha già appestato abbastanza la casa?
— Sia ragionevole, signor colonnello — insisteva la signora Celeste. — Lo sa che abbiamo il colèra a due passi?
— Che colèra?... Non c’è colèra.... E se c’è, tanto meglio....
— Signor colonnello.... Faccia il piacere.
E la signora Celeste tentò girare la gruccia dell’uscio.
Ma il colonnello si precipitò alla difesa, tuonando come tutta una batteria di cannoni: — Vada via, e presto, o vengo fuori io col revolver....
— Madonna Santa, aiuto! — gridò la signora Celeste sbigottita. — E corse a rifugiarsi nella mia stanza, tacciando cader la vaschetta dell’acido fenico che si sparse pel corridoio e avrà certo distrutto una quantità immensa di microbi.
················
[30]
Quest’episodio, illustrato dalla signora Celeste con gran lusso di gesti e suoni imitativi, fece le spese del pranzo, e tenne di buon umore anche il professore Verdani. Però a due riprese la nostra padrona di casa trovò che si scherzava troppo sul pericolo ch’ella aveva corso. E il pericolo durava sempre, poichè, il colonnello era suo inquilino, e un giorno o l’altro poteva saltargli il ghiribizzo di compier davvero un eccidio.... D’altra parte ella non osava licenziarlo.... Era un uomo capace di non voler andarsene con le buone, e allora? Ah chi le aveva messo in casa il colonnello Struzzi le aveva fatto un bel servizio!... È vero che pagava puntualmente e pagava bene.... ma tant’era dar alloggio a Satanasso in persona!
Foss’effetto dell’emozione della giornata o d’altro, subito dopo desinare la signora Celeste principiò a piegar la testa sul petto e a chiudere gli occhi, e non tardò ad addormentarsi profondamente sulla seggiola. Ell’era in questo stato quando la Gegia entrò con la macchina da caffè.
— È peccato svegliarla — diss’io a bassa voce. — Il caffè lo farò io stessa. Chi sa che intanto non si desti da sè.... Si fida della mia abilità? — chiesi al professore.
— Per bacco! — egli rispose celiando; — vuole che non mi fidi?
— Già, lei non se ne intende, — soggiunsi nel medesimo tuono. — Uno scienziato...!
— Crede proprio che gli scienziati non sappiano che le cose inutili? — egli replicò. — S’inganna a partito... A fare il caffè con la macchina ho una speciale attitudine.
— Davvero.... Quasi quasi le cederei il posto.... Ma [31] no, non mi fido io.... Invece, m’aiuti.... Scusi, dia qua i fiammiferi.
Ripensandoci su, stento a capacitarmi d’aver trattato con questa familiarità un uomo grave e studioso, un uomo col quale pochi giorni addietro non scambiavo che un freddo saluto; è certo però ch’egli non mostrava di trovar nulla di strano ne’ miei modi, e mi discorreva alla sua volta come si discorre a un vecchio camerata. La confidenza somiglia a un fiore di campo che sboccia da sè, inavvertito, senza cure di giardiniere.
Il professore mi parlò delle sue faccende domestiche; della sua infanzia travagliata, del padre mortogli quand’era ancora bambino, e della sua mamma rimasta con una magra pensione la quale doveva bastare a lei e a due figliuoli. Uno di questi, il maggiore, le recò pochi fastidi e cominciò a guadagnarsi il pane a dodici anni, ma il più piccolo (ed era lui quello) avea la passione degli studi, e la fece spendere e tribolare. Ma dalle labbra dell’angelica donna non uscì mai una lagnanza; tutte le privazioni le parevano lievi per secondare i ghiribizzi del suo dottore in erba.... Negarsi da sè le cose più necessarie, vendere gli oggetti più cari.... oh in verità, anche questi fanatici della scienza sono grandi egoisti!
— Però quando riescono — io dissi — sono egoisti che compensano largamente i sacrifizi che hanno costato.
Verdani tentennò la testa. — Non creda.... Restano egoisti.... O se fanno anch’essi dei sacrifizi non li fanno già per quelli che s’eran sacrificati per loro; li fanno per la scienza, la sirena che li affascina.... E poi chi può dire d’esser riuscito?... Ah badi, badi, signorina, spenga.
[32]
Il caffè, bollendo e gorgogliando era già salito fino all’orlo del recipiente di cristallo: il lucignolo che avrebbe dovuto spegnersi da sè ardeva ancora, e io non me n’ero accorta. Prima ch’io potessi riparare alla mia dimenticanza, il tappo, spinto dalla forza del vapore, fu slanciato in aria e una parte del caffè si rovesciò sulla tavola. Non so come nessuno abbia riportato delle scottature. Ma la piccola esplosione svegliò in sussulto la signora Celeste che gridò esterrefatta; — Misericordia! Il colonnello!
Quand’ella ebbe visto di che si trattava non tardò a ricomporsi ed esclamò in aria di persona liberata da un incubo: — Ah! non era che la macchina.... Dunque non si prende più il caffè per questa sera?
— Ce ne sarà rimasto abbastanza da riempire una tazza — risposi, guardando mortificata i segni del recente disastro; — una tazza da dividersi fra lei e il professore.... Io non merito nulla.
— Neppur io — protestò Verdani. — Son io che con le mie chiacchiere ho distratto la signorina Elena.
Ma la signora Celeste dichiarò che la maggior colpevole era lei. — Non dovevo prender sonno.... Un giovine e una giovine quando sono a tu per tu hanno da far di meglio che badare a una macchina da caffè.
Questo scherzo di cattivo genere mise in impiccio il professore e me e ci guastò la serata. Il dialogo si trascinò stentatamente per una mezz’ora; poi ognuno se ne andò dalla sua parte.
[33]
Venerdì, 11.
Giornata triste. Non chiusi occhio in tutta la notte. Avevo caldo, avevo freddo, avevo i nervi eccitati al massimo grado. Le parole insignificanti della signora Celeste mi suonavano sempre all’orecchio, come un avvertimento che la mia intimità col professore doveva finire appena nata. È destino; nessuno crederà mai ad un’amicizia semplice, schietta, franca tra un uomo e una donna.
Come saluto mattutino la Gegia, entrando in camera, mi disse: — La colerosa qui vicina, è morta.
Me lo aspettavo; eppure mi fece un certo senso....
Più tardi sentii una gran scampanellata e la voce del postino che gridava dalla strada: — Elena Givalda! — il mio nome!
Mi si rimescolò il sangue. Era senza dubbio la lettera di Odoardo.
No, non era quella.... Era un foglio listato di nero, una partecipazione funebre, con l’indirizzo mio in una calligrafia che non m’era nuova. La signora Emilia Dalla Riva morì ieri a mezzogiorno. Avevo visto l’Augusta mercoledì e sapevo che una catastrofe era inevitabile, ma non la credevo imminente. I funerali si faranno domattina alle 9 antimeridiane, in chiesa San Salvatore. Ci andrò.
È ricomparsa a pranzo la Giulia Sereni e l’avremo per commensale fintantochè non sarà tornata sua madre che si recò a Verona a visitare una figliuola da parto. La Giulia ha ricominciato a far la smorfiosa e la saccente col professore. Pare uno scolaretto vicino [34] al maestro, ma uno scolaretto che ci tiene a farsi valere come il primo della classe. Verdani s’annoia, è chiaro che s’annoia: tuttavia, non volendo essere assolutamente sgarbato, bisogna bene ch’egli si occupi un poco di chi si occupa tanto di lui.
Questa benedetta lettera d’Odoardo viene o non viene?... Quanto pagherei d’essere già partita!
Sabato notte.
Ero così stanca, così turbata, che mi son messa a letto alle nove, rinunziando per oggi ad aprir questo libro. Ma dopo inutili sforzi per pigliar sonno dovetti alzarmi di nuovo, e mentre a San Marco suona la campana di mezzanotte, io son qui al tavolino, assorta in questa cura giornaliera, che è divenuta quasi una necessità del mio spirito; tanto può l’abitudine!
La lettera d’Odoardo.... Ma procediamo con ordine.
Prima delle nove ero in chiesa San Salvatore per assistere ai funerali della signora Dalla Riva. Vi assistetti incognito, come si dice dei principi, seduta in disparte, col viso coperto da un fitto velo, impassibile in apparenza, ma forse più commossa delle dieci o dodici signore che, in lutto profondo, sfoggiavano il loro dolore ufficiale nei posti riservati ai parenti e agli amici. La cerimonia, semplicissima, durò poco, e alle dieci e un quarto ero già a casa.
La signora Celeste mi venne incontro con una lettera in mano.
— È per me? — chiesi, appoggiandomi alla ringhiera del pianerottolo.
— Per lei.... Una lettera con tanti bolli.
[35]
— Dia qui, signora Celeste, dia qui — ripigliai ansiosa.
— Temo che sia quella ch’ella aspettava — soggiunse la mia padrona di casa.... — Almeno suo fratello le scrivesse per mandar in fumo quello sciagurato viaggio!
Non le badai, ma corsi a chiudermi nella mia camera con la lettera, di cui avevo riconosciuto il carattere.
Poche righe, in stile commerciale. Lieto della mia risoluzione, mio fratello mi consigliava d’imbarcarmi a Trieste sul vapore del Lloyd l’ultimo o il penultimo venerdì di questo mese. Imbarcandomi a Venezia avrei dovuto scontare la contumacia; ritardando troppo si correva il rischio che il governo turco mettesse le quarantene anche per le provenienze da Trieste. A ogni modo telegrafassi al momento dell’imbarco, dirigendo il dispaccio a Costantinopoli presso il Consolato italiano. Inchiuso nella lettera c’era un chèque di mille franchi su un banchiere di qui, a vista.
La mia paura che Odoardo non mi rimettesse che la somma strettamente necessaria pel viaggio era, come si vede, affatto infondata. Cinquecento lire mi bastano ad esuberanza per andar fino a Costantinopoli; le altre cinquecento potrò spenderle qui nel modo che stimerò più opportuno. Non ho mai avuto tanti quattrini disponibili.
Quanto pagherei d’esser già partita! — io scrivevo l’altro ieri su queste pagine.... Sì, sì, desidererei d’esser partita, d’essere arrivata a Costantinopoli, a Tiflis, in capo al mondo.... Sono, in complesso, d’un umore adattabile, finirò col rassegnarmi al mio nuovo soggiorno e al mio nuovo stato.... Ma questo periodo d’attesa m’è intollerabile.
[36]
Eppure non potrò imbarcarmi che il 25. Ho ancora troppe cose da sbrigare, ho troppe persone da vedere perchè mi sia dato essere a Trieste per venerdì prossimo.
La signora Celeste, piena di curiosità, picchiò all’uscio con un pretesto qualunque.
Io mi ricomposi in fretta, e senz’aspettare le sue interrogazioni dissi: — Cara signora Celeste, dunque ci lasceremo prima del 25.
Ella rimase sbalordita. — Ma siamo già al 12.
— Eh, come si fa?
Proprio la signora Celeste non sapeva darsene pace. Ero in casa sua da poco tempo, ma le pareva di conoscermi da dieci anni almeno, e aveva preso a volermi bene come a una figliuola.... La mia mancanza le avrebbe lasciato un vuoto, un vuoto!... Pazienza se avesse potuto esser tranquilla sul mio avvenire, se mi avesse vista appoggiata a qualcheduno del cui affetto per me non fosse lecito dubitare; ma questo fratello, che per anni e anni non s’era neanche rammentato ch’io esistessi, le inspirava una ben scarsa fiducia.... Era un gran salto nel buio quello ch’io facevo.
— È inutile, signora Celeste — io risposi. — Sono in mano della Provvidenza. Ormai bisogna ch’io segua il mio destino.
Ella soggiunse qualche parola sulla mia ostinazione, e se ne andò a malincuore.
— Coraggio — diss’io fra me. — Coraggio!
E cercai di raccogliere i miei pensieri, di fare un po’ di programma pei dieci o dodici giorni che avevo ancora da restare a Venezia, di stabilire a quali tra lo mie amiche dovevo lasciare un ricordo, quali tra [37] i libri della mia piccola biblioteca dovevo portar meco, quali oggetti indispensabili dovevo comperare prima di mettermi in viaggio. Ma le idee più semplici mi s’ingarbugliavano nella testa, e giravo su e giù per la stanza a guisa di smemorata, aprendo ora un cassetto ora l’altro del mio armadio e domandandomi perchè lo avessi aperto, accingendomi a scrivere un nome, a fare un’annotazione, e rimanendo lì col lapis tra le dita senza poter richiamare alla mente il nome che volevo scrivere e l’annotazione che volevo fare.
Dopo qualche ora passata così mi risolvetti a uscir di casa e a recarmi dall’Angusta Dalla Riva.
— Grazie d’esser venuta — ella mi disse gettandomi le braccia al collo. Poi mi prese per mano e mi fece sedere su un canapè, accanto a lei.... Dopo i primi baci, dopo le prime parole che si scambiano in queste occasioni, ci fu, come accade sovente, un breve silenzio. Ella teneva gli occhi bassi; io la guardavo, e l’impressione provata nella mia ultima visita si rinnovava più vivace, più intensa. Non era possibile ch’io m’ingannassi per la seconda volta; in quel suo viso pallido che serbava le traccie delle veglie affannose, in quel suo viso atteggiato a un dolore sincero balenava ogni tanto come un raggio di luce, come la manifestazione timida, inconscia d’una gioia che si vergognava ancora di sè, ma che, invano rattenuta, saliva saliva dal fondo del cuore a raddolcire le lacrime, a frenare i singhiozzi.
— C’eri stamattina in chiesa? — mi domandò l’Augusta con qualche peritanza.
— Sì che c’ero.... Non ero però nei posti riservati.
— Dunque non hai visto nessuno? Nessuno ti ha parlato di me?
[38]
— Nessuno.
— Meglio così — ella soggiunse. — Meglio che tu sappia tutto dalla mia bocca.... E prima di giudicarmi, aspetta....
— Giudicarti? Ma tu, tu che sei tanto buona, avresti una colpa sulla coscienza?
— Non lo so.... So che ho perduta ier l’altro la mia mamma, la migliore delle madri, so che non dovrei pensare che a questo, che non dovrei veder sulla terra un raggio di luce.... e che invece..... oh mi pare un’enormità....
— Invece tu ami qualcheduno? — interruppi, chinandomi verso di lei con simpatia.
— Come hai capito?
Io sorrisi. — Eh, non ci vuol mica molto.... Ed è questo il tuo gran delitto?
— No, forse l’amar qualcheduno non è un delitto, nemmeno in un momento simile; gli è che da tre giorni soltanto ho la certezza d’essere amata, e questa certezza mi rende felice.... Ecco la profanazione.... Felice, con la mia mamma appena sepolta.... Però — soggiunse l’Augusta, impaziente d’attenuare il proprio fallo — però la mamma prima di morire fu messa a parte di tutto, e l’idea di affidarmi ad un uomo onesto.... un uomo a cui non avrei creduto mai di poter aspirare.... consolò la sua agonia.
La storia m’interessava davvero, e sollecitai l’Augusta a raccontarmi tutto.
Come render l’accento caloroso, appassionato, sincero che mi fece apparir così efficace, così eloquente la narrazione della mia amica?
Ella disse a un dipresso così: — Sono alla vigilia di sposare il dottor Val Sabbia, il bravo medico che [39] a trentacinqu’anni è già primario dell’Ospitale e possiede una delle migliori clientele della città. Val Sabbia era stato sopracchiamato da Ranioli, il nostro vecchio dottore, ed essendosi Ranioli infermato subito dopo il consulto, cedette alle nostre preghiere e rimase lui stesso alla cura.... Non si può avere un’idea di ciò ch’egli ha fatto per la mamma. Senza dubbio ella lo aveva ammaliato co’ suoi modi soavi, con la sua rassegnazione angelica. Veniva di giorno, veniva di sera, veniva spontaneamente anche nel cuor della notte. A me diceva qualche volta che la mia mamma gli ricordava la sua mamma e che io gli ricordavo una sorella, maritata adesso a Firenze e nata per far la suora di carità.... Dio mio! Io non facevo più di quello che ogni figliuola avrebbe fatto al mio posto.... Mio fratello, che aveva la famiglia sulle spalle e non poteva trascurar gli affari, era ogni momento fuori di casa, fuori di città; così ci trovavamo spesso soli, il dottore ed io, soli accanto al letto dell’inferma, soli nell’aspettazione d’una crisi, soli durante un periodo di quiete ingannevole, desolati tutti e due, egli dell’impotenza della sua dottrina, io dell’impotenza del mio affetto... Erano lunghi, lunghi silenzi.... Di tratto in tratto i nostri occhi s’incontravano e io sentivo un fuoco corrermi per le vene.... Non osavo chiedere a me stessa se l’amavo; ma stavo così volentieri vicino a lui, ma il cuore mi balzava in petto alla sua scampanellata, al suono del suo passo, della sua voce.... In quanto a sperare ch’egli mi amasse, oh Elena, te lo giuro, non ci pensavo nemmeno.... Non avevo il diritto di esser tanto ambiziosa.... Da tre settimane era impossibile illudersi sullo stato della mamma, ed ella non s’illudeva.... Mercoledì [40] sera, la sera del giorno che tu fosti da me, ella disse: — So bene che non c’è rimedio... Ma muoio con una gran riconoscenza per quelli che m’hanno assistita. — Strinse la mano a me ed a Val Sabbia e mormorò: — Come siete buoni! — Quella notte Umberto non volle lasciarci. Temeva un attacco più violento del solito e rimase su una poltrona nell’anticamera. L’attacco non venne; verso l’alba la mamma dormiva abbastanza tranquilla. — Vada a riposarsi, dottore — io gli dissi — e... grazie. — Egli parve disposto a seguire il mio consiglio e s’avvicinò all’uscio... Ma si fermò a un tratto, senza prendere il cappello ch’io gli porgevo. Aveva l’aria di un uomo che non sa cominciare un discorso.... Impacciato, lui, davanti a me?... Io stavo lì, immobile, col cappello fra le mani.... Egli si passò il fazzoletto sulla fronte, e principiò: Crede proprio che la sua mamma m’abbia in buon concetto? — Lo guardai stupita. — Che domanda mi fa? In che altro concetto potrebbe averlo dopo le prove...? — Umberto mi troncò la frase in bocca. — E crede che se le domandassi anch’io una prova.... una prova di fiducia, grande, illimitata.... me l’accorderebbe? — Ma per lei — esclamai — la mamma farebbe qualunque cosa.... ne son sicura.... Però, nella sua condizione presente, che cosa può fare? — Invece di rispondere, Val Sabbia seguitò a interrogare. — Ed ella, signorina Augusta, che opinione ha di me? — Dio, Dio, quale tortura!... Io non capivo più niente.... Ossia, credevo di capire.... Ma se poi m’ingannavo.... che colpo! — Non le domando l’opinione ch’ella ha di me come medico — egli ripigliò per meglio chiarire il suo concetto — ma come uomo. — Oh dottore — io [41] balbettai — che può importarle dell’opinione di una povera ragazza quale io mi sono? — Molto me ne importa — egli replicò enfaticamente.
— Ma la voglio schietta, sincera. — A questo punto egli parve colto da un dubbio. — È una strana pretesa la mia, non è vero? Infatti, se anche pensasse male di me, a me non lo direbbe. — Non ne potevo più. Il mio cuore traboccava. — Ma perchè mi tormenta? Come può venirle in capo ch’io pensi male di lei? Non vede che se fosse così io sarei una creatura spregevole, indegna di quel po’ di stima ch’ella mi accorda? — La fisonomia grave d’Umberto s’illuminò tutta. — In tal caso — egli riprese — se appena la sua mamma si sveglia, io andassi da lei e la pregassi di concedermi in isposa la sua figliuola, e se la sua mamma accogliesse favorevolmente la mia richiesta, lei, Augusta, non direbbe di no?...
Oh Elena mia, che momento fu quello! Era possibile? Non era un’allucinazione dei sensi? L’uomo che avevo visto paziente, sagace, affettuoso, prodigar mille cure all’essere più caro che avessi al mondo, l’uomo che adoravo in segreto e di cui cento ragazze nobili e ricche sarebbero state superbe di portare il nome, quell’uomo presceglieva me, la più umile delle sue clienti, me, povera, oscura, senza nessun fascino di bellezza e d’ingegno!... La commozione mi tolse la parola, ma sembra che i miei sguardi esprimessero ciò che le mie labbra, non sapevano esprimere, perchè Umberto mi cinse delle sue braccia, e mi susurrò nell’orecchio: — Dunque, sì? — Di nuovo mi mancò la voce e dovetti contentarmi di fare un cenno affermativo col capo. — Mi ami? — egli proseguì. Con uno sforzo supremo [42] riuscii a liberarmi da quella specie di paralisi che mi annodava la lingua e risposi: — Con tutta l’anima mia.... — Il resto già te lo immagini. T’immagini con quale entusiasmo la povera mamma accondiscese alla domanda di Umberto.... troppo entusiasmo forse, perch’ella era così debole e l’eccesso della commozione accelerò la sua fine. Pur serbò fino all’ultimo istante la lucidezza del suo spirito e con gli occhi già spenti e con le labbra già fredde ringraziava Umberto e mormorava il nome di lui e il mio.... Povera mamma! Povera mamma!
L’Augusta nascose la faccia sul mio petto e lasciò scorrer le sue lacrime.... Erano lacrime di dolore per la sciagura che l’aveva colpita, erano lacrime di gioia per la felicità che l’aspettava? Che mistero è la vita e che diverse correnti la solcano nella stessa ora, nello stesso minuto! Senza dubbio l’Augusta era altrettanto sincera nel suo dolore quanto nella sua gioia, e gioia e dolore si riflettevano nel suo viso, si ripercotevano nelle sue parole.... Io l’assicurai che ella non aveva nulla a rimproverarsi e che se il cielo aveva voluto mandarle una gran consolazione nei giorni dell’angoscia ella doveva accettarla con animo riconoscente e senza tema di offendere il culto delle memorie.... Ma in verità io predicavo a una convertita, e non potevo a meno di pensar fra me e me alla singolarità di questa visita ch’era principiata come visita di condoglianza e finiva come visita di congratulazione.
L’Augusta mi mostrò il ritratto del suo sposo. È un bell’uomo dalla fisonomia aperta, intelligente.
— E quando le nozze? — io chiesi.
— Di qui a sei mesi disse l’Augusta. — Avrei [43] preferito compier l’anno di lutto, ma Umberto desidera spicciarsi e mio fratello gli dà ragione.... Che peccato che tu non debba essere qui!
— Ti manderò i miei auguri da Tiflis — soggiunsi nell’accommiatarmi.
Ah, la vita è un mistero, ma il cuore umano è mistero ancora più grande. Mi staccai dall’Augusta con l’animo riboccante di simpatia, lieta della sorte che l’era toccata; eppure di mano in mano che rifacevo la strada sentiva dentro di me qualcosa d’acre, d’amaro che modificava le mie impressioni. Mi pareva che tante altre meritassero d’esser felici come l’Augusta e più dell’Augusta, non capivo perchè ella dovesse essere una preferita della fortuna. E sebbene arrossissi d’un sentimento a cui non volevo dar nome d’invidia e a cui non avrei saputo quale altro nome dare, non mi riuscì disperdere le nuvole che s’erano addensate sul mio spirito.
A pranzo fui sgarbata, irritabile, pronta a interpretar tutto sfavorevolmente. M’ero fitta in capo che l’annunzio positivo della mia partenza dovesse recare una gran soddisfazione alla Giulia Sereni, e guardandola con questa idea preconcetta credevo realmente di scorgerle sulle labbra un risolino di trionfo. Non ch’io fossi una rivale; ero un testimonio incomodo delle arti con cui ella tentava accalappiare l’ottimo professore. E lui? Oh gli uomini! Anche i migliori son vanitosi, e a forza di lodarlo, di lisciarlo, di corteggiarlo, la Giulia raggiungerà il suo intento.... A me oggi egli rivolse alcune parole cortesi di rammarico; poi nulla più. Invece la signora Celeste non la finiva con le sue lamentazioni, e lasciò perfino cader due grosse lacrime nella minestra.
[44]
Dio buono! Quante pagine ho riempiuto! E sono già le tre del mattino. Bisogna smettere.
Martedì, 15 giugno.
Nè ieri, nè ier l’altro non ho potuto metter penna in carta, tanto fui occupata tra visite, spese e brighe d’ogni maniera. Vidi domenica anche la Lucia Mazzuola, quella di cui la Norini dice che partorisce due volte all’anno. È innegabile che il suo esempio non invoglia al matrimonio. La trovai in mezzo a cinque marmocchi e incinta per giunta. E com’è mutata! Era tanto bellina, e adesso ha perduto gran parte dei suoi capelli, ha gli occhi smorti, le carni flosce e il colorito terreo. Ha pei suoi bimbi una tenerezza rabbiosa che si sfoga sgridandoli, sculacciandoli, urlando come un’ossessa a ogni birichinata che fanno, a ogni pericolo che corrono. — Non ne posso più — ella mi disse — non ho un’ora di pace, nè di giorno nè di notte.... E si stenta a vivere, sai, co’ bei guadagni che ci sono.... Pensare che ci son di quelli che han paura del colèra.... Per me, se mi capitasse, sarebbe una gran liberazione.... Quieto Mino;... Maria, non toccare quella sedia;... no, Tullio, non arrampicarti sul canapè;... ho detto di no.... e quell’altro che tira il cordone della tenda.... no, no.... ah Vergine Santissima, voi non ne avete avuti cinque figliuoli.... avete già tribolato abbastanza con uno solo.
E queste esclamazioni erano intermezzate da pif puf a destra e a sinistra con l’inevitabile accompagnamento di pianti e singhiozzi infantili.
— La festa è peggio che mai — notò la Lucia — perchè non posso mandarne a scuola nessuno.
[45]
Non rimasi dalla mia amica che un quarto d’ora, quel tanto che bastava per informarla della mia partenza e congedarmi da lei. Ella non deve neanche aver capito ch’io vado così lontano. — Buon viaggio — mi disse. — Quando vieni a Venezia, se ti ricordi di me mi farai piacere.... Ma che sia di giorno di lavoro. Arrivederci.... E non ti maritare.
Iersera, dopo parecchi giorni piovigginosi, faceva bel tempo, e la signora Celeste mi propose di fare una passeggiata. Accompagnammo la Giulia Sereni a casa sua, e poi andammo noi due sole solette sul Molo. Imboccando la Piazzetta si vedeva attraverso l’arcata d’angolo del Palazzo Ducale il solco tremulo e argenteo segnato dalla luna sull’acqua; e la mole ardita e leggiadra dello stupendo Palazzo, e le colonne di Marco e Todero, e la biblioteca di Sansovino spiccavano maravigliosamente sull’azzurro limpidissimo del cielo. L’isola di San Giorgio, in fondo, chiudeva il quadro.... Ma dal Molo lo sguardo correva senza ostacoli fino alla punta dei Giardini e alla striscia sottile del Lido, abbracciando tutto il bacino della Laguna e tutta la Riva degli Schiavoni, nuotanti, per così dire, nel mite chiarore lunare. Era un silenzio, una quiete di città abbandonata; non un fischio di vapori, non un movimento di remi. Con le braccia incrociate sul davanti ai loro pontili i barcaiuoli gridavano macchinalmente: Gondola, gondola. E nessuno rispondeva. Lontano, lontano, una barca dal felze basso e chiuso, dall’aspetto sinistro, la barca che conduce i colerosi all’Ospitale di San Cosmo, s’avviava verso la Giudecca.
Dopo aver girato alquanto su e giù, sedemmo con la signora Celeste su una delle panchine di [46] marmo vicine al ponticello che congiunge il Molo al Giardinetto. Non passava quasi anima viva; il caffè in capo al viale era muto, buio e deserto e metteva tristezza a vederlo, specialmente chi se lo ricordava negli anni addietro, in questa stagione, affollato, pieno di luce e di musica.
Comunque sia, anche nello squallore presente, la mia Venezia esercitava sopra di me un fascino irresistibile. Non mi sarei più mossa di lì; aspiravo per tutti i pori la voluttà segreta che dà lo spettacolo delle cose belle.
La signora Celeste rispettò per un poco il mio raccoglimento, facendomi il gran sacrifizio di serbare il silenzio; ma quando i Mori della Loggetta batterono le dieci, ella mi toccò la spalla e mi disse che era tardi e che bisognava rincasare. Mi alzai come un automa, girando gli occhi intorno ancora una volta, quasi per imprimermi nella pupilla la tinta del cielo e dell’acqua, la linea dei monumenti, e ogni particolare della scena incantevole che forse non avrei più riveduta.
In Merceria fummo raggiunti dal professore Verdani che rincasava anch’egli e che ci si pose al fianco. Era inquieto per l’inquietudine della sua mamma, la quale non voleva persuadersi che il colèra fosse in diminuzione, e insisteva per venire a Venezia presso il figliuolo.
— Questo non posso permetterlo — egli disse — ma capisco che mi toccherà domandare una licenza di due o tre giorni e fare una corsa a Bologna.
— Va via?... Quando? — esclamai, dolorosamente colpita dalla notizia.
— Oh! — rispose il professore. — Forse alla fine [47] della settimana.... Lunedì sera al più tardi sarei di ritorno.... Ella non sarà mica partita?
— Io?... No.... non credo — balbettai confusa.
— No certo — egli soggiunse. — Basta che parta il giovedì.... Mi dorrebbe troppo ch’ella partisse senz’averla risalutata.
La signora Celeste affermò energicamente ch’io non dovevo partire che all’ultimo momento.... seppur partivo. È inutile; la signora Celeste non vuol rinunziare alla speranza ch’io rimanga a Venezia.
Fra una chiacchiera e l’altra si giunse a casa e ci scambiammo la buona notte. Il professore mi diede mia stretta di mano all’inglese.
Non avevo sonno e cominciai a fare il mio baule nel quale posi anche dieci o dodici libri che desidero portar meco; un piccolo Dante, un’edizione completa del Manzoni, la Gerusalemme, le Odi barbare del Carducci, un volumetto di poesie dello Schiller tradotte da! Maffei, ecc., ecc. Il resto della mia minuscola biblioteca lo regalerò alla Norini, la lettrice infaticabile. È vero ch’ella mi rivolse un giorno questa singolare domanda: — Avresti da prestarmi un libro immorale? — E poichè io inarcavo le ciglia, ella insistè: — Sì, uno di quei libri che non si mettono in mano alle ragazze.... Non ti scandalizzare. Noi maestre siamo inzuppate fradicie di moralità.... I nostri manuali scolastici sono così noiosamente virtuosi.... I discorsi che facciamo alle nostre allieve, quelli che sentiamo farci dalle autorità competenti sono uno stillato di così sante massime, che qualche volta, per amor dei contrasti.... capisci....
Non so che dire; i libri che lascerò alla Norini [48] non sono immorali.... S’ella non vorrà leggerli, pazienza.... Li serberà per memoria.
················
Una futile ragione mi tenne alzata iersera più tardi del consueto. Sul punto di coricarmi mi parve che la mia camera avesse bisogno d’aria e spalancai le imposte. Naturalmente la luce interna si riflettè sulla muraglia sgretolata della casa dirimpetto, di là dalla calle ch’è larga forse un paio di metri, e vi segnò sul fondo scurissimo la sagoma rettangolare della finestra in mezzo alla quale spiccava la mia ombra. Nè ciò avrebbe fermato la mia attenzione; ma a sinistra, poco più in là, sulla stessa muraglia di fronte vidi un altro rettangolo luminoso e in mezzo ad esso un’altra ombra, come il busto di un uomo seduto e assorto in qualche grave occupazione. Sulle prime restai perplessa. O di dove veniva quella luce? E che corpo proiettava quell’ombra? Però non tardai a raccapezzarmi. Proprio alla sinistra, due stanze dopo la mia, c’era la camera del professor Verdani. È chiaro ch’egli era alzato com’ero io, e che aveva, come me, voluto prendere una boccata d’aria prima di mettersi a letto. L’ombra mutò posizione e anzichè d’una persona seduta parve quella d’una persona affacciata al davanzale. Noi non potevamo vederci, il professore ed io, chè ce lo avrebbe impedito anche di giorno la cappa d’un camino posta fra le due finestre; tuttavia giurerei che a due riprese egli abbia proteso la testa dalla mia parte. Del resto, io feci lo stesso. Di nuovo l’ombra si mosse e ora s’ingrandiva ora s’impiccioliva sul muro, come avviene d’un corpo che ora s’avvicini ora si discosti da un punto luminoso. Certo il professore camminava su e giù per la [49] stanza. Tendendo l’orecchio nel silenzio profondo avrei giurato di sentire il suono de’ suoi passi. Due volte ebbi la tentazione di gridare: — Buona sera, professore; — due volte il saluto mi morì sulle labbra. Alle undici e tre quarti richiusi le imposte.
Mercoledì sera, 16 giugno.
Spese e visite, visite e spese; ecco il bilancio della giornata. Ho qui schierati sul mio tavolino cinque o sei gingilli che regalerò alle mie amiche; roba, s’intende, di poco valore, quale può essere donata da una povera diavola come sono io. In tempi ordinari i bottegai mi avrebbero servita con la massima flemma del mondo; oggi invece gareggiavano di zelo e di sollecitudine. È un piagnisteo generale.... Il paese è deserto; si apre e si chiude il negozio senza veder anima viva.... E tutti hanno bisogno di prendersela con qualcheduno; coi cittadini che partono o coi forestieri che non vengono, col Municipio, col Governo, coi bollettini sanitari, con le quarantene, coi medici e persino con gli ammalati. E, a rigore, gli ammalati sono i più colpevoli.... Se non ci fossero, loro!...
Oggi, a pranzo, il professore entrò in salotto ch’eravamo già sedute a tavola. Nel darmi la mano e nel prendere il suo posto fra la Giulia e me, egli arrossì visibilmente e son certa d’aver arrossito anch’io. Perchè? Ci vergognavamo forse d’esserci spiati a vicenda? Ero in procinto di dirgliene qualche cosa; ma la Sereni ci aveva piantato gli occhi addosso, e preferii di tacere.
Gran pedante quella Giulia Sereni! Da un paio di [50] giorni, senza dubbio per farsi bella col professore il quale dichiarò sere addietro di non aver perduto ogni gusto per la poesia nemmeno dopo essersi consacrato agli studi scientifici, ella infarcisce i suoi discorsi di citazioni di versi. Se la zia non la fermava in tempo, oggi ci avrebbe data una vera accademia di declamazione. Per fortuna quand’ella intuonò il celebre sonetto del Carducci: T’amo, o pio bove, la signora Celeste, che non ne poteva più gridò: — Auff! Anche il manzo adesso.... Mangialo il manzo, e non ci romper le scatole!...
Quest’uscita molto prosaica e plebea tarpò l’ali della nostra Saffo.
È inutile ch’io lo nasconda, la Sereni mi va diventando proprio antipatica. Forse non le perdono l’effetto disastroso ch’ella produce sulle mie facoltà intellettuali. Non fui mai una ragazza prodigio, e tante disgrazie, e tante incertezze dell’avvenire e più di tutto quest’incubo di dover lasciar per sempre il mio paese son fatti apposta per smorzare in me ogni vivacità ed ogni brio; a ogni modo, non sono una stupida; ma in presenza della Sereni il mio spirito s’intorpidisce e la mia lingua s’inceppa. La sua gran parlantina mi rende muta. Peggio poi quand’ella colma Verdani di moine e d’elogi, quando approva clamorosamente ogni opinione ch’egli esprime. Allora il dispetto mi vince, ed è molto se si riesce a cavarmi di bocca un sì o un no. Pur troppo m’accorgo che ho un pessimo carattere, cosa della quale non m’ero accorta sino a questo momento. È ben vero che il conoscere a fondo se stessi è tanto difficile quanto il conoscere a fondo gli altri.
Per esempio, il difetto della curiosità non credevo [51] d’averlo. Eppure, solo una persona curiosa può fare ciò ch’io feci iersera.
Sulla mezzanotte, senz’accendere il lume, scesi dal letto, infilai la vestaglia, e dopo aver aperto delicatamente un’imposta insinuai pian pianino la testa fra i due battenti. Volevo vedere se il professore era desto, se aveva la finestra chiusa o spalancata, se lavorava.... E vidi infatti la luce che veniva dalla sua camera brillar sulla muraglia dirimpetto, e in quella luce muoversi l’ombra del mio vicino.... Su e giù, su e giù come la sera prima.... Curioso modo di studiare che ha il professor Verdoni!... E, come la sera prima, vi fu un momento in cui egli si affacciò al davanzale.... Istintivamente raccolsi intorno al petto le pieghe della mia vestaglia e trattenni il respiro finch’egli non si fu allontanato....
Giovedì sera, 17.
Se fossi stato Lear, avrei preferito Cordelia. Queste parole dette qualche ora fa da Verdani non mi possono uscir dalla mente. Le provocò la Giulia Sereni con la sua nullità e con la sua pedanteria. Oggi ella volle darci un altro saggio della sua erudizione di frontispizi citando lo Shakespeare.... Oh Shakespeare!... Il divino Shakespeare.... Pareva che fosse stato un suo amico d’infanzia.... E io sarei pronta a scommettere ch’è molto s’ella ha sentito il monologo dell’Amleto recitato da un dilettante d’una delle nostre società filodrammatiche.
Il professore fece del suo meglio per lasciar cadere il discorso mostrando invece d’interessarsi grandemente [52] alle spiegazioni date dalla signora Celeste sui diversi modi di preparar la salsa di pomidoro; ma l’insistenza della Sereni lo costrinse a uscire dal suo riserbo. E parlò dello Shakespeare come sa parlar lui; breve, chiaro, efficace. Io stavo a sentirlo incantata, ammirando sempre più quella sua cultura così varia e così ricca e nello stesso tempo così aliena da ogni ostentazione. Verdani non è soltanto un matematico; è anche un letterato e un artista. E quando s’accalora in un argomento, come l’ingegno gli brilla negli occhi, come la sua fisonomia non regolare diventa bella ed espressiva! Figuriamoci se la Giulia non andò in brodo di giuggiole! Ah che fortuna per una giovine desiderosa d’istruirsi il poter gustare di quando in quando la conversazione del professore! Ci s’imparava più che in tutte le scuole, più che da tutti i libri. Non c’era un dubbio ch’egli non sapesse risolvere, non c’era un soggetto su cui egli non gettasse un raggio di luce.
In fin dei conti quella disgraziata della Giulia non diceva nulla in cui io non convenissi con lei, ma, al solito, la sua enfasi da prima attrice chiudeva la bocca a me e m’impediva perfino di fare un moto d’assenso col capo. Me ne crucciavo in cuor mio inutilmente; c’era qualcosa che paralizzava la mia volontà.
La Sereni ebbe un sorrisetto da donna superiore. — Io compiango quelli che non sono accessibili all’entusiasmo.
All’allusione manifesta mi scossi, deliberata a difendermi; ma non n’ebbi il tempo; chè Verdani, senza rilevare, almeno apparentemente, la frase della sua interlocutrice, tornò a discorrere di Shakespeare.
[53]
— E il Re Lear! — egli chiese alla Sereni. — Conosce il Re Lear?
La Giulia non ebbe il coraggio che avrei avuto io di rispondere che non l’aveva neanche sentito a nominare, e disse che lo conosceva.... già.... un magnifico lavoro.... era però tanto tempo che l’aveva letto!
— Lear! — ripigliò Verdani. — Una concezione superba.... Se ne ricorda?... Il vecchio re, sazio d’anni e di gloria, vuol liberarsi dalle cure di Stato e dividere i suoi domini fra le tre figliuole, Gonerilla, Regana e Cordelia. Senonchè egli desidera prima udir dalle loro labbra fino a qual punto esse l’amino. Gonerilla e Regana non hanno limiti nelle loro manifestazioni di tenerezza; esse protestano di amar l’autore dei loro giorni più della luce degli occhi, più della libertà, più della vita. Ma l’amore di Cordelia ha la verecondia degli affetti sinceri e sdegna queste iperboli bugiarde; ond’ella, la prediletta del padre, non sa che abbassare il capo e tacere. E Lear, accecato dalla vanità e dall’orgoglio, la priva del suo retaggio, la maledice, la scaccia da sè....
Verdani s’arrestò per pochi secondi; quindi soggiunse lentamente e quasi scandendo le sillabe: — Se fossi stato Lear, avrei preferito Cordelia.
Nel dir così, egli fissò il suo sguardo penetrante prima sulla Giulia e poscia su me. Ella si morse il labbro; io sentii un’ondata calda di sangue salirmi dal cuore alla faccia; sentii una dolcezza ineffabile corrermi per le vene. Non pronunziai parola, ma Verdani deve aver letto certo ne’ miei occhi la mia infinita riconoscenza.
Per oggi il vecchio Lear fu rimesso a dormire, e ignoro quali altre vicende gli siano toccate. Più che [54] di lui mi premerebbe saper di Cordelia.... Le fu resa giustizia?
Venerdì, 18 giugno.
Verdani doveva partir questa sera alle 11; invece partì questa mattina per tempo lasciando alla Gegia un biglietto per me. — Il professore mi raccomandò caldamente di consegnarglielo in proprie mani — mi disse la Gegia con quell’aria misteriosa che sogliono assumer le serve nel fare un’ambasciata.
In quanto al biglietto esso non conteneva che poche righe: “Cara signorina Elena. Anticipo la partenza per poter anticipare il ritorno. Le comunicherò allora i motivi della mia improvvisa deliberazione. Pensi qualche volta a me in questi giorni, e mi creda suo affezionatissimo Gustavo Verdani.„
Perchè Verdani mi scrive? Perchè mi offre degli schiarimenti ch’io non ho alcun diritto di chiedere? E quel suo invito a pensare a lui è una pura formalità o è qualcosa di più? E che motivi saranno quelli a cui egli accenna?
Ecco le domande ch’io rivolgo a me stessa da questa mattina in poi e alle quali non mi vien fatto di rispondere. Il meglio sarebbe non curarsene più che tanto, e aspettar dalla bocca di Verdani la chiave dell’enigma. No, meglio ancora sarebbe non aspettar nulla, sfuggire delle spiegazioni inutili.... Dio buono! Io avrei bisogno di calma, avrei bisogno di chiamare a raccolta le mie forze per dare un addio triste, ma dignitoso alla patria e agli amici, e invece noto in me i segni precursori della tempesta.... Ma è possibile?... [55] Io proverei per Verdani un sentimento diverso dalla semplice amicizia? Alla vigilia di partire per sempre io lascerei divampar quest’incendio nel mio cuore? Eppur fino a un paio di giorni fa io non lo consideravo che come un amico, un amico leale il cui ricordo pieno di soavità mi avrebbe accompagnata nell’esilio.... Mercoledì soltanto le sue parole, i suoi sguardi mi turbarono profondamente.... Oh s’egli lo sapesse, come se ne dorrebbe!... Egli è un onest’uomo, non può volere il male di nessuno.... Ma allora, perchè quel biglietto, perchè quella frase: pensi qualche volta a me?... Ch’io mi fossi ingannata sul conto suo, ch’egli fosse uno dei soliti libertini ai quali piace scherzare col fuoco, certi ch’esso abbrucia gli altri e non loro?... Ma io, io non sono forse la prima colpevole? Non dovevo accorgermi del pericolo che mi sovrastava? Non dovevo sapere, a venticinqu’anni compiuti, che questo povero cuore di donna è debole contro le insidie, è facile alle illusioni, e che, solo chiudendosi alteramente in sè stesso, può evitare di essere insidiato ed illuso? Non dovevo a ogni modo arrestarmi a tempo in una via senza uscita? Dalle mie inquietudini, dai miei dispetti, dalla mia avversione esagerata per la Giulia Sereni non dovevo capire che camminavo sopra un vulcano?
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Sono una sciocca. Ho riletto or ora il bigliettino del professore. Certo fu in lui un atto cortese lo scriverlo, ma egli ha riparato a questa esuberante gentilezza scrivendolo così asciutto, così conciso che ci vuol proprio uno sforzo di fantasia a supporvi un significato recondito.... Tanto meglio dunque.... O tanto peggio?... Dio mio, Dio mio.... Sono giunta al punto [56] di non saper più ciò che devo desiderare e ciò che devo temere?
Mezzanotte.
Per distrarmi acconsentii ad andar in Piazza stasera con la signora Celeste per aspettarvi il ritorno dei bersaglieri dal Lido. Al Lido s’è festeggiato, come si festeggiava oggi in ogni distretto militare della penisola, il cinquantesimo anniversario della istituzione di questo Corpo divenuto così popolare in Italia.
Piovigginava e non c’era gran folla. I bersaglieri, approdati sul Molo, percorsero la Piazza con fiaccole accese fra gli applausi e i fuochi di bengala. Fu un divertimento che durò dieci minuti.
A ben altro spettacolo avevo assistito, di ben altro entusiasmo gli stessi bersaglieri avevano fatto palpitare il mio cuore di bimba il 19 ottobre 1866, all’ingresso delle truppe italiane a Venezia. È una delle memorie più vivaci della mia infanzia.
Mi par d’essere all’angolo delle Procuratie Nuove, in fianco del campanile, con la mamma e col babbo, in mezzo a una calca di gente ch’io vedevo muoversi e ondeggiare sotto di me, perchè il babbo, alto di statura, m’aveva presa in collo e messa a sedere sulla sua spalla. Io guardavo incantata i battaglioni che mi sfilavano dinanzi, guardavo le bandiere tricolori che gonfiate dal vento si svolgevano dalle antenne di San Marco in magnifici panneggiamenti, e le signore che dalle finestre agitavano i fazzoletti, e gridavo anch’io come gli altri: Viva, viva! A un [57] tratto s’udirono degli squilli di tromba e tutta quella moltitudine si agitò, muggì come un mare in burrasca e una voce corse per tutte le bocche: I bersaglieri, i bersaglieri. Fummo travolti dalla folla, sospinti di qua e di là, fin che ci trovammo, non so come, pigiati contro una colonna. Intesi dopo che s’era corso un gran pericolo; il babbo aveva temuto di non poter tenermi in equilibrio e la mamma che gli si aggrappava alle falde del vestito era stata sul punto di esser separata da noi e rovesciata a terra. Ma allora chi ci badava? Una vispa schiera di piccoli demoni (li ho sempre davanti agli occhi) dalla faccia abbronzita, dalle uniformi turchine, dai grandi cappelli piumati, si precipitava dal Molo in Piazzetta sollevando sul suo passaggio un urlo frenetico: Viva, viva i bersaglieri! E io battevo le mie manine e ripetevo: Viva, viva i bersaglieri!... Ah chi direbbe che da quel tempo son passati quasi venti anni?... Povero babbo e povera mamma mia, voi non siete più adesso al mio fianco, e io sono alla vigilia di abbandonare le vostre tombe!
Questi pensieri mi si affollavano nella mente durante la pallida festa di questa sera. E pensavo anche: Quelli che vent’anni fa furono applauditi su questa piazza dove sono adesso? Quanti ne sopravvivono? E ove sono i plaudenti d’allora?... Gli edifizi sono rimasti immutati; forse persino le pietre del selciato sono le stesse; le cose morte sono quelle che cangiano meno.... Ma negli uomini è un continuo trasformarsi, un continuo sparire.
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Un capriccio. Ho qui sul tavolino, aperte tutt’e due, la lettera di mio fratello e quella del professore [58] Verdani, e ho voluto confrontarle tra loro. La lettera di Odoardo con la sua calligrafia inglese, commerciale, nitidissima, mi dà un senso di freddo...; l’altra.... ho un bel dire ch’essa non significa nulla; l’altra con le sue frasi rotte, con la sua scrittura ineguale tradisce un’emozione che si comunica a me....
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A proposito: oggi la Giulia non ha desinato con noi. Era invitata da un’amica.
Sabato, 19 giugno.
Non credevo in verità che la prima persona dalla quale mi sarei congedata con tutte le regole sarebbe stato il colonnello Struzzi, il mio turbolento vicino. Avevo smesso d’occuparmi di lui; le sue sfuriate giornaliere con la Gegia, i suoi monologhi a voce alta non mi facevano più nessun effetto, come a chi abita presso una cascata finisce col non far nessun effetto lo scroscio dell’acqua. Figuriamoci se mi sarei curata di cercarlo prima di partire.... Ma questa mattina, proprio nel momento ch’io uscivo dalla mia camera, egli usciva dalla sua, e sfido io, bisognò salutarsi per forza. Benchè irritatissimo per la nappa del campanello che gli era rimasta in mano e ch’egli portava, come corpo del delitto, a mostrare alla signora Celeste o alla Gegia, il colonnello era, relativamente al solito, di umore mansueto.
— Signorina Giralda, — egli mi disse; — ho piacere d’incontrarla. Mi assenterò per un paio di settimane, e poichè al mio ritorno non la troverò più.... ho sentito ch’ella va a stabilirsi lontano.... le do oggi il buon viaggio.
[59]
Egli mi tese bruscamente la destra, e soggiunse: — Fa bene a lasciar Venezia.... Se potessi anch’io, anzichè per quindici giorni, andarmene per sempre!... Questa non è una città.... sarà forse un museo!... Qui non si mangia, qui non si digerisce, qui non si dorme;... insomma qui non si vive.... Beata lei, signorina.... Buon viaggio, buon viaggio.... e buona fortuna.... Passi, passi pure.... io vedrò quelle femmine più tardi.
Chinò leggermente il capo, fece un mezzo giro con precisione militare e rientrò nella sua camera, tenendo sempre in mano la nappa del campanello.
Non lo vedrò più, ma la sua figura allampanata, i suoi modi strani, la sua voce rugginosa non mi fuggiranno così presto dalla memoria.
Nel pomeriggio capitarono visite. Vennero le Giglietti, madre e figlia, la figlia che al primo del mese farà gli esami di telegrafista, e non sa darsi pace che i regolamenti abbiano voluto proibire il matrimonio alle ragazze impiegate nei telegrafi; venne quell’originale della Norini; venne infine l’Augusta Dalla Riva in lutto strettissimo, ma trasfigurata dal suo amore felice. Mi parlò un poco della sua mamma defunta, mi parlò molto del suo Umberto, delle cure delicate ch’egli le prodiga, del quartierino ch’egli sta allestendo per lei.
Ah — esclamò l’Augusta al momento di prender commiato — io non meritavo questa fortuna.... Possibile che non tocchi nulla di simile a te che meriti tanto di più?... Se fossi un uomo, io!...
— Se tu fossi un uomo — risposi io sorridendo — non sposeresti il tuo Umberto.
L’argomento non ammetteva replica, ed ella dovette darmi ragione.
[60]
Ci vedremo ancora una volta, martedì, e mi riservo a consegnarle in quel giorno il ricordo che le ho destinato e che servirà per regalo di nozze.
Tutte le mie amiche mi promettono di scrivermi; tutte vogliono un’uguale promessa da me. Che corrispondenza avrebbe ad essere!...
Undici di sera.
Che cosa farà Verdani in questo momento?... — Pensi a me qualche volta — egli mi scrisse.... Ecco, io ci penso. Egli è accanto alla sua mamma, in un salottino modesto, illuminato da una lampada a petrolio.... la sua mamma lavora (so ch’ella ha l’abitudine di lavorare);... egli le parla de’ suoi studi, della sua vita di Venezia;... se le parlasse anche di me?... Stupida che non son altro!... Il più probabile si è che a quest’ora egli sia già a letto e dorma profondamente.
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Oggi a otto sarò in alto mare, sola in una cabina di bastimento, slanciata contro all’ignoto.... Penserò alla patria, penserò alle persone care, penserò a lui.... È una pazzia, ma lo amo.
Domenica mattina, 20 giugno.
Lo amo. Furono l’ultime parole che scrissi iersera, sono le prime che scrivo stamane. Lo amo, provo una singolare dolcezza a ripeterlo. Fino a quando durerà questo stato dell’animo, questo delirio [61] che mi fa trovare un’illusione di felicità in un sentimento che finirà forse coll’essere il cruccio della mia vita?... Mi accorgo di sognare, eppur la vaga coscienza della realtà non mi toglie la gioia del sogno. Sogno a volte l’ebbrezza dell’amore ricambiato, a volte m’esalto nell’idea del sacrifizio, nell’orgoglio d’una passione che si alimenta da sè, che non spera, che non chiede, che non vuole compensi.
È strano. Quand’ero più giovine, non ancora sbalestrata dalle sventure nel mondo senza mezzi di fortuna e senz’appoggi, ronzavano intorno a me pure i galanti. Ho sentito susurrarmi all’orecchio delle dolci paroline, ho visto degli occhi languidi fissarsi nei miei, ho ricevuto dei bigliettini teneri.... Ma ne ho riso: ho sempre indovinato ciò che v’era di poco serio in quelle calde proteste; non amai nessuno di quelli che dicevano di amarmi.... E oggi amo chi non mi disse nulla... o quasi nulla! È proprio vero che non si sa nè come si ama, nè perchè si ama.
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Egli potrebbe tornare oggi stesso.... Non mi scrisse di avere anticipato la partenza per anticipare il ritorno?... Io non uscirò dal mio riserbo; lo ringrazierò del suo biglietto senz’aggiungere una sillaba, senza domandargli le spiegazioni ch’egli mi promise. S’egli tacesse, tacerò anch’io.... Il diretto da Bologna arriva alle quattro e mezzo.
Tre ore.
Ho pregato la signora Celeste di lasciarmi sola nella mia camera, ho avvertito la Gegia che oggi non desideravo ricever nessuno, e dopo mezzogiorno [62] mi son gettata sul canapè sperando di dormire.... Chiusi gli occhi, ma non dormii.
Tra la veglia e il sonno mi venivano all’orecchio tutti i rumori della calle; le grida e il rincorrersi dei monelli, il chiaccherio delle comari che disputavano di lotto e di colèra, il borbottar noioso d’una mendicante ferma sulla cantonata. Poi, per la prima volta nell’anno, mi ferì la voce nota e triste d’una persona sconosciuta, la voce d’una venditrice di more, che fin dalla mia infanzia, in qualunque parte della città io abitassi, sentivo offrir la sua merce con le identiche parole e con l’identica cantilena, lenta, strascicata, patetica: — More, bele more da morero e da giardin. More, chi vol more?... — Non so dire e meno ancora saprei spiegare la malinconia che quella voce e quella cantilena mi han sempre messa nell’anima. Ma non avevo mai vista la venditrice di cui dimenticavo l’esistenza per nove mesi dell’anno. Ho voluto vederla oggi. È una contadina di mezza età, tozza della persona, con un cappellaccio nero a cencio, con un goffo vestito di traliccio bleu su cui spicca una pettorina di tela che dovrebbe esser bianca, ma che il sugo delle more ha insudiciato di macchie tra il rosso cupo e il violetto; in somma, tutto ciò di più prosaico che si possa immaginare.... Valeva la pena d’alzarsi dal canapè per ammirare questo bel tipo. E nondimeno quando il ritornello riprese More, bele more, ecc.; e più ancora quando la voce andò via via allontanandosi, ebbi il solito stringimento di cuore, la solita voglia di piangere.
Era il vespero. Le campane di San Marco suonavano a distesa. Due colombi appollaiati sul tetto della casa di fronte spiccarono il volo verso la piazza.
[63]
Mezzanotte.
Il professore non è arrivato. Se non arrivasse neppur domani, neppur doman l’altro; se, invece di anticipare il suo ritorno come aveva promesso, lo differisse fin dopo la mia partenza; se fosse trattenuto da sua madre; se insomma io dovessi abbandonare Venezia senz’averlo più visto?... Perchè, ormai non c’è rimedio, bisogna ben ch’io m’imbarchi a Trieste il 25.... Con quale pretesto potrei tardare di più?... Per aspettar lui che non si cura di me?... Per rivelargli il mio amore?... Per mendicare il suo?... Ah no, no, sono troppo altera; piuttosto morrei.
Del resto, se pur Verdani non viene, è impossibile ch’egli non scriva. Non è soltanto un debito di cortesia, è un debito di lealtà. Mi scriverà per mandarmi un saluto, per chiedermi scusa.... e questa lettera fredda, cerimoniosa dovrà essere il mio conforto nelle amarezze dell’esilio!... Sciocca, sciocca, che questa mattina credevo possibile la felicità nella passione solitaria, ignorata da chi ne è l’oggetto.... Sarà il tarlo nelle viscere, sarà l’inferno nell’anima, sarà l’amore che si tramuta in odio....
La Giulia seguita a non comparire. Sembra che le amiche (tenere amiche) se la disputino per averla a pranzo con loro.... Oh, ma ricomparirà alla nostra tavola, ricomparirà certo appena torni Verdani.... Ella non deve mica essersi data per vinta.... E forse ha ragione a persistere, forse le sue grazie trionferanno delle ritrosie del professore, forse, nel Caucaso, mi giungerà l’annunzio di quelle auspicatissime nozze....
[64]
Che desinare allegro fu quello d’oggi! La signora Celeste voleva discorrere, ma io la scongiurai d’aver pietà della mia emicrania. Allora ella divenne grave, misteriosa, e disse con piglio solenne:
— L’emicrania.... Uhm!... Domani sarà passata.
Domenica, 4 luglio.
Riprendo la penna dopo quindici giorni per compiacere ad un’altra persona. Io avrei preferito attendere fin che avessi l’animo più calmo, più riposato, ma quella persona mi sollecita a romper gl’indugi, e i desideri di lei sono ormai legge per me.
Quando penso alle disposizioni d’animo con le quali cominciai questo diario e alle disposizioni con cui lo finisco, non posso non domandare a me stessa se io, io che ne scrivo l’ultime pagine, sono l’identica Elena Giralda che ne scrisse le prime e se la vita serba realmente di queste sorprese, onde chi ieri ne invocò il termine come beneficio supremo possa oggi augurarsela eterna.
Ma non voglio perdermi in divagazioni inutili.
— Sa, il professore è venuto — mi disse la Gegia, entrando in camera col caffè la mattina di lunedì, il lunedì 21 giugno.... oh non c’è dubbio che mi scappi di mente la data. — È venuto con la prima corsa....
Avevo le palpebre gravi, l’ossa peste dalla notte insonne. Mi posi a sedere sul letto e dissimulando la mia agitazione quanto meglio potevo: — Ah! — replicai macchinalmente — è venuto?... E sta bene?
— Bene.... bene.... E non pareva punto stanco.... [65] Avrà riposato un’ora al più.... poi, quando meno si credeva, si affacciò alla soglia della cucina e chiamò la padrona con la quale ebbe un colloquio lunghetto, e adesso è lì in salottino che aspetta....
— Aspetta?... Che cosa?...
La Gegia prese la chicchera del caffè dalle mie mani che tremavano, e rispose: — Ma!... sembra che aspetti lei....
— Perchè dovrebbe aspettarmi? — soggiunsi, sforzandomi di far l’indifferente.
— Questo poi non lo so.... Non ho inteso ciò che si dicessero con la signora; ho inteso soltanto le ultime parole del professore: La vedrò appena alzata.... Di chi altri poteva parlare?
Licenziai la Gegia e saltai giù dal letto. Avrei voluto esser vestita in un attimo, e invece la mia toilette mi occupò una mezza oretta abbondante, sia che istintivamente vi ponessi più cura, sia che la smania di far presto riuscisse, come suole, all’effetto contrario. Rammento un nodo dovuto rinnovare tre volte, un bottone passato e ripassato in un occhiello che non era il suo, un riccio che s’ostinava a cadermi sulla fronte e mi tenne davanti allo specchio per un paio di minuti.
Quando fui pronta, esitai ad uscir dalla stanza; perchè, sebbene avessi una gran voglia di salutare Verdani, non volevo aver l’aria di cercarlo. D’altra parte però non era giusto ch’io rimanessi, contro le mie abitudini, chiusa in camera fino al momento della colazione. Uscii quindi in cappellino e mantiglia, deliberata ad andar fuori di casa per alcune spese dopo aver dato il solito buon giorno alla signora Celeste. Chi sa, del resto, che confusione s’era fatta la Gegia [66] nella sua zucca vuota? Chi sa se Verdani si sognava neanche di attendermi?
Ma la Gegia aveva colto nel segno, e il professore mi attendeva davvero. Anzi egli doveva essere alle vedette, perchè appena sentì i miei passi mi venne incontro tendendomi tutt’e due le mani.
— Desideravo — egli principiò alquanto impacciato, e guardando il mio cappellino — desideravo dirle qualche cosa.... Ha urgenza di uscire? — E poichè io tardavo a rispondere, egli insistè: — Avrei urgenza io.
— Quand’è così — susurrai con un filo di voce.
Egli m’introdusse nel salottino ove la signora Celeste stava una parte del giorno a lavorar di calze o a leggere l’Adriatico e il Pettegolo, e ove io venivo di tratto in tratto a farle compagnia con un ricamo o con un libro. Adesso la signora Celeste non c’era; eravamo soli, il professore ed io.
Verdani mi pregò di sedere. Egli si mise a camminare in su e in giù, come aveva camminato nella propria stanza quelle sere in cui io vedevo la sua ombra sul muro della casa dirimpetto. Dopo un paio di giri si fermò, s’appoggiò alla spalliera d’una seggiola e mi chiese senza preamboli: — Quando parte, signorina Elena?
— Quando parto?... Ma.... lo sa bene.... Non più tardi di giovedì mattina.... Se devo imbarcarmi venerdì....
— Ed è necessario, assolutamente necessario che s’imbarchi questa settimana?
— Mio fratello mi scrisse di prendere il vapore del 18 o del 25.... Quello del 18 non l’ho preso; dunque....
— E se domandasse una proroga?...
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— Al punto in cui siamo?... Dopo aver fatto tutti i preparativi, dopo essermi accommiatata da quasi tutti i miei conoscenti?... No, no, nemmen per sogno....
— Se poi ha tanta premura di lasciarci! — egli interruppe con amarezza.
— O professore — esclamai, e sentivo un nodo alla gola — non sia ingiusto.... Crede che me ne vada fino al Caucaso per un capriccio?... Avrò avuto torto ad accettar con tanta precipitazione l’offerta di mio fratello, ma si metta al mio posto.... al posto d’una ragazza che non è coraggiosa, che non è forte, che non ha spirito d’iniziativa.... Vedevo non lontana la miseria, l’umiliazione di ricorrere alla carità degli estranei, e afferrai la prima tavola di salute che mi fu gettata.... Ormai....
— E non c’è nulla, nulla che potrebbe trattenerla? — seguitò Verdani con calore.
Mi sforzai a dissimulare con una facezia la mia crescente emozione. — Vuol che speri in una lotteria guadagnata senza biglietti, in un impiego ottenuto senza le cognizioni occorrenti per esercitarlo?
La fisonomia di Verdani ebbe una contrazione dolorosa. — Non c’è altro, non c’è proprio altro?
Dio mio! Che cos’è questo riserbo che c’impone di reprimere i nostri slanci, di nascondere i nostri sentimenti? È una virtù o è un vizio? Io lo vedevo soffrire; potevo forse con una parola dissipar le sue sofferenze, infranger l’ultima tenue barriera che si ergeva fra noi e la felicità, e non osavo dir quella parola, non osavo neanche guardarlo in viso.
— Ebbene — ripigliò Verdani mutando posizione e venendo a sedermisi accanto — scriverò a mia madre che m’ero ingannato.
[68]
— Sua madre? Come c’entra la sua mamma?
— Oh se c’entra!... Avevo affrettato la mia gita a Bologna per questo. Volevo consultarla, lei che è tanto savia e buona; volevo comunicarle un mio disegno.... S’ella lo disapprovava avrei chinato il capo in silenzio, perchè non oserei far cosa di cui mia madre avesse a dolersi.... Ma ell’approvò tutto; ella mi disse con la sua solita, cieca fede in me: Ciò che tu fai è ben fatto; le persone che tu ami io le amo; c’è sempre posto per esse nel mio cuore e nella mia casa....
Io tremavo come una foglia.
— Professore.... — balbettai confusa.
— Non mi chiami così — egli proruppe con impeto abbandonando la mano ch’io avevo lasciata nella sua. E seguitò con voce raddolcita: — I miei amici mi chiamano Verdani, mi chiamano Gustavo. — Egli scosse tristamente il capo e soggiunse: — È vero ch’ella mi conosce appena. Le son vissuto accanto parecchie settimane senza occuparmi di lei, sfuggendola quasi.... Però, quando il caso ci avvicinò, quando ci scambiammo le prime confidenze, quando la seppi sul punto di prendere la via dell’esilio, provai dentro di me qualche cosa che non avevo provato mai.... La mia scuola, i miei studi aridi e gelati non mi bastavano più; sospiravo il momento d’incontrarla, sospiravo l’ora del pranzo.... Mi pareva che ci fosse una certa analogia fra i nostri caratteri; anch’ella era timida, era riservata come sono timido e riservato io, e la semplicità de’ suoi modi spiccava maggiormente per l’affettazione di altri.... sa bene a chi alludo.... di altri che s’era pur fitto in capo di piacermi.... O signorina, se fossi stato ricco, avrei ben vinto prima la mia ritrosia.... Ma come non esitare se non potevo [69] offrirle, per ora almeno, che un nome oscuro, una vita modesta, fatta di privazioni e di sacrifizio? Ciò non ostante, lo vede, il coraggio lo avevo trovato; ma capisco ch’era un sogno.... un bel sogno....
Ah, in quell’istante trovai io pure il coraggio di dire a Verdani che il suo sogno era stato il mio sogno, che quello ch’egli mi offriva superava di molto ciò ch’io avessi osato chiedere alla fortuna, che lo amavo....
Egli mi strinse sul petto bisbigliando con accento ineffabile: — Elena, anima mia....
Allorchè mi sciolsi dalle sue braccia, mi sovvenne di Odoardo. — E mio fratello che m’aspetta, che mi ha mandato il denaro pel viaggio?
— Tuo fratello? — disse Gustavo. — Gli telegraferai che non puoi partire. Il resto glielo spiegheremo per lettera.... Ha vissuto tanti anni senza di te; si adatterà a vivere ancora.... In quanto al danaro, se non vorrà lasciarlo alla sorella come regalo di nozze, ho qualche risparmio, glielo restituirò io.... Sarà il dono che farò alla mia fidanzata.
Gustavo mi presentò come tale alla signora Celeste, la quale mi abbracciò con trasporto, vantandosi d’aver contribuito a questo lieto avvenimento.... Mai, mai le passò pel capo di far sposare ad un uomo come il professore quella caricatura della Giulia.... Sarà....
Quel giorno stesso, dopo pranzo, mi parve che una nuvola oscurasse la fronte di Gustavo, e gliene chiesi la ragione.
Egli mi rispose con un’altra domanda: — Sei ben sicura di non pentirti?
— O Gustavo....
— Fosti colta così di sorpresa!... Talvolta il cuore [70] umano inganna sè medesimo.... Amandomi oggi, t’è parso d’avermi amato anche prima.... Se fosse un’illusione?
Non gli risposi; gli feci segno d’attendere, entrai nella mia camera e ne presi questo libro, che deposi sul tavolino davanti a lui.
Egli m’interrogò con lo sguardo.
— È un libro — io spiegai — da leggere questa notte.... in quiete.... Non subito.... no.
A malgrado del mio divieto. Gustavo aveva sollevato la coperta dell’album, e ne andava sfogliando le pagine.
— Una specie di diario?
— Appunto.
— Di tuo pugno?
— Di mio pugno.... Ma leggerai dopo... te ne prego.
Gustavo ubbidì a malincuore.
La mattina seguente lo vidi raggiante di contentezza. — O cara, cara — egli mi disse. — Ora non dubito più.... Non puoi immaginarti che gioia sia il sapere d’essere stati amati quando non s’era detto ancora che si amava.
Io sorrisi. — Sì che me l’immagino, poichè è quello che è toccato a me.
— Hai ragione — egli soggiunse abbracciandomi teneramente. — Adesso però convien scrivere l’epilogo.
Mi strinsi nelle spalle.
— Che importa? Questi sfoghi dell’anima s’addicono più ai giorni tristi che ai lieti.
— No, no — insistè Gustavo. — È una storia intima che non può rimanere incompiuta. Devi promettermi di finirla.
Glielo promisi. Ma non trovavo mai il verso di accingermi [71] all’opera. Ieri egli me ne rimproverò con dolcezza. — Se tardi troppo scriverai di maniera. Scommetto che a quest’ora hai dimenticato molti particolari del colloquio che decise della nostra sorte.
— Non scommettere — replicai. — Perderesti.
Fra poco darò da leggere queste pagine a Gustavo, ed egli, leale com’è, sarà costretto a riconoscere che avrebbe perduto. Sono certa di non aver nulla dimenticato e nulla inventato; dalla prima all’ultima pagina la mia semplice cronaca non ha che un pregio, la sincerità.
[72]
L’Università di X è da qualche tempo un po’ scaduta di credito; ma dieci anni or sono essa era certo tra le più riputate del Regno, e vi si contavano a dozzine i professori aventi un nome celebre nella scienza. Nella facoltà giuridica il Bertioli, il Soreni, il Mereghini, nella fisico-matematica il de Ziani e il Luserta, nella medico-chirurgica l’Astigiano e il Barelli, in quella di filosofia e lettere il Meravigli, il Dalla Volpe, il Frusti, il Teofoli, il Canavese, il Pontevecchi, ch’era anche rettore. È verissimo che molti di questi uomini insigni appartenevano alla classe dei professori che chiameremmo decorativi, perchè le loro relazioni con l’Università si limitavano a qualche lettera scritta al segretario economo per farsi mandar lo stipendio. Il Bertioli, per esempio, era senatore e i suoi doveri di cittadino lo costringevano a frequentare le sedute della [73] Camera vitalizia; il Sereni e il Mereghini erano tutti e due deputati e avevano obblighi uguali verso la Camera elettiva; anzi il Mereghini, nel cui cranio capace alloggiavano comodamente le legislazioni di tutti i paesi del mondo, poteva considerarsi un’appendice del Ministero di grazia o giustizia, ove i successivi titolari dei portafogli si servivano di lui per l’eterno rimaneggiamento dei codici. Ciò non gl’impediva del resto di fare all’Università una lezione ogni dicembre annunziando la materia che avrebbe trattato e che naturalmente non trattava nel corso dell’anno. Il de Ziani e il Luserta, onore della facoltà matematica, ambidue senatori in pectore, erano anch’essi pieni di cariche, membri dell’Accademia dei Lincei, membri del Consiglio superiore dell’istruzione pubblica, ecc., ecc., autori di relazioni e di programmi di studi in perfetta contraddizione fra loro. Dell’Astigiano e del Barelli non si parla. Erano medici di fama europea e non potevano rifiutare l’opera loro a chi li chiamasse a consulto in Italia e fuori d’Italia. Spesso li si chiamava tutti e due in una volta, giacchè essendo l’Astigiano profondo nella diagnosi e il Barelli nella terapeutica poteva accadere che il primo, infallibile nel determinare la natura del morbo, sbagliasse nel suggerire la cura, e il secondo, senza rivali nella cura, prendesse in iscambio un male per l’altro.
Del rimanente questo stato di cose conciliava le vedute delle famiglie degli scolari con quelle degli scolari medesimi. Le famiglie si riempivano la bocca coi gran nomi dei professori dei loro figliuoli; i figliuoli esultavano delle continue assenze dei professori e mancavano regolarmente alle lezioni dei sostituti.
[74]
Il rettore Pontevecchi, celebre orientalista ma non energico uomo, si consolava pensando che nella facoltà di filosofia e lettere, ch’era proprio la sua, le cose procedevano alquanto diversamente. In tanti professori non c’era che un unico deputato, il Meravigli, e anche quello andava di rado alla Camera perchè l’aria di Roma non gli era propizia. Gli altri erano puramente uomini di studio e non volevano saperne della vita pubblica.
Primeggiava tra questi il Teofoli, professore di filosofia, spirito largo ed acuto, parlatore limpido ed efficacissimo, ammirato dalla scolaresca, stimato e rispettato da tutti i colleghi. Due di essi, il Dalla Volpe e il Frusti, lo seguivano come la sua ombra, e la gente, a forza di vedere quei tre sempre insieme, aveva preso a chiamarli per celia i tre anabattisti. Il Dalla Volpe aveva moglie, una moglie terribile fino a trentacinqu’anni per la sua galanteria, da trentacinqu’anni in poi per la sua devozione: il Frusti era vedovo e grande odiatore delle donne; il Teofoli pareva deliberato a rimaner scapolo, e sebbene non partecipasse ai pregiudizi del suo amico Frusti contro il bel sesso, preferiva tenersene alla larga e frequentava soltanto il salotto della contessa Ermansi, ch’era una signora matura.
Ben provveduto di mezzi di fortuna, il professore Clemente Teofoli aveva un bel quartierino, una magnifica biblioteca e un’ottima tavola a cui egli invitava spesso qualche collega, e, nelle grandi occasioni, anche qualche discepolo preferito. Pegli altri due anabattisti, non c’è bisogno di dirlo, c’era sempre un posto e una posata disponibile. Il Dalla Volpe in particolare si rifugiava dall’amico il venerdì e le [75] altre vigilie, per evitare la cucina di magro che la sua degna consorte gli avrebbe inflitta inevitabilmente.
Quei pranzetti, che la signora Pasqua, governante del professore Teofoli, una virago baffuta e contro le tentazioni, sapeva ammannire con arte sopraffina, erano rallegrati da discussioni dottissime fra i tre inseparabili. Il Teofoli parlava volentieri dell’opera ch’egli stava maturando da più anni sul tema già trattato alla fine del secolo scorso dal Dupuis, L’origine delle religioni; il Frusti e il Dalla Volpe facevano il possibile per tirare il discorso l’uno sulla storia antica e l’altro sulla moderna o a meglio dire su quel periodo di storia antica e moderna ch’essi prediligevano. Poichè, a voler essere sinceri, i due amici brillavano piuttosto per la profondità che per la varietà delle ricerche. Il Frusti non si occupava volentieri, nella storia moderna, che della rivalità tra Carlo V e Francesco I, e il Dalla Volpe, nella storia antica, non aveva occhi che per le gesta della 19ª dinastia tebana le cui glorie cominciano con Setti I, soprannominato Merenaphtha o Menaphtha (caro a Phtah), le cui imprese però, come sanno anche gli studenti di ginnasio, furono confuse con quelle di Ramesse II, suo figlio. Una volta preso l’aire, il dotto uomo non si fermava più, salvo che qualcheduno non trovasse il modo di richiamarlo alla memoria delle sue tribolazioni coniugali. Allora egli dimenticava Menaphtha e Ramesse e sfoggiava una facondia mordace che agli spiriti frivoli poteva parer preferibile alla grave e ponderata eloquenza con la quale egli esponeva le vicende memorabili dell’Egitto.
— Ero un bel somaro a pigliarmi tanti fastidi in [76] gioventù per le scappatelle della mia signora consorte, — egli diceva sovente. — Quelli eran tempi beati in confronto d’adesso. C’erano, sì, delle chiacchiere in paese; c’erano spesso tra i piedi dei seccatori; ma almeno la Luisa era d’un umore gaio, piacevole, ed era bellina, ciò che non guasta. Le vere calamità, son principiate dopo quel fatale vaiuolo che la lasciò tutta butterata. Non vedendosi più un cane intorno, le son spuntati i rimorsi, l’è venuto il bisogno imperioso di espiare le sue colpe e di rimettersi in grazia di Domeneddio. E vigilie, e digiuni, e ogni momento in chiesa, alla messa, ai vesperi, alla benedizione, al confessionale, e preti, e frati e monache in casa.... e, s’io arrischio una parola, mi sento a rispondere: — Se ho commesso dei falli non puoi dire ch’io non ne faccia penitenza. — Così ho il gusto di aver la confessione esplicita di mia moglie, e quello di far penitenza insieme con lei.... Ah le donne!
Il nostro Teofoli notava che quando si ha avuto la sfortuna d’incappar male non è lecito giudicar tutte le donne alla stregua di quelle che ci hanno fatto soffrire.
Ma questa ragionevole osservazione dava sui nervi al terzo commensale, il professore Frusti. — È falso. Anzi è precisamente l’opposto. I soli che possono esser indulgenti con le femmine sono quelli che incapparono male. A loro almeno è permesso di credere che ce ne siano d’una pasta diversa dalle poco di buono che conoscono. Chi ha conosciuto le migliori non ha più illusioni possibili. E la mia era una delle migliori. Tutti lo dicevano, tutti continuavano a dirlo.... anche quando non c’era più un dubbio al [77] mondo ch’ella mi menasse pel naso. E io sono intimamente convinto che avessero ragione.... Ma era donna e faceva la sua parte di animale nocivo.
Dopo queste dichiarazioni ripetute ogni tanto su per giù con le stesse parole e la cui amarezza lasciava sospettare una ferita ancora sanguinante, il professor Frusti aveva l’abitudine di tracannare un bicchiere di vino. Qualche volta, se la signora Pasqua era presente (ed ella usava dar di quando in quando una capatina in salotto da pranzo per sentir lodare i suoi manicaretti), egli si appellava al giudizio di lei ch’era uno spirito assennato e non aveva mai voluto esser confusa con le persone del suo sesso.
E la signora Pasqua approvava energicamente. — Parole d’oro — ella diceva con la sua voce grossa. — Son tutte tagliate sul medesimo stampo.
Le dispute fra i tre amici si prolungavano sovente durante la passeggiata e s’inacerbivano nelle sere in cui Teofoli, invece di andare in birreria coi colleghi, si recava dalla contessa Ermansi.
Poichè Frusti e Dalla Volpe non gli potevano perdonare questa sua debolezza. Com’essi non avevano mai accettato gl’inviti di quel bas bleu ch’era la Ermansi, così avrebbero preteso che non li accettasse lui e che non si prestasse gentilmente a far la parte di bestia rara nel serraglio della contessa.
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La conoscenza di Teofoli con la contessa Susanna Ermansi datava dal giorno ch’egli aveva tenuto all’Università una prolusione a cui assisteva il fiore della cittadinanza e nella quale erano adombrate le idee fondamentali dell’opera sull’origine delle religioni. Non si ricordava all’Università un trionfo simile. Che il Teofoli avesse ingegno e dottrina all’altezza del tema lo sapevano tutti, ma non tutti presumevano che insieme col filosofo non rifuggente da nessuna audacia dell’intelletto ci fosse in lui un poeta atto ad intendere ogni aspirazione dell’anima, ogni inquietudine della coscienza. Nulla nel suo discorso che ricordasse la critica superficiale, beffarda del secolo XVIII, ma una larga tolleranza, ma una simpatia schietta per tutti gli sforzi con cui l’umanità tenta di penetrare il mistero che ne avvolge, per tutte le ipotesi pie che il sentimento tramuta volentieri in certezze. Così, mentre gli uni applaudivano l’erudito, gli altri battevano le mani all’artista, che vestiva di forme elettissime gli astrusi concetti, e l’eleganti donnine, alle quali tra la messa, il magro e il confessionale non dispiace qualche spruzzo di libero pensiero, erano le più entusiaste ammiratrici del facondo professore che si faceva perdonare l’ardito razionalismo con un caldo soffio d’idealità.
In quel dì memorabile Teofoli non potè esimersi dall’esser presentato a una ventina di contesse, marchese, baronesse, eccetera eccetera, che andarono a [79] gara per colmarlo d’elogi e per sollecitarlo a tener presto una serie di conferenze a cui esse si sarebbero fatte una festa d’intervenire.
Non c’è dubbio che la vanità dell’uomo era lusingata da questo incenso; tuttavia, egli non perdette il suo sangue freddo e non si lasciò prendere negli ingranaggi fatali del cosidetto bel mondo. Si schermì molto cortesemente dagl’inviti che gli piovevano da ogni parte, si schermì dal tener le conferenze che gli si domandavano, e di tante nuove relazioni che avrebbe potuto iniziare non ne accettò che una sola, quella della Ermansi, il cui salotto era frequentato anche da parecchi colleghi dell’Università e della quale egli conosceva da un pezzo il marito. Superba di questa preferenza, la contessa colmava il professore d’attenzioni e di regalucci; lo sapeva appassionato dei fiori e gli mandava le più belle rose del suo giardino; lo sapeva ghiotto delle frutta e gli mandava le primizie del suo orto; e quando il conte marito tornava dalla caccia il professor Teofoli era sicuro di ricevere dal palazzo Ermansi o un invito a desinare o il dono d’un capo di selvaggina, che, dopo esser stato oggetto delle cure più amorose da parte della signora Pasqua, era servito in tavola a uno dei soliti pranzetti con l’intervento di Dalla Volpe e di Frusti. In queste occasioni Teofoli diceva scherzosamente ai suoi due commensali: — Dovete pur convenire che la mia amicizia con la Ermansi ha il suo lato buono.
— Sì, sì, — borbottavano gli altri; — se tutto si limitasse a ricever dei regali di frutta e di selvaggina. Ma presto o tardi la Ermansi ti farà qualche brutto tiro.
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— O che tiro volete che mi faccia? — esclamava Teofoli. — Farsi sposare no sicuramente. È maritata.
— Le donne maritate possono restar vedove.
— Il conte Antonio gode una salute di ferro. E in ogni caso la contessa è fuori di combattimento.
— Non si sa mai.... Del resto in casa sua ci vanno anche delle signore giovani.
— Oh che uccelli di malaugurio! — replicava Teofoli infastidito. — Per le giovani son vecchio io.... E sul serio, avete paura ch’io mi metta a fare il galante?
I due amici tentennavano la testa con aria lugubre, e Frusti sentenziava con la sua voce cavernosa: — Tutto è possibile.
In verità non era facile rappresentarsi il nostro Teofoli sotto l’aspetto d’uomo galante. In primo luogo gli mancava quello che i francesi chiamano le physique de l’emploi. Tozzo della persona, con una fisonomia espressiva ma irregolare, con certi movimenti bruschi e nervosi, egli non era mai stato l’Apollo del Belvedere. Nell’età critica in cui noi l’incontriamo, cioè a cinquant’anni sonati, egli aveva già la vista indebolita dalle lunghe veglie sui libri, aveva sull’ampia fronte i segni dell’intensa applicazione mentale, e i capelli radi e grigi non lasciavano nemmeno sospettare la chioma folta e ricciuta ch’era stata forse l’unica bellezza della sua infanzia. Vestiva con proprietà ma senza la minima ricerca d’eleganza; soprabito nero di taglio professorale, cravatta pur nera, calzoni e guanti scuri, cappello a tuba, occhiali fissi, mazza d’ebano col pomo d’avorio. Certo che a sentirlo discorrere si dimenticava [81] la sua apparenza infelice. Non lo si poteva confondere coi Dalla Volpe, i Frusti e similia, che portavano la cattedra dovunque andassero. Egli era piacevole, arguto, alieno da qualunque pedanteria, e aveva uno spirito così largo e una cultura così varia che nessun argomento grave o leggero lo coglieva alla sprovveduta. E anche con le signore era amabile e disinvolto più che non si sarebbe supposto in un uomo tanto dedito agli studi. Non che di tratto in tratto non gli accadesse di commettere qualche goffaggine, di toccare qualche tasto falso, di dir qualche madrigale che sentiva di rancido e di stantìo, ma eran peccatucci veniali che gli si perdonavano volentieri, in grazia delle molte sue qualità.
Anzi alla contessa Susanna non bastava averlo frequentatore assiduo del suo salotto; ell’avrebbe voluto accaparrarselo per la sua villeggiatura. — Venga a passare un mesetto con noi.... due settimane almeno.... nel nostro romitorio di Sant’Eufemia, a tre ore dalla città, in luogo tranquillo, con aria salubre e vista incantevole.... Venga, venga. Farà un vero piacere a me e a mio marito.... E sarà in libertà piena.... Potrà portarsi i suoi libri, le sue carte, potrà studiare.... Da noi non ci sono cerimonie, non ci sono etichette.... Ospiti, o nessuno, o pochissimi, e gente alla buona.... Venga, venga.
Il conte Antonio faceva eco alla moglie. E pigliando a parte il professore, soggiungeva in segreto: — Se ci onora della sua visita le mostrerò la mia collezione di edizioni rare del 1600. La tengo in campagna per godermela nelle giornate di brutto tempo.... Qui ho altre occupazioni.... Ma in campagna [82] quando non posso andare alla caccia non trovo divertimento maggiore che quello di starmene fra i miei vecchi libri.
Notiamo fra parentesi che chi avesse argomentato da ciò che il conte Antonio Ermansi fosse una persona colta avrebbe pigliato un bel granchio. Il conte Ermansi era un bibliomane; nulla più e nulla meno. Egli non amava i libri per sè, ma per le loro curiosità tipografiche. E anche le sue ricerche in proposito si limitavano al secolo XVII. La più preziosa opera stampata nell’anno 1599 non valeva per lui quanto la più stupida stampata nel 1601. D’altra parte, nello stesso secolo XVII egli non si curava affatto degli autori celebri, noti, i cui scritti erano stati pubblicati e ripubblicati; a’ suoi occhi non avevano pregio che gli oscuri, quelli che nessuno conosceva, quelli che forse in tutta la loro vita non avevano dato alla luce che un misero opuscolo di venti pagine. Già il conte Ermansi non leggeva nè i volumi grandi, nè i piccoli; una volta sicuro che del libercolo da lui scovato fuori su un muricciuolo non c’erano che cinque o sei esemplari in Europa, egli era contento come una Pasqua. Del resto, non era più noioso degli altri della sua specie.
Comunque sia, è probabile che la collezione del conte Ermansi esercitasse una scarsa attrattiva sul professore Teofoli e contribuisse a fargli rimandar da un autunno all’altro l’accettazione dell’invito. Egli si scusava adducendo la sua antica abitudine d’intraprender nelle vacanze un lungo viaggio fuori d’Italia, a Parigi, a Vienna, a Berlino, a Londra, a Edimburgo, allo scopo di rovistar biblioteche, di annodare o di rinfrescar conoscenze coi confratelli [83] di studio sparsi pel mondo. Guai per lui se cedeva alla tentazione d’impigrirsi negli ozi campestri.
Ma gli Ermansi non si davano per vinti. No, no, badasse a loro. Un po’ di quiete è indispensabile sopratutto agli uomini che affaticano molto il cervello. Avrebbe lavorato meglio dopo. In ogni modo, non si pretendeva ch’egli rinunziasso al suo viaggio. Avrebbe fatto un viaggio più breve, ecco tutto.... Anzi, se si fosse trovato male, sarebbe ripartito il giorno dopo il suo arrivo, senza che nè lei nè suo marito se ne adontassero.... Ma s’immagini. Con un vecchio amico!...
Alla lunga Teofoli si lasciò carpire una mezza promessa per l’autunno 187.... Non voleva impegnarsi, ma insomma, se gli era possibile, al ritorno dalla Germania sarebbe passato a fare una visitina a Sant’Eufemia.
E avvenne proprio così.
Dalla Volpe e Frusti non seppero nulla di questa visita. Nelle vacanze i tre indivisibili si dividevano. Quell’originale di Dalla Volpe, appena finiti gli esami, partiva per ignota destinazione, guardandosi bene di dare a chicchessia il suo indirizzo. Non voleva che la moglie potesse raggiungerlo nè con la persona nè con le lettere. — Il mio matrimonio — egli diceva — non mi accorda ormai altro benefizio che questo; di poter viver tre mesi lontano dalla mia [84] dolce metà, di starmene pacificamente in qualche angolo remoto del mondo cullandomi nella beata illusione d’esser scapolo o vedovo, o pensando almeno che la cara Luisa urla, strepita, sbuffa ed espia i suoi vecchi peccati senza di me.
Fedele al suo programma, durante le sue assenze non scriveva a nessuno. Un anno lo si era visto in una dello stazioni alpine più romite e solitarie; l’anno dopo si seppe ch’egli era in Egitto alle rovine di Tebe dove corso il rischio di morire da un colpo di sole pigliato nel decifrar geroglifici.... Ma neanche la paura dei colpi di sole l’avrebbe indotto a rinunziare a quello ch’egli chiamava il suo bagno nel celibato.
In quanto a Frusti, egli rimaneva sepolto dal luglio all’ottobre d’ogni anno in qualche biblioteca d’Europa a ricercar documenti relativi a Francesco I e a Carlo V. E ogni nuova scoperta era per lui una grandissima gioia; non però una gioia senza mistura d’amaro, accadendogli spesso di trovare un documento favorevole a Francesco I quand’egli stava per mostrar le sue simpatie a Carlo V e uno favorevole a Carlo V quand’era sul punto di giungere a una conclusione opposta.
Per solito Frusti e Dalla Volpe erano di ritorno dalle loro peregrinazioni soltanto dopo l’amico Teofoli, il quale nel suo zelo per l’Università non voleva mancare nemmeno alla prima seduta del Consiglio accademico. Si pensi quindi che maraviglia fosse la loro quando, arrivati a X la mattina stessa dell’apertura dei corsi, seppero che Teofoli non sarebbe giunto che fra due o tre giorni. Peggio poi quando udirono il resto dalla signora Pasqua scandalizzata. [85] Il professore era stato in Germania sino alla metà di ottobre; poi s’era fermato un paio di giorni nella villa dei conti Ermansi; di là era venuto a casa per poche ore, tanto da comperarsi alla sartoria della Ville de Rome un vestito completo e da far qualche altra spesuccia; e la sera stessa, senza dire nè ai nè bai, senza voler dare una spiegazione soddisfacente a lei, la signora Pasqua, che pur ne aveva diritto, aveva ripreso il treno per Sant’Eufemia. Ah c’era del buio, molto buio. Un uomo come il professore Teofoli, un uomo ch’era stato sempre così savio, così costumato!...
Frusti e Dalla Volpe si guardarono tentennando il capo. L’avevano sempre detto che la relazione degli Ermansi doveva esser fatale al loro amico.
La condotta del nostro Teofoli al suo ritorno non tardò a giustificare le maggiori apprensioni. Già bastava vederlo per capire che non era più quello di prima. C’era nella sua toilette, nella sua andatura, nell’espressione della sua fisonomia qualcosa di civettuolo che lo rendeva irriconoscibile. Dal rettore al bidello, dai professori agli studenti tutta l’Università era commossa da questa trasformazione. Ogni giorno se ne sentiva una di nuova. Teofoli s’era abbuonato dal parrucchiere, e aveva il fazzoletto impregnato d’acqua di Colonia! Teofoli aveva ordinato al confettiere Grandi di spedire a Sant’Eufemia (ove gli Ermansi si trovavano ancora) una colossale scatola di dolci! Teofoli s’era comperato due cravatte di raso color crema e un paio di lenti da sostituirsi in certi casi agli occhiali, troppo solenni e cattedratici! Teofoli, invece della sua mazza d’ebano col pomo d’avorio, aveva un leggero bastoncello di canna [86] d’India! Teofoli aveva minacciato di licenziare la signora Pasqua s’ella si permetteva di seccarlo con le sue querimonie!
Nè le osservazioni dei due indivisibili erano accolte meglio. Egli si meravigliava delle loro meraviglie. S’era forse impegnato a vestir sempre ad un modo? O che un professore non potrà mettersi una cravatta di raso chiaro e farsi ravviare dal parrucchiere i pochi capelli che gli restano? Credevano di giovare alla scienza con simili pedanterie? No, no, egli era persuaso che quell’abisso voluto scavare fra gli studiosi ed i semplici mortali era un ostacolo alla diffusione del sapere. In quanto a lui era risoluto a esser un uomo come tutti gli altri, e non trovava necessario di andar a pescare dei motivi misteriosi a una determinazione così naturale.
— Teofoli, non ce la dai ad intendere — dicevano sarcasticamente Frusti e Dalla Volpe. — Tu non ti profumi d’acqua di Colonia per agevolar la diffusione del sapere. Qui sotto c’è una femmina.
Il professore alzava le spalle in atto stizzoso. — Che femmina, che femmina?
Ma ogni volta che gli toccavano questo tasto, diveniva rosso come un papavero.
Che la femmina ci fosse non c’era dubbio. Restava a sapere chi fosse.
Era evidente che Teofoli doveva averla incontrata in villeggiatura dagli Ermansi ove quell’autunno c’era stata più gente del solito, e ove con una magnanimità degna di lode la contessa Susanna, riconoscendo la propria insufficienza fisica, aveva invitato anche cinque o sei signore giovani e belle. La più bella, la più giovine era la contessa Giorgina [87] Serlati, sposa da due anni di un lontano parente degli Ermansi, vissuta fino allora tra Roma e Parigi e rassegnata adesso, per riguardi di economia, al soggiorno meno costoso di X.... Questa Giorgina non s’era vista a X che di passaggio subito dopo il suo matrimonio, e aveva prodotto una notevole impressione per la singolare avvenenza dell’aspetto e per la festività un po’ rumorosa e bizzarra del carattere. La dicevano adesso ancora più seducente, ancora più originale; insomma una di quelle che paiono nate apposta per corbellare gli uomini. Aggiungasi un marito melenso, insignificante, persuaso da un pezzo della vanità d’ogni suo tentativo d’invigilar la moglie, e disposto a chiuder un occhio pur di esser libero d’occuparsi de’ suoi cavalli e delle sue galanterie di bassa lega.
Che fosse mai questa la donna che faceva girar la testa al professore Teofoli? È ben vero ch’egli poteva esser suo padre; ma non importa. In amore, le bestialità più grosse sono le più probabili, e non c’era da stupirsi se Teofoli a cinquant’anni sonati aveva preso una cotta per una donna di ventidue o ventitrè. In ogni caso, la faccenda si sarebbe chiarita appena gli Ermansi avessero abbandonato la villeggiatura, tirandosi dietro gli ospiti che rimanevano ancora presso di loro. E i Serlati erano appunto tra questi.
Ora il 25 novembre di quell’anno il professor Teofoli finì la sua lezione dieci minuti prima che il bidello suonasse la campana, e, congedandosi nell’atrio da tre o quattro studenti che avevano l’abitudine di accompagnarlo a casa, entrò in un fiacre appostato presso il portone dell’Università.
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— O dove andrà il professore? — chiesero due di quei bravi giovinotti.
— Ve lo saprò dire più tardi — soggiunse un terzo che non aveva fretta di far colazione. E senza por tempo in mezzo montò in un altro fiacre che passava di là ed era vuoto.
Teofoli non si recava in nessun luogo illecito e misterioso. I due fiacre si fermarono alla stazione. Il professore discese dal suo e lo studente fece lo stesso; il professore si mise a passeggiare su e giù in atto d’uomo che aspetta, lo studente andò a sedere al caffè.
Circa dieci minuti dopo giunse una corsa, e Teofoli ch’era riuscito a spingersi fin sotto la tettoia ricomparve in mezzo a una folla di persone tra le quali lo studente riconobbe i coniugi Ermansi. Ma più dei coniugi Ermansi lo colpì una signora giovine, alta, bellissima, dai grandi occhi bruni che lampeggiavano sotto la veletta, dal corpo svelto e flessuoso, dalla voce argentina, squillante. La seguiva a pochi passi di distanza un uomo pur giovine, in soprabito grigio, dall’aria annoiata, certo il marito. Al fianco di lei c’era Teofoli e le parlava animatamente, e teneva sul braccio un suo impermeabile, e si tirava dietro col cordino una cagnetta pinch alla quale la bella signora slanciava degli sguardi teneri chiamandola a nome: Darling, Darling. Facevano parte della brigata altri tre o quattro signori, senza tener conto d’un codazzo di servi d’ambo i sessi, carichi di valigie, di sacchi da viaggio, di panieri, d’ombrelli e perfino di gabbie di canarini.
Fuori c’erano le carrozze, e la comitiva si divise con gran dimostrazioni di cordialità. Gli Ermansi [89] salirono in un landau chiuso, l’altra coppia prese posto in un legno scoperto insieme con la cagnetta. Però nel momento che il cocchiere stava per allentar le redini sul collo dei cavalli la signora disse una parolina a Teofoli, e questi ch’era ancora ritto davanti allo sportello mise il piede sul montatoio e con una prestezza di movimenti di cui non lo si sarebbe creduto capace fu in un attimo nella carrozza seduto accanto alla bella persona che lo aveva invitato.
Rinvenuto appena dalla meraviglia di veder il suo professore dileguarsi in quell’equipaggio signorile e al fianco di quella splendida fata, lo studente colse a volo alcune frasi d’un colloquio fra due zerbinotti ch’erano arrivati anch’essi in compagnia degli Ermansi e che s’avviavano in città a piedi seguiti da un fattorino a cui avevano consegnato il loro piccolo bagaglio.
Uno di questi zerbinotti che lo studente conosceva di nome, il marchese di Montalto, diceva dispettosamente all’amico: — Alla lunga quel balordo di Teofoli dà sui nervi.
— Non crederai mica che la Serlati lo prenda sul serio?
— Lo so anch’io che non lo prende sul serio. È però una gran noia l’averlo sempre tra i piedi.
— Speriamo che quando ella lo avrà reso completamente ridicolo lo getterà da parte.
— Sì, sì.... intanto si rende ridicola anche lei.
— Oh — notò l’interlocutore che prendeva le cose con maggior calma — una donna bella come la contessa non si rende mai ridicola.
Lo studente non intese più di così, ma quello che [90] aveva inteso, unito con quello che aveva visto, gli bastò per riferire ai suoi condiscepoli che la donna alla quale il professore Teofoli prestava i suoi omaggi era la contessa Serlati, una creatura deliziosa, nel primo fiore degli anni, un bocconcino insomma più adattato agli scolari che ai professori. E quei bravi ragazzi che pur volevano un gran bene a Teofoli, che lo consideravano un luminare della scienza, che l’avrebbero difeso accanitamente contro i suoi detrattori, provavano in quell’occasione una specie d’animosità contro di lui e si sentivano disposti a far eco a quel mezzo cretino del marchese di Montalto che con tanta disinvoltura gli aveva dato del balordo. Gli è che se non capita mai il momento in cui il balordo paia un uomo di spirito, ci sono anche troppi momenti nella vita in cui l’uomo di spirito pare, ed è davvero, un balordo.
Dunque non c’era più dubbio: il professore Teofoli era innamorato (spiritualmente, platonicamente) della contessa Giorgina Serlati. Questa malattia (non si poteva chiamarla con altro nome) l’aveva côlto in villa Ermansi e la contessa Susanna n’era dolente ed indispettita. Può darsi che nel suo dolore e nel suo dispetto entrasse un po’ di gelosia, poichè la Ermansi, senza essersi mai sognata che la sua relazione con Teofoli uscisse dai confini d’un’onesta intimità, s’era avvezza a considerare il buon professore come [91] cosa sua e non desiderava ch’egli stringesse dimestichezza con altre famiglie. Ma sarebbe ingiusto il negare che i suoi sentimenti fossero dettati da una sincera amicizia. Le spiaceva veder incamminarsi per una via senza uscita un brav’uomo a cui ell’era affezionata, e avrebbe voluto salvarlo finch’era in tempo. Bisogna convenire però che l’impresa non era facile. Mettere in guardia un innamorato contro la sirena che lo affascina è probabilmente un aggiunger esca al fuoco ed è poi quasi sempre un farselo nemico. D’altra parte il dire a una donna galante che non lusinghi un suo corteggiatore pel male che potrebbe derivarne a lui è come parlare a un sordo. La donna galante non consentirà mai, senza una suprema necessità, ad assottigliare la schiera dei suoi cicisbei. Se ce ne sono di quelli che soffrono, di quelli che muoiono, tanto peggio per loro. Così le pratiche della contessa Ermansi non riuscirono che a render più freddi i suoi rapporti con Teofoli e con la Serlati. Il professore continuava a frequentar casa Ermansi, ma era sulle spine quando non ci trovava la Serlati, e quando ce la trovava non aveva pace finchè non l’era seduto vicino. La Serlati, dal canto suo, si godeva a mettere in burletta la Ermansi, e ne imitava i modi, i gesti, la voce, e la chiamava dottoressa e maestra di buoni costumi.
Ma insomma, si domanderà, che cos’era questa Serlati? E a quale scopo faceva ammattire quel povero Teofoli che non era giovine, che non era bello, che non apparteneva alla società ov’ella brillava come uno degli astri più fulgidi?
La contessa Giorgina Serlati era una civetta; e [92] questa parolina di sette lettere è grave di significato. Essa è nel medesimo tempo un’accusa e un’attenuante. Perchè le civette di prima qualità, le civette di razza (e la Serlati era una di queste) hanno, voglia o non voglia, qualche cosa di spontaneo e d’irresponsabile che disarma le collere e tempera i rancori. Gli avvocati della forza irresistibile non potrebbero trovar campo più propizio alle loro eloquenti perorazioni. Quand’una è nata civetta, ella è tale senz’accorgersene, senza volerlo; vicina ad un uomo qualunque sia, sfoggerà le sue arti di seduzione, non perchè quell’uomo le piaccia, ma perchè non può a meno di far così. E se gli uomini saranno parecchi, avrà per ciascuno una preferenza, un’attenzione particolare. In un salotto, in un ballo, confiderà a questo il ventaglio mentre accorda un valzer a quello, permetterà che uno raccolga un suo guanto e che un altro raccolga un suo fiore, s’appoggerà voluttuosamente sul cavaliere che le dà il braccio, e lascerà cader uno sguardo pieno di simpatia sullo spasimante timido e sconosciuto che s’è messo sul suo cammino per vederla passare, per toccar un lembo della sua veste, per essere avvolto dal suo respiro. Susciterà desideri a cui non partecipa, speranze ch’ella non si sogna di appagare, rivalità che non si cura di estinguere, inconsapevole del male che fa, pronta a mostrare uno stupore ingenuo e sincero se vi sia chi osi rinfacciarglielo, perch’ella è convinta di far piuttosto del bene come fa il sole quando risplende sui forti e sugli umili. E il peggio si è che s’ella tenta correggersi e per un momento accenna a riuscirvi, ella perde le sue maggiori attrattive, onde quelli stessi i quali le rimproveravano la sua civetteria, le [93] rimproverano il suo sussiego e la sua mancanza di naturalezza, e a lei non resta altro partito da prendere che di tornare ciò ch’era prima.
Quest’era il caso della contessa Serlati. Per civetta era una civetta adorabile; se si fosse forzata a divenire una donna savia, assestata, casalinga, sarebbe parsa una creatura insignificante e melensa. Certo che non erano da invidiare coloro che si abbruciavano a’ suoi raggi, e il professore Clemente Teofoli era da invidiare meno di tutti. L’incontro della Serlati era stato per lui un colpo di sole ben più grave di quello che aveva minacciato l’esistenza del suo collega Dalla Volpe. Ella lo aveva sin dal primo istante domato con la sua bellezza e con la sua grazia, ell’aveva fatto vibrare in lui delle corde che non avevano vibrato mai, gli aveva aperto lo spiraglio d’un mondo ignoto al paragone del quale impallidivano anche le visioni luminose del vero in cui soltanto s’era fino allora appuntata la sua pupilla. Se si fosse chiesto a Teofoli che cosa desiderava, a che cosa credeva potesse approdare questa sua passione, egli non avrebbe saputo rispondere. O forse avrebbe risposto che non pretendeva nulla, che gli bastava viver presso a quella donna incantevole, pendere dalle sue labbra, inebbriarsi allo splendore de’ suoi occhi. E probabilmente, nell’entusiasmo che scalda i primordi dell’amore, avrebbe soggiunto che da quando la conosceva si sentiva la fantasia più feconda, l’intelligenza più alacre, e che l’opera da lui meditata nelle lunghe vigilie sarebbe giunta meglio a maturità ora che un dolce sorriso gli era in pari tempo inspirazione e compenso. Gl’innamorati cominciano col creder sempre così.
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In quanto alla Serlati non c’era punto da maravigliarsi ch’ella accettasse gli omaggi di Teofoli come accettava quelli di tutti gli altri. E non era neanche così strano ch’ella mostrasse di aggradirli in modo speciale. La sua vanità era stata singolarmente lusingata dall’impressione fulminea ch’ella aveva prodotto sopra un uomo d’età matura, di costumi austeri, dedito interamente agli studi e celebre in Italia e fuori. Poichè le donne possono essere indifferenti alla dottrina e all’ingegno; non sono mai indifferenti alla celebrità. La contessa Giorgina pensava con ragione che di spasimanti della risma di Montalto ella ne avrebbe trovati a dozzine, ma che i Teofoli erano pochi e che non era piccola soddisfazione per lei l’averne uno aggiogato al proprio carro. Aggiungasi un’ultima particolarità della nostra bella contessa. Ell’aveva uno spirito leggero, superficiale; pur non si poteva negarle una certa prontezza e versatilità, una certa curiosità di sapere e d’apprendere. È poi naturale che queste doti non accoppiate a nessuna perseveranza, a nessuna fermezza riuscissero all’unico risultato di alloggiare nella sua povera testolina una serie di nozioni confuse e mal digerite.
Ecco, per esempio, a Parigi l’era venuto il ghiribizzo di studiar scienze fisiche e aveva preso alcune lezioni da uno scienziato che la corteggiava. Ma le prime difficoltà l’avevano sbigottita; se l’era presa col maestro che non sapeva insegnare, e gli aveva dato il ben servito e come professore e come galante. Più tardi, a Roma, era stata assalita da un nuovo capriccio. Avrebbe voluto imparare la pittura, ma avrebbe voluto impararla presto, non in modo da far dei quadri originali ma in modo da poter [95] far delle copie. Non doveva esser così difficile il copiare. Un artista famoso che le bazzicava per casa ebbe l’insigne onore di dirigere quella mano gentile. Dopo qualche settimana la contessa perdette la pazienza. — Di questo passo, — ella esclamò infastidita, — ci vorranno cinquant’anni perchè io arrivi a dipingere passabilmente una testa.
L’artista, vedute le disposizioni della sua allieva, pensava che anzichè cinquanta gliene sarebbero voluti cento, e glielo fece intendere. Ma siccome aveva più spirito dello scienziato francese, glielo fece intender con garbo, offrendosi di avviarla in uno studio diverso, quello dell’archeologia.
La contessa accettò con trasporto. L’archeologia studiata a Roma, sotto una guida esperta e simpatica! Ma era una di quelle fortune da non lasciarsi scappare. E poi il dedicarsi all’archeologia era un prender due piccioni a una fava; era uno studiare, con la storia dei monumenti, la storia di Roma, senza noia di libri, nelle condizioni più propizie possibili, parte in carrozza, parte a piedi, quasi sempre all’aria aperta. In conseguenza di ciò la bella contessa fu vista tra i ruderi della città eterna, insieme col celebre artista, intenta a prender note sul suo taccuino, ora al Campidoglio, ora al Foro Romano, ora al Palazzo dei Cesari, o al Colosseo, o alle Catacombe, o alle Terme di Caracalla. Per i primi due giorni l’accompagnò il marito. Diavolo! Non era mica conveniente che una signora della sua età girasse sola per Roma con un estraneo. Ma que’ due giorni misero a troppo dura prova le forze del conte Serlati. Alzarsi presto la mattina, trascurare i suoi cavalli e il suo club per veder quattro sassi e sentir degli sproloqui [96] sui primi abitatori del Lazio e sulla fusione dell’arte greca con l’arte romana? Ah, non era affare per lui. Ed egli tentò di persuader sua moglie che non sarebbe stato nemmeno affare per lei. Ma ella tenne fermo. Non era così volubile, sebbene la dicessero tale; non intendeva troncare uno studio così bene incominciato. In quanto a lui, chi lo costringeva a seguirla? Non credeva ch’ella sapesse custodirsi da sola? Riluttante sul principio, il conte finì col lasciarsi persuadere. E la eccentrica signora continuò le passeggiate archeologiche col suo cicerone. Continuò per un paio di settimane, miracolo di perseveranza, chi consideri il suo carattere. È vero che badando alle chiacchiere dei maligni, la bella contessa e il celebre artista non si occupavano soltanto di archeologia. A ogni modo, passate le due settimane, la contessa Giorgina dovette riconoscere che anche l’archeologia ha i suoi inconvenienti. O le bisognava trascurare i suoi alti doveri sociali, o rinunciare ad aver mai un momento di quiete. Arrivava dalle sue conoscenti ansante, trafelata; i suoi adoratori non la trovavano mai in casa; la sera, nei salotti, le accadeva di esser côlta da un’invincibile sonnolenza. Le amiche la canzonavano. Sei matta? Vuoi diventar socia dell’accademia dei Lincei? Non ti accorgi che per poco che la duri sarai la favola del paese? E non capisci che ti comprometti? Che ti si crede più invaghita dell’archeologo che dell’archeologia? Se vedessi poi come ti sciupi la pelle! Perdi ogni freschezza, finirai col farti la carnagione di quelli che stanno esposti all’aria ed al sole.
Questo pronostico recò il colpo di grazia alla vocazione della contessa per lo ricerche archeologiche.
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Pareva anzi che si fossero acquetate in lei definitivamente le curiosità intellettuali e ch’ella fosse rassegnata a esercitar le sue forze soltanto nel campo della galanteria ove non c’era chi potesse contrastarle la palma. Ma l’incontro con Teofoli a Sant’Eufemia riaccese uno de’ suoi fuochi di paglia. Alcune parole ch’egli disse una sera intorno a Spinoza la invogliarono della filosofia. Quello doveva essere uno studio attraente, quando si potesse avere un professore come Teofoli, un uomo che rendeva chiari i soggetti più astrusi. O se Teofoli avesse voluto! Figuriamoci se non voleva! Sarebbe stato per lui un onore, una felicità. Egli si metteva a sua disposizione e adesso in campagna e più tardi in città, alle ore che lei desiderava, anche tutti i giorni.... anche tutto il giorno se a lei fosse piaciuto — egli concluse con enfasi e infiammandosi in volto.
Troppe grazie!... a lei bastava una infarinatura, quella che può occorrere a una donna, specialmente sulle dottrine di Spinoza.
Perchè a una donna dovesse occorrere specialmente la conoscenza, sia pure superficiale, delle dottrine di Spinoza è piuttosto difficile a intendere. Ma Teofoli non volle contraddire alla sua bella discepola e si accinse con molto fervore a spiegarle i principii cardinali su cui si appoggiano l’Etica e il Trattato teologico politico del sommo Olandese. Questi dotti colloqui succedevano per solito nel giardino degli Ermansi, nell’ora in cui gli altri usavano ritirarsi nelle proprie camere, e vi partecipava la cagnetta Darling, la quale aveva un debole per le gambe del professore, e non avrebbe rinunziato per tutto l’oro del mondo a mordergli almeno i calzoni. Onde accadeva [98] sovente che i discorsi sull’Ente assoluto e sulla legge di causalità fossero interrotti dalle sommesse e quasi carezzevoli proteste del filosofo minacciato nella sua integrità personale e dalle rampogne più severe della contessa contro il poco rispettoso quadrupede. Talvolta c’erano altri motivi di distrazione. La Serlati aveva qualche suggerimento da dare al professore Teofoli circa alla sua toilette. Quella cravatta col fiocco fisso non era di buon gusto; quei polsini staccati dalla camicia non si usavano più; quei colletti troppo alti erano da notaio, eccetera, eccetera. L’ottimo professore pendeva dalle labbra della sua scolara e s’impegnava a seguirne in tutto e per tutto i consigli. — Chi non imparerebbe con una tal maestra? — egli diceva entusiasta. Ed ella replicava compiacente e lusinghiera: — È cosa reciproca, caro Teofoli, è cosa reciproca.... Mutuo insegnamento.
Quelle erano ore deliziose per Teofoli. C’era però il rovescio della medaglia. Quando la contessa era insieme col marchese di Montalto e con altri giovinastri della stessa risma, ospiti come lei degli Ermansi, ella dimenticava interamente la filosofia ed il filosofo. O se ne ricordava soltanto per scherzarne.... scherzi senza dubbio argutissimi, ma che il nostro egregio amico gustava limitatamente, quantunque egli si affrettasse a dichiarare che tutto stava bene su quella bocca di rosa.
Già, per disinvolto che volesse parere, alcune cose gli mettevano addosso un’inquietudine, un cruccio grandissimo. Si rodeva di non poter seguirla nelle sue cavalcate con quei capiscarichi, ma più di tutto si rodeva se nel dopo pranzo, allorchè l’intera compagnia [99] era raccolta sul terrazzo, la bella donnina si allontanava in silenzio e scendeva in giardino con Montalto o con altri perdendosi in quei viali, in quei boschetti ove poche ore prima egli l’aveva intrattenuta in dotti ragionamenti frammezzati di silenzi, di sospiri, di discrete allusioni che dovevano farle capire la sua passione rispettosa e profonda. Chi sa se Montalto sarebbe stato così riservato? Il professore Teofoli se la prendeva col conte Ercole, il marito, il quale fumava tranquillamente discorrendo di cani e di cavalli con Ermansi senza neppur badare alla moglie. Ah mariti, mariti! Paion fatti apposta per tirarsi addosso le disgrazie. Però Teofoli non poteva a meno di fare in cuor suo qualche rimprovero anche alla contessa Giorgina. Che gusto doveva trovarci una donna come lei a prestare orecchio a dei libertini che non avevano nè ingegno, nè spirito, nè coltura? Oh, su questo punto Teofoli non s’ingannava. Egli aveva buon naso. Di Montalto, per esempio, egli parlava ex informata conscientia; avendolo avuto anni addietro per scolaro all’Università. Uno scolaro che non assisteva mai alle lezioni, che doveva ripeter tre o quattro volte gli esami e a cui si finiva coll’accordare il passaggio per non vederselo più davanti agli occhi. Ecco, la contessa Giorgina faceva male, proprio male a perdere il suo tempo con quel balordo.... Ah se Teofoli avesse potuto immaginarsi che Montalto dava del balordo a lui, e che, in quel momento, un giudice imparziale sarebbe stato in un bell’impiccio a dire chi dei due avesse ragione!
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Sarebbe un’offesa alla verità l’affermare che, dopo la villeggiatura, i colloqui filosofici della Serlati con Teofoli procedessero molto regolarmente. Le occupazioni della bella contessa non lo permettevano. Quantunque la sua dimora a X fosse piuttosto un esperimento che altro, ed ella si fosse accomodata provvisoriamente in un quartierino ammobigliato, ella non intendeva vivervi nell’ombra e aveva quindi da far visite e da riceverne, da conferire con la sarta, con la modista, col gioielliere, da prepararsi insomma a passar bene il prossimo carnevale. Inoltre, con tutto il rispetto per Spinoza, ella era forzata a confessare che lo trovava più noioso del bisogno. Non si sarebbe potuto, a tempo opportuno, occuparsi di Darwin, di Spencer?... Ma sicuro; il professore non desiderava di meglio. Egli ammirava que’ due illustri pensatori; anzi con Darwin era stato e con Spencer era in corrispondenza; figuriamoci se non si sarebbe volentieri fatto interprete del loro pensiero con la contessa Giorgina! — Va bene, va bene, — ella disse — sarà per la quaresima.
Se, per le gravi ragioni che sappiamo, la Serlati non si dedicava con fervore agli studi, è innegabile però ch’ella seguitava a mostrarsi singolarmente benevola al nostro professore. Gli aveva regalato una sua fotografia ch’egli custodiva come una reliquia dentro un cassetto per non esporla a sguardi profani; [101] lo invitava a desinare da lei un paio di volte per settimana, lo riceveva anche di giorno, a qualunque ora, quand’era in casa, lo avvertiva delle sere ch’ella andava a teatro, lo eccitava a lasciarsi presentare a due o tre famiglie che avrebbero aperto i loro salotti in carnevale. Queste sollecitazioni trovavano in principio il Teofoli renitente; egli pensava alle sue care abitudini, alle sue serate tranquille, al suo studio, a’ suoi fidi compagni; ma d’altra parte se quello era l’unico modo di veder spesso la contessa Giorgina, se, rifiutando, si correva il pericolo di disgustarla? Ond’egli fece violenza alla sua indole e comparve qualche volta a teatro e consentì a frequentare qualche nuovo salotto. Non che vi si divertisse; ah questo no. A teatro egli badava poco alla scena; dal suo posto di platea guardava al palchetto della Serlati ch’era sfolgorante di bellezza e di grazia e intorno alla quale c’era un nugolo di adoratori. Per andare a salutarla egli avrebbe voluto cogliere un momento in cui non ci fosse nessuno, ma questo momento non capitava mai e gli conveniva pur risolversi a entrare nel palchetto pieno. E dopo esser riuscito con fatica a darle la mano sedeva in un angolo, assordato dal cinguettìo di tutta quella gioventù frivola ed elegante che discorreva di balli, di toilettes, di sposalizi, d’intrighi amorosi. Tuttavia la contessa Giorgina non lo dimenticava, e rivolgendosi a lui con la sua voce flautata gli chiedeva il suo parere sullo spettacolo. E siccome per poco ch’egli fosse stato attento era stato certo più attento di lei, egli si accingeva ad esprimere coscienziosamente i propri giudizi, ma gli era forza smetter subito, o perchè la sua interlocutrice passava ad altro argomento, o perchè la [102] porta del palchetto s’apriva a nuovi visitatori. Naturalmente i primi arrivati dovevano cedere il posto, e così, a mano a mano, quelli giunti dopo si avanzavano dal fondo alla fronte del palco e si avvicinavano al posto d’onore. Ma non ci rimanevano un pezzo, cacciati com’erano dai sopravvenienti. Teofoli attendeva anch’egli il suo turno, sedeva per un istante a fianco o dirimpetto alla contessa, e poi se ne tornava alla sua poltroncina, o più sovente abbandonava addirittura il teatro, riportandone un misto d’impressioni dolci ed amare. Egli aveva un bel dire a sè stesso che una donnina come la Serlati non poteva a meno di aver una folla di relazioni, e ch’era da aspettarsi di vederla cinta da uno stuolo di spasimanti; aveva un bel dire che tutte lo signore giovani, avvenenti, ricche, spiritose sono quasi costrette a menar l’identica vita; ciò non bastava a calmar l’inquietudine de’ suoi nervi. La Giorgina (tra sè e sè egli la chiamava così) a ventidue o ventitrè anni appena avrebbe avuto necessità di una guida, non avrebbe dovuto esser lasciata esposta a tutte le tentazioni. Quel suo marito era d’una leggerezza! Non si curava nemmeno d’assumere informazioni sul conto di quelli ch’eran presentati a sua moglie! E ce n’erano d’ogni specie; ufficiali e forestieri per la massima parte, gente che di punto in bianco avrebbe preso il volo per lidi ignoti e che dalla instabilità del domicilio era resa pressochè irresponsabile.
In società Teofoli faceva le medesime riflessioni, aveva le medesime angustie che in teatro. Non era possibile giungere fino alla contessa che oltrepassando una barriera di galanti cosmopoliti. Con la sua innata affabilità che diceva: — Buona sera, [103] Teofoli, — lo eccitava ad accostare una sedia, e a mettersi anch’egli nel suo circolo. Ma quand’egli cedeva alla tentazione non tardava a trovarsi a disagio, egli uomo più che maturo fra tanti giovani, egli uomo grave fra tanti scapati. Si vedeva squadrato dalla testa ai piedi, notava un fondo d’ironia perfino nella deferenza che gli si mostrava. Involontariamente correva col pensiero alla sua cameretta raccolta, alla sua solitudine pensosa, alla sua biblioteca, a’ suoi quaderni, alla sua grande opera storico-filosofica a cui le mutate abitudini gl’impedivano di attendere come avrebbe dovuto. E suo malgrado lo assaliva un rimpianto di quei tempi tranquilli, di quelle laboriose giornate che gli costavano tanto minor fatica delle distrazioni presenti. Allora le sue distrazioni si limitavano alle passeggiate con Dalla Volpe e con Frusti, che ormai gli tenevano il broncio, alle due sere per settimana passate dalla Ermansi, che diveniva sempre più fredda verso di lui, che non gli mandava neanche più le sue rose dopo che aveva saputo ch’esse andavano a finire dalla bella contessa Giorgina. Tutta, tutta la vita di Teofoli era cambiata. E per causa di chi? Per causa della Serlati.
A mente fredda egli formava mille propositi eroici. Avrebbe diradato le sue visite, avrebbe cercato di esonerarsi dagl’inviti a pranzo, non sarebbe andato nè a teatro, nè in società, luoghi che non erano fatti per lui. Oh sì. Proprio negl’istanti in cui la sua risoluzione pareva più salda, qualche incidente imprevisto lo costringeva a mutar consiglio. È più facile a un gran generale di perdere una battaglia che a una civetta sopraffina di perdere un adoratore. Un istinto infallibile l’avverte del pericolo e le suggerisce [104] il rimedio. La contessa Giorgina non intendeva rinunziare agli omaggi di Teofoli, ch’era certo il più vecchio, il meno chic de’ suoi vagheggini, ma ch’era anche il più illustre, quello che forse le voleva più bene di tutti, quello a ogni modo che non badava ad altre donne che a lei. E allorchè le sembrava ch’egli mirasse a emanciparsi, ella lo legava a sè con uno sguardo, con un sorriso, con una parola, con una preferenza spiccata. Le preferenze femminili, già si sa, sono servigi richiesti a ciascuno secondo le sue attitudini. Un giorno ella gli mandò un bigliettino così concepito:
“Caro Teofoli. Potreste stasera accompagnarmi a teatro? Non si tratta che di accompagnarmi e di restare al massimo una mezz’oretta in palco con me fin che capiti qualcheduno. In ogni caso, sul tardi verrà mio marito che ha non so quale impegno subito dopo pranzo, ma sarà libero prima delle undici. Se non mi manderete a dir nulla in contrario, vi aspetterò per le otto e mezza a casa mia. Scusate e prendete la mia indiscrezione come una prova della mia amicizia.„
Il professore era a casa Serlati alle otto e un quarto. Sulle scale egli trovò il conte Ercole che lo salutò cordialmente. — Bravo, professore. Lo ringrazio anch’io della sua gentilezza. Alla Giorgina non sarebbero mancati i cavalieri, ma noi abbiamo preferito lei.
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— È un onore, un onore grandissimo, — biascicava Teofoli.
Il conte Ercole sorrise. — Basterà che rimanga finchè principia il turno delle visite. Non avrà tanto da aspettare. Mia moglie conosce ormai mezza città.
— Pur troppo, — avrebbe voluto rispondere il professore. Ma si contentò di protestare ch’egli era ben lieto di consacrar l’intera serata alla sua ottima amica.
Su in casa lo s’introdusse in un salottino bene riscaldato, bene illuminato, pieno di ninnoli altrettanto inutili quanto eleganti, e lo si pregò di attendere. La contessa finiva di vestirsi.
Di lì a pochi minuti ella comparve abbottonandosi i guanti e seguita dalla cameriera che teneva spiegata una mantellina di stoffa bianca con guarnizione di cigno.
— Lo sapevo bene che su voi si può fare assegnamento, — ella gli disse stendendogli la mano. — Avete anticipato.
— Oh.... di qualche minuto.
Ella si affacciò allo specchio. — Ecco, per non lasciarvi solo son venuta a compier qui la mia toilette.
Si rivolse alla cameriera. — Maria, infilami la mantellina.
La contessa Serlati quella sera era proprio un amore, con le sue belle braccia nude, con l’abito di raso nero aperto sul davanti, con un monile di perle intorno al collo di neve, e senz’altro ornamento in testa che una camelia d’un color roseo pallido che faceva spiccare il castano scuro de’ suoi capelli.
— Mi par di leggervi in cuore, — ella disse mentre dava un’ultima occhiata allo specchio. — Queste [106] donne non finiscono mai di lisciarsi, di contemplarsi.... Tutte un impasto di vanità....
— Oh contessa....
— No, no, in fondo avete ragione.... Ma se siamo fatte così? Se la cura della nostra persona e del nostro abbigliamento è parte del nostro decoro, della nostra dignità?
— Ed è naturale, — rispose con galanteria il professore. — Quando la persona è un’opera d’arte merita bene il conto di occuparsene.
— Sempre gentile, — ella soggiunse avvicinandosi.... — Io però credo d’esser delle più spiccie a vestirmi.... Me ne appello alla Maria.
La cameriera chinò il capo assentendo.
— La carrozza? — domandò la contessa.
— È pronta.
— Andiamo allora.
Il professore Teofoli era stato più volte in carrozza con la contessa, ma solo con lei, di sera, in un legno chiuso, non c’era stato mai. Si sentiva al tempo stesso orgoglioso e turbato di quella vicinanza, di quel tepore, di quel profumo che l’avvolgeva. Dai lampioni della strada entravano ogni tanto dei fasci di luce nel landau, ed egli vedeva quella testina adorabile voltata dalla sua parte, quei grandi occhi scintillanti, quelle labbra rosee fatte per sorridere e per baciare.... Oh com’egli capiva che per un bacio di quelle labbra rosee si desse la vita!... Se avesse osato?... Ma l’età dell’audacia era passata da un pezzo.... E poi egli non era stato giovine nemmeno a trenta, nemmeno a venti anni.... come poteva esser tale a cinquanta?
— Non avete niente da raccontarmi? — disse a un certo punto la Serlati. — A che pensate stasera?
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— Penso, — replicò il professore, — al dottor Fausto che dopo esser invecchiato sui libri assimilandosi quasi tutto lo scibile umano, vendette l’anima al diavolo per tornar giovine e farsi amare da Margherita.
— E che c’entrano Fausto e Margherita in questo momento?
— Oh più di quello che non creda, contessa.
— Lasciamo stare Margherita. Sareste voi Fausto?
— Sono di quella famiglia.... Meno sapiente, s’intende.
— Meno vecchio piuttosto.
— Uno è vecchio appena ha cessato d’esser giovine.
— E vendereste l’anima al diavolo?
— Forse sarebbe inutile offrirgliela. Il diavolo è diventato più positivo e s’è accorto che le anime non valgono quello che costano.
— Però voi non credete al diavolo, — soggiunse maliziosamente la contessa.
— Credevo di non credervi.
— E avete mutato opinione?
— Sono problemi gravi.
— Ah Teofoli, — disse la Serlati con uno di quei bruschi passaggi di cui le donne hanno il segreto, — che ce n’è delle nostre conferenze di filosofia, del nostro Spinoza, del nostro Darwin, del nostro Spencer?
— Cara contessa, — ribattè il professore, — sa bene che dal canto mio....
— Lo so, lo so, non è colpa vostra.... Ma vedete voi pure se ho un momento di quiete.... V’avevo anche promesso di venir a vedere le fotografie di quegli omenoni nel vostro studio.
— Magari venisse! — proruppe Teofoli. — Non ardisco sperarlo.
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— Avete torto.... Forse sarei venuta se non temessi di esser morsicata dal vostro Cerbero.
— Che Cerbero?
— La vostra governante, la vostra cuoca, quello che è insomma.
— La Pasqua?
— Si chiama Pasqua? Un nome stagionato, da persona matura.... Ebbene, scommetterei che quella donna lì non mi può soffrire....
— Che idee!
— Ma sì; è naturale.... dev’essere uno spirito metodico la vostra signora Pasqua. Deve averla con me per la rivoluzione che ho portato nelle vostre abitudini.
Il professore seguitava a negare, ma in cuor suo riconosceva che la contessa Giorgina aveva colto nel segno. Che donna perspicace!
— In ogni modo, — egli insinuò timidamente, — dal tocco alle tre la Pasqua non c’è mai.
— Davvero?
— Sono le sue ore di libertà.... Non ci rinunzierebbe a nessun patto.
— Eh, allora.... chi sa che un bel giorno quando meno ve l’aspettate....
— Contessa, cara contessa, — esclamò Teofoli ingalluzzito. — Parla sul serio?
— Sicuro.
— E quando verrà?
— Oh questo poi.... Non ha da essere una sorpresa?
— No.... riflettendoci bene.... potrei aver gente.... potrei esser fuori.
— È giusto.... Allora vi avvertirò un giorno prima.... È inutile far chiacchiere intanto....
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— Si figuri....
E il professore strinse con entusiasmo la mano che la Giorgina gli porse quasi a conferma della sua promessa.
La carrozza si fermò sotto la loggia coperta del teatro.
Teofoli aiutò la sua dama a scendere, e dandole il braccio attraversò pomposamente il vestibolo. Camminava con la testa alta, con passo leggero ed elastico; gli pareva di aver vent’anni.
Ma l’apparizione del giovine marchese di Montalto sul primo pianerottolo dello scalone gli fece l’effetto d’una doccia fredda. Il marchese si mise subito al fianco della contessa, ed entrò in palco con lei e col professore. Egli rivolse alla Giorgina mille complimenti sulla sua bellezza, sul buon gusto della sua toilette, e passando in rassegna col cannocchiale le varie signore che c’erano in teatro sentenziò che nessuna, proprio nessuna, poteva reggere al confronto di lei. Nella quale opinione Teofoli consentiva interamente; gli seccava però che la cosa fosse detta da Montalto, e più ancora che la Serlati mostrasse di gradirla tanto e scherzasse con quella testa di legno e gli concedesse una strana familiarità.
A poco a poco sopraggiunsero i soliti visitatori, i soliti cicisbei sguaiati, svenevoli con cui la Giorgina aveva il torto di ridere e di divertirsi.
— Ormai, — ella disse a Teofoli, — sono ben custodita, e non voglio tenervi prigioniero. Grazie della vostra cortesia.
Fatto si è che nel palco non ci si stava più e che il professore non poteva insistere per rimanere.
Al garbato congedo della contessa egli rispose:
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— Scendo in platea.... Ripasserò sul tardi per sentire se le occorre nulla.
— Ma no, non vi disturbate, — ella insistè con un principio d’impazienza. — Che cosa deve occorrermi?
— Però.... se non venisse suo marito.... per riaccompagnarla in carrozza....
— Mio marito verrà certamente.
— In ogni caso ci siamo noi, — gridarono all’unissono i presenti.
— Vedete che i cavalieri non mi mancano, — soggiunse la Giorgina. — Buona notte, Teofoli, e grazie di nuovo.
E nel palco fu un coro di — Buona notte, professore, buona notte, — con certe inflessioni di voce che davano alla frase innocente il significato di: — Se ne vada, si spicci, non secchi più.
— Già, i cavalieri non le mancano, — borbottava l’ottimo professore scendendo le scale. — Voglio sperare ch’ella li stimi per quello che valgono. Con l’ingegno che ha non dovrebbe prender lucciole per lanterne.... Quel marito però è un gran minchione.
Giunto nell’atrio, Teofoli non seppe resistere alla tentazione di fermarsi alquanto in platea, ove, non avendo sedia chiusa, stette ritto in mezzo alla folla con gli occhi fissi al palco 24 di prima fila ch’era quello della Serlati.
Era un gran cicaleccio in quel palco, e di tratto in tratto dal basso salivano dei tss, tss prolungati all’indirizzo dei disturbatori. Due vicini del professore si sfogavano a sparlare di quelle dame in generale e della Serlati in particolare che soggiornava da pochissimo tempo a X e quantunque fosse sposa da [111] soli due anni faceva già discorrer sul conto suo come le veterane. Il nostro amico sudava freddo a sentir questi orrori, e avrebbe voluto ricacciar lo parole in gola a quei bifolchi. Ma come promuovere uno scandalo alla sua età, nella sua posizione sociale?... E poi non era peggio anche per la contessa Giorgina? Non era un dare il nome di lei in pascolo al pettegolezzo cittadino? No, no, era più savio consiglio l’andarsene.
Mentre Teofoli agitava in mente questi pensieri, al parapetto del palco N. 24 di prima fila s’affacciava il conte Serlati e con la sua presenza rimoveva gli ultimi scrupoli dall’animo del professore. Ormai c’era il marito, e di lui non si aveva più bisogno.
Egli uscì dunque dal teatro. Ne uscì con la testa confusa, col cuore in tumulto, con quello strano miscuglio d’impressioni e di sensazioni contrarie ch’egli provava sempre dopo esser stato con la Giorgina. Mai, mai una volta da poter dire senz’ambagi: — Oggi sono contento. — Ma fors’è così nella vita; ove c’è intensità di gioia c’è intensità di dolore.
Però, nel rifare la strada di casa e di mano in mano che l’aria fresca metteva un po’ d’ordine nelle sue idee, Teofoli diceva a sè stesso che quella sera egli aveva un gran torto di pensare ad altro che alla promessa dolcissima fattagli ripetutamente dall’amabile contessa; quella di venirlo a visitare nel suo studio. È vero che di quest’argomento s’era già discorso in passato, ma se n’era discorso per incidenza, nè egli stesso vi si era trattenuto più che tanto, nè vi aveva attribuito un grande significato. Adesso era tutt’altro, adesso la Giorgina s’era impegnata in modo solenne, e con una cert’aria di mistero che aggiungeva [112] importanza alla cosa. Non c’è dubbio, la Serlati non veniva da lui come ci sarebbe venuta, per esempio, la Ermansi.... Ma come, come ci veniva? Con quali idee, con quali aspettazioni? Qui la mente del povero professore si smarriva in un pelago di congetture, ed egli sentiva alternarsi nell’anima audacie di leone e pusillanimità di coniglio, e avrebbe dati volentieri dieci degli anni che gli restavano a vivere per aver chiara e limpida davanti a sè la via da seguire. Ah, in fin dei conti, un po’ di pratica non è mai una disgrazia.
Insomma non è punto da far le maraviglie se dopo una serata così ricca di commozioni, il professore Clemente Teofoli non potè chiuder occhio per tutta la notte.
È una caratteristica delle civette quella di dare agli atti, alle parole più semplici un’apparenza che ne accresce la portata agli occhi degli ingenui. Ogni donna dice buona sera, buon giorno, arrivederci, ogni donna, se è stanca, accetta il braccio d’un cavaliere; se ha sete, lo prega di procurarle un bicchiere d’acqua; se le casca un guanto, lascia ch’egli lo raccolga; ma la civetta farà tutto ciò in un suo modo particolare. Nel buon giorno, nella buona sera ci sarà un languore sentimentale; nell’arrivederci ci sarà una promessa; nell’appoggiarsi ci sarà un molle abbandono; nel ringraziare d’un bicchier d’acqua [113] portato, d’un guanto raccolto, ci sarà un’espressione tenera di riconoscenza piena di sottintesi.
Così, in via ordinaria, non v’è motivo di scandalo e di meraviglia nel fatto che una signora (e sia pur giovine e bella) vada una o più volte nello studio d’uno scienziato d’età matura e di reputazione illibata. E, in vero, abbiamo già detto che sulle prime il professore Teofoli non aveva messo malizia alcuna nella visita sperata della contessa Giorgina. Sarebbe stato certo un gran piacere per lui, ma la sua innocente galanteria non mirava più in là. Era stata la contessa con lo sue reticenze, col suo ordine di non dir nulla a nessuno che gli aveva messo il sangue in fermento. E come non aveva dormito la notte, così non seppe mettersi a lavorar di lena nei dì successivi. Dopo la sua lezione all’Università non riusciva a far altro. Nel suo insegnamento non si poteva scoprire il minimo sintomo di decadenza; la sua memoria, la sua dialettica erano sempre ammirabili, la sua parola era sempre limpida e colorita; anzi c’erano momenti ch’essa aveva un fascino maggiore dell’usato come di strumento a cui si sia aggiunta una nuova corda. Ma se il professore si manteneva all’altezza d’un tempo per ciò che riguardava le sue lezioni, lo scienziato non era più quello per l’assiduità nelle ricerche, per l’instancabile operosità del pensiero. E non era nemmeno più quello per la sollecitudine verso gli scolari dei quali una volta egli amava attorniarsi e che ora egli teneva sempre a una certa distanza. Peggio poi da quando aspettava la visita della Serlati. Bisognava assolutamente sviar quei ragazzi dal venirlo a cercare a casa. E se uno di loro gli diceva che sarebbe passato a disturbarlo per avere [114] un libro in prestito, o per manifestargli alcuni suoi dubbi su qualche questiono un po’ controversa, egli aveva una sequela di ma, di se, di forse che scoraggiavano il sollecitatore. Ecco, in quanto al libro, gliene indicasse pure il titolo; glielo avrebbe fatto avere per mezzo del bidello. E circa ai dubbi che lo studente desiderava esporgli, s’eran tali da potersi risolvere lì per lì, valeva meglio spicciarsi subito; se no il giovine li mettesse in carta, ed egli avrebbe risposto nello stesso modo. Coi colleghi teneva un sistema analogo. S’isolava quanto più era possibile, insisteva sul suo gran da fare; suggeriva loro, se avevano da parlargli e non si sgomentavano dell’idea di aver fatto la strada inutilmente, di venir di sera, dalle sette allo otto.... Per solito, a quell’ora era in casa.
— Par d’essere nel deserto — borbottava la signora Pasqua. Ed ella che aveva in altri tempi molto brontolato pel continuo viavai della ragazzaglia, adesso brontolava perchè, a eccezione del postino, non c’era quasi nessuno che suonasse il campanello. E poi tutto andava alla peggio. Talvolta a metà della giornata, il professore annunziava che sarebbe stato a pranzo fuori, talvolta non si curava nemmeno di annunziar nulla, e all’ora del desinare non si faceva vedere. E non tollerava mica osservazioni. Oh sì. Era diventato un basilisco. — Se non v’accomoda, quella è la porta — ecco il suo ritornello.
Ah se la signora Pasqua non gli fosse stata affezionata, se non avesse trovato il suo tornaconto a stare al servizio d’un uomo solo! Non le restava altro conforto che quello di sfogarsi con le vicine e coi professori Frusti e Della Volpe, quando, venuti a [115] cercar l’amico e non trovatolo avevano anch’essi la loro dose di fiele da versar nell’animo di qualcheduno. Già la signora Pasqua si conciliava subito la loro benevolenza col dir male delle donne. — Avevano ragione, avevano ragione da vendere. Le donne erano sempre la prima causa di tutti i mali. Non poteva rimaner dov’era, quel serpente, quella contessa che aveva reso irriconoscibile un uomo come il professore Teofoli?
Diceva ciò quasi a dipingerlo come la vittima di un incanto, di una malìa. Però i suoi interlocutori non ammettevano circostanze attenuanti. Se avesse avuto vent’anni, trent’anni, passi. Ma alla sua età? Non si è vittime quando non si vuol esser tali. Si fosse provata a civettar con loro, la signora contessa! Gli è che Teofoli aveva avuto sempre le sue debolezze per il bel sesso. Non aveva badato a chi gli presagiva che il salotto Ermansi sarebbe stato la sua rovina, aveva voluto girare intorno al fuoco e s’era bruciato le ali. Tanto peggio per lui!
Il più arrabbiato era il Della Volpe che non perdonava al collega di avergli fatto mangiare di magro a casa un venerdì inviandogli all’ultimo momento un biglietto per contrammandare il solito invito settimanale. Un’azionaccia, una vera azionaccia che lo aveva esposto ai sarcasmi della moglie e l’aveva costretto il giorno dopo a prendere il bicarbonato di soda per accomodarsi lo stomaco!
Del rimanente, anche quando i tre amici desinavano insieme, i loro ritrovi non avevano niente a che fare con quelli d’una volta. Le querimonie di Della Volpe contro la consorte viva e quelle di Frusti contro la defunta non sollevavano nessuna ilarità; alle [116] galanterie di Teofoli non era lecito di fare il minimo accenno; i fatti della 19ª dinastia tebana e la rivalità di Carlo V e di Francesco I non riuscivano ad animare la conversazione; le virtù culinarie della signora Pasqua, per quanto apprezzate dai commensali, non ricevevano il debito tributo di lodi in causa dell’inappetenza dell’anfitrione. La signora Pasqua avvilita dal veder che il professore toccava appena le vivande, gettava sdegnosamente gli avanzi al gatto Tocci, dicendo che per poco che durasse così ell’avrebbe fatto la cucina soltanto per lui. — Ma già — ella proseguiva con aria sprezzante — tu non sei migliore del tuo padrone. Se ti salta qualche grillo, se la micia soriana dei nostri vicini ti fa qualche smorfia, pianti il cibo e la casa e corri dietro a quella poco di buono pegli orti e pei tetti. Bada però di non portartela qui dentro.... Se vi colgo state freschi.... Scandali non ne voglio.
La signora Pasqua, nel pronunciar queste gravi parole, non s’immaginava che il professore meditava appunto lo scandalo ch’ella non avrebbe perdonato a Tocci.
Erano trascorse due settimane dalla serata del teatro, nè la contessa Giorgina aveva più soggiunto una sillaba sul delicato argomento della sua visita. Dal canto suo il professore non osava interrogarla; cercava bensì che ne’ suoi occhi ci fosse la domanda che non osava salirgli alle labbra, ma non avrebbe potuto dire s’ella lo capiva o se voleva capirlo. Già, eravamo alle solite; ch’aveva sempre intorno a sè uno sciame d’oziosi, e, per quella sua benedetta fissazione d’esser cortese con tutti quanti, i vecchi amici si trovavano allo stesso livello dei nuovi arrivati. Teofoli [117] non andava da lei senza dover subirsi una o due presentazioni. Il conte tale, il marchese tal altro. Bravissimi giovani piovuti dalle nuvole che a sentir il suo nome borghese chinavano appena la testa e a cui non passava neppure in mente che quel nome potess’essere più rispettabile e più conosciuto del loro. Che tirocinio d’umiltà deve fare un uomo d’ingegno allorchè si mette a corteggiare una donna galante!
Nondimeno, Teofoli era rassegnato a questo genere di mortificazioni. Ne avrebbe subìto in pace anche di maggiori se avesse potuto acquistar la certezza che la Serlati gli voleva un po’ di bene. Ma perchè quel contegno enigmatico? Perchè quel silenzio ostinato circa alla sua visita? Gliel’aveva o non gliel’aveva promessa? E come si può dimenticar così una promessa?
Ebbene, una sera nel venir via dalla conversazione dei Roncagli e proprio nel momento che il professore inghiottiva tanto veleno pensando alle paroline, ai sorrisi, alle occhiate che la contessa aveva scambiato fino allora con Montalto e con due o tre giovani ufficiali, ella colse un pretesto qualunque per avvicinarglisi e gli susurrò all’orecchio: — Aspettatemi domani, al tocco e mezzo.
Si pose il dito sulla bocca per intimargli silenzio, e senz’attender risposta diede il braccio a Montalto che l’accompagnò giù della scala fino alla carrozza.
Neppur volendo, Teofoli non avrebbe potuto rispondere. Era sbalordito, ammutolito, con la testa in combustione; sarebbe stato incapace di esprimere quel che provava. O fors’era simile al soldato che, dopo aver mostrato una grande impazienza di battersi, [118] sente raddoppiar le pulsazioni del cuore nel vedere il nemico, e non è ben sicuro che quelle pulsazioni sian figlie tutte d’uno schietto entusiasmo.
Il professore passò un’altra notte senza dormire (ormai la cosa gli accadeva spessissimo) e la mattina fu in piedi per tempo chiedendo a sè stesso se veramente fosse spuntato il giorno più memorabile della sua vita. In veste da camera entrò nello studio, quello studio ove al tocco e mezzo avrebbe ricevuto lei, ne aperse le imposte non badando al freddo, e quantunque il sole non fosse ancora visibile s’assicurò che il cielo era tutto sereno. Da questo lato dunque non c’era pericolo che sorgessero ostacoli alla visita della contessa. Naturalmente, se fosse piovuto, ella sarebbe rimasta a casa sua. Il buon Teofoli s’arrabbiò seco medesimo sorprendendo nel fondo del suo cuore una segreta e timida benevolenza verso la pioggia, la quale, in fin dei conti, gli avrebbe permesso di prepararsi meglio a questa specie d’esame.... Possibile ch’egli fosse un vigliacco?... S’armò d’un granatino e si diede a spolverar leggermente i mobili, i libri, e alcune fotografie appese a una delle pareti. Erano per lo più ritratti d’illustri contemporanei, italiani e stranieri, regalati in gran parte e portanti la firma autografa del donatore. Vi figuravano i principali cultori della storia, della filosofia e delle scienze in Italia; dei Tedeschi, [119] il Mommsen, il Gregorovius, il Ranke, lo Strauss, il Virchow; dei Francesi, il Renan, il Littré, il Taine; degli Inglesi, il Darwin, lo Spencer, l’Huxley — i campioni insomma del pensiero moderno, dalle fronti ampie e severe ove la meditazione aveva segnato i suoi solchi, dagli occhi profondi che s’erano stancati nelle assidue ricerche. Teofoli che conosceva tanta parte delle loro opere avrebbe voluto in quel momento penetrar bene addentro nelle loro anime, sapere i loro segreti più intimi, chieder loro se si fossero mai trovati in condizioni simili a quella in cui egli si trovava, implorare il soccorso della loro esperienza. Ahimè, nè da loro nè dai libri allineati negli scaffali gli veniva lume a’ suoi dubbi. Ed egli era tentato di domandarsi a che servono le biblioteche se non danno una guida, un conforto nei casi difficili.
Frattanto macchinalmente, inconsciamente riordinava le carte e gli opuscoli che ingombravano il suo tavolino, apriva sul leggìo un magnifico atlante di Stieler, avvicinava alquanto alla finestra un bel mappamondo che aveva comperato l’anno addietro a Lipsia, metteva in mostra un volume di Spencer arrivatogli una settimana addietro con la dedica dell’autore. Molto di più avrebbe fatto, se non fosse stato il timore d’insospettire la signora Pasqua con le novità.
Ma la signora Pasqua venendo, come usava ogni giorno, alle nove a portare il caffè e ad accender la stufa non s’accorse di null’altro che della brutta cera del padrone il quale dovrebbe almeno, ella disse, rimanere in letto un’ora di più la mattina dopo che aveva preso l’abitudine di passare una parte [120] della notte fuori di casa. — Se crede che le faccia bene, — ella soggiunse.
— Son fantasie vostre, cara Pasqua, — rispose il professore. — Io sto benissimo....
— Sarà.... Ma l’altr’anno stava molto meglio.
— Nemmeno per sogno, — replicò Teofoli, rimettendo la chicchera sul vassoio. — I miei vestiti sono pronti?
— Sissignore. E oggi è a casa tanto a colazione che a pranzo?
— Sì, sono a casa. Lasciatemi adesso, chè devo far qualche cosa prima d’andare all’Università.
Mezz’ora dopo, il professore Teofoli saliva in cattedra ed esponeva a’ suoi studenti con parola fluida e precisa il sistema di Augusto Comte, ciò che prova, a chi ne dubitasse, che molte funzioni anche intellettuali diventano con l’abitudine semplici funzioni meccaniche e che basta toccar certe corde per averne certe sonate. In realtà quella mattina il nostro professore non si curava nè di Augusto Comte nè della filosofia positiva e la sola impressione destata in lui dalla presenza della colta gioventù era quella che il più asino della classe avrebbe affrontato con maggior serenità e baldanza di spirito le vicende di un convegno galante.
A colazione egli fu altrettanto taciturno quanto la mattina, e la signora Pasqua non riuscì a cavargli di bocca che qualche monosillabo.
Questa taciturnità crescente del suo padrone non era l’ultima delle ragioni che spingevano la signora Pasqua ad approfittar delle sue due ore di libertà per andare a sfogarsi con le sue amiche. E anche quel giorno, alle dodici e cinquantacinque minuti, [121] ella infilò la porta, liberando il professore dalla paura che per uno o un altro motivo ella s’indugiasse più dell’usato. Uscita lei, fu facile al nostro Teofoli di sbarazzarsi del ragazzo Fedele, un galoppino che stava sempre a sua disposizione e che una volta fuori del nido metteva un secolo a tornarci. È vero che ordinariamente Fedele si tratteneva in casa durante le assenze della signora Pasqua, ma egli non era uomo da far obbiezioni ad andarsene, e accettò con entusiasmo due o tre incarichi che gli fornivano un ottimo pretesto per stare in giro mezza giornata.
E così, all’una e pochi minuti il professore Clemente Teofoli fu solo.... aspettando. Non già nella camera da studio ch’era piuttosto appartata, ma nel salottino da pranzo che dava sulla strada. Ne aperse l’uscio per sentir meglio il campanello, sollevò alquanto il lembo d’una tendina e si mise in vedetta. Da che parte sarebbe venuta? Se veniva direttamente dalla sua abitazione sarebbe venuta dalla destra; ma era probabile che avesse fatto una diversione, che venisse dal lato opposto. Non importa; egli l’avrebbe vista a ogni modo. Ma come sarebbe venuta? A piedi o in carrozza? Certo non nella sua carrozza. Se no, come mantenere il segreto? Forse il meglio era ch’ell’avesse preso un fiacre a nolo. E vero che anche il fiacre lì fermo ad attenderla dinanzi alla porta aveva i suoi inconvenienti. Pazienza; gl’inconvenienti non si potevano evitare nè in carrozza nè a piedi.... Qui poi lo assaliva un dubbio più fiero.... S’ella non fosse venuta? S’egli l’avesse fraintesa? S’ell’avesse voluto fargli una burla? Ma perchè? Ma perchè?
Era l’una e un quarto. Anche s’ella fosse stata [122] puntuale non avrebbe potuto esser da lui che tra un quarto d’ora; che ragione c’era ch’egli stesse con gli usci aperti a pigliarsi il fresco prima del tempo? Rientrò in camera da studio, non già per rimanervi, ma per dare un’occhiata alla stufa, per rifondervi della nuova legna. Subito dopo si rimise al suo osservatorio.
La strada era delle meno frequentate. Pochi pedoni; a lunghi intervalli una vettura. Ah, come il cuore gli balzava a ogni scalpitìo di zampe ferrate, a ogni romore di ruote, a ogni apparire in fondo alla via d’un cappellino e d’un vestito femminile! Ma non era lei, non poteva esser lei; mancavano dieci, mancavano cinque minuti all’ora prefissa.
Finalmente suonò la mezza, e da quell’istante le ansie dell’attesa raddoppiarono. Ogni secondo pareva un minuto, ogni minuto pareva un’ora. A un certo punto Teofoli ebbe una strana allucinazione. Vide da lontano un suo studente con una donna, e quella donna, nella sua fantasia riscaldata, pigliò l’aspetto della contessa Giorgina. Era possibile? L’incanto fu subito rotto. Quello era bensì uno studente, ed era in compagnia d’una ragazza, ma la ragazza, quantunque abbigliata con una certa eleganza, aveva l’aria di non esser altro che una crestaia. Ed egli aveva commesso il sacrilegio di scambiarla con la Serlati! La giovine coppia passò sotto le finestre di Teofoli senza nemmeno alzar la testa; lo scolaro ch’era venuto ripetutamente dal suo professore per ragioni di studio aveva adesso ben altro che il suo professore pel capo. Ah, come sembravano felici quei due! Come camminavano svelti, spediti, come ridevano e ciarlavano e si divoravano [123] con gli occhi! Succedono pure di grandi trasformazioni in noi stessi. Alcuni mesi addietro, Teofoli avrebbe certo biasimato in cuor suo l’incauto discepolo che si lasciava adescare da una sguaiata, avrebbe fatto eco alle filippiche di Dalla Volpe e di Frusti contro le femmine; ora invece era pieno d’indulgenza pel sedotto e per la seduttrice e quasi quasi avrebbe voluto essere al loro posto.
— Ma! Gioventù! — egli sospirò quando la coppia si fu dileguata.
E con un secondo sospiro guardò l’orologio. La lancetta segnava l’una e tre quarti. Ah cattiva contessa; si sarebbe dunque presa gioco di lui?
In quel momento gli occhi del professore Teofoli caddero sopra una persona la cui presenza gli recò una noia infinita. Dall’altra parte della strada, poco men che dirimpetto alle sue finestre, il conte Antonio Ermansi, spuntato non si sa di dove e fermo dinanzi alla mostra di un rigattiere, esaminava in tutti i sensi alcuni vecchi libri, mentre il padrone del negozio che stava sulla soglia in atto ossequioso cercava d’indovinare dall’espressione e dai gesti del bibliomane il valore della propria merce, da lui pagata a peso di carta.
— Cretino d’un Ermansi! — borbottava rabbiosamente il professore stringendo i pugni. — Aveva da venir qui giusto oggi.... E non si risolve mica ad andar via.... Oh sì.... Meno male che entra nella bottega.... E poi dev’esser miope.... Ah!...
Ah, dice il dizionario, è una interiezione che si usa per esprimere diversi affetti. Certo che adesso, in bocca del professore Clemente Teofoli, essa ne esprimeva moltissimi. Chè di là ond’erano venuti lo [124] studente e la crestaia egli aveva visto sorgere (a lui era parso davvero che sorgesse dal suolo) una bella, agile figura di donna, avviluppata in una lunga pelliccia, con un cappellino di velluto color marrone con nastri azzurri, la veletta calata sul volto e le mani nascoste in un piccolo manicotto. Era lei, era lei. La cagnetta che l’accompagnava e che aveva tutti i connotati di Darling bastava a rimuover gli ultimi dubbi.
L’andatura della contessa (poichè Teofoli non s’era ingannato) non tradiva la minima esitanza, il minimo imbarazzo; s’ella aveva il velo abbassato, s’ella studiava il passo, era pel freddo e non per la paura di esser sorpresa. Giunta all’abitazione del professore, di cui ella conosceva benissimo la facciata, ella infilò il portone che di giorno era sempre aperto, salì la prima branca della scala e si fermò sul pianerottolo. Ma non ebbe bisogno di suonare il campanello accanto al quale era inciso su una piastra d’ottone il nome Teofoli, chè l’uscio girò lentamente sui cardini e una voce soffocata disse dal di dentro: — Contessa, o contessa Giorgina.
— Buon giorno, Teofoli, — ella rispose entrando con molta calma e tranquillità.
— Com’è stata buona, com’è stata gentile! — esclamava il professore porgendole la destra mentre [125] con l’altra mano andava quietando Darling che gli saltava alle gambe. — Non osavo sperare.
La contessa fece una risatina che mise allo scoperto una doppia fila di denti bianchissimi, e domandò: — Cerbero non c’è?
— Nè Cerbero, nè nessuno, — replicò il professore con un accento che a lei parve fin troppo tenero.
— Bah! — ella soggiunse. — In fondo sarebbe stato lo stesso.
Teofoli che precedeva di qualche passo la bella visitatrice e aveva già aperto l’uscio della sua camera da studio non ebbe tempo di rilevare il senso di questa frase poco appassionata, essendo avvenuto in quel momento un singolare incidente.
Il gatto Tocci, avvertito dal suo fine odorato o dal tintinnio dei sonagli di Darling della presenza di un quadrupede estraneo sotto il tetto domestico, si precipitò come un fulmine dal focolare della cucina ove faceva il suo chilo e piombò minaccioso sulla cagnetta, la quale, pusillanime per sua natura, evitò la pugna e inseguita dall’avversario corse a ripararsi nello studio del professore, sotto uno scaffale. Tocci, da animale che temperava l’audacia con la prudenza, non volle impegnare battaglia in condizioni sfavorevoli, ma col pelo arruffato, con la coda ingrossata si piantò dinanzi agli accampamenti dell’intruso esprimendo i suoi fieri propositi con certi rauchi e lunghi miagolii di non dubbio significato per chi conosce il linguaggio felino. Alle grida della contessa atterrita dal pericolo di Darling, Teofoli affrontò coraggiosamente il gatto belligero e dopo inutili sforzi per impadronirsene riuscì infine a cacciarlo dallo studio nell’andito e dall’andito nella camera della signora [126] Pasqua di cui chiuse l’uscio con un colpo secco. Compiuta questa lodevole impresa, il filosofo tornò dalla Giorgina ch’egli trovò accovacciata sul tappeto e intenta a tirar fuori Darling dal suo rifugio.
— Che bestie feroci tenete presso di voi? — ella gli disse in tuono di rimprovero.
— Oh per carità, contessa, mi perdoni, — balbettò il professore tutto confuso. — Se avessi potuto credere, se avessi potuto immaginare.... Darling, povera Darling, quell’animalaccio non ti ha mica fatto nulla?
— Paura le ha fatto.... Vedetela come trema.... Pur che non si ricominci da capo al momento di uscire.
— Nemmen per idea. Ho preso le mie precauzioni.
— Dovevate prenderle prima, — rimboccò la Serlati che s’era messa a sedere con la cagnetta in grembo e l’accarezzava come un bambino.
Il professore, umile e mortificato, non tentava nemmeno di difendersi. Ahimè, l’abboccamento galante principiava male.
A poco a poco la contessa si rabbonì, depose Darling in terra, e rivolgendosi a Teofoli disse: — Capisco, non ne avete colpa. — Indi soggiunse gettando via la pelliccia e il manicotto con un movimento rapido: — Fa un bel caldo qui.
— Se volesse levarsi anche il cappello? — egli propose timidamente.
— Non è affare.... Ci vuol troppo a rimetterlo.
— I guanti almeno....
— No, no.... Riallacciar tutti questi bottoni!...
Ella balzò in piedi nella grazia incantevole della elegante persona, e disse con un sorriso: — Orsù, [127] Teofoli, fate gli onori di casa.... È pieno di luce il vostro studio.... Dove guarda?
— Su un giardino.... Oh non ci son finestre di fronte.... Può affacciarsi liberamente.
— E perchè no?... Ah capisco, — ella ripigliò in tuono leggero; — sono una donna che si compromette.
Quindi, dando un’occhiata intorno, — Quest’è, per voi altri dotti, quello ch’è il salotto per noi donne.... Invece di ninnoli inutili, di vasi, di stoffe, di tappeti appesi ai muri o gettati alla rinfusa sui mobili, libri, libri, e poi libri.... Mi piace.... Se fossi un uomo, vorrei anch’io.... Ah mio marito, poverino, non ha di questi gusti.... E scommetto neppur Montalto.... Lo studio di Montalto deve avere un aspetto affatto diverso del vostro. Sarei curioso di vederlo.... Che viso fate, Teofoli! — ella esclamò ridendo. — Non vi spaventate. Nello studio di Montalto non andrò.... Mi comprometterei di più.
Teofoli, così eloquente dalla sua cattedra, così piacevole anche nella conversazione ordinaria, non trovava parole. Ce n’erano due che gli bruciavano le labbra e ch’egli non ardiva pronunziare, due paroline piccole piccole — Vi amo — che un pudore, un terrore invincibile non gli aveva in tanto tempo permesso di dire alla Giorgina. E sì che delle dichiarazioni gliene aveva fatte; delle dichiarazioni contorte, poetiche, arcadiche; ma quelle due paroline che hanno il merito di esser tanto chiare egli non gliele aveva dette mai. A dirgliele, chi sa, egli si sarebbe attirato da lei un rabbuffo, avrebbe per lo meno richiamato sulla sua bocca una di quelle risate rumorose che gli facevan male; non era meglio lasciar [128] ch’ella le indovinasse da sè?... E poichè certo ella le aveva già indovinate e pur sentendo ch’egli l’amava era venuta nel suo studio, nel suo santuario, non si poteva dire che il metodo da lui seguito fino allora fosse interamente sbagliato. Adesso però, adesso in qual modo doveva regolarsi? Non era giunto l’istante di parlar chiaro?
Ebbene, non c’era caso, il coraggio gli mancava sul più bello.... Egli a cinquant’anni, ella a poco più di venti, egli uomo grave, dedito a una vita di pensiero, ella, donnina alla moda, avvenente, corteggiata, assetata di divertimenti e di svaghi!... Oh quanto meglio gli sarebbe stata la parte di padre che quella di damerino!... Ecco, pur dianzi, quando la Serlati accennava celiando allo studio di Montalto, Teofoli aveva provato una stretta al cuore, e sarebbe ingiusto il credere ch’egli non sentisse che il morso acuto della gelosia. La gelosia c’era senza dubbio, ma c’era anche un altro impulso più delicato e più casto; come una gentile pietà di quella giovinetta che nessuno guidava, che si lasciava esposta a tutte le tentazioni, che sarebbe stata capacissima di cedere, se non oggi, domani alla curiosità di visitar lo studio d’un libertino. Egli sentiva che avrebbe dovuto dirle: — Badi, Giorgina, è su una strada falsa. Lei scherza col fuoco e il fuoco la brucierà. Abbia giudizio per quelli che non ne hanno. Dia uno scopo serio alla vita. Se sarà madre, s’occupi de’ suoi figliuoli.... Le gioie della maternità la risarciranno di ciò che le è mancato come moglie.... Che se pure è destino che neanche a lei possa bastar la famiglia, aspetti almeno di ubbidire a una voce imperiosa del cuore. La passione attenua sempre e talora scusa e [129] nobilita la colpa.... Ma sopratutto non sia una civetta volgare....
Ahi, poteva il professor Teofoli tener questo linguaggio alla contessa Serlati, egli che non badando alla differenza d’età le faceva il cascamorto, egli che s’era preparato a riceverla misteriosamente come usa un giovinotto quando ha una di quelle che si chiamano buone fortune?
Tutto ciò, si capisce, cresceva il suo impiccio che già non sarebbe stato piccolo in nessun modo. Non osava essere un amante, non sapeva essere un padre, non sapeva più nemmeno essere un amico. Le girava intorno inquieto, seguitando a ripeterle: — Cara contessa, Giorgina, s’accomodi.
E le additava un divano a molle ch’era in mezzo alla stanza.
— No, no, — replicava la contessa, — perchè volete farmi sedere? Sto benissimo così.
Pareva un uccellino che salta di frasca in frasca. Ferma un istante davanti agli scaffali, s’alzava in punta di piedi come se avesse l’intenzione di decifrare i titoli dei volumi addensati nei palchetti, ma appena il professore si accingeva a farle da cicerone, ella sguizzava da un’altra parte, ed eccola curva sul mappamondo quasi cercasse un punto importantissimo dell’orbe terracqueo.
Il professore le si accostava pieno di sollecitudine. — Che cerca?
— Niente, — rispondeva lei, alzando con un sorriso la sua bella testina.
E rivolgeva per pochi secondi la sua attenzione all’atlante che Teofoli aveva spiegato sul leggìo.
— Quest’atlante, — cominciava il professore, — è [130] il più completo di quanti ci siano. Non si sa se più lodarne la nitidezza tipografica, oppure....
La contessa assentiva. — Bello. Sembra un messale.... Perù preferisco veder davvicino questi ritratti.... Di qualcheduno c’è il nome sotto.... Autografi preziosi.... Quello è Renan. Ne vidi la fotografia un’altra volta.... Che tipo singolare!... Come si vede ch’è stato prete.... C’è una frase latina.... semel.... semel.... ah finitela voi....
— Semel abbas, semper abbas.
— Bravo.... E questi chi sono?
Teofoli glieli nominò ad uno ad uno.
— Tutti quanti illustri, — ella disse con aria convinta. — Non sarebbe male che fossero più giovani.
— Eh, cara Giorgina, in certi studi non si arriva così presto a farsi una celebrità.
— Ma nella poesia, nella musica, sì?
— Qualche volta.
— Ho visto i ritratti di Byron, di Mozart, di Bellini.... Non li avete mica?
— No.... Ma d’un altro ritratto non mi domanda conto? — egli soggiunse a mezza voce.
— Quale ritratto?
— Il suo.
— È vero.... Quello che vi diedi in campagna.... Dov’è?
Il professore aperse misteriosamente un cassetto.
— È qui.
— Lo custodite come una reliquia?
— Per me, è una reliquia....
— Dio, come siete sentimentale! Però è bene che non mi mettiate in mostra.... Prima di tutto non converrebbe.... E poi la fotografia non mi piace.... Spero [131] che l’ultima di cui non ho ancora visto la prova sia riuscita meglio. Faremo il cambio.
— Se mi permette le terrò tutt’e due, — disse Teofoli.
Ella si strinse nelle spalle. — Accomodatevi pure.
Indi sedette dinanzi alla tavola del professore, sulla sua poltrona, e si diede a scartabellare i suoi fogli. — È qui che scrivete la vostra grande opera sulle religioni?
— È qui che dovrei scriverla, — egli rispose. — Ma chi sa quando ne verrò a capo.
Teofoli non osava confessare che dacchè l’aveva conosciuta non aveva lavorato un giorno solo di lena.
— Male! — sentenziò con gravità la contessa. — Bisogna venirne a capo presto. Siete già un uomo celebre, ma quel libro assoderà in modo definitivo la vostra riputazione.
Il professore ch’era ritto dietro a lei si chinò adagio adagio fino quasi a sfiorarle con le labbra una ciocca di capelli che le svolazzava sulla nuca, e susurrò: — Le preme dunque la mia riputazione?
Ella si voltò bruscamente. — Mi avete fatto paura. Sì che mi preme..... Ma perchè me lo domandate con quell’aria lugubre, sepolcrale, come d’uomo che mediti un delitto?
Anche questa volta i modi della Giorgina lo sconcertarono. Era lì lì per aver coraggio e non l’ebbe.
— Ebbene, Teofoli, — ella disse alzandosi in piedi; — non vi lagnerete di me.... Ho mantenuto la mia promessa, son venuta a trovarvi a rischio di far nascere chi sa quanti pettegolezzi.... e adesso vado via.... Ma dov’è Darling?
— Va via.... così! — esclamò il povero professore.
[132]
— Come volete che vada?... Se sapeste quante cose ho da fare.... Ma dove diamine è Darling?... Darling, o Darling.
La cagnetta, che s’era rifugiata di nuovo sotto lo scaffale, cacciò fuori il muso dal suo nascondiglio e volse in giro gli occhi spauriti.
— Ha ancora la tremarella alle gambe, — notò la Giorgina. — L’eroismo non è il suo forte.... Andiamo, Darling.... Non ci son più pericoli.... Qua, qua.
Darling, a passini piccoli e cauti e quasi strisciando col ventre per terra, s’avvicinò alla padrona che le disse minacciandola dolcemente col dito: — Non conviene esser così vigliacchi. Dovevi mostrare i denti, e chi sa che quell’altra bestiaccia non avrebbe fatto rodomontate.... Orsù, Teofoli, aiutatemi a infilar la pelliccia.
— Non sia cattiva, Giorgina, non abbia questa fretta, — insisteva il professore.
— Abbiate pazienza, amico mio.... Non posso aspettare un minuto di più.... Ho lasciato detto a casa che per le due e mezzo circa sarò di ritorno, e sono già le 2,35.... Poi debbo vestirmi per uscir alle tre in carrozza... Ho da far quattro visite... pur troppo.... Oh avete ragione, è una vita impossibile.... Ma non c’è rimedio.... Sfido per esempio a non andar oggi stesso da Mistress Gilbert.... A proposito.... riceverete dai Gilbert l’invito per un ballo in costume che daranno l’ultimo sabato di carnevale.
— Quei signori americani?... Se li conosco appena?
— Non importa.... Siete un luminare della scienza, e vi vogliono.... Così va bene.... grazie.
Quantunque a malincuore, Teofoli s’era rassegnato a metter la pelliccia sulle spalle della contessa.
[133]
— Sono grato ai signori Gilbert — egli rispose. — Ma andare a un ballo, e a un ballo in costume per giunta.... si figuri....
— Gran che! Temete di compromettere la vostra dignità?
— Non dico questo.... A ogni modo non è affare per me....
— Via via, vi lascierete persuadere.... Ne riparleremo. Intanto, vi prego, datemi anche il manicotto.... È lì sul divano.... Grazie.... E addio, Teofoli.... Badate che domani e doman l’altro non sono in casa nè di giorno nè di sera. Posdomani sera ci troveremo dai Roncagli.
Prima che il professore potesse far un ultimo tentativo di trattenerla, prima ch’egli potesse almeno carpirle la promessa di ritornare, ella era già nell’andito vicino alla porta della scala. Bisognò pur che Teofoli si decidesse ad aprirle.
— Buon giorno, — ella disse scendendo rapidamente gli scalini seguita da Darling i cui sonagli mettevano un tintinnio argentino.
Teofoli tornò nel salotto da pranzo e si riaffacciò alla finestra da dove l’aveva vista venire. E dalla stessa finestra la vide allontanarsi e l’accompagnò con lo sguardo sinch’ell’ebbe svoltato il canto della via. Allora liberò il gatto Tocci che miagolava e graffiava l’uscio della sua prigione, e ricondottosi nello studio s’abbandonò sul divano, stanco, sfinito come dopo una giornata campale.
[134]
La brillante avventura del professore Teofoli non rimase a lungo celata.
Già sul far della sera la signora Pasqua venendo a portare il lume e a chiuder le imposte si fermò sui due piedi arricciando il naso e disse: — Che odore di muschio!
Il professore non rispose.
— Badi che si buscherà un’emicrania — ripigliò la governante, mentre perlustrava lo studio in tutti i suoi sensi. — A un tratto ella pronunziò queste gravi parole: — C’è stato un cane.
— Da quando in qua i cani hanno odore di muschio? — replicò Teofoli in tuono ironico.
La signora Pasqua insisteva dando un’occhiata di sbieco sotto uno degli scaffali: — Non parlo a caso. C’è stato un cane.
— Che cani, che cani? — riprese infastidito il padrone. — Dite piuttosto un gatto. Ho dovuto cacciar via il vostro dilettissimo Tocci che s’era introdotto nella stanza.
— Sarà, — ripigliò impassibile la signora Pasqua, — ma c’è stato anche un cane.... E un cane maleducato — ella continuò accalorandosi nel discorso.
Teofoli perdette la pazienza. — Insomma cani o gatti, che cosa v’importa?
— Molto m’importa. Io non sono disposta a tenerle [135] pulita la stanza perchè poi.... Ma come non sente il bisogno di spalancar le finestre?
— Io non sento niente.... Mettete giù il lume e lasciatemi in pace.
La signora Pasqua slanciò il cosidetto strale del Parto. — Non saranno mica i suoi studenti che verranno a trovarlo coi cani dietro e col muschio addosso. Ha ricevuto signore.
Al professore salirono le fiamme al viso. — Io ricevo chi mi pare e piace e non ho conti da rendervi.
A questa rude intimazione l’austera donna fece due passi verso l’uscio; poi voltandosi indietro e portando il grembiule agli occhi, disse: — Capisco bene che lei non ha più fiducia in me.... La prego di cercarsi prima della fine del mese chi prenda il mio posto.
Teofoli alzò la testa dalle sue carte. — Vi licenziate?
— Sissignore.... Io non sono una cameriera adattata per una casa dove vengono le contesse....
— Tacete, sciocca che non siete altro — gridò il professore. — E guardatevi bene dal ripetere queste fanfaluche.... In quanto al licenziamento, da oggi alla fine del mese avete tempo da riflettere.... Adesso andate a preparare il desinare.
L’illustre professore aveva mostrato una grande padronanza di sè, ma in fondo era più agitato della signora Pasqua e per tutta la notte non fece che voltarsi e rivoltarsi nelle coperte.
Dopo gli splendidi risultati della giornata non ci mancava altro che uno scandalo! E quella balorda era capacissima di farlo nascere se spargeva fra le sue conoscenti la notizia di ciò che aveva creduto [136] indovinare. È vero ch’ella non aveva pronunziato alcun nome, ma evidentemente ella alludeva alla contessa Giorgina, e non era probabile che parlando con le sue amiche usasse la stessa discrezione che per prudenza aveva usato parlando con lui. Così, di bocca in bocca, la cosa sarebbe giunta senza dubbio fino agli orecchi del conte Serlati, il quale era un marito frivolo che della moglie non si curava punto; ma anche i mariti frivoli e noncuranti qualche volta s’accendono come fiammiferi.... Se fosse venuto a fargli una scena, a provocarlo?... Teofoli non era pusillanime; tuttavia alla sua età, nella sua posizione, con la sua inesperienza assoluta del maneggio d’ogni arma, non gli sorrideva punto l’idea d’un duello. Certo ch’egli poteva dare al conte le assicurazioni più tranquillanti.... pur troppo.... poteva giurargli sul proprio onore che la visita della Giorgina era stata innocentissima; sta a vedere però se colui ne sarebbe rimasto persuaso; se nella migliore ipotesi non avrebbe detto: — Caro professore, faccia di meno di venire a casa mia...? E d’altra parte, Santo Iddio, come regolarsi con la Pasqua? Rinnovarle più chiaramente l’intimazione di tacere? Oh sì era lo stesso che farla parlare di più. Prenderla con le buone, metterla nelle proprie confidenze, cercar insomma di avere in lei una complice così pel passato come per l’avvenire? Peggio che peggio. Questo sì sarebbe stato mutar una pulce in un elefante. In fin dei conti quelle della Pasqua si riducevano a semplici ipotesi, a congetture ch’era sempre lecito di smentir formalmente; col ricorrere alle moine o alle minaccie per ottenere il suo silenzio si dava corpo a’ suoi sospetti, si ammetteva di aver qualche magagna da [137] nascondere. La conclusione si fu che il professore deliberò di non fare pel momento alcun passo con la sua donna di governo e di fingere che la disputa di poche ore prima non fosse nemmeno avvenuta. Senonchè, mentr’egli gustava per questo lato la calma relativa di chi ha preso un partito, buono o cattivo che sia, lo ripigliava un’altra inquietudine. Quell’imbecille del conte Ermansi aveva o non aveva vista la contessa Giorgina? È vero che all’ultimo momento egli era entrato nella bottega del rigattiere, ma anche dall’interno della bottega si poteva veder benissimo il portone della casa dirimpetto.... Basta; bisognava sperare che Ermansi non avesse visto nulla; se no quello lì chiacchierava sicuramente.
Teofoli, molto timido e peritoso, andò dai Roncagli la sera prossima, e con suo immenso terrore concepì subito il sospetto che la scappatella della contessa Giorgina fosse già conosciuta. Gli lodavano misteriosamente il suo studio, accennavano anche più misteriosamente alle visite di studenti e non studenti ch’egli vi riceveva, accompagnando i discorsi con risatine sardoniche e con significanti tentennatine di testa.
Spaventato, egli colse un istante propizio per mettere sull’avviso la contessa, che non aveva affatto l’aria di una persona sull’orlo d’un precipizio.
La risposta ch’ella gli diede lo fece rimanere intontito. — Sì — ella disse stringendosi nelle spalle — è il segreto di Pulcinella.... Chi poi sarà stato il pettegolo?... Voi no...?
— Io? — esclamò Teofoli portandosi una mano al cuore.
— Vi credo, vi credo.... Ma non vale la spesa di [138] affannarsi alla ricerca del reo.... Alle prime avvisaglie ho subito parato il colpo. Ero andata a fare un’improvvisata a un buon amico, a un vecchio amico, a un amico rispettabile. Che cosa vi poteva esser di male?
— Niente — masticò fra i denti il professore, poco lusingato da tutti questi epiteti onorifici. — E il conte?
— Mio marito prese la cosa come doveva prenderla, come una delle mie tante eccentricità. Da quell’uomo savio ch’egli è — e la frase fu pronunziata con manifesta ironia — mi fece una piccola predica e poi si quetò.... Alla gente egli dice ch’era informatissimo della visita che dovevo farvi, che mi avrebbe accompagnata volentieri, ma che non potendolo mi lasciò andar sola.... Forse dirà lo stesso anche a voi.... Tout est bien qui finit bien — ella concluse con un sorrisetto troncando un colloquio che durava già da un mezzo minuto.
Sul tardi il conte Serlati tenne a Teofoli su per giù il discorso che la Giorgina gli aveva pronunziato. E gli promise di capitar quando meno se l’aspettava a sorprenderlo nel suo studio, o solo, o con la moglie.... Sapeva ch’era uno studio così bello, così gaio....
A trovar la bonaccia assoluta dopo essersi preparato alla tempesta, Teofoli, anzichè esser contento, provò un senso di mortificazione e di rabbia. Ma dunque s’erano presi gioco di lui? Dunque nessuno pensava che una donna potesse compromettersi a venir sola a casa sua? E quell’imbecille di Serlati faceva lo spiritoso alle sue spalle? E quell’altro peregrino intelletto di Montalto sogghignava anche lui sotto i baffi? In verità non dovrebb’esser permesso ai cretini di pigliare un’aria di superiorità verso gli uomini d’ingegno.
[139]
Ah uomini d’ingegno, uomini d’ingegno! Per modesti che siano o fingano d’essere, l’orgoglio ch’è in loro fa capolino quando più converrebbe ch’esso restasse celato. Ogni volta ch’essi si mettono in una posizione falsa dando agli sciocchi il diritto di canzonarli, si lagnano se gli sciocchi ne approfittano e li canzonano.
Tuttavia il maggior cruccio del disgraziato Teofoli derivava dal sospetto che la contessa Giorgina fosse stata realmente d’accordo col marito e coi galanti per fargli il brutto tiro e per rider poscia di lui. Qui proprio egli si sbagliava. Seppur la Serlati avesse avuto l’idea di burlarsi per conto proprio della passione senile ch’ell’aveva destata, non avrebbe certo avuto quella di chiamar nessuno a partecipar della burla. Ma non si trattava nemmeno per lei d’una burla. Era andata da Teofoli un po’ per compiacenza, un po’ per curiosità, con quella meditata spensieratezza (ci si passi buona la frase contraddittoria) che si riscontra così sovente in qualche bizzarro cervellino di donna. Aveva novanta su cento probabilità di non rischiar nulla nella sua visita; in quanto alle dieci probabilità sfavorevoli si affidava al caso, il regolatore supremo di gran parte dei fatti umani. Nè c’è dubbio che non avendo da guadagnarci a propalare il segreto, per conto suo avrebbe taciuto; ma poichè, senza sua colpa, la faccenda era trapelata, ella si levava d’impaccio con molta disinvoltura, persuasa in buonissima fede di render un servizio al suo amico.
Teofoli invece, a pensarci su, si riscaldava il sangue da solo, e sarebbe stato un bel trionfo per la signora Pasqua il vederlo tornare a casa in un parossismo [140] di collera; per disgrazia la signora Pasqua era a letto e non potè goder lo spettacolo del suo padrone inferocito contro il proprio idolo. La celeste Giorgina, la creatura ideale, l’angiolo di paradiso era divenuta un demonio, un mostro di nequizia. Strani effetti dell’amore attraverso il quale noi non vediamo mai le cose nelle loro proporzioni naturali, ma ora più grandi ora più piccole del vero, come attraverso un canocchiale che si tenga a vicenda diritto o rovescio!
Quantunque fossero quasi le due del mattino, il professore rimase alzato nel suo studio e s’accinse a scrivere. Non scriveva già un capitolo del suo libro, una monografia per qualche giornale, una serie di note per le sue lezioni; scriveva una lettera, a lei. A parlarle non avrebbe mai avuto il coraggio di dire quello che voleva. Con la penna in mano, chi sa! E scrisse, e scrisse senza mai riuscire a trovar la nota giusta. Non uno de’ suoi lavori scientifici gli aveva costato tanta fatica. Cominciò con l’intonazione secca, ricisa, d’un uomo che brucia i suoi vascelli. Non intendeva esser lo zimbello di nessuno; chi non apprezzava i suoi sentimenti mostrava di non esserne degno. In quanto a lui, ormai aveva aperto gli occhi e doveva tutelare la sua dignità. Ma a questo punto la lettera gli fece l’effetto d’esser troppo brutale e stracciò il foglio e lo gettò nel cestino. E dopo il primo un secondo, e dopo il secondo un terzo, e un quarto, e via via. Intanto i suoi ardori sbollivano, e al quarto o quinto rimaneggiamento la sua epistola divenne così melensa e insignificante che nulla più. Ma nel rileggerla gli saltò la stizza di nuovo, s’accusò di debolezza, di pusillanimità, si picchiò rabbiosamente la fronte coi pugni, e preso un altro foglio ritentò [141] l’ardua prova. Ed era sempre la medesima cosa. Ora diceva troppo, ora troppo poco. Verso l’alba non ne poteva più e andò a coricarsi senz’aver concluso nulla. Appena alzato si mise all’opera e finì col vergare una trentina di righe che non erano nè carne nè pesce, ma delle quali si contentò nella sfiducia assoluta di poter far meglio. Ripiegò il foglio, lo chiuse nella busta, e rompendo gli indugi lo consegnò al ragazzo Fedele perchè lo portasse subito subito alla sua destinazione. Mezz’ora dopo uscì per recarsi all’Università. Camminava torvo, stralunato, parlando fra sè, onde un collega, incontrandolo, credette ch’egli declamasse dei versi di Virgilio o di Dante. Non erano versi che Teofoli recitava; erano frasi della sua lettera, e adesso, nel ripeterle a sè medesimo, stentava a trarne un senso chiaro e preciso. Quella sua prosa arruffata, dissimile tanto dalla sua prosa ordinaria, rifletteva lo stato della sua anima, combattuta tra diversi affetti. Da un periodo traspariva in lui il fermo proposito d’infrangere la sua catena; dal periodo seguente si sarebbe potuto arguire ch’egli desiderasse di legarsi di più. Che avrebbe detto, che avrebbe pensato la contessa Giorgina? E se non avesse detto nulla? Se avesse inflitto al suo adoratore la massima delle umiliazioni, non curandosi neanche di ciò ch’egli le scriveva, lasciandolo libero di venire o non venire, di troncare o no ogni rapporto con lei?
L’ora della lezione fu, come sempre, un’ora di tregua, di pace pel nostro Teofoli. In quell’Università ch’era il suo regno, in quelle aule rese domestiche dalla lunga consuetudine, davanti alle faccie allegre di quegli studenti che, pur cambiando ogni anno, conservavano un’aria di famiglia, egli non dimenticava [142] già le sue pene, ma gli pareva che il carico ne fosse men grave.
L’agitazione ricominciò appena egli fu di nuovo all’aperto, e andò crescendo di mano in mano ch’egli si avvicinava a casa. Era già presso al portone quando sentì qualcheduno che lo rincorreva e una voce che non gli era ignota lo chiamò replicatamente: — Professore, professore.
Era il cameriere della contessa Serlati.
— Ho questo biglietto per lei, — egli disse. — Non c’è risposta.
Fece un inchino e tirò innanzi.
Bianco come un cadavere, con le gambe che gli traballavano, Teofoli s’appoggiò allo stipite della porta, e aperse con mano tremante il biglietto sulla cui soprascritta aveva riconosciuto la calligrafia della contessa.
Poche parole. “Ieri avete certo pranzato male e digerito peggio. Una ragione di più perchè veniate oggi a desinare con noi alle sette. Non si accettano scuse di nessuna specie e il mio servo ha l’ordine di non star nemmeno ad aspettar la risposta. Arrivederci. Giorgina.„
In fondo, con queste poche righe la contessa Serlati non solo schivava ogni spiegazione immediata, ma non lasciava intravedere nessuna probabilità di spiegazioni future. Alle sfuriate di Teofoli ella dava incirca quel peso che suol darsi alle bizzarrie d’un bambino che si rabbonisce coi trastulli e coi dolci. Se il professore fosse stato davvero sollecito della propria dignità come pretendeva di essere, non avrebbe accettato l’invito. Ma egli era un innamorato e gli innamorati trovano sempre argomenti efficacissimi [143] per giustificare la loro vigliaccheria. Prima ancora di fare i quindici o venti scalini che mettevano al suo quartierino, egli aveva vinti tutti i suoi dubbi, ribattute tutte le sue obbiezioni. Non andar dai Serlati sarebbe stata una sconvenienza senza nome, sarebbe stato anche un imperdonabile errore. Era precisamente coll’andarvi che si poteva presentar l’opportunità d’un colloquio intimo con la Giorgina, la quale del resto faceva prova d’una grande equanimità non prendendo in mala parte le parole risentite del professore, e continuando a trattarlo come un amico.
Fu una serata deliziosa, ma poco propizia ai colloqui intimi. A pranzo non erano che in quattro persone, i due padroni di casa, il professore Teofoli e un erudito francese, membro dell’Istituto, un Monsieur de la Rue Blanche, che la Giorgina aveva conosciuto a Parigi. La contessa fu amabilissima; presentò Teofoli all’accademico francese come uno dei pensatori più illustri d’Italia e nello stesso tempo come un intimo suo, accennò alla grande opera ch’egli aveva in lavoro, dolendosi solo che l’operosità del suo amico non fosse pari al suo ingegno e alla sua dottrina, e pronosticando a quell’opera, quando fosse compiuta, un successo colossale. Ne parlava con un calore scevro di affettazione, quasi d’una cosa in cui ella avesse parte, quasi d’una [144] gloria che dovesse gettare un riflesso sopra di lei. E aveva realmente l’aria di persona appassionata pegli studi; non si sarebbe mai detto ch’ella era la medesima donna che rideva agli scherzi scipiti di Montalto e d’altri balordi simili. Teofoli e Monsieur de la Rue Blanche erano in estasi; soltanto Seriati frenava a stento gli sbadigli. Quando non si discorreva di cavalli e di cocottes egli sbadigliava sempre.
Monsieur de la Rue Blanche era un uomo di mezza età e di buon aspetto, e quantunque fosse un erudito era un uomo di spirito. Fu lui che portò pel primo nella conversazione una nota mondana chiedendo so fosse vero che Mister e Mistress Gilbert pei quali egli aveva una lettera di raccomandazione dovessero dare una gran festa da ballo.
— Sicuro! — rispose la Serlati. — Consegnerà la lettera e andrà alla festa anche lei.
— Parbleu! — esclamò Monsieur de la Rue Blanche confessando che andava pazzo per le feste da ballo, ciò che parve alquanto strano al nostro Teofoli.
— Però.... una festa in costume.... — notò timidamente il professore.
Ma prima che il francese potesse dire se questa clausola creasse per lui un ostacolo insuperabile, la contessa Giorgina intervenne con vivacità. — Il costume non è più obbligatorio. I Gilbert hanno risoluto.... un po’ per mio suggerimento, — ella soggiunse rivolgendosi con un sorriso a Teofoli, — di ammettere in semplice abito nero gli uomini di più di quarant’anni.... Tutto sta confessare i quarant’anni.... Il professore li confessa?
— Sfido io.... A ogni modo....
[145]
La Serlati non badò a quell’ogni modo gravido di restrizioni, e con uno sguardo interrogativo all’altro commensale: — E Monsieur de la Rue Bianche...?
Monsieur de la Rue Bianche trovava che questa degli anni è una faccenda delicata per tutt’e due i sessi; ma già, seppur avesse giurato sul suo onore di non aver compiuto i quaranta, nessuno gli avrebbe creduto.... Comunque sia, anche riconoscendo i suoi quarantacinqu’anni sonati, se fosse stato a Parigi egli non avrebbe avuto una difficoltà al mondo di cercarsi un costume; fuori di paese era cosa diversa, ed egli accettava di buon grado la concessione dei signori Gilbert. Sarebbe andato in abito nero. Non dubitava che il suo cher confrère avrebbe fatto altrettanto.
Ma il cher confrère era molto perplesso. Non aveva frequentate le feste nemmen da giovine; o che doveva cominciare alla sua età?
— Che età? Che età? — saltò su il francese. — Per lui non c’erano uomini vecchi; c’erano tutt’al più uomini malati. E il cher confrère stava bene; dunque...? Monsieur de la Rue Bianche, riscaldato un poco dall’eccellente vino dei Serlati, si accinse a magnificare le splendide veglie parigine a cui assistono senza vergognarsi personaggi gravi e maturi, trovandovi, in mancanza di meglio, un spectacle pour les yeux.... Et quel spectacle!... Ci vorrebbe altro che si dovesse far penitenza appena cominciano a brizzolarsi i capelli.
Il buon umore di Monsieur de la Rue scosse dal suo intorpidimento anche il conte Ercole che di Parigi si ricordava molte bellissime cose e ne discorse [146] con grande competenza abbassando la voce nei punti scabrosi ed espandendosi col dotto forestiero.
Intanto la contessa Giorgina catechizzava Teofoli. Quella sua ripugnanza ad andar dai Serlati era veramente incomprensibile. Valeva la spesa ch’ella si sbracciasse a ottener dai Gilbert una modificazione al loro programma! E l’aveva ottenuta pensando a lui, proprio a lui, per togliergli la sola scusa che gli fosse lecito addurre con qualche apparenza di ragione.... La bella figura ch’egli le avrebbe fatto far coi Gilbert se si ostinava nel suo rifiuto!
Teofoli era sulle spine. Avrebbe voluto compiacer la contessa alla quale era riconoscente dal fondo dell’anima della nuova prova di benevolenza ch’ella gli dava. Ma, Dio buono! Che parte poteva essergli riserbata in una festa? Se avesse ballato, se fosse stato in grado di chiedere una quadriglia, un lancier alla persona che sapeva lui.... allora sì. Invece quella persona egli l’avrebbe appena vista, avrebbe appena potuto dirle una parola....
La contessa si mise a ridere. — Via, via.... Quella persona, che forse io conosco, non vi offre una quadriglia, un lancier, dal momento che non ballate.... Ma si farà accompagnare da voi al buffet.... un privilegio che molti v’invidieranno.
Era una sirena, una vera sirena quella Giorgina. Come resisterle? Teofoli sollevava ancora qualche lieve obbiezione, tanto per la forma, ma si capiva bene che ormai si dava per vinto. Se almeno la sua mansuetudine gli avesse valso dalla contessa una franca spiegazione sull’argomento che più gli stava a cuore! Sembrava però ch’ella neanche si [147] ricordasse d’aver ricevuto da lui una lettera meno docile, meno sommessa del consueto. A un cenno ch’egli gliene fece con infinita circospezione, ella gli chiuse la bocca con una risata e una scrollatina di spalle. — Siete un visionario, — ella disse. E fu tutto.
Alle nove ella si accommiatò da’ suoi ospiti, dovendo vestirsi pel teatro, e Monsieur de la Rue Bianche uscì insieme col professore Teofoli al quale egli mostrava una simpatia straordinaria. E presolo a braccetto si fece accompagnare da lui per le vie della città parlandogli poco di studi e molto di femmine e chiedendogli una serie di notizie che il candido professore non era in grado di fornirgli. Anzi il linguaggio cinico assunto dall’accademico francese circa al bel sesso frenò sulle labbra del buon Teofoli le espansioni e le confidenze a cui forse, come ogni innamorato, egli sarebbe stato disposto. No, non avrebbe tradito il suo sentimento con un uomo che nell’amore non vedeva altro che un passatempo e riassumeva in qualche frase brutale le sue massime sulla linea di condotta da tenersi con le donne. — De l’audace, de l’audace, et toujours de l’audace, — egli diceva battendo forte sulla spalla del suo interlocutore. — C’est le mot de Danton.
Quel benedetto Monsieur de la Rue Bianche non si decideva più a tornare all’albergo. E dopo non so quanti giri e rigiri, attratto dall’illuminazione d’una birreria posta sulla piazza maggiore della città, egli insistè per entrarvi. Ora quella era appunto la birreria ove una volta il professore soleva recarsi tre o quattro sere per settimana, e proprio di fronte alla porta d’ingresso Teofoli si trovò faccia a faccia [148] con Frusti e Dalla Volpe che sedevano soli soletti ad un tavolino. Non potè a meno di salutarli e di presentar loro Monsieur de la Rue Bianche, che Dalla Volpe specialmente avrebbe dovuto conoscer di nome perchè s’occupava di studi analoghi ai suoi. Ma tra i due professori e il dotto confrère c’era troppa diversità d’indole perchè il colloquio riuscisse animato, e Frusti e Dalla Volpe, limitandosi a scambiar poche parole col forestiero, preferirono di vuotare il sacco degli epigrammi contro il collega. Il più esacerbato era Dalla Volpe che aveva sullo stomaco una quantità di pranzi di magro ammannitigli dalla consorte. E tirò in campo la festa dei Gilbert alla quale aveva sentito dire che Teofoli fosse invitato. Era vero?
Verissimo.
E ci sarebbe andato?
Probabile.
— E in che costume? — seguitò Dalla Volpe.
Teofoli avrebbe potuto rispondere che sarebbe andato in abito nero, ma non volle abbassarsi a troppe spiegazioni. — Si vedrà, — egli disse seccamente.
— Allora, — ripigliò Dalla Volpe, — scommetto ch’è vero anche questo: che comparirai da Zefiro....
— E che ballerai un passo di grazia con la contessa Serlati — soggiunse Frusti.
Il professore replicò con mal garbo, e chi sa che battibecco sarebbe successo se la presenza d’un estraneo non avesse servito di freno.
Però Teofoli e Monsieur de la Rue Blanche non istettero molto ad accommiatarsi. Il francese esternò subito la sua antipatia pei due istrici che l’altro gli [149] aveva fatto conoscere e svolse le sue idee sulla necessaria inferiorità di quelli che sfuggono le donne. Beninteso qu’il ne faut pas nager dans l’azur; bisogna andar subito al concreto; se no, guai.
Fra i sarcasmi di Dalla Volpe e di Frusti e le dottrine radicali di Monsieur de la Rue Bianche, il professore tornò a casa che aveva la testa come un cestone. E tutta la notte sognò le mot de Danton: de l’audace, de l’audace, et toujours de l’audace. E, sempre in sogno, fu audacissimo; tanto audace che la mattina, a ricordarsene, sentì drizzarsi i capelli sulla fronte e salirsi le fiamme al viso.
Comunque sia, in quei giorni, con la migliore volontà del mondo, il professore Teofoli non avrebbe potuto essere audace altro che in sogno. I preparativi pel ballo mascherato dei Gilbert assorbivano tutte le facoltà e tutto il tempo delle signore eleganti di X; le virtuose non badavano più alla loro famiglia, le peccatrici non badavano più ai loro amanti, e quelle che, senza essere ancora cadute, avevano voglia di gustare il frutto proibito, si riserbavano a stendervi la mano in quaresima. Per ora conveniva pensare alla gran serata. Ed erano abboccamenti misteriosi e misteriose corrispondenze con sarti e vestiaristi del paese e di fuori, erano colloqui diplomatici in cui le rivali si tasteggiavano a vicenda cercando strapparsi il geloso segreto di un’acconciatura, [150] del taglio d’un abito, del colore d’un nastro. Si consultavano gli artisti, si sfogliavano le opere più riputate sul costume antico e moderno dei vari popoli, si esaminavano disegni e modelli, si applicava la celebre formola dell’Accademia del Cimento: provando e riprovando.... ogni sorta di foggie. C’era poi da combinare le coppie per le quadriglie, e anche questo grave argomento era oggetto di lunghi e delicatissimi negoziati.
Le intenzioni della contessa rimasero per un pezzo avvolte in un mistero impenetrabile. Finalmente si seppe ch’essa sarebbe comparsa da Madama di Pompadour e che il suo cavaliere nella quadriglia sarebbe stato il marchese Montalto in uniforme di gentiluomo della Corte di Luigi XV.
Teofoli accolse la notizia con mediocre entusiasmo. La marchesa di Pompadour, una favorita! Non c’era proprio di meglio da scegliere?
E con molte reticenze il professore fece intendere alla sua amica che avrebbe preferito qualche cos’altro, qualche tipo immortalato dalla poesia, reso sacro dalla sventura....
— Mio caro, — interruppe la Serlati, — la poesia e la sventura son bellissime cose, ma in un ballo si bada a ben altro che a ciò.... Sarò una marchesa di Pompadour adorabile, ve ne dò la mia parola d’onore... senza esser per questo la favorita di nessun principe....
— O contessa cattiva, può attribuirmi un pensiero simile? Gli è ch’io l’avrei vista così volentieri come Beatrice, come Laura, come Vittoria Colonna....
— Per carità, Teofoli, lasciamole in pace queste illustri signore. Beatrice una maestra di catechismo, [151] Laura una smorfiosa, Vittoria Colonna una pedante.... La mia marchesa di Pompadour almeno è una donna, viziosa fin che vi piace, ma donna, piena di buon gusto, d’eleganza, di spirito.... E poi ella vestiva bene, e quest’è l’essenziale.... domandate l’opinione delle sarte sulle toilettes delle vostre tre dame.
In complesso Teofoli non osava dirlo, ma più che la scelta del costume lo infastidiva la scelta del cavaliere. Montalto? Sempre Montalto? Perchè la Giorgina aveva accordato un tanto favore a quello tra i suoi adoratori che gli dava più ombra?
Questa, pel professore, avrebbe dovuto essere un’ottima ragione per riconfermarsi nella sua prima e savissima idea di non andare dai Gilbert; ma in amore non vi sono ottime ragioni; vi sono degli istinti; vi sono, come direbbero gli avvocati, delle forze irresistibili che ci trascinano a fare precisamente il contrario di quello che sarebbe richiesto dalla nostra quiete e dal nostro decoro.
Nè ormai c’era alcuno che avesse presa sull’animo del buon Teofoli, che potesse trattenerlo sul pendìo sdrucciolevole nel quale egli era avviato. Non aveva altra persona di famiglia che una sorella maritata a Roma e con cui egli scambiava due lettere all’anno; sfuggiva gli amici e in particolar modo gli Ermansi, Frusti, Dalla Volpe, e quando non era all’Università, o nel suo studio, o dai Serlati, vedeva con qualche frequenza il solo Monsieur de la Rue Bianche, che, senza parlargli della contessa Giorgina, coltivava coi discorsi procaci le sue recenti disposizioni erotiche e gl’intronava la testa col mot de Danton: de l’audace, de l’audace et toujours de l’audace.
[152]
Si avvicinava intanto la sera del ballo e alla vigilia del memorabile avvenimento la signora Pasqua vide giungere a casa due paia di guanti gris perle, due paia di cravatte bianche e un abito nero completo. Quest’abito nero fu quello che l’impressionò di più, perchè il professore ne aveva uno, fatto da un anno in occasione d’una cerimonia scolastica, e tuttora in buonissime condizioni, tantochè egli se n’era servito anche nel corso dell’inverno per andare nelle sue società.
Dopo la scena che il lettore ricorda, le relazioni tra la signora Pasqua e il padrone erano quelle di due potenze che hanno richiamato gli ambasciatori senza venire a una aperta rottura. Del licenziamento non si parlava nè da una parte nè dall’altra; si dicevano soltanto le cose indispensabili, e si dicevano col minor numero di parole possibile.
Questa volta però la signora Pasqua non potè tacere.
— Scusi, — ella disse, — s’è dimenticato che ha un frac quasi nuovo?
— Non ho dimenticato nulla, — rispose il professore, — ma quel frac non va bene.
— Come? Non è più di moda?
— Già.... Non è più di moda, — replicò Teofoli per troncare il discorso.
Ma la signora Pasqua insistette. — Un uomo come lei curarsi della moda! — ella brontolò. E soggiunse: — Io poi le giuro che il vestito vecchio è dell’identico taglio di questo che il sarto le ha fatto adesso per mangiarle dei quattrini.... Anzi vado a prenderlo.... Vedrà co’ suoi occhi.
— No, no, — ripigliò il professore ordinandole di [153] fermarsi. — Volete saperla la ragione di quel frac nuovo? L’altro era diventato troppo largo e non c’era modo di stringerlo convenientemente....
Vi sono parole che illuminano.... La signora Pasqua guardò il professore e riconobbe subito che il vecchio frac doveva realmente essergli diventato assai largo. In fatti gli eran diventati larghi tutti i vestiti dell’anno scorso.
— È vero, — ella disse a mezza voce. — È dimagrato.
— Meglio così.
La signora Pasqua tentennò la testa. — Mi permetta di non esser del suo parere. Creda a me, questa vita non le conferisce. Benedetti quei tempi che aveva i suoi metodi, i suoi sistemi fissi, e stava solamente co’ suoi amici, e non pensava ad arricciarsi, a profumarsi....
— Oh, ci siamo con le prediche....
— Le chiami prediche fin che vuole, i fatti son fatti.... Una volta aveva appetito e c’era una soddisfazione d’amor proprio a prepararle qualche cosa di buono; adesso non bada neanche a quel boccone che mangia.... seppur lo mangia; una volta era sempre di umore gaio, adesso ha mille pensieri pel capo....
— Insomma, basta....
— Basterà, basterà.... Ma creda pure che non parlo per interesse.... gli è che vorrei il suo bene.... perchè meriterebbe d’esser contento.... e mi fa una pena vedere invece....
— Via, via, — interruppe Teofoli, — vi ringrazio della vostra premura, ma siate pur certa che non ho niente e che piuttosto d’ingrassare son contento [154] di divenir sottile come uno stecco.... In ogni caso il carnevale è agli sgoccioli, e presto finiranno anche questi grandi strapazzi.
— E, — domandò la signora Pasqua con una certa esitazione, — a quel ballo ci va proprio?
— Sì che ci vado.... O credete che andare a un ballo sia come andare alla guerra?
La signora Pasqua avrebbe aggiunto volentieri parecchie altre considerazioni, ma desiderava di non far terminare con un diverbio il primo colloquio amichevole che dopo un così lungo intervallo di musoneria ell’aveva col suo padrone, e uscì lentamente, borbottando: — Non son cose per lei.... Abbia pazienza, non son cose per lei.
Quantunque un po’ maravigliato della singolare tolleranza da lui usata in quell’occasione verso la sua donna di governo, il nostro amico era costretto a riconoscere che la signora Pasqua era animata dalle migliori intenzioni del mondo e ch’egli avrebbe trovato il suo tornaconto a seguire i consigli di lei piuttosto che quelli di chi si ostinava a distrarlo dai suoi studi e dalle sue abitudini. Ed era anche persuaso che la sua salute non fosse quella d’una volta, nè si guardava nello specchio senza riportarne un’impressione penosa. Il dimagrimento era il meno; aveva le guancie terree e fioscie, le labbra scolorite, gli occhi smorti; quell’aspetto insomma che rivela l’amore, ma non dice se si tratti d’un amore troppo felice, o troppo disgraziato. E poi non si sentiva bene; pativa di emicranie, di vertigini, di palpitazioni di cuore, di spossatezza; non si sarebbe più sognato, come un anno addietro, di camminare tre ore di fila. Messo sull’avviso dalle parole della signora [155] Pasqua, egli avvertì, il giorno stesso della sua conversazione con lei, un’oppressione di respiro, un insolito abbassamento di voce, un uggioso tintinnio negli orecchi. Pur non volle consultare il medico nè correre il rischio di esser sottoposto a una cura, obbligato al riposo, impedito d’intervenire al ballo dei Gilbert. E l’intervenire a quel ballo era per lui un punto d’onore, il mancarvi gli sarebbe parso una diserzione, una pusillanimità; un darla vinta agli Ermansi, al Frusti, al Dalla Volpe, alla signora Pasqua, un offrirsi per bersaglio ai loro epigrammi. Ma questo non era il peggio. Il peggio era che gli sarebbe stato forza di rinunziare ad accompagnare la Serlati al buffet, di rinunziare a vederla in tutto lo splendore della sua bellezza e della sua eleganza. L’avrebbe vista invece con la fantasia, cinta dai suoi vagheggini, a braccio del suo Montalto, trascinata nel vortice delle danze, e la visione tormentatrice l’avrebbe fatto ammalar davvero. No, no, sin dopo la festa dei Gilbert egli non aveva il diritto di badare a’ suoi piccoli acciacchi.
Quel sabato sera, l’ultimo sabato di carnovale, quantunque nevicasse fitto e tirasse un vento impetuoso che spegneva i lampioni alle cantonate, una folla tenuta indietro a fatica da due guardie municipali s’accalcava dinanzi al palazzo dei Gilbert. Quella gente venuta per curiosità non vedeva null’altro che le finestre illuminate del primo piano, e [156] le carrozze che a una a una infilavano il portone e andavano a deporre il proprio carico a’ piedi della scala, nell’ampio cortile coperto di vetri e adorno di piante e di fiori. Ma gli sguardi profani non arrivavano fino all’ampio cortile, non penetravano nelle chiuse carrozze, e solo di tratto in tratto qualcheduno che conosceva il cocchiere, o i cavalli, o lo stemma, o il monogramma, susurrava al vicino un nome che correva poi per tutte le bocche. E ogni nome sonoro e ogni equipaggio di lusso provocava un bisbiglio lunghissimo, mentre i pochi fiacres che portavano alla festa gl’invitati di minor conto erano accolti da mormorii dispregiativi e da sghignazzate. Tanto fascino conservano, in quest’epoca di vantata democrazia, il blasone e la ricchezza! A quei poveri diavoli che irrigiditi e fradici fino all’ossa stavano lì esposti all’intemperie a godersi lo spettacolo del lusso altrui parevano degni di scherno i modesti borghesi che si recavano al signorile ritrovo senza carrozza propria e livrea.
Anche l’umile vettura che conduceva il nostro Teofoli destò l’ilarità petulante di alcuni monelli, uno dei quali, gran frequentatore della Corte d’Assise, gridò con voce stentorea: — Entra la Corte. — Non si sa se offeso o lusingato dal paragone, il magro ronzino mise un piede in fallo e fu a un pelo per cadere; le risate aumentarono, il fiaccheraio tirò tre o quattro moccoli, e il professore, abbassando il vetro della portiera e cacciando fuori la testa, domandò a due riprese: — Che c’è? Che c’è?
Il cocchiere non si curò di rispondergli, ma fatto far giudizio al cavallo con un paio di frustate entrò solennemente nell’atrio del palazzo.
[157]
Abbarbagliato dal fulgor dei lumi e dalla varietà dei colori, e intontito dal brulichìo della gente che saliva lo scalone insieme con lui, il celebre professore Teofoli si trovò, quasi senz’accorgersene, prima nel guardaroba ove un servo gli levò di dosso la pelliccia e gli consegnò una tessera, poi su nell’appartamento di fronte ai coniugi Gilbert che nel severo costume dei contemporanei di Washington, fondatori della libertà americana, ricevevano gli ospiti.
Ed essi ebbero anche per Teofoli una stretta di mano espansiva e una parola gentile, ma non poterono prestare ascolto alla sua risposta, costretti com’erano a badare ai sopravvenienti. Allora il professore girando gli occhi intorno notò con rammarico che in quella sala su trenta o quaranta uomini ce n’erano appena due o tre che vestissero la prosaica marsina, nè una rapida corsa attraverso le altre sale gli offrì argomento di conforto. Dappertutto l’abito nero figurava come un’isola, e una brutta isola in mezzo all’Oceano e quelli che lo indossavano avevano l’aria di vergognarsene. Persino Monsieur de la Rue Blanche, all’ultimo momento, s’era deciso a camuffarsi da dottore della Sorbona, in toga e parrucca, e Teofoli se lo vide comparir dinanzi in questa foggia a braccio d’una dama del primo impero, non giovine, non bella, ma d’un’opulenza di forme che rispondeva ai gusti dell’erudito francese. Era una contessa Aginulfo che Monsieur de la Rue Blanche aveva conosciuto tre sere addietro dal console francese e con la quale egli sembrava disposto a esperimentare il suo sistema de laudace, toujours de l’audace. In fatti egli passò accanto al suo recente amico con piglio di conquistatore e con un sorriso [158] fatuo sul labbro che Teofoli interpretò così: Tu languisci da mesi per una femmina che ti canzona; io in pochi giorni farò capitolar la fortezza.
— Ah, una femmina che mi canzona, — pensava Teofoli. — Riderà bene chi riderà ultimo. Se mi casca un’altra volta sotto le unghie, non sarò mica tanto ingenuo....
Due compagni di sventura del professore, vale a dire due persone che come lui erano in frac, gli vennero incontro sorridenti ed espansivi. L’uno d’essi, il vecchio dottor Lumi, medico dei Gilbert, pieno di decorazioni. — Anche lei, — gli disse, — anche lei ha ottenuto la dispensa.... Sfido io.... noi uomini seri, noi uomini maturi, metterci la maschera, via....
— Ci si trova però alquanto a disagio, — soggiunse l’altro signore, il cavalier Forlier, consigliere di prefettura. — Siamo una minoranza impercettibile.
— Per me, — riprese il dottor Luini, — me ne vado di qui a un’oretta.... E lei, professore?
— Ma.... Non so.... Credo che mi tratterrò un poco di più.... Arrivederci. Voglio fare un giretto per le sale.
Era il secondo giretto che Teofoli faceva al solo ed unico scopo di cercar la Serlati.
Ma la Serlati aveva sempre l’abitudine di arrivare fra le ultime. Del resto, mancavano ancora parecchie fra le stelle della high life cittadina.
Ciò non toglie che l’appartamento fosse ormai affollato e presentasse uno spettacolo incantevole pel lusso degli addobbi, per lo splendore dell’illuminazione, per lo scintillìo dei brillanti, per la bellezza delle signore, pel largo contributo portato alla festa [159] dai costumi di tutti i luoghi e di tutti i tempi, dai capricci della fantasia, dalle geniali evocazioni della letteratura e dell’arte. Qua un giovane e colossale higlander scozzese che pareva uscito da uno dei romanzi di Walter Scott dava il braccio a una fanciulla idealmente bella, miss Gilbert, nipote dei padroni di casa, che nell’aspetto e nel vestire riproduceva alla perfezione il tipo della soave Evangelina di Longfellow,
. . . . . . . in cerula gonnella,
E adorna il crin della normanna cuffia,
E le orecchie dei tremuli pendenti
Che, recati di Francia ai vecchi giorni,
Furon trasmessi poi di madre in figlia....
Più in là una Margherita biondissima, dimentica in quel momento di Fausto, s’appoggiava con un certo abbandono a un mandarino chinese, precedendo di pochi passi una Maria Antonietta, che improvvida dell’avvenire, discorreva animatamente con un Enrico IV. Nel vano di una finestra, un’altra tragica regina, Maria Stuarda, civettava in lingua tedesca con un arabo dall’ampio e pittoresco turbante, e un maresciallo Turenna, ritto davanti a una figlia di Madama Angot, stava aspettando ch’ella avesse bevuto una limonata per riprender dalle sue mani il bicchiere. E trovatori e castellane del Medio Evo, e donne e cavalieri d’ogni età e d’ogni paese, e bizzarre personificazioni di fiori e di piante, e albe rosee, e notti stellate passavano e ripassavano, mentre dall’alto una musica invisibile dava il segnale delle danze. Non si ballava però, o appena cominciato a [160] ballare si smetteva, tant’era la ressa della gente, tanta la curiosità che tutti avevano di esaminarsi a vicenda.
Sulla mezzanotte, quasi contemporaneamente, arrivarono tre gruppi, ciascuno di otto persone che furono ricevuti con grandi applausi. L’uno di mugnai e mugnaie, era tutto composto di ragazze o di giovinetti la cui avvenenza fresca e vivace poteva sfidare quel costume semplicissimo e primitivo. Il secondo ed il terzo ci trasportavano in pieno secolo decimottavo, all’epoca di Luigi XV. Otto fra pastori e pastorelle scesi dai quadri del Watteau, e otto fra gentildonne e gentiluomini della Corte frivola, arguta, elegante. In quest’ultimo gruppo era la Serlati, da marchesa di Pompadour, e al fianco di lei, lindo, attillato, con la mano sinistra sull’elsa dello spadino, il suo Montalto. Che fascino c’era nella Serlati! E come i suoi occhi sfavillavano sotto la parrucca incipriata! Ecco, ell’era appena giunta che già tutti quanti gli sguardi si rivolgevano a lei e i travestimenti meglio riusciti impallidivano al confronto del suo, e le più superbe bellezze si vedevano per sua cagione disertate da una parte dei loro adoratori! Ell’attraversava le sale senza imbarazzo e senza spavalderia, non turbata, non esaltata dal fremito d’ammirazione e di desideri che sollevava intorno a sè, ma con la sicurezza calma e serena, ma con la facile indulgenza di chi non teme rivali.
Quale ella paresse a Teofoli non c’è bisogno di dirlo. Tutti i superlativi del vocabolario gli salivano al labbro ed egli susurrava fra sè: — Stupenda, celeste, divina! — Però, quanto maggiore era il suo entusiasmo, tanto più egli sentiva la follia della sua [161] passione, tanto più si maravigliava seco medesimo delle parole temerarie che aveva poco innanzi masticato fra i denti, quasi per rispondere alla tacita canzonatura di Monsieur de la Rue Blanche. Egli esser l’amante della contessa Giorgina Serlati! Era possibile? Non era un segno d’aberrazione il solo averlo supposto? Eppure.... eppure egli l’amava, su questo punto non c’era dubbio, e l’amore, nato in lui così tardi, aveva tutta la violenza degli amori giovanili.... Sarebbe stato tanto felice di morire per lei. Anzi, poichè questa, ragionevolmente, era la sola felicità a cui egli potesse aspirare, il suo pensiero vi si riposava con una specie di voluttà dolorosa.... Morire.... morire....
Intanto egli era combattuto fra il desiderio di salutar la Giorgina e quello di dileguarsi inavvertito, di fuggir mille miglia lontano da un luogo ov’egli appariva assurdo, ridicolo agli occhi propri.
Ma ella che lo aveva scorto in mezzo alla gente e che non voleva perdere i suoi omaggi (a lei premeva di raccogliere persino le briciole) gli si avvicinò con quella affabilità che le accattivava gli animi. — O Teofoli, bisogna dunque che vi venga incontro io.... E avete voluto far a modo vostro.... venire in frac. V’era così facile indossare una toga di professore.... Avete visto il vostro amico de la Rue Blanche?.... Quei quindici o venti frac (non saranno mica di più) sono i punti neri della festa e son quasi pentita d’aver interceduto io per ottenere questa concessione dai padroni di casa.... Non importa, mi accompagnerete ugualmente al buffet.... quando sarà l’ora della cena.... Speravate forse di esimervi dal vostro impegno? Vi leggo in viso io il vostro tradimento....
[162]
— Oh contessa....
— Sì, sì, mi negherete che avevate una mezza intenzione d’andarvene?
— Ma.... — balbettò Teofoli, come uno scolaro côlto in fallo.
— Eh, — interpose con un sorrisetto il marchese di Montalto che faceva da cavaliere alla contessa, — il signor professore non ha l’abitudine di far così tardi....
— In quanto a questo, — replicò l’altro punto sul vivo, — non si dia pensiero.... All’ora della cena sarò al mio posto.
— Bravo Teofoli, — esclamò la Serlati. — Ogni promessa è debito.... verrete a cercarmi nella sala da ballo.... Arrivederci.
E si confuse nella folla.
Era destino. Qualunque atto d’indipendenza egli volesse fare, ella era pronta ad accorgersene, pronta a risaldar la catena che lo avvinceva a lei.
S’era finalmente incominciato a ballare, e per quella selezione naturale che avviene in queste occasioni gli uomini gravi e maturi si trovavan separati dalla parte più giovine e vivace della società.
Il dottor Luini si riaccostò a Teofoli e lo prese pel braccio. — Venga con me, professore, venga a bevere una tazza di tè; chè questo è il vero momento di trovar la sala del buffet quasi vuota.
Teofoli si lasciò condurre, più che per la tazza di tè di cui non gli premeva punto, per riconoscere la situazione. Non era qui infatti ch’egli doveva accompagnare la contessa Giorgina?
Senza esser quasi vuota, come il dottor Luini aveva previsto, la sala del buffet non era nemmeno affollata. [163] La divideva nel senso della sua larghezza una gran tavola ad arco dietro la parte rientrante della quale stavano dodici camerieri in livrea; sulla tovaglia bianca di neve erano disposti in bell’ordine vasi di fiori, trionfi di dolci, piramidi di frutta, vassoi con ogni sorta di pasticceria, servizi di tè e di caffè, ciotole da guazzi, gruppi di bottiglie, calici da sciampagna, bicchieri e bicchierini di tutte le forme e misure. E pensare che il meglio sarebbe venuto poi, quando dopo una mezz’oretta di preparazione, il buffet dolce si sarebbe trasformato in buffet solido e i conoscitori sarebbero stati chiamati a giudicar l’opera collettiva di tre cuochi rivali pacificatisi per poco dinanzi alle medesime casseruole!
Nell’attesa del buffet solido, il professore Arnaldi, maestro d’italiano di Miss Gilbert, faceva onore al buffet dolce, ed egli s’affrettò ad illuminare il dottor Luini e il professor Teofoli sui meriti rispettivi delle varie paste, delle frutta, dei vini ch’egli aveva assaggiati. Già aveva assaggiato di tutto e poteva parlare con cognizione di causa. — Tutto è eccellente, ma provino di questo, ma provino di quello. — E li incoraggiava con l’esempio.
I camerieri sorridevano.
— Per mia moglie e per i miei figliuoli, — diceva il buon professore, prendendo a manate le confetture e riempiendosene le tasche. — È vero che si rischia di rimetterci il frac.... un frac.... quasi nuovo.... ma come si fa?... la famiglia porta degli obblighi.
— Adesso poi per me.
E accennava a uno dei servi di mescergli ancora un bicchiere di champagne frappé, un nettare. Era il decimo ch’egli beveva.
[164]
Luini e Teofoli, per sottrarsi a questa pericolosa vicinanza, si tirarono al capo opposto della tavola, ove cinque o sei persone posate dei due sessi sorseggiavano tranquillamente la loro tazza di tè e discorrevano della festa. In fondo, in un angolo, un paggio toscano del quattrocento sbucciava un mandarino per una walkiria pallida, bionda, fantastica.
— Ecco l’età buona per questi divertimenti, — disse a voce bassa il dottor Luini alludendo a quei due che parevano mangiarsi cogli occhi. E soggiunse deponendo la chicchera sulla credenza: — Per me ne ho d’avanzo.... Capisco che lei rimane, Teofoli.... È diventato un discolo lei.... Buona notte.
— Vengo di là anch’io a dare una capatina nella sala da ballo.
— Non vuol perderne una, non vuole....
Il professore Arnaldi, un po’ allegro per lo sciampagna, gridò dietro a Luini e a Teofoli: — Torneranno pel buffet solido, spero.... Ho saputo delle cose, delle cose.... Ci sarà del salmone fresco.... E dei tartufi.... E del pasticcio di Strasburgo.... proprio genuino.... arrivato da Strasburgo direttamente.
— Ma! — notò il dottore mentre usciva dalla sala in compagnia del nostro Teofoli. — Quell’uomo lì, un galantuomo, un brav’uomo, ha trovato un mezzo infallibile per farsi ridicolo.
Teofoli non rispose. Egli aveva il vago presentimento che ci fossero altri mezzi non meno sicuri per raggiungere il medesimo fine.
[165]
La sala da ballo, assai ampia e di forma regolare, pressochè quadrata, era per tre delle sue pareti rivestita di grandi specchi che moltiplicavano all’infinito le immagini, onde l’occhio si smarriva in quello scintillìo di fiammelle, in quell’intrecciarsi turbinoso di coppie che apparivano, si dileguavano, ricomparivano subitamente, ora di qua ora di là, ora in forma concreta, e palpabile, ora come visioni lontane e fantastiche. Del resto, con tanta folla, non si ballava che dai più pertinaci, urtandosi di continuo coi gomiti, pestandosi i piedi ad ogni momento, fra scuse e risatine brevi, e agitarsi di ventagli, ed esclamazioni involontarie, e fruscìo di vesti, tutte cose che unite insieme davano un rumore simile a quello dell’api che sciamano. Si sarebbe detto che gli specchi rimandassero, oltre che le immagini, il suono.
Il professore Teofoli aveva finito coll’appoggiarsi allo stipite d’un uscio, adattandosi a ricever spintoni da quelli che s’ammontavano dietro a lui per vedere, da quelli che uscivano, da quelli ch’entravano e perfino dai servitori che portavano in giro i rinfreschi. Anzi uno d’essi, dopo esser stato in procinto di rovesciare un vassoio per colpa sua, brontolò con mala grazia: — Vogliamo star lì duri, impalati. — Era singolare come quella sera tutti gli mancassero di riguardo. Teofoli non aveva vanità, non aveva superbia, ma Dio buono, egli aveva pure il convincimento [166] di valer meglio di quattro quinti della gente ch’era raccolta da Gilbert, era avvezzo a esser trattato con rispetto, con deferenza. Quella sera invece non c’era un bellimbusto che non lo squadrasse d’alto in basso con piglio di superiorità. Anche i suoi conoscenti, gli stessi che usavano largheggiar seco in dimostrazioni di stima, appena gli rivolgevano la parola. Passi per la Ermansi che aveva ragioni plausibili di tenergli il broncio e che aveva risposto con estremo sussiego al suo saluto. Ma c’era alla festa una ventina di studenti universitari camuffati in varie foggie, giovinotti che a scuola pendevano dalle sue labbra, volevano essere illuminati da’ suoi consigli e dei quali non uno si degnava adesso di fermarsi a fare un po’ di conversazione con lui. Il meno villano, un paggio Fernando della Partita a scacchi, aveva buttato lì distrattamente un — buona sera, professore, come sta? — E detto ciò per incarico di coscienza l’aveva piantato in asso per correr dietro a un’Ofelia con la quale aveva impegnato la seconda quadriglia.
Il modo di barattar quattro chiacchiere il nostro professore l’avrebbe trovato sicuramente nella stanza da fumare, rifugio ordinario dei vecchi scapoli che hanno rinunziato alla galanteria, e dei mariti filosofi rassegnati ai decreti della Provvidenza; senonchè, egli era inchiodato a quel posto di dove gli era concesso di veder ogni tanto la bella Serlati. La vedeva ora a braccio dell’uno, ora a braccio dell’altro, ballando un giro con questo e con quello, ma nei balli figurati avendo sempre per cavaliere quell’antipatico di Montalto. Poi, fra un ballo e l’altro ella usciva per una delle quattro porte della sala, passava talvolta rasente a lui, accompagnata, ben s’intende, da qualche spasimante, [167] lo salutava con un cenno, con un sorriso, e si perdeva via nella folla che invadeva le stanze vicine. Egli esprimeva la tentazione di seguirla, rattenuto dal timore di farsi scorgere, di recarle noia, e soprattutto dalla certezza di non coglierla mai sola, di non poter mai discorrerle con libertà. E quand’ella rientrava alle prime battute dell’orchestra, e con essa entrava un’onda di gente, una vampata di caldo, egli era ancora appoggiato a quello stipite di marmo, immobile come una cariatide, solo rasciugandosi macchinalmente il sudore col fazzoletto.
Seduta presso di lui a un capo del divano che girava intorno alla sala, e ansante e sbuffante al pari di lui, una signora forestiera di mezza età, molto grassa, lo guardava di tratto in tratto con un’espressione mite e benevola di donna altrettanto disposta a raccontare i propri dolori quanto a intendere e a compatire i dolori altrui. Ella non conosceva Teofoli che non l’era stato presentato, ma parendole ch’egli fosse lì suo malgrado, vittima di qualche dovere domestico, cedette a un bisogno irresistibile di sfogarsi, e lasciando da parte le cerimonie gli disse con una cattiva pronunzia francese: — Ah si ce n’était pour nos enfants!
— Plait-il, Madame? — domandò il professore che non aveva capito.
Allora ella gli spiegò ch’era venuta a quella festa unicamente per accompagnarvi le sue due ragazze e che supponeva vi fosse anche lui per un motivo simile.... Sans cela, mon Dieu!...
Teofoli divenne rosso e balbettò una frase evasiva. Per fortuna la degna signora era alquanto sorda e non voleva esser creduta tale, ciò che la induceva ad appagarsi di qualunque risposta.
[168]
— Ah, oui, naturellement, — ella soggiunse. E saltando ad altro argomento fece notare al suo vicino che in quella temperatura tropicale sudavano persino i muri e ch’egli s’era bagnata la manica del vestito a forza di stare appoggiato allo stipite.... Se si contentava del po’ di posto che c’era vicino a lei.... E lealmente, coscienziosamente, ella si ristrinse più che potè, mentr’egli per non commettere una troppo grossa villania approfittava del non ambito favore.
Egli sedette così per alcuni minuti, rattrappito sul divano, soffocando peggio di prima e non abbracciando più come prima con lo sguardo l’insieme della sala. Anzi, davanti a sè, non vedeva che un gran turbinio di veli, uno svolgersi serpentino di code, un ondeggiar di capigliature nei ritmici movimenti del ballo. Vedeva invece alla sua destra sullo stesso divano una serie di faccie sonnolenti e ingrugnate: mamme sospiranti il letto e combattute fra la speranza che le loro figliuole potessero trovare un marito e il timore ch’esse tornassero a casa con nuovi grilli in capo; vecchie zitelle furibonde d’esser lasciate in disparte; vecchie eleganti schiacciate dall’umiliazione dell’insolito abbandono; fanciulle anche non goffe, non brutte, ma smarrite in una società ove non conoscevano quasi nessuno e aventi l’aria di naufraghi in cerca di una tavola di salvezza. Quante, quante delusioni! E per pochi trionfi quante disfatte!
La facoltà di assurgere dalla considerazione dei fatti particolari alle idee generali offre, per quel che dicono, qualche conforto. Essa offre almeno un modo di distrarsi, e il nostro professore, nello studiare il dietro scena d’una festa, sviava per un istante il pensiero dalle sue tribolazioni e non s’accorgeva, non [169] foss’altro che dal movimento vertiginoso dell’orchestra, che i secondi lanciers toccavano al loro termine e che si avvicinava per lui il gran momento di porgere il braccio alla contessa Giorgina Serlati. Poichè si sapeva che dopo i secondi lanciers si sarebbe aperto il buffet.
L’improvviso cessar della musica e la confusione, che ne seguì richiamarono Teofoli al senso della realtà. Egli si alzò di scatto, dominando con uno sforzo della volontà un inesplicabile malessere, stupito di non provare nessun entusiasmo, di sentirsi piuttosto simile a chi ubbidisce a una consegna che a chi è posseduto dal fuoco sacro delle battaglie. Durante il tempo che era stato seduto aveva perso di vista la contessa; la scorse adesso in fondo alla sala, appoggiata tuttavia al braccio di Montalto e cinta dalle altre coppie che avevano ballato nel medesimo carré e che parevano, uomini e donne, inchinarla come regina. Era una dedizione universale; bella, dicevano con entusiasmo gli sguardi accesi degli uomini; bella, dicevano con manifesto dispetto i sorrisi forzati delle signore.
Il professore esitò. L’idea d’appressarsi al crocchio dove si trovava la Giorgina lo atterriva addirittura. Ah se avesse potuto sguisciar via inosservato! Probabilmente ella non lo aspettava, non si ricordava nemmeno di lui, della promessa che gli aveva fatta; e quando pur se ne fosse ricordata, gli sarebbe stata riconoscente di dimenticarsene in vece sua.... E in ogni modo, non avrebb’egli sempre potuto addurre la scusa d’un’indisposizione subitanea?
Ma non gli rimase agio di pesare il pro e il contro di questa fuga. La contessa aveva notato la sua [170] presenza, e rispondendo con una scrollatina di spalle alle rimostranze e alle preghiere di Montalto lo aveva chiamato a sè con un cenno.
Non c’era più via di scampo e Teofoli fendette la folla per avvicinarsi alla sua tiranna.
— Ebbene, — ella gli disse staccandosi bruscamente dal suo cavaliere e passando sotto il braccio di lui il suo braccio nudo fino all’ascella, — perchè non eravate pronto?...
Ella si voltò a Montalto che non si risolveva ad allontanarsi, e gli tese la mano con un — A più tardi.
Una signora in costume da Direttorio susurrò dietro il ventaglio al suo cavaliere: — Pagherei sapere che gusto ci trovi la Serlati a mettere alla berlina quel povero professore Teofoli.
— Eh, — replicò l’interrogato; — il gusto che le donne ci trovano sempre a far disperare gli uomini.
— La più bella della festa in compagnia del più brutto, — sghignazzò qualcheduno.
— Sì, — soggiunse un altro, — ma la figura ridicola la fa lui.
— Montalto inghiotte tanto veleno, — notò con compiacenza una Caterina de’ Medici che non poteva soffrire il marchesino.
— Non credere, — disse un’amica. — Se non ha rivali più formidabili di così....
Tutta questa gente usciva in processione dalla sala da ballo, attraversava altre quattro stanze fra cui la stanza da giuoco, e si dirigeva al buffet ch’era rimasto chiuso per una mezz’ora e adesso si riapriva trasformato interamente d’aspetto con una ventina di tavolini da quattro posti per ciascheduno, apparecchiati [171] di qua dal banco ove gl’intenditori avrebbero potuto ammirare una vera esposizione gastronomica. Quello però non era il momento di contemplazioni platoniche.
Come accade sempre, il buffet fu preso d’assalto. S’era bensì fatta correr la parola d’ordine che i posti a sedere, anche per le sole signore, eran pochi, che la stanza era d’una capacità limitata e che sarebbe stato opportuno di non venirci tutti quanti in una volta. La grande maggioranza non s’era arresa a queste ragioni. In un attimo i tavolini furono occupati, e dinanzi al banco si vide la scena edificante d’una massa d’uomini urlanti, dimenantisi a guisa d’ossessi, intenti a soverchiarsi a vicenda, quali per saziar presto le loro dame, quali per saziar sè medesimi.
— Qua, Giorgina.... Qua, contessa, — gridarono ad una voce tre signore chiamando alla loro tavola la bella Serlati. — C’è un posto.... Ed è Teofoli che ti serve?
— Ma sì.
— Come vuoi che faccia? È proprio roba per lui....
— Vedremo.... Da bravo, Teofoli, procuratemi intanto una tazza di consommé.
[172]
Col dire che non era roba per lui, quella signora che Teofoli conosceva superficialmente aveva detto una gran verità, e il povero professore nell’ubbidire all’ordine della contessa somigliava a chi si getta a capofitto nell’acqua senza saper nuotare. Più basso di statura, meno largo di spalle, meno forte di gomiti, meno robusto di polmoni della maggior parte di quelli che s’addensavano intorno al banco, egli non riesciva nè a cacciarsi innanzi nè a far sentire il suo disperato appello. — Un consommé! Un consommé! — Nè s’avvedeva intanto che Montalto il quale s’era impuntato a servir lui la contessa, stendendo le suo lunghe braccia al disopra delle spalle d’un amico indulgente, otteneva la desiderata tazza di brodo e la portava come trofeo alla donna del suo cuore.
Sulle prime la Giorgina lo rimproverò. — Che insistenza è la vostra, Montalto? Sapete che ho dato l’incarico al professore.
Le sue compagne si misero a ridere. — Sei matta ad aver questi scrupoli?... Chi primo arriva primo alloggia.... E poi stai fresca se aspetti il tuo professore....
— Voi altre però, — riprese la contessa, — avete più pazienza coi vostri cavalieri.
— Eh.... se indugiassero troppo ricorreremmo anche noi a Montalto.... Non è vero, Montalto, che servirebbe [173] anche noi.... s’intende dopo la contessa Serlati?
— Si figurino.... Con tutto il piacere.
Queste eccellenti ragioni vinsero la perplessità della contessa. Montalto, raggiante, le susurrò una parola di tenero ringraziamento e si slanciò di nuovo nel fitto della mischia.
Uno a uno gli eleganti giovinotti si presentavano alle loro dame chi con un piatto, chi con una bottiglia, ultimo comparve il professore con la sua tazza di consommé.
— Tardi, tardi, Teofoli — disse l’adorabile marchesa di Pompadour con accento di sincero rammarico. — Avevo proprio bisogno d’una goccia di brodo, me l’hanno offerto e l’ho preso.
— Ha fatto bene, — rispose il professore a denti stretti. — A ogni modo potrebbe prendere anche questa tazza....
— Ah no, grazie.... Mi basta.... Piuttosto cercate d’aver qualcos’altro.... della lingua, del salmone, del pasticcio di Strasburgo.... quello che vi si dà insomma.
— Sì, sì, professore, — gridò la Del Viale, una leggiadra brunetta in costume di maga che sedeva a sinistra della Serlati, — ci porti del pasticcio di Strasburgo.
— E del salmone in abbondanza, — soggiunse la Binasco, una madama Recamier che pareva in camicia.
— Badi a me sola, — ripigliò la Serlati, — se no, non ne viene più a capo.
E quando Teofoli si fu allontanato per ritentar la difficile impresa, ella si rivolse alle amiche: — Non [174] ci mancavate che voi per fargli perdere la bussola.
— Vorresti aver tu questo privilegio? — dissero le altre. — Li accaparri tutti gli uomini, di tutte le specie, di tutte l’età.... nobili e borghesi, dotti e ignoranti, giovani e vecchi;... non ti vergogni?... Ecco, noi ti ruberemo il tuo professore.
Era chiaro che in quei cervelli leggeri era entrata l’idea di burlarsi del disgraziato Teofoli. La Serlati resisteva ancora, ma resisteva fiaccamente. Non poteva permettere che le si attribuisse una inclinazione seria pel professore. E poi il caldo ed il vino cominciavano a salirle alla testa.
Al banco crescevano la confusione e lo strepito, e i camerieri non sapevano più da che parte voltarsi, sconcertati dallo spettacolo di quelle cento braccia che s’agitavano in aria, quali per consegnare, quali per ricevere un piatto, storditi dal frastuono di quei cento ordini che si accavallavano, per così dire, l’uno sull’altro, nelle diverse lingue europee, con le diverse inflessioni di voci, imperiose, persuasive, supplichevoli.
— Del salmone....
— Prego, del pasticcio di Strasburgo.
— E questo prosciutto viene o non viene?
— Fate il piacere, del fagiano, per due signore....
— Una bottiglia di Bordeaux, presto.
I vari postulanti si guardavano in cagnesco, frenando a stento la voglia di scambiarsi dei vituperi, di cacciarsi a calci fuori della sala. Bastava sentire in che modo secco, rabbioso fossero pronunciati quei pardon, pardon, che per un resto d’educazione accompagnavano gli spintoni e le gomitate. Ma i più [175] irritanti erano quattro o cinque signori in frac che giunti alla prima fila vi si mantenevano imperterriti riempiendosi l’epa di tutti i cibi e di tutti i vini, e opponendo una resistenza passiva alle preghiere, alle sollecitazioni, ai sarcasmi, agli urti.
Quando il professore Teofoli, dopo immani fatiche, arrivò presso al banco per riconsegnarvi la tazza di brodo che la contessa Serlati non aveva voluto, e per farsi dare del salmone, o della lingua, o del pasticcio di Strasburgo, egli trovò dinanzi a sè, ultimo ma non facilmente superabile ostacolo, uno di questi pilastri mangianti e beventi. Ed egli aveva un bel dire, nella lingua internazionale dei salotti: — Pardon, monsieur — permettez, monsieur, un petit moment. — Monsieur, che era rimasto sordo a tante esortazioni, sarebbe rimasto sordo anche a questa, se non avesse riconosciuto, a malgrado dell’idioma straniero, la voce dell’illustre Teofoli. Ciò lo indusse a fare un quarto di giro e a presentare a Teofoli il suo profilo. Era il professore Arnaldi.
— Caro collega, — esclamò costui reso tenero ed espansivo dal vino, — dica a me, io la faccio servir subito.... Ma ha una tazza di brodo ancora piena.... Perchè non la beve?... Vuol riconsegnarla?... Poteva darla a un servo qualunque o metterla su una mensola.... A ogni modo dia qui.... Ecco.... E adesso parli, che cosa desidera?... Io la consiglierei a provar di tutto.... Non c’è niente da buttar via, l’assicuro.... Cominci dalla lingua affumicata.
— Ma no, — interruppe Teofoli, — non si tratta di me.... si tratta di alcune signore....
— Alcune signore?... Corbezzoli.... Si piglia di questi impicci, caro collega?... Non la invidio davvero.... [176] Però vada pure per le signore.... Che cosa devo procurare per le signore?
La qualità dell’alleato non piaceva troppo a Teofoli, nè gli piaceva, nella sua aristocrazia di professore universitario, quel titolo di collega datogli così da un maestrucolo; tuttavia egli non si sentiva forte abbastanza da rispinger la mano pietosa che veniva in suo soccorso, e disse: — Poichè è tanto gentile, cerchi d’aver del salmone.... E del pasticcio.... in due piatti.... Già più di due piatti non si possono mica portare.
In quel momento, come per dargli una solenne smentita, il marchese Montalto gli passava accanto portando a ignota destinazione, con la disinvoltura d’un cameriere di trattoria, non due piatti ma quattro. Per fortuna Teofoli non se ne accorse.
— Del salmone! Del pasticcio! — gridava Arnaldi. E sentiva il bisogno di soggiungere a sua giustificazione: — Non per me, per delle signore.
I camerieri ubbidivano in silenzio. Solo nel guardarsi sorridevano a fior di labbro, di quel sorriso fine, diplomatico, che riavvicina un credenziere a un ministro plenipotenziario.
Fra i presenti corse un fremito d’indignazione.
— È un’enormità.
— Non s’è mai visto una cosa simile.
— Quelli non son uomini, son lupi, pesci cani....
— Questa volta agisce per procura, — bisbigliò qualcuno che aveva côlto una parte del dialogo tra i due professori.
— Sarà un pretesto, — rimbeccò uno scettico.
Ma convenne arrendersi all’evidenza. Allora un bello spirito slanciò un epigramma. — Società di mutuo soccorso fra i docenti.
[177]
Troppo occupato a tener in equilibrio i suoi due piatti, Teofoli non badò ai sarcasmi. Se arrivava sano e salvo era un miracolo.
Egli attraversò senza peripezie la barricata umana che divideva il banco dal resto della sala, navigò felicemente tra gli scogli dei tavolini, delle sedie smosse, dei lunghi strascichi di velluto e di seta, e pervenne al termine del suo viaggio, cioè al tavolino della Serlati. Ivi però lo aspettava una dolorosa sorpresa.
Intorno a quel tavolino s’addensava un nugolo di galanti. Ne avevano, com’è giusto, anche le tre compagne della Giorgina, ma i più erano per lei. E, ciò ch’è peggio, fra questi c’era Montalto che appoggiato alla spalliera della seggiola della contessa le susurrava chi sa quali freddure, mentr’ella alzando gli occhi dal piatto e volgendo alquanto la testa lo ascoltava con deferenza e gli offriva un frutto con la sua bianca manina. Insomma un idillio commovente. Il tavolino, si può immaginarsi, era pieno d’ogni ben di Dio, da sfamare non quattro delicate signore ma una dozzina d’uomini digiuni da una settimana; poichè tutti quei giovinotti, confidando di giungere al cuore delle loro belle per la via del palato e dello stomaco, erano andati a gara per recar loro le proprie offerte.
Era naturale quindi che la comparsa del professore fosse accolta con uno scoppiettìo di frizzi mordaci.
— È il soccorso di Pisa.
— La vettura del Negri.
— Il leggendario burchiello di Padova.
— Caro amico, — disse la Giorgina, — è una fatalità, [178] ma siete sempre in ritardo.... Vedete quanta roba hanno già portato questi signori.
Teofoli, pallidissimo, si morse il labbro. — Però.... Io ho fatto quanto più presto m’era possibile.... e speravo....
— Che avessi pazienza, non è vero?... Dio buono.... non conviene poi prender le cose sulla punta della spada.... Son sere eccezionali.... Mi dispiace che abbiate avuto tante seccature per nulla.
Ritto in mezzo a quella gioventù canzonatrice co’ suoi due piatti in mano che non sapeva dove posare, il professore faceva una ben grama figura.
— Mangi lei, — gli suggerì la Binasco.
— Guardi, — soggiunse la Fiorenzi, una bionda slavata che fino allora aveva parlato pochissimo; — laggiù è rimasta libera una sedia.... La pigli e s’accomodi vicino a me.
— O come vuoi che pigli la sedia se ha tutte le due mani impegnate? — le chiese piano la Del Viale.
— Zitto, — rispose la Fiorenzi nello stesso tuono di voce. — Ho detto apposta.... per confonderlo peggio.... Non vedi com’è grottesco? Giurerei che fa qualche malanno.
La Fiorenzi aveva una reputazione bene assodata d’istinti profetici. Ella aveva appena finito di confidare le sue previsioni alla Del Viale che il professore con un movimento falso urtava una contessa Marziani la quale s’era alzata allora da una tavola vicina e stava raccogliendo la coda prolissa del suo vestito da gentildonna veneziana del secolo scorso. Nell’urto uno dei due piatti si piegò alquanto da un lato, e parte della gelatina che guarniva il pasticcio [179] andò a cader sopra l’abito della dama. Ella ebbe un ruggito da leonessa ferita e il suo cavaliere, un alcade spagnuolo, slanciò a Teofoli insieme con uno sguardo fulmineo un monsieur che per sè non voleva dir nulla, ma che, pel modo in cui era pronunciato, appariva gravido di minaccie e poteva contenere anche un cartello di sfida. Guai se il professore avesse reagito! Egli però riconosceva il suo torto e biascicò alcune parole di scusa. Il cavaliere interrogò con gli occhi la sua dama, pronto, non se ne dubita neanche, a lavar col sangue dell’offensore la macchia fatta dalla gelatina al vestito di lei. Per fortuna la dama gli accennò di smettere e la cosa terminò lì. La gentildonna veneziana e il suo belligero campione si allontanarono maestosamente; il professore Teofoli consegnò il suo carico malaugurato al primo domestico che gli si parò innanzi, e si lasciò cader sfinito sopra una sedia.
Alla tavola della Serlati questa scenetta destò un’ilarità irrefrenabile. Era quel riso che somiglia a una convulsione, che s’alimenta da sè stesso, che fa dire a chi ne ignora la causa: — O che son diventati matti?
Ma Teofoli non ne ignorava la causa. Egli capiva perfettamente che quelle donnine frivole e quei zerbinotti melensi ridevano di lui. E degli altri non gli sarebbe importato. Era il riso della Giorgina che lo feriva al cuore, era il veder che la Giorgina si faceva mescer lo sciampagna da Montalto, e accostava il suo calice a quello dell’elegante marchese e gli permetteva di chinarsele addosso sguajatamente fino quasi a sfiorarle con la bocca le spalle nude. A un certo punto non ne potè più; ebbe uno scatto d’energia, [180] si rizzò in piedi d’un colpo e si mosse per andarsene da un luogo ove non raccoglieva che umiliazioni.
— Professore, professore, — gridarono dal crocchio della contessa Serlati. — Ma dove va? Ma venga qui.... Vogliamo fare un brindisi alla sua salute.
— Teofoli.... via.... che furia avete? Bevete un bicchiere di sciampagna con noi.
Era la voce della Giorgina. Ma anche quella voce rimase inascoltata. Essa gli pareva rauca, aspra, stridula come se lo stromento si fosse guasto, come se qualche corda se ne fosse infranta.
Uno di quei giovani gli corse dietro. In nome della contessa Serlati e dell’altro signore, in nome di tutti lo si pregava di trattenersi ancora un pochino, di sedere alla loro tavola.
Il professore fece un segno negativo col capo e affrettò il passo. Non era più una partenza, era una fuga.
Ormai tutti quelli che non avevano intenzione di assistere al cotillon lasciavano la festa.
Ai nomi sonori slanciati nella strada a voce alta dal guardaportone, le carrozze signorili entravano a una a una nell’atrio, si fermavano ai piedi della scala, accoglievano fra i morbidi guanciali e le soffici coperte di lana i padroni imbacuccati nelle loro [181] pelliccie, e da quell’ambiente di luce e di tepore uscivano fuori nella burrasca invernale.
Quando toccò il turno del professore, il guardaportone gli chiese il suo nome.
— Chiamate il numero del fiacre, 174. È più sicuro, — disse il professore.
Il maestoso personaggio aggrottò alquanto le ciglia, e come se lo sue labbra si rifiutassero a così umile ufficio confidò quel miserabile numero a un suo dipendente che andò a gridarlo di malavoglia. — Il fiacre numero 174.
A compenso delle orecchie delicate offese da questo suono, il guardaportone in persona fece, subito dopo, echeggiar l’aria di alcune note superbe: — La carrozza del duca Ferrando della Torre Merlata.
Lo stuolo dei lacchè tirò un sospiro di soddisfazione. Questi son nomi!
Sebbene il fiacre numero 174 dovesse aver la precedenza sulla carrozza del duca Ferrando della Torre Merlata, accadde tutto l’opposto, essendo troppo giusto che il signor duca e la signora duchessa non pigliassero freddo nemmeno per un minuto secondo. Il fiaccheraio, vedendosi passato in seconda linea, si permise due o tre frasi poco parlamentari che scandalizzarono il nobile servidorame. — È gente che non ha educazione — notò con gravità uno della marmaglia.
— In queste case bisognerebbe venire per lo meno con legni di rimessa, — soggiunse un altro.
E un terzo, più aristocratico, sentenziò: — Il meglio sarebbe non invitare chi non ha equipaggio proprio.
Checchè ne sia, il professor Teofoli fu alla fine, bene o male, insaccato nella sua vettura.
[182]
— Avanti, — disse uno dei domestici dei Gilbert chiudendo rumorosamente lo sportello.
Avanti nella neve, avanti nel freddo e nel buio. Nella neve che picchiava con un suono metallico sui vetri dei finestrini, nel freddo che penetrava attraverso tutte le commessure, nel buio rotto appena dal raggio fioco e tremolante dei due lampioni del fiacre. La città dormiva avvolta nel suo lenzuolo bianco; non un’imposta, non un negozio aperto, non un pedone nella via o sotto i portici; solo di tratto in tratto qualche carrozza a due cavalli, proveniente anch’essa dal palazzo Gilbert, oltrepassava in silenzio il modesto veicolo del professore.
Il valentuomo era in preda a una sonnolenza affannosa che gli faceva appoggiar la testa ora da un lato ora dall’altro della vettura senza quietarsi mai interamente, ma che aveva il vantaggio inestimabile di smorzar in lui le impressioni di quella notte sciagurata. Delle cose viste ed udite gli restava come una fantasmagoria confusa, come una risonanza lontana; gli restava un vago ricordo, non troppo acerbo però, di qualche torto patito, di qualche pena sofferta. E provava insieme una gran maraviglia d’essersi trovato in mezzo a quel frastuono, a quel chiasso, un desiderio intenso di solitudine e di raccoglimento, un’impazienza vivissima d’esser di nuovo nel suo studio, in mezzo a’ suoi manoscritti e a’ suoi libri.
Allorchè il fiacre si fermò dinanzi alla porta della sua casa il professore uscì bruscamente da quello stato di dormiveglia e sentì per un momento ridestarsi nell’animo la rabbia, la mortificazione, l’angoscia che lo avevano straziato a gara durante la festa. Ma non fu che un momento. Una sofferenza fisica [183] acuta distrasse la sua attenzione dalle sofferenze morali. Appena sceso di carrozza s’accorse che durava fatica a tenersi ritto; una puntura assidua alla parte sinistra del petto gli toglieva il respiro; aveva un cerchio alla testa, un’arsura alla gola, una gravezza fastidiosa a tutte le membra. Nondimeno, senza chiamare la signora Pasqua che non lo aspettava mai alzata la notte, egli potè accendere il lume, salir il breve tratto di scala che conduceva al suo quartierino, entrar nella sua camera e mettersi a letto. Ma invece di averne sollievo si sentì peggio. Gli cresceva l’ambascia, il dolor di capo, la sete inappagata, rabbiosa. La coltrice gli pareva irta di spine, le coperte gli pesavano come se avesse addosso una montagna: aveva negli occhi, anche dopo spenta la candela, un barbaglio molesto, aveva negli orecchi un ronzìo come di qualche insetto che vi fosse prigioniero.
Era giunto a casa verso le quattro; alle sei non ne potè più e suonò il campanello.
Al vederlo col petto ansante, col volto acceso, con le pupille stralunate, la signora Pasqua congiunse le mani ed esclamò: — Vergine santissima, che cos’ha?
— Sto poco bene; credo d’aver la febbre, — rispose il professore con voce fioca.
La signora Pasqua che pretendeva d’intendersene gli tastò il polso. — Altro che febbre! Un febbrone.
Poi, pentita della sua franchezza brutale, soggiunse: — Non sarà nulla.... Sarà un’effimera.... Avrà preso del freddo uscendo da quella festa.... Là, figuriamoci, sarà stata una fornace. E quando non si è usi a certi strapazzi.... Se avesse dato retta a me....
— Sì, sì, avrei fatto molto meglio.... Non mi ci vedono mai più in quei posti.... mai più.
[184]
La docilità insolita del professore sconcertò la signora Pasqua. — O pover’uomo! — ella pensò. — Dev’essere proprio a mal partito se mi dà ragione così....
E poichè era preparata a discutere rimase per qualche istante senza parola, accomodando i guanciali sotto il capo dell’ammalato.
— Perchè non suonar subito? — ella disse finalmente.
— Speravo d’addormentarmi.... Ma non c’è stato verso.... Fatemi aver del ghiaccio.... E appena vien Fedele mandatelo dal professore Astigiano, il mio medico.... Dev’essere in città.... E se non c’è lui, da Barelli, l’altro mio collega, che sta in piazza Vittorio Emanuele a fianco del Caffè d’Italia.
Teofoli parlava a stento, interrotto da frequenti colpi di tosse.
— È un raffreddore, un gran raffreddore, — ripigliò la signora Pasqua. — Non si sforzi a discorrere. Cerchi di sudare piuttosto. Dal professore Astigiano andrò io in persona. Fedele non sarà qui che dopo le otto.... Ma non si dia pensiero, non lo lascerò mica solo. Pregherò la portinaia di salire per una mezz’ora. E se le occorre qualcosa, tiri il campanello....
— Va bene.... Ma del ghiaccio, mi raccomando.
— Prenderò anche del ghiaccio.... quantunque, secondo me, un sudorifero farebbe più al caso.... Basta, verrà il medico.
Di medici, anzichè uno, ne vennero due, prima il Barelli e poi l’Astigiano che non era a casa quando la signora Pasqua andò a chiamarlo, ma che tornò nella mattina stessa da un consulto in provincia e corse subito dall’amico e cliente. I due luminari della [185] diagnosi e della terapeutica furono d’accordo nel riconoscere la gravità della malattia ch’era una pleuropneumonite con complicazione cardiaca, la qual cosa dava maggior pensiero del resto e portava seco il pericolo di soffocazione improvvisa, per sincope. E siccome la clinica universitaria vantava nel professore Ravanetti uno specialista per le affezioni di cuore, anche il Ravanetti fu pregato di esaminare l’infermo, ciò ch’egli fece nella sera stessa, pronunciando un responso identico a quello dei due onorandi colleghi.
Intanto la notizia del male violento che aveva colpito l’insigne professore Teofoli s’era diffusa nella città e vi aveva destato una dolorosa maraviglia. — Come? — si diceva: — Se poche ore fa era alla festa dei Gilbert?
Allora qualcheduno notava che il professore da un pezzo non era più lui, ch’era pallido, ch’era magro, ch’era di cattivo umore. E altri accennavano in aria di mistero a quella sua disgraziata passione per la Serlati, la prima origine di tutti quanti i suoi guai.
— Sarà un travaso di bile per chi sa che brutto tiro di quella civetta, — borbottavano Frusti e Dalla Volpe.
E nel loro scetticismo non vollero, il primo giorno, nemmeno passare a casa Teofoli ad assumervi informazioni precise.
La seconda mattina però, dopo un colloquio con l’Astigiano e col Barelli, i due arcigni e ringhiosi personaggi si piegarono a più miti consigli e si recarono in persona da colui che pochi mesi addietro essi seguivano come due cani fedeli.
Teofoli mostrò di vederli con piacere, discorse loro, [186] per quanto glielo consentiva il respiro corto e affannoso, delle faccende dell’Università, li invitò a tornar presto, ed espresse l’intenzione, appena ristabilito, di riprender la vita d’un tempo, i suoi pranzetti nell’intimità, le sue passeggiate, le sedutine in birreria.
In complesso i due professori non furono scontenti della loro visita.
— Il diavolo non sarà così brutto come si voleva farci credere, — essi dissero alla signora Pasqua che li riaccompagnava. — E sembra almeno che d’una delle sue malattie, della peggiore, egli sia guarito.... Quella femmina....
— Quella femmina, — proruppe con impeto la signora Pasqua, — lo ha assassinato.... Guarito di quella malattia?... È vero, sembrerebbe che fosse guarito. Ma non c’è da fidarsene.... E scommetterei che uscendo di casa egli correrebbe subito dalla signora contessa.... Pur troppo, — ella soggiunse rasciugandosi gli occhi col lembo del grembiale, — non esce di casa, no, per adesso.... E voglia il cielo....
— Eh via....
— E pensare che se non ci fosse stata quella femmina....! — ripigliò la signora Pasqua sfogando la sua acrimonia contro la Serlati. — Brutta pettegola!... Lusingare un uomo come il professor Teofoli e poi prendersi gioco di lui.... Perchè è andata così, giurerei ch’è andata così.
— Donne, cara signora Pasqua, donne! — esclamò Frusti.
— Per questo è vero, — ella rispose. — Donne, e s’è detto molto.... Ma che non ci sian proprio eccezioni?... Io, per poco donna che mi senta, se avessi dato delle speranze a un uomo....
[187]
La signora Pasqua capì ch’era in procinto di dir qualche cosa di contrario alla pudicizia e lasciò che i suoi interlocutori tirassero la conclusione delle sue premesse.
— Già, signora Pasqua, già, — biascicarono i due professori, alquanto stupiti che la fiera virago venisse ad ammettere implicitamente di avere un sesso. E con questo innocuo monosillabo si accomiatarono.
Cammin facendo, l’ombroso Frusti manifestò al compagno il sospetto che la signora Pasqua mirasse ad offrirsi al padrone come succedaneo della contessa Serlati.
Dalla Volpe si strinse nelle spalle. — Sei pazzo? Un mostro simile? Credi che Teofoli se ne contenterebbe?
— Eh, quando a uno si caccia nell’ossa il prurito amoroso, — replicò Frusti, — non c’è mostro che tenga. Si comincia col cercar la bellezza, si finisce coll’adattarsi a quel che si trova.... Beati quegli organismi che son maschio e femmina a un tempo.... Per loro almeno la questione è risolta.
— Sì, — rimbeccò Dalla Volpe, — sarebbe come s’io avessi mia moglie sempre attaccata. Non ci mancherebbe altro.
[188]
E in quel giorno e nei giorni successivi ci fu a tutte l’ore un gran viavai a casa Teofoli. Venivano i colleghi e i discepoli; venivano gli amici e i semplici conoscenti; venivano, o mandavano, anche gli estranei che tenevano in pregio l’ingegno e la dottrina del professore. Alcuni privilegiati, o intimi realmente, o creduti tali dalla signora Pasqua, erano lasciati salir le scale e fatti passar nella camera da studio ch’era attigua alla camera da letto, e di dove potevano, essendo aperto dì e notte l’uscio di comunicazione tra le due stanze, scambiare con l’infermo uno sguardo, un gesto, una parola. Così, nonostante il divieto dei dottori, egli vedeva spesso qualcheduno, o colleghi, o studenti, o il rettore dell’Università, o il conservatore dell’Archivio, o il prefetto della Biblioteca, ecc., ecc. E quand’essi s’affacciavano alla soglia, egli, senz’alzar la testa dai guanciali, chiamava a sè ora questo, ora quello, mormorava un ringraziamento, chiedeva un’informazione. Una sera notò la presenza del conte Ermansi, gli fece segno di avvicinarsi, lo pregò di salutar la contessa e di assicurarla che la sua prima visita, quando uscisse di casa, sarebbe per lei. Era manifesto che o non credeva o simulava di non credere alla gravità del suo stato. Si sarebbe detto piuttosto ch’egli riteneva di attraversare una crisi benefica dopo la quale il vecchio uomo sarebbe risorto. E [189] ch’egli aiutasse questa risurrezione con uno sforzo della volontà si capiva anche dallo studio con cui schivava di alludere ai casi e alle persone che avevano avuto una parte prominente negli ultimi mesi della sua esistenza. Un’unica volta domandò alla signora Pasqua se i Serlati si fossero fatti vivi.
— Sì, sì, mandano il servitore, — borbottò la donna con mala grazia. — Avrebbero dovuto venir loro, mi sembra.
E la signora Pasqua si mostrava disposta a continuare su questo tuono, ma Teofoli si voltò sul fianco per tentar di dormire, ciò che non gli riusciva da quando s’era messo a letto, tormentato com’era da un’ambascia ribelle a tutte le cure.
A ogni modo chi non badava che alle apparenze, chi lo vedeva conservar la sua mente lucidissima, chi lo sentiva far mille disegni per l’avvenire non sapeva capacitarsi ch’egli fosse in gran burrasca.
I medici invece tentennavano il capo sfiduciati. E alla fine della settimana uno di loro, il professore Astigiano, accennò all’opportunità di avvertir la sola parente stretta che Teofoli avesse, la sorella maritata a Roma.
La signora Pasqua che, nonostante le sue molte singolarità, era uno spirito equanime, propendeva pel sì; Frusti e Dalla Volpe, i due amici più assidui al letto dell’ammalato, propendevano pel no. — Una donna?.... — essi brontolavano. — Che cosa può far di bene una donna?... Una sorella della quale Teofoli non parla mai?... Se l’avesse desiderata l’avrebbe chiesta.
— E perchè non interrogare in proposito lui stesso?... — notò giudiziosamente qualcuno.
[190]
Qui sorsero in gran copia i ma, i se, i forse.... Ma era poi savio consiglio l’interrogarlo?... Se il toccar questo tasto lo mettesse in apprensione?... Forse si faceva peggio.
Mentre si discuteva, il maggior foglio locale, La Specula, annunziava nella sua cronaca con accento contrito che da circa una settimana l’illustre professore Clemente Teofoli, decoro della Università cittadina, decoro degli studi italiani, guardava il letto per non lieve malore. Naturalmente al triste annunzio tenevano dietro i più fervidi auguri di sollecita guarigione. L’articoletto di cronaca aveva un poscritto del seguente tenore: — “Al momento di porre in macchina veniamo assicurati esservi un sensibile miglioramento nelle condizioni dell’insigne uomo. Aumenta quindi la speranza di salvare una vita preziosa agli studi e alla patria.„
In seguito a questo articolo, riprodotto subito dai giornali più diffusi della penisola, capitarono il domani a casa Teofoli parecchi dispacci da varie parti d’Italia, e uno fra gli altri da Roma, della sorella, che domandava pronte e particolareggiate notizie.
Il telegramma arrivò appunto quando i due medici, Astigiani e Barelli, uscivano insieme dalla camera del paziente, e la risposta da inviarsi a Roma fu combinata da Frusti e Dalla Volpe d’accordo con loro. Essa era tale da lasciar ben poche illusioni a chi sapesse legger fra le righe.
In fatti il sensibile miglioramento indicato dalla Specula non esisteva che nella fantasia del cronista. Anzichè migliorare, le cose precipitavano al peggio. La paralisi polmonare accennava ad estendersi dal lato sinistro al destro, gli attacchi al cuore divenivano [191] più frequenti, le forze scemavano, s’offuscava l’intelligenza. C’erano momenti in cui l’ammalato non riusciva nè a connetter le idee, nè a riconoscere le persone.
Nella notte successiva la febbre si esacerbò e cominciò il delirio. Teofoli parlava della sua opera sulla origine delle religioni, dei materiali che aveva raccolti e che gli permettevano di consegnare all’editore il primo volume entro un mese e il secondo entro l’anno. Poi, come se il libro fosse già stampato, passava in rassegna i probabili giudizi dei critici, discuteva con dialettica maravigliosa le obbiezioni di un avversario ipotetico. Sulle sue labbra si avvicendavano date, nomi d’autori, citazioni in lingue diverse; pareva di assistere allo scoppio d’un magazzino di fuochi d’artifizio. Ma di tratto in tratto la sua fisonomia si contraeva spasmodicamente; un pensiero che non si riferiva a’ suoi studi gli attraversava lo spirito, un nome che non aveva nulla da far co’ suoi libri e co’ suoi autori gli saliva alla bocca: — Giorgina, Giorgina. — Non l’aveva dunque dimenticata? E quando, dopo uno sforzo per alzar la testa dai guanciali, ricadeva esausto, e le sue pupille vitree, sbarrate si volgevano ostinatamente verso l’uscio aperto della sua camera da studio, guardava forse soltanto alla sua biblioteca di cui non avrebbe più toccato i volumi, alla sua tavola da lavoro di cui non avrebbe più mosso le carte? O non c’era ne’ suoi occhi l’ansietà dolorosa di chi aspetta qualcheduno che non verrà?
No, la Giorgina, s’è lei ch’egli aspetta, non verrà. Forse il suo primo impulso sarebbe stato di venire, perchè di cuore non è cattiva, perchè nutre una certa amicizia per Teofoli, quantunque gli abbia [192] fatto tanto male (cosa ch’ella non sospetta nemmeno), ma in risposta a una sua allusione in proposito il conte Ercole le disse: — Non conviene che tu vada sola, specialmente dopo quella tua bambinata che diede da discorrere oltre al bisogno. T’accompagnerò io al primo momento di libertà. — Ed ella replicò con inusata mansuetudine: — Come vuoi. — Per disgrazia il conte era occupatissimo a cercare una nuova pariglia pel suo landau e non aveva in quei giorni un minuto disponibile. Anche la contessa era tanto tanto occupata.... a riposarsi dalle fatiche del carnovale e a prepararsi alle penitenze della quaresima.... Però ell’aveva dato ordine espresso a uno dei servi di passare ogni mattina dal professore, e, quel che più importa, quando il servo tornava dalla sua spedizione, ell’aveva l’abitudine non troppo comune di star a sentire ciò ch’egli le riferiva. Anzi un paio di volte ella esclamò: — Povero Teofoli! Quanto mi dispiace!
Il bello si è che pel solo dubbio d’incontrar la Serlati non si recava da Teofoli nemmeno la Ermansi, la quale avrebbe pur voluto portare il suo perdono in extremis all’amico che l’aveva offesa, ferita nel suo amor proprio, posposta ad una civetta. Le due donne erano ormai nemiche mortali, e la Ermansi parlando della Giorgina, diceva: — In società devo subirla; se la trovassi in casa del professore temo che mi dimenticherei d’essere una dama. — Ora, a essere una dama la contessa ci teneva troppo per non sfuggir tutte le occasioni che potevano farla discendere al grado di pedina. Rinunciò quindi al suo magnanimo proposito affidando al conte marito l’ufficio di sostituirla.
[193]
In luogo della Serlati e della Ermansi, all’ultimo momento e quando l’infermo aveva già perduto i sensi e non ravvisava nessuno, giunse la sorella Teofoli da Roma. Era una signora magra, stecchita, dalla fisonomia impassibile, d’un’età che non si sarebbe potuta determinare a prima vista. In realtà aveva dieci o dodici anni meno del fratello che studiava all’estero mentr’ella era fanciulla, che, per le necessità della sua carriera, era rimasto lontano anche dopo, e col quale ella non aveva nè analogia di gusti, nè consuetudine di vita, nè frequenza di relazioni epistolari. L’imminente catastrofe la lasciava fredda; mostrava appena quel tanto di dolore ch’era voluto dalle convenienze; aveva piuttosto l’aria dell’erede che volgendo in giro lo sguardo valuta, così a un dipresso, gli oggetti destinati a divenire in breve sua proprietà. In fondo, di tutte le persone che in quell’ora suprema s’affollavano nella casa, ell’era la meno afflitta, la meno commossa; e verso quelle persone ella provava un sentimento difficile a definirsi, un misto di stizza e di soggezione; le parevano intrusi, e nel medesimo tempo una voce le diceva che l’intrusa era lei, lei che del fratello non aveva curato la gloria, lei che ne ignorava i trionfi e le debolezze. Pure, intrusa o no, poichè la parentela le dava una larva di padronanza, ella si affrettò a far prevalere la sua volontà in un soggetto delicatissimo. Tepida credente, ma ligia alle forme, ma convinta della santità d’una massima che il suo consorte, impiegato superiore al Demanio, amava spesso ripetere: bisogna far sempre quello che fa la maggioranza; ella si scandalizzò altamente che Teofoli si fosse ridotto a quel punto senz’adempiere alle pratiche di [194] buon cattolico. Che poi egli fosse vissuto sempre fuori d’ogni religione positiva, che avesse ne’ suoi scritti e ne’ suoi discorsi sostenuto dottrine razionaliste erano piccolezze che alla brava signora non importavano affatto; le importava soltanto ch’egli uscisse dal mondo, per dir così, con le sue carte in regola. Mandò quindi lì per lì a chiamare un prete. Costui, un po’ per sincero zelo religioso, un po’ per il vanto di ricondurre in grembo alla Chiesa l’illustre professore Teofoli, accorse subito, e non fu colpa sua se mentr’egli saliva le scale l’illustre professore Teofoli esalava l’estremo sospiro. Però la Curia fu di manica larga, tenne conto al morto del buon volere manifestato da chi rappresentava la famiglia e si mostrò ben lieta di accompagnarlo con le sue preghiere e di avvolgerlo nello sue pompe. Alcuni arricciavano il naso, protestavano contro questa specie di violenza postuma usata ad un uomo di cui erano notissime le opinioni, e Dalla Volpe in particolare schizzava veleno pensando che la cosa avrebbe fatto piacere a sua moglie. Ma già conveniva piegare il capo, perchè in mancanza di qualsiasi disposizione del defunto non c’era chi avesse diritto di opporsi all’autorità della sorella. Del resto, anche molti indifferenti, molti scettici davano ragione a lei; dicevano ch’ell’aveva fatto benissimo, che non c’è il prezzo dell’opera a singolarizzarsi per questioni di forma, e che i funerali religiosi sono più belli dei funerali civili.
[195]
Un pallido sole d’inverno illumina lo studio del professore Teofoli, ove s’affollano, in quella fredda mattina di febbraio, i colleghi, gli amici, i discepoli, tutti vestiti a bruno, tutti tristi e compunti, alcuni con le lacrime agli occhi. Gl’intimissimi, quelli che si sentono abbastanza sicuri de’ propri nervi, entrano un istante nella camera attigua, danno un silenzioso saluto al defunto, composto nella bara non ancora chiusa, irrigidito, non sformato però dalla morte, anzi con un’espressione calma, serena, tranquillamente meditativa che la sua fisonomia aveva perduto già da gran tempo. Forse egli aveva finito col vincere la sua battaglia, con lo scacciar da sè le immagini lusinghiere, le illusioni fallaci, forse, com’egli voleva, il vecchio uomo era risorto.... Ma non c’era risorto che per morire.
Nello studio regna il disordine pieno di vita delle stanze abitate fino a ieri; libri dappertutto; negli scaffali, sulla tavola, sulle sedie; giornali sparsi qua e là alla rinfusa; quaderni ammonticchiati; fogli manoscritti interrotti a metà di una linea, a metà di una parola come per una chiamata urgente, improvvisa. E il tagliacarte d’avorio fra una pagina e l’altra d’un nuovo volume, e il calamaio aperto con gli orli ancora gocciolanti d’inchiostro, e la penna gettata negligentemente sul calamaio e aspettante d’esser ripresa dalla mano che l’ha deposta. Pendono dalla [196] parete le solite fotografie di celebri italiani e stranieri. Pendono e guardano. Videro per anni e anni, dall’alba a notte inoltrata, il professore Teofoli intento nei suoi lavori, ora esaltato dalla febbre della creazione, ora assorto nelle minuzie dell’indagine, ora lieto, ora mesto, di quella gioia vereconda, di quella mestizia pacata ch’è propria di chi ha un unico amore, la scienza. E per anni e anni videro, soltanto in nome della scienza, aprirsi le porte del santuario, e udirono suonar solo di dispute scientifiche il luogo quieto e raccolto. Ma videro anche più tardi sulla fronte pensosa del filosofo scender l’ombra di una cura nuova e diversa, lo videro meno assiduo all’opera, meno paziente nella ricerca, meno sollecito verso coloro che venivano ad attingere alla ricca fonte della sua dottrina. Sin che un giorno, in quel fido asilo di studi, irruppe un gaio folletto in cappellino color marrone, pelliccia e manicotto, scompigliò i libri e le carte, spargendo intorno a sè profumi acuti e sorrisi inebbrianti e promesse inadempiute di arcane dolcezze. Sorrisero forse anch’essi gli illustri uomini pendenti in effigie dalla parete, ma il professore Teofoli non sorrise più, non trovò più conforto, non ebbe più pace. E adesso gl’illustri uomini guardano s’egli esca dalla sua camera ov’entrò una mattina livido e sfatto, se riprenda con animo sereno le sue occupazioni.
Sì certo ch’egli escirà dalla sua camera. N’esce chiuso fra quattr’assi, sulle spalle di otto giovani della facoltà di lettere che non vollero cedere a mani mercenarie l’onore di portare almeno fino alla chiesa il loro diletto maestro. Attraversa un’ultima volta lo studio, attraversa l’andito ove la signora Pasqua si [197] stempera in pianto, fa una breve sosta giù nel vestibolo terreno per lasciare che si formi il corteo. A un dato segnale, la musica cittadina apre la marcia intuonando funebri salmodie; subito dopo, la scolaresca coi bidelli in gran tenuta e il gonfalone dell’Università velato a bruno, e varie Associazioni con le rispettive bandiere. Poi viene il clero della parrocchia, poi il feretro ch’è coperto di ghirlande e i cui cordoni sono tenuti dal rettore dell’Università, dal sindaco, dal consigliere delegato di Prefettura, dal presidente dell’Istituto di scienze e da quattro professori tra i quali Frusti e Dalla Volpe. Seguono in massa gli altri colleghi del corpo insegnante, compresi quelli che non costumano di far lezione, e dietro a loro rappresentanze d’ogni specie e cittadini d’ogni ordine, senza contare i semplici curiosi, senza contare lo stuolo delle vanità che assistono ai funerali nella speranza di veder citati i loro nomi dai fogli. Il corteggio passa in mezzo a una doppia fila di popolo rispettoso; si parla del morto, se ne ricordano le abitudini semplici, se ne lodano i modi gentili. — Un così brav’uomo, e così privo di boria, — dice qualcuno. Indi corre per le bocche la leggenda della contessa. — Era vero che una donna, una contessa gli aveva fatto girar la testa? Era vero che per seguirla di qua e di là egli s’era rovinato la salute? — Ma sì, ma sì, era vero, verissimo. E la contessa era quella Serlati ch’era venuta ad abitar la città nell’inverno, e che si vedeva dappertutto. — Una bellezza! — Questo sì.... Ma che civetta! — E poi così giovine!... Come mai il professore Teofoli non ha capito che quello non era pane per i suoi denti?
In chiesa c’è già una cinquantina di persone, nomini [198] e signore, che aspettano. Fra gli uomini il marchese di Montalto, mister Gilbert che s’è fatto male a un piede e cammina a fatica, Monsieur de la Rue Blanche ch’è appena tornato da una gita a Firenze; fra le signore, oltre a parecchie mogli di professori, la Ermansi, la Roncagli, le due Gilbert, zia e nipote, la tanto nominata Serlati. La Ermansi, sinceramente afflitta per la perdita dell’antico frequentatore del suo salotto, slancia occhiate velenose alla Serlati alla quale ella attribuisce la colpa della catastrofe; dal canto suo, la bella Giorgina, le mille miglia lontana dal sentirsi rea del delitto di cui la si accusa, rimane impassibile sotto i fulmini della matura contessa ed esamina attentamente miss Gilbert, la sola donna che potrebbe rivaleggiare con lei. Ella conchiude però di non aver nulla da temere nemmeno da miss Gilbert, ch’è troppo magra e non sa vestirsi, mentr’ella, la Serlati, ha anche oggi una toilette da lutto che le sta a pennello.
Queste considerazioni sono interrotte dall’arrivo del funerale. E durante tutta la cerimonia il contegno della Serlati è ammirabile. Ella non sbadiglia, non chiacchiera con le vicine, non consulta troppo spesso l’orologio; bensì, a un certo punto, non potendone più dal caldo prodotto dalla gente e dai lumi, alza il velo che le nascondeva la faccia. Nessuno ha l’obbligo di morir soffocato. Allora, non c’è che dire, quegli uomini, giovani e vecchi, si turbano, si distraggono; una fiamma passa nei loro occhi, un fremito agita le loro membra, una parola si forma loro sulle labbra, una parola non pronunziata ma che la Giorgina sente lo stesso: — Bella, bella! — Soltanto Frusti e Volpe conservano un atteggiamento di fiera protesta. [199] E quando il feretro è portato fuori di chiesa, issato sul carro funebre che lo condurrà al cimitero, passando per l’Università ove si pronunzieranno i discorsi, Frusti arringa con piglio iracondo un gruppo di scolari intenti a guardare estatici la Serlati che monta in carrozza. — Non vi curate delle femmine, disgraziati che siete. La migliore di esse, e quella lì è una delle peggio, non merita da noi il sacrifizio d’un’ora, d’un pensiero.... Ogni minuto che diamo alla donna è tolto alla nostra pace, alla nostra salute, a quelle pure e schiette gioie intellettuali che valgono più di tutti i baci d’una sirena.
Mediocremente persuasi di questa sentenza, gli studenti sorridono sotto i baffi.
Ma il Rettore, ch’è un uomo di molto buon senso, posa la mano sulla spalla del focoso collega. — Via, via, Frusti, lasciate che i giovani sian giovani.... In certe materie, credetelo, gli studenti hanno maggior competenza dei professori....
— Bravo, — replica ironico lo storico di Carlo V e Francesco I, — difendete anche voi il cosidetto sesso debole.... Mi sembra che l’esempio del povero Teofoli....
— L’esempio del povero Teofoli non calza, — interrompe il Rettore. — Teofoli ha avuto il torto, o la disgrazia, d’innamorarsi a cinquant’anni passati; e d’innamorarsi d’una persona che non gli conveniva sotto nessun rapporto. Era una cosa fatta fuori di tempo e fuori di posto, e le cose fatte fuori di tempo e fuori di posto non possono andare che male.
Forse queste semplici e savie parole riassumono tutta la filosofia del nostro racconto.
[200]
Giorgio Ceriani, capo della ricchissima ditta G. Ceriani e C.º, era in gondola scoperta, insieme con due amici forestieri ch’egli conduceva a desinare al Lido, sulla terrazza dello Stabilimento dei Bagni. Nell’ultimo tratto del Canal Grande, quello che va dal Ponte dell’Accademia fino al Molo, egli alzò gli occhi verso la finestra d’angolo d’un palazzo gotico, e salutò qualcheduno che gli rese il saluto.
— Che palazzo è? — chiese uno dei forestieri.
Giorgio Ceriani disse un nome patrizio e soggiunse: — Questi erano gli antichi proprietari. Adesso però il palazzo appartiene al cavaliere Roberto Prosperi, che fu già mio principale ed è ora mio socio accomandante.
— Ha liquidato la sua casa?
— Oh, da un pezzo.
— Era vecchio?
— Tutt’altro.... Ma non aveva figliuoli.... E poi.... la condizione di sua moglie.... Sarebbe una storia lunga....
[201]
Gli amici insistettero perch’egli la raccontasse.
— Più tardi, — egli rispose. — Dopo pranzo se non avremo di meglio.
Indi ripigliò: — La persona che ho salutata era appunto la signora Prosperi, la bella Agnese Prosperi.... Povera donna! Ogni giorno, e quasi a tutte le ore del giorno, si è certi di vederla a quel posto.
— Non si può muovere?
— Peggio. Non si vuol muovere.... Dice di non trovare un po’ di pace che lì, in quello che lei chiama il suo salottino giapponese.
— È veramente un salotto alla giapponese?
— Avrebbe dovuto essere.... Invece non ne ha che il nome.
— Eh, si capisce che quella signora non ha il cervello a segno.
— Pur troppo.... Senza esser pazza.... ha un’idea fissa, un’impressione, un ricordo incancellabile.
La curiosità dei due amici era stuzzicata. Ma Giorgio Ceriani tenne fermo a non volerla appagare sin dopo il pranzo. Allora avvicinando la sedia al parapetto della terrazza verso il mare, ove gli ultimi raggi del sole coloravano le vele delle barche peschereccie, principiò il suo racconto che noi riproduciamo qui quasi testualmente.
[202]
Non sono che dieci anni. Ero nel banco Prosperi da qualche tempo, addetto alla corrispondenza in lingue straniere.
Quantunque il più giovine e l’ultimo arrivato dei commessi, ero trattato con distinzione speciale; forse conferiva al mio credito la conoscenza delle lingue, forse s’era scoperta in me qualche attitudine per gli affari, forse il mio carattere inspirava fiducia. Fatto si è che non mi si nascondeva nulla, e che nelle operazioni importanti il principale chiedeva spesso il mio parere. Ero stato anche due o tre volte a pranzo su in casa, e la signora Agnese s’era mostrata gentilissima meco. Ma la sua era una gentilezza fredda, un po’ altera, ben diversa da quella del marito. I miei colleghi non l’amavano; dicevano ch’ella non era donna adatta pel signor Roberto, ch’ella aveva gusti troppo raffinati, troppo aristocratici, e che a lui sarebbe convenuto di prender per moglie una figliuola di negozianti con mezzo milione di dote, invece di questa che gli aveva portato pochissimo e che senza esser nobile aveva tutti i fumi della nobiltà. Però quelli che si ricordavano del matrimonio (e non ci voleva molto a ricordarsene perchè il matrimonio datava solo da sei anni) dovevano riconoscere che il signor Roberto e la signora Agnese s’erano sposati per inclinazione e che difficilmente si poteva vedere una coppia più bella e più innamorata. [203] Adesso l’amore durava in uno solo dei coniugi, nel signor Roberto, ed era un amore ardente, appassionato, un amore a cui non sarebbe parso grave alcun sacrifizio pur di riconquistare quel cuore che gli sfuggiva. Del resto, nessun’altra accusa seria, tranne quella di ricambiare con un riserbo gelato tanta tenerezza, si faceva alla signora Agnese. Non era nè vana, nè civetta, nè esigente; se non trovava la felicità nella sua casa non la cercava di fuori. — Ah se avesse avuto figliuoli! — esclamava qualcheduno. E l’esclamazione coglieva nel segno.
Ho detto che non era esigente. Guai se fosse stata! Ogni desiderio di lei era una legge pel marito; e non soltanto i desideri espressi palesemente, ma anche quelli appena adombrati, ma anche quelli supposti. Uomo savio com’era, il signor Roberto, per compiacerla, avrebbe dato fondo al suo patrimonio.
Fu appunto per soddisfare uno di questi desideri sfuggitole dal labbro ch’egli mi consegnò una mattina una lunga nota tutta di suo pugno pregandomi di tradurla in inglese e d’inserirla nella lettera ch’io dovevo scrivere il giorno stesso ai nostri corrispondenti di Hiogo nel Giappone, i signori James Holiday e C.º. Noi avevamo in corso coi signori Holiday un grossissimo affare; un’importazione di 60 mila sacchi di riso da loro acquistati per nostro conto e ch’essi dovevano caricare appena arrivasse a Hiogo il vapore inglese King Arthur, capitano George Atkinson, che in quel momento si trovava a Venezia e che avevamo noleggiato apposta. Ma la nota consegnatami dal principale si riferiva a cosa affatto diversa. Essa conteneva la preghiera, rivolta in particolare a M.r James Holiday, che i Prosperi avevano [204] conosciuto due anni addietro in un suo viaggio in Europa, di comperare e spedire per mezzo del King Arthur tutto l’occorrente per arredare alla giapponese un salottino di cui s’indicavano le dimensioni e si univa la pianta. Si fidava nel buon gusto di M.r Holiday lasciandogli mano libera per la scelta degli oggetti, e dandogli per la spesa il limite approssimativo di mille a milleduecento sterline. Questo importo doveva essere aggiunto a quello del riso e compreso nelle tratte con cui i signori Holiday si sarebbero rimborsati del loro avere sui banchieri di Londra Eliot, Green e Cº.
Naturalmente, io dissi che mi sarei accinto subito al lavoro.
— Procuri di aver spicciato la posta per le due — ripigliò il signor Roberto. — Vorrei che mi accompagnasse a bordo del King Arthur. Devo parlare col capitano, ed ella sa che l’inglese non è il mio forte e che mi è sempre utile di avere un interprete.... A proposito, — egli soggiunse dopo una breve pausa, — verrà con noi anche mia moglie che non ha mai visitato un gran vapore mercantile.
Alle due in punto la signora Agnese era in banco in cappellino e mantiglia, col ventaglio appeso alla cintura e con un ombrellino di seta rossa in mano.
Il principale mi chiamò: — Ha scritto quella lettera a Hiogo?
Io feci col capo un segno affermativo.
— Abbia la cortesia di portarla qui — seguitò Prosperi — e di leggere a mia moglie la parte che concerne il salottino giapponese.
Andai a prendere il foglio e cominciai la mia lettura traducendo dall’inglese in italiano.
[205]
La signora Agnese sorrise. — Legga pure nell’originale. Capisco abbastanza.
Dovetti compiacerla, benchè mi seccasse questa specie di esame di pronuncia. Ella mi porse un’attenzione benevola, e quand’ebbi finito mi indirizzò qualche frase gentile circa alla mia facilità di scrivere e parlare le lingue straniere. Però (e si rivolse a suo marito) aveva delle obbiezioni di massima. È vero, ell’aveva detto, che rimettendo a nuovo alcune stanze del palazzo si sarebbe potuto fornire di ninnoli giapponesi il salottino d’angolo, ma l’aveva detto così di volo, non sognandosi nemmeno che si trattasse d’una spesa grave. Venticinquemila lire e più per un salottino!... Era una pazzia.... No, no, ella ne avrebbe rimorso per tutta la vita.
Il signor Roberto che s’era levato da sedere le mise una mano sulla bocca pregandola di non insistere. La pazzia, s’era tale, la faceva lui; ella non aveva fatto che dar forma a un’idea ch’egli ruminava già da due anni, da quando M.r Holiday era stato a Venezia. Non si sgomentasse della spesa; l’ultimo bilancio s’era chiuso con un utile di oltre mezzo milione, e permetteva di levarsi qualche capriccio.
Come conclusione di questo discorso il signor Roberto mi tolse di mano la lettera, la firmò, e mi ordinò di portarla nella stanza vicina perchè la copiassero e la mandassero immediatamente alla posta. — Cosa fatta, capo ha, — egli disse. — E adesso non perdiamo tempo. Ceriani, è pronto?
Di lì a poco scendevamo tutti e tre la scaletta che dal banco metteva nell’entratura, una lunga entratura di palazzo veneziano, con la riva da una parte e un ampio cortile dall’altra.
[206]
Io guardavo con maggior attenzione dell’usato la giovine coppia che mi stava dinanzi; due belle persone, ma due tipi affatto diversi. Egli alto, largo di spalle e di torace, ben piantato sulle gambe nervose, bruno d’occhi, di capelli e di barba, di carnagione rosea che si coloriva forse un po’ troppo intensamente dopo il pasto, dopo una passeggiata, nel calore d’una discussione; insomma un temperamento sanguigno esuberante di forza e di vitalità. Ella, pallida, bionda, magra: un profilo di cammeo sopra un corpo di silfide; capelli lisci e finissimi spartiti regolarmente sulle tempie e avvolti in treccia dietro alla nuca, grandi occhi azzurri dalla guardatura un po’ incerta e fantastica, piedi e mani che uno scultore avrebbe preso volentieri a modello; nel complesso un impasto di correttezza classica e d’idealità romantica.
Si montò in gondola. Quantunque non fossimo che alla metà di marzo era una temperatura da primavera inoltrata, e la gondola aveva, anzichè il felze nero e opprimente, una elegante tenda di raso a frangie. Arrivammo in dieci minuti nel Canale della Giudecca, forse meno gaio, meno artistico di quello di San Marco, senza lo sfondo superbo del Palazzo dei Dogi e della Piazzetta; non meno bello però nè meno pittoresco nella doppia linea delle Zattere e della Giudecca, quelle rivolte al mezzogiorno, questa un po’ in ombra, un po’ severa, un po’ triste, se non fossero i rii che la traversano e che lasciano vedere da lontano sotto gli archi dei ponti i muricciuoli degli orti incoronati d’allegra verdura, e di là dall’Isola un altro e più ampio tratto di laguna anch’esso riscintillante ai raggi del sole. E in questo [207] Canale, più assai che nel bacino di San Marco, s’agita e ferve, piccolo o grande che sia, il commercio marittimo di Venezia, e a tutte l’ore si vedono bastimenti a vela e piroscafi andare, venire, o cullarsi indolentemente sull’onda come se posassero dalle fatiche del viaggio.
Il giorno della nostra visita al King Arthur c’era un insolito movimento. Mi ricordo che passò a poca distanza da noi, mandando un urlo rauco e prolungato come un gemito di belva ferita, un vapore inglese, vuoto, enorme e mostruoso, con quasi tutto lo scafo fuori dell’acqua; intorno a un altro della Navigazione italiana arrivato appena s’affollava uno sciame di barche e battelli; da un terzo, ancorato in mezzo al Canale, si scaricava il carbone facendolo scendere nelle peate per un piano inclinato e sollevando un nembo di polvere scura o densa; uno dei grossi navigli della Peninsulare, di quelli che si spingono direttamente a Bombay e Calcutta, pronto a salpare prima di notte, levava già le ancore e fumava dalla caminiera. E quanto più ci avvicinavamo alla Giudecca, ov’era ormeggiato il King Arthur, tanto più spesseggiavano i legni e tanto più cauta doveva proceder la gondola per non urtar nelle catene e nei gavitelli.
Durante il tragitto il signor Roberto parlò quasi solo. Parlò di quest’importazione di riso giapponese, la prima che si facesse in Italia, e del profitto e dell’onore ch’egli sperava trarne. Disse dei gran passi che s’eran fatti a Venezia, dopo il 1866, a dispetto dei pessimisti e dei denigratori di professione, e rammentò i tempi quando, per ogni prodotto di regioni lontane, si doveva ricorrere al mercato di [208] Londra. Se ci fossero altri dieci negozianti che avessero il suo spirito d’iniziativa, — egli soggiunse con legittimo orgoglio, — Venezia sarebbe la prima piazza d’Italia.
Nelle pause del suo discorso lo sguardo del signor Roberto cercava quello di sua moglie, e più d’una volta la sua mano si posò sulla mano di lei. Io notai a due riprese ch’ella, quand’era possibile, sfuggiva il contatto, e questa mal celata ripugnanza per un uomo di cui ell’era l’idolo offendeva in me il sentimento della giustizia e dell’equità. Andavo persuadendomi che la scarsa simpatia dei miei colleghi per la signora Agnese non era infondata.
La scala si fermò ai piedi della scaletta del King Arthur, in cima alla quale il capitano Atkinson stava ad aspettarci. Era un uomo di mezza età, di tinta olivastra, di statura giusta e lineamenti regolari, con un’espressione di malinconia nei grandi occhi grigi. Tutto sommato, un bell’uomo, dall’aria distinta e signorile, ma uno di quelli che a guardarli non mettono di buon umore. Del rimanente, la sua tristezza si spiegava col fatto che gli era morta alcuni mesi addietro a Londra, mentr’egli viaggiava nei mari dell’India, una moglie giovine e adorata. Egli ne portava il lutto e ne’ suoi abiti neri pareva un policeman, o un impiegato delle pompe funebri.
Taciturno per indole e ancor più taciturno dopo la disgrazia che l’aveva colpito, quel giorno però il capitano Atkinson si sforzava di esser loquace e faceva con perfetta cortesia gli onori del suo bastimento, conducendoci a visitarne tutte le parti, dal ponte del comando alla stiva, dalla cucina alle macchine, prendendo per mano la signora Agnese nei [209] punti difficili e rispondendo con molta chiarezza alle sue domande sul meccanismo dell’elica, sull’orario di bordo, sui segnali, sul carico e lo scarico delle merci. M’accorsi ben presto che la signora Prosperi non solo capiva l’inglese, ma lo parlava speditamente, con un fraseggiare elegante, con una pronuncia corretta. Ell’avrebbe potuto quanto me e meglio di me servire d’interprete a suo marito. Compiuto il giro del naviglio, il capitano Atkinson ci fece entrare in un salottino addobbato con molto decoro ch’era attiguo alla sua cabina e ove erano preparati abbondanti rinfreschi. Io approfittai di questo momento per comunicare al capitano certi desideri del mio principale circa a qualche piccola modificazione da introdursi nei ventilatori, e stavo scrivendo una noterella in proposito da lasciare a bordo, quando s’intese un lieve rumore nella cabina. Master Atkinson si alzò, aperse adagio l’uscio e diede un’occhiata attraverso lo spiraglio. Poi tornò indietro con un sorriso sul labbro, un sorriso che faceva uno strano effetto in quel viso triste, e disse: — C’è la mia bimba di là.... Dorme come un angelo e Tom la veglia.... il mio cane di Terranuova. Era lui che aveva urtato un mobile.... Quando c’è lui è come se ci fossi io.
— Ha una bimba con sè? — esclamò la signora Agnese. E nel far questa semplice interrogazione un vivo incarnato le si diffuse sulle guancie.
Egli chinò il capo affermativamente. — La mia unica figliuola.... L’ho presa a bordo poche settimane fa, quando partii da Londra.... È orfana di madre.... Con chi starebbe?... Di qui a qualche [210] tempo forse la metterò in un collegio.... Adesso è troppo piccina.... Ha cinque anni.
Il capitano Atkinson, commosso, levò gli occhi verso la parete da cui pendevano due fotografie; quella del King Artur, e un’altra più piccola, difesa da un vetro e inquadrata in una cornice di legno, d’una donna giovine, bionda, dall’aria gracile, una di quelle fisonomie dolci che si raccomandano.
— Oh me la faccia conoscere la sua bambina, — supplicò la signora Agnese.
— Anche subito, se si contenta di vederla addormentata.
— Si figuri.... Pur di non svegliarla.
— Oh per questo non si dia pensiero.... Finchè non abbia dormito le sue due ore di fila, non la sveglierebbero le cannonate.
— In tal caso.... — replicò la signora.
— E se invece pregassimo il capitano di condurcela domattina, quando deve venire in banco alle undici? — propose il signor Roberto. — Farebbe colazione con noi.
— Magari! — soggiunse la signora Agnese. E non si quetò fin che Master Atkinson non ebbe accettato l’invito. Ma questa non le parve una buona ragione per non veder subito la piccina.... Le bastava vederla di lontano.... per un momento.
Il capitano volle compiacerla. — Mi lasci passare avanti allora, — egli disse. — Tom non le permetterebbe neppure di affacciarsi alla soglia se non ci fossi io.
In fatti, quando il capitano aperse l’uscio della cabina, la prima cosa che si vide fu il cane di Terranuova che seduto sulle due zampe posteriori custodiva [211] l’ingresso. A un cenno imperioso del padrone egli si tirò in un angolo manifestando con un lieve brontolìo la sua disapprovazione.
Per una curiosità forse indiscreta m’ero avvicinato anch’io e stavo dietro alla signora Agnese. Il signor Roberto era rimasto seduto e sfogliava un atlante.
La bimba dormiva profondamente nella sua cuccetta, posata su un fianco, con la faccia rivolta verso l’uscio, tantochè la si vedeva benissimo senza entrare nella cabina. Somigliava alla fotografia appesa al salotto, ma era molto più bella, un vero angioletto dalla capigliatura bionda che formava una specie d’aureola intorno al visino di latte e di rosa.
— Oh che amore! — disse la signora Agnese smorzando la voce e giungendo le palme in atto di adorazione. — E che nome ha?
— Ofelia, — rispose Master Atkinson.
— Strano nome! — pensai, evocando la dolce figura della infelicissima innamorata di Amleto.
— Venga, venga avanti, — riprese il capitano lusingato nel suo orgoglio di padre.
La signora Agnese non se lo fece dire due volte, e accostatasi in punta di piedi alla cuccetta si chinò sulla bimba e le sfiorò con un bacio la bocca.
Tom inquieto si mosse dal suo angolo, interrogando con gli occhi il capitano. — Che novità sono queste? Perchè la disturbate?
No, non la disturbavano, ed ella seguitava a dormire sorridendo nel sonno.
Resistendo alla tentazione di baciarla una seconda volta, la signora Agnese s’avviò per uscire. Il cane, ormai rassicurato, le si fregò amorevolmente intorno [212] alle vesti; ella gli fece una carezza e rientrò nel salottino ove suo marito l’aspettava. A me disse passando: — Com’è bella, non è vero? — E subito dopo si rivolse al signor Roberto con un mite rimprovero: — Perchè non hai voluto vederla?
Egli chiuse l’atlante. — La vedrò domani.
— È così bella! — ella ripetè.
Il signor Roberto abbozzò un triste sorriso; uno di quei sorrisi che sono tanto vicini alle lacrime.
Ricordata al capitano Atkinson la promessa di venir a colazione la mattina dopo con l’Ofelia, lasciammo il bastimento. Nel ritorno le parti erano invertite. Prosperi taceva, la signora Agnese, trasfigurata d’aspetto, spiegava un’insolita facondia. Ma non parlava che d’una cosa, la sola che le fosse rimasta impressa tra le molte vedute; parlava di quell’orfanella vegliata amorosamente da quel cane di Terranuova.
Nello smontar dalla gondola ella mi disse: — Badi che aspetto anche lei domattina a colazione.
L’indomani il capitano Atkinson portò a casa Prosperi un commensale non invitato, il cane Tom, dal quale l’Ofelia non s’era voluto staccare a nessun costo. Il capitano riconosceva francamente di non aver preveduto questa difficoltà; all’ultimo momento, piuttosto di lasciar la figliuola a bordo o di trascinarsela dietro per forza tutta ingrugnata o piagnucolosa, egli [213] s’era preso la licenza di accompagnare l’animale della cui condotta osava farsi mallevadore. Infatti Tom si conduceva assai meglio della sua padroncina che sulle prime rifiutava il cibo e si nascondeva ostinatamente il viso fra le mani dichiarando di voler andar via. Tom invece, seduto come il solito sulle gambe posteriori, assisteva alla scena con la gravità d’un filosofo nemico d’ogni escandescenza, ma disposto a perdonar molto all’infanzia.
Questi capriccetti dell’Ofelia empivano di confusione Master Atkinson che si sentiva impotente di fronte alla sua piccola tiranna. Ah, se avesse supposto una cosa simile non avrebbe certo accettato l’invito.
La signora Agnese, gaia, serena come non l’avevo mai vista, gli ripeteva per confortarlo: — Lasci fare a me.
E con lo moine, con le carezze, con le rampogne scherzevoli, con tutte quelle arti gentili di cui effettivamente gli uomini non hanno neppure l’idea, ella riuscì a poco a poco a quetar la bambina. A colazione finita, l’Ofelia era già divenuta amica della bella signora che le parlava così bene nella sua lingua, con una voce così dolce, con modi così persuasivi. Tantochè, quando la signora Agnese le domandò se voleva andar con lei sola nel giardino, ella rispose tosto di sì...: facendo però una riserva mentale relativamente a Tom. Di questa riserva la signora Agnese s’accorse per un certo sguardo che la fanciulla rivolse all’animale, e disse pronta: — Ah, Tom può venire.... Voi altri ci raggiungerete più tardi, — ella soggiunse, indirizzandosi a noi.
— Che buona mamma sarebbe stata l’Agnese! — sospirò il signor Roberto appena sua moglie fu uscita [214] dal salotto. Poi cambiò argomento e ci offerse dei sigari e del cognac.
Parlammo di viaggi. In Giappone il capitano Atkinson non c’era mai stato; era stato un paio di volte a Singapore e credeva di dovervi tornare nell’autunno a farvi un carico di pepe per l’Inghilterra. Già egli calcolava di esser a Venezia col riso entro il mese d’agosto, onde nella prima metà di settembre avrebbe potuto rimettersi in cammino. Il King Arthur era uno dei vapori più rapidi della marina mercantile inglese.
Ripensandoci molto tempo dopo, notai che Master Atkinson discorreva volentieri del periodo più recente della sua carriera, ma schivava ogni allusione ad un passato lontano.
Di lì a mezz’ora, scendemmo anche noi in giardino. Il nome era pomposo: in realtà, non si trattava che d’un piccolo appezzamento di terra chiuso per tre parti da muri, con una pergola che in quella stagione dell’anno era senza foglie e con qualche aiuola ch’era senza fiori. Comunque sia, quel po’ d’aria libera aveva servito a dissipar l’ultime nubi dalla fronte dell’Ofelia, e prima ancora di vederla noi fummo gradevolmente sorpresi dal suono delle sue risate argentine. Tenuta a mano dalla signora Agnese, ella sedeva sul dorso di Tom e battendo i piedini sul fianco del paziente quadrupede e gridando hop, hop, si faceva condurre in giro per i sentieri che serpeggiavano intorno alle aiuole. A ogni svolta ella rischiava di perder l’equilibrio e s’aggrappava più forte alla sua guida e abbandonava la sua testina bionda sul testone nero del cane fedele. Quelli erano i momenti della massima ilarità. I riccioli d’oro le svolazzavano [215] sulle tempie, un bel colore di rosa le tingeva le guancie, e balenava ne’ suoi occhi sereni e vibrava da tutte le sue tenere membra la voluttà della vita. Hop, hop! Ell’avrebbe continuato la sua cavalcata chi sa fino a quando, tanto più che Tom non si stancava di portarla, nè la signora Agnese si stancava di reggerla. Cosicchè suo padre che veniva a troncare il suo divertimento non ebbe a rallegrarsi di troppo lusinghiere accoglienze. Se prima aveva voluto andarsene, adesso voleva restare.... voleva restare con Tom e con aunt Agnes. La chiamava aunt, zia. La zia Agnese (per darle il titolo che le dava la bimba) intercedette anch’ella in suo favore. Perchè l’Ofelia non poteva rimaner fino a sera? Già il capitano aveva le sue faccende; che gusto ci trovava a condur la figliuola in giro dai negozianti o dai sensali di noleggio? Venisse a prenderla sul tardi, seppur non preferiva che la gli si riaccompagnasse a bordo. O che non si fidava?
Durante quest’ultima parte della discussione l’Ofelia s’era ammutolita. Seduta ai piedi della signora Agnese, ell’aveva posato il capo sulle ginocchia di lei e vinta dalla stanchezza aveva chiusi gli occhi.
— Vede, — disse Master Atkinson, — a quest’ora mia figlia dovrebbe già fare il suo sonnellino d’ogni giorno.... Sta per addormentarsi.
— Ma è bell’e addormentata, — esclamò con qualche maraviglia la signora Agnese chinandosi sulla piccina. — Come si fa presto a quell’età!... Non son due minuti che rideva, scherzava.... e adesso è con gli angeli.... Adesso poi non gliela do neanche per idea, — ella ripigliò in tono deciso. — Si figuri.... [216] romperle il sonno.... costringerla a tenersi ritta, a camminare.... No, no, la metterò a letto io stessa.
E nel dir questo se la prese in collo delicatamente senza svegliarla.
Il capitano era titubante. Gli dispiaceva recare un così gran disturbo; inoltre non sapeva che impressione potesse fare all’Ofelia, nell’aprir gli occhi, il trovarsi fuori della sua cabina, il non vedere il suo babbo....
— Forse Master Atkinson ha ragione, — notò il signor Roberto che fino allora non aveva pronunziato una parola sull’argomento. — I fanciulli sono nervosi....
— E gli uomini non intendono nulla di certe cose, — replicò la signora Agnese con una vivacità un po’ acre. — M’impegno io a calmar l’Ofelia allorchè si desti.... Tutt’al più, per maggior precauzione, potrebbe restare anche Tom.
A forza d’insistenza la signora Agnese ebbe causa vinta, e uscì trionfante portandosi in camera sua la bambina che dormiva d’un sonno tranquillo e profondo. Tom era rimasto alquanto perplesso, malcontento di queste novità, desideroso di tornare sul suo bastimento, ma poco disposto a tornarvi senza la sua inseparabile compagna. Alla fine ubbidì agli ordini perentori del capitano, e col muso basso e la coda fra le gambe seguì la sua padroncina.
Tutta questa scena aveva visibilmente conturbato il signor Roberto, ed egli non me ne fece mistero. Non avrebbe condotta sua moglie a visitare il King Arthur, mi disse, se avesse supposto di trovare a bordo l’interessante orfanella. In fatto di bimbi, l’Agnese, che aveva pure un sano criterio, andava soggetta a degl’impeti irriflessivi. Ora li sfuggiva con [217] affettazione, ora se ne appassionava fuor di misura. E il peggio era appunto quando se ne appassionava. Se si fosse limitata ad accoglierli con piacere, a voler averne spesso qualcheduno intorno a sè, poichè il ciclo, fino allora almeno, gliene aveva negati de’ suoi, sarebbe stata una vera fortuna. Ed egli l’avrebbe assecondata di tutto cuore. Era tanto lieto di vederla lieta. Ma le esagerazioni lo sgomentavano. È sempre fatale il dimenticare la realtà delle cose. È inutile; dei figli altrui non si poteva disporre come se fossero propri; poteva accadere che dovessero allontanarsi temporaneamente, che dovessero cambiar domicilio, ed egli sapeva per esperienza quante lacrime e quanti singhiozzi costasse a sua moglie il rinunziare a ognuno di questi sogni di maternità. Adesso quell’infatuazione per l’inglesina sarebbe finita con una delle solite crisi. Di lì a un paio di settimane, alla partenza del King Arthur, l’Agnese avrebbe sentito più che mai il vuoto della casa, sarebbe ripiombata nella tristezza e nello scoraggiamento.
In mezzo a queste savie riflessioni si capiva però che al signor Roberto non bastava l’animo di opporsi in modo risoluto alle fantasie della donna ch’egli adorava. E io che in principio lo tacciavo di debolezza non tardai a spiegarmi la sua condotta. Ho anzi un rimorso; di non aver contribuito a renderlo più pieghevole in un momento decisivo e solenne.
Senza volerlo e senz’avvedermene io entravo nell’intimità della famiglia. Nei dì successivi a quello in cui il principale m’aveva rivelato le sue apprensioni, ebbi a trovarmi parecchie volte con la signora Agnese che aveva persuaso il capitano Atkinson a lasciarle ogni giorno per qualche ora l’Ofelia e che [218] affidava a me l’incarico di ricondurla a bordo quando non poteva accompagnarla lei stessa o quando il padre non poteva venirla a prendere.
Qual cambiamento nella signora Agnese! Non serbava la minima traccia di quell’alterigia che i miei colleghi le rimproveravano ad una voce; non aveva più quell’aria tra uggita e sprezzante che io pure avevo notata in lei; era affabile, espansiva, sempre dolce di modi, spesso col sorriso sul labbro. Ed ella era la prima a riconoscere questa sua trasformazione, e ne dava il merito all’Ofelia. — È così buona, — diceva, — che si diventa buoni a starle insieme. Già i bambini sono una gran benedizione del cielo.... È incomprensibile che ci sia della gente che non li può soffrire, o che tutt’al più li tollera come una molestia necessaria.... Ah se non ci fossero, sarebbe pur triste il mondo!
Non duravo fatica a darle ragione.
Ed ella seguitava: — Anche a lei, Ceriani, piacciono i bambini.... Si vede subito.... E non è mai sprecato l’affetto che si ha per loro.... Li dicono interessati, egoisti.... Non è vero.... Son meglio di noi grandi.... Noi altri invece ripaghiamo spesso l’amore con l’indifferenza, l’indifferenza con l’amore.... A loro ciò non accade.... Essi amano chi li ama.... L’Ofelia le vuol bene, sa?
Di tratto in tratto la signora Agnese sospirava: — Se avessi avuto figliuoli...!
Un giorno mi arrischiai a dirle! — Ne avrà.... È tanto giovine.
Ella tentennò tristamente il capo e i suoi occhi s’inumidirono.
Io assistevo a un dramma domestico, a un dramma [219] semplice e toccante, quantunque non vi fosse in gioco nessuna di quelle che si ha l’abitudine di chiamar forti passioni. Non l’adulterio con le sue febbri, non la gelosia co’ suoi furori, non l’ambizione con le sue inquietudini. Due persone nel fiore degli anni, certo con diversità notevoli d’aspetto e di carattere, ma tutte e due sane di corpo, e con un gran fondo di rettitudine morale, due persone che s’erano unite sotto gli auspici più lieti a cui un capriccio della sorte avvelenava resistenza! Nella moglie un istinto esagerato della maternità che le rendeva incomportabile il non aver prole; nel marito, che pur si sarebbe rassegnato a questa sventura, un cruccio, un rodimento continuo di saper infelice una sposa per la quale egli avrebbe versato fin l’ultima goccia del proprio sangue, un’acuta mortificazione di sentirla sempre più fredda, più riluttante fra le sue braccia di mano in mano che s’affievoliva la speranza di ciò che agli occhi di lei nobilitava l’amore.
Altri particolari non ricercati, non chiesti, ma sorpresi facilmente sulle labbra di questo o di quello contribuivano a illuminarmi sullo stato delle cose. Si alludeva a consulti medici fatti sino dal secondo anno di matrimonio e ripetuti poi, a cure contradditorie qua e là, ora certi bagni, ora certe acque, ora la doccia, o il ferro, o l’arsenico. E io mi figuravo la signora Agnese, lei così poetica, così riservata nei modi, me la figuravo sottoposta a interrogatorî delicatissimi, offesa ne’ suoi pudori più intimi senza che il sacrifizio approdasse a nulla. Qual maraviglia che l’amore non fosse sopravvissuto a queste prove dolorose, o che almeno esso ne fosse uscito col germe di qualche male organico ed insanabile?
[220]
— Sicuro, — mi diceva il dottor Gandolfi, medico dei Prosperi, — sicuro, quella che i moralisti chiamano psicologia ha sempre una base fisiologica. — Ed egli soggiungeva che quest’era veramente un caso singolare. A nessuno dei due coniugi si poteva imputare la sterilità del matrimonio. C’erano novanta probabilità su cento che il marito avesse avuto figliuoli da un’altra moglie e la moglie ne avesse avuti da un altro marito. A questo punto il dottore ch’era un uomo di manica larga si divertiva a sciorinar delle teorie molto ardite e a citar dei versi d’un poeta latino sugli effetti benefici di certi strappi alla fede coniugale. — Guai però a chi osasse tener questi discorsi alla signora Agnese! — egli si affrettava a concludere.
Fatto si è che comprendendo le pene, le delusioni della signora Agnese, vedevo anch’io che era una crudeltà l’insidiarle i suoi pochi momenti di gioia.
Adesso ell’era beata nella compagnia della gentile Ofelia. A poco a poco era riuscita a tenersela seco dalla mattina alla sera, la colmava di regali, la conduceva in gondola, a passeggio, tirandosi dietro, che già s’intende, l’inseparabile cane di Terranuova. Se il capitano Atkinson faceva qualche osservazione, ella gli dava sulla voce. — Non sia cattivo, si tratta di pochi giorni. — E intanto lo invitava spessissimo a colazione e a pranzo.
— Curioso tipo quella Prosperi, — dicevano i pettegoli di caffè. — Sempre con quella bambina cascata dalle nuvole! E co’ suoi gusti aristocratici, col suo fare schizzinoso, ha per unici commensali un capitano mercantile e un semplice commesso.
Il commesso ero io. Quando c’era l’Ofelia, la signora Agnese mi tratteneva sovente a desinare.
[221]
Una mattina ella mi pregò di fissarle un’ora dal fotografo. Voleva far fare un gruppo dell’Ofelia e di Tom. Ma badassi di non parlare della cosa nè con suo marito, nè con Master Atkinson, nè con altri. Doveva essere un’improvvisata.
Poche sere dopo, a tavola, il capitano trovò sotto il tovagliuolo una copia della bellissima fotografia, e fu una gradita sorpresa. La signora Agnese magnificò la discrezione dell’Ofelia. Una bimba di quell’età, non essersi lasciata scappare una parola! Era un prodigio.
E in un impeto di tenerezza si alzò dalla seggiola e andò ad abbracciar la fanciulla. Nel tornar al suo posto aveva le lacrime agli occhi; Prosperi, inquieto, non sapeva staccar lo sguardo da lei.
Gli è che l’idillio s’avvicinava alla fine. Eravamo al mercoledì e la partenza del King Arthur era stabilita per sabato.
Ora la sera di quello stesso mercoledì, mentre il capitano Atkinson stava per accommiatarsi, la signora Agnese, stringendogli forte la mano, gli disse con una certa esaltazione: — Quanto durerà il suo viaggio, fra andata e ritorno?
— Non più di cinque mesi, spero.
— Ebbene, vuol fare una bella cosa?... Affidi a noi l’Ofelia per questi cinque mesi....
— Ma, Agnese.... — interruppe il signor Roberto. — come puoi domandare a Master George di privarsi della sua figliuola?
— Oh lo sa anche lui che non potrà condurla sempre in giro pel mondo....
— Appunto per questo la vorrà seco adesso, — replicò Prosperi, — evidentemente infastidito dal ghiribizzo saltato in capo a sua moglie.
[222]
La signora Agnese insistette. — Non lo si sforza mica. Sentiamo quel che ne pensa lui.... lui e l’Ofelia.
S’era chinata sulla bimba per agganciarle i bottoni del soprabitino e le susurrava in tono carezzevole: — Non è vero, Ofelia, che resteresti volentieri con la zia Agnese?
Per l’Ofelia il restar con la zia Agnese significava andar a spasso ogni giorno, far baldoria con Tom in giardino, aver sempre nuovi balocchi da ammirare e da rompere, tutte cose piene di attrattive per lei. Ma l’idea di separarsi per un pezzo dal padre non entrava nella sua testolina, ed ella espresse ingenuamente il suo pensiero: — Con la zia Agnese, col babbo e con Tom.
Il capitano Atkinson frattanto ringraziava la signora Prosperi dell’ospitalità ch’ella offriva all’Ofelia.... L’avrebbe affidata a lei come a una seconda mamma.... e avrebbe viaggiato sicuro, tranquillo, anche per qualche anno di seguito.... In quel momento però temeva che quella compagnia gli fosse necessaria.... Non s’era rimesso ancora dal dolore per la perdita della moglie, e la sua unica consolazione era quella di aver presso di sè la soave creaturina che nella voce, nei lineamenti gli ricordava la sua povera morta.
Parlava commosso, agitato, cercando con gli occhi l’Ofelia di cui la signora Agnese era sempre occupata ad agganciare i bottoni con mano incerta e febbrile.
Forse la bimba sentì quello sguardo appassionato che l’avvolgeva; fatto si è ch’ella si staccò dolcemente dalla zia, dicendo: — Lascia finire al babbo: ha più pratica....
La signora Agnese vedeva svanire il suo sogno.
[223]
— Capisco, — ella balbettò in risposta a Master Atkinson, — capisco.... Ma non mi dia subito una negativa assoluta.... Rifletta fino a domani.... La notte porta consiglio.
Ella diceva così, ma in fondo non sperava più nulla.
E quando il capitano e l’Ofelia furono usciti ella si abbandonò sulla poltrona, con la faccia rivolta verso la spalliera e si mise a piangere dirottamente.
A me parve delicato di lasciar soli marito e moglie e mi dileguai in silenzio.
Era destino però ch’io non potessi, neppur volendo, tenermi estraneo alle faccende intime di casa Prosperi. Il giovedì mattina il principale non venne in banco che tardi e mi chiamò subito nel suo gabinetto. Era pallido, stravolto. — Ha fatto male ad andarsene iersera, — egli mi disse. — Forse la sua presenza avrebbe evitato una scena penosa.
Mi raccontò poi che sua moglie lo aveva investito fieramente perchè con le sue parole aveva incoraggiato la risposta sfavorevole del capitano Atkinson, il quale non poteva tener un altro linguaggio dal momento che le prime difficoltà venivano da una delle persone che avrebbero dovuto ospitar la sua figliuola.
— In verità, — soggiunse il signor Roberto, — a me sembrava di avere il diritto di far ben maggiori lagnanze dell’Agnese. Ell’aveva tirato in campo, [224] senza essersi intesa meco, un argomento gravissimo, aveva tentato di forzarmi la mano, di vincere per sorpresa. Pur non le mossi rimprovero di sorta. Mi limitai a spiegarle le ragioni per le quali io giudicavo assolutamente inopportuna la sua proposta. È sempre un’immensa responsabilità l’incaricarsi dei fanciulli che non ci appartengono, ma la cosa può passare quando se ne conoscono a fondo l’indole, le abitudini, le disposizioni fisiche; e sopratutto quando se ne conosce a fondo la famiglia. Ora l’Ofelia si conosceva da pochi giorni, suo padre si conosceva ancora meno di lei, e in quanto ad altri parenti, fuori della madre ch’era morta, s’ignorava perfino s’esistessero. E se la bimba s’ammalava in questi cinque mesi che, nella più favorevole ipotesi, sarebbe durato il viaggio del capitano Atkinson? Se, con la volubilità dell’età sua, domandava di tornar col suo babbo mentr’egli era lontano migliaia di miglia?... Ma supposto invece che tutto andasse pel meglio, come mai l’Agnese non aveva considerato che il separarsi dall’Ofelia dopo cinque mesi di convivenza le sarebbe riuscito più grave che il separarsene adesso? Poichè non si poteva supporre che il capitano rinunziasse addirittura a sua figlia; e quand’egli vi avesse rinunziato si sarebbe dovuto pensarci su molto da parte nostra prima di risolverci a tenerla per un tempo indefinito....
Devo aver fatto un movimento inconsciente che il signor Roberto prese per l’atto di chi si accinge a sollevare un’obbiezione. E s’interruppe per dirmi: — Parli pure liberamente, Ceriani. Se ha un’opinione diversa dalla mia, non abbia riguardo a manifestarmela.... Le assicuro; quasi quasi vorrei aver torto.
[225]
Lo disingannai. I suoi argomenti mi parevano inappuntabili. — E la signora? — chiesi.
— Ah, giovinotto mio, — egli rispose — le donne non discutono con le ragioni, ma con le lacrime, ma con gli attacchi di nervi.... E questa è la loro forza.... le ragioni di mia moglie erano deboli, ma il suo pianto mi spezzava il cuore.... E al sentirla, in mezzo ai singhiozzi, chiamar Dio in testimonio ch’ella non desiderava, nè aveva mai desiderato nulla che non fosse onesto, a sentirla invidiar la sorte della donnicciuola del popolo che tornando dal lavoro trova un bimbo che le sorride e le stende le braccia e balbetta l’ineffabile parola mamma, io provavo una gran tentazione di gettarmele ai piedi e di domandarle perdono o di prometterle tutto quello che ella voleva. Non lo feci per orgoglio, per puntiglio.... Ella stette male tutta la notte cosicchè stamattina feci venire Gandolfi, il nostro dottore, e prima e dopo la visita medica parlai con lui delle cause che avevano provocato questa crisi, la quale, del rimanente, non ha nessuna gravità. Ebbene, caro Ceriani, Gandolfi non è alieno dal credere che la vicematernità, com’egli la chiama col suo frasario originale, sarebbe forse il rimedio più efficace allo squilibrio nervoso della mia Agnese. Anzi, nello stato presente delle cose, egli la ritiene preferibile alla maternità vera che in un organismo già scosso porta sempre gravi pericoli. Insomma, secondo lui, sarebbe stato miglior consiglio non contraddire ai desideri di mia moglie e veder di persuadere il capitano Atkinson a lasciar qui la bambina o durante questo, o durante un suo prossimo viaggio.... Eccomi in un bell’impiccio, perchè, lo confesso, le parole del dottore non mi hanno [226] convertito che a mezzo e i miei dubbi restano intatti.... Ma d’altra parte se c’è un modo di ridar all’Agnese la serenità, la pace dell’animo, mi è lecito ostinarmi nella mia negativa?... Chi sa?... La soluzione intermedia accennata da Gandolfi, quella cioè di aver qui l’Ofelia durante un prossimo viaggio, potrebb’esser la buona. Se l’Agnese si acquetasse a una promessa formale del capitano in questo senso?... Perchè già è chiaro che, subito, egli non ci confiderebbe l’Ofelia quando pur gliela ridomandassimo.... Ah, Ceriani, — conchiuse il signor Roberto con un sorriso triste — prevedo che avrò bisogno dell’opera sua.
— Disponga — risposi. — Ma come?
— Per tasteggiare il capitano meglio che non possa farlo io col mio sciagurato inglese.... e anche per dir qualche parolina all’Agnese ove se ne presenti l’opportunità.... L’Agnese ha molta stima di lei.... E tutti e due, sa, mia moglie ed io, la consideriamo ormai come uno di famiglia....
Chinai il capo ringraziando.
Alle corte, non seppi esimermi da quest’ufficio di negoziatore che mi piombava sulle spalle. E riuscii oltre all’aspettativa. Così parve allora agli altri, così pareva a me stesso.... Più tardi, di fronte ad avvenimenti imprevisti, si levarono in me degli scrupoli, dei rimorsi.... Usando una maggiore insistenza con Master Atkinson avrei forse potuto ottenere.... quest’idea non mi vuole uscir dalla mente.... ch’egli aderisse alla primitiva richiesta della signora Agnese, nel qual caso si sarebbero evitati dei grossi guai.... Basta; si rimase d’accordo col capitano che se al suo ritorno dal Giappone i signori Prosperi fossero [227] stati ancora disposti a tenersi per qualche tempo l’Ofelia egli l’avrebbe affidata a loro durante il nuovo viaggio da Venezia a Singapore e da Singapore a Liverpool che secondo l’ultima lettera de’ suoi armatori era definitivamente stabilito. I signori Prosperi s’impegnavano poi, a viaggio compiuto, di riaccompagnare o far riaccompagnare la bimba a Liverpool.
Quella clausola dubitativa se i signori Prosperi fossero stati ancora disposti, destò l’ammirazione del signor Roberto. — È un tratto di diplomazia sopraffina — egli esclamò. — In cinque mesi possono succedere tante cose.... e va bene non aver legate le mani.
Non era presumibile che la signora Agnese facesse un’accoglienza ugualmente festosa a questa specie di compromesso. Ciò ch’ella desiderava era di non separarsi dall’Ofelia, le cui grazie ingenue avevano conquistato il suo cuore. Invece le toccava separarsene tosto per non riaverla che di lì ad alcuni mesi, e per alcuni mesi soltanto, col patto espresso di restituirla al padre in un termine non breve ma certo non lunghissimo. A ogni modo, sia ch’ella si fosse convinta dell’impossibilità di ottener maggiori concessioni, sia che sperasse di convertir l’atto della restituzione in una semplice visita della figliuola al babbo, ella fu più ragionevole ch’io non avrei creduto. Mi ringraziò della parte presa in questa faccenda e si mostrò riconoscente anche al marito di ciò ch’egli aveva fatto per compiacerla.
Giunse così il sabato, giorno della partenza. S’era convenuto di recarci a bordo, i coniugi Prosperi ed io, la mattina per tempo, e di trattenerci non solo [228] finchè il King Arthur avesse levato le áncore, ma finch’esso fosse arrivato a Malamocco. Là si sarebbe scesi per tornare a Venezia col vapore che viene da Chioggia.
Il programma fu eseguito appuntino. Eravamo sul bastimento poco dopo le otto antimeridiane, e mi par sempre di veder l’Ofelia correrci incontro sul ponte co’ suoi bei capelli biondi che le ondeggiavano sulle spalle e con Tom che le galoppava a fianco. Ell’aveva un vestito di mussola bianca stretta alla vita da una cintura di seta nera e con due nastri pur neri svolazzanti sugli omeri. Erano nere anche le scarpine e le calze. Ella saltò al collo della signora Agnese baciandola e ribaciandola, ma non perdendo d’occhio un grossissimo involto che uno dei marinai aveva ricevuto da Beppi, il gondoliere, e portava su per la scaletta. Quando poi l’involto fu aperto e ne uscirono sei o sette scatole e scatolini, e quando il prezioso contenuto delle scatole fu messo in mostra sulla coperta, l’entusiasmo della bimba non ebbe confine. Erano balocchi d’ogni specie che la signora Agnese regalava alla sua piccola amica, e fra questi primeggiavano una magnifica bambola che chiamava mamma e papà, e un can barbone che moveva la testa, apriva la bocca e alzava le zampe anteriori, con grande ira di Tom, non ben sicuro se avesse dinanzi a sè un fantoccio o un rivale in carne ed ossa.
Si fece colazione prima che il King Arthur si movesse dal Canale della Giudecca, perchè il capitano voleva essere sul ponte del comando al momento della partenza. Alle frutta Master Atkinson bevette alla salute del signor Roberto e della signora Agnese ringraziandoli dell’infinite cortesie usate a lui [229] e all’Ofelia e pregandoli di accettare un esemplare, uno dei due che gli restavano (l’altro era quello che avevamo visto appeso nell’anticamera della sua cabina), della fotografia del King Arthur fatta fare a Liverpool alla vigilia del suo ultimo viaggio. Per lui quella fotografia aveva un pregio singolarissimo. In un gruppo di figurine appena percettibili che si vedevano raccolte sul castello di poppa c’era anche sua moglie. Naturalmente egli solo sarebbe riuscito a distinguerla, ma forse appunto per questo la fotografia gli era più cara. Pregava i signori Prosperi di serbarla per ricordo suo. Rispose il signor Roberto nel miglior inglese che gli fu possibile, accettando il dono con animo riconoscente e augurando prosperi l’andata e il ritorno al King Arthur. — Siamo al 5 di aprile, — egli disse. — Speriamo di trovarci qui uniti di nuovo il 5 di settembre.
Durante questo scambio di brindisi la signora Agnese s’era presa sulle ginocchia l’Ofelia e tenendosela stretta al cuore le susurrava dolci parole e le discorreva di ciò che avrebbero fatto insieme nell’autunno, a viaggio finito.
Risalimmo sopra coperta, e di lì a pochi minuti il King Arthur lasciò la banchina e si diresse alla volta di Malamocco. Dietro di noi Venezia s’impiccoliva e sfumava come un quadro dissolvente.
In vicinanza del porto il vapore rallentò la sua corsa, e una barca s’avvicinò alla scaletta. Bisognava separarsi.
Ancora una volta l’Ofelia si aggrappò al collo della signora Agnese. — Vieni con noi — le diceva — vieni con noi.... Noi dobbiamo tornare.... Tornerai anche tu.
[230]
E poichè il signor Roberto si era accostato alla moglie per sollecitarla — Va via tu solo — gridò la fanciulla. — Cattivo, che vorresti la zia Agnese tutta per te.
Vi furono di nuovo baci, lacrime e strette di mano in quantità. Alla fine noi prendemmo posto nella barca che ci attendeva, il vapore ripigliò la sua rotta.
S’agitarono i fazzoletti; l’Ofelia, sollevata sulle braccia dal padre, mandava baci alla zia; Tom girava su e giù pel ponte abbaiando. Il King Arthur oltrepassò presto la diga e scomparve; per qualche minuto si vide ancora una striscia di fumo nel cielo azzurro; si udì, o si credette udire, il vocione di Tom; poi non si udì e non si vide più nulla.
················
Se il signor Roberto sperava che con la partenza del King Arthur sbollissero gli ardori di sua moglie per la figliuola del capitano Atkinson, la sua era proprio una speranza campata in aria. L’Ofelia non c’era, ma la signora Agnese ne parlava come d’un’assente che non si sarebbe fatta aspettare troppo e a cui bisognava apparecchiare gli alloggi. Ne aveva sempre sotto gli occhi la fotografia, divisava seco medesima mille cose da effettuarsi al ritorno della fanciulla, le modificazioni che avrebbe introdotte nella [231] distribuzione della giornata, la cameretta che le avrebbe assegnata, la bambinaia che le avrebbe presa, le lezioni d’italiano che le avrebbe date lei stessa. Non voleva più dubitare di nulla; nè dell’assenso del capitano a rinunciare per sempre all’Ofelia, nè di quello di suo marito a tenerla definitivamente presso di sè, nè della buona riuscita ch’ella avrebbe fatto nelle sue mani. L’antico sogno, il sogno dolcissimo di diventar madre davvero cedeva il posto alla singolare fantasia di questa maternità fittizia.
Il signor Roberto tentennava il capo e si rimproverava la sua debolezza. Quest’è il modo di disfar la famiglia — lo intesi dire un giorno al dottor Gandolfi. — È già male che una donna trascuri il marito per non pensare che ai propri figliuoli: peggio ancora che lo trascuri pei figliuoli degli altri.
— In massima avete ragione — replicò quello scettico del dottore; — ma in casa l’essenziale è di aver la pace.... Se vostra moglie ve la dà a queste condizioni, accettatela con gratitudine; e tutt’al più.... cercatevi qualche svago.... Gli svaghi sono le valvole di sicurezza del matrimonio....
Dal suo punto di vista medico, Gandolfi era contentissimo che la sua cliente si fosse scossa dal torpore doloroso in cui era immersa da un pezzo. Ed egli levava a cielo la combinazione da lui suggerita e in virtù della quale la signora Agnese aveva cinque mesi da pregustar la sua gioia. — E i beni che si sperano — notava il dottore filosofo — ci danno sempre maggior voluttà dei beni che si hanno. Se quella bimba fosse qui adesso, la signora Agnese comincierebbe già a crucciarsi pensando al momento [232] di perderla; invece ella è felice pensando a quello di trovarla.
È innegabile che la signora Agnese, appunto facendo assegnamento sul non lontano ritorno dell’Ofelia, s’era rimessa prestissimo dalla commozione provata alla partenza del King Arthur. Era sempre in moto, sempre vispa e gioviale. Cosa insolita, la vedevamo spessissimo in banco. Ci veniva con mille pretesti, ma in fondo non le stava a cuore che una cosa sola; saper s’erano giunte notizie del capitano Atkinson, il quale aveva promesso di scrivere anche prima del suo arrivo a Hiogo.
E scrisse in fatti da Suez parlando a lungo dell’Ofelia che aveva continuamente in bocca la zia Agnese e dichiarava con grande solennità di voler mandarle una lettera. A tal fine prendeva un pezzo di carta, vi tracciava col lapis alcuni geroglifici, lo piegava in due e lo consegnava al padre con l’incarico di spedirlo a Venezia. L’Ofelia, seguitava il capitano, era buona e savia e consacrava ogni giorno un’oretta a combinar le parole coi caratteri mobili, sperando di ricevere e decifrare da sè qualche riga della zia Agnese. Alla quale la bimba faceva sapere che Tom era in castigo perchè in un impeto di gelosia aveva spezzato in due il cane barbone, credendolo vivo. Infine, sempre per incarico della figliuola, il capitano assicurava la signora che la puppatola era benissimo conservata; solo che la sua voce cominciava a indebolirsi e diceva mamma e papà con meno enfasi di prima.... forse, osservava l’Ofelia, per effetto del mal di mare.
Si diede immediatamente comunicazione alla signora Agnese di questa lettera che interessava più [233] lei che la ditta Prosperi e si può immaginarsi s’ella le facesse festosa accoglienza. Il giorno stesso ella mi chiamò per consegnarmi un biglietto in nitido stampatello destinato a
Miss Ophelia Atkinson
to the care of Master George Atkinson
of the english Steamer King Arthur.
Il biglietto venne inchiuso in una lettera nostra al capitano, impostata la sera stessa per Hiogo.
Ora bisognava rassegnarsi a un lungo silenzio, perchè il King Arthur proseguiva direttamente pel Giappone senza poggiare a nessun punto intermedio.
Noi intanto avevamo sollecitato il nostro banchiere di Londra ad assumere qualche informazione precisa sul conto del capitano Atkinson, sul suo carattere, sulla sua famiglia, sulla malattia da cui era morta sua moglie, eccetera, eccetera. La risposta non si fece attender molto e le informazioni furono, nel complesso, assai favorevoli. Il capitano Atkinson, nativo di Glasgow, era da otto anni al servizio degli armatori del King Arthur, i quali non avevano che da lodarsene. Era uomo probo, intelligente, marinaio arditissimo, più colto di quello che non sogliono essere le persone della sua classe. Non aveva parenti prossimi; la moglie gli era morta pochi mesi addietro di tubercolosi acuta lasciandogli un’unica figliuola in tenera età che adesso viaggiava con lui.
Il punto nero era questo: la moglie morta di tubercolosi. La possibilità che la figliuola avesse ereditato i germi della malattia che aveva ucciso la madre impensieriva il signor Roberto e lo raffermava [234] nella risoluzione di non permettere che l’Ofelia prendesse stabile dimora nella sua casa.
Ma di tutto ciò alla signora Agnese non fu tenuta parola. Era inutile affliggerla fuori di tempo.
In mezzo alle preoccupazioni di vario genere che l’amabile bambina del capitano Atkinson destava nei coniugi Prosperi era sfumata via la grande curiosità di saper eseguita dai signori Holiday la commissione del salottino giapponese. Però, in attesa dei gingilli che dovevano adornarlo, il salotto d’angolo aveva, per la servitù e pei padroni, preso già questo nome. Si era ormai avvezzi, domandando ove fosse la signora, a sentirsi rispondere: — Nel salottino giapponese. — Ella aveva sempre avuto una predilezione per questa stanza; adesso vi passava anche più ore del solito, perchè il resto del palazzo era sossopra a cagione dei ristauri. Invece il salotto d’angolo pel momento non si toccava, e l’unica novità che vi fosse era quella delle due fotografie dell’Ofelia e del King Arthur che la signora Agnese aveva provvisoriamente collocate sopra un tavolino.
Povera signora Agnese! Me la ricordo seduta presso la finestra, intenta a ricamare od a leggere. M’aveva incaricato di comperarle qualche libro che trattasse del Giappone, e le avevo portato tre o quattro volumi ch’ella sfogliava con avidità.
— Capisco che questo non diventerà mai un salottino giapponese autentico — ella mi disse un giorno. — Prima di tutto è troppo grande, e poi vedo qui che veri e propri mobili i giapponesi non ne usano. Hanno un’infinità di gingilli e ninnoli graziosissimi e stuoie, e paraventi, e carte colorate, e specchi dipinti, e vasi, e tappeti, ma non hanno nè sedie, [235] nè tavole, nè armadi, nè letti.... Basta; oggi le do il tè alla nostra maniera — ella soggiunse sorridendo; — nell’inverno prossimo le metterò davanti le tazzine e quel fornelletto di bronzo che i Giapponesi chiamano tribacì e che serve per tenervi in caldo l’acqua, e lei, accoccolato per terra che ben s’intende, si leverà d’impiccio come potrà.
Di lì a poco cambiò argomento e mi chiese: — Dove sarà la nostra piccola viaggiatrice?
— Ma! — risposi. — Non saprei.... A due terzi di cammino.... Nei mari della China....
— Non vedo l’ora di ricevere l’annunzio telegrafico dell’arrivo a Hiogo. Perchè il capitano telegraferà subito, non c’è dubbio.... L’ho tanto pregato....
Io notai che in ogni caso avrebbero telegrafato i signori Holiday.
— Lo so, lo so — ella disse. — Ma non è la stessa cosa. I signori Holiday non inseriranno nel dispaccio neanche una parola che si riferisca all’Ofelia.... Questo non c’entra col vostro carico di riso.
Infatti, non c’entrava.
Dopo una breve pausa, la signora Agnese confessò che il suo trasporto per quella fanciulla meravigliava lei stessa e che suo marito aveva mille ragioni di rimproverarla di mancar di misura; ma certe cose non si discutono.... L’Ofelia l’aveva ammaliata.
— E forse — ella continuava — anche Roberto finirà col subirne il fascino, col desiderare ch’ella non vada più via. Si ha un bel dire: “L’Ofelia è un’incognita.„ Ma tutti i bambini sono altrettante incognite, persino i nostri quando ne abbiamo.... E se ci si decide a dare ospitalità a quelli che non son nostri, il meglio si è che i genitori o non ci siano, [236] o siano lontani.... L’ho fatto l’esperimento dei figliuoli dei parenti, degli amici; l’ho fatto nel terzo e quart’anno del mio matrimonio.... C’era specialmente una bimbetta d’una mia cugina che si lasciava da noi per due, tre mesi di fila.... Però la madre veniva ogni tanto a vedersela e allora erano osservazioni su questo, su quello.... La mia cugina andò a stabilirsi in Francia col marito e con la figlia, e in quell’occasione io avevo giurato di non voler più saperne nè di quella bimba, nè di nessun’altra.... Giuramenti da marinaio.... Son nata mamma!
La signora Agnese si alzò e tendendomi la mano mi disse: — Sarà mio alleato, non è vero? Patrocinerà la mia causa con mio marito e col capitano Atkinson?
Balbettai qualche parola ch’ella interpretò nel senso più favorevole, e m’allontanai col presentimento di essermi messo per una via irta di triboli.
Questo colloquio era stato tenuto il lunedì o il martedì; la domenica, almeno una settimana prima di quello che si sarebbe creduto, giunsero due telegrammi da Hiogo, uno del capitano Atkinson che avvisava del suo felice arrivo, l’altro dei signori James Holiday e C., in cifra, che davano anch’essi la stessa notizia, assicuravano che si sarebbe posto mano al più presto alla caricazione del riso, e confermavano una lettera spedita per la posta circa al salottino giapponese. Non occorre dire che il capitano aveva introdotta nel dispaccio la frase voluta dalla signora Agnese.
Era il 20 di maggio. Il King Arthur aveva compiuto il suo tragitto in quarantacinque giorni. Se il ritorno si compiva con una celerità uguale, accordato [237] anche un mese per la caricazione, il bastimento si sarebbe rivisto a Venezia ai primi di agosto.
Queste notizie e queste previsioni empirono d’allegria il banco e la casa. Per la ditta Prosperi l’operazione non poteva presentarsi sotto migliori auspici e c’era ormai la certezza di vendere tutta la partita con un larghissimo margine sul prezzo di costo. Era inoltre una vera compiacenza d’amor proprio l’aver iniziato un nuovo commercio con quei lontani paesi. Gl’imitatori non sarebbero mancati, e già si sapeva che i nostri rivali, i fratelli Gelardi, stavano trattando l’acquisto d’un carico simile al nostro. Poco importava. Per presto ch’essi facessero non avrebbero ricevuto la merce che un paio di mesi dopo di noi, e a noi sarebbe sempre rimasto il merito di averli preceduti.
La signora Agnese si curava mediocremente di tutto ciò; quello che la colmava di gioia era l’avvicinarsi del momento che la piccola Ofelia sarebbe stata a Venezia, sua certo per qualche mese, sua forse per sempre. Per creanza, ella mostrava talvolta di prendere interesse anche all’affare in sè e indirizzava al signor Roberto mille domande a cui egli rispondeva evasivamente, con un sorrisetto scettico. — Via via, — egli le diceva — vorresti negarmi che se il King Arthur, invece di contenere nella capace sua stiva una sessantina di mille sacchi di riso, contenesse soltanto una bionda fanciulla di cinque anni chiamata Ofelia, per te sarebbe precisamente lo stesso?
Ella protestava. — No, no, lo stesso, no....
— Quasi lo stesso allora — replicava il marito. — Sei contenta così?
[238]
Tre settimane dopo i dispacci annunzianti l’arrivo del bastimento ne giunse un altro importantissimo dei signori Holiday. La caricazione del riso era terminata; il salottino giapponese era stato incassato e non mancava che di portarlo a bordo; il capitano si proponeva di partire al più presto.
Quello fu un giorno di gran lavoro pel banco Prosperi. Si fece una colossale rimessa di cambiali su Londra ai nostri banchieri Eliot Green e C., per coprirli delle tratte che i signori Holiday avevano certo spiccato sopra di loro, e si provvide senza ulteriori indugi alla sicurtà che fu assunta da più Compagnie per la somma cumulativa d’un milione di lire in cui era compreso anche l’utile probabile. Il salottino giapponese venne assicurato a parte per 25 mila lire.
Infine il lunedì 18 giugno 1878 alle cinque pomeridiane (ricordo il giorno e l’ora) capitò un nuovo e ultimo telegramma, brevissimo, dei signori Holiday, avvisandoci che il King Arthur era uscito quella mattina dal porto di Hiogo.
— Non sarebbe da stupirsi — disse qualcuno — se il carico fosse qui prima delle polizze.
Intanto la posta, ora per la via di Hong-Kong, Singapore e il Mar Rosso, ora per quella di San Francisco, Nuova York e l’Atlantico, recò una serie di lettere che i fulminei telegrammi avevano preceduto. Lettere dei signori Holiday, lettere del capitano Atkinson, e persino un foglietto per la signora Agnese con tre parole dell’Ofelia, della quale evidentemente s’era condotta la mano: Many kisses-Ophelia. E il capitano Atkinson nell’inviar questo prezioso autografo dava minuti ragguagli sulla sua [239] figliuoletta che non aveva sofferto nemmeno un’ora di mal di mare e non aveva avuto nemmeno un capriccio; o a meglio dire ne aveva avuto uno solo, quello di tener qualche volta il broncio al suo babbo perchè non faceva venir la zia Agnese. Del resto la zia l’avrebbe trovata cresciuta di statura e florida d’aspetto. Anche Tom, dopo quella sua birichinata in principio del viaggio, s’era condotto benissimo. Non solo aveva adempiuto scrupolosamente ai suoi due uffici di custodir l’Ofelia e di dar la caccia ai topi, ma s’era altresì reso meritevole di una decorazione salvando, con lo slanciarsi spontaneamente nell’acqua, un mozzo che stava per affogare. Figuriamoci, scriveva il capitano, ciò che farebbe quella buona bestia se, Dio guardi, l’Ofelia avesse a correre un pericolo analogo!
Una delle lettere dei nostri corrispondenti di Hiogo conteneva un lungo poscritto relativo al salottino giapponese, poscritto vergato tutto quanto dalla mano di M. James Holiday in persona, il quale si dichiarava lietissimo di rendere un piccolo servigio all’egregio signor Prosperi e alla sua most gracious lady, da lui rammentata con rispettosa ammirazione. Il detto signore confidava di poter raccogliere in brevissimi giorni tutti gli oggetti necessari per l’arredo del salottino, pagandone una somma inferiore a quello che i suoi amici eran disposti a spendere. Egli si riprometteva eziandio, in un suo futuro viaggio in Europa, di visitare questo salotto alla cui formazione egli avrebbe contribuito e di prendervi una tazza di tè, preparata dalle mani della più gentile signora ch’egli avesse avuto la fortuna di conoscere ne’ suoi viaggi.
[240]
Queste galanterie dettele in faccia sarebbero parse alla signora Agnese sciocche e dozzinali; avrebbero provocato sulle sue labbra uno di quei motti freddi ed alteri con cui ella scoraggiava i corteggiatori, e riusciva, lei, bella, ricca, elegante, a tenerne lontano lo sciame importuno. Venute invece dal Giappone attraverso migliaia e migliaia di miglia, esse lusingavano il suo amor proprio, la empivano di gratitudine, la facevano arrossire di compiacenza.
Seguirono altre lettere di minor conto, finchè nella prima settimana d’agosto ne capitò una portante la data dell’ultimo telegramma, 18 giugno. Essa confermava la partenza del King Arthur, conteneva le polizze di carico, le fatture del riso, e la nota delle tratte emesse da Hiogo sui banchieri Eliot, Collins e C. Nell’importo di queste tratte era compreso anche il valore del salottino giapponese che ammontava, se non mi falla la memoria, a qualcosa meno di 800 lire sterline. I signori Holiday avvertivano di aver consegnato al capitano la distinta particolare degli oggetti e dei prezzi.
Inchiuso nel foglio dei signori Holiday c’era pure un bigliettino di Master Atkinson coi saluti e i baci dell’Ofelia per la zia Agnese.
La previsione che il bastimento arrivasse prima delle polizze di carico, non s’era avverata. Ma in ciò non v’era nulla di straordinario, tanto più che l’ultima posta aveva preso la via di San Francisco, la quale, se si trovano le coincidenze esatte, porta sempre qualche risparmio di tempo. Bisognava aspettare. E aspettammo.
[241]
Aspettammo per alcuni giorni con la massima calma e serenità. La signora Agnese era di buonissimo umore e dava l’ultima mano alla cameretta ch’ella aveva preparata per la piccina. Era tormentata, pareva almeno, da un unico dubbio. Si doveva tenersi anche Tom? E, in ogni caso, era probabile che il capitano volesse privarsene? E, se non voleva, che dispiacere non sarebbe stato quello per l’Ofelia?
— Quando non ci fosse che questo, — replicava il signor Roberto che aveva preoccupazioni d’altra natura, — le procureremo un cane di Terranuova identico a Tom. I fanciulli si consolano presto.
I più impazienti erano i sensali a cui premeva di veder meglio che sui campioni la qualità di questo riso, sconosciuto fino allora a Venezia. Avevano già in serbo gli ordini dei loro clienti e anelavano d’eseguirli. D’altra parte appunto per l’incertezza della qualità, nè essi si credevano autorizzati, nè noi desideravamo di vender la merce viaggiante. Si contentavano di prender, come si direbbe, una specie di prenotazione. Taluno ci susurrava all’orecchio che non dovevamo tener troppo alte le nostre pretese, che i fratelli Gelardi stavano facendo anch’essi un carico a Hiogo e che questo solo annunzio bastava a raffreddare il mercato. Spauracchi vani. A ora che il carico dei Gelardi arrivasse, la nostra operazione sarebbe liquidata da un pezzo.
[242]
Però, alla metà d’agosto il King Arthur non era ancora giunto. Telegrafammo a Suez per sapere se esso fosse passato di là; ci si rispose di no. Evidentemente la sollecitudine eccezionale del viaggio di andata ci faceva troppo esigenti pel viaggio di ritorno.
E continuammo ad aspettare. Ma non più con la stessa tranquillità di spirito.
Si capiva che la sorte del bastimento cominciava ad impensierir tutti.
Non potevamo andar alla Borsa senza che ci si domandasse: — E questo King Arthur?
E si trovava stranissimo, non tanto il ritardo, quanto la mancanza d’ogni notizia. Come mai il capitano, seppur costretto a ripararsi in qualche porto per cagion d’avaria, non aveva spedito un dispaccio?
La signora Agnese aveva per un pezzo usato violenza a sè stessa, s’era stordita proponendosi di dar la baia a Master Giorgio pel suo ritardo e facendo mille castelli in aria sulla villeggiatura autunnale con l’Ofelia; poi questa commedia era divenuta superiore alle sue forze ed ella non dissimulava più la sua inquietudine. Scendeva, saliva dalla casa al banco, dal banco alla casa; fissava addosso certi occhi scrutatori; non aveva pace un minuto.
Prosperi invitava ogni giorno due o tre persone a desinare. — Quando siamo soli a tavola, mia moglie ed io — egli diceva — o il discorso cade fatalmente sul King Arthur, o si tace.... E se si tace, è ancora peggio.... Quello sciagurato legno, è lì, in mezzo a noi.
Pur troppo esso era sempre lì, per quanti fossero i commensali, per quanto svariati gli argomenti che [243] si mettevano sul tappeto. Si vedeva subito che non c’era rispondenza fra la parola e il pensiero, come non c’è mai allorchè lo spirito è occupato da una cura più grave.
Dopo uno di questi lugubri pranzi al quale avevo partecipato anch’io, la signora Agnese mi chiamò in disparte con un pretesto, e mi disse a voce bassa ma vibrata: — Mi si nasconde qualche cosa. È impossibile che non sia successa una disgrazia al King Arthur.
Le diedi la mia parola d’onore che non le si nascondeva nulla perchè realmente non si sapeva nulla. Tentai quindi alla meglio di dissipare le sue apprensioni. Certo il viaggio aveva una durata maggiore della prevista, ma le combinazioni son tante: contrarietà di venti, deficienza di combustibile, guasto alla macchina....
— Naufragi — soggiunse la signora Agnese guardandomi bene in faccia.
— Sì, anche naufragi — risposi. — Ma questi si vengono a sapere.
— Sempre? — ella insistè.
— Quasi sempre — diss’io.
— Ah, quasi — ella ripetè cupamente. — Ci son dunque esempi di navigli perduti senza che rimanga alcuna traccia di loro, senza che si salvi un uomo dell’equipaggio, senza che una tavola galleggiante sul mare dia un indizio della catastrofe?
Non potei negarle che di questi casi ce ne fossero, ma erano così rari, così eccezionali da non doverci fermare il pensiero.
— Perchè vede, Ceriani — ella ripigliò — non so come sopporterei l’annunzio positivo d’una sciagura; [244] so che l’incertezza mi ucciderebbe.... Ma, in nome del cielo — seguitò la povera signora attorcigliando nervosamente il fazzoletto alle dita — si è poi fatto tutto quello che si doveva per chiarire questo mistero?... Mio marito lo afferma; io non lo credo.
Le enumerai le lettere, i telegrammi che si erano spediti; l’assicurai che si sarebbe tornato a scrivere, a telegrafare.
Ella si strinse nelle spalle. — Scrivere? Telegrafare?... Ah se fossi un uomo!
Qualcuno s’avvicinava, ed ella mi lasciò con queste parole, slanciandomi uno sguardo metà di preghiera, metà di rimprovero.
Che pretendeva mai la signora Agnese? Ch’io andassi alla ricerca del King Arthur come Stanley era andato alla ricerca di Livingstone?... Ohimè, l’impresa dello Stanley era stata una follia sublime; la mia non sarebbe stata che una follia ridicola.
Nè la signora Agnese me ne riparlò nei giorni seguenti. La sua agitazione febbrile aveva ceduto il posto a una calma apparente che ci impensieriva ancora di più. Ella stava per lunghe ore sdraiata sulla sua poltrona nel salottino giapponese, senza un libro, senza un lavoro, immersa in un cupo silenzio. A colazione, a pranzo, toccava appena il cibo, pronunziava appena qualche monosillabo, si faceva una legge di non menzionar mai nè il King Arthur, nè il capitano Atkinson, nè la piccola Ofelia. Solo una volta ella scattò dalla seggiola quando il dottor Gandolfi le suggerì un viaggetto di un mese. — Quest’anno non mi muovo da Venezia — ella risposo in tuono secco, reciso.
Passavano i giorni, passavano le settimane. Eravamo [245] venuti a sapere d’un tifone che aveva infuriato nei mari della China fra il 25 e il 28 di giugno ed era penetrato nei nostri animi il convincimento che in quella occasione appunto il King Arthur si fosse perduto con tutto l’equipaggio. Ma mentre si conoscevano i nomi d’altri legni ch’erano scampati miracolosamente al pericolo, e sbattuti, malconci avevano dovuto ripararsi in qualcheduno di quei porti, del King Arthur nessuno poteva dir nulla. Nessuno lo aveva visto dopo la sua partenza da Hiogo.
Anche i danni materiali d’un simile stato di cose erano gravissimi. Le rimesse fatte a Londra per rimborsare il nostro banchiere importavano circa ottocentomila lire, somma della quale c’era forza rimaner scoperti finchè fosse spirato il termine necessario per acquistare il diritto d’abbandono verso le compagnie assicuratrici, e non c’è casa di commercio, per potente che sia, a cui non dia degl’impicci l’immobilizzare un capitale di quasi un milione.
Inoltre tutti i vantaggi sperati da un’iniziativa che doveva riaffermare la superiorità della nostra ditta andavano in fumo per esser raccolti in gran parte dai nostri rivali, i Gelardi, che avevano commesso a Hiogo un carico di riso dopo di noi e che lo aspettavano entro l’ottobre col vapore inglese The Iron Duke. Noi l’odiavamo questa Iron Duke che seguiva la via tenuta dal King Arthur, che probabilmente sarebbe passato sul punto ove il King Arthur era stato inghiottito dalle onde. Non credo che nessuno di noi gli augurasse un disastro, ma è certo che a sentirlo nominare ci si rimescolava il sangue. E lo si sentiva nominare così spesso. I sensali, che in attesa del King Arthur avevano imbastito degli affari con noi, adesso, [246] con la compunzione di chi fa una visita di condoglianza, venivano a sciogliersi da ogni impegno e a dirci della dolorosa necessità in cui si trovavano di trattare coi Gelardi per l’acquisto della merce di prossimo arrivo con l’Iron Duke. E poi gli stessi Gelardi, alquanto vanitosi per loro natura, stimavano opportuno di comunicare ai giornali cittadini le varie tappe del loro bastimento. Era partito il tal giorno da Hiogo; aveva nel tal altro toccato Point-de-Galle; era passato per Aden, era a Suez.... Il comandante dell’Iron Duke non faceva economia di telegrammi.
Finalmente, ai primi di novembre, una mattina, il bastimento entrò in porto e andò ad ancorarsi alla Giudecca, proprio dove, in aprile, era ancorato il King Arthur. Ed io procurai nella giornata medesima di vedere il capitano per chiedergli se gli fosse venuta all’orecchio nessuna voce circa al vapore che due mesi prima di lui aveva lasciato il Giappone alla volta di Venezia. Ma egli non ne sapeva più di quello che ne sapevamo noi.
Quando tornai in banco dopo questa mia pratica vana, il principale mi disse: — Mia moglie ha ragione. L’incertezza è il peggiore dei mali, e una speranza voluta conservare a ogni costo è una fonte perenne d’inquietudine.... Ma che speranza? — egli corresse con un gesto d’impazienza. — Noi non ne abbiamo più; noi non dubitiamo che il King Arthur sia perduto.... Ci manca però la forza di rassegnarvisi finchè non abbiamo in mano un documento, una prova.... Ah, questa prova, questa prova chi ce la darà?
Mi guardò in un modo singolare e soggiunse: — Senta, Ceriani. Il viaggio d’esplorazione che l’Agnese [247] parve consigliarle tempo addietro è, anche a’ miei occhi, una cosa assurda. Nondimeno qualche passo si potrebbe fare. Una corsa in Inghilterra per esempio, tanto da vedere gli armatori, da consultarsi con persone esperimentate, da recarsi agli uffici del Lloyd ove ci son notizie di tutto il mondo?... Andrei io, se non avessi scrupolo di piantar quella disgraziata.... Lei, Ceriani, lei ch’è giovine, ch’è libero, avrebbe difficoltà di partire per Londra al più presto, domani sera, per esempio?...
Sollevai alcuni dubbi sull’utilità di questa gita, ma difficoltà ad abbandonar Venezia per un quindici o venti giorni non ne avevo affatto. In fondo, lo confesso, l’offerta mi tornava gradita, perchè ormai il King Arthur pesava sul banco come un incubo. Ora, quest’incubo io l’avrei subìto anche durante le mie peregrinazioni che avevano per iscopo preciso di far nuove indagini sulla sorte del naviglio: ma mi sorrideva l’idea di cambiar aria, di sostituire una ricerca attiva (fosse pure infruttuosa) a una preoccupazione inerte e opprimente.
Partii dunque, munito d’una quantità di commendatizie, partii senza congedarmi dalla signora Agnese ch’era indisposta, e nel cui animo, del resto, era inutile far sorgere aspettazioni che non si sarebbero adempiute.
Che dirò del mio viaggio? Fui a Londra, fui a [248] Glascow, fui a Liverpool; parlai con gli armatori del King Arthur, mi rivolsi a quel meraviglioso centro d’informazioni ch’è il Lloyd, conobbi il comandante d’un vapore ch’era stato investito dal tifone dal 25 al 28 giugno, e non per questo riuscii a dissipare l’oscurità che avvolgeva il nostro vascello fantasma. M’accorsi bensì che del King Arthur si discorreva universalmente come di chi sia morto e sepolto da un pezzo. O, per esser più esatto, m’accorsi che si cominciava a discorrerne meno, come d’un fatto ormai vecchio.
Gli armatori, ricchi a milioni, proprietari d’una dozzina di piroscafi sparsi per tutti gli Oceani, erano più che addolorati, inaspriti contro il capitano Atkinson. Lo accusavano d’imprudenza; già un’altra volta, parecchi anni addietro, egli aveva, per la sua temerità, tratto a perdizione un naviglio. Ma allora almeno s’era salvata la gente.
Questa circostanza che noi ignoravamo non era però ignorata dal Lloyd. Mi mostrarono colà il Captain’s Register, specie di dizionario biografico dei capitani mercantili inglesi, ove nella forma più succinta possibile si contengono importanti notizie relative a ciascuno di loro. E sotto il nome del capitano Giorgio Atkinson, dopo la data e il luogo della nascita, dopo altre indicazioni varie, si leggevano queste brevi parole: Lady Hamilton, st. 1863-65 — lost on the 10th May 1865, off the Isle of Majorca; ciò che significava che il capitano Atkinson avea dal 1801 al 1865 comandato il vapore Lady Hamilton, e che questo vapore s’era perduto in vicinanza dell’isola di Majorca il 10 maggio 1865.
— Una disgrazia può succedere al più provetto, [249] — notò la mia guida chiudendo il volume accusatore; — è però sempre una cattiva raccomandazione.
Del resto, anche pel Lloyd, il King Arthur era un legno a cui si poteva recitare il de profundis. Quei preposti, con molta cortesia, mi lasciarono vedere la corrispondenza, quasi esclusivamente telegrafica, scambiata coi loro agenti del Giappone, della China, dell’India su questo argomento. Con parole diverse si arrivava sempre alla identica conclusione: testimonianze oculari non ce n’erano, avanzi del bastimento non se ne trovavano, ma il King Arthur doveva esser naufragato tra il 25 e il 28 giugno. La miglior prova era la mancanza di qualunque notizia da pressochè cinque mesi. Nello stato presente delle comunicazioni postali e telegrafiche, in una navigazione per mari frequentatissimi, ciò non si spiegava che con un disastro.
E poichè io stentavo a capacitarmi di questa scomparsa assoluta d’un bastimento, fui condotto in un’altra camera e invitato a dare un’occhiata alla lista dei missing vessels, cioè dei vascelli mancanti, su cui pesava lo stesso mistero che sul King Arthur, ma di cui non si poteva mettere dubbio che fossero stati inghiottiti dal mare con tutti i loro attrezzi, con tutti i loro uomini. La lista non si riferiva che a pochi anni, eppure era così lunga. Vi figuravano legni grandi o piccoli, a vapore ed a vela, col loro nome, col nome del loro capitano, con l’indicazione del porto dal quale erano partiti e di quello al quale erano diretti, con la data dell’ultime notizie.... Poi, più nulla.
— E il King Arthur? — chiesi all’impiegato che mi accompagnava.
[250]
— Non c’è ancora, — egli mi rispose. — Lo registreremo presto.... Bisogna che passi un certo numero di mesi.
Io non sapevo staccar lo sguardo da quella pagina. Pensavo a tante tragedie di cui l’Oceano chiude il secreto, a tante esistenze troncate, a tanti gemiti, a tante imprecazioni, a tante preghiere soffocate dal fragore del vento e dei flutti. E pensavo alla piccola Ofelia. La rivedevo nella sala del palazzo Prosperi, ilare e vispa, co’ suoi riccioli biondi che le svolazzavano sulla fronte; la rivedevo tra il cane Tom e la signora Agnese. Povera, povera bambina! S’era accorta dell’imminente catastrofe? O aveva cambiato il sonno con la morte?... Ma più ancora che ai naufraghi pensavo a quelli che aspettano.... Madri che l’inutile attesa precipita nella decrepitezza e nell’imbecillità, spose che avvizziscono nella forzata vedovanza e che dopo aver pianto tutte le loro lacrime dimandano invano la libertà di aprir il cuore a nuovi affetti, di farsi una nuova famiglia....
L’impiegato del Lloyd indovinò in parte ciò che mi si agitava nella mente e disse: — Tristi cose. Ma che sono i legni mancanti, che sono i legni perduti in confronto di quelli che corrono i mari e tengono alta la bandiera britannica? La lista dei missing vessels, il loss-book, sono come il nostro necrologio, e qual’è la famiglia ove non muoia qualcuno? Che famiglia numerosa sia la nostra lo si rileva dal nostro registro nautico, il libro dei vivi. Erano l’anno scorso più di dodici mila navigli.... nè il registro comprende tutti i legni della marina mercantile inglese.... Sicuro, di quando in quando ci capita un dispaccio annunziante un disastro, ma novanta volte [251] su cento i telegrammi che riceviamo a ogni ora del giorno ci parlano di bastimenti arrivati, di bastimenti partiti, di bastimenti apparsi in qualche punto remoto del globo e che mandano un saluto alla patria lontana.... Eh, non ci resta mica tempo d’indugiarci troppo a pianger sui morti.
Orgoglioso della grandezza della sua patria, della grandezza dell’istituzione alla quale egli apparteneva, il mio interlocutore, uomo dall’aria positiva quanto mai, diventava poeta. E io subivo, mio malgrado, il fascino della sua eloquenza e nelle linee maestose del quadro ch’egli mi tracciava vedevo ridursi alle proporzioni d’un dramma domestico il pietoso episodio del King Arthur. Ripetevo a me stesso quella frase crudele: Non ci resta tempo d’indugiarci troppo a pianger sui morti — e mi pareva che, pronunziata in quella sala ove fa capo il commercio marittimo del mondo, ella perdesse alquanto della sua brutalità. Non ceder mai nè all’accidia, nè allo scoraggiamento, nè al sentimentalismo, ecco il segreto della forza e della potenza.
Comunque sia, io ero già al termine della mia missione senz’aver raggiunto il fine sperato. Indizi in quantità, certezza morale fin che si vuole; ma prove materiali, palpabili, nessuna. Da Venezia Prosperi mi scriveva lasciando in mia facoltà di spingermi magari all’India, alla China, al Giappone se credevo al risultato pratico di questo viaggio.... Io però non ci credevo, nè ci credeva alcuno di quelli a cui ne parlai. — Dove andreste? — mi si diceva. — È un’ipotesi ragionevole che il King Arthur si sia perduto nel tifone dal 25 al 28 giugno. Ma è sempre un’ipotesi. E in ogni modo, pur riuscendo a [252] precisare il raggio di quel tifone, come scoprirete il punto ove il bastimento si è sommerso? Che esercito di palombari prenderete con voi? E vi par possibile ch’essi discendano a una profondità di migliaia e migliaia di metri?
Quest’era vero, ma io obbiettai che forse qualche uomo dell’equipaggio s’era salvato, rifugiato in un’isola, in una spiaggia deserta, che forse si poteva trovarlo....
I miei ascoltatori sorrisero. — Non è più il tempo di Robinson Crusoè.
Un po’ perchè queste riflessioni non facevano che crescere la mia sfiducia, un po’ perchè m’impregnavo anch’io della maschia filosofia anglo-sassone che ci stimola a guardare dinanzi e non dietro a noi, io abbandonai l’impresa e feci ritorno in Italia. Era inutile ostinarsi, io dissi al mio principale, era inutile sprecar l’energia, l’ingegno, il danaro in ricerche fantastiche. Dovevamo mettere il nostro cuore in pace, dimenticare il King Arthur, lavorar con lena raddoppiata, mantenere alla nostra casa il posto che le spettava pe’ suoi capitali, per la sua riputazione, per l’abilità riconosciuta di chi la dirigeva. Nel fervore del discorso mi sfuggì un’allusione alla frase udita negli uffici del Lloyd circa alla necessità di non indugiarsi troppo a piangere i morti.
Il principale m’interruppe. — Non si tratta di morti, caro Ceriani.... almeno per me.... Per me si tratta d’una persona viva che amo e che avrei voluto render felice a costo del mio sangue, mentre invece un fatale concorso di circostanze volge ad effetto contrario tutti i miei sforzi.... Ah è facile dire: quella persona è un’esaltata, ingigantisce i suoi dolori, [253] non apprezza convenientemente i beni che possede, va in traccia dello strano, del singolare.... È facile rimproverarle il suo cieco trasporto per una bambina appena conosciuta, la sua mancanza di rassegnazione ai decreti della Provvidenza. È facile infine citarle tante donne che hanno la saviezza di contentarsi di ciò che hanno, di non accasciarsi sotto il peso di sventure molto più grandi di quella che l’ha colpita.... Ragioni belle, buone, sacrosante, ma che non concludono nulla.... Le cose non sono quelle che dovrebbero essere, ma quelle che sono.... Il fatto si è che le condizioni di mia moglie sono tali da destar le più legittime apprensioni.... Quel pensiero assiduo che la tormenta, logora la sua salute e pur troppo ha un’azione funesta anche sulla sua intelligenza. La vedrà, Ceriani, la vedrà.... Non è già che ella parli di continuo del King Arthur o dell’Ofelia; sarebbe meglio che ne parlasse.... ma si capisce che la sua mente è sempre lì, e la sua fissazione di voler passar quasi l’intera giornata in quello ch’ella chiama il suo salottino giapponese basta a dimostrarlo.... Via, siamo giusti, data una natura nervosa come quella dell’Agnese, non poteva accader di peggio.... Se lo sciagurato King Arthur si fosse perduto come si perdono centinaia di navi non saremmo a questo punto.... È per ciò ch’io insistevo per aver una prova.... Non la si è potuta avere, pazienza.... Non ne ha colpa nessuno.... Intendo benissimo che sarebbe una follia il girare il mondo in cerca di un bastimento.... Ma bisogna convenire ch’è un destino iniquo. E vi sarà della gente che c’invidia perchè siamo ricchi!
Il signor Roberto non esagerava accennando alle tristi condizioni di sua moglie. La vidi nella giornata [254] e mi fece una pena immensa. Aveva dato un crollo in poche settimane. Era ridotta a pelle ed ossa, aveva gli occhi infossati e più d’un filo bianco si mesceva a’ suoi bei capelli biondi.... E quello sguardo, quello sguardo!
Mi accolse con una cortesia fredda, ben diversa dall’espansione ch’ella m’aveva dimostrata negli ultimi tempi. Circa al mio viaggio, mi disse soltanto: — Non ha saputo nulla.... Già era da immaginarselo.
Lieto ch’ell’avesse rotto il ghiaccio, mi credetti incoraggiato a riferirle le indagini che avevo fatte, i nuovi indizi che avevo raccolti, i discorsi che avevo sentiti, la dolorosa convinzione che avevo acquistata dell’inutilità di ulteriori pratiche per accertare un avvenimento su cui pur troppo non v’era più dubbio. M’aspettavo ch’ella protestasse contro le mie parole, che, in un modo o nell’altro, ella sfogasse il suo dolore.... Niente di tutto ciò.... Teneva la testa chinata sul petto, le mani incrociate sulle ginocchia, non dava segno di approvazione o dissenso.
Nell’uscire dalla stanza il signor Roberto sospirò: — È uno strazio. Così non può durare....
Tale era anche la mia opinione. Ma c’ingannavamo tutti e due. Anzi, in quanto a salute, la signora Agnese migliorò, riprese un po’ di polpa e di colore. Non migliorò invece il suo stato morale, non ci fu verso di scuotere il letargo nel quale ell’era piombata. Ella non trovava qualche lampo d’energia che per respinger qualunque proposta suo marito le facesse di viaggi o di distrazioni d’altra natura.
Compiuto l’anno, gli assicuratori pagarono il risarcimento che ci spettava, e nella pagina del nostro registro mercanzie intestata al Riso giapponese col [255] “King Arthur„ noi potemmo inscrivere nella colonna dell’avere ch’era ancora in bianco la cifra rotonda di un milione di lire, chiudendo con un utile ragguardevole questo conto, nonostante le spese impreviste, nonostante la perdita degl’interessi.
Furono pagate contemporaneamente anche le 25 mila lire del salottino giapponese ch’era stato assicurato a parte.
— Sia ringraziato il cielo, — esclamò quel giorno il ragioniere della ditta. — Quelle due partite aperte gettavano un’ombra sinistra sull’intera azienda.... Adesso che ci si è messa su una bella pietra sepolcrale, si potrà respirar meglio e muoversi con più libertà.
Ebbene, quel giorno stesso il signor Roberto mi esternava per la prima volta la sua intenzione di liquidare la casa. Non aveva più amore al lavoro, non aveva più ambizione, non aveva più elasticità di fibra e di spirito. Sentiva di non esser l’uomo d’un tempo, d’infastidirsi a ogni contrarietà, di smarrirsi a ogni dubbiezza; quei lunghi mesi d’ambascia l’avevano spossato, affranto. E poi con che sugo avrebbe seguitato a logorare il cervello nelle intricate combinazioni del commercio moderno?... Non aveva figliuoli e non isperava d’averne; sua moglie non abbisognava di maggiori ricchezze per vegetar come faceva; le occorrevano soltanto delle cure sollecite, attente, e queste cure toccava a lui di prestargliele. Con la coscienza delicata dei buoni egli si caricava di colpe immaginarie. — Dovevo entrar subito nell’idea dell’Agnese, — egli ripeteva, — e far sì che il capitano ci lasciasse la bambina addirittura, chè già con un po’ d’insistenza la si sarebbe spuntata.... Oppure dovevo [256] tagliar corto, dichiarar che non volevo l’Ofelia in casa nè prima nè dopo, impedire a quella funesta tenerezza di nascere, di crescere. Il mezzo termine adottato fu la cagion vera di tante disgrazie.
Ohimè, la vera cagione era da cercarsi nella mente non equilibrata della signora Agnese, ma questo il signor Roberto non intendeva ammetterlo. Fermo nel tenersi responsabile di tutto, egli diceva che il far l’infermiere era per lui, oltre che un debito d’affetto, una giusta espiazione.
E persisteva nel proposito di ritirarsi dai traffici. Solo studiava il modo di provvedere all’avvenire de’ suoi commessi, di volgere a loro vantaggio il credito e le relazioni della sua ditta.
Di qui l’accomandita della quale io sono il gerente e che mi permise di conservare intimità di rapporti con l’ottimo uomo. Però tra noi non si discorre d’affari che quando io gli presento il bilancio, e anche allora se ne discorre poco perchè egli ha in me una fiducia che credo di non avere demeritata. Anzi talvolta egli mi rimprovera scherzosamente di aumentar troppo il suo patrimonio.
Per lo più egli mi parla di sua moglie ch’egli ama con l’antico trasporto e ch’è sempre nel medesimo stato, sospesa tra la sanità e la malattia, tra la saviezza e la demenza. Quand’io vado a visitarla, e ci vado ogni tre o quattro settimane, ella mi riconosce, mi porge la mano, mi ringrazia d’essermi ricordato di lei, mette insieme poche frasi insignificanti, e quindi ricade in un silenzio penoso. Ma se mi alzo per accommiatarmi si scuote, e non manca di dire: — Torni: Già mi trova al solito posto, nel mio salottino giapponese.
[257]
E nel salottino che conserva per ironia questo nome si vedono ancora le fotografie dell’Ofelia e del King Arthur. Ma i mille ninnoli, ma le lacche colorate, ma gli specchi dipinti, ma le mensole, i vasi che dovevano adornare il salottino giapponese, dove sono? Dov’è il King Arthur, dov’è la gentile Ofelia, dov’è il capitano Atkinson, dov’è il cane Tom? Su quali alghe riposano, quanto mare li copre, chi saprà mai nulla di loro?
················
[258]
Il servo picchiò leggermente all’uscio, e disse con qualche esitazione: — Signora....
Sola nel suo salottino, la signora Stella Marioli ripassava della musica al pianoforte. Un resto di legna si consumava, scoppiettando, nel caminetto; sopra una tavola sparsa di libri e giornali ardeva un lume a Carvel.
— Che c’è? — chiese la signora, voltandosi sulla sedia.
— C’è una visita.
— A quest’ora? Lo sapete bene che di sera non ricevo.
— Lo so.... Ma il cavalier Gualberti mi ha ordinato di annunziarlo ugualmente.
— È Gualberti? — soggiunse la signora Marioli come parlando tra sè. — E pensò che per due volte consecutive egli era venuto di giorno senza trovarla in casa. A ogni modo.... — Basta.... Che entri, — ella disse a voce alta. — E portate da fare il tè.
[259]
Spense le due candele del pianoforte e andò a sedere accanto alla tavola.
Era una donna sulla trentina, non bellissima ma piacente, vedova da più di tre anni, senza figliuoli; chè il suo primo e unico bimbo l’era morto in fasce. Viveva con la sua mamma ch’era vedova anch’essa; ma i due quartierini erano perfettamente disobbligati con porta e ingresso a parte. Madre e figliuola avevano spiriti indipendenti e gusti alquanto diversi. Era poi questo spirito indipendente che rendeva la signora Stella aliena dal rimaritarsi, quantunque, pur che avesse voluto, non le sarebbero mancate le occasioni. Ma era ben provvista di beni di fortuna, era in grado di saper difendersi dalle insidie; che furia doveva avere di rimettere il collo sotto il giogo?
— In verità, Gualberti.... — ella cominciò rivolgendosi all’inatteso visitatore con aria di mite rimprovero. Ma, al vederlo in abito nero e cravatta bianca, soggiunse scherzosamente: — Meno male che non sono che una stazione intermedia.... Via, sedete pure.... Già una rondine non fa primavera.
Da un pezzo la signora Marioli dava del voi a Gualberti.
— Oh, signora Stella, — egli disse, — non sia così cattiva. Ho commesso un’indiscretezza, lo so, ma passavo di qui e non ho potuto resistere alla tentazione. Di giorno non mi riesce mai....
— Mi dispiace che abbiate fatto due volte la strada per nulla. Ero fuori.... Di venerdì però....
— Il suo giorno di ricevimento?... Non me ne discorra neanche.... Abborro i giorni di ricevimento in generale e il suo in particolare.
— Perchè il mio più degli altri?
[260]
— Perchè un salotto pieno di visite è tanto più odioso quanto più è simpatica la padrona di casa.
— Devo ringraziarvi del madrigale?
— Non è un madrigale; è l’espressione schietta del mio pensiero. E poi, non lo nego, divento un selvaggio.
— Voi? Non si direbbe. — E la signora Stella diede un’occhiata alla toilette inappuntabile di Gualberti. Quindi esclamò picchiandosi la fronte:
— Adesso capisco.... Andate al ballo della contessa Vetturi....
— Sono uscito di casa con questa intenzione, ma....
— Non c’è ma che tenga. Se credete che la Vetturi vi passerebbe buona la vostra diserzione, v’ingannate a partito.... E fulminerebbe me se potesse supporre che ne fossi la causa.... Oh non voglio correre di questi pericoli..... Sono terribili le collere della Vetturi.
— Lei le affronta impavida.... perchè sarà invitata anche lei....
— Oh, il mio è un invito platonico.... Sanno bene che non vado a feste.... Ma voi....
— Sicchè mi licenzia.... Mi spedisce dalla Vetturi a veder accendere i lumi.
La signora Stella guardò l’orologio.
— Infatti è presto; sono le nove e tre quarti. Vi concedo di rimaner fino alle dieci e mezzo, il tempo da prendere una tazza di tè che vi preparo subito.... Da qui a casa Vetturi ci saranno quindici o venti minuti di strada; arriverete alle undici; proprio l’ora giusta.
— E dire che rinunzierei tanto volentieri ad andarvi.
[261]
— Caro amico, quando non si vuole andare a una festa, non si comincia col mettersi in frac paré.
— È inesorabile.... Bisogna perdonare alle contraddizioni umane.... Mi son vestito macchinalmente, per forza d’inerzia; adesso domando a me stesso che cosa vado a fare dalla Vetturi.
— Oh bella, quello che ci faranno gli altri. Ballerete.
— Se non ballo più.
— Vedrete a ballare.
— Non mi piacciono che i balli d’adolescenti.
— Carino, carino. Bals d’enfants addirittura.
— Anche i bals d’enfants. Ma, scherzi a parte, il ballo, se non vuol essere una cosa ridicola agli occhi di chi vi assiste, deve apparir lo sfogo ingenuo di una vitalità esuberante. E tale è appunto pei giovani che hanno un bisogno irresistibile di muoversi, di saltare, di volare, sarei per dire. Più tardi, dopo vent’anni per le femmine, dopo venticinque per i maschi, esso non è che un libertinaggio o una pagliacciata.
— Nientemeno! — proruppe la signora Marioli. — Sicchè voi, consentaneo ai vostri principî, avete cessato di ballare a venticinqu’anni?... Io ritenevo....
— Che avessi ballato anche dopo? Lo ammetto. Ma questo non prova nulla....
— Sarà. Gradirei sapere a ogni modo se ballando nella vostra età matura facevate atto di libertino, o di...
La signora Stella non finì la frase. Gualberti la finì lui.
— O di pagliaccio? Ecco, siccome l’andar in giro come una trottola mi pareva supremamente grottesco, crederei piuttosto....
E si fermò lì.
[262]
— Intendo, — disse la signora. — La vostra era una colpa di libertinaggio.... E chi sa che giudizi pronunciavate in cuor vostro sul conto di quelle povere diavole che accettavano il vostro invito per una polka o per un valzer?... Buon per me che non abbiamo mai ballato insieme.
— Io non mi ricordo di averla mai vista ballare, — replicò Gualberti.
— È vero. Anche quando viveva mio marito ballavo pochissimo.... Non in omaggio alla vostra teoria, ma perchè vado soggetta alle vertigini.... E se ci fosse una signora Gualberti, levatemi una curiosità.... è il vizio di noi donne l’esser curiose.... come vi regolereste con la signora Gualberti?
— Eh, chi può dire quel che farei? Se l’amassi, sarei debole, cederei probabilmente a’ suoi desideri. Ma non nego che dovrei mandar giù di gran bocconi amari a vederla palleggiata dalle braccia dell’uno a quelle dell’altro. Senza contare ciò che vien dopo.... Ogni imbecille che ha ballato con madama si crede in obbligo di portar la mattina seguente i suoi biglietti da visita, in duplo come le quietanze, che il marito babbeo è costretto a ricambiare, dando in questo modo la facoltà a uno stuolo di cretini di venire in casa a corteggiargli la moglie.
La signora Stella si mise a ridere.
— Che moralista diventate invecchiando, e che marito geloso sareste!
— Geloso?... Secondo.... Se amassi mia moglie.... Sia sincera, signora Stella, crede possibile amore senza gelosia?
— No, — ella rispose dopo averci pensato su un momento. — Pur di non eccedere.
[263]
— D’accordo. È come il sale nelle vivande. Non si può farne senza, ma non si deve abusarne.
— Parlate per aforismi stasera.... Ma torniamo a bomba.... Il vostro programma coniugale è tuttora oscuro.
— Ha voglia di divertirsi alle mie spalle, lei, — esclamò il cavalier Gualberti. — Che programma posso avere? È sicuro però che non adotterei il sistema di coloro i quali nel gran numero di galanti lasciati ronzare intorno alla moglie vedono una specie di salvaguardia contro maggiori pericoli.... Tanto più ch’io ho certe opinioni tutte mie.... È la sera che la faccio maravigliare coi miei paradossi.... Se gliene dicessi un altro?
Durante questo tempo la signora Stella era stata sempre in piedi affaccendata intorno alla teiera; adesso il tè era fatto ed ella ne mescè una tazza al Gualberti, dicendogli:
— Mettete voi a vostro piacere lo zucchero, la panna e il rhum, e spifferate pure il vostro ultimo paradosso.... Perchè è l’ultimo; sono già le dieci e mezzo.
— Non baderà poi al minuto. Il mio paradosso è questo. La colpa che perdono meno alla donna è la civetteria.
— Misericordia! — gridò la padrona di casa alzando le mani al cielo. — A dir queste cose v’inimicherete l’intera corporazione.... S’è già passato in giudicato che siamo civette tutte quante?
Gualberti fece un moto vivace di protesta.
— Nemmen per sogno.... Ne conosco una per esempio....
La signora Marioli gli accennò con la mano di non continuare.
[264]
— Son io quella, s’intende.... Gualberti, stasera siete in vena d’originalità; non naufragate in un bicchier d’acqua.
— Le giuro che....
— Tiriamo via.... E invece di perdervi in cerimonie, spiegatevi meglio.... Per voi dunque la civetteria è un peccato mortale.
— Sarò ingiusto, sarò eccessivo.... Ma già me ne rifaccio con un eccesso d’indulgenza per altri peccati.
— Oh!... Per esempio?
— Io compatisco la sensualità, compatisco e spesso rispetto la passione, anche illegittima.
— E non compatite la civetteria?
— No. La sensualità ha qualche cosa d’irresponsabile, è una malattia del sangue, come la passione è una malattia, una nobile malattia, del cuore. Sensualità e passione sono necessariamente sincere; la civetteria non è che un artifizio; è un pervertimento dell’ingegno rivolto a miseri fini, è un gioco crudele che alla lunga spegne nell’animo di chi lo fa ogni lampo di gentilezza.... La donna può esercitarvisi per anni senza restar presa nei lacci che tende; non importa, ella è mille volte più corrotta, mille volte più condannabile di quella che ha ceduto all’amore, qualunque sia quest’amore....
— Onde alla signora Gualberti, se ci fosse, — ripigliò in tuono scherzevole la signora Stella — voi perdonereste un amante, due amanti....
— Come corre! Veda.... Bisogna distinguere. Quando una donna maritata ha un amante, il marito è un offeso, e chi è offeso non guarda tanto pel sottile; non considera il fatto in sè stesso, ma il danno, la [265] vergogna, il ridicolo che ne deriva a lui.... È probabile ch’io sarei come gli altri, è possibile che scaccerei dal mio fianco la donna colpevole.... a’ miei occhi indubbiamente colpevole.... ma non credo che da una catastrofe di questo genere mi sentirei umiliato come dall’aver una moglie che tenesse a bada una dozzina di bellimbusti e girasse tutta la sua vita intorno all’adulterio senza cadervi mai.
— Avete finito?
— Ho finito.
— Ebbene, quantunque siano le dieci e tre quarti, voglio dire anch’io due parole.... Figuratevi se non protesto in nome del mio sesso contro le vostre esagerazioni.... Una seconda tazza di tè?
— Sì, grazie, — rispose Gualberti, il quale non domandava di meglio che di esser trattenuto.
— Nella vostra filippica ci può anche essere un fondo di vero — soggiunse la signora Stella mentre gli porgeva la tazza colma, — ma, santo Iddio, le cose che vi dispiacciono le vedete con una lente d’ingrandimento che vi muta una zanzara in un elefante. Non amo neppur io la civetta di professione, ma un po’ di civetteria non è poi quel delitto abbominevole che voi credete. È la nostra arma, la nostra difesa, la nostra vendetta contro voi altri.
— Una vendetta?
— Appunto, e non è difficile a intenderlo. Con voi uomini una donna che non sia nè vecchia nè brutta (e già le brutte e le vecchie le lasciate in disparte) non ha che tre vie da tenere. O consente a sacrificarvi la sua riputazione, o vi mette alla porta ch’è quello che meritereste spessissimo, o si prende argutamente gioco di voi.... Ora capirete che sacrificarvi [266] la propria riputazione è novantanove volte su cento una follìa, e che il darvi lo sfratto ci condannerebbe all’isolamento. Non resta quindi che il terzo partito. Con che fronte venite ad accusarci di finzione, d’artifizio? Siete schietti, siete sinceri voi altri? Che cosa sono le vostre frasi sdolcinate, le vostre dichiarazioni patetiche? Sono la bandiera con cui tentate far passare di contrabbando un vostro desiderio, un vostro capriccio. Voi c’insultate, noi vi canzoniamo. Ve lo ripeto, io non amo le civette in genere, però quando sento che una civetta ha corbellato un libertino biasimo forse la donna, ma in quanto all’uomo dico: Bene gli sta.
— Ah, signora Stella, — replicò Gualberti deponendo la chicchera sulla tavola. — si capisce che c’è un grande spirito di solidarietà fra le donne se le migliori prendono con tanto fuoco le parti delle peggiori!... Cercar scuse alle civette, lei che non ha ombra di civetteria?
— Ne siete sicuro? E, in ogni caso, credete di farmi un elogio? Se fosse un difetto? Se per lo meno fosse una disgrazia?
— Come mai?
Ella soggiunse con un sorriso triste:
— Eh caro Gualberti, è quello che dicevo poco fa.... Non volersi compromettere con uno, non voler prendersi gioco di molti, è il vero modo di restar sole.
Le parve di essersi lasciata sfuggire qualche parola di troppo e si alzò bruscamente dalla seggiola.
— Basta così, ormai.... Voi mi avete sciorinato le vostre massime; io ho rintuzzato la vostra baldanza maschile.... vi ritenete sempre impeccabili voi uomini.... [267] adesso non mi resta altro che darvi la felicissima notte e augurarvi buon divertimento dalla Vetturi.
Gualberti s’era alzato anche lui, e stava forse per accommiatarsi definitivamente, quando ad un tratto abbassò gli occhi sullo sparato della camicia e mise un piccolo grido.
— Che cos’è accaduto?
— È accaduto.... — rispose alquanto confuso Gualberti — che dalla Vetturi non ci posso andar più.
— E perchè?
— Perchè m’accorgo d’essermi fatta una macchia di tè sulla camicia.
La signora Stella non potè a meno di sorridere.
— Un altro giorno vi legherete la salvietta al collo.... Per fortuna avete ancora tempo di passar a casa vostra a mutarvi.
— Questo poi no. Far toilette una volta, transeat, ma due? Non ho una vocazione così pronunciata per la società. Sia compiacente, signora Stella, e giacchè sono qui mi permetta di restarci ancora un pochino. È tanto più gustoso il discorrer con una donna d’ingegno e di cuore che l’andare a una festa a sentir le solite melensaggini.
Una nuvola si calò sulla fronte della signora Marioli; un sospetto lo balenò nell’animo. Le venne il dubbio che quella macchia non fosse accidentale, che Gualberti avesse lasciato cadere apposta una goccia di tè sulla camicia per avere un pretesto di prolungar la sua visita. E il pensiero di questo mezzuccio puerile l’offese, e l’insistenza per rimaner da lei a quell’ora inusata l’afflisse. Ecco, anche Gualberti del quale ella pregiava infinitamente lo spirito [268] ed il carattere assumeva dei modi che a lei non potevano convenire.... Le sarebbe toccato metterlo a posto, forse non riceverlo più come non aveva ricevuto più tanti altri.... Era un gran dolore.... O forse l’aveva ella stessa trattato con soverchia familiarità?... Dio buono, che sia necessario di star sempre in sussiego, di adombrarsi d’ogni atto, d’ogni parola?... Che ogni minima deferenza debba bastare perchè un uomo manchi di rispetto?...
— Oh Gualberti — ella ripigliò; e l’intonazione della sua voce rivelava il suo animo commosso — non mi fate pentire di avervi perdonata la licenza che vi siete presa.... Perchè io non vi avevo mai, mai invitato a venire di sera.... Nè voi, nè altri, s’intende.... O scendo da mia madre, o vado da qualche amica, o rimango sola.... Non è poi la fine del mondo il rimaner sola.... Lo so — ella proseguì, quasi volendo spiegar a sè stessa la propria condotta — tanti avevano insistito perchè io ricevessi una sera per settimana.... A che pro?... Avrei forse potuto ricever soltanto quelli che desideravo?... No certo, mi sarebbe convenuto subir prima di tutti quelli che avevano fatto la proposta, i seccatori, gl’importuni, i balordi, quelli che stimerebbero fallire a un debito d’onore se non facessero la corte a una donna che non è un mostro, e che non ha nessuno che la difenda.... Ebbene, no, non era affare per me.... avete ragione, non sono abbastanza civetta.... D’altra parte, sfido io, una volta detto di non ricever la sera, come posso fare eccezioni?... Avete avuto torto di forzar la consegna.... Più torto ancora avete adesso a ricorrere a espedienti non degni di voi....
[269]
— Quali espedienti?
— Via, non fate l’ingenuo.... La vostra macchia di tè....
— Le dò la mia parola d’uomo d’onore....
— Inezie.... Non vi tengo mica il broncio.... E neppure voi lo terrete a me, non è vero?... Amici come prima... E arrivederci, Gualberti, arrivederci di giorno....
E gli tese la mano agitata da un leggero tremito.
Avvezzo a vederla così calma, così serena, così padrona di sè, Gualberti fu colpito dal turbamento che le si scorgeva nel viso e che l’insolito abbandono, l’insolita sconnessione del suo discorso tradiva.
— Oh signora Stella, signora Stella — egli esclamò con accento appassionato — torno a darle la mia parola d’onore che la fanciullaggine di cui ella m’accusa non l’ho commessa. Ma benedico l’equivoco se ci aiuta a uscire dal circolo incantato in cui ci aggiriamo da tanto tempo.
— Non vi capisco. Spiegatevi....
— Mi spiegherò.... Ma la scongiuro, mi lasci dire; non m’interrompa.... Quando avrò finito andrò via, e se vorrà andrò via per sempre.... E soprattutto non accolga nemmeno per un istante l’idea ch’io abbia avuto in animo di offenderla, di compromettere la sua riputazione.... Non mi giudichi capace di una bassezza simile.... Ho vissuto molto in società, è vero, in quella triste società che guasta e corrompe; pur credo di non essermici interamente guasto e corrotto; i suoi idoli non sono i miei idoli, i suoi trionfi non sono i trionfi a cui miro.
— Lo so, Gualberti, lo so.
[270]
— Quand’ero giovine, i miei amici.... amici di club.... avevano la bontà-di dire che possedevo delle qualità naturali per riuscir nella galanteria... il grande scopo della loro esistenza... ma che prendevo le cose troppo sul serio... che talvolta ero troppo schizzinoso nella scelta della piazza da espugnare... chiamiamola così.... talvolta ero troppo scrupoloso nei mezzi.... Fatto si è che fui sempre un povero seduttore.... anche quand’ero giovine.... Si figuri adesso....
— Ebbene, amico mio — soggiunse la signora Marioli — se qualche mia frase ha potuto farvi supporre ch’io vi mettessi a livello dei don Giovanni da dozzina, ve ne domando perdono....
— Non è questo, signora Stella; son io in ogni caso che devo implorare la sua indulgenza.... Sono stato indiscreto, goffo, petulante.... Gli è che avevo un bisogno immenso di vederla.... di vederla sola.... E proprio nell’ora che mi vestivo per quello stupido ballo, questo bisogno diventava prepotente, irresistibile.... Mi son trovato alla sua porta, sulle sue scale, qui, nel suo salotto, al cospetto di lei.... Poi un po’ le sue osservazioni, un po’ il timore di aver realmente commesso una sconvenienza mi hanno sconcertato, inasprito.... si è sempre inaspriti con gli altri quando si ha qualche cosa da rimproverare a sè stessi.... e allora ho cominciato a infilare una serie di paradossi di cui le assicuro che non sono responsabile che in piccola parte.... essi mi salivano alle labbra, e io non potevo fermarli.... Mi sembrava di rassomigliare a un pirotecnico inesperto che veda partire a caso i suoi razzi.... Non importa; mentre la bocca affastellava frasi su frasi la mia anima acquistava una lucidezza maggior dell’usato, leggevo [271] dentro di me più chiaro ch’io non avessi mai letto, mi convincevo ch’era assurdo il voler soffocare, il voler nasconder sotto un finto nome i miei sentimenti per lei.... Oh non mi faccia segno di tacere.... Non posso e non debbo.... L’amo, signora Stella, l’amo da un pezzo. Da un pezzo, ed è la miglior prova ch’io l’amo, m’è divenuto increscioso ogni altro pensiero; ovunque io sia la mia mente corre a questa casa, a questo salottino, alla donna gentile che vi abita.... Perchè ho tardato tanto a parlare?... Temevo una sua ripulsa, non osavo giocar tutto sopra una carta.... Dacchè la conosco davvicino, e son quasi tre anni, ho visto ronzargliene intorno dei vagheggini, e li ho visti pur dileguarsi, scoraggiati da lei, e quelli la cui corte era un oltraggio e quelli che le offrivano ciò che solo è lecito offrirle.... Avrò la medesima sorte?... io chiedevo a me stesso.... E forse volevo esser ben sicuro di me, sicuro contro ogni pentimento, contro ogni rimpianto delle mie abitudini di scapolo.... Oggi, signora Stella, di questi dubbi non ne ho più. Oggi sento il pregio inestimabile d’un’affezione tranquilla, d’una vita raccolta, e l’affezione a cui aspiro è la sua, e la vita che sogno è al suo fianco.... Siamo liberi entrambi, abbiamo, più che non paia, gusti, opinioni, ideali comuni; perchè non dobbiamo restare uniti, perchè non vorrà accettare la mia mano, il mio nome?... Ella è molto più giovine di me, ma i dolori valgono gli anni e le prove attraverso le quali ella è passata attenuano la distanza che c’è fra noi.... Non mi respinga, signora Stella.... non rivolga il viso da un’altra parte.... mi assicuri che non è andata in collera....
Ella s’era rimessa a sedere col gomito appoggiato [272] al tavolino, con la fronte appoggiata alla palma, e quella dichiarazione in cui vibrava l’accento della verità le scendeva nell’anima come una musica divina. Altre dichiarazioni l’era toccato ascoltare, o bugiarde, o interessate, o ridicole, e tutte quante le avevano dato il mezzo di sbarazzarsi con gioia di corteggiatori importuni, di riaffermare la sua libertà che le pareva un bene così prezioso; oggi per riaffermare quella libertà una volta di più le sarebbe convenuto perdere il suo migliore amico;.... oh il prezzo era troppo caro. Della sincerità di Gualberti era sicura come di esistere.... egli che non aveva mentito mai, egli che la cingeva da tanto tempo di una tenerezza rispettosa e discreta, egli ch’era così alieno da ogni artifizio da domandarle di esser sua moglie, appena mezz’ora dopo averle esposte delle massime coniugali che avrebbero sgomentato una donna volgare....
La signora Marioli levò verso di lui i suoi occhi dolci e buoni. — Non vi avrei lasciato parlare dieci minuti di fila se fossi andata in collera.... Che cosa fate adesso?... Alzatevi, Gualberti.... Non siamo due ragazzi.... Siamo due persone serie, mature.... Su, via....
E si alzò per la prima, sorridendo in mezzo al suo finto corruccio.
Egli non le dava retta e baciava i lembi del suo vestito e balbettava: — Amor mio, amor mio.
— Su, Gualberti, su.... Non ho mica detto ancora di sì.
— L’ho veduto scritto sulla sua.... sulla tua fronte quel sì.... E poi me lo dirai, non è vero?
— Ebbene.... tornate.... torna domani.
Ebbro di gioia, egli la strinse un istante fra le [273] sue braccia, e si decise finalmente a prendere il suo cappello.
L’orologio suonò la mezzanotte.
— Che ora impossibile! — esclamò la signora mentre premeva il bottone del campanello elettrico. E soggiunse maliziosamente: — Sarà tardi pel ballo della Vetturi....
— Cattiva!... Il ballo della Vetturi....
Entrò il servo.
— Buona notte, signora Stella.
— Buona notte, Gualberti.... A domani, dunque.... A qualunque ora.... Resto tutto il giorno in casa.
— Grazie. A domani.
Gualberti fece in quattro salti le scale. E seguitava a dire al domestico che gli veniva dietro col lume: — Ci vedo, ci vedo benissimo.
Era buio pesto, ma l’amore, ch’è cieco, ci vede anche al buio.
[274]
Nel salottino che una lumiera a gaz rischiarava dall’alto e che una sola stanza divideva dalla camera del malato erano raccolte dieci o dodici persone, quali sedute, quali in piedi, quali appoggiate al davanzale d’una finestra aperta per respirare un po’ d’aria libera. Sulla tavola, in mezzo ad alcuni album di fotografie e strenne e gingilli, un gran vassoio con parecchi bicchieri d’acqua, un altro più piccolo con una dozzina di bicchierini da liquori e una bottiglia smerigliata di Cognac fine Champagne; infine una vaschetta piena di pezzi di ghiaccio e con un cucchiaio di cristallo.
Di tratto in tratto qualcheduno infilava in silenzio l’uscio a sinistra, stava fuori del salotto un paio di minuti e poi vi rientrava con aria contrita.
— Nulla di nuovo? — si chiedeva da più parti.
[275]
— Nulla.... sempre nel medesimo stato.... Piuttosto inquieto.
Di quelle dieci o dodici persone sei erano li da poche ore, accorse alla chiamata telegrafica. Erano i parenti più vicini, i probabili eredi del cavaliere Achille, nessuno dei quali abitava in Venezia. L’unica sorella superstite, la baronessa Rudeni, stava ordinariamente a Firenze, ma il dispaccio l’aveva raggiunta a Livorno ov’ella faceva i bagni di mare, ed ella, in compagnia del marito barone James e della cagnetta Darling, aveva preso il primo treno per l’Alta Italia; i Minucci, venivano da Torino, i Quaglia da Milano. 1 Minucci, padre e figlio, erano cognato e nipote del cavaliere; così pure i Quaglia.
Tutti, come si vede, avevano risposto all’appello con meravigliosa sollecitudine. E in vero il tenore del dispaccio spedito dal cugino Raimondi per consiglio del medico non ammetteva indugi.
Nostro Achille colpito apoplessia. Condizione allarmante. Desiderabile vostra presenza.
Era stato un fulmine a ciel sereno. Chi poteva immaginarsi che il cavaliere Achille morisse d’apoplessia a quarant’anni?
Tra il cavaliere e i parenti di lui non c’era mai stata una grande intimità. Passavano dei mesi, passava un anno intiero senza che si vedessero, perchè egli non andava a cercarli e preferiva di far i suoi viaggetti all’estero ed essi capitavano di rado a Venezia. Una volta, dopo alcune perdite fatte alla Borsa dal barone James, la baronessa moglie aveva scritto al fratello manifestandogli l’idea di tornare a stabilirsi in patria, presso di lui, che così non sarebbe rimasto tanto solo. Il cavaliere l’aveva dissuasa dal [276] suo proposito. Se ne ricordasse; ella diceva sempre che lo scirocco di Venezia le faceva male. Di lui non si prendesse pensiero; la solitudine non lo sgomentava. Coi Minucci e coi Quaglia le relazioni erano ancora più fredde. A ogni modo i nipoti non mancavano di scrivere allo zio una toccante lettera pel capo d’anno, a cui egli, che aveva mediocri disposizioni per lo stile epistolare, rispondeva con poche righe che principiavano invariabilmente così: — Caro nipote — Gratissimo fummi tuo foglio, ecc., ecc.
È facile immaginare che questi amorosi parenti, appena giunti, avevano tempestato di domande il cugino Raimondi. E anche adesso, ogni momento, egli doveva ripetere per la centesima volta l’identica storia. — Stava bene, stava benissimo. Avevamo passeggiato insieme l’altra sera sotto le Procuratie per mezz’ora. E ieri mattina aveva fatto colazione con eccellente appetito.
— Voi, però, non c’eravate mica? — chiese Annibale Minucci, il cognato del cavaliere.
— Io no.... Fu un puro caso che mi trovassi qui vicino quando Battista, il servitore, correva in traccia del medico.
— E siete venuto subito subito?
— Sfido io.... Quelle povere donne non sapevano dove dare il capo.
[277]
— Quali donne? — domandò severamente la baronessa Rudeni agitandosi sulla poltrona.
— Le due donne di casa, la cuoca e la cameriera.
— E vi ha riconosciuto? — seguitò Minucci.
— Senza dubbio.... Riconosce anche adesso.... La coscienza non l’ha perduta.... ma non può parlare.... non può muovere che il braccio destro.
— Ma! — sospirò la baronessa. E a questa esclamazione patetica ne succedette una iraconda accompagnata dal suono secco d’uno schiaffo: — Maledette bestie!
Darling, ch’era accovacciata sotto il tavolino, credendo che qualcheduno avesse percosso la sua padrona, le si avvicinò guaiolando. Ma la baronessa aveva schiaffeggiato sè medesima per accoppare una zanzara.
— Cara Eleonora, — disse con accento flebile Ippolito Meroni, un vecchio galante sulla sessantina, tinto e impomatato, — se vi darete uno schiaffo a ogni zanzara che vi ronza attorno starete fresca.
Meroni assumeva volontieri un tuono confidenziale con le donne alle quali aveva in illo tempore fatto la corte. E si diceva che la baronessa Rudeni fosse stata una delle sue fiamme.
— Ad abitar lontana da Venezia m’ero disavvezzata da questa piaga, — rispose la baronessa. — Quieta, Darling.
— Non c’erano zanzare adesso a Livorno?
— Che!
Ippolito Meroni colse il destro per evocare il ricordo del passato. E abbassando la voce: — Ve ne rammentate della stagione del 1860 all’Ardenza?
La baronessa aggrottò le ciglia. — Ma che 1860?... Io non c’ero....
[278]
— Sarà stato nel 1865.
— Io non fui all’Ardenza prima del 1870, — replicò dispettosamente la baronessa Eleonora, e alzandosi in piedi lasciò in asso il suo vetusto adoratore.
Che età avesse la baronessa Rudeni non si poteva sapere con precisione; certo superava di una decina d’anni il fratello Achille ch’era il più giovine della famiglia. Non era stata brutta.... nè inesorabile, — dicevano le male lingue; ma dacchè gli uomini la trascuravano era divenuta d’una virtù arcigna.
— Ti piace la zia? — susurrò Minucci juniore nell’orecchio del cugino.
— Non vorrei vederla senza busto, — rispose il contino Quaglia.
L’altro si mise a ridere. — Che sconquasso dev’essere!
Ippolito Meroni, piantato dalla baronessa, si accostò al barone il quale leggeva la Gazzetta.
— Quel Battemberg, che ve ne pare?
— Io però o non sarei tornato a Sofia o vi sarei rimasto coûte que coûte.
— Eh son cose presto dette.... Ma contro la Russia....
— Chi non risica non rosica.
— Quel dispaccio dello Czar è d’una prepotenza!
— Non me ne parlate, caro Meroni, non me ne parlate. E l’Europa che tollera! E noi che tolleriamo!... Siamo liberali o non siamo liberali?
Un’occhiata della moglie avvertì il barone che quello non era il luogo di approfondire un tale argomento.
La baronessa s’era riunita al crocchio numeroso che stava accanto alla finestra: Annibale Minucci, [279] il conte Ercole Quaglia, l’avvocato Rizzoli e qualche altro amico di famiglia. Così, in via accademica, si calcolava a quanto potesse ascendere la fortuna del cavaliere Achille.
— Intanto il padre gli ha lasciato tutta la disponibile, — notò Quaglia.
— Sicuro. Poi ebbe un legato da quello zio che viveva a Londra, — soggiunse Minucci.
— E le azioni del Canale di Suez che aveva comperate a 350 franchi e che rivendette a tremila!
Quest’enumerazione fu interrotta dall’arrivo del dottore.
Il dottor Gelsi, un uomo maturo, un po’ curvo, giallo di carnagione, calvo, miope, salutò a destra, salutò a sinistra, — buona sera, buona sera, — chiese di volo che novità ci fossero dopo la sua ultima visita e si diresse verso la camera del cavaliere Achille, preceduto da Raimondi. La baronessa Eleonora gli tenne dietro, non senza aver ordinato al marito di custodire la cagnetta Darling, perchè bisognava assolutamente evitare la ripetizione delle scene spiacevoli avvenute fra lei e Bibì, la cagnetta di casa. In fatti, quando Darling aveva voluto accompagnare la baronessa nella stanza del fratello, Bibì, gelosissima de’ suoi diritti, era uscita digrignando i denti dal suo nascondiglio sotto il letto del [280] padrone e le si sarebbe slanciata contro se la pronta intromissione dei presenti non glielo avesse impedito.
Con la testa immobile sprofondata nei guanciali, con una vescica di ghiaccio sulla fronte, il cavaliere Achille giaceva pressocchè inerte sul suo letto conservando un resto di vita soltanto nel braccio destro che si ostinava a uscir fuori dalle coperte, e negli occhi che giravano lentamente nell’orbita. Vigilavano assidui al suo capezzale la cameriera, un infermiere dell’ospedale e una terza persona, una donna giovine, bella, decorosamente vestita, il cui sguardo ansioso, sollecito, non si staccava mai un istante dall’ammalato.
Il dottore interrogò l’infermiere, interrogò la cameriera, ed essi, nel rispondergli, si rivolgevano a quella terza persona: — Non è vero, signora Giuseppina? — Allora Gelsi, non badando agli occhiacci della baronessa, preferì di far senz’altro le sue domande alla signora Giuseppina. Ed ella gli rispondeva con una voce dolce, una di quelle voci che si raccomandano, rispondeva chiara, precisa; non una parola di più, non una parola di meno del necessario. — Capisco, capisco, — diceva il medico. Poi si chinò sull’infermo: — Signor Achille, come va, come si sente? — Il cavaliere mosse faticosamente il capo. — Ah, — ripigliò Gelsi come discorrendo fra sè — si è scosso, ha mostrato d’intendere. — Oh, — sospirò la Giuseppina — intende benissimo.... Se potesse esprimersi!
La baronessa Eleonora s’accostò al letto, dalla parte opposta a quella ove si trovava la Giuseppina. — Achille, Achille?... M’hai riconosciuto?... Sono Eleonora.... Eleonora.... Vuoi che resti a farti un po’ [281] di compagnia io? — E quell’io sottolineato tradiva l’intimo pensiero della baronessa. Ella si offriva di vegliar qualche ora, nella certezza che insieme con lei l’altra non avrebbe osato rimanere, o ch’ella in ogni modo avrebbe saputo mandarla via. Ma il malato ritorcendo il viso dalla sorella, fissò gli occhi sulla Giuseppina che tremava come una foglia e spinse verso di lei il braccio non colpito dalla paralisi. La giovine gli afferrò la mano e la strinse nella sua. Gelsi intervenne. — Signora baronessa, vedremo domani.... Per questa notte è meglio che in camera non ci sia gente nuova.
— Ma io....
— Ha ragione.... Ho sbagliato a dir gente nuova. Intendo dire gente che il signor Achille non abbia visto da un pezzo.... Gli altri, se credono, possono vegliar nella stanza vicina.... alternativamente.... Lei, signora baronessa, farebbe bene a riposare.... Dev’esser stanca dal viaggio.... Già, in caso di bisogno la chiamano.... E qui, com’è disposto il servizio per la notte?
Quest’ultima interrogazione fu rivolta alla Linda, la cameriera.
— Alle undici e mezzo, — rispose questa, — Battista e la cuoca verranno a dare il cambio all’infermiere ed a me.
— Io non mi muovo, — soggiunse semplicemente la Giuseppina.
Dopo alcune altre ordinazioni e istruzioni, il dottore uscì. — Non c’è peggioramento, — egli disse ai parenti ed amici. — Siamo stazionari.... Ma pur troppo la condizione è sempre grave, gravissima.... Basta, tornerò domattina alle sei. Buona sera, buona sera.
[282]
La baronessa lo accompagnò fuori del salotto. — Converrà meco, dottore, che la presenza di quella donna è uno scandalo.... Se avessi potuto immaginarmi una cosa simile le dò la mia parola che non sarei venuta.... Per ricever quell’accoglienza!... Poichè mio fratello, al punto a cui è ridotto, trova il modo di farmi capire che lo secco....
— Non creda.... non creda, — interruppe il medico. — Io mi spiego lo stato d’animo del cavaliere Achille. I malati, anche i più gravi, e forse per l’indebolimento stesso delle loro facoltà, non si fermano sull’idea della morte finchè un incidente qualunque non produca sopra di loro l’effetto d’una rivelazione improvvisa.... Il cavaliere si è reso conto del pericolo quando ha visto intorno a sè i parenti che non ha l’abitudine di vedere, quando ha visto lei che non veniva a Venezia da un pezzo.... E il pensiero d’esser vicini al gran passo turba perfino gli eroi....
La dotta disquisizione del dottor Gelsi persuase poco la baronessa. — No, no, — ella disse — gli è che, tra la sua sorella e la sua ganza, Achille preferisce la ganza.
Gelsi aveva fretta. — Cara baronessa, — egli concluse, — nella vita conviene armarsi di pazienza.... E coi vecchi, coi bambini, coi malati non si può ragionare.... Del resto, quella donna è un’infermiera preziosa.... Vorrei averne molte all’ospitale.
[283]
I Rudeni, i Quaglia, i Minucci erano, bene o male, alloggiati in casa. Gli altri, alle undici, si congedarono. Ma la baronessa Eleonora pregò il cugino Raimondi e l’avvocato Rizzoli di trattenersi ancora un poco. Indi licenziò il marito, al quale non parve vero di ritirarsi in camera con la Gazzetta, e consigliò i nipoti Quaglia e Minucci di andarsene a letto per alcune ore. Se tutti restavano alzati contemporaneamente sarebbe poi giunto il momento in cui nessuno avrebbe più avuto la forza di reggersi in piedi. Per ultimo ella disse ai due cognati: — Voi due mi usate la cortesia di rimanere. Dobbiamo parlare.
Fu fatto come ella voleva. E allora ella cominciò a sfogarsi con Raimondi.... Raimondi era stato d’una leggerezza! Egli abitava a Venezia, egli era in buoni termini con Achille.... Doveva sapere, doveva avvertire.
Raimondi s’infastidiva. — Sapere che cosa? Avvertire di che cosa?
— Oh bella! Sapere questa tresca.... Avvertirne noi, i parenti.
— Ma scusi, Eleonora. Che ghiribizzi le saltano in testa? Gran che seppur sapevo che Achille aveva una relazione amorosa!... Un uomo scapolo, ricco, libero come lui?... O che dovevo mandar una circolare?
— Ah era dunque conveniente di lasciarci, senza [284] preavviso, trovar occupato da un’estranea il posto che spetterebbe a noi soli, a noi di famiglia?... Per me, l’ho detto già al dottor Gelsi, se mi fossi immaginata che v’era una padrona di casa, nonostante tutto l’affetto che ho per mio fratello, sarei rimasta a Livorno.
— Non esageriamo — interpose il conte Quaglia ch’era un uomo calmo.
— Ma che padrona di casa? — replicò vivamente Raimondi. — Se la Giuseppina non era mai stata in casa?... È venuta ieri.... e chi poteva impedirglielo?... Era sicuro che Achille, se fosse stato in condizione di parlare o di scrivere, l’avrebbe mandata a chiamare.... e non saprei dargli torto quando vedo le cure che quella ragazza ha per lui.... Da ieri in poi, nè di giorno nè di notte, non s’è allontanata un minuto da quel letto.... Io non capisco come faccia.... Non mangia, non dorme....
La baronessa sogghignò. — Credete ai miracoli, voi. Tant’è che crediate anche al disinteresse della vostra Giuseppina.
— Certo che in caso d’una disgrazia ella perde tutto, — osservò Minucci.
— Che ingenuità! — esclamò la baronessa Eleonora. — Quelle non son femmine da lasciarsi cogliere alla sprovveduta.... Per esse l’amore è un mercato.... Tanto si guadagna, tanto si rischia.... E dei rischi voglion esser coperte.... Veda, avvocato Rizzoli, se l’ho pregato di rimanere....
In fatti Rizzoli non sapeva ancora perch’egli fosse lì ad assistere a questa disputa.
— Se l’ho pregato di rimanere, — proseguì la baronessa, — gli è perchè, oltre ad essere un amico [285] di famiglia, ella è un valente legale e può consigliarci.
— Benedette donne! — pensò Rizzoli. — Non sanno ancora che i consulti agli avvocati si vengono a domandare nello studio. — A ogni modo, egli si limitò a chinare il capo in silenzio.
— Io metterei la mano nel fuoco che qui sotto c’è un grande imbroglio, — ripigliò in tuono misterioso la baronessa Eleonora. — Quando un uomo cade nei lacci d’un intrigante, egli non vede che per i suoi occhi, è pronto a dimenticare per lei fratelli, sorelle, nipoti, e, se ne avesse, persino i genitori e i figliuoli.... Alle corte, per me non c’è dubbio che la signora Giuseppina ha carpito ad Achille un testamento a suo favore....
Quaglia e Minucci, che fino allora non avevano dato segno di commuoversi molto alle filippiche della cognata, esclamarono in coro: — Possibile?
Il cugino Raimondi protestò. — Nemmen per sogno.... La Giuseppina è una buona diavola, incapace di sotterfugi.... E Achille era le mille miglia lontano dall’idea di poter morire a quarant’anni....
— Voi, Raimondi, siete un uomo antidiluviano, — interruppe la baronessa. E continuò con aria contrita: — Mi ripugna, lo sa Iddio se mi ripugna il toccar questo tasto.... e volesse pure il cielo che mio fratello campasse ancora cent’anni.... io abborro le questioni d’interesse.... e infine per me.... non ho figliuoli.... e sarete persuasi che se parlo, parlo piuttosto per voi altri, — questa dichiarazione era fatta ai due cognati. — .... Ma le ingiustizie mi offendono, e pur troppo d’ingiustizie nella nostra famiglia ne furono commesse.... il povero babbo ha favorito Achille [286] in un modo!... Basta, era l’unico maschio.... Insomma quello che volevo chiedere a lei, Rizzoli, è questo. Non sarà, ma supposto che la nuova ingiustizia sia realmente avvenuta, che i parenti più stretti siano stati sacrificati per una poco di buono.... la legge non provvede, non dà i mezzi di difendersi?
— Ecco, signora baronessa, — rispose l’avvocato, — il cavaliere Achille, non lasciando nè ascendenti nè discendenti, nè moglie, era in piena facoltà di disporre come meglio gli piacesse di tutta la sua sostanza.
— Di tutto?
— Eh sì; il Codice è chiaro.... Diritti intangibili non ne hanno appunto che gli ascendenti, i discendenti e il coniuge superstite.... Certo che un testamento di cui si potesse provare che fu carpito con la frode o con la violenza diverrebbe nullo.... Ma qui entriamo in un ginepraio; non sono cose delle quali si possa discorrere vagamente, a priori.... Bisogna vedere al caso pratico.... Del resto, — soggiunse Rizzoli guardando l’orologio ch’era posto sulla mensola e che segnava le undici e tre quarti, — sono anch’io d’opinione, come Raimondi, che il cavaliere Achille non abbia preso alcuna disposizione.... Un testamento per atto di notaio, a quanto mi consta, non c’è.... Potrebb’esserci in qualche cassetto un testamento olografo, ma non lo credo....
Dopo di ciò, l’avvocato chiese licenza. Aveva da discutere una causa la mattina e voleva esaminare certi documenti. Raimondi uscì con lui. — Parola d’onore, — egli disse appena giù delle scale, — a momenti finivo collo schiaffeggiare mia cugina, la baronessa.... Che cinismo!... Suo fratello non è ancora [287] morto ed ella si è già prese le chiavi dei cassetti.... l’ho vista io a prendersele.... ed è tutta trepidante per la sua parte d’eredità.... E quegli scrupoli da santocchia.... lei!... Col suo passato!... E quella stramba pretesa ch’io la informassi degli amori d’Achille?... O per chi mi prende?... Son forse il suo salariato?... È vero, ho sempre avuto il torto di esser troppo servizievole con questi miei signori parenti.... Ma se si sognano d’abusarne!... Con quel sugo poi.... Anche in questa faccenda dell’eredità che c’entro io?... Che ci sia o che non ci sia testamento io non m’aspetto un centesimo.... Dunque perchè mi seccano? Sono pentito d’aver mandato io i telegrammi che misero in movimento questo sciame di corvi.
— Eh, caro mio, — notò Rizzoli con un risolino sardonico, — quando c’è di mezzo l’interesse, gli uomini, su per giù, sono tutti d’uno stampo.... Tu pure....
— Ti prego....
— Oh vorresti darmi ad intendere, per quanto bene tu voglia a tuo cugino Achille, che s’egli ti avesse legato centomila lire, non ti consoleresti più presto della sua perdita?
— Scettico incorreggibile! — borbottò Raimondi.
[288]
Erano le cinque del mattino. Le due fiamme della lumiera a gaz del salotto erano abbassate. Nella stanza fra il salotto e la camera del malato ardeva una candela. Alle quattro la baronessa Eleonora, il conte Quaglia e Annibale Minucci erano andati a coricarsi; da un’ora vegliavano Minucci e Quaglia juniori. Vegliavano così per dire, giacchè s’erano addormentati tutti e due, il primo sopra una poltrona del salotto, il secondo sul canapè della stanza attigua. Destatisi contemporaneamente allo scoccar delle cinque, i due cugini si vennero incontro sbadigliando, col piglio annoiato di persone che adempiono mal volentieri a un ufficio antipatico.
— Se la zia Eleonora sapesse che abbiamo dormito, ci metterebbe sotto consiglio di guerra, — disse il contino Quaglia.
Minucci si strinse nelle spalle. — Per quello che c’è da fare!... La zia Eleonora è una visionaria.... A badare a lei, qui dovrebbe essere un continuo scassinare armadi, trafugar carte, e che so io ancora... Quasi quasi si correrebbe il pericolo di essere assaliti per le stanze.
— Sciocchezze! A proposito, l’hai vista la terribile Giuseppina?
— Come l’hai vista tu. Da lontano, dalla soglia, poichè confesso che l’entrar nella camera non mi seduce.... Ci fui ieri appena arrivato, e sarà stata [289] un’idea mia, ma mi parve che lo zio Achille mi facesse certi occhiacci.
— Neppur io ci vado volentieri nella camera, — soggiunse Quaglia. — Ma la donna è bella, sai.
— È parso anche a me.... Briccone d’uno zio!... Ma adesso, poveretto, anche per lui è finita.... Potrebbe, tutt’al più, durar così qualche mese.
— Non è probabile.... E non è neanche da augurarglielo.
In quel punto, Battista, il servo che aveva vegliato fino allora presso il padrone, passò pel salotto ove si trovavano i due giovani.
— E come va? — essi gli chiesero.
Battista tentennò la testa. — Male.... Da mezzanotte in poi è stato d’un’inquietudine!... E non si può capir che cosa voglia.... È una pena....
Era giorno fatto e Battista aperse le imposte e spense i lumi. Poi disse officiosamente: — Di qui a cinque minuti porterò loro il caffè.
E uscì dissimulando con fine arte diplomatica la noia che gli dava in un momento simile la presenza di sei ospiti in casa.
1 due giovani s’affacciarono alla finestra. Non s’erano più visti dopo il Carnovalone di Milano, che Minucci aveva passato presso i suoi parenti Quaglia, e adesso, trovandosi insieme così inopinatamente, evocavano i ricordi di quei giorni di baldoria.
— Ti rammenti dell’ultimo veglione alla Scala?
— E delle cene in buona compagnia al Rebecchino?
— A proposito, con la Vittoria ti trovi spesso?
[290]
— Non è più a Milano.... Ha seguito Angioletti che è di guarnigione a Napoli.
Battista ricomparve col caffè.
Era vero. Dalla mezzanotte, anzi da prima di mezzanotte, una strana inquietudine s’era impadronita del cavaliere Achille. Moveva continuamente le labbra senza poter mettere che suoni inarticolati, moveva il braccio smaniando, fissava gli occhi sulla Giuseppina con un certo sguardo supplichevole come a dirle: — Indovinami.
Povera Giuseppina! Che non avrebbe fatto per indovinarlo? Gli raccomodava i guanciali sotto la testa, gli porgeva da bere, e alle sue mute richieste rispondeva con altre interrogazioni: — Vuol questo? Vuol quello? — No, non c’era verso di coglier nel segno. A volte ella dimenticava i rispetti umani, non si curava della cuoca e di Battista ch’erano lì davanti, e gli dava del tu e non lo chiamava più signor Achille, ma lo chiamava Achille com’egli voleva esser chiamato da lei. — Achille, dimmi che cosa vuoi, dillo alla tua Giuseppina.
Nel vederlo ridotto così, le salivano le lacrime agli occhi, ma le ratteneva, ma si sforzava di sorridergli, di mostrargli una fisonomia ilare, confidente, piena di speranza.
Era sua da tre anni; però non aveva cominciato ad amarlo davvero che dopo qualche tempo. Sulle [291] prime aveva ceduto a lui come una ragazza povera, cresciuta in un ambiente poco scrupoloso, cede a un uomo ricco che le assicura la pace, l’agiatezza, il modo di giovare alla famiglia. L’aveva amato più tardi quando s’era accorta che egli non la trattava con l’aria sprezzante con cui gli uomini trattano le donne di cui fanno lo strumento dei loro piaceri. L’aveva amato senza sognarsi nemmeno ch’egli potesse sposarla, godendo del presente come d’un bene superiore ai suoi meriti, mettendo il suo orgoglio, la sua dignità nel prevenire ogni desiderio di lui, nel rallegrargli col suo sorriso la vita. E anch’egli le si era affezionato a grado a grado. In principio era stata per esso uno svago e nulla più, poi aveva compreso ch’ella era molto dissimile da tante altre; aveva sentito, egli scapolo impenitente, che questa donna piena di abnegazione e di tenerezza riempiva un vuoto nella sua esistenza, che senza imporgli i legami, a suo modo di vedere, intollerabili del matrimonio, ella lo salvava dalla prosa delle tresche volgari. Le aveva ammobigliato un quartierino di poche stanze e veniva a passar qualche ora ogni giorno in quel nido tranquillo ov’ella, pure uscita dal popolo, spargeva un profumo d’eleganza e di distinzione nativa.
Misantropo per indole, disgustato de’ suoi parenti, e, quantunque nè sciocco nè ignorante, privo di ambizioni letterarie, scientifiche, politiche, il cavaliere Achille non istava volentieri che con la Giuseppina e con pochi amici. Ma nemmeno coi pochi amici egli usava discorrere de’ suoi amori, e poichè la Giuseppina aveva un uguale riserbo, si può dire che questa relazione rimaneva avvolta in un’ombra discreta.
Quella che la sapeva più lunga sull’argomento era [292] la cagnetta Bibì, ordinaria compagna del padrone nelle sue passeggiate, ma Bibì si limitava a far le sue confidenze ad altri individui della razza canina.
Comunque sia, in quell’istante supremo una cosa era certa. La persona, che al cavaliere Achille pesava di più di lasciar sulla terra, era la Giuseppina; e la Giuseppina era quella che sentiva più acerbo lo strazio della sua morte.
— Buon giorno, buon giorno — disse il dottor Gelsi entrando in camera col suo solito dondolamento di testa. — Si fece far dalla Giuseppina un rapporto particolareggiato della notte, ordinò che si aprissero meglio le imposte per aver più luce e poi si accinse a un esame minuzioso dell’infermo, di cui lo colpì la singolare eccitazione nervosa. — Sarà un affare serio dopo — egli pensò in cuor suo.
— Ah, se potesse indovinar lei ciò ch’egli vuole! — sospirò la Giuseppina, affranta da tanti tentativi inutili.
Dopo essercisi provato e riprovato senz’alcun frutto, il dottore allargò le braccia col gesto di chi si dà per vinto. — Scriverò la ricetta per un calmante.
E s’avviò verso il tavolino.
Ma la Giuseppina lo trattenne chiamandolo con voce soffocata: — Dottore, dottore.
— Che c’è?
— Guardi.
[293]
Gli occhi del malato s’erano dilatati nell’orbita, il suo braccio si moveva rapido da destra a sinistra, da sinistra a destra.
Il medico fece un gesto interrogativo.
La Giuseppina soggiunse: — Lo sguardo ha assunto quell’espressione, il movimento del braccio si è fatto così insistente quand’ella disse che avrebbe scritto una ricetta.
Gelsi si picchiò la fronte. — Scrivere!... Che sia questo ciò ch’egli vuole?... Non gli si era domandato?
— No, no.
— Presto allora... Non perdiamoci in chiacchiere.... Pur che sia in grado di scrivere!... Col lapis forse sarà meno difficile.
Si trovò sul tavolino un quinterno di carta da lettere; il lapis lo diede il dottore.
Il cavaliere Achille seguiva con impazienza angosciosa questi preparativi. La fissità della pupilla, la tensione dei muscoli tradivano in lui lo sforzo della mente e della volontà. Quando il lapis fu posto tra le sue dita, quando il quinterno di carta fu dalla Giuseppina collocato in modo ch’egli potesse scriverci, egli vi tracciò faticosamente alcuni segni, poi lasciò ricader la mano spossata sulle coperte.
— Dunque? — chiese il dottore allorchè la giovine, obbedendo a un cenno dell’infermo, ebbe preso il foglio.
Sulle prime quei geroglifici riuscirono incomprensibili alla Giuseppina, ma, avvicinatasi alla finestra, le linee confuse, aggrovigliate si riordinarono come per incanto sotto i suoi occhi e le permisero di leggere due parole. Quali parole fossero ella non disse; piegò il foglio e lo nascose in seno, si precipitò sul [294] letto del moribondo, ne afferrò la mano e la coperse di baci e di lacrime. Bibì, sentendola piangere, venne a fregarsele attorno mugolando sommessamente.
In quel punto s’affacciò sul limitare dell’uscio la baronessa Eleonora la quale aveva ordinato che la chiamassero al giungere del medico. Era in vestaglia, molto impreparata, in quelle condizioni nelle quali i nipoti non avrebbero voluto vederla.
Gelsi le si fece incontro e le parlò piano. La Giuseppina s’era ricomposta, senza però allontanarsi dal letto; un istinto sicuro l’avvertiva che quello era il solo asilo inviolabile per lei, e che nonostante la protezione di Raimondi, l’indulgenza del medico, la simpatia della servitù, se si moveva dal suo posto non avrebbe più potuto tornarvi.
S’intese la voce della baronessa. — Come? Ha scritto e non è lecito saper che cosa ha scritto?
— Oh — rispose il medico — per quello che può aver scritto!... Ha fatto pochi segni confusi.... Del resto diede egli stesso la carta a.... quella giovine....
— Quella giovine ne capì il senso.... Doveva comunicarlo....
— Perdoni.... Secondo i casi.... In ogni modo....
E l’onesto dottore, animato da uno spirito conciliativo, si accostò alla Giuseppina.
Ma ella, che aveva côlto una parte della conversazione era già sulle difese.
— Quella carta?... No, dottore.... non la dò a nessuno.... Le giuro per quanto ho di più caro che non c’è nulla che possa interessar nessuno.... altri che me....
E cedendo all’affanno che la soverchiava, continuò: — Dio mio, Dio mio.... Mi lascino stare.... che [295] male faccio?... Per che ragione credono ch’io sia qui?... Ho delle colpe, ho dei peccati tanti.... ma questi sospetti non li merito.... Oh se quel poveretto potesse parlare!... Mi difenda lei, dottore, lei ch’è buono....
Gelsi le fece segno di quietarsi, di tacere, e si accinse a calmar gli spiriti belligeri della baronessa. Vedeva bene che non era lecito insistere.... non c’era stata frode, non c’era stato artifizio, non c’era stata violenza.... egli n’era buon testimonio, e il foglio si trovava in possesso della signora.... di quella giovine, per manifesto desiderio del cavaliere Achille.... S’era un segreto ch’ella voleva custodire nessuno aveva il diritto di strapparglielo.... Egli l’intendeva perfettamente, certe cose urtavano la suscettività della baronessa;.... ma come si fa?... A questo mondo bisogna tante volte sacrificarsi per evitar guai maggiori.... e in un momento simile....
La savia perorazione fu troncata da un gesto dell’infermiere.
Le condizioni del malato peggioravano di minuto in minuto. Al grande eccitamento di prima succedeva una grande prostrazione di forze, e i polsi declinavano rapidamente. Ciò era stato previsto fino a un certo punto dal dottore Gelsi; tuttavia egli supponeva la reazione meno subitanea, meno precipitosa. Così pure non illudendosi sull’esito finale, egli non aveva creduto a una catastrofe imminente. Adesso invece si presentavano sintomi tali da giustificare i più gravi pronostici, e il medico, dopo aver fatto tutto ciò che la sua arte gli suggeriva, stimò suo dovere di metter sull’avviso la baronessa Eleonora e gli altri parenti ch’erano alzati.
[296]
La Giuseppina non aveva bisogno d’essere avvertita da alcuno. Ella vedeva, ella sentiva spegnersi a oncia a oncia quella cara vita per la quale avrebbe dato con entusiasmo la vita propria.
E di nuovo quella sera, come la sera addietro, l’intera famiglia era raccolta in salotto. D’estranei non c’era nessuno; oltre ai Rudeni, ai Quaglia, ai Minucci non c’era che il cugino Raimondi. Il dottor Gelsi, dopo una visita fatta alle sette, aveva promesso di tornare fra le dieci e le undici quantunque, pur troppo, l’opera sua fosse inutile; il cavaliere Achille non avrebbe passata la notte.
Un attacco di nervi avuto nella mattina aveva prostrato le forze della baronessa Eleonora. Ella aveva rinunziato alla lotta, e distesa su una poltrona e con una boccetta di sali sotto il naso, si contentava di gemere sul proprio destino e di querelarsi dell’immoralità di certe relazioni che turbano persino la santità dei lari domestici. Nondimeno, anche nella sua anima frivola ed egoista, vibrava di tratto in tratto qualche nota sincera di dolore. Pensava alla sua vecchia casa di cui fra poche ore non sarebbe sopravvissuta che lei. Morti i genitori, morte le sorelle, moribondo questo fratello nel pieno vigore degli anni. E lui, se lo ricordava fanciullo, biondo, ricciuto, accarezzato da tutti, alquanto selvatico forse ma ragionevole e buono. Perchè s’erano amati così tepidamente, [297] perchè negli ultimi tempi s’eran visti così poco? Di chi era la colpa? Eppure, ella non poteva negarlo, in due o tre occasioni quando s’era ricorso a lui per uscir dagl’impicci nei quali il maledetto vizio del giuoco di Borsa aveva messo il barone James, egli aveva aperto il suo scrigno senza farsi troppo pregare. È vero che, dando il danaro, protestava di non voler immischiarsi in nient’altro. Non voleva ricever confidenze, non voleva che gli domandassero consigli, schivava gl’incontri e non incoraggiava le visite.... Ma già teneva l’identico sistema con tutti i parenti.... Possibile a ogni modo che avesse lasciato un testamento per spogliare la sorella, i nipoti, il suo sangue insomma?
Mentre la baronessa Eleonora piagnucolava sommessamente, gli uomini tacevano. Darling movendosi sotto la tavola faceva ogni tanto tintinnare i sonaglini del suo collare d’ottone.
L’incidente della mattina era stato, durante la giornata, esaminato sotto tutti gli aspetti. Non c’era più nulla da dire e non c’era nessuna disposizione da prendere. Quali pur fossero le due o tre parole scritte dal cavaliere e da lui consegnate a Giuseppina, era chiaro ch’esse non potevano avere un valore legale. Potevano contenere un’indicazione, un nome; chi sa? S’era cosa importante la Giuseppina avrebbe cercato di servirsene, e allora si sarebbe visto quel che si doveva fare.
Fin dalle prime ore del pomeriggio il malato aveva perduto ogni conoscenza. Non apriva gli occhi che a lunghi intervalli, e quegli occhi erano vitrei, immobili; solo la Giuseppina s’illudeva ch’egli la ravvisasse ancora. Ormai anche il braccio destro giaceva [298] inerte, la mano umida d’un freddo sudore non rispondeva più alle strette della gentile mano di donna che tentava scaldarla.
Dinanzi a quel corpo che s’irrigidiva a poco a poco nella sinistra fissità della morte la Giuseppina sembrava una statua. Non vedeva che lui, non sentiva che lui. S’accorgeva appena delle persone che entravano ed uscivano dalla stanza; le era apparsa come in un sogno una nera tonaca di prete, come in un sogno l’era giunto all’orecchio un mormorìo di preghiere ch’ella, macchinalmente, aveva accompagnato con parole salite al labbro dal fondo della memoria. Poi l’apparizione era svanita; era venuto di nuovo il medico per andarsene via senza ordinar nulla. Adesso (da quanto tempo? la Giuseppina non lo sapeva) il silenzio della camera non era rotto che da un rantolo affannoso.... Ah, finchè quel rantolo durava, il posto della Giuseppina era lì, sempre lì.
Al tocco dopo mezzanotte il rantolo cessò. La testa del moribondo si scosse per ricader sul guanciale.
— È finito, — disse l’infermiere.
Finito?... Ma allora?... Allora era finito anche per lei.... Ella non poteva più rimanere.
Raccolse le sue forze, represse i suoi gemiti, si alzò in piedi, baciò la fronte del morto, baciò gli occhi, baciò la bocca, ahi tante volte baciata, e prima che altri la cacciasse dalla camera e dalla casa, si dileguò inavvertita per l’uscio dello spogliatoio da cui era entrata circa quarantott’ore innanzi, appena saputa la malattia improvvisa del cavaliere Achille.
[299]
Due giorni dopo, i Quaglia, i Minucci e il barone James Rudeni, pacatamente e decorosamente afflitti, accompagnarono fino al cimitero la salma del loro amato congiunto, nè occorreva essere profondi psicologhi per legger loro in viso sotto il lutto ufficiale dei parenti la soddisfazione intima degli eredi. Il cugino Raimondi, l’ottimo cugino Raimondi, s’era apposto al vero. Il cavaliere Achille non aveva lasciato testamento; nei suoi cassetti frugati con la massima diligenza non s’era trovata neanche una riga che accennasse a disposizioni prese pel caso di morte. D’altra parte nessuno s’era fatto innanzi a vantar diritti, e per conseguenza la sostanza del defunto stimata quasi un milione andava divisa in tre parti tra la baronessa Rudeni, come sorella, e i due giovani Minucci e Quaglia, come figli di sorelle premorte. Era proprio il meglio che potesse succedere. Perchè dato un testamento, anche a favore della sorella e dei nipoti, ci sarebbero state certo delle prelevazioni da fare per legati, per beneficenze, ecc. Così invece non c’era nulla di obbligatorio e dell’elargizioni che si fossero fatte avrebbero avuto lode soltanto gli eredi. Ed eran preparati a farne in congrua misura e la sera stessa sarebbe comparsa ne’ fogli cittadini una bella lista d’offerte. Ma sicuro, bisognava onorar la memoria del caro estinto, bisognava mostrarsi generosi coi poveri. La maggior compiacenza che dà [300] la ricchezza è quella di giovare ai diseredati dalla fortuna. Quei signori erano pieni di nobili sentimenti. Il barone James, prendendo il braccio dell’ottimo cugino Raimondi, gli aveva detto, in nome proprio e dell’Eleonora rimasta a casa indisposta, che si sarebbe domandato consiglio a lui su quel che si doveva fare per la servitù. Gente così affezionata al padrone! Gente che lo aveva assistito in quel modo! Non c’è dubbio che il povero Achille, se avesse avuto tempo da far testamento, se ne sarebbe ricordato. Ma! Come si muore! Oggi si è sani come pesci, domani.... patatrac.
E i giovani Minucci e Quaglia avevano anch’essi tirato in disparte il cugino Raimondi per sentire da lui in quali condizioni restava quella ragazza.... quella Giuseppina.... In quanto a loro.... seppur la zia non voleva saperne.... non sarebbero stati alieni.... per una volta tanto.... dal fare un sacrificio di qualche migliaio di lire.... s’intende che ciò non doveva costituire un precedente.... la ragazza non aveva diritti da accampare, s’intende.... era così per un impulso spontaneo.... In somma Raimondi aveva capito le loro idee; si regolasse da quell’uomo cauto e savio ch’egli era.
Raimondi aveva lasciato dire per creanza, ma poi aveva dichiarato che la Giuseppina sarebbe morta di fame prima d’accettare un centesimo, che la proposta l’avrebbe offesa, ch’egli non avrebbe certo osato di fargliela.
E i due cugini s’erano guardati dall’insistere, contentandosi di esternare la loro ammirazione pel disinteresse che si riscontra talvolta dove meno si supporrebbe. A ogni modo si sarebbe potuto discorrerne di nuovo dopo la cerimonia.
[301]
All’ultimo momento l’avvocato Rizzoli pronunziò brevi ed acconcie parole in nome dei congiunti troppo turbati da compiere essi quest’ufficio pietoso; un altro signore aggiunse un saluto per parte degli amici, e la bara fu calata nella fossa. Allora, sul triste margine, risuonò un ululato di cane. Era Bibì. O come mai era capitata in cimitero? In che barca s’era nascosta? L’allontanarono a forza, volevano prenderla, ma essa sguisciò via fra le tombe. Sul tumulo si deposero parecchie corone, fra cui tre splendidissime delle famiglie Quaglia, Minucci e Rudeni. Poi altre strette di mano, altri sospiri e condoglianze e ringraziamenti, e il corteggio si sciolse.
— Caro Raimondi, — disse il barone James, quando fu presso alla riva del cimitero, — se avete moneta spicciola date un soldo a quel povero vecchio che tiene la gondola..... Io non ho più rame in tasca.
················
La Giuseppina era venuta prima di tutti e aveva aspettato pazientemente in un’altra parte dell’ampio recinto. Se si fosse unita all’accompagnamento funebre l’avrebbero frustata come Bibì; ma già ella stessa non voleva unirsi a nessuno, voleva esser sola a pregare ed a piangere. S’inginocchiò sulla terra appena smossa, tolse di sotto alla mantiglia una semplice ghirlanda di semprevivi e la collocò fra quelle ghirlande sfarzose dai lunghi nastri di seta nera con ricami d’argento.... E pianse, e pianse, e pianse. E pregò pace a lui ch’era stato così buono, a lui che poche ore innanzi di morire aveva con la mano tremante scritto quelle due parole adorabili: Giuseppina mia. Perchè il misterioso foglio che aveva tanto sgomentato i parenti non conteneva di più.
[302]
Ed era questa l’eredità di Giuseppina.
Non l’unica però.
Ella credeva di esser sola e non era. Accanto a lei Bibì raspava la terra e guaiva. — O Bibì, povera Bibì! — esclamò la Giuseppina. — Tu gli volevi bene.
Se la prese in grembo e la portò via seco.
[303]
Era la vigilia di Natale più fredda che si ricordasse da gran tempo in Venezia. Da tre o quattr’ore nevicava senza tregua, una neve fitta, sottile, che messa in giro vorticoso da un vento gelato batteva con un suono metallico sui muri delle case e sui vetri delle finestre.
Grave, impettito, solenne, col capo coperto da un berretto gallonato, le mani strette in un paio di guanti di pelle di dante, e la maestosa persona chiusa in un lungo soprabito dai bottoni d’argento, il signor Barnaba, il guardaportone della nobile famiglia Costi, passeggiava su e giù per l’ampia entratura del palazzo, illuminata da un gran fanale a gaz che pendeva dall’alto. Di tratto in tratto si suonava alla porta della riva. Allora un gondoliere andava ad aprire, ed il signor Barnaba, senza perder nulla della sua gravità diplomatica, moveva incontro [304] ai nuovi arrivati, faceva loro un inchino silenzioso, e li accompagnava fino allo scalone di cui s’affrettava a richiudere l’uscio a vetri appena essi avessero posto il piede sul primo gradino. Qualcheduno veniva anche dalla parte di terra, ma erano persone di minor conto, almeno agli occhi del signor Barnaba, uomo incapace, sebbene spesso radicale in politica, di accordar la sua stima a della gente la quale non aveva gondola propria o non prendeva una gondola a nolo con una serata simile. E la faccia diplomatica dell’eminente funzionario si atteggiava a un sorrisetto ironico mentr’egli aiutava quei disgraziati a scuotersi di dosso la neve e riceveva l’ombrello dalle loro mani intirizzite.
— Che tempo, caro Barnaba, che tempo d’inferno! — esclamavano i poveri diavoli fatti espansivi dalla consolazione di trovarsi finalmente al coperto e dalla dolce prospettiva del pranzo che li aspettava.
— Brutte feste di Natale, — soggiungeva il signor Barnaba con la sua voce di basso profondo. — Peccato!
— E l’ombrello non serve a nulla.
— Già, col vento.
— In gondola dev’esser peggio ancora.
Nonostante quest’asserzione di quelli che venivano a piedi, la maggior parte degli invitati venivano in gondola. Del resto, non erano mica molte persone, una ventina al più. Si capisce che per la vigilia di Natale non si potevano invitare a pranzo che i parenti e quelli tra gli amici intimi che non avevano famiglia.
Dallo spiraglio dell’uscio della portineria una fanciulla di undici o dodici anni, magra, pallida, freddolosa, [305] assisteva non vista al passar della gente, guardava con ammirazione quelle belle signore incappucciate (almeno ella se le figurava belle), quei signori avvolti nelle morbide pelliccie, quei bimbi e quelle bimbe (oh quelle bimbe sopratutto) così ben coperte, così ben vestite, con quei mantellini dalle tinte gaie come doveva esser la loro vita, come doveva esser la loro anima. E quand’esse erano scomparse a’ suoi occhi ella le seguiva con la fantasia; le seguiva su per lo scalone, nelle sale tiepide, dinanzi alla tavola scintillante di lumi, di cristalli, d’argenteria, dinanzi all’albero di Natale carico di tanti regali preparati apposta per loro.... O perchè ci dovevano esser dei bimbi così felici e degli altri invece che stentavano il pane e non avevano da aspettarsi che i rimbrotti e le busse?
Dopo le sette non venne più nessuno e il signor Barnaba poteva ripromettersi qualche ora di quiete e riposare alquanto dalle sue gravi fatiche. Rientrato in portineria, egli non era più l’uomo dalla faccia decorosamente ossequiosa che i padroni e i visitatori erano avvezzi a vedere; come per incanto la sua fronte s’aggrinziva, le sue sopracciglia si corrugavano, le sue labbra prendevano un’espressione amara e disgustata, e la sua voce di basso profondo acquistava delle note stridule ed aspre. Gli è che il signor Barnaba, intimamente convinto che la società [306] non rendesse giustizia ai suoi meriti, accumulava nella giornata una buona dose di fiele, ch’egli poi distribuiva in equa misura tra quelli che avevano la fortuna di avvicinarlo nell’intimità. Non che fosse proprio cattivo il signor Barnaba, ma era un povero cervello in cui le più matte idee cozzavano insieme. A volte pareva più aristocratico d’un Montmorency, a volte, specie dopo la lettura dei giornali, diventava giacobino e comunardo. In tutt’e due queste fasi, sua moglie, la mite e timida siora Marianna, aveva le sue grandi tribolazioni. Perchè quando suo marito faceva il demagogo ella temeva che le pazze sfuriate di lui arrivassero all’orecchio dei padroni; quando invece egli s’atteggiava a conservatore, a persona rispettosa delle regole gerarchiche, ell’era sicura ch’egli avrebbe finito col trovar l’equilibrio del suo spirito applicando una sua massima favorita: — La subordinazione è giusta, ma bisogna rifarsi sui più deboli delle umiliazioni che ci tocca subir dai più forti.
E il signor Barnaba si rifaceva particolarmente sulla moglie e sulla Ninetta, ch’era quella bimba di cui abbiamo parlato prima. La Ninetta non era nè figlia nè parente del signor Barnaba e della siora Marianna: era una povera orfana, la quale veniva di mattina e di sera a prestar dei piccoli servigi in portineria, ricevendone in compenso la colazione e il desinare ch’ella portava nel suo tugurio e divideva con uno zio, abile operaio, ma giuocatore e beone, il quale l’avrebbe cacciata di casa s’ella gli si fosse presentata davanti con le mani vuote. Non era una vita allegra quella della Ninetta, palleggiata fra la brutalità dello zio e la pedanteria meticolosa [307] e loquace del signor Barnaba, ma ell’aveva indole buona e tranquilla e sopportava la sua sorte disgraziata con infinita pazienza. Del resto, i suoi umili uffici al palazzo Costi, oltre ai vantaggi economici le procuravano anche qualche momento di svago. Già le tre camerette della portineria, sebben piccole e scure, erano una reggia al paragone di quella specie di magazzino umido ov’ella passava la notte. E poi c’era la distrazione della gente che veniva a far visita, dei barcaiuoli che apparecchiavano o sparecchiavano la gondola, dei padroni e delle padroncine che uscivano di casa o rientravano lasciando dietro di sè quel profumo acuto che hanno i signori, come la Ninetta soleva dire; senza tener conto delle volte in cui per risparmiar la fatica al signor Barnaba la bimba saliva lei stessa le scale e portava nel piano nobile un’imbasciata, un pacco, una lettera. Allora, se le riusciva di dare una capatina nelle stanze, ella ridiscendeva rossa rossa in viso con l’impressione di esser stata in un soggiorno di fate.
Quella sera il signor Barnaba era più bisbetico del consueto. Egli non sapeva capacitarsi che la vigilia di Natale un uomo suo pari, anzichè goder la sua piena libertà e banchettare gli amici, fosse costretto a misurar per lungo e per largo l’androne di un palazzo e ad aprir la porta a una ventina di [308] parassiti d’ogni età e sesso. Il mondo era proprio fatto male, e ci voleva una rivoluzione per rinnovarlo ab imis fundamentis. — Per fortuna il 1889 non è lontano e quello sarà un gran centenario.
La siora Marianna sbarrò tanto d’occhi, e il signor Barnaba soggiunse con disprezzo: — Ecco ciò che vuol dire non avere istruzione, non aver letto nulla.... E doveva toccare a me un’oca simile!.... Il 1889 è il centenario del 1789.... l’anno della grande Rivoluzione francese, quando s’è tagliata la testa ai re, ai nobili, ai preti....
— Zitto! — gridò la siora Marianna spaventata.
— Ma che zitto! — replicò il consorte. — Qui nessuno mi sente.... E se anche mi sentissero e volessero far i gradassi... sono un uomo capace di anticipar di qualche anno il centenario, io.... E il primo che deve pagarmela è il signor Schmaus, il mastro di casa.... quel tedesco petulante che cerca il pelo nell’uovo.
A questo punto, nello spirito del signor Barnaba accadde un’improvvisa reazione in senso conservativo, ed egli trovò che, quantunque ingiustamente, il signor Schmaus era suo superiore in ordine gerarchico e non aveva tutti i torti di voler rifarsi sopra di lui delle risciacquate di capo prese dai padroni. Ma, come il solito, l’indulgenza verso i superiori rese il signor Barnaba più aspro cogl’inferiori. Se il signor Schmaus si rifaceva sopra di lui, il signor Barnaba aveva ben il diritto di rifarsi su qualchedun altro.... — È come nelle fabbriche, — egli diceva fra sè con bella similitudine. — Le pietre che stanno in alto pesano sulle pietre che stanno abbasso. — In omaggio al quale principio, egli strapazzò [309] la moglie, strapazzò la Ninetta, e finalmente, guardando di punto in bianco l’orologio, ordinò alla fanciulla di fare un salto al chiosco più vicino per prendergli il Secolo che doveva essere arrivato.
La pietosa siora Marianna arrischiò un ma....
— Che c’è? — ruggì il signor Barnaba.
— Niente.... niente.... Però la Ninetta ha da andar presto a casa sua.... e con questa neve... farle fare una strada di più....
Il marito diede un pugno sulla tavola. — Ah vorrei vedere anche questa!... Per un po’ di neve.... Come se fossero sassi.... Via, signora delicatina.... si metta il suo scialle e non perda tempo.... Marsch!
La siora Marianna non fiatava più, ma guardava la Ninetta in un certo modo come a dire: — Abbi pazienza. È una bestia e non intende ragione.
E la Ninetta ubbidì in silenzio. Staccò da un chiodo lo scialletto di lana che le copriva appena le spalle, guardò con un sospiro le sue scarpe rattacconate, si fece dare un soldo dal signor Barnaba, aperse a fatica il portone e uscì in istrada. Nevicava sempre, nevicava fitto, e il vento s’ingolfava nella calle con un urlo lungo, sinistro, somigliante a un gemito umano. Mal difesa dalla sua vesticciuola leggera, la povera fanciulla sentiva il freddo penetrarle nell’ossa, e studiava il passo segnando una piccola orma sul candido lenzuolo steso per terra.
La distanza dal palazzo Costi al primo chiosco di giornali non era mica grande, ma quella sera, con quel tempo, con quelle vie solitarie, pareva alla Ninetta di dover percorrere un deserto immenso. Lungo tutta la via ella incontrò appena un paio di persone, imbacuccate nei loro cappotti, bianche e mute come [310] fantasmi; solo attraversando un Campielo chiamato Campielo dei morti (ce n’è più d’uno di questi Campieli in Venezia e il loro nome deriva dall’esservi stati secoli addietro in quei luoghi dei piccoli cimiteri) la ferì il miagolio lamentevole d’un gattino perduto in mezzo alla neve. Quando poi credeva di esser giunta alla meta, le toccò un’amara delusione. Il chiosco era chiuso, forse a cagione del tempo, forse a cagione della festa. Che partito prendere? Tornarsene indietro a mani vuote, o andare in cerca d’un altro chiosco a rischio di trovar chiuso anche quello? Però in quel punto ella sentì gridare in fondo alla strada: il Secolo, appena arrivato il Secolo. — Secolo, — ella gridò ripetutamente, correndo dietro al rivenditore. Ma questi non la intese o non le badò, nè a lei riuscì di raggiungerlo, finchè un passante impietosito che aveva la fortuna di possedere un vocione non ebbe tuonato due volte: — Ehi, del Secolo, siete sordo? — Il rivenditore si fermò con malagrazia, prese il soldo dalla mano della Ninetta, tirò fuori di sotto il soprabito un numero del giornale, e dopo averlo dato alla fanciulla si allontanò rapidamente ripetendo come un pappagallo: Appena arrivato il Secolo. Con molte notizie il Secolo.
La Ninetta rifece il cammino di prima senza trovar anima viva, senza udire una voce umana che rompesse il silenzio; bensì nel Campielo dei morti suonava ancora, ma più rauco, più flebile, il miagolìo del povero gattino smarrito, e una forma nera si dibatteva nella neve.
[311]
La siora Marianna aveva preparata una bella scodella di roba da mangiare per la Ninetta, l’aveva coperta con un piatto, ravvolta in un tovagliuolo e riposta entro un paniere, quando la bimba ricomparve in portineria col giornale.
— In che stato sei! — esclamò impietosita la donna.
— Gran che! — borbottò il signor Barnaba che si dondolava sopra un seggiolone di paglia presso il camino. — Per quattro fiocchi di neve! La bella educazione che mia moglie avrebbe dato ai suoi figliuoli se ne avesse avuti!... Gira di più la chiavetta del gaz, che non ci vedo a leggere, — soggiunse il maestoso guardaportone aprendo il Secolo. — Una fiamma sola! E piccola per giunta.... Questi padroni sono d’una taccagneria....
Mentre il signor Barnaba succhiava avidamente il miele del foglio lombardo, la siora Marianna parlava a bassa voce con la Ninetta.
— Mi fa pena che tu torni ad uscire con questo tempo.
— Non c’è rimedio....
— Se si potesse farti qui un letticciuolo provvisorio... per una notte.... Io credo che quell’orso, — e accennava a suo marito, — non ci troverebbe a ridire.... E neanche tuo zio....
— No, no, — rispose la bimba atterrita alla sola [312] idea di poter cedere alla tentazione. — Se mio zio non mi trova a casa quando torna lui, sto fresca.
La siora Marianna tentennò la testa. — Che peste questi uomini!
— Vado, — ripigliò la Ninetta, infilando il paniere nel braccio.
— Bevi almeno un sorso di vino, — insistè l’altra. — E gliene mescette un mezzo bicchiere.
Finalmente, togliendo dalle spalle della fanciulla lo scialletto tutto bagnato gliene prestò uno di suo, un po’ più grande e pesante. — Me lo riporterai domani.
— Auff! La terminerete con queste smorfie? — saltò su impazientito il signor Barnaba.
— Buona notte, buona notte, — disse la Ninetta. Ed uscì.
Uno dei barcaiuoli ch’era nell’entratura le aperse il portone di strada.
— E vai fino a Rialto?
— Sì.
— Bada che il vento non ti porti via.
No, il vento non la portava via, ma una tristezza invincibile le si addensava sull’anima mentr’ella per la terza volta s’inoltrava sulla via deserta. E di nuovo il suo pensiero correva involontariamente a quei bimbi eleganti e felici ch’ell’aveva visti entrare in palazzo e che adesso senza dubbio ridevano e saltavano davanti all’albero di Natale. Non era invidiosa per sua natura; era buona, tollerante, contenta di poco; i cattivi esempi non l’avevano ancora guastata.... Anzi la brutalità dello zio, brutalità cagionata specialmente dall’abuso dei liquori, le aveva inspirato il ribrezzo dell’intemperanza, la passione [313] della vita sobria e massaia; e d’altra parte il freddo egoismo del signor Barnaba ripugnava profondamente al suo cuore disposto alla simpatia. Quella sera però ella domandava a sè stessa se suo zio non avesse ragione di annegare i suoi affanni nell’acquavite, e se non avesse ragione il signor Barnaba di mettere in pratica a casa propria quella massima, da lui ripetuta dieci volte al giorno, che bisogna rifarsi su qualcheduno. Rifarsi?.... Ma ella, per esempio, su chi avrebbe potuto rifarsi? Chi c’era al mondo di più debole, di più derelitta di lei?
Mentr’ella faceva tra sè queste considerazioni, gli orologi cominciarono a batter le nove. Per solito a quell’ora ell’era già a casa, prima che suo zio fosse tornato dalla bettola; accendeva il lume, gettava un po’ di stipa nel focolare, e dopo aver preso un boccone per sè lasciava pel suo caro parente il buono e il meglio delle provvigioni portate seco dal palazzo. Una volta ella doveva anche aspettarlo alzata e l’aspettava realmente, cascante dal sonno o addormentata sulla sedia; poi l’era stata data licenza di coricarsi alle nove e mezzo, e ne approfittava con entusiasmo, evitando in tal modo di sentire, poichè chiudeva gli occhi appena messa la testa sul capezzale, le divagazioni stupide e le frasi sboccate dell’ubbriaco il quale finiva spesso col gettarsi attraverso la tavola e pigliar sonno così.
Comunque sia, quella sera la Ninetta era in ritardo e le conveniva affrettarsi.
Camminava con la testa bassa, rasente il muro, stringendosi addosso quanto più poteva lo scialle, raccomandandosi l’anima nel far gli scalini dei ponti, lasciando sfuggir un piccolo grido a ogni sdrucciolone [314] che dava, a ogni folata di vento che la investiva, a ogni falda di neve che accumulata sulle grondaie, sulle cornici, sugli sporti delle finestre, precipitava giù nella strada. Così arrivò a quel Campielo dei morti che aveva già passato due volte e che doveva ripassar nuovamente per recarsi a casa sua, e non potè a meno di volger l’occhio verso la parte da cui pochi minuti innanzi, veniva il lamento dell’infelice bestiuola implorante aiuto. Adesso non si udiva più nulla, ma lì accanto al muro, dove la Ninetta aveva visto agitarsi una forma nera, ella notò qualche cosa che si staccava ancora sul fondo candidissimo, e bench’ella non avesse tempo da perdere, una forza irresistibile la spinse verso quella cosa immobile, che (fors’era un’allucinazione della sua fantasia) la guardava con occhi fissi e vitrei. Non s’era ingannata.... Era il gattino di prima; freddo, irrigidito, morto.... Morto davvero?.... Per un momento lo credette tale; poi, chinandosi sopra di lui e toccandolo con mano paurosa, le parve che nello pupille dilatate balenasse un raggio di vita. E nelle sue fibre di fanciulla sorse un impeto di pietà e di tenerezza; e in petto le si svegliò subitaneo e imperioso quell’istinto gentile che fa della donna la protettrice naturale dei deboli e degli afflitti. Raccolse da terra l’animale agonizzante, lo avviluppò nelle pieghe del suo scialle e ripigliò il suo cammino. Non sentiva più il freddo, non s’accorgeva del vento che le scompigliava i capelli; angustiata soltanto dall’idea che il suo soccorso fosse giunto troppo tardi. Ah, non se lo sarebbe perdonato mai.
[315]
Arrivò a casa trafelata, col cuore che le batteva tumultuosamente; ma quando, aperta la porta di strada, vide tutto buio e capì che suo zio non c’era, fu sollevata da un grande incubo. Se c’era lui e s’ella si presentava al suo cospetto con quella strana compagnia, figuriamoci, egli era uomo capace di far fare alla bestia, morta o viva, un gran salto per la finestra. Volesse pure il cielo ch’egli rimanesse fuori per un pezzo! Ella trovò a tastoni i fiammiferi, accese un moccolo di sego, e depose delicatamente sulla tavola il suo prezioso fardello, incerta ancora se il calore ch’ella sentiva rinascere in quel corpicino fosse altro che il calore proprio, ch’ella gli aveva trasfuso tenendolo stretto alla sua persona. Ma il dubbio non durò molto. Lisciato, accarezzato, stropicciato in tutti i sensi, l’animale non tardò a dar segni manifesti di vita. Mosse la coda, stirò a una a una le zampe, aperse languidamente gli occhi, mise un lieve miagolìo; la risurrezione era compiuta. Oh che felicità fu quella per la Ninetta! E la parola felicità non ci meravigli. Quando mai le nostre gioie e i nostri dolori sono proporzionati alle cause da cui derivano? La fanciulla era in estasi davanti alla leggiadra bestiuola ch’ella aveva salvata. Era un gattino di cinque o sei mesi, dalle forme snelle, dal pelo nerissimo, fino, lucido, vellutato; senza dubbio, appena si fosse rimesso in forze, avrebbe avuto [316] tutte le grazie che i gattini giovani sogliono avere. Intanto si fregava intorno alla sua benefattrice e pareva mansueto e riconoscente. — Caro, caro, caro! — esclamava la Ninetta nel suo entusiasmo, baciandolo come un bambino. Lo fece partecipare alla sua piccola cena; poi, spogliatasi in furia, lo portò seco nel suo letticciuolo. Poverino! Aveva patito tanto freddo; era ben giusto che si riscaldasse.
Di fuori continuava a soffiare il vento e a cader la neve, e nella stanzuccia mal riparata giungevano i rumori sinistri della bufera; tuttavia la Ninetta non istette molto ad addormentarsi. E sognò. Sognò le belle bambine covate teneramente dagli occhi amorosi delle mamme e dei babbi, le belle bambine che aveva viste lievi e agili come farfalle ascendere lo scalone del palazzo; sognò d’essere una di loro e di trovarsi con loro dinanzi all’albero di Natale, abbarbagliata dallo scintillìo delle candele, dalla mostra dei balocchi che pendevano dai rami come frutti maturi. Quand’ecco un gemito lungo e pietoso salir dalla strada ove il tempo seguitava ad imperversare. Ed ella si staccava dall’ilare schiera delle sue compagne, lasciava il salotto tiepido e profumato, e correva attraverso una fila interminabile di stanze giù per un labirinto di scale senza poter mai metter capo a un’uscita.... Alla fine, si destò di soprassalto. Era nel suo letto, rannicchiata sotto le coperte; il gattino, rivolto a spira, faceva le fusa accanto a lei. La visione era svanita: solo una cosa restava vera; ell’aveva salvato un essere che soffriva, e questo pensiero le dava un’infinita dolcezza. — Bisogna rifarsi sui più deboli delle umiliazioni che ci tocca subir dai più [317] forti, — soleva ripetere il signor Barnaba. Ecco, s’era rifatta anche lei, ma a suo modo, un modo tanto diverso, e tanto migliore di quello che il signor Barnaba suggeriva.
Era la mezzanotte. Lo zio era tornato a casa e lo si sentiva russare in cucina. Dalle cento chiese della città l’allegro scampanìo del Natale portava una soave promessa a tutti i derelitti del mondo.
[318]
Battista, già ordinanza e adesso cameriere del colonnello Annibale Bedeschi, accese il lume, chiuse le imposte, tirò le tende, e poi, mettendosi in posizione militare dinanzi al padrone, gli domandò se doveva aggiungere dell’altra legna nella stufa.
— No, — rispose il colonnello, — non fa freddo. Andate pure.
Ma prima che l’altro richiudesse l’uscio dietro a sè gli fece una interrogazione. — La signorina?
Battista tentennò il capo con aria grave. — Oh, signor colonnello, la signorina è in gran faccende per quel dolce.... sa, quel dolce di cui trovò la ricetta nel libro.... Anzi ho paura che oggi il desinare non sarà pronto per l’ora solita.
— In causa del dolce?
— Appunto, signor colonnello.
[319]
— Che razza d’idea è saltata in mente alla Bice d’occuparsi di cucina? — esclamò Bedeschi. — Ditele che appena può venga da me.
— Appena può, appena può? — brontolò il colonnello quando Battista fu uscito. — Avrei soggezione di mia nipote? Mi sarei preso in casa un tiranno domestico?... Io che fui sempre uso a comandare a bacchetta, io che conducevo la mia famiglia come il mio reggimento?
Ebbe la tentazione di richiamare Battista e di mandare per suo mezzo un ordine perentorio alla ragazza, ma se ne pentì. In fin dei conti se la Bice faceva un dolce, questo non era un delitto, e se facendolo ella portava un piccolo ritardo nel pranzo, questa non era una sventura.... Era poi innegabile che la ragazza era un tiranno sui generis, pieno di grazia, di dolcezza e di buon umore, incapace di dire una parola sgarbata e di commettere una prepotenza. Senza di lei il colonnello sarebbe stato ben solo, ed egli avrebbe avuto torto marcio a lagnarsi d’averla accolta presso di sè quando all’uscir di collegio ella s’era trovata orfana di padre e di madre.... E in fondo non se ne lagnava, quantunque gli paresse di non esser sotto certi rispetti più quello d’una volta, dacchè c’era la Bice.
Le mani sprofondate nell’ampie saccoccie della vestaglia, la testa coperta da un berretto di seta nera sotto a cui spuntava qualche ciuffo di capelli che avevano acquistato da poco il coraggio del loro candore, il vecchio militare si mise a camminare su e giù per la stanza, trascinando alquanto la gamba sinistra ferita nel 1866 a Custoza. Era un uomo sulla sessantina, alto, con le spalle larghe, i baffi folti e [320] lunghi, lo sguardo franco e leale, ma un po’ duro e imperioso.
Dopo tre o quattro giri egli si riavvicinò alla tavola, e inforcate le lenti rilesse due telegrammi arrivati quel giorno stesso da’ suoi figliuoli Vittorio ed Augusto, militari tutti e due, il primo nell’esercito, il secondo nella marina. I telegrammi con gli auguri pel Natale venivano l’uno da Massaua, l’altro da Nuova York. Nientemeno.
Antico soldato dell’indipendenza italiana, non ritiratosi dal servizio che per motivi di salute, il colonnello Bedeschi aveva favorito, accarezzato la vocazione del suo primo e del suo secondogenito, e allorchè Vittorio aveva chiesto e ottenuto di andare in Africa e Augusto s’era imbarcato per un viaggio di circumnavigazione di circa tre anni, egli li aveva accommiatati con ciglio asciutto, dicendo loro soltanto: — Fate il vostro dovere, ragazzi.
Tuttavia quella sera, nel rileggere i due dispacci arrivati da due sì lontane e diverse parti del mondo, anch’egli, l’uomo forte ed austero, sentiva spuntarsi una lacrima. Non poteva a meno di rievocare il tempo in cui que’ suoi cari rallegravano il tetto domestico e scherzavano sulle ginocchia materne. Ahimè, ormai la madre era morta da un pezzo.... Involontariamente l’occhio del colonnello si posava sulla parete ove sotto i ritratti di Vittorio Emanuele, di Umberto, di Garibaldi, di Lamarmora, di Napoleone III, ecc., ecc., c’era un gruppo di fotografie di famiglia. La più antica e sbiadita era appunto quella di sua moglie, una donna esile, dall’aria stanca e sofferente. A fianco di lei Bedeschi in persona, in uniforme, con la sua medaglia al valor militare sul [321] petto, con la sua mano bravamente piantata sull’elsa della sciabola. Qualche linea più sotto l’effigie di tre giovinotti, Vittorio, Augusto, ed un terzo, minore di tutti.
Sicuro, c’era un terzo figliuolo, Federico, ed egli solo non s’era fatto vivo in quel giorno, e da Londra, dove si trovava, non aveva spedito nè una lettera, nè un dispaccio. Quando Bedeschi pensava a questo ragazzo ch’era stato il suo preferito egli si doleva di aver ceduto una volta tanto alle preghiere di sua moglie, la quale, impuntatasi nell’idea che Federico fosse di salute cagionevole, aveva, tra gemiti e singhiozzi, scongiurato il marito di non fargli abbracciar la carriera militare come i fratelli, e strappatagliene un giorno a malincuore la promessa, se l’era fatta rinnovare solennemente al letto di morte. Federico era quindi rimasto in casa, aveva frequentate le scuole pubbliche, ed era giunto senza gloria fino all’università. Non gli mancava nè cuore nè ingegno, ma aveva uno spirito indisciplinato, ripugnante a studi regolari, turbato piuttosto da vaghe inquietudini d’artista. Onde nel bel mezzo del corso di legge gli era saltato il ghiribizzo di darsi alla pittura, con grande sdegno del colonnello, il quale nè amava l’arte, nè credeva a questa vocazione improvvisa. N’eran seguite scene violente, per merito delle quali Federico aveva finito col non studiar nè pittura nè legge e col menare una vita oziosa e dissipata. Allora il padre gli aveva posto un dilemma. O mettersi in grado di prendere la laurea entro un anno, o partire subito per Londra, ove un antico compagno di cospirazioni del colonnello, arricchitosi nel commercio, impiegava volentieri dei giovani italiani [322] per mandarli, dopo un tirocinio più o meno lungo, presso le sue case filiali di San Francisco o di Sidney. Federico che della laurea non voleva saperne accettò la seconda proposta; meglio far il minatore in California o il pastore in Australia che incretinirsi su una scranna di giudice o assottigliare il cervello nei cavilli avvocateschi.
E partì con una cert’aria spavalda che il colonnello, cattivo psicologo, attribuì a perversità d’animo, mentre Federico, dal canto suo, risentiva profondamente l’affettata indifferenza del padre. Come avviene quando c’è un equivoco che non si chiarisce subito, la freddezza reciproca andò a mano a mano crescendo; padre e figliuolo si accusavano in silenzio di poco cuore e non si scambiavano che lettere brevi, fredde e insignificanti.
Frattanto entrò in casa la Bice portando nella dimora solitaria un nuovo alito di giovinezza, togliendole quell’aspetto triste e desolato ch’essa aveva nelle prime settimane dell’assenza di Federico. Senza volerlo, senza saperlo, la fanciulla nuoceva al cugino. Una frase dello zio lo mise in guardia. — Non parliamo di quello scapato. — egli le disse. — Ora sei tu che ne tieni il posto.
Tenere il posto di Federico? No, ciò non poteva, non doveva essere. Ed ella dichiarò allo zio che prima che accadesse una cosa simile sarebbe tornata in collegio, sicura di farvisi accettare dalla direttrice come assistente.
Alla lunga si calmò, ma fermando il proposito di esercitar tutta la propria influenza per sopire quel dissidio domestico. Pur non tardò ad accorgersi che l’impresa era ardua ed esigeva infinite cautele.
[323]
Non le fu difficile mettersi in relazione con Federico, avendola lo zio stesso incaricata talora di scrivergli in vece sua. E Federico le rispose in principio diffidente e guardingo, poi, via via, più sciolto ed espansivo. A lei rivelava la tristezza del suo esilio, l’acuta nostalgia da cui era sovente assalito, la sua ripugnanza ad allontanarsi ancora di più dall’Italia, la sua sfiducia assoluta di far buona prova nella mercatura. Ma soprattutto le discorreva dell’arte, ch’egli aveva ripreso ad amar con passione, che coltivava in segreto, e nella quale avrebbe potuto forse non esser degli ultimi se gli fosse stato permesso di dedicarvisi intero.
Il colonnello Bedeschi aveva tempra di despota, non d’inquisitore, e avrebbe stimato inferiore alla sua dignità lo spiar le corrispondenze della nipote. Delle lettere ch’ella riceveva da Federico egli sapeva quel tanto che a lei piaceva di dirgliene, ed è naturale ch’ella gliene presentasse un’edizione riveduta e corretta. Accennava alla condotta regolare del giovine, al desiderio ch’egli manifestava di riacquistare l’affetto e la stima del padre.... soggiungendo timidamente che a parer suo non c’era ragione di tenerlo più oltre in castigo a Londra, e meno che mai di spedirlo in capo al mondo.
La prima volta che la Bice toccò questo tasto, Bedeschi montò su tutte le furie. — O ch’ella pretendeva di dargli lezioni? Ella, una bambina, con quell’esperienza che aveva? Badasse ai casi suoi e non s’impicciasse di ciò che non la riguardava. Se Federico le scriveva delle sciocchezze, padrone; e padrona lei di rispondergliene altrettante, ma non venisse a far la saccente. Aveva capito?
[324]
La fanciulla non si smarrì d’animo per questo rabbuffo nè perdette di vista la sua meta. A ogni occasione opportuna ella tornava alla carica, sopportando in santa pace le sfuriate dello zio, il quale, in cuor suo, non si rammaricava troppo ch’ella difendesse il cugino. Ma il colonnello aveva riputazione d’uomo forte, d’uomo inflessibile, e certe riputazioni sono come un patrimonio da conservare. Bedeschi non voleva che si dicesse ch’egli s’infemminiva cogli anni. Accadeva poi un fatto curioso. Quantunque egli non osasse confessarlo a sè stesso, la Bice gli diventava più cara per la sua generosità nel prender le parti di Federico, e appunto col diventargli più cara gli rendeva meno sensibile la mancanza del figlio.
S’era sbagliata strada. La Bice lo riconobbe e mutò tattica. Da due o tre mesi ella non parlava di Federico che quand’era strettamente necessario il parlarne, pareva rassegnata non solo alla relegazione del cugino a Londra, ma anche alla sua partenza per Sidney o San Francisco.
— È frivola e obliosa come tutte le donne, — pensava il vecchio soldato. — Que’ suoi grandi ardori battaglieri sono sbolliti.
E non le sapeva grado della sua docilità. Era meno sicuro di aver ragione dacchè nessuno gli dava torto.
Ella intanto ne pesava le parole, ne scrutava i silenzi, i gesti, l’espressione della fisonomia, arrischiando di tratto in tratto con finta ingenuità una frase, una domanda, come un generale che spinge innanzi i suoi esploratori per esaminare il terreno.
— Se Federico deve lasciar l’Europa, — ella [325] disse una mattina, — suppongo che verrà prima a salutarci.
Bedeschi levò il capo con un movimento brusco. — Non so.... Forse.... Vedremo.... — E sentendo lo sguardo della nipote fisso sopra di lui, si alzò da sedere e uscì dalla stanza.
La corrispondenza fra i due cugini durava non interrotta e non vigilata. Federico tradiva spesso la sua impazienza, accusava la Bice di non spiegar sufficiente energia per agevolargli il ritorno in patria, dichiarava che assolutamente a Londra non ci poteva stare e che avrebbe finito col fare un colpo di testa.... Poi, nella medesima lettera, chiedeva scusa della sua petulanza e prometteva di seguire a occhi chiusi i consigli della sua savia cuginetta, ch’egli si ricordava in vestito da collegiale e che aveva giudizio da vendere a lui e a molti altri meglio di lui.
E la savia cuginetta gli aveva scritto un giorno con gravità di esperta diplomatica: — Un colpo di testa può anche esser necessario, ma bisogna saper scegliere il momento di farlo. Il momento lo sceglierò io.
— Eccomi, — disse la Bice comparendo nel salotto ove si trovava lo zio.
Egli gettò via il giornale L’Esercito che stava leggendo e si preparò a darle una risciacquata di capo pel suo lungo ritardo. Ma l’aspetto singolare in cui [326] ella gli si presentava gli strappò invece un sorriso dal labbro. E disse soltanto: — Finalmente!... E in quale arnese!
La ragazza aveva un lungo grembiale bianco che le scendeva dalle ascelle ai piedi, le maniche del vestito rimboccate fino ai gomiti, le mani e i polsi impiastricciati di farina, e teneva appunto le mani aperte e le braccia larghe, discoste dai fianchi, per non insudiciarsi di più. Aveva un po’ di farina anche sul viso e nei capelli.
— Eh, non ho terminato che adesso — ella rispose. — Sono in tenuta di fatica.
— Vada a mutarsi dunque.... presto.
— Vado.... ma che cosa voleva, zio, che mi ha fatto chiamare?
È vero. Che cosa voleva? Non se lo rammentava neppur lui.... Ah sì, voleva rimproverarla. E riprese: — Perder la giornata per fare un dolce. Vergogna!
— Fare e rifare, caro zio.... Senza dubbio, la ricetta era sbagliata.... Si figuri che se non ci mettevo un bicchier di latte di più veniva fuori qualcosa di duro come una palla di cannone....
— E ce l’hai aggiunto di tuo capo?
— Già.... La cuoca non vuole responsabilità. È un’impertinente. Sa quel che ha detto? “Mi perdoni, ma io non intendo immischiarmi ne’ suoi pasticci.„
— Ha ragione.... Ma non forzerai neanche me a mangiarlo il tuo pasticcio.
— Oh lo assaggerà almeno.... per poter suggerirmi le correzioni da farsi domani.
— Domani?
— Ma scusi, non eravamo d’accordo? Quella d’oggi [327] è una prova.... Domani poi che ci sono i veterani a pranzo.
La Bice chiamava così tre ufficiali in pensione, antichi commilitoni dello zio, il quale li invitava a desinare un paio di volte all’anno.
— Per i veterani — interruppe il colonnello — manderemo a prendere dall’offelliere un dolce che non sia duro come una palla di cannone.
La ragazza fece un segno di protesta.
— E a proposito — ripigliò Bedeschi — che ghiribizzo è stato quello di voler che invitassi i miei amici per domani e non per oggi?
— Volere? — disse la Bice con accento sommesso. — Ho pregato.... Mi pareva che la vigilia di Natale fosse meglio passarla in famiglia.
La fronte del colonnello si annuvolò. — Famiglia numerosa in verità — egli borbottò fra i denti.
— Ma! — sospirò la Bice.
— Vatti a vestire, va, — soggiunse lo zio.
Ella non si moveva.
— Che c’è adesso?
— Nulla.... Pensavo.
— A che cosa?
— Pensavo a tanti anni fa.... l’anno prima ch’io andassi in collegio, quando il Natale si festeggiò qui tutti uniti.... Che tavola allegra! C’erano il mio babbo e la mia mamma, c’era la zia, e Vittorio e Augusto, venuti in vacanza per una quindicina di giorni, e Federico.... Noi due eravamo i più giovani.... Egli faceva mille biricchinate e mi legò con la treccia alla spalliera della seggiola.... Oh mi par ieri.... E ora gli uni son morti, gli altri dispersi pel mondo.
Si voltò commossa, con le pupille umide.
[328]
Lo zio, infastidito, le diede sulla voce. — Per carità, non mi far piagnistei. I morti lasciamoli in pace, e quanto a quelli che sono dispersi, due calcolo che siano con noi; il terzo, il tuo carissimo Federico, è meglio dimenticarlo com’egli dimentica.
Ella fu in procinto di mettergli la mano sulla bocca per farlo tacere. Ma si ricordò ch’era tutta infarinata e si trattenne in tempo, sorridendo in mezzo alle lacrime: — Non le dica neanche per ischerzo queste cose. Se Federico non ha ancora scritto, questo non significa che abbia dimenticato.... Giurerei che la lettera è in viaggio.
Il colonnello fece una spallucciata. — Del resto, peggio per lui. A me non importa proprio niente.
Balzò in piedi e ripetè alla nipote: — Vatti a vestire. A meno che oggi non si debba rinunziare al pranzo....
La ragazza guardò l’orologio. — Pel pranzo ci vorrà un’oretta.... o un’oretta e un quarto.... secondo il punto in cui sarà il dolce.
— Insomma, Bice, — saltò su lo zio aggrottando le ciglia, — ogni bel gioco dura poco.... Vada e torni vestita entro venti minuti, e quando torna, a qualunque punto sia il dolce, disponga perchè portino subito in tavola.... Marsch.
— Oh, — esclamò il colonnello appena rimasto solo. — È indispensabile di por ordine a questa faccenda. Colei con le sue smorfiette ottiene sempre quello che vuole.
Il peggio si è ch’ella lo faceva diventar patetico, sentimentale, lui, il colonnello Bedeschi! Non aveva dovuto rasciugarsi gli occhi, quella sera stessa, nel guardare le fotografie di famiglia? Non era stato [329] lì lì per commoversi quando la Bice aveva evocato la memoria di quel Natale lontano? Non si crucciava fuori di luogo e di modo perchè quel caposcarico del figliuolo minore tardava a mandare gli auguri per le feste? Non soffriva all’assenza di questo ragazzo più assai che non volesse ammettere di soffrire? Non vedeva con un certo sgomento avvicinarsi il tempo nel quale Federico avrebbe dovuto andare di là dall’oceano? Non c’erano dei momenti in cui gli sarebbe venuta una gran tentazione di richiamarlo?
No, così non poteva durare. Il colonnello aveva bisogno di ricuperar la stoica impassibilità d’una volta, anche a costo di allontanar da sè la nipote. Ell’aveva diciott’anni, era piacente, graziosa, possedeva un quarantamila lire di suo, altre ventimila gliene avrebbe date lui, non doveva esser difficile di trovarle un marito.... Trovarle marito, e poi rimaner solo, con Battista, l’ordinanza, e coi veterani per commensali nelle grandi solennità.... Che bella prospettiva! Tanto bella che il colonnello, nell’eccesso della gioia, diede sulla tavola un pugno così formidabile da far quasi cadere il lume. Indi se la prese col giornale L’Esercito che gli parve indegno di avere nemmeno un associato; stracciò in due pezzi il numero che aveva fra le mani e ne fece due pallottole che scagliò a due angoli della stanza. Dopo le quali gesta tirò fuori il suo cronometro per vedere se fossero trascorsi i venti minuti ch’egli aveva assegnati alla Bice per la sua toilette.
— Venti minuti giusti, nè uno di più nè uno di meno, — disse la giovinetta entrando proprio in quel punto. Ella vestiva un abito di lana celeste con guarnizioni di peluche, portava al collo un filo di [330] corallo, e buccole pur di corallo agli orecchi. Nei folti e lucidi capelli aveva intrecciato un nastrino di velluto rosso che ne faceva meglio spiccare il colore castano scuro e dava risalto ai suoi occhi bruni e vivaci. Del resto non aveva lineamenti regolarissimi, nè poteva dirsi bella nello stretto senso della parola, ma la persona agile e svelta e l’espressione della fisonomia dolce ed arguta ad un tempo la rendevano preferibile a molte vantate bellezze.
— Sfido un’altra a far così presto, — ella continuò avanzandosi verso lo zio, che, suo malgrado, era rimasto colpito dalla geniale apparizione. Ma egli era armato contro le seduzioni e rispose in tuono burbero: — Bene, bene.... E che necessità c’era di mettersi in fronzoli?... Tutte civette, le donne....
— Oh zio, mi son messa il vestito buono e i coralli che mi ha regalato lei il mese passato.... Dovevo lasciarli sempre chiusi in cassetto?
— Non dico questo.... Se ci fosse qualcheduno a pranzo.... Domani, per esempio....
— Oh, pegli estranei.... Se però esige che vada a mutarmi di nuovo...?
— Sì, per non finirla più.... Hai dato gli ordini in cucina?
— No, veramente.... Volevo darli adesso....
Bedeschi mise un’esclamazione poco parlamentare e tirò con violenza il campanello.
Si presentò Battista.
— Il pranzo è pronto? — chiese il colonnello con voce tuonante.
Il servo guardò la signorina.
— Non guardate la signorina, guardate me, e rispondete.
[331]
— Ma, — balbettò Battista. — Dev’esser pronto tutto.... tranne il dolce.... che la cuoca dice che non sarà pronto mai....
— Gelosia di mestiere, — rimbeccò la Bice.
— Se tutto è pronto, tranne quello che non sarà pronto mai, — ripigliò il colonnello, — scodellate la minestra immediatamente.
Battista voleva soggiungere qualcosa, ma la padroncina con un gesto di rassegnazione lo pregò di tacere.
Di lì a poco, nel salotto da pranzo bene riscaldato ed illuminato, zio e nipote sedevano a tavola l’uno di fronte all’altra e parevano entrambi in poco felici disposizioni d’umore. Lo zio trovava da ridire su tutte le pietanze, la nipote, d’ordinario chiacchierina e vivace, s’era ammutolita ad un tratto, e in preda a una singolare inquietudine s’agitava sulla sedia, tendeva l’orecchio ai più lievi rumori, e alzava ogni tanto gli occhi verso la mostra d’un orologio.
La Bice arrossì come uno scolaro colto in fallo, e disse: — Osservavo ch’è molto tardi.
— Bella scoperta! Di chi la colpa?
In quel momento si sentì una scampanellata alla porta di strada; la Bice balzò fuori della stanza, e Battista, che quella sera serviva peggio del solito, rovesciò una bottiglia di vino sulla tovaglia.
— Imbecille! — urlò il padrone. E avrebbe aggiunto chi sa quali altri epiteti se non fosse stata la curiosità di saper chi era venuto.
— Andate di là, — egli ordinò al domestico che non se lo fece ripetere due volte, — e tornate subito a dirmi chi è.
[332]
Ma Battista non tornò subito. Tornò invece la Bice con una strana espressione nella fisonomia, e si fermò sulla soglia.
— Ebbene? Che cos’è successo? Siamo in un ospedale di pazzi? — chiese il colonnello.
— Oh zio, — rispose la ragazza. — Se mi fa quei visacci non ho coraggio....
— Finiamola.... Chi è venuto?
— È venuto.... un forastiero....
— Un forastiero.... Chi?....
La Bice esitava.
— Chi, in nome del cielo?
— Oh sa, faccio come nelle commedie, io.... Avanti, Federico.
E tirò a sè il battente dell’uscio, dietro a cui si trovava Federico in persona.
Si ha un bell’esser corazzati contro le debolezze umane, si ha un bel voler foggiarsi sul tipo inflessibile di Bruto primo e di Manlio, allorchè un figliuolo che si credeva di non rivedere per un gran pezzo vi compare dinanzi all’improvviso, e con uno sguardo più eloquente d’ogni parola vi chiede perdono de’ suoi trascorsi e ridomanda la sua parte di affetto e il suo posto al focolare domestico, è impossibile non cedere al bisogno di spalancargli le braccia. Il tempo delle riflessioni verrà, verrà forse il tempo di pentirsi dell’aver ceduto a questo primo movimento; intanto il cuore, sia pur di sorpresa, riporta una vittoria che non è mai senza conseguenze per l’avvenire.
Tutto ciò accadde al colonnello Bedeschi, il quale faceva inutili sforzi per nascondere la propria emozione, e girando intorno a questo figlio piovutogli [333] dall’Inghilterra e divorandolo con gli occhi, tradiva la sua sollecitudine con una sequela di domande: — Non sei mica malato, eh? — Non hai mica patito freddo per viaggio? — Sei stanco? — Hai ancora da pranzare?
E mentre Federico ch’era un florido giovinetto sui ventitrè anni gli rispondeva che stava benissimo, che s’era rifocillato a Verona, ma che nondimeno avrebbe preso volentieri una tazza di brodo, il colonnello scoteva il braccio della Bice.... — Via, perchè non ti muovi?... E dov’è quello stupido di Battista? O non c’è del brodo caldo in cucina?
— Ce n’è, ce n’è.... Ecco Battista con la zuppiera. È provvisto alla cena, alla camera, a tutto....
— Tu sapevi dunque?
— Naturalmente.
— E anche la servitù?
Battista evitava lo sguardo del padrone. Federico non alzava il naso dal piatto. La Bice sola, imperterrita, affrontava il fuoco.
— Anche la servitù. Da questa mattina.... L’avevo detto io.
— Ma perchè tanti sotterfugi?
— Ecco.... — principiò Federico al quale sembrava poco cavalleresco il non accorrere in aiuto a sua cugina.
Ma il padre lo interruppe. — Tu bada a mangiare. La Bice ha la lingua sciolta.
— Oh, — ripigliò questa, — mi spiccio in due parole. Se Federico scriveva a lei che non ne poteva più delle nebbie di Londra, che provava un bisogno imperioso di riscaldarsi al sole d’Italia, di rivedere la casa, la famiglia, insomma se le chiedeva [334] il permesso, lei non glielo avrebbe dato, e allora come si faceva a disubbidire?... Invece di scrivere a lei, Federico scriveva a me.... Non era un segreto la nostra corrispondenza....
— No, certo; però non mi sarei immaginato che ne usaste per cospirare. Alle corte, quel permesso che forse non avrei dato io, l’hai dato tu.
— Al momento opportuno ho incoraggiato Federico a perorar la sua causa in persona. Lo assicuravo che suo padre era un uomo severo, ma un cuore come ve ne son pochi....
— Basta, basta, — disse il colonnello. — È inutile dorare la pillola. — Indi rivolgendosi al figliuolo: — E il mio amico Giraldi, il tuo principale, è anche lui della congiura? Son sei o sette mesi che non mi manda una riga.
Federico estrasse del taccuino una lettera e la porse al padre.
— Oh! — disse questo. — Son due lettere, una dentro dell’altra.
— Leggi e vedrai.
Giraldi scriveva ad Annibale Bedeschi lodandosi della condotta e della intelligenza di Federico, ma soggiungendo che non gli pareva uomo nato pel commercio, e che, secondo lui, era molto meglio lasciargli studiar l’arte per la quale mostrava disposizioni singolari. In prova di che inchiudeva un biglietto del celebre Whitty, uno dei primi pittori di Londra, che aveva visto i disegni del giovine e ne traeva i più lieti pronostici per l’avvenire.
Il colonnello diede un’occhiata al biglietto in questione. — È in inglese! — egli esclamò. — O che che cosa devo capirci io?
[335]
Federico si offerse di tradurlo. Ma la Bice propose di rimetter le spiegazioni al domani. Erano tutti stanchi, e Federico in particolare cascava dal sonno.
— È vero, — assentì il colonnello. — Federico dovrebbe andarsene a letto.
A questo punto la Bice si picchiò la fronte con la mano. — E il mio dolce? Battista, fate il piacere di domandarne conto alla cuoca.
Il cugino mise un’esclamazione ammirativa. — Anche di pasticceria te ne intendi?
— Un poco.
— Uhm! — fece il colonnello.
Battista rientrò in salotto con aria contrita, e depose davanti al padrone un piatto che conteneva un oggetto informe.
— È questo il tuo dolce? — chiese ironicamente lo zio dopo alcuni vani tentativi di fenderne la crosta col coltello.
La Bice, mortificata, non riconosceva più l’opera sua. — Così me lo hanno ridotto?
Federico non potè trattenere una sonora risata.
— Hai torto di ridere, — disse la giovinetta. — Quella, vedi, è tutta malizia della cuoca, invidiosa de’ miei trionfi. Un’altra volta....
— Non c’è altra volta che tenga, — protestò il colonnello. — Basta una, ce n’è d’avanzo.
La Bice si strinse nelle spalle. — Il mio dolce avrà servito a ogni modo a far ritardare il pranzo. Se la corsa fosse arrivata in orario, Federico avrebbe desinato con noi, anzichè trovarci alle frutta.... E adesso....
— O che c’è ancora?... Non volevi che tuo cugino andasse a riposarsi?
[336]
— Sì, ma poichè rimane un sorso di vino nei bicchieri faccio un brindisi ai due assenti Vittorio e Augusto.
— Con tutto il cuore, — risposero a una voce padre e figliuolo.
— Agli assenti e al reduce, — ella soggiunse.
— Sia pure.... Anche al reduce, — ripetè il colonnello avvicinando il suo bicchiere a quello di Federico. — Abbiamo però sempre dei conti da regolare.
················
Quando Federico si mosse per salire nella sua camera, la Bice lo accompagnò fino sul pianerottolo. Egli non aveva parole abbastanza per ringraziarla, per esaltare il suo spirito, la sua bravura.
— Non facciamoci illusioni — ella disse. — Non cantiamo vittoria troppo presto.
— Con te, mia cara, si vinceranno tutte le battaglie, — replicò il cugino. E dopo una breve pausa, abbassando la voce e avvolgendola d’uno sguardo ch’esprimeva il più sincero entusiasmo: — Sai che ho fatto un’altra grande scoperta?
La Bice abbassò involontariamente gli occhi. — Quale?
— Che sei diventata proprio bella.... ma proprio.... non è già un complimento.
— Pazzo che sei! — disse la ragazza imporporandosi in viso. — Buona notte, buona notte. — El o piantò lì col lume in mano, incantato a guardarla.
················
[337]
Come si accomodassero le faccende il dì appresso, che conseguenze avesse nell’avvenire la grande scoperta di Federico, a che risultato approdasse la visibile simpatia de’ due cugini, son tutte cose che non si possono saper subito.... Al Natale prossimo.... forse.
[338]
Quella sera, quando s’udì la scampanellata del postino, in casa dell’avvocato Ettore Gualtieri avevano appena finito di desinare. La cameriera entrò in salotto portando due giornali pel padrone e una grossa lettera coperta di francobolli per la signorina Amelia.
La signorina Amelia, una leggiadra giovinetta di forse diciott’anni, divenne rossa ed esclamò: — È della zia Teresa.
E agitando la lettera con aria trionfale soggiunse: — Scommetto che qui c’è la fotografia. Era tempo.
Con un oh, oh di curiosità tutti quanti si strinsero intorno all’Amelia. Erano in quattro, l’avvocato Ettore e la signora Luisa sua moglie, la Carolina, una ragazza in quell’età critica nella quale è arrischiato ogni pronostico sulla bellezza femminile, e Amedeo, un fanciullo sgarbato come sogliono essere i maschi dagli otto ai quindici anni.
— Bada che voglio i francobolli — gridò appunto Amedeo con la sua voce di pentola fessa.
— E io il monogramma — disse la Carolina.
[339]
L’Amelia fece un gesto d’impazienza. — Dio, che noiosi! Avrete i francobolli, avrete il monogramma, ma non istatemi addosso così.
L’avvocato allontanò col braccio i due importuni e diede alla sua figliuola maggiore un temperino perch’ell’aprisse la busta senza stracciarla.
Bisogna notare che, dal signor Ettore in fuori, nessuno dei presenti aveva conosciuto questa zia Teresa. In primo luogo, dei giovani ella non era zia ma prozia; aveva cioè sposato molto tempo addietro uno zio dell’avvocato, un Gualtieri anch’esso, dimorante a Nuova York fin dal 1849 e arricchitosi colà negli affari. Al momento del matrimonio il signor Temistocle (l’uomo si chiamava così) aveva quarantacinqu’anni ed ella ne aveva venti, nè alcuno credette ch’ella lo prendesse per inclinazione. Comunque sia, questo signore, tanto più vecchio della moglie, s’era conservato vispo ed arzillo e veniva ogni due anni in Italia; ella invece tra per le cure da prestarsi al padre che l’aveva seguita in America, tra per gli acciacchi di cui si lagnava, non aveva più ripassato l’Oceano.
Erano queste le ragioni ch’ell’adduceva scrivendo all’Amelia, ma il marito, ne’ suoi viaggi in Europa, affermava che la ragione vera era la pigrizia, era la paura del mare.
— La salute — egli soleva ripetere — l’ha buonissima, e ingrassa di giorno in giorno. Anzi, inter nos, questo potrebb’essere un altro dei motivi pei quali le ripugna di tornare dove c’è tanta gente che se la ricorda giovine e bella.... Donne, sempre donne.... Già, ne avete la prova.... ha perfino scrupolo di farsi fare il ritratto per mandarvelo.
[340]
Alla lunga, come si vede, lo scrupolo ella lo aveva vinto, e la lettera giunta quella sera all’Amelia conteneva realmente la sospirata fotografia.
Bisogna convenire che la prima impressione fu tale da richiamare alla memoria le parole poco galanti del signor Temistocle. La zia Teresa aveva l’aspetto d’una donna attempata, più florida del necessario, senza studio d’eleganza nel vestito ch’era liscio, d’una sola tinta scura e chiuso fino al collo. Nei capelli spartiti sulle tempie e ravviati dietro alle orecchie era appuntato un velo nero; la mano sinistra non si vedeva, la destra, appoggiata sulla spalliera della poltrona, si protendeva troppo innanzi e appariva di proporzioni esagerate. Gli occhi ch’erano stati bellissimi, che si capiva dover essere belli tuttora, erano guastati dalla fotografia mancante assolutamente di nitidezza e di rilievo.
Vi fu un breve silenzio durante il quale un osservatore attento avrebbe potuto notare nel volto della signora Luisa un risolino di trionfo che contrastava con l’aria malsoddisfatta degli altri e specialmente dell’avvocato. — È questa la zia Teresa? — parevano domandare i ragazzi. E l’avvocato: — È proprio lei?
Amedeo ruppe il ghiaccio. — Sapete a chi somiglia?... Alla signora Venosti.
Il babbo gli slanciò uno sguardo fulmineo. — Sciocco!
Anche l’Amelia protestò con gran vivacità.
Ma la signora Luisa venne in aiuto del figliuolo. — Amedeo non ha tutti i torti. La ricorda....
— No, mamma, no, — rimbeccò l’Amelia che non poteva tollerare questi paragoni tra una zia dilettissima [341] e una conoscente ridicola da lei messa in canzonatura infinite volte.
— Si fa presto a dir no, — insistè la signora Luisa. — È un fatto.
Il signor Ettore perdette la pazienza. — Insomma vorrei sapere dove la si trova questa famosa rassomiglianza....
— Nella bocca, per esempio....
— Oh santo cielo. Nella bocca?... Se la Venosti non ha quasi più denti....
— E in questo ritratto, con tua licenza, la bocca è chiusa e non possiamo sapere se i denti ci siano o non ci siano. E poi il taglio della bocca non ha nulla a che fare coi denti....
— Via, mamma, — ripigliò l’Amelia, — la Venosti ha più di sessant’anni.
— E credi forse che tua zia sia una bambina?... I suoi cinquanta deve bene averli....
L’avvocato fece un energico segno negativo col capo. — Nemmen per sogno.
— O quanti allora?
— È un conto semplice. È nata nel 1843 e siamo nel 1888.
— Da ottantotto a levar quarantatrè rimangono quarantacinque, — esclamò Amedeo per mostrar la sua perizia nell’aritmetica.
— Precisamente quarantacinque, — ripetè il signor Ettore.
— Più quelli della balia, — soggiunse sghignazzando la moglie.
— È una bella ostinazione, — replicò l’avvocato. — Vuoi un’altra prova? La Teresa si sposò nell’agosto 1863, venticinque anni fa, nè più nè [342] meno.... E aveva compiuto i vent’anni in quel mese stesso.
— Sarà, — disse la signora Luisa con quella riluttanza che hanno le donne a darsi per vinte, soprattutto in certe questioni. — A ogni modo se non sono che quarantacinqu’anni non gliene faccio le mie congratulazioni.... Ne mostra molti di più.
Frattanto l’Amelia, che aveva scorso rapidamente la lettera della zia, ne lesse una mezza pagina ad alta voce: “È la prima volta che vado dal fotografo dacchè ho lasciato l’Europa. E ci andai per contentarti. Desidero in compenso di aver le fotografie rinnovate di tutti voi altri. Ho la tua, quelle di tua sorella e di tuo fratello, ma le ultime rimontano al 1885 e ritengo che ne avrete di più recenti. Non ho poi quelle della tua mamma e del tuo babbo, e mi sarebbe così caro di averle.... Il tuo babbo mi trova molto cambiata, non è vero? Eh, il tempo passa per tutti, e per noi donne passa più presto che pegli uomini.„
— Bisogna tornar da Vianelli, — disse l’Amelia ripiegando il foglio.
— Torniamoci addirittura domani. — propose la Carolina.
— Oh, — replicò la madre, — ci andrete voi. Io farò tirar qualche altra copia dei ritratti del 1885, quelli che ci siam fatti, il babbo ed io, pochi mesi dopo dei vostri.
E rivolgendosi al marito: — Mi sembra che anche tu potresti spicciarti allo stesso modo.
L’avvocato sorrise. — No, io voglio esser sincero. Non voglio farmi passar per più giovine di quello che sono. È giusto che la zia Teresa trovi cambiato me come io trovo cambiata lei.
[343]
Questa dichiarazione in cui c’era una punta d’ironia crebbe le disposizioni irascibili della signora Luisa. — Io non sono tenuta ad aver tanti scrupoli, ella disse con piglio acre. — La zia Teresa non mi ha conosciuta e non può quindi trovarmi cambiata. Già non crederei d’esser così cambiata in tre anni.
La signora Luisa, sebben rasentasse la quarantina, aveva ancora le sue pretese.
Il marito non le diede la soddisfazione di rilevare le sue parole, ma si mise a sgridare Amedeo che, uscito un momento dalla stanza, vi rientrava con malagrazia rovesciando una seggiola sul suo passaggio.
Avvezzo ai rimproveri paterni, il ragazzo si limitò a rialzare la seggiola e posò un grosso album sulla tavola. — Me li lasci levare questi francobolli? — egli chiese all’Amelia stendendo la mano verso la busta.
— Aspetta un momento.... Non scappano mica....
— Giacchè ho qui l’album....
La Carolina ricordò timidamente che doveva avere il monogramma.
— Lo so, lo so, l’ho già sentito.... Son gusti incomprensibili.... Ne avete non so quanti di questi francobolli di Nuova York, di questi monogrammi della zia Teresa.... Giurerei che non avete altro nei vostri splendidissimi album....
— Oh sì! Io ho quarantotto francobolli tutti diversi....
— E io ventitrè monogrammi.... tutti magnifici....
— Figuriamoci....
Mentre i figliuoli si bisticciavano, la signora Luisa s’era rimessa a guardare la fotografia, e, siccome [344] ell’era di quelle che nelle dispute non la finirebbero mai, riattaccò il discorso al punto di prima.
— Che col tempo le linee della fisonomia e della persona si modifichino, è troppo naturale — ella disse riconsegnando il ritratto all’Amelia; — ma altro è modificarsi, altro è trasformarsi.... E a me non entrerà in mente che questa donna sia stata bella.
Gualtieri si strinse nelle spalle. — Ce ne furono poche di belle come lei.
— Basta sentir lo zio Temistocle, — notò l’Amelia.
— Oh, lui, s’intende, — rispose la madre. — Se l’ha sposata senza un soldo è segno che a lui pareva bella....
— Pareva?... Era bella, era bella.... con o senza il tuo permesso, — ribattè infastidito l’avvocato.
— Non riscaldarti il sangue.... È evidente che tutti e due, zio e nipote, la trovavate la Venere dei Medici.... Però una Venere che preferì chi poteva vestirla di porpora e di velluto.
La signora Luisa non aveva ancora terminata la frase imprudente ch’ell’era già pentita di essersela lasciata sfuggire. Ma ormai era troppo tardi.
Una fiamma passò negli occhi di Ettore Gualtieri. Pur si contenne e con una voce che l’emozione rendeva più penetrante, — Luisa, — egli disse, — a te non è lecito ignorare per qual ragione la Teresa Rosnati abbia sposato mio zio che aveva più del doppio della sua età e ch’ella non amava. Che se tu lo hai dimenticato, stimo opportuno di ricordartelo, anche perchè i nostri figliuoli, qui presenti, non giudichino male una zia che non hanno mai vista, che forse non vedranno mai, ma dalla quale non hanno ricevuto che gentilezze.... Oh non è una storia [345] lunga.... La Teresa era le mille miglia lontana dall’idea di quel matrimonio quando suo padre, rovinato da cattive speculazioni, si trovò in procinto di fallire. Il suo maggior creditore era Temistocle Gualtieri, stabilito da un pezzo in America, ma giunto allora in Europa per uno de’ suoi viaggi d’affari. Corso a Venezia per questo minacciato fallimento, egli vide la ragazza, se ne invaghì e ne chiese la mano. Pur d’ottenerla, non solo egli accondiscendeva ad annullare il debito che il Rosnati aveva verso di lui e lo aiutava a liquidar onorevolmente la casa, ma gli offriva un posto lucroso nel suo banco a Nuova York. D’altra parte, egli diceva chiaro e tondo che, data una negativa, si sarebbe ritenuto sciolto da ogni riguardo e avrebbe pensato unicamente a tutelare i suoi interessi. Lo si sapeva uomo che parlava sul serio; non malvagio ma insofferente degli ostacoli e memore dello offese. Onde la giovinetta divenne arbitra delle sorti del padre; accettando la proposta che l’era fatta ne salvava la riputazione, lo sottraeva alle strettezze, assicurava alla vecchiaia di lui ch’era vedovo e senz’altri figliuoli un asilo comodo, decoroso, tranquillo presso l’unica persona di famiglia che gli restasse; rifiutando, lo esponeva all’onta e alla mortificazione del fallimento, lo costringeva a ricominciare sotto ben tristi auspici la lotta dell’esistenza.... Che cosa risolvere? Vi sono momenti terribili in cui, qualunque via si prenda, si calpesta qualche sentimento sacro, si manca a qualche dovere o verso sè o verso altrui; pur bisogna scegliere, perchè la vita c’incalza e le occasioni perdute non tornano.... Ebbene, la Teresa non volle ascoltare che la voce dell’amor filiale, e accettò.... [346] Attribuire motivi men nobili alla sua condotta, supporre ch’ella fosse abbagliata dai milioni, che quello che fu per lei un sacrificio (e qual sacrificio!) fosse un calcolo vile.... oh è segno di una gran piccolezza d’animo....
Sentendo salirsi alle labbra parole più acerbe, l’avvocato Ettore non attese neanche l’effetto della sua filippica, ma uscì bruscamente e si ritirò nel suo studio. E lì, senza testimoni, nell’ombra della stanza scarsamente illuminata dalla candela ch’egli aveva portato seco, chiamò a raccolta le sue memorie. Ricordò l’impressione provata quando la Teresa da lui conosciuta bambina gli riapparve dopo alcuni anni vissuti in collegio, ricordò le prime timide dichiarazioni susurratele all’orecchio, le promesse d’amore lette negli occhi di lei, e i dolci colloqui, e le furtive strette di mano, e i giuramenti scambievoli.... Alle famiglie non si diceva nulla perchè egli era ancora studente, e così giovine, così privo di mezzi di fortuna, così lontano dalla possibilità di prender moglie, che una domanda formale avrebbe provocato un deciso rifiuto.... Ma, pur d’aver pazienza, non bastava esser d’accordo con la Teresa?... Ohimè, nel bel mezzo di questi sogni accadde la catastrofe della ditta Rosnati.... e subito dopo, il resto.... Che colpo fu quello!... Che fieri propositi gli si agitavano nella mente!... Vedeva sangue; voleva fare una strage; uccider lo zio che gli rapiva il suo bene, uccider la crudele che lo abbandonava.... e compier la tragedia facendosi saltar le cervella sui cadaveri delle sue vittime.... Nè alla Teresa risparmiò le contumelie. La disse senza cuore, senza coscienza, la fulminò con l’accusa che poc’anzi gli era parsa così [347] bassa ed ingiusta, l’accusa di cedere al fascino della ricchezza.... Come si calmò? Come fu indotto a più miti consigli?... Non lo sapeva lui stesso. Aveva però sempre davanti agli occhi la donna fatale e adorata più bianca d’una morta, atteggiato il viso a una pietà dolorosa; la sentiva rispondersi con un filo di voce: — Voglia Iddio che tu non abbia mai da scegliere fra il tuo amore e il tuo dovere. — E si rammentava pure che a vederla così umile, così disarmata, così pallida, il suo gran furore s’era come affogato nelle lacrime, un torrente di lacrime che gl’inondava le gote.... E tra i pianti e i singhiozzi le aveva chiesto perdono delle ingiurie, aveva cercato la sua mano, aveva baciato il lembo del suo vestito.... Ella tranquillamente, dolcemente, s’era sciolta da lui; nè egli doveva più rivederla.... Prima che succedessero le nozze egli si assentava da Venezia per non rimpatriare che quando la seppe partita.... Oh che triste ritorno!... Come, in quei primi mesi, gli pareva morta la città senza la sua Teresa! Come aveva l’animo straziato dalla collera, dal dolore, dall’amore!... Sì, anche dall’amore, poich’egli l’amava sempre.... poichè sarebbe bastata una riga di lei per riaccendergli in petto le più folli speranze.... Ma ella non si fece viva, ed egli non ne aveva notizie che indirettamente, a lunghi intervalli, per mezzo dello zio che conservava qualche rapporto con la famiglia e che veniva di tratto in tratto in Europa.... Allora egli si sforzò di dimenticarla, e vi fu un momento che credeva di averla dimenticata, e, trascorsi sei anni dal matrimonio di quella che ormai egli doveva chiamare la zia Teresa, sposò un’altra donna.... Passò un anno ancora, dopo il quale [348] gli nacque la sua primogenita, l’Amelia. E, di lì a poche settimane, ecco capitar dalla zia un bel regalo per la piccina.... Le relazioni, rannodate così, non erano state interrotte più. Ma erano relazioni curiose. La zia Teresa non scriveva a lui, scriveva all’Amelia, anche quando l’Amelia non era in grado di leggere, e la incaricava de’ suoi saluti al babbo e alla mamma. Egli rispondeva, ma rispondeva in nome della figliuola... sino al giorno che la figliuola fu in grado di rispondere da sè. I regali arrivavano sempre più frequenti, sempre più ricchi; oltre che per l’Amelia, ce n’erano pei bimbi nati dopo, Carolina e Amedeo; era manifesto però che l’Amelia continuava ad esser la preferita, e tutta la corrispondenza con la zia ricadeva sulle spalle di lei.
Così, a poco a poco, la donna gentile prendeva un posto nella casa, era nominata, citata ad ogni occasione. Ora si diceva: — Dovrebbero arrivar presto lettere della zia Teresa; — ora: — Converrà scrivere alla zia Teresa; — ora infine le due ragazze si consultavano sul presente da farsi alla zia Teresa per la sua festa. Infatti esse le spedivano tutti gli anni un lavoruccio, tenue ricambio degli splendidi doni che ricevevano continuamente.
C’era bensì una persona a cui pareva che di questa zia Teresa si discorresse più del bisogno. Era la signora Luisa. Con l’infallibile istinto femminile ell’aveva trapelato l’antico romanzetto di suo marito e nelle sollecitudini affettuose della zia verso i nipoti sentiva uno strascico del passato. Madre tenerissima, ella non voleva distogliere i figli dal coltivare i buoni rapporti con una parente ricca e senza prole, ma le accadeva spesso, con un gesto d’impazienza, [349] con una frase sarcastica, di tradire il suo segreto livore, la sorda gelosia che la rodeva.... Però uno scatto come quella sera la signora Luisa non l’aveva mai avuto. Ed è pur forza riconoscere che i suoi nervi le rendevano un gran cattivo servizio facendola prender fuoco come un fiammifero, proprio allora che l’effigie della presunta rivale doveva calmare piuttosto che crescere le sue inquietudini. Certo si è che con quella sfuriata inopportuna ella soffiava nelle ceneri d’una vecchia passione, induceva Gualtieri a ripiegarsi su sè medesimo, a riveder con gli occhi della fantasia, non quale l’età l’aveva ridotta ma quale ell’era a venti anni, colei che egli aveva amato con tanto trasporto. Nè la rivedeva con gli occhi della fantasia solamente.... In un cassetto del suo stipo, fra le pagine di un libro ch’egli aveva letto con lei, insieme ad un fiore che una sera ella gli aveva messo all’occhiello, egli conservava un’antica fotografia. E quella fotografia tolta ora dal suo ripostiglio gli provava ch’egli non era stato vittima d’un’allucinazione. Che gl’importava del nuovo ritratto che la Teresa, troppo savia o troppo crudele, faceva pervenire nelle sue mani dopo un quarto di secolo? Per lui non esisteva che il ritratto antico, e da quello, benchè stinto e sbiadito, veniva un profumo ineffabile di gioventù fresca e vivace. Quanta finezza in quei lineamenti! Che luce d’intelligenza e di bontà in quegli occhi dolci e pensosi! Che fascino in quel sorriso!... Ah, la sua signora consorte pretendeva che la Teresa non fosse mai stata bella? Come gli sarebbe riuscito facile di confonderla!... Ma no, no, quelle reliquie di altri tempi appartenevano a lui solo; non dovevano esser profanate da sguardi indifferenti od ostili.... [350] Baciò ancora una volta il ritratto, ancora una volta sfogliò le carte del libro, un volume di Leopardi, diede un’occhiata al fiore, una mammola doppia che nei petali secchi e schiacciati serbava un resto di fragranza; poi rimise ogni cosa al posto di prima.
Mentre dava la chiave al cassetto dello stipo, si sentì un colpo leggero all’uscio.
— Chi è? — gridò l’avvocato.
— Sono io, babbo.
— Ah, l’Amelia, — disse Gualtieri ricomponendosi in fretta. — Avanti.
La ragazza si avvicinò un po’ confusa. — Ti disturbo?
— No. Che cosa volevi?
— Io?... Nulla....
— Oh bella.... Per qualche ragione sarai venuta....
— Ecco.... Volevo sentir da te.... Sai.... dovevi condurmi in piazza stasera....
Vedendo che suo padre la fissava con insistenza, ella abbassò gli occhi.
— Perchè guardi in terra? — egli le chiese. — Non hai mica niente da vergognarti.... Guarda me invece.... Su, su.... Così.... Sei proprio venuta solamente per questo?
Ella non rispose, due lacrimette le colavano adagio adagio giù per le guancie.
— Non sei venuta anche....?
Il signor Ettore non finì la frase, ma aperse le braccia.
— Oh babbo! — esclamò l’Amelia gettandogli al collo, — come hai capito bene che ero venuta per darti un bacio!
— E ora, — ripigliò di lì a poco l’avvocato, — va [351] pure a metterti il cappellino che usciremo insieme.
— No, no, se non ne hai voglia....
— Anzi desidero prendere una boccata d’aria....
Di nuovo la ragazza esitava.
— Ebbene, che c’è adesso?
— C’è, babbo mio.... non dirmi di no.... che avrei tanto piacere se uscisse con noi anche la mamma.... La Carolina e Amedeo si coricano presto...; la mamma resterebbe sola.... stasera....
Gualtieri aggrottò alquanto le ciglia e fu a un punto di rispondere con un rifiuto. Ma c’era in viso dell’Amelia una preghiera così umile, così calorosa, che egli non ebbe cuore di affliggerla, e fece un cenno d’assenso.
— Come sei buono, babbo mio! — gridò la giovinetta ribaciandolo con effusione.
— Troppo buono, — egli sospirò. — Va.... va.... Ti raggiungo subito.
Ritirò la chiave dal cassetto dello stipo e la ripose in tasca. Un rossore intenso gli colorava le gote; egli sentiva che sua figlia aveva indovinato gran parte del suo segreto.
[352]
Era nata in meno di sette mesi costando la vita alla sua povera mamma che aveva appena avuto il tempo di darle un bacio e di chiamarla col nome prestabilito: Maria. E anch’ella, la bambina, fu per più settimane attaccata ad un filo; anzi la levatrice e i parenti dicevano che non poteva campare e preparavano il padre alla nuova sventura. Nè l’impresa era troppo difficile. Alberto Rinucci, giovine, ricco, elegante, in mezzo al suo dolore per la sposa perduta, per la figlia che andava spegnendosi, sorprendeva negli intimi recessi del suo animo un fondo di rassegnazione egoistica di cui arrossiva ma sul quale non poteva a meno in certi momenti di riposarsi; diceva a sè stesso che aveva adempiuto a ogni ufficio di buon marito verso la moglie ma che in fin dei conti questa moglie egli non l’aveva mai amata appassionatamente; diceva che l’affezione dei padri verso i loro figliuoli principia più tardi assai di quella [353] delle mamme e che l’infelice creatura venuta al mondo per languire e per soffrire non avrebbe, dileguandosi adesso, aperto una piaga insanabile nel suo cuore. Gli balenava agli occhi, e per quanto volesse cacciarla tornava insistente, la visione di una vita riafferrata sotto auspici più lieti; forse la libertà dello scapolo così bella a meno di trent’anni; forse un nuovo matrimonio, un’altra donna al suo fianco, intorno a sè altri figliuoli vigorosi e fiorenti.
Il medico intanto, infatuato nell’idea di fare un mezzo miracolo, consacrava lunghe ore alla piccina ch’egli non voleva risolversi a dare per ispacciata. L’aveva fatta involgere nel cotone, regolava la temperatura elevatissima a cui la si doveva tenere, sorvegliava l’allattamento artificiale, usava insomma di tutti gli espedienti che la scienza suggerisce e la sollecitudine rende efficaci. In capo a due mesi egli disse a Rinucci: — È salva.
Sulle prime si accolse l’annunzio con qualche scetticismo; poi fu forza arrendersi all’evidenza; la bambina viveva. Il padre cominciò a volerle bene, a chinarsi sulla sua cuna, a prenderla in collo, a baciarla. Un giorno ella gli sorrise, e con quel sorriso finì di conquistarlo. Il club, i teatri, la società ch’egli s’era rimesso a frequentare non lo allettavano più come una volta: gli accadeva sovente di lasciar a ora insolita gli allegri ritrovi per esser più presto a casa e per assicurarsi che la sua Maria dormiva tranquilla. Anche le donnine belle non esercitavano ormai sopra di lui che un fascino fuggitivo; lo spaventava l’idea d’ogni legame durevole, non voleva più sentir parlare d’un secondo matrimonio. Gli pareva che la sua Maria, la quale si era messa a spasimare [354] per lui gli dicesse: — Non darmi rivali: devi appartenermi tutto quanto. Le cameriere, le governanti, le zie, le cugine non mi bastano; ho bisogno di te; non sono come l’altre bambine, io.
No, effettivamente ella non era come le altre. Nessuna grave infermità era venuta a colpirla durante la puerizia; era passata illesa attraverso un’epidemia difterica e un’epidemia vaiolosa che avevano mietuto centinaia di testoline bionde. Ella era risparmiata dalle malattie, ma era così esile e mingherlina da far credere che un soffio di vento dovesse abbatterla, era così pallida e trasparente da non potersi capire come il sangue scorresse nelle sue vene. Aveva messo i denti più tardi del solito; più tardi del solito aveva cominciato a parlare e a camminare. Ogni minimo sforzo l’affaticava, come se avesse portato seco una grande stanchezza che nessun riposo successivo giungeva a vincere. Il medico che aveva fatto il primo miracolo di tenerla in vita non sapeva fare il secondo di renderla uguale ai suoi coetanei. Aveva perduto anch’egli la balda sicurezza d’un tempo; alle trepide interrogazioni del padre rispondeva con mezze parole, con frasi che non impegnano. — Eh, lo sviluppo è lento, ma vizi organici non ce ne sono.... Speriamo.... Col ferro, con l’olio di merluzzo, coi bagni di mare, con la ginnastica, con l’aria di montagna.... — Il guaio si è che lo stomaco della piccola Maria non sopportava nè il ferro, nè l’olio di merluzzo; che i bagni di mare la infiacchivano; che le sue gracili membra non erano fatte per la ginnastica, che le sue gambe sottili non resistevano alle passeggiate in montagna.
Anche la statura cresceva appena sensibilmente e [355] mostrava sempre molto meno della sua età. Continuava a parere una bambina; la bambina, dicevano, accennando a lei. Era questa per suo padre una grande mortificazione; eppure egli non avrebbe voluto che la chiamassero in altro modo; qualche volta a sentirsi domandare: Come sta la bambina? egli s’illudeva, dimenticava ch’era passato il tempo di chiamarla così.
Per l’ingegno accadeva come pel resto. Non che avesse la negativa d’intender le cose; tutt’altro; ma l’attenzione un po’ seguita l’era impossibile, ma il ricordare l’era più difficile che l’imparare. A dieci anni stentava a leggere correntemente e faceva ancora le aste. — Non bisognava pretender da lei più di quello che danno le sue forze — predicavano i dottori — non bisogna costringerla a nessun’applicazione intensa.
Ma non aveva lena neanche a giuocare a lungo. Stava per lo più nel suo salottino, seduta per terra sopra un tappeto, in mezzo a una quantità di balocchi costosi che il suo babbo comperava in città o faceva venire da Parigi o da Vienna, e di cui ella non tardava ad annoiarsi. Appunto que’ suoi balocchi così belli, così diversi dai soliti, erano una singolare attrattiva per altri fanciulli i quali andavano ben volentieri a far compagnia alla bambina Rinucci. Erano quasi tutti minori di lei, ma non lo si sarebbe detto a vederli, nè essi lo credevano. Anzi ce n’era uno, di sett’anni mentr’ella ne aveva dieci, che la trattava come una sorella più giovine, dandole qualche buffetto sotto il mento con una cert’aria paterna e difendendola contro le soperchierie dei prepotenti. Ell’accettava con animo grato questa tutela affettuosa [356] e faceva più festa a Giorgio Leati che agli altri; solo pretendeva che, come il babbo, fosse anch’egli tutto per lei, e s’arrabbiava fuor di misura, se per esempio, la sua cuginetta Tilde Rinucci, figlia dello zio Amedeo, lo invitava nel suo giardino per giuocare al volante.
In complesso era buona ma esigente e gelosa. Una governante assai gentile d’aspetto e di modi l’era divenuta insopportabile dopo che una mattina l’aveva vista passeggiare un’ora di seguito in su e giù per la sala in compagnia di suo padre che le discorreva sotto voce e le sorrideva. S’era messa subito a usarle ogni sorta di sgarbi, e a un mite rimprovero che gliene avevano fatto era andata in escandescenze, pestando i piedi, spargendo un fiume di lacrime, protestando fra i singhiozzi di non voler più che mademoiselle le venisse vicino. Nè c’era stato verso d’indurla a più miti propositi, onde mademoiselle aveva dovuto esser licenziata.
— È un capriccio — aveva detto il medico — ma se non la si contenta rischia d’ammalarsi davvero.... Ed è così debole.
La sua debolezza era la sua forza. A poco a poco Alberto Rinucci, per non vederla piangere, per non farla ammalare, preveniva tutti i suoi desideri, secondava tutte le sue fantasie. Ed ella, ne’ suoi momenti d’espansione, gli gettava le braccia al collo, lo chiamava coi nomi più dolci, gli diceva ch’egli era tanto buono e ch’ella era tanto felice.
A quindici anni, non ostante le innumerevoli cure tentate, il suo sviluppo, già così tardo, si arrestò affatto. Era piuttosto leggiadra di viso, passava di qualche centimetro la statura che si suole assegnare [357] ai nani, non aveva deformità nel suo corpicino abbastanza proporzionato, poteva parer realmente una bambina, ma si capiva che ormai sarebbe rimasta tale per tutta la vita.
I suoi piccoli amici dei due sessi andavano in collegio, frequentavano la scuola pubblica, stringevano nuove conoscenze, acquistavano nuove abitudini, parlavano di maestri, di lezioni, di esami; ella restava tal quale; continuava a passar lunghe ore nel salotto, sfogliando dei libri illustrati o giocando con altri fanciulli che non erano più quelli d’un tempo, continuava a uscir di tratto in tratto in gondola col babbo o con la governante, a scender sulla Riva degli Schiavoni o ai Giardini, a far stentatamente due passi al sole e a rientrare a casa prima del tramonto.
Se la sera qualcheduno chiedeva a Rinucci: — Eri fuori con la tua bambina, oggi? — egli rispondeva un sì affrettato e mutava discorso.... Egli pensava che la sua Maria avrebbe ormai potuto essere una giovinetta di quelle che la gente si volta a guardar per la strada, di quelle a cui gli studenti di liceo, fra un tema di latino e un tema di greco, dedicano i loro primi versi; di quelle in fine che le mamme cominciano a prendere in considerazione come partiti possibili, pei loro figliuoli; pensava che l’avrebbe condotta alle feste da ballo, che avrebbe spiato ne’ suoi occhi lo svegliarsi dei sensi e dell’anima, che avrebbe strappato alle sue labbra le dolci e trepide confidenze.... Invece no; ell’era la bambina; nessuno l’avrebbe guardata altro che per deriderla o per commiserarla, nessuno le avrebbe parlato d’amore, nessuno avrebbe voluto vedere in [358] lei una sposa, una nuora.... S’egli fosse stato almeno sicuro d’averla sempre al suo fianco!... Ma qualche volta gli correva un brivido per le vene e se la stringeva al petto quasi per proteggerla da un nemico invisibile che dovesse improvvisamente portarsela via.
Ella non s’accorgeva delle gravi preoccupazioni paterne; si sarebbe detto anzi che non le pesava quella sua manifesta inferiorità di fronte a’ suoi coetanei, che non sospettava l’esistenza o non la pungeva il desiderio di tutto ciò che l’era negato. O forse, come gli estranei la credevano una bambina, così si credeva una bambina anche lei.
Giorgio Leati, il suo grande amico, era entrato in collegio e non veniva a farle che poche visite all’anno durante lo vacanze. Ogni autunno la Maria trovava in lui qualche cambiamento; era sempre più aitante delle membra, più largo di torace e di spalle, più fiero, più maschio nello sguardo e nell’andatura. Passava poi per uno dei migliori della classe e non gli dispiaceva di sfoggiare la sua nascente dottrina. La Maria lo ascoltava incantata. E un giorno, appunto dopo una di queste visite e mentre il padre le raccontava certe fiabe di cui ell’era assai ghiotta, ella fece una singolare domanda: — Babbo, vi sono delle fate buone che con un colpo di bacchetta trasformino le persone piccole in persone grandi, le persone ignoranti in persone sapienti? — Rinucci ebbe una stretta al cuore e disse senz’alzare gli occhi: — Ma!... Ho paura che non ce ne siano più. — Ella sospirò: — Peccato! — E fu l’unica allusione da lei fatta alle sue condizioni.
Adesso che Giorgio Leati era quasi sempre lontano, la Maria non aveva più motivo di esser gelosa [359] della cugina e le aveva ridonato la sua amicizia un po’ invadente e tirannica. La Tilde, fanciullona espansiva, si compiaceva di questo affetto riconquistato, e passava presso la bambina (anche in casa degli zii la chiamavano così) tre o quattr’ore al giorno, raccontandole i pettegolezzi della Scuola superiore femminile, mettendo in canzonatura le singolarità grottesche di questo o quell’insegnante, biasimando la sguaiataggine di alcune suo condiscepole che si lasciavano pedinare per la strada e ricevevano bigliettini galanti. — A me — ella soggiungeva ridendo — questo non accadrà mai. Già son contro le tentazioni.
Alquanto più giovine della Maria (aveva l’età di Leati) la Tilde era allora nel periodo dello sviluppo ed era bruttina davvero, lunga, stecchita, con gli occhi pesti, con la tinta giallastra, con due braccia interminabili che parevano voler scivolar giù dalle maniche. Ed ella era persuasa non solo di esser brutta ma di dover rimaner tale. Diceva con una spallucciata: — Meglio così. Non verranno a seccarmi.... A me il matrimonio non piace.... Perchè si deve maritarsi?
Questo non lo capiva neanche la Maria. O che bisogno c’era d’avere un marito? La Tilde conchiudeva enfaticamente: — Noi due resteremo zitelle.
Senonchè la Tilde in brevissimo tempo subì una trasformazione radicale. Le linee della sua persona si fusero in bella armonia, la sua carnagione opaca acquistò chiaroscuri e riflessi, i suoi grandi occhi bruni su cui nessuno aveva fermata l’attenzione brillarono a un tratto di vivi splendori come le finestre d’una stanza che s’illumina improvvisamente. Chi [360] non la vedeva da un pezzo durava fatica a riconoscerla. — È la Tilde Rinucci? — Quella ch’era un mostriciattolo? — È mai possibile?
Ella seguitava a venir dalla cuginetta ed era affettuosa, servizievole come il solito. Però non teneva più gli stessi discorsi, non aveva più gli stessi sarcasmi per le galanterie, per l’amore, pel matrimonio. La Maria la guardava triste e meditabonda; l’altra arrossiva; erano lunghi silenzi. Nell’andar via la Tilde si chinava a baciar la povera piccina, e nel suo bacio c’era una compassione immensa.
Quand’ella era uscita, la Maria pensava. — Ella l’ha avuta la sua fata, la sua fata buona. Per me non c’è niente.
Se avesse almeno potuto sapere una parte di ciò che sapevano gli altri, se non fosse stata costretta a vergognarsi quando gli altri parlavano in sua presenza delle loro letture, dei loro studi! A volte supplicava il babbo di farle insegnar qualche cosa, ed egli, con la morte nell’anima, rideva di queste sue ubbie, rassicurava che le donne sapienti sono intollerabili. Che se cedeva alle sue preghiere, alle sue lacrime, era ancora peggio. Ella non tardava a smettere, abbattuta di spirito, esausta di forze. Era troppo, troppo difficile.
Un’estate Giorgio Leati tornò in famiglia per tre mesi affine di prepararsi agli esami per l’Accademia militare. Rivide la Maria ch’era sempre uguale, ch’era sempre la bambina, e insieme con la Maria rivide la Tilde tanto diversa da quando l’aveva lasciata. Alla Maria diede del tu come in passato; con la Tilde non osò, e le chiese balbettando: — Come sta? — Avrebbe voluto dire: — La trovo tanto, tanto [361] bella. — Ma se non glielo disse con la bocca glielo disse con lo sguardo. Ella lo intese e si fece del color della porpora. Egli, per distrarsi dall’impressione ricevuta, sedette accanto alla Maria, prese le manine di lei nelle sue, le raccontò mille aneddoti e la tenne di buon umore per un’oretta. — Vieni spesso, sai — ella gli disse.
Egli veniva ogni dopo pranzo e restava fino a sera avanzata. — Grazie, Giorgio, — diceva Rinucci — la mia povera Maria ti vede così volentieri.
Giorgio abbassava il capo. Egli sentiva di non meritar questi ringraziamenti: non veniva per la Maria, ma per la Tilde. Anzi avrebbe voluto non venire, ma una forza maggiore di lui guidava i suoi passi là dove sapeva d’esser aspettato. Eppure fra la Tilde e Giorgio non s’erano scambiati una parola d’amore; solo i loro occhi s’erano incontrati più volte, solo le loro mani s’erano intrecciate in qualche stretta furtiva. Per stordirsi raddoppiavano di sollecitudini verso la Maria ch’era anche più debole del consueto, si discervellavano per intrattenerla con storielle piacevoli, la reggevano quand’ella voleva alzarsi e camminare, le rassettavano i guanciali sotto la testa quando si metteva a giacere.
Una sera che c’era un bel chiaro di luna stettero tutti e tre per una mezz’ora sul balcone d’angolo che guardava il canale. Poi alla Maria parve che tirasse un po’ d’aria, ed ella desiderò di rientrare nella stanza. L’adagiarono sul canapè con uno scialletto sulle ginocchia. La luna cadeva proprio sul suo visino affilato. Ella chiuse gli occhi. — Ti disturba il chiaro? — le domandarono. — No. — Vuoi dormire? — No, sto bene così. Parlate voi altri, vi ascolto.
[362]
Eppure di lì a poco sembrava ch’ella dormisse davvero. Faceva un gran caldo. La Tilde, in punta di piedi, uscì di nuovo sul balcone. Giorgio, un minuto dopo, la seguì piano piano.... Nessuno dei due s’accorse che la Maria s’era levata a sedere. Tutt’ad un tratto ella mise un grido acuto e cadde riversa. Li aveva visti darsi un bacio.
Non morì subito; morì il giorno appresso tra le braccia del padre a cui ella diceva, e furono le sue ultime parole: — Tu solo mi hai voluto bene.... tu solo.
Quando il piccolo corpo fu chiuso nella piccola bara, Alberto Rinucci vi si gettò sopra singhiozzando. Oh perchè non poteva esser chiuso lì dentro anche lui? Adesso sì la sua vita era veramente spezzata.
Al passaggio del funerale qualcheduno domandò: — Chi è il morto? — È la bambina Rinucci — rispose un altro dei presenti....
Aveva diciannove anni.
Fine.
DEL MEDESIMO AUTORE.
Alla finestra. 4.ª edizione | L. 3 50 |
La contessina | 3 — |
Dal 1.º piano alla soffitta. 2ª edizione | 3 50 |
Due convinzioni | 4 — |
Lauretta. 3.ª edizione | 3 50 |
Nella lotta. 2.ª edizione | 3 50 |
—— Edizione illustrata da G. Amato | 4 — |
Reminiscenze e fantasie | 3 50 |
Sorrisi e lagrime. 3.ª edizione | 3 50 |
Prima di partire | 4 — |
In balìa del vento | 3 50 |
L’onorevole Paolo Leonforte. 3.ª edizione | 1 — |
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.