The Project Gutenberg eBook of Pompei e le sue rovine, Vol. 1 (of 3)

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Title: Pompei e le sue rovine, Vol. 1 (of 3)

Author: Pier Ambrogio Curti

Release date: December 5, 2023 [eBook #72321]

Language: Italian

Original publication: Milano: Sanvito, 1872

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI E LE SUE ROVINE, VOL. 1 (OF 3) ***

POMPEI
E LE SUE ROVINE VOL. I


POMPEI
E LE
SUE ROVINE

PER L’AVVOCATO
PIER AMBROGIO CURTI

GIÀ DEPUTATO AL PARLAMENTO NAZIONALE
DIRETTORE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI ARCHEOLOGIA
E DI BELLE LETTERE DI MILANO

VOLUME PRIMO

1872
MILANO — F. SANVITO, EDITORE.
NAPOLI — DETKEN E ROCHOLL.


Proprietà letteraria.

Legge 25 Giugno 1865. Tip. Guglielmini.



INDICE


[v]

A
GIOACHIMO CURTI
FRATELLO SUO
NOBILE ECCEZIONE FRA I TANTI
CHE IN OGGI
I VINCOLI E GLI AFFETTI DEL SANGUE
SOMMETTONO ALLO INTERESSE
QUESTA OPERA
DI POMPEI E LE SUE ROVINE
CHE EBBE DA LUI PRIMA E GENEROSA OCCASIONE
L’AUTORE
INTITOLA E CONSACRA.

[vii]

INTENDIMENTI DELL’OPERA

Le profonde commozioni che si destano in coloro che, forniti di cuore e di mente, visitano questa antica e interessante città di Pompei, esumata più dal caso che dalla sapienza degli uomini, si traducono in così facili entusiasmi, che il più spesso imperiosamente addomandano d’essere in qualunque modo estrinsecati. — E ciascuno allora opera secondo la propria inclinazione.

Vedesi quindi aperta la gara degli ingegni: l’archeologo va divinando l’uso de’ pubblici e privati edifizj, legge le iscrizioni osche e latine, le interpreta e ne escono quelle splendide monografie di Arditi e di Mazois, di Fiorelli e di [viii] Mommsen, di Garrucci e di Overbek, per non dir d’altri molti; lo storico ne ricostruisce le vicende politiche e civili e ne somministra i materiali a tutti quanti si accingono a scrivere degli scavi; l’artista nelle statue e nei bronzi, nelle pitture e ne’ mosaici, negli stili e nelle linee architettoniche tien conto delle condizioni dell’arte ne’ tempi dell’Impero e appajono quelle superbe illustrazioni de’ Nicolini, la Pompeja di Bréton e la terribile tela di Bruloff; la musica stessa si ispira e con Pacini vi delizia e fa fremere negli Ultimi giorni di Pompei, con Petrella nella melodiosa Jone; il letterato finalmente vi accende la fantasia e colla potenza di essa ripopola le deserte vie, rianima le diroccate case, risuscita i defunti uomini e vi trasporta e prima e al tempo della catastrofe e poi al romanzo di Bulwer, dall’egual titolo dello spartito di Pacini, al Pompei di Vecchi, al Curricolo di Dumas, all’Arria Marcella di Gauthier, vi commovete, palpitate, piangete. Altri vi dettano libri e guide, spesso copiandosi, a minoranza di fatica, gli uni e gli altri, e ottenete pure lavori non ispregievoli, come quelli del Romanelli e dello Jorio, del Bonucci e dell’Aloe, del Nobili e del Monnier e vie via di altri; comunque a tutti questi io metta innanzi la piccioletta [ix] Guida di Pompei anonima, uscita in Napoli dalla tipografia de’ Fratelli Testa e Compagni, a cui, dove mal non m’apponga, ha presieduto qualche ingegno che sta dappresso all’illustre dotto che ora è prescelto alla Direzione degli Scavi Pompejani.

Invaso io pure da quella febbre d’entusiasmo e questo volendo alla sua volta la propria pubblica manifestazione, io son venuto eseguendola, sotto l’aspetto d’un confronto della dissepolta città con Roma antica, quella parendomi, collo studiarla ne’ suoi avanzi, poter valere di supplimento o piuttosto di chiarimento alla vita publica e privata dell’immortale metropoli del mondo.

Oh, quante volte entrando nel Foro e nella Basilica di Pompei, nei templi e nelle taberne, nelle vie e nelle case e perfino ne’ ritrovi della procace Venere, ritrovai la spiegazione di passi prima incompresi di classici scrittori dell’aurea latinità, che riferivansi ad usi e costumi de’ Quiriti! Tali riscontri, siffatte tacite ma non meno eloquenti rivelazioni, mi suggerirono l’opera presente.

Veda il lettore la ragione allora delle frequenti citazioni che vi troverà, ma più ancora del soverchio intrattenermi ch’io fo di Roma. Non son primo ad affermarlo: presentare in piccolo Pompei [x] ciò che in ampie proporzioni era la Roma dell’Impero, e scandagliare gli scavi di questa città, che si nomò pure Colonia Veneria Cornelia, per esservi stata dedotta una colonia Romana, costituisce il migliore commento agli storici e poeti di Roma.

Sotto questo punto di vista reputo aver compiuto cosa e nuova ed opportuna: oso dire non acconcia soltanto ad iniziare chi la vuol leggere a meglio intendere queste preziose reliquie che a migliaja ogni anno corrono nazionali e forestieri a visitare; ma a precisare eziandio nella mente dello studioso quella farragine di cognizioni che lo studio de’ classici esemplari, eseguito nelle scuole, gli ha messa per avventura disordinatamente nella testa.

Ho per altro pensato anche alla classe meno colta de’ lettori, ed alla testuale riproduzione dei brani che mi venivano a capello, ho soggiunto in calce ogni volta la versione relativa, spesso togliendola a prestanza dai volgarizzamenti più riputati e spesso ancora facendola io medesimo, quando non li avessi sotto mano, od a seconda di quegli intenti cui la mia opera mirava. E di libertà è facile accorgersi essermene prese a piene mani; perocchè io mi avessi ad arbitrare a conservare [xi] a frasi ed a parole il loro conio latino, come quello che rendesse più esatto il significato della storia. Mi parve infatti che certi nomi proprj speciali ad usi del tempo non si potessero, per aristocrazia e schifiltosità di linguaggio, camuffare alla moderna. Così, a mo’ d’esempio, il pilentum, il carpentum, l’essedum, il petoritum, e va dicendo, non potevansi per me ritenere sostituiti da tregge, carrette ed altrettali vocaboli di italiana fattura, senza tradire la storica verità. E vorrei così aver fatto un leggier cenno, o indicazion di condotta a’ futuri traduttori, sicuro d’aver reso alle lettere ed alla storia segnalato servizio.

Tali almeno sono stati i miei convincimenti: al publico il giudicare se essi fossero un cotal poco boriosi e fallaci.

Queste cose ad ogni modo volevo si sapessero; perocchè ne avrei altrimenti d’assai scapitato, se si fosse creduto che con questo lavoro mio avessi inteso d’aggiungere lume a quelle dotte e fortunate indagini alle quali incumbono di proposito e quell’eletto ingegno del comm. G. Fiorelli, che presiede agli scavi di Pompei, e quegli altri che gli fanno onorevole corona e che nel Giornale degli Scavi vengono mano mano sponendo illustrazioni e studi assai sapienti, ai quali nel [xii] corso dell’opera ho più d’una volta con buon frutto ricorso.

Sarebbe diversamente stato davvero un portar vasi a Samo.

Aperti così tutti i miei intendimenti avuti in questi miei studj, ho più animo a presentare i miei volumi al Publico ed a sperarne l’indulgenza migliore.

E qui mi corre il dovere, prima di prender commiato da chi mi legge — poichè la dedica dell’opera ha già detto l’animo mio verso l’amatissimo fratello che me ne fu prima occasione — di sdebitarmi degli obblighi di riconoscenza verso quel mio antico amico e dotto uomo che è il chiarissimo Pietro Cominazzi, nestore del giornalismo letterario ed artistico, il quale non solo fu tanta parte negli incitamenti a condurre quest’opera, ma nella tema che sbolliti i primi empiti, m’avessi a fermar a mezzo della via, ad impegnarmi in certo modo verso il Publico, mi poneva a libera disposizione il suo giornale La Fama, perchè in esso mano mano stampando i miei capitoli, potessi poi, senza quasi avvedermi, compiere il lungo lavoro e poi sul medesimo, praticare quante aggiunte e pentimenti mi fossero piaciuti. Di tal guisa, egli, che giovinetto mi [xiii] sorresse ne’ primi tentativi letterarj, con ogni maniera di incoraggimenti e del quale posso veramente dire con Ovidio:

Primus, ut auderem committere carmina Famæ

Impulit, ingenii dux fuit ille mei,[1]

volle essere auspice eziandio a questi nuovi studi, che si ponno dire la ripresa di quelli ai quali m’aveva con tanto amore informato quella perla di prete e di maestro che fu Antonio Daverio e dai quali usciva appena il giorno che facevo la prima conoscenza di lui, che mi aveva ad essere il mio migliore e impareggiabile amico.

[xv]

POMPEI E LE SUE ROVINE

Tomba di Virgilio. Vol. I. Introduzione.

[1]

INTRODUZIONE

Sogliono dire gli Spagnuoli: Quien no ha visto Sevilla, — no ha visto maravilla. Penso che almeno altrettanto, dispensandosi dalla rima, si possa affermare del golfo di Napoli, o sottoscrivere al vecchio ma espressivo adagio: Vedi Napoli e poi mori; come all’incirca usava sclamare la gioventù d’Atene dinanzi alla bellezza dell’eteria famosa di Pericle: Una notte con Aspasia e poi morire. Nulla di più bello e ridente, nulla di più incantevole del suo gran panorama, sia che ti si presenti venendo per mare dal ponte di un battello a vapore, sia che a te si spieghi dinanzi, come a volo d’uccello e come io l’ho ammirato, prima dal terrazzo di San Martino, il più leggiadro chiostro [2] ch’io m’abbia mai visto e che i seguaci di San Brunone hanno saputo procacciarsi, e poscia più su dal più alto ballatojo di Castel Sant’Elmo, che sovraggiudica la città.

Questo vaghissimo seno, a cui fanno tutt’intorno corona monti e colline verdeggianti, — fra cui il vecchio Vesuvio, che anche allorquando riposa o si cinge di nubi la testa, libera dalle sue fauci tremende bianchi buffi di fumo, sì che a que’ del paese ei fa dire che pipa, — si distende siccome anfiteatro, per una parte incominciando dal Capo Miseno e via via, seguendo que’ pittoreschi sobborghi di Pozzuoli, Posilipo e Mergellina, trova la popolosa città partenopea, che par di poi si prolunghi per San Giovanni e Portici, Resina e Torre del Greco, Torre dell’Annunziata e Pompei, e si chiude dall’altra con Sorrento, — il leggiadrissimo paese che già consolava gli affanni del Cantore della Gerusalemme Liberata, nella casa della sorella sposa a Marzio Sersale, — e col vicino promontorio di Minerva, sede un giorno delle Sirene, secondo l’antica mitologia[2].

[3]

Gli è tutto un miracolo dì terra e di mare; gli è tutto un sorriso di cielo.

Anche di cielo: perocchè se le pioggie incessanti che attristarono nel dicembre scorso il zaffiro del nostro firmamento, pur non graziarono Napoli in que’ giorni ch’io mi vi trattenni, colà chiamato dall’amore di un fratello, che testimonio mi voleva alla gioja più santa di sua casa — alle nozze, vuo’ dire, dell’unica figliuola; — nondimeno quattro o cinque di que’ giorni il sereno rifulse in tutto il più puro splendore ed ammirai taluno di que’ tramonti che io per lo addietro avevo scorto in qualche tela smagliante e giudicato traviamento di tavolozza, tanto calde e vaghe erano le tinte, tanto vaporose od accese, violacee e d’oro, sì che l’antica Caprea di Tiberio, che dal mio balcone di Chiatamone[3] vedevo sorgere in bella lontananza davanti, ne fosse tutta di quella luce circonfusa e splendente. Sotto quel [4] cielo, con quell’aere così clemente anche nel verno, io compresi perchè le ubertose campagne che avevo attraversato avessero a quella terra meritato da’ Quiriti il nome di Campania Felice, e perchè il vecchio Plinio lasciasse scritto[4] che Bacco e Cerere si disputassero la gloria d’arricchirla, e i vini della quale producessero l’ebbrezza e fossero famosi per tutta la terra, siccome il falerno, il cecubo, il massico e quel di Celene cantati da Orazio. Con quegli spettacoli di natura io facilmente mi spiegai perchè in Pompei traesse Cicerone a riposarvi gli ozj consentiti dal foro, oppure da’ publici officj; perchè Sallustio vi venisse del pari a dettare le poco sincere, ma eleganti pagine della Guerra di Catilina; Ortensio riparasse nella sua villa di Bauli a trovare amena tranquillità[5]; e Virgilio soggiornasse in Posilipo e vi morisse; e Stazio e Silio Italico e altri illustri vi si ispirassero e le loro ville e le terme vi rizzassero, accorrendo dall’Urbe, i proconsoli a sfruttare le immense rapine fatte nell’Asia ai popoli trionfati, e i Cesari, sitibondi di voluttà e di libidine, quivi si conducessero siccome a più propizio teatro.

[5]

E Baja? E Nisida? E Procida? E Ischia? E Ventotene? E Ponza?... Luoghi od isole tutte vaghissime e lussureggianti pei colti e pei fiori e per naturali fenomeni che tengon del magico, che vi commovon la fantasia, che vi esilarano il cuore e le cui bellezze io non presumo nella povertà dello ingegno di pur accingermi a qui ritrarre.

E le altre terre dove lascio io mai, celebrate nelle immortali pagine degli storici e dei poeti antichi? E l’oppido Cimmerio, memorato da Omero nel Canto XI dell’Odissea[6]; e i Campi Flegrei visitati da Ercole, e la palude Acherusia vicina a Cuma, ove la Sibilla rendeva i suoi fatidici responsi, e i cui libri contenenti fata urbis Romæ come attesta Lattanzio[7], ella offerse a Tarquinio il Superbo, e il lago Lucrino e quello d’Averno ad esso congiunto, ed entrambi illustrati dal Mantovano in que’ versi, che non so dispensarmi dal riferire:

[6]

An memorem portus Lucrinoque addita claustra

Atque indignatum magnis stridoribus æquor:

Julia qua ponto longe sonat unda refuso

Tyrrenusque fretis immittitur æstus Avernis?[8].

Venitemi ora a dire del Sannazzaro, del Marino, della Vittoria Colonna, del Di Costanzo e del Rota; venitemi a parlare ora della Guacci, della Milli, della Oliva-Mancini; venitemi a ripetere che più d’un bifolco persino registrarono le storie della italiana letteratura aver nel mezzogiorno della penisola ben poetato all’improvviso: ma e chi in mezzo a così fatti prodigi di natura, ricinto da così classiche memorie, non si sentirebbe poeta? Come non vi troverebbe ispirazione e canto?... Où sourit le ciel, ben sentenziò il Lamartine, l’homme est tenté de sourire aussi.

Ebbene, o Lettore, allorchè ho dovuto togliermi all’amplesso fraterno per ritornarmene alla mia natale [7] città; quando dallo sportello del mio vagone io vidi poco a poco dileguarsi al mio sguardo e la piana superficie del Tirreno, e i palagi di Napoli, e i monumenti del suo gran Cimitero, distribuiti per la china del monte, che la locomotiva rasenta, e la vetta fumigante del Vesuvio, e via rapidamente portato frammezzo i colli della Terra di Lavoro, io mi ritrassi nel mio posto, brulicante il capo di memorie, e quasi a forza io mi voleva soffermare col pensiero in qualche cosa di più incantevole che avevo veduto, mi trovavo invece sospinto....

— Dove? — domanderete voi.

Fra le Rovine di Pompei.

Tra quelle rovine che qualche dì prima avevo visitato, fra cui ero rimasto una intiera giornata, e che di poi lasciate, non m’erano uscite più dalla memoria, in cui credo vi rimarranno tutta la vita, tanto malinconica e sublime era stata l’impressione che ne avevo ritratta.

In quella mia peregrinazione io avevo sperato d’avere a guida quel dottissimo uomo e fior di cortesia che è il commendatore Giuseppe Fiorelli, soprintendente agli scavi dell’antica e sventurata città, che si va disseppellendo, e direttore del Museo Nazionale in Napoli, e certo [8] allora mi sarebbe stata più profittevole, come quegli che degli scavi ebbe inoltre a donare all’Italia un’opera, alla quale in un con altri suoi meriti legherà perpetuamente il suo nome. Ma il caso aveva voluto che il dì innanzi avesse egli dovuto accompagnare colà S. A. il Principe Ereditario d’Italia e S. A. il Principe Ereditario di Prussia: epperò mi fu forza acconciarmi d’altro de’ guardiani, organizzati militarmente dal Fiorelli, abbastanza istrutto della località, facendo nel resto richiamo per me medesimo a quanto già nella memoria serbavo della lettura di peculiari monografie, e più che tutto, ajutato dal ricordo de’ classici scrittori della latinità, di cui piacevami ad ogni tratto porre a raffaccio le citazioni coi luoghi.

L’artista che pinge il paesaggio, se avviene che percorrendo vallate e monti, campagne e selve, ritrovi nuovi orizzonti pittoreschi, punti vaghi di vista, rupi o cascate, macchie d’alberi o frondeggi di bell’effetto, ecco arrestarsi sollecito e sul cartone schizzare studj dal vero, e porre mano ai pennelli per ritrarne le curiose gradazioni della luce e dei colori: io adoperai alla mia volta egualmente in Pompei. Presi note alla matita, sgorbiai ricordi a [9] me solo intelligibili e passeggiandone tutte le silenziose vie, entrando nel foro, rovistando la basilica, esaminando le mura e gli archi, i templi e le terme, le tabernæ e le case, le fontane e le porte, il lupanare e i teatri, così venni il tutto stereotipando nella mia mente, che mi è di presente concesso dare ordine alquanto a’ quei Ricordi e confidarli a queste pagine meno labili della mia memoria.

Bartolo, insigne professore di diritto del secolo decimoquarto nella pisana Università, un dì scrivendo di Paolo, giureconsulto romano, così lagnavasi della costui oscurità da sclamare nel suo grosso latino: iste maledictus Paulus ita obscure loquitur ut vix intelligi possit et si præsentem haberem, per capillos interrogarem: or bene minor fatica accadrà certamente che compia chi vorrà interrogare le Rovine interessanti di Pompei, e renderanno anco una volta ragione a quello straniero scrittore che, rapito di entusiasmo dinanzi ai monumenti disseminati per tutta Italia, ebbe a dire non avere gli Italiani bisogno ch’altri scriva la storia del loro paese; perocchè ad essi l’apprenda ogni reliquia dell’antico e perfino quasi ogni sasso.

Esse diranno la storia e i costumi d’un popolo [10] con bastevole chiarezza, riveleranno la vita publica e quella del domestico focolare, e ripeteranno quasi le intime parole di cittadini, cui nel vigore dell’esistenza sopravvenne il novissimo giorno accompagnato dai terrori di un cataclisma, per il quale sembrò vero ai loro occhi quel che il Poeta aveva pochi anni innanzi cantato, enumerando i gravi avvenimenti futuri, de’ quali il sole ha costume ammonire gli uomini, che, cioè, l’universo creduto avesse omai a sè giunta la suprema rovina:

Impiaque æternam timuerunt sæcula noctem[9].

E la succitata opera del chiarissimo commendatore Fiorelli[10], e l’altra colossale del pari, dei fratelli Fausto e Felice Niccolini[11], successori al loro padre cav. Antonio, architetto di Casa Reale e Direttore dell’Istituto delle Belle Arti che la iniziò e il Giornale degli Scavi, che si vien publicando del [11] pari in Napoli, e il buon libro di C. Augusto Vecchi[12], troppo presto rapito alla Patria, cui ebbe il suo braccio e gli studj suoi consacrati; e Garrucci che illustrò le iscrizioni graffite sui muri di Pompei[13], ed altre monografie ed articoli e persino romanzi, come quello del Bulwer, sono là per attestarlo.

Io non ho l’ardimento di portar una luce qualunque nel rendermi interprete alla mia volta di quegli avanzi eloquenti: solo scrivendo questi Ricordi ho voluto soddisfare ad un desiderio del mio cuore e alla preghiera di un amico, a me provatissimo, l’egregio publicista e letterato Pietro Cominazzi, il quale mi fu all’opera maggiore incitamento.

Milano, addì 1.º Gennajo 1870.


Strada all’Eremitaggio del Vesuvio. Vol. I. Cap. 1. Il Vesuvio.

[13]

CAPITOLO PRIMO Il Vesuvio.

La Carrozzella napoletana — La scommessa d’un Inglese — Il valore di uno schiaffo — Pompei! — Prime impressioni — Il Vesuvio — Temerità giustificata — Topografia del Vesuvio — La storia delle sue principali eruzioni — Ercole nella Campania — Vi fonda Ercolano — Se questa città venisse distrutta contemporaneamente a Pompei — I popoli dell’Italia Centrale al Vesuvio — Combattimento di Spartaco — L’eruzione del 79 — Le posteriori — L’eruzione del 1631 e quella del 1632 — L’eruzione del 1861 e un’iscrizione di V. Fornari — L’eruzione del 1868 — Il Vesuvio ministro di morte e rovina, di vita e ricchezza — Mineralogia — Minuterie — Ascensioni sul Vesuvio — Temerità punita — Pompejorama.

Il mattino era bello ed io l’avevo salutato coll’inno migliore del cuore; perocchè avessi divisato d’irmene in qualunque modo a visitare la Rovine Pompejane.

Un egregio giovane, che vorrei nominare, mi dovea essere compagno nella vagheggiata escursione; e puntuale infatti egli venne colla carrozzella a levarmi dall’albergo.

[14]

Alla carrozzella napolitana, permetta il lettore che io dedichi qualche riga: essa è tanta parte dell’esistenza di laggiù, essa è anche un gradevole ricordo per me che me ne sono tanto servito. Le vie della grande città sono ogni ora, di giorno e di notte, percorse, attraversate da migliaja di carrozzelle; i forestieri e la gente del paese se ne valgono egualmente per accorciare le distanze e ne è incentivo la poca spesa; tanto gli è vero il proverbio dei nostri vicini: rien qui ruine plus que le bon marché.

La carrozzella è il brougham di Milano, la cittadina di Firenze: con questo di divario che essa è sempre scoperta, come il più spesso domandi la mitezza del clima: è insomma un calessino ad un cavallo, leggiero e d’uniforme modello. È più che decente veicolo, e di ciò vuolsi dar ampia lode a quel solerte Municipio che, a bandir la vecchia e incommoda carrozzella, privilegiò la nuova di un aumento di prezzo, portando la corsa da quaranta a sessanta centesimi.

La carrozzella va, vola, guizza fra la vettura blasonata e l’omnibus, fra i carri e il curricolo campestre, sbiadita immagine del pittoresco curricolo antico messo omai in abbandono, fra un gruppo di persone ed un altro impedimento, senza che mai urti od offenda, perocchè i cocchieri di Napoli, a parte la foggia del loro vario vestire, che talvolta accusa l’avanzo del lazzarone, sono i primi cocchieri del mondo.

[15]

Essi han per altro una caratteristica tutta propria: rado o mai avverrà ch’essi, come i cocchieri d’altrove e come ne sarebbe il dovere, si accontentino della mercede che loro si dà. Avreste voi generosamente a pagar quattro volte quella portata dalla tariffa, che vi direbbero egualmente, sporgendo la mano e come un ritornello:

Uscellenza, per la bottiglia?

Un inglese faceva un giorno l’eguale rilievo davanti a’ suoi amici napoletani, i quali forse per pudore municipale, richiamavanlo in dubbio. L’inglese fido al vezzo del suo paese, propose, a prova del proprio assunto, una scommessa e fu accettata. Entrò adunque nella prima carrozzella che gli occorse, ed al suo fianco sedette uno di quegli amici. Tennero breve la corsa: l’inglese, giunto al luogo che aveva designato, scendendo, porgeva cinque franchi al cocchiere, cioè più di otto volte quel che doveva secondo la tariffa; ma non per questo il cocchiere, portando la mano al cappello, ristava dall’abituale domanda:

— Uscellenza! per la bottiglia! — e la scommessa fu vinta dall’inglese.

In ricambio questi valenti automedonti, come tutti i buoni figli di quel popolo, sono passivi ai più acerbi rimbrotti, anche se talvolta essi vengano commentati col rovescio della mano. Esempio. Un forestiero, al par di me, si era fatto accompagnare in [16] carrozzella alla stazione della strada di ferro per andare a Pompei. Là venuto a contesa col cocchiere, che pretendeva essere stato impiegato a servizio d’ora e non di corsa, si era lasciato andare ad applicargli uno schiaffo, quasi a perorazione della sua filippica: il cocchiere si tenne allora per pago e se ne andò. All’ora del ritorno, alla ferrovia le carrozzelle attendevano numerose gli arrivati, i cocchieri facevano chioccare la scuriada, urlavano le loro proferte. Fra di essi vi era pure il cocchiere della contesa del mattino, il quale vista la sua pratica vivace, lieto del rivederla, come fosse una conoscenza amica, per adescarlo ad entrare di nuovo nella sua carrozzella,

— Signorino, gridò; uscellenza, venite qui! Io sto quello quaglione (ragazzo) de lo schiaffo di stamattina.

Il richiamo non riuscì vano: il forestiere sorrise a quel nuovo genere di raccomandazione, lui preferì e riparò così il troppo lesto suo procedimento del mattino.

Ora ritorno alla mia carrozzella.

Percorremmo con essa Santa Lucia, passammo dinanzi il Real Palazzo e il Gran Teatro e per la Porta del Carmine, famosa un dì per l’insurrezione di Masaniello, uscimmo alla stazione della ferrovia che da Napoli, passando per Pompei, mette capo ad Eboli.

Non s’era posto in movimento ancora il traino, che già una pioggerella veniva, come una beffa al mio inno di un’ora prima, inopinatamente a sbattere [17] nei vetri del vagone; ma non fu infatti che una celia, perchè non eravamo ai Granili, che già essa con mia grande soddisfazione aveva cessato.

Dopo tre quarti d’ora all’incirca, s’arrestò il convoglio, e scendemmo al grido propagato dei conduttori:

Pompei!

Provai un palpito più frequente a quel nome, come l’avrà a un di presso provato il fido Acate, quando dalla prora del suo naviglio che recava il pio Enea e i penati profughi da Ilio, vide e salutò Italiam! Italiam! e posto piede in terra, diedi collo sguardo una buona ricercata allo intorno, a riconoscere il luogo, e innanzi tutto lo tenni fisso al monte che, sogguardando la sua vittima antica, tranquillamente fumigava, come un indolente marinajo che sulla tolda sdrajato della sua paranzella mandi fuori spessi nembi di fumo dalla sua pipa bruciata.

Il Vesuvio è ben più di sette chilometri discosto da Pompei: or come avvenne, mi chiedeva io maravigliato, che potesse un dì eruttar sì gagliardo da seppellire sotto le sue ceneri e le sue pomici e quella città e Stabia? Che ciò accadesse ad Ercolano, ad Oplonte, a Retina; che Torre del Greco venisse per nove volte distrutta dalle lave invaditrici, si poteva benissimo capire, perchè disotto o poco meno; ma doveva essere stato un ben fiero cataclisma se il disastro aveva potuto raggiungere quelle due lontane città.

[18]

Prima ora d’introdurre meco il lettore nelle Rovine, soffra ch’io apra qui una parentesi e che favelli alcun poco di questo ignivomo monte, cagione sola di esse, e che costituisce anche in oggi una delle più curiose ragioni di intrattenimento a chi visita Napoli, come alle terre medesime che assai spesso visita e devasta reca fecondità e ricchezza.

È questo solo il motivo per il quale è dato coonestare quella incredibile temerità che spinge la gente di questo suolo ad abitarne in paesi le falde, come Bosco Reale e Bosco Tre Case; e più d’un signore a tenervi amena abitazione di campagna perfino a qualche miglio al disotto del cratere, sicchè appena il suo cono si possa dire disabitato, perchè scosceso affatto ed arenoso.

Non parrà vero infatti, ma sta che dentro un perimetro di quattro miglia allo intorno del Vesuvio si adagino spensierate altre undici popolose borgate: esse sono Portici, Resina, San Giorgio a Cremano, Torre del Greco, Torre dell’Annunziata, che fornisce da secoli i più animosi ed abili corallari[14], Ottajano, Somma, Sant’Anastasia, Pollena, Massa e San Sebastiano, con una popolazione complessiva di centoventimila [19] persone, ricadendone così duemila per ogni miglio quadrato.

Il Vesuvio, che sin da’ tempi di Roma pagana appellavasi Vesuvius, o Vesvius e Vesevus più anticamente, è l’unico vulcano che abbia il continente europeo — poichè l’Etna sta nell’isola Sicula — e dista di sette miglia, ad oriente, da Napoli. La sua elevazione è di 1292 metri[15]; la base, alla distanza di 4 miglia in linea retta dal suo cratere, ha una periferia di 24 miglia. Le falde di sud-ovest si tuffano nelle onde del golfo di Napoli, e sono quelle che sostengono i territorj più soggetti alle lave, come lo sono quelle dell’est che sfumano per la pianura della Campania; le falde invece del nord, che degradano pur nella stessa, difese dalle creste del Monte di Somma che si elevano a guisa di un ferro di cavallo, e che un giorno non formavano col Vesuvio che una sola montagna, vanno immuni dalle eruzioni e dai loro guasti.

[20]

Se si pon mente così a’ vulcani del Puebla, dell’Orizaba, del Pichinca, dell’Artisana, dell’Arequipa, del Picco di Teneriffa ed anche del nostro Mongibello, esso non è certo fra’ più giganti; ma le sue eruzioni son nondimeno e terribili e frequenti; forse perchè, scrive Giuseppe Rudini in un suo cenno compendioso sul Vesuvio, intorno ad esso non ve ne sono altri, come avviene nelle Americhe e nella Oceania; l’isola di Giava essa sola contandone più di trenta, quantunque abbia una superficie inferiore all’Italia.

Ho detto frequenti le eruzioni del Vesuvio e qui, toccando appena di quegli incendj che qualche scrittore avvisa avvenuti molti secoli prima della presa di Troja, e di quell’altro ch’ebbe luogo, secondo Aurelio Alessio Pelliccia[16], dopo l’eruzione della Solfatara, negli anni 1000 avanti l’Era Volgare, e da cui egli opina abbia avuto origine il territorio Nolano, Sarnese e Nocerino, mi piace citare, poichè mi cade in taglio, un brano di Diodoro Siculo, il qual viveva al tempo d’Augusto, spiccandolo al libro quinto delle Antiquitates Historicæ, acciò sia prova che le eruzioni di questo Monte risalgono nella antichità sino ai tempi favolosi. Perocchè insino al secolo scorso i più dotti uomini di lettere, copiandosi l’un l’altro, [21] avessero ripetuto che la prima eruzione del Vesuvio quella fosse stata in cui era seguìta la morte di Cajo Plinio Secondo il vecchio; errore codesto che divise altresì quel padre Della Torre, che pure una dotta dissertazione lasciò scritta nell’argomento:

«Hercules deinde a Tiberi profectus, per littus Italiæ ad Cumæum venit Campum: in quo tradunt fuisse homines admodum fortes et ob eorum scelera Gigantes appellatos. Campus quoque ipse, dictus Phlegræus, a colle qui olim plurimum ignis instar Æthnæ Siculi evomens, nunc Vesuvius vocatur, multa servans ignis antiqui vestigia[17]

La presenza in questi luoghi di Ercole, ai quali egli recava, giusta la storia, la fiaccola della civiltà, fu segnalata a’ posteri eziandio dalla fondazione di quella illustre ed infelice città che da lui tolse gli auspicj ed il nome, e però fu chiamata Ercolano. Ivi ebbe l’invitto semidio e culto ed altare dai grati abitatori e da quanti, come Giulio Cesare e i Fabii, rapiti dalla superba leggiadria del luogo, vi eressero ville e palagi, infino al nefastissimo giorno in cui [22] la travolsero prima i tremuoti e poi le lave irruenti senza posa del Vulcano che le incombeva, e fu quel giorno — secondo la fede dei più — che non dissimile sorte toccava a Pompei, a Stabia e ad altri borghi minori.

E dissi fosse il medesimo giorno, cioè il nono delle calende di dicembre (23 novembre) dell’anno 79 di Cristo; abbenchè non manchino argomenti a credere che Ercolano non venisse sepolta che anni dopo, se Plinio il giovane nelle due lettere in cui narra a Tacito l’eccidio pompejano, e che in altro capitolo riferirò, non fa menzione che ad Ercolano arrivasse la sventura medesima, e se Lucio Floro vent’anni dopo parlasse ancora di Ercolano come di città tuttavia sussistente. Dell’autorità di Seneca non m’avvaloro io qui a sostegno di tale congettura, come qualcuno ebbe a fare, perocchè non ignorasi come quello scrittore fosse morto molt’anni prima del 79.

Io non ho a scopo di sollevare e discutere questioni storiche ed archeologiche, nè mi vorrei misurare con chicchessia che altri studj ed altro tempo mi occorrerebbero: noterò quindi ora solo che se Ercolano e Pompei toccavano a un tempo stesso la tomba, quasi a un tempo stesso del pari gittavano il primo lembo del pesante coperchio, a mezzo il secolo scorso.

Fu a mezzo del quarto secolo di Roma che alle falde del Vesuvio si trovarono fronte a fronte tutti i popoli dell’Italia centrale, quando i Romani, a sventare [23] le cospirazioni del Lazio a danno della loro sicurtà, sospinsero Marsi e Peligni contro ai pingui Campani, e fu quella, dice il Cantù[18], guerra feroce come le fraterne, segnata da ricordi della severità dei patrizj conservatori e dagli avanzi delle truci religioni pelasghe. Ma su di ciò sorvolo adesso, chè m’avverrà di ritornarvi nel capitolo seguente.

È a questo punto che a ricordar altro fatto famoso, il quale si lega ai fasti vesuviani, debbo registrare altro combattimento che vi ebbe luogo e fu glorioso a Spartaco, il trace gladiatore.

Era l’anno 682 dalla fondazione di Roma.

Rinchiuso quel gagliardo con altri gladiatori schiavi nel ludo di Lentulo Batiato in Capua, secondo narra Plutarco[19], stanco omai dell’iniquissimo costume che sè e i compagni condannava a duellare nel circo, a spettacolo di tristi padroni e di stolta plebe, a farla finita con quella degradazione, aveva spezzata la catena della servitù e vendicato si era a libertà. Un carnajo aveva costato a Capua quella sollevazione di schiavi e uscitone libero, a capo di settantaquattro rivoltosi al pari di sè determinati, erasi ritratto su per i balzi del monte Vesuvio. Quivi lo accerchiava e incalzava Clodio Glabro alla testa di tremila soldati, e così costui l’ebbe ridotto al sottile, sospingendolo fino alla [24] aspera sommità, che una sola escita vi fosse e quella guardasse egli e i militi suoi, onde ogni adito precluso, si credesse omai certo d’averlo agevolmente nelle mani. Ma Spartaco ricorse allora ad astuto espediente. Aveva in buon numero raccolti i tralci delle viti selvatiche di lambrusco che inghirlandavan la montagna e quelli a vimini attorcigliati siccome corde, li accomandò forte ai crepacci delle rocce, e per tal guisa, egli ed i suoi scivolando per essi lungo i precipizj, potè inavvertito calare alla pianura, da dove poi soprarrivando alle spalle delle milizie pretoriane così le ruppe e sbaragliò da maravigliare ognuno e d’assodare di tal forma la propria fortuna e comparir quasi subito di fronte alle legioni romane con diecimila combattenti e poscia con centomila, e da far paventare per lungo tempo Roma, la possente Roma, di sua salute. La guerra degli schiavi, servile bellum, da lui iniziata, e che fu chiamata seconda, perchè altra sollevazione dei servi erasi molt’anni prima combattuta, occupò seriamente assai la Republica, molte pagine interessanti vi consacrò a buon diritto la storia.

Tace questa del formidabile monte per il corso di cencinquant’anni; ma innanzi ad esso ci guida il primo anno d’impero di Tito Vespasiano, per farci assistere al più crudele e spaventoso spettacolo; ond’io riprendo il filo dell’interrotto argomento.

L’anno 79 dopo l’Era Volgare, avvenne quella formidabile [25] eruzione che Taurania e Oplonte, Retina ed Ercolano, Pompei e Stabia desolò e seppellì, e della quale recherò in un capitolo venturo la miseranda istoria, e le vie stesse di Ercolano e di Pompei discoperte, e le costruzioni loro, in cui tanto entrano i graniti usciti liquidi dalla bocca del vicino vulcano, ne chiariscono de’ precedenti commovimenti, a scaltrire dell’errore coloro che, come dissi, pretesero datar le furie vesuviane da solo quest’anno. Altri molti seguirono di poi, quelli più memorandi assegnandosi agli anni 203, 472, 512, 685, 993, 1036, 1049, 1138, 1139, 1308, 1500, 1557, 1538, 1631, 1632, 1660, 1682, 1694, 1701, 1704, 1712, 1717, 1730, 1737, 1751, 1754, 1755 a cui s’arresta l’enumerazione che ne fece il padre Della Torre.

Fu avvertito come importante pel riguardo geologico quello del 1036, perchè fosse il primo, che secondo i ricordi storici, mandasse la lava liquida dal nuovo cono, avendosi anzi ragioni per credere ch’essa fosse giunta infino al mare.

Uno straordinario fenomeno vulcanico rammenta nella sua Descrizione del Vesuvio l’inglese Logan Lobley, avvenuto nel 1538. «Negli ultimi tre giorni del settembre, dice egli, scorsi il Monte Nuovo, fra Barà e Pozzuoli. Questa collina è alta circa quattrocento piedi e contiene un vero cratere, quasi tanto profondo quanto è alto il monte. La formazione del Monte Nuovo è degna di particolare attenzione perchè [26] offre una spiegazione probabile del modo con cui la parte più bassa del Vesuvio venne formata in origine, perchè dacchè vi ha una prova evidente che il Monte Nuovo è un cratere di eruzione, non sembra siavi molta inverosimiglianza nella nostra supposizione che il grande complesso del Vesuvio, come pure tante altre cime composte di materia vulcanica, abbiano avuto una cosiffatta origine.»

E di parecchi altri di essi commovimenti mi vennero alle mani non inopportune notizie, desunte le une dal Giornale dei letterati dell’abate Nazari[20], le altre da un interessante manoscritto esistente presso il signor Camillo Minieri Biccio dal titolo Historie Prodigiose. Nelle prime si attesta a quanta distanza venissero spinte le ceneri vesuviane nell’eruzione del 1631 e in quale quantità, onde non sia a maravigliare che potesse essere stata dalle medesime ravvolta e sepolta nel 79 Pompei; e nelle seconde l’eruzione del 1632 verrebbe segnalata come la più terribile e disastrosa, dopo quella dello stesso 79. Io vi spicco pertanto quel tratto da entrambi che ne porge i meglio importanti particolari.

«Il 6 dicembre 1631, dice il giornale del Nazari, riferendo una lettera del capitano Willelm Badily, essendo egli nel golfo di Volo (Macedonia) sopra l’àncora, la notte intorno alle dieci ore dell’orologio, [27] cominciò a piovere rena e cenere, e continuò sino alle due ore della mattina seguente. Era intorno a due diti alta sopra il tavolato in modo che la gittarono fuora con pale, e come fecero la neve il giorno avanti, ne portarono in Inghilterra una buona quantità e ne diedero a diversi amici.» Antonio Bullfon[21] del resto affermò che in molti luoghi d’Italia e sino a due sole giornate da Costantinopoli, furono portate le ceneri, e fuori della voragine furono balzati per aria sassi, di peso intorno a cinquecento cantara, e taluno portato dodici miglia lontano dal monte per la violenza dell’impeto che lo spingeva assai più che una bomba non sia dalla polvere trasportata.

Secondo il detto scrittore inglese in questa catastrofe sarebbero perite non meno di diciottomila persone; ma forse una tanta rovina non si avverò che nell’anno dopo. Infatti ecco quanto è nel manoscritto del signor Minieri Riccio circa l’incendio avvenuto nell’anno susseguente.

«Ma che si dirà della spaventevole apertura che fece detto monte (il Vesuvio) l’anno 1632 intorno alle feste di Natale, il quale si aperse con tanti truoni et tanta quantità di ceneri, ciò che fu cosa compassionevole con la perdita di molte migliaja di persone et molti animali. Ruinò molte terre allo [28] intorno come la Torre del Greco, la Torre dell’Annunziata, Massa, Somma, Sant’Anastasio, Ottajano, et altre terre allo intorno di detto monte con la lava grandissima di ceneri ardenti et acqua bollente che produceva detto monte, giettava pietre dalla sua vacua apertura della grandezza della pietra di molino, et si fece la apertura di quattro miglia di rotondità.»

Nella eruzione del 1737 vuolsi che scaturisse un ruscello di lava che conteneva oltre a 33,000,000 piedi di lava. Sir Carlo Lyell ne’ suoi Principles of Geology, allude alla lava di questa eruzione quando dice che si può osservarla presso Torre del Greco, ove ha una struttura a colonne.

Le eruzioni del 1766, 1767 e 1770 sono state geograficamente descritte da sir William Hamilton nelle sue Lettere alla Società Reale e massime dell’ultima reca curiose particolarità.

Quando avvenne il famoso terremoto delle Calabrie nel 1783, scrive l’illustre L. Palmieri, — cui si devono le più dotte elucubrazioni intorno ai fenomeni di questo vulcano e il trovato del sismografo che ne previene de’ medesimi —, esso finì con la grande eruzione dell’Etna dello stesso anno, seguita dal lungo eruttare del Vesuvio fino al 1788. Senza ricordarne altre eruzioni intermedie, quantunque terribile fosse quella del 1793 che durò dal febbrajo fino alla metà di giugno dell’anno susseguente, in cui secondo i calcoli di Breislak sarebbersi eruttati 46,098,766 piedi [29] cubi di lava; quella non dimenticherò accaduta nel dicembre 1861, che tanto danno recò a Torre del Greco, perchè essa porse occasione a bell’esempio di patria carità, pel concorso di tutta Italia a temperarne la sciagura a quegli sgraziati terrieri. Il generoso fatto viene ai posteri rammentato da un’iscrizione dettata da V. Fornari, e scolpita in Torre del Greco stessa, la quale godo di riportare:

SARÀ PERPETUA LA GRATITUDINE
DI QUESTI ABITANTI
VERSO I FRATELLI DI TUTTA L’ITALIA
NE’ QUALI FU TANTO VIVA LA CARITÀ
DELLA COMUNE PATRIA
RECENTEMENTE UNITA
MDCCCLXI
UN CROLLO DEL SOPRASTANTE VESUVIO
RUINÒ QUANTO ERA MURATO
ACCORSERO DA OGNI PARTE
CON AJUTI SÌ GENEROSI
CHE NE FURONO ALLEVIATE LE MISERIE PRESENTI
E NE AVANZÒ DA FONDARE
UN ASILO D’INFANZIA
E IL RICOVERO PER DUE ORFANI.

Quasi continue arsioni vesuviane si vennero succedendo dal febbrajo 1865 fino al mese di maggio del 1868.

L’ultima fase della lunga attività del Vulcano, [30] colla quale ha devastata la più amena e fertile contrada che ancor esisteva alle falde del monte, denominata delle Novelle, venne percorsa nel novembre di quello stesso anno 1868. Ad ammirarne i più formidabili fenomeni trassero a migliaja da ogni dove le genti, ed io, per la prossimità dell’epoca, sono eccitato a qui riprodurre quelle notizie che il sullodato signor Palmieri ha mandate per la stampa in una strenna apparsa il passato anno in Napoli, dal titolo appunto Il Vesuvio, edita a pro dei danneggiati dall’eruzione, e nella quale ebbi l’onore di essere collaboratore.

«Nel dì 15 del passato mese di novembre, scrive egli, il cono vesuviano mostrò dal lato di settentrione una linea di fumarole dalla cima alla base, e tosto alcune di queste si trasformarono in vere bocche di eruzione. Era quello il segno di una fenditura avvenuta, e quindi del cominciamento di una forte conflagrazione con la quale doveva fluire la lunga serie delle piccole eruzioni centrali che durava sino dal 1865.

«E veramente le lave apparvero ben presto copiose per tre fenditure alla base del cono, sulle quali si formarono tre serie di coni effimeri, i quali indicavano che la fenditura di eruzione partendo unica dalla cima del cono si tripartiva alla base. Questi coni mostravano una grande attività, imperciocchè con molto fumo cinereo gettavano in alto materie incandescenti, ed in mille guise strepitavano. Tre [31] fiumi di fuoco con le loro sponde di scorie si vedevano scorrere nell’Atrio del cavallo, i quali precipitandosi per varie cascate nel fosso della Vetrana lo ricoprivano fino alle sponde ove ardevano alberi di querce e di castagni. Percorsa questa valle, che passa sotto le mura dell’Osservatorio, queste lave cadevano con nuove cascate di fuoco nel sottoposto burrone con grave spavento degli abitanti di Massa e di San Sebastiano, i quali ricordavano che le lave del 1855, venendo per la stessa via, aveano sepolta una parte delle loro case e delle loro vigne. Ma l’ignito torrente invece di spingersi innanzi pel Fosso di Faraone, si volge a sinistra sotto la coda di Apicella, dove nel 1855 erasi versato un rivolo di lava, ed invade furioso le campagne sottoposte accennando a San Giorgio. Nell’amena e fertile contrada detta delle Novelle per vini e per frutta molto rinomata, eravi una quantità di case coloniche ed abitazioni campestri con una piccola chiesa dedicata a San Michele; la maggior parte di questi edifizj furono coperti dal fuoco, e noi vedemmo le solite scene dolorose della gente che fuggiva trasportando chi il letto, chi la marra e la scure e chi cercava di mettere in salvo le botti col vino non ancora venduto. Fortuna volle che dopo sette giorni le lave dall’alto prontamente scemarono, e quindi il fronte minaccioso si fermò prima di giungere a San Giorgio cui erasi approssimato. La sera del dì 26 si videro gli ultimi residui [32] di quel fuoco presso l’Osservatorio, ed il dì 27 un maestoso pino si appalesò sulla cima del Vesuvio[22]. Mentre le lave sgorgavano dalla base del cono, la cima di questo non solo non si quetò, ma mostrò anch’essa un’attività più considerevole senza dare per altro alcun rivolo di lava. Questa usciva solo dai coni surti nell’Atrio del cavallo.

«Il segnale della diminuzione dell’incendio fu la gran copia di cenere che dalla cima del monte fu menata in aria insieme col fumo nei giorni 20 e 21, e la sera alcune folgori si vedevano solcare quel pino, che maestoso e tetro si elevava dalla bocca centrale del Vesuvio. Ebbi occasione di ripetere i miei studj e di rifermare le mie scoperte sulla elettricità del fumo e della cenere. Finito l’incendio sono entrato nei coni di eruzione, ho raccolte le svariate sublimazioni, dalle quali sono rimasti vagamente tappezzati, ed ho raccolto eziandio molti prodotti dalle fumarole. Ora sto facendo le analisi chimiche, i cui risultamenti saranno comunicati all’Academia insieme ad altre indagini scientifiche da me istituite.

[33]

«Dico solo che in dieci giorni uscirono dalle bocche di eruzione oltre a sei milioni di metri cubici di lava, la quale presso i coni nel tempo di massima attività aveva una velocità di 180 metri a minuto primo. Il danno arrecato ascende a circa mezzo milione di lire.»

Ecco adunque come il Vesuvio, ministro di rovina e di morte, possa esserlo altresì, come più sopra avvertivo, di ricchezza e fortuna alle circostanti popolazioni: perocchè cui tocchi tanto materiale, convertibile in uso di fabbriche e di selciature, equivalga ad una fortuna, molto più se di quella più pregevole qualità che a determinati servigi si richiede.

«Il Vesuvio, scrisse l’ab. Luigi Galanti, è un monte d’oro pe’ suoi ricchi prodotti: distrugge e crea, toglie e ridona. La cenere che distrusse i frutti nel 1794, gli animò nell’anno seguente; e nel 1796 le uve rimasero in parte per l’immensa quantità invendemmiate. Lo stesso accadde coll’eruzione del 1822, e molti corsi di lave affatto sterili, diventarono coltivabili coll’essere stati da quella eruzione coperti di sabbia. Le frutta e le uve massime crescono di bontà a misura che si sale sulla vastissima pendice.»

Nelle rocce inoltre componenti il cratere della Solfatara si aduna considerevole quantità di allume, da cui la chimica moderna estrae un metallo più pregiato dell’argento, di color bianco turchiniccio, che si destina a lavoro di spilli, vezzi, smanigli ed altrettali minuterie del mondo elegante.

[34]

Incontrasi del pari in queste medesime roccie e nelle materie eruttate dal Vesuvio quell’altro minerale che appellasi idocraso, che i mineraloghi collocano tra i silicati, e da’ gioiellieri è nominato gemma o crisolito del Vesuvio.

È cosa maravigliosa — notano finalmente gli academici Monticelli e Corelli — che circa un terzo delle specie cristalline conosciute e le roccie di ogni formazione trovinsi riunite nel breve spazio occupato da questo vulcano[23].

Fu poi notato come nelle eruzioni posteriori a quella del 1834 — e sono state anzichenò frequenti — la molta lava uscita contenesse gran copia di leucite più che fosse accaduto nelle precedenti e in conseguenza riuscisse molto più somigliante alle antiche lave del monte Somma in cui questo minerale è abbondantissimo. Il prof. Pilla attestò che, incorporati nella lava del 1845, si trovarono cristalli di leucite grossi come noci; lo che stabilirebbe essere stati formati entro lo spiraglio precedentemente alla eruzione.

Ma queste cose attinenti la mineralogia vesuviana io discorro rapidamente: chi ne voglia sapere di più, ricorra alle speciali monografie e farà bene.

E qui pongo per altro sull’avviso contro tutta quella minuteria di medaglioni, orecchini, spilloni, [35] monili e braccialetti che si spacciano, singolarmente in Napoli, ai forestieri che vogliono a buon mercato, via portarsi alcuna memoria del paese, come materia di lava del Vesuvio e non è che di pietre litografiche già usate e smesse.

Ora, a compiere questo cenno descrittivo dell’ignivoma Montagna, restami a dire come essa sia pressochè indeclinabile scopo, in ogni tempo, a pellegrinaggi di dotti ed indotti.

Ma la più parte delle frequentissime ascensioni che ogni dì si fanno sul vertice di questo monte, da’ curiosi indigeni e da quanti visitano la Sirena Partenopea, compionsi eziandio per godervi dei mirabili panorama che si presentano d’ogni parte alla vista quasi altrettante faccette di una risplendentissima gemma dodecaedra. Ivi, a settentrione, si vede distendersi l’ubertosissima Campania e sfilare le vette dei monti dell’Abruzzo; a manca quelle degli Appennini; dall’opposto lato il ridente golfo napolitano e il mar Tirreno colle sue vaghe isolette che fan corona alla superba città, e al sud finalmente il golfo di Salerno e la costiera che assume il nome da Amalfi, già famosa nei fasti delle città marinare, massime per la parte presa alle crociate dell’XI e XII secolo, chiara nella giureprudenza per le Tavole che da lei si denominarono e per le Pandette, rapite dai Pisani nel sacco del 1133, e per essere stata la patria all’inventore della bussola, Flavio Gioja, e al pescatore Masaniello.

[36]

Talvolta l’eccentricità di John Bull non s’accontenta di queste, che son pure gradevoli commozioni, e trascorre ad ardimenti ed alla temerità, inerpicandosi perfino tra’ crepacci della sommità e spingendo lo sguardo per entro lo stesso fumante cratere, quasi a sorprendere il segreto del misterioso fenomeno. Prima dell’eruzione avvenuta nel 1822, potevasi, è vero, per qualche tratto discendere dentro la bocca: anzi, stando a quanto ne scrisse Bracini, prima della grande eruzione del 1651, che ho ricordato più sopra, dentro il cratere del Vesuvio eravi uno stretto passaggio, attraverso il quale un sentiero serpeggiante dava modo di scendere per un miglio in mezzo alle roccie ed alle pietre, finchè giungevasi ad un’altra pianura più spaziosa coperta di ceneri. In essa vi erano tre pozzanghere poste a foggia di triangolo, una verso oriente, di acqua calda, corrosiva ed amara oltre misura; l’altra verso ponente di acqua più salata di quella del mare; la terza d’acqua calda, senza alcun particolare sapore. Entro lo stesso cratere allignava poi tanta vegetazione che fosse divenuto il dominio dei cinghiali e sulla pianura del fondo pascolasse il bestiame. Or si comprende così come v’abbian di coloro che, riferendo il fatto di Spartaco che io ho più sopra mentovato, di essersi su questo monte battuto colle legioni romane, giungessero ad asseverare ch’egli ed i suoi si accampassero fin dentro il cratere.

[37]

Ma le successive combustioni alterarono tutto ciò, e quella poi che ebbe principio il 22 ottobre 1822 venne segnalata il dì innanzi col cadere della punta del cono dentro il cratere, sì che lo scendervi oggi sarebbe difficile non solo, ma assai pericoloso, massime se vi si voglia calare senza l’assistenza di qualche esperto montanaro e senza essere sorretto da corregge; e le guide rammentano sempre all’audace visitatore come un Inglese appunto rovinasse per entro quello spaventoso baratro, col quale aveva voluto far troppo a sicurtà. Il Venosino Poeta aveva già deplorata, e con ragione, codesta cieca e irrefrenabile smania della umana razza d’avventarsi contro il conteso e l’impossibile, in que’ suoi versi:

Audax omnia perpeti

Gens humana ruit per vetitum nefas[24].

In quanto a me che mattina e sera non ero ristato giammai di volgere lo sguardo al Vesuvio, onde vedere se fosse per risolversi a darmi una propria rappresentazione, massime che il chiarissimo signor [38] Palmieri, proprio in que’ giorni, avvertisse che il sismografo dell’Osservatorio avesse segnalato agitazione, fui frustrato nella mia aspettazione. L’agitazione dello strumento del signor Palmieri era precorritrice unicamente di quelle sotterranee commozioni che si tradussero in iscosse di tremuoto in qualche città italiana, e nella catastrofe toccata all’isola di Santa Maura, l’antica Leocadia, la cui capitale Amaxichi annunziarono i giornali dello scorso dicembre interamente rovinata[25]. Imperocchè siavi opinione che tutte le bocche vulcaniche dell’Italia, ed io penso anche di altri vulcani dalla penisola non discosti e massime dell’Jonio e di Grecia, abbiano origine dalla stessa sorgente; che la bocca del Vesuvio somministri nei tempi ordinarii sfogo sufficiente e faccia, per dir così, da valvola di sicurezza alle forze generate nel grande serbatojo interno, e che quando questa apertura si chiude quelle forze aprano altri canali di comunicazione coll’interno della terra[26]. L’esperienza ha suggellato siffatta supposizione, e — indipendentemente dalla sovraccennata coincidenza fra l’agitazione del sismografo dell’Osservatorio del Vesuvio e la catastrofe di Amaxichi, — massime dopo l’eruzione del 1036, per cinque secoli [39] susseguenti l’azione vulcanica fu violentissima pel paese circonvicino, constatate essendosi parecchie eruzioni dell’Etna, versamenti copiosissimi di lava fatti dalla Solfatara e dall’isola vulcanica di Ischia, oltre sconvolgimenti di tremuoti nelle parti settentrionale e meridionale d’Italia.

Al mio naturale desiderio sovvenne il veneziano signor Luzzato, che nel giardino publico, o Villa, come si denomina, il quale corre in riva al mare lunghesso la via che è detta Riviera di Chiaja, rizzò una costruzione di un sol piano terreno con architettura pompejana, nella quale dispose un suo stabilimento, in cui raccolse alcune vedute tolte dal vero della città di Pompei, anzi fotografate dai luoghi stessi, con restauri e restituzioni di tinte e con gruppi di figure abbigliate giusta l’antico costume, che sono invero del più curioso effetto. Lo stabilimento intitolò Pompejorama, e fra le altre vedute una ve ne ha che chiamerei miracolosa, la quale rappresenta il Vesuvio a notte nel momento della sua furiosa eruzione, con effetto di luna. Que’ bagliori del fuoco del monte che divampa, riflessi nelle onde del mare che pare si avanzino verso di voi, tanto sono vere, fanno il più stupendo contrasto coi raggi pallidi dell’astro notturno, i quali pur si rifrangono nelle acque del golfo. Io ammirai quel bellissimo quadro: tutti che spettatori già furono dei veri furori vesuviani, non esitarono ad attestarmi che mai non fu visto quanto in esso colta e ritratta la verità.

[40]

Laonde mi è concesso di dire che ho alla mia volta io pure assistito, in questi simulati, ai formidabili spettacoli a cui sì spesso è teatro il Vesuvio, senza per altro risentire i terrori che egli mai sempre incute a coloro che i veri si recano a contemplare.

[41]

CAPITOLO II. Storia.

PRIMO PERIODO

Divisione della storia — Origini di Pompei — Ercole e i buoi di Gerione — Oschi e Pelasgi — I Sanniti — Occupano la Campania — Dedizione di questa a Roma — I Feriali Romani indicon guerra a’ Sanniti — Vittoria dell’armi romane — Lega de’ Campani co’ Latini contro i Romani — L. Aunio Setino e T. Manlio Torquato — Disciplina militare — Battaglia al Vesuvio — Le Forche Caudine — Rivincita de’ Romani — Cospirazioni campane contro Roma — I Pompejani battono i soldati della flotta romana — Ultima guerra de’ Sanniti contro i Romani.

Le ragioni stesse per le quali ebbi ad avvertire il lettore che alla migliore intelligenza delle Rovine di Pompei mi occorresse d’aprire una parentesi, per dire alquanto di questo monstrum horrendum, informe, ingens che le aveva cagionate, non solo militano per questa nuova che intraprendo col presente capitolo, ma sono ben anche maggiori. D’altra parte, messomi all’opera con intenti più modesti, l’amore all’argomento [42] me ne suggerisce ora di maggiori, e la materia sento crescermi sotto mano; il lettore non ha a concedermi che una maggiore benevolenza.

La storia civile di Pompei non è guari complicata di fatti, non di molto diversa da quella delle altre minori città italiane e massime meridionali, che o furono confederate a Roma o ne divennero colonie. La storia generale di queste città si lega in una parte a quella delle altre undici città principali della Campania, e nell’altra per lo più alla storia del mondo romano; la speciale non ricorda che determinati avvenimenti, i quali hanno per lo più attinenza alla vita municipale di essa. Io, nel raccoglierla dalle diverse fonti, l’ho divisa in due distinti periodi, concedendo poi un singolare capitolo a ciò che chiamerei storia morale ed un altro al miserando cataclisma che ne chiuse l’interessante volume.

Pompeii, o Pompeja, come trovasi promiscuamente detto dai latini scrittori, all’epoca della sua distruzione per opera del Vesuvio, cioè, come già sa il lettore, nell’anno di Roma 932 e 79 di Cristo, era, malgrado che Seneca punto non si peritasse a dichiararla celebrem Campaniæ urbem, città di terzo ordine. Una città tuttavia, che per la felice postura su d’una eminenza vulcanica e in riva al mare, — poichè tutto ne scorga a ritenere che le acque del Tirreno giugnessero a quel tempo fin presso le mura di essa, nè vi si ritraessero che in conseguenza del cataclisma [43] che le apportò la morte, — e per la dolcezza del clima e la lussureggiante natura, costituiva altra fra le località di questa magnifica parte d’Italia, che a ragione fu detta — credo da Milton, il cantore immortale del Paradiso Perdutoun pezzo di paradiso caduto in terra; epperò eletta da’ facoltosi Romani a sito di villeggiatura. Così ricordai già la casa che vi aveva Marco Tullio Cicerone, per antonomasia detto l’Oratore Romano, e quella che vi teneva lo storico Cajo Crispo Sallustio, entrambe scoperte, e la visita delle Rovine altre pure ne additerà celebri per i loro famosi proprietari; onde Stazio potesse lasciarci memoria degli ozj pompejani in quel verso:

Nec Pompeiani placeant magis otia Sarni[27].

Imperocchè Pompei fosse bagnata dalle acque del fiume Sarno — ora ridotto alle povere proporzioni di un ruscello — per cagione anzi del quale, come avverrà di dire più avanti, si avessero i primi sentori che ebbero a condurre alla scoperta della sepolta città. Il Sarno scendendo, dal lato ove si vede ancora sorgere l’anfiteatro, al mare, che qui faceva una curva la quale si estendeva insino a Stabia, formava alla sua imboccatura un bacino, che costituiva il porto della città, comune anche a Nola, ad Acerra ed a Nocera, così [44] frequentato ed operoso da rendere Pompei l’emporio delle più floride città campane. Nè forse fu estraneo a siffatta circostanza il nome stesso di essa, se nel greco idioma Πομπηίον suoni eziandio siccome a dire emporio. Strabone non obliò di ricordare questo porto, e i libri, come vedremo, ne registrarono eziandio qualche glorioso avvenimento.

La storia adunque di questa città e, più che essa, la scoperta e la illustrazione de’ suoi edificj e de’ suoi monumenti, importantissima riesce a rivelarci la vera storia intima di quei tempi, che le storie generali non ci hanno lasciata che imperfetta, sì che sia d’uopo racimolarla fra gli storici avvenimenti di altri popoli e da’ concetti dei poeti, o da qualche altra scrittura, mescolata spesso a cose men vere od incerte, per modo che, dopo tutto, sia mestieri di molto discernimento e di induzioni e di congetture logiche non poche per istabilire colle migliori probabilità i fatti.

Ma se malagevole è il còmpito di chi voglia esattamente ragionare della vita intima di allora, che si dirà di chi presuma indagare le origini delle città nostre e i confini territoriali, se intorno ad esse non vennero che tardi gli scrittori che se ne occuparono, e questi pure, dovendo appoggiarsi su tradizioni e favole, si ebbero a buttare spesso alla fantasia, siccome puossi giudicare dalla lettura di Dionigi d’Alicarnasso, di Catone, di Varrone e d’Eliano? Orazio medesimo, comunque venuto in tempi più colti, non sapeva determinare [45] se all’Apulia o alla Lucania appartenesse la sua Venosa, siccome appare da una Satira, nel seguente passo:

Lucanus an Appulus, anceps,

Nam Venusinus arat finem sub utrumque colonus

Missus ad hoc, pulsis (vetus est ut fama) Sabellis[28].

Gli è ad un tale riguardo che pur di Pompei non si possa precisare quali fossero i fondatori e i primi abitatori. La favola, accarezzando anche qui il popolare orgoglio, le assegna illustre origine, e Giulio Solino, che ne tenne memoria, narra che Pompei avesse avuto Ercole per fondatore, allorchè passò egli in Italia co’ buoi di Gerione. Già nel capitolo antecedente toccai di sua venuta in queste parti e di eroiche imprese compiutevi e della città di Ercolano che attestò di lui: Pompei egualmente avrebbe il suo nome conseguito dalla pompa colla quale dall’Eroe sarebbero ivi portate le tre teste del suo nemico, il succitato Gerione, la cui uccisione fu delle dodici che gli vengono attribuite, [46] la decima di lui fatica[29]. Lasciando nondimeno in disparte la mitologia e gli arcani suoi ascondimenti, stando all’autorità di Strabone, i primi a mettersi attorno al golfo che curvasi da Sorrento a Miseno, sarebbero stati gli Oschi od Opici, gli Ausoni, gli Etruschi, i Tirreni e i Pelasgi, che sono anche i popoli più antichi di cui si abbia memoria in Italia; se pure tutti questi popoli non sono della sola razza pelasgica.

I Pelasgi contuttociò non attecchirono mai la loro padronanza nel nostro paese; odiati sempre come stranieri e conquistatori, dovettero mantenervisi armati. A quest’opposizione surta negli animi degli aborigeni, s’aggiunsero naturali calamità, e Dionigi d’Alicarnasso ricorda la sterilità e siccità dei campi e più ancora l’imperversar de’ vulcani e delle malattie; onde [47] interrogato l’oracolo di Dodona, ne avessero a responso: «Causa di tutti codesti mali essere lo sdegno degli Dei, perchè frodati i Dioscuri, o Cabiri[30], della promessa decima di tutto quanto nascerebbe, non avendola i Pelasgi attenuta in quanto riguardasse i figliuoli.» Indegnò la spietata risposta, e tumultuarono contro i capi e a tale venne la stanchezza de’ più che questi in massa migrarono, e i pochi rimasti, spodestati degli averi, vennero agevolmente ridotti in servitù.

Dall’Appennino centrale, dietro al corso del Volturno e dell’Ofanto, scesero i Sanniti, gente mista di Sabini ed Ausonj, gentem opibus armisque validam, come li giudica Tito Livio[31], conquistando. Erano essi in quel tempo, cioè circa l’anno 420 avanti la venuta di Cristo, arrivati omai all’apogeo della loro potenza, e superando Roma stessa nel numero della popolazione e nella estensione del territorio, ne [48] erano divenuti i più formidabili avversarj. S’allargavano essi dal mar Inferiore al Superiore, dal Liri alle montagne lucane e ai piani dell’Apulia, e dominavano ne’ paesi che oggidì designiamo coi nomi di Principato Ulteriore e di Abruzzo Citeriore. Sobrii ed indomiti, difesi da valloni e torrenti, potevano a buon diritto codesti montanari riuscire terribili a quei della pianura.

Superando gli ostacoli tutti, irruppero nella Volturnia, che essendo piana cominciarono a chiamar Campania (da καμπος, pianura), occuparono Vulturnio che denominarono Capua e successivamente la Campania tutta, alla quale era capitale, e che si distendeva sul mare dal Liri al Silaro, ubertosissima e popolata di dodici belle e ricche città, tra le quali primeggiavano Pompei ed Ercolano.

Come dell’etrusca dominazione si rinvennero tracce negli scavi di quest’ultima città in una medaglia e nella mensa Giunonale; così se ne ebbero e in maggior copia e in essa città e in Pompei della sannitica nelle diverse iscrizioni dettate in questa lingua, e il Giornale degli Scavi, già da me ricordato, reca dotte dichiarazioni di taluna, a migliore schiarimento di importanti questioni.

Allora i Sanniti divenuti Campani, sotto il nome di Mamertini, forse a dire soldati di Marte, si posero al soldo di chi bisognava di combattenti, ed estesero fino a Pesto la propria lingua, la quale, se vuolsi attribuir [49] fede al succitato Strabone, fu pur la stessa parlata da Umbri, Osci, Dauni, Peucezj, Messapi, abitanti della Japigia, cioè nel sud-est della penisola. Contuttociò essi, come già prima i Pelasgi, non giunsero a naturarvi la loro dominazione: perocchè i costumi campani e il carattere differenziassero di troppo, nè le lotte fra essi dovessero tardare a scoppiare.

I libri settimo, ottavo e nono delle istorie di Tito Livio ci apprendono le ulteriori vicissitudini della Campania, le cui sorti è a credersi fossero pure comuni a Pompei, come identiche e comuni ne fossero le politiche condizioni.

È per questo che a sopperire al difetto di peculiari notizie di questa città che impresi col lettore a studiare, mi sia d’uopo colmare le lacune, riassumendo da quelle dotte ed accurate pagine le più saglienti che vi hanno maggiore attinenza.

Sappiam per esse come i Sanniti assaltassero ingiustamente i Sidicini e come questi, inferiori di forze, ricorressero ai Campani. Se non che, narra lo storico padovano, come, avendo i Campani apportato piuttosto un nome che una giunta di forza a soccorso degli alleati, snervati dal lusso e da una tal quale rilassatezza, propria del resto delle condizioni del clima, fossero battuti nel paese dei Sidicini da gente indurata nel mestiere dell’armi, e che però rivolgessero sopra di sè tutta la mole della guerra. Perciocchè i Sanniti, messi da parte i Sidicini ed assaliti i Campani, [50] ch’erano antemurale de’ confinanti, fra Capua e Tifata, diedero loro una terribile rotta, nella quale venne tagliato a pezzi il nerbo della loro gioventù.

A salvarsi allora da più fiere vendette, s’affrettarono i Campani a ricorrere a Roma, e poichè invano ne ebbero sollecitata l’alleanza, essendo già con vincoli d’amicizia legata essa ai Sanniti, non trovarono spediente migliore di quello di una piena dedizione e fu accolta.

Furono da Roma spacciati allora ai Sanniti i Feciali[32] per richiederli delle cose tolte ai Campani, e poichè venne opposto il rifiuto, si intimò loro solennemente la guerra, due eserciti mettendo in campo, l’uno [51] nella Campania, capitanato da Valerio, e l’altro nel Sannio, da Aulo Cornelio comandato. Furon dubbie dapprima le sorti della guerra; perocchè mai non si fosse combattuto per entrambe le parti con maggior valore ed accanimento; ma da ultimo la vittoria si dichiarò per l’armi romane con somma lode dei due suddetti consoli e di Publio Decio tribuno.

Implorarono allora pace i Sanniti da’ Romani e l’ebbero colla invocata facoltà di muover l’armi contro a’ Sidicini, che neppure dal popolo romano eransi mai tenuti per amici. I Sidicini, vedutisi seriamente minacciati, seguitando l’esempio de’ Campani, avrebbero voluto alla lor volta concedersi a’ Romani; ma stavolta essi ne vennero dispettati, perchè solo sospinti dalla necessità a tanto stremo. Così stando le cose, non trovarono altro spediente che volgersi ad altra parte ed offerirsi a’ Latini, che li accettarono prontamente, e i Campani che meglio della fede a’ loro nuovi Signori, anteponevano la vendetta dell’insulto patito da’ Sanniti, entrarono pure nella lega. Reclamarono di ciò i Sanniti a Roma, come di violata fede, ma n’ebbero ambigua risposta, perocchè in tal modo si cercasse di non confessare apertamente la poca autorità sui Latini; onde e questi e quelli della Campania, immemori del ricevuto beneficio, così montarono in orgoglio — già superbi per natura, sì che l’alterigia campana fosse passata in proverbio, — e tanta accolsero ferocia, da macchinare ai danni de’ [52] Romani stessi, sotto colore di apparecchiarsi alla guerra contro i Sanniti.

Benchè tutto ciò si celasse con industria e si volesse, prima che i Romani si movessero, battere i Sanniti, pur della trama se n’ebbe sentore in Roma che tosto avvisò a prepararsi alla lotta. Dissimulando tuttavia la cognizione di tanta ribellione, chiamarono i Quiriti a sè dieci de’ maggiorenti latini, per impor loro ciò che fosse per piacer meglio al Senato. Fra i trascelti vi fu un Lucio Annio Setine pretore, cui furono largheggiate da’ Latini le più ampie facoltà. Costui, mal ponderando con chi si avesse a fare, ebbe tanta albagia che, tenuta altiera ed insolente concione avanti i Padri Coscritti, osò farsi a proporre condizioni di pace eguali pei due popoli, pei Romani cioè, e pei Latini; poichè, affermava egli, fosse piaciuto agli dei immortali che eguali pur anche ne fossero le forze. Tito Manlio Torquato, console, d’impeto non minore, udita cotale spavalderia, rispose adeguatamente, e poichè Annio nell’uscir dal Senato, inciampando fosse caduto e giacesse tramortito, Manlio veggendolo, narra Tito Livio, che sclamasse: Ben gli sta, e voltosi poscia agli astanti, proseguisse: Io vi darò, o Quiriti, le legioni dei Latini a terra, come a terra vedete questo legato. — La voce del romano Console talmente accese gli animi di tutti, che nel partirsi i legati, più gli scampò dall’ira della plebe la cura de’ magistrati, che per ordine del Console gli accompagnavano, che non il diritto delle genti.

[53]

Furono levati allora in Roma due eserciti per tale guerra, i quali, attraversando Marsi e Peligni, s’ingrossarono di quello dei Sanniti e presso Capua, dove già i Latini e i loro confederati erano convenuti, posero gli accampamenti. Fu raccomandata la più severa disciplina militare, reclamata ora più dal trovarsi a fronte gente di lingua, costumi ed ordini di guerra non dissimili; e Tito Manlio così la volle osservata che al figliuolo, che mosso dall’ardor giovanile aveva disobbedito spingendosi ai posti nemici, e quivi era stato provocato da Gemino Mezio che comandava la cavalleria toscana, e s’era seco lui azzuffato e trapassato avealo di sua lancia e morto, comechè vincitore, diè condanna di morte, e questa volle immediatamente dal littore eseguita.

Fu terribile il cozzo dei due eserciti avversi, ma la battaglia, come già sa il lettore per quanto fu detto nel capitolo precedente, combattuta alle falde del Vesuvio, fu vinta dalle armi romane; comunque non fossero durante la pugna stati punto giovati dai Sanniti, solo entrati questi nella lizza quando le sorti non erano state più dubbie. Preso il campo latino, assai de’ Campani in esso vi vennero fatti prigionieri.

Latini e Campani s’arresero a discrezione: al Lazio ed a Capua venne tolto in castigo parte del loro territorio e l’autonomia, e divise le terre; solo esente dalla pena andò la cavalleria dei Laurenti e dei Campani perchè non ribellati; accordata a costoro inoltre [54] la romana cittadinanza, ed altri beneficj e privilegi concessi.

Questa grande battaglia seguiva negli anni 416 di Roma e 336 avanti Cristo. Di queste genti vinte Roma si valse pochi anni dopo per venire a nuove guerre contro i Sanniti, i Lucani, i Vestini, gli Equi, i Marsi, i Peligni, che pur le avevano dato un dì giovamento a conquistar la pianura. Lunga e ostinata è la guerra, alternate le sorti, finchè Papirio Cursore sbaraglia i Sanniti. Volendo questi venire a patti e ricusati, e astretti pertanto a pugna disperata, ricorsero a sottili accorgimenti e tratte infatti le legioni romane entro una valle detta del Caudio, vi trovan interdetta l’uscita e il ritorno. Celebre è la vergogna patita da’ Romani sotto il nome delle Forche Caudine[33], e per la quale Ponzio, capitano dei Sanniti, spregiando l’avviso del proprio vecchio padre Erennio, che avverso ai temperamenti mediani, le truppe romane avrebbe voluto o rimandate senza infamia per ottenere poi l’amicizia di Roma, o tutte trucidate ad impedirne per tanto tempo i guerreschi conati, ottenute violentemente invece larghe condizioni di pace, volle passassero sotto il giogo, primi obbligandovi [55] i consoli Postumio e Veturio, che vi si sobbarcarono quasi ignudi; sottoponendo poi gli altri, come ciascuno era più vicino di grado; indi per ultimo una ad una le legioni fra gli scherni e gli insulti nemici.

Il Senato e il Popolo Romano, all’udir tanta abjezione, non vollero ratificare l’ontosa pace, ed anzi pieni di sdegno e furore trassero dal sofferto scorno divisamenti di allegra vendetta, e ripigliarono incontanente la guerra. In essa, risultati vittoriosi i Romani, sotto il comando di Papirio Cursore, furono così ingenerosi nella vittoria, che caduto Ponzio nelle loro mani, sottopostolo alla sua volta al giogo in Luceria[34], e tradottolo a Roma, lui che per seguir clemenza li aveva poco innanzi della vita risparmiati a Caudio, trucidarono vilmente, tardi ed indarno pentito di non aver ascoltato i consigli della saviezza paterna.

Non fu lunga tra’ Romani e Sanniti l’alleanza: presto vennero nuovamente alle armi; e quando la lotta sì spostò dal Sannio per muovere contro gli Ausonj, che poi vennero interamente distrutti, varie cospirazioni si ordirono contro Roma nelle città Campane, fra le quali era, come sappiamo, Pompei. Fu allora che a reprimerle ed a punirle si intrapresero in Roma inquisizioni contro taluni dei principali cittadini [56] di esse; ed anzi quando Luceria cadde in potere de’ Sanniti e il presidio romano che vi era venne fatto per tradimento prigione, presi in maggiore sospetto i Campani, le inquisizioni si estesero più severe a loro carico, venendo eletto Cajo Menio a dittatore per eseguirle.

Siffatte cose e rigori non eran proprj tuttavia a diradicare la ribellione campana: da essa poi i Sanniti traevan partito a rinfocolar gli odj a nuove imprese contro i Romani, ai quali agognarono ritorre Capua. Ma Petelio e Sulpizio consoli li batterono completamente a Malevento; onde poi dai Romani si chiamò la città Benevento, e fama suonò che de’ Sanniti, presi o morti, vi rimanessero in quella fazione all’incirca trentamila.

Eran gli anni 441 di Roma e 331 avanti Cristo, quando riportavasi dall’aquile romane sì luminosa vittoria, la quale poi, consoli essendo Lucio Papirio Cursore per la quinta volta e Cajo Giunto Bubulco per la seconda e Cajo Petelio dittatore, venne susseguita dalla presa di Nola.

Tre anni dopo, essendo a que’ consoli succeduti Quinto Fabio e Cajo Marcio Rutilo, mentre il primo trovavasi impegnato in guerra co’ Toscani ed il secondo coi Sanniti, a’ quali toglieva per forza Alifa, Publio Cornelio a capo della flotta romana nel mar tirreno, pensando non rimanersene alla sua volta colle mani in mano nell’ufficio che aveva di vigilare la spiaggia [57] marittima, si spinse fin entro il golfo che si comprende fra Sorrento e Miseno, e si accostando alle sponde del lido campano, lasciò che le navi entrassero nel porto di Pompei e vi sbarcassero affamati di rapina i suoi classiarii, come si appellavano allora i soldati della marina.

Descrivere la licenza è più presto fatto che immaginarla: era già essa nelle ordinarie abitudini militari e il soldato vi faceva più che nel resto speciale assegnamento. Posero a saccomanno singolarmente il territorio Nocerino, portando il guasto anche per ogni casale che transitavano, speranzosi che obbligando i contadini a fuggire dinanzi a loro, si avessero assicurata meglio di poi la via del ritorno alle navi.

Ma l’evento non rispose questa volta alle ribalde speranze.

I marinai, fatti ebbri dall’amor del bottino, si inoltrarono spensierati troppo oltre, onde gli uomini del paese che, a poco a poco ripreso animo, rivenivano ai disertati tetti, mentre prima non ne avevano avuto pensiero — e sarebbe stato più agevole quando que’ ladri erano sparpagliati per la campagna a rapinare il far loro resistenza e toglierli di mezzo — allora solo avvisarono di attenderli al ritorno. E come infatti venivano i classiarii a frotte e carichi di preda inverso le navi, giunti sotto Pompei, si trovarono d’un tratto d’avere a fare co’ Pompejani [58] medesimi fieramente irritati, i quali cogliendoli alla sprovvista, così li malmenarono da salvarsene pochi dalla strage, tutti rigurgitando quanto avevano involato, e salvandosi a mala pena i superstiti sulle navi[35].

Ma se tale era l’animo dei Pompejani e dei consorti loro della Campania verso i Romani dominatori, non si può dire che migliori sentimenti nodrissero verso i Sanniti; perocchè quando in quel torno di tempo vennero costoro dall’armi romane e da quelle dei confederati campani congiunti insieme nuovamente e più aspramente battuti, lasciando nelle mani de’ vincitori le ricchissime loro armi, i Romani se ne servirono ad ornamento del foro; i Campani fregiandone invece i gladiatori, a sollazzo ne’ loro banchetti, presero da quel tempo ad appellare Sanniti i gladiatori stessi; lo che se è testimonio di molto orgoglio, lo è ben anche di grandissimo ed inestinguibil odio verso di essi.

Gli è tuttavia a’ 293 anni avanti Cristo che i Sanniti quasi affatto cessarono ogni lotta con Roma; perocchè in questo tempo, dopo che videro anche l’armi d’Etruria vinte e aggiunte quelle provincie come serve al carro della romana grandezza, — quantunque siffatta umile condizione venisse palliata col [59] titolo di alleanza latina, — ebbe ad andare a vuoto il supremo loro sforzo per la propria indipendenza. Un esercito di trentamila e trecentoquaranta uomini raccolsero essi in questo ultimo cimento, e sull’altare dapprima giurato fra orribili imprecazioni: o difendere l’ultimo resto dell’italica libertà o morire, il giuramento tennero imperterriti, perchè ad Aquilonia perirono tutti, e i poveri avanzi di tanto coraggio e di tanta fede, riparati in una caverna dell’Appennino, scoperti l’anno dopo, in numero di duemila vennero col fuoco miseramente asfissiati e spenti.

Io, come ha già visto il lettore, ho divisa la storia di Pompei in due parti: nella prima compresi il tempo in cui sta quell’êra che nella storia di Roma si appella eroica, sebbene non sussistan ragioni di designarla così per Pompei. Da’ fatti medesimi qui memorati e i quali accusano i costanti propositi de’ Quiriti di conquista e d’estinzione di libertà, è manifesto che anche a riguardo di Roma assai e assai sarebbesi a dire e contrastare all’epoca il glorioso appellativo, malgrado potesse pur l’Allighieri professarsi devoto alle gesta

Onde Torquato e Quinzio che dal cirro

Negletto fu nomato, e i Deci e i Fabi

Ebber la fama che volentier mirro[36];

[60] io ne adottai ad ogni modo la durata e a divisione di lavoro, e perchè gli avvenimenti che seguono entrano in una fase più certa e più confortata dall’autorità di monumenti e scrittori degni di fede migliore.

Qui termina pertanto la mia prima parte, o periodo; come a questo punto finisce la suddetta età eroica romana.

[61]

CAPITOLO III. Storia.

PERIODO SECONDO

La legione Campana a Reggio — È vinta e giustiziata a Roma — Annibale e la Campania — Potenza di Roma — Guerra Sociale — Beneficj di essa — Lucio Silla assedia Stabia e la smantella — Battaglia di Silla e Cluenzio sotto Pompei — Minazio Magio — Cluenzio è sconfitto a Nola — Silla e Mario — Vendette Sillane — Pompei eretto in municipio — Silla manda una colonia a Pompei — Che e quante fossero le colonie Romane — Pompei si noma Colonia Veneris Cornelia — Resistenza di Pompei ai Coloni — Seconda guerra servile — Morte di Spartaco — Congiura di Catilina — P. Silla patrono di Pompei accusato a Roma — Difeso da Cicerone e assolto — Ninnio Mulo — I patroni di Pompei — Le ville a’ tempi di Roma — La villa di Cicerone a Pompei — Augusto vi aggiunge il Pagus Augustus Felix — Druso muore in Pompei — Contesa di Pompejani e Nocerini — Nerone e Agrippina — Tremuoto nel 65 che distrugge parte di Pompei.

L’autonomia della Campania non era, dopo questo tempo, che di nome. Se più le sue città non subivano la Sannitica prepotenza, doma oramai dalla forza preponderante dei Romani, all’autorità di questi dovevano [62] sempre nondimeno deferire. Era un’alleanza onerosissima certo, e molto più che sembrasse non poter Roma sussistere che guerreggiando, sitibonda e non saziata giammai di conquista e di saccheggio, e fosse però necessità ne’ territorj confederati di concorrere a rafforzarne gli eserciti.

Sbarazzatasi la via in quasi tutto il continente meridionale, le vittrici aquile spiegavano il volo verso la Magna Grecia, ove la republica di Taranto primeggiava d’industria e di marina, e verso la Sicilia. Noi non ne seguiremo il corso, che non fa al mio còmpito, e più che di Pompei e delle città sorelle m’avverrebbe di ritessere la romana istoria, facile del resto, per tanto che ne fu scritto, a consultarsi; noterò tuttavia che moltissimi delle città campane, insofferenti della pressura quiritica, preferissero esulare dalla patria contrada e bramosi di nuova stanza e di quel dominio che avevano perduto, capitanati da un Decio Giubellio, occupassero Messina, invadessero Reggio, e si piantassero formidabili prima agli abitanti di quelle terre, poscia a’ Romani che ambivano recarle alla loro dominazione, e finalmente a’ Cartaginesi che tentavano assalirne le coste, essi medesimi fatti assalitori.

La legione campana, ingagliardita dai successi contro questi ultimi e contro Pirro venuto dall’Epiro per cupidigia di nuovo impero, che avevano costretto a levar da Reggio l’assedio, spinto avevano [63] così l’audacia da sorprendere Cortona e scannarvi il presidio romano, diroccandovi la città. Ma quando i Romani presero possesso di Taranto, che aveva in Italia chiamato Pirro a’ loro danni, puniti che n’ebbero severamente i cittadini, non s’ebbero altro più a cuore, quanto far sì che castigata pur fosse la perfidia della detta legione. Fu commessa pertanto, nell’anno 482 di Roma (270 a. C.), la punizione a Lucio Genucio, ch’era console con Cajo Quinzio; ond’egli costrettala entro le mura di Reggio, vi pose intorno l’assedio, e comunque ajutati dai Mamertini, egli alla sua volta soccorso da Jerone, che teneva il principato di Siracusa, ebbe alla fine a discrezione la città. Fatti allora giustiziare disertori e ladroni, che colà s’erano rifugiati, i legionarj trasse a Roma, onde il Senato deliberasse di loro sorte. E il Senato, contro l’avviso di Marco Fulvio Flacco, tribuno della plebe, li dannò all’estremo supplizio: solo a scemare l’odioso terrore di fatto così acerbo e la mestizia della plebe dove fosse stato messo a morte in uno stesso tempo tanto numero di gente, se ne trassero di prigione cinquanta al giorno, che battuti prima colle verghe caddero poscia sotto la scure.

«Seguendo parecchi autori, — scrive il Freinsemio nel quinto libro de’ supplementi liviani, al quale ho spiccato un tal fatto, — ho messo che tutta la legione, cioè quattromila uomini, siano stati colpiti colla scure in sulle piazze di Roma; stimo però più [64] vero ciò che Polibio riferisce, non esser caduti vivi nelle mani che trecento legionarj; il rimanente aver preferito, combattendo disperatamente nella presa della città, d’esser tagliati a pezzi, nessun di loro ignorando, che dopo sì enormi delitti, non altro potessero, arrendendosi, aspettarsi che maggiori crucci ed una morte a più grave ignominia congiunta.»

Non ricordan le storie che i Campani per lo innanzi avessero pugne per conto proprio, e pur tacesi quindi di Pompei che anche nella sunnarrata vicenda poco specialmente abbiam trovato nominata: silenzio codesto ben avventuroso, poichè ogni città che allora si meritasse dagli storici menzione, non l’ottenesse che da’ disastri ne’ quali fosse ravvolta. Solo si sa come dugento quindici anni prima di Cristo, Annibale, il formidabile condottiero dell’armata cartaginese, nella seconda Guerra Punica, che Livio chiama bellum maxime memorabile omnium, e che fu difatto sanguinosissima ed ostinata, si presentasse a’ confini della Campania e di qui tenesse in grande sgomento la superba Roma. Il feroce Cartaginese desolò quelle città della Terra di Lavoro che si tennero in fede de’ Romani, ma non consta che nel novero di esse fosse Pompei; onde possa cavarsene argomento ch’essa pure, non altrimenti che Capua, spalleggiasse l’invasore straniero. Cessato da ultimo ogni rumore di questa guerra colla vittoria di Roma, e ritornata pure la Campania nella sua soggezione, le braccia [65] de’ suoi abitanti vennero quindinnanzi disposte dai Romani, nel cui dominio eran venuti, e dai quali del resto vedeansi in ricambio accordato protezione contro assalti nemici, provvedimenti di strade, canali e ponti ed utili parentadi.

Roma tra breve, cioè nell’anno 624 di sua fondazione e 130 avanti Cristo, possedeva così quasi tutta l’Italia, oltre la Spagna e la Grecia, e de’ quattro questori provinciali, fra cui venne dal Senato divisa, quello residente a Cales comprendeva la giurisdizione sulla Campania in un col Sannio, la Lucania ed i Bruzi: tal che Scipione Emiliano, censore, quando al chiudersi del lustro, sacrificando, doveva, secondo il costume, supplicare agli Dei l’ampliamento dell’impero, narra Valerio Massimo, che a quella formula sostituisse di suo capo queste parole: Grande e potente è abbastanza: supplico i Numi di conservarlo eternamente.

Quanta ragione questo savio avesse in ciò chiedere ai Numi, la chiarirono le cruentissime guerre intestine che successero di poi e i danni che a Roma n’ebbero a conseguitare. Celebre è quella che ebbe il nome di Guerra Sociale, e nella quale i Romani s’ebbero a fronte Picentini e Marsi, Marrucini e Ferentani, Peligni e Campani, Irpini, Apuli e Lucani e, più che tutti, gli irreconciliabili Sanniti, non fiaccati da venti sconfitte e bramosi di vendicare il lungo servaggio. Cajo Mario in questa lotta fraterna, altro [66] de’ capitani che tanta gloria in Africa e più ancora contro i Cimbri aveva conseguita, venne accusato di lentezza, e non era per avventura che il cruccio di un egregio di combattere contro Italiani, i quali avevano a scopo di ottenere colla forza quello ch’egli voleva concesso di grazia; onde alla fine si ritrasse spontaneo dal comando. Durò la guerra tre anni, e si sommarono a meglio di trecentomila i periti in essa. Roma, come sempre, la vinse; ma restò di beneficio almeno che venisse proclamata l’eguaglianza di tutti gli Italiani, nè più vi fosse ostacolo da’ federati ad essere cittadini, e venissero come tali ripartiti fra tutte le trentacinque tribù di cui costituivasi la romana cittadinanza. Questa legge, promossa da Mario e che gli procacciava il generale favore, indarno venne dal suo grande antagonista Lucio Cornelio Silla osteggiata.

Era stato questo Silla che in codesta Guerra Sociale combatteva per Roma contro i Campani e i Sanniti, risvegliatisi ancora agli odj antichi. Pompei fu pure tra le città ribellate, le quali a’ primordj della generale conflagrazione ebbero favorevoli le sorti dell’armi. Ma la discordia de’ capi e l’inesperienza le mutarono ben presto, e le resero ad essi contrarie. Silla cinse Stabia di assedio — Stabia di poco tratto discosta da Pompei ed oppido a que’ dì ragguardevole — la prese e smantellò per guisa, che anche ai tempi di Plinio il Vecchio, poco presso, cioè, alla sua [67] totale rovina, più non offerisse che l’aspetto di un villaggio.

Dall’alto delle sue mura riguardava Pompei la desolazione della vicina città sorella e con qual cuore, pensi il lettore; perocchè ella pure dovesse allora aspettarsi non dissimile fato, conscia dell’indole efferata e crudele del suo vincitore. Disperando scongiurare il pericolo, s’apprestarono animosi alla difesa i Pompejani.

E Lucio Silla non attese infatti di molto a volgere ad essi il pensiero; perocchè toltosi a Stabia, venne a porsi sotto la loro città, che strinse egualmente d’assedio, e ne attendeva agli approcci, allorchè Cluenzio, generale de’ Sanniti, inavvertitamente giunto, s’accampa a quattrocento passi da’ romani alloggiamenti con poderose forze. Silla fa impeto contro di lui; è terribile il cozzo fra le avverse legioni, ma ne è Silla respinto. Riordina allora le truppe e ritorna all’assalto con maggiore accanimento e ne ottiene piena rivincita. Lo imita Cluenzio ingrossando di nuovi ajuti le proprie fila, ed una terza volta vengono alle mani i due eserciti, rompendo Silla le ostilità: ma questa volta la sorte decide a pro’ dell’armi romane e Cluenzio stesso, nella generale sconfitta del suo campo, rimane estinto presso Nola, dove la foga della pugna aveva ambo gli eserciti sospinti.

Vellejo Patercolo ci fa sapere a questo punto come Minazio Magio di Ascoli, avolo suo, nipote di Decio [68] Magio, ch’egli punto non esita a chiamare il primo de’ Campani e celeberrimo e fedelissimo, segnalasse fortemente la sua devozione a’ Romani, levando a sua spesa una legione tra gli Irpini e combattendo a fianco prima di Tito Didio, congiuntamente al quale ebbe a prender Ercolano, e quindi di Lucio Silla in questo assedio di Pompei, impadronendosi poscia di Cosa[37].

Non si trova nella storia del come i Pompejani allora si sottraessero alla vendetta di Silla; forse questi rinunziò ad essi nella ambizione del Consolato, la cui elezione si agitava nell’Urbe: da Nola, ove trovavasi coll’esercito, egli allora accorse a Roma, prima a brigarsi quell’onore e poscia a vendicare il torto che egli credeva a lui fatto nell’affidarsi a Mario il supremo comando nella guerra, che aveasi ad intraprendere contro Mitridate re del Ponto; onde ebbero a correre rivi di sangue cittadino. Superfluo il narrare di Mario, profugo per Italia e miserissimo, il suo ritorno nuovamente potente e la settima sua elezione al consolato, le sue crudeli vendette e la morte: non lo sarà forse il mentovare siccome il suo antagonista, veduto di qual modo gli Italiani tutti si mostrassero propensi a Mario, migrasse proscritto in Asia, dove conciliatesi le legioni, ne ottenne poscia il comando, e in tre anni menata a [69] buon fine una pericolosissima guerra, non lasciando a quel barbaro re, com’ei disse, che la destra mano, colla quale aveva firmato il macello di centomila Romani, espilate quelle provincie con enormissime contribuzioni, ritornasse in Italia.

Approdato a Brindisi, scrive al Senato enumerando le proprie imprese e di rincontro i torti dalla patria ricevuti, e conchiude il messaggio annunziando come tra breve ei comparirebbe alle porte di Roma con un esercito vincitore a vendicare gli oltraggi, punire i tiranni ed i satelliti loro.

Nè valsero pacifiche ambascerie a scongiurare la nuova sciagura e neppure i centomila soldati oppostigli contro dai consoli Giunio Norbano e Cornelio Scipione; perocchè le prime egli spregiasse e l’esercito non reggessegli contro, in una parte sconfitto e nell’altra scomposto dalla diserzione. Non farò qui il tristissimo quadro delle vendette e proscrizioni sillane: la storia tenne conto di novemila persone uccise, fra cui novanta senatori, quindici consolari e duemila seicento cavalieri; lasciò onorata la memoria della condotta di que’ di Norba in Campania, i quali piuttosto che arrendersi, ben conoscendo l’animo spietato di Silla, per testimonio di Appiano, appiccarono il fuoco alle case, e da uomini di cuore preferirono uccidersi gli uni gli altri[38].

[70]

Le furie delle sue vendette caddero quindi in buona parte sulle città italiane, le quali nel conflitto fra lui e Cajo Mario avevano per quest’ultimo parteggiato, e se a Preneste erano morti dodicimila, se Norba, comechè ancora fumanti i ruderi, vennero da lui spenti affatto col sangue, se Populonia fu distrutta, se a Fiesole tolse ogni speranza di risorgere fondando sulle rive dell’Arno una nuova città, Fiorenza, se il Sannio seminò di ruine e di squallore, non poteva certamente andare immune dalle ultrici sue folgori Pompei.

Allorquando erasi posto fine alla Guerra Sociale, come ad altre città, così anche a Pompei ed Ercolano era stato accordato d’erigersi in municipii, di reggersi, cioè, colle proprie leggi e proprii comizii, conseguenza del diritto alla romana cittadinanza, comunque e leggi e comizii dovessero essere sul modello di Roma; onde Cicerone potesse affermare due patrie competere a’ municipii, l’una della natura, l’altra della città; l’una di luogo, l’altra di diritto[39].

Abbiam veduto come a Silla, capo del partito nobilesco, fossero spiaciute tutte queste concessioni, fatte ad iniziativa di Publio Sulpicio tribuno e ad istigazione di Cajo Mario, come non ignoravasi universalmente: facile è poi argomentare come più ancora spiacer dovessero accordate a Pompei, dove al [71] tempo che teneva il comando militare, giusta quanto ho già detto, aveva trovato gagliarda resistenza, ed era a lui riuscito malagevole il superarla.

Non appena pertanto il Senato, sulla proposta di Valerio Flacco, ligia persona di Silla e da lui fatto eleggere ad interrè, acclamò, nello spavento de’ sanguinosi spettacoli a cui aveva assistito, Cornelio Silla medesimo dittatore, ciò che da ben cento venti anni non s’era più visto accadere, esso, in odio del morto suo antagonista, ritogliere a’ latini e a moltissime città italiche la romana cittadinanza, conferendo invece cittadinanza e libertà a diecimila schiavi, che assunsero il cognome suo di Cornelii, al nome proprio inoltre aggiungendo quello di Felice, quasi i torrenti di sangue versato lo avessero veramente reso tale, come poco dopo a’ due gemelli che gli nacquero da Metella, volle imposti i nomi di Fausto e di Fausta.

Fra le città da lui disgraziate fu Pompei. Tre coorti di veterani vi mandò come corpo di osservazione, impose un tributo d’uomini e di pecunia e quasi ne confuse ed estinse il nome, tramutando il municipio in colonia militare, questa volendo appellata Veneria, desunto da Venere Fisica, che era la divinità protettrice della città, ed anche Cornelia dalla illustre famiglia alla quale egli apparteneva.

Questo seguiva nell’anno ottantesimo avanti l’era volgare. Siffatto nuovo reggimento politico di Pompei [72] reclama che delle condizioni di esso venga il lettore informato.

Vuolsi che Romolo inventasse il sistema delle colonie militari, quando vinte le città o genti finitime, parte di queste volesse seco condurre nell’Urbe e parte lasciasse pure in luogo, importandovi uomini proprii, i quali per darsi alla coltura de’ campi che lor venivan concessi, si dissero coloni. Le sedi, i campi e l’oppido stesso, se vi fosse ragione a costituire i diritti, le forme assumevano quasi di nuova repubblica, in guisa tuttavia che ogni cosa a Roma ed alla città madre avesse riferimento.

Varia si volle l’utilità che dalle colonie ritraesse Roma. Primieramente, dicevasi, venivano giovamento alla stessa città principe ed alla troppa e superflua moltitudine; quindi agli stessi nemici e sudditi, per quella civiltà che eravi necessariamente importata; da ultimo la istituzione serviva a tenere in soggezione i vinti e quelli che meglio ispiravano timore. Cresciuto l’impero, furono le colonie di sfogo a plebe povera e gravosa, di premio a’ soldati emeriti, o vecchi. Solevasi per lo più distinguere le colonie in altre di Romano, altre di Latino ed altre di Italico diritto; dette talune patrizie e tali altre equestri, a seconda costoro della maggiore dignità de’ cittadini e militi che le componevano.

Nondimeno anche gli scrittori più favorevoli a siffatto sistema riconobbero come tiranni e violenti [73] cittadini avessero ad abusare di esso, mescolandovi l’ingiuria e l’inganno[40], e Cornelio Silla medesimo citarono appunto, come quegli che non solo, non altrimenti che s’era usato per lo addietro, i campi conquistati all’inimico ebbe a distribuire, ma a concedere nella stessa Italia sedi a que’ soldati che le avessero desiderate.

Or come fra questi scellerati abusi del sanguinario dittatore non deesi annoverare quello praticato in odio de’ Pompejani, se la costoro città, per la leggiadria di sua postura trovavasi in condizione d’essere da’ suoi veterani cupidamente appetita?

Appiano, scrittore già da noi citato, conta perfino ventitrè legioni costituite da Silla in colonie per un ammontare di centoventimila uomini; sì che nella sola Italia si potevano di poi annoverare ben cencinquanta colonie; senza tener conto delle sessanta dell’Africa, delle trenta di Spagna e delle altre molte disseminate nelle Gallie e nel resto dell’orbe romano; nè fosse per ciò esagerato il dire che nessuna regione vi avesse in cui colonia non esistesse e si trovasse per tal foggia il mondo costretto ne’ ceppi e sobbarcato alla dizione ed all’imperio di Roma.

I Pompeiani — non c’era modo a ricattarsi dinanzi a quel potente — accettarono la dura legge; ma non così che piegassero ad accordare diritti di [74] cittadinanza ai soldati a piedi ed a cavallo, di che si componevano le tre coorti.

Sventuratamente al comando di essi aveva il dittatore preposto il proprio nipote Publio Silla, uomo rotto ad eccessi e ribalderie, il qual facevasi scudo d’impunità l’essere a Lucio Cornelio congiunto, e in luogo di reprimere la prepotenza e gli abusi dei coloni, li fomentava del proprio esempio.

Qui dovrei collocare, per seguire il corso cronologico degli avvenimenti, l’insurrezione degli schiavi che aprì la seconda Guerra Servile, capitanata dal gladiatore Spartaco già di nostra conoscenza; ma risparmio ritessere la storia de’ primi suoi combattimenti pugnati contro le romane legioni al Vesuvio, perchè nel primo Capitolo di questo libro già ne toccai. Altrove ho pur narrato di lui più lungamente[41]: qui basti dire che, battuti fra Pompei e il Vesuvio due pretori, si recò nella Gallia, poi forzato a rientrare, sconfisse i due consoli Lucio Gellio e Cornelio Lentulo, finchè, nella battaglia, presso il Silaro, Licinio Crasso lui sconfisse alla sua volta ed uccise, così imponendo veramente fine a quella guerra, che aveva fatto paventar Roma, alle cui porte erasi quasi il trace gladiatore condotto; quantunque Cneo Pompeo, distruggendo nella Lucania i cinquemila gladiatori [75] superstiti, osasse scrivere al Senato: «Crasso ha sconfitto gli schiavi, io la ribellione estinta.»

Ma nuovo e grave pericolo sorse poco tempo dopo alla salute della Romana Republica nella congiura di Lucio Sergio Catilina, la quale doveva scoppiare il primo giorno dell’anno 691 di Roma, ma che quel giorno abortì; lo che per altro non tolse che l’autore principale di essa spudoratamente si presentasse ne’ comizi per chiedere il consolato. Respinto, lavorò indefesso alla congiura, nella quale seppe collo ingegno e colle arti trascinare più di venti personaggi senatorii ed equestri. Publio Silla, il tiranno de’ Pompejani, ed Autronio Peto, che avevano agognato al consolato, ed anzi designati già consoli, accusati d’àmbito, n’erano stati condannati, tenevansi, per comune avviso, nelle trame consenzienti[42].

[76]

Trovavasi essere console Marco Tullio Cicerone, l’oratore, il quale a mezzo di Quinto Curio, — tramutato da congiurato in delatore, quando da Fulvia, donna di nascita egregia ma di non egregi costumi, fu alla sua volta denunziato, — venuto ordinatamente in chiaro di tutto ed avendo in mano le fila dell’intera cospirazione, la rivelava in Senato, investendo Catilina medesimo con quell’arringa che rimase celebre ed è popolare tuttavia. Non è del mio còmpito rifar la storia di quel gravissimo avvenimento, con sì eleganti ma non sempre veridiche pagine dettata da Sallustio; basti si sappia che la battaglia, impegnata con un coraggio che fu detto degno di miglior causa da Catilina contro i soldati del console Antonio, fosse da lui perduta ed ei medesimamente restasse sul campo, insieme a diecimila congiurati, trucidato.

Nè a quella congiura soltanto il capo de’ coloni pompejani, Publio Silla, aveva preso parte, ma prima ben anco ad altra, essendo consoli in quel tempo Lucio Tullio e Marco Lepido, e della quale aveva dovuto rispondere avanti il Senato, contro l’accusa datagli da Lucio Torquato. Difeso dall’oratore Ortensio, n’era stato purgato. Tratto in giudizio una seconda volta, sulla accusa ancora dello stesso Lucio Torquato, d’avere, cioè, avuto parte nella cospirazione catilinaria, ei venne pure imputato d’aver cercato di indurre in essa anche i Pompejani, e d’avere tra questi e i coloni suscitate discordie, alimentati rancori.

[77]

Infatti i coloni da lui capitanati, una volta stabiliti in Pompei, non contenti delle migliori terre, pretesero anche il diritto appellato Ambulationis e l’altro detto Suffragii, cioè di poter passeggiare nello stadio, nell’anfiteatro, nel ginnasio, nel portico ed in altri luoghi publici e di poter convenire nelle assemblee per dar voto nelle elezioni. Per questi due diritti, che i Pompeiani negavano d’accordare, seguì un fiero dissidio tra coloni e cittadini, che fu scambiato per una publica rivolta avente attinenza per avventura, come si pretese, coi moti catilinarj. Cajo Crispo Sallustio nella sua storia punto non esitò a collocarlo col fratello Sergio nel novero de’ congiurati. Deferita la causa al Senato, venne Publio Silla revocato, e poichè si vide da gravissimo pericolo minacciato, in ragione altresì de’ suoi cattivi precedenti, la propria difesa affidò all’eloquenza di Marco Tullio Cicerone.

Parve strano e non vero che quegli il quale era stato lo scopritore ed il punitore della congiura di Catilina, avesse poi a perorare per altro de’ più tristi, che se ne dicea, nel generale sentimento, partecipe; anzi Lucio Torquato accusatore, quantunque amico a Cicerone, avendogliene mosso publicamente biasimo, egli a scagionarsene impiegò buona parte della sua orazione, adducendo per lo appunto che il fatto di essere egli stato acerrimo persecutore di quella cospirazione, difendendo fra gli accusati il solo Publio Silla, dovesse a tutti esser prova ch’ei lo tenesse [78] per innocente, di lui nulla avendo, durante il proprio consolato, scoperto che gli concedesse diritto a ritenerlo colpevole.

Trovai scrittori i quali pensarono che Cicerone assunta avesse la difesa di Publio Silla onde ingraziarsene lo zio dittatore e per timore di lui; ma essi accontentandosi dell’intitolazione dell’arringa, non la badarono troppo pel sottile, nè la lessero tampoco; perocchè dalla medesima sia chiaramente manifesto come Lucio Cornelio Silla fosse già morto all’epoca ch’essa fu recitata, se vi si tratta come l’accusatore Torquato avesse altresì opposto: che P. Silla comperasse i gladiatori sotto pretesto di fare l’appresto degli spettacoli, i quali Fausto figliuolo del dittatore Lucio Cornelio Silla, dovea dare in ordine al testamento del padre per solennizzarne i funerali; ma che veramente venissero comperati per dar mano alla congiura[43]. Vuolsi dunque ritenere che tutt’altre ragioni lo inducessero ad assumere un tale officio.

Ecco il brano dell’arringa che riguarda in ispecialità i Pompejani e che alla meglio reco nel nostro idioma[44].

[79]

«Già quello poi che si mette innanzi, essere stati i Pompejani eccitati a questa congiura e ad entrare in questa nefanda impresa, di qual modo possa stare, non io valgo a comprendere. E che? sembra a te, o Torquato, abbiano i Pompejani veramente congiurato? Chi mai ebbe a dir questo? o qual minima sospicione fu mai di siffatta cosa? Li disgiunse, egli dice, da’ coloni, acciò con questo dissidio, suscitata la dissensione, potesse recare la città alle sue mani e i Pompejani infrenare. Ma innanzi tratto, ogni differenza de’ Pompejani e de’ Coloni è deferita a’ patroni[45], poichè sia da molti anni agitata e pendente; poscia è per guisa la cosa cognita a’ patroni che in nulla sia Silla dissenziente dalle opinioni degli altri; e da ultimo i coloni stessi vanno convinti non essere stati i Pompejani più che essi medesimi da Silla molestati. La qual cosa, o giudici, potete argomentare da questa frequenza di coloni, tutti onestissimi uomini, i quali sono qui presenti in penosa aspettazione, perchè se questo patrono, vindice e custode di loro colonia, non poterono essi avere in ogni circostanza e ad ogni aggravio incolume, in questo frangente almeno, nel quale addolorato giace, desiderano sia per voi reso sicuro e conservato.

[80]

«Con eguale ansia assistono qui del pari i Pompejani, che da quelli pur si chiamano in colpa, e che per tal guisa dissentirono da’ brogli e da’ suffragi co’ coloni, da convenire in tutto con lui circa il bene comune. Ma neppure mi sembra doversi passare sotto silenzio il merito, che da lui questa colonia essendo stata dedotta, ed avendo l’autorità della republica distratto da’ possessi de’ Pompeiani quanto dar si doveva a’ coloni; nondimeno ad entrambe le parti è così caro e giocondo, che non appaja aver gli uni molestato, ma e questi e quelli costituiti.»

La ciceroniana arringa, alla quale s’era pur fatto intervenire un fanciulletto di Silla, a intendimento di muovere a compassione i giudici, fu coronata di buon successo e Publio Silla assolto: ciò venendoci attestato da Cicerone medesimo nell’epistola terza del libro terzo a Quinto fratello suo, con quanto gusto de’ poveri Pompejani, lo giudichi il lettore.

Fu per avventura in benemerenza di questo fatto e con denaro de’ coloni, che al grande oratore venne in Pompei eretta nel foro a cagione di somma onoranza una statua.

Devesi contuttociò ritenere che siffatto procedimento contro di Silla riuscisse ad alcun bene per essi, se i coloni militari dovettero acconciarsi a stabilirsi fuori della città, nella parte occidentale. Si costruirono essi a tal uopo un sobborgo che fu denominato Pagus Felix, ancora in memoria ed onore di Lucio [81] Cornelio Silla da sè stesso soprannominatosi felice, fondatore della colonia Pompejana.

Ninnio Mulo, valorosissimo capitano ed assai dentro nelle grazie di Silla perchè già militato avea sotto il di lui celebre parente L. Cornelio, fu deputato al comando della colonia, beneficio insperato raccolto dal giudizio promosso contro il primo capitano e patrono Publio Silla.

La Colonia Veneria continuò ad essere per tal modo retta anche dopo e nelle iscrizioni rinvenute negli scavi e del tempo di Augusto — tre lustri circa avanti Cristo — la si trova disciplinata in guisa da vedervi patroni e clienti. Questo diritto di clientela[46] del resto non era già circoscritto alle sole persone; le colonie, le città deditizie o conquistate, le nazioni alleate e i re barbari seguitarono l’esempio degli individui, eleggendosi i loro patroni nell’Urbe. Cicerone lo era dei Campani, Fabio Sanga degli Allobrogi, Catone dell’Isola di Cipro e del reame di Cappadocia, Marcello della Sicilia, ed io più sopra notai di Publio Silla [82] essere stato altro de’ primi patroni di Pompei: a’ giorni di Augusto, ci apprendono le dette iscrizioni, che nel novero di essi pur fosse Marco Olconio Rufo figlio di Marco, decemviro in questa città, incaricato per la quinta volta di rendere la giustizia, tribuno dei soldati nominato dal popolo, personaggio al quale i Pompejani avevano rizzato una statua nel foro in ricambio di publiche liberalità e sopratutto d’aver eretto un tribunale presso l’Ecatonstylon, il gran teatro, una cripta e il muro laterale del tempio di Venere Fisica, onde formare l’ambulatorio nel portico dell’Agora antica.

Si sa che i facoltosi romani avessero più d’una villa ed esse a seconda delle stagioni abitassero: Plinio il giovane nelle sue lettere ci fa sapere come ne avesse in Toscana, Romagna e Lombardia e ne lasciò minute e interessanti descrizioni[47]. Ne apprende [83] eziandio il medesimo Plinio di Silio Italico, che possedesse in uno stesso luogo più ville e, per lo soverchio amor delle nuove, ponesse in non cale le vecchie[48]. Pur Cicerone ne aveva più d’una, anzi l’abate Chaupy gliene noverò fino a ventiquattro, desumendolo da’ suoi scritti e sarebbesi perfino a cagion di esse, come ne scrisse ad Attico (Ep. I, lib. 2), fortemente indebitato, malgrado ch’egli dovesse essere ben ricco. Perocchè tutto che onest’uomo e persecutore dei depredatori, nel solo governo di Cilicia pose da banda due milioni e dugentomila sesterzi, vantandosi d’aver ciò fatto legalmente. Io non rammenterò delle sue ville che le più note, e sono due, e lo apprendiamo dalle stesse opere sue[49], [84] l’una era quella di Tuscolo, l’altra quella di Pompei, la quale già m’avvenne di più addietro ricordare e i cui ruderi può il visitatore vedere tuttavia nella via delle Tombe; se pure nella scienza che qui egli avesse una villa, non si è di troppo affrettati a riconoscerla in questa casa, che da lui nelle Guide si intitola ed è a’ visitatori come sua designata.

Oggi codesta casa, che si vuole dell’immortale Oratore, non è più riconoscibile, a causa che pel cattivo metodo che si teneva in addietro negli scavi, essa venne [85] ricolma di terra, a risparmio della spesa del trasporto. Fu nondimeno da essa che vennero tolte le pitture de’ Centauri e de’ Fauni danzatori di corda, le quali presentano per l’arte tutto quello che di bello, ideale e di poetica fantasia è lecito d’immaginare. Furono pure rinvenuti in essa due superbi mosaici, rappresentanti scene comiche del più delicato e squisito lavoro, della mano di Dioscoride di Samo, che vi appose il proprio nome.

Or fu in questa casa di campagna che Cesare Ottaviano, onorato poscia dall’adulazione col nome di Augusto[50], essendo ancora Triumviro, venne a visitar Cicerone ed officiarlo onde averne la protezione contro di Antonio nella lotta fra essi impegnata a disputarsi la successione di Cesare, e nel comune intento di spegnere l’aristocrazia, non a vantaggio certamente della democrazia, la quale non ebbe di poi altro frutto dal suo trionfo che di conoscere cui dovesse obbedire.

Piantata da lui l’autorità imperiale sopra il popolo romano, incominciò la serie dei Cesari che dominarono l’orbe romano.

[86]

Fu Augusto che inviò a Pompei una nuova colonia di Veterani, e come quella mandatavi da Silla avesse mutato il nome alla città sostituendovi quello di Colonia Veneria Cornelia; il sobborgo che la nuova fondò venne appellato Pagus Augustus Felix Suburbanus, che è forse il luogo stesso nel quale sorge la casa di Marco Arrio Diomede e stanno le tombe della famiglia Arria, della Istacidia, di Nevoleja Tyche e d’altri. Già fin dal momento che Roma avea cercato di mandar coloni a Pompei e questa ne li aveva rifiutati, le erano state guaste le mura, che dipoi aveva cercato di riparare, come ancor se ne vedono traccie; ma sotto Augusto sparvero affatto le lunghe cortine di queste mura, per modo che privati edificj poterono sorgere sull’area loro, e la città, spoglia affatto di difesa allora, si confuse colla colonia. Di ciò fa fede una iscrizione trovata nel teatro.

Tiberio Claudio, fratello di Germanico e zio di Caligola, prima che i Pretoriani lo acclamassero, alla morte di quest’ultimo, imperatore e il confermassero i soldati, il popolo, i gladiatori e i marinaj, malgrado la sua imbecillità, — onde era stato il trastullo del nipote e la madre stessa solesse dire: bestia come il mio Claudio, — ebbe a soggiornare alcun tempo a Pompei, dove gli moriva il figliuolo Druso, avuto da quella rinomatissima impudica che fu Messalina Valeria sua moglie, affogato da un frutto che aveva inghiottito.

[87]

Succedutogli nell’impero Nerone, accadde nell’anno 59 dell’era volgare un fatto nella città di Pompei, che fra i poco numerosi eventi di questa città che ne meritarono il ricordo, prima che ne seguisse la catastrofe, vuole essere memorato, come pur ne tenne conto Cajo Cornelio Tacito nel quattordicesimo libro degli Annali con queste parole che riferisco dalla traduzione del Davanzati:

«In questo tempo, di piccola contesa tra i Nocerini e i Pompejani uscì molto sangue nella festa degli accoltellanti che faceva Livinejo Regolo, raso, come dissi, dal Senato. Imperocchè dalle insolenze castellane vennero alle villanie, a’ sassi, all’armi; e vinse la plebe pompejana, che aveva la festa in casa. Molti Nocerini furon portati in Roma feriti o storpiati o morti, e pianti da’ lor padri e figliuoli. Il principe rimise la causa al Senato; esso a’ consoli: e ritornò a’ padri, i quali vietarono a’ Pompejani tal festa per dieci anni; disfecero lor compagnie fatte fuor di legge e sbandirono Livinejo e gli altri primi rissanti»[51]. Il qual fatto è pur menzionato da una caricatura politica, accompagnata da un’ironica iscrizione, state rinvenute negli scavi sulle mura esterne della via di Mercurio, iscrizione che suona così:

Campani, victoria una cum Nucerinis periistis;

[88]

cioè: Campani, una vittoria sui Nocerini vi ha distrutti.

È in questo tempo che l’imperatore mandò in Pompei come suo flamine perpetuo Valente, figlio di Decio Lucrezio Valente, di cui avverrà di citare più innanzi l’epigrafe, nella quale, a’ cinque delle calende d’aprile (28 marzo), avvisa una caccia nello anfiteatro.

È lo stesso severo storico che nel medesimo libro in cui racconta la colluttazione de’ Pompejani e Nocerini, narrando della morte data da Nerone alla madre Agrippina a Baja, mentre constata che quel mostro alfine conobbe la grande scelleratezza fatta ch’ei l’ebbe, e come nella notte che seguì il matricidio rimanesse affisato e mutolo, si rizzasse spaventato e sbalordito e «perchè i luoghi non si metton la maschera come gli uomini», non potesse veder quel mare e que’ siti. A vituperio delle città campane, lasciò poi ricordato ch’esse dell’orribile misfatto mostrassero con sagrifici e ambascerie allegrezza: vigliacca adulazione ripetuta in Roma, quando rassicurato che non gli si dava carico di quella morte, ritornatovi frammezzo alle ovazioni, ascese a render grazie agli dei in Campidoglio.

Ma più funesto e grave avvenimento toccò a Pompei nell’anno 63 sotto l’imperio dello stesso Nerone, consoli essendo Memmio Regolo e Virginio Rufo, ed è con la narrazione di esso che porrò fine a questo Capitolo, e che fu precursore dell’altro onde si chiuse l’esistenza e la storia della sfortunata città.

[89]

L’imperatore, stordito il mondo delle sue crudeltà ed uccisioni, incendiata Roma, persino accompagnandone il crepitante sfascio co’ suoni della cetra, s’era preso della libidine di rivaleggiare co’ migliori artisti da teatro e citaredi. Trovatasi egli ne’ primi di febbrajo di quell’anno in Neapoli ed attendeva in teatro a cantare, quando un terribile terremoto squassò quella vulcanica terra. Avvertito Cesare dell’evento, non volle abbandonare la scena se prima non ebbe compiuto il trillo di un suo canto favorito.

E la terra traballava sotto i suoi piedi!

Uscito egli appena dal teatro l’edificio intero crollava.

Quanto durasse il terremoto, quanta ruina cagionasse a Neapoli, ma più ancora ad Ercolano e Pompei, ci lasciò ricordato Seneca nel seguente passo:

«Pompei, celebre città della Campania, intorno alla quale la riva di Sorrento e di Stabia da una parte e quella d’Ercolano dall’altra formano col loro incurvamento un golfo ridente, è stata rovinata, ed i contigui luoghi molto maltrattati da un tremuoto accaduto nel verno, vale a dire in una stagione che i nostri antenati credevano esente da pericoli di tal sorta. Fu a’ cinque di febbrajo, sotto il consolato di Regolo e di Virginio, che la Campania (la quale era stata sempre minacciata, ma almeno senza alcun danno e sol travagliata dal timore fino a quel momento) venne con grande strage devastata [90] da questa violenta scossa della terra. Una parte della città d’Ercolano è stata distrutta, e ciò che ne rimane non è ancora sicuro. La colonia di Nuceria fu, se non rovesciata, certo malconcia. Neapoli ha sofferto delle perdite piuttosto particolari che publiche e lievemente fu tocca da questo gravissimo flagello. Molte case di campagna risentirono della scossa senza effetto. Si aggiunge che delle statue furono spezzate e che dopo di questo avvenimento funesto si videro errare pe’ campi persone prive di conoscenza e di sensi»[52].

I Pompejani salvatisi dalla rovinata città, l’abbandonarono e non vi fecero la più parte ritorno che qualche anno dopo, ponendosi allora a riedificarla o restaurarla, a seconda del bisogno, presto dimentichi della patita sciagura e spensierati che rinnovar si potesse nell’avvenire; e però tutti intenti a decorarla coll’arti belle, a rallegrarla di festosi conviti, a inebriarla di spettacoli e ringiovanirla di vita più gagliarda che mai.

Mensa Ponderaria. — Fig. I. B. E. Misure per gli Aridi. — A. C. D. F. G. H. I. Misure pei liquidi. — Fig. II. Spaccato della fig. I. — Fig. III. Extra misura. — Questa tavola è tolta al N. 15 del giornale degli Scavi, Nuova Serie. Vol. I. Cap. IV.

[91]

CAPITOLO IV. Storia.

PERIODO SECONDO

Leggi, Monete, Offici e Costume.

Il Municipio — Ordini cittadini — Decurioni, Duumviri, Quinquennale, Edili, Questore. — Il flamine Valente — Sollecitazioni elettorali — I cavalieri — Gli augustali — Condizioni fatte alle Colonie — Il Bisellium — Dogane in Pompei — Pesi e Misure — Monete — La Hausse e la Baisse — Posta — Invenzione della Posta — I portalettere romani — Lingua parlata in Pompei — Lingua scritta — Papiri — Modo di scrivere — Codicilli e Pugillares — Lusso in Pompei — Il leone di Marco Aurelio — Schiavi — Schiavi agricoltori — Vini pompejani — Camangiari rinvenuti negli scavi — Il Garo o caviale liquido pompeiano — Malati mandati a Pompei.

Quando l’Allighieri, tratta occasione dalle accoglienze oneste e liete fatte nel Purgatorio da Sordello a Virgilio per ciò solo che il riconobbe della sua terra, si fa a rimproverare l’Italia di sue civili discordie ed ironicamente poi si gitta sulla sua Fiorenza, quasi costei presumesse essere di condizione [92] diversa da quella infelice e di tutti i popoli d’Italia e prorompe quindi nel rampognarne la mobilità de’ provvedimenti, così si esprime:

Quante volte del tempo che rimembre,

Leggi, monete, offici e costume

Hai tu mutato e rinnovato membre[53].

Nel secondo verso di questo terzetto compendia l’immortale poeta tutto quanto ha tratto al viver civile; ond’io pur intendendo di versare intorno a ciò per Pompei in questo Capitolo, spiccai quel Verso per mettervelo in fronte e, a non guastarlo, non vi tolsi le monete, di cui veramente non ho ragioni ad occuparmi qui a lungo, perocchè Pompei non ne contasse di speciali, ma tenesse quelle che avean corso in Roma, essendo diritto particolare prima de’ consoli, quindi dell’imperatore il batter moneta d’oro e d’argento, e del Senato il battere quella di rame; sebbene a talune colonie e città venisse conservato il privilegio di monete particolari.

Ho già toccato di Pompei passato dallo stato autonomo originario a regolarsi con que’ diritti che erano inerenti a’ municipj romani. Dopo la Guerra Sociale era ciò avvenuto, e Mario vi aveva d’assai contribuito: Pompei, come gli altri paesi entrati nella lega latina, avendo ottenuta la romana cittadinanza [93] e perciò divenuta, nel vero senso del diritto latino e italico, municipio[54], reggevasi con leggi proprie e proprj comizj modellati per altro alla foggia romana. In virtù di che, il pompejano, membro della propria indipendente comunità, non cessò di essere cittadino romano, così appunto avverandosi quella sentenza di Cicerone che ho già ricordata, che a’ municipj competessero due patrie, l’una di natura, di diritto l’altra.

Si sa che i municipj optimo jure, come pare dovesse essere Pompei, avessero tutti i diritti e gli obblighi dei cittadini romani, mentre gli altri non godeano del suffragio, come i prischi plebei, e come persuadono le iscrizioni rinvenute lungo le vie sulle muraglie delle case a grandi lettere in color rosso o nero; come se i diciotto secoli trascorsi non fossero stati che diciotto giorni, nei quali i devoti, i riconoscenti per ricevuti favori, i parassiti e i liberali sollecitavano il publico a pro’ de’ loro proprj candidati. Così praticavasi largheggiar di elogi a’ cittadini che [94] si volevano eleggere, e biasimo a’ più sconosciuti od immeritevoli di alto ufficio, come farebbesi suppergiù a’ dì nostri nell’occasioni delle elezioni amministrative e politiche. V’era pur anche questo di buono nei municipj d’Italia e delle provincie, che vi restasse più integra la dignità ed autorità che non in Roma; perocchè quivi ben potesse l’imperatore compiervi atti di arbitrio e violenza; ma essendo il carattere della politica romana di non fondarsi soltanto sull’esercito, nella polizia e di tutto regolamentare; ne conseguitava che a’ municipj venisse conservata quella vita, che più nell’Urbe non si riscontrava, e rispettata ne fosse l’indipendenza, e la legge municipale andasse immune da’ capricci del principe e dalle sottigliezze de’ giusperiti.

Pompei dunque, come municipium, che aveva, cioè, ricevuto il munus, o prerogativa speciale dei diritti di romana cittadinanza, teneva la costituzione pari a quella di Roma, la quale divideva i suoi abitanti in tre ordini: il senato, i cavalieri e il popolo. Perocchè nei municipj ed anche in Pompei vi fossero i Sexviri Augustales, ossiano sacerdoti in onore di Augusto, il cui collegio costituiva un ordine distinto fra il popolo e i Decurioni, e teneva luogo de’ cavalieri romani. Più sotto riferirò qualche lapide, in cui di tale dignità è fatta menzione.

Questi sacerdoti, come Tacito attesta, vennero prima in numero di ventuno istituiti da Tiberio, [95] aumentati poi di quattro, pel culto di Augusto divinizzato. Presto anche alle colonie e a’ municipii vennero allo stesso fine estesi i collegi degli Augustali, ne’ quali i primi sei nominati si dicevano sexviri augustales e si nominavano dai decurioni. Quindi crebbero d’assai e si divisero in collegi di giovani e di seniori, a’ quali i seviri erano preposti. Fu disputato se l’augustalità fosse una magistratura; ma Noriso, in una sua dissertazione su d’un Cenotafio pisano respinse trionfalmente una tale opinione.

L’ordine dei Decurioni vi formava la curia, la quale corrispondeva al Senato dell’Urbe e componevasi di cento. Nelle cose più importanti tuttavia dovevano intendersela col popolo; dal che venne l’ordo populusque delle lapidi che pur si trovarono in Pompei. Plinio, nella epistola XIX del primo libro, ci avvisa che per essere ammessi a quest’ordine fosse mestieri possedere un patrimonio di centomila sesterzi, che equivarrebbero a ventimila lire d’Italia. Ai consoli equivalevano i duumviri con giurisdizione in certe cause; e come fossero la primaria magistratura, nelle colonie, aveano il privilegio de’ fasci, ma non potevano usarli fuori del loro territorio, a seconda del principio di diritto extra territorium jusdicentis impune non paretur. Di essi ritornerò a dire nel capitolo del Foro e della Basilica. V’erano il quinquennale, o censore, il tribuno, il difensore, gli edili, gli attuarj, ed erano queste le varie cariche colle quali internamente [96] si amministravano a loro piacimento. V’era inoltre il pretore, il questore gerente del reddito publico, il patrono della città, il maestro dei sobborghi e dei trivii, e vie via altre cariche minori.

Nelle iscrizioni pompeiane sovente si fa cenno ai maggiori magistrati, ed anzi una, che appare fatta publica di quel Valente che fu creato Flamine perpetuo da Nerone, ci rende edotti della presenza di questa dignità imperiale in Pompei e di certa importante autorità a lui conferita, se egli in essa iscrizione avvisa una caccia nell’anfiteatro, nel quale verrebbero distesi i velarii:

VALENTIS . FLAMINIS . NERONIS . AVG .
F . PERPETVI .
D . LVCRET . I . VALENTIS . FILII
Y . K . K . APRIL . VENATIO . ET . VELA. ERVNT
P . COLONIA

Queste due ultime parole, che significano Pompejana Colonia, appajono apposte dopo e da altra mano.

In altra è rammentato l’edile Marcellino, cui si raccomandano legnajuoli e carrettieri:

MARCELLINVM . ÆDILEM . LIGNAR I . ET . PLOSTAR I . ROGANT

I lavoratori delle Saline si raccomandano in altra a Marco Cerrinio Edile:

M . CERRINIVM . ÆD. SALINIENSES . ROG .

I facchini pregano Aulo Vezio in questa:

A . VETTIVM . ÆD . SACAR I . ROG .

[97]

Gli orefici l’edile Cajo Cuspio Pansa:

C . CVSPIVM . PANSAM . ÆD . AVRIFICES . VNIVERSI . ROG .

e Celio Cajo prega lo stesso edile, e Sergio Infanzione prega Popidio secondo edile, giovani probi degni della Republica, acciò esserne favoriti:

C . CVSPIVM . PANSAM . ÆD . OR .
CÆlIVS . CAIVS .
JVVENES . PROBOS . DIGNOS . R . P . O . V . F .
SER . INFANTIO .

Una tale epigrafe constata la notizia che si ha dalla storia che due fossero nella città gli edili. Così appellati dalla sopraintendenza agli edificj (a cura ædium), avean particolare cura degli edificj della città, templi, bagni, basiliche, teatri, acquidotti e simili, e in difetto di censori, anche delle case private. Esercitavano una specie di polizia su’ mercanti, sulle taverne, sui pesi e misure, sulle rappresentazioni teatrali, ecc.

I fruttajuoli, Pomarii, si raccomandano coll’usata formola rogant a Giulio Sabino edile e gli stessi in altra iscrizione all’edile Marco Cerrinio.

Cajo Giulio Polibio vien detto duumviro in una iscrizione a cui manca il nome di chi prega e il verbo:

C . JVLIVM . POLIBIVM . DVVMVIRUM .

[98]

Son pure ricordati edili un Marcello ed un Albucio in questa:

MARCELLVM . ÆDILEM . ET . ALBVCIVM . ORAT .

I Venerei salutano in quest’altra il giudice duumviro Paquio:

PAQVIO . DVVMVIR . I . D . VENEREI .

La carica di quinquennale, così detti da’ cinque anni che durava la loro carica ed avevano autorità di censori, è testimoniata dall’iscrizione ad Aulo Vejo, figlio di Marco, duumviro di giustizia, per la seconda volta quinquennale, tribuno de’ soldati eletto dal popolo:

A . VEJO . M . F . II . VIR . I . D .
ITER . QVIN . TRIB .
MILIT . AB . POPVL . EX . D . D .

E così altre molte iscrizioni publiche ricordano nomi e dignità e attestano ad un tempo della consuetudine pompejana, divisa pure da altre città dell’impero romano, di così i clienti raccomandarsi a’ magistrati.

L’ordine de’ Cavalieri veniva, in Roma, subito dopo quello de’ Senatori, ed era il più distinto. Per entrare in esso occorreva un patrimonio di quattrocentomila sesterzj, equivalenti a ottantamila lire italiane; onde Orazio ha nella Epistola I del lib. I:

[99]

Si quadringentis sex septem milia desunt

Est animus tibi, sunt mores et lingua, fidesque,

Plebs eris[55].

Non oserei asseverare con franchezza che l’egual patrimonio si richiedesse nelle colonie per entrare nell’ordine degli Augustali.

Nè fu ostacolo a tutti questi liberi ordinamenti, foggiati sul modulo di Roma stessa, l’essere stata Pompei dichiarala colonia e perfino l’essere stato a lei cambiato il nome in Colonia Veneria Cornelia; perocchè se negli anteriori tempi le romane colonie erano politiche istituzioni create ad unico beneficio della metropoli ed a vigilanza de’ nemici in mezzo a’ quali si piantavano, — onde ci avvenne già nelle pagine precedenti di vedere i prischi abitatori rivoltarsi contro i presidj romani e trucidarli, — la legge Giulia, dopo la Guerra Sociale, fece alle colonie migliori condizioni. Tutti gli Italiani divennero cittadini romani, adottarono le leggi di Roma, acconciandovi le patrie [100] costituzioni, ed ebbero il diritto di suffragio e di eleggibilità; onde scomparir deve, a mio credere, la meraviglia che fra Paolo Sarpi ebbe ad esprimere nell’Opinione in qual modo debba governarsi la Republica Veneziana, che, cioè, le colonie romane siensi mantenute sempre con affetto alla madre patria, mentre i cittadini trapiantati da Venezia a Candia divennero selvaggi od avversi. Imperocchè la ragione abbiasi a rinvenire in ciò che Roma accordasse a’ nuovi coloni i diritti di cittadini romani: mentre Venezia invece a quelli mandati a Candia avesse a togliere i privilegi che avevano goduto innanzi di cittadini veneti.

E, poichè sono al tema delle leggi e degli officj, reputo dover qui toccare di quell’onore che gli antichi accordar solevano a’ principali loro magistrati e che nelle lapidi pompejane vediamo più d’una volta menzionato. Voglio dire dell’onore del bisellium, concesso in Pompei, come nelle altre colonie e municipj, a’ decurioni e duumviri.

Consisteva esso nel seggio onorifico e distinto cui davasi diritto nelle publiche adunanze di affari o degli spettacoli. I Romani dedotto avevano dagli Etruschi l’uso delle sedie curuli pe’ senatori e consoli; a loro imitazione nelle provincie venne introdotto il bisellio. Era un largo sedile capace di due persone, abbenchè in fatto non servisse che per una sola. Ambitissima era una tale distinzione e non veniva [101] largita che a’ cittadini i quali si fossero meglio distinti nell’esercizio delle più alte funzioni e ben meritato avessero della patria. Lo si concedeva con un diploma dei decurioni, confermato dal popolo. Tanto apprendiamo dalla seguente iscrizione scolpita sul sepolcro di Cajo Calvenzio Quieto nella Via delle Tombe della città che ho presa a dichiarare:

C . CALVENTIO . QVIETO .
AVGVSTALI
HVIC . OB . MVNIFICENT . DECVRIONVM .
DECRETO . ET . POPVLI . CONSENSV . BISELLII
HONOR . DATUS . EST

Egualmente risulta che l’onore del bisellio conferivasi dai decurioni col consenso del popolo dall’iscrizione scolpita sul sepolcro di Nevoleja Tiche, che esprime appunto com’essa, liberta di Giulia, a sè stessa ed a Cajo Munazio Fausto Seviro augustale e pagano, cioè del Pago Augusto Felice, a cui i decurioni col Consenso del popolo decretarono il bisellio pe’ suoi meriti, vivente abbia elevato il monumento a’ suoi liberti e liberte ed a quelli di Cajo Munazio Fausto:

NÆVOLEIA . I . LIB . TYCHE . SIM . ET
C . MVNAZIO . FAVSTO . VI . V . AVG. ET. PAGANO
CVI . DECVRIONES . CONSENSV . POPVLI
BISELLIUM . OB . MERITA . EIVS . DECRETAVERVNT .
HOC . MONIMENTVM . NÆVOLEIA . TYCHE
LIBERTIS . SVIS .
LIBERTATISQVE . ET . C . MVNATI . FAVST .
VIVA . FECIT .

[102]

Questo monumento di Nevoleja Tiche reca dal lato che riguarda la porta della città, scolpito in rilievo, il bisellio, e senza di esso e dei due di bronzo rinvenuti negli scavi pompejani, ci sarebbe ancora sconosciuta la forma di questo seggio d’onore. Vedesi senza spalliera e ricoperto di un pulvinare, o cuscino con frange pendenti.

Il bisellium, scrive Chimentelli, era al duumvirato ciò che era il laticlavo[56] all’autorità senatoria, ed il ceppo di vite a quella del centurione[57]. Parrebbe altresì che fosse talvolta attribuito anche agli Augustali[58], come infatti, dalla surriferita epigrafe di Nevoleja, lo vediamo essere stato accordato al seviro Cajo Munazio Fausto.

Il Falieri opina poi essere assai probabile che l’onore del bisellium fosse proprio unicamente della Augustalità, ossia di que’ sacerdoti, che come più sopra ho notato, vennero istituiti in onore d’Augusto collocato fra i numi; ma non già perchè fosse [103] comune a tutti gli augustali, ma perchè venisse concesso a coloro che nella augustalità fossero i più onorevoli e degni.

Il medesimo autore reca la deliberazione dei centumviri del municipio di Vejo, che convennero in Roma nel tempio di Venere Genitrice, e piacque ad essi permettete a Cajo Giulio, liberto del Divo Augusto, che venisse il giustissimo onore decretato di essere ascritto nel numero degli augustali, e gli fosse concesso in tutti gli spettacoli di quel municipio sedere nei bisellio proprio fra gli augustali; e una iscrizione che Quinto Largenujo Chresimo diede di molti sesterzi alla republica de’ Pisani per l’onore del bisellio. Il Grutero ha pur una iscrizione antica dalla quale appare lo stesso onore accordato a Tizio Chresimo augustale.

Importa ora conoscere, alla migliore idea della publica amministrazione di Pompei, come si scoprisse nella Via delle Terme uno stabilimento che corrisponderebbe ad una odierna dogana e che gli antichi appellavano con parola greca Telonium — Τελωνὶσν — o banco de’ gabellieri ed anche Ponderarium, da pondus, peso, perchè luogo a pesare le merci. Vi si accede per una porta larga forse trenta piedi e si trova in un cortile, nel fondo del quale sta un piedistallo che un dì sosteneva forse una statua, rovesciatasi per avventura nell’anno 63, quando avvenne quel formidabile tremuoto, che tanto guasto menò alla [104] città, e di cui ho già informato il lettore, nè più rimessavi poi.

Si rinvenne in questa località una discreta quantità di pesi di marmo e di piombo, circolari e di differenti grossezze ed altri marcati con buchi o con punti rilevanti. Su taluni si lessero le sigle C. Pon, cioè centum pondo, in altri Pon, pondo, ed in altri ancora Ta, talentum. Su molti piccoli pesi quadrati di piombo da un lato stava impressa la parola Eme, compera, dall’altro Habebis, l’avrai. Alcuni poi portavano inciso il visto del magistrato: exacta in capita.

Si trovò pure una stadera con ganci all’estremità della sua catena e nell’asta marcati i numeri da uno ad otto, col peso pendente di 22 once, raffigurante un Mercurio. In altra stadera i numeri appaiono duplicati nella parte opposta, e in una bilancia con coppa lungo la sua asta erano impresse le seguenti parole:

IMP. VESP. AVG. IIX. C. IMP. AVG. T. VI. C. EXACTA. IN. CAPITOL.

cioè: nel consolato ottavo di Vespasiano imperatore Augusto e nel sesto di Tito Imperatore, figlio d’Augusto, provata nel Campidoglio.

Qui mi conviene far cenno altresì di cinque altre bilancie romane, interamente di bronzo, notevoli pei modi diversi ond’è segnato il numero nei varj punti in cui puossi appoggiare il peso. Su due di esse [105] sono impressi questi numeri, V, X, XV, XX, che significano 5, 10, 15, 20: su d’un’altra i seguenti XIIIIVIIIIXXIIIIVIIIIXXXIIII, che equivalgono da 10 fino a 54: sulla quinta finalmente questi: IIIVX, V, XX, XXX, IIII, cioè 2, 3, 4, 5, 15, 20, 30, 34.

Bilancie Pompeiane. Vol. I Cap. IV. Storia, ecc.

Piacemi per ultimo constatare che tutte queste bilancie veggonsi fabbricate con mirabile diligenza, e i contrappesi, æquipondium, rappresentano teste di donna, o satiri, di squisito lavoro.

Ora per menzionare di tutte le misure publiche che si scoprirono in Pompei, dirò che alla Porta alla Marina, presso al tempio di Venere, scorgesi il modulo di capacità per i solidi, e consiste in una pietra di tufo in forma di rettangolo con tre cavità coniche forate al disotto che si chiudevano con una placca di metallo e si riaprivano dopo che s’era verificata la quantità della granaglia.

A qualche distanza poi era un altro congenere monumento, più grande e più perfetto, che si vorrebbe anzi uno de’ più interessanti monumenti dell’antichità, trasportato al Museo già Borbonico, ora Nazionale, in Napoli. Conteneva esso non solamente le misure de’ solidi, ma ben anco quelle de’ liquidi, e ricercandole in quell’interessantissimo Stabilimento che non ha, cred’io, l’eguale in ricchezza e quantità d’antiche cose e preziosissime, vi leggerete ancora la seguente iscrizione, la quale vi farà sapere che Aulo Clodio Flacco figlio di Aulo e Narceo Arelliano [106] Caledo, figlio di Narceo, duumviri di giustizia, vennero incaricati, per decreto de’ decurioni, di rettificare le publiche misure.

A . CLODIVS . A . E . FLACCVS . NARCEVS . N . F
ARELLIAN . CALEDVS
D . V . I . D . MENSVRAS . EXÆQUANDAS . EX
DEC . DECR .

Tale rettifica venne, non ha dubbio, eseguita, secondo la pratica romana, tanto a riguardo dei pesi, che dallo scripulum, pari agli odierni grammi 1,136 andava all’as, o libra, eguale a grammi 327,187; e dall’as e dupondium che costituivasi di due assi, fino al centussis, ossieno chilogrammi 32,718; che a riguardo delle misure lineari e di quelle di superficie e di capacità.

Le misure lineari dividevansi in uncia; palmus, pari a 3 oncie; pes, che era unità di misura, pari a 4 palmi corrispondente a metri 0,295; cubitus pari a un piede e mezzo; passus eguale a tre cubiti e un terzo; decempeda eguale a due passi; actus pari a dodici decempedi; miliarium pari ad actus 41 2⁄3, corrispondente a chilometri 1,475.

Così le misure di superficie suddividevansi in pedes quadrati, di cui cento formavano lo scripulum, pari a metri quadrati 8; in clima o 30 scripuli; in actus o clima 4; in jugera eguali a 2 actus e formava l’unità dei quadrati, e nella sua divisione ricorre la partizione dell’asse in oncie e loro frazioni. Lo jugero [107] era un bislungo di 240 piedi sopra 120, cioè 20,800 piedi quadrati. Un jugero sarebbe pari agli odierni ari 24 e metri q. 68 e come sarebbesi in addietro in Lombardia detto d’un’estensione di terreno, che si costituiva di pertiche e tavole, ed oggi di ettari ed ari, allora si parlava di jugeri, onde Tibullo, ad indicare uom facoltoso, ha in principio d’una sua elegia:

Divitias alius fulvi sibi congerat auri

Et teneat culti jugera multa soli.[59]

Poi v’era heredium costituito di due jugeri, richiedendosi 5 heredia a formare un nostro ettaro, 48 ari e 8 metri q.; centuria di cento heredia e saltus di 4 centuria.

Le misure di capacità erano: ligula eguale a un decilitro nostro e 14 centilitri; cyathus di 4 ligulæ; acetabulum che era un cyathus e mezzo; quartarius, o due acetabula pari a odierni litri 1,375, hemina o due quartarii; sextarius che constava di 2 heminæ; congius di 6 sextarii, modius di 2 1⁄3 congii; urna di un modio e mezzo; amphora, che era l’unità di misura di capacità e valeva 2 urnæ, corrispondente a 80 libbre di vino, secondo il computo di Festo, il [108] che monta a litri 26,3995, posto il peso specifico del vino 0,9915. Dieci amphoræ equivarrebbero a’ nostri ettolitri 2 e 44 decalitri. Finalmente il culeus pari a 20 amphoræ, sarebbe quanto 5 ettolitri e 28 decalitri de’ nostri.

Delle Monete ho superiormente spiegato non constarmi che in Pompei se ne coniassero di particolari e ne fornii le ragioni, e se Roma ne fece battere nella Campania, si sa che vi adoprasse il tipo nazionale del Giano bifronte e la prora di nave. Sulle monete della Magna Grecia, fra le città della quale annoverar si deve Pompei, in luogo dei rostri, vedesi in rilievo il bove colla testa umana, sotto cui raffigurasi la divinità detta Eubone, che antichissimamente adoravasi, come simbolo di fertilità, in Neapoli. Di quest’ultima città poi si hanno moltissime monete antiche in rame ed in argento, le quali sono di squisito lavoro e presentano diversi tipi. La moneta romana era quella adunque che negli ultimi suoi anni Pompei usava ne’ suoi commerci ed usi quotidiani e che fu rinvenuta e si rinviene tuttora nelle escavazioni. Anche nella Casa del Questore furono trovate monete romane degli ultimi imperatori di quell’epoca: egualmente altrove di Nerone, di Tito, Domiziano, Ottone e d’altri.

Darò brevemente alcune nozioni sulla moneta romana e sulla sua valutazione, nel quale argomento si è ancor lungi dall’avere la maggiore certezza.

[109]

L’asse, parola derivata forse dal nome del suo metallo æs, era una libbra da 12 once di bronzo non coniato, e costituì la prima unità monetaria romana. Essendosi al tempo di Servio Tullio impressa su di esso la figura d’una pecora, ricevette il nome di pecunia.

Venne di poi nel 485 di Roma il denaro, dalle due parole dena æris, perchè equivalente a dieci assi di bronzo, e fu la prima moneta d’argento. Il quinario rappresentò la metà del denaro, il sesterzio il quarto, cioè due assi e mezzo. Spezzati più piccoli furono la libella pari ad un asse; la sembella a mezzo asse o mezza libbra di bronzo; il teruncio ad un quarto di libbra.

In seguito queste monete subirono variazioni: al fine della prima guerra cartaginese, l’asse fu ridotto a sole due once; nell’anno 537 l’asse scese al peso d’un’oncia; il danaro si sollevò a sedici assi, il quinario a otto, il sesterzio a quattro. La legge Papiria del 562 abbassò l’asse a mezz’oncia di rame, nè restò più che moneta di conto, divenuto unità monetaria il sesterzio.

E qui giova avvertire che il sestertius non vuol essere scambiato pel sestertium, moneta di conto che valeva mille sestertii.

La prima moneta d’oro fu battuta dai Romani nel 547 alla ragione d’uno scrupulum per 20 sesterzj. Poi si battè l’aureus, detto anche solidus pari a 100 sestertii e a 23 denarii.

[110]

Dureau de la Malle, nel suo libro dell’Economia de’ Romani, pareggia il denaro al principio della Republica a L. 1.63; sotto Cesare a L. 1.12; sotto Augusto a L. 1.08; sotto Tiberio a L. 1; sotto Claudio a L. 1.05: sotto Nerone a L. 1.02; sotto gli Antonini a L. 1.

La libbra d’oro, di cui sovente nelle scritture antiche si parla, può valutarsi a L. 900: a 75 quella d’argento. Sul declinare dell’impero, la libbra d’oro valse L. 1066.

Così abbiamo un primo cenno a quella fluttuazione, od altalena nei valori, che ora alla Borsa vien designata colle parole rialzo e ribasso, o più comunemente colle forestiere di la hausse et la baisse, su cui si specula da’ mercadanti e non mercadanti, che sono la vera e più funesta piaga della odierna società, causa spesso come di improvvise fortune colossali, così di subite e precipitose ruine.

«Nel trattato d’Antioco coi Romani, riferito da Polibio e Tito Livio (scrive C. Cantù, alla cui Storia degli Italiani debbo parecchie notizie per questo mio libro), si stipula che il tributo si paghi in talenti attici di buon peso, e che il talento pesi ottanta libbre romane. Sapendo d’altro luogo che il talento era seimila dramme, otterremo il peso della dramma = grani 82 1⁄7. Il talento attico può approssimare a lire seimila.»[60]

[111]

La esistenza constatata in Pompei di due publici alberghi, l’uno detto di Albino e l’altro di Giulio Polibio e di Agato Vajo, scoperto il primo nel 1769 e l’altro nel successivo anno, mi trae a dire di altra istituzione che s’ha ragione di supporre esistente in Pompei, quella, cioè, della posta.

Imperocchè nel primo singolarmente, dove vedesi una porta larga undici piedi e mezzo colla soglia senza scaglione e piano, accessibile quindi a’ veicoli, si rinvennero ruote, ferri e bardamenti di cavalli e si ritenne però che qui potesse sostare la posta. Svetonio nella vita di Ottaviano Augusto, rammenta come questo imperatore la stabilisse sulle vie consolari, con rede, essede e plaustri, e vi attivasse corrieri in tutte le mansiones, che così appunto appellavansi le stazioni postali. Siffatto sistema, prestando fede ad Erodoto, sarebbe stato imaginato dai Persi, e Senofonte lo conferma narrando di Ciro che nella spedizione contro gli Sciti, fissasse le poste del suo reame circa cinquecento anni avanti Cristo. Tiberio avrebbe d’assai vantaggiata l’introduzione d’Augusto; vuolsi anzi vi ideasse forme analoghe alle nostre. — In quest’albergo di Albino la posta doveva avere la sua mansione; a differenza dell’albergo di Giulio Polibio e Agato Vajo, nel quale trovato essendosi gli avanzi di tre carri, — i cui cerchi di ferro si conservano al Museo Nazionale di Napoli — con fontane e abbeveratoj di animali e questa iscrizione:

[112]

C . CVSPIVM . PANSAM
ÆD . MVLIONES . VNIVERSI
AGATO . VAIO

coll’altra sottoposta:

IVLIVS . POLIBIVS . COLLEGA . FECIT[61]

si è già indotti a credere che fosse meglio uno stallazzo da mulattieri.

Con ciò per altro non credo sostenere che a questa istituzione della posta, valevole al trasporto de’ passeggieri, quella fosse pure congiunta del trasporto regolare delle lettere, come si vede praticato in oggi; perocchè questa bella ed utilissima invenzione de’ cui vantaggi tutta gode presentemente la parte civile del mondo, non fosse ancor conosciuta, venendo assegnata ad epoca d’assai posteriore ed a merito de’ Veneziani. V’erano bensì staffette, latinamente dette veredarii, ma queste non portavano che i publici dispacci. I privati, che volevano carteggiare co’ lontani, doveano quindi servirsi con grave loro spesa di messi appositi, detti tabellarii, ossia portalettere, o procacci, come più propriamente qui dovrebbesi dire[62].

[113]

Meglio posso dire della lingua che si parlava in Pompei. Ben osservò Gibbon come i Romani fossero così persuasi della influenza della lingua sui costumi nazionali, che più seria cura di essi fosse quella di estendere col progresso delle loro armi l’uso eziandio della loro lingua[63], e sappiamo anzi a proposito dal summentovato Svetonio, come l’imperatore Claudio degradasse un ragguardevole greco perchè non sapesse la lingua latina[64].

Se la lingua di Cicerone e Virgilio — sebbene con qualche inevitabile miscuglio di corruzione — fu così universalmente adottata sin nelle province dell’Africa, della Spagna, della Gallia, della Britannia e della Pannonia; se della sola Spagna ebbe la latinità que’ chiari scrittori che furono i due Seneca, Marziale, Lucano, Columella e Quintiliano, è presto argomentato com’essa divenisse per tutta Italia non solo la lingua ufficiale, ma ben anco la parlata ed anche in Pompei fosse, nella classe almeno meglio educata, la più generalmente usata.

Taluni per altro pretesero voler desumere da ciò che da queste classi meglio educate pur si usasse del greco idioma, che dunque fosse l’antica lingua parlata [114] in Pompei, e trarne perfino illazioni intorno alle origini; ma non credo che ciò sia esattamente vero. Imperocchè il succitato Gibbon giustamente osservasse come la vittoriosa Roma fosse ella stessa soggiogata dalle arti della Grecia. «Quegli immortali scrittori — scrive egli — che fanno ancora l’ammirazione della moderna Europa, presto divennero l’oggetto favorito dello studio e dell’imitazione nell’Italia e nelle province occidentali. Ma non portavano danno le geniali occupazioni dei Romani alle radicate massime della loro politica. Mentre si riconoscevano le bellezze della lingua greca, sostenevano la dignità della latina; e l’uso esclusivo della seconda fu conservato inflessibilmente nell’amministrazione sì del governo civile che del militare. I due linguaggi esercitavano nel tempo istesso la loro separata giurisdizione per tutto l’impero; il primo come naturale idioma della scienza, il secondo come il dialetto legale degli atti publici. Quelli che univano le lettere agli affari erano egualmente versati nell’uno e nell’altro, ed era quasi impossibile in qualunque provincia di trovare un suddito romano di una educazione liberale, che non sapesse nel tempo stesso la lingua greca e la latina.»[65]

Così può spiegarsi il promiscuo uso in Pompei dei [115] due linguaggi, senza per questo correre a diverse supposizioni. Piuttosto ammetteremo che l’origine osca degli abitatori di Pompei, da me riferita, venisse attestata dalle molte iscrizioni trovate negli scavi e di cui si hanno dotte interpretazioni nel Giornale di essi che si stampa a Napoli, e se devesi ritenere quanto con certo fondamento si sostiene da parecchi scrittori e dal Fontanini che il popolo non si valesse nel famigliare linguaggio della lingua latina, ma sì de’ dialetti speciali, come si sa che infatti antichissimi fossero il Sabino, l’Etrusco ed il Veneto, io credo che una prova di tale opinione si abbia in ciò che i Pompejani alla loro volta avessero conservato il dialetto osco e lo parlassero volgarmente. Detti e motti graffiti in questa lingua sulle muraglie delle case suffragano validamente una tal prova.

Se latina era dunque la lingua generalmente parlata dalle classi più elevate, e se osca quella usata dal basso popolo in Pompei; latina era pure quella che generalmente solevano scrivere e l’ufficiale; non escludendo per altro che gli uomini più letterati si servissero assai della greca, quantunque meno frequentemente negli ultimi tempi che in addietro.

A ciò attestare, si rinvennero negli scavi tanto d’Ercolano che di Pompei, più per altro in quella città che in questa, non pochi papiri, i quali, appunto perchè nella più parte riflettenti studj, anzichè atti o scritture attinenti agli affari, furono nella massima [116] parte dettati nella lingua greca[66]. Sebbene codesti molti cimelj non abbiano ancora di assai avvantaggiata la storia od altro ramo dello scibile umano; tuttavia non è detto che quegli che non sono per anco svolti e pubblicati non abbiano ad essere di maggiore interesse.

Ho detto svolti, perchè quali vennero trovati, non figurano che altrettanti pezzi di carbone, così resi dalle ardenti materie onde furono avvolti, nè par vero che siasi potuto vincere la loro rigidità e spiegarli e renderli atti alla lettura. C. Rosini aveva nel 1793 in Napoli edito due tomi di questi scritti ercolanesi sotto il titolo Herculanensium voluminum quæ supersunt. Il Canonico De-Jorio fin dal 1823 in Napoli nella sua Officina de’ papiri ne fece la descrizione e più Volumi di que’ papiri trascritti sono omai fatti di pubblica ragione; qualche migliajo ancora attende la medesima sorte. De Mürr fin dal 1804 aveva in Parigi pur mandato per le stampe un suo commento intorno ai papiri greci scoperti in Ercolano De papyris seu voluminibus herculanensibus commentatio, e Hayter in Londra nel 1810 un suo lavoro dal titolo A report upon the herculaneum manuscript.

Si sa che i papiri e le pergamene fossero la carta [117] usata più comunemente in que’ tempi per le scritture: quelli costituiti da fili di un giunco cresciuto sulle sponde del Nilo, avente un tal nome e però d’origine egizia; questa di pelle per lo più ovina e derivante il suo nome da Pergamo, città dell’Asia Minore, dove fu prima usata; le tavolette cerate, di cui tanto sovente si fa cenno nelle opere antiche, erano per le più brevi scritture, e chi volesse poi avere più particolareggiate notizie Dello scrivere degli antichi Romani, consulti le dottissime dissertazioni edite con questo titolo da Stefano Morcelli[67].

Egli mostra come fossero fatte queste tavolette incerate che i greci chiamavano πίνακίδης, o anche δηλτωι dalla loro forma simile alla lettera Δ, e come vi si andasse sopra con lo stilo o grafio, il quale solcando la cera a guisa di aratro la terra, diede origine fra’ latini al vocabolo figurato exarare in significato di scrivere, vocabolo che non è per anco bandito dal linguaggio de’ nostri curiali, che bene spesso scrivono esarare una dichiarazione, un atto, e va dicendo.

I biglietti che si spedivano allora così esarati sulla cera, come vedremo nel venturo capitolo, riferendo una lettera di Plinio il Giovane, appellavansi codicilli e i pugillares, di cui parla lo stesso autore nella lettera [118] del libro I delle sue Epistole, contenendo le suddette tavolette o codicilli, corrispondevano, per un certo rispetto agli odierni portafogli, poichè servivano a piccole scritture e annotazioni, non mai ad opere di lunga lena[68].

Le città della Magna Grecia, tra cui, come sa il lettore era Pompei, ricevendo in tutto l’intonazione da Roma, come nella cultura e nel gusto, derivando usi e costumi di colà, ne parteciparono anche al lusso sfrenato.

Già ho detto della quantità e sontuosità delle ville de’ più facoltosi romani che principalmente possedevano ne’ dintorni di Pompei o nel golfo napolitano. Lucullo nella vicina Baja profuse tesori: si sa che le sue cene in Apolline costassero la bagatella di trentaduemila lire odierne l’una e non occorreva per esse che avesse convitati: a Baja stessa forò un monte per derivar l’acqua marina alla sua piscina; Irzio spese dodici milioni di sesterzi a nutrire i suoi pesci, pei quali la sua villa fu venduta per dieci milioni dei nostri. Argomenti da ciò il lettore del resto. Siffatto spreco degli epuloni romani portato in provincia era contagioso: perchè i ricchi di Pompei non lo avrebbero adottato?

[119]

Gli scavi ci hanno rivelato pitture e statue di sublime lavoro, ornamenti d’oro e gingilli, progresso dell’arte e dell’industria; ma io ne tratterò in separati capitoli, perocchè valga il prezzo dell’opera il conoscerne i migliori capolavori. Il Museo Nazionale di Napoli ne va ricco e costituiscono tutta una storia. Monili e braccialetti, orecchini ed anelli vi sono leggiadrissimi e tali da cui l’industria odierna potrebbe cavarne un eccellente partito, e si sa dal trattato delle pietre preziose di Plinio come fossero anzi gli antichi più avanti di noi. Marziale ci ricordò come le dita de’ ricchi del suo tempo si empissero di anelli ed anzi se ne avesse più d’uno per falange, o per articolazione:

Sardonicas, smaragdos, adamantos, jaspidas uno

Portat in articulo.[69]

Si sa che Lollia, gentildonna romana, comparve ad un banchetto adorna per otto milioni di perle, delle quali le romane caricavano perfino i calzaretti. Caligola ne fregiava le prore delle navi e Nerone i letti delle sue lascivie. Nè si creda valessero meno dell’oggi, se una sola fu comprata con sei milioni di sesterzj.

Non parlerò qui de’ bagni, degli aromi ed essenze che si prodigavano, chè m’avverrà di trattarne, meco [120] guidando il lettore alla visita delle Terme, cui consacrerò speciale capitolo, e così de’ banchetti e d’ogni altra ghiottornia e lautezza, entrate ne’ costumi pompejani.

Pur degli spettacoli dirò in altro capitolo e vedrà il lettore come teatri, comico e tragico, e anfiteatro avesse Pompei, e comunque città di terz’ordine, vi esistesse ludo di gladiatori, serragli di belve riservate al circo; nè farà più maraviglia il vedere i pompeiani sorpresi dal cataclisma mentre erano accolti nel vasto anfiteatro, se la libidine di congeneri passatempi veggiamo solleticata ne’ più strani modi in tutto il mondo romano; così che a’ giorni di Nerone[70], a cui ci ha pur condotti la narrazione, rappresentandosi sul teatro l’Incendio del vecchio Afranio, si diè fuoco davvero alle case e gli istrioni lasciaronsi padroni di saccheggiarle; e alla rappresentazione del Prometeo si chiuse con un vero supplizio; quella di Muzio Scevola col bruciarsi uno schiavo la destra, e un leone avvezzato a divorar uomini, il fè nel circo con tanto garbo, che il popolo, cui fu presentato dall’imperatore, ad una voce implorò per esso la libertà.

Ma io stavo per dimenticarmi di accennare che quest’imperatore era il buon Marco Aurelio, colui la cui filosofia è giudicata una continua aspirazione [121] al bene de’ suoi simili e ne’ suoi precetti vi è tanta cristiana umiltà; che il cardinal Barberini, voltandoli nella volgar lingua, la traduzione dedicasse all’anima sua «per renderla più rossa che la sua porpora allo spettacolo delle virtù di questo gentile.»

Nè di tutti i costumi pompejani presumo esaurir qui l’argomento, che altri risulteranno menzionati nel restante dell’opera, nè volli, qui del pari toccandone, per amor d’ordine, che mi si accusasse dipoi di inutile ripetizione.

Come in qualunque altra parte d’Italia e d’altre nazioni, anche in Pompei viveva in mezzo ai suddetti ordini cittadini e in mezzo a quel civile reggimento, senza parteciparne ai diritti ed ai benefici, una infelicissima classe di uomini, diseredata e tenuta nè più nè meno di cosa, a’ quali eran devoluti i pesi maggiori sociali, che si compravano e si vendevano come giumenti a’ prezzi non di molto maggiori, che servivano nelle case, a’ capricci spesso di stolti e di violenti padroni, infrenati da una disciplina severa e crudele, dalle leggi autorizzata. Questa classe era quella degli schiavi. Per la più parte Barbari prigionieri per vicenda di guerra usi a vita indipendente e impazienti di vendicarsi a libertà. Nelle scorse pagine vedemmo come tentassero ben due volte in massa di rompere i ceppi e per ciò dessero grande travaglio alla Repubblica. Cesare dalla Gallia ne aveva menati, [122] stando a Plutarco ed Appiano, un milione; Lucullo dal Ponto ne traeva tanti da venderli quattro dramme l’uno, cioè meno di quattro lire per testa: una dramma era nello stesso campo di Lucullo venduto un bove[71], e Augusto ne scendeva dalle montagne de’ Salassi ben quarantaquattromila.

Mimi e gladiatori da rallegrar circhi ed arene, amanuensi a copiare, grammatici a corregger libri, danzatrici e suonatrici di flauto, o come in Grecia, appellavansi auletridi, ad allietare i banchetti ed a provocare orgie e lascivie, si avevano per lo più da questa povera gente, e Pompei questi costumi divideva con tutto l’orbe romano, e vi cresceva stimolo la mollezza del clima, ond’ebbero infausta celebrità gli ozj campani.

In Pompei inoltre la coltura de’ campi era interamente affidata agli schiavi ed erano questi i più infelici. Sorvegliati da altri schiavi tenuti dal padrone in miglior conto, o da’ liberti, che erano stati schiavi un giorno e fatti poi liberi, severi castighi subivano se recalcitranti o infingardi.

Dai vigneti coltivati per essi ottenevansi quelle uve, d’onde que’ vini di Pompei, che al dir di Plinio[72], ebbero fama tra i meglio accreditati, che non erano bevibili che vecchi di dieci anni, e pur [123] tanto focosi che chi ne beveva, restava molestato dai dolori di capo sino all’ora sesta del dì seguente. Certo è che oggidì la natura di questi vini ha mutato. Persuaso di quel vecchio proverbio:

.... si Romæ vivis, romano vivito more,

nello asciolvere all’albergo del Sole in Pompei, chiesi del vino paesano, nè fu causa che mi desse al capo. Gli è tuttavia ne’ dintorni, alle falde del Vesuvio, che si spreme il famoso Lacryma Christi.

Abbondante del resto la vendemmia, come in tutte le terre vicine al Vesuvio e fin su sulle sue pendici; onde L. Floro, estasiandosi innanzi a questi luoghi, dicesse la Campania, di cui questa parte che si specchiava nel Tirreno era la gemma, la plaga più bella d’Italia non solo, ma dell’Universo, dove in nessun luogo vi fosse cielo più dolce, terra più ubertosa e dove duplice pei fiori la primavera e i monti rivestiti di viti e bellissimo fra tutti il Vesuvio: e Marziale giugnesse a dire, che il Vesuvio verdeggiante per pampinose ombre e la nobile uva dando laghi di vino, paresse che gli Dei del piacere e dell’allegria, abbandonate le più care lor sedi, venuti fossero a dimora sui gioghi del Vesuvio. Uditene i versi che riporto dal Libro IV de’ suoi Epigrammi, sotto il n. 44:

Hic est pampineis viridis Vesuvius umbris;

Presserat hic madidos nobilis uva lucus.

Hæc juga, quam Nisæ colles, plus Bacchus amavit,

Hoc nuper Satiri monte dedere choros.

[124]

Hoc Veneris sedes, Lacedæmone gratior illi,

Hæc locus Herculeo nomine clarus erat[73].

Così Pompei era del pari celebre per le sue pere e ne forniva le più ricercate mense, come Tivoli le poma; ferace per le messi e per gli ulivi, e gli scavi ci hanno dato saggi di frumento ed olive appunto, come altri molti frutti sia naturali che preparati, pane, focaccie ed altrettali leccornie; nè parrà vero che mentre tutti questi camangiari appajono anneriti e bruciati dalle ardenti ceneri onde furono investiti, parte del grano rinvenuto conservasse tuttavia la proprietà vitale, e seminato, malgrado fossero trascorsi più che diciassette secoli, germogliasse e porgesse la propria spica e le olive fossero conservatissime ancora nell’olio.

Virgilio nelle Georgiche aveva la fertilità di queste terre celebrato in questi versi:

[125]

Quæque suo viridi semper se gramine vestit,

Illa tibi lætis intexet vitibus ulmos

Illa ferax oleæ est: illam experiere colendo

Et facilem pecori, et patientem vomeris unci.

Talem dives arat Capua et vicina Vesevo

Ora jugo[74].

Dalle onde poi del Tirreno, che baciavano, frangendosi, il piede alla voluttuosa Pompei, il pescatore pompejano, tra i cento svariati pesci traeva in copia il Garo, che or non saprebbesi designare con nome conosciuto, e con esso facevasi colà il caviale liquido, che nella bassa Italia si fa tuttavia. «Evvi, dice Plinio, un altro genere di liquore assai ricercato, al quale si è dato il nome di garum: esso è composto d’intestini di pesci o d’altre parti che sarebbero diversamente a gittarsi, e che si fanno macerare nel sale in guisa che divenga l’effetto della putrefazione. Questo liquore componevasi una volta col pesce che i Greci chiamavano garon»[75]. Lo stesso Plinio attesta che Pompei andasse assai lodata, come Clazomene e Lepti, per il garo[76].

[126]

Orazio ne faceva menzione, dicendolo composto di succhi di pesce iberico:

Garum de succis piscis iberi[77].

Marziale del pari in un suo epigramma:

Sed coquus ingentem piperis consumet acervum:

Addet et arcano mixta falerna garo[78].

E altrove lo stesso poeta:

Nobile nunc sitio luxuriosa garum[79].

Era per ultimo lungo queste amenissime sponde che il Vesuvio sogguarda, che i medici solevano mandare a curarsi e risanare gli affetti da mal sottile, e siffatta salubrità di tali luoghi Varrone ricordò in quelle parole: ubi montana loca ut in Vesuvio, quod leviora et ideo salubriora, constatataci di poi anche dall’autorità di Polibio e di Procopio.

Queste erano le condizioni di Pompei ne’ primi anni dell’Era Cristiana, negli ultimi quindi di sua esistenza, e dei quali io mi faccio ad intrattenere il lettore.

[127]

CAPITOLO V. Storia.

PERIODO SECONDO — IL CATACLISMA.

T. Svedio Clemente compone le differenze tra Pompeiani e Coloni — Pompei si rinnova — Affissi publici — La flotta romana e Plinio il Vecchio ammiraglio — Sua vita — La Storia Naturale e altre opere. — Il novissimo giorno — Morte di Plinio il Vecchio — Prima lettera di Plinio il Giovane a Tacito — Diversa pretesa morte di Plinio il Vecchio — Seconda lettera di Plinio il Giovane a Tacito — Provvedimenti inutili di Tito Vespasiano.

Pompei, dopo l’orribile guasto che aveva, pel tremuoto, toccato nell’anno 63 di Cristo, dileguate mano mano le apprensioni, andava rimettendosi a nuovo, facendosi, come già dissi, più bella.

A’ romani imperatori della famiglia Giulia, a Galba, Otone e Vitellio, era nell’anno 70 dell’E. V. succeduta la serie de’ Flavj, e primo di essi, Tito Flavio Vespasiano. Tra le cure della sua amministrazione volse pure il pensiero a Pompei ed a delimitare i confini del territorio della romana republica, occupato nel Pago Felice-Augusto dalle tre coorti dei [128] veterani, onde componevasi la militare colonia, e togliere ogni pretesto, per i quali si rinnovassero i dissidj del tempo di Publio Silla e le ribalde soperchierie, spedì Tito Svedio Clemente, rinomato giureconsulto e tribuno. Studiò egli le rispettive ragioni de’ cittadini e de’ coloni; vide la prepotenza di questi ultimi e la violenza, nè bisognava di molto a capirla, poichè non vi fosse uom dappoco o fanciullo che a prima giunta non la sentenziasse in quegli avanzi di guerre astute e ladre; e così saviamente ogni cosa compose e provvide a’ diritti de’ primi, che grati i decurioni elevarono la sua statua sur un piedistallo, precisamente sul posto de’ diritti acquistati e riconosciuti, presso la strada, cioè, dopo l’emiciclo di Mammia sull’angolo della via che scorge alla villa di Cicerone, scolpendovi a perenne ricordanza, la seguente onorifica iscrizione:

EX . AVCTORITATE
IMP . CÆSARIS
VESPASIANI . AVG.
LOCA . PVBLICA . A . PRIVATIS
POSSESSA . T . SVEDIVS . CLEMENS
TRIBVNVS . CAVSIS . COGNITIS . ET
MENSVRIS . FACTIS . REI
PVBLICÆ . POMPEJANORVM
RESTITVIT[80].

[129]

Il De Jorio die’ conto della statua di Svedio, dicendo che accanto al muro dell’angolo della strada, in livello molto superiore al suolo antico si trovò una statua togata di marmo: nella mano sinistra teneva un volume ed un anello al dito: la testa e le mani s’incontrarono a piccola distanza: il pilastro che la sosteneva portava incastrata l’iscrizione[81].

Il benemerito E. Brizio seppe questa statua discernere per quella di T. Svedio Clemente fra quelle collocate al Museo di Napoli: vi lesse la sigla S nel castone dell’anello, significante forse sigillum, forse Svedius, e descrive del personaggio che rappresenta: il volto è d’uomo avanzato in età, i capelli sono radi ed è calva la fronte; dalla faccia si presume una complessione gracile del corpo[82].

I duumviri stessi, a secondare le dette conciliazioni, e a prevenire ulteriori dissidj e conflitti fra cittadini e coloni, provvidero a che questi ultimi avessero ne’ pubblici spettacoli un posto che non avevano prima, e l’iscrizione che questo provvedimento testifica, leggeremo nel capitolo che tratterà de’ teatri.

Eliminati così gli inceppamenti che frappor si potevano al suo risorgimento, Pompei lo veniva in ogni modo affrettando.

Presso il Foro Civile e la Basilica era maggiore la [130] ressa degli operai a sgomberare le rovine, a rinnovar le colonne: pietre vulcaniche e travertino si venivano in que’ luoghi trascinando da’ giumenti; le case, i templi, gli archi sollecitavano un medesimo lavoro; le vie erano animate di carri e di popolo, gli Edili sorvegliavano le opere, i cittadini profondevano l’oro e la fatica degli schiavi alle riparazioni e come a Roma l’incendio appiccato da Nerone aveva recato il beneficio di sgomberare di luride casupole e di sostituirvi palagi marmorei di privati e publici sontuosi edificj, anche a Pompei il disastro di sedici anni prima, dissipata la naturale paura che s’avesse a rinnovare, aveva occasionato miglioramenti non pochi.

È così presto dimenticato il dolore e il pericolo corso, quando ogni cosa sorride d’intorno!

Questo bel cielo che si distende sopra Pompei, questo azzurro mare che ne bacia il clivo su cui si posa, quella lussureggiante vegetazione che la circonda, questo aere molle che lusinga i sensi, questo monte perfino che le sta di fianco, e lievemente fumigando, sembra ognuno rassicurare che più non sia per ricominciare la sua lotta interna, nè dare sfogo a furori esteriori, tutto consigliava, tutto persuadeva al ritorno nelle graziose casette del passato, a ripopolare la gentile città, a renderla più bella, più ornata, più delicata.

Pittori, accorsi da Grecia, vi istoriavano le pareti di leggiadri appartamenti, e preparavano ne’ triclinj [131] e nelle esedre fomiti irresistibili alle lascivie dei commensali e vi compivano meraviglie di arte; scultori ne adornavano gli impluvii, i tablini e gli atrii di vaghissime statue e mosaici; artefici d’ogni maniera fornivano le ricche suppelletili e gli xisti olezzavano di rose ed oleandri a profumarne eziandio le camere terrene od ombreggiavansi di pianticelle e d’arbusti esotici a miglior frescura di esse, e così ricorreva la vita più giovanile e tumultuosa per le arterie tutte della graziosa città.

I doviziosi dipingevano sulle muraglie delle case od all’ingresso della città in caratteri rossi e neri affissi publici di appigionamento; nè sarà privo di interesse qui trascrivere quello che Giulia Felice, figlia di Spurio, fe’ pingere in rosso e fu rinvenuto intatto come se fatto jeri, per chi concorrere voleva all’affitto per cinque anni continui di tutti i suoi beni. Consistevano questi in un bagno, in un venereo, o luogo di dissolutezze, ed in novecento taberne, o botteghe, nelle quali si vendevano merci e gli artefici esercitavano i loro mestieri, colle pergole, o balconi, sporti all’infuori delle case e co’ cenacoli, o camere superiori per l’abitazione de’ mercanti, e si lasciava tempo ad aspirare alla condizione di tali beni da’ sei agli otto d’agosto; apposta la condizione si quis domi (o damnatum) lenocinium exerceat ne conducito, espressa nelle sigle iniziali, onde l’affisso si chiude; se pure non vogliasi assegnare ad esse [132] quella significazione che vi dà l’illustre Fiorelli, il quale così ristabilirebbe la formula: si quinquennium decurrerit locatio erit nudo consensu.

IN PRÆDIIS . IVLIÆ . SP . F . FELICIS
LOCANTVR .
BALNEVM . VENERIVM . ET . NONGENTUM . TABERNÆ . PERGVLÆ
CENACVLA . EX . IDIBUS . AVG . PRIMIS . IN . IDVS . AVG . SEXTAS
ANNOS . CONTINVOS . QVINQVE
S . Q . D . L . E . N . C .[83]

Altra iscrizione pure fu trovata sul pilastro di una casa, la qual significa che nell’isola Arriana Polliana di Gneo Alifio e Virginio Maggiore, dalle prime idi di luglio (ossia otto di questo mese), si affittano le botteghe colle pergole ed i cenacoli equestri, convenendo il conduttore della casa con Gneo Alfio Maggiore.

INSVLA . ARRIANA
POLLIANA . GN . ALIFI . NIGIDI . MAI .
LOCANTVR . EX . I . IVLIIS . PRIMIS . TABERNÆ
CVM . PERGULIS . SVIS . ET . CŒNACVLA
EQVESTRIA . ET . DOMVS . CONDVCTOR .
CONVENITO . PRIMVM . GN . ALIFI
NIGIDI . MAI . SER .

[133]

La brevità del tempo concessa al concorso spiega la ricerca de’ locali e la tornata affluenza della popolazione in Pompei.

E con essa la foga delle gazzarre e de’ publici divertimenti.

Plauto e Terenzio somministravano al Teatro Comico le loro composizioni. Ovidio la sua Medea e Seneca e i Greci tragedi le loro opere al Teatro Tragico: il ludo de’ gladiatori ristabilito provvedeva all’anfiteatro: i magistrati così di Pompei con siffatte lusinghiere illecebre venivano richiamando le famiglie che sgomente l’avevano abbandonata.

E i vicini traevano pur di nuovo alle sue feste; gli antichi usi, le consuetudini prische, la voluttuosa vita, gli amori avevano come prima, meglio di prima ripreso.

Venere Fisica vedeva nel suo tempio ripigliato il culto dalla prediletta città cui dava anche il nome. Giove, Giunone ed Esculapio accoglievano nei rispettivi loro templi voti e sagrificj, e l’egizia Iside si rifaceva più venerata del bando cui era stata posta dall’Urbe co’ suoi bugiardi e disonesti misteri.

La fama per ultimo aveva già susurrato la buona novella, che non aveva ancora dichiarati credenti lungo tutte queste sponde, ma che sapevasi come già percorresse le diverse provincie, a sostituir quella fede che più non era profonda nei Numi, e ad abbattere quegli altri altari, che ormai, più che dalla [134] convinzione, erano dall’abitudine e dal dovere frequentati, perchè quei riti erano collegati al modo di vivere ed alle leggi connessi.

Era il prim’anno di Tito Vespasiano quando Pompei presentava tutto questo superbo spettacolo di vita e di prosperità, — e siccome mi avverrà di riferire tra breve l’immaturo fine di quel dottissimo e celebre naturalista che fu Cajo Plinio il Vecchio, uopo è che a questo punto informi il lettore del perchè l’illustre Comasco vi si avesse a trovare.

Le due più importanti stazioni navali di Roma a’ tempi dell’impero, riferisce Tacito avere Augusto stabilito a Ravenna ed a Miseno, dove appunto ha principio, come sa il lettore, il bellissimo golfo di Napoli. La flotta, classis, composta di triremi e di liburniche e di altre navi, o imbarcazioni minori, a ruote od a semplici remi, era così fra questi due punti principalmente distribuita.

Ora a comandante di quella parte di flotta romana ch’era di stazione a Miseno, si trovava essere a que’ giorni Cajo Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio.

Chi egli fosse giova conoscere, siccome il più importante personaggio che figuri nella storia ricordato nel gravissimo evento che sto per narrare, mercè le famose epistole lasciate dal nipote e indirizzate a Tacito, il rinomato storico, e compirò questo debito sotto la maggior brevità.

Cajo Plinio Secondo, a dispetto di chi lo volle di [135] Verona[84], nacque in Como — Novocomum — l’anno 23 dell’Era Volgare, regnando in Roma Tiberio. Suo padre fu Celere e sua madre Marcella. Datosi alle lettere, non fu ramo di scienza cui non si fosse applicato, e dalla assidua lettura degli autori latini e greci, solendo sempre prenderne note, come è manifesto da quanto ne scrisse il di lui nipote e figlio adottivo — Plinio il Giovine — potè trarne il profitto migliore. Fu un vero miracolo di studj, considerando come perduto tutto quel tempo che dava alle altre occupazioni. Così potè lasciare assai e assai opere, delle quali la migliore e che si può considerare come l’enciclopedia dello scibile antico, ci è rimasta ed è quella che si intitola Naturæ Historiarum, divisa in XXXVI libri.

Essa fu da lui ordinata con certo metodo. Cominciò col contemplare il mondo in generale; gli astri, le costellazioni, le comete, gli elementi e le meteore, tutti i fenomeni celesti e terrestri passano rapidamente sotto la sua penna. Descrive quindi la terra, cioè l’Europa, l’Africa e l’Asia, e contiene codesta parte notizie e particolari importanti sia per la geografia [136] che per la storia. Segue la storia dell’uomo, poi quella degli animali terrestri, degli acquatici, degli uccelli, degli insetti e vie via discorrendo. Vi tien dietro il regno vegetale e vi si tratta degli alberi stranieri, della gomma, della resina, de’ frutti, de’ grani che servono alla alimentazione dell’uomo e per conseguenza dell’agricoltura, del vino e della coltivazione della vigna e del lino; degli arbusti e del loro uso nella medicina; de’ fiori, delle api, del miele e della cera; degli usi differenti delle piante per l’industria e per i farmaci, delle erbe che crescono senza mestieri di coltura, di loro virtù e proprietà per certe malattie; de’ rimedj tratti dagli animali e da’ pesci. Nove libri consacra alla materia medica e riesce più completo di Dioscoride e di Galeno. Passa di poi a’ minerali e metalli, di cui è per avventura il primo a trattare, nè dimentica in tale proposito le acque medicinali e i sali. Si occupa da ultimo delle materie impiegate dalle arti, de’ colori, delle terre, de’ marmi, delle pietre da fabbrica, e di quelle preziose; necessariamente toccando della storia della pittura, della scultura, dell’architettura, annestandovi digressioni curiose sul lusso de’ Romani, sulla navigazione, il commercio ed altre interessantissime cose.

Quantità di notizie, profondità di studj e di filosofia e amenità di forma sono pregi incontestabili di siffatta opera colossale, della quale il celebre Buffon [137] fa un elogio; abbenchè Geoffroy Saint Hilaire l’abbia severamente giudicata una mera compilazione[85].

Svetonio ricorda di Plinio la Storia delle Guerre Germaniche, compresa in venti volumi[86]; altri altre opere che lo attestano indefesso e sapiente scrittore, e ne fanno ascendere il numero de’ volumi sino a cent’ottanta, scritti in minutissimo carattere.

Lo che non tolse che servisse dapprima nella cavalleria, che sostenesse di poi continue e cospicue magistrature, stato essendo procuratore altresì della Spagna, che fosse augure e da ultimo comandante, o, come direbbesi in oggi, ammiraglio della flotta romana a Miseno.

È precisamente nel disimpegno di questa onorevolissima ed importante carica che noi lo troveremo fra poco.

Spuntava l’alba dei primo giorno di novembre. — Una nebbia trasparente, che non era delle solite d’autunno, distendevasi su tutto il golfo e vi toglieva quell’ineffabile sorriso onde fu dal cielo privilegiato: l’aria era straordinariamente greve e soffocante, nè spirava da veruna parte alcun soffio di vento. Pur tuttavia, scendendo alla marina, sarebbonsi vedute le onde disordinatamente mosse, come in ora di tempesta. Chi andava colle idrie alle fontane per provveder [138] l’acqua, maravigliava di vederle gocciolare appena appena; la poche acque de’ pozzi avevano convertito in acre il loro gusto. Il Sarno medesimo, la cui ricchezza in allora di onde non è bene argomentata dalla picciola sua vena d’oggidì, parevasi per prodigio disseccato repentinamente. Miasmi sulfurei e di mofete[87] si facevano sentire leggieri dapprima, poi rendevansi più forti e dominavano, e la calma e affannosa atmosfera era certo in contrasto coll’ora mattutina per consueto fresca e pura; nè di tuttociò sapevansi indovinare le cagioni. Perocchè a [139] quanti fosse venuto in mente di rammentarsi il disastro del tremuoto accaduto sedici anni addietro, e temuto avesse per quegli indizj non fosse per rinnovarsi, rispondeva assicurando la tranquilla sommità del vecchio Vesuvio, che sorrideva tranquillo; nè appariva perfino quella bianca virgola di fumo che d’ordinario vedevasi liberare dalle sue fauci.

Mano mano che il giorno avanzava l’aria facevasi più pesante, più pallida e nebulosa la luce, maggiore ed affannosa la caldura; ma la popolazione pompeiana era ben lunge ancora dal sospettare l’imminenza d’un gravissimo male. V’hanno scrittori perfino che affermarono non venissero per ciò que’ noncuranti cittadini rimossi dall’accorrere in folla allo spettacolo dell’anfiteatro ch’era indetto per quel giorno.

E fra i sanguinosi combattimenti di gladiatori e di fiere li colse improvvisa la collera del Vesuvio. La clessidra non aveva forse segnata per anco un’ora dopo il meriggio. Un cupo mugolio rumoreggia sotterra e sembra esso proceda da lunge, poi s’approssima mano mano, e ne traballa il suolo, e prima che gli attoniti spettatori rivengano dalla sorpresa, repenti spaventosi scoppi si odono dal lato della Porta Ercolano come di tuoni e di folgori; una densissima e oscura nebbia invade il cielo e l’aria si fa più bassa, e la notte più cupa sottentra al giorno. Tutti sorgono da’ loro stalli e si precipitano in massa per gli ambulacri e pei vomitorj, la calca urla, si preme [140] e svia in quella oscurità, fra clamori di uomini, strida di femmine, e nel trambusto v’ha chi cade, chi sviene e rimane oppresso e schiacciato. Quel generale frastuono è fatto maggiore e s’addoppia per l’eco che si ripete da una estremità all’altra dell’arena[88]. Urlano agli inattesi fenomeni ne’ sotterranei, che fiancheggiano le porte principali dell’anfiteatro, spaventate le fiere, e ne frangono i ferrati cancelli dandosi invano alla fuga[89]; gemono i cani per le vie, mugghiano i bovi, nitriscono i cavalli e tentano strapparsi alle greppie onde fuggirsene all’aperto.

Incomincia un grandinare di pomici e di lapilli; una pioggia fittissima di ceneri e d’acqua bollente si rovescia a furia, mentre in qualche parte cadono grossi basalti che sfondano, stritolano, uccidono dove cadono.

Spesse folgori guizzano con odiosa luce ad illuminare l’orrore di quella scena e rivelano la nera colonna di fumo che si leva dal cratere del Vesuvio, pari a pino gigante, e i torrenti di lava incandescente che si precipitan dal monte, che si fanno strada pei fianchi aperti d’ogni parte e rovinano e scorrono a portar desolazione e lutto. Gli alberi, al loro passaggio, crepitano, inceneriscono e scompajono in un baleno; ogni vegetazione è arsa e distrutta.

La Catastrofe di Pompei. Vol. I. Cap. V. Il Cataclisma.

[141]

I gemiti, le strida, gli ululati degli uomini rispondono alla generale rovina e assordano miseramente la città; la disperazione regna per le sue vie. Famiglie che fuggono verso il mare dove giunte gittansi a furia sovra i fragili burchielli, già testimonj di letizie e di voluttà, e vi trovano fra l’onde procellose la morte; mariti e padri che vorrebbero trarre in salvo le mogli ed i figli; questi che in quel bujo d’inferno vengono da altri accorrenti separati dai genitori: richiami inutili, pianto disperato, orribili imprecazioni agli Dei. I magistrati più nulla potevano e dividendo l’universale sentimento della propria conservazione, provvedevano a sè medesimi: i sacerdoti, tolta a stento qualche statua d’oro di nume, sottraevansi a’ templi: le vestali, non curanti dei veli candidi e pudici, mescevansi atterrite alla folla delirante e maledivan la Dea che le privava in quel punto degli umani soccorsi. Vecchi che non reggono a’ passi della fuga e s’accasciano rassegnati in attesa della morte; giovani che, pur volendo involare gli antichi parenti, sono uccisi da’ proiettili del monte a mezzo dell’atto pietoso; amanti che spirano nella reciproca assistenza e nel primiero lor bacio[90]: confusione [142] e caos terribile e peggiore assai della morte, miscela orribile di urla, e d’omei, di atroci bestemmie di uomini e di donne e di mugghj spaventosi di bestie, cozzo di animali e d’uomini, sfascio di edificj e gragnuola incessante di lapilli e nembi di ceneri sottili ed ardenti che invadono case, che penetrano appartamenti e i più reconditi nascondigli, che soffocano il respiro, che ricolmano e seppelliscono: puzzo acuto, insopportabile che ti afferra e stringe le fauci, che istrozza: in una parola — rovina e morte. —

Le torcie resinose che avvisavan taluni d’accendere a rompere quell’atra notte, squassate qui e qua per le vie, pei crocicchi e nel foro accrescevano l’orrore; nè valevano guari all’intento, chè la pioggia bollente e gli inciampi d’ogni maniera le spegnevano, onde più sgomentavansi e forviavansi i fuggenti.

Fra tanto lutto e terrore non mancarono scellerati uomini di penetrar nelle case deserte e d’involarvi denaro e preziosità; ma vindice il Vesuvio li puniva del sacrilegio, quando correvano di poi a salvarsi colla infame preda.

Chi avrebbe in tanta confusione pensato allora a’ [143] poveri prigioni? Intento ognuno per sè, trepido e curante della propria esistenza o di quella de’ più cari, chi avrebbe volto un pensiero al povero gladiatore che stava ne’ ceppi del ludo ad espiare alcun fallo o a soddisfare il capriccio dell’inflessibil lanista? Gli scavi pompejani discoprendo ed il ludo e que’ ceppi, ci chiarì nelle ossa de’ piedi che ancor n’eran costretti, come là quegli infelici avessero dovuto attendere l’estremo fato, impotenti a difendersi dalla furia delle ceneri e della bollente pioggia, impotenti a sottrarsene colla forza.

Ancor la sentinella che vegliava alla Porta Ercolano, all’ingresso del Pago Augusto Felice, fedele alla avuta consegna, spirava impugnando l’alabarda al suo posto, ed il suo scheletro rinvenuto diciotto secoli dopo, attestò a’ posteri i rigori della militar disciplina che imponeva Roma a’ soldati.

E tu pure, povera vedova di Marco Arrio Diomede, invano riparasti nell’ampia cella vinaria della tua casa co’ tuoi più cari, confidando che là non ti avrebbe raggiunta l’ira dei numi! Venti scheletri si sono rinvenuti colà, e tanta dovette essere la disperazione di que’ disgraziati, che le pareti, forse allora recenti, serbano tuttavia le impronte loro.

Ben avevano detto i miseri Pompejani di credere quella fosse l’ora dello sterminio totale dell’universo. Seneca, colla divinazione che è propria del poeta, aveva dipinto alcun tempo prima, od almeno riassunto tutto l’orrore di tal giorno in que’ versi:

[144]

Trepidant, trepidant pectora magno

Percussa metu, ne fatali

Cuncta ruina quassata labent

Iterumque deos hominesque premat

Deforme chaos.[91]

Pochi furono i fortunati che giunsero a mettersi in salvo, fuggendo per mare a Sorrento, a Neapoli o nelle isole adiacenti: così da’ pochi fuggiaschi fu pur recata la dolorosa nuova a Miseno.

Tre giorni durò la spaventosa catastrofe ed a capo di essi voi avreste cercato invano Pompei. La misera città era sepolta e scomparsa sotto l’incredibile pioggia delle ceneri, e siffattamente scomparsa da non sopravvivere pure la tradizione del luogo ove ella ebbe ad esistere, se infino a mezzo il secolo scorso ebbe a invalere la credenza che là fosse Pompei dove ora è Torre dell’Annunziata, che è quanto dire a due miglia da dove venne poscia scoperta.

E con Pompei la vicina costiera era egualmente sparita. La più lontana Stabia aveva patita la medesima sorte: Ercolano, Retina, Oplonti, Tegiano e [145] Taurania non esistevano egualmente più. I grossi torrenti di candente lava, che al bagliore sinistro si vedevano vomitarsi dal cratere e dagli aperti fianchi del Vesuvio, erano corsi sui monumentali palagi delle ville di Cesare e dei Fabi e così le avevano ricolme da stendere sovr’esse una pietra sepolcrale dello spessore di più metri.

Perfino il mare s’era ritratto d’alquanto dal poggio ove s’assideva la spensierata città che descrivo, sì che al presente vi si vegga interposto buon tratto di terreno: il cataclisma dunque era stato così formidabile che mai a memoria d’uomini non fu poi visto l’eguale.

Plinio, il comandante della flotta a Miseno, non ebbe appena l’avviso delle incominciate furie vesuviane, che vi era accorso sollecito, e come poi miseramente vi perisse, vittima di quella scientifica curiosità ch’egli ebbe di studiare il formidabile fenomeno, lascerò che il lettore l’apprenda dall’epistola che il suo nipote e figlio adottivo Cajo Cecilio Secondo detto Plinio il giovane, secolui e colla madre convivente in Miseno, diresse a Tacito, l’illustre storico amico suo. A tal uopo io la volgo nella nostra lingua, che congiuntamente all’altra del medesimo pure a Tacito scritta, completeranno meglio il povero racconto che della tremenda catastrofe ho io procurato di fare:

[146]

«Cajo Plinio a Tacito suo salute:

«Tu mi domandi ch’io ti scriva della fine di mio zio, onde ne possa con maggiore verità tramandare a’ posteri. Ringrazio. Imperciocchè io vegga che dove essa venga da te celebrata, si appresti alla morte sua una gloria immortale. Quantunque infatti nello sterminio di bellissime terre, egli, come i popoli e le città, sia rimasto, in così memorabile evento ravvolto, da sopravvivere quasi eterno, e quantunque egli stesso abbia molte e durature opere lasciate; molto tuttavia aggiungerà alla popolarità del di lui nome la immortalità de’ tuoi scritti. Io certo reputo avventurati coloro a’ quali è dato dal favore degli dei o di compiere cose degne d’essere scritte o di scrivere cose degne di essere lette; avventuratissimi poi quelli a’ quali e l’una cosa e l’altra è concessa. Mio zio, mercè i proprj scritti e mercè i tuoi, sarà nel novero di costoro. Laonde più volontieri m’accingo, anzi insisto a far quello che tu mi imponi.

«Trovavasi egli a Miseno ed attendeva al personale comando della flotta[92]. Erano le calende di [147] Novembre[93], quasi all’ora settima, quando mia madre gli mostra apparsa una nube d’inusitata grandezza e specie. Accostumato a star bene alquanto al sole e quindi a bagnarsi d’acqua fredda, aveva asciutto in letto e messosi poi a studiare, domanda le pianelle e ascende in luogo da dove si potesse riguardar ampiamente il prodigio. Una nube levavasi (che a chi da lontano l’osservava non avrebbe indovinato da qual monte, che poi si conobbe essere il Vesuvio), la cui somiglianza e forma nessuna altra arbore meglio che un pino avrebbe raffigurata. Perocchè spingendosi in alto come su lunghissimo tronco, si diffondeva per certi rami: credo che ciò procedesse perchè sollevata da improvviso soffio s’allargava poscia alla base, fors’anco vinta dal proprio [148] peso, candida talvolta e talvolta sordida e macchiata, a seconda che sorreggesse o terra o cenere. Parve all’eruditissimo uomo che fosse il grande evento meritevole di più vicino studio. Comanda allestirsi una liburnica[94] e m’accorda, dove il voglia, seguirlo. Risposi amar piuttosto rimanermene a studiare, ed egli stesso per avventura m’aveva commesso alcuna cosa scrivere. Usciva di casa, quando gli si recarono alcune tavolette[95] scritte. I classiarii di Retina[96], atterriti dall’imminente pericolo (poichè quella borgata vi sottostasse, nè altra via di scampo vi fosse che per le navi), supplicavano volesse sottrarli a tanto disastro. Ei modifica la risoluzione e quel che aveva per amor di studio incominciato, compie colla massima alacrità. Escono le quadriremi, vi monta su egli stesso non per recar [149] ajuto a Retina soltanto, ma a ben molti altri, poichè popolata di gente fosse l’amenità della sponda. S’affretta colà da dove fuggono gli altri ed in mezzo al pericolo egli regola il corso e tien diritti i governali, così libero da timore, da distinguere e disegnare tutte le fasi di quella sciagura e tutte le figure come gli si paravano agli occhi. Già la cenere era cascata sulle navi, quanto più s’accostavano, tanto più calda e più densa; già anche le pomici e le pietre, nere, bruciate e spezzate dal fuoco, già apertosi un improvviso guado e la ruina del monte levarsi ostacolo al lido. Ristato alquanto, se dovesse dar addietro, al timoniere che a ciò fare l’esortava, i forti, disse, ajuta la fortuna, raggiungi Pomponiano. Questi era a Stabia, separato dal seno frapposto, essendo che il mare, per l’aggirarsi e curvarsi delle sponde, [150] non vi si introducesse che a poco a poco. Quivi, quantunque non fosse ancora vicino il pericolo, in vista nondimeno di esso che col crescere si farebbe più presto, aveva portato sulle navi i fardelli, in attesa di dover fuggire quando il vento contrario si fosse acquetato; dal quale il mio zio invece assai favorito, colà sospinto, abbraccia il trepidante, lo consola ed esorta e perchè colla propria tranquillità meglio deponesse il timore, vuole essere trasportato nel bagno; lavatosi, si pone a tavola e cena allegro od in sembianza di allegro, lo che è più ancora. Intanto dal monte Vesuvio in più luoghi divampavano larghissime fiamme ed alti incendj, il fulgore e chiarore de’ quali veniva fatto maggiore dalle tenebre della notte. Egli per rimedio al terrore andava dicendo quelle che ardevano essere le deserte e solitarie ville abbandonate al fuoco dallo spavento de’ campagnuoli. Allora si diede al riposo e riposò del più profondo sonno. Perocchè il respiro, che per la corpulenza gli era più grave e sonoro, veniva inteso da coloro che stavano sulla soglia. Ma lo spazio per il quale si adiva all’appartamento, s’era per tal guisa di cenere mista a lapilli cotanto colmo, che se più a lungo fosse rimasto nella camera, gliene sarebbe stata negata la uscita. Riscosso, sorge e ritorna a Pomponiano ed agli altri che avevano vegliato. Consultano in comune se debbano restar in casa, o vagare all’aperto, perocchè la casa traballasse per le [151] frequenti scosse, e come scassinata dalle fondamenta, di qua e di là ondeggiasse, e dell’uscir all’aperto si paventasse nuovamente il ruinar de’ lapilli, comunque lievi ed esigui. Nel confronto de’ quali pericoli si decise per codesto ultimo, in lui la ragione vincendo il partito, negli altri la paura. Imposti de’ cuscini sulla testa, ne li accomandano con fasce e ciò fu riparo contro quanto cadeva. Già altrove il giorno, colà la notte più buja e densa d’ogni notte, la qual tuttavia rompevano le molte faci ed i diversi lumi. A lui piacque di portarsi al lido e da vicino riguardare se si potesse commettere al mare, perchè mosso e procelloso perdurava. Quivi adagiandosi sovra un disteso lenzuolo, una volta o due dimandò dell’acqua fresca e la bevve. Poscia le fiamme e una puzza di zolfo, foriero delle fiamme, volgono altri in fuga ed eccitano lui. Appoggiatosi a due si levò, ma subitamente ricadde morto, impedito, siccome io argomento, il respiro dalla più spessa caligine, onde gli si chiuse lo stomaco, che già per natura aveva debole ed angusto e soggetto a frequenti infiammazioni. Come fu ritornato il giorno (il terzo da quello che a lui era stato l’ultimo), fu rinvenuto il di lui corpo integro, illeso e ancor ricoperto de’ suoi indumenti, più simile la posa del corpo ad uno che dorma, che non a defunto. Io colla madre eravamo sempre a Miseno. Ma ciò nulla fa alla storia, nè tu bramasti sapere altro che della morte di lui. Imporrò [152] fine adunque; questo solo aggiungendo che ho veracemente esposto tutto quello cui ho assistito o che ho udito al momento, essendochè le cose vere tutte vengano ripetute. Tu le più saglienti eleggi; perocchè altro sia una lettera, altro la storia; altro è per l’amico, altro è scrivere per tutti. Addio.»

Così il nipote e figlio adottivo Cajo Plinio Cecilio Secondo narrò la morte del grande naturalista ed ammiraglio della romana flotta; ma per quanto autorevole la di lui testimonianza, non tolse che differentemente altri la narrassero di poi.

Tra costoro, Svetonio, o quegli cui si vogliono attribuire le Vite degli Uomini illustri, ci fa sapere come v’abbiano bensì certuni che lo dicano oppresso dalla violenza della rena e delle faville, ma ve n’abbia di altri ancora che ritengano essere stato da un servo ammazzato, quando sentendosi soffocare per l’ardore, avevalo pregato d’anticipargli la morte[97].

Il Rezzonico, accostandosi a quest’ultima opinione, la vorrebbe confortare colla consuetudine de’ Romani di liberarsi con morte volontaria da’ dolori della vita, e col sistema di filosofia di Plinio il Vecchio, il quale non pare che avesse le più precise idee intorno alla immortalità dell’anima[98].

[153]

Nè di diversa sentenza era per avventura messer Francesco Petrarca, se potè nel Trionfo della Fama introdurre il terzetto che riferisco, mettendo per altro ancora in guardia il lettore contro quel, che io reputo errore, come ho già precedentemente dimostrato, d’aver, cioè, detto Plinio veronese:

Mentr’io mirava, subito ebbi scorto

Quel Plinio veronese suo vicino

A scriver molto, a morir poco accorto.

Tuttavia potrebbesi ritenere che il Cantore di Laura riputasse egualmente essere stato poco l’accorgimento del vecchio Plinio di esporsi sul lido del mare alle offese vesuviane, mentre ne fervevano i furori, e che gli accagionarono la morte, anche senza ammettere la morte datagli dal servo.

Ma all’illustre e severo storico non bastò lo intendere i casi del vecchio Plinio; laonde pur quelli del giovine richiese, perocchè avesse saputo costui essersi trovato ravvolto in quegli spaventosi avvenimenti; epperò eccitava l’amico ad istruirnelo, ed io pensando che pur un certo interesse provar dovrebbe il lettore a conoscerli, a rendersi ben anco ragione dell’intero luttuoso quadro, dedurrò pur la versione della seconda lettera che dall’argomento scrisse quell’egregio all’amico.

«Cajo Plinio a Cornelio Tacito suo, salute:

«Tu dici essere tratto dalla lettera, che per tuo volere ti scrissi intorno alla morte di mio zio, a desiderar [154] di conoscere, quali timori non solo, ma quali avventure altresì mi sieno toccate (ciò che del resto m’ero posto per dirti e poi mi sono interrotto).

Benchè d’orror, nel rimembrarlo, frema

L’animo mio, principierò[99].

Partito lo zio, il restante tempo (poichè a ciò ero rimasto) io spesi negli studj; poscia il bagno, la cena ed il sonno inquieto e breve. Per molti giorni innanzi aveva preceduto il tremuoto; non ci parve notevole gran che, perchè frequente nella Campania: ma quella notte[100] si fe’ sentire talmente da credere che le cose tutte non si movessero soltanto, ma crollassero. Irrompe nella mia camera mia madre, mentre io stava per alzarmi e risvegliarla alla mia volta. Ci sedemmo nel cortile della mia casa, [155] che di poco spazio divideva la casa dal mare. Non so se debba chiamare costanza od imprudenza: io non contava che il diciasettesimo anno. Chieggo un volume di Tito Livio, e quasi per ozio mi faccio a leggerlo e, come era il mio costume, a farne estratti; quand’ecco un amico di mio zio, che non ha guari era a lui venuto dalla Spagna[101], scorti me e mia madre seduti ed io anzi intento a leggere, si pone a rimproverare la noncuranza di lei e la mia tranquillità; contuttociò io non mi distolgo dal libro. Già era l’ora prima ed ancor dubbia e quasi languida la luce; già crollate le case circostanti e quantunque ci trovassimo in luogo aperto, pure essendo esso angusto, grande e certo era il timore di rovina. Parve allora finalmente di dover allontanarci dalla città. Ci segue attonito il volgo, e ciò che nello spavento appare prudenza, al proprio antepone l’altrui avviso, ed in gran numero essendo, preme ed incalza i fuggenti. Usciti dall’abitato, ristemmo. Quivi assai cose che ti farebbero maravigliare, e assai sbigottimento patimmo. Imperocchè i veicoli che avevam comandato di condurci, quantunque in pianissimo campo, volgevansi in opposta parte, e neppure rimanevano nello stesso luogo, malgrado con grossi ciottoli si assicurassero. Il mare inoltre sembrava [156] riassorbirsi in sè medesimo e dal tremuoto indietro cacciarsi. Certo erasi inoltrata la sponda, e molti animali del mare giacevan sull’asciutta arena. Dall’altro lato una nube nera e spaventevole ravvolta da violenti vortici di un vento di fuoco, si squarciava in lunghe figure di fiamme, or pari alle folgori ed ora maggiori. Allora poi quello stesso amico ch’era giunto dalla Spagna con maggior severità ed insistenza ci disse: Se tuo fratello, se tuo zio vive, egli vuole che voi vi salviate; se è perito, voi vuole superstiti: a che dunque ritardate a fuggire? Rispondemmo che incerti di sua salvezza non ci reggesse l’animo di provvedere alla nostra. Nè oltre si trattiene, via si precipita e rapidamente si invola al pericolo; nè a lungo andò che quella nube discendesse sulla costa e ricoprisse il mare. Aveva cinta e ravvolta Caprea, e tolto alla vista Miseno, che si spinge avanti. Allora mia madre a pregare, esortare ed ingiungere ch’io dovessi in qualunque modo fuggire, poichè giovane lo potessi, non calere a lei il morire e comechè grave d’anni e di corpo, pur che ella a me non fosse cagione di morte. Io oppongo non volere scampare se non con lei, e quindi presale la mano, la costringo ad affrettare il passo: ella obbedisce a malincuore e sè accusa perchè a me cagione di ritardo. Già la cenere arriva, comunque ancor rara: mi rivolgo; una densa caligine ci incalzava alle spalle, e ci seguiva rasentando la terra, [157] come torrente. Pieghiam da lato, io dissi, frattanto che vediamo, onde sorpresi poi nella via, la turba di chi ci accompagna non ci abbia nella oscurità a rovesciare per terra. Appena c’eravamo seduti, che la notte piomba, non come quando è senza luna o nuvolosa, ma come in luogo chiuso sia estinto ogni lume; avresti udito ululati di femmine, stridere di fanciulli e gridar di uomini: altri i parenti, altri i figli, altri il consorte ricercar colle voci: si riconoscevano a queste: quelli il proprio caso, questi lamentan l’altrui: v’eran di coloro che per paura della morte, la morte invocavano. Molti alzavan la mano verso gli dei, e parecchi negavano aver mai gli dei esistito e quella reputavano essere la eterna e novissima notte. Nè mancarono di quelli che i veri pericoli accrescevano con finti e simulati terrori. V’eran di coloro che annunziavano venir da Miseno e averlo veduto ardere e comunque mendaci, venivan creduti. Si rischiarò alquanto, ma a noi non parve il giorno, ma il chiarore del fuoco che si avanzava; se non che questo si arrestò più lontano: di nuovo tenebre, di nuovo cenere, molta e grave. Questa noi, levandoci, scuotevamo di tratto in tratto, diversamente ne saremmo stati, non che soverchiati, schiacciati dal peso. Mi potrei vantare che un tanto frangente non mi abbia strappato un gemito e neppure alterata la voce, se non avessi reputato a me misero di grande consolazione il perire d’ogni cosa con me e con tutti. [158] Finalmente quella caligine diradata, si risolvette in fumo o nebbia, quindi si fe’ giorno davvero ed anche il sole risplendette, comechè scolorito, quale suol essere quando vien meno. Agli occhi ancor trepidanti si presentarono mutate le cose, e, come per neve, oppresse da molta cenere. Reduci a Miseno e ristorati alla meglio i corpi, passammo la notte sospesi e dubbii fra la speranza e il timore, prevalendo il timore. Imperocchè perfidiava il tremuoto e molti dementi[102] coi loro spaventevoli vaticinj schernivano le proprie e le altrui sciagure. Noi per altro allora, quantunque ammoniti dai passati, e nell’aspettazione di venturi pericoli, non accogliemmo il partito di andarcene, finchè non avessimo saputo dello zio. Queste particolarità, certamente non degne d’essere registrate nella storia, leggi senza tenerne conto nello scrivere, nè ad altri poi imputerai che a te stesso, se non ti sembreranno pur in lettera convenienti. Addio.»

Tito Vespasiano Augusto, l’ottimo imperatore che deplorava perduto quel giorno in cui non avesse accordata alcuna grazia[103], avuta contezza del lagrimevole [159] evento, non limitandosi, come scrive Svetonio, a mostrare soltanto la sollecitudine d’un principe, ma spiegando tutta la tenerezza d’un padre, prima con confortevoli editti, poi con reali beneficj trasse agli infelici in ajuto e volle che, tratti per sorte dal numero de’ consolari i procuratori, questi avvisassero a’ modi di temperare tante sciagure e soccorrere a quelle popolazioni littorane ch’erano rimaste senza tetto e fortuna, disponendo allora che alla ricostruzione delle rovinate città, od a sollievo de’ superstiti venissero impiegati i beni di coloro ch’erano periti nella eruzione del Vesuvio, senza lasciare eredi, che altrimenti sarebbero stati devoluti al fisco[104]; ma diligentemente esaminati essi i luoghi, non parve loro sano consiglio il disotterrare le sepolte città, che altra volta avrebbero potuto subire per conformi cataclismi una medesima sorte, e ne fu però abbandonato ogni pensiero.

Intervenne per tal guisa a Pompei quel che veggiamo in mezzo agli uomini tuttodì accadere. Lagrime e desolazione, rincrescimento della vita, e giuri di lutto perpetuo onorano i primi giorni delle tombe più predilette: poi il pianto si terge, si accolgono i conforti, si rassegna a vivere, si dimentica, si ride e si danza forse nella camera stessa dove il più caro de’ nostri ha dolorato poco prima ed è morto.

[160]

Sulle ceneri di Pompei i superstiti hanno arato, e seminato, crebbero alberi, crebbero vigneti e sorsero cascinali, e le generazioni che si vennero succedendo narrarono l’evento come di cosa assai assai lontana e chi sa forse che non siasi da molti creduto ben anco che la fama e gli scrittori avessero esagerato parlando di Pompei come di celebre città della Terra di Lavoro.

[161]

CAPITOLO VI. Gli Scavi e la Topografia.

I Guardiani — Un inconveniente a riparare — Ladri antichi — Vi fu una seconda Pompei? — Scoperta della città — Rinvenimento d’Ercolano — Preziosità ercolanesi — Impossibilità d’una intera rivendicazione alla luce di Ercolano — Scavi regolari in Pompei — Disordini e provvedimenti — Scuola d’antichità in Pompei — C. A. Vecchi — Topografia di Pompei — Le Saline e le Cave di Pomici — Il Sarno.

Ora che il lettore mi ha cortesemente seguìto nel racconto della sventurata città, entrando in essa dal lato della antica porta di Ercolano, mi chiederà dapprima chi sia costui che nel consegnare la tessera d’ingresso, che abbiam pagata due lire, ci si è posto come un amico a’ fianchi, dopo averci graziosamente salutato? Vestito come una giovane recluta in bassa tenuta, se il vedeste ne’ dì festivi e nelle occasioni più solenni, di poco differenzia nell’uniforme dallo spigliato bersagliere del nostro esercito, e se non ne divide il carattere, ha però discipline proprie e severe, ed è, per così dire, alla sua volta irreggimentato.

[162]

Egli è altro de’ guardiani della mesta città, il cicerone che ci sarà guida nella nostra curiosa peregrinazione.

L’illustre commendatore Fiorelli, — col quale ho voluto che il lettore facesse sin dalle prime pagine di questo libro, e conservasse poi sempre la preziosa conoscenza, perchè egli sia il benemerito sopraintendente degli scavi pompeiani, — ha, e per la custodia di questi scavi e di quelli d’Ercolano, come per la cura del Museo napoletano, delle antiche preziosità del Chiostro di S. Martino e di tal altra interessante reliquia del passato, esistente nella provincia di Napoli, creato un corpo di guardiani, gente tutta onesta e fidata, ch’egli assegna a questa o a quella località, che vi appare abbastanza compresa ed istrutta dell’importanza del proprio ufficio e della storia di ciò che vigila ed addita a’ frequenti visitatori. V’han di quelli cui famigliari son le lingue inglese, francese e tedesca, e il forestiere però cui s’accompagna l’intelligente guardiano, trova in lui un amico che gli apprende con franca disinvoltura ogni destinazione antica di que’ luoghi e di quegli oggetti e gli fa intendere ben anco nel disimpegno del proprio ufficio lo dolce suon della sua terra.

Il Guardiano del commendatore Fiorelli, dopo di essere stato tre o quattro ore con voi, d’avervi colle sue indicazioni e racconti trasfuso tutto l’interesse per la risorta città, si rifiuterà, con piglio di naturale [163] cortesia e senza un’ombra di sacrificio, oppur di affettazione, di ricevere il beveraggio che tenterete di fargli accogliere e ve lo farà con sì grande sincerità che sarete quasi mossi a fargliene le scuse, quasi che la vostra offerta fosse stata una mancanza alle regole della delicatezza e della urbanità.

Le discipline sull’argomento imposte dall’esimio soprintendente sono severe e ferme: una mancanza del Guardiano varrebbe il suo licenziamento. E noi plaudiamo ad ordini siffatti. Nulla di più incomodo e imbarazzante pel forestiero, ignaro forse de’ costumi ed abitudini del paese, che di por mano alla borsa per le mancie, le quali teme o che sieno eccessive, ovver che sieno al di sotto della convenienza o dell’uso. Imponete a lui pure una tassa per l’ingresso, ma pagate voi il cicerone, e liberate noi da ogni fastidio. Dateci adunque de’ guardiani da voi eletti, obbedienti a doveri, legati a discipline e noi ci troveremo così a nostro bell’agio.

E così ha fatto appunto il Fiorelli.

Ma perchè non appaja ch’io, in grazia di facili entusiasmi, vegga qui tutto bello e tutto buono, non lascerò d’additare un non dubbio inconveniente. Presso a tanto ordine e vigilanza, vicino a tanta severità e previdenza, non è possibile deplorare l’esistenza d’un commercio o monopolio che trovate presso gli ingressi — non dirò delle piccole Guide a stampa, che credo dettate da intelligenti persone, [164] che sono esatte e bastevoli a dichiarare quanto importa di conoscere al momento e che formano anzi altro titolo di lode per il detto signor Fiorelli, da cui furono per avventura rivedute — ma sì delle copie d’oggetti pompejani e di fotografie di diversi monumenti della città o di cose artistiche rinvenute, che a voi s’offrono a prezzi troppo forti e che per la brama di portar con voi un ricordo della interessante peregrinazione e delle care impressioni vi guardate dal rifiutare. E fossero almeno le fotografie, che pagaste due lire l’una, fatte bene; ma no; quando siete a casa vostra vi trovate d’aver nella pressa acquistato indecenti sgorbj e gettato del denaro in buon dato, perchè per poco che uomo senta l’amor dell’arte e dell’antico, per poco che risenta d’interesse nel vedere questa città, rado addiviene che s’incontri, come a me è accaduto d’udire da un francese che Pompei non fosse che un tas des briques et des moëllons inutiles, e che però non comperi una dozzina almeno di vedute fotografate.

Provvegga dunque il commendatore Fiorelli a cacciare codesti profanatori, od almeno a far bandire codesta vera profanazione dal suo tempio.

Toltomi dalla coscienza, cui faceva groppo, questo unico appunto, perocchè a vero dire non si vorrebbe che la bella vostra si potesse d’una minima nota censurare per chicchessia, seguiamo senz’altro i passi dell’onesto guardiano, al quale tarda del pari [165] di addentrarci nei misteri di que’ ruderi solenni e silenziosi.

Nel presentarsi tuttavia subito alla nostra vista una lunga via, fiancheggiata da case prive di tetto e smantellate, nel vedervi crocicchi, nello scorgere la estesa massa dei fabbricati già scoperti, vinta appena la sorpresa dolorosa che di voi si è impadronita avanti a tanta rovina, voi correte collo sguardo a misurare tutta quanta la vastità di Pompei, ed a chiedere e come e quando si fosse messo sulla traccia di una sì grande scoperta e si avesse posto poscia la mano all’opera così imponente degli scavi

Il Guardiano vi direbbe tutto questo in due parole: voi da me pretendete di più; io mi cingo pertanto la giornea.

Quando il cataclisma che v’ho narrato fu accaduto, taluno de’ superstiti pompejani, come doveva essere naturale, fe’ ritorno alla scena del disastro doloroso e per forza d’induzioni avrà cercato d’indagare dove fosse stato il luogo dei calcidico de’ templi, ove serravasene il tesoro, la Casa del Questore che, amministrando la publica pecunia, avrà saputo, al par de’ suoi successori nella bisogna, pensare un cotal poco anche al proprio gruzzolo; le magioni dei ricchi ove là anche dovevano esistere di aurei e di sesterzj in abbondanza e gli arredi preziosi e i muliebri gingilli, vasi murrini, amuleti d’oro, idoletti e monili, anelli e contigie d’ogni maniera, e praticandovi fori ed aperture ha [166] procacciato penetrarvi a bottinare. Così accadde che nelle odierne escavazioni molti luoghi apparissero già frugati ed espilati, tra cui la summentovata Casa del Questore, dove nell’atrio vennero bensì trovate, erette sopra uno zoccolo laterizio incrostato di marmo, due casse di legno foderate di rame e fasciate di ferramenta ed ornamenti di bronzo, ma non contenevano che sole quarantacinque monete d’oro e cinque d’argento; mentre presso i doviziosi pompejani e presso uomo di quell’officio assai e assai più sarebbesi ripromesso di rinvenire. La fretta e la paura d’impensati crolli avranno impedito l’intera sottrazione.

Avvenne parimenti in più luoghi di riconoscere infatti come più d’uno di questi più o meno legittimi cercatori di ricchezze fosse rimasto schiacciato sotto le rovine che forse profanava, stringendo ancora la borsa, e i pregevoli effetti che s’era appropriato, vittima della propria insana cupidigia.

Ma queste indagini per i gravi pericoli cui esponevano o furono presto abbandonate, così che le sovvenute generazioni smarrirono, come già dissi, persin le traccie dell’infelice città; o fu vero quel che trovo scritto dall’architetto Gaspare Vinci, ma che non so da altri confermato, che «i Pompejani rimasti senza patria ebbero ben presto a fondarne una seconda non lungi dalla prima. Fabbricarono delle case, sul principio pe’ soli agricoltori, quindi si formò un [167] villaggio. Questo continuò a denominarsi Pompei: fu abitato per molto tempo: ma in fine altra catastrofe, simile a quella che aveva estinta l’antica Pompei, fece cessare per sempre anche la nuova»[105].

Toccai già come molti additassero essere stata Pompei là dove sorse di poi Torre dell’Annunziata, che pare invece abbia occupato l’area di Oplonte; or dirò com’altri la collocassero nel sito di Scafati sulla moderna riva del Sarno, tratti appunto in inganno da ciò che si sapesse avere un tal fiume lambito il piede alla sventurata città, e quelli pure, come il Capaccio e il Pellegrino, che si mostravano edotti dell’esistenza di rovine nel luogo appellato Civita, le scambiassero per quelle di Taurania, mentre fossero precisamente di Pompei.

I posteri adunque l’avevano, come già dissi, interamente dimenticata; la popolare tradizione, che sì sovente ripara l’obblio e l’ignoranza delle età, non l’aveva tenuta meritevole pur d’un ricordo!

Ma fu vero che anche questa parte d’Italia venisse crudelmente profanata, istupidita e tiranneggiata dalla barbarie straniera. Goti e Visigoti, Longobardi e Franchi, Svevi ed Angioini, Aragonesi e Francesi e vie via una colluvie d’invasori l’avevano corsa e ricorsa e se l’erano disputata: chi ne avrebbe pensato, [168] allorchè in forse erasi sempre della vita e degli averi?

I primi indizj che s’ebbero della sepolta Pompei rimontano a’ tempi di Alfonso I re di Napoli e forse intorno all’anno 1592. Un Nicola di Alagni, conte di Sarno, volendo condurre un acquidotto, traendo l’acqua dal fiumicello pompejano fino a Torre dell’Annunziata, faceva scavare in certa località, quando l’architetto Domenico Fontana a un tratto si vide tra le pareti di un tempio, che poi si riconobbe d’Iside e trovò case, cripte, portici ed altri monumenti. Là si riscontrano tuttavia spiragli del Sarno che vi trascorre sotto. Contuttociò non fu ancora sufficiente ammonimento a designare le rovine della città di Pompei, nè eccitamento a proseguire nell’opera della scoperta. Perocchè monsignor Francesco Bianchini, nella sua Storia Universale provata con monumenti[106], parlando degli scavi nello stesso terreno, praticati nel 1689, e com’egli dice, alle radici del monte Vesuvio, in lontananza di un miglio in circa del mare, recando, a maggiore autorità una nota di Francesco Pinchetti, ch’ei chiama architetto celebre in Napoli per la sua professione e molto più per il museo sceltissimo ed antichità erudite da sè raccolte, fa chiaro che il Pinchetti e altri con lui reputassero come le lapidi romane e le osservazioni sue istituite sulla natura dei [169] varj suoli scavati, fossero fatte nel loco dove era la villa di Pompeo. Esso monsignor Bianchini nondimeno non restò di soggiungere un proprio dubbio che, cioè, le iscrizioni vedute dal Pinchetti, e da lui non ancora, potessero spettare invece alla città di Pompei, e non ad una villa del magno Pompeo e de’ di lui figliuoli; perciocchè la villa di quella famiglia e di quel massimo capitano, da Loffredo si giudica non essere stata sotto al Vesuvio, ma piuttosto verso Pozzuolo, non molto discosta dal lago Averno.

La storia quindi degli scavi non parte che dal 1748, quando alcuni agricoltori, avendo fatto delle fosse per piantagione d’alberi, si imbatterono nelle mura di un edifizio e in una statua di bronzo.

Siffatta notizia portata a cognizione di Carlo III, regnante allora, principe d’alti concepimenti, comunque despota per eccellenza[107], — desti già la sua [170] attenzione e l’interesse della scoperta da poco tempo fatta di Ercolano, — come aveva fatto per gli scavi di questa città, fece pur acquisto di tutto il terreno su cui quegli agricoltori avevano lavorato e casualmente scoperta Pompei e posto mano ad intraprendere escavazioni, gli venne dato di ottenerne i vagheggiati risultamenti.

La sorte eguale con Pompei avuta dalla città di Ercolano nella sciagura e il destino quasi identico e contemporaneo delle escavazioni, reclamano che una breve parola io dica qui dell’occasione fornita di una tale resurrezione intorno ad Ercolano. La storia di questa città sorella e quella de’ suoi scavi completa quella di Pompei: è quasi impossibile il tenerle onninamente divise: l’una all’altra soccorre indubbiamente.

Neppur d’Ercolano sapevasi la precisa ubicazione. Emanuele di Lorena, principe di Elbeuf, venuto, a capo dell’esercito imperiale contro Filippo V, in Napoli nell’anno 1713, innamoratone del cielo e del clima, e già sposo alla figliuola del principe di Salsa, prese ad erigersi a Portici una villa; un contadino, levato dalla escavazione d’un pozzo alcuni marmi, avendoglieli offerti, fu il primo indizio che lo guidasse sulle traccie della sepolta città ed estesi subito gli scavi, non corse guari che rinvenisse iscrizioni romane ed osche, un tempio con ventiquattro colonne, ed altrettante statue in giro, una statua d’Ercole ed [171] una di Cleopatra. Eureka! fu gridato da lui e dai dotti; Ercolano è risorta.

I primi capolavori di bronzo e di marmo ritornati alla luce, proprietà di chi li aveva trovati, andarono ad arricchire musei stranieri; non così per altro che i moltissimi rinvenuti di poi non valessero a costituire tutta una preziosissima raccolta in Napoli di pitture, di vetri, di medaglie, di utensili, di busti e principalmente delle due sole statue equestri in marmo che l’antichità ci abbia trasmesso: quelle dei Balbo, padre e figlio. E a mille si trovarono i papiri più greci che latini; in questi come nelle arti più ricca Ercolano che non Pompei; onde ne nacque l’idea della creazione d’un’academia la quale illustrasse i monumenti dell’antico che si sarebbero rinvenuti negli scavi e che si intitolò Ercolanese.

Il re Carlo III, fin dalla prima scoperta, ad impedire che le antiche preziosità che si sarebbero diseppellite passassero all’estero, con grave nocumento del paese, s’affrettava a ricomprare dal principe di Elbeuf quella proprietà, e spingendo con sollecitudine i lavori di escavazione, era egli che aveva ottenuta la certezza che fosse quell’antica città d’Ercolano.

Ma quegli scavi tornavano difficili, anzi pericolosi. Su quella città non era stato un lieve sepolcro di ceneri e di scorie soltanto, come in Pompei, che il Vesuvio aveva posto, ma uno greve e di lava e di [172] lapilli infuocati; onde quel sepolcrale coperchio, dello spessore in più luoghi perfino di venti metri, aveva cotanto persuaso di sua solidità, da far credere che fosse tutta una vera roccia vulcanica e non lasciar sospettare che mai si celasse al di sotto, che le sorvenute generazioni vi avevano confidenti fabbricato su tutta una città ed un villaggio, Portici e Resina e sulle sontuose ville di romani guerrieri, eretto inconsapevolmente palagi eleganti di artisti di canto e d’altri facoltosi. Intraprese le escavazioni, era stato mestieri, non come in Pompei, far uso della marra, per liberare i sottoposti edificj, ma della mina, nè si potè agire che colle maggiori cautele, perocchè a chi scenda e penetri dentro gli scavi ercolanesi rechi sorpresa e spavento l’udirvi sovra del capo il rumoreggiar de’ carri e degli omnibus che animano la graziosa Portici ed anzi paresse necessità di nuovamente interrare più luoghi frugati ad impedire il disastro di rovine, privando le moli sovrastanti de’ loro antichi e naturali sostegni. Laonde l’intera scoperta d’Ercolano e il ricupero di tutte le preziosità che nasconde non sarà mai possibile sin quando non vengano abbattute le belle case e villeggiature di Portici, nè io sarò mai per dire che metta proprio conto di pur ciò desiderare.

Non a torto quindi il medesimo monarca s’era sollecitato a recare in sua proprietà anche il terreno sotto cui tutto creder faceva ascondersi Pompei, acciò [173] non fosse frodato il paese di quanto vi si sarebbe potuto trovare ed a commettere l’esecuzione su più conveniente scala delle ricerche e degli scavi, resi essi più agevoli dalla men dura materia che li copriva, perocchè quivi non si trattasse che di rimuovere gli strati di ceneri commiste alle pomici, oltre quella superficie che vi si era sopra distesa e che già avea servito alla coltivazione.

A riguardo di queste due nobili città rivenute al giorno, potevasi dire suggellato il vaticinio dal Venosino espresso nell’Epistola sesta del libro I a Numicio:

Quidquid sub terra est in apricum proferet ætas[108].

Se non che parve che una vera, regolare e non interrotta prosecuzione di tali scavi pompejani non avesse incominciato che nel 1799 e così vennero di poi alacremente condotti, che siasi oggimai presso alla scoperta di una metà della città, essendo tornate alla luce e mura e porte, e archi e vie molte, e templi e basiliche, e fori e terme, anfiteatro e teatri, case e tombe, in una parola tutta la parte più interessante, tale dovendo ritenersi appunto e per essere quella che si distendeva lungo la marina e che doveva però essere indubbiamente la meglio ricerca per [174] la sua animazione prodotta dal porto e da’ publici ufficj che si adivano e per la frescura che procacciava il mare e perchè in fatti vi si rinvennero i più cospicui edifici tanto publici che privati.

Se le escavazioni progredivano con certa regolarità, non vi si portavano nondimeno per lo addietro tutte quelle cautele, le quali valessero a tutelarle e difenderle dalla cupidigia di molti, dalla smania di tutti di posseder qualcosa di quanto si veniva scoprendo. Coi lavoratori stipendiati mescevansi troppo spesso estranei che s’appropriavano quel che potevano ascondersi e portar via: lucernette ed idoletti, gingilli e monete, cose preziose e volgari vennero così in copia asportati ed erano occasioni a tanto disperdimento l’accesso publico e il commercio che in Napoli e ne’ paesi prossimi a Pompei se ne faceva apertamente. Non v’ebbe di tal guisa publico o privato museo d’antichità in tutta Europa che non possedesse alcuna reliquia antica di questa città.

Ma per buona ventura fu posto freno e impedimento a ciò. Il commendatore Fiorelli — il cui nome ho già più volte citato e lodato, nè sarà l’ultima questa che l’avrò a ricordare, poichè esso si connetta necessariamente ad ogni discorso che di Pompei si faccia — giunto alla direzione e sovr’intendenza degli scavi, ottenne dal Governo che venisse limitato l’ingresso libero in Pompei ne’ soli giorni di festa; che pur in questi fosse il publico sorvegliato da’ guardiani [175] da lui istituiti; che a’ forestieri e visitatori degli altri giorni, imponendosi una tassa di lire due si convertisse il prodotto a vantaggio degli scavi, e severi ordini si bandirono che vietarono l’appropriarsi del benchè minimo oggetto, fosse pure una lampadetta di terra cotta, o qualche piccolo vaso lagrimatorio; disposto avendo che tutto, nulla eccettuato, s’avesse a trasportare nel Museo Nazionale di Napoli a cui egli è tuttora preposto. Così l’egoismo privato più non detrae agli studj del publico.

In Pompei stessa venne un antico edificio acconciato a scuola d’antichità, comunque non vi sia ora più d’uno studioso che vi dimori. Colà nondimeno vi si accolgono oggetti di ogni maniera trovati e tutte le publicazioni che trattano di Pompei, o vi hanno qualche attinenza. Il Giornale degli Scavi ne publica mano mano l’elenco, in un con dottissime dichiarazioni di iscrizioni, di edificj o d’altre cose che si vengono ritrovando. Augusto Vecchi, il bravo patriοta e soldato delle italiane battaglie, più mesi soggiornando, solitario nella risorta città, pensò e scrisse il suo libro che denominò Pompei e intitolò a’ Mani de’ Pompejani, e in cui colla potenza della sua fantasia ravvivò le morte generazioni e le morte cose, riconducendo i lettori all’epoca del novissimo giorno pur da me storicamente descritto e tenendo conto il più fedele che possibile fosse del vero nell’opera sua di romanziero.

[176]

Il lavoro di ciascun giorno per parte degli operaj adoperati dalla Amministrazione, sebbene proceda lento, conduce nonostante sempre alla scoperta di interessanti cose e la fortuna corona spesso il desiderio di chi fa gli onori agli illustri personaggi che traggono a visitare Pompei, nelle felici invenzioni di oggetti preziosi che poi figurano nelle bacheche del napoletano Museo. Io pure assistetti all’opera della marra e dello sterramento di una casa pompejana, coll’agitazione prodotta dal desiderio e dal timore insieme che i morti abitatori di essa emergessero da quelle ceneri, e formai voto che il Governo stanziasse maggiori fondi a tai lavori: ma chi può attendersi che in Italia si volga ancora il pensiero e le cure alle arti, quando l’imperizia o peggio de’ governanti ha già tanto pesato sui contribuenti?

Noi abbiamo dunque dimenticato troppo presto che fu sempre

D’ogni bell’arte Italia antica madre

e che se potemmo dare mentita nel passato a chi Italia aveva detto nome geografico e nulla più, non era stato che per ciò solo che mai non avevamo perduto lo scettro dell’Arti Belle.

Discorso dell’origine, del progresso e dello stato attuale delle escavazioni, quantunque il perimetro della città non sia peranco interamente sterrato; pure dai fatti esperimenti fu dato misurarne l’estensione [177] che si computa a circa quattro miglia, compresi i sobborghi, ed è concesso di fornirne la topografia.

Pompei venne costruita su di una collina digradante al mare che in passato la circondava da due lati e ne costituiva quasi una penisola. Se si riguarda alla pietra su cui si fonda e che è di natura vulcanica, anzi direbbesi antichissima lava, si avrebbe argomento a credere che il terribile incendio del Vesuvio del 79 fosse stato ne’ tempi caliginosi della storia preceduto da altri non minori cataclismi, pei quali la lava o fosse fin qui fluita da quel formidabile serbatojo, o avesse trovato altri aditi divisi dal cratere per uscire ad allagare la circostante pianura; seppure questa collina stessa non fosse una bocca vulcanica pari ad altre che si veggono attorno al Vesuvio. Strabone portò l’egual congettura, constatando prima la sterilità della vetta cinericcia del Vesuvio, poi le sue profonde caverne e le diverse spaccature, e reputò doversi per avventura attribuire al suo fuoco e alle sue ceneri la miracolosa fertilità, per la quale va la Campania distinta.

Ma più specialmente catastrofi non di molto dissimili toccate a’ paesi circostanti, sia per tremuoti come in quello memorabile da me riferito del 63 di Cristo, sia per eruzioni ed anche a Pompei, lo attesterebbe il nome stesso della città, se è vero quel che afferma la Dissertatio Isagogica di C. Rosini, che essa venisse chiamata dapprima Pompìa, e che ciò [178] significhi fuoco spento[109]. Nella Via delle Tombe inoltre vennero trovati in qualche luogo negli scavi, esistenti sotto le costruzioni di romana origine, avanzi di altre precedenti opere muratorie d’epoca assai remota e oggetti d’origine etrusca. Dalla parte opposta a Napoli, da cui dista forse una quindicina di chilometri, ho già detto che il seno che vi formava il mare ed entro cui aveva la propria foce il Sarno, avesse costituito naturalmente un porto capace di molte navi, anzi, secondo alcuni, perfino di una intera flotta e che giovava ai bisogni non della sola Pompei, ma di Acerra e di Nola, onde per i legni che scendevano o risalivano di continuo codeste sponde, avesse ragione Strabone di designarlo come un importante porto e di far della città un vero emporio, molto più che, navigabile allora il Sarno, avesse preferenza sui porti di Stabia e d’Ercolano, per il vantaggio che offriva del [179] trasporto delle merci che giungevano nell’interno del territorio.

Più in là del porto e verso Stabia — ed or direbbesi verso la via che scorge a Castellamare, città che sorge appunto sulle rovine di Stabia, fatte prima da Silla e compiute poi dal Vesuvio — erano le Saline di Ercole, di cui si veggono oggi pur le vestigia nel luogo detto Bottaro e la palude a cui fa cenno L. G. Moderato Columella, non che il verso seguente che ne fa gradevole menzione:

Quæ dulcis Pompeja palus vicina salinis,

Herculeis....[110]

e più presso la città le cave delle pomici e delle moli olearie, ricordate quelle da Vitruvio, da Catone queste.

Ora il mare s’è ritratto di oltre un miglio e fu proprio, come nel precedente capitolo ho detto, nell’occasione del cataclisma che ho descritto: nè senza del resto così formidabili avvenimenti, può constatarsi questo ritrarsi del mare anche altrove. Ravenna, che fu principale stazione navale de’ Romani al tempo di Augusto; e Pisa, che pur nel medio evo fu città marinara e insigne tanto da misurarsi col naviglio amalfitano e genovese, distano oggi di molte miglia dal mare. Venezia ha già veduto abbassarsi il proprio [180] estuario: chi sa che un giorno non appaja una favola la sua fondazione sulle palafitte di Rialto e dove furono le lagune non iscorra più la bruna e misteriosa gondola, ma venga in quella vece tratto dal pigro bove l’aratro?

Il Sarno, ho pur detto, che, dappoichè non aveva più a bagnare la viva Pompei, ammencite le sue acque, si fosse ridotto alla condizione di umile ruscello; la sua vasta imboccatura è segnata ora dal luogo che si denomina la valle e la sua antica importanza che aveva già prestato orgogliosamente il suo nome a’ popoli Sarrasti, come ne lasciavan ricordo que’ versi di Virgilio, che parlando di Ebalo, dice com’ei comandasse

Sarrastes populos, et quæ rigat æquora Sarnus[111]

or appena si rileva da chi, rimembrando i passi de’ latini prosatori e poeti che ne ripeterono i vanti, ne richiede contezza; sì che di lui ad egual ragione dir si potria quello che il Sebeto, da cui Napoli si designa, ebbe ad esser chiamato da Metastasio:

Quanto ricco d’onor, povero d’onde.

[180b]

Porta d’Ercolano a Pompei. Vol. I. Cap. VII. Le Mura, ecc.

[181]

CAPITOLO VII. Le Mura. — Le Porte. — Le Vie.

Le Mura, loro misura e costruzione — Fortificazioni — Torri — Terrapieno e casematte — Le Porte — Le Regioni e le Isole — Le Vie — I Marciapiedi — Il Lastrico e la manutenzione delle Vie — La Via Consolare e le vie principali — Vie minori — Fontane publiche — Tabernacoli sulle Vie — Amuleti contro la jettatura — Iscrizioni scritte o graffite sulle muraglie — Provvedimenti edili contro le immondezze — Botteghe — Archi — Carrozze — Cura delle vie.

Poichè abbiamo, nella narrazione de’ suoi eventi, dimostrato quanta importanza si avesse Pompei e come fosse fatta emporio commerciale per ragion del suo capace porto e del suo fiume e convegno d’ogni industria prodotta dalle vicine città della Campania; era ben naturale che si avesse ben anco tutti que’ presidj che ne tutelassero la sicurezza interna; molto più che essa avesse preso parte a tutte le lotte ed a tutti i commovimenti guerreschi, da determinarvi lo stabilimento d’una colonia militare che davvicino la vigilasse e tenesse in soggezione.

Ella era dunque recinta di solide mura, atta a respingere assalti esterni e fra le prime opere d’escavazione, [182] quella fu appunto di sterrare le mura onde conoscere la circonferenza dell’intera città e la sua configurazione. Così evitavansi eziandio inutili scandagli all’infuori di essa ed inutili spese. Fu lavoro codesto compiuto dall’anno 1812 al 1814.

Giravano prima codeste mura tutt’all’intorno, misurando oltre due miglia e producendo una figura di elissi, l’asse maggiore della quale, che percorre dalla porta Ercolanea all’Anfiteatro, misura ottocento passi geometrici, mentre l’asse minore che è dalla porta Nolana al quartiere de’ soldati, o Foro Nundinario ne misura soltanto quattrocento; ma negli ultimi tempi di sua esistenza, e precisamente ne’ giorni di Augusto, le mura dalla parte della marina, demolite, vennero sostituite da edifici.

Di eccellente, se non sempre di uniforme costruzione, poichè formata di due muri eretti con macigni vesuviani ed ottimo cemento, venivano, giusta il sistema più in uso a que’ tempi di fortificazione, a tratti a tratti munite di torri quadrate, onde dovessero valere di salda difesa. Non era con tutto ciò, siccome dissi, uniforme in tutta la cinta la costruzione: il muro di essa che riguardava la città può reputarsi dell’altezza di trentaquattro palmi, mentre di venticinque fosse quello che sorgeva verso l’esterna campagna. Nello spazio che tra l’un muro e l’altro intercedeva di forse venti e più piedi e che latinamente denominavasi agger, eravi adattato un [183] gran terrapieno capace di molti soldati, i quali per le grandi gradinate praticate a certi intervalli potevan giungere sul ciglio delle mura per offenderne all’uopo gli assalitori.

Le torri, che dal lato di settentrione erano meno frequenti, perchè riuscendo alla collina meno facile tornavano la sorpresa e l’attacco nemico, costuivansi di tre piani, come del resto può essere osservato in altre città dove sieno superstiti congeneri costruzioni tanto dell’epoca romana che del medio evo: ne sussistono tuttavia le gradinate di comunicazione, e se ne usciva poi in tempo d’assedio alle impensate sortite per certe anguste e dissimulate porte, appellate posternæ, le quali si aprivano al piede di esse.

Sulle pietre di certa parte delle mura, dove la costruzione non è curata così come in altre parti, si riscontrano ancora caratteri oschi ed etruschi, indizj pur essi meritevoli di studio per la lingua usata in Pompei, almeno nel parlar volgare, e potrebbero essere altresì marche per norma della loro collocazione; quantunque la profondità colla quale sono incise possa dar luogo a ritenere esserne stato ben differente lo scopo. Ad ogni modo la natura di siffatti caratteri può valere all’induzione circa l’epoca della costruzione, che doveva però essere necessariamente d’assai anteriore alla guerra sostenuta contro Lucio Cornelio Silla, a respingere i violenti assalti del quale queste opere [184] validissime di difesa avevano non poco giovato i Pompejani; se pure non vogliansi attribuire all’epoca remotissima degli Etruschi e degli Osci; taluni essendo che punto non esitino a qualificare recisamente d’origine pelasgica queste mura.

Fra l’un muro e l’altro e lungo tutto il terrapieno summentovato eranvi fabbricate ordinatamente, l’una all’altra di fronte, camere ed androni, siccome nelle fortezze odierne si veggono casematte, assai in uso del resto a que’ tempi in simil genere di fortificazione[112], a ricovero de’ soldati e ad uso di caserme; avvedimenti codesti, i quali congiuntamente alla rilevante altezza delle mura, accusano l’importanza non solo della piazza, ma permettono altresì di sospettare che di ben maggiori avvenimenti guerreschi di quelli dalla storia memorati potesse Pompei essere stata teatro.

Ma colle mura non finivano i baluardi di difesa di questa città, le quali non ne proteggevano che [185] quelle sole parti che si presentavano più esposte, e non erano, cioè, tutelate o dalla profondità della valle, come verso il lato d’Ercolano, o dalla elevatezza della collina. Perocchè da un’altra parte avesse eziandio il mare e da un’altra ancora il Sarno copioso di acque; sì che per quei tempi presentar potesse Pompei veramente l’aspetto e l’importanza d’una piazza fortificata dei nostri giorni, e fornir tutte le ragioni altresì d’avervi i Romani dedotta una colonia militare.

Della maniera di fortificazione usata in Pompei, secondo ho più sopra alla meglio intrattenuto il lettore, Vitruvio, nella sua famosa opera che tratta della architettura de’ suoi tempi, ne parla nel capo V del Libro I, e dà i tecnici particolari, a’ quali chi della materia si diletta, può con utilità rivolgersi, poichè ad altro ora mi chiama l’argomento[113].

Per più porte si entrava in Pompei: otto ne han distinte gli scavi che si vennero fin qui operando, due delle quali veggonsi tuttavia egregiamente conservate colla loro antica selciatura, e sono la Porta Ercolano, tutta di materiale laterizio con intonaco senza ornamenti, a meno che la sua vetustà non [186] li abbia fatti rovinare, e la Porta Nolana, che menava a Nola, denominata tal Porta anche Isiaca, perchè presso vi fosse il tempio consacrato ad Iside e ne sussistono intatte le forti muraglie fatte di grossi massi vulcanici e con vôlta superiore.

Le altre sei porte appena si distinguono: esse hanno stipiti in grandi massi riquadrati, e si aprivano: l’una tra l’Anfiteatro ed il Foro Nundinario o quartiere de’ soldati, e si chiamava Porta Stabiana, perchè conducente alla città di Stabia; l’altra fra l’anfiteatro e la Porta Nolana, che per la vicinanza del fiume doveva per avventura chiamarsi Porta del Sarno; la terza era detta Nocera, la quarta di Capua, e così chiamavansi perchè mettevan capo alle vie per cui s’andava a quelle città; la quinta, che sorgeva fra la porta di Nola e quella d’Ercolano, era detta del Vesuvio, perchè in più diretta corrispondenza con questo monte; la sesta appellavasi della Marina. La scoperta di quest’ultima porta venne fatta nel 1863, mercè le sapienti ed esatte ricerche del commendatore Fiorelli. Innanzi a tale scoperta, era generale opinione che questa parte della città che discendeva al mare, come anche vi faceva cenno la sensibile pendenza del suolo, fosse sempre stata priva del muro di cinta e specialmente dalla porta d’Ercolano fino a quella di Stabia; ora la interessante scoperta del Fiorelli ha somministrato le più irrecusabili prove come Pompei fosse tutta quanta fortificata, e forse nelle ulteriori investigazioni e scavi [187] verrà dato di conoscere ben anco se il muro che congiungeva le due suddette porte sia stato distrutto dalle funeste conseguenze della guerra.

Questa porta della Marina era posta sotto la protezione di Minerva, e la statua in terra cotta di questa dea, che vedesi ancora entro una nicchia a destra di chi entra, l’attesta.

Nella Porta d’Ercolano sono praticate tre arcate, quella di mezzo per i carri e le due laterali per i pedoni: essendo la principale arteria, come vedrem più avanti, era questo un ottimo accorgimento alla miglior sicurezza della vita ed a scanso di disordini d’ogni sorta.

È poi degnissima di osservazione il vedersi in questa Porta alle relative spalliere correrne tutto il lungo certe incavature destinate a ricevere la grossa imposta di legno, o saracinesca, che dal piano superiore si calava per chiudere; perocchè generalmente si reputasse fin qui che simil genere di fortificazione fosse il trovato de’ bassi tempi e medievali, ed ora invece colla scoperta di questa Porta di Pompei si abbia la irrefragabile prova che i vecchi castelli feudali non avessero fatto colle loro saracinesche che applicare quanto già gli antichi avevano praticato[114].

[188]

Finalmente è dato distinguere pur adesso il Vallo col gran fossato nella profondità di venti a trenta piedi con altro muro opposto, il quale serve di parapetto e controscarpa, novella testimonianza di più antica militare importanza, e nel quale i Pompejani degli ultimi tempi avevano publica e bella passeggiata.

Ora mi resta a compiere l’osservazione, per così dire, generale sulla struttura della città, di far menzione della sua interna divisione per quartieri o regioni, della sua suddivisione in isole o comprensorii di case isolate. Una carta iconografica degli Scavi del 1868 unita alla Nuova Serie del Giornale degli Scavi e che può dirsi una Pianta di Pompei, dimostra questa città divisa in nove regioni, delle quali non apparirebbe scavata interamente che la settima, buona parte della sesta, un’isola della prima, una della nona e cinque della ottava ed una, cioè l’anfiteatro, [189] della seconda. La regione settima vedesi ripartita in quattordici isole, della seconda delle quali è fornita una pianta, e la sesta ne ha sterrate undici. Tutte le isole poi avevano una propria denominazione, desunta forse dal principale suo proprietario, siccome è manifesto dalla epigrafe, che ho già riportata e che per la prima volta venne edita dal Mazois[115], che ne apprese denominarsi Insula Arriana Polliana, quella ove trovavansi ad affittare le botteghe, colle pergole ed i cenacoli equestri di Gneo Alifio Nigidio Maggiore. Argomentando da questa nomenclatura, il chiarissimo archeologo De Petra crede potersi denominare l’insula prima della regio prima Popidiana Augustiana, perchè il proprietario principale della casa che in essa si trova, finora appellata del Citarista, risulta dalle graffite epigrafi publicate dal Zangemeister[116] essere stato Lucio Popidio Secondo, coll’aggiuntogli nome di Augustiano, forse per un sacerdozio di Augusto da lui esercitato[117]. Con siffatto criterio non sarà forse impossibile negli ulteriori disterramenti giungere a discoprire la più parte delle denominazioni, delle insulæ di tutte le regiones.

Entrati nella città, ho già detto in addietro la profonda e solenne impressione di dolore che subito [190] vi produce. Queste vie deserte e mute, fiancheggiate da edifizj scoperti di tetto e smantellati, diroccati la massima parte interamente del loro piano superiore; questo lungo ordine di case da un lato e dall’altro succedentisi, numerizzate e recanti qui e qua affissi in caratteri rossi e neri di spettacoli, di pigioni, di raccomandazioni, di voti, di annunzj industriali, o iscrizioni bizzarre; questi emblemi sovrastanti alle tabernæ o botteghe e queste pitture che talvolta ne decorano la fronte; questi solchi che vedete profondamente impressi nella pur solida pietra vesuviana onde tutte le strade pompejane sono lastricate lasciati dal trascorrere de’ frequenti veicoli, vi fanno credere e persuadere che l’immane cadavere sia caldo tuttavia, che il suo cuore abbia dato appena il suo palpito supremo, che questa città soltanto jeri fosse piena di vita e di azione. Un sentimento adunque di sublime pietà s’indonna di voi dinanzi a tanta rovina, come precisamente se la catastrofe fosse l’opera appena della precorsa notte.

Chiama poi specialmente la nostra osservazione il vedere come tutte le vie sieno da ambe le parti costeggiate da un rialzo o marciapiede. Non essendo ampie, questo sistema, adottato del resto anche altrove in tutte le vie consolari e militari, rendeva più facile la circolazione a piedi: perocchè l’un margine valesse a chi andava, l’altro a chi veniva: entrambi poi ad evitare l’urto delle ruote dei carri e delle bighe [191] o d’altri plaustri e quello dei cavalli che tenevano il mezzo. Il qual mezzo della via, per laterali rialzi, costituiva quasi un letto di torrente, e giovava appunto al trascorrimento delle acque piovane, le quali in tempi d’acquazzoni o di lunghe piogge, atteso anche il declivio della città che degradava, come più volte dissi, al mare e che però precipitavansi dalla parte più alta, convertendosi in torrente, avrebbero altrimenti rese impraticabili le vie e innondate ben anco le abitazioni.

A tale effetto si riscontrano di tratto in tratto in questo mezzo delle vie come degli spiragli quadrati protetti da inferiate, per i quali le dette acque piovane mettevansi, rivelando altresì come di sotto vi fossero opportuni condotti che poi sfogavansi nel Sarno; tal che l’edilizia d’allora nulla avrebbe di certo ad imparare dalla moderna, alla quale si può francamente affermare essere stata in cotali opere maestra.

L’abate Domenico Romanelli, nel suo Viaggio a Pompei, osservò eziandio in tutto il corso principale della città nel rialto di queste viottole, com’egli chiama i marciapiedi, alcuni forami che servivano senza fallo per attaccarvi i bestiami, se taluno avesse dovuto trattenersi, ovvero entrare nelle botteghe o nelle case; a un dipresso come in Firenze e altrove vedonsi per lo stesso scopo infissi ancora nelle muraglie de’ più cospicui palazzi de’ grossi anelli in ferro od in bronzo [192] artisticamente lavorati, ond’esservi accomandati, cioè, i palafreni de’ cavalieri visitatori.

L’inglese che visita Pompei se ne parte adunque con una disillusione di più per l’amor proprio del suo paese e massime de la sua Londra. Egli che sin a quel giorno ha per avventura attribuito ad esso il vanto dei provvidi marciapiedi delle sue vie, s’accorge invece esserne stato preceduto da quasi diciotto secoli da Pompei, tanto piccola in comparazione della sua popolosa capitale. Oh shocking!

Per transitare poi dall’un marciapiede all’altro, senza l’incomodo della scossa che si riceve dallo scendere l’uno e dalla fatica dello ascendere l’altro, fatica pure sensibile in un clima meridionale, a’ capi delle vie trovansi collocati uno o più grossi macigni a superficie piana nel mezzo, i quali essendo all’altezza de’ marciapiedi, servivano come di transito o ponte. Quei macigni sono poi collocati in modo che i carri e le bighe possano fra gli spazj laterali trovar passaggio alle ruote loro. Di tal guisa, anche in tempo di pioggia era lecito attraversar la via senza entrare nel grosso letto delle acque che tra i due rialzi scorrevano come gore o torrenti.

Ho già ricordato come il lastricato di queste vie si costituisse di larghi massi di pietra del Vesuvio, i quali sebbene appajono irregolari, cioè tagliati ad esagoni, ottagoni e trapezj e quasi disordinatamente posati, pure per virtù di un tenacissimo cemento che [193] vi sembra pietrificato, si uniscono abbastanza bene per guisa, che anche adesso, dopo i molti anni da che sono scoperti, vi sia ben conservato. La base su cui posano è formata di altro strato di acciottolato e di arena, com’era uso generale degli antichi che siffatto metodo chiamavano sternere; onde dal participio di questo verbo, stratum, ne derivò alle vie la denominazione di stratæ, e la nostra parola italiana strada. Tito Livio fa menzione di codesto sistema di viabilità in quel passo: Censores vias sternendas silice in urbe, et extra urbem glarea substernendas, marginandasque[118].

In parecchie delle vie vedesi per certi tratti codesto selciato assai sconnesso e negletto, ma tale nondimeno da lasciar credere che possa essere ciò stato l’effetto o del tremuoto o dell’ultimo cataclisma. Nondimeno vi si ravvisa a prima giunta la trascuratezza di sua antica manutenzione, e in verità me ne feci argomento di sorpresa da che a più dati avessi raccolto prove di sommo encomio per l’antica edilizia pompejana; ma un articolo dell’egregio F. Salvatore Dino me ne diè plausibilissima ragione, avendo rammentato come la manutenzione delle vie (munire vias) incombesse, per la legge Giulia Municipale che fu il fondamento delle costituzioni comunali italiche, [194] ai proprietarj delle case per quel tratto che stava a queste davanti. Non essendo quindi a cura del Municipio la conservazione delle strade, la negligenza e l’impotenza dei detti proprietarj produceva quegli sconci spesso dannosi al traffico ed al passaggio cittadino. Dove da un lato erano publici edifici, la spesa della manutenzione dividevasi tra il proprietario da un lato e il comune dall’altro e da siffatto obbligo che era tra i tanti munera publica et privata, non poteasi alcuno esentuare e gli edili a cui apparteneva questa parte dell’amministrazione comunale avevano tali facoltà, che nel caso in cui quell’obbligo non si compisse, potessero indirettamente costringere i cittadini alla sua esecuzione. Così nella citata legge Giulia era prescritto che se alcun proprietario non attendeva alla conservazione della rispettiva parte di strada, l’edile la desse in appalto, annunziandola dieci giorni prima e naturalmente le spese che occorrevano venivano fornite in proporzione da’ proprietarj caduti in contravvenzione[119]. Altrettanto dicasi dei margini. Della giustizia delle quali osservazioni se ne può avere una prova nel riscontro delle vie peggiormente tenute avanti le case meno belle.

Due strade principali intersecavano Pompei: l’una verso settentrione che immettevasi nella via Popiliana e conduceva a Nola: l’altra si distaccava dalla [195] Domiziana in Napoli — non Domizia come la più parte scrive, perocchè questa, testimonio Cicerone, fosse nelle Gallie[120] — passava per Ercolano ed Oplonte ed attraversando la città riusciva per la porta Isiaca lungo il Sarno e metteva capo a Nocera.

Via Consolare. Vol. I. Cap. VII. Le Mura, ecc.

Grandi e piccole sono le vie sinora scoperte: la Consolare è tra le prime. Era questa la via che ora accennai staccarsi dalla Domiziana e percorrendo la suindicata località formava una diramazione della famosa via Appia, detta la regina delle vie[121], la quale assunse il nome da Appio censore e partendo dalla Porta Capena di Roma, o piuttosto dal Settizonio, e [196] giù giù, comunicava colla Domiziana, giusta la memoria lasciataci da Strabone: Tertia via a Regio per Brutios et Lucanos et Samnium in Campaniam ducens, atque in Appiam viam[122]. Di questa, fuori della città, come la Latina e la Valeria, non se ne hanno più che pochi ed appena discernibili avanzi. La più parte tuttavia di questi appartiene alla seconda.

Più anguste erano le vie di Pompei dal lato occidentale e più irregolari: presso al Foro ed a’ teatri appajono più larghe e diritte, come infatti lo esigeva la maggiore affluenza di gente che per quelle traeva.

Come tali vie interne della città si chiamassero in antico non oserei qui affermare: l’indagine sarebbe troppo ardua: la denominazione che si hanno di presente ebbero dalle particolarità che vi si ritrovarono. La Via dell’Abbondanza, a cagion d’esempio, chiamata dapprima Via de’ Mercanti, per la continuità delle botteghe che vedevansi dall’uno e dall’altro lato succedersi, mutò di poi nome a causa della figura scolpita sulla prima fontana che vi si incontra. Questa via doveva essere chiusa da porta dal lato del Foro, perchè tuttavia si osservano nel pavimento i buchi occupati dagli arpioni e i piombi che li suggellavano. La Via del Lupanare, dove erano la fabbrica del sapone e le case di Sirico, di cui a suo [197] luogo m’avverrà di dire, ricevette la denominazione dal luogo destinato a’ piaceri sensuali, che in essa vi è, e il cui uso è anche di troppo attestato da pitture e iscrizioni graffite le più indecenti. La Via d’Augusto le è contigua; quella della Fortuna ha il tempio dedicato a questa volubile Diva; quella del Mercurio, quella delle Terme, ove appunto sono i bagni publici, e quella delle Tombe o de’ Sepolcri, sono le principali fin qui scoperte. Delle minori, o vicoli, nominerò alcune. Il viottolo de’ Dodici Dei, — Dii Majorum Gentium — dove sull’angolo vedesi una pittura rappresentante le dodici grandi divinità, che Ennio nominò in questi due versi:

Iuno, Vesta, Ceres, Diana, Minerva, Venus, Mars,

Mercurius, Jovi, Neptunus, Volcanus, Apollo.

Al disotto sono dipinti due serpenti, come in guardia d’un altare sacro agli Dei Lari, epperò dagli antichi appellato Lararium: il viottolo del Calcidico, quello del Balcone pensile, dall’unico balcone che ancor si vede sorretto da molti sostegni per conservarlo, e quello fra la Via Stabiana e il Vicolo Tortuoso.

In ogni via eranvi poi fontane publiche, a cui l’acqua proveniva dalle più alte sorgenti del Sarno; così distribuivasi essa eziandio per le case più agiate, nelle quali veggonsi ancora condotti di piombo ramificati ascosamente dentro le pareti. Alle fontane pubbliche ricorreva ognuno ad attinger acqua con idrie, anfore [198] e sitellæ, ed esse veggonsi pur adesso a vergogna delle nostre città, le quali risentono troppo spesso del difetto di ciò che dovrebbe entrare non unicamente nei modi consueti d’alimentazione, ma ben anco dell’igiene publica. Napoli e Firenze, a mo’ d’esempio, città insigni sotto ogni riguardo, più che altre, da lungo tempo sentono indarno il desiderio d’aver migliori e copiose acque, perchè i municipj in luogo di sollecitamente provvedervi, perdonsi in progetti e discussioni e così — solito vezzo nostro — nella vista del meglio si trascura il bene.

Sui canti ed a’ quadrivj eranvi altari a divinità tutelari, e già ricordai talun esempio; egualmente poi a’ costumi pagani, anche i cristiani si informarono e si vennero per le vie pur delle città più popolose erigendo tabernacoli, dipingendo madonne e santi, che per altro la civiltà moderna va facendo scomparire per rilegarli unicamente nelle chiese. I Pompejani avevano assai divozione per quei loro numi famigliari e ritraevano per ogni loro necessità auspicj da quella esposizione publica e profondevano venerazione; perocchè i pregiudizj e le superstizioni abbiano sempre nella bassa Italia, qualunque la religione, attecchito.

Nè a questo solo il sentimento religioso e superstizioso de’ pompejani si limitava; ma creduli a’ maleficj e fatucchierie, reputavano ovviarvi altresì con appendere amuleti.

[199]

Fin sulle botteghe pompejane sculti o dipinti veggonsi ancora i phalli, sconci emblemi, diremmo adesso, ma usitati e frequenti allora, perchè si tenessero siccome efficaci talismani contro le male influenze, o come chiamerebbesi odiernamente nell’Italia Meridionale, dove son tuttavia quelle ubbie radicate, contro la jettatura. I phalli dovevano, nell’intendimento de’ Pompejani, come adesso de’ Napolitani i corni di bufalo o di corallo, allontanare ogni disastro da’ commerci e valer di propizio augurio; e così vi aggiungevano fede, che lavorati in corallo od in ambra, in oro, argento o bronzo, si portassero pure da fanciulli e da vergini donzelle sospesi al collo siccome fanno, per ragione d’ornamento, le nostre donne oggidì con medaglioni ed altrettali gingilli. Questi emblemi non è dunque vero che valessero sempre a designare i ricetti della prostituzione; onde uno di essi può vedersi su d’un pilastro dell’albergo di Albino, del quale ho già parlato, e certo non ad altro scopo che d’essere talismano onde tener lontano da’ viaggiatori e dal luogo dato all’industria i mali influssi del fascino o mal occhio. Che poi a scongiurare maleficj e fascini si adoprassero oggetti turpi e ridicoli, fra cui il phallus, l’apprendiamo da Plutarco[123]; e S. Agostino nel libro 7, c. 24 De Civitate Dei, ci fa sapere come l’osceno [200] emblema venisse persino recato inalberato su di un’asta in processione per le campagne con grande pompa in onore e nelle feste di Bacco[124]. Altri amuleti ritrovati negli scavi rappresentavano scarabei, uccelli, testuggini e pesci.

Io già toccai in un antecedente capitolo, parlando delle costumanze pompejane, come si solesse per le vie, nè più nè meno che si pratica odiernamente da noi, scrivere ne’ luoghi più frequentati annunzi ed affissi di proposte di pigioni e sollecitazioni di voti, sia a proprio vantaggio, sia a quello di talun candidato alle cariche più elevate, e recai a prova diverse iscrizioni di questi generi: dissi che altrettanto si usasse, per avvertire spettacoli publici e ne recai pure esempio trascrivendo taluno di siffatti avvisi rinvenuti sulle muraglie esterne delle case in caratteri rosso o nero; ora mi rimane ad accennare come la pratica servisse altresì ad altre più curiose bizzarrie.

Era questa l’abitudine di oziosi, di cui certamente abbondar doveva Pompei, di amanti, che per avventura non avevano tutto l’agio che si ha adesso di far pervenire alla fanciulla amata l’espressione de’ proprj sentimenti, di soldati o gladiatori petulanti, di scrivere o graffire con qualche punta su’ muri o motti [201] o sentenze o dichiarazioni d’amore o stupide insolenze. Gli scavi han pure fatto rivivere tuttociò e facilmente si posson leggere tuttavia queste iscrizioni d’ogni colore e sapore, come se solo jeri fossero state scritte o graffite. Nè sicuramente furono poche quelle che vennero lette sia nella lingua osca, che sembra essere stata la volgarmente parlata, come già m’espressi, sia nella latina, se valsero a materia d’illustrazione ad uomini assai dotti, per opere speciali, quale quella del Garrucci dal titolo appunto di Inscriptions gravées au trait sur les mures de Pompei e l’altra del Fiorelli Monumenta epigraphica pompejana ad fidem archetyporum expressa, le quali già m’avvenne di menzionare al principio di questo mio libro.

Non s’è inoltre dimenticato certo il lettore dell’episodio per me narrato in addietro della contesa seguita nell’Anfiteatro tra Nocerini e Pompejani: anche in quella occasione ho già segnalato come il mal animo paesano si disfogasse con una caricatura e con una iscrizione sulle mura esterne della via di Mercurio. Tutto ciò addimostra come fosse lo scrivere sulle muraglie entrato nelle abitudini di tutti e per tutto.

Annunzj, indicazioni ed epigrafi d’ogni natura, scritte o graffite per lo più da persone incolte, abbondano di scorrezioni: peggio poi in que’ versi di Virgilio, di Properzio e di Ovidio che trovansi riferiti con errori o varianti. Al qual proposito non lascerò per altro di fare un rilievo: che, cioè, fra [202] tutti questi saggi di popolare erudizione non si rinvenga una sola citazione di Orazio. Poeta quant’altri mai di castigato gusto e di immortale fama, non può dar motivo a giustificare una tale impopolarità in Pompei, se non in questa considerazione che per l’indole appunto più peregrina ed elevata de’ suoi carmi non riuscisse per avventura troppo alla mano per persone del volgo, come potrebbesi, a cagion d’esempio, trovar a’ dì nostri alcun riscontro nel Giusti, più noto agli studiosi che non al volgo de’ lettori. Il Bulwer invece, a cui non poteva certo essere sfuggita del pari una tale osservazione, nel suo bellissimo romanzo L’ultimo giorno di Pompei, al quale per altro voglionsi perdonare talune scortesie mordaci all’indirizzo degli Italiani moderni, che sarebbonsi da lui potute lasciare nella penna e la sua storia non ne avrebbe certo patito e avrebbe anzi per noi camminato meglio; il Bulwer, dissi, al banchetto di Glauco, fa che cantori e suonatori eseguiscano l’ode di Orazio da lui medesimo musicata: Persicos odi, puer, apparatus[125]; ma Glauco era un giovine greco a cui il cielo era stato largo di tutti i suoi beni.... gli aveva dato la bellezza, la salute, la ricchezza, l’ingegno, un’origine illustre, un cuor di fuoco e un’anima piena di poesia[126], e a lui però dovean essere famigliari anche i versi del Venosino.

[203]

Un giovinetto, esempi grazia, aveva graffito questo verso su d’un muro:

Candida me docuit nigras odisse puellas[127],

e tosto sotto una donna, o tal altro bizzarro spirito; ricattandosi dell’ingiuria lanciata alla ragazza bruna; soggiunge:

Oderis, sed iteras. Ego non invitus amabo.

Scripsit Venus physica Pompejana[128]

Un amante, mosso dal dispetto, scriveva:

Alter amat, alter amatur; ego fastidio[129]

Un arguto vi scrive sotto questo commento, forse non luogo dal vero:

Qui fastidit amat[130]

Un altro, meno galante di quel primo dispettoso innamorato, incide sul muro questi distici che erroneamente alcuni dissero di Ovidio:

Quisquis amat veniat. Veneri volo frangere costas

Fustibus et lumbis debilitare bene.

Sermo est illa mihi tenerum pertundere pectus....

Quas ego non possem caput illud frangere fuste[131].

[204]

Ecco invece una dichiarazione d’amore: Auge amat Arabienum; Methe Cominiœs atellana amat Chrestum corde: sit utreisque Venus Pompejana propitia et semper concordes veivant[132].

Altrove uno scherza con questa lettera:

Pyrrus c. Hejo contegæ sal. Moleste fero quod audivi te mortuum: itaque vale[133].

Sulla basilica, ove rendevasi giustizia, fu scritto: quot pretium legi? come sarebbe a chiedere: quanto si venda la giustizia.

Su d’un venditorio di vino si legge:

Suavis vinaria sitit, rogo valde sitit (sic)[134].

In altro luogo un tal Januario, o Gennaro, annunzia così una perdita, o piuttosto un furto sofferto:

Urna vinicia periit de taberna

Si eam quis retulerit

HS lxv: sei furem

Quis abduxerit

Dabit decumum

Januarius hic habitat[135]

[205]

Un pizzicagnolo invece proclama di tal modo i suoi zamponi:

Ubi perna cocta est si convivæ apponitur

Non gustat pernam, lingit ollam aut cacabum[136].

Volete ora insolenze ed ingiurie? Ve n’hanno anche per questi gusti; pigliatevene due saggi:

Ad quem non cœno, barbarus ille mihi est[137].

E in altro luogo, Oppio facchino è tacciato di ladroncello:

Oppi embolari fur furuncule.

Ho tradotto embolari per facchino, perchè altri pure così interpretarono; ma avverto che se v’era la emboliaria, la quale era un’attrice che usciva sulla scena tra gli atti d’una rappresentazione per tenere divertito l’uditorio col recitargli qualche maniera d’interludio; non ripugna che egual officio avesse un [206] uomo e quindi l’Oppio dell’iscrizione fosse emboliario e non facchino dal greco vocabolo ἔμβολιον latinizzato.

Questo vezzo di scrivere sulle muraglie all’indirizzo di alcuno o per alcun fatto e del quale conservasi pur tuttavia qualche tradizione, era sì comune a quei giorni, che il lettore rammenterà di certo quel passo di Cicerone, che nella terza Verrina accenna per appunto alle molte satire che i Siciliani scrivevano contro l’amica di Verre, la famosa Pipa, sulle pareti del tribunale e fin sopra la testa del pretore: De qua muliere versus plurimi supra tribunal et supra prætoris caput scribebantur[138].

D’altre iscrizioni graffite meno vereconde non parlo: scusabili in Pompei, non lo sarebbero ora agli orecchi de’ lettori; non ommetterò tuttavia queste brevi, perchè presentano qualche somiglianza col moderno italiano:

Cosmus nequitiæ magnissimæ[139]

è scritto da uno, e da un altro vi si esclama:

O felice me!

Un terzo poi soggiunge:

Itidem quod tu factitas cotidie[140]

Avverrà che altrove, in altri successivi capitoli, io riferisca qualche altra publica iscrizione, richiedendolo [207] l’argomento: per ora basti che il lettore abbia più d’una prova che anche certe infamie che si ponno da taluni credere importate dalle licenze d’una stampa fescennina e sovversiva, l’umanità le sapeva commettere egualmente e con soddisfazione di sufficiente publicità anche assai e assai tempo prima dell’invenzione di Panfilo Castaldi e di Guttemberg.

Se ne tengano per ammoniti

I lodatori del buon tempo antico.

Ma se lordavansi le muraglie di scritti ingiuriosi e bene spesso osceni, non venivano risparmiate altre immondezze, col mingere agli angoli delle vie, ciò che del resto la civiltà moderna non ha potuto interamente bandire ancora dai nostri costumi, malgrado i publici orinatoi che ad ogni tratto l’autorità edilizia, almeno nelle città principali, venne costruendo. Si immagini poi a que’ giorni! Ben gli edili di Pompei avevano istituite latrine publiche ne’ posti più frequentati ed una amplissima ve n’ha a lato della prigione nel Foro; anfore e recipienti venivan collocati ai canti delle vie per raccogliervi le immonde aspersioni; ma forse tanti provvedimenti non bastavano all’interno dell’igiene e della polizia, e neppure l’imposta che, al dir di Svetonio, era stata messa dall’imperatore Vespasiano.

Per guarentirne i luoghi sacri e le passeggiate, si usò dipingere sulle muraglie di essi due serpenti [208] a lato di un modio ripieno di frutti, oppure genj domestici; come ho visto in Firenze e altrove pingersi delle croci o scriversi de’ nomi venerabili e divini sulle pareti delle chiese od anco su quegli angoli di palazzi che si volevano preservare dalle immondezze, perchè e croci e nomi santi a’ nostri giorni, parimenti che genj e simboli in Pompei, significhino che que’ luoghi su cui stanno reclamano reverenza. Talvolta a’ simboli s’aggiungevano iscrizioni a raccomandare siffatto sentimento, e i sacerdoti poi non lasciavano d’imprecare sovra il capo di coloro che vi avessero mancato di rispetto tutta la collera de’ grandi Iddii ed in ispecie di Giove e di Diana, e della Venere Fisica pompejana.

I due serpenti, simbolo di Esculapio e di Igea, che più spesso si soleva pingere sovra i muri a tutela di nettezza, era pure in Roma adoperato allo effetto stesso; onde Persio avesse nella satira prima a dire:

Hic, inquis, veto quisquam faxit oletum

Pinge duos angues; pueri, sacer est locus; extra

Mejite[141].

De Rich vide in uno de’ corridoi che menano nelle terme di Trajano la dipintura a fresco d’un altare [209] fiancheggiato da due angui e sotto scrittavi la seguente iscrizione:

IOVEM ET IVNONEM ET DVODECIM DEOS IRATOS HABEAT
QVISQVIS HIC MINXERIT AVT CACARIT[142].

Dopo tutto, Pompei e le sue vie animate da popolazione e da commerci dovevano essere ben belle! Piccola, ma leggiadra città: angusta, ma piena di vita e di ricchezza!

«Pompei, scrive Bulwer, che ho non ha guari citato, era la miniatura della civiltà di quest’epoca. Questa città racchiudeva, nella stretta cerchia delle sue mura, un saggio di tuttociò che può inventare il lusso a profitto della ricchezza. Nelle sue piccole ma eleganti botteghe, ne’ suoi palazzi di breve dimensione, ne’ suoi bagni, nel suo foro, nel suo teatro, nel suo circo, nell’energia e nella corruzione, nel raffinamento e nei vizj della sua popolazione si riscontrava un modello di tutto l’impero. Era un giocattolo da ragazzo, una lanterna magica, un microcosmo in cui gli Dei sembravano pigliar gusto a rifrangere la grande rappresentazione della terra e che essi si divertiron più tardi a sottrarre al tempo per poi fornire alla sorpresa della posterità questa sentenza e questa moralità: che nulla davvero vi ha di nuovo sotto il sole»[143].

[210]

Una specialità offre Pompei, messa a raffaccio colle città moderne, ne’ diversi archi di trionfo, che in più località si ritrovano tuttavia sussistenti e ne darò qualche cenno.

Quattro ve ne sono nel foro, e il più grande di essi non ha che una sola apertura ed è decorato dai due lati di colonne e di nicchie. Di tutti questi ornamenti non rimane ora che dalla parte del Foro un basamento di colonne a ciascun pilastro, nè sembrano essere stati del miglior gusto; onde Bréton avesse giustamente a dire che si attribuirebbero volontieri ad un’epoca di decadenza, se la data della distruzione di Pompei non fosse conosciuta[144].

All’ingresso della via di Mercurio e di fronte al detto grande arco, altro se ne scorge e pare che sovr’esso vi fosse una statua equestre in bronzo dell’imperatore, Caligola o di Tiberio, se pure non possa ritenersi d’Augusto, quando veramente si abbia qualche attinenza il frammento d’iscrizione seguente:

. . . . STO . CÆSARI
PARENTI . PATRIÆ

Nell’asse del Foro, davanti i Tribunali, esisteva pure un arco e dalla sua grande profondità si può argomentare che sovr’esso ci fosse una quadriga, che Dyer suppone potesse essere del genio tutelare della città[145].

[210b]

Arco Trionfale alla via di Mercurio in Pompei. Vol. I. Cap. VII. Le Mura, ecc.

[211]

D’altri archi di minore importanza non mette conto il parlare.

Allorquando in un venturo capitolo tratterò della industria pompejana, passerò in rassegna le molte tabernæ o botteghe che si veggono ora vuote lungo queste deserte vie, ma che presentano nondimeno esse pure certi avanzi di vita che fanno fremere, che sembrano da poche ore appena sgombre dalle loro merci e abbandonate. Visiteremo insieme i termopolii, o mescite di bevande calde, il forno publico, la fabbrica del lutus fullonicus o sapone, i mulini, la tintoria, le osterie e vie via ogni altro interessante stabilimento.

A questo quadro manca ancor qualche cosa e me lo richiama l’argomento stesso delle vie, dal quale non sono uscito per anco. Quelle orme profonde e que’ solchi che in più luoghi si veggono del pavimento di esse, impressi dalle ruote dei veicoli, oltre quelle osservazioni che superiormente ho già fatte, mi suggeriscono altresì a dir qui delle carrozze e vetture che si usavano in Pompei.

Sorpasso dall’occuparmi delle quadrighe e bighe, quali usavansi negli spettacoli dell’anfiteatro e ne’ trionfi, poichè non sia questa la opportunità, nè de’ carri, plaustri o carrette pel traffico quotidiano, facile è il supporne la sussistenza e la forma: mi riduco però a intrattenere il lettore delle vetture destinate all’uso de’ grandi e cittadino.

[212]

Innanzi tratto concedo il primo posto alle Tense (tensa o thensa). Era il più spesso un carro di gala tirato da animali, cavalli od elefanti, come si vede in una medaglia di Nerva, sul quale si trasportavano le immagini degli Dei al pulvinare nei giuochi circensi. Se ne servivano anche gli Edili in certe solenni occasioni. Cicerone ne parla nella terza Verrina, cap. 59 e Svetonio nella vita di Augusto, cap. 43.

Le più sontuose e più costose carrozze erano le pilente, d’invenzione spagnuola secondo alcuni, tosca secondo altri, e dalla greca parola πιλος, dalle pelli o dalla lana onde solevansi coprire, reggevansi su quattro ruote, come apprendiamo da un luogo di Tito Livio[146] e da Virgilio in que’ versi:

. . . . . castæ ducebant sacra per urbem

Pilentis matres in mollibus[147]

e se ne servivano per lo più nelle feste publiche e ne’ giuochi; ma quella che più era in uso fra cittadini [213] più facoltosi, allorquando erano soli, chiamavasi biga col nome stesso del veicolo che si adoperava nel circo e sorreggevasi da due ruote. La larghezza dell’asse di codesti veicoli può pur adesso misurarsi dagli spazj lasciati dai massi o dadi di pietra che a’ principj delle vie formavano coi rialzi dei margini laterali.

Le matrone ordinariamente servivansi di una carrozza, tirata per consueto da un pajo di mule, che per lo più aveva bensì due ruote, ma teneva comodità maggiori di star meglio adagiate, riparate da una tenda e da cortine, colle quali si poteva chiudere davanti, e denominavasi carpentum. Properzio pure così ne fa menzione:

Serica nec taceo volsi carpenta nepotis[148].

Impiegavano eziandio una specie di lettiga, vasta sedia portatile più comodamente disposta che le vetture moderne, poichè chi l’occupava poteva coricarsi a suo bell’agio, in luogo d’essere scosso e trabalzato perpendicolarmente. Era altresì nell’uso la sella, specie di que’ sedioli che per lo passato abbiamo avuto noi pure ed in cui si assidevano al par di noi.

[214]

Di un’altra carrozza, rheda, da cui forse venne il nome alle redini che dirigono i cavalli, d’origine gallica, a quattro ruote, si giovavano per viaggi, o per escursioni alla campagna: essa conteneva agevolmente tre o quattro persone ed era fornita di cortinaggio, che si poteva sollevare secondo volontà e prestavasi anche al trasporto di provvisioni. Cicerone in una delle epistole del lib. V ad Attico gli dice aver quella dettato sedendo nella reda: Hanc epistolam dictavi sedens in rheda. Questo cocchio era il cenno più prossimo alle vetture che si inventarono nel secolo decimosesto e che poi nel nostro si perfezionarono. Anzi in Ispagna assunsero queste carrozze il nome un cotal po’ latino di paravereda, perchè paraveredi appunto si chiamassero anche ai tempi di Roma antica i cavalli che seguendo le vie traverse servivano il publico, come veredi semplicemente quelli che tenevano le vie rette[149].

Nè va dimenticato il leggiero e celere Essedum, cocchio a due ruote d’origine belga, come ce ne avverte Virgilio in quel verso della terza Georgica:

Belgica vel molli melius feret esseda collo[150]

[215] e pur in uso presso i Galli ed i Britanni, massime ne’ combattimenti, e passato poi ne’ Romani, che se ne valevano e per viaggi o per trasportar pesi. Tuttavia doveva l’essedum esser all’uopo veicolo di lusso, se Cicerone nella seconda Filippica, a titolo di rimprovero, esce a dire: Vehebatur in essedo tribunus plebis[151], come se il servirsi dell’essedo fosse troppo ricercata e dispendiosa costumanza. Circa la velocità di tal curricolo fa fede Ovidio, quando canta:

Sed rate ceruleas picta sulcavimus undas

Esseda nos agili sive tulere rota[152].

Essedum facendosi poi derivare dal greco άἰσσω, cioè essere trasportato con impeto, si comprende di leggieri l’origine del nostro verbo aizzare, per istigare.

Ma un veicolo a quattro ruote che Festo afferma con vocabolo osco denominarsi petoritum, petora significando quattro, (De Rich lo vuol d’origine celtica da petoar, quattro erit, ruota) dovea trovarsi in Pompei e nella Campania, dove gli Osci appunto stanziarono, e questo genere di veicoli è ricordato da Orazio nell’epistola I del Libro II unitamente alle essede e alle pilente:

Esseda festinant, pilenta, petorita, naves[153].

[216]

e da Ausonio nell’epistola quinta:

Invenies præsto subjuncta petorita mulis[154]

e altrove, nell’epistola ottava, lo stesso poeta ancora:

Cornipedes raptant imposta petorita mulæ[155]

Plinio poi ci fa sapere come i petoriti fossero ornati di fregi di stagno: stanno esseda et vehicula et petorita exornare[156].

Tutte codeste citazioni classiche parranno per avventura un po’ soverchie e pedantesche; ma io pur sopprimendone altre, credetti opportuno di farle a giustificare l’esistenza di vetture comode e per diversi usi sin da duemila anni addietro, da che sembri che dovessero poi cadere in dissuetudine affatto, se poi se ne vuole dagli scrittori assegnare l’invenzione intorno alla metà del secolo XVI; mentre se durato avessero le carrette del tempo romano, colle graduali modificazioni e miglioramenti che il tempo suggerisce, sarebbe stato assai facile il portarle a quel perfezionamento che in questi ultimi tre secoli ottennero in Europa.

«A quel tempo, scrive Agostino Ademollo, parlando del febbraio 1326 nella sua Marietta de’ Ricci, [217] eruditissima più che amena narrazione, non esistevano carrozze, le quali cominciarono ad usarsi nel 1534. In quest’epoca alcune signore della casa Cibo dette le Marchesane di Massa, che abitavano nel palazzo de’ Pazzi furono le prime in Firenze ad usare la carrozza. Le prime che si videro erano coperte di panno più o meno ricco a guisa di padiglione ed era una portiera quello che poi si chiamò sportello. L’invenzione della carrozza fu creduta effetto dell’eccesso del lusso ed un cronista di quel tempo ne fece i miracoli perchè vi vide dentro il canonico Berni, il poeta dell’Orlando Innamorato. Un altro poeta ne fece la satira seguente:

Quando il cocchio primier fu visto in volta

Ir per Firenze con più meraviglia

Che già la nave d’Argo a’ venti sciolta;

È fama, che un terren Nereo le ciglia

Inarcando esclamasse: Oh insano legno,

Per te qual peste il nostro lido impiglia?

Che merci porti? qual infetto regno

Ti consegnò l’avvelenata salma,

Che approdarla all’inferno era ben degno.

«Questo poeta non avrebbe scritto così se avesse compreso quanto comodo ed utile era per ricavarsi nella società da quella invenzione chiamata pestifera[157]

[218]

Ora torniamo a bomba per chiudere questo capitolo e l’argomento delle vie, accennando quanta fosse in tutto l’orbe romano la diligenza nella costruzione delle vie, e nella manutenzione, o come allora dicevasi, munizione di esse, meglio preoccupati i maggiorenti a’ tempi della Republica principalmente, più del publico onore e della comodità del publico che non dell’aumento della propria fortuna; onde potesse Orazio così cantarne con ragione, nell’ode XV del secondo libro, il merito:

Privatus illis census erat brevis,

Comune magnum: nulla decempedis

Metata privatis etc.[158].

Ma la bisogna corsa egualmente non era agli ultimi tempi della Republica, meno poi a quello degli imperatori. Nondimeno, alla magnificenza delle vie s’era sempre pensato, la cura delle quali tanto per quelle intra, quanto per quelle extra urbem, venne dal Senato commessa a’ censori, quindi da Cesare Augusto ad appositi Curatori delle vie; ed a siffatti provvedimenti adottati in Roma, le provincie eran solite conformarsi pienamente; onde non è maraviglia se le vie di Pompei e de’ dintorni riuscissero quali ho al lettore descritte, e rimanessero oggetto alla nostra giusta ammirazione.

[219]

CAPITOLO VIII. I Templi.

Fede e superstizione — Architettura generale de’ Templi — Collocazione degli altari — Are ed altari — Della scelta dei luoghi — Tempio di Venere — Le due Veneri — Culto a Venere Fisica — Processione — Descrizione del tempio di Venere in Pompei — Oggetti d’arte e iscrizioni in esso — Jus luminum opstruendorum — Tempio di Giove — I Sacri Principii — Tempio d’Iside — Culto d’Iside — Bandito da Roma, rimesso dopo in maggior onore — Tibullo e Properzio — Notti Isiache — Origini — Leggenda egizia — Chiave della leggenda — Gerarchia sacerdotale — Riti — Descrizione del tempio d’Iside in Pompei — Oggetti rinvenuti — Curia Isiaca — Voltaire e gli Zingari — Tempio d’Esculapio — Controversie — Descrizione — Opinioni sulla sua destinazione — Ragioni perchè abbiasi a ritener di Mercurio — Descrizione del tempio — Tempio della Fortuna — Venerata questa Dea in Roma e in Grecia — Descrizione del suo tempio — Antistites, Sacerdotes, Ministri — Tempio d’Augusto — Sodales Augustales — Descrizione — Pitture, Monete — Tempio di Ercole e di Nettuno — Detto anche tempio greco — Descrizione — Bidental e Puteal — Tempio di Cerere — Presunzioni di sua esistenza — Favola — I Misteri della Dea Bona e P. Clodio — Il Calcidico era il tempio di Cerere? — Priapo — Lari e Penati — Cristianesimo — Ebrei e Cristiani.

Quanto sono venuto fin qui dicendo ha indubbiamente già indotto nel lettore la convinzione che Pompei, se non avanzasse le altre città del romano impero nel sentimento religioso e nel culto superstizioso, certo [220] non ne fosse ad alcun’altra seconda. Egli ricorda come al tempo della trasformazione di Pompei in militare colonia, assumesse l’appellativo di Colonia Veneria, per ciò appunto ch’essa si fosse posta sotto la speciale tutela di Venere Fisica e ricorda i speciali tabernacoli e numi esposti nelle sue vie, gli amuleti ed emblemi contro il fascino sulle case e botteghe scolpiti od in mostra; cose tutte codeste le quali attestano come la fede religiosa commista alla superstizione, colla quale anzi non era che un tutto, non fosse l’ultima delle qualità degli abitanti di questa città. Più innanzi, favellando delle Case e dell’Arti, accadrà eziandio di far cenno di immagini e storie di numi pinte sulle pareti delle prime e di statue grandi e piccole in marmo od in bronzo rinvenute in ogni parte, di cappellette consacrate ai Lari ed ai Penati nelle principali abitazioni e saranno altrettanti argomenti che ribadiranno e l’opinione non solo che ho più sopra enunciata circa le credenze pompeiane, ma più ancora mostreranno i costumi essenzialmente collegati alla teogonia in tutto l’orbe romano.

Io nel dire, in questo capitolo, de’ Templi, nel visitarne le rovine, necessariamente verrò segnalando qual culto si avessero peculiari divinità: pur non lasciando per ultimo di constatare, come, malgrado le nessune reliquie trovate del culto cristiano, la nuova credenza si fosse tuttavia insinuata in Pompei ed avesse la sua luce di verità e di libertà balenato alla mente di [221] qualcuno; come non fosse unicamente una trovata di fantasia quella dell’inglese Bulwer e del nostro Vecchi l’avere introdotto ne’ rispettivi loro libri episodj di neofiti cristiani.

Premetto per altro alcune generali e brevi considerazioni, che reputo opportune a farsi una giusta idea delle ragioni di tanti e disparati culti e della molteplicità de’ templi; e come in altri argomenti, anche in questo della religione, Pompei riassumerà la storia dell’intero mondo romano.

Il politeismo era la religione dominante di questo mondo romano, e Roma, la capitale a cui traevano sudditi e stranieri d’ogni parte dell’universo, ospitava i numi di tutte le nazioni e ne accoglieva tutte le superstizioni; laonde si possa a buona ragione affermare ch’essa fosse il tempio comune de’ suoi sudditi e fosse stata concessa la cittadinanza a tutti gli Dei del genere umano.

La politica degli imperatori e del Senato, per riguardo alla religione, era felicemente secondata dalle riflessioni della parte illuminata dei loro sudditi e da’ costumi della parte superstiziosa. I diversi culti religiosi che si osservavano nel mondo romano erano tutti considerati dal popolo come egualmente veri; dal filosofo come egualmente falsi e dai magistrati come egualmente utili. Di tal modo la tolleranza produceva non solo una scambievole indulgenza, ma eziandio una religiosa concordia.

[222]

E che io dica cose veraci, me ne fa fede Petronio quando esclama:

«Nessuno crede cielo il cielo, nè stima punto Giove[159]» e Giovenale in questi esametri:

Esse aliquos manes et subterranea regna

Nec pueri credunt, nisi qui nondum ære lavantur[160].

Tacito, l’austero Tacito, solo spera che dopo la morte le anime possano aver vita e senso di quanto si fa quaggiù, ma nulla indica ch’egli lo credesse[161].

Meritevole è del resto di osservazione la somma moderazione dell’antichità, veggendosi le nazioni essere meno attente alla differenza che alla somiglianza de’ loro culti religiosi. Il Greco, il Romano e il Barbaro nell’incontrarsi avanti i loro rispettivi altari, facilmente si persuadevano, che sotto nomi diversi e con diverse cerimonie essi adoravano le medesime divinità. I Galli, a cagion d’esempio, nel corso di uno o due secoli, come apprendiamo da Cesare, assegnarono alle loro divinità i nomi di Marte, di Mercurio, d’Apollo[162]. Iside stessa, divinità egiziana sotto altro nome ed anche con egual nome, veneravasi così [223] sulle sponde del Nilo, come su quelle dell’Ilisso, del Tevere o sulle sponde sequane, dove persino Parigi (Parisis) e Issy vuolsi derivassero da quella divinità il loro nome.

Nessun meglio di Erodoto, tra gli antichi, ha fornito la vera indole del politeismo; come Cicerone nel suo trattato De Natura Deorum ne lasciò la miglior guida che seguir si possa in mezzo all’inestricabile labirinto dell’antica teologia, e Omero colla elegante sua mitologia prescrisse le forme più belle e quasi regolari di essa. Ovidio non ne appare, nelle religiose leggende raccolte da tutti i libri e canti degli storici e poeti e da lui nuovamente col numeroso verso ammanite, che quasi il più illuminato ed ispirato de’ suoi sacerdoti. Nelle Metamorfosi la storia degli Dei, nei Fasti ne cantò il culto.

Se però ci è dato d’indagare le origini e la natura della religione de’ Pompejani, de’ quali noi peculiarmente ci dobbiamo occupare, non esitiamo a riscontrarvi tutti i caratteri grecanici. Templi, culto, pitture e marmi, tutto ne rende al proposito chiara testimonianza. I soli riti di Iside, come vedremo a suo luogo, ci avvertono dell’immigrazione degli Alessandrini, e quali solennizzavansi in Pompei, ne lasciano altresì a congetturare che i Greci ellenizzando il culto di Iside, avessero identificata questa divinità con Igia, la Dea della Salute, come argomenta il chiaro E. Brizio, poichè si trovi spesso congiunta con Serapide nell’attitudine [224] propria ad Igia con Esculapio, ed una volta come Igea col serpe attorcigliato intorno al braccio; per cui sia lecito inferirne che anche in tutti gli altri dipinti pompejani, abbiano un rapporto analogo i serpenti dipinti nei lararii, in congiunzione con Iside[163].

Discorrendo ora, pur in generale, sulla naturale costruzione de’ Templi in Pompei, si può osservare che tutti, se si eccettui quello posto nel foro triangolare, si presentano eretti sopra sostruzioni; per lo che siasi dovuto praticarvi gradinate per entrarvi. La facciata d’ordinario è ornata di colonne che vi aggiungono maestà; il sacrario è circondato da mura, l’interno da colonne e da nicchie: il fondo ha un podio, dove si collocavano le statue delle divinità che vi si adoravano. Erano poi decorati di marmi, di pitture, di stucchi e di mosaici e di quelle altre particolarità che verrò notando mano mano che tratterò de’ singoli templi.

Vitruvio, che ho già invocato siccome autorità gravissima in fatto di architettura antica, tratta delle diverse forme architettoniche, delle parti e proporzioni e de’ fregi e d’ogni cosa consueta nella fabbrica de’ templi d’allora e persino delle collocazioni degli altari: quelle regole si riscontrano in buona parte de’ templi pompejani e dirò anzi che informassero [225] anche di poi l’architettura de’ templi cristiani, come anche il culto di essi ha serbato non poche cerimonie pagane, perocchè queste possano essere uniformi espressioni e manifestazioni di adorazione e riverenza, senza condividere dottrine e dogmi, e come, ad esempio nel seguente insegnamento. «Gli altari hanno da esser posti dalla parte d’oriente, e sempre siano più bassi delle statue che saranno nel tempio, acciocchè i supplicanti e i sagrificanti nel riguardare la deità si situino a diverse altezze, secondo richiede il decoro di ciascuna deità. Quindi le altezze si regoleranno in questa maniera: a Giove e a tutte le deità del cielo si faranno quanto più alti si può: a Vesta, alla Terra, al Mare, bassi; così con questi principii si faranno nel mezzo de’ tempi altari proprj e adatti»[164].

Presso gli antichi avevano diverse altezze gli altari: per le deità celesti erano alti e si dicevano specialmente altaria: per le terrene, bassi chiamati propriamente aræ, ed è a questa distinzione che per avventura accenna Virgilio in quel passo delle Bucoliche:

En quatuor aras:

Ecce duas tibi, Daphni, duo altaria Phœbo[165];

quantunque neghi taluno siffatta distinzione, ammessa [226] da Vitruvio tra gli antichi, e tra’ moderni da quel competente scrittore che è Raoul-Rochette[166].

Nè queste regole unicamente esistevano di materiale architettura de’ templi; ma norme altresì vi avevano per la scelta delle località dove erigerli e queste a seconda ancora della degnità dei numi ai quali consacravansi e della natura de’ loro speciali attributi.

«Per gli edifizj sacri, scrive il medesimo Vitruvio, e specialmente degli Dei tutelari, o di Giove o di Giunone, o di Minerva, dee scegliersi il luogo più eminente, da cui si scopra la maggior parte delle mura: a Mercurio nel foro, o pure, come anche a Iside e a Serapide, nell’Emporio; ad Apollo e a Bacco presso al teatro; ad Ercole, quando non vi fossero nè ginnasii, nè anfiteatri, presso al Circo, a Marte fuori della città e specialmente presso il Campo: a Venere fuori della porta: questo si trova fin anche stabilito negli insegnamenti dell’aruspicina etrusca che, cioè, i tempii di Venere, Vulcano e Marte si abbiano ad alzare fuori delle mura, e questo acciocchè non si famigliarizzi dentro la città co’ giovani e colle madri di famiglia la libidine, e tenendo lontana dalle mura la potenza di Vulcano colle preghiere e co’ sagrificj, restino libere le abitazioni dal timore d’incendio. La deità di Marte essendo adorata fuori della [227] città, non vi sarà guerra civile; ma anzi sarà quella difesa da’ nemici e dal pericolo della guerra»[167].

Giova per altro avvertire come siffatte norme non sieno state sempre ed esattamente osservate, perchè si vide in Roma stessa il tempio di Marte nel Foro d’Augusto e quel di Venere nel Foro di Giulio Cesare, erettogli da Giulio Cesare stesso, che pretendeva discendere dalla Dea per parte di Julo figliuolo di Enea, e molti templi di Dei malefici persino erano dentro la città, come quei della Febbre, di Vulcano, della Mala Fortuna, della Pigrizia e va dicendo.

E così trovasi una tale deviazione dalle regole generali anche in Pompei, dove il tempio a Venere Fisica non era fuori della città, ma presso le Porte della Marina e in vicinanza del Forum. E sarebbe stato invero strano e indecoroso spettacolo che la principale divinità tutelare non fosse stata ospitata entro le mura.

Gli è anzi a tale riguardo, che derogando un tratto dal vecchio adagio: ab Jove principium, o, come direbbesi nell’idioma nostro:

Non s’incomincia ben se non da Dio,

mi farò primamente ad occupare del tempio di questa leggiadrissima Dea Venere Fisica o terrestre, come che mi paja doveroso e della buona costumanza il [228] consacrare di preferenza le nostre cure alla signora del luogo.

Nè vi sarà alcuno d’animo sì poco cortese che mi dia torto in grazia di ciò che si tratti della Dea della bellezza e della voluttà.

Tempio di Venere.

Non v’ha chi non sappia Venere, nata dal seme insanguinato di Celo fecondato dalle spume dell’Ionio mare, essere stata una delle più celebri divinità de’ secoli pagani. Se si volesse scrivere una storia dei suoi fatti e ragione de’ diversi nomi, de’ suoi attributi svariati, del culto, delle feste a lei consacrate, di tutto che le si riferisce, sarebbevi materia a più d’un volume: più generalmente essa veniva riguardata come la Dea della bellezza, la madre dell’Amore e del Riso, la regina della Gioja, la compagna delle Grazie e de’ Piaceri. Presiedeva essa alla generazione ed era ad un tempo la protettrice delle cortigiane.

Delle diverse Veneri di cui si trova memoria, non terrò qui conto che delle due riconosciute da Platone[168], la Venere Urania o Celeste, caratterizzata da un diadema sul capo, e la Venere Pandemos, popolare o publica, ed anche terrestre, appellata Physica dai Pompejani. Alla prima faceva cenno Ugo Foscolo [229] che può dirsi il cantore di essa ne’ tempi moderni, come negli antichi della seconda si direbbe Catullo, ne’ mirabili suoi versi de’ Sepolcri, dove apostrofando Firenze, dopo averla salutata ispiratrice all’Allighieri del divin carme, la saluta patria e ispiratrice altresì del Petrarca:

E tu i cari parenti e l’idïoma

Desti a quel dolce di Calliope labbro

Che Amore, in Grecia nudo e nudo in Roma,

d’un velo candidissimo adornando,

Rendea nel grembo a Venere celeste.

Ne’ primi tempi la Venere Pandemos presiedeva alla popolazione; poscia valse a indicarla la protettrice delle prostitute e veniva rappresentata assisa su di un becco, simbolo di lussuria e di impurità, onde l’epiteto a lei di Epitragia, ed ascrivevansi a lei mille invenzioni di piaceri, e la scoperta d’una infinità di cose che s’ignoravan dapprima, secondo ne cantò Ovidio:

Mille per hanc artes notæ, studioque placendi

Quæ latuere prius, multa reperta ferunt.[169]

Queste due Veneri erano poi così fra loro distinte, da avere riti e sacerdoti affatto diversi.

Massime al tempo della decadenza, in cui corrottissimi [230] eransi fatti i costumi, era in fiore per tutto l’orbe romano il culto a questa ultima Dea, e feste in di lei onore celebravansi al primo d’aprile, che perciò dicevasi mese di Venere. Vegliavano le donzelle pel corso di tre notti consecutive, si dividevano in parecchie bande e in ognuna di queste si formavano parecchi cori. Quel tempo s’impiegava nel danzare ed inneggiare in onore della Dea: di che un inno o ritmo antico ci informa in questi versi:

Jam tribus choros videres

Feriatos noctibus

Congreges inter catervas

Ire per saltus tuos

Floreas inter coronas

Myrteas inter casas[170].

Figuri il lettore quante dovessero poi essere le feste in Pompei dove Venere Fisica o sensuale, era la Dea principalmente tutelare e quindi la più venerata.

Il Giornale degli Scavi, al quale collaborano illustri e dotti ingegni, nel fascicolo di maggio a giugno 1869 publicò una tavola assai interessante, un dipinto, cioè, trovato nel triclinio di una casa che ha [231] l’entrata di fronte al lato meridionale del così detto Panteon, e consiste in una grande fascia a fondo giallo che occupa tutta la lunghezza di una parete: l’ordine e la distribuzione fornisce l’idea di una sacra processione, e però la sua descrizione trova qui il suo posto, ed io la reputo opportuna al lettore, perchè compie il dir mio intorno al culto di Venere Fisica.

La reco colle parole del chiarissimo E. Brizio, altro de’ più solerti e dotti scrittori del succitato Giornale, che la illustrò:

«Nel centro sovra tre gradini, si eleva un tempio ornato di colonne corinzie: ivi nel mezzo, ove è figurata la cella, sta in imponente atteggiamento la Venere pompeiana cinta la testa di corona murale: una lunga veste violacea la cuopre fino ai piedi, mentre un mantello ampio e leggiero, scendendole dalle spalle, le involge tutta la persona. Solamente le mani rimangono visibili: la destra teneva senza dubbio un ramo, ora svanito; nella sinistra ha lo scettro, ed appoggia parte del braccio sovra il timone al suo lato. Due figure assai più piccole in dimensione le stanno ai fianchi; alla sinistra un amorino con frigio berretto in capo, coperto di larga tunica ed una bulla sul petto, poggiato sovra un piedistallo cilindrico sta ritto al fianco di Venere, tenendosi con la destra allo scettro di lei, mentre porta nella sinistra lo specchio: dall’altro lato evvi Priapo barbato, con berretto alla foggia orientale.... Una giovine donzella [232] vestita da sposa, colla χαλὺπτρα[171] intorno il capo, è in atto di scendere i gradini del tempio.... la destra nell’atto di discendere l’ha pôrta ad Ercole, il quale alla sua volta le ha steso la sua.... Più in lontananza seguita la processione quasi divisa in due parti ed ordinata a vari gruppi.... Due fanciulli coronati di fiori precedono la comitiva, la prima tenendo fra le mani un oggetto, sovra cui sono distesi dei panni: seguono due giovani a pie’ scalzi, involti in tuniche bianche listate di rosso con larghe maniche: portano, sorretta da due lunghe sbarre, una base quadrata, sovra cui si alza un grande albero avviticchiato da un serpe: dietro ad essi poi un gruppo di altri quattro giovani portan sulle spalle una larga tavola, dove posa un piccol tempio a colonne. Qui il gran tempio della Venere pompejana interrompe la processione, la quale si ripiglia dall’altro lato. Viene la prima una sacerdotessa di Iside, coperta di bianca veste con scarpe pur bianche ai piedi: ciascun braccio ha circondato da quattro armille ed ha tre collane intorno al collo e al petto: cammina col braccio destro sollevato, tenendo in mano il sistro. Vengono poscia due giovani involti a quanto pare nella toga e portano [233] una tavola con suvvi una galea d’argento. Per il deperimento dell’intonaco in questa parte, resta impossibile a determinare l’oggetto collocato sovra un’altra tavola più ampia, portata da un altro gruppo di quattro persone. Nudo il torace vien poi dietro il popa reggendo nella destra la scure, e menando innanzi a sè un corpulento bue pel sacrifizio; lo segue uno con l’agnello attraverso le spalle. Finalmente chiude la processione un gruppo di due giovani portanti una κλίνη (sedia) abbellita di fiori, nel cui ricco sedile mirasi una corona.»

Brizio, riconoscendo in tutta questa rappresentazione di gruppi non altro che la solennità di una festa del culto di Venere, celebrata col più grande apparato, crede ravvisarvi l’apoteosi di Ercole, per mezzo delle sue nozze con Ebe, dopo ultimate le sue famose fatiche.

Un tale dipinto inoltre chiarisce per avventura la ragione per la quale i Pompeiani avessero a Venere Fisica accordato il primato su tutte l’altre divinità e l’invocassero propizia ai destini del paese, non già solo come fautrice di dissolutezza, ma piuttosto, — non altrimenti che sotto il nome di Venere Fisica veniva adorata nei paesi della Campania ed in Roma, — quale Dea della fecondità femminile, in qualità di Dea γαμήλια e γενετυλλίς, dell’amore materiale, cioè, ed anche del matrimonio.

L’epiteto di Fisica dato alla Dea Pompejana in [234] parecchie iscrizioni, dice ancora il sullodato Brizio, doveva già persuaderci ad intendere sotto questo nome di amore, non la celeste e sentimentale attrazione di due spiriti, bensì il fervido e sensuale congiungimento di due esseri nell’esuberanza delle loro forze vitali. Considerata sotto questo aspetto, Venere da divinità dell’amore passava facilmente ad essere Dea della forza generatrice, del matrimonio e per conseguenza anche della fecondità femminile: e tale appunto è il molteplice concetto sotto cui veniva adorata dai Pompejani. Parecchi monumenti ne rendono testimonianza, ma le allusioni a Venere come Dea dell’amore sono troppo conosciute, troppo naturali e troppo frequenti nei dipinti, e specialmente nei graffiti pompejani, perchè sia necessario di numerare gli esempi: citerò invece una pittura, sotto alla quale è scritta una formula, che impreca l’ira della Venere pompejana sovra colui che avesse leso il dipinto: ciò rivela l’intensità del culto prestato dai Pompejani a questa forza dell’amore, e quindi a Venere che la simboleggia; poichè non si sapeva rinvenire pena maggiore da esser inflitta al colpevole che l’ira della Dea. La fusione della Dea dell’amore con quella del matrimonio, come sembra di ritrovarla in una iscrizione graffita, ove si dice di una donzella Methe, che ardentemente (chorde) ama Chrestum[172] [235] e viene quindi invocata la Venere pompejana, perchè sia propizia ai loro amori e possano vivere concordi. La mancanza d’ogni illecita allusione e il dolce augurio di vivere concordi, ci avvicina assai più all’idea di due sposi, che non a quella di due amanti di ventura.[173]

Il tempio di Venere vedesi in questa città, come più sopra avvertii, presso il Foro alla sinistra di esso e di fronte alla Basilica; comunque il chiarissimo Garrucci[174], tanto benemerito illustratore di Pompei, ponesse pel primo in dubbio avere esso appartenuto a questa Dea, inclinando piuttosto a credere fosse a lei dedicato l’altro edifizio che trovasi in capo al Foro nel luogo più elevato e che più comunemente è detto tempio di Giove, e questo invece, chiamato generalmente di Venere, opinando sacro a Mercurio, e Maja. Quei dotti uomini che furono il Nissen[175], il Momsen[176], e l’Overbeck[177], di fronte agli eruditi argomenti dal Garrucci addotti ne divisero l’opinione; ma il Brizio li combattè e mi pare vittoriosamente; e pel rinvenimento di due statue, una di Venere e l’altra di Ermafrodito e per l’erma marmorea e panneggiata, che [236] ancor oggi vedesi nel peribolo del tempio e che ritiene di Mercurio, non già come figlio di Maja, ma come sposo di Venere, e per le sigle della lapide votiva pur trovata T. D. V. S. interpretate naturalmente Tutrici Deæ voto soluto, Dea tutelare della città essendo Venere, conchiude riconfermando la primitiva assegnazione, essere veramente il tempio di Venere.

Esso nella prima architettura del santuario, e per conseguenza di tutto l’edificio, è quello di un tempio greco che si venne di poi trasformando, alla severità del dorico stile essendo subentrato nell’arte il gusto della jonica eleganza, fu mutata la faccia anche alle colonne, dandosi loro le basi, convertendo ai capitelli la forma, riempiendo per un terzo le scanalature di stucco e di stucco spalmando anche i triglifi. Esso è assai vasto e decorato di bei marmi. Diciotto colonne d’ordine corintio gli girano all’intorno, e deducesi come esse costituissero un portico coperto in tre lati da un tetto. Nel Santuario che sorge nel mezzo e di cui si vede la base, doveva certamente trovarsi la statua della madre di Cupido. Innanzi ad esso santuario evvi l’altare pei sacrificj e sui due lati leggesi ripetuta la seguente iscrizione, che ricorda i nomi dei quattro magistrati che la fecero costruire:

M . PORCIVS . M . F . L . SEXTILIVS . L . F . CN . CORNELIVS . CN . F .
A . CORNELIVS . A . F . IIII VIR . D . D . S . F . LOCI[178]

[237]

A destra si osserva una scultura in marmo bianco, raffigurante una donna elegantemente palliata.

A sinistra su d’una colonna di marmo cipollino leggesi questa iscrizione:

L . SEPVNIVS . L . F .
SANDILIANVS
M . HERENNIVS . A . F .
EPIDIANVS
DVO . VIR . I . D .
D . S . P . F . C .[179]

Pitture dai vivi colori rappresentanti paesaggi, sontuose ville ed istorie con figure, alle quali l’artista sovrappose a corpi mingherlini teste giganti, ornavano le pareti del porticato; ma di esse se ne ha conservate taluna al Museo di Napoli, dove vennero trasportate, le altre essendo state dal tempo o assai guaste o affatto distrutte. Fra’ soggetti summentovati erano quelli di Achille che trascina il morto corpo di Ettore attaccato al suo carro, e Priamo che implora Achille, spiccati entrambi all’Iliade, ed il primo rammentato altresì dalla Eneide.

Nella sua dotta dissertazione sulla Venus physica il Brizio afferma e dimostra come detto tempio di Venere abbia avuto un’origine greca per l’osservanza [238] che vi si appalesa rigorosa di tutte le leggi dell’arte greca, e per la sua grande somiglianza coi templi di Pesto, Selinunte e Metaponto, che seguono le norme dell’antico stile dorico; e quantunque per le grandi trasformazioni a cui andò soggetto l’edifizio, non possa dirsi nulla di certo intorno alla sua epoca, ritiene innegabile che, dopo quello in vicinanza dei teatri nel Foro triangolare, sia codesto il tempio più antico di Pompei.

Non è da ultimo a passar sotto silenzio l’importante iscrizione che trovavasi in questo tempio e che fu trasferita al Museo e la quale suona così:

M . HOLCONIUS . RVFVS . D . V . I . D . TER
C . EGNATIVS . POSTVMVS . D . V . I . D . ITER
EX . D . D . IVS . LVMINVM
OPSTRVENDORVM . HS . ∞ . ∞ . ∞
REDEMERVNT . PARIETEMQVE
PRIVATVM . COL . VEN . COR
VSQVE . AD . TEGVLAS
FACIVND . COERARVNT.[180]

[239]

Questa lapide per il cenno che si dà del jus luminum opstruendorum porse occasione a diverse sentenze di dotti ed archeologi; ma il suo più probabile senso si è che l’erezione di questo muro venendo a causare ai continui edifizii privati una grande oscurità, i duumviri indicati nell’iscrizione ne indennizzavano i proprietarj, dai quali compravano quel diritto di servitù col prezzo di tremila sesterzj.

Schöne riconosce questo muro in quello all’ovest del tempio[181] e quivi doveva essersi stabilita la Colonia mandata da Silla, come ne fanno fede le mura della città per tutto questo lato abbattuto e gli edifizj costruiti sovra esse, posteriori alla colonizzazione sillana.

Nella parte postica del tempio, in fondo del santuario, a sinistra vuol essere veduta una cameretta, [240] forse destinata a’ sacerdoti della Dea, decorata di pitture. A mano manca vi è quella di un Bacco col tirso in una mano e un vaso dall’altra, e un vecchio Sileno in atto di suonare la lira: al destro lato invece è praticata una nicchia e poteva essere un larario, o tabernacolo degli Dei lari.

Tempio di Giove.

Più vasto tempio e di superba architettura è quello che non è di molto discosto da quello di Venere e che per una bella testa di Giove che vi si è trovata ed una di Esculapio e di una donna, l’ha fatto assegnare siccome consacrato al più grande degli Dei. Copriva 434 piedi quadrati, grandissima estensione se si ponga mente alla angustia degli altri tempj pagani, ed anche a quella degli altri templi in Pompei ed al costume più generale che si aveva che in essi non convenisse tutto il popolo, come è pratica nella religione cristiana, ma solo i sacerdoti e quanti pigliavan parte a’ sacrificj, od alle matrone, bastando che il popolo deponesse alla soglia le ghirlande e i doni.

Infatti se l’odierno tempio cristiano in Roma occupa 20,000 metri, il tempio più grande di Roma antica, cioè quel della Pace, ne occupava soli 6240; il Panteon ne copre 3182; quello di Giove Tonante 874; 195 quello della Fortuna Virile; e fuor di Roma, 1426 [241] il tempio maggiore di Pesto; 636 quello della Concordia ad Agrigento, e quindi vi tien dietro questo di Giove in Pompei; mentre poi la più parte de’ templi pagani, potevansi dire semplici fani, come quello di Iside in Pompei stessa e gli altri, e come quello sacro a Giove Feretrio in Roma, che, sulla fede di Plinio, non occupava in lunghezza più di quindici piedi.

A questo tempio di Giove dei Pompejani si ascendeva per un’ampia gradinata or rovinata, che tutto fa credere fosse fiancheggiata di statue colossali. Si compone di un vestibolo esastilo che risulta di sei colonne corinzie di fronte e da quattro dai lati, di una cella quadrilatera decorata di otto colonne d’ordine jonico per ciascun lato, onde questo genere di templi aventi colonne ai lati designavasi col nome di peripteri. Di palmi cinquantanove in lunghezza, e di quarantaquattro in larghezza, questa cella ha un bel pavimento in mosaico e le mura dipinte a fresco di un rosso brillante.

Scrive Vitruvio: «Ærarium, carcer, curia foro sunt conjungenda, sed ita uti magnitudo symmetriæ eorum foro respondeat[182]»: or bene tali condizioni riscontrandosi in questo edificio, ed al fondo della cella [242] essendo aperte tre camere fornicate, difese da cancelli di ferro, si argomenta che fosse questo l’erario publico, per riporvi il denaro della colonia e gli archivii.

Per una scala a mano manca di queste tre camere si monta ad un piano superiore, da cui si gode del più bel panorama.

«Le colonne composte di tufo ricoperte di stucco, scrive l’architetto G. Vinci, sono ridotte in pezzi, gli avanzi di due soldati, che non vollero abbandonare il posto, ove forse erano di guardia, giacciono in questo sito: uno di essi era stato schiacciato dall’improvvisa caduta d’una colonna: una moneta di bronzo ed una visiera si raccolsero presso di loro»[183].

Finalmente non obblierò la seguente iscrizione, che da questo tempio in cui fu raccolta or fu portata ad arricchire il Museo:

SP . TVRANNIVS . L . F . SP . N . L . PRON . FAB
PROCVLVS . GELLIANVS .
PRAIF . FAB . PRAIF . CVRATORVM . ALFEI .
TIBERIS . PRAIF . PRO . PR . I . D . IN . VRBE . LAVINI .
PATER . PATRATVS . POPVLI . LAVRENTIS . FOEDERIS
EX . LIBRIS . SIBILLINIS . PERCVTIENDI . CVM . P . R .
SACRORVM . PRINCIPIORVM . P . R . QVIRIT . NOMINISQVE
LATINI . QVAI . APVD . LAVRENTIS . COLVNTVR . FLAM . DIALIS . FLAM
MART . SALIVS . PRAISVL . AVGVR . PONT .
PRAIF . COHORT . GAITVL . TR . MIL . LEC . X .
LOC . D . D . D .[184]

[243]

Spiegai altrove che significasse il pater patratus con cui si qualifica Spurio Turannio, cioè perchè il feciale giurava a nome di tutto il popolo, pro toto populo patrabat; dirò solo una parola sul significato dei sacri principii presso i Romani. I sacri principii erano in un campo di guerra, negli alloggiamenti, e nella castramentazione romana in cui ad una delle sue vie si dava il nome di principia, e secondo si spiega dagli archeologi[185], perchè formava il principio dell’accampamento; onde Plutarco in Galba l’appellò Archea (Αρχαια) sive initia quæ Romani principia appellant. Era questo un luogo più sacro e venerabile, perchè qui dal tribuno si rendeva giustizia, qui si conservavano i vessilli e le aquile, qui sovra le are castrensi si immolavano i sacrifici e si custodivano le immagini degli Dei e dei principi, qui si prestava il giuramento e qui finalmente si reputava un gran sacrilegio commettere il benchè menomo delitto. Così Cicerone poteva uscire in quella [244] sentenza favellando de’ Principii: Spes libertatis nusquam, nisi in vestrorum castrorum principiis est[186]. Nel medio evo in Italia il Carroccio tenne luogo de’ Sacri Principi della antichità.

Tempio d’Iside.

In ragione del moltissimo culto che si aveva in Pompei la Dea Iside, il discorso mi chiama a intrattenermi ora e di essa e del suo tempio, che si presenta forse più interessante d’ogni altro.

Abbiamo veduto addietro come Roma avesse ospitato quanti numi stranieri ed accolto quanti riti fossero stati importati dalle genti vinte: pur qualche volta il Senato romano aveva dovuto interporsi per frenarne la strabocchevole inondazione non scevra da funeste conseguenze.

Il Tempio d’Iside in Pompei. Vol. I. Cap. VIII. I Templi.

Infra l’altre, la superstizione egiziana, la più spregevole ed abbietta di tutte, venne più volte bandita da Roma e dall’Italia; ma Silla, se per ispirito di devozione o per ragioni d’interesse non saprei dire, l’aveva ricondotta nel suo ritorno dall’Egitto. Nell’anno di Roma 701, a cagion d’esempio, il tempio di Iside e di Serapide fu demolito in questa città per ordine del Senato, portandovi a tale fatto la mano [245] stessa del Console[187]; ma dopo la morte di Cesare fu riedificato a spesa del publico erario, perchè lo zelo di fanatismo prevalse ai freddi e deboli sforzi della politica. Gli esiliati numi dalle sponde del sacro Nilo tornarono, si moltiplicarono i proseliti, i templi furono riedificati con maggior lustro ed Iside e Serapide ebbero alfine un posto fra le romane divinità. Quali ne fossero anzi gli entusiasmi, e quanto generali, ce lo dicano i seguenti versi di Tibullo:

Nile pater, quænam possum te dicere causa,

Aut quibus in terris occuluisse caput?

Te propter nullos tellus tua postulat imbres.

Arida nec pluvio supplicat herba Iovi.

Te canit, atque suum pubes miratur Osirim

Barbara, Memphitem piangere docta bovem.

Primus aratra manu solerti fecit Osiris,

Et teneram ferro sollecitavit humum.

Primus inexpertæ commisit semina terræ,

Pomaque non notis legit ab arboribus.

Hic docuit teneram palis adjungere vitem,

Hic viridem dura cædere falce comam.

Illi jucundos primum matura sapores,

Expressa incultis uva dedit pedibus.

Ille liquor docuit voces inflectere cantu,

Movit et ad certos nescia membra modos.

Bacchus et agricolæ magno confecta labore

Pectora tristitiæ dissoluenda dedit.

Bacchus et afflictis requiem mortalibus affert,

Crura licet dura cuspide inulta sonent.

Non tibi sunt tristes curæ, nec vultus, Osiri:

Sed chorus, et cantus, et levis aptus amor.

[246]

Sed varii flores, et frons redimita corymbis,

Fusa sed ad teneros lutea palla pedes,

Et Tyriæ vestes, et dulcis tibia cantus,

Et levis occultis conscia cista sacris.[188]

[247]

Facevasi Iside presiedere singolarmente alla Navigazione ed alla Medicina; onde si capisce perchè [248] Tibullo nella sua Elegia III del Lib. I, lamentando la malattia che lo incolse in Corcira, l’odierna Corfù, e gli aveva vietato seguir Messala, dice a Delia sua amante:

Quid tua nunc Isis mihi, Delia, quid mihi prosunt

Illa tua toties æra repulsa manu?

Quidve, pie dum sacra colis, pureque lavari

Te memini et puro secubuisse toro?

Nunc, Dea, nunc succurre mihi; nam posse mederi

Picta docet templis multa tabella tuis.[190]

Come malato e come viaggiatore per mare, Tibullo aveva più titoli alla protezione della Dea: quelli infatti che redimevansi da alcuna grave malattia, o che si erano salvati da naufragio, non mancavano di consacrare quadri votivi che si sospendevano nel tempio della Dea, di che fa cenno ne’ surriferiti versi il poeta, e fece dire a Giovenale:

. . . . Pictores quis nescit ab Iside pasci?[191]

[249]

e noi di presente facciamo del resto nè più nè meno davanti agli altari della Madonna e dei Santi nelle nostre chiese.

Proverà poi l’estensione del culto Isiaco in Roma e le ragioni del favore che vi aveva ottenuto, il lamento di Properzio per l’anniversario che ogni anno ad una determinata stagione vi si faceva delle feste di Iside, nelle quali le donne, colla scusa di un ritiro di dieci giorni e dieci notti, durante il qual tempo non ammettevano consorzio d’uomini e neppur de’ mariti, e dormivano sole nel tempio della Dea, davansi liberamente in braccio ad altri amanti.

Tristia jam redeunt iterum solemnia nobis:

Cynthia jam noctes est operata decem.

Atque utinam Nilo pereat quæ sacra tepente

Misit matronis Inachis Ausoniis.

Quæ Dea tam cupidos toties divisit amantes,

Quæcumque illa fuit, semper amara fuit.[192]

[250]

Anche Giovenale stigmatizza l’abuso di questi riti, chiamando Isiacæ lenæ (mezzane) queste sacerdotesse, o devote di Iside, che sotto il manto della religione si davano alla più sfrenata prostituzione.

Augusto stesso, nella sua dimora in Egitto aveva rispettato la maestà di Serapide, quantunque proibisse nel pomerio di Roma ed un miglio all’intorno il culto dei numi egizii. Questi per altro finchè durò il suo regno ottennero voga moltissima, non perduta pur sotto del suo successore, finchè la giustizia di Tiberio fu tratta, al dir di Tacito[194], ad usare qualche severità, dalla quale si scostarono i suoi successori ben presto, e Gibbon è dell’avviso che il sicuro e pieno stabilimento del culto di questa egizia divinità si possa attribuire alla pietà della famiglia Flavia[195].

Se tali erano state sotto la republica e sotto i Cesari in Roma le condizioni del culto isiaco, più fiorenti, nè mai turbate erano state nella bassa Italia e massime in Pompei. Esercitandovelo sacerdoti non provenienti dall’Egitto, ma romani e greci, vi avevano fatto tale un miscuglio di riti superstiziosi che poco del carattere primitivo vi ritenesse. Nondimeno a tanto fu mantenuto e spinto l’entusiasmo che le matrone pompejane spacciassero a loro spesa proprj incaricati in Egitto a pigliare l’acqua del Nilo stesso [251] per le sacre cerimonie; lo che pur facevano le romane, stando alla testimonianza di quel verso dì Giovenale:

A Meroe portabat aquas, quæ spargat in ædem

Isidis[196]

e Meroe era tra le più grandi isole del Nilo e città interessante dell’Africa,

Toccando l’argomento di questo culto, si è invogliati di indagarne le origini e il vorrei fare, molto più che alcuna idea mi sarebbe ingenerata che scostandosi dalle ipotesi più generali, le quali seguendo una interpretazione data a un passo di Erodoto, derivar vorrebbero la famiglia Egizia dalla Etiopia, avvalorando l’opinione colla testa della Sfinge delle piramidi, la quale offre i caratteri distintivi del tipo negro. Io, il carattere dell’architettura principalmente egizia raffrontando con quello del Messico e Indiano e l’analogia fra i riti e le istituzioni di un luogo e dell’altro, argomento piuttosto ad una comune sorgente nell’India; se pure, rammentando quello immenso fenomeno ricordato da Platone della graduata sparizione di quella grande Isola che fu l’Atlantide, non si possa con più ragione congetturare che i popoli che l’abitavano dovendo per necessità abbandonarla, chi da una parte volgesse e chi dall’altra, gli uni passando al Messico, gli altri a popolare le terre fecondate dall’onda [252] sacra del Nilo. La cronaca d’Eusebio appoggierebbe in certo qual modo codesta ipotesi mia, affermando che a un’epoca assai remota Etiopi venuti dall’India si sarebbero stabiliti nell’Egitto.

Ma ciò non accenno che di volo: la materia sarebbe vasta, ardua a trattarsi e superiore alle mie forze ed al tempo che mi è concesso: mi restringerò piuttosto a fornire sotto brevità alcune nozioni intorno alla teogonia egiziana.

Il politeismo egizio riducevasi a stretto rigore all’unità; tutti que’ Dei venendo considerati come altrettante emanazioni d’Amon-Ra, l’essere increato, immutabile, onnipossente, autore, conservatore ed anima della natura, costituente una trinità formata di lui stesso, di Moûth la femmina e la madre, e di Khons il figliuolo nato da essi. Questa trinità ne creava altre e la continua catena scendeva ben anco dai cieli e si materializzava sotto forme umane. Ogni regione dell’universo aveva la sua triade: quella che aveva la direzione della terra componevasi d’Osiride, d’Iside e di Horo, poi d’Horo, d’Iside e di Malouli. Il regno di quest’ultima triade aveva immediatamente preceduto la generazione degli uomini. Ella rappresentava il principio d’ordine nel mondo, mentre Tifone, fratello e nemico d’Osiride, rappresentava il principio del male.

«La leggenda egizia — scrive Clavel — raccontava che dopo aver civilizzato l’Egitto e fondata Tebe, [253] Osiride volle estendere i suoi beneficj alla terra intera, e che visitò tutti i popoli, che sotto i diversi nomi le avevano inalzato altari. Ma al suo ritorno, Naphtis sposa e sorella di Tifone, si invaghì di sua bellezza e rivestendo l’apparenza d’Iside per ingannarlo si unì a lui e diede alla luce Anubi. Tifone così oltraggiato, ne concepì un fiero risentimento, tese agguati ad Osiride, l’uccise e gettò il suo corpo nel Nilo. Iside si mise alla ricerca della spoglia del proprio sposo, e giunse a rinvenirla, meno gli organi della generazione, ch’erano stati divorati da un pesce della specie chiamata fagro. Osiride ritornò dagli inferni, ma nella persona di Horo suo figlio. Poco a poco crebbe in forza e potenza, assunse il nome di Serapide e vinse il cattivo principio, che, latente nell’universo, non cessa di sconvolgerne l’ordine e di produrre ogni sorta di mali.»[197]

Il citato Clavel spiega nella seguente forma il senso che si asconde

Sotto il velame degli versi strani

della leggenda.

«Tifone è la personificazione delle tenebre e del freddo; Horo il sole del solstizio d’inverno; Serapide il sole del solstizio d’estate: Osiride il sole dell’equinozio d’autunno, che perisce sotto i colpi del suo eterno [254] avversario. Gli organi della virilità sono il phallus, emblema della fecondità solare. Iside è la luna, sposa e sorella del Re, da cui ella riceve la influenza e ch’ella segue costantemente nella sua immensa carriera[198].» Plutarco ci porge del pari identica la chiave della astronomica allegoria, ed io d’altronde in questa mia opera, pur d’Ercole parlando, ho chiarito l’allegoria astronomica del pari che si cela sotto le famose sue gesta; sì che paja che la sapienza degli antichi sacerdoti nascondesse dei veri sotto tutti i miti, sotto tutte le leggende della pagana teogonia, nè fossero essi soltanto stranezze ed ubbie superstiziose.

Le divinità egizie ebbero per simbolo un animale qualunque, ed anzi questo emblema vivente teneva luogo quasi sempre nei templi della statua del Dio stesso e riceveva così le adorazioni de’ fedeli. Erodoto dice che gli Egizi rappresentavano Iside colle corna di bue, forse come emblema di potenza: Plutarco afferma che Mercurio posò una testa di bue su quella di Iside invece del diadema che Horo le aveva levato.

Addetta al culto di questi numi eravi tutta una casta sacerdotale, che formava la parte sapiente della nazione, [255] consacrata a studiare le scienze positive, la fisica, l’astronomia, la storia naturale, la geografia, la medicina; a coltivare la teologia, la filosofia, la divinazione, occupandosi altresì di architettura, pittura e musica, ed a raccogliere gli annali e le cronache del proprio paese e dell’altrui. Essa era investita dell’amministrazione della giustizia, della riscossione delle imposte, e della disposizione degli impieghi. Dividevasi in profeti, in comasti e zaconi: i primi eran d’ordine superiore e vivevano assai sobrii e puri. Il desiderio di conservarsi in uno stato della più rigorosa purezza, aveva introdotto in mezzo ad essi il costume della circoncisione, e gli aveva impegnati a vestire stoffe di lino candidissime, in memoria altresì ch’Iside fosse stata, come afferma Ovidio, l’introduttrice del lino; onde così vennero designati da Marziale in un epigramma:

Linigeri, fugiunt calvi, sistrataque turba,

Inter adorantes cum stetit Hermogenes[199].

[256]

Malgrado questo, io credo giustificare la qualifica di spregevole e abbietta superstizione, che ho dato testè alla egiziana, oltre che coll’autorità di Properzio, già riferita, e colle orgie cui eran pretesto i riti isiaci, ch’eran pur quelli detti eleusini in Grecia, e che di là in Roma aveva Claudio derivati[200], pure col seguente passo di Erodoto.

«Anche i sepolcri di lui, del quale in tale occasione mi saria sacrilegio confessare il nome, sono in Sais, nel sacrario di Minerva, dopo il tempio, contigui a tutta la parete di Minerva e nel sacro terreno, stanno grandi obelischi di pietra e v’ha dappertutto un lago col bacino incrostato di pietre e ben lavorato in giro, di grandezza, come parevami, quanto il lago, chiamato in Delo in forma di ruota. In quel lago fanno di notte la rappresentazione delle passioni di lui, e gli Egizii le chiamano misterii; ma intorno ad essi, quantunque mi sappia assai ogni particolarità, sarà non pertanto bello il tacere»[201]. Si han poche nozioni sui misteri di Serapide e Osiride, dice Clavel; si sa solamente che negli ultimi, si commemorava con un cerimoniale emblematico il fine tragico d’Osiride, proditoriamente messo a morte da Tifone.

[257]

Per chi sa che in Egitto i misteri d’Iside, la generatrice di tutte le cose, fossero sempre casti e irreprensibili, perocchè soltanto sotto allegorie rappresentassero la creazione del mondo e degli esseri, il destino dell’uomo, l’investigazione della sapienza e la vita futura delle anime, non potrà rendersi ragione del severo giudizio che di tal culto i dominatori di Roma portassero così da proscriverlo sì spesso: ma ogni sua maraviglia cede ove si pensi come in Roma il culto vi giungesse travestito all’asiatica, molto diverso però dalla egizia ed anche dall’origine italica[202].

«Presso i Romani, scrive Pietro Dufour nella sua Storia della Prostituzione[203], come in Asia, tali misteri erano meri pretesti ed occasioni di disordine d’ogni sorta; la prostituzione singolarmente v’occupava il primo posto. Ecco perchè il tempio in Roma fosse distrutto e riedificato per ben dieci volte; ecco perchè il Senato alla fine non tollerasse le isiache, che per la protezione interessata, accordata loro da cittadini ricchi e possenti; ecco perchè non ostante la prodigiosa diffusione del culto d’Iside sotto gli imperatori, gli onesti s’allontanassero con orrore, e nulla più disprezzassero quanto un sacerdote d’Iside. Apulejo, nel suo Asino d’Oro, ci fa una ben mite descrizione [258] di tali misteri, a cui s’era iniziato e non permettevasi di svelarne i riti segreti; descrive la processione solenne, in cui un sacerdote porta nelle sue braccia la venerabile effigie della Dea onnipotente, effigie che nulla ha dell’uccello, nè del quadrupede nostrale o selvaggio e più non somiglia all’uomo, ma nella stranezza sua medesima venerabile, e che ingegnosamente caratterizza il misticismo profondo e l’inviolabil segreto di cui si cinge codesta augusta religione. Davanti l’effigie, che non era che un phallus d’oro, cioè l’emblema dell’amore e della fecondità, andava una folla di gente iniziata d’ogni sesso, età e condizione vestita di lini bianchissimi; le donne cingevano di veli trasparenti i capelli pregni d’essenze, gli uomini, rasi sino alla radice de’ capelli, agitavano sistri metallici. Ma Apulejo serba prudente il silenzio su quanto si faceva nel santuario del tempio, ove compivasi l’iniziazione a suon di sistri e piccole campane. Gli scrittori antichi tacquero tutti intorno al soggetto delle misteriose iniziazioni, che dovevano essere sinonimo di prostituzione. Gli imperatori stessi non arrossirono di farsi iniziare e di prendere per ciò la maschera a testa di cane in onore di Anubi figliuolo di Iside.»

Era quindi questa Dea, ben più di Venere, la regina della prostituzione sacra a Roma e in tutto il romano impero ed aveva semplici cappelle dappertutto, al momento della maggior depravazione [259] dei costumi. Il tempio principale era nel campo di Marte; le adiacenze, i giardini, i sotterranei d’iniziazione dovevano essere bene ampii, ascendendo a più migliaja d’uomini e donne gli iniziati che accorrevano a processione nelle feste isiache.

Di più nel recinto sacro eravi commercio continuo di dissolutezza, al quale i sacerdoti d’Iside, lordi di ogni vizio e capaci di ogni delitto, prestavano volentieri l’opera loro. Formavano essi un ben numeroso collegio, che viveva in una oscena famigliarità; lasciavansi andare a’ traviamenti tutti de’ sensi, nella sfrenatezza delle passioni, ubbriachi sempre e ripieni di cibo, giravano le vie della città vestiti dei loro lini macchiati e sudici, colla maschera da muso di cane sulla faccia, ed in mano il sistro, scrollando il quale chiedevano l’elemosina, battevano alle porte e minacciavano la collera d’Iside a chi si rifiutava di farla. Essi esercitavano nello stesso tempo l’infame mestiere di lenoni, incaricavansi, concorrendo colle vecchie meretrici, di tutti i negozj amorosi, delle corrispondenze, degli erotici convegni, dei traffici e delle seduzioni. Il tempio e i giardini erano asilo ai protetti amanti e agli adulteri da lor travestiti con abiti e veli di lino. I mariti ed i gelosi non penetravano impunemente in quei luoghi consacrati al piacere, ove non si vedevano che coppie amorose, ove non si ascoltavano che sospiri coperti dai suoni dei sistri. Giovenale — come gli altri poeti che già citai — parla [260] in più luoghi nelle sue Satire delle pratiche dei santuarj d’Iside. Rammento questi versi della Satira IX a Nevolo Cinedo:

Nuper enim, ut repeto, fanum Isidis et Ganymedem

Pacis, et advectæ secreta palatia matris,

Et Cererem (nam quo non prostat femina templo?)

Notior Aufidio mœchus et celebrare solebas[204].

Il tipo di Arbace nel bel romanzo di Bulwer è l’espressione fedele della dottrina e della brutale passione ad un tempo del sacerdote di Iside: quello di Caleno del sacerdote lenone, scellerato e schifoso. Apecide, il severo fratello di Jone, aveva avuto ben d’onde d’essersi presto stomacato di quelle sacerdotali nefandità.

Era stato in Pompei questo culto introdotto dagli Alessandrini, che pei loro commerci avevano assai frequenti occasioni di venirvi; e però molti di que’ del paese eransi presto a’ misteri Isiaci iniziati, questi essendo in venerazione di tutti. Più tardi s’era infiltrata indubbiamente anche in Pompei la corruzione isiaca, greca e romana. Se non temessi dilungarmi di troppo e non avessi presente l’economia dell’opera, riferirei i riti dell’iniziazione, diversi assai nell’origine [261] loro egizia dalla degenerazione europea, e l’importanza che vi si assegnava; ma essi inoltre avevan luogo, nel solo Egitto, e non riguardavano d’altronde i misteri minori che celebravansi, ne’ templi altrove.

Mi restringerò dunque alla descrizione materiale del tempio d’Iside pompeiano.

Sul frontispizio della porta di questo tempio in una tavola di marmo si leggeva un’iscrizione che importa riferire per racchiudere essa dati storici di non dubbio interesse:

N . POPIDIVS . D . F . CELSINVS
ÆDEM . ISIDIS . TERRÆ . MOTV . CONLAPSAM
A . FVNDAMENTO . P . S . RESTITVIT . HVNC
DECVRIONES . OB . LIBERALITATEM
CVM . ESSET . ANNORVM . SEXS . ORDINI . SVO
GRATIS . ADLEGERVNT[205].

Poco monta a noi di risollevare la questione agitatasi calorosamente tra i dotti sulla interpretazione di quell’abbreviatura sex, parendomi d’accettare quella che mostrasi più razionale, cioè, di sexsaginta, non sex, perocchè basti l’avvertire quel che Cicerone ebbe a dire essere, cioè, più difficile venir nominato decurione in Pompei che senatore in Roma, per respingere senz’altra discussione l’assurda pretesa di coloro che avrebbero voluto leggere in questa iscrizione l’aggiunzione gratuita di Numerio Popidio Celsino [262] all’ordine dei decurioni nell’età di anni sei, non già in quella d’anni sessanta. Come avrebbe l’infante di sei anni potuto disporre di tanta liberalità, s’anco si volesse supporre che la massima delle dignità si fosse voluto conferire ad un fanciullo?

Piuttosto noterò e in questa e nelle altre iscrizioni che pur riferirò nella descrizione di questo tempio, come la famiglia Popidia fosse tutta benemerita del culto isiaco che si osservava in Pompei.

All’ingresso del tempio stava una cassetta per ricevere le offerte in denaro e due fonti lustrali, che si appellavano aquiminaria, su d’una delle quali l’iscrizione: Longinus Duumvir.

Esso appartiene al novero di que’ templi che si dicono ipetri, parola greca che significa scoperto, ed è assai piccolo, per la ragione che ho già superiormente addotta, della costumanza cioè che il popolo non vi fosse ammesso, deponendo egli le sue offerte sul sacro limitare. Molto più il culto d’Iside aveva bisogno d’essere circondato da misticismo e segreto, per meglio accreditarne i misteri. Infatti sotto il podio su cui posava il simulacro della Dea, ancor di presente si vede una fornice od angusta cameretta cui si accede per una dissimulata scaletta, dalla quale non visti i sacerdoti dalla vuota statua emettevano responsi, accreditandone autrice la Dea: esempio strettamente imitato da certi cattivi ministri dell’altare fino a’ nostri giorni nel far muovere gli occhi o nel farli piangere di madonne e di crocifissi.

[263]

Lungo i lati esterni del tempio corrono otto colonne di stucco per ogni parte e sei si accampano di fronte e sono d’ordine dorico, senza base e dell’altezza di nove piedi e mezzo. L’edificio di materia laterizia è per altro ricoperto di un intonaco assai duro.

Il santuario, o cella, come si soleva denominare, che non è che un tempietto quadrato nel fondo dell’edificio, aveva due nicchie per parte, mentre nel prospetto sorgevano due are fiancheggiate da due podii, su cui si rinvennero due tavole isiache, di cui una affatto intera con caratteri geroglifici, come sogliono osservarsi nel rovescio delle statuette d’Iside e de’ Pastofori nei musei, giusta l’osservazione che ne fa il Romanelli.

Due are erano ai lati, una per ardervi le vittime, l’altra per accogliervi le ceneri, che allo scoprirsi del tempio vennero ancora vedute. Altre are minori appoggiate alle colonne servivano per ardervi timiami ed incensi di continuo per aggiungere reverenza al luogo.

Presso all’ara sinistra vedesi un’altra cameretta con sotterranea scala e deve essere stata destinata alle lustrazioni, o purificazioni volute dal rito, a cagione del lavacro che nel fondo si osserva. Bassorilievi di stucco ne decorano le pareti e in una nicchia è dipinto un Arpocrate che, il dito sulla bocca, intima silenzio. Una statua d’Iside in terra cotta ed una [264] d’Anubi colla testa canina, ch’eran pur qui, andarono ad arricchire in un colle altre immense preziosità scoperte il Museo Nazionale. Quella d’Iside dorata aveva nel suo piedistallo questa iscrizione:

L . CÆCILIVS
PHOEBVS . POSVIT
L . D . D .[206]

Diversi oggetti di non dubbio interesse ed attinenti il culto si rinvennero del pari, come lettisterni di bronzo, su cui era inteso si assidessero le divinità in certe feste; lampade, lucerne, pàtere, lebeti, turiboli, accerre, prefericoli, simpuli, mallei, secespiti, cultri, litui, crotali, aspergilli[207], utensili tutti religiosi, aghi augurali [265] per iscrutare entro le viscere delle vittime, e sistri, istrumenti, questi ultimi specialmente in uso nelle cerimonie isiache, come anche nel dipinto della Dea in questo tempio trovato su d’una parete, si vede stringere un sistro nella destra, e del quale perchè caratteristico di questo culto, e perchè spesso si riscontri accennato nelle poesie e negli scritti antichi, convien che ne dica qualche parola.

[266]

Già vedemmo, citando Tibullo, come il poeta ricordasse la sua Delia agitare e rintronar l’aria de’ sistri in onore di Iside, e questo istrumento di argento o di bronzo che certo non poteva rendere alcuna armonia, ma solo un suono acuto che congiunto alla grossolana tibia, appellata chnoue nell’Egitto, ed al muggito del bove Api, produceva quell’orribil frastuono che Claudiano espresse in questi versi imitativi:

Nilotica sistris

Ripa sonat phariosque modos Ægyptia ducit

Tibia, submissis admugit cornibus Apis[208].

Nè vanno obbliate la statua di Venere Anadiomene in marmo, qui del pari trovata posata su d’un pilastro, avente le braccia, il collo e l’ombelico dorato, e quelle di Bacco e di Priapo in marmo greco; non inutile osservazione codesta, perocchè tenga a provare come il tempio sacro ad una divinità non escludesse i simulacri di altre. Sul plinto della statua di Bacco, che era lo stesso che presso gli Egizi Osiride, si legge questa iscrizione:

[267]

N . POPIDIVS . AMPLIATVS
PATER . P . S[209].

Passando alla sala de’ Misteri, voglionsi riguardare alcune pitture, ma più ancora l’iscrizione nel pavimento di mosaico che così suona:

N . POPIDI . CELSINI
N . POPIDI . AMPLIATI
CORNELIA . CELSA[210].

Pur nel recinto del tempio sono due camerette per l’abitazione de’ sacerdoti, poi una cucina, nella quale si riconobbero squamme di pesci ed ossa di prosciutto, e contiguo un luogo per l’acquajo. In una delle camere si scoprì lo scheletro d’un sacerdote con una scure in mano, altri in altre località si rinvennero del tempio, ed all’ingresso dalla parte del teatro un altro ancora, e siccome a lui presso si raccolsero 360 monete d’argento, sei d’oro, quarantadue di bronzo, barattoli d’argento, figurette d’Iside, cucchiaj, fermagli, pàtere, tazze d’argento, un cammeo rappresentante un satiro col tamburello, un anello con pietre ed orecchini, fu supposto con certa ragione potesse essere lo scheletro d’un sacerdote colto da morte nel punto in cui fuggiva per porre in salvo il tesoro della Dea. Il Bulwer riconobbe in questi scheletri [268] i due sacerdoti d’Iside del suo romanzo, Arbace e Caleno; era l’interpretazione opportuna che il poeta faceva delle passioni svolte nell’opera sua di questi due personaggi.

Dietro il santuario evvi un altro locale, al quale si giunge traversando diverse arcate. Gli venne dato il nome di Curia Isiaca. È un edificio di genere osco, al pari della denominazione che vi si trovò e che fu letta da Jannelli per Cereiiai Pumpaiianai, cioè Curia Pompejana, o secondo l’iscrizione in questo dialetto che vi si è pure scoperta e che, letta, si chiamava trebus.

Anche qui si ritrovarono all’epoca di sua scoperta, cioè dal 1764 al 1766, due sistri, due lettisternii, uno di bronzo con fregi d’argento, l’altro d’avorio in frantumi, un candelabro di bronzo in forma di loto, pianta acquatica dell’Egitto (bot. nymphea), due pregevoli idoli egiziani di basalto, che sostengono colle due mani in testa una gran patera, erme e teste di numi.

Dal tutt’assieme si evince che in somma venerazione fosse Iside presso i Pompejani. Le allegazioni che son venuto recando di poeti e scrittori del tempo, provano che non diversamente fosse adorata nel restante del mondo romano, malgrado le leggi assai spesso, come dissi, contro il suo culto bandite.

Se Voltaire non ha celiato, egli sforzossi di provare come gli odierni Zingari siano un avanzo degli [269] antichi sacerdoti e sacerdotesse d’Iside, misti con quelle della Dea di Siria. Ai tempi d’Apulejo quei sacri impostori avevano già perduto il credito e, spregiati dai poveri, vagavano di luogo in luogo vendendo predizioni e curando malati. Lo stesso Voltaire osserva argutamente a tale proposito che Apulejo non dimenticò l’abilità loro propria di rubare nei cortili. «Tale, conchiude, fu la fine dell’antico culto d’Iside ed Osiride, i cui nomi ancora ci inspirano rispetto.»

Tempio d’Esculapio o di Giove e di Giunone.

Un altro tempio è nella strada di Stabia, stato scoperto dal 1766 al 1768, nel lato destro; e per una statua figulina rappresentante Esculapio, il Dio preposto all’arte medica, venne dai più ritenuto per sacro a quella divinità e nelle Guide è così designato, e sotto questo titolo l’ha pur descritto Dyer nella sua Pompeii (pag. 138). Gau, continuatore di Mazois, invece lo pensò dedicato a Nettuno: a questo Dio marino credendo attribuire una testa barbuta e di gran carattere vedutavi su di un capitello, e del resto si sappia da medaglie, bassorilievi e statue in altri luoghi trovati, non che dagli scritti d’uomini dottissimi, che anche Esculapio venisse rappresentato con gran barba. Altri, scrive Galanti, lo pretende tempio di Priapo, pur senza che ragion di sorta ne venga addotta[211].

[270]

Ma scostandosi da tutti questi chiari scrittori, Ernesto Breton nella sua Pompeja (pag. 53) lo proclama sacro a Giove e Giunone, rifiutando così l’opinione di altri che l’assegnavano a Minerva o alle tre divinità del Campidoglio.

«Deux statues, scrive egli, médiocres en terre cuite, trouvées dans ces ruines et placées aujourd’hui au Musée, représentent, dit-on, Jupiter et Junon; mais elles ont été prises aussi pour Esculape et Hygie, et de là sont nées des nouvelles conjectures qui ont étés émises par Winkelmann dans le premier volume de l’Histoire de l’Art. D’un autre côté, comme on y a trouvé aussi un buste de Minerve, Overbeck a cru pouvoir supposer que le temple était dédié aux trois divinités du Capitole. Aucune de ces suppositions ne nous paraît suffisamment justifiée; cependant nous avons cru devoir donner à cet édifice le nom que lui assignent les plans et les ouvrages les plus récentes, tout en reconnaissant que des nombreux ex-voto, pieds, mains, etc. en terre cuite, aient pu fournir un argument puissant en faveur de la dédicace du temple aux divinités de la médicine.»

Gli intenti dell’opera mia non sono, e l’ho già detto, di misurarmi in polemiche co’ dotti che dichiararono le preziose antichità di Pompei; nondimeno se m’è lecito esprimere un dubbio sull’assegnazione che si dice fatta di questo tempio a Giove e Giunone, le due [271] maggiori divinità dell’Olimpo pagano, io l’appoggerei alla circostanza che un tal tempio sia il più piccolo di tutti gli altri pompejani, non misurando che 21 metri in lunghezza e sette in larghezza, e che forse a quelle maggiori divinità sarebbesi eretto più grande e dicevole delubro. D’altronde, poichè in Pompei abbiam trovato un altro tempio, anzi il più grande di tutti i templi di Pompei e tale da annoverarsi fra i più vasti anche d’altrove, dedicato al Tonante, perchè in città non amplissima sarebbesi alla medesima divinità un secondo tempio consacrato?

Non entrerò pure in disquisizioni mitologiche, trattando di parecchi Esculapii esistiti; ma mi giova per altro combattere qui l’opinione di coloro che vorrebbero questo nume proveniente d’altra regione che dalla Fenicia. Sanconiatone, venerando scrittore dell’antichità, afferma questa sentenza ch’io reco, e dichiarandolo figlio di Sydic e di una delle Titanidi, lo presenta qual fratello dei Cabiri o grandi dei, come significa il loro nome orientale, anzi il più distinto di tutti sotto il nome di Esmuno.

Secondo lo stesso Sanconiatone, la Titanide madre d’Esculapio era Astarte bellissima Dea; secondo Ovidio, nei Fasti, è Arsinoe; comunque sia, Esculapio essendo fra gli Dei Cabiri, mi persuade ognor più che i Pompejani gli avessero dedicato un tempio, perchè provenienti essi da’ Pelasgi, od anche da’ Greci, i Dioscuri o Cabiri, [272] che ho già detto altrove essere una cosa sola[212], vi erano in grande venerazione. Or come conciliare cosifatta somma venerazione col non avere essi in Pompei alcun tempio, se questo di cui tratto non era sacro ad Esculapio?

Un’altra ragione io deduco dall’aver veduto in sommo onore in Pompei il culto d’Iside. Venuto questo, come superiormente dissi, dall’Egitto, poteva essere stato parimenti recato quello d’Esculapio dall’Egitto, ove i Fenicj il portarono e dove ottenne d’essere adorato, forse più che presso ogni altro popolo, perchè, secondo l’autorità di Ammiano Marcellino, gli Egizj vantavansi che questo Dio più d’ogni altro popolo li onorasse di sua presenza[213].

Narra la favola come Esculapio inventasse un gran numero di salutari rimedj, unisse la chirurgia alla medicina, e accompagnando Ercole e Giasone nella spedizione della Colchide, prestasse grandi servigi agli Argonauti. E aggiunge che non contento di risanare i malati, risuscitasse anche i morti; onde Plutone l’avesse a citare davanti al tribunale di Giove, lagnandosi che l’impero dei morti si fosse notabilmente diminuito e corresse rischio per lui di rimanere interamente deserto; di modo che Giove irritato avesse [273] con un colpo di fulmine a uccidere Esculapio, il quale vendicato poi da Apollo, ottenesse quindi gli onori divini[214]. Questo ammesso, si capisce perchè i medici lo eleggessero a propria divinità tutelare.

Certo è che Pausania e Diodoro Siculo ne fan sapere come gli ammalati traessero in folla ne’ templi di questo Dio, ond’essere dalle loro infermità risanati; d’ordinario vi passassero la notte e allorquando avevano ricevuto qualche sollievo o guarigione, vi lasciassero delle immagini rappresentanti le parti del loro corpo che erano state guarite.

È questa allora altra particolarità che vale d’argomento non lieve a ritenere questo piccolo tempio pompejano sacro ad Esculapio, appunto per i numerosi ex voto, piedi e mani ecc. che Bréton conferma esservisi rinvenuti.

Se non che, dopo tutto, con maggior probabilità potrebbe questo delubro essere stato ad un tempo stesso sacro ad Esculapio e a Giove e Giunone, da che si ponga mente che in uno stesso giorno si celebrava a queste tre divinità ed a Giano dai Romani la festa. Nel Kalendarium, che dicesi d’Ovidio, il quale venne stampato in capo a molte edizioni delle opere di tal poeta e riprodotto pur da Heinzius nella nitidissima edizione di esse fatta nel secolo scorso a Parigi da J. [274] Barbou e ch’io pure posseggo, Kalendarium che ha molta attinenza coi Fasti dell’illustre Poeta, m’accadde appunto di constatare tale particolarità consegnata nel primo di gennajo sotto questa precisa rubrica: A. Kal. Januari; Jani festum, Junonis, Jovis et Æsculapii. Così potrebbe essere allora ogni differenza conciliata, collo ammettere, cioè, che sacro fosse il tempio in questione a tutte e tre queste divinità.

Tale delubro era ipetro, per dirla con termine greco, o subdiale con parola latina, vale a dire scoperto, e le mura già rivestite di stucco, ora sono affatto scrostate. Si ascende al santuario per nove gradini; doveva avere colonne, scomparse affatto, e nel centro dell’area sta una grand’ara di tufo ornata di triglifi dorici, di buon gusto, e che taluni paragonano al celebre sarcofago trovato a Roma ne’ sepolcri degli Scipioni, conservato ora nel museo del Vaticano. Il santuario poi aveva il pavimento di mosaico e le pareti erano tutte quante istoriate di pitture, di cui appena è rimasta qualche traccia.

Tempio di Mercurio.

Come per gli altri templi pompeiani, così anche per questo piccolo tempio, che dal suo principio, cioè dalla scoperta fattane nel 1817, ebbe dalla Direzione degli Scavi la designazione di Mercurio, per una statuetta che di questo Dio fu tosto rinvenuta, [275] si affaticarono gli archeologi a supporvi altra destinazione. Il prof. Garrucci[215] lo volle consacrato ad Augusto, senza per altro ristare davanti all’esistenza in Pompei d’un altro tempio sacro allo stesso divinizzato imperatore, pur da lui riconosciuto nel Panteon di cui fra poco avrò a dire. Altri poi il pretesero sacro a Quirino.

Questi ultimi almeno si fecero forti nella opinione loro della iscrizione tutta guasta rinvenuta su d’un piedistallo in vicinanza delle porte del tempio e che il celebre storico ed archeologo tedesco Mommsen, tanto benemerito de’ nostri patrii studj, ha creduto di potere ristabilire e leggere in questo modo[216].

ROMVLVS MARTIS
FILIVS VRBEM ROMam
CondidIT ET REGNAVIT ANNOS
Duo de quADRAGINTA ISQVE
Primus dux DVCE HOSTIVM
Acrone rege CAENINENSIVM
interfECTO SPOLIA opima
Iovi FERETRIO CONSECRavit
RECEPTVSQVE IN DEORUM
NVMERVM QVIRINVS APELLATVS EST[217].

[276]

Se non che non può essere questa una perentoria ragione che prodursi voglia ad accogliere siffatta opinione, da che elevandosi questo tempio nel mezzo del lato orientale del Foro, dal quale non è separato che da un angusto vestibolo, il piedistallo e la statua di Romolo che vi sarà stata sopra, potessero servire di decorazione al Foro stesso, senza quindi aver relazione alcuna col prossimo tempio. «D’altronde, osserva opportunamente Dyer, siccome un’altra iscrizione simile relativa ad Enea, si trovava al lato opposto, è evidente ch’esse hanno appartenuto a due statue di questi personaggi. Del resto non è una iscrizione di questa specie che sarebbe stata collocata sotto la statua d’una divinità»[218].

Quando invece si rifletta che Pompei era, come feci notare in addietro più volte, navale di molto momento, ossia porto marittimo importante e commerciale, doveva esser più che giusto che i Pompeiani avessero in onore e in venerazione il Dio de’ commercianti e de’ naviganti, oltre a tutti gli altri attributi che la superstizione pagana gli concedeva e che Ferrante Guisoni compendiò in questi versi:

Quasi in cotal maniera Erme celeste

Guida a’ nocchier, ritrovator dell’arti,

Scala al sommo Fattore, e delle Muse

Amico ed oratore e cortigiano,

Accorto trafficante e ne’ cammini

Dubbj scorta fedele....

[277]

«Il culto di questo Dio, dice il Dizionario della Mitologia di tutti i popoli, era specialmente adottato ne’ luoghi di gran commercio.» Vitruvio poi nel passo che già m’avvenne di citare nel principio di questo capitolo, dicendo che il tempio a Mercurio debba essere nel Foro, porge argomento maggiore a ritenere il tempio di che parlo per veramente sacro a Mercurio, molto più poi che il Foro pompejano fosse in vicinanza alla marina e quindi più proprio a’ nocchieri e naviganti, che l’invocavano propizio a’ loro viaggi e negozj.

Tra l’edificio detto d’Eumachia e la Curia sorge codesto tempio. Il suo vestibolo è coperto e il suo tetto era sorretto da quattro colonne d’ordine corintio, da quanto almeno s’argomenta da’ loro capitelli, esse più non esistendo. Il muro di cinta del peribolo era decorato di modanature; e da ciò che le muraglie non furono mai rivestite di stucco, nè l’altare era stato terminato, Dyer suppone che i Pompejani fossero stati sorpresi dalla eruzione del Vesuvio nel tempo in cui ricostruivano il tempio distrutto dal tremuoto nell’anno di Cristo 63[219]; quantunque, s’egli avesse ben ripensato, avrebbe veduto in qualche punto frammenti di marmo aderenti alle pareti, che lascian a ragione sospettare che tutte le mura dovessero invece essere rivestite di lastre di marmo.

[278]

Alla cella, o santuario, si ascende per due scale laterali: nel centro del recinto, o area, vedesi un’ara di marmo bianco, ornata di un bassorilievo che appare incompiuto e rappresenta un sacrificio. Taluno ha creduto di ravvisare la testa di Cicerone in quella del sacerdote sagrificatore.

A destra dell’angusto santuario, che non misura, a dir di Bréton, più architetto, a vero dire, che archeologo nell’opera sua, quattro metri di larghezza su tre e cinquanta di profondità, e a basso del podium, scopresi l’ingresso a tre sale, già abitazione de’ ministri del tempio.

Ora questo tempio si fa servire a ripostiglio di frammenti di scultura o d’altri oggetti che si vengono scoprendo negli scavi, finchè non si credano meritevoli di migliore conservazione nel Museo Nazionale di Napoli; e però il suo ingresso è chiuso da un cancello di ferro.

Tempio della Fortuna.

Capricciosa dispensiera de’ beni come de’ mali, de’ piaceri come de’ dolori, della ricchezza come della povertà, non era possibile che la Fortuna, che il Guidi felicemente dipinge

Una donna superba al par di Giuno

Colle treccie dorate all’aura sparse

E co’ begli occhi di cerulea luce[220],

[279] e che si dice, per la bocca dello stesso poeta

Figlia di Giove, e che germana al Fato

Sovra il trono immortale

A lui mi siedo a lato,

non si avesse in Pompei il proprio delubro. Sia che vogliasi aver serbato sempre questa città le tradizioni della Grecia, dalla quale se ne ripetono da molti le origini, sia che vogliasi invece aver essa adottate consuetudini e vita romane, questa Dea essendo sì in Grecia che in Roma venerata, aveva il di lei tempio tutta la ragion d’essere anche in Pompei.

Il nominarsi Tyche in Grecia, fu causa che diversi scrittori opinassero fosse una tale divinità sconosciuta alla più remota antichità greca, non trovandosene menzione in Omero ed in Esiodo. Ma sotto il nome di Tyche è memorata da Omero nel suo Inno a Cerere, che la fa, diversamente da altri, figliuola all’Oceano, e da Pindaro. Le greche derivazioni ed attinenze in Pompei sarebbero così ancora una volta attestate da questo nome greco che vi ritroviamo portato da persone, come oggidì portasi tra noi il nome di Fortunato e Fortunata. Già ho ricordato nel quarto Capitolo di questo libro la funebre iscrizione scolpita sulla tomba di Nevoleja Tyche, e di un’altra Tyche avverrà pur ch’io parli nel Capitolo delle Tombe.

Il tempio pompejano sacro alla Fortuna era piccolo, ma vi si ascendeva per una bella gradinata di marmo [280] bianco, dietro la quale si ergevano quattro colonne di cui per altro non si trovarono che i capitelli. Questo tempio fu scoperto, secondo Bonucci, nel 1827; secondo Bréton nel 1823. Una iscrizione già collocata sull’architrave del santuario ci apprende a chi fossero i cittadini debitori di quell’edificio:

M . TVLLIVS M . F . D . V . I . TER . QVINQ . AVGVR . TR . MIL .
A . POP . ÆDEM . FORTVNÆ . AVGVSTI . SOLO . ET . PEC . SVA[221].

Per coloro che potessero supporre, a cagion di questi nomi e d’una delle belle statue rinvenute a fianco al santuario colla pretesta tinta in violetto, — attribuita all’Oratore Romano, poichè l’altra è di donna ed aveva le fimbrie della tonaca dorate e quelle della stola di porpora, — che questa iscrizione accenni a M. T. Cicerone, osserva ragionevolmente Overbek, che l’epiteto di Augusta assegnato alla Fortuna indica un’epoca posteriore alla fondazione dell’Impero; sì che il fondatore del tempio, quando lo si voglia ritenere della famiglia di Cicerone, ne dovrebbe essere un discendente[222].

Su d’un’altra pietra infissa nel terreno si ricordava ancora il nome del fondatore del tempio:

[281]

M . TULLII . M . F . AREA . PRIVATA[223]

Un’ara, o tronco, per le offerte publiche sorgeva in mezzo alla gradinata.

Entrati nel tempietto per la porta aperta fra le due colonne medie del pronao, nel fondo della cella, che era coperta e rivestita di preziosi marmi, rimpetto all’ingresso è una gran nicchia ovale; due sono ai lati quadrate, forse destinate alle statue della famiglia del fondatore: un’edicola sorge nel mezzo, composta di un basamento con due piedistalli sporgenti, su cui posano due colonne corintie che ne sostengono il frontispizio e dentro di essa posta l’immagine della Fortuna.

Un plinto di bianco marmo doveva certo servire a qualche cosa di sacro; esso reca la seguente iscrizione:

VETTI . AGATHEMERVS
SVAVIS . CÆSLÆ . PRIME
POTHVS . NVMITORI
ANTEROS . LACVTVLANI
MINIST . PRIM . FORTVNÆ . AVG . IVSS .
M . STAI . RVFI . GN . MELISSÆI . D . V . I . D .
P . SILIO . L . VOLVSIO . SATVRN . COS .[224].

Dalla quale iscrizione due nozioni apprendiamo: la prima, nella qualifica di ministri primi, che ci [282] richiama alla divisione de’ sacerdoti de’ templi in tre classi: antistites, sacerdotes, ministri; la seconda che il servizio di questo tempio essendo confidato a’ ministri, dell’ordine, cioè, inferiore del sacerdozio, ministri potessero essere anche gente non libera, perchè Agatemero indicato senza la polita indicazione di F. (Filius) o di L. (Libertus), succeduto dal genitivo del nome Vetti significava appunto schiavo di Vezio, come Soave di Cesia Prima, Poto di Numitore e Antero di Lacutulanio.

In un altro plinto di marmo, esistente nel santuario stesso, si lesse quest’altra iscrizione:

TAVRO . STATILIO
TI . PLATILIO . ÆLIAN . COS
L . STATIVS . FAVSTVS . PRO
SIGNO . QVOD . A . LEGE . FORTVNÆ
AVGVSTÆ . MINISTORVM . PONERE
DEBEBAT . REFERENTE . Q . POMPEIO . AMETHYSIO
QVÆSTORE . BASIS . DVAS . MARMORIAS . DECREVERVNT
PRO . SIGNO . PONIRET .[225]

Finalmente non lascerò di tener conto d’altro frammento di iscrizione, che conserva queste parole:

. . . . STO CÆSARI
PARENTI . PATRIÆ

[283]

La quale essendo stata letta Augusto Cæsari Parenti Patriæ, congiuntamente agli altri aggiuntivi dati nelle altre iscrizioni alla Fortuna, oltre il determinare che l’epoca della erezione del delubro è posteriore, come già si notò, ad Augusto, chiarisce che a questo Cesare il delubro stesso era indubbiamente dedicato.

Tempio d’Augusto.

Contuttociò in Pompei v’era uno speciale tempio conservato a questo Cesare divinizzato dalla adulazione romana e più ancora dalla tirannide di Tiberio, ed esso venne rimesso alla luce interamente dal 1821 al 1822.

Al momento della sua scoperta venne denominato Panteon, qual tempio sacro a tutti gli Dei Maggiori, perocchè in tale supposizione si indusse per il ritrovamento di dodici piedistalli, che si reputò avessero dovuto servire a sostenerne le statue. Bonucci affermò ch’esso si potrebbe chiamare la galleria delle feste pompejane e giudicò dedotto il suo piano da quello del tempio di Serapide in Pozzuoli. Per siffatta somiglianza da taluni si pensò che pur a questa divinità fosse dedicato; ma con migliori ragioni lo stesso Bonucci fissò la denominazione in quella di Tempio d’Augusto. «Vitruvio, scrive egli, che colloca questo nel Forum, e le innumerevoli iscrizioni trovate a Pompei che fanno menzione dei sacerdoti d’Augusto [284] (gli Augustali), sembrano confermare la nostra opinione. Questi ultimi erano stati eletti da due magistrati ai quali era confidato l’incarico di procurare col mezzo dei voti publici l’esecuzione delle solennità consacrate ad Augusto. E tutti i segni del banchetto sacro (epulum), e della distribuzione delle viscere al popolo (visceratio), non altrimenti che le immagini dei Ministri sì spesso ripetute in questo tempio, non vogliono essi forse indicarci la storia di ciò che queste iscrizioni ci spiegano brevemente?».

Si sa da Tacito che i Sodales Augustales erano sacerdoti che sagrificavano ad Augusto. Istituiti da Tiberio per soprantendere agli onori divini prestati ad Augusto ed alla famiglia Giulia, erano in numero di ventuno e venivano trascelti fra le principali famiglie romane[226]. Vogliono quindi essere distinti i Sodales Augustales dai semplici Augustales, che formavano un ordine di sacerdoti istituiti da Augusto e scelti nella classe dei liberti; di cui l’ufficio consisteva nel presiedere ai riti religiosi del culto dei Lares Compitales, deità le quali, come più innanzi dirò, avevano tabernacolo e culto nel posto ove le strade s’incrocicchiavano[227]. A qualche passo dall’ingresso principale del nostro monumento, leggevasi [285] su d’un marmo il seguente frammento che parla precisamente di questi confratelli (sodales), che dovevano avervi il loro collegio:

. . . . AMINI . AVGVSTALI . SODALI
AVGVSTALI . Q .

Ho già altrove ricordato l’esistenza degli Augustali in Pompei; erano tali Calvenzio, Munazio Fausto, Arrio Diomede, Nistacidio, Olconio Rufo e altri, che figurano nelle iscrizioni pompejane publicate.

Nell’interno del tempio, nel fondo della cella, fu trovato un podio: esso doveva reggere la statua di Augusto; di questa non fu trovato che un braccio sorreggente un globo; certo che la rovina doveva essere avvenuta nel tremuoto del 63.

L’edificio ha una porta decorata da due ordini di colonne che formano un portico e circondano un atrio scoperto, nel mezzo del quale sta un’ara. Nel peristilio di esso atrio sulle pareti son dipinte le imbandigioni d’una lauta mensa; poi Psiche colle ali di farfalla che accompagna l’Amante al convito degli Amori.

Al destro lato sono distribuite dodici stanze decorate tutte di pitture d’una uniforme tinta rossa per l’uso degli Augustali; quindi, evvi il loro triclinio capace forse d’una trentina di banchettanti.

Nel santuario v’eran nicchie pei simulacri della famiglia imperiale, di cui non vennero occupate che due, l’uno a Livia, ed era di buono scalpello, l’altro [286] a Druso, morto in Pompei, come già a suo luogo ho mentovato.

Al sinistro lato vi è un sacello e grandi are di marmo. Per alcuni pezzi di musicali istromenti rinvenuti, si corse a pensare da taluni che quivi potesse essere stata una orchestra, altri invece immaginarono poter essere un semplice ripostiglio di istromenti.

Molte pitture si trovarono su tutte le pareti del tempio; ricorderò le principali: Etra che scopre a Teseo la spada nascosta da Egeo sotto di un masso; Ulisse e Penelope; Io ed Epaso cui narra le proprie avventure; Latona, Apollo e Diana; una suonatrice di lira; una Baccante; l’offerta a Cerere delle sacerdotesse; Romolo e Remo allattati dalla Lupa e per ultimo, sulla porta dell’ingresso principale, Augusto seduto su d’un fascio d’armi coronato dalla Vittoria e il naviglio che ricorda la battaglia navale d’Azio. Se non l’ho detto altrove, sappia il lettore che pressochè tutte codeste dipinture, come le altre scoperte in Pompei, vennero dal disegno riprodotte nell’opera Il Museo Borbonico e in altre parecchie colle relative dichiarazioni storiche ed artistiche.

A fianco della minor porta fu trovata una cassetta colla sua serratura, nella quale stavano 1036 monete di bronzo e 41 d’argento, prodotte per avventura dalla vendita delle carni vittimate, un bell’anello con pietra incisa ed un altro d’argento. Verso la porta maggiore si raccolsero altre 93 monete di bronzo. [287] Frammenti di vetro che avevan servito alle finestre erano giacenti per terra, documenti non insignificanti per chi vuol l’introduzione del vetro d’assai posteriore.

Tempio di Ercole o di Nettuno.

Una reliquia della più antica arte greca offre Pompei nel mezzo del Foro Triangolare ne’ pochi resti di un tempio, che per la sua vetustà, per le favolose origini, ne’ capitoli della storia da me recate, non che per la prossimità del bidental, di cui dirò fra breve, con tal quale fondamento venne ritenuto sacro ad Ercole, come reputo pur io doversi ritenere a questo semidio; ma il dotto Gau, per la situazione di esso vicina al mare, che domina dalla sua altura, sentenziò invece consacrato a Nettuno. In molte Guide e in libri che trattano delle pompejane antichità, senza entrare in tante congetture e archeologiche disquisizioni, venne questo vetustissimo monumento designato del resto benanco col semplice nome di tempio greco. Avverto ciò, onde il lettore che consultando quegli scritti, raffrontandoli col mio, non vi trovando detto del tempio greco, credesse farmene un appunto.

V’ha qualcuno che ne fa rimontare l’edificazione nientemeno che all’ottavo secolo avanti l’era volgare; lo che se fosse constatato, proverebbe avere Pompei esistito qualche secolo prima di Roma. Certo è che [288] tale edificio si chiarisce infatti anteriore d’assai ai monumenti romani. Esso venne scoperto nel 1786.

I pochi avanzi che si hanno attestano da un lato la purezza de’ principj dell’arte che v’ha presieduto, e dall’altro che già dovesse essere in istato di deperimento e rovina assai prima che il Vesuvio lo seppellisse sotto i proprj furori.

«Il suo piano, scrive Bréton, — che in fatto d’architettura specialmente è utilissimo consultare nell’opera sua Pompeja, già da me più volte invocata ad autorità, — era intieramente conforme a quello de’ templi greci, e lo stile di qualche frammento della sua architettura non permette di dubitare che questo monumento non sia stato uno de’ primi costruiti dalla colonia greca che fondò Pompei. Questo tempio era ottastilo e periptero: i quattro capitelli dorici che si rinvennero sono pressochè in tutto simili a quelli dei templi di Selinunte e Pesto e scolpiti nella pietra calcare formata dal deposito delle acque del Sarno»[228].

Si innalza esso su di un basamento costituito da cinque gradini o piuttosto scaglioni, perchè su d’essi nel mezzo dell’asse della facciata era costruita una gradinata più praticabile e comoda. Nel centro dello stilobato eravi il pronao, per il quale si entrava nella cella o santuario. Nel mezzo di esso sussiste un piedistallo [289] rotondo che aveva servito alla statua della divinità alla quale il tempio era consacrato.

Avanti la facciata riscontransi pure gli avanzi di un recinto, che il succitato continuatore di Mazois, il sullodato signor Gau, crede avesse dovuto servire a ricevere le ceneri de’ sacrificj. Alla destra del recinto veggonsi tre altari: quello di mezzo per le libazioni, quello più elegante per i sagrificj delle vittime piccole e l’altro per le più grosse.

Dietro questo recinto si scorge un Puteale, o forse più propriamente ciò che i Romani chiamavano Bidental. Importa il farlo conoscere, perocchè sia per avventura l’unico monumento che esista di questo genere di costruzioni.

Festo afferma come si chiamasse bidentale qualunque tempio in cui si immolassero bidenti, cioè pecore atte al sagrificio, e Virgilio e Fedro e Orazio e tutti gli scrittori pur del buon secolo, bidenti usarono senz’altro promiscuamente per pecore. Eccone i loro esempj:

Centum lanigeras mactabat rite bidentes[229]

Bidens jacentem in fovea prospexit lupum[230]

Tentare multa cæde bidentium Deos[231]

[290]

Stando pertanto alla definizione di Festo, tutti i templi minori sacri a qualsiasi divinità, nel cui mezzo fosse un’ara acconcia al sacrificio de’ bidenti, dicevansi bidentali.

Del monumento di cui ora m’intrattengo, così Carlo Rosini, nella sua Dissertatio Isagogica, già da me citata altrove, rende conto: habet figuram bidentalis Pompejis effossi, quod puteal medium, et templum rotundum octo columnarum sine tecto, sed epystilio tantum ornatum habebat, cum inscriptione oscis litteris exarata, quæ latine ita sonat: Nitrebes ter Meddix tuticus septo conclusit[232].

[291]

Non è poi inopportuno osservare, — a meglio far ritenere sacro questo greco tempio ad Ercole, come dio minore, e non a Nettuno ch’era fra gli Dei Consenti o maggiori, — che i sacerdoti che sagrificavano i bidenti si dicevano sacerdotes bidentales, ed eran quelli che dediti ad Ercole e forse agli altri Semoni, Dei Minori, avevano in cura i templi di minor levatura, chiamati bidentali[233].

Il monumento pompejano in questione costituivasi adunque d’un puteale circondato d’un bidentale in forma di tempio monoptero.

Avverrà poi che si trovi nelle opere de’ romani scrittori scambiata la parola puteale perfino per tribunale, leggendosi anzi in Orazio:

Ante secundam

Roscius orabat sibi adesses ad puteal cras[234].

[292]

Di ciò fu causa che il più antico puteale costruito nel Foro di Roma nell’anno 559 di sua fondazione dal pretore Sempronio Libone; questi avendo stabilito il proprio tribunale presso tale monumento, divenne codesto il punto di riunione degli oratori, ed avendone i suoi successori imitato l’esempio, puteale divenne ben presto sinonimo di tribunale.

È curioso che anche nella mia Milano, ne’ tempi scorsi e fino al nostro secolo, si avessero a raccogliere intorno al Pozzo di Piazza Mercanti legulei e faccendieri legali, a trattazione d’affari ed a ricevimento di volgari clienti, sì che avesse poi ad invalere nel comune linguaggio l’ingiuria a cattivo o tristo avvocato di chiamarlo avvocato del pozzo. Oggi invece il nostro Pozzo di Piazza Mercanti è modesto convegno de’ poveri fattorini di piazza.

Tempio di Cerere.

Nella Via delle Tombe, per la quale ci metteremo in ultimo, ci avverrà di trovare un altare sepolcrale, scoperto nel 1812, fatto di tavole di travertino quadrangolari di bello ed elegante lavoro, eretto, secondo l’iscrizione ripetuta da due parti, in memoria di Marco Allejo Lucio Libella padre, duumviro, prefetto e censore, e di Marco Allejo Libella figlio, decurione, morto a diciassette anni, dalla pietà di Alleja Decimilla figliuola di Marco e sposa del primo. Costei è [293] in detta iscrizione indicata Sacerdos Publica Cereris (publica sacerdotessa di Cerere).

Sulle pareti esterne della Basilica, che più innanzi visiteremo, e che eran ricoperte di stucco, sulle quali vennero dipinte capricciose rappresentazioni architettoniche, si lessero parecchie iscrizioni, o fatte col pennello o graffite, d’ogni natura e colore, di cui taluna già riferii parlando delle Vie e fra le stesse mi richiamò la speciale attenzione codesta:

. . . . AQVIAMI QVARTA SACERDOS CERERIS PVBL.

Dalle quali due iscrizioni, che ci fanno fare la conoscenza di Quarta e Decimilla sacerdotesse di Cerere, e forse anche dalle altre due iscrizioni che si leggono sul mausoleo di Mamia e sul cippo di Istacidia, indicate soltanto come pubbliche sacerdotesse (sacerdos publica) e lo erano per avventura entrambe della suddetta medesima divinità, ci è dato inferire esservi stato in Pompei un tempio sacro a Cerere, la dea che insegnò agli uomini l’arte di coltivare la terra, di seminare le biade, di raccogliere le messi e fabbricare il pane. La Campania, così frugifera, non poteva di certo non erigerle templi ed altari. — Sorella a Giove, l’incestuoso dio ebbe da lei Proserpina, la quale mentre coglieva fiori in Sicilia, venne rapita da Plutone che la trasse nel suo regno inferno. Claudiano, di questo Ratto, ordì un vago poemetto, egregiamente voltato in versi italiani da quel valente che è l’abate Giuseppe Brambilla da Como; e quali poi per [294] esso rapimento fossero gli spasimi della madre, venne pittorescamente così espresso dall’Ariosto nel suo Orlando:

Cerere poi, che dalla madre Idea

Tornando in fretta alla solinga valle,

Là dove calca la montagna Etnea

Al fulminato Encelado le spalle,

La figlia non trovò dove l’avea

Lasciata fuor d’ogni segnato calle,

Fatto ch’ebbe alle guance, al petto, ai crini

E agli occhi danno, alfin svelse due pini;

E nel fuoco gli accese di Vulcano,

E diè lor non poter esser mai spenti,

E portandosi questi uno per mano

Sul carro che tiravan dui serpenti,

Cercò le selve, i campi, il monte, il piano,

Le valli, i fiumi, li stagni, i torrenti,

La terra e il mare; e poi che tutto il mondo

Cercò di sopra, andò al Tartareo fondo[235].

È noto il resto della favola che fece Proserpina, sposa al sire del tartareo regno.

Restò per tutto ciò sacra a Cerere la Sicilia specialmente, dove que’ fatti s’erano compiuti e dove le furono istituite feste. Roma l’ebbe pure in reverenza sotto i nomi di Vesta dapprima, quindi della Bona Dea. Nella festa principale che le si faceva a’ diciannove d’aprile in suo onore e dicevasi cereale, celebravansi i suoi misteri nella casa del Console, cui non intervenivano che le donne, pena la morte agli uomini che introducendovisi li avessero profanati di loro presenza, ed eran preceduti da otto giorni d’astinenza [295] e di castità, ciò che veniva detto essere in casto Cereris. — Non v’ha a questo proposito chi non rammenti, letto che abbia le arringhe di Cicerone, quanto scandalo e scalpore avesse menato e di quanta calamità fosse origine la profanazione di que’ misteri fatta da Publio Clodio, che mentite le spoglie femminili, si introdusse nella casa di Cesare, ove essi celebravansi, per amoreggiarne la moglie Pompea, altrimenti troppo vigilata. Scoperto, rumore, come dissi, ne venne per tutta Roma grandissimo. Cesare, comunque lusingato dagli amici che Pompea non gli fosse stata infedele, ripudiavala, allegando la moglie di Cesare non dover pur essere sospettata. Cicerone stesso che ne avea fatto un capo grosso che mai il maggiore, raccolse odj implacabili, ond’ebbe poi da Clodio adeguate al suolo e casa e ville ed esilio dall’Italia, da cui richiamavalo poscia Pompeo, e finalmente ricercato a morte da Antonio, per istigazione di Fulvia sua moglie, vi perdeva la vita per mano di sicarj; riempita poi tutta quanta la città di disordini e stragi.

Nel linguaggio del Lazio, Cerere pigliavasi metaforicamente pel pane, come Bacco pel vino, onde in Terenzio si legga:

Sine Cerere et Baccho friget Venus[236].

Ma finora questo tempio di Cerere, ch’io presuppongo essere stato in Pompei per quelle due iscrizioni [296] che ho accennato, è un desiderio soltanto che i futuri scavi saranno per soddisfare; quando accogliere non si voglia la mia conghiettura che forse ai riti di Cerere non servisse il Calcidico, o edificio di Eumachia, del quale verrò ampiamente parlando nel Capitolo che tratterà appunto del Calcidico, esaminando pur le diverse altre opinioni. Perocchè se calcidica chiamò Stazio la corona con cui nelle sacre cerimonie o ludi di Cerere, che celebravansi in Napoli, solevansi cingere gli adepti; nulla di più probabile che nel Calcidico di Pompei, città campana, come Napoli, si celebrassero i sacri riti di Cerere e ne fosse anzi il Calcidico il tempio che noi cerchiamo. Eccone i versi:

Hei mihi quod tantum patrias ego vertice frondes

Solaque Chalcidicæ Cerealia dona coronæ

Te sub teste tuli[237].

[297]

D’altra parte Eumachia, colei che a propria spesa erigeva il Calcidico, non era essa pubblica sacerdotessa? Tale la indica l’iscrizione seguente che fu letta sull’architrave di marmo della facciata principale di questo edificio, scolpita in bei caratteri onciali:

EVMACHIA L. F. SACERD. PVB. NOMINE SVO
ET M. NVMISTRI FRONTONIS FILI. CHALCIDICVM CRIPTAM PORTICVS
CONCORDIÆ AVGVSTÆ PIETATI SVA PEQVNIA
FECIT EADEMQVE DICAVIT[238].

Vero è che in questa iscrizione non è indicata che come sacerdotessa, senza dirla addetta al culto di Cerere, al par di Mamia e di Istacidia summentovate; ma per le suddette cose, l’idea del Calcidico la farebbe ritenere piuttosto sacerdotessa di Cerere che d’altra divinità.

Se poi si pon mente che Arnobio, apologista della religione cristiana che scriveva nei primi anni del quarto secolo, ha questo passo: «Vorrei vedere i vostri dei e le vostre dee alla rinfusa nei vostri grandi Calcidici ed in questi palagi del cielo»; credo che la mia conghiettura resti meglio avvalorata, poichè i calcidici ove sono gli dei e i palagi del cielo, non possano altrimenti spiegarsi che coll’idea dei templi.

Un ultimo argomento mi si conceda, e questo desunto [298] da qualche particolarità della struttura dell’edificio, ad appoggio di questa mia nuova supposizione.

Nell’impluvium di esso si sono vedute delle vasche, ed han lasciato supporre l’esistenza di sacerdoti addetti ad esso, forse per purificazioni od altri riti religiosi, e allora non è egli naturale argomentare la presenza di un tempio? — Al dottissimo Fiorelli e ai suoi egregi discepoli lo studio e la risoluzione dell’archeologico quesito che lor propongo in queste pagine.

Ad ogni modo io di tal tempio a Cerere consacrato doveva far cenno in questo capitolo: forse chi sa non ritorni non affatto inopportuno fra qualche tempo a concretar alcuna migliore idea sulla scoperta d’altro delubro, e fors’anco di qualche simulacro, a questa divinità consacrato.

Detto dei templi pompejani, a fornire l’intero quadro religioso, dovrei dire qualche parola di quell’altro nume derivato da Grecia, a cui alcuni pretesero dedicato uno dei templi che abbiamo insieme visitato e che infatti in Pompei si vede spesso ritratto o sui freschi delle domestiche pareti, o sugli utensili, o altrimenti in parecchi luoghi publici; intendo dire di Priapo,

Il barbuto guardian degli orti ameni,

come lo appella l’Alamanni.

[299]

Se nei mille oggetti trovati in Pompei, se nei tanti preziosi gingilli pur di dame pompejane, è perfino assai spesso riprodotto sotto forme itifalliche e nei più ridicoli modi, perocchè lo si trovi ben anco alato, trafitto da frecce e va discorrendo, e se di dice che presso i Romani la sua immagine e gli attributi suoi, ch’erano gli organi della generazione, si sospendessero al collo delle donne e de’ fanciulli, e impunemente si veggano tuttora in qualche taberna di Pompei eretti a segno di buon augurio; nondimeno non si ha finora prova inconcussa che l’osceno dio avesse tempio in questa città. Noterò per altro che questo di dar forma itifallica o priapica a molti oggetti e perfino a stoviglie ed a vasi a bevere, e di fabbricar frequenti priapi, non fosse uso pompejano unicamente, ma del tempo e massime di Roma, e vi ha certo riferimento non dubbio il principio della Satira VIII del Libro I. di Orazio:

Olim truncus eram ficulnus, inutile lignum;

Cum faber, incertus, scamnum faceretne Priapum,

Maluit esse Deum. Deus inde ego furum, ariumque

Maxima formido[239].

Passo quindi oltre, e appena faccio un cenno del pari degli Dei Lari Compitali o de’ Crocicchi,

[300]

qui compita servant

Et vigilant nostra semper in urbe Lares[240],

gli altari dei quali vedevansi per appunto sugli angoli de’ viottoli cittadini; e dei Lari della campagna chiamati perciò rurales[241], non che degli Dei Penati, protettori del domestico focolare, che avevano fra le domestiche pareti sacelli (lararium) e sagrificj; ma de’ primi ho toccato alcun poco eziandio parlando delle vie; de’ secondi accadrà di dire qualche parola ancora nel Capitolo delle Case.

Cristianesimo.

Gli scavi di Pompei non misero, ch’io mi sappia, in luce oggetto alcuno che ne possa condurre a ritenere irrecusabilmente introdotta già la religione di Cristo all’epoca di sua distruzione. Tutto, per altro, ne porta a ritenere che già vi fossero neofiti, come ve n’erano nella vicina Neapoli, che altra delle dodici città campane, ebbe sempre comune le sorti con Capua e colle altre città sorelle.

Sappiam dagli storici come gli Ebrei dopo la conquista de’ Romani nell’Asia si fossero, al par degli altri [301] popoli, diffusi nel restante dell’orbe romano e tenuti molto più nell’Urbe; sappiamo egualmente che anche i Cristiani esercitassero in segreto nelle catacombe i loro sacri misteri e facessero opera di propagazione; Nerone gli aveva accusati perfino d’essere gli autori dell’incendio ch’egli aveva fatto appiccare alla città.

Giovenale confondeva per avventura insieme ebrei e cristiani in questi versi della Satira XIV che piacemi recare; perocchè e pel medesimo Dio che costoro adoravano e per molti medesimi riti e per la poca profonda conoscenza che si aveva generalmente di essi, questi da quelli si dicevano originati e nell’apprezzamento si confondevano facilmente insieme:

Quidam sortiti metuentem sabbata patrem,

Nil præter nubes et cœli numen adorant,

Nec distare putant humana carne suillam

Qua pater abstinuit; mox et præputia ponunt,

Romanas autem soliti contemnere leges,

Judaicum ediscunt et servant ac metuunt jus,

Tradidit arcano quodcunque volumine Moses,

Non monstrare vias, eadem nisi sacra colenti,

Quæsitum ad fontem solos deducere verpos.

Sed pater in causa, cui septima quaque fuit lux

Ignava, et partem vitæ non alligit ullam[242]

[302]

Disprezzo delle leggi romane ed odio per le altre genti erano infatti accuse date agli ebrei ed anche a’ primi cristiani, imputati questi ultimi perfino di sagrificare e mangiare bambini nelle loro agapi; comunque non occorra qui di provare accadesse proprio allora perfettamente il contrario, troppo nota la carità di que’ primi seguaci del Cristo.

Ecco ora come la nuova fede del Nazareno venisse nella Campania introdotta, stando almeno alla tradizione, che da taluni critici per altro, i quali la sanno tutta quanta, si vorrebbe infirmare.

«La maggior gloria dell’inclita e nobilissima città di Napoli, scrive Gaetano Moroni nel suo Dizionario di Erudizione Storico-Ecclesiastica, è di aver ricevuta la fede cristiana dallo stesso principe degli Apostoli e primo Sommo Pontefice San Pietro, il quale partito [303] d’Antiochia per portarsi in Roma a fondare la sua sede, passò per Napoli, ove trovata Candida inferma, si informò da essa della religione e costumi de’ napoletani, la guarì dal suo male, ed istruendola ne’ misteri della religione cristiana, la battezzò. La pia donna chiese a San Pietro lo stesso benefizio a pro del suo parente Aspreno, anche infermo, al quale l’apostolo gliela impartì, inviandogli il suo bastone, che tuttora è alla cattedrale; e portatosi Aspreno da San Pietro fu da esso guarito, battezzato e consacrato sacerdote e vescovo della città; e ricevuto il prezioso deposito della fede, imitando il suo maestro che nell’anno 44 giunse in Roma, istruì il gregge a sè affidato e verso l’anno 79 passò nel cielo. Vuolsi che ne fosse successore S. Patrona, uno de’ settantadue discepoli»[243].

Stando a tal tradizione, condita al solito da puerilità e miracoli, il primo vescovo Aspreno sarebbe morto l’anno stesso della eruzione vesuviana che seppellì Pompei.

Bulwer, accogliendo egualmente la credenza che in Pompei fosse già entrata la luce dell’Evangelo, vi immaginò l’interessante episodio di Olinto e la conversione di Apecide, fratello di Jone, la protagonista del suo romanzo, alla divina religione di Cristo; ed [304] altrettanto sembrò opinare nel suo bel libro intorno a Pompei il già per me lodato C. Augusto Vecchi; nè io poi mi so addurre argomenti che ripugnar possano alla pietosa sentenza di questi due valentuomini ed egregi scrittori.

Chi può dire che ne’ quartieri che ancor rimangono a disotterrare di Pompei, non si abbia a discoprire qualche cosa la qual confermi una tale supposizione? La parte ancor non nota è quella che doveva essere abitata dalle classi più povere; e tra i più poveri e nelle menti men colte metteasi d’ordinario più prestamente la luce delle evangeliche dottrine.

All’avvenire pertanto è riserbato ben anco lo sciogliere una tale questione, che finor non ripugna ammettersi del modo che ho detto.

[305]

CAPITOLO IX. I Fori.

Cosa fossero i Fori — Agora Greco — Fori di Roma — Civili e venali — Foro Romano — Comizj — Centuriati e tributi — Procedimento in essi per le elezioni de’ magistrati, per le leggi, per i giudizii — Foro Civile Pompejano — Foro Nundinario o Triangolare — Le NundineHecatonstylon — Orologio Solare.

In quel tempo, la parte principale d’una città, dopo i templi, era il Foro, perocchè in esso si compendiasse la vita publica: ecco a qual fine io faccia succedere qui il discorso intorno i Fori, cui terrà dietro quello intorno la Basilica di Pompei, questa essendo, a vero dire, quasi parte e compimento del Foro Civile. Lo svolgimento di questi temi giustificherà ancor meglio una tale precedenza.

Ho altrove notato come le città suddite di Roma avessero conformato ad essa le istituzioni, ed adottati i modi e le costumanze di vivere: il Foro in Roma essendo il centro della vita, ed anzi, oserei dire, il pernio intorno a cui s’aggira tutta la storia civile e la gloria romana, il foro doveva pure essere in Pompei il luogo meglio importante.

[306]

Che significasse, a che servisse, è presto conosciuto, tessendo brevemente la storia del Foro di Roma. Gli scopi di questo sono pur identici a quello: ecco perchè l’illustrazione di Pompei è ad un tempo l’illustrazione della vita civile ed intima di Roma.

Il Foro, io già dissi altrove[244], derivò la propria denominazione a ferendo, cioè portare. La ragione di tal nome raccogliesi dal primitivo uso che ne venne fatto, essendo stato dapprima piazza di mercato e de’ popolani concorsi: se pure forum non significhi piuttosto, come talun etimologista avvisa, un luogo aperto dinanzi a qualche edificio, massime a sepolcro, ed abbia allora l’etimologia propria dall’avverbio latino foras. Quasi tutte le italiane città avevano anticamente il Foro, introdotto ad imitazione de’ Greci, che egual luogo di convegno si avevano sotto il nome di agora, destinato a’ mercati ed alle popolari adunanze. Vi furono anzi degli oppidi, o grosse borgate, a cui traevasi per provinciali negozj, che assunsero perfino il nome di fori: così il Foro Aurelio in Etruria, il Foro di Livio nell’Emilia, ora Forlì, il Foro di Giulio, Cornelio, Sempronio, ecc. Poi ne fu esteso l’uso, e intorno ad esso si eressero i principali edifizj publici cittadini; era anzi là che gli ufficj tutti si concentravano. Là i templi, i tribunali, le basiliche, il pubblico tesoro e i principali ritrovi [307] ove maggiormente sviluppavasi l’esistenza cittadina; là la gioventù si dava agli esercizj ginnastici, là seguivano gli spettacoli scenici e gladiatorj: tutto questo poi cessando per riprendere unicamente le sole due prime sue destinazioni.

Più Fori tuttavia erano in Roma: servivano gli uni alle assemblee popolari ed ai tribunali in cui rendevasi giustizia, ed appellavansi Fora judicialia o civili: i circostanti edifizj di questi fori erano nondimeno occupati dai banchieri (argentarii) e dagli usurai (fœneratores) principalmente. Era naturale: le principali transazioni concernenti i più importanti affari pertrattati venendo nel foro, usurai e banchieri ritrovavano necessariamente nel foro più vasto e ricercato arringo.

Gli altri fori minori, detti anche venali, servivano pei mercati, ed assumevano quel nome che, a seconda delle merci che vi si spacciavano, loro meglio conveniva.

V’erano, a cagione d’esempio, il forum boarium, di cui Ovidio nel Primo de’ Fasti:

Hic ubi pars Urbis de bove nomen habet[245],

ch’era il mercato del bestiame; il forum piscarium, ricordato da Plauto in quel verso del Curculione:

[308]

Symbolorum collatores apud forum piscarium[246],

ove si vendevano i pesci; il forum olitorium, o degli erbaggi, dove c’era pure la columna lactaria, alla quale si esponevano dalle malvagie madri i bambini; il forum suburanum, ove que’ della campagna portavano a vendere alimenti, e di cui parla ne’ suoi epigrammi Marziale:

Quidquid villicus Umber, aut colonus,

Aut rus marmore tertio notatum,

Aut Thusci tibi, Tusculive mittunt,

In tota mihi nascitur Subura[247];

il forum coquinum, dove stavano apprestate le vivande già cotte; il forum cupedinis, o delle ghiottornie, posto secondo alcuni, nel Celio, secondo altri, nell’Esquilino, in cui dimorato aveva Numerio Equizio Cupes, dal quale si vuole tratto per avventura il nome, da chi non pensa che il vocabolo e la destinazione di tal foro bastano a chiarirne di per sè soli l’etimologia; il forum transitorium, perchè dava l’accesso a tre altri fori, pur detto palladio, ed era fra il Capitolino e il Quirinale; ed altri.

[309]

Negli ultimi tempi della Republica, crescendo il numero della popolazione, Giulio Cesare aprì un altro foro presso il vecchio, ed è di esso che parla Ovidio nel III libro dei Tristi:

..... hæc sunt fora Cæsaris, inquit,

Hæc est a sacris quæ via nomen habet;[248]

Augusto ne edificò un terzo meno ampio, ma ricchissimo di capolavori dell’arte greca; Nerva compì quello incominciato da Domiziano, ed è lo stesso che già mentovai sotto il nome di palladio, così chiamato perchè Minerva fosse la divinità tutelare a quel principe. Esso era d’ordine corintio. Un foro da ultimo, che fu detto Ulpium, costruì con architettura di Apollodoro, l’imperator Trajano, di cui furono scritte maraviglie, e del quale non rimane oggidì che la colonna trionfale. Ammiano così ne parla: singularem sub omni cælo structuram, etiam numinum assentione mirabilem[249].

I fori per altro venali non avevano nè la grandezza nè la bellezza, nè la prestanza de’ fori giudiziali, ed erano per lo più cinti all’intorno dalle botteghe de’ varj venditori o del piccolo commercio, che tabernæ latinamente venivano appellate.

[310]

Così anche in Pompei v’erano il Foro Civile e il Foro nundinario, o venale.

In Roma, il maggiore foro veniva designato col solo nome di Foro, comunque venisse altresì onorato cogli epiteti di vetus e di magnum, antico e grande, e serbavasi all’amministrazione della giustizia, alle popolari adunanze ed alla trattazione in genere di tutti i publici affari. Quivi perciò era il luogo de’ comizj, diviso tuttavia dal Foro col mezzo de’ rostri, ch’erano le tribune, da cui gli oratori arringavano il popolo e patrocinavano le cause con quella ricchezza di eloquenza che sola pareggia la grandezza del popolo dinanzi a cui si spiegava, e di che rimangono immortali monumenti nelle orazioni del sommo arpinate Marco Tullio Cicerone. Vicina a’ Rostri era la statua di Marsia coronato, intorno alla quale convenivano i litiganti, e vi han tratto que’ versi della satira sesta di Orazio:

Deinde eo dormitum, non sollicitus mihi quod cras

Surgendum sit mane; obeundus Marsya[250].

Quivi il Tabularium, cosidetto perchè conservava le Dodici Tavole, compendio della sapienza legislatrice degli antichi Quiriti. Quivi la Curia Hostilia, in cui si raccoglieva il Senato; la Grecostasis per l’accoglimento [311] degli ambasciatori stranieri; i templi a Giove Statore, alla Concordia, alla Dea Vesta, alla Pace; onde Ovidio ancor nei Fasti potesse dire:

Et tenet in magno templa dicata foro[251];

qui le basiliche Giulia ed Emilia, gli archi, le colonne, e le statue a ricordare gloriose gesta e gloriosi nomi. E a un medesimo tempo ivi erano le orribili Carceri Mamertine, o Tulliane altrimenti dette, in cui perirono di fame Giugurta re di Numidia, di capestro Lentulo, Cetego, Gabinio e Cepario, complici nella congiura di Catilina sventata da Cicerone console; e di pugnale Elio Sejano, e Simone figlio di Gioas, capo ribelle degli Ebrei a’ tempi di Tito Vespasiano. Se poi non erra la pia tradizione, in esse sarebbero stati gettati, prima del loro estremo supplizio, gli apostoli di Cristo Pietro e Paolo.

Esaurita la menzione degli usi a che serviva il Foro, considerandolo singolarmente dal lato materiale, non basterà ch’io abbia fatto cenno ch’esso valesse alle popolari convocazioni, senza dirne più oltre; per rispondere agli intenti del mio libro, toccherò con brevità altresì del modo onde nelle adunanze si conducessero. Uno era il modo in Roma, come in Pompei. Di quello dicendo, parlasi egualmente di questo.

Cosiffatte adunanze chiamavansi col nome generico [312] di comizii, comitia, e questi erano centuriati, detti anche maggiori (majora), se vi poteva intervenire tutta la cittadinanza e della città e della campagna; oppure erano comizii tributi (comitia tributa), se la votazione proceder dovesse per tribù.

I primi comizj tenevansi per eleggere i superiori magistrati della Republica, come consoli, pretori, censori e tribuni militari; per approvare le leggi che questi magistrati proponevano; per deliberare la guerra, pei giudizii di perduellione o contro lo stato, e per quelli cui era comminata la morte, e venivano indetti da un magistrato superiore, almeno diciasette giorni avanti, ne’ quali potevano discutere le proposte e v’erano oratori publici che le propugnavano, altri invece che le combattevano, e così il popolo aveva campo di pesarne l’opportunità e pronunziarsi poscia con cognizione di causa.

Venuto il dì del comizio, consultavano gli auspicj, e se buoni, lo si teneva, se contrarj, lo si rimetteva ad altro giorno.

Il comizio aprivasi solennemente col leggersi la proposta del magistrato, che lo presiedeva, e con acconcio discorso in cui svolgeva la proposta stessa, terminando colla consueta clausola: Si vobis videtur, discedite, Quirites; o anche: ite in suffragium bene juvantibus diis, et quæ patres censuerant vos jubete[252].

[312b]

Veduta generale del Foro Civile in Pompei. Vol. I. Cap. IX. Il Foro.

[313]

E la votazione allora aveva principio per centurie. Se trattavasi di progetto di legge, le due tavolette (tabellæ) che si distribuivano portavano l’una le lettere U. R. (uti rogas, come proponi), e l’altra A. (antiqua volo, cioè sto per l’antico ordine); se trattavasi di giudizj, l’una tavoletta aveva la lettera A. (absolvo), l’altra C. (condemno), ed una terza colle lettere N. L. che significavano non liquet, cioè il fatto non è accertato.

Di qui ne venne che la lettera A si chiamasse salutare, e triste la lettera C. La maggioranza de’ voti decideva. La nuova legge votata incidevasi in rame e veniva poscia esposta al publico, conservandosene sempre una copia nello ærarium (tesoro).

Nei comizj, in cui s’era trattato di alcuna elezione, il nuovo magistrato eletto, proclamato che era, pregava gli Dei, prestava giuramento, e quindi dai suffragatori era accompagnato festevolmente a casa, dove egli adornava di corone le immagini degli avi.

Data così per me una generale idea del foro, modellandola, come adoperarono tutte l’altre città italiane, su quel di Roma, pel visitatore di Pompei questa idea verrà concretata ancor meglio e precisata, esaminandone il Foro Civile.

A seconda degli ammaestramenti di Vitruvio, il Foro Civile era situato nella parte della città più vicina al mare[253].

[314]

La sua figura è rettangola, è decorata da due ali di colonne di travertino, che formar dovevano un peristilio coperto onde passeggiarvi in tempo di pioggia, fattovi fabbricare da V. Popidio, come ne rende testimonianza questa iscrizione, che venne ivi trovata il 24 marzo 1824:

V . POPIDIVS .
EP . F . Q .
PORTICVS
FACIVNDAS
COERAVIT[254].

Solo al nord si chiudeva dal tempio di Giove, che ho già descritto, circondato da tre altri templi, cioè quel di Venere, d’Augusto e di Mercurio e da altri stabilimenti publici, come la Basilica, l’Edificio d’Eumachia, e il Calcidico, la Curia consacrata alle assemblee dei principali magistrati della città, le Prigioni, il Pecile o porticato pel publico passeggio, ad imitazione de’ Greci, da cui i Pompejani dedussero la denominazione, i tribunali e va dicendo da altri precipui monumenti; rispondendo così in tutto alla descrizione, che d’un foro lasciò il succitato Vitruvio[255], di cui Bonucci è indotto a credere che gli architetti pompejani avessero indubbiamente consultata l’opera[256].

Il Foro di Pompei, secondo l’osservazione fatta [315] nell’ultima edizione dell’opera sua Pompeia nello scorso anno 1869 da Bréton, non era accessibile che ai pedoni, desumendolo da certi scaglioni rovesciati rinvenuti e da certi rialzi che vi si trovano, i quali avrebbero certo reso il luogo impraticabile a’ veicoli.

La piazza del Foro pompejano misurava in lungo trecento quarantaquattro piedi ed in largo centosette all’incirca.

L’escavazione fattane dal 1813 al 1822 permise rinvenire ventidue piedistalli con iscrizioni, che portar dovevano le statue di Rufo, di Sallustio, di Pansa, di Lucrezio Decidiano, di Scauro, di Gelliano e di altri illustri pompejani e personaggi più distinti della colonia.

Come le colonne, anche il pavimento era coperto di larghe tavole di travertino.

«Io non posso, scrive il Bonucci con quella autorità che gli attribuiva la qualità di architetto e di direttore degli scavi reali di Pompei e d’Ercolano[257], trattenermi dal fare le seguenti importantissime osservazioni. Dopo i danni del tremuoto dell’anno 63, si ricostruiva il Foro con maggiore magnificenza. Le [316] colonne dei portici che non erano dapprima che di semplice pietra vulcanica, erano state sostituite dalle più eleganti di travertino. Il pavimento che è coperto di larghe tavole dello stesso marmo, ma solo in qualche parte, stava per allora interamente finito. Le statue di questi portici dei templi e dei monumenti che lo circondano da tutti i lati dovevano trovarsi nell’officina di qualche scultore per essere restaurate, perchè non se ne trovò che i frammenti di qualcuna ch’erasi lasciata per il momento al suo posto. Il tempio di Venere era già riedificato. La Basilica e la Curia erano quasi al termine di loro ricostruzione. Il Calcidico era ultimato; ma il suo vestibolo attendeva ancora l’ultima mano. Non vi mancavano che le colonne e i marmi che dovevano coprirne i muri. Il tempio detto di Quirino era ancora spoglio de’ suoi stucchi e degli altri suoi ornamenti. Finalmente le colonne di tutto il lato destro del Foro e del peristilio nel tempio d’Augusto non erano al loro posto. Si lavoravano esse in mezzo del Foro, colle basi, i capitelli, le cornici e con tutti gli ornamenti d’architettura che dovevano appartenere agli altri monumenti. Questi numerosi pezzi di marmo vennero d’ordine del Re, trasportati al Museo Borbonico (ora Nazionale), onde servir di modello a’ giovani artisti del nostro reale Istituto.»

Ecco le iscrizioni che si lessero sui detti piedistalli:

[317]

M. LVCRETIO DECIDIAN.
RVFO D. V. III QVINQ.
PONTIF. TRIB. MILITVM
A POPVLO PRÆF. FABR.
M. PILONIVS RVFVS[258].

M. LVCRETIO DECIDIAN.
RVFO II VIR III QVINQ.
PONTIF. TRIB. MIL. A POPVLO
PRAEF. FABR. EX D. D.
POST MORTEM[259].

Q. SALLVSTIO P. F.
II VIR. I. D. QVINQ.
PATRONO... D D[260].

C. CVSPIO. C. F. PANSAE
II VIR. I. D. QVART. QVINQ.
E X. D. D. PEC. PVB.[261].

C. CVSPIO. C. F. PANSÆ
PONTIFICI II VIR I. D.
EX D. D. PEC. PVB.[262]

[318]

Dalle quali iscrizioni rilevasi come si potessero nel Foro erigere per diversi meriti più d’una statua allo stesso personaggio.

Era qui che i Pompejani, oltre de’ Comizj ed oltre della trattazione de’ più importanti affari di publico e privato diritto, non che de’ negozj più importanti al loro commercio, dovevano celebrare le maggiori solennità; qui le processioni delle Canefore, di cui toccai parlando del tempio di Venere nel Capitolo precedente; qui avvenivano i giuochi de’ gladiatori, quando a spettacoli più grandi non fossero chiamati nell’anfiteatro, siccome vedremo, favellando de’ Teatri, più avanti.

Chiuderò il dire intorno al Foro Civile pompejano col tener conto della pittura che fu rinvenuta sulla parete che cinge il portico interno verso settentrione, fatta con molta grazia e varietà, e suddivisa in parecchi comparti.

In uno di questi è rappresentata l’origine della commedia ed una Baccante: in altro la scena di Ulisse quando si presenta alla sposa Penelope, in sembianza di vecchio mendicante e col falso nome di Etone, e non ne è riconosciuto: subbietto spiccato alla Odissea di Omero e del quale avverrà che faccia novella menzione quando avrò a trattare in un capitolo successivo del Calcidico sotto altro aspetto, cioè come pertinenza della Basilica.

Era consuetudine generale del resto che sotto i [319] portici del Foro si pingessero per lo più gloriosi fatti della nazione, ad imitazione di Grecia, dove sotto i portici dell’agora ateniese era dipinta la battaglia di Maratona da Milziade valorosamente e gloriosamente combattuta, perchè servissero al popolo di generoso incitamento e scuola.

Foro Nundinario o Triangolare.

Anche Pompei aveva dunque il suo Foro venale, o nundinario, come vien più comunemente designato, a cagione che, secondo il costume romano, traessero i rustici ogni nono giorno a Roma pel mercato, del modo stesso che oggidì tante borgate hanno i mercati settimanali, per vendere, cioè, e comprare derrate, per ricevervi le leggi, giusta il seguente passo di Macrobio: Rutilius scribit, Romanos instituisse nundinas, ut octo quidem diebus in agris rusticis opus facerent nono autem die intermisso rure, ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent, et ut scita atque consulta frequentiore populo referrentur, quæ trinundino die proposita a singulis atque universis facile noscebantur[263].

[320]

Questo Foro in Pompei, per ragione della configurazione della sua pianta, vien chiamato eziandio triangolare; come invece da altri viene unicamente ritenuto non più che una semplice stazione o quartiere de’ soldati. Ma per quest’ultima opinione, osserverò che da costoro verrebbe per avventura scambiata la parte per il tutto; perchè infatti in questo foro si ritrovi un quartiere, quantunque non di soldati, ma piuttosto, a quanto pare, di gladiatori; ma di codesto dirò a suo luogo più avanti, parlando dell’Anfiteatro.

Il Foro nundinario sorgeva sovra una delle parti più elevate della città, e forse la più antica a giudicarne dai suoi monumenti: dominava il mare e costituivasi d’un gran rettangolo, nel cui mezzo era il tempio greco che già ho descritto, intitolato ad Ercole, e da due lati correva un Hecatonstylon o gran portico, sorretto da ventidue colonne per ciascun lato, di tufo vulcanico ricoperto di stucco con fondo rosso, metà tonde e metà scannellate d’ordine dorico, senza base.

Siccome a mezzo d’una larga gradinata scendevasi al teatro, così argomentar è dato dell’uso di questo portico, che valer dovesse, cioè, oltre che al passeggio, anche a riparare gli spettatori nel caso di frequenti acquazzoni che avessero turbata la rappresentazione. Anche a Roma, testimonio Eusebio, esisteva un Hecatonstylon al campo di Flora, presso al terreno di [321] Pompeo, che, consunto dal fuoco, instaurò Tiberio ed abbellì Caligola; se pur non viene esso confuso coll’altro egualmente di Pompeo vicino al campo Marzio, e del quale è menzione in Strabone e nel libro XXXVI dell’Istoria Naturale di Plinio il Vecchio; ed un altro parimenti presso il teatro di Marcello nella stessa città.

Ponevano a questo Foro i propilei, o antiporti, come il greco nome esprime, di bello stile ed eleganti, formati di otto colonne d’ordine jonico stuccate e dipinte in giallo, decorati da mensole per sorreggere busti di personaggi e da una fontana. Nei resti di questi propilei si riscontrano tuttavia i luoghi degli arpioni su cui giravano le porte che dovevano chiudere il Foro; ciò che indusse a sospettare che non a tutti indistintamente fosse questo aperto; onde vedrebbesi di qual modo si fosse potuto contenderne l’adito e il passeggio dei portici a’ coloni che vi dedusse Publio Silla, come a suo luogo, trattando dell’orazione tenuta a favore di Silla da M. T. Cicerone, ho pur fatta parola, e fu causa di tanto e sì lungo piato.

Avanti alla fontana de’ propilei, su d’un piedistallo, leggendosi la iscrizione:

M . CLAVDIO . M . F . MARCELLO
PATRONO[264].

veniamo a conoscere il nome d’un altro patrono o protettore della città, forse lo stesso Marco Claudio [322] Marcello, che nella guerra civile avendo seguito le parti di Pompeo, questi riuscito vinto, temendo l’ira di Cesare esulò a Mitilene, dove visse nello studio delle buone arti per alquanto, finchè Lucio Pisone, Claudio Marcello fratello di lui e il Senato ne supplicarono il perdono, che fu concesso; onde Cicerone ne rese publiche grazie a Cesare in quella splendida orazione che ci è ancor conservata.

Una curiosa particolarità ci addita un emiciclo che fu scoperto nel 1765, il qual riguarda alla marina. Su di esso è un quadrante solare, od orologio, statovi del pari che la banchetta semicircolare, o schola, come latinamente appellavasi, a proprie spese collocato da Lucio Sepunio Sandiliano, figlio di Lucio, e da Marco Erennio Epidiano, figlio di Aulo, duumviri di giustizia, secondo suona l’iscrizione seguente:

L . SEPVNIVS . L . F . SANDILIANVS
M . HERENNIVS . A . F . EPIDIANVS
DVOVIR . S . D . SCHOL . ET . HOROL .

Sono i medesimi duumviri dei quali parla l’iscrizione da me recata nel parlar del tempio di Venere, e nella quale Bréton, diversamente interpretando le ultime sigle, credette leggere la menzione della collocazione in quel tempio d’un altro quadrante solare. Su di che, a tutta risposta, si potrebbe chiedergli: perchè allora que’ duumviri invece delle sigle D. S. P. F. C. non si servirono dell’eguale dicitura usata in questa iscrizione scolpita nel Foro triangolare, dove la parola [323] Horol spiega la cosa senza lasciar dubbio di sorta?

Fin dall’anno di Roma 499, cioè 254 avanti Cristo, come consente la più parte degli scrittori ed a testimonianza eziandio di Plinio[265], Lucio Papirio Cursore collocava il primo quadrante solare, che avea portato dalla Sicilia, presso il tempio di Quirino. In seguito si moltiplicarono; ma non si creda tuttavia che si chiamassero tutti contenti del trovato e di questa divisione delle ore del giorno. Gli epuloni, cui pareva che di tal guisa si fosse lor messa addosso una importuna, comunque tacita censura, maledivano l’istituzione; ed anche un secolo dopo di Lucio Papirio (l’anno 535 circa), Plauto così la fa lamentare in una sua commedia, che andò sciaguratamente perduta, e che ebbe per titolo Bis compressa seu Boeotia, da un di costoro:

Ut illi Dii perdant, primus qui horas reperit

Quique adeo primus qui statuit solarium.

Qui mihi comminuit misero articulatim diem.

Nam me puero uterus hic erat solarium

Multo omnium istorum optumum et verissumum.

Ubi iste monebat esse: nisi cum nihil erat.

Nunc etiam quod est, non est, nisi soli lubet

Itaque adeo jam oppletum est oppidum solariis.

Major pars populi aridi reptant fame.[266]

[324]

Questo è l’unico frammento di quella produzione smarrita e racchiude di per sè uno storico documento.

Marco Antonio pare tuttavia non si preoccupasse, come l’epulone di Plauto, più che tanto dell’orologio, perocchè avesse provveduto che la cucina propria rimanesse pronta a tutte l’ore del giorno ed a’ capricci del proprio stomaco; singolarmente curando che lo spiedo mantenesse sempre a disposizione di lui il porcellino da latte, di cui, si narra, fosse egli assai ghiotto.

[324b]

La Basilica in Pompei. Vol. I. Cap X. La Basilica.

[325]

CAPITOLO X. La Basilica.

Origine della denominazione di Basilica — Sua destinazione in Roma — Poeti e cantanti — Distribuzione della giornata — Interno ed esterno delle Basiliche — Perchè conservatone il nome alle chiese cristiane — Basiliche principali cristiane — Basilica di Pompei — Amministrazione della giustizia, procedura civile e penale — Magistrati speciali per le persone di vil condizione — Episodio giudiziario di Ovidio — Giurisprudenza criminale — Pene — Del supplizio della croce — La pena dell’adulterio — Avvocati e causidici.

Il significato affatto diverso che al tempo nostro si dà alla parola basilica, che si adopera per indicare le chiese più cospicue del culto cattolico, reclama che per me qui si fornisca alcun cenno sul significato e valore che si aveva in antico, e quindi a che servisse codesta di Pompei, della quale è ora giunto l’argomento.

Come di moltissime istituzioni e cose, e per quelle ragioni che, trattando della lingua parlata in Pompei e in tanta parte dell’Italia romana, ho ricordato; così avvenne pure che questa parola di Basilica avessero i Romani a dedurla dal greco nella lingua latina di Βασιλικὴ farne basilica, significando tal voce letteralmente [326] regia, cioè edificio regale. I Romani vi annetterono egual senso, perchè infatti nel seguente passo di Stazio, invece di basilica, si trovò usata la parola Regia, che è per l’appunto l’esatta traduzione del detto vocabolo greco:

At laterum passus hinc Julia templa tuentur,

Illinc belligeri sublimis regia Pauli[267].

Siffatta denominazione greca venne attribuita ai luoghi in cui specialmente rendevasi d’ordinario giustizia, perocchè questa fosse il precipuo diritto dalla regalità e venisse esercitata in edifizi dipendenti della reggia. Rimasto quel diritto anche in Roma presso i capi della republica dapprima, come dopo passò negli imperatori, nulla di più naturale che la denominazione venisse confermata. È forse l’egual ragione che fece assegnare anche ne’ tempi moderni, in cui sempre presso tutte le nazioni vien giudicato in nome del sovrano, il nome di Corte ai tribunali superiori, come l’Appello e la Cassazione.

D’ordinario nel mezzo di questi antichi edifizj, che si chiamavano basiliche trovavasi un fanum, o delubro, od oratorio come il diremmo adesso, e venivano consacrati a differenti usi dell’antica vita [327] esterna, e quindi compendiavano in sè quel che ai dì nostri in Italia la Sala dei Duecento della Camera elettiva, l’antisala del Senato, la Borsa, i Tribunali, le sale dei passi perduti, i clubs, e quegli altri publici ritrovi, in cui si trattano affari, si conchiudono contratti e si discutono interessi pur d’ordine publico e politico.

Stando a Publio Vittore, in Roma, allora la prima città e signora del mondo, si annoveravano fin diciannove basiliche, e Onofrio Panvinio le fa ascendere a ventuna.

Ciascuna aveva quattro tribunali, e fra questi tribunali il popolo romano poteva passeggiare riparato dal sole e dalla pioggia.

Sovente nelle Basiliche i filosofi tenevano i loro sapienti ragionamenti, ed Apulejo nell’Apologia ce lo conferma, dicendo avervi pronunciato una publica dissertazione al cospetto di numerosa moltitudine: ingenti celebritate basilicam (qui locus auditorii erat) confluentes.

I poeti vi traevano a leggere i loro versi, e parlando in un seguente capitolo delle Terme, mostrerò come venissero anche in siffatti luoghi alla medesima bisogna, non nuova adunque essendo e non de’ nostri giorni soltanto, l’importunità de’ poeti di recitare le loro composizioni ad ogni occasione, volenti o nolenti gli ascoltatori, onde a ragione Orazio avesse a satireggiarli:

[328]

.... in medio qui

Scripta foro recitent sunt multi, quique lavantes;

Suave locus voci resonat conclusus[268];

e Petronio, nel suo Satyricon, ci presentasse Eumolpione fatto segno alle sassate de’ monelli e della plebe per la sua interminabile smania di declamare ad ogni tratto de’ versi; a un di presso come de’ cantanti di tutti i tempi, che, pregati, ricusano cantare, e non pregati vi cantano al fastidio, alla sazietà, e perciò il medesimo Orazio li avesse a così riprendere:

Omnibus hoc vitium est cantoribus, inter amicos

Ut nunquam inducant animum cantare, rogati,

Injussi numquam desistant[269]

Il Venosino accennò la recitazione de’ versi nel foro, perchè la Basilica era parte del foro; onde nel tutto comprendeva la parte; lo che avverto sì che non paja men propria l’autorità di lui in questo lavoro invocata.

La qual ricreazione poetica non avveniva che nelle ore del vespro e dopo la decima ora, corrispondente [329] alle ore quattro dell’orologio francese; perocchè saviamente avessero i Romani del tempo della republica distribuita la loro giornata.

La prima ora del giorno, che era segnata dal levar del sole, consacravasi da essi a’ doveri di religione, accedendo a’ templi, e supplicando privatamente i numi, come suppergiù è il costume cristiano odierno; onde Virgilio nel suo poema, assegnando anche ai tempi favolosi del suo eroe la medesima consuetudine dell’epoca sua, fa dal Tebro ammonire Enea d’innalzar di buon mattino le sue preghiere a Giunone:

Surge, age, nate Dea, primisque cadentibus astris

Junoni fer rite preces[270],

e Giovenale, sentenziando come un santo padre, ne fornisce la ragione:

Orandum est ut sit mens sana in corpore sano[271].

I clienti, gli adulatori e gli eterni postulanti traevano invece mattinieri alle case de’ patroni, de’ ricchi e de’ magistrati per augurare loro il buon dì e cominciar la loro corte, e queste pratiche però appella Plinio il giovane officia antelucana.

La terza ora era data dagli uni agli affari nel foro e dagli altri a’ proprj commerci. La sesta, ch’era il [330] meriggio, imponevasi fine al lavoro, e così cessava la parte che il giureconsulto Paolo chiamava la migliore del giorno: Cujusque diei melior pars est horarum septem, primarum dies, non supremarum[272]; non altrimenti che la giudicava Virgilio:

Nunc adeo melior quoniam pars acta diei est,

Quod superest læti bene gestis corpora rebus

Procurate viri[273].

Ed era l’ora del modico desinare.

Dopo questa, abbandonavansi a’ passatempi, come al giuoco della palla o del pallone, quando, invece come da Orazio e da Virgilio, non si fosse preferito di concedersi al sonno, a seconda che il primo ci fa sapere in questo passo:

Lusum it Mecœnas, dormitum ego, Virgiliusque,

Namque pila lippis inimicum et ludere crudis[274].

Altri invece andavano al passeggio, ambulatio o gestatio, a seconda fosse a piedi, nella basterna[275] o [331] nella lettiga, ovveramente nella più elegante carpenta. All’ora ottava d’estate, alla nona d’inverno, cioè alle tre pomeridiane nostre, traevano alle terme pei bagni, di che comune e frequentissimo era l’uso, come a suo luogo più innanzi vedremo, e lo lasciò ricordato nelle sue lettere Plinio il giovane: ubi hora balnei nunciata est, est autem hieme nona, æstate octava[276].

Poi seguivano alternati gli esercizi ginnastici, il maneggio dell’armi, l’equitazione; e sulla nona o decima ora imbandivasi la cena equivalente al nostro pranzo, succeduta da qualche altra passeggiata o dalla recitazione di poeti delle opere loro nelle basiliche, o dalle cure domestiche, e così finiva la giornata.

Marziale memora a un di presso allo stesso modo la divisione delle occupazioni della giornata de’ Romani nel seguente epigramma:

Prima salutantes atque altera conterit hora.

Exercet raucos tertia causidicos:

In quintam varios extendit Roma labores:

Sexta quies lassis, septima finis erat.

Sufficit in nonam nitidis octava palæstris,

Imperat excelsos frangere nona toros.

Hora libellorum decima est, Eupheme, meorum,

Temperat ambrosias cum tua cura dapes[277].

[332]

Era nelle basiliche che solevano trattar all’amichevole tutti i negozi di interesse generale o particolare prima di portarli alla publica, clamorosa od officiale discussione nel Foro, come nella Historia Fori Romani ci fa sapere Francesco Polleto: Illic enim, et nundinæ mercium, et proxenetica contractuum, prologi nuptiarum, colloquia transactionum[279].

All’infuori delle grandi cause di publico interesse, che si trattavano e giudicavano nel foro, era nelle basiliche che si rendeva giustizia. Così l’interno di esse, essendo d’ordinario distinto in tre navate da due fila di colonne, come pur oggi si può, a cagion d’esempio, averne la testimonianza nelle rovine della basilica trajana nel foro di Trajano in Roma, all’estremità di quella di mezzo era riservato un emiciclo [333] in capo del quale sedeva il giudice, collocandosi gli assessori su de’ banchi addossati al muro. Era codesto emiciclo che si chiamava tribunale, d’onde venne il nome di tribuna a quella parte corrispondente che si riscontra nella assai congenere architettura delle chiese cristiane, la quale più volgarmente si denomina coro, a causa dei canti che vi si intuonano; non che il nome odierno consacrato di tribunali a tutti que’ luoghi in cui si amministra la giustizia.

L’esteriore delle basiliche differenziava nella architettura dai templi propriamente detti, non avendone tutta la solennità e ricchezza. Esse per consueto non avevano nè frontone, nè colonne, nè sontuosi vestiboli; ma presentavano sole e nude muraglie con grandi finestre nell’alto.

Come ognun vede adunque, convertendosi le basiliche di poi in templi cristiani, la transizione non fu difficile, leggiero essendone stato il cambiamento nelle disposizioni architettoniche; come anche oggidì scorgesi che nella erezione delle chiese se ne segue volontieri il piano.

Dalla poco dissimile architettura, o fors’anco dall’avere impiegate le antiche basiliche romane o l’area loro, convertendovi o fabbricandovi chiese, restò a queste il primitivo nome, e valse esso di poi a designare i più venerabili ed importanti templi cristiani.

In Roma venne questo nome accordato a cinque [334] grandi templi in memoria dei cinque patriarchi della chiesa primitiva di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, e sono quelle di San Giovanni Laterano, San Pietro, San Paolo fuor dalle mura, Santa Maria Maggiore e San Lorenzo pur fuor dalle mura, giusta questo cattivo distico:

Paulus, Virgo, Petrus, Laurentius atque Johannes

Hi patriarchatus nomen in urbe tenent[280].

Più tardi in Roma e altrove della cristianità venne esteso il nome di basilica anche ad altre chiese di minor importanza.

Come nel Foro Romano, detto oggi Campo Vaccino, in Roma, sorgevano la Basilica Giulia e la Basilica Emilia, alla quale hanno tratto i versi di Stazio superiormente da me riferiti; così anche nel Foro di Pompei eravi la Basilica, della quale ora favello.

Incominciatosi a sterrare nel 1813 in prossimità del tempio di Venere da cui non lo separa che una viuzza, davanti ad essa, dai frammenti che si raccolsero, si conobbe che sorgesse una statua equestre di bronzo dorato; ma nulla indicò chi potesse essa rappresentare e in onore di chi eretta. Giova ricordare che pur davanti alla basilica in Ercolano si rinvennero le statue equestri dei Nonnii, quantunque fossero di marmo.

[335]

L’edificio era isolato da tre lati e la fronte volta ad oriente. Vi si accedeva per cinque porte, o come con linguaggio d’allora appellavansi, cataractæ, chiuse con saracinesche nel modo stesso delle barriere esterne, come già notai a suo luogo. Al di fuori di una di queste cataractæ era scolpita la indicazione dell’edificio nella parola Bassilica (sic).

Questo doveva essere già stato guasto e deformato dal tremuoto del 63, perchè trovavansi atterrate colonne e muraglie e sconvolgimenti nel pavimento. Dovendosi così nel descriverlo ricorrere alle congetture, Bréton, da valoroso architetto ch’egli è, afferma che la basilica di Pompei si scosta assai da quella regola che Vitruvio ha tracciato nel Lib. V. c. I, della opera sua, che più volte ho pur io citata, per le basiliche ch’ei sopra tutto avrebbe voluto di tre navi, formanti un parallelogramma rettangolo, terminato da un emiciclo e diviso da due fila di colonne sormontate da un secondo ordine formante galleria.

La Basilica pompejana invece, secondo la di lui opinione, ha bensì tre navi, ma quella di mezzo egli reputa essere sempre stata scoperta, e però non potervisi ravvisare che un’area o un impluvium. Di quest’ultima denominazione di parte d’edificio farò conoscere il valore nel Capitolo che tratterà delle Case. Altre differenze egli constata; ma noi che abbiamo altri intendimenti in quest’opera che non sieno più specialmente gli architettonici, tiriamo innanzi.

[336]

Le due navate laterali costituite da portici coperti, ornati di statue di marmo ed erme in bronzo, con bagni e fontane, hanno due ordini di colonne l’uno jonico, corintio l’altro, e forma un secondo piano aperto sulla navata di esso, da dove era dato vedere i magistrati in tutti i punti della Basilica. Era quivi che si definivano dai giudici cause di minor rilievo, che gli avvocati tenevano consultazioni, che i giovani oratori si addestravano a declamare e che da altri si facevano publiche letture.

Nel fondo, a sette piedi di altezza, era la tribuna ove sedevano i magistrati o duumviri di giustizia, e davanti ad essa stava sovra ad alto piedestallo una statua equestre.

Sotto la tribuna, vedesi ancora una cameretta alla quale si discendeva per due piccole scalette tuttavia sussistenti. Era un momentaneo carcere, in cui durante il giudizio restava l’accusato in attesa della sentenza e disposto alle interrogazioni che gli sarebbero state mosse durante il publico giudizio. Le muraglie vi sono assai grosse, le finestrelle o spiragli sono munite d’inferriate, e dallo spiraglio aperto nella vôlta vuolsi che si facesse pervenire al condannato a morte la sua sentenza. Tutto ciò vi dà ancora una viva stretta al cuore.

A questo punto non sarà discaro qualche cenno sul modo con cui veniva, come in Roma, anche in Pompei, amministrata la giustizia.

[337]

Il vedere che in Pompei si rendeva giustizia dai duumviri, i quali erano, come i consoli in Roma, la prima magistratura, ognuno certamente avrà dedotta la conseguenza legittima che dunque i Romani, come ho anche superiormente narrato, avessero deferita l’amministrazione di essa a’ capi della Republica. Nondimeno, siccome i consoli erano anche i supremi condottieri dello esercito, e i Romani trovavansi quasi sempre in guerra, onde giuocoforza fosse che i consoli non rimanessero sempre nella città, nè così potessero incombere a’ giudizj, ne nacque il bisogno di affidarli ad un apposito magistrato, che fu chiamato pretore, cioè qui præiret jure (che precedesse pel diritto) e che in dignità tenesse tosto dietro ai consoli. Tale istituzione rimonta al 389 dalla fondazione di Roma, e Spurio Furio Camillo, figlio del grande Camillo, ne fu pel primo investito.

Nel 510, crescendo ogni dì il numero de’ forestieri, i pretori furono due, uno de’ quali detto prætor urbanus, che aveva giurisdizione sui cittadini di Roma; l’altro prætor peregrinus che l’aveva ne’ conflitti fra cittadini e forestieri.

Aumentate le conquiste, si crearono altri quattro propretori, i quali non solo amministravano la giustizia, ma anche tutti gli altri uffici esercitavano ch’erano proprii de’ proconsoli.

Nello assumere la carica, il pretore faceva in Campidoglio preghiere e voti (vota noncupabat) e prestava [338] il giuramento d’osservare la legge, e quindi publicava un bando (edictum) in cui stabiliva la procedura che nella sua amministrazione avrebbe seguito; a meno che non si fosse riferito ad editti precedenti, ned era da quel punto più lecito dipartirsi dalle discipline in essi sancite.

La raccolta degli editti dei pretori, costituenti il jus honorarium, detto anche diritto pretorio, ed aventi forza di legge, venne, sotto l’imperatore Adriano, fatta per opera del giureconsulto Salvio Giuliano, e si denominò edictum perpetuum.

Le cause di minor importanza si esaminavano e giudicavano dal pretore senza formalità e in qualunque luogo: quelle di maggiore si discutevano avanti il di lui tribunale publicamente, osservandosi tutte le formalità volute dalla legge.

I processi erano o di ordine privato o di ordine publico: i primi designavansi colla denominazione di judicia privata; i secondi con quella di judicia publica.

Soli trentotto giorni durante l’anno era vietato render giustizia e però dies fasti erano i giorni in cui la si rendeva, quod fari licebat; nefasti quelli in cui era vietato il renderla, quod non licebat fari; ed intercisi quei giorni, nei quali la mattina, durante il tempo de’ sagrificj, non si teneva ragione, ma tener la si poteva nel rimanente della giornata. Ovidio così vi accenna nel suo libro dei Fasti:

[339]

Ille nefastus erit, per quem tria verba silentur

Fastus erit, per quem lege licebit agi.

Neu toto perstare die sua jura putaris;

Qui jam fastus erit, mane nefastus erat.

Nam simul exta Deo data sunt, licet omnia fari;

Verbaque honoratus libera prætor habet[281].

Ho già detto più sopra che fosse all’ora terza, corrispondente alle nostre nove antimeridiane, che incominciavano i giudizj. Giovenale scrisse nella Satira IV di qual modo avessero essi principio:

. . . . . clamante Liburno,

Currite jam sedit[282],

e con ciò ne fa sapere che Liburnus si chiamasse l’usciere del tribunale, incaricato di proclamare, come si fa a un di presso anche oggidì, l’aprimento dell’udienza e come ora si grida: entra la Corte, o il Tribunale, [340] la udienza è aperta; il pretore, e più tardi il principe, siede. Forse liburni detti que’ messi curiali, perchè di preferenza eletti fra quella gente del litorale superiore adriatico detto appunto liburnico.

Sedeva il pretore sul tribunale, o posto più elevato detto suggestum, in sedia curule; in sedili più bassi, per ciò chiamati subsellia, i giurati, assessores; i testimoni, testes; gli avvocati, advocati, e gli scrivani, o cancellieri, o anche notai, scribæ, che tenevano processo verbale degli atti giudiziarj. Orazio aveva acquistato uno di questi posti di scriba: nella VI del lib. II delle Satire, così se ne mostra in funzione:

Ante secundam

Roscius orabat sibi adesses ad puteal cras....

De re communi scribæ magna atque nova te

Orabant hodie meminisses, Quincte, reverti...

Imprimat his, cura, Mæcenas signa tabellis...

Dixeris, «experiar, si vis, potes» addit et instat[284].

Se falliva il tentativo dell’amichevole componimento, l’attore, actor, citava con publica intimazione, detta edictum, l’avversario, reus, a comparire in giudizio, in jus vocare, a che se questi rifiutava, l’attore volgendosi [341] ad uno degli astanti, interrogava: licet antestari? se voleva, cioè, valergli di testimonio; al che assentendo porgevagli a toccare l’estremità dell’orecchio, auriculam opponebat, perchè nell’orecchio si riteneva fosse la sede della memoria. In questo caso l’attore poteva trascinare a forza il reo in giudizio, in jus rapere, afferrandolo persino per il collo, obtorto collo, come Plauto notò nella scena quinta del terzo atto del Pænulus e nella sesta del terzo atto della Rudens. Tali formule conservò il poeta e scriba Orazio testuali nella Satira IX del lib. I:

Fugit improbus, ac me

Sub cultro linquit. Casu venit obvius illi

Adversarius, et: quo tu turpissime? magna

Inclamat voce, et: Licet antestari? Ego vero

Oppono auriculam. Rapit in jus: clamor utrinque[285].

L’attore allora esponeva la petizione di quanto voleva condannato il reo, ciò che dicevasi actionem edere e poteva essere azione reale, actio in rem, se riguardava un diritto sopra una cosa; personale, condictio, se il suo obbiettivo era una personale prestazione incumbente all’avversario, come l’adempimento [342] d’un contratto; e penale, actio pœnalis, se avea tratto a querele di furto, rapine, danni ed offese personali.

Il Pretore, se trovava fondata la domanda sul genere dell’azione, emetteva la formola della domanda, e l’attore esigeva allora dal convenuto che questi mallevasse la sua comparsa in giudizio, vadatus est reum, e se tal malleveria non avesse potuto prestare, veniva tratto in giudiziario arresto ed aveva principio la causa.

Se poi senza legittimi motivi, sine malo vel causa sontica, alcuna parte non fosse comparsa, pronunziavasi, contro di essa, ciò che oggi direbbesi condannare in contumacia. Comparendo il reo, chiedeva all’attore: sei tu che mi citasti? Ubi tu es, qui me vadatus es? Ecce me tibi sisto: ecco io ti sto contro. E l’attore rispondeva: son qui, Adsum! Quindi intentava l’azione. Rispondeva il reo e l’atto suo dicevasi exceptio; l’attore dava la replica, replicatio, ed il reo ancora la duplica, duplitatio, denominazioni che nel processo civile austriaco, non ha guari dalle provincie lombardo-venete smesso, vennero conservate.

Il Pretore, ultimato ciò, nominava i giurati, judices dabat, cui delegava assumere i testimonj che reputava convenienti, a sè riserbando sempre la suprema direzione del processo, ciò che fece luogo al proverbio, tuttavia vivo tra noi: de minimis non curat prætor, cioè delle minime cose non s’occupa il pretore.

[343]

I giudici potevano essere o arbitri, se pronunciavano secondo equità, quando la legge non istatuisse chiaramente; recuperatores se aggiudicar dovevano una proprietà, e centumviri se avevano a decidere cause di eredità e testamenti; così chiamati perchè rappresentanti delle tribù, ed erano suddivisi in quattro comitati, concilia, e venivano convenuti da una deputazione di dieci individui, perciò chiamati decemviri.

Ricevuta costoro la formola dell’ufficio loro dal Pretore, le Parti o i loro procuratori promettevano riconoscere ed eseguire la sentenza che sarebbe stata resa, ciò che dicevasi judicatum solvi et rem ratam haberi.

Aveva luogo allora l’esposizione del fatto e la deduzione delle prove reciproche, e ciò finito, il giurato togliendo una pietra in mano così imprecava: si sciens fallo, tum me Diespiter, salva urbe, ex bonis ejiciat, ut ego hunc lapidem[286], d’onde trasse origine la frase: Jovem lapidem jurare. I giudici sedevano poscia sui subsellii, o panche inferiori al Pretore, e lasciavasi la parola agli avvocati, che tenevano quelle arringhe, splendide di eloquenza, di cui ci rimasero nobilissimi esempj nelle opere di Cicerone. E siccome non fosse lecito ad essi l’abusare del tempo, questo limitavasi alla durata di una clessidra, od [344] orologio ad acqua, salvo per altro a chiedere la rinnovazione della clessidra.

Perorata la causa da ambe le parti, ritraevasi il Pretore co’ giudici per lo scrutinio e dopo il mezzogiorno, a pluralità di voti, rendevasi la sentenza; a meno che l’importanza e la difficoltà della causa non esigessero o un più maturo esame, od una ulteriore discussione. Nel primo caso chiedevasi dilazione; nel secondo indicavasi una nuova trattazione, che si diceva actio secunda. Ne abbiamo pur l’esempio nelle Verrine del suddetto Cicerone.

Giudicata la lite, chi perdeva era tenuto ad eseguire il giudicato, e in difetto, non offrendo un mallevadore, sponsor, o vindex, il Pretore consegnavalo schiavo al suo avversario.

Era per altro ammesso appellarsi a giudice superiore; od in caso di errore, error, od inganno, dolus, il Pretore cassava la sentenza e rimetteva le parti in intero: in integrum restituere.

Erano deferiti ad uno speciale magistrato i giudizi che avevano attinenza alla polizia e repressione delle persone di vil condizione, come gli schiavi, le cortigiane e, non parrà vero, anche i poeti, che il vecchio Catone, a ragion di disprezzo, chiamava miserabili servitori dei grandi, grassatores. Il campano poeta Cneo Nevio, che si conta fra’ migliori comici latini dagli storici di quella letteratura, è un esempio delle ingiurie fatte alle lettere dagli antichi [345] Romani, che pur osavano appellar barbari gli altri popoli. Imperocchè da questo magistrato, per accusa di maldicenza contro i maggiorenti della città, venne messo in ceppi, nè vi potè esser tolto che dai tribuni della plebe, dopo d’essersi fatto perdonare colla umiliazione di disdirsi nelle due commedie Ariolo e Leonte da lui scritte in prigione.

Questo magistrato erano i triumviri capitales, e li veggiam menzionati nell’Asinaria di Plauto, appunto nel caso in cui un amante minaccia di trascinare ai magistrati la cortigiana che ha rotto fede al chirografo di fedeltà (syngraphum), che gli ha rilasciato. Che fosse codesto chirografo di fedeltà, vedremo, narrando della romana prostituzione altrove.

Ibo ego ad tresviros vestraque ibi nomina

Faxo erunt[287].

E poichè m’accade parlare di questo speciale magistrato e degli strani processi che vi si agitavano innanzi, rallegrerò questi cenni di arida procedura col racconto d’un aneddoto intervenuto allo stesso Ovidio e nel quale ei medesimo figura siccome testimonio e siccome attore. I suoi versi racchiudono inoltre tecniche indicazioni delle forme processuali quali testè ho riferite; onde sono, in tal riguardo, un vero documento storico per la forense giurisprudenza.

[346]

Si sa ch’egli aveva fatto più d’una volta professione di non redigere le differenti parti della sua amorosa didattica, che per le donne escluse dalla società a causa di lor condizione, per quelle cui le foggie delle vestimenta distinguevano dalle donne, e per fanciulle di libera condizione, e cui

Nec vitta pudicos

Crines alba tegit, nec stola longa pedes.[288]

Or udiamo lui stesso cantare questo episodio curioso, che del resto ritrae una delle abitudini romane, infiltratasi nella vita di questi fieri conquistatori, da che per le guerre d’Africa, di Grecia e d’Asia, accresciutesi le ricchezze loro, i costumi presero a mutarsi e non in meglio sicuramente.

Turpe vir et mulier, juncti modo, protinus hostes.

Non illas lites Appias ipsa probat.

Sæpe reas faciunt, et amant; ubi nulla simultas

Incidit, admonitu liber aberrat amor.

Forte aderam juveni; dominam lectica tenebat.

Horrebant sævis omnia verba minis.

Jamque vadaturus; lectica prodeat, inquit.

Prodierat; visa conjuge, mutus erat.

Et manus, et duplices manibus cecidere tabellæ,

Venit in amplexus, atque: Ita vincis, ait,

[347]

Tutius est aptumque magis discedere pace,

Quam petere a thalamis litigiosa foro.

Munera quæ dederis habeat sine lite jubeto[289]

Questo era il procedimento civile e quello che or direbbesi correzionale: mi resta ora di trattare sotto l’egual brevità della giurisdizione criminale, distinta in giudizj publici straordinarj ed in giudizi publici ordinarj.

Dove taluno si fosse reso colpevole di un delitto contro lo stato, veniva deferito al Pretore, che istituiva [348] un processo criminale, a seconda della pena che pel reato fosse comminata; ma se legge positiva non vi fosse contro un determinato reato, veniva l’accusato rimesso a’ comizj. I primi erano i surriferiti judicia publica ordinaria, detti anche quæstiones perpetuæ, e gli altri judicia publica extraordinaria, o judicia ad populum. È ultroneo il dire come i più importanti fossero quelli ne’ quali discutevasi della vita e della libertà de’ cittadini.

Al tribunale criminale non potevansi citare d’ordinario che i privati, la franchigia dell’esenzione da tal pericolo dovendo solo esistere per coloro che coprissero publiche cariche, i quali unicamente potevano esser citati quando fossero usciti d’impiego.

L’accusa veniva data da un magistrato dinanzi al popolo, asceso sui rostri, col dichiarare di volere in determinato giorno promuovere l’azione criminale contro alcuno pel reato che designava, che però invitava a comparire. Intanto veniva l’imputato sostenuto in carcere, fuor del caso avesse egli prestato un mallevadore per sè medesimo. Non comparendo, condannavasi in contumacia all’esiglio: diversamente, presentavasi squallidamente vestito. L’accusatore procedeva allora all’accusa formale, replicata in tre giorni differenti e suffragavala di prove, testimonj, o documenti, colla proposta della relativa pena corporale od ammenda.

Compiuta la terza accusa, in tre giorni consecutivi [349] di mercato publicavasi la rogatio o bando, in cui si esprimeva il delitto e la pena proposta, e il giudizio comiziale che ne conseguitava veniva detto mulctæ pœnæve certatio. Nel terzo giorno di mercato, previa una quarta ed ultima ripetizione da parte dell’accusatore dell’atto di denunzia, l’accusato, o di per sè, o col mezzo di un avvocato (patronus) con una arringa, oratio judiciaria, difendevasi, nulla lasciando d’intentato per eccitare la compassione del popolo e cattivarsi il favore di lui. Abbiamo già veduto di qual modo adoperasse Publio Silla, il capo della colonia pompejana, quando venne accusato, seco avendo condotto perfino il suo tenero figliuolo.

Ai prossimi comizj, il popolo veniva chiamato a votare nel modo che ho già spiegato nel capitolo precedente, parlando de’ giudizj penali deferiti ai comizj.

Se per avventura sfavorevoli riuscissero gli auspicj, se taluno fosse stato incolto da epilessia, la qual però designavasi anche col nome di morbus comitialis, o se fosse stata involata la bandiera dal Gianicolo, ciò impedendo di mettere a partito l’accusa, questa non potendo più essere rinnovata, veniva l’accusato dimesso.

Di tali straordinarj giudizi publici, sono esempj ricordati dalla storia: quello contro M. Orazio sotto i Re, pel commesso sororicidio; e quelli contro Coriolano, Tito Manlio, Publio e Lucio Scipione, Tito [350] Annio Milone, Sergio Catilina e M. T. Cicerone per tradimento o turbazione dello stato, o come dicevasi perduellione, ai tempi della republica.

Ma siffatto modo di procedere ne’ casi criminali non poteva, come di leggieri ognuno vede, camminare spedito, quando i reati, per l’aumento della popolazione, vennero proporzionalmente crescendo, e quindi i giudizj si dovettero deferire a commissarj o inquisitori, inquisitores, che, a seconda del loro numero, si nomarono duumviri o triumviri.

In progresso di tempo furono di esclusiva competenza del Pretore i delitti de repetundis, o d’estorsione; de ambitu, o broglio, nel concorso alle supreme cariche; de majestate, contro la sicurezza e dignità dello stato; de peculatu, o di malversazione del publico denaro; de falso vel crimine falsi, ossia di falsificazione di monete e di documenti; de sicariis et veneficiis, ovvero di assassinio od avvelenamento, e finalmente de parricidiis, di parricidio.

I relativi giudizj chiamavansi adunque, come notai più sopra, judicia publica ordinaria, o quæstiones perpetuæ.

Assisteva il Pretore un collegio di giudici o d’uomini giurati, il capo de’ quali appellavasi judex quæstionis, o princeps judicum, e costituivasi prima di soli senatori, poi anche di cavalieri, scelti d’anno in anno fra i 30 e i 60 anni, suddivisi in decurie.

Ogni cittadino romano poteva essere accusatore: [351] pare che in Roma vi fossero anche accusatori publici, come sarebbe in oggi quella istituzione che è nota sotto il nome di Publico Ministero.

Il restante della processura era suppergiù il medesimo che ho testè riferito: solo finita l’arringa dell’oratore, che chiudevasi colla parola dixi, ho detto, il banditore annunziava la chiusura del dibattimento colla parola dixerunt. Dopo di che, il Pretore invitava i giudici a ponderare il tutto: ed essi ritraevansi, discutevan fra loro e poi davano il loro voto. Dapprima questo espressero con pietruzze bianche e nere, che deponevano nell’urna, poi colle tre tavolette distinte colle sigle che ho già rammentate.

Intanto l’accusato prostravasi a’ piè de’ giudici e prostravansi con lui gli amici, invocandone la misericordia.

Se i voti erano eguali, se ne aggiungeva allora uno, detto calculus Minervæ, ed era in favore dell’accusato, che perciò si dichiarava assolto. Se i giudici dichiaravan la dubbiezza del giudizio rimettevasi la decisione ad altro giorno: causa ampliata erat.

L’accusato che veniva assolto, ripigliava le sue consuete vestimenta; ma se veniva condannato, veniva assoggettato alla dovuta pena.

Otto erano le specie di pene, cioè:

1.ª Mulcta vel damnum, ammenda pecuniare.

2.ª Vincula, carcere con catene, ceppi a’ piedi, compedibus, e manette, manicis.

[352]

3.ª Verbera, battiture con bastoni, fustibus; verghe, virgis; o sferze, flagellis.

4.ª Talio, taglione, per cui infliggevasi al reo il danno ch’egli aveva ad altri recato.

5.ª Ignominia vel infamia, infamazione.

6.ª Exilium, bando, che dapprima consisteva nell’interdizione dall’acqua e dal fuoco, e sotto gli imperatori nella relegazione a tempo determinato.

7.ª Servitus, schiavitù.

8.ª Mors, morte che s’infliggeva nei primi tempi coll’appiccare (infelici arbori suspendere); poi colle battiture (virgis cædere), o colla decapitazione (securi percutere); colla precipitazione dalla rupe Tarpeja (de saxo Tarpejo dejicere); colla strangolazione (laqueo gulam frangere). — Il parricida veniva chiuso in un otre, o sacco di cuojo, culeus, con un serpe, un cane ed una scimmia e gittato nel mare. Giovenale accenna alla pena del parricidio in quei versi della Satira VIII, in cui così bolla a fuoco il matricida Nerone:

Libera si dentur populo suffragia, quis tam

Perditus ut dubitet Senecam præferri Neroni,

Cujus supplicio non deberit una parari

Simia, nec serpens unus,nec culeus unus[290].

[353]

Gli schiavi poi, colpevoli di delitto, chiudevansi in sotterranei ergastoli, talvolta marchiavansi con ferri roventi sulla fronte, o si serbavano incatenati o con legata intorno al collo una specie di forca. Giusto Lipsio rammenta inoltre un altro supplicio quasi peculiare ad essi, cioè il crurifragio, o frattura delle gambe. Operavasi coll’imporre sull’incudine le tibie del paziente, spezzandole poscia a gagliardi colpi di martello. Nella commedia intitolata Asinaria, Plauto vi allude in quel passo della scena quarta dell’atto secondo:

Crura, hercle, diffringentur

Ni istum impudicum percies[291].

E qui ancor d’un altro e non men doloroso ed infame supplizio debbo far cenno; di quello, intendo, della croce.

Convertita essa da tanto tempo in segno di redenzione e di culto, perchè vi moriva affisso il Cristo, sarà interessante ch’io dica qualche parola specialmente di questa pena.

Raramente veniva essa applicata a persone che non fossero di vil condizione; tanto così che Cicerone avesse a costituire a Verre accusa di gravissimo delitto per avere dannato alla crocifissione un cittadino romano: Facinus est vinciri civem romanum, [354] scelus verberari: prope parricidium necari: quid dicam in crucem tollere?[292]

Il più spesso era pei crimini di lesa maestà, che si condannavano alla croce; onde vediamo che Gesù Cristo appunto recasse per titolo della crocifissione l’iscrizione Rex Judæorum, quasi si fosse veramente costituito re della sua nazione.

Quando trattavasi di dare più lieto e interessante spettacolo al popolo, sostituivasi allora alla croce l’esposizione nel circo alle bestie o lo si istoriava rendendolo episodio o parte di azione pantomimica; ma di ciò più a lungo nel capitolo dell’Anfiteatro.

Il supplizio quindi della crocifissione usavasi più frequente nelle provincie guerreggiate e conquistate, e accadde anzi spesso che se ne abusasse anche a punizione de’ nemici.

Già Alessandro Magno ne aveva dato il crudelissimo esempio, quando presa Tiro, ne faceva crocifiggere duemila; altro Alessandro, nella Giudea, banchettando in publico colle sue cortigiane, pascendosi ad un tempo lo sguardo colla crocifissione di ottocento giudei: Quintilio Varo, della stessa gente per un tumulto ne fe’ sospendere egli pure duemila. Tito, nell’assedio di Gerusalemme, ne fe’ affiggere più di cinquecento, e [355] fu detto in quell’occasione che per la quantità dei crocefissi mancasse la terra alle croci, le croci ai corpi. Augusto, ultimata la guerra Sicula, mandò alla croce seicento schiavi; Tiberio condannò al supplizio di essa i Sacerdoti di Iside ed Ida l’ancella di Paolina, per aver prestato mano all’adulterio di costei nel tempio di quella Dea.

Si sa inoltre che i tiranni nella persecuzione del nascente Cristianesimo, ne condannassero i neofiti assai sovente ad essere crocifissi.

Nerone, per questi infelici, immaginò nuovo genere di tormenti.

Tacito e Seneca fanno menzione dell’orribil supplizio con cui questi innocui credenti, che si pretendevano essere scelleratissimi nemici dell’impero, si cercava invano di soffocare e distruggere. Quel crudele li condannò rivestendoli d’una tunica solforata, ad ardere vivi e legati a pali, servendo di torcie, di fanali negli orti imperiali; onde Giovenale con invereconda indifferenza, vi allude in que’ versi:

. . . . . Tæda lucebis in illa

Qua stantes ardent, qui fixo gutture fumant[293].

Ma non erano questi supplizj dalle leggi portati, [356] sibbene solo dal capriccio del tiranno introdotti: epperò ritorniamo a dire e chiudere l’interrotto e non men doloroso tema della crocifissione.

Gli scrittori distinsero la crocifissione per affissione e per infissione. Esempio della prima è la croce del Redentore, su cui appare affisso ed inchiodato: della seconda nelle parole di Seneca: cogita carcerem et crucem, et adactum per medium hominem, qui per os emergat stipitem[294], troviamo gli estremi della impalazione.

Gli uomini, a trovar tormenti pei loro simili, furono sempre fecondissimi e studiarono di molto nell’immaginar modi di dar morte. I tempi moderni, che la pretendono a leggiadria, conservarono la forca e pretesero anzi perfezionarla, inventarono la ghigliottina e la fucilazione, disputando perfino quale di questi generi di morte recasse e quale non recasse infamia. Nè la parola santissima di Beccaria, nè l’esempio d’altre legislazioni, nè il grido della civiltà che protesta ad ogni condanna di morte, valsero, pur in questi nostri giorni, a cancellare dal codice di questa nostra Italia la crudelissima pena e pur di non frodare dello spettacolo della capitale esecuzione le provincie che ne fruivano prima della costituzione dell’italiano regno, si derogò allo statuto patrio, chiudendo [357] gli occhi sulla Toscana, che nel codice Leopoldino aveva abolito la pena di morte, che non la volle per ogni conto rimessa e cui però non fu estesa.

Ugo Foscolo ebbe a cantare ne’ Sepolcri:

. . . che nozze, tribunali ed are

Diero alle umane belve esser pietose

Di sè stesse e d’altrui;

ma di grazia, m’è lecito ora di chiedere, di che mondo intendeva egli parlare?

Erano dunque le summenzionate pene quelle che si infliggevano dai Romani: leggendo tuttavia i poeti, vedesi fatta menzione d’una speciale riserbata a coloro ch’erano colti in adulterio, la quale convien dire fosse ben di frequente applicata, se di adulterj è fatto cenno ad ogni tratto ne’ satirici di quel tempo, Orazio, Giovenale e Persio, e da’ lirici, fra cui primeggiano Ovidio e Catullo, senza tener conto dell’inverecondo Marziale. Orazio, nella satira seconda del Libro Primo, parla di castighi dati ad adulteri, abbastanza fieri; d’essere cioè buttati dall’alto della casa, flagellati, uccisi sul luogo scompisciati da servi o mutilati: ma le eran codeste private vendette d’offesi mariti. Giovenale e Catullo ricordano entrambi il castigo della introduzione nelle viscere dell’adultero sorpreso di rafani e di mugili, i quali ultimi erano pesciolini voraci e che però dovevano cagionare al paziente indicibile tormento. Tali pene, vogliono alcuni commentare fossero dalle leggi comminate.

[358]

Udiamo Giovenale:

Fiet adulter

Publicus et pœnas metuet, quascumque mariti

Exigero irati; nec erit felicior astro

Martis, ut in laqueos numquam incidat Exigit auteum

Interdum ille dolor plus, quam lex ulla dolori

Concessit. Necat hic ferro, secat ille cruentis

Verberibus, quosdam moechos et mugilis intrat[295].

E Catullo:

Ah! tum te miserum, malique fati

Quem attractis pedibus, patente porta

Percurrent raphanique mugilesque[296].

Io non consento che siffatte rappresaglie venissero da legge alcuna veramente autorizzate: questo solo mi so che a Roma nei primi tempi della Repubblica, come Licurgo aveva fato a Sparta non venne [359] portata legge contro l’adulterio: la donna colpevole era giudicata arbitrariamente da un tribunale composto del marito e de’ suoi parenti; la morte poteva essere pronunciata; e forse in tale epoca, ma non a’ tempi di Giovenale, potevasi all’ombra di tal consuetudine applicarsi l’atroce castigo, quantunque sembri tuttavia che più abitualmente la pena dell’adulterio fosse il bando. La rilassatezza de’ costumi, verso la fine della Repubblica, determinò Augusto a far una legge contro l’adulterio: la legge detta Julia, che dava facoltà ad ogni cittadino di denunciare i colpevoli e pronunziava contr’essi la relegazione.

Se non che converrebbe pensare che più che la nuova legge, stando a citati poeti, venisse osservata la legge consuetudinaria antica di un tribunale di famiglia nel cui codice fosse l’orribil pena da essi menzionata.

E poichè il mio lavoro ha la propria occasione da Pompei, rammenterò che nella Campania, di cui, come più volte avvertii, Pompei era parte, quando una femmina veniva sorpresa in adulterio, veniva spogliata delle vestimenta, poi era condotta nel foro, ed esposta nuda sopra una pietra, ove per più ore era segno alle ingiurie, alle derisioni, ai fischi della ciurmaglia; indi ponevasi sopra un asino che si mandava in giro per la città in mezzo agli schiamazzi. Altro castigo non le veniva inflitto, ma restava infame, si mostrava a dito, dicendola Ονοβὰτις (che [360] montò l’asino) e le durava il nomignolo pel rimanente dell’abbietta e miserabile sua vita[297].

Con sì diversi giudizj civili e penali, con pene così formidabili e, più che tutto, in mezzo a tanta corruzione di costumi, doveva, penserà per avventura taluno, essere stata bazza per gli avvocati (patroni oratores), e per i causidici (pragmatici). Io chiuderò il presente capitolo con una parola intorno ad essi.

E questa volta ancora mi è forza, per le informazioni, ricorrere a Giovenale: coi ritratti forniti da questo poeta si può fare una storia domestica di Roma, ne’ primi secoli dell’impero. Il suo libro, avverte giustamente Nisard, è un mirabile complemento di quello di Tacito; è la cronica privata di un’epoca, della quale Tacito ha scritto la storia pubblica.

Asconio ci fa sapere che chi difendeva altri in giudizio, o veniva detto Patronus, se era oratore: o Advocatus, se suggeriva la parte del diritto o comodava la sua presenza all’amico; o finalmente Cognitor, se interessavasi alla causa e la difendeva come propria.

Nel senso di advocatus che assiste di sua presenza l’amico trovasi esempio in Plauto:

Res magna amici apud forum agitur: ei volo

Ire advocatus[298].

L’avvocato che è alla moda, dice adunque Giovenale, nella Satira Settima, è assai che ottenga, in prezzo de’ [361] suoi sudori, un rancido prosciutto, de’ pesci stantii, delle vecchie cipolle o alcune bottiglie di vino incerconito. Se busca una qualche moneta d’oro, gli bisogna farne parte a mediatori che glie ne hanno procacciato l’occasione. Ma il suo collega, il quale è sul candeliere, con minor talento di lui, tira a sè tutte le cause, ed è pagato di buona moneta. Questo avviene perchè egli s’è fatto scolpire in bronzo sotto il suo largo vestibolo, seduto sopra un cavallo di battaglia; perchè il litigante, innanzi di affidare la sua causa all’avvocato, esamina se gli brilli in dito un magnifico anello d’oro, se facciasi portare da otto facchini e sia seguito da una lettiga e preceduto da un corteo di amici vestiti delle loro toghe.

Non froderò i lettori dell’originale e viva pittura, la quale, se non interamente, ha tuttavia la sua buona parte d’attualità: in grazia di che mi si vorrà perdonare la lunghezza della citazione:

Rumpe miser tensum iecur, ut tibi lasso

Figantur virides, scalarum gloria, palmae.

Quod vocis praetium? siccus pettasunculus et vas

Pelamydum, aut veteres; Afrorum epimenia, bulbi,

Aut vinum Tiberi devectum, quinque lagenas.

Si quater egisti, si contingit aureus unus,

Inde cadunt partes ex foedere pragmaticorum.

Aemilio dabitur, quantum licet, et melius nos

Egimus: huius enim stat currus aeneus, alti

Quadriiuges in vestibulis, atque ipse feroci

Bellatore sedens curvatum hastile minatur

Eminus, et statua meditatur proelia lusca.

Sic Pedo conturbat, Matho deficit: exitus hic est

Tongilli, magno cum rhinocerote lavari

[362]

Qui solet et vexat lutulenta balnea turba,

Perque forum iuvenes longo premit assere Medos,

Empturus pueros, argentum, murrhina, villas:

Spondet enim Tyrio stiataria purpura filo.

Et tamen est illis hoc utile: purpura vendit

Causidicum: vendunt amethystina: convenit illis

Et strepitu, et facie maioris vivere census.

Sed finem impensae non servat prodiga Roma.

Fidimus eloquio? Ciceroni nemo ducentos

Nunc dederit nummos, nisi fulserit annulus ingens.

Respicit haec primum qui litigat, an tibi servi

Octo, decem comites, an post te sella, togati

Ante pedes. Ideo conducta Paulus agebat

Sardonyche atque ideo pluris quam Cossus agebat,

Quam Basilus. Rara in tenui facundia panno.

Quando licet Basilo flentem producere matrem?

Quis bene dicentem Basilum ferat? Accipiat te

Gallia, vel potius nutricula causidicorum

Africa, si placuit mercedem ponere linguae

Declamare doces?[299]

Ma non tutti gli oratori potevano pretenderla a scienza e dottrina di giure civile, la quale di causa in causa veniva il più spesso somministrata da’ causidici. Fra’ Greci, avverte Cicerone, coloro che tali si chiamavano [363] erano uomini di basso affare, i quali con picciol salario fornivano agli oratori quelle notizie legali che nelle cause eran necessarie sapersi; ma ben altrimenti venivano in Roma considerati, tenendosi occupazione di qualsivoglia più illustre e grand’uomo.

Dopo infatti aver detto che chiunque presuma [364] aver lode di perfetto oratore sia necessario ch’egli abbia cognizione intera del civile diritto, così conchiude: Senectuti vero celebrandæ et ornandæ quod honestius potest esse perfugium quam juris interpretatio? Equidem mihi hoc subsidium jam ab adolescentia comparari non solum ad causarum usam forensem, sed etiam ad decus atque ornamentum senectutis, ut quam me vires (quod fere iam tempus adventat) deficere caepissent, isto ab solitudine domum meam vindicarem[300].

Causidici, in questo senso, sarebbero tra noi quegli avvocati consulenti, che piuttosto alle consultazioni od all’istruzione delle cause attendono, che non alla loro pertrattazione avanti i Tribunali.

[365]

CAPITOLO UNDICESIMO Le Curie, il Calcidico e le Prigioni.

Origine ed uso delle Curie — Curie di Pompei — Curia o Sala del Senato — Il Calcidico — Congetture di sua destinazione — Forse tempio — Passaggio per gli avvocati — Di un passo dell’Odissea d’Omero — Eumachia sacerdotessa fabbrica il Calcidico in Pompei — Descrizione — Cripta e statua della fondatrice — Le Prigioni di Pompei — Sistema carcerario romano — Le Carceri Mamertine — Ergastuli per gli schiavi — Carnifex e Carnificina — Ipotiposi

È opinione di molti che in Pompei, se le cause di maggior momento venissero come in Roma trattate nella Basilica, quelle di minor importanza fossero giudicate nelle sale o Curie, come con linguaggio forense appellavansi, pur conservato fino a’ nostri giorni, in cui curia e curiali significano tuttavia luoghi di giudizio e persone addette agli stessi. Che il luogo poi delle Curie fosse alle cause minori disposto è rivelato altresì dal valore della parola stessa. Essa indicava la parte minore del popolo romano, che Romolo appunto distribuì dapprima in tre tribù e le tribù suddivise poscia in dieci curie ciascuna, così chiamate, secondo ne fa fede Tito Livio, dai nomi delle donne sabine che vennero dai Romani rapite[301]. [366] Queste curie, nella dissepolta città, si vedono presso l’entrata della Basilica, di cui si giudicarono dipendenza e che furono scoperte nell’anno 1814. Il fabbricato, essendo di mattoni rossi e di essi intera la costruzione, fu ritenuto che fosse opera posteriore, o rifatta dopo il tremuoto del 63. Ciò che per altro più probabile appare, è che non fossero ristaurate che dopo il 63; perocchè, nota opportunamente a questo riguardo il signor Bréton, non trovandosi esse nell’asse del Foro, dovessero necessariamente essere anteriori al Foro stesso; senza di che infatti sarebbero state coordinate al medesimo.

Il fondo di esse sale è semi-circolare, vi sono nicchie e vi sono podii, se han potuto giovare a farle ritenere siccome luoghi sacri addetti a’ magistrati incaricati appunto di conoscere e giudicare di quelle minori cause.

Appajono tutte di forma rettangolare, le mura dovevano essere già state rivestite di marmo, e Dyer, senza recar prove di sorta, vorrebbe nella seconda sala che vi fosse stato un tesoro pubblico; forse ciò indotto a credere dalla sola circostanza che in essa si rinvennero de’ vuoti forzieri in pietra e qualche moneta d’oro e d’argento.

Queste tre sale, o curie, non vanno tuttavia essere confuse colla Curia, più propriamente così designata in quel monumento scoperto dal 1817 al 1818, che è nelle Guide con questo nome indicata, o coll’altro [367] eziandio di Sala del Senato. Malgrado il significato superiormente riferito che alla voce curia solevasi dare da’ Romani; nondimeno s’adoperava da essi altresì a chiamare il luogo del Senato; onde Varrone ne fornisce la diversa definizione: curia, ubi Senatus rempublicam curat[302].

È un edificio codesto di Pompei, come le altre minori curie, semi-circolare, molto aperto dal lato del Foro: decorata ne è la gran sala, o senaculum, di stalli elevati, di nicchie e di colonne e certo un giorno deve essere stata anche di statue.

Bonucci opina che in questo recinto l’ordine dei Decurioni tenesse le proprie adunanze pubbliche, non già forse un comitium, o luogo in cui il popolo votasse nelle elezioni dei magistrati; perocchè il piano delle sue rovine non risponda a quei dati che di un luogo di comizj ci forniscono gli scrittori dell’antichità; mentre l’ipotesi di esso Bonucci e d’altri molti venuti nella stessa sentenza s’accordi colla speciale sua situazione sul Foro, giusta quanto è scritto al capo II, del Lib. V. De Architectura di Vitruvio. Ærarium, scrive egli, carcer, curia, foro sunt conjungenda, sed ita uti magnitudo symmetriæ eorum foro respondeat. Maxime quidem curia imprimis est facienda ad dignitatem municipii sive civitatis... Præterea præcigendi sunt parietes mediis coronis ex intestino opere aut albario ad [368] dimidiam partem altitudinis. Quæ si non erant, vox ibi disputantium elata in altitudinem intellectui non poterit esse audientibus: cum autem coronis præcincti parietes erunt, vox ab imis morata prius quam in aera elata dissipabitur, auribus erit intellecta[303].

Dipendenza della Basilica, a quanto ne riferisce il medesimo Vitruvio, è il Calcidico; e però ne tengo qui partitamente parola.

Basilicarum loca adiuncta foris quam calidissimus partibus oportet constitui, ut per hiemem sine molestia tempestatum se conferre in eas negotiatores possint!.... Sin autem locus erit amplior in longitudine, Calcidica in extremis partibus constituantur, ut sunt in Julia Aquiliana[304].

. [369]

Se ho già, nel Capitolo de’ Templi, parlando di quel probabile di Cerere, messa fuori una congettura che il Calcidico di Pompei potesse aver servito alle cerimonie sacre a quella divinità, e dissi alla meglio qualche ragione che non mi parve po’ poi troppo cattiva: ora per altro, indipendentemente da quella congettura che abbandono volontieri agli archeologi, seguendo e la detta autorità di Vitruvio e l’uso che al Calcidico hanno diversamente assegnato gli illustratori tutti, giusta eziandio la fattane riserva, ne tratterò a questo punto più diffusamente.

A che veramente servir dovesse il Calcidico, non è nè sì prestamente, nè con giustezza irrecusabile facilmente detto.

Perocchè taluni pretesero trovarne la destinazione, decomponendone il nome di greca origine ὰπὸ τῶ χαλκω καὶ δικης, cioè dal rame e dalla giustizia, e però ne fecero fuori una zecca; ma Filandro, citato nelle note della traduzione di Vitruvio dal Galiani, che confessa aver egli creduto per un tempo essere stati i calcidici passeggi per comodo degli oratori e degli avvocati, quelli che con vocabolo francese noi diremmo ora sale dei passi perduti; si arresta poi a credere che fossero così dette invece da quel che leggesi in Pompeo Festo, essere cioè nominata Calcidica una specie di edifizio dalla città di Calcide nell’Eubea.

Tito Livio nomina un tempio di bronzo di Minerva [370] detto Calciaecon[305]; Cornelio Nipote, nella Vita di Pausania, lo ricorda in quelle parole: ædem Minervæ quæ Calciaecus vocatur; ma Leon Battista Alberti, che è il più antico de’ critici in questa materia, vorrebbe i calcidici essere stati una galleria traversale, posta ai lati del tribunale delle basiliche, dando così all’edificio la forma di un T.

«La verité, osserva saviamente Bréton, et en cela nous sommes d’accord avec le savant architecte florentin Bechi, qui a publié une dissertation sur la question qui nous occupe, la verité nous parait être dans ce passage de Vitruve (che riferii più sopra) sin autem locus erit amplior in longitudine, chalcidica in extremis constituantur. L’incertitude est venue d’une fausse interpretation de ce passage; on en a traduit les premiers mots: mais si le terrain le permet.... Ce n’est pas rendre la pensée de l’auteur. Vitruve a fixé par des régles le rapport de la longueur de la basilique avec sa largeur, et c’est alors qu’ il ajoute: mais si le terrain est trop long (en proportion de la largeur) on construira à l’extrémité des chalcidiques.

«Il est evident que Vitruve indique ici d’une manière positive que le chalcidique était une grande salle précédant la basilique et non pas une addition latérale, comme le veut L. B. Alberti, puisque en adoptant sa supposition, le chalcidique aurait elargi [371] le plan de la basilique au lieu de diminuer sa longueur.»[306]

Ed io, senza pregiudizio, ripeto sempre, dell’opinione emessa intorno al tempio di Cerere, per quanto riguarda la specialità del Calcidico di Pompei, nella tesi generale de’ Calcidici, m’accosto volontieri a questa sentenza. L’uso poi superiormente accennato di passeggio degli oratori e de’ pragmatici o causidici, può giustificare il perchè siensi chiamati anche Causidiche.

Nelle controversie per altro de’ significati di questo genere di edificj, non posso lasciar di rilevare un’altra leggierezza di parecchi illustratori, che preferirono copiarsi l’un l’altro, anzichè ricorrere a consultarne le fonti.

Furonvi taluni, e tra gli altri il Bonucci e il medesimo Bréton, che riferendone la parte storica, pretesero ritrovar menzione del Calcidico, — oltre nel fatto della casa reale di Tebe, in cui Merope nel Calcidico appunto sarebbesi condotta coll’ascia alla mano per uccidere Egisto mentre dormiva credendolo l’assassino di suo figlio — anche nel vigesimo terzo canto dell’Odissea, dove Omero, dicon essi, fa ad Euriclea, nutrice d’Ulisse, traversare il Calcidico, per correre ad annunciare a Penelope l’arrivo dello sposo di lei. Io ricorsi, per ciò constatare, al testo greco e propriamente al primo verso di quel canto trovai bensì la parola [372] υπερωιοθεν e poco più sotto l’altra ὑπερῶον, che significano la parte superiore della casa, — ciò che forse latinamente può dirsi cœnaculum, — ma nullamente consacrata la parola calcidico; ciò che non poteva quindi avvalorare d’autorità alcuna la pretesa d’Ausonio, copiato senza più dai detti illustratori, che quella parte superiore di casa fosse il calcidico.

Gli è per questo che più sapientemente il mio illustre amico cav. dottor Paolo Maspero, nella sua nuova e superba versione dell’Odissea, che già fin dal cominciar di quest’opera m’avvenne di circondare di meritati encomj, così tradusse i primi versi del canto XXIII:

Ma gongolando alle superne stanze

Salìa la buona vecchia annunciatrice

Del ritorno d’Ulisse alla regina;

ed il secondo passo in cui ricorre la medesima parola, rendendo il senso intimo del Poeta, usò la parola talamo, la qual significa a un tempo e letto nuziale e la stanza nella quale esso sta[307], ad indicare la più precisa parte delle stanze superne da cui procedeva la casta moglie:

. . . . in questo dire,

Dal talamo scendea fra sè pensando

Se lo straniero interrogar da lunge,

O se corrergli incontro ella dovesse

E la mano stringendogli, baciarne

La fronte e gli occhi.

[373]

Tale, a mio credere, è la più verace e filosofica interpretazione del greco d’Omero qual venne fatta per parte del mio dotto amico; abbenchè, in quanto al resto, egli m’abbia poi confessato che, pur raccogliendo tutti i dati disseminati per il poema, non fosse giunto a potersi nella mente mai ricostruire il palazzo d’Ulisse; comunque egli avesse potuto raffigurarsi e vasta la corte che s’apriva dopo la porta e ampia la sala ove banchettavano così numerosi i Proci e dai succitati passi fosse indotto a ritenere l’esistenza di un piano superiore, ove tenevasi Penelope in disparte da quei dilapidatori del patrimonio dell’assente marito suo e concorrenti alla sua mano.

Dopo ciò e più propriamente intrattenendomi del Calcidico pompejano, ripeto qui ancora, come esso sia stato eretto con denaro di Eumachia sacerdotessa publica, unitamente ad una cripta ed ai portici dedicati alla Concordia ed alla Pietà Augusta, giusta quel che ne fa sapere l’iscrizione più addietro da me riferita, scoperta sull’architrave di marmo del Calcidico; onde vengano congiuntamente designati eziandio col nome di Edificio di Eumachia.

Esso è di forma rettangolare e l’architettura è romana; l’ordine però delle sue parti è corintio.

Il Calcidico è una specie di spazioso vestibolo, ornato di nicchie e doveva essere stato, secondo le rimaste vestigia, rivestito di marmi e sorretto da sedici pilastri. Da esso si accede ai portici interni formati [374] da quarantotto colonne di marmo pario di squisito lavoro, che per quattro lati circondano una spaziosa corte, ossia quell’impluvium, dove già ebbi a rilevare quelle vasche o piuttosto pietre, non incavate per altro profondamente, che parecchi credettero aver servito a’ tintori, fullones, a’ quali si vorrebbe fosse deferita la lavatura delle biancherie sacerdotali, e che a me invece servirebbero per afforzare ognor più la congettura espressa intorno alla possibilità che il luogo fosse invece sacro alla dea Cerere.

Una magnifica nicchia era nel fondo della corte e vi era collocata dentro la statua della Concordia, o piuttosto della Pietà Augusta, cui la sacerdotessa Eumachia aveva l’edificio dedicato. Una tale statua fu rinvenuta rovesciata, senza testa però e conservando ancora le dorature miste alla porpora tutt’all’intorno del laticlavio, o fimbrie della veste.

La Cripta è forse la grande galleria, o secondo ordine di portici più interni e meglio riparati dall’intemperie delle stagioni, e le cui pareti eran, come quelle del portico, decorati di pitture in cui campeggiavano i colori rosso e giallo assai adoperati nei dipinti di Pompei. In una nicchia quadrata di questa galleria vi fu trovata una bellissima statua di marmo raffigurante Eumachia medesima, erettale a titolo d’onoranza da’ Tintori, che portata al Museo, è ora sostituita da una copia. Essa venne al certo eseguita di naturale, avendo la testa i caratteri tutti [375] d’un ritratto: la sua fisonomia è grave e triste, e le vesti ond’è mirabilmente palliata serbano tuttavia le tracce dei colori rosso e verde de’ quali erano esse dipinte. Sul basamento si legge questa iscrizione:

EVMACHIÆ L . F .
SACERD . PVBL .
FVLLONES[308].

È questa per avventura la circostanza che portò i più a credere che l’intero edificio d’Eumachia fosse luogo dedicato al collegio de’ Tintori o negozianti di stoffe e di lane, che si pretende aver avuto in Pompei una grande importanza, per l’estensione che avevano de’ loro commerci.

E v’han di coloro che a cosiffatti dati ed appoggiati eziandio al voto di coloro che ho superiormente citato, spingonsi ad argomentare più in là, volendo che l’edificio intero di Eumachia non dovesse essere che un palazzo tutto ed esclusivamente dedito all’industria pompejana, o in altri termini, una specie di moderna Borsa pompejana, dove tutti i negozianti traessero a’ loro commerci e a stipularvi contratti; quivi in estate rimanendo all’aperto sotto il portico e nell’inverno ricoverando nella Cripta. Ed entrati una volta in codesta supposizione, spiegano che vi siedesse perfino il tribunale di commercio nell’emiciclo al piede [376] della statua della Concordia, colà innalzata appunto per pacificare i dissensi de’ negozianti. I grossi massi di pietra ancor sussistenti nella corte sarebbero state le tavole, sulle quali essi avrebbero spiegate le loro merci; le nicchie dovevano essere le tribune de’ giurati e così vie via discorrendo d’ogni altra particolarità che applicar si vorrebbe a’ determinati usi della Borsa.

Ma mi sia lecito allora il domandare a costoro: perchè avrebbe Eumachia sacerdotessa rivolto il suo pensiero e il denaro a tale uso e a codeste persone del commercio; e che di comune aver si poteva fra questi chiassosi uomini e la malinconica statua della fondatrice del luogo?

Ad ogni modo non potrà essere inopportuno ai fautori di qualunque opinione di osservare come una porta segreta ponesse in comunicazione questo edificio di Eumachia col vicino tempio, sacro secondo alcuni a Mercurio, secondo altri a Quirino e ch’io inclinando a dividere la sentenza dei primi, tenni sacro a Mercurio.

Questo monumento controverso nella sua destinazione dal Calcidico, venne sterrato dal 1819 al 1821 e vi si trovarono ad un tempo presso due scheletri d’uomini, di cui l’uno, all’elmo, doveva essere indubbiamente soldato.

Ecco tutto quanto mi paja poter dire intorno a questo edificio che si denomina da Eumachia e che dalla sua fondatrice, come risulta dalla iscrizione da me [377] riferita, fu pur appellato Calcidico, e intorno al significato del quale si sono tanti scrittori dicervellati.

Il quadro di tutto ciò che spetta alla amministrazione della giustizia e quindi della Basilica, che ne era il principal tempio, si completa ora col dire delle Prigioni.

Ho mostrato già come il carcere fosse tra le pene corporali che s’infliggessero a’ delinquenti colla catena a’ polsi ed a’ piedi: ho pur tocco di quella prigione in Pompei, che trovasi sotto il tribunale della Basilica, la quale esiste e vedesi tuttavia, e dove l’accusato stava in pendenza del giudizio attendendo la sentenza; ora brevemente ricordo come presso alla porta del Foro, sotto il suo portico occidentale, si ritrovi un gruppo di costruzioni rovinate che si ritorcono sulla Via or appellata de’ Soprastanti, che per la situazione loro nel Foro, per avervi riconosciuto in esse parecchie camerette prive di finestre, non che per la scoperta di qualche scheletro umano, ha fatto ravvisare in esso le prigioni.

Non presentando esse tuttavia particolarità alcuna interessante, per quanto riguarda alla materialità del luogo, molto più che non sono a un di presso che un mucchio di rovine; e d’altra parte non apparendo conformi a quel sistema di detenzione che le leggi e le consuetudini romane avevano introdotto, mi basta l’averne fatto cenno, dispensandomi dall’intrattenerne ulteriormente il lettore e dall’indagarne le differenti ragioni.

[378]

Piuttosto, mi chiama l’indole del mio libro a qui soggiungere qualche generale nozione sulla natura e gradazioni di prigioni, carceres, secondo il sistema romano, pur propagato e adottato nel restante delle province conquistate e massime là dov’erano state dedotte colonie militari.

Di tre sorta o gradi erano le prigioni e venivano applicati a seconda delle persone e de’ reati e in un solo edificio accumulavansi di sovente tutti e tre questi gradi.

Il primo grado era quello della detenzione pei colpevoli di minori delitti e per i condannati ad una prigionia comune a tempo, e dicevasi custodia communis. Naturalmente questo grado di carcere non importava grande e vigorosa severità di trattamento: non aveva la stretta custodia, nè la privazione della luce: concedendosi a chi ne fosse punito il passeggiare e l’aria e di non essere tenuto in catene. Doveva appartenere a questo grado la detenzione nella colonia d’Aquino, alla quale Ottone sobbarcò Cornelio Dolabella, non per peccato alcuno, ma per essere in lista de’ gran casati[309], se Tacito, nel Lib. I, c. 58 della sua Storia, potè giudicarla neque arcta custodia, neque obscura.

In quegli edificj carcerari in cui tutti i tre gradi di carcere esistevano cumulati, il primo ne occupava [379] il piano superiore; come puossi anche riscontrare in Roma nelle carceri costruite da Anco Marzio e Servio Tullio presso il Foro maggiore e che, riparate più tardi dal Pretore Lucio Pinario Mamertino, dal nome di quest’ultimo le denominarono Carcer Mamertinus.

Sotto un tal piano, a livello del terreno, eravi il carcer interior, o di secondo grado, e chiamavasi di stretta custodia, arcta custodia, in cui il condannato stava in catene, e fors’anco attendeva il tempo della esecuzione della pena capitale. A questo carcere non accedevasi per porte, ma per aperture anguste praticate nel soffitto. — Parmi che a questo genere di carcere alluder volesse Cicerone, quando nella seconda Orazion sua contro Lucio Sergio Catilina, verso la fine, uscì a dire: Sentiet in hac urbe esse carcerem, quem vindicem nefariorum et manifestorum scelerum majores nostri esse voluerunt[310].

Così da questa carcere interna, o da altra cella terrena, per una angusta botola praticata nel pavimento, scendevasi al carcer inferior, o sotterraneo, ed era il terzo grado di carcere, formato a mo’ di fornice; ma non ora propriamente luogo di detenzione, ma sì di supplizio; perocchè ivi il reo venisse calato soltanto per subire la pena, se condannato a morte.

[380]

Pare poi che in Roma, come tutte le fucine fumassero e le incudini stancassero i fabbri a foggiar catene:

Maximus in vinclis ferri modus, ut timeas ne

Vomer deficiat, ne marræ et sarcula desint[311];

molte così dovessero essere le carceri, se Giovenale, nella stessa Satira III, potè rimpiangere i tempi in cui a Roma una carcere sola, la mamertina, potesse bastare:

Felices proavorum atavos, felicia dicas

Sæcula, quæ quondam sub regibus atque tribunis

Viderunt uno contentam carcere Romam![312]

Esisteva poi una sorta di prigione, denominata ergastulum; ma era dessa piuttosto d’uso privato che publico, perocchè solesse essere un’attinenza di fattorie campagnuole di ricchi proprietarj, in cui questi tenevano castigati gli schiavi, o guardati coloro che, presentando alcun pericolo di ribellione o di efferatezza, si fosse costretti a tener sempre in catene.

Tra questi erano coloro che destinavansi alle dure [381] fatiche de’ campi, ed è strano a tal riguardo che Columella, il quale lasciò un eccellente trattato intorno alla cosa rustica, abbia in esso lasciato raccomandazione che siffatti ergastoli avessero ad essere costruiti sotto terra: come se fosse stata la medesima cosa quanto raccomandare al buon massajo che i grani si avessero pel meglio a conservare in profonde fosse praticate entro terra.

Fu già invalsa presso molti la opinione che la custodia delle carceri fosse in Roma deferita a Triumviri Capitali: ma pare che ciò non fosse. Questi triumviri, detti anche Nocturni, perchè loro ufficio speciale fosse pure di vegliare alla notturna sicurezza contro i grassatori e i perturbatori della pubblica quiete, avevano al proprio seguito otto littori, armati de’ soliti fasci e delle scuri, come si ha da quel passo della commedia Amphitirionis di Plauto:

. . . . . . . . . . . . . ita

Quasi incudem me miserum octo validi cædant...[313]

è più verisimile che fossero preposti alla cura della custodia delle carceri, ma non alla diretta custodia, la quale piuttosto, ed è anche più probabile, spettasse al Carnefice, Carnifex, lo che è stabilito pure dalla sinonimia delle due espressioni in carcerem trahere e [382] ad carnificem trahere che gli antichi usarono promiscuamente e nel medesimo senso e che significarono entrambe condurre alcuno in prigione.

Il summentovato Plauto, nell’altra sua commedia intitolata Rudens, adopera con tale significazione, la seconda frase ad carnificem trahere:

Jube illos in urbem ire obviam ad portum mihi,

Quos mecum duxi, hunc qui ad carnificem traderent

Post huc redito, atque agitato hic custodiam[314].

Il carnifex era poi anche il boja, o esecutore pubblico, onde il senso conservato pur da noi alla parola carnefice, ed era quello che infliggeva la tortura e la flagellazione a’ rei e giustiziava i condannati con lo strangolarli mediante un canapo o corda. Da lui quindi pigliava nome il luogo dove questi tormenti e queste esecuzioni compivansi, carnificina, cioè quel carcere sotterraneo, sottostante a tutte le altre celle della prigione di cui ho detto più sopra.

Col trattar delle prigioni, si chiude l’argomento del Foro, nel quale, amo dire anco una volta, si compendiasse tutta la vita pubblica de’ tempi più gloriosi di Roma, e più specialmente del secolo ottavo della sua fondazione, nel quale seguì pure l’avvenimento [383] del Cristianesimo e la catastrofe pompejana che è soggetto dei nostri studj.

Nella vaghezza d’ogni edificio ed opera circostante del Foro di Pompei abbiam veduto insieme, o lettore, in minori proporzioni, quanto in maggiori si trovasse nel Foro Romano. In Pompei, cioè, abbiam trovato quasi in un’ampia corte, recinta tutta all’intorno, i più importanti monumenti, come sono tre templi, la Basilica, le Curie e le Prigioni, e chiusa da’ cancelli agli sbocchi e decorata da archi, da colonne e da statue, essere il centro degli affari e della agitazione cittadina. Aggiungetevi coll’immaginazion vostra la restaurazione della parte demolita dal tremuoto o dall’eruzione, il concorso di uomini togati e di schiavi, di magistrati e di operai, di matrone dalle lunghe stole, di liberte e di donne del popolo; rammentatevi il suono del maestoso idioma del Lazio e prestategli un cotal po’ di quell’accento meridionale che pur nell’idioma italiano vi fa distinguere dal lombardo o dal toscano il napoletano, e voi, senza grande sforzo, vi sarete capacitati del vero stato e delle condizioni di Pompei al momento della sua distruzione.

A me, sorretto dalla memoria delle antiche storie e de’ classici scrittori e de’ poeti di Roma antica, percorrendo fra i più concitati sussulti del cuore le vie dissepolte di Pompei, davanti le macerie e gli avanzi solenni di questi pubblici edificj, quest’opera di immaginosa ricostruzione riuscì agevole e spontanea. Fu [384] per poco, se nel varcar la soglia della Basilica, non udissi le arringhe degli avvocati, nel rasentar le colonne del Foro non mi togliessi per reverenza il cappello al passar delle maestose figure di Pansa e di Olconio e non mi commovessi alla passione di questo giovane innamorato, che lungi dall’aver guasto il cuore dalla general corruzione, così io credessi vedere graffire sentimentalmente sulla muraglia:

Scribenti mi dictat amor monstratque Cupido

Ah! peream sine te si Deus esse velim[315].

FINE DEL PRIMO VOLUME

[385]

INDICE

Dedica Pag. V
Intendimenti dell’Opera VII
Introduzione 1
 
CAPITOLO I. — Il Vesuvio. — La carrozzella napoletana — La scommessa d’un Inglese — Il valore d’uno schiaffo — Pompei! — Prime impressioni — Il Vesuvio — Temerità giustificata — Topografia del Vesuvio — La storia delle sue principali eruzioni — Ercole nella Campania — Vi fonda Ercolano — Se questa città venisse distrutta contemporaneamente a Pompei — I popoli dell’Italia Centrale al Vesuvio — Combattimento di Spartaco — L’eruzione del 79 — Le posteriori — L’eruzione del 1631 e quella del 1632 — L’eruzione del 1861, e un’iscrizione di V. Fornari — L’eruzione del 1868 — Il Vesuvio ministro di morte e rovina, di vita e ricchezza — Mineralogia — Minuterie — Ascensioni sul Vesuvio — Temerità punita — Pompejorama 15
 
CAPITOLO II. — Storia. Primo periodo. — Divisione della storia — Origini di Pompei — Ercole e i buoi di Gerione — Oschi e Pelasgi — I Sanniti — Occupano la Campania — Dedizione di questa a Roma — I Feciali Romani indicon guerra a’ Sanniti — Vittoria dell’armi romane — Lega de’ Campani co’ Latini contro [386] i Romani — L. Annio Setino e T. Manlio Torquato — Disciplina militare — Battaglia al Vesuvio — Le Forche Caudine — Rivincita de’ Romani — Cospirazioni campane contro Roma — I Pompejani battono i soldati della flotta romana — Ultima guerra de’ Sanniti contro i Romani 41
 
CAPITOLO III. — Storia. Periodo secondo. — La legione Campana a Reggio — È vinta e giustiziata a Roma — Guerra sociale — Beneficj di essa — Lucio Silla assedia Stabia e la smantella — Battaglia di Silla e Cluenzio sotto Pompei — Minazio Magio — Cluenzio è sconfitto a Nola — Silla e Mario — Vendette Sillane — Pompei eretto in municipio — Silla manda una colonia a Pompei — Che e quante fossero le colonie romane — Pompei si noma Colonia Veneria Cornelia — Resistenza di Pompei ai Coloni — Seconda guerra servile — Morte di Spartaco — Congiura di Catilina — P. Silla patrono di Pompei accusato a Roma — Difeso da Cicerone e assolto — Ninnio Mulo — I patroni di Pompei — Augusto vi aggiunge il Pagus Augustus Felix — Druso muore in Pompei — Contesa di Pompejani e Nocerini — Nerone e Agrippina — Tremuoto del 63 che distrugge parte di Pompei 61
 
CAPITOLO IV. — Storia. Periodo secondo.Leggi, Monete, Offici e Costume — Il Municipio — Ordini cittadini — Decurioni, Duumviri, Quinquennale, Edili, Questore — Il flamine Valente — Sollecitazioni elettorali — I cavalieri — Gli Augustali — Condizioni fatte alle Colonie — Il Bisellium — Dogane in Pompei — Pesi e misure — Monete — La Hausse e la Baisse — Posta — Invenzione della Posta — I portalettere romani — Lingua parlata in Pompei — Lingua scritta — Papiri — Modo di scrivere — Codicilli e Pugillares — Lusso in Pompei — Il leone di Marco Aurelio — Schiavi — Schiavi agricoltori — Vini pompejani — Camangiari rinvenuti negli scavi — Il garo o caviale liquido pompejano — Malati mandati a Pompei 91
 
[387]
CAPITOLO V. — Storia. Periodo secondo. — Il Cataclisma — T. Svedio Clemente compone le differenze tra Pompejani e Coloni — Pompei si rinnova — Affissi pubblici — La flotta romana e Plinio il Vecchio ammiraglio — Sua vita — La Storia Naturale e altre sue opere — Il novissimo giorno — Morte di Plinio il Vecchio — Prima lettera di Plinio il Giovane a Tacito — Diversa pretesa morte di Plinio il Vecchio — Seconda lettera di Plinio il Giovane a Tacito — Provvedimenti inutili di Tito Vespasiano 127
 
CAPITOLO VI. — Gli Scavi e la Topografia. — I Guardiani — Un inconveniente a riparare — Ladri antichi — Vi fu una seconda Pompei? — Scoperta della città — Rinvenimento d’Ercolano — Preziosità ercolanesi — Possibilità d’un’intera rivendicazione alla luce di Ercolano — Scavi regolari in Pompei — Disordini e provvedimenti — Scuola d’antichità in Pompei — C. A. Vecchi — Topografia di Pompei — Le Saline e le Cave di pomici — Il Sarno 161
 
CAPITOLO VII. — Le Mura — Le Porte — Le Vie. — Le Mura, loro misura e costruzione — Fortificazioni — Torri — Terrapieno e Casematte — Le Porte — Le Regioni e le Isole — Le Vie — I Marciapiedi — Il lastrico e la manutenzione delle vie — La via Consolare e le vie principali — Vie minori — Fontane pubbliche — Tabernacoli sulle vie — Amuleti contro la jettatura — Iscrizioni scritte o graffite sulle muraglie — Provvedimenti edili contro le immondezze — Botteghe — Archi — Carrozze — Cura delle vie 181
 
CAPITOLO VIII. — I Templi. — Fede e superstizione — Architettura generale de’ templi — Collocazione degli altari — Are ed altari — Della scelta dei luoghi — Tempio di Venere — Le due Veneri — Culto a Venere Fisica — Processione — Descrizione del tempio di Venere in Pompei — Oggetti d’arte e iscrizioni in [388] esso — Jus luminum opstruendorum — Tempio di Giove — I sacri principj — Tempio d’Iside — Culto d’Iside — Bandito da Roma, rimesso dopo in maggior onore — Tibullo e Properzio — Notti isiache — Origini — Leggenda egizia — Chiave della leggenda — Gerarchia Sacerdotale — Riti — Descrizione del tempio d’Iside in Pompei — Oggetti rinvenuti — Curia Isiaca — Voltaire e gli Zingari — Tempio d’Esculapio — Controversie — Cenni mitologici — Il Calendario Ovidiano concilia le differenze — Descrizione — Tempio di Mercurio — Descrizione del tempio — Tempio della Fortuna — Venerata questa dea in Roma e in Grecia — Descrizione del suo tempio — Antistites, Sacerdotes, Ministri — Tempio d’Augusto — Sodales Augustales — Descrizione e Pittura, Monete — Tempio di Ercole o di Nettuno — Detto anche tempio greco — Descrizione — Bidental e Puteal — Tempio di Cerere — Presunzioni di sua esistenza — Favole — I Misteri della Dea Bona e P. Clodio — Il Calcidico era il tempio di Cerere? — Priapo — Lari e Penati — Cristianesimo — Ebrei e Cristiani 219
 
CAPITOLO IX. — I Fori. — Cosa fossero i Fori — Agora Greco — Fori di Roma — Civili e venali — Foro Romano — Comizj — Centuriati e tributi — Procedimento in essi per le elezioni de’ magistrati, per le leggi, per i giudizii — Foro Civile Pompejano — Foro Nundinario o Triangolare — Le NundineHecatonstylon — Orologio Solare 305
 
CAPITOLO X. — La Basilica. — Origine della denominazione di Basilica — Sua destinazione in Roma — Poeti e cantanti — Distribuzione della giornata — Interno ed esterno delle Basiliche — Perchè conservatone il nome alle chiese cristiane — Basiliche principali cristiane — Basilica di Pompei — Amministrazione della giustizia, procedura civile e penale — Magistrati [389] speciali per le persone di vil condizione — Episodio giudiziario di Ovidio — Giurisprudenza criminale — Pene — Del supplizio della croce — La pena dell’adulterio — Avvocati e Causidici 325
 
CAPITOLO XI. — Le Curie, il Caldicico, le Prigioni. — Origine ed uso delle Curie — Curie di Pompei — Curia o Sala del Senato — Il Calcidico — Congetture di sua destinazione — Forse tempio — Passaggio per gli avvocati — Di un passo dell’Odissea d’Omero — Eumachia sacerdotessa fabbrica il Calcidico in Pompei — Descrizione — Cripta e statua della fondatrice — Le prigioni di Pompei — Sistema carcerario romano — Le Carceri Mamertine — Ergastuli per gli schiavi — Carnifex e Carnificina — Ipotiposi 365

[390]

    ERRORI CORREZIONI
 
Pag. lin.    
4 17, vi morisse e Stazio e Silio Italico e altri illustri vi si ispirassero
6 ultima linea: S’intromette il Tirreno. S’intromette il Tirreno infuriato
13 19, mi do dovea mi dovea
28 12, dice chè dice che
41 17, horrendum, ingens horrendum, informe, ingens
44 24, dovendo poggiare dovendo appoggiarsi
71 5, soggetta persona ligia persona
74 6, Lucio Cornelio parente Lucio Cornelio congiunto
76 11, non veridiche non sempre veridiche
79 9, la dissenzione la dissensione
81 22, patrizii e plebei i patrizii e i plebei
203 15, distici di Ovidio distici che erroneamente alcuni dissero di Ovidio
325 in fine del sommario   La pena dell’adulterio — Avvocati e Causidici

NOTE:

1.  Epist. Ex Ponto. Lib. II. ep. III.

Il primo ei fu che me sì audace rese

Da commettere i miei carmi alla Fama;

Egli all’ingegno mio guida cortese.

2.  Veggasi al Canto XII l’Odissea d’Omero, così egregiamente tradotta in versi dal chiarissimo cav. dottor Paolo Maspero, da oscurar di molto la fama della versione di Ippolito Pindemonte.

3.  Già Casina Reale, avente a lato sinistro il Castel dell’Ovo che si avanza in mare, donata da Garibaldi dittatore ad Alessandro Dumas; ma rivendicata poscia — non da Garibaldi — venne venduta e convertita nell’attuale Albergo di Washington, tra i primarj della città.

4.  Naturalis Historiæ, Lib. III.

5.  Hortensii villa quæ est ad Baulos, Cicero Acad. Quæst. Lib. 4.

6.  Ενθα διὲ Κιμμερἰων ανδρων δῆμοστε πὀλιστε, che si tradurrebbe letteralmente: Qui poi sono degli uomini Cimmerj, il popolo e la città.

7.  Lib. 1. 6; Dionigi d’Alicarnasso, IV; Aulo Gellio, 1. 19.

8.  Georgica L. II. v. 161. Questi versi suonerebbero nel nostro idioma:

O fia che il porto qui rammenti e l’opre

Al Lucrin lago aggiunte, e il corrucciato

Flutto ch’alto vi mugge; ove lontano

Respinto il mar, la Giulia onda risuona

E dove dentro dell’Averno i gorghi

S’intromette il Tirreno infuriato.

9.  Virgil. Georg. L. I. v. 468.

10.  Monumenta epigraphica pompejana ad fidem archetyporum expressa. Napoli 1854. Edizione di soli cento esemplari fatta a spesa di Alberto Detken.

11.  Le Case ed i Monumenti di Pompei disegnati e descritti. Napoli, in corso di publicazione.

12.  Pompei. Seconda edizione, Firenze 1868. Successori Le Monnier.

13.  Inscriptions gravée au trait sur les murs de Pompei.

14.  Sono gli uomini di questo villaggio che vengono più specialmente reclutati per la difficile e perigliosa pesca del corallo sulle coste di Barberia, e così possono ricondursi di poi in patria con un bel gruzzolo di danaro.

15.  La misurazione dell’elevazione del Vesuvio sopra il livello del mare varia nelle scritture dei dotti che la vollero fissare. Nollet nel 1749 la disse di 593 tese; Poli nel 1791 di 608 tese; il colonnello Visconti nel 1816 di 621; Humboldt dopo l’eruzione del 1822 la rinvenne di 607 tese, e nel settembre 1831 l’altezza della punta più alta del cono risultò di tese 618. La tesa, antica misura di Francia, era lunga sei piedi; la nuova tesa francese si chiama doppio metro e per conseguenza contiene 6 piedi, 1 pollice, 10 linee. Siffatta varietà di misure non da altro procede che dagli elevamenti e dalle depressioni, le quali si avvicendano secondo le diverse eruzioni.

16.  «Ricerche filosofico istoriche sull’antico stato dell’estremo ramo degli Appennini che termina dirimpetto l’isola di Capri.»

17.  «Partito Ercole di poi dal Tevere, seguendo il lido italiano si condusse al Campo Cumeo, nel quale è fama essere stati uomini assai forti, ed a cagione di loro scelleratezze, appellati giganti. Lo stesso Campo del resto, denominato Flegreo, dal colle che vomitando sovente fuoco a guisa dell’Etna sicula, ora si chiama Vesuvio, e conserva molte vestigia delle antiche arsioni.»

18.  Storia degli Italiani, Tom. 1, pag. 99. Torino 1857.

19.  Nella vita di Marco Crasso.

20.  Anno 1674, pag. 146.

21.  Ragguaglio dell’incendio del Vesuvio. Napoli 1694.

22.  L’eguale fenomeno si avverò sul Vesuvio nella eruzione del 79. Ecco le parole di Plinio: Nubes (incertum procul intuentibus ex quo monte; Vesuvium fuisse postea cognitum est) oriebatur: cujus similitudinem et formam non alia magis arbor, quam pinus expresserit. Nam longissimo velut trunco elato in altum, quibusdam ramis diffundebatur, etc. Epist. XVI. Lib. VI.

23.  Prodromo della Mineralogia Vesuviana. Napoli 1825.

24.  Horatius, Lib. 1. Od. 3. In Virgilium Athenas proficiscentem. Gargallo traduce, o a meglio dire, parafrasa così:

Ov’è maggior l’ostacolo,

Più impetuosa ed avida

L’umana razza avventasi

Ad ogni rischio impavida.

25.  Vedi i dispacci telegrafici e giornali dell’ultima settimana del dicembre 1869.

26.  Vedi Descrizione del Vesuvio di Logan Lobley.

27.  Sylv. 2

«Nè allettin più del Pompejano Sarno

Gli ozii.»

28.  Satir. Lib. II. Sat. 1. v. 35. Così traduce Tommaso Gargallo:

Io, che s’appulo son, se non lucano,

Dir non saprei, perchè tra due confini

L’aratro volga il venosin colono,

Colà spedito (come è vecchia fama)

Cacciatine i Sabini.

29.  Secondo Esiodo, Gerione era il più forte di tutti gli uomini nell’isola d’Eritia presso Gade o Cadice sulla costa della Spagna. I poeti venuti di poi ne hanno fatto un gigante con tre corpi, che Ercole combattendo uccise, menandone seco i buoi. Coloro i quali ridur vorrebbero tutta la scienza mitologica ad un solo principio, cioè, al culto antico della natura, pretesero Ercole un essere allegorico e non significar altro che il Sole. Questa impresa vinta su Gerione sarebbe il decimo segno che il sole trascorre, vale a dire i benefizj d’esso che, giunto al segno equinoziale del Toro, avviva tutta la natura e consola tutte le genti. Vedi Dizionario della Mitologia di tutti i Popoli di Gio. Pozzoli e Felice Romani. Milano presso Gio. Pirotta.

30.  La Mitologia chiama i Dioscuri figliuoli di Giove e afferma essere il soprannome di Castore e Polluce. Glauco fu il primo che così li chiamò, quando apparve agli Argonauti nella Propontide (Filostr. Paus.). È stato dato questo nome anche agli Anaci, ai Cabiri, e ai tre fratelli che Cicerone (De Natura Deorum 3, c. 53) chiama Alcone, Melampo ed Eumolo. Sanconiatone conserva l’identità dei Dioscuri coi Cabiri, che Cicerone vuol figli di Proserpina. Ritornerò su tale argomento nel capitolo I Templi.

31.  Titi Livii Historiarum. Lib. VII c. XXIX.

32.  I Feciali erano sacerdoti, l’uffizio de’ quali corrispondeva a un di presso a quello degli Araldi d’armi. Essi dovevano trovarsi particolarmente presenti alle dichiarazioni di guerra, ai trattati di pace che si facevano, ed avvertivano a che i Romani non intraprendessero guerre illegittime. Allorchè qualche popolo avea offeso la Republica, uno de’ Feciali si portava da quello per chiedergli riparazione: se questa non era accordata subito, gli si concedevano trenta dì a deliberare, dopo i quali legittima si teneva la guerra. E questa dichiaravasi col ritornare il Feciale sulla frontiera nemica e piantarvi una picca tinta di sangue. Anche i trattati si facevano da un Feciale, che durante le negoziazioni veniva appellato pater patratus, per l’autorità che egli aveva di giurare pel popolo. Vegliavano pure al rispetto degli alleati, annullavano i trattati di pace che giudicavano nocivi alla Republica, e davano in mano ai nemici coloro che li avevano stipulati.

33.  Secondo la più probabile opinione, Caudio era situato dove ora il borgo Arpaja, e le Forche Caudine in quell’angusto passo donde si discende ad Arienzo, specialmente nel sito che si chiama pur oggi le Furchie.

34.  Ora Lucera delli Pagani, nella Puglia Daunia, volgarmente Capitanata, provincia di Foggia, nel già reame di Napoli.

35.  Tito Livio; Lib. IX, c. XXXVIII.

36.  Dante, Paradiso c. VII. 47. Qui parla il Poeta di Manlio Torquato che comandò, come più sopra narrai, la morte del figliuolo per inobbedienza, e parla di Quinzio Cincinnato.

37.  Vellei Paterculi, Historiæ Lib. II. c. XIII.

38.  Bell. Civ. Lib. I. c. 94.

39.  De Legibus, II. 2.

40.  Roma Illustrata, Ant. Thisli J. C. Amstelodami.

41.  Veglie storiche. Milano 1869, presso A. Maglia.

42.  Sallustio, Bellum Catilinarium, c. XVII: «Lucio Tullo, Marco Lepido consulibus, Publius Autronius et Publius Sulla, designati consules, legibus ambitus interrogati, pœnas dederunt. Post paullo, Catilina pecuniarum repetundarum reus, prohibitus erat consulatum petere, quod inter legitimas dies profiteri nequiverit». La legge Calpurnia dell’àmbito, prodotta dal console Calpurnio Pisone nell’anno 686, era che chi avesse colle largizioni o capziosamente conseguito il magistrato, dovesse lasciarlo e pagare una multa pecuniaria. Catilina era stato escluso dal chiedere il consolato, perchè reo repetundarum, che noi diremmo di concussione, cioè di ripetizione di cose, la cui restituzione si esige da colui che, magistrato, abbia spogliato la provincia. Essendosi i legati d’Africa querelati assai gravemente di Catilina, ne veniva pubblicamente accusato da Publio Clodio.

43.  Quid ergo indicat, aut quid affert, aut ipse Cornelius, aut vos, qui ab eo hæc mandata defertis? Gladiatores emptos esse, Fausti simulatione, ad cœdem, ac tumultum. Ita prorsus: interpositi sunt gladiatores, quos testamento patris videmus deberi. Cic. Pro. P. Sulla cap. XIX.

44.  Id. ibid. cap. XXI.

45.  Questi erano i triumviri deputati a trasportare, o come meglio direbbesi con frase latina, a dedurre le colonie, chiamati perciò patroni di esse.

46.  La Clientela venne istituita da Romolo, onde avvincere in nodo d’affetto maggiore e d’interessi i patrizi e i plebei. Questi eleggevano i loro patres per esserne protetti, e ai patres correva debito di proteggere i colentes; interdetto ad entrambi di accusarsi avanti i tribunali, nè mai essere nemici; pena a chi infrangesse la legge di aver mozzo il capo, vittima sacra a Plutone. La purezza dì questa istituzione durò buona pezza: poi degenerò come ogni umana cosa.

47.  In Toscana l’aveva alle falde degli Appennini e dalla regione in cui era situata si dicea Tusci; in Romagna l’aveva sul litorale del Mediterraneo fra le due città di Laurento e di Ostia, e per esser più vicina a quella città chiamavala Laurentino e l’abitava nel verno; in Lombardia due ne possedeva lungo le ridenti sponde del Lario una nel paesello di Villa e si nomava Commedia, e l’Amoretti nel suo Viaggio ai tre laghi credette riconoscerla nel luogo ove v’ha la villeggiatura dei signori Caroe, pretendendosi persino di vederne tuttora i ruderi contro l’onde del lago; l’altra, detta Tragedia, in altra località che forse fu presso Bellagio. Lo che valga a rettifica dell’opinione volgare che crede la Commedia fosse dove ora è la Pliniana, così detta unicamente perchè vi si trovi la fonte da lui descritta nell’ultima Epistola del libro IV e dell’opinioni di taluni scrittori che la assegnano in altra parte del lago. Alla Pliniana, venne fabbricato da Giovanni Anguissola, altro degli uccisori di Pier Luigi Farnese, nè prima di lui vi si riscontrarono ruderi che accusassero antecedenti edificazioni. Della prima, in Toscana, fa una magnifica descrizione nella lettera 6 del lib. V; della seconda in Romagna, nella lettera 17 del lib. II.

48.  Plures iisdem in locis villas possidebcat, adamatisque novis, priora negligebat. Lett. 7 a Caccinio, lib. III. Silio Italico morì anzi in una sua villa sul tenere di Napoli.

49.  Da una fiera e passionata invettiva contro Cicerone, che Quintiliano attribuisce senz’altro a Sallustio di lui nemico (Instit. lib. IV), tolgo il seguente brano che ricorda appunto le villa sua in Pompei: «Vantarti della congiura soffocata? Meglio dovresti arrossire che, te console, sia stata messa la republica sottosopra. Tu in casa con Terenzia tua deliberavi ogni cosa e chi dannare nel capo e chi multar con denaro, a seconda del capriccio. Un cittadino ti fabbricava la casa, un altro la villa di Tusculo, un altro quella di Pompei, e costoro ti parevano buoni; chi pel contrario non ti avesse giovato, era quegli un malvagio che ti tramava insidie nel Senato, che t’assaliva in casa, che minacciava incendiar la città. E vaglia il vero, qual fortuna avevi e quale or possiedi? quanto arricchisti col procacciarti cause? Come ti procurasti le splendide ville? col sangue e colle viscere de’ cittadini; supplichevole coi nemici, altero cogli amici, riprovevole in ogni fatto. Ed hai cuore di dire o fortunata Roma nata te console? Infelicissima che patì pessima persecuzione, quando nelle mani avesti giudizi e leggi. E nondimeno non ti stanchi di rintronarci le orecchie cedan l’armi alla toga, alla favella i lauri, tu che della Republica pensi altra cosa in piedi ed altra seduto, banderuola non fedele a vento alcuno.» Ognuno comprenderà quanta ira partigiana ispirasse questa invereconda tirata. Fra’ luoghi in cui Cicerone parla del suo Casino, ve ne ha uno nell’epistola 3, lib. 7 al suo amico M. Mario, che villeggiava in Pompei.

50.  Ovidio nei Fasti, I. 614, canta:

Sancta vocant augusta patres; augusta vocantur

Templa, sacerdotum rite dicata manu

Hujus et augurium dependet origine verbi,

Et quodcumque sua Jupiter auget ope.

51.  Cap. XVII.

52.  Tacito nel libro XV degli Annali c. XVII non fa che accennare sotto quest’anno un tanto disastro: «Un terremoto in Terra di Lavoro rovinò gran parte di Pompeja, terra grossa.»

53.  Canto VI. v. 45 e segg.

54.  Aulo Gellio trova la etimologia del municipio a munere capessendo; più propriamente forse il giureconsulto Paolo: quia munia civilia capiant. E l’uno e l’altro accennano al diritto o dono conferito della cittadinanza, a differenza di quelle altre località che erano solo fœderatæ, ricevute dopo vinte e a condizione inferiore, che non acquistavano la podestà patria, nè le nozze alla romana, nè la capacità di testare a pro’ d’un romano cittadino, o d’ereditarne, nè l’inviolabilità della persona.

55.  Gargallo traduce al solito infedelmente:

Manchin seimila o sette al censo equestre,

E prode, onesto sii, probo, facondo,

Plebe sarai.

Orazio nel suo primo verso non disse censo equestre, ma sì quadringentis: perchè il Gargallo non potè dire quattrocento? Avrebbe egli pure fatto sapere come il poeta che traduceva, che il censo equestre era di quattrocentomila.

56.  Il laticlavo era una striscia di porpora che orlava la toga di porpora, scendendo dal petto fino a’ ginocchi. Essa era alquanto larga a distinzione della striscia de’ cavalieri, che però dicevasi augusticlavo. Come basterebbe oggi dire porporato per intendersi cardinale, allora dicevasi laticlavius per senatore; onde leggesi in Svetonio (in August., c. 38): binos laticlavios præposuit, per dire due senatori.

57.  Trattato dell’Onore del Bisellio.

58.  Fabretti, Inscr. 3. 324. e 601. Gruter., 475, 3.

59.  

D’oro lucente altri ricchezze aduni

E molti di terreno jugeri tenga.

Lib. 1 Eleg. 1.

60.  Vol. I. Appendice VI.

61.  Tutti i mulattieri con Agato Vajo si raccomandano a C. Cuspio Pansa Edile. — Il Collega Giulio Polibio fece.

62.  Vedi Plinio epistola 12 del lib. II: Implevi promissum, priorisque epistolæ fidem exsolvi, quam ex spatio temporis jam recipisse te colligo. Nam et festinanti et diligenti tabellario dedi. Vedi anche dello stesso Plinio l’epistola 17 del lib. III e 12 del VII e la nota alla prima lettera del suo volgarizzatore Pier Alessandro Paravia. Venezia Tip. del Commercio 1831.

63.  Storia della decadenza e rovina dell’Impero Romano di Edoardo Gibbon. Cap. II. — Vedi anche Plin. Stor. Natur. III. 5. S. Agostino De Civitate Dei XIX. 7. Giusto Lipsio De Pronuntiatione linguæ latinæ, c. 3.

64.  Vita di Claudio, c. 6.

65.  Op. cit. cap. II.

66.  Tra i papiri latini si conta un frammento di poema sulla guerra di Azio.

67.  Milano, 1822.

68.  Ad retia sedebam: erant in proximo non venabulum aut lancea, sed stilus et pugillares. Così Plin. loc. cit. Vedi anche Boldetti, Osserv. sopra i Cimelii, l. 2, c. 2.

69.  

Sardoniche, smeraldi, diamanti,

E diaspri egli porta in un sol dito.

V. II.

70.  Svetonio, in Nerone, II.

71.  Plutarco, Vita di Lucullo.

72.  Plin. XIV. 6.

73.  Eccone la traduzione del cav. P. Magenta:

Ecco il Vesuvio, di pampinose

Frondi or or verde, ed ove in tumidi

Vasi spremeansi uve famose.

Ecco il bel clivo, che anteponea

Sin Bacco a Niso, su cui de’ Satiri

Lo stuol le danze testè movea.

Desso era il seggio più a Vener caro

Dello Spartano, desso era il poggio

Che col suo nome Ercol fe’ chiaro.

74.  

Questa che ognor di verde erba si veste,

Che agli olmi avvince le festanti viti,

D’ulivi attrice, alla coltura, al gregge

Troverai pronta e al vomere paziente,

Questa terra ubertosa ara la ricca

Capua e l’abitator delle fiorenti

Del Vesèvo pendici.

75.  Histor. Natur. Lib. XXXI, c. 7.

76.  Id. ib., c. 8. Laudantur et Clazomenæ garo, Pompeiique, et Leptis.

77.  Satir. Lib. II. sat. 8.

78.  

Ma ingente il cucinier mucchio consumi

Di pepe e aggiunga indi falerno vino

Al garo arcano.

Lib. 7. epig. 27.

Sostituii la mia versione a quella del Magenta, perchè non comprese che cosa fosse il garo, ch’ei tradusse per aceto, non avvertendo che ad esso mal si sarebbe allora potuto applicare l’aggettivo secreto.

79.  

Del nobil garo ora lasciva ho sete.

Lib. 13. ep. 77.

80.  Avuta autorità dall’imperatore Cesare Vespasiano Augusto i luoghi pubblici da’ privati posseduti Tito Svedio Clemente tribuno, ventilate le cause ed eseguite le misure, restituì alla republica de’ Pompejani.

81.  Guida di Pompei, pag. 27.

82.  Giorn. degli Scavi. Luglio e Agosto 1863, pag. 228.

83.  Ne’ possedimenti di Giulia Felice, figlia di Spurio, si affittano dalle prime idi di agosto alle seste idi per cinque anni continui un bagno, un venereo, e novecento botteghe colle pergole e co’ cenacoli. Se taluno esercitasse in casa (o il condannato) lenocinio, non è ammesso alla conduzione.

La formula invece, quale è ristabilita dal sen. Fiorelli, vorrebbe dire: se trascorrerà il quinquennio, la locazione ai riterrà tacitamente rinnovata.

Altri poi, leggendo aggiunta alla iscrizione surriferita anche le parole SMETTIVM . VERVM . ADE, pretendono interpretare le sigle in questione nella seguente maniera: si quis dominum loci ejus non cognoverit, — se alcuno non conosca il padrone di questo luogo, si rivolga a Smettio Vero.

84.  Veggasi: Della Patria dei due Plinii, Dissertazione di Pier Alessandro Paravia indirizzata al cav. Ippolito Pindemonte, edita nell’appendice al Volgarizzamento delle Lettere di Plinio il Giovane dello stesso Paravia, già altre volte da noi citato. Il Paravia prova, a non più lasciar ombra di dubbio, i Plinii essere stati di Como.

85.  Essai de Zoologie Générale, par. I. 1, 5.

86.  De Viris Illustribus.

87.  «Le mofete, scrive Giuseppe Maria Galanti, formano molti fenomeni curiosi. Terminate le grandi eruzioni sogliono esse manifestarsi sotto le antiche lave e ne’ sotterranei, e qualche volta hanno infettata tutta l’atmosfera. Non sono che uno sviluppamento di acido carbonico. Circa quaranta giorni dopo l’ultima grande eruzione del 1822 comparvero le mofete nelle cantine ed altri luoghi sotterranei delle adiacenze del Vulcano. L’aria mofetica cominciava all’altezza del suolo superiore, e spesso infettava anche l’aria esterna. In alcuni sotterranei si manifestarono rapidamente, in altri lentamente: dove durarono pochi giorni e dove sino a due mesi. Dopo l’eruzione del 1794 molte persone perirono per mancanza di precauzione contro queste mofete. Esse si sviluppano più assai nei luoghi dove terminano le antiche lave, cioè nei luoghi prossimi alla pedementina del Vulcano, forse perchè il gas acido carbonico che si svolge in copia nell’interno del Vulcano, si fa strada negli interstizi delle lave, le quali partono tutte dal focolare vulcanico.» Napoli e Contorni, 1829. — Vedi anche La storia de’ fenomeni del Vesuvio di Monticelli e Covelli. Napoli, 1843.

88.  Quest’eco esiste anche adesso, e lo si esperimenta sempre da chi visita l’anfiteatro.

89.  Presso l’Anfiteatro venne trovata la carcassa di un leone.

90.  Due scheletri si conservano ancora d’una povera madre e della sua figliuola, cadute insieme l’una a lato dell’altra e turgido tuttavia era il fianco della prima. L’ingegnoso artificio dell’illustre Fioretti ha saputo strappare al muto involucro, — formato intorno ad esse dalle ceneri assodate, — la straziante storia de’ loro estremi patimenti. Egli versando del gesso liquido nelle impronte lasciate da quelle sventurate vittime, potè ottenere la testimonianza di quelle ultime loro crispazioni che rivelano la disperazione dell’agonia ch’esse avevano sofferto.

91.  Sen. Thiest. 828. Tradurrei:

Da supremo spavento i petti affranti,

Temon che scossa da fatal rovina

Ogni cosa trabocchi e ancor sui numi

E su’ mortali il caos informe piombi.

92.  Per disposizione d’Augusto, come ho più sopra avvertito, una legione romana stanziava colla flotta a Miseno e così vegliava a difesa della città stessa. Vedi Tacito, Ann. IV, 5. Svetonio in Aug. XLIX, e particolarmente Veget. De Re Militari, V. I.

93.  Il testo dice Nonum Kalend. Septembris, ma è evidentemente errata una tale lezione, come è manifesto dalla storia e da quanto io medesimo son venuto esponendo; sì che non potesse essere a’ 24 di agosto, come dovrebbe interpretarsi, ritenendosi la lezione del testo, invece del 1 di novembre. Il Paravia, a rincalzo di questa lezione che è pur la sua, annota: «che parmi di avere altrove (Esercitaz. scient. e lett. dell’Ateneo di Venezia. To. I. f. 366.) con sufficienti ragioni dimostrato che quella lezione vuol essere assolutamente errata, e che tutto induce a credere che debbasi invece a leggere Nov. Kal., cioè alle calende di novembre; anche per accordare col n. a. l’abbreviazione di Dione, il qual dice che questa eruzione del Vesuvio accadde Autumno iam ad exitum vergente; lo che non può certo intendersi de’ 24 di agosto.»

94.  Liburnica appellavasi una nave leggierissima e velocissima, derivandone il nome dai Liburni, popolo dell’Illiria, che di tali navi una volta servivasi alle proprie piraterie. Esse alla battaglia d’Azio avevano avuto la superiorità sulle galere triremi.

95.  Il testo dice Codicillos. Avanti l’invenzione della carta dicevansi codicilli le tavolette spalmate di cera su cui scrivevasi collo stilo. Veggasi il Forcellini a questa parola e più addietro quanto ne scrissi nel precedente capitolo.

96.  Classiarii, ossia soldati delle navi, classis significando flotta. Io ho seguito in questo passo la lezione adottata dal Lemaire nella sua edizione Plinii Cæcilii Secundi Epistolarum, Parisiis 1822, poichè mi parve la più ragionevole, migliore di quella di coloro che vorrebbero si traducesse: «ricevè un biglietto di Retina, moglie di Cesio Basso (poichè la sua villa vi era sottoposta, nè si poteva scampar che per acqua), il pregava a liberarla da tanto pericolo.» Pier Alessandro Paravia, traduttore, d’altronde egregio, delle lettere di Plinio, in una sua nota a questo passo, ammettendo le varie lezioni, si maraviglia di quel che io pure credo, dicendo: «Basti, che di questa Retina si fa da taluni un paese, quando io con buone ragioni, per quel che mi sembra, ho creduto di dover sostenere che sia essa una donna.» Oh che? Il Paravia non pensò che Retina appunto fosse un paese alle pendici del Vesuvio travolto sotto le lave e ceneri di tal monte con Ercolano, Pompei, Oplonte, Stabia, Tegiana e Taurania? Poco presso all’antica Retina ora sta Resina, come su Ercolano sta Portici e su Oplonte la Torre dell’Annunziata.

97.  Vi pulveris ac favillæ oppressus est, vel, ut quidam existimant, a servo suo occisus, quem æstu deficiens, ut necem sibi maturaret, oraverat.

98.  Disquisitiones Plinianæ.

99.  Plinio qui cita il verso di Virgilio, spiccandolo al principio del Lib. II dell’Eneide, vers. 12:

Quamquam animus meminisse horret

Incipiam.

Io ho osato sostituire la traduzione di mia fattura a quella di Annibal Caro, che pur avrei amato recare, come quella che universalmente è tenuta in miglior conto, ma essa non mi parve in questo passo felice; eccola:

(Benchè lutto e dolor mi rinovelle,

E sol de la memoria mi sgomente)

Io lo pur conterò.

Se male m’apposi, me lo perdonino i lettori.

100.  Quella stessa della morte di Plinio il Vecchio.

101.  Plinio il Vecchio, dall’impero di Nerone a quello di Vespasiano, era stato in Ispagna procuratore di Cesare.

102.  Lymphati, scrive Plinio: così pure chiamavansi dai Romani i pazzi, e la pazzia tenevasi per sacra, attribuendosi a chi n’era preso la facoltà di predir l’avvenire.

103.  Atque etiam recordatus quondam super cœnam quod nihil cuiquam tote die præstitisset, memorabilem illam meritoque laudatam vocem edidit: «Amici, diem perdidi». Svetonius in Titum, c. VIII.

104.  Svet loc. cit.

105.  Descrizione delle rovine di Pompei. Napoli, Da’ torchi del Framater, 1831.

106.  Deca Terza, vol. terzo, pag. 11 dell’ediz. di Venezia, per G. Battaggiu, 1823.

107.  A lui si debbono il palazzo reale di Caserta, architettato dal Vanvitelli, il teatro San Carlo, per non dir di tante altre grandiose opere, degne non che di un re di piccolo reame, di possente imperatore; ma fu pur egli che osò far arrestare in Parlamento un membro di esso, ed inoltre era un Borbone.

Poichè ho accennato al palazzo di Caserta, che si pretende essere la reggia più sontuosa che esista in Europa, m’unirò anch’io ai voti espressi dall’universale in quella provincia che, cioè, l’Amministrazione della Real Casa, meglio sentendo la propria dignità, non abbia a cederlo al Demanio. Vendere quella proprietà sarebbe un’offesa a quel sentimento delle popolazioni che la Monarchia certo non ha interesse a scalzare.

108.  

Tempo trarrà quanto è sotterra a luce.

v. 24, traduzione di Gargallo.

109.  Part. I, Cap. 399. «Noi speriamo che questa etimologia non sarà scambiata per un delirio, se si vuol ben considerare che la parola orientale Hercul, cioè monte arso che si incontra ad ogni passo dal promontorio di Miseno a quello di Sorrento, da cui derivò pur il nome d’Ercolano, ci indica evidentemente la storia delle devastazioni vulcaniche alle quali questa contrada andò soggetta da’ tempi più rimoti. Nelle epoche successive i Greci e gli Italiani, sì poetici nelle loro idee e nelle loro sensazioni, attribuirono alle intraprese di Ercole gli effetti straordinarj de la natura ed elevarono templi al semidio là dove non esistevano altro che le traccie del fuoco.» Vedi addietro il Capitolo II.

110.  

«La diletta Pompeja alle saline

D’Ercole presso.»

111.  Æneid. Lib. VII, 738:

E fu re de’ Sarrasti, e de le genti

Che Sarno irriga.

Traduzione di Annibal Caro.

Popoli Sarrasti eran quelli che stavano intorno al promontorio Sorrentino, cioè i Campani orientali, gli Irpini e i Picentini.

112.  Appiano, parlando delle mura di Cartagine, le dice triplici, con torri, fornici e casematte, stalle per elefanti, celle per cibi, ecc. «Murum fuisse triplicem, quorum quisque alius 30 cubitos esset, absque loricis et turribus. Quæ turres 200 pedum spatio inter se distabant et 4 contignationes singulæ habebant. Ipsi muri fornicati et capaces: et duplici quasi contignatione facti: in quorum parte ima elephanti 300 stabulari poterant, et adjunctæ iis cellæ ac repositoria ad cibos: super eos 4000 equi, item cum receptaculis pabuli hordeique Viris ipsis ibidem diversoria et habitacula, pedibus 20000, equitibus 4000. Atque hic bellicus apparatus in solis mœnibus erat.»

113.  Marci Vitruvii Pollionis De Architectura Libri Decem. Ve ne hanno infinite edizioni: commendevole assai quella curata da Gio. Gottlieb Schneider di Sassonia. Lo Stabilimento Privilegiato Nazionale di G. Antonelli di Venezia publicò quest’opera tradotta dal marchese Berardo Galiani col testo a fronte. 1851.

114.  Mi ricorda infatti aver letto un’eguale osservazione in un racconto pompejano di Theophile Gautier, dal titolo Arria Marcella. Parlando egli della porta che conduce alla Via delle Tombe, e che è questa appunto detta di Ercolano, così si esprime: «Cette porte en briques, recouverte de statues et dont les ornements ont disparu, offre dans son arcade interieure deux profondes rainures destinées à laisser glisser une herse, comme un donjon du moyen âge à qui l’on aurait cru ce genre de défense particulier. Qui aurait soupçonné Pompei, le ville græco-latine, d’une fermeture aussi romantiquement gothique? Vous figurez vous un chevalier romain attardé, sonnant du cor devant cette porte pour se faire lever la herse, comme un page du quinzième siècle?» Un trio de Romans, Paris, Victor Lecou, 1852.

115.  Ruines de Pompei. T. II, p. 101.

116.  Bull. Inst. 1865. p. 184. 1867. p. 87.

117.  Giornale degli Scavi. Nuova Serie. N. 5, dicembre 1868.

118.  «I Censori provvedevano nella città a selciare colla arena le vie, e fuori della città a gittarvi ghiaja ed a praticarvi i margini.»

119.  V. Giornale degli Scavi, N. 2, settembre 1868.

120.  Orat. pro M. Fontejo. Si sa che M. Fontejo Pretore, dopo d’avere per un triennio successivo alla pretura, amministrata la Gallia, reduce a Roma, a petizione de’ Galli, venne accusato da M. Pletorio in due azioni. Difendendolo nella seconda Cicerone, questi nel dire dell’accusa che riguardava le vie, così ricorda la Domizia: Cum majoribus reip. negotiis impediretur; et cum ad remp. pertineret, viam Domitiam munire, legatis suis primariis viris, C. Annio Bellieno, et C. Fontejo negotium dedit.Via Domitiana, della quale è l’argomento mio, è il titolo del terzo componimento di Stazio del lib. IV delle Sylvæ, e così è ancor un dato maggiore a conforto di quel che dico di questa via.

121.  Vien ricordato da Stazio che la via Appia fosse la regina delle vie in que’ versi:

. . . . qua limite noto

Appia longarum teritur regina viarum,

e vi accenna Orazio nel parlar della Via Numicia che dinota prossima all’Appia:

Brundusium Numici melius via ducat, an Appi.

Epist. Lib. I.

122.  «La terza via da Reggio, traversando i Bruzi, i Lucani e il Sannio conduceva nella Campania e metteva alla Via Appia.»

123.  In Sympos.

124.  Pudor me habet alimontia illa proferre mysteria, quibus in Liberi honorem Patris phallos subrigit Græcia. Vedi anche il Vossio alla voce Fascinum.

125.  Non vuo’ persi apparati, ecc. Lib. 1, Od. XXXVIII.

126.  Capit. III.

127.  

Una bianca m’apprese a odiar le brune.

128.  

Odii, ma torni. Io, non richiesto, l’amo.

Venere Fisica Pompejana scrisse.

129.  

Altri ama, altri è amato; io non me ’n curo.

130.  

Chi non se ’n cura, ama.

131.  

Venga ognun che ama: col bastone io voglio

Romper le coste a Venere e fiaccarla.

La sua parola mi ferisce il core....

Nè poterle il baston spezzar sul capo!

132.  Auge ama Arabieno. Mete Cominia commediante ama di cuore Cresto; sia ad entrambi propizia Venere Pompejana e vivano sempre concordi.

133.  Pirro al collega Cajo Ejo salute. Di malanimo io udii che tu sia morto: statti sano adunque.

134.  Soave vinaja ha sete; prego che abbia sete di più. Sitit per sitiat accusa la volgarità di chi scrisse.

135.  Fu portata via un’urna da vino dalla bottega — A chi la restituirà — Verranno dati — Sessantacinque sesterzj: e se il ladro — taluno arresterà — avrà il doppio — Januario qui abita.

136.  «Quando il zampone è cotto, se lo si appresta al commensale, non solo il gusterà, ma ne leccherà il vaso e la pentola.» — Olla era infatti un ampio vaso di assai ordinario uso, più comunemente d’argilla cotta. La forma essendo di fondo piatto, di lati rigonfi, bocca larga ed avente coperchio, corrisponde a quel vaso stesso che i Lombardi chiamano egualmente olla, ma serviva all’uso della moderna pignatta. Cacabum, di cui se ne trovò un originale in bronzo negli scavi pompejani, era pur un vaso per cuocere carni e vegetali, più spesso d’argilla cotta. Di poco differiva dall’olla; non aveva però il fondo piatto, ma tondo, onde mettevasi al fuoco sul treppiede, tripus; la bocca si restringeva ed ai lati aveva manichi.

137.  

Barbaro è quei che non m’invita a cena.

138.  Cap. 33.

139.  Cosmo è d’una nequizia grandissima.

140.  Perchè tu fai quotidianamente lo stesso.

141.  Così tradusse senza riguardo quel sommo che fu Vincenzo Monti:

Niun qui, dici, a sgravar l’alvo si butti;

E le due serpi vi dipingi, e al piede;

Pisciate altrove, è sacro il luogo, o putti.

142.  L’ira di Giove, di Giunone e de’ dodici Dei a chi avrà pisciato qui o sporcato. De Rich, Dizion. Antich. voc. Anguis.

143.  Ultimi giorni di Pompei. Capitolo II.

144.  Pompeja, par Ernest Bréton. Paris, L. Guerin et C. éditeurs, 1869, p. 134.

145.  Pompeii, p. 133.

146.  Così al Lib. V. 25, Honorem ob eam munificentiam ferunt matronis habitum, ut pilento, ad sacra ludosque, carpentis festo profestoque uterentur.

147.  

Cui le sacre carrette ivano appresso

Coi santi simulacri e con gli arredi,

Che traean per le vie le madri in pompa.

Così traducea Annibal Caro; ma per la migliore intelligenza della mia citazione, meglio varrebbe tradurre letteralmente:

Nelle molli pilente i sacri arredi

Traean per la città le caste madri.

148.  

Era, e i noti il dicean serici veli,

Il cocchio del berton mezzo fallito.

Lib. IV. 8. Trad. di M. Vismara. Il Poeta prende la parte per il tutto, chiamando serici carpenti, ciò che il traduttore chiamò serici veli del cocchio. Nella qual ultima parola non si ha riprodotto il nome proprio e speciale del cocchio, cioè il carpento.

149.  Vedi Imp. Giulian. Cod. 12. 51. 4. e gli Imperatori Valentiniano, Valente e Graziano ibid. 7.

150.  

Meglio ne porti sovra il docil collo

L’esseda belga imposta.

Qui son tratto a ricordare la definizione degli odierni omnibus fatta col seguente verso onomatopeico:

Maxima rhedarum patet hic, patet hac, patet illac

Omnibus.

151.  «Il tribuno della plebe facevasi condurre nell’esseda.»

152.  

O l’onda azzurra colla pinta nave

Solcammo, o tratti dalla svelta rota

Dell’esseda noi fummo.

153.  

Carri e tregge e carrette e navi affrettansi

traduce Gargallo: ma come non si nominano Essede, pilente e petoriti?

154.  

Alle mule i petoriti già avvinti

Troverai pronti.

155.  

Le cornipede mule agili traggono

I petoriti a cui vennero avvinte.

156.  Plin. His. Nat. 34, 17, 48.

157.  Capit. V. pag. 200. Firenze, Chiari, 1845.

158.  

Breve era il proprio censo

Ricco il comun, nè portico

Privato ergeasi immenso, ecc.

Trad. Gargallo.

159.  Nemo cœlum cœlum putat, nemo Jovem pili facit. Petron. Satyricon c. 44.

160.  Juven. II. 149.

«Che vi sien mani e sotterranei regni

Pur non credono i bimbi, in fuor di quelli

Che non ancor si lavan nel catino.»

161.  In Agricola 4. 6.

162.  De Bello Gallico, VI. 17.

163.  Giornale degli Scavi, maggio, giugno 1869.

164.  Libro IV. Cap. IX.

165.  

«Ecco le quattro are:

Dafni, a te due, e due altari a Febo.»

Egloga V.

166.  Monuments inédits d’antiquité figurée, tav. XXVI. 2.

167.  Id. Lib. I. cap. VII.

168.  Nel Convito. Vedi anche l’epigramma XIII di Teocrito.

169.  

Mille per lei si dicono

Arti d’amor trovate,

Che prima in mezzo agli uomini

Vivevano ignorate.

170.  

Per tre notti continue

Gli spensierati cori,

Scelti fra tanto numero,

Coronati di fiori,

Correr vedresti lieti

Pe’ tuoi boschi e mirteti.

171.  Latinamente Calyptra, e quindi anche in italiano caliptra, essendo voce derivata dal greco, ed era, secondo Vesto, genere di abbigliamento muliebre, o più precisamente, come si vede in questa pittura, un velo o zendado.

172.  Vedi il precedente Capitolo VII.

173.  Giorn. Scavi di luglio e agosto 1869.

174.  Questioni Pompejane, p. 72.

175.  Das Templum, p. 207.

176.  Inscr. Neap. 2199.

177.  Pompeji Tom. I, p. 101.

178.  Marco Porcio figlio di Marco, Lucio Sestilio figlio di Lucio, Gneo Cornelio figlio di Gneo, Aulo Cornelio figlio di Aulo, quadrumviri, fecero erigere questo monumento per decreto dei decurioni.

179.  Lucio Sepunio Sandiliano figlio di Lucio, Marco Erennio Epidiano figlio di Aulo, duumviri di giustizia, fecero erigere a loro spesa questo monumento.

180.  «Marco Olconio Rufo duumviro di giustizia per la terza volta e Cajo Egnazio Postumo duumviro di giustizia per la terza volta, per decreto dei decurioni, ricomprarono per tremila sesterzi il diritto di chiudere le finestre ed ebbero cura di erigere un muro privato fino alle tegole pel collegio de’ Venerei corporati.» Di questi Venerei parlano altre iscrizioni pompeiane, e che poi si dicessero corpi e corporati se ne ha un esempio in Dimmaco, Lib. XI ep. 103. Coerarunt certo per curarunt. L’interpretazione surriferita, accettata pure dal De Mazois, non viene accettata dal Bréton, che nelle abbreviature COL . VEN . COR . invece di leggere COLLEGII . VENEREORVM . CORPORATORVM, crede non potersi leggere che così: COLONIE . VENERIÆ . CORNELIÆ, perchè, dice egli, la parola corporatio non potrebbesi tradurre per comunità, mentre significa corpulenza. Pompeja, pag. 59. Bréton però erra nel negare la significazione data dal Mazois e da altri alla parola corporatus. Se questo participio passivo del verbo corporare (ridurre in corpo) può significare formato di più sostanze, significa anche membro di un corpo morale, come venne anche adottata la parola corporazione in questo senso dalla lingua nostra. Veggasi poi all’uopo il Grutero, Inscript. 45, 8; 406, 5.

181.  Bull. Inst. 1866, p. 11, citato dal chiarissimo Brizio nel Giorn. Scavi, settembre e ottobre 1869.

182.  L’erario, la carcere e la curia si hanno a situare accanto al Foro; ma in modo tale che la grandezza loro sia proporzionata a quella del Foro. Traduz. Berardi, De Architectura. Lib. V. C. II.

183.  Descr. delle Rovine di Pompei, Napoli 1832, p. 135.

184.  «Spurio Turannio Proculo Gelliano figlio di Lucio nipote di Spurio, pronipote di Lucio della tribù Fabia, prefetto de’ Fabbri per la seconda volta, prefetto de’ curatori dell’alveo Tiberino, prefetto e propretore di giustizia nella città di Lavino, padre patrato del popolo di Laurento per segnar l’alleanza; secondo i libri sibillini, co’ pretori de’ sacri principii del popolo romano, de’ quiriti e del nome Latino che si conservavano presso la città di Laurento, Flamine, Diale, Marziale, Salio, Presule, Augure, Pontefice, Prefetto della Corte Getulia e tribuno militare della Legione X, cui fu dato il luogo per decreto dei decurioni.»

185.  V. Giusto Lipsio, De Milit. Roman. Lib. V.

186.  Non più speranza di libertà esiste se non nei principii de’ vostri accampamenti.

187.  Dione I, XL; e Valerio Massimo I, 3.

188.  Lib. 1. Eleg. 8. Così parmi tradurre:

O Nilo, o padre, oh, come posso io d’onde

Tu proceda narrar, e come e dove

Misterioso il capo tuo s’asconde?

Per te, la terra tua, s’anco non piove,

Dal ciel non fia che l’acque mai sospiri,

Nè l’erba chieda le rugiade a Giove.

T’inneggia e cole come onora Osiri

La strania gioventù, nè per te fia

Che Menfi il bove a ricercargli giri.

Osiri, il primo cui la man venìa

Componendo l’aratro industrïosa

E col ferro solcò la terra pia.

Ei pur fu primo ch’ebbe in grembo ascosa

Alla terra inesperta la semente

E colse ignote frutta ardimentosa.

E insegnò come a’ pali la recente

Vite si debba maritar, le frondi

Toglier soverchie coll’acciar tagliente.

Opra è di lui s’anco da’ piedi immondi

I tumefatti grappoli pigiati,

I sapor elargiron più giocondi.

Tanto licor la voce a’ modulati

Canti piegò e le membra ancor non use

Addestrò a’ moti armoniosi e grati.

Bacco per lui tutte le gioje infuse

In petto degli affranti agricoltori,

Ov’eran pria tolte le angosce chiuse,

Bacco sollievo degli afflitti cuori,

Ancor che invendicato il pie’ trascini

La sonante catena infra i dolori.

Non teco, Osiri, son tristi destini

E mesto volto; ma le danze e i canti

e i lievi amor’ t’allietano i cammini.

Son teco i fior più varii ed olezzanti,

E d’eriche la fronte redimita,

Le crocee palle[189] a’ brevi pie’ cascanti,

Le tirie vesti e il suon de la gradita

Tibia son teco e la leggiera cesta

Sola de’ tuoi mister sacri istruita.

Questa è la cesta misteriosa che si portava ne’ sacrificj d’Osiride, in memoria del cofano in cui fu chiuso da Tifone, il famoso Re egizio. «Quando Osiride, scrive Plutarco, fu di ritorno da’ suoi viaggi, Tifone gli tese insidia, avendo indotto nella sua trama altri settantadue uomini, senza tener conto di una regina d’Etiopia, che si chiamava Azo, partecipe e complice della congiura, ed avendo segretamente presa la misura del corpo di Osiride, fece fare un cofano della stessa lunghezza, maravigliosamente bello, quadrato e squisitamente lavorato, il quale ordinò recare nella sala in cui banchettava la brigata. Ognuno si compiacque ammirar sì bell’opera e stimarla, e Tifone fingendo celiare, disse darebbela volentieri a colui che il corpo avesse eguale alla misura di un tal cofano. Tutti della compagnia, l’un dopo l’altro, lo provarono, ma non fu trovato ben proporzionato, nè eguale ad alcuno. Finalmente Osiride vi entrò e s’adagiò, ed allora i congiurati accorrendo vi imposero il coperchio e assicurandolo con chiodi, vi sparsero sopra piombo fuso e portaronlo al fiume, gettandolo pel confluente del Nilo, che si chiama Janitico, dentro il mare; onde fino oggidì questa bocca è esecrabile agli Egizj e la chiamano abbominevole. De Iside et Osiride.»

189.  Palla chiamavasi una sopravveste lunga, ampia e fluente propria della donna onesta; eguale al peplo greco.

190.  Traduco io ancora:

Che fa, Delia, la tua Iside intanto,

Che fa per me? Che giova a me che l’arie

Abbi a stancar de’ sistri tuoi cotanto?

E ch’io rammenti le pietose e varie

Lustrazïoni e le frequenti offerte

E le tue notti caste e solitarie?

Vieni e m’aita, o Dea, corri solerte:

De’ tuoi templi le tavole votive

Le mie speranze di guarir fan certe.

191.  

Chi non sa che i Pittori Iside ingrassa?

192.  

Ecco il tristo anniversario

Per gli amanti e pei mariti:

Cinque e cinque notti Cinzia

Già passò fra i sacri riti.

Mal ne venga a quella Inachide,[193]

Che alle vaghe Ausonie donne

Queste infauste cerimonie

Da l’adusto Nil portonne.

Quella Dea, che spesso vedove

Degli amanti fa le piume,

Quella Dea qualunque siasi,

Sarà sempre un triste Nume.

Lib. II. Elegia XXXIII. Trad. di Michele Vismara.

193.  Io, figlia di Inaco, amata da Giove, convertita in giovenca e finalmente divenuta Iside.

194.  Annali II, 85. V. anche Giuseppe Antichità I, XVIII, c. 3.

195.  Decad. Imp. Rom. Vol. I, cap. II.

196.  

Da Meroe la sacra onda recava

Per ispargere d’Isi il tempio...

197.  Histoire pittoresque des Réligions. T. II, p. 185. Paris, Pagnerre 1845.

198.  Vedi anche Macrobius: Saturnaliorum lib. I. cap. 20, 21; e l’opera Des Divinités Egyptiennes. Paris, Lacroix, 1866, p. 161, e Dupuis, Origines de tous les cultes, T. III. p. 218 in cui si danno eguali spiegazioni — In Plutarco De Iside et Osiride.

199.  Epig. lib XII. 29.

Coi lini e i sistri involasi

Lo schiomato drappel

Se Ermogene si accosta al sacro ostel.

Trad. Magenta.

Come la Dea linigera ricordata da Ovidio nel l. delle Metamorfosi (v. 747) significava Iside; così linigeri venivan detti certi suoi preti, che andavano a capo raso, onde Marziale li chiamò calvi, e nudi fino alla vita o coperti da indi in giù di una lunga sottana di lino. V. anche Giovenale, Sat. VI, 533.

200.  Sveton., in Claudium.

201.  Collana degli antichi storici greci volgarizzati. Erodoto è tradotto dal corcirese Andrea Mustoxidi. Lib. II, p. 300.

202.  Il Mazzoldi nelle sue Origini Italiche provò con isplendida erudizione che il culto d’Iside è d’origine italica. Vol. II.

203.  Cap. XIV.

204.  

D’Iside profanavi, io ben rammento,

Il delubro, d’Ausidio assai più empio,

Testè e di Ganimede il monumento.

E della Buona Dea l’asilo e il tempio

Profanavi di Cerere (e in qual loco

Non faria donna del pudor suo scempio?).

Mia traduzione.

205.  «Numerio Popidio Celsino figlio di Numerio restituì dalle fondamenta col suo denaro il tempio d’Iside dal tremuoto rovinato. I Decurioni per si fatta liberalità, essendo egli d’anni sessanta, lo ascrissero graziosamente nel loro numero.»

206.  «Lucio Cecilio Febo pose, concedendone il luogo i Decurioni.»

207.  Lettisterni, letti triclinari su cui ponevansi le statue degli Dei, a’ quali in data cerimonia religiosa, offerivasi sontuoso banchetto.

Patere eran vasi usati a contenere il vino con cui era fatta una libazione, versandolo dalla patera sulla testa della vittima o sull’ara. Le qualità comuni eran di argilla, le più preziose di bronzo, d’argento ed altresì d’oro, sommamente e squisitamente ornate; talora con manico, più spesso liscie.

Lebeti, vasi profondi a ventre pieno e rigonfio, (Ovidio Metamorfosi, XII. 243) di bronzo e di metalli preziosi e destinati ad esser tenuti sotto le mani o i piedi per raccogliere l’acqua lustrale che un domestico versava sopra essi da un boccale, gutturnium, prima e dopo il pasto.

Accerre, come i turiboli, erano incensieri. Orazio ne fa cenno nel libro III delle Odi, Ode ottava, a Mecenate.

Prefericoli. Secondo Festo, eran vasi di metallo senza manico e largamente aperti di sopra, atti a tenere i sacri utensili portati in processione in certe solennità religiose.

Simpuli. Ramajoli, o chiccherine con lungo manico, adoperati nei sagrifizj a prendere il vino in piccole quantità da qualche vaso, per libazioni.

Mallei. Grossi magli di legno, di cui servivansi i beccai e i popi nei sagrifizj per atterrare il bue prima che il cultrarius gli tagliasse la gola.

Secespiti. Sorta di coltelli pei sagrifizi con una gran lama di ferro aguzza e manico rotondo.

Cultri. Coltelli di cui servivasi il cultrarius, o ministro del sacerdote, che ammazzava la vittima.

Litui eran le verghe degli Auguri curve in cima, come a un di presso i pastorali dei vescovi cattolici, che ne tolsero il modello dalla pagana liturgia.

Crotali. Specie di strumento musicale particolarmente adoperato nel culto d’Iside e Cibele per accompagnarsi alle danze religiose. Si componevano di due canne fesse pel mezzo o di due pezzi di legno o di due metalli incavati congiunti con un manico diritto. Se ne teneva uno per mano e se ne battevano i due pezzi come le nacchere spagnuole o castagnette napoletane.

Aspergilli. Parola non dell’antichità, ma degli antiquari, ad indicare gli aspersorj per le purificazioni, massime avanti i sagrificj agli Dei infernali (Cic. Leg. II. 10; Ovid. Fast. v. 679; Virg. Æneid. IV. 635) — Vedi Dizion. delle Antichità Greche e Romane di Antony Rich. Milano 1869.

208.  Così traduco:

De’ sistri suona

La nilotica riva e la zampogna

Egizia guida i farii salti, ed Api

Colle corna dimesse intanto mugge.

Pharos, onde forse si appellarono e quelle sacre danze e i cori dei sacerdoti e delle sacerdotesse della egizia Dea, è il nome di un’isola poco lungi dalla città di Alessandria.

209.  Numerio Popidio Ampliato, padre, a sua spesa.

210.  «Numerio Popidio Celsino — Numerio Popidio Ampliato — Cornelia Celsa.»

211.  Napoli e Contorni. Pag. 360.

212.  Vedi Cap. II. pag. 47.

213.  Amm. Marcell. Lib. 22.

214.  Dizion. della Mitologia di tutti i Popoli, alla voce Esculapio.

215.  Questioni Pompejane, p. 74.

216.  Corp. inscrip. regni Neapol. N. 2189.

217.  Romolo figlio di Marte fondò la città di Roma e regnò trentott’anni. Il primo egli de’ Capitani, uccise il capitano de’ nemici Acrone re de’ Ceninesi, ne consacrò le opime spoglie a Giove Feretrio, ed ammesso nel novero dei numi, venne chiamato Quirino.

218.  Pompeii, p. 115.

219.  Pompeii, p. 117.

220.  Poesie di Alessandro Guidi, La Fortuna. Milano 1827.

221.  «Marco Tullio, figlio di Marco, duumviro incaricato della giustizia, eletto tre volte quinquennale, augure, tribuno de’ militi, eletto dal popolo, eresse sul proprio suolo e con proprio denaro il tempio alla Fortuna Augusta.»

222.  Pompeii I. 95.

223.  «Area privata di Marco Tullio figlio di Marco.»

224.  «Agatemero di Vezio, Soave di Cesia Prima, Poto di Numitore, Antero di Lacutulano Ministri primi dell’augusta Fortuna, per comando di Marco Stajo Rufo e Gneo Melisseo duumviri e giudici, essendo consoli Publio Silio e Lucio Volusio Saturnale.»

225.  «Essendo consoli Tauro Statilio, Tito Platilio Eliano, Lucio Stazio Fausto, invece della statua che secondo la legge dei Ministri della Fortuna Augusta doveva porre per decisione emessa sulla relazione del Questore Quinto Pompeo Ametisio, decretarono che due basi marmoree venissero collocate in luogo della statua.» Nel testo le parole ministorum, basis, marmorias, poniret in luogo di ministrorum, bases, marmoreas, ponere, devonsi evidentemente attribuire alla ignoranza dell’artefice che le ha scolpite.

226.  Tacito Annales, 1, 15 e 54. V. anche Reines Inscr. 1, 12.

227.  Petronio, Satyricon 30, 2. Orelli, Inscript. 3959.

228.  Pag. 43.

229.  Virgil. Æneid. XII. 170:

«Cento abbatteva ben lanute agnelle (bidenti).»

230.  Phædr. 1. 17:

«Una pecora (bidente) vide entro una fossa

Giacente un lupo.»

231.  Hor. III. Od. 23. 14. Poichè il Gargallo, a questo passo non traduce, ma perifrasa, mi sostituisco a lui:

«Con sagrificj di ben molte agnelle (bidenti)

Placare i Numi.»

232.  Tab. 19 e 20. «Evvi in Pompei figura di un bidentale scavato, perchè il puteale aveva un tempio rotondo di otto colonne senza tetto, ornato del solo epistilio, con iscrizione scolpita in caratteri osci, che suona latinamente così: Nitrebes ter meddixtuticus septo conclusit, cioè: Nitrebio tre volte Meddixtuticus chiuse con questo recinto.» Il Meddixtuticus era il supremo magistrato di Pompei, e lo aveva ogni città della Campania. La parola è d’origine osca composta dalle due voci meddix, giudice, curatore, imperante, e tuticus, magno, sommo. Ennio così ricorda il Meddix:

Summus ibi capitur Meddix, occiditur alter.

Tito Livio nel lib. 22 delle sue Storie, c. 19, rammenta Cneo Magio di Atella come Meddixtuticus in quelle parole: Præerat Statius Metius, missus ab Cn. Magio Atellano, qui eo anno meddixtuticus erat; e altrove lo stesso storico (lib. 26, c. 6) fa menzione di Seppio Lesio che copriva la stessa carica: Meddixtuticus, qui summus magistratus apud Campanos est, eo anno Seppius Lesius erat. Siccome poi il Rosini nella sua Dissertatio Isagogica (pag. 38), riferisce un’iscrizione ercolanese in cui son nominati L. Labeo, L. Aquilius meddixtuticus etc.; così ne trae argomento ad opinare che fosse cotesto un gemino magistrato, di cui uno avesse alternamente il comando in tempo di guerra, come i consoli in Roma. Vedi anche Lanzi: Saggi di lingua etrusca. Tom. 2, pag. 609.

233.  Forcellini, Totius Latinitatis Lexicon. Voc. Bidentalis. Cita a prova due iscrizioni edite dal Grutero.

234.  Satyra 6 del Lib. II.

In tribunal ti prega

Roscio, pria delle due, trovarti seco

Per domani.

Trad. Gargallo.

Per conservare il carattere storico, il traduttore avrebbe dovuto dire puteale invece di tribunale.

235.  Orlando Furioso, c. XII. st. 1 e 2.

236.  

«Senza Cerere e Bacco si raffredda Venere.»

Eun. act. 4, sc. 5, v. 6.

237.  

Misero me che sol le patrie frondi

Sotto il tuo sguardo ottenni e il cereale

Del calcidico serto ambito dono,

Lib. V, 4, 226. Epicedion in Patrem.

Giovanni Veenhusen a questi versi appone una nota latina, che al par di essi traduco: «Aristide in Eleus scrive, essere stata la prima gara ginnica inventata da Eleusi, della quale erano biade il premio al vincitore. Egualmente opinar si può de’ premj riportati da Stazio nel certame napoletano, che fossero della eguale natura; se non ami piuttosto credere che accenni ai ludi di Cerere istituiti in Napoli e dei quali pur tocca nella selva a Menecrate.» (Libro IV delle Selve, Selva 8, 50.)

238.  Eumachia figlia di Lucio, sacerdotessa pubblica, in nome suo e di Marco Numistro Frontone, ha eretti a propria spesa e dedicato alla Concordia e alla Pietà Augusta un Calcidico, una Cripta e de’ Portici.

239.  

Fui già pedal di fico, inutil legno,

Quando tra il farne un scanno od un Priapo,

Dubbioso il fabbro, è meglio, disse, un Dio.

Eccomi dunque Dio, di ladri e uccelli

Altissimo terror.

Trad. di Gargallo.

240.  

..... i Lari a noi guardano ognora

Le anguste vie, del nostro aver custodi.

Ovid. Fast. Lib. II.

241.  Vedi Svetonio, Aug. 31; Plauto, Mercat. v. 2, 24; Tibullo I, 1, 20 e 10, 15.

242.  Reco nella nostra lingua:

Taluni usciti da parente, esatto

Osservator del sabato, non altro

Adoran che le nubi e il firmamento

E tra l’umana e la suina carne,

Da cui s’astenne il genitor, non fanno

Divario alcun, ben presto circoncisi.

Usi poi nello spregio aver di Roma

Le leggi, apprendon il giudaico dritto

E quanto ad essi nel volume arcano

Lasciò Mosè, religïosamente

Osservano. Non essi al vïandante

Che il suo Dio non adora, additeranno

Il cammin, nè all’infuor del circonciso

La ricercata fonte; e n’è ragione

Che nel settimo giorno il padre loro

Nello sciopro si tenne e negli offici

Della vita non ebbe alcuna parte.

243.  Vol. XLVII. p. 206. Venezia. Tip. Emiliana, 1818.

244.  Veglie Storiche di Famiglia. Milano, 1869. Vol. I, p. 16.

245.  

Della città la parte è qui che il nome

Prende del bove.

246.  

I Portator’ di simboli nel foro

S’adunano pescario.

247.  Lib. VII. Così traduce Magenta:

Qualunque cosa d’Ombria a te conduce,

O d’Etruria il castaldo o il tusculano,

O quel tre miglia da costì lontano,

Tutto ciò la Subura a me produce.

248.  

Di Cesare son questi i fori, ei disse,

Questa è la via che dai sacrati luoghi

Assume il nome.

Tristium, Lib. III.

249.  «Singolare ne sarebbe dovunque la struttura e maravigliosa anche per consenso degli Dei».

250.  

Poi mi getto a dormir senza pensiere

Di dovermi levar insiem col sole,

E Marsia riveder.

Trad. Gargallo.

251.  Tien nel gran foro i consacrati templi. Lib. III.

252.  «Se ciò approvate, andatevene, o Quiriti. — Procedete al suffragio, col favore degli Dei, ed ordinate voi quello che i padri sancirono.»

253.  De Architectura, lib. 1, c. 7.

254.  V. Popidio figlio d’Epidio Questore ha fatto costruire i portici.

255.  Lib. V. c. 1 e 2.

256.  Pompei descritta da Carlo Bonucci: Foro Civile.

257.  Lo squarcio che reco è la traduzione della traduzione francese dell’opera del Bonucci, perchè io non potei avere che questa. Quando l’Italia era sbocconcellata, i libri che si publicavano in Napoli era difficile che pervenissero alle nostre biblioteche di Lombardia e viceversa.

258.  A Marco Lucrezio Decidiano Rufo duumviro, tre volte quinquennale, pontefice, tribuno dei militi per voto di popolo, prefetto de’ fabbri, Marco Pilonio Rufo.

259.  A Marco Lucrezio Decidiano Rufo, duumviro, tre volte quinquennale, pontefice, tribuno dei militi per voto di popolo, prefetto de’ fabbri, per decreto de’ Decurioni, eretto dopo la morte.

260.  A Quinto Sallustio figlio di Publio, duumviro, incaricato della giustizia, quinquennale, patrono delle Colonie, per decreto de’ Decurioni.

261.  A Cajo Cuspio Pansa figlio di Cajo, duumviro incaricato della giustizia, quattro volte quinquennale, per decreto de’ decurioni, col danaro publico.

262.  A Cajo Cuspio Pansa, pontefice, duumviro, incaricato della giustizia, per decreto de’ decurioni eretto con denaro publico.

263.  «Scrive Rutilio avere i Romani istituito le nundine, perchè per otto giorni i contadini dessero opera a’ lavori de’ campi, nel nono poi interrottili venissero a Roma pel mercato e per ricevervi le leggi e riportassero con maggior concorso di popolo gli sciti e consulti (voti popolari), i quali, proposti per diciasette giorni, facilmente si potevano da tutti conoscere.»

264.  «A Marco Claudio Marcello figlio di Marco patrono.»

265.  Lib. VII c. 70.

266.  Così parmi di dover tradurre:

«Possano i Numi esterminar chi primo

L’ore inventò, chi primo in questa nostra

Città poneva un quadrante solare!

Lo sciagurato m’ha per mio malanno

Tagliato a pezzi il giorno! Oh! non avevo

Ne’ miei giorni d’infanzia altro orologio

Che lo stomaco mio, ed era quello

Il migliore, il più esatto ad avvertirmi,

A men che nulla da mangiar vi fosse.

Ora, quantunque la cucina piena,

Non si serve la tavola che quando

Al sol talenta, e di tal guisa avviene

Che dall’istante in cui la città intera

Da’ quadranti solar’ venne segnata,

Quasi tutta la gente non si vegga

Che scarna trascinarsi ed affamata.»

267.  I. Sylv. I. 29.

Quivi i Giulii delubri venerati,

Del belligero Paolo indi la reggia

Sublime.

268.  Satyra IV. Lib. I.

Del foro

Nel bel mezzo, e nel bagno (in chiuso luogo

S’ode più grata risonar la voce)

Recitan molti i loro scritti.

Trad. Gargallo.

269.  Satyra III. Lib. I.

Ecco a tutti i cantor vizio comune;

Pregati, non c’è capo che s’inducano

A cantar tra gli amici: non pregati,

Non la finiscon mai.

Id. ibd.

270.  Æneid. Lib. VIII:

E come pria cader vedrai le stelle,

Porgi solennemente a la gran Giuno

Preghiere e voti.

Trad. del Caro.

271.  

Convien pregar perchè la mente sia

Sana nel corpo sano.

272.  «La miglior parte di ciascun giorno sono le sette delle prime, non delle ultime ore del giorno.» Lib. I.

273.  

Poichè del dì la miglior parte è scorsa,

Quel che avanza cercate allegramente

Di ben esercitar le vostre membra.

274.  Satyra V Lib. I. Sermonum:

Al giuoco Mecenate,

A letto andiam Virgilio ed io; chè il giuoco

De la palla a’ cisposi e agli indigesti

Certo non fa buon pro.

Trad. Gargallo.

275.  Specie di lettiga, o palanchino, portato da due muli, uno davanti, l’altro di dietro, ad uso più specialmente delle donne.

276.  Quando si annunzia l’ora del bagno, cioè la nona nel verno, e la ottava nella state. Plinio Lib. III. Epist. I.

277.  

Con i clienti ei dissipa

La prima e second’ora mattutina;

L’altra ai rauci causidici destina.

Sino alla quinta s’occupa

In varie cure; alla quiete è data

La sesta; ogni opra a settima è cessata.

L’ottava della nitida

Palestra basta agli esercizii e sprona,

Gli eccelsi letti a premere la nona.[278]

Alta, Eufemo, è la decima

Ora a’ miei libri, quando per tua cura

Le dapi eterne al ventre suo misura.

Epig. Lib. IV. 8. Trad. Magenta.

278.  I letti del triclinio sui quali i Romani sedevano a mensa. Nel capitolo che tratterà delle Case ne parleremo.

279.  «Imperocchè quivi erano e i mercati delle merci e le trattative dei contratti, le proposte delle nozze e le pratiche delle transazioni.»

280.  «Paolo, Maria, Pietro, Lorenzo e Giovanni tengono nella città il nome di patriarcato.»

281.  

Nefasto è allor che taccionsi i tre stili

Del pronunziare[283]; e quello è giorno fasto,

In cui lice trattar cause civili.

Nè creder già che il giorno quanto è vasto

Sua ragion serbi: talor fasto fia

La sera quel che al mattin fu nefasto.

Che quando fatto il sagrificio sia,

Può di tutto parlarsi; e al pronunziare

Si apre al nobil pretor libera via.

Trad. di G. B. Bianchi.

282.  

Quando grida il Liburno: olà correte,

Egli già siede.

283.  I tre stili, tria verba, sono le tre seguenti formule del pretore: Do, Dico, Addico; ed ecco, secondo il Sigonio, il significato di queste parole: «Il Pretore dicebat ex. gr. aliquem liberum esse. Addicebat v. g. ad un’altra famiglia come nell’adozione. Dabat, ex. g. il possesso dei beni, o i giudici, poichè il Pretore era cosa straordinaria che facesse da giudice.»

284.  

Nembo d’altre faccende al capo, a’ fianchi

Ecco assalirmi. «In tribunal ti prega

Roscio pria delle due trovarti seco

Per domani.» I notai, Quinto, per oggi

Preganti di tornar: l’affar rammenta

Ch’è di tutto il collegio: è grande, è nuovo.

Fa che Mecena a queste tavolette

Ponga il suggel. Mi proverò; le dici,

Replica, insiste — «Purchè il vogli, il puoi.

Trad. Gargallo.

285.  

Fugge intanto il ribaldo, e me abbandona

Sotto il coltel. Quand’ecco l’avversario

Gli vien tra’ piedi e — O tu svergognatissimo

Dove? dove? gli introna ad alta voce.

E a me — Mi faresti tu da testimonio?

Allor subito subito l’orecchio

Gli presento, strascinalo in giudizio;

Di qua, di là rumor.

Trad. Gargallo.

286.  Se scientemente sbaglio, allora Giove mi respinga, salva però sempre la città, dai buoni, come io getto questa pietra.

287.  

«Ai Triumviri andrò e i vostri nomi

Denunzierò.»

Asinar. I. 2. 4.

288.  

Nè la bianca benda

La composta ricopra onesta chioma,

Nè la stola che a pie’ lunga discenda.

Epist. ex Ponto III. 3, 51. Art. Am. 1, 31.

289.  

Vergogna egli è che due, testè già amanti,

Veggansi avversi divenir d’un tratto:

Odia Venere tali litiganti.

Sovente avvien che sia processo fatto

A chi s’adora, ma trïonfa amore,

Se un odio acerbo non dettò quell’atto.

Un dì assistetti a giovane amatore:

Stava l’amante sua nella lettica,

Fieri oltraggi ei diceale in suo furore.

«Che principio al processo ora s’indica,

Grida, e avanzi la rea» — ella apparia; —

Ma restò muto nel veder l’amica.

L’una tabella e l’altra allor gli uscìa

Dalle mani, per correre all’amplesso,

Dicendo: hai vinto, hai vinto, amica mia!

Meglio è così ch’ora ne sia concesso

Ambo in pace partir, anzi che al foro

Dal talamo passar per un processo.

E sia per tanto la sentenza loro:

«Senza lite ella tenga i doni tuoi.»

Remed. Amor. v. 659-671,

mia traduzione.

290.  

Se de’ suffragi suoi libero avesse

Il popolo a venir, qual mai ribaldo

Seneca preferir dubiteria

Un istante a Neron, al cui supplicio

Vi vorrebbe più assai che d’un serpente,

D’una scimia e d’un sacco?

Mia trad.

291.  

A codesto sguajato, acciò non chiaccheri,

Si spezzeran in fede mia le gambe.

292.  «È delitto imprigionare un cittadino romano: scelleraggine il farlo battere con verghe; quasi parricidio l’ucciderlo; ma che dirò il sospenderlo in croce?» Cicero, Orat. In Ver.

293.  

A far baldoria andrai

Fiaccola in mezzo a quei che per la gola

Ritti e fitti all’uncin fumano ed ardono.

Sat. I. v. 155. Trad. Gargallo.

294.  «Rifletti al carcere ed alla croce, e all’albero infitto per mezzo all’uomo sì che gli esca dalla bocca.»

295.  

Ei diverrà l’adultero di Roma,

Tremando ognor ch’abbia a pagar il fio

Del maritale onor dovuto a l’onta:

Nè credersi vorrà più fortunato

De l’astrifero Marte, a non lasciarsi

Coglier mai nella rete. Ira gelosa

Vendetta più crudel talor ne trae

Che quella dalle leggi al reo prescritta:

Uno uccide col ferro, un altro sbrana

Con sanguigno staffil: ci ha sin di quelli

Che sviscerar si sentono per altra

Bocca che per l’usata, un mugil vivo.

Sat. X. III. 317. Trad. Gargallo.

296.  

Oh allor te misero ti colga il danno,

Che stretti i piedi, dentro le viscere

Rafani e mugili ti cacceranno.

Carmen XV.

297.  Dufour. Storia della Prostit. Vol. I. Cap. XV.

298.  

Una gran causa trattasi nel foro

D’un amico e vuo’ essergli avvocato.

Epidicus. Act. III. x. W.

299.  

Lo scoppiante polmon rompiti, o gramo,

Per veder, lasso alfin, di palme intesti,

De le tue scale onor, verdi festoni.

Qual prezzo a tanti strilli? Un presciutello

Ben magro, di pelamide salate

Qualche bariglioncin, viete cipolle

(Mensil dono degli Afri), ovver del vino,

Per Tevere approdato, un cinque fiaschi.

Che se quattro comparse un aureo in saldo

T’abbian valuto, pattüita usanza

Parte di quello a’ curïali addice.

— Emilio ottien più del dover; e a noi

Qual merito si dà di maggior opra? —

N’è cagion la superba ne l’androne

Quadriga in bronzo eretta; e n’è l’equestre

Sua statua la cagion. Vè come, assiso

Su feroce destrier, del curvo astile,

Già da lunge ammiccando, i colpi assesta;

Già medita fra sè pugne e trofei.

Così sossopra va Pedon: Matone

Va fallendo così: ne fia diversa

Di Tongillo la fin, c’usa lavarsi

Con immenso alicorno, e col seguace

Suo treno inzaccherato infesta il bagno;

O il collo a Medi gestator premendo,

In lettiga a lung’aste il foro scorre;

Vasi argentei e mirrini, e ville, e servi

Sceso a comprar. Quel suo piratic’ostro

Di tirio stame a pro di lui fidanza.

Pur queste appariscenze a lor son lucro:

La porpora dà prezzo; le ametiste

Dàn prezzo a l’Orator: compie a costoro

E strombettar, ed ostentare un censo

Maggior del vero: omai già più non serba

A lo splendor confin prodiga Roma.

I bisnonni orator tornino al mondo:

Sesterzi chi darìa, se grossa gemma

Non gli vedesse sfolgorar dal dito?

In prima in prima il litigante adocchia

Se otto servi ti portino: se diece

Ti circondino intorno; se una seggiola

Ti tenga dietro, ed i togati avanti.

Quindi arringando Paolo fea pompa

D’un cammeotto a fitto, e quindi a prezzo

Maggior che Cosso e Basilo arringava:

Va di rado facondia in cenci avvolta.

E quando il duol di lacrimosa madre

Lice a Basilo esporre? e chi su’ rostri

Soffre un Basilo udir, benchè facondo?

Te Gallia accolga, o meglio, di causidici

Nutricatrice l’Africa, se agogni

Espor la lingua mercenaria a prezzo.

300.  «Per passare poi la vecchiaja con decoro e con credito, qual può mai essere più onorata via che l’occuparsi dello interpretare le leggi? Io per me insin dalla mia giovinezza mi son provveduto di questo soccorso, non solamente per farne uso nelle cause e nel foro, ma per aver eziandio un ornamento ed un pregio col quale, quando mi sieno colla vecchiezza venute meno le forze (il qual tempo già s’avvicina), io mi assicuri di non avere in casa mia a patir solitudine.» De Oratore Lib. 1. XLV. tr. di Gius. Ant. Cantova.

301.  Lib. 1, c. 13.

302.  «La curia, dove il Senato cura la republica.»

303.  L’erario, la carcere e la curia si hanno a situare accanto al foro; ma in modo tale, che la grandezza loro sia proporzionata a quella del foro. E soprattutto dee principalmente la curia corrispondere all’eminenza del municipio, o città che sia... Oltre a questo, a mezza altezza delle mura vi si hanno a tirare attorno attorno delle cornici o di legname o di stucco. Che se queste non vi si fanno, dissipandosi in alto la voce de’ disputanti, non giungerà chiara all’orecchio degli ascoltatori; come all’incontro quando le mura avranno queste cornici attorno attorno, si sentirà bene la voce, perchè vien trattenuta da quelle, prima che si dissipi in alto. — Trad. di Berardo Galiani.

304.  Le basiliche unite ai Fori si hanno a situare nell’aspetto più caldo, acciocchè possano i negozianti radunarvisi l’inverno senza sentire l’incommodo della stagione... E se il luogo fosse più lungo del bisogno, si situeranno piuttosto nell’estremità le Calcidiche, appunto come si veggono nella Basilica Giulia Aquiliana. — Vitruvio, De Architect. Lib. V. e I

305.  Dec. IV, c. 36.

306.  Pompeja. Pag. 125 in nota.

307.  L’usò il Salvini nella versione dell’Iliade per camera degli sposi:

Egli scese nel talamo odorato

Di cedro e in alto soffittato.

308.  Ad Eumachia figlia di Lucio, sacerdotessa publica, i Tintori.

309.  Parole della classica traduzione di Tacito del Davanzati il quale le voci arcta ed obscura rende per prigionia nè strettadubbia.

310.  «Sentirà esistere in questa città una carcere, la quale vollero i maggiori nostri che fosse vendicatrice degli uomini malvagi e delle più aperte scelleratezze» c. 12.

311.  Juvenal. Sat. III:

Tante son le maniere onde si foggia

Per ceppi il ferro, da temer che manchi

Al vomere ed al sarchio ed alla marra.

312.  Vers. 312-314. Traduco:

Ben felici puoi dir gli avi, beata

Puoi appellar l’antica età, quand’era

Da’ suoi Re e dai Tribuni governata

Che un carcer sol bastava a Roma intera.

313.  

Così gli otto littor’ d’incude al pari

Me infelice martellino.

Atto I. Sc. I. 7.

314.  

Comanda a quei che meco ho qui condotti

Per essere al carnefice affidati

Che a me dalla città vengano al porto

Incontro; poi qua di ritorno, tienli

Ben custoditi.

Atto III. Sc. VI. 18.

315.  

«Io vo scrivendo come amor mi spira[316],

E pera io pur, se di mutarmi in Dio,

Senza di te, la volontà m’attira.»

316.  Dopo dell’Innamorato Pompejano, scrisse pur l’Allighieri in questo verso il medesimo concetto.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 390-91 sono state riportate nel testo.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.