The Project Gutenberg eBook of Profili e paesaggi della Sardegna

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Title: Profili e paesaggi della Sardegna

Author: Paolo Mantegazza

Release date: January 5, 2024 [eBook #72631]

Language: Italian

Original publication: Milano: Brigola, 1869

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This transcription was produced from images generously made available by Bayerische Staatsbibliothek / Bavarian State Library.)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK PROFILI E PAESAGGI DELLA SARDEGNA ***

PROFILI E PAESAGGI
DELLA
SARDEGNA


PROFILI E PAESAGGI
DELLA
SARDEGNA

DI

PAOLO MANTEGAZZA

MILANO
PER L’EDITORE G. BRIGOLA.
1869


Proprietà Letteraria.

Milano. — Ditta Wilmant.



INDICE


[5]

Man möchte glauben, dass diese Insel gar nicht in Europa läge, so wenig kümmert man sich um sie.

Si potrebbe credere che quest’isola non fosse in Europa, tanto poco ce ne occupiamo.

Barone di Maltzan.

[7]

UNA PAROLA AL LETTORE

Questo scritterello tirato giù alla buona, più col cuore che colla squadra, era destinato ad uscire modestamente in qualche rivista: ma in questi nostri tempi anche le riviste hanno i loro regolamenti, le loro frontiere, le loro dogane; e il mio lavoro, già piccino per sè, fece il caparbio e il superbuzzo, nè volle rassegnarsi a comparir pei giornali tagliato a fette, nè ci son riuscito a condurlo a più modesti consigli. Ecco perchè un libro, che non è un libro, vi compare impaginato, col suo frontispizio e il suo indice, col nome dell’editore [8] nella prima pagina e colla triste parola di fine nell’ultima. Non badate però alla veste superba, perchè sotto la scorza c’è un galantuomo, che chiacchiera con voi senza pretensione di scrittore che voglia dir cose nuove o ripeter cose vecchie meglio degli altri.

Amando il vero più che il brevetto d’invenzione, io godrò assai di ripetere sulla Sardegna cose già dette da altri; ma ad un patto solo, ch’io sia riuscito cioè a farvi amare un’isola bellissima e infelicissima, che noi altri italiani abbiamo il torto di dimenticar troppo e di amar troppo poco.

[9]

Io poi vorrei dirvi un’altra parola che mi riguarda, e per farmela perdonare voglio rubarla al nostro Giusti. Voi sapete che l’Io è come le mosche, più le scacci e più ti ronzan d’intorno; sicchè devo confessare che ho scritto questo libro non libro per amor mio, per pagare almeno in parte un debito di riconoscenza verso i Sardi così cortesi, così ospitali, così delicatamente generosi. Mi parve che a saldare il conto non dovesse bastare quel po’ di lavoro utile che potrò fare in Palazzo Vecchio come membro della Commissione d’inchiesta [10] e come deputato. Mi parve che fosse mio dovere scrivere una parola calda d’affetto per la Sardegna, farla conoscere anche a quei molti italiani che non possono leggere e studiare le grandi opere che son privilegio delle biblioteche e dei pochi signori che comprano i libri grossi e costosi.

Può darsi che la mia parola riesca qua e là severa od acerba; ma son sicuro che i miei amici di Sardegna non vi troveranno ombra di fiele. Chi molto ama, molto castiga; ed io amo fortemente quell’isola, così povera di presente, [11] così ricca d’avvenire; e in nome di questo affetto fraterno, confido che l’asprezza sarà interpretata come burbera tenerezza d’un galantuomo, come rabbuffo amoroso d’amico ad amico.

Rimini, 2 agosto 1869.

[13]

CAPITOLO I.

La Sardegna vuol essere amata. — Le città della Sardegna. — Cagliari. — I giardinetti e un pazzo di San Bartolomeo. — Sassari e una lezione di storia. — Le grandi e le piccole borgate della Sardegna. — I villaggi e gli stazzi.

Ho messo il piede in Sardegna con viva curiosità e dopo un lungo giro ho lasciato quell’isola con caldo amore: prima di conoscerla, era per me cosa curiosa; dopo averla conosciuta era per me cosa cara. Gli Italiani della penisola hanno un grave torto di dimenticare questa gemma del Mediterraneo; essi devono studiarla ed amarla; gli Italiani di Sardegna hanno il grave torto di spegnere la loro energia in queruli lamenti, cercando fuor di sè stessi l’origine e il rimedio dei [14] loro mali. Or conviene che isola e penisola si perdonino a vicenda i loro peccati, e stringendosi in un potente amplesso, si preparino a tempi nuovi, e si mettano con forze comuni a fecondare una terra quasi deserta e che ha dinanzi a sè un avvenire senza confini, più splendido del suo passato ai tempi di Roma. Io sento nel cuore molti debiti verso la Sardegna e i suoi cortesi abitanti: come membro della Commissione d’inchiesta farò coi colleghi quanto sta in me, perchè il nostro lavoro non riesca infecondo; come operaio della penna vorrei con queste poche pagine far amare la Sardegna da tutti gli Italiani, invitarli a studiarla, ad accarezzarla. Io ho viaggiato gran parte del nostro pianeta e ho portato il piede in regioni quasi ignote a calcagno europeo: eppure ho trovato in questa italianissima nostra isola molte cose nuove, e belle e originali; e più d’una volta coi miei cari compagni di viaggio ho dovuto esclamare in coro: Oh perchè mai gli Italiani ignorano queste bellezze della loro patria? Oh perchè mai non vi portano i loro occhi per ammirare, le loro braccia per lavorare, il loro oro per raddoppiarlo?

[15]

La Sardegna è pur terra feconda e originale! Quasi ignota alle invasioni germaniche, è tesoro per l’etnografo e l’archeologo; e altrove non si saprebbero trovare alcuni tipi che in quell’isola rimasero purissimi, segregati dall’incrociamento moltiforme del medio evo. Un filologo e un antropologo troverebbero nello studio comparato dei dialetti e dei cranii sardi tali tesori da farne una scienza nuova e da ricostruire con facile e feconda fatica la fisiologia delle più antiche stirpi italiane. L’amante del bello trova in Sardegna paesaggi svariatissimi: coste dentellate come le foglie delle mimose; vergini foreste; pianure e stagni; colli e vere Alpi, dove il granito mostra i più bei fianchi ch’io m’abbia veduti al mondo. Costumi pittoreschi intatti da più secoli: tipi umani profondamente scolpiti; poesia popolare, passioni calde; rozze e ardenti nature poco o nulla mutate dagli attriti sociali, nè lisciate dalla pialla della moda francese; scene della natura geologica e umana, quali è difficile trovare altrove e ai tempi nostri; tutta una tavolozza di colori vivi e svariati che può dare materia d’opere immortali al poeta, allo scrittore, all’artista.

[16]

E poi in questo secolo affamato d’oro, tu trovi in Sardegna monti solcati da cento e mille filoni di piombo e sul piombo strati di zinco; e presso il piombo e lo zinco altri metalli che non aspettano che la mano del minatore per versare una larga vena di ricchezza nel sangue italiano. E su quei monti una terra che scalda e profuma i pampini delle vigne di Spagna e di Portogallo e promette in epoca non lontana una mina a fior di terra più ricca di quella metallica che s’addensa nelle viscere dei monti. E nel piano una terra che per ritornare ad essere granaio d’Italia, non aspetta che la magia d’una parola, il drenaggio.

Su questa terra benedetta dal sole, ricca di metalli, e di vino; di biade e di poesia, batte l’ali fuligginose un triste vampiro, la malaria; ma questa può e deve esser vinta dall’uomo, purchè il voglia. Nelle vene dei Sardi, intelligenti e morali, serpeggia un veleno più infesto della malaria alla salute di un popolo, ed è l’inerzia: malaria ed inerzia, le due grandi malattie della Sardegna; ma malattie curabili, perchè l’organismo è robusto [17] e malgrado la ricca storia, ancor giovine; perchè quest’isola dà già segni di reazione della natura medicatrice; perchè quest’isola incomincia a voler essere medico di sè stessa. Anche Londra aveva la malaria e per opera dell’uomo è fra le città più salubri del mondo: anche i Tedeschi furono per anni e secoli inerti; ma l’inerzia fu vinta; e la Germania, dopo essersi messa a capo della scienza, ha fatto Sadowa.


Cagliari e Sassari son le due gemme della Sardegna, e son gemme rivali, e di un’antica rivalità, come già lo scrisse Cattaneo col suo scalpello da scultore. «Il solo vincolo che unisce le città sarde, era quello della rivalità anzi dell’odio. La stessa mano che fomentava altrove i rancori tra Palermo e Messina, tra Milano e Pavia, opponeva studiosamente Cagliari e Sassari, Sassari e Alghero. In Alghero si fece statuto, che i Sassaresi non vi si potessero mostrare colla spada al fianco; e in [18] Sassari vi si rispose argutamente, ordinando che li Algheresi non potessero venire a Sassari se non cinti di due spade. La vita delle nazioni era concentrata nei pochi municipi. Cagliari fondava un’Università, e Sassari non rimaneva indietro, e ne fondava un’altra.» — Ed io aggiungerò, che al dì d’oggi la rivalità fra le due prime città dell’isola non è astiosa, e va assottigliandosi di giorno in giorno coi contatti cresciuti; finchè le ferrovie la facciano sparire del tutto.

Del resto Cagliari non può essere confrontata a Sassari, così come una bella bruna non può compararsi con una bella bionda. Cagliari ha più pittoresca posizione e s’adagia in un panorama più grandioso; Sassari è più lieta e si circonda di più amena cornice di colli e di oliveti. La prima città è più severa, più accigliata e più sporca; Sassari è più vivace, più rumorosa, più pulita. Cagliari è città ufficiale, burocratica, con tinta soffusa di orientale e di spagnolesco; Sassari è città più italiana, d’aspetto più moderno, di tinta siciliana; e mi si perdoni il pericoloso confronto in nome dell’amor grandissimo che porto alla [19] Sardegna. L’Italia è così ricca di belle e svariate città, che si dovrebbe poter ragionar senza fiele di ogni gemma che adorna il nostro ricco diadema.

Quando si contempla il golfo di Cagliari dall’alto del bellissimo giardino pubblico, o del castello, o meglio ancora dalla torre di San Pancrazio, si gode d’uno dei bellissimi fra i belli spettacoli che offrono al viaggiatore le cento città d’Italia. Un golfo ampio, dinanzi a cui l’uomo deve arrossire col microscopico porto che offre alle navi; e il faro lontano, e le saline, colle loro piramidi bianchissime, quasi tende di un guerresco accampamento; e gli stagni vicini, veri laghi, popolati da grosse borgate; e il promontorio di Sant’Elia col Bagno di San Bartolomeo; e la città che dal Castello scende a Stampace e alla Marina, quasi volesse imbarcarsi sul mare, e la vasta fascia di agavi americane che cingono il Castello d’una fortezza primitiva; e i lontani gruppi di palme e i tamarischi e le altre piante tropicali danno all’occhio infinita ricchezza di sensazioni; e l’occhio beato si riposa lungamente e amorosamente su quelle mille incantevoli bellezze.

[20]

Il Castello è il quartiere più alto e più salubre della città, e s’arrampica sopra un alto colle: ha vie dirette da nord a sud, poco larghe, ripide, con case alte. E strette sono anche le vie di Cagliari alla Marina: vecchia abitudine dei nostri padri, che, vivendo giorni e mesi all’aria libera, volevano nelle loro case ombra e frescura più che aria e luce. Nel quartiere del Castello avete la Cattedrale dedicata a Santa Cecilia e sette altre chiese.

Discendendo dal Castello per la piccola porta del Balice, vi trovate nel quartiere di Stampace, che è il centro del commercio e degli affari. Se per la via di Yenne vi dirigete verso il mare, guardando a destra e a manca le migliori botteghe della città, giungerete alla piazza di San Carlo, che si continua in quella del mercato; e là vi convien sorridere, ma di un sorriso senza amarezza, guardando sopra un gran piedestallo di granito, un re Carlo Felice, fatto di bronzo, con elmo, corazza e paludamento; graniti e bronzi e vesti romane che, davvero, poco convengono ad un re pacifico; due volte pacifico.

Quando siete in Stampace non avete a dimenticare [21] il mercato, che è sempre uno dei quadri più importanti di una città. Vi troverete molto pesce; montagne di arancie dorate e profumate raccolte sotto capanne pittoresche, quasi indiane; vedrete il ricco e svariato selvaggiume della Sardegna. Vi offriranno una pernice per una lira, una beccaccia per dieci soldi; filze di otto tordi polputi e grassi, lessati nelle montagne e ravvolti nel mirto: filze degne di Nembrodde e di Lucullo e che i Sardi chiamano taccole. Fra le capanne dei venditori d’arancie, e le botteghe a ciel sereno dei pesciajuoli, dei salumieri e dei beccai vedrete aggirarsi la gente minuta coi suoi costumi variopinti, quasi sempre pieni di gusto.

Le case di Cagliari son popolate da cento balconi e in molte di esse ogni finestra è un balcone, ciò che non è bello a vedersi, ma è comodo assai per le fanciulle e le signore, che escono assai poco di casa e da quei loro osservatorii studiano il mondo esterno e fanno all’amore. L’amore onesto si fa anzi da una signora che guarda dal balcone e da un giovinotto che impavido e instancabile passa [22] le ore inchiodato nella via come una statua, contemplando la fiamma del suo cuore. E come sia cosa seria il far l’innamorato in Sardegna, lo vedremo più innanzi.

Se dalle vie principali della città vi addentrate nei viottoli e più ancora se cercate i più poveri quartieri, il naso si arriccia e l’igiene pubblica fa sentire i suoi lamenti. Nel quartiere di Villanuova ho veduto le vie convertite in fogne, e anche in alcune case di Stampace ho veduto atrii che devono essere molto pericolosi agli uomini di corta vista. In Villanuova la vita del povero è pubblica nel senso più preciso della parola. Le case per lo più non hanno finestre; e l’aria, la luce e gli sguardi dei curiosi entrano liberissimamente a spiare i costumi degli abitanti. Quando il tempo è buono, non fa bisogno neppure di spinger lo sguardo oltre la soglia delle case, perchè tutta la famiglia si rovescia nella via, dove si lavora, si chiacchiera e si mangia. In Villanuova io mi credevo davvero in Africa, e le donne che mi parevan tutte sorelle, avean gli occhi orizzontali e piccoli, il colorito terreo e quella fisonomia di obelisco che ci hanno tramandati i monumenti egiziani.

[23]

E quella gente dal volto egiziano è cortese e sorride al forestiero. Colle migliori grazie del mondo mi lasciarono entrare in casa e mi accorsi che molte di quelle abitazioni sembravan fatte per una cosa sola, adatte ad una sola industria, quella del mugnaio. Le sedie son poche e spesso brillano per la loro assenza, e così dei tavoli e degli altri mobili; ma la nostra attenzione è tutta attratta da un asinello grullo grullo, arruffato, poco più grosso d’un mastino e che così poco rassomiglia a cosa viva da sembrar di legno, quando si arresta nel suo monotono, sempiterno giro intorno alla macina che muove. Quell’animaluccio, il dio penate, la prima ricchezza della casa, costa da cinque a dieci lire, è più parco di un arabo; e divide il tetto col padrone e i suoi figliuoli. Fabbrica il pane alla famiglia e produce spesso il piccolo frutto di macinar il grano ai vicini, industria rovinosa che speriamo veder scomparire dalle classi povere della Sardegna. Le donne della casa son occupate per tre e fin quattro giorni della settimana a fabbricare la farina che stacciano e raffinano con infinite cure per mezzo [24] di crivelli e stacci puliti, fini ed eleganti, intrecciati a varii colori con cannucce di paglia e fibre di palma e che vedete appiccati al muro della casa, di cui insieme a qualche immagine di Santo formano l’unico ornamento.

Il mulino casalingo della Sardegna è la mola asinaria o machinaria degli antichi: poco diversa dalla χειρομύλη dei Greci. Potete vedere in Vaticano sopra un bassorilievo una mola machinaria romana, dove anche il cavallo che la muove ha gli occhi coperti come i rachitici asinelli macinatori della Sardegna. Se son rachitici e nani, son però valenti e pazienti, perchè lavoran fin quindici e diciassette ore al giorno, e Matzan aggiunge, ridendo a proposito, che quei somarelli devono esser anche grandi filosofi, dacchè Pittaco di Mitilene passava molte ore, macinando colla χειρομύλη, movimento che aveva trovato favorevole alla meditazione.

Quando si pensa però che tutte le donne e spesso anche i fanciulli d’una famiglia sono occupati in null’altro che a far pane, è a desiderarsi che la legge del macinato abbia almeno in Sardegna questo vantaggio di far [25] sparir la falsa e fatale industria dei mulini casalinghi.

Cagliari può vantarsi di possedere nel suo Museo un vero tesoro archeologico, a nessuno secondo e che è opera quasi intiera di un solo uomo, il Canonico Giovanni Spano, una delle prime glorie della Sardegna; più che instancabile, miracoloso nella sua attività e ardentissimo e innamoratissimo illustratore del suo paese.

L’Università di Cagliari e la sua minore sorella di Sassari sono una vera vergogna per l’Italia. Non è lecito ad un governo, per quanto povero, lasciare queste larve di insegnamento superiore, dove la povertà dei mezzi concessi alla scienza fiacca e avvilisce i migliori ingegni e la volontà dei buoni è spesso impotente e rabbiosa contro le lesinerie burocratiche dell’alta sfera governativa. Speriamo che per onor nostro questo obbrobrio sarà cancellato. Ho conosciuto a Cagliari e a Sassari ottimi uomini che pur vorrebbero studiare; giovani intelligenti e operosi che pur potrebbero far avanzare la scienza, ma li ho veduti aggirarsi come larve irrequiete per quei [26] muti corridoj e quelle aule deserte che con superba parola si chiamano Università: veri idalghi spagnuoli che domandano l’elemosina con piglio altero e i vestiti laceri.

La penna irata mi richiama alla mente un tristo ricordo di Cagliari, ed è la mia visita all’Ergastolo di San Bartolomeo; primo passo in una via crucis che dovetti percorrere in Sardegna, visitando tutte le carceri e tutte le galere.

A San Bartolomeo si sta assai bene, molti assassini vi ingrassano a meraviglia, nel lavoro salubre delle saline, negli ampii dormitorii e con sani alimenti. In altre carceri però e specialmente a San Pancrazio in Cagliari e a Sassari e altrove sentii il tanfo di una lenta asfissia e mi si inchiodò nel capo un pensiero che non mi abbandona mai, ed è questo che la società si vendica col suo codice delle pene assai più spesso di quel che si difende; incrudelisce assai più di quello che educa.

Nell’Ergastolo di San Bartolomeo si fondò una colonia agricola penitenziaria che promette assai per l’avvenire. Dinanzi al palazzo [27] della vendetta vedete giardini fioriti che appartengono agli impiegati della galera: ho veduto bambine rosee nel volto, coi nastri rosei pendenti da un lindo cappellino di paglia di Firenze correre per quelle aiuole fiorite dietro le farfalle; mentre uomini dalla faccia patibolare passavano dinanzi a quei giardinetti e coi loro sguardi contaminavano quelle bambine.

E quei galeotti avevano diversi berretti, dacchè anche fra essi v’ha una gerarchia. L’uomo è un animale da gerarchia e pur che ne abbiate tre riuniti avete subito: plebe, aristocrazia e mezzo ceto; è privilegio di tutte le bestie sociali e socievoli e possiamo menarne vanto. Il berretto rosso vuol dire condanna a tempo, berretto verde condanna a vita, fiocco nero omicidio e così via. Le bambine dai nastri rosei conoscono tutte queste differenze e ve le spiegano; e il Procuratore del re, passeggiando col sorriso sul volto mi diceva: stanno benissimo: la è gente fortunata, che mangia e lavora e gode di ottima salute. Nell’ultima epidemia di febbri miasmatiche in Cagliari ebbero tutti [28] la febbre e questi galeotti si serbarono sanissimi; ed egli rideva.

Io però, passeggiando nelle sale destinate ai malati, mi fermai dinanzi ad un volto che parea impietrito nel dolore; un Laocoonte del cuore; sempre vivo e sempre tormentato. Era melanconico e tormentato tratto tratto da accessi di delirio di persecuzione credeva che tutti lo volessero ammazzare. Era divorato dai rimorsi. Era un povero muratore, che, trovandosi senza pane, andò dal suo antico padrone, chiedendogli lavoro. Gli fu negato; ritornò più volte e sempre invano. Un giorno la fame era maggiore del solito: era rabbiosa; egli insiste nell’implorare il lavoro: Ho sei figliuoli; signor padrone. — Oh va all’inferno, tu e i tuoi figliuoli. — Una mazza era sul suolo fra vari attrezzi di muratore e un momento dopo il padrone era steso al suolo cadavere: e il povero muratore condannato nella galera di San Bartolomeo è pazzo di dolore e di rimorsi[1]. —

[29]

A San Bartolomeo però si sta bene e si ingrassa; e i giardinetti degli impiegati sono fioriti. Io vi ho vedute le più belle viole del mondo e vi ho colta una rosa più profumata di quelle d’Arabia; i bambini vi acchiappano le più brillanti farfalle; ma a due passi v’è un uomo pazzo di dolore, perchè la società si vendica più di quel che si difende. I nostri figliuoli, però, ne son sicuro, prepareranno ai posteri una giustizia più umana.


Quando voi avete percorso le noiose, lunghe e tristi lande sterili che separano Bosa da Macomer e avete attraversati i paesaggi poco interessanti di Torrealba e i rari boschi di quercie che trovate nella monotona pianura; voi vi accorgete di esser vicini a Sassari, quando la natura diviene ridente; quando i monti, rizzandosi più alti intorno a voi, frastagliano il cielo e la terra in modo da formare quadri svariati e pittoreschi. Ascendete un monte tutto pieno di magnifici olivi, [30] coltivati colla stessa sollecitudine e tenerezza con cui si coltiva un orto cittadino. Io percorsi quei boschi d’argento nel tempo della raccolta e vidi liete schiere di fanciulle e di ragazzi che raccoglievano il frutto in lindi canestri, e a quando a quando interrompevano il lavoro per cantare e ballare. Parevano stormi di passerotti vivaci e protervi; e raccoglievano le olive colla stessa cura e lo stesso amore con cui si farebbe bottino di cosa carissima e preziosissima. E davvero che l’olivo è per Sassari una mina d’argento: mi si diceva che in quest’anno, fortunato fra gli altri, si farebbero 200,000 barili d’olio, che è quanto dire una bella cifra rotonda di sette ad otto milioni di lire. Di questa ricchezza mi accorsi anche entrando in Sassari, dove molte case nuove si stavano rizzando ed erano le olive trasformate in muri e marmi. L’olio di Sassari potrebbe esser fatto meglio: se ne manda a Nizza, dove raffinato cresce di valore e piglia un nome che per la sua squisitezza nativa ben si ha meritato. L’olivo dovrebbe anche esser difeso nei dintorni di Sassari dai cacciatori che spietatamente lo tormentano colle loro [31] fucilate, quando vanno a far bottino di tordi: ma è difficile persuadere quei cacciatori che hanno torto di flagellare la prima ricchezza del paese, quando portano a casa fin sessanta e settanta tordi in una mattinata.

Sassari è città lieta e serena per la bellezza del suo cielo, per la pulita bianchezza di molte sue case, per la rumorosa vivacità dei suoi abitanti. In ogni guida voi troverete la descrizione delle chiese, delle piazze, del castello; ed io non mi son dato a voi per cicerone della Sardegna, e con voi soltanto voglio scorrere le pagine del mio portafoglio di viaggiatore, e voglio far nascere molti desiderii di curiosità e appagarne pochissimi, sicchè nasca in voi il desiderio di veder coi vostri occhi la Sardegna, di toccarla colle vostre mani. Per me la cosa più interessante di Sassari è il monumento di Azuni, nella piazza che ne porta il nome. Quando una città ha la fortuna di aver dato la luce ad un grand’uomo e di ornare una delle piazze colla sua statua, rammenta al viaggiatore una pagina gloriosa della sua storia e può andarne onestamente superba. È la civiltà moderna [32] che demolisce il castello del feudatario e colle vecchie pietre rizza una nuova scuola; è la nuova generazione che ai santi del calendario sostituisce le statue dei santi del progresso. Nella biblioteca dell’Università ho guardato con commozione un manoscritto inedito di Azuni che portava un bel titolo: Dei caratteri della natura umana. Nell’Università ho veduto un altra cosa per me carissima: il rozzo tavolo anatomico su cui Rolando scrutò i misteriosi labirinti del cervello umano.

Ho visitato anche la fontana di Rosello, celebre per la sua architettura; e pei suoi asinelli che portan l’acqua in città e che Valery, il dotto bibliotecario di Versailles, tentò di rendere immortali, descrivendoli con molto amore e cantandone le virtù infinite. Io confesso di non aver sentito l’eguale ammirazione nè l’egual compassione per quelle rachitiche creature, tutte pelo e ossa; e ho trovato che i Sassaresi, che chiamano ironicamente quelle bestioline col nome di filumene (capinere), hanno più spirito del Valery.

I dintorni di Sassari sono belli assai; ed [33] io li vidi bellissimi; perchè su quelle molli colline inargentate dagli ulivi ho potuto ammirare i cupi boschetti di aranci carichi di frutti; e perchè insieme all’oro delle arancie in quella stagione sorridevano i peschi fioriti e un profumo di calda primavera m’inebbriava i sensi e mi faceva innamorare di quella terra e di quel cielo.

Presso a questo quadro ridente a pochi passi da Sassari avete una scena malinconica e una severa lezione di storia. Se dopo aver ammirato i lieti giardini dei Sassaresi e le bianche e liete ville, voi vi dirigete a Porto-Torres; avete una landa sterile, che sente lo squallore e la malaria, e in mezzo a quella solitudine fra le erbe folte vedete rizzarsi gli archi spezzati d’un antico acquedotto romano. Il terreno è tristo, o bruciato dal sole o reso pantanoso dalle pioggie; pecore brulle e nere rodono gli arbusti spinosi e le erbe gialliccie; vi regna un’aria di povertà e di febbre; ma quella triste terra si apre e dal crepaccio alza il capo l’antica civiltà romana coi suoi archi e i suoi acquedotti. È un gigante mal sepolto; la terra divenuta piccina a stento [34] può coprirne le ossa, e dalla tomba ne vedete escir fuori gli stinchi mal coperti. È l’Italia di Roma che sogghigna beffarda all’Italia dell’oggi. La lezione è dura e poco lieta; ma non è finita. Tirate avanti che la lezione continua.

A Porto-Torres poche case, fanciulli cenciosi, un porto che sembra stagno di rospi: eppure voi siete sul suolo dell’antica Torres, una delle maggiori fra le antiche città dell’isola; eppure voi vedete fra i giunchi della palude alzarsi le gigantesche rovine del tempio della Fortuna che con barbara parola chiamano Palazzo del re barbaro. A quelle rovine gloriose strapparono alcune colonne magnifiche che insieme ad altre d’origine romana fanno coro nella Basilica di san Gavino. Son ventotto colonne d’ogni stile e d’ogni pietra, di granito, di marmo bianco, di marmo grigio, di marmo cipollino. Il tetto di quella Basilica, che è tutta una poesia, è degno di quelle colonne, perchè è fatto di travi immensi di ginepro, come non ne sapreste trovare al dì d’oggi un sol tronco in tutta l’isola. Sopra i giganti dell’arte romana, i giganti della natura; membra [35] spolpate del mondo antico, stinchi di marmo che sostengono cadaveri di tronchi dieci volte secolari, e duri e aromatici ancora; cresciuti nel pacifico silenzio dei deserti sardi, quando l’uomo fenicio, corridore dei mari, non vi aveva ancora messo il piede. Sotto quei cadaveri di ginepro; sotto quei cadaveri di marmo avete poi nel santuario sotterraneo tre altri cadaveri di santi martiri, san Gavino, san Proto e san Gianuario: tre cimiteri sovrapposti l’uno all’altro e che si tollerano l’un l’altro con eterna pazienza; il mondo della natura vergine, il mondo romano, il mondo cristiano: ginepri, grandi come le quercie e dopo tanti secoli non tarlati ancora; colonne di marmo; tombe onorate da cento fiammelle di cera. Quanta poesia e quanta storia in sì angusto terreno!

Udite a completare il quadro una pagina di storia:

«Gavinus o Gabinus discendeva dalla famiglia romana Papilia e da un Cajus Papilius Sabellus, e si chiamava Gabinus Sabellus. Esso era stato nominato dall’Imperatore Diocleziano comandante d’una corte di cavalleria, ed in [36] questa qualità si trovava in Torres, dove ebbe occasione di ascoltare le predicazioni di San Proto e di San Gianuario ch’eran stati ordinati preti dal Papa Cajo. Questi, essendo stati accusati di sommuover il popolo, furono assoggettati a crudeli tormenti: come Gavino, per dovere della sua carica fu obbligato di assistere agli atti di barbarie, così fu sorpreso dalla loro costanza e promise di seguitare il loro esempio, e siccome queste due vittime destinate alla morte furono affidate a lui, così egli profittò di iniziarsi nella nuova fede e di battezzarsi; indi mise in libertà i due prigionieri e si presentò al preside Barbaro, dicendogli che anch’esso era cristiano. Fu tosto arrestato, e condotto all’orlo del mare, in un sito detto Balai, ivi venne decapitato; il di lui corpo colla testa fu gettato nelle onde, ma pietose persone raccolsero le spoglie e le depositarono in una tomba vicina scavata nelle roccie. Là pure furono collocati i corpi di San Proto e Gianuario, martirizzati nello stesso sito dopo poco tempo. Il martirio di San Gavino accadde nel 25 ottobre dell’anno 300.

[37]

«La principal festa di San Gavino occorre il secondo giorno di Pentecoste, e vi accorre molto popolo. È curioso il vedere le pratiche religiose alle quali si danno i divoti: alcuni fanno in ginocchio il giro delle colonne della Chiesa, e le bacian, come pure bacian il piede del cavallo di San Gavino di legno dipinto, come è la sua cavalcatura. Si crede nel paese che una di queste colonne fosse portata in questo luogo dal Santo, che la prese dal fondo del mare e la portò dritta nell’arcione della sella del suo cavallo. La festa è molto frequentata ed animata; vi si vedono i costumi di tutti i villaggi della parte settentrionale dell’isola. Allorchè la festa è finita, e che i visitatori parton nel martedì per restituirsi nei loro focolari, si vedono di quelli che colle loro donne alla groppa fanno entrare i loro cavalli nel mare sino al petto: ciò fanno coll’idea che i loro cavalli restano benedetti nell’uscir dell’acqua dove una volta furon gettati i corpi Santi, e dove San Gavino prese in seguito la colonna di cui sopra si è parlato. Nel 4 maggio vi si celebra un altra festa coll’intervento del corpo municipale di Sassari, come patrono [38] della Chiesa: essa è meno frequentata che la precedente....»[2]


Le città minori della Sardegna hanno tutte una fisonomia propria, e il lungo isolamento l’ha resa più saliente e durevole.

Quando voi avete attraversato a cavallo i monti e i boschi pittoreschi che separano Perfugas da Tempio, voi vi trovate dinanzi uno dei più bei panorama della Sardegna e dall’altipiano ricco di vigne e di seminati, in cui si adagia quella montana città, voi vi vedete dinanzi lo splendido monte di Limbara, uno dei più maestosi colossi di granito che abbia il nostro paese. Dopo aver passate lunghe ore a cavallo in mezzo a boschi deserti, a valli deserte, per burroni deserti, voi salutate i primi frutteti di Tempio con vera gioia, e affrettate il passo per salutare la città, di cui sentite [39] già vicino il tiepido fiato. L’uomo non ama la solitudine che per vendetta o per malattia, non ama i deserti che per un ora, o quando il deserto è per lui un quadro agli occhi e non una casa o un soggiorno.

La città di Tempio colle sue case di pietre granitiche grigie senza intonaco bianco, e unite da argilla bigia; colle sue vie magnificamente lastricate di granito, ha un aspetto severo e malinconico e sopratutto un colore montano. Non vi vedete intorno che colori oscuri: case grigie, pavimenti grigi, chiese grigie; uomini dal cappuccio e dai calzoni neri; ma su quella città ride un cielo eternamente limpido e azzurro e per le vie e alle finestre vedete volti intelligenti, uomini gagliardi e donne dagli occhi neri e ardenti.


Da Tempio, salto con voi ad Alghero, perchè, non scrivendo io una guida, nè un’itinerario, seguo il filo conduttore della statistica e rendo omaggio anch’io alla legge, che [40] misura la potenza degli Stati, la felicità dei popoli, il prosperare delle città dal numero dei loro abitanti. Se Tempio coi suoi 10,447 abitanti sta dopo Sassari, Alghero vien subito dopo Tempio, perchè ne conta 8,573. Alghero chiusa fra il mare e una angusta cerchia di bastioni respira male, sente il miasma dei luoghi chiusi e aspira ardentemente a rompere la vecchia corazza che la cinge e la stringe, per respirare nelle campagne vicine un’aria più pura.

Ad Alghero il mare è bello e consola gli abitanti, tristi della strettura in cui li tengono i bastioni. Un golfo grande col Capo della Caccia e la sua famosa grotta di Alghero, una delle più belle e sgraziatamente più difficili grotte che si possano visitare; e dietro quel Capo, il Porto Conte, preparato stupendamente per un popolo di naviganti che non giunge ancora. Vedo nel porto schierate con ordine militare molte barche peschereccie e dinanzi ad esse quei trabocchetti di rete che chiaman nasse. Nel lontano orizzonte vedo una vela: è una barca corallina che coi suoi uomini di ferro fra stenti inauditi, strappa ai profondi scogli del mare, [41] quel polipo porporino che andrà poi a posarsi invidiato sul collo delle belle signore d’Italia e sulle spalle delle odalische d’Oriente.

I pescatori di corallo che vengono ad Alghero con più di 200 barche ogni anno; son quasi tutti napoletani e toscani; fanno ottimi guadagni, ma menano una vita d’inferno. Dormono quattro ore al giorno, lottano col sole ardente, cogli aquiloni, colla fame, colle pioggie: le loro mani son rese così callose dal remo e dal maneggio dell’argano che alza e affonda l’ordigno pescatore che, se tu getti loro una moneta sul suolo, non possono spesso piegar le dita a raccoglierla; ma battendola con una mano la fanno balzare nell’altra. La pesca dura dal febbraio alla prima settimana di ottobre, e Alghero, letto di corallo, non dà alla pesca che 24 barche coralline. Eppure una paranza corallina dà in un triennio un guadagno netto di 25 a 26 mila lire.

Nel porto di Alghero vedo molleggiarsi soavemente sull’onda un bel bastimento mercantile, domando a chi appartiene. È di un genovese che porta il soprannome di Miseria, soprannome onorevolissimo per lui. Era il più [42] povero degli uomini; fu accolto in Alghero malato, per elemosina assistito e medicato; ora è milionario, è alla testa del commercio, possiede due case, molte navi. — Oh perchè l’Italia non è tutta Liguria?

Le case d’Alghero son bianche e qua e là alza sopra di esse il suo ciuffo maestoso una palma. Sopra la palma torreggia un campanile di bella architettura e la cattedrale è ricca di marmi d’ogni colore. Sopra la città s’innalza con triste cipiglio un altro grande edifizio: l’Ergastolo. La città ha però molte viuzze strette e sucide. Il teatro è bello e mi dissero che fu fatto specialmente per opera e col denaro dei canonici; dei quali formicola Alghero. È certo che i canonici vanno assiduamente al teatro, con minor ipocrisia che fra noi, e furon veduti con santa compunzione assistere alla Traviata, col libretto dell’opera fra le mani.

Gli abitanti di Alghero si dividono in tre grandi classi; pescatori e marinai; pastori e agricoltori; agiati che vivono sonnecchiando sulle loro rendite. Parlan tutti l’algherese, che è poi il dialetto catalano quasi puro. [43] Questa lingua in tutta la Sardegna non si parla che ad Alghero e fin dal 1354, anno in cui la città venne assediata per terra e per mare dal Re D. Pietro Il Ceremonioso: l’assedio durò lungamente e fu poi convenuto che gli antichi abitanti sarebbero tutti usciti e fu occupata da una colonia di catalani. La fisonomia degli algheresi mi parve catalana e ligure, ma la razza è incrociata di elementi sardi, fors’anche napoletani e d’altre provincie italiane. La lingua non è sempre battesimo di sangue.

Se andate ad Alghero, dovete visitare il palazzo del Municipio, dopo aver letto una pagina di storia, che vi consolerà di esser nati tre secoli più tardi di Carlo V e vi farà tollerare con calma e pace serena le miserie dei nostri tempi.

»Questa è l’antica casa d’Albis, appartenente ora agli eredi del Conte Maramaldo della Minerva, vi si conserva la memoria del soggiorno di Carlo V, quando nel 1541 visitò la sua cara città di Alghero. I fatti che in allora vi succedettero nelle due giornate di mezza festa e di mezzo saccheggio, come dice [44] il Valery, hanno un impronto dell’epoca tutta particolare.

»Il primo pensiero che si presero i cittadini d’Alghero all’annunzio dell’arrivo del loro sovrano, fu di radunare la più gran quantità di viveri che fosse possibile per farne regalo alla flotta che accompagnava l’Imperatore, questi prima di sbarcare accettò una partita di caccia nel vicino Monte Doglia, dove immantinenti un cinghiale ebbe l’onore di morire dalle mani auguste. Dopo questa illustre impresa si diresse verso la città, ma prima di entrare volle fare col suo battello il giro delle fortificazioni che riguardavano il mare. Davanti al molo si era preparato un ponte posticcio, perchè Sua Maestà Imperiale discendesse comodamente in terra e l’avevano ornato di ricche stoffe. Le persone che aspettavano l’Imperatore in questo sito, vedendo il battello diretto altrove, credettero che sbarcasse in altro punto della spiaggia, ed abbandonarono in un istante il posto, in allora i soldati di Cesare si lanciarono sopra il ponte, lo misero a ruba, e tolsero tutte le tappezzerie di cui era coperto. Questa scena fu lontana [45] di disgustare Sua Maestà, la divertì molto. Egli montò subito sopra un magnifico cavallo che gli avevano offerto col quale fece il giro interno delle fortificazioni, poi entrò nella casa in discorso, che in allora apparteneva ad un certo D. Pietro di Ferrera. Là si affacciò alla finestra che dava alla strada, e fu testimonio allegro d’una scena, degno compimento di quella del saccheggio del ponte, che l’aveva divertito tanto. I soldati spagnuoli, discesi a terra coll’imperatore, principiarono a perseguitar e ad infilzare colle loro spade, sotto i suoi propri occhi, le bestie che si trovavano radunate in questa piazza e nelle strade vicine: queste bestie erano quelle destinate per regalo alla flotta, e furono scialacquate da una soldatesca sfrenata ed avida di saccheggio, sotto gli occhi del loro sovrano. Si racconta pure che uno degli uffiziali dell’Imperatore dimandò se era permesso di distaccare dalle muraglie le ricche tappezzerie in seta che ornavano l’interno della casa dove questo principe ricevette l’ospitalità, e si dice che Carlo V, rivolto al magistrato che l’accompagnava, gli dicesse ridendo: Jurado, mirad que no hagan [46] danos estos locos (Jurado, badate che questi pazzi non facciano danno).»

In quei tempi esser saccheggiato da una selvaggia soldatesca, servir di spasso ad un Imperatore eran delizie per un popolo. Vedete:

»Appena che Sua Maestà se ne partì, questa finestra fu diligentemente murata, come la è sino al presente, affinchè non fosse profanata da un altro mortale. La casa dove soggiornò il Principe per 48 ore, ha goduto da quell’epoca sino ai tempi a noi vicini, del diritto di asilo, una catena di ferro con due pilastrini collocati davanti alla porta d’ingresso serviva di rifugio alle persone inseguite dalla giustizia o minacciati d’essere arrestati. Il tempo finalmente ha fatto sparire questa scioccheria»[3].


Ozieri è città pittoresca, che sembra accampata fra i monti che danno la mano da [47] una parte ai colossi granitici di Alà e di Buddusò e dall’altra si legano colla catena di Monterasu. È città ad anfiteatro, colle case disposte a piani diversi. Di sera un cinguettìo e un coro di risa rumorose guidano i vostri passi ad una gran fontana messa nel centro della città e dove cento lavandaje d’ogni età a lume di candela lavano e battono spietatamente i panni e schiamazzano fino a tre ore dopo la mezzanotte.

Serberò finchè vivo lieta memoria di Ozieri, perchè vi ebbi la più lieta accoglienza del mondo e mi parve nell’industriosa attività di quelli abitanti di leggere uno splendido avvenire. Quando Terranova rannoderà la Sardegna al continente italiano, Ozieri diverrà una delle città più importanti dell’isola e i nuovi tesori del commercio faranno lieta compagnia alle ricchezze avite dell’agricoltura.


Oristano è città antica, resa triste dalle sue lagune che la ravvolgon tutta quanta quasi [48] in un funebre lenzuolo di miasmi e di febbri. Se venite da Uras, entrate nella città attraverso una porta antichissima con un castello pittoresco, antica residenza dei giudici di Arborea; se escite per la via che conduce a Sassari passate ancora attraverso un altra porta antica e un altro castello. Fra quell’entrata e quell’uscita da medio evo avete molte case vecchie anch’esse e con balconi pittoreschi e arabescati. Per le vie molti preti, molti accattoni; ad onta del freddo vedi molta gente minuta colle gambe e i piedi nudi e spesso montano a cavallo, legandosi lo sperone al piede nudo. Vedi passar uomini a cavallo con una cappa nera da beduino e un nero cappuccio sopra un volto nero e accigliato; veri arabi d’Italia.

Un sobborgo d’Oristano è tutto abitato dai Congiolarius, che di padre in figlio si trasmettono l’arte di far terraglie, e le impastano e le foggiano all’aria libera. La cosa più interessante d’Oristano è però il Museo privato di antichità sarde del giudice Spano, il più bizzarro, il più originale, il più galantuomo degli archeologi ch’io m’abbia conosciuto. Abita [49] un vecchio castello, che fu forse casa della Giudichessa Eleonora; vive fra i suoi camei preziosissimi, fra i suoi vetri di Tharros dai mille colori, fra le sue urne cinerarie: una polvere secolare posa su quelle ricchezze e il Dio di quel tempio appena serba a sè stesso un posticino, il più modesto della casa, che non è casa; perchè è fortezza, è castello, è museo; qua e là nido di gufi. Il giudice Spano fra quelle rovine e fra quei tesori, in quel mondo di cose antichissime e in mezzo a quella polvere antichissima serba l’entusiasmo più giovanile e quando accende le sue candele per farvi ammirare i riflessi iridiscenti dei suoi vetri di Tharros, i suoi occhi fiammeggiano fra quelle urne e quelle ragnatele, come lampi di un uomo felice, di un uomo terque quaterque felice; dacchè una nobile passione lo riscalda; ed egli toglie a sè gli agi della vita per lasciare una delle più splendide raccolte archeologiche che abbia l’Italia.

Oristano serba una gloriosa tradizione, quella della Giudichessa Eleonora, di cui potete vedere il ritratto in Cagliari, regalato dal Canonico Spano alla Biblioteca dell’Università. [50] Quella donna fu soldato, fu generale, fu re, fu legislatore.

Non scrivo storie, ma vi invito a studiare la vita di quella sapiente e generosa principessa. Eccovi un solo tratto della finezza legislativa di Eleonora. Anche ai suoi tempi vi eran donne infedeli e uomini maldicenti: la Giudichessa sapiente per conservare la pace delle famiglie decretò che dovesse pagare lire 15 di multa chiunque avesse chiamato becco un cittadino dei suoi Stati e lire 30 se avesse provato che quel titolo gli era dovuto; e chi non volesse crederlo, legga la Carta de logu della Giudichessa di Arborea Eleonora.


Bosa è fra le piccole città della Sardegna una delle più simpatiche: posta sulla sponda destra del Temo, il Temus di Tolomeo, ha vini; oggi nettare di pochi, ma destinati a glorie mondiali; vicina al mare e sopra un fiume che serpeggia fra colli e campagne fertilissime. [51] Una gita in barca sul Temo è una delle passeggiate più deliziose che si possano fare: in alto sui monti, colonne di basalto che sembran rovine di città e di templi sepolti; in basso cotogni, e olivi e melagrani e aranci e palme che scendono fino a bagnarsi i piedi nell’onda del fiume. Bosa è al piede di una collina su cui si arrampica, ed è dominata dal Castello dei Malaspina, scena pittoresca, che completa la bellezza del quadro. Le lingue malediche vi dicono che a Bosa si beve molto; ma e chi non beverebbe di quei vini, degni fratelli del Xeres e del Tintilla di Rota? Le stesse lingue aggiungono che i preti sono in Bosa padroni di molte coscienze e di altre cose ancora; ma vi ho trovato già sul tramonto la loro influenza, un tempo davvero onnipotente; e vi dicono ancora che i Bosani sono egoisti; ma io non lo credo, tanto mi parvero splendidamente ospitali.


Badate che nel presentarvi le città sarde seguo sempre i gradini della gerarchia numerica, [52] e dopo Bosa vi presento Iglesias che ha una popolazione di più che 6000 abitanti e sempre crescente per la potente attrazione che esercitano la mine vicine di piombo e di zinco e delle quali il Sella ci darà una storia compiuta; fatta con lungo studio e molto amore.

Iglesias potrebbe lavarsi meglio la faccia e i piedi, ricca com’è di fontane e avendo quella di Corradino e Cixeddu e Maimone: ha vie molto strette, mal lastricate, sporche, dominate dalla cattedrale e da un palazzo arcivescovile nero nero. L’unico albergo della Vittoria è appena abitabile. Per le vie ad ogni passo tegami di terra pieni di carbone acceso: in molte case non v’è camino e si fa focolaio della via, sicchè quando soffia il vento vi schizzano fra le gambe faville d’ogni grandezza che appiccan frequenti incendii. Anche al primo piano del Palazzo Vescovile vidi una sera un di quei tegami infuocati, su cui il vento soffiava con tal forza da farlo sembrare un piccolo vulcano, e scintille e faville volavano per ogni parte.

Nelle vie più povere le case non sembran fatte per uomini; entrai in uno di quei covili ed era poco più alto d’un uomo. Nessuna sedia [53] e nemmeno finestre; per la porta entravano la luce e l’aria e per un foro fatto nella parete di fango seccato (ladderi) esciva il fumo. In un angolo del fuoco e intorno intorno ammonticchiati dieci o dodici persone, accosciate per non rimaner spente dal fumo; eran bambini e fanciulli e donne e vecchi. In fondo a quella sala due buchi quadrati, uno più basso e più grande senza uscio, conduceva in una tana dove era un letto pei genitori: gli altri dormivano per terra in un mucchio. Sopra quel buco quadrato un altro più piccolo che s’apriva in un panteon domestico; dispensa, magazzino per tutto e per tutti. Coperto da una cassa di legno grugniva accanto al gruppo umano del focolare, un porchetto; il beniamino, il Dio penate della famiglia; me lo mostrarono con amore, lo abbracciarono con tenerezza: trovai anch’io che era grazioso e quasi parente prossimo di quei poverelli che pagavano per l’affitto di quella tana cento lire all’anno(!).

Sulla città di Iglesias pendono accigliate alcune rovine pisane che vi ricordano il conte Ugolino, una volta padrone e donno di tutta [54] la città e del suo territorio. Deve essere cosa grande il leggere in quel castello il canto XXXIII dell’Inferno.


Sopra un altipiano di granito alto 581 metri sul mare, trovate Nuoro, circondata da bellissimi monti e da valli fiorite; ha una bella e antica cattedrale, ma è più famosa per i suoi abitanti che per le sue industrie o i suoi monumenti; e ne parleremo più innanzi, quando dopo aver veduto le città e i villaggi entreremo nelle case a conoscere gli uomini.

Osilo è una delle più grosse borgate della Sardegna, e gli Osilesi hanno da secoli fama di fieri e di indomiti. Di essi si potrebbe dire anche oggi quel che Tacito scriveva dei Brettoni e Lamarmora ripeteva degli antichi Sardi: jam domiti ut pareant, nondum ut serviant. Il canonico Spano ci racconta che nei primi anni di questo secolo vi era ancora accesa una guerra tra due potenti famiglie di Osilo, i Serra e i Fadda. Anche le donne presero [55] parte ai fatti che accaddero in quell’epoca e le rovine stesse del Castello servirono di rifugio e di fortezza ad uno dei partiti.


E la mia corsa nelle città e nelle borgate della Sardegna è ornai finita. Se avessi spazio dovrei ancora parlarvi di Cagliari fatta ad anfiteatro sopra la lava di spenti vulcani; di Sanluri, che ha storia gloriosa e campi fertili di biade; di Terranuova adagiata sull’antica Olbia, colla fisonomia prosaica di borgo mercantile e consolare; di Lanusey ricca d’acqua ottima e di vini deliziosi, famosa per salubrità; di Macomer fabbricata sul basalto, patria del celebre poeta e improvvisatore Melchiorre Murena, cieco dall’infanzia e che pagò con morte violenta le sue belle poesie satiriche; dovrei parlarvi di Oschiri, di Orosei, di cento altre borgate e villaggi che vanno scendendo la gran scalea della gerarchia che rannoda Cagliari e Sassari all’ultimo stazzo della Gallura.

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In Sardegna anche i contadini vivono agglomerati nei piccoli e nei grossi villaggi, ed è questa una fra le massime sventure pei campi che rimangono abbandonati alle rapine dei pastori nomadi, che rimangono vedovi dell’occhio paterno del padrone. È questa un’antica consuetudine venuta fino a noi e sorta in quei tempi, nei quali le continue e facili incursioni dei pirati rendevano pericoloso il vivere isolati in mezzo a campi deserti e smisurati.

V’è un gruppo di villaggi fra Cagliari e Iglesias che hanno una fisonomia così argentina da far credere al viaggiatore che egli si trovi nell’America Meridionale. Una lunga fila di case fatte di fango impastato colla paglia e battuto e che porta il nome latino di ladderi (tapias degli Argentini). E quelle case bigie hanno tutte il solo piano terreno, e sulle mura che cingono il cortile e l’orto vedete piantati i cacti, d’un verde bigio anch’essi, e fra l’una e l’altra schiera di case di fango, vie larghe e piene di fango anch’esse; ora polverose e fetide; ora palustri e fetidissime. Altrove i villaggi sono meno tristi, ma sempre sucidi assai, con un immondo comunismo di bipedi e quadrupedi, [57] di stalla e di cucina; spettacolo umiliante e triste. Convien però ricordare che quella gente vive più che può a ciel sereno, che fa de’ campi, dei monti, dei boschi la propria casa; e nella capanna s’accovaccia per dormire e macinarvi il grano. Anche l’uccello più pulito e più poetico s’accontenta di un nido piccino e fatto spesso di fango, perchè è padrone dell’aria infinita e chiama suoi i campi del Signore. Nell’uomo del nord il culto della casa non è soltanto prova di vita più civile, ma è anche il frutto del cielo inclemente e burrascoso.

All’infuori dei villaggi di ladderi del Campidano che hanno fisonomia propria e caratteristica, gli altri pigliano contorni diversi secondo l’argilla o la pietra che l’uomo ha trovato vicino a sè per farsi la propria casa.

Gli stazzi della Gallura son le case dei pastori che si raggruppano tra loro con forma di federazione naturale che chiamano cussorgie. Più d’una volta trovate nella stazzo mobilia pulita e qualche agio della vita, qualche crepuscolo d’arte; trovate sempre splendida ospitalità.

Da qualche tempo intorno allo stazzo vi [58] sorride un campo coltivato a biade o a patate, con qualche frutteto. È il pastore selvaggio che si fa agricoltore; primo passo verso una civiltà più matura, più feconda; terreno di transizione che riunisce due epoche geologiche nella storia dell’uomo.

[59]

CAPITOLO II.

La natura in Sardegna. — I boschi d’aranci di Millis. — Lande e foreste. — Fauna. — Gli uomini della Sardegna. — Etnografia sarda e tipi più salienti. — Le donne sarde. — Mancanza del proletario. — Carattere e costume dei Sardi. — Aneddoti di vendette e d’amori. — Foggie di vestire. — Ospitalità splendidissima dei Sardi. — Pranzi e gastronomia.

La Sardegna ha molte pianure vaste, deserte, malinconiche; ha lande che la ferrovia non ha ancora accorciate, che l’aratro non ha ancor rotte, e dove gli occhi stanchi e annoiati cercano invano un albero. Cisti dalle foglie rugose; lentischi troppo superbi per esser erbe, troppo nani per esser piante; asfodeli senza fine; qualche arbusto rachitico o spinoso, qualche oleastro bitorzoluto e coi rami contorti dalla lunga [60] tortura della bufera marina. Mi ricordo che, andando da Nuramini per Villasor ed Uras verso Oristano, salutai il primo pioppo come un amico e mi fermai ad ascoltare il lieto mormorìo della brezza che cinguettava fra i suoi rami, fra le sue mille e mille foglie. Dopo gli stecchi con tosco delle lande deserte avevo finalmente dinanzi a me un albero grande, sano, che mi pareva un essere felice. In molte lande presso Porto Scuso e fra Seui e Cagliari vidi molti cespugli di ramerino selvatico che rallegravano gli occhi coi loro mille fiori violetti e ridestavano le narici a ricordi gastronomici. Io lo cimentai alla prova della casseruola e lo trovai assai più aromatico di quello che coltiviamo nei nostri orti.

Dove la pianura fu solcata dall’aratro, la landa è divenuta campo; ma le infinite siepi di opunzie del Campidano e la povertà degli alberi non fanno troppo lieti quei paesaggi della Sardegna. Anche i rari boschi di mandorli son piante troppo cinericcie e che sembrano accordarsi col glauco monotono e triste del cacto. A molte campagne sarde manca la prima allegrezza della casa colonica, dei cento [61] campanili che alzano il capo petulante in mezzo ad una tavolozza tutta verde e tutta allegrezza. Di vivo per molte e molte miglia non vedete spesso che un branco di pecore, nere anch’esse per la maggior parte e che rodono silenziose le erbe fra le pietre sparse anch’esse qua e là come pugno di cenere sul capo di un penitente.

Il più bel paesaggio che la Sardegna deve all’industria umana è la foresta di aranci di Millis. Se visitate Oristano non dimenticate quel paradiso terrestre e scriverete nel vostro libro d’oro una giornata delle più care della vita: intendo sempre, se avete cuore d’artista, se sentite il santo amore della natura. Il villaggio è come molti altri della Sardegna; ma dovete visitarvi il palazzo del Marchese Boys di Putifigari coi suoi cento antenati; dovete gettare uno sguardo amoroso ad una chiesuola circondata da alberi altissimi; chiesuola dalle tinte grigie e dal simpatico rossiccio della terra cotta; tutta quanta coperta di edere, che come fiamme di razzi convergenti la abbracciano con strettissimo amplesso. E poi e poi convien gettarsi a corpo perduto, a cavallo o [62] a piedi in quella foresta d’aranci, dove vi inebbriate d’un profumo orientale e vi trovate sul capo, fra i piedi, dapertutto, una pleiade di milioni d’arancie squisite, che si vendono fin 25 e 15 centesimi al centinajo, degne rivali per profumo e dolcezza delle sorelle di Palermo. Nel bosco d’aranci che apparteneva al capitolo della cattedrale d’Oristano e ch’io trovai in vendita vi sono alberi che danno più di 5000 frutti. È però nel bosco del Marchese Boys che trovate l’arancio più colossale, chiamato il re degli aranci; un uomo non lo può abbracciare, ha maestà e dignità dei maggiori fra i nestori del regno vegetale. Sotto quelle ombre deliziose crescono più modesti, ma più profumati gli alberetti delle mandarine, ch’io trovai ottime fra quante ho mangiate in Sicilia, in Africa e in America. Eppure quei preziosi alberetti si posson contar sulle dita; eppure a Millis imputridiscono ogni anno milioni d’aranci per mancanza di uomini, di strade, di un industria attiva e perspicace. La natura è feconda e impunemente prodiga; e l’uomo povero in mezzo alle ricchezze.

La vita agricola della Sardegna vi presenta [63] un altro quadro interessante ed è quello degli oliveti, e abbiam già avuto occasione di ammirare quei di Bosa e quei di Sassari.

La Sardegna potrebbe far concorrenza coi suoi olii ai migliori del continente e già furon premiati quelli della deserta e sconosciuta regione dell’Ogliastra. Eppure abbiamo foreste di olivastri colossali che nessuno innesta e cadon le ulive sul suolo deserto, preda ai cinghiali e alle capre. Eppure in antichi tempi si comandò per legge che nella terra ferace d’oleastri se ne innestassero almen dieci per anno e si offerse perfino la nobiltà a chiunque allevasse certo numero d’olivi.

Ed ora che vi ho mostrato il brutto convien volgere lo sguardo alle bellezze della Sardegna, che son molte. Avete colli mollemente ondulati e coltivati dal capo ai piedi; avete ruscelletti e fiumi che serpeggiano limpidi e rumorosi fra cespugli di leandri silvestri, veri mazzi di rose nei mesi dell’estate; avete poche, ma belle foreste, ultimi avanzi di un manto imperiale che un tempo copriva splendidamente gran parte dell’isola e che fu strappato lembo a lembo con feroce vandalismo dagli avidi speculatori, [64] ch’io vorrei chiamare i guastatori della Sardegna. Le cifre raccolte dalla Commissione d’inchiesta mostreranno agli Italiani l’estensione di quelle stragi barbariche; a me conviene mettere il dito sul peccato e sul peccatore; alzare il grido d’allarme dell’uccello che vede il falco, lo denunzia ai compagni e tira via nel suo aereo cammino. Milioni e milioni di lecci, di quercie, di sugheri furon convertiti in carbone; una mina d’oro fu distrutta dalla scure spietata e i nipoti, vagando per quelle terre deserte, fra i tronchi monconi degli alberi distrutti malediranno i loro padri, imprevidenti scialacquatori di tanta ricchezza.

A Taquisara fra Lanusey e Seui ho veduto vergini foreste di elci, sicuramente fra le più belle che abbia incontrato nei miei viaggi. Alberi alti così che l’occhio deve cercar posizioni nuove e faticose per trovarne la cima; così folti da doversi intrecciare gli uni cogli altri; e qua e là il cadavere maestoso di un colosso fulminato dal cielo e fraternamente accolto fra le braccia degli alberi vicini che vivono da secoli in confidente famigliarità, in regime di repubblica, primitivo, senza noja di [65] regolamenti, nè balzelli di tasse, nè tirannia di leggi. E fra i lecci giganti un mezzo ceto di corbezzoli dalle foglie lucenti, di tassi dal fiero cipiglio; e più giù un popolo minuto di eriche, di clematidi, di arbusti, di arboscelli, di erbe. E cascatelle di acqua chiacchierina che si lascia cadere e fa capriole fra graniti coperti di muschio, dove le goccie d’acqua fermate dal loro velluto son perle e dove il sole filtrato attraverso quella volta di verdura spande una penombra mite e silenziosa.

La Gallura è la Svizzera della Sardegna, e i graniti son così dislocati in cento modi, e giù per quella china di monti si son fermati mille e mille ciottoloni arrotondati in tante guise che tu crederesti vedere il campo abbandonato dai Giganti che vollero scalare il cielo. La natura coi graniti della Gallura ha saputo fare uno dei quadri più fantastici e bizzarri, dove il tragico e il grottesco si accordano stupendamente, e le forme pigmee e gigantesche dell’estetica minerale si trovan vicine e coi loro contrasti ci danno sensazioni nuove e non aspettate. Duolmi che le nevi e l’insolita inclemenza della primavera [66] di quest’anno mi abbiano impedito di visitare il Gennargentu, il gigante dei monti sardi e che deve muovere colle sue foreste e i suoi macigni fortunata guerra alle bellezze per me carissime della Gallura.

Il cacciatore trova nella Sardegna il suo Eldorado, ed io coi miei occhi ho veduto tante allodole nei campi da poterne far bottino di un centinaio in una mattinata; e dalla mia carrozza ho seguito le pernici che correvan dinanzi ai miei cavalli; e a tiro di pistola ho veduto beccaccie e anitre e selvaggiume d’ogni maniera. Nei boschi poi e fra i cespugli hai tanti cignali, da poterne ammazzare quanti tu vuoi; e sugli alti monti puoi ancora, senz’esser principe, deliziarti della caccia principesca di cervi, di caprioli e di mufloni.

Quest’animale è interessante assai e in Italia non si trova che in Sardegna e in Corsica; ha figura di pecora ma col pelo del cervo, e ha corna che si attortigliano in modo molto pittoresco e che giungono a smisurata lunghezza. Io ne posseggo un pajo che mi fu regalato dai cortesissimi miei [67] colleghi di Nuoro, dottori Alberto e Luigi Calamina, e che per il loro peso impedivano ogni rapido movimento all’animale che le portava; caso strano di corno suicida! Il muflone vive a stormi, salta come il camoscio, e ha carne saporitissima; ed io la trovai ottima anche senza il soccorso di magisteri culinari, cotta coll’acqua e il sale. Il muflone s’addomestica facilmente e si accoppia colla pecora; e i meticci meritano di essere studiati in quest’epoca di idee darviniane. Ho veduto anche molti meticci di cignale e di porco, ma il porco della Sardegna è così poco diverso dal suo fratello selvaggio da potersi confondere facilmente con esso.

Gli animali domestici della Sardegna son celebri per la loro piccolezza, e quell’isola ha cavalli, asini e porci nani. Le razze cavalline sono con torto di tutti (governo e sardi) troppo trascurate. La resistenza alla fatica e la sicurezza del piede del cavallo sardo son davvero sorprendenti, quasi miracolose. Io ho viaggiato per ore ed ore per erti dirupi con un cavallo magro e stecchito, a digiuno da un giorno; e quel cavallo, in ciò superiore alla moglie [68] di Claudio imperatore, giungeva alla meta del viaggio, nè stanco nè sazio. Benchè abbia vissuto per quasi quattro anni sul dorso dei cavalli argentini quasi selvaggi, ho dovuto inorridire alla vista dei miei compagni di viaggio che dinanzi a me scendevano al trotto dalla ripida erta d’un monte d’argilla sdrucciolevole e sfatto dalla pioggia. Mi pareva veder quella gente e me stesso al suolo ad ogni momento; ma i cavalli sardi tiravan dritto e per misteri di un ignota meccanica spostavano ad ogni momento e ad ogni momento ritrovavano il loro centro di gravità. Il cavallo sardo ha tre grandi virtù cardinali: brio, sicurezza di piede, temperanza arabica; e conviene che l’arte, conservando queste virtù, le incarni in un tipo di forme eleganti e allora le razze cavalline sarde saranno fra le prime d’Europa.

I Sardi possono far molto per migliorare la loro razza di capre, animale che in pochi paesi d’Italia trova terreno più propizio che nella Sardegna. Essi devono incrociare le loro capre con quelle delle Isole Canarie; ed io coll’insistenza di un vecchio brontolone voglio ancora una volta ripetere che la capra delle Canarie [69] è una vera specie darviniana, che per la straordinaria copia di latte squisitissimo che somministra deve essere introdotta fra noi. A Teneriffa molti stranieri trovano così squisito il latte e senz’ombra di sapore ircino o salato per cui portano al cielo le vacche di quel paese, ignorando che è invece latte caprino. Io ho veduto alcune capre con poppe così esuberanti da toccar quasi la terra e da rendere impossibile la corsa all’animale che le portava. Ai nostri moderni acclimatori e ai nostri ricchi oziosi possa questa pagina (che ristamperò colla insistenza di un apostolo ostinato e incorreggibile) fermare l’attenzione e far nascere l’idea di una gita amena e il proposito di un’opera buona. E chi può indovinare la squisitezza dei formaggi di latte di capre delle Canarie pascolanti sui monti della Sardegna?[4].

La Sardegna è ricca di pesci squisiti, ha tonni in tanta quantità da arricchire molti possessori di tonnare, ha sardelle, muggini, rombi, triglie e tutta una coorte di saporitissimi [70] abitanti marini: mentre i torrenti di Patadas vi danno trote eccellenti. A Cabras fui testimonio di una pesca miracolosa, grazie alla squisita cortesia dei signori Carta, i quali mi condussero alla loro peschiera che vale più d’un milione.

Con sapiente malizia i Sardi hanno aperto ai pesci del mare ampli bacini d’acqua calda e tranquilla, dov’essi entrano confidenti e sicuri di trovare un nido ai loro fecondissimi amori. E là invece sono in un vasto carcere, dove possono dedicarsi alle delizie della famiglia, mangiare e ingrassarre; dove possono far tutto fuorchè fuggire. E là si aggirano per una lunga distesa di acque, passando d’uno in altro labirinto, finchè i più grossi e paffuti son spinti nella peschiera della morte. Io era sopra un piccolo argine che separava una peschiera dall’altra e guardavo sotto di me l’acqua torbida che appena mi lasciava vedere un profondo e oscuro brulichìo come di cosa viva che si movesse. Tre uomini giovani, belli e robusti ad un cenno del signor Carta si cambiarono in tanti Adami: si legarono intorno al corpo una lunga cordicella e [71] fra essa e la pelle si piantarono una spada di legno, che sembrava piuttosto la spatola tradizionale d’Arlecchino. Gettatisi a capofitto nella laguna con quel legno e quel filo si diedero alla loro pesca che aveva del prodigioso, del magico. Ognuno d’essi si tuffava sotto le acque, e dopo pochi secondi esciva con un grosso muggine nelle mani, che apriva convulsivamente le branchie scarlatte, tentando di sfuggire da quella robusta presa; ma in quell’istante la spada d’Arlecchino dava due o tre colpi sul suo capo, e il pesce era infilato nella cordicella attaccata al corpo del pescatore. Un nuovo tonfo, un nuovo pesce, una nuova martellata sul capo e via così di seguito senza posa. Così mentre andavano rosseggiando quelle torbide acque, quei tre carnefici allungavano le loro filze, e quando si rizzavan dall’acqua guizzava intorno ad essi, quasi un serpente d’argento, il trofeo dei grossi e molti pesci presi, uccisi ed infilati. Non vidi mai una volta sola tuffarsi il pescatore e venir fuori senza il pesce nella mano; talvolta ne aveva due. Dopo otto minuti escirono dall’acqua, gettando ai nostri piedi il frutto della pesca; ed eran più di cinquanta [72] chilogrammi di muggini. Qualche volta il pesce s’addensa in tali masse per quelle peschiere che convien far la pesca alla pala. S’entra allora nell’acqua, e con un gran cucchiajo di rete si getta sulla sponda una massa guizzante, fremente e scintillante di grossi pesci.

Gli operai della gran peschiera di Cabras lavorano assai, ma mangian moltissimo e tre volte al giorno. Son robusti e in mezzo alla malaria famosa di Oristano di raro soffron di febbri; ammogliati han molti figliuoli.


Quali uomini sono gli Italiani della Sardegna? son dessi bambini o decrepiti, sani o malati; s’hanno a scrivere nel bilancio attivo o nel bilancio passivo della nazione? A queste domande credo di poter rispondere subito; che i Sardi hanno dato fin qui poche pagine alla storia gloriosa della civiltà italiana per colpa dell’isolamento in cui son rimasti per secoli; per peccato del luogo più che per colpa degli uomini; essi sono un popolo giovinetto e non [73] decrepito, hanno un povero passato ma un ricco avvenire; al lavoro sociale, alla patria comune essi porteranno due tesori, uno più prezioso dell’altro; un’ottima costituzione non domata neppure dalla malaria e un fondo di morale rimasto intatto anche con tanti secoli di impunità.

Non si può intendere il popolo sardo senza ricordare il lungo, l’incredibile isolamento in cui visse per tanti e tanti anni. Chiudete ad una nazione le vene che le apportano da ogni parte il sangue di altri popoli e di altre civiltà e vedrete di qual vita atrofica e rachitica dovrà vivere; fosse pure la nazione di temperamento più gagliardo, di mente più operosa. Le isole molto lontane dai continenti son fuori della grande corrente della civiltà e ridotte a vivere soltanto dei proprii frutti, delle proprie idee, a cuocere nel proprio succo, hanno isterilita la sorgente più feconda del progresso civile. E parlo di isole molto lontane, dacchè quelle che come la Sicilia e l’Inghilterra son vicinissime a grandi continenti, godono in una volta sola dei vantaggi della terra ferma e dell’isola; e vivendo insieme agli altri popoli della [74] vita comune, difendono più facilmente degli altri, come in una fortezza naturale, i frutti della rapina o della conquista. Un popolo isolano gettato sopra una terra troppo lontana dai grandi centri civili non può salvarsi che a patto di farsi marinajo, e quando invece abborre dal mare e si accontenta di coltivare le zolle della propria isola, allora non può che intisichire e rimanere addietro nella gran corsa dei popoli verso l’excelsior. È davvero un problema che ha del logogrifo il non trovar in Sardegna marinaj, cantieri, navi; il non trovare metà di quel popolo divenuto anfibio; ma non è un fatto nuovo il vedere genti isolane nemiche del mare e ho discorso lungamente nei miei viaggi a Teneriffa di un popolo antico che non osava neppure attraversare un canale più stretto di uno dei nostri laghi.

L’isolamento e la ripugnanza all’onda salsa dei Sardi spiegan tutti i loro peccati e li assolvono. Leggete una pagina tacitiana di storia scritta dal Cattaneo:

«In quel secolo XI tutta l’Europa si sottraeva all’incubo dell’influenze barbariche. Le spedizioni trasmarine dei Toscani, dei Liguri, [75] dei Veneti aprivano agli altri popoli il campo delle crociate. L’amore di un venturoso lucro, il genio militare e l’ardor religioso che si erano congiunti nell’impresa di Sardegna, si svolsero più vastamente nelle famose conquiste d’Inghilterra, di Sicilia e di Palestina. Le armi facevano strada al commercio, e questo rinnovava l’antica ricongiunzione dei popoli, operato primamente dalla sapienza romana. Il pontefice Ildebrando, lagnandosi che li uomini della Sardegna fossero omai divenuti più stranieri a Roma che non li abitanti delli estremi confini della terra, scriveva un imperiosa esortazione ai quattro giudici sardi, Onroco di Cagliari, Orsocorre d’Arborea, Mariano di Logudoro e Costantino di Gallura; e commendando il proposito di Onroco di recarsi a Roma, lo ammoniva a sottomettersi alla prescritta riforma, essendochè molte richieste si facevano da varie genti alla sede romana per la concessione della provincia di Cagliari

Saltiamo quattro secoli e vediamo ancora l’isolamento della Sardegna.

«Nei primi anni delli Aragonesi l’isola [76] aveva commercio coi Pisani, Genovesi, Veneti, Anconitani, Napoletani, Marsigliesi, Greci e Israeliti di Barberia. Tutta quella gente sparì al cospetto del feudalismo aragonese. Nel 1479 si cacciarono dall’isola tutti i trafficanti corsi, nel 1492 si introdusse l’inquisizione; e furono espulse tutte le famiglie israelitiche, che omai da quindici secoli esercitavano l’oscura loro industria e noleggiavano il servizio dei loro risparmi ad un agricoltore a cui le usure stesse erano inestimabile beneficio. In breve nell’antico granaio del popolo romano mancò perfino la semente da spargere sugli ubertosi campi. Sassari, la seconda città del regno, si ridusse a meno di tremila abitanti; rimasero deserte molte ville che fiorivano nelli agitati tempi di Branca Doria e d’Ugolino; e furono abolite per mancanza di popolo dieci sedi vescovili. Fu troncato ogni vincolo colla madre Italia, quando appunto Colombo, Machiavello, Ariosto, Michelangelo vi rinnovellavano tutti i prodigi del pensiero. Il distacco dall’Italia fu tale, che li antichi statuti di Sassari, d’Iglesia, di Bosa venivano a preteso servizio della comune intelligenza, tradotti dalla [77] lingua straniera, cioè dall’italica nella catalana....»

Facciamo un altro salto di due secoli.

«In mezzo a tanta esuberanza di derrate, in un’isola più ampia della Lombardia, tutte le merci esportate dal porto di Cagliari appena sommavano al valore di centomila scudi, e ad altrettanto quelle del porto d’Alghero. Nell’interno mancavano le poste, mancavano i corrieri delle lettere, non v’erano strade, e l’isolamento verso l’estero era tale che le carte del governo dirette alla Spagna si ricapitavano prima a Napoli, perchè viaggiassero a bell’agio con quelle delle altre provincie italiane.»

Per quanto la Sardegna sia stata occupata da Fenici, da Greci, da Romani, da Vandali, da Ostrogoti, da Mori e da Spagnuoli, benchè nelle vene dei Sardi scorra forse ancora qualche goccia del sangue dei fuggitivi di Troia o dei quattromila israeliti ed egizii che Tiberio aveva relegati in quell’isola in pena dell’avere essi tentato propagare in Roma l’osservanza dei loro culti, pure io credo fuor di dubbio che l’orditura del popolo sardo sia antichissima, anteriore ad ogni tradizione storica [78] ben accertata, che l’elemento più potente ancor oggi dopo tante invasioni e tanti incrociamenti sia autoctono. Grazia alla cortesia squisitissima de’ miei colleghi di Sardegna ho fatto una preziosa raccolta di tipi dei cranii di quell’isola, e forse vi è in essi un germe di etnografia sarda; ma fin d’ora credo di poter affermare la potenza dell’elemento autoctono in quell’isola.

Esiste un sangue sardo anche dopo i Fenici e i Romani, anche dopo gli Spagnuoli e i Mori, anche coi due dialetti cagliaritano e logudorese; anche dopo le rivalità di Cagliari e di Sassari. Ve lo dice ad alta voce quella pagina di storia che un popolo antico lasciò scritto su tutta la faccia della Sardegna in quei monumenti ciclopici di pietre, che si chiamano nuraghi. Ve lo dice quell’amore tenace, irresistibile del popolo sardo alla sua terra; vera passione del suolo e dell’aratro che resiste alle invasioni di tanti popoli marini, di tante genti che vivevano in mare e del mare. Ve lo dice la lingua sarda che ha parole comuni in tutta l’isola; ve lo dicono alcuni costumi singolari, primitivi che non [79] trovate altrove e che ricordano usi di stirpi antichissime; ve lo dice la fiera resistenza che gli isolani opposero sempre ad ogni invasione; per cui essi combattevano e vincevano quasi sempre, o vinti si ritiravano nei loro monti, portando seco il palladio della loro lingua e dei loro costumi. E lo stesso Lamarmora vi dice che secondo ogni apparenza, i montanari dell’isola che conservarono più a lungo l’antico linguaggio furono anche gli ultimi a perder la lingua romana che avevano adottata, almeno in gran parte; ed è precisamente nel paese più abitato da questi popoli che la lingua latina è parlata, ancora ai nostri giorni, nella quasi sua purezza.

Sul mondo sardo antico preistorico e che attende ancora il suo Colombo, si impiantò una propaggine romana e il popolo sardo di quest’oggi è un innesto latino sull’antica pianta autoctona dell’isola. Elemento latino quasi puro nel nord; con colorito corso nella Gallura; con tinta catalana ad Alghero; con tinta risentita di moresco e di spagnuolo a Cagliari e nel Campidano.

Non saprei dire se più il sangue o più la [80] tradizione lasciasse di elemento spagnuolo a Cagliari; ma questo so di certo che chi ha vissuto, come io, alcuni anni in paesi spagnuoli, trova nella maggiore delle città sarde, ad ogni momento riscontri ed analogie. Il carattere serio, il culto della pompa esteriore e delle riverenze; certa maestà di portamento e simpatia per le rabescature, certa tranquilla inerzia che trovate a Cagliari son tutte cose spagnuole; e anche passeggiando per le vie mi son trovato sorpreso di veder fisonomie che mi richiamavano volti spagnuoli. A Sassari invece il brio chiassoso e il dolce far niente senza rimorsi, vi richiamano la Sicilia e li ultimi figli di Roma stanca.

Non è però nelle grandi città e nei porti di mare che convien cercare i tipi etnografici della Sardegna. Uno di questi fra i meglio definiti, ma anche dei meno studiati è quello dei Maurelli di Iglesias e dei paesi vicini. Studiando bene quegli abitanti t’accorgi subito che dovettero rimanere isolati a lungo, senza miscela d’altro sangue. Non parlo del ceto alto, dove incontri fisonomie italiane e spagnuole, ma parlo del popolo minuto e [81] mezzano che è tutto di uomini e donne più alti che bassi, asciutti, dai capelli neri e folti, e da un cranio così lungo e stretto che è difficile supporlo più dolicocefalo. Anche i meno osservatori rimangono stupiti dinanzi a quei cranii che non è qui il luogo di studiare, ma che devono scoprire un giorno la vera origine di quella gente. Le donne son sottili assai e di corpo elegante, e colla somma sottigliezza del corpo fa splendido contrasto l’ubertosità dei campi consacrati all’amore: hanno viso ovale e pallido, sopracciglia molto folte, occhi orizzontali, spesso grandi, naso diritto affilato, spesso lungo. Vedete lo stesso sangue in Gonesa, in Porto Scuso, ed è sicuramente fra i tipi sardi più singolari e più puri, e certamente nè latino, nè spagnuolo. Il costume del vestire e il culto al caffè vi rammentano insieme al cranio origini africane. Il dialetto è cagliaritano, meno piccole differenze, ed io vi ho potuto notare la r pisana sostituita alla l, ultima e forse unica memoria della dominazione pisana e che vi richiama lo scherzo con cui i Toscani rimproverano ai Pisani la durezza delle loro r messe proprio [82] a sproposito in luogo di una dolcissima consonante: er giuoco der ponte e re cieche.

Lamarmora vi dice: «che gli abitanti del Sulcis e della provincia d’Iglesias sono appellati comunemente Maureddus (mauritani o mauri) che alcuni vogliono derivare dai Mori dell’Africa, che secondo Procopio sarebbero stati trasportati nell’isola, al tempo di Belisario. Io penso senza ingannarmi che quelli che hanno questo nome sono veramente discendenti di colonie africane stabilite nell’isola. Il dialetto infatti attuale dei Maureddus pare aver conservato qualche traccia dell’idioma africano. Dentro la stessa città d’Iglesias vi è una fontana chiamata di Coradino che se non è una prova, è un argomento di più in favore dell’opinione che ricongiunge i Maureddus ai Saraceni[5]

Anche il barone di Maltzan non osa pronunziare un giudizio sicuro sull’origine dei Maureddi di Iglesias e confessa di non aver saputo trovare in essi che traccie fuggitive che potessero far sospettare una stirpe arabica. [83] La parola Boddeus esprime nel dialetto di quel paese un piccolo gruppo isolato di case, e ricorda il bit (casa) degli arabi. Così furriadroxus (case di campagna degli abitanti delle città) deriverebbe dalla parola sarda fura (fuori) e dall’arabo charadscha (escire). Poveri argomenti davvero per assegnare la genealogia ad un popolo[6].

Ho voluto consultare l’eruditissimo professor Ascoli sull’etnografia dei Maureddus ed ecco le preziose notizie ch’egli mi ha gentilmente trasmesse:

«Si sono in vario modo confusi, da più scrittori, i Barbaricini ed i Maurelli (Maureddi). I primi occupano le Barbagie (Sas Barbagias) nel Logudoro; e par sempre probabile, malgrado i dubbi del Cattaneo (Alcuni scritti, II, 190) ch’essi risalgono ai Mauri Barbari di Procopio, gettati nell’isola tra il quinto e il sesto secolo dell’êra volgare, comechè l’ubicazione delle Barbagie non bene risponda alle parole di questo autore[7]. È [84] manifesto, del rimanente, che i Mauri Barbari di Procopio non potevano essere arabi, come stortamente fu asserito, ma ben piuttosto avranno a reputarsi berbéri, che è quanto dire di quella razza aborigena dell’Africa, a cui più tardi gli Arabi, riproducendo il barbarus romano, diedero il nome di Berber. — I Maurelli si trovano all’incontro nel Sulcis, a poca distanza da Iglesias, e manca ancora (1861) intorno ad essi ogni attendibile ragguaglio. Un indigeno, estraneo a simili studj, descrive il loro parlare a questo modo: idioma misto di genovese, campidanese e africano. Dall’Africa, secondo lo stesso isolano, ivi approderebbe e si stabilirebbe di continuo nuova gente. Nelle Barbagie, all’incontro si parlerebbe il logudorese con insignificanti varietà.»

[85]

Anche in Oristano trovai fisonomie orientali. Martini dimostrò con tutta evidenza l’emigrazione in Oristano di cristiani d’Oriente e Maltzan volle anzi con questa spiegare il colore greco-orientale della gente di Cabras. Fu infatti nel 1295 edificata una chiesa in Oristano da Papa Bonifazio VIII onde potessero farvi le loro preghiere i cristiani di Tiro scacciati dall’Oriente dai Musulmani di Egitto.

Un altro tipo sardo è quello che si trova nell’Anglona, dove in alcuni villaggi gli abitanti schierati dinanzi a noi per accoglierci festosamente erano tutti di eguale altezza, e così rassomiglianti da sembrar tutti membri d’una stessa famiglia. Pur troppo a Laerru, ad Oschiri e in altre borgate della Sardegna i matrimoni fra parenti son frequentissimi e l’egregio dottor Paolo Manchia di Oschiri mi ha comunicata una preziosa statistica dei matrimoni avvenuti in quel paese dal 1858 al 1868, dove si leggono scritti a caratteri di fuoco i pessimi risultati delle unioni tra consanguinei. Nell’Anglona gli uomini hanno capelli e barba foltissimi, [86] statura mezzana, corpo asciutto, naso aquilino, occhi grigi o neri ma sempre acuti.

La Gallura è paese corso e certe valli intorno a Tempio hanno tipi così latini che sembrano medaglie antiche. Gli ultimi figli dei Romani etnograficamente son forse a cercarsi in Sardegna.

Nel sud della Sardegna, meno i figli di stranieri o di italiani d’altre provincie, tu non trovi mai occhi azzurri e capelli biondi, e ti accorgi di essere nel nord, quando ti incontri in pupille azzurrine, che non di raro però si accordano con capelli neri; anche questo ricordo romano. Quasi dovunque vedi barbe foltissime e capelli che durano anche sui capi più venerandi[8]. Perciò mi fece sorpresa il vedere in Siniscola quattro consiglieri comunali, due dei quali portavan parrucca ed un terzo era calvo.

In Sardegna è rarissimo trovar uomini contraffatti: non pellagra, non rachitide: nell’interno è quasi sconosciuta la sifilide.

[87]

La donna ora è più bella, ed ora men bella dell’uomo, secondo che la razza adatta meglio la fisonomia al tipo virile o al femminile. Così a Nuoro quei montanari hanno sopracciglia nere e foltissime, occhi corvini, naso diritto e non aquilino, labbra dal piglio altero, e questa fisonomia riesce troppo dura per la donna; è invece nell’uomo simpatica fierezza. Le donne si distinguono in moltissimi paesi della Sardegna, ma specialmente a Cabras, a Patadas e nella Barbagia per ricchissimo seno, a cui com’è naturale si associano sempre anche le linee posteriori di Venere Callipigia. Gli eleganti e pittoreschi costumi rialzano poi la bellezza non sempre perfetta delle linee del volto o nascondono quella troppo massiccia e selvaggia del corpo.

La Sardegna non ha proletarii, ha il vanto di non contare fra i suoi abitanti quel gregge umano che noi con beffarda statistica numeriamo fra i cittadini; che brulica stupido e inerte sulle glebe delle campagne o s’addensa sucido e sudato nelle officine della città. In Sardegna avete molti poveri, ma son quasi [88] tutti proprietarii di campi o di greggi, di una capanna o di un albero; ma questa proprietà, che non li salva dalla fame, basta però per alzarli di cento gradini sul nostro colono che prima di nascere ha già dei debiti verso il padrone, e che fra la pallida minestra condita dal lardo e il pane duro e ammuffito in cui coll’alimento trova la pellagra, non ha altra poesia nella vita che quella che gli vende la superstizione. Il pastore sardo rimane più volte due o tre giorni senza cibo, ma è un uomo libero. Il contadino sardo vede spesso sotto i suoi occhi il suo pane divorato dalle cavallette; ma egli ha una zolla di terreno che può chiamar suo: In Sardegna, voi non trovate quei volti ebeti e poco umani dei nostri contadini, sui quali le rughe precoci non furono segnate che dalla fame o dalla stanchezza. Il sardo più povero ha un volto su cui le passioni hanno scritta la loro storia: ignorante, rozzo, spesso brutale, ha però una fibra ancor sana, ha una molla non ancor rotta che gli fa tener alto il capo: egli sente la dignità del possesso.

L’amor della terra è così appassionato nei [89] Sardi da divenire una vera manìa; esso ha rovinato in più luoghi l’agricoltura, sminuzzando, polverizzando quasi la proprietà fondiaria. Nel Campidano i figli si dividono il campo, la selva, la casa del padre in tanti frammenti, ed ognuno di essi vuol avere la sua parte di campo, di selva, di casa; talchè s’arriva a coprire le terre di siepi e a sminuzzare la proprietà in parti così lillipuziane da potersi mettere in tasca. Si vedono campi, dove la terra è di un proprietario e le piante son di un suo fratello, e si vide in Oristano una camera con tre padroni; esempio raro ma non unico[9].

[90]

Il pastore della Sardegna non è quello degli idilli di Teocrito e di Gessner, è un uomo risoluto, fiero, che ha sempre sulle spalle un fucile e che lo adopera troppo volentieri. Abbronzito dal sole, indurito alla fame, alla sete, è un vero arabo che spesso fa da beduino; non ha della proprietà altrui idee molto precise, spesso apre le siepi col coltello per farvi entrare le sue pecore; e difende il sopruso a fucilate. Talvolta non si accontenta di ingrassare il suo gregge coll’erba, coll’orzo, col frumento dei campi altrui, ma miete anche le spighe non seminate da lui, raccoglie il frutto innestato da altri. Il pastore errante, bellissimo tipo per l’antropologo e per il romanziere, è la rovina della Sardegna; spesso è sinonimo di ladro. Si son visti alcuni, che dopo aver messo insieme colla elemosina di incauti generosi un gregge di 10 o 12 pecore, battevano la campagna, vivendo di furti e di rapine. Fonni, piccola borgata delle montagne del nord, manda ogni anno fin 500 pastori nel Campidano, che coprono dall’inverno fino al maggio intiere pianure coi loro armenti; con quanto [91] frutto dell’agricoltura è facile immaginare. E sì che a Fonni si spergiura senza molto scrupolo nel nome di Dio, ma non mai in quello di sant’Antonio! È vero che a sant’Antonio si affidano i ladri dei greggi e a lui consacrano con voto una parte del bottino, quando le rapine riescon fortunate.

Quando la cresciuta civiltà avrà cancellato dalla Sardegna il pastore errante, quell’isola sarà uno dei paesi più morali del mondo; perchè se la facile impunità rende così comune il furto campestre, nelle città e nei villaggi i ladri son pochi. Nello scorso anno Sassari e Cagliari erano invase da migliaja di cenciosi venuti dai campi a chiedere il pane che le cavallette avevano loro divorato; le case erano tutte aperte e non si avevano furti. Il senso del giusto è incarnato nel sangue dei Sardi; i testimoni affermano il vero anche quando riesce loro pericoloso il farlo, e minuto popolo e alto si associa con vero entusiasmo nelle vie per arrestare un ladro e consegnarlo alla questura. Le stesse impressioni crudeli che provaron tutti in Sardegna quando si seppe che una diligenza era stata [92] aggredita, mostra quanto quel fatto fosse raro e inaspettato. Trent’anni or sono un corriere a cavallo portava lettere e denari da Sassari a Cagliari e impiegava otto giorni in quella corsa, guadando fiumi senza ponti, attraversando boschi deserti senz’altr’armi che un pistolone rugginoso e una lastra d’ottone colle armi del re di Sardegna. Giammai fu torto un pelo a quel corriere e da tutti si sapeva che nella sua bisaccia fulva di pelle che portava ad armacollo stavano molte carte relative ai processi dei banditi erranti per la campagna.

Un’altra virtù dei Sardi è il rispetto all’autorità. Nel 1848 si volevano in Cagliari ammazzare i Gesuiti; e già si sentiva nel popolo accalcato per le vie quel muggito indistinto che precede una procella. I padri pallidi e quasi svenuti dalla paura attraversavano quelle masse; già già si stava per metter loro le mani addosso, quando un impiegato inerme si presenta e con voce alta grida: Figliuoli, rispettateli; e la procella si calmò.

I carabinieri si presentano più d’una volta in capanne deserte sui monti più alti, nel folto [93] dei boschi e la donna di casa corre incontro a baciar loro la falda dell’abito, dicendo: Vene lu re!... dacchè i Sardi del campo personificano ancora nel re ogni idea di autorità e di governo. In pochi paesi d’Italia le tasse son pagate con maggior scrupolo e con più serena rassegnazione. In Sardegna non si aveva la leva militare e il nuovo tributo di sangue non accrebbe di molto i banditi.

Il sardo si fa difficilmente operaio; è temperante, intelligente, ma come lo dicono i grossi intraprenditori di strade o di mine, lavora il trenta per cento meno dell’operaio del continente; mangia poco e sopratutto beve assai meno di questo. I fanciulli operai lascian spesso il pane per correr nei prati a cercarvi con istinto selvaggio erbe e radici e rosicchiarle con più selvaggia voluttà.

Nella classe media esser impiegato; aver il pane a giorno fisso e sicuro e lontana prospettiva di pensione e aver fissata l’ora e il lavoro da altro impiegato è l’ideale della vita; grossa e lurida magagna che i sardi hanno comune con molti italiani del continente; malattia cronica, scrofola vecchia che convien sanare [94] col ferro e col fuoco. E nel mezzo ceto, la donna esercita troppo piccola influenza, anzi quasi nessuna; relegata com’è alle voluttà del talamo e alle noie delle cure domestiche; per cui essa cerca la poesia per cui è nata, nelle volte delle chiese e porge ai figliuoli un’educazione quasi sempre bigotta, piena sempre di ubbie e di pregiudizi. La donna sarda, sensibile, sensuale, intelligente, fantastica, ma incolta e messa dall’uomo in troppo umile posizione, passa lunghe ore al confessionale, affida al prete gran parte della sua anima; divide coll’uomo una profonda apatia della vita politica.

A Cagliari ho veduto processioni fatte con molto entusiasmo, con vero culto dell’arte; con grande accompagnamento di confraternite gialle, rosse, verdi, con cappelli di raso; e signore prostrate dinanzi a quegli arlecchini policromi, e udii gravi discussioni sulla bellezza maggiore o minore dei verdi, in confronto dei gialli e degli azzurri. Anche a Sassari avete ancora gli avanzi di antiche corporazioni, conosciute sotto il nome di gremii: avete quello degli ortolani, che coltivano il tabacco, e che [95] nelle processioni vestono alla Don Basilio; avete quella dei viandanti che una volta trasportavano lettere e merci e conservano un uniforme spagnuolo; avete il gremio dei muratori che hanno il loro costume: avanzi del medio evo, con professioni che si trasmettono da padre in figlio senza diserzioni nè mutamenti.

I Sardi hanno un fondo di indomita e appassionata fierezza e in molti paesi ci troviamo ancora in pieno medio evo; dacchè ancora si preferisce rendersi giustizia sommaria da sè stessi e le rapine fatte alla luce del giorno e con molti combattenti hanno l’aria di conquiste più che di grassazioni.

Nuoro è paese terribile, dove il sangue corre ad ogni momento. Nel giugno dello scorso anno uomini a mano armata cambiarono il Municipio; e le truppe e i carabinieri non osarono combattere quei sollevati con forze troppo disuguali. Il rubare un paio di bovi, e l’esserne poi derubato di due paia e saldare i conti colle fucilate è cosa assai comune. Il sindaco di Posada fu ucciso a tradimento nell’ultimo gennaio, perchè aveva deposta la verità dinanzi al Tribunale. Il villaggio di Nule [96] fu saccheggiato da venti o trenta armati; e il bottino fu diviso patriarcalmente dalle donne di quei disperati. Questi delitti sono i frutti di pianta antica; dacchè prima del 1830 si comperava l’impunità a pronti contanti.

A Nuoro si videro crescere le grassazioni dopo che fu introdotta la leva: ma i nuovi assassini non erano disertori, ma contadini che andavano a pigliare nelle saccoccie altrui il denaro per pagarsi il cambio. Avuta l’esenzione del tributo di sangue, il ladro ritornava all’aratro, alla vigna, all’amplesso della sua donna e de’ suoi bambini.

Dorgali, Orosei, Galteli, Irgoli, Loculi, Lula, Mamoiada, Saruli, Orali, Oroteli, Nules son tutti comuni, dove vi si racconta una storia di sangue, fresca di ieri: posdomani ve ne sarà una nuova. Anche qui l’assaltare, il rubare non costituiscono un mestiere, ma son cose d’occasione; e l’assassino, deposto il fucile omicida, ritorna pastore o contadino.

Ad Aggius avete ancora al dì d’oggi tre o quattro banditi: in tutta la Gallura gli odii di famiglia e le vendette corse durano ancora, benchè gran passo si sia fatto verso una vita più [97] civile e più mite. Non son però rari gli incendi di foreste di sugheri fatti per vendetta (Tempio). A Lanusey anche al giorno d’oggi si hanno parecchi banditi, ma dopo esser stati condannati in contumacia, si tengono in buoni rapporti cogli abitanti del paese, onde non esser denunziati. Il bandito Manca Macco fu arrestato da poco tempo: era tra i più fieri ed è quello stesso che nel 1867 organizzò una banda armata che devastò il Campidano.

Anche Bono è paese di tremende memorie. Negli ultimi anni dello scorso secolo Bono si difese contro le truppe e a prenderlo convenne bombardarlo. Ora è poco, i bonesi attaccarono il villaggio di Nughedu per saccheggiarlo; ma respinti lasciarono sul terreno morti e feriti: scene di sangue comunissime in tutta Italia, or son pochi secoli, sopravissute ora e morenti in Sardegna.


Quando in Sardegna odio e amore si chiudono in petto dello stesso uomo; la vendetta [98] è sicura, è pronta, è spesso feroce. Eccovi alcuni bozzetti dell’amore crudele: e anche dove v’è più tradizione che storia, leggerete spiccato il carattere di quelli abitanti.


Un giovane soldato fa la corte ad una bella sarda, le promette mano di sposa e ottiene sicure e precoci garanzie d’amore. Fatti i preliminari, l’ufficiale dimentica le promesse e di giorno in giorno differisce la ratifica del trattato. Riceve lettere anonime che dapprima cortesi e amichevoli lo consigliano a far il suo dovere; poi sempre più minacciose, promettono punizione alla colpa. Quel signorino non vuol diventar marito e dicendo d’imbarcarsi in un porto, attraversa tutta la Sardegna e si imbarca in un altro. È già nella barchetta con molti altri passaggeri che si dirigono al piroscafo postale; già sta per inviare l’ultimo saluto all’isola troppo esigente, quando s’ode un tiro di fucile e l’ufficiale cade morto nella barchetta.


[99]

Un giovane carrettiere si innamora di una giovane; la visita, le parla; vuol sedurla; ma essa resiste ad ogni seduzione: un giorno l’innamorato è più ardente, è più esigente, ma la virtù della bella sarda è sempre salda come rocca. Quegli le dà una pistola carica, dicendole: Se ti tradisco, se non ti faccio mia sposa, e tu con questa mi uccidi. La cittadella è caduta, ma la pistola è accettata. — Alcuni mesi dopo di pieno giorno quel galante era in una bottega. La tradita vi entra anch’essa, lo saluta, gli ricorda la promessa e l’uccide. Fu a costituirsi essa stessa al giudice e fu assolta dai giurati.


Non son molti anni che un ingegnere che aveva troppo promesso e poco mantenuto ad una graziosa vedovella; mentre galoppava verso Sassari, cadde morto per una fucilata; ed io coi miei occhi ho veduto i cespugli fra i quali giacque per alcuni giorni cadavere insepolto.


[100]

In una chiesa solitaria della Gallura sopra i monti entrava un giorno un giovane cacciatore, per riposarsi dalla lunga corsa e respirarvi un’aria fresca. Un lamento quasi soffocato ma straziante sembra uscire dall’altare; un altro lamento più crudele gli tien dietro; e la chiesa è solitaria e deserta. Il cacciatore rimane stupito, ricorda i pregiudizi dell’infanzia; è sgomento; ma la voce della compassione grida in lui più forte di tutto e per la cappella segue le grida del lamento e trova una giovane donna che partorisce sul nudo marmo, senza una mano che la soccorra. Il cacciatore divien levatrice, salva a quell’infelice, e colpevole madre la vita, il bambino, l’onore; con nuovo e paziente eroismo nasconde il frutto d’un amore tradito, nasconde la traccia insanguinata del sacrilegio; diventa prima il medico, poi amico, amante, marito di quella donna. Due anni dopo nella sua capanna si udivano nuovi lamenti; era un figliuolo del cacciatore che stava per nascere; ma il parto era più doloroso che mai e la donna gridava in modo da straziare le orecchie degli astanti. Il cacciatore era in quel giorno poco cortese [101] e dinanzi a molti esclamò: Tu non gridavi tanto or son due anni, in quella chiesa, quando partorivi il figlio di un altr’uomo. Quella povera donna guarda il marito con uno sguardo senza nome, gli dirige una mano supplichevole e rimane morta di dolore.


Un artista trova in Sardegna ricca messe di osservazioni nei costumi degli uomini e delle donne che si conservano inalterati da tanti secoli con isolana tenacità. La migliore descrizione dei vestimenti svariati dei Sardi non varrebbe quanto uno sguardo gettato sopra una raccolta di fotografie o sopra un atlante.

Il vestito degli uomini in Sardegna varia assai meno di quello della donna e il suo carattere generale è severo e selvaggio. Nel collettu alcuni eruditi trovano ancora la mastruca degli scrittori romani, ma è più probabile l’opinione che esso sia il colobium, il thorax degli antichi. La gran pelliccia nera di pecora [102] che portano i Sardi sulle spalle, fatta di quattro pelli di montone o di capra è uno degli abiti più antichi dell’uomo, e per cui ognuno può farsi sarto di sè stesso.

Col pelo all’infuori o all’indentro seconda le esigenze delle stagioni quest’abito è citato da Eliano: «La Sardegna per quel che ne dice Ninfodoro, è ricchissima di pecore e di capre, e le loro pelli servono al vestito degli indigeni; di maniera che l’uomo che le indossa può, mettendone il pelo all’indentro riscaldarsi in inverno e col pelo all’infuori difendersi dall’eccessivo calore dell’estate.»

Nel vestito dei Sardi predomina la lana, e a noi fa paura il vederli sudare sotto pelliccie e grossi tessuti anche nelle più calde stagioni, ma quell’uso è pienamente giustificato dalla malaria e dai rapidi cambiamenti di temperatura. Quando a San Luri vedete i contadini recarsi al lavoro col loro grosso grembiale di cuoio, che copre loro quasi tutto il corpo e che sembra meglio una corazza che un vestito, colla pelliccia, col cappuccio in capo, colle loro lunghe zappette appoggiate alle spalle, quasi fucili o lance, voi vi trovate [103] sotto gli occhi una scena originale, che sa dell’Oriente e del medio evo in una volta sola.

Il sardo si copre sempre il capo; se lo copre con amore, quasi con caldo furore; or con berrettoni di lana, or col cappuccio del mantello; ora con berrettone e cappuccio in una volta sola. Eppure hanno folte e lunghe capigliature e gli uomini calvi vi sono rarissimi.

Il sardo brilla in tutta l’estetica della natura e dell’arte, quando è a cavallo. È allora che la sua asciutta e bruna figura s’accorda col suo vestito severo e pittoresco; è allora che brillano la sua agilità, la sua forza, il suo coraggio, la sua natura indipendente, selvaggia, avida d’aria e di libertà. Le sue virtù si maritano con quelle del suo destriero: son due creature fatte l’una per l’altra che sommano insieme in un sol quadro pieno di vita le loro bellezze, le loro forze, vorrei quasi dire i loro pensieri.

Nell’Anglona ogni villaggio ci mandava ad incontrarci una squadra di cittadini a cavallo, tutti muniti del loro fucile a due colpi, tutti pronti a caracollare intorno a noi, e a mostrarci [104] la stupenda pieghevolezza della loro cavalcatura. Noi ce li vedevamo venire incontro di lontano; e il grido degli evviva che ci salutava s’andava facendo sempre più vicino; finchè il sindaco del villaggio coi più saputi consiglieri ci veniva incontro a stringerci la mano e a darci il benvenuto. E così scortati come principi s’andava innanzi, finchè un’altra squadra ci veniva incontro e si univa alla prima: e così noi ci siam veduti intorno centocinquanta cavalieri, che ci facevano ala e scorta, facendoci credere per un momento sultani dell’estremo Oriente o condottieri del medio evo. La nostra vanità non era però puerilmente solleticata da quel corteggio; ma in noi batteva il cuore per un sentimento più nobile e più caldo. Io guardava quegli uomini, che eran tutti individui, tutti padroni del loro bellissimo cavallo, tutti armati, tutti intelligenti, vivacissimi e diceva: sono italiani; e poi aggiungeva un’altra cosa: ecco un’armata, ecco l’armata dell’avvenire!

Quasi ogni villaggio della Sardegna veste le sue donne in diverso modo e la tavolozza più tizianesca del mondo basterebbe appena a tanti [105] quadri ricchi di colorito e di fantastiche combinazioni. Ad Osilo ho veduto le donne vestite a festa con insolita pompa, con fascette rosse tutte adorne di merletti, con gonne scarlatte, e sul capo una pezzuola scarlatta di panno, orlata di seta di vivaci colori. A Dorgali vedete il rosso, il bianco, l’oro intrecciarsi intorno alle forme di Eva che sembra ornare le bellezze della natura d’un culto sacro, ieratico; sicuramente orientale. Ad Aritzo gonnelle orlate, pezzuole rosse sul capo, fascetta variopinta con nastri di colori diversi dalla gonna e dalla fascetta, e maniche candidissime che escono da stoffe di vivi colori e orlate anch’esse. A Lanusey un grazioso panno rosso orlato d’azzurro che nasconde il capo in un nido d’amore; e una catenella d’argento che fa prigioniero il mento e il collo. In alcuni villaggi la donna veste come l’uomo colori bruni e tristi, e sembrerebbe una monaca, se la nessuna ipocrisia del sesso e il lampeggiar degli occhi non portassero l’osservatore a tutt’altro ordine di idee.

Per quanto svariati siano gli acconciamenti femminili della Sardegna, hanno però quasi [106] tutti questi due caratteri essenziali: molta copertura del capo e una grazia infinita per lasciar indovinare il più che si può le bellissime bellezze del seno. Più d’una volta vedete intorno a quel nido d’amori un duplice, un triplice, un quadruplice sistema di baluardi, cortine, fossi, contrafforti e contraffossi: tutta una strategia di fascie, fascette, e camicie e merletti; un arsenale strategico che dovrebbe esser fatto alla difesa, ed è invece un’offesa continua, formidabile; tutto un labirinto di parapetti attraverso a cui gli occhi profani non dovrebbero neppure gettare uno sguardo; e dove invece e occhi e sguardi si ostinano ad entrare; tutto un’artificio di grazia che vuol molto nascondere e riesce invece a mostrare assai; tutto un sistema di graziosissima, castissima e provocantissima ipocrisia.

In molti paesi della Sardegna le donne si coprono oltre il capo anche la metà inferiore della faccia; od anche tutta la faccia meno gli occhi. Una volta fuggivano, quando giungeva un forestiere, lanciando dalle finestrelle dei loro occhi le freccie del Parto. Ora esse son divenute più umane o forse gli uomini si son [107] fatti meno gelosi; sicchè a Nulvi, a Martes, a Laerru, quando s’entrava nei villaggi, le donne ci si facevan vicine, ci salutavano e in coro gridavano festose: Bene sean bennidos! (Benvenuti).

La donna però in Sardegna, che va scoprendosi la faccia, man mano la civiltà toglie a lei un’ipocrisia e al marito una tirannide, rimane però ancora troppo segregata dal suo compagno. A Calangianus, dopo aver attraversato bellissimi boschi di sugheri e di lecci, le nostre carrozze furono circondate da cento cavalieri armati che ci venivano incontro. Entrati con essi nel villaggio, la guardia nazionale era sotto le armi, sventolavano per ogni parte bandiere tricolori, suonava il tamburo: e l’aria era rotta da proterve e capricciose fucilate. La festa era dedicata specialmente al Deputato Ferracciù, nato in quel paese. Un prete, maestro di scuola, con vero furore di entusiasmo, faceva sfilare a passo di carica innanzi e indietro di noi i suoi scolari, che al suono d’un tamburo tempestoso seguivano una bandiera tricolore che era presa anch’essa da tumultuoso entusiasmo: e quei ragazzi [108] ad un cenno del prete gridavano a squarciagola. Evviva la Commissione, evviva Ferracciù, evviva l’Istruzione! E noi si prendeva caffè, vini, chicche; tutto ciò che quella buona gente ci aveva apprestato, e anche noi si gridava in coro, perchè l’atmosfera dell’entusiasmo ci avvolgeva tutti quanti. Ebbene fra tante grida, in tanta febbre di feste, le donne del paese stavano a parte tutte sopra un promontorio, e là col capo coperto e facendo della pezzuola che le copriva una visiera al volto non ci mandavan che i baleni dei loro occhi; e là dove i nostri si fermavano più a lungo, chiedendo una risposta, quelle pudiche pezzuole ci rispondevano, aprendosi rapidamente, quasi a mostrarci che alla bellezza degli occhi il resto rispondeva. Quel gruppo di donne su quella rupe di Calangianus, di quelle donne mute e isolate in mezzo alla festa mi pareva un quadro vivente della donna euperea, fatto senza studio d’artista, e senz’arte di filosofo moralista; ma che nel suo silenzio era pur eloquente!

Quante bellezze non ha isterilito la moda francese, obbligando le donne d’ogni nazione [109] che voglia chiamarsi civile a vestire nella stessa maniera, della stessa stoffa, degli stessi colori; curvando sotto lo stupido giogo d’un sarto parigino bionde e nere, alte e basse; tutto il variopinto e infinito stuolo delle donne d’ogni città, d’ogni borgata, d’ogni campagna. A questo io pensava più che mai, trovandomi la domenica delle Palme nella Cattedrale di Nuoro; dove stava ammirando un gruppo di ben cento donne colla gonna bruna e l’orlo rosso nel fondo; con una giacchetta scarlatta che copriva una fascietta azzurra quasi aperta e colle punte rivolte all’infuori, una camicia a merletti e una pezzuola o bianca o gialla sul capo. Com’eran più belle quelle donne che le poche signore vestite alla parigina! Com’eran graziosamente montanare! Com’era artistica quell’interpretazione dei monti! Il bruno maritato allo scarlatto; un bosco di pini con una chiesuola ornata di terra cotta: un castagno indorato dal rosso d’un tramonto alpino!

E questo basti per farvi venir la voglia di studiare cogli occhi vostri in Sardegna la bellezza degli acconciamenti femminili; a studiarla come pittore o come poeta; come etnografo o come un semplice curiosus naturæ.

[110]

Molti fra i viaggiatori della Sardegna, più maligni indagatori del male che sapienti osservatori, si guardano bene dall’ammirare la larga, la generosa ospitalità dei Sardi; e se voi insistete per avere da essi una pallida lode, vi rispondono sogghignando: Questa non è virtù ma è dovere dei più elementari; è questa una virtù selvaggia e che non prova altro se non lo stato bambino della civiltà di quell’isola. — Io invece che ingenuamente ammiro il bene dovunque lo trovo, io che ho trovato inospiti molti paesi selvaggi, non finisco nè rifinirò mai di ammirare la calda, la franca cortesia di quelli isolani; e se non cito nomi e se non ricordo squisitissime prove dell’ospitalità dei Sardi, è perchè avrei paura, tacendo qualche nome o qualche villaggio, di voler pagare colla penna un debito di riconoscenza che sarebbe poi coll’involontario silenzio un offesa per molti. Il sardo che in molte delle sue borgate non può offrire al viaggiatore nè una locanda, nè un bugigattolo, non subisce il dovere dell’ospitalità, ma l’accetta con gioia; e quando stringe la mano al suo ospite, è orgoglioso di dividere con lui il meglio della sua [111] casa, il meglio della sua mensa. Le sue insistenze son forse troppo ingenue, ma son sempre cordiali; i suoi pranzi troppo splendidi sono le feste della sua ospitalità; egli ha l’entusiasmo, la passione, quasi vorrei dire il furore dell’ospitalità.

Perfin nei paesi dove vive ancora il medio evo, dove le donne eccitano i mariti al saccheggio d’un villaggio vicino, là dove la giustizia si rende colle fucilate, ed è quasi sinonimo di vendetta; anche là il forestiere è rispettato, e si considera quasi come cosa sacra. Nessun dolore è per il sardo più grande di quello che gli arreca il suo ospite quando troppo breve è il soggiorno ch’egli fa nella sua casa; quando non accetta cordialmente ciò che cordialmente gli è offerto. E noi, che per la gravità della nostra missione politica, avevamo a render conto severo del nostro tempo e perfino delle nostre ore, dei nostri minuti, abbiamo dovuto esser cento volte scortesi; e attraversare fuggendo villaggi che ci avevano apprestato una festa; e combatter palmo a palmo contro l’ospitalità sarda che ci tendeva ad ogni passo lacciuoli per arrestarci, ad ogni [112] casa apparecchiando un caffè che era un pranzo; una colazione che era convitto splendidissimo e pranzi che eran cene luculliane.

Possano quei cortesi e cari nostri isolani, leggendo queste pagine, perdonare il nostro peccato; possano essi intendere il grosso sagrifizio che ci costava. E noi, ricordando quelle lotte singolari di viaggiatori fuggenti, stringiamo la mano caldamente e fortemente a quelli ospiti generosi.


In alcuni villaggi della Sardegna l’abitudine di dare ad ogni uomo un soprannome si coltiva con innocente passione e piglia carattere di uso nazionale. Così a P... un onorevolissimo cittadino, un vero padre del popolo, si chiamava calzone, perchè per il primo nella riforma della moda, osò affrontare il ridicolo universale, portando calzoni lunghi e neri; e quel brav’uomo aveva un figliuolo che si chiamava buon appetito; ed altri si chiamavano tabarro, bancarota, [113] pugnale, magangia (destrezza, astuzia), perra (gemello), mazzone (volpe).

I Sardi son quasi astemii, tanto son temperanti nel bere; ma sono invece ghiottoni. La loro cucina è ricca di succulenti vivande e i pranzi che offrono ai loro ospiti sono cene romane, dove molte volte il solo antipasto coi suoi pizzicanti e svariatissimi manicaretti può durare anche un’ora. L’intero pranzo poi dura tre o quattro ore e i piatti possono essere numerati più facilmente col metodo decimale che colle dita o coll’aiuto d’un abile memoria. È questo costume antico, dacchè fin dal tempo del dominio feudale spagnolesco, il barone Manno ci narra che in un convitto rusticale convennero 2500 persone, alle quali si imbandirono con rozza pompa 740 montoni, 22 vacche, 26 vitelli, 300 tra capretti, porcellini e agnelli, 600 galline, 3000 pesci, e si prodigarono nelli intingoli 50 libbre di pepe (Cattaneo).

Il porceddu furria furria (porcellino di latte cotto sulla brace) è un cibo luculliano e a questa vivanda nazionale della Sardegna fan lieta ghirlanda i cignali, i cervi, i tordi lessati [114] col mirto, e le confettare squisite e gli amaretti e cent’altri cibi uno più saporito dell’altro. Talvolta il pranzo sardo è tutto una poesia; dacchè, per esempio, in una delle più alte città montanare, a Tempio, in paese alpino fra i graniti della Gallura, senza sospettare che mare esista in quei paesi, voi vedete imbandire alla mensa accanto al lepre e alle beccaccie, triglie di scoglio, grosse come il pugno e che pur poche ore prima guizzavano nel mare; e ostriche di Terranova così grosse che voi potete fare succulenta colazione con due di esse.

I pastori sardi sogliono fare un arrosto singolare che potrebbesi chiamare sotterraneo. Scavano nel terreno una fossa, vi adagiano un pezzo di carne od anche un animale intiero; lo ricoprono di terra e di questa fanno focolare; dopo alcune ore si scava e vi si trova un arrosto eccellente. Più d’una volta nell’inverno il proprietario di una pecorella smarrita, andando in volta per cercarla, si riscaldò ad un allegro focherello della campagna, dove a sua insaputa stava cocendo nelle viscere della terra quel ch’egli andava cercando.

[115]

Tra i cibi nazionali ricordo il mediolatu, che è latte coagulato e principal cibo dei pastori della Gallura, il coco che è pasta non fermentata cotta sulla cenere; e il pane d’orzo di Patadas, sottile come un cartoncino, largo come un lenzuolo; vero cibo di biblica origine e di biblica semplicità.

In Ozieri mangiai capellini fatti a mano; e ad uno ad uno; al certo una delle più straordinarie e stravaganti prostituzioni del tempo e del lavoro.

Le due cose più curiose della gastronomia sarda sono però il miele amaro e il pane di ghiande.

Il miele amaro si trova specialmente a Monti, ma è proprio anche di altri paesi della Sardegna. È fatto dall’ape comune, ma dall’ape che si ciba d’assenzio e d’altri fiori amari. A chi ripugna dal dolce soverchio, il miele amaro riesce cibo saporito, ed io posso farne fede per mia esperienza. In Sardegna è stimato come cibo tonico e buon amico dei ventricoli stracchi e bislacchi. Questo miele era conosciuto fin dai tempi di Dioscoride, perch’egli parla del miele comune, del miele [116] sardo, del miele pontico e del Mel saccharum e ci dice che il miele sardo è amaro, perchè le api in quel paese succhiano l’assenzio. E davvero che anche al dì d’oggi, specialmente nel nord dell’isola, è questa erba comunissima. Anche Plinio ci racconta che in Corsica si aveva un miele amaro.

Il pane di ghiande è uno dei cibi più curiosi e che deve rannodarsi ad usi di popoli antichissimi; forse ai primi abitatori della Sardegna. Questo pane si prepara nell’Ogliastra, ma specialmente a Baunei, ad Urzulei e a Talana. Si fanno cuocere le ghiande della quercia comune o della quercia sughero per circa otto ore, aggiungendovi acqua in cui si è stemperata un’argilla rossa finissima. Così cotte si mangiano le ghiande sotto il nome di a perra (metà del frutto) ed hanno un colore bruno nero; oppure si impastano con acqua di ceneri di vite e si fanno asciugare i pezzetti sopra lastre di sughero, ravvolgendoli poi in foglie d’arancio o d’altra pianta aromatica; e son queste le ghiande a fette. Tanto le ghiande cotte come il pane di ghiande hanno un sapore di pattona o polenta di castagne della [117] Toscana; certo che mangiandone io trovavo assai più ripugnante l’aspetto che il sapore di questa vivanda singolarissima. Pare che sia però cibo nutriente e salubre, dacchè specialmente a Baunei lo mangiano anche nelle annate d’abbondanza; nel resto dell’Ogliastra invece è cibo di riserva in tempo di carestia, e che ha salvato la vita in epoche diverse a migliaia di abitanti. Io m’ebbi di questo pane per la squisita cortesia del farmacista di Lanusey, signor Agostino Gaviano, abilissimo fabbricatore di vini; e ne ebbi anche dal cortese signor Giuseppe Zoccheddu, segretario comunale di Baunei, e qui li ringrazio del dono gentile e delle molte notizie che mi hanno dato sulla preparazione di questo pane.

[118]

CAPITOLO III.

I proverbi sardi. — Classificazione e statistica dei proverbi. — Le superstizioni studiate nel proverbio. — Virtù, vizi ed usi ricercati per questa via. — L’agricoltura, la medicina popolare e la meteorologia dei proverbi. — Corsa attraverso i proverbi morali, filosofici e satirici.

Nei proverbi e nella poesia popolare di un popolo sta gran parte del suo carattere, e chi volesse tentare una psicologia comparata delle razze umane troverebbe in essi preziosi elementi per tracciare le prime linee del suo ardito lavoro. Noi studieremo i proverbi e la poesia popolare in Sardegna e verremo così a conoscere più da vicino la natura di quelli italiani che nascono e vivono nell’antica Icnusa.

[119]

Nei proverbi d’un popolo voi avete sempre la sua sapienza e i suoi pregiudizi; la sua morale e la sua ironia; che è quanto dire che in questo evangelo inedito e anonimo d’una nazione voi potete trovare il pensiero colle sue malattie; il carattere coi suoi sali. Sia che il pensiero scatti come scintilla improvvisa dal cervello d’un uomo d’ingegno; sia che maturi lentamente come grano nella spiga del granaio; sia che guizzi come lampo nelle lotte amichevoli della conversazione o fra il tintinnio dei bicchieri; o sorga come grido di tutto un popolo dinanzi ad un grande avvenimento; il pensiero non diventa proverbio, se non quando passa di bocca in bocca e perde le asprezze o si aguzza, secondo che è aforismo di morale o arguzia di satira; non diventa proverbio, se non quando, perduto lo stampo dell’individuo, diviene patrimonio di un popolo intiero.

Un uomo di ingegno, innanzi morire, dice e scrive mille pensieri diversi, ma pochi fra questi diventano popolari, pochissimi passano alla gloria immortale del proverbio. Un pensiero di poeta o di filosofo non diventa proverbio, [120] se non incarna in sè stesso una parte dello spirito nazionale, se non s’informa alle tendenze, alle glorie, alla storia intellettuale e morale d’una nazione. Allora dinanzi a questo sublime battesimo del consenso di tutti, il pensiero perde la sua firma e l’autore ne perde per sempre la proprietà; ma divien goccia di sangue che circola nell’organismo di un popolo; moneta che sdruscita dagli anni non porta più immagine di re o di console, ma ha un valore riconosciuto da tutti. I proverbi sono quindi fra i libri sacri d’una nazione, e tu trovi in essi l’aforismo del vecchio che in sè concentra l’esperienza di una lunga vita, l’ingenua parola dell’uomo bambino e la perla escita dalle rosee labbra d’una fanciulla in un bel mattino della sua primavera; tu trovi il morso della satira e l’amara ironia del giovane isterico o dell’uomo stanco d’aver troppo vissuto.

Il canonico Spano ci ha dato una buona raccolta di proverbj sardi, dove ci duole per la storia completa del pensiero di non trovare che pochissimi degli immorali, degli indecenti e dei superstiziosi. Io ne ho fatto una statistica e li ho potuti distribuire in questi gruppi naturali.

[121]

Proverbi filosofici 928
Proverbi satirici 905
Proverbi morali 383
Proverbi medici 102
Proverbi agricoli 38
Proverbi meteorologici 27
  2383

Accanto a questi metterei sette od otto proverbj di pregiudizj che l’illustre Spano ci regalò nella sua preziosa raccolta, e che gli sfuggiron di mano, mentr’egli tentava invano di escluderli dai suoi studj.

E noi, quasi a punirlo della sua avarizia, incominciamo da questi.

Bier de s’abba de sa billellera: vuol dire un pazzo; e l’origine del proverbio è da Sorso, dove si crede esistesse quest’acqua, billellera, che alla sua volta potrebbe esser corrotto da elleboro.

Sa luna est affacca ad s’isteddu, homine que bocchint, o cosa que succedit. La luna è vicino alla stella, uomo ammazzano o disgrazia succede.

Ingenua espressione del sacro terrore che diffonde la luce misteriosa della luna.

[122]

Qui naschet sa nocte de Nadale bardiat septe domus de su bighinadu. Chi nasce la notte del Natale guarda dalle disgrazie sette case del vicinato.

Proverbio religioso che misura il rispetto per uno dei più santi giorni dell’anno.

Deus nos bardet de oju de literadu. Dio vi guardi d’occhio di letterato.

Dice lo Spano che questa è una superstizione che hanno i rozzi e le femminuccie che gli ammaliamenti dei letterati sono più potenti degli altri; ed io aggiungo che è questo un grido selvaggio che in ogni paese si eleva dai bassi fondi della società.

Sonar campaneddas in s’orija, suonar campanelle nell’orecchio.

Proverbio antico fondato nella credenza del volgo che dice, quando uno ha i zuffoli all’orecchio destro, ne dicono bene; al contrario se nell’orecchio sinistro. L’istesso credeva il popolo romano ai tempi di Plinio (Spano).

Su solitariu cantat in cobertura, cosa mala que succedit. Il passero solitario canta nel tetto; qualche disgrazia ci accade.

Proverbio superstizioso di origine romana. [123] Importunæque volucres signa dabunt... (Virgilio, Georg. I. 470). Fra i segni superstiziosi della morte di Cesare fu riferito questo: Aves solitariae in forum delatae. (Spano).

Sos canes urulant, malu signale. I cani urlano, cattivo segno.

Proverbio romano come il precedente di cui è quasi gemello. Obscoenique canes signa dabant. (Virg. Georg. I, 470). Appiano riferisce tra i segni che precedettero la morte di Cesare: canes ululabant ex composito instar luporum. (Spano).

E lo studio dei proverbi superstiziosi della Sardegna è finito; perchè lo Spano, troppo caldo amatore della sua patria, ha voluto che conoscessimo meglio che i pregiudizi, la sapienza e il nobile carattere dei suoi paesani.

Bellissimi infatti sono i cinque proverbj sardi che io ho potuto spigolare fra i 2000 dello Spano, che riguardano l’ospitalità. Son degni d’esser tradotti e segnati nel libro d’oro di un popolo.

Sa domo est minore, su coro est mannu. La casa è piccola, il cuore è grande.

Ad s’istranzu non l’abbaides sa bertula. All’ospite non guardar mai la bisaccia.

[124]

Mossu partidu bene odidu. Boccone diviso fa buon pro.

Mossu partidu appizzigat de plus. Boccone spartito fa più buon pro.

De su pagu, paghittu. Del poco pochetto. Dicesi per indicare il buon cuore, quando si fa un regalo insignificante.

Non semus de cuddas partes. Non siamo di quelle parti.

Proverbio curioso dei Sardi per esprimere un piacere quando fanno un favore pregiandosi dell’ospitalità. Cuddas partes chiamano ogni terra al di là del mare (Spano).

La gelosia, passione di tutti i popoli orientaleschi, è condannata crudelmente dai Sardi nel loro proverbio, belosu ses, corrudu moris; geloso siete, morirete cornuto.

Sull’amore hanno i Sardi bellissimi e caldissimi proverbj, incominciando da questo: Ogni dolore est dolore; ogni sentimentu est dannu; pero non est tantu mannu, que i su perder s’amore; ogni dolore è dolore, ogni angoscia è sventura; ma nessuna è tanto grande quanto perder l’amore. — Son pur belli anche questi altri:

[125]

Amore et signoria non querent cumpagnia, amore e comando non vogliono compagnia.

Amare et non esser amadu est tempus ingannadu, amare e non essere amato è tempo perduto.

Qui de amore se leat, de arrabbia si laxat. Chi si tol d’amore di rabbia muore.

Amore et tussin non si podent cuare; l’amore e la tosse non si ponno nascondere.

S’amore noa que cazzat sa bessa. L’amor nuovo caccia il vecchio.

Ama si queres esser amadu, amate se volete esser riamato.

Fratelli dei proverbj d’amore son quelli sulle donne.

Femina tabbaccosa, femina vitiosa, donna che prende tabacco, donna viziosa.

Inue non penetrat sa femina, mancu su diaulu, dove non arriva la donna, nè manco il diavolo.

Niente plus pestiferu de sa femina; che non ha bisogno di traduzione.

Femina lanza, corriatta; donna magra, forte.

Sa femina est que i sa mela, fora bella [126] et intra puneta: la donna è come la mela, fuori bella e dentro tarlata.

Sa femina est su retàulu. De sa morte et de s’inferru. Pro qui tenet in s’internu. Sas transas de su diaulu. La donna è il fondamento della morte e dell’inferno, perchè cova le massime del diavolo.

So battu et sa femina jughent septe fiados. Il gatto e la donna hanno sette fiati.

Tres cosas sunt reversas in su mundu, s’arveghe, s’ainu et i sa femina. Tre cose sono testarde nel mondo, la pecora, l’asino, e la donna.

Non son certo proverbi galanti, nè son questi i peggiori che i sardi scaglino contro la donna.

Nei suoi proverbi il sardo confessa le sue predilezioni e i suoi vizi. Ottimo cavaliere egli vi dice: S’homine de paga impita, abbaidadilu a caddu, l’uomo di poco valore, guardatelo a cavallo. — Facile alla vendetta e assetato di giustizia vi dice spesso: Justitia pronta, vindicta fatta; e Megus terra senza pane, que terra senza justitia; meglio terra senza pane, che terra senza giustizia. Su perdonare est [127] de Deus, su ismentigare est de macus; il perdonare è di Dio, il dimenticare dei pazzi. — Il sardo adula sè stesso con molta grazia, là dove fa l’elogio degli uomini piccoli: linu muzzu, tela longa; lino corto, tela lunga.

Il rispetto all’autorità, che è uno dei caratteri più salienti del sardo, figura nei suoi proverbi: Contra ad su Re non andat niune. Contro il re non va nessuno — Cum Deus et cum su Re, pagas paraulas. Con Dio e col re poche parole — Sa casaca de su Re iscuru ad quie non la rispectat. Guai a colui che non rispetta la divisa del re; — Sas minetas de su Re si devent timire. Le minaccie del re si devono temere.

Il canonico Spano non ha potuto raccogliere che tre proverbi sardi che parlan del mare; e anche in questa lacuna vediamo fedelmente rappresentata la ripugnanza di quel popolo per l’onda salsa che pure offriva loro tante liete promesse di commerci e di ricchezze. Anzi di questa ripugnanza non solo abbiamo nei proverbi le prove negative, ma troviamo anche quello che dice: andare ad s’imbarcare, e che indica una cosa grave, difficile, complicatissima.

[128]

È singolare la ricchezza di proverbi che parlano della pazienza. È forse perchè questa è virtù difficile ai Sardi, o meglio forse perchè essi ebbero per molti secoli occasioni frequenti per esercitarla? L’arduo problema ai posteri.

Mettete assieme i pochi proverbi da me citati e vi troverete dinanzi già a quest’ora un quadro del carattere dei Sardi, più fedele di quello che traccia l’artista che alla natura aggiunge troppo del suo; un vero quadro come lo vorrebbe Tacito, fatto sine ira et studio. Ma non è qui tutto il tesoro psicologico che possiamo scavare dal vangelo popolare, chè dopo aver veduto il cuore e palpate le carni, i proverbi ci riveleranno anche le foggie del vestito e la varietà delle forme. Vediamo le rivelazioni spontanee che ci offrono sui costumi e la storia della Sardegna.

Qui non hat amigos non andet a festa. Chi non ha amici non vada alla festa. — Non trovandosi locande in molti paesi della Sardegna questo proverbio dice che chi non ha amici sta male.

Faghere sa figura de s’assu de cupas, far la figura dell’asso di cuori. — Vale fare una tristissima [129] figura, e la similitudine è presa da un giuoco sardo in cui l’asso è di nessun valore.

Sos qui ti toccant sa barba ti querent narrer corrudu. Toccarti la barba è lo stesso che dirti cornuto. — Qui troviamo che in Sardegna così come in molti altri paesi maltrattare la barba è un segno d’ignominia.

Sos benes de Don Nofre Foi. I beni di Don Onofrio Fois. — Questo proverbio ha avuto origine da uno straricco del Maghine, il Creso sardo e ironicamente dicesi ad un povero (Spano).

Ingher su brassu de Jorgie Laiosa. Avere il braccio di Giorgia Laiosa. Proverbio preso dalla tradizione popolare di una gigantessa di questo nome.

Non hazu pagadu ancora sa Citade. Non ho anco pagato la città, che è quanto dire non son facchino; perchè questo proverbio ha origine dalla città di Sassari in cui i facchini pagavano un diritto alla Città.

Esser comente Sanctu Johanne ad sa festa, esser come San Giovanni alla festa. — Vale uno ha fatto l’opera e l’altro ha gli onori. L’origine [130] è dalla festa di San Giovanni Battista che fanno i servi di Maria in Sassari nel dì del Santo, giorno della fondazione della Confraternita dei dolori, portano in processione la Vergine, mentre il Santo sta nell’altare (Spano).

Alcuni proverbi ricordano persone e fatti che la tradizione ha smarrito, per cui riesce impossibile interpretare la loro ragione. Così gli scrupoli di frate Giovan Gallo, così la giustizia di Rivalò, così la fortuna di Pietro Feghe; così i bosani citati parecchie volte in proverbi satirici, come in quel che dice fagher comente faghent in Bosa, quando pioet laxant pioer. Far come fanno in Bosa, quando piove lasciano piovere.

Uno di questi però ha infamato per sempre un tale che per giuoco si divertiva a pungere col coltello la moglie Sos jogos de Donnu Jagure che dicesi a chi scherzando punge troppo.

Della passione dei Sardi per le fave trovate le traccie in parecchi proverbi, e tra gli altri in questo: S’anna qui det pioer faa cum lardu, l’anno che pioverà fave con lardo.

Maccu que loa, pazzo da catena. Questo [131] proverbio pare abbia avuto origine da qualche pazzo così appellato, oppure dalla lua (titimalo) che rende stupidi i pesci nell’acqua. Simile a questo avevano i Siciliani il proverbio antico, stultior morycho. Morico è un epiteto di Bacco, al quale facevan i mustacchi col sugo di questo frutto, il moro (Spano).

Sardu villanu, è proverbio della Gallura, di Sassari e di altri paesi settentrionali dell’isola; e lo Spano ne cava un segno che queste son colonie sopraggiunte nell’isola.

Tristu que i s’annada mala, tristo come l’anno 1812, anno fatale per la Sardegna, in cui si provaron tutti i mali della carestia (Spano).

Infine questi due proverbi sullo staccio, vi dicono quanto importante sia l’industria della farina nella casa del sardo — Sedattu meu sedattu, su qui mi faghes ti facto, setaccio mio, quello che mi fate vi faccio — Su zoccu de su sedattu est s’allegria de domo. Il rumore del setaccio è l’allegria di casa.

L’asino, uno dei penati della casa sarda, ha l’onore di dare trentasei proverbi alla raccolta dello Spano; e la filosofia e la morale e [132] la satira attingono bellissime ispirazioni da quel povero animaluccio ridotto in Sardegna a mostrare l’ultimo, l’infimo anello della scala dell’asinità. Il gatto, che è pur il gatto, non ha che dieci proverbi, il cavallo ne ha trentaquattro, la volpe diciannove; per cui nella fauna dei proverbi rimane pur sempre la palma all’asino.

L’agricoltura è bambina ancora in Sardegna; ed io non ho potuto raccogliere che 30 proverbi che la riguardano. Eccovi alcuni dei più espressivi.

Abba et sole, trigu a muntone, subta sa cappa de nostra Segnora. — Acqua e sole, grano in quantità sotto la protezione di Dio nostro Signore.

Quando s’aradu non fundat, su trigu non affundat. Quando l’aratro non affonda, il grano non mette le radici. — Proverbio che vi sembrerà tanto più saggio, quando sappiate che si usa soltanto nel Logudorese dove le terre sono argillose.

Sa fa bettala in infusta et su trigu in asciutu. Le fave seminatele in tempo piovoso e il grano in terreno asciutto.

[133]

S’annu qui hat a pioer faa cum lardu, l’anno che pioverà fave e lardo.

Attunzu ispilidu, baccarzu famidu, autunno spelato, vaccaro affamato.

Iscassia et fogu, saccajos cum piogu, scarsezza di pascoli e calori dell’estate, agnelli coi pidocchi.

Silva manna, fructu minore, selva grande, poco frutto; proverbio sapientissimo.

Dai sa die de Sanctu Larentu mandiga mendulas chentu, dai sa die de Sancta Rughe mundiga chentu nughe. Dal giorno di San Lorenzo (7 agosto) mangiate cento mandorle. Dal dì di Santa Croce (14 settembre) mangiate cento noci. Proverbio economico per significare che a quel tempo son maturi quei due frutti e che non conviene far prima la raccolta.

Sarmentu curtu binnenna longa; ramo corto vendemmia lunga; proverbio che sicuramente vorranno sottoscrivere i migliori viticultori, e che è quasi sinonimo di quest’altro:

Binza manna et paga ua, vigna grande e poca uva.

E l’uva ha questi altri:

[134]

Ua agra binu aghedu. Uva acerba, vino acido.

Non seghes mai ua pioende, non mozzar mai l’uva allorchè piove.

Nei proverbj di tutti i popoli la medicina occupa sempre un posto distinto, ed ora accigliata e con piglio ippocratico ti schicchera un aforismo diagnostico o prognostico; or penetrando nei più segreti misteri della generazione, predice le virtù o i vizj del neonato, or fa da fisiognomista, or insegna l’igiene ed ora il pregiudizio. Fra i proverbi sardi ne ho trovati 102 di medici. Eccovene alcuni dei più interessanti.

Abba currente non fràzigat bentre, acqua che scorre non fa marcire il ventre.

S’appititu et su mezus condimentu de su cibu, l’appetito è il miglior condimento delle vivande.

S’aranzu su manzanu est’oro, su mesu die meighine, su nocte est velenu. — L’arancia la mattina è oro, a pranzo medicina, la notte è veleno. — Proverbio che ha il suo corrispondente nello spagnuolo.

Su bezzu o morit de guta o morit de ruta. Il vecchio o muore di gotta o di caduta.

[135]

Si ti queres sanu abba su vinu, se volete esser sani, inacquate il vino. Proverbio molto igienico nella Sardegna che ha vini spiritosissimi.

Su casu fittu, su pane ispugnatu; il cacio fitto, il pane spugnoso.

Ad su cattarru su carru. Al catarro il carro, cioè lo stomaco pieno. In questo proverbio la rima potè più della sana igiene.

Su dolore pius duru est su morrer de famine. Il dolore più forte è morir di fame.

A sa femina partorza istat sa sepoltura baranta dies abberta. Alla puerpera sta la sepoltura aperta quaranta giorni.

Sa bezza quando benit ad su fogu si offerit. Quando la donna diventa vecchia ha bisogno di fuoco.

Sa frebbe continua finit sos meuddos, la febbre continua consuma le midolle.

Sa frebbe terzana non est toccu de campana. La febbre terzana non fa mai suonar campana.

Sa frebbe quartana sos bezzos bocchit et sos jovanos sanat. La febbre quartana i vecchi uccide e i giovani risana.

[136]

Sa frebbe attunzale o est longa o est mortale. La febbre autunnale o è lunga o è mortale.

Sa frebbe atterat finza su leone. La febbre atterra anche il leone.

Sa frebbe senza sidis, malu signale. La febbre senza sete, cattivo segno.

Furfurinu, paga vida — Passerotto (libertino) vita corta.

Homine in pasu ischini forte, uomo che riposa ha la schiena forte.

S’imbreagadura noe dies durat, una buona imbriacatura nove giorni dura.

Sos cegos hant pius penetra, i ciechi hanno maggior talento.

Conca manna, conca de judiciu, testa grande, testa di giudizio.

Corpus qui non dormit, malaidu sinde pesat, corpo che non dorme, ammalato se alza.

Su corpus istat ad su qui li ponent. Il corpo sta a quello che lo avvezzano.

Dentes biancas, gente sana, denti bianchi, gente sana.

Benzat sa salude siat dai su diaulu, venga la salute, anche sia dal diavolo.

[137]

Dormire pagu vida meda, dormir poco vita lunga.

Ad sos males sa dieta, nelle malattie dieta.

Qui meda mandigat, pagu mandigat; et qui pagu mandigat, meda mandigat. Chi molto mangia, poco mangia; e chi poco mangia molto mangia.

Su mandigare ad contra animu est peccadu mortale, il mangiar contro voglia è peccato mortale.

Su tantu mandigare segat su cabidale. Il tanto mangiare rompe il cuscino (lo stomaco).

Martu marzosu, marzo marcioso; perchè in questo mese la mortalità è grande.

In sole de martu ponet su marcu. Il sole di marzo mette il marchio.

In su mese abrilu non tocches unu pilu — In su mese maju, non lexes su saju. — Nel mese d’aprile non toccare un pelo; nel mese di maggio non toccare il sacco.

Orizi longu, vidale, orizi curtu, vida curta, orecchio lungo, vita lunga, orecchio piccolo, vita corta. — Proverbio che i Sardi hanno comune con molte nazioni.

Dai sa bucca buddit sa padedda, dalla [138] bocca bolle la pignatta; cioè uno che mangia assai sta bene.

Pane bene coctu, faghet bonu ructu, pane ben cotto è ben digerito.

Pane, suighelu bene et coghelu male, dalu ad su cane; suighelu male et coghelu bene, dalu ad quie quieres. Il pane, se lo impastate bene e lo cuocete male, datelo al cane; se lo impastate male e lo cuocete bene, datelo a chi volete.

Pane de cabidauni et de Santuaini, abba calda et bene pesadu. Pane di settembre e di ottobre, acqua calda e ben fermentato.

Su parturire est imbellire, s’allactare est imbezzare. Il partorire è imbellire, l’allattare è invecchiare.

Piccinnu anticipadu, roba de su Chelu, piccino d’ingegno precoce, muore presto. Orazio diceva: Odi puerulos praecoci ingenio e Plinio: Maturae mortis signum juventa senilis (Spano).

Homine pili murtinu o totu bonu o totu malu. Uomo da capelli rossi o tutto buono o tutto cattivo.

Homine pili murtinu, coi altu, uomo dai capelli rossi, uomo doppio.

[139]

Homine pilosu, homine coraggiosu, uomo peloso, uom coraggioso.

Sa salude et libertade non bi hat oro qui la paghet, la salute e la libertà non vi è oro che le paghi.

Si queres viver sanu, pesadi chito su manzanu. Se vuoi viver sano, alzati per tempo.

Su sole de abrile ponet brunchile. Il sole di aprile mette segno.

Su sole de martu lealu de passu, il sole di marzo prendilo di passo, cioè passeggiando o lavorando.

Su sole de martu ponet su nappu et i su de abrile ponet su nappile. Il sole di marzo mette il marchio e quello d’aprile il mascherone.

Titta de costa lacte de substancia, mammelle piccole, latte di sostanza.

Mezus suerare qui non tussire, meglio sudare che non tossire.

I popoli agricoltori senza avere osservatorii meteorologici son però tutti indagatori diligenti delle vicende atmosferiche e nei loro proverbi incarnano i frutti dell’esperienza. Io non ho potuto raccogliere che ventisette proverbi meteorologici, nè tutti hanno un vivo [140] interesse. Eccovi quelli che hanno fisonomia più inarcata.

Arcu de marnano, abba de sera; arca de sero, abba de manzanu. Arco di mattino, pioggia avvicina; arco di sera buon tempo spera. (Per arco di mattino vuol dire arco a levante; e per arco di sera, arco a ponente).

Aeras rujas bentu annuntiant. Arie rosse annunziano vento.

Sa dir de sanctu Callistu

Quand’est asciutta et bentosa,

Annada sicca et belosa.

Quand’est infusta et serena

Annada bona et piena.

Quando nel dì di San Callisto fa vento l’annata è parziale. Se fa pioggia serena la raccolta sarà buona.

Octo dies innantis, odo dies pustis de Sancte Maria ispezzat attunzu. Otto giorni prima, otto poi della Natività della Madonna, principia l’autunno.

Bentu bosanu battit abba, il vento bosano porta l’acqua; cioè il ponente libeccio, così detto perchè Bosa sta a quel punto col Logudoro (Spano).

[141]

Candela qui instinchiddat et faghet cugumeddu, tempus de abba. Candela che scintilla e fa funghi, segno di acqua. Rammenta il verso delle Georgiche: Scintillare oleum et putres concrescere fungos. (Georg, v. 350) Spano.

Frearzu facies facies: il febbraio ha due faccie, cioè è mese incostante, traditore.

Di egual valore meteorologico è quest’altro:

A frearzu lealu quando benit. A febbraio prendetelo quando viene. Questo proverbio poi si applica alle persone moleste o ai mali personali.

Lughia netta, Pascha brutta: Lughia brutta, Pascha netta. Se il dì di Santa Lucia è bello, il Natale sarà nevoso: e se al contrario sarà in neve il giorno di Santa Lucia il Natale sarà bello. Proverbio dei pastori del Logudoro.

Sa luna naschet clara, nocte bella faghet. Quando la luna nasce chiara, fa bella notte. S’intende parlare della luna nuova. Anche Virgilio aveva scritto nelle Georgiche: Pallida luna pluit, rubicunda fiat, alba serenat. (Georg, v. 427).

Monte Sanctu est cuguddadu, in Minerva [142] hat neulore, temporada manna est custa. Monte Santo è coperto di nebbia, come pure il monte Minerva, segno di gran temporale.

Nocte isteddada, die imbruttada, tempo che si cambia di notte non dura.

Nocte isteddada, nie a carrada, notte stellata neve a carri.


Pochi forse fra quelli che metteranno gli occhi su questo mio scritto, avranno la pazienza di leggere queste pagine dedicate allo studio dei proverbi sardi; ma io ogni giorno mi vado persuadendo che la vita circola più attiva e sottile nei meandri capillari, e i più grandi fenomeni della nutrizione si compiono negli ultimi labirinti dei nostri tessuti. E così è appunto dello spirito delle nazioni, che vuol essere studiato più nei sentieri che nelle vie maestre, più nelle piccole venuzze delle membra che nelle grandi arterie del tronco. Che se questo mio ragionamento non valesse ad infondere in voi la mia stessa persuasione e [143] a fortificare la vostra pazienza, saltate inanzi; perch’io non ho ancora finito la mia escursione fisiologica attraverso i proverbi della Sardegna.

I proverbi morali son quasi sempre gli stessi in tutte le nazioni civili; e se quei di Sardegna hanno una tinta loro propria, la attingono dal sentimento religioso. Farei eccezione per il bellissimo motto: abba abba, vino vino (acqua acqua, vino vino) che è quasi una copia dello spagnuolo pan pan, vino vino e che appunto è ripetuto spesso da due popoli d’indole diversa ma che si distinguono per un grande amore alla verità, per un abituale franchezza. Eccovi un piccolo saggio di proverbi morali della Sardegna:

Qui hat unu amigu, hat unu tesoro; che non abbisogna di traduzione.

Faghidebos amigos, fatevi amici; è quasi un testamento che lasciano i Sardi ai loro figli.

Sos amigos qui siant nè meda, nè nudda. Gli amici nè molti, nè nessuno.

Un anzone guastat totu su masone. Una pecora marcia ne guasta un branco.

[144]

De s’arrabbia de su sero, arribbadinde ad su manzanu. Della rabbia di sera conservatene alla mattina.

Iscura cudda banca qui non bi hat barba bianca; misera quella tavola (casa), dove non vi è barba bianca.

Su bocchire toccat ad Deus, l’ammazzare tocca a Dio.

Su bonu fagher non morit mai. Il ben fare non muore mai.

Non serres sa bucca de quie ti queret bene. Non chiuder la bocca di chi ti vuol bene.

Est mezus dolu in buscia qui non dolu in coro. È meglio aver dolore nella borsa che nel cuore.

Non dispreties a niunu, nen cosa in terra amena. Non disprezzare nessuno nè cosa alcuna in terra altrui.

Quiem su fizu non corregit, su fizu odiat. Chi non corregge il figlio, odia il figlio.

Miseru babbu et mama qui fidat fizu a teracca, infelici quei figli che affidano alle serve i figli.

Su geniu faghet totu, il genio fa ogni cosa; proverbio che aveva sempre in bocca Biante. (Meleti to pan, assiduitas omne) Spano.

[145]

Gente devota non la cretas tota, gente devota non la crediate tutta. — E una fortuna che in questo caso la rima, che storpia in molti proverbi la verità in servizio del suono, sia riuscita invece a trovare un arguta verità.

De s’homine est su errare, de su diaulu su perseverare. Dell’uomo è prender sbaglio, del diavolo è perseverar nell’errore.

Su mezus remediu ad sas injurias est s’ismentigu. Il miglior rimedio alle ingiurie è l’obblio. — Proverbio generoso, fratello dell’altro spagnuolo: el olvido es el remedio de las injurias la dimenticanza è il rimedio delle ingiurie.

Qui trabagliat pregat, chi lavora prega.

Qui non ischit pregare, si qu’ andet a mare. Chi non sa pregare, vada in mare.

Sa buglia est bella quando totus rient. La burla è bella quando tutti ridono.

Mezus bruiare una citade qui non ponner una mala costumen. È manco male abbruciare una città che mettere una cattiva usanza.

Qui dat prestu dat ad duas boitas, chi dà presto, dà due volte.

[146]

Sa die de hoe est su mastru de cras. Il giorno d’oggi è il maestro di domani.

È vero che io ho scelti i migliori fra i proverbi sardi; ma è anche verissimo che questi pochi sono informati da un alto concetto dell’umana responsabilità; sono nobili, elevati, virili. E i Sardi li insegnino ai loro figliuoli, con essi li commentino; che questo è un vangelo e dei migliori.


Tipo dei proverbi filosofici, così com’io li intendo, sarebbe questo: Leada sa causa, mancat s’effectu, tolta la causa, manca l’effetto; ma più volte il proverbio, invece di affermare un domma logico come questo, s’addentra nei segreti delle leggi sociali o insegna l’arte della vita; e diviene precetto di politica o di prudenza; altre volte degna di sorridere di una leggera ironia e s’avvicina allora ai proverbi satirici. Quand’anche non adottiate la mia classificazione naturale dei proverbi, date uno sguardo a questi che scelgo fra i migliori dei 928 [147] da me raccolti nella ricca collezione dello Spano.

S’abba bessit dai su mare et ad su mare torrat. L’acqua esce dal mare e al mar ritorna.

S’abbilastru non si trattenet a cazziar e musca. L’aquila non si trattiene a cacciar mosche.

S’ainu s’abbigat de su beranu de qui qu’ est passadu. L’asino s’avvede della primavera dopo passata.

In s’arovore ruta ognuno bi faghet linna. Nell’albero caduto ognuno fa legna.

Iscura s’arzola qui timet sa formigula. Meschina l’aja che teme la formica.

Barberi jovanu et mèigu bezzu, barbiere giovane e medico vecchio.

Qui dormit a pizzinnu pianghet a bezzu. Chi dorme in gioventù piange vecchio.

Niune si nerzat biadu finas qui siat interradu, nessuno si dica beato finchè non sia seppellito.

Sa coghine minore faghet sa domo manna. La cucina piccola fa la casa grande.

Pro male cojiuadu, mezus una persona sepultada; per essere una persona mal maritata è meglio morta.

[148]

Mezu conca in domo sua qui non coa in domo anzena. Meglio testa in casa propria che coda in casa altrui.

In conca macca pagu durat berritta; in testa pazza poco dura il berretto.

Chentu concas, chentus berritas; cento teste, cento berrette.

Sa consientia est qu’ et i su cori cori, quie lu timet et quie non. La coscienza è come il solletico, chi lo teme e chi no.

Su dinari de sos locos si qu’ andat in fustes et roccos. I denari de’ pazzi se ne vanno in bastoni e truccioli.

Qui hat dinari, pastinat binza in sa codina. Chi ha quattrini pianta la vigna nella roccia.

Mezus dare lira a mastru qui non soddu a dischente. Meglio dare lira a maestro che un soldo a garzone.

Faedda pagu pro non ti fuddire meda. Parla poco ed ascolta assai, che non fallirai.

Iscuru a quie confidat in homines. Misero colui che confida negli uomini.

Pra connoscher s’homine est precisu mandigare unu saccu di sale cumpare. Per conoscere [149] l’uomo bisogna mangiare con esso un sacco di sale.

Cum sos mannos ista coment et in su fogu, ne tantu accurzu, nen tantu allontanu. Coi grandi state come al fuoco, nè tanto lontano, nè tanto vicino.

Queres benner Paba, ponedilu in conca, vuoi diventar papa, mettitelo in testa.

Inuè est su Paba in cuddae est Roma. Dove è il papa, ivi è Roma.

Poverittu, allegrittu, poveretto, allegretto.

Sa povertade est plus dolorosa ad sa bezzesa. La povertà è più dolorosa nella vecchiezza.

Tempus temperat, il tempo tempera.

Sa vida est que unu fiore, benit et passat. La vita è come un fiore, viene e passa.


E se ora volete accompagnarmi nel campo più ameno dei proverbi satirici o ironici, che vogliate chiamarli, vi prometto di non abusare della vostra pazienza, benchè io ne abbia raccolti 905.

[150]

Abba passada non tirat molinu, acqua passata non tira il molino.

S’ainu non connoschet sa coa finzas qui non la perdet, l’asino non apprezza la coda se non quando la perde.

S’avaru non faghet bene si non quando morit, l’avaro non fa bene se non quando muore.

Andadu ses azu, torradus ses chibudda, sei andato aglio e sei ritornato cipolla.

Basa mattones et caga diaulus, bacia i mattoni e caca diavoli. Dicesi dei bacchettoni.

Bestidu su bastone paret unu barone, vestito il bastone sembra un barone.

A tempus ismentigadu si cojuant sas battias. A tempo dimenticato si maritan le vedove.

Su bentre non lo bidet niunu. Il ventre non lo vede alcuno. Si dice di chi risparmia nella tavola per non far trista figura.

Bentre pieno cantat et non camija bianca. Pancia piena canta e non la camicia bianca.

Mezus birbante qui non macu, meglio birbo che pazzo.

Su bizonsu faghet sa bezza a currer. Il bisogno fa correr la vecchia.

[151]

Bucca besada non perdet fortuna; per cui non occorre traduzione.

Caddu et muzere in podere de quie dat; il cavallo e la moglie secondo che cadono.

Ad su caddu s’isprone, ad sa femina su bastone, che è meglio non tradurre.

Non tinde sonant de campanedda in culu, non ti suonano campanello in culo. Dicesi di uno che non inclina al sacerdozio.

Qui cum su cane si corcai, puligosu sinde pesat. Chi si corica coi cani, si leva colle pulci.

Cavagliere poveru quircat pabiros bezzos, cavalier povero cerca carte vecchie.

Sa chezura de binza faghet sa ruffiana. La siepe della vigna fa la ruffiana.

Azzurradore de sa chijina et isbaidore de sa farina; economizza la cenere e getta la farina.

Don senza din balet quatrin; din senza don balet denaron. Proverbio bellissimo e che tradotto perde ogni brio.

Qui andat a furare, su qui li dant leat, chi va a rubare prende quel che gli danno.

Bènnida s’hora càzzadi fora, venuta l’ora, andatevene fuori.

[152]

Qui semenat ispinas non andet iscalzu. Chi semina spine non vada scalzo.

Ispina subta ludu; spina sotto il fango; frase pindarica con cui si stigmatizza un maligno.

Qui dormit in lectu anzenu, non dormit quantu queret. Chi dorme in letto altrui, non dorme quanto vuole.

Leges meda, pobulu miseru, molte leggi, povero popolo. Quanta sapienza in questo proverbio!...

Su machina hat trinta sex genias, et ognunu tenet su pagu sou. La pazzia è di trentasei specie ed ognuno ne ha il suo poco.

Si andas a mare non incontras abba, se vai al mare non trovi acqua. L’ironia e la satira non possono davvero andare più in là di questo proverbio.

Monza de Ecclesia, demoniu de foghile, monaca di Chiesa, demonio di casa.

Sos padres intrant senza si connoschere, vivent senza si amare, morint senza si piangher. I frati entrano senza conoscersi, vivono senza amarsi, muoiono senza piangersi.

Su paladu est minoreddu, et que falat palattu [153] et casteddu. La bocca è piccola, ma basta ad ingoiare palazzo e castello.

Vida de padre, vida de mandrone, vita da frate, vita di poltrone.

In sos padres non bi hat ite fidare. Nei frati non vi è da fidarsi.

Sa pedde tua non la die comporare in debadas, non comprerai la tua pelle gratuitamente.

Qui pretat, unu restat in camija et i s’ateru nudu. Di due che litigano uno resta in camicia e l’altro nudo.

Su ruffianu hat semper mala paga. La spia ha sempre cattiva paga.

Devotione de sagristanu, consientia de moralista, deunzu de coghineri. Divozione di sagrestano, coscienza di moralista e digiuno di cuoco.

[154]

CAPITOLO IV.

La poesia popolare in Sardegna. — La giunta municipale di Bortigiadas. — Gli improvvisatori e le loro lotte poetiche. — Poesie amorose. — Poeti sacri, antichi e moderni. — I misteri. — Poeti epici ed elegie. — Satire festevoli ed amare. — Poesie bernesche. — Poesie sardolatine dell’abate Madao.

La Sardegna ha una ricca vena di poesia popolare; e nella svariata forma delle vesti e nei costumi e nel linguaggio pittoresco e nell’accento concitato e prorompente, e nella danza e nelle canzoni tu ti accorgi subito che è quello un popolo che sente le delizie dell’ideale e sa vestire di splendide forme le passioni del cuore e le nebulose aspirazioni della speranza. La poesia popolare [155] di Sardegna ha tutti i difetti e tutte le virtù dei frutti agresti, cresciuti senza le carezze dell’arte; ma venuti fra le rugiade e gli aquiloni, fra i diluvii del temporale e l’arsura dei lunghi soli; è poesia che ha profumo e asprezza, licenza di forme senza confini; e balzi improvvisi, più arditi di quelli del capriolo e del muflone; or monotona e triste, ora ardente e lasciva. Essa è ispirata quasi sempre dall’amore e dalla religione; la prima gioia e l’ultima speranza della vita; e trovate più d’un poeta, erotico nella giovinezza, divenuto poi salmista; Tibullo trasformato in Manzoni coi primi capelli bianchi. Le bellezze della natura e la storia del passato ispirano di raro il poeta sardo; egli canta le grazie della sua donna o la vita dei santi; qualche volta scherza e morde, nè la vena satirica è in lui sterile di amari inchiostri.

È difficile trovare una poesia nazionale che abbia più ricca natura e arte più povera della sarda; molti dei poeti suoi sono contadini, o pastori; spesso analfabeti. Cantano come l’usignuolo e la capinera, e se alcuno [156] non è presente che raccolga quelle ispirazioni, esse vanno perdute come le note di quegli uccelli silvestri, e la brezza dei monti le trasporta lontano e le disperde nel grande oceano della natura; da cui ci viene e a cui ritorna ogni bellezza.

Altre volte il poeta muore povero e sconosciuto come era nato, ma i suoi versi si tramandano senza nome d’una in altra generazione; sicchè anche al giorno d’oggi li senti ripetere dai montanari e dai pastori. Sia lode allo Spano, al Pischedda e agli altri che hanno raccolto quei tesori di poesia che finora furono affidati ai venti o che rimasero nascosti nell’oscurità di una valle, nel nido d’una capanna solitaria. Anche il Maltzan nella sua ultima opera sulla Sardegna ha studiato con molto amore e con finissimo gusto artistico la poesia popolare dei Sardi.

Anch’io ho udito molte canzoni popolari, anch’io ho trovato nel mio viaggio molti e molti che il volgo non chiamava poeti, solo perchè al loro linguaggio pittoresco e fantastico mancava la rima; ma che lo erano nel senso più sublime della parola. A Tempio [157] si presentò dinanzi alla Commissione d’inchiesta la Giunta municipale d’uno dei villaggi più oscuri e più dirupati della Gallura. Erano tre montanari dai volti abbronziti, con capelli e barba vergini come le loro foreste, col volto scarno, solcato come i graniti delle loro montagne, coll’occhio acuto come le loro aquile; gente fiera e semplice, calma e forte. Uno di essi prese la parola e con un linguaggio di biblica bellezza lamentò la miseria del suo villaggio, implorò il soccorso del Parlamento; dipinse con lirico ardimento l’abisso che separava la loro povertà dalla nostra potenza. Così potessi io aver stenografato quel suo discorso poetico, eloquente, tenerissimo.

Eccovene in ogni modo la pallida ombra: «Giunse sulle cime dei nostri monti la lieta notizia che uomini mandati dal Re e dal Parlamento, erano venuti fin qui a riconoscere i bisogni delle popolazioni; e noi siamo venuti da Bortigiadas per stringervi la mano e ringraziarvi a nome dell’ultimo, del più povero dei villaggi della Sardegna, per i patimenti che avete sofferto nel vostro viaggio, per tutto ciò che farete per noi. Bortigiadas è il più [158] infelice paese del mondo; non ha strade, non ha scuole; è isolato dal consorzio degli uomini; la neve nell’inverno ci fa prigionieri; nell’estate i torrenti ed il sole ci rubano spesso le poche spighe che abbiamo seminato. Infelice chi nasce in Bortigiadas! Malo Spirito Santo vi ha illuminati e voi siete venuti qui a vederci, e a riparare ai nostri mali. Accettate questo scritto in cui vi parliamo dei nostri bisogni; studiateli, e vi assicuro che noi insegneremo alle donne di Bortigiadas i vostri nomi, e le madri insegneranno ai loro figliuoli a benedirli. Non vi preghiamo per noi: siamo già vecchi, abbiamo già sofferto e vissuto abbastanza; noi presto riposeremo nella pace del nostro piccolo cimitero; noi vi preghiamo, noi vi scongiuriamo pei nostri figliuoli che hanno ancora dinanzi un lungo avvenire. Che se voi non ascoltaste le nostre preghiere, oh infelici tre volte quelli che nasceranno in Bortigiadas!»

E quando quel buon vecchio, che era commosso fino alle lagrime, si accomiatò da noi e coi suoi compagni ci ebbe baciate le mani, noi lo accompagnammo fino alla porta; ed [159] egli, alzando il braccio con veneranda e olimpica maestà, ci disse: Che Dio vi benedica, che lo Spirito Santo vi illumini! Anch’io era commosso e pensavo alla ricca vena di poesia che è nascosta nel popolo sardo.

La Sardegna ha molti improvvisatori, e il più spesso son contadini che danno sfogo al loro estro poetico nelle feste sacre o nelle fiere, senza per questo far pompa ciarlatanesca o commercio dei loro versi. Più che il guadagno li stimola l’amore dell’arte, li sprona l’alloro della vittoria. Come nei tempi dell’Antica Grecia convengono alle feste dei loro monti e delle loro valli per contendersi il primato della poesia; e fra essi siede a giudice un sacerdote o un altro improvvisatore emerito. Il parroco d’un villaggio, Melchior Dore, quello stesso che pubblicò nel 1842 un epopea Sa Jerusalem victoriosa, ebbe spesso la palma dell’improvvisazione, come pure se la guadagnò più volte un poeta di Osilo che aveva lo stesso cognome dell’epico curato, Pietro Dore.

Più d’una volta la sentenza del giudice è proclamata in versi improvvisi.

[160]

Dogunno si la boghet dai testa[10]

Chi Pedru inoghe su panno hat leadu,

Cando ch’a Tomas Satta ch’hat bogadu

Alteros che nde bogat in sa festa.

Ognuno se lo levi dalla testa che Pietro qui ha preso il panno[11], quando ha messo fuori Tommaso Satta altri ne mette fuori nella festa.

Questo Tommaso Satta, che qui compare in questo certame poetico non è che un contadino di Ploaghe, morto nel 1823, ed uno dei primi poeti e improvvisatori della Sardegna; ma le sue poesie più che amorose sono lascive.

[161]

Melchior Murenu è un altro improvvisatore sardo fra i più celebrati ed era cieco; egli aveva un rivale potente in Pietro Cherchi di Tissi, cieco e poeta anch’egli. Questi, secondo quel che ce ne racconta il Maltzan, era così infocato e rapido nel suo estro, che spesso era quasi involontariamente trascinato a dettar versi. Una volta, trovandosi presente a una lotta fra due improvvisatori, ad un tratto si slanciò fra essi, gridando:

A su zegu dade logu

E cantemos totos tres

Ca mi bessin dai pes

Fiammaridas de fogu.

Fate posto al cieco e cantiamo tutti tre, che mi escon dai piedi scintille di fuoco.

E quel cieco ardente tirava innanzi su questo stile, improvvisando strofe a josa. Per la psicologia è curioso il sapere che questo povero cieco aveva perduta la vista a due anni, ciò che non gli impediva di cantare nei suoi versi le svariate bellezze delle fanciulle del suo villaggio.

Un altro illustre improvvisatore nel genere [162] erotico e lirico ebbe la Sardegna in Francesco Cesaracciu di Ploaghe, analfabeto, morto nel 1803; e a questo poeta è a mettersi vicino il gesuita Matteo Madau, profondo filologo, morto nel 1800, il quale cominciava in questo modo una delle sue più celebrate poesie amorose:

Lassami, amore in sussegu

Ca ses pizzinu traitore

Non bi jogo pius, amore.

Ca mi das colpos de zegu.

Sunt bellas sas artes tuas

Faghes de su bell’in cara,

E mi trappassas insara

Su coro e pustis tis cuas

Mil’has fatt’un’otta e duas

Bene conosco s’errore.

Lasciami, amore, in pace, che tu sei un fanciullo traditore, non giuoco più, o amore, che mi dai colpi di cieco. Son belle le tue arti, mi fai il bello in faccia, ma mi trafiggi in cuore e poi ti nascondi, me l’hai fatta una e due volte, ben conosco l’errore.

Anche Bosa ebbe un grande improvvisatore in Giovanni Maria Pintus, quasi contadino, che moriva nel 1857 e che amava cantare l’amor felice, a differenza degli altri colleghi [163] suoi che effondevano più spesso le loro liriche aspirazioni in lamenti erotici, e a differenza sopratutto del suo paesano Gavino Passino (morto nel 1804) che alla sua lira amorosa non aveva che la corda di Geremia. E col Passino sono da mettersi insieme Paolo Massa di Bonorva, vivo anche oggi, e il medico Antonio Manchia di Oschiri (morto nel 1854) e il vecchio Pietro Pisurgi (morto nel 1799).

Dalle poesie improvvisate dei Sardi mi è facile passare alla loro poesia erotica, che è fra le più ricche di quel paese; e le eruzioni del verso improvviso sono più facili là dove il suolo è sparso di vulcani e dove ribolle profonda e tenace la lava d’amore.

Eccovi un saggio d’una delle più antiche poesie amorose, di cui è ignoto l’autore. Il tema è questo:

Non ti mi poto olvidare

Sende de me veru accisu,

Sempre et cando est prezzisu

Columba! de t’istimare

Io non ti posso dimenticare, essendo tu, parte intima del mio cuore, e sempre io son costretto, o colomba, ad amarti.

[164]

E la prima strofa suona così:

Sempre ti tenzu in su coro

Sempre di jutto in sa mente,

Continu t’hapo presente,

Non mi olvides, melà e oro,

Tue ses veru tesoro!

Su veru incantu et majïa!

Chi non vid’hapo, bella mia,

Alter’in ojos che tue,

Pro custa candida nue

Non ti mi poto olvidare.

Ti tengo sempre nel cuore, sempre ti porto nella mente, di continuo t’ho presente, non mi dimenticare, mela d’oro, tu sei vero tesoro, un vero incanto e magia, che io non ho, bella mia, altri negli occhi che te, per questa candida nube io non ti posso dimenticare.

Antichissimo è pure questo lirico battibecco fra due amanti:

Convertidas sunt in iras

Sas amorosas fiamas,

Isconzas si sunt sas paghes

Non ti miro, nè mi miras,

Non ti bramo, nè mi bramas,

Su chi ti fatto mi faghes

Non t’aggrado, nè mi piaghes,

Ti nd’infadas, mind’infado,

No m’aggradas, ni t’aggrado

Ambos hamos cumbinadu.

Sono convertite in ira le amorose fiamme, rotte son le paci, io non ti guardo, nè tu mi guardi, non ti bramo, nè mi brami, ciò che ti faccio e tu mi fai; non ti piaccio, nè mi piaci; tu ti secchi di me, io mi secco di te; non mi piaci, nè ti piaccio, ambedue andiam d’accordo.

[165]

Possiam darvi invece il nome del poeta (Francesco Serraluzzu di Cuglieri) di questa serenata che l’amante canta alla porta della sua bella dormente.

Isculta, bella su cantu

O virgine, tota fiore,

Ch’est bennid’a ti cantare

Attrividu benz’a tantu

In cumpagnia e amore

Ista notte a t’ischidare

Ai custu cantu t’ischida,

Virgine bella e dechida,

Virgine bella e dechida!

Ascolta, o bella, il canto, o vergine, tutta un fiore, che venuto a cantarti, vengo ardito a tanto in compagnia d’amore questa notte a svegliarti, a questo canto ti sveglia, vergine bella e graziosa, vergine bella e graziosa.

Il Padre Lucas di Pattada (morto nel 1829) è uno di quelli che cantò santi e amore sulla stessa lira e vedete quanto grazioso sia questo suo saluto alla bella:

Donosa Elisa mia!

Innantis de mi ponner in su mare

Mandare ti cheria

Un imbasciada pro di salutare.

Sas dies passo tristas

Ca non isco, donosa, coment’istas

Non mi poto allegrare

[166]

In su ritiru, ca non bido a tie,

Mi pongo a ti chircare

Faltu de sas montagnas nott’e die

Chirco litos e mattas

Clamand a tie, Elisa, e non t’agattas.

Graziosa Elisa mia; prima di mettermi in mare ti vorrei mandare un messaggio per salutarti. Passo tristi i giorni, perchè non so, cara, come stii, non mi posso rallegrare nel ritiro, perchè non ti posso vedere. Mi metto a cercarti per le montagne notte e giorno, cerco lande e macchie, chiamando te, Elisa, e non ti trovo.

E perchè possiate fare un prezioso raffronto, eccovi un altro saluto all’amata del poeta vivente Ignazio Sanna di Cuglieri:

Oh triste despedida

So chi fatto dai te, columb’amada!

Est zerta sa partida,

Ma pius che inzerta sa torrada

So zertu de andare,

Pero non isco cand’hap’a torrare.

O triste commiato quel che faccio da te, colomba amata, è certa la partenza, ma più che incerto è il ritorno. Son certo d’andare, ma non so quando avrò a tornare.

Pietro Cherchi[12], quel povero cieco che [167] abbiamo già conosciuto, ci ha lasciato una delle più belle poesie amorose: è il lamento d’un amante tradito:

Ojos, coment’istades

Pasados, e de coro non pianghides?

Cum piantu restades,

Ca sa chi tant’amades non bibides

Cum piantu restades,

Ca non bidides sa chi tant’amades

Restades cum piantu

Ca non bidides sa ch’amades tantu

Sa chi tant’imprimida

Tenizis in sa nina cumpassiva,

Ite piaga cumplida!

Incrudelida piaga ezzessiva

Ite piaga cumplida!

Ezzessiva piaga incrudelida

Cumplida ite piaga!

Incrudelida ezzessiva piaga

Custa paga hapo tentu

In ricompensa de tantu servire!

Su crudele turmentu!

Pro mi occhire fele violentu

Su turmentu crudele!

Pro mi occhire violentu fele.

Occhi come state pacati e di cuore non piangete? Rimanete in pianto che non vedete quella che tanto amate. Con pianto restate chè non vedete quella che tanto amate. Restate nel pianto che non vedete colei che tanto amate.

Quella che tanto impressa tenevate in cuore appassionato. Qual piaga compiuta! Una piaga eccessiva e incrudelita. Qual piaga compiuta! Eccessiva piaga incrudelita. [168] Qual piaga compiuta! Una eccessiva piaga incrudelita!

Questa mercede m’ebbi per tanto servire, un crudele tormento, per uccidermi un fiele violento, un crudele tormento; un tormento crudele, un fiele violento per uccidermi.

Fra i poeti amorosi il Maltzan chiama Giorgio Filippi di Bitti (morto nel 1838) il poeta delle signore, distinto per la tenerezza dei suoi pensieri e i lusinghieri accenti rivolti alle figlie d’Eva. Altro poeta amoroso è un cappuccino, Antonio Giuseppe Pirisina di Ploaghe (morto nel 1834) imitatore fortunato di Tibullo. Vicino ad un capuccino ci duole dover mettere il nome di una gentile poetessa di Sassari, che scrive sotto il nome semi-incognito di Donna Maria Grazia M. e che canta soavemente amori felici e dolci tenerezze del cuore.

Lirica e poesia amorosa sono in Sardegna quasi una cosa sola; e fra i più antichi dei lirici può collocarsi Antonio Delogu, contadino di Tissi, che scrisse in versi appajati e rimati due a due; forma che i Sardi chiamano sinfonia.

Sul principio di questo secolo brillava fra i poeti sardi un nobile campagnuolo, pressochè [169] analfabeto, ma ricco di cuore, di poesia, e di quattrini, tre cose che vanno ben di raro insieme. Nella stessa epoca era ritenuto principe dell’improvvisazione lirica l’analfabeto Francesco Alvaru di Berchidda, ma di lui sgraziatamente poco ci è rimasto. Molti altri lirici e poeti erotici potrei nominare, ma lo spazio non mel consente e rimanderò alle raccolte dello Spano, del Pischedda e di altri, e all’opera di Maltzan.

La poesia sarda, dopo l’amore, canta i beati del Paradiso, le feste della Chiesa cattolica e i santi fervori del sentimento religioso. Più d’una volta lo stesso poeta è negli stessi versi innamorato delle donne e del cielo e le due corde dell’amore e della religione vibrano unissone. Miglior esempio di questo dualismo estetico non saprei trovare che nella Sa femina onesta del Padre Cubeddu delle Scuole Pie, nato a Patada nel 1748 e morto nel 1829. Eccovene alcune strofe, alle quali metterò di contro una bella traduzione italiana fatta da un altro padre e letterato sardo, l’abate Tommaso Pischedda.

[170]

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

Iscultami benigna, Clori hermosa

Hymnos de alabanzia hap’ad cantare;

Pro qui de te Sardigna andet fastosa,

Una corona t’hapo ad praeparare

Facta non de giacintu, non de rosa,

Qu’in pagu tempus si solet siccare:

Ma t’hapo ad praeparare una corona

Coglida frisca frisca in Helicona.

Ater cantet de te, nympha dechida,

Qu’andant cum tegus gratias et bellesa;

Ater s’indole bella favorida

De talentu, de briu et gentilesa,

Ater qu’in logu nobile nasquida,

In mesu ad sas delitias, et grandesa,

Qui ses distincta, et pagas nd’has eguales

In benes de fortuna et naturales.

[171]

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

M’odi benigna, deh! Clori vezzosa

Inni di gloria sol ti canterò;

Perchè Icnusa di te vada fastosa,

Un serto al crine t’apparecchierò

Non di giacinto o di purpurea rosa,

Che l’uno e l’altra inaridir si può,

Intesserò al tuo crine una corona

Colta subito fresca in Elicona.

Altri canti di te, ninfa graziosa

Che teco van le grazie e la bellezza;

Altri la bella tempra avventurosa

D’ingegno, di valor, di gentilezza,

Altri la stirpe nobile e fastosa,

Le tue delizie e insiem le tue grandezze

Che ben sì chiare, e poche pari avesti

Di sorte e di beltà quando nascesti.

[172]

Neren’ipsos qui ses in tantu honore

Quant’un alta Dïosa nde mèritat,

Neren’qu’ in oyos tuos rïet Amore;

Neren’qu’ in larar sa rosa t’habitat,

Su qui ti dat resaltu, et pius valore

Est sa virtude qui ti nobilitat,

Virtute bella in anima costante

Ti faghet praetiosa que diamante.

Su qu’est in te de plus surprendente

Est qui de sas grandezas posta in mesu,

Ti conservas que turtura innozente,

Qui de ogni bruttura bolat attesu,

Ses bella, ses modesta, ses comente,

Giardinu amenu de muros defesu,

Dezente allegra, forte et invincibile

Que roca in altu mare inaccessibile.

Ses que lughe qui exit de Oriente,

Passat in s’horizonte bella et pura;

Toccat su mare, et non s’infundet niente,

Toccat su monte, et non si parat dura,

Passat in fogu, et nie, indifferente

Non s’infrittat, non brujat, nè hat paura

Qui l’appizzighet macula nisciuna

De quantas be i nd’hat subta sa luna

. . . . . . . . . . . . . . . .

[173]

Dican pur che salisti a tant’onore

Quanto mai s’abbia vergine vezzosa,

Dican che gli occhi tuoi ridon d’amore

Ch’hai sulle labbra la vermiglia rosa,

Ciò che crescon i tuoi pregi e il tuo valore

È sol virtù ch’è ben divina cosa

Alma virtù che in anima costante

Ti fa preziosa al par dell’adamante.

Ciò che s’ammira in te di più parvente

Si è, che mentre grandeggi in tanta altura,

Ti serbi ognor qual tortora innocente,

Lunge volando d’ogni rea bruttura;

Sei pur bella, modesta, sei ridente,

Qual ameno giardin cinto di mura,

Tu sì lieta, gentil, torre saldissima

Sì, come rupe in alto mare altissima.

Luce tu sembri ch’esce dall’Oriente,

Che passa in l’orizzonte bella e pura,

Entra nell’onda e bagnar non si sente,

Tocca marmi e macigni e non s’indura,

Sul gel passeggia, e sulle bragie ardente,

E non arde, non gela, nè ha paura

Che si veggia bruttar da labe alcuna

Fra quante macchie v’ha sotto la luna.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

[174]

L’abate Tommaso Pischedda, che ha messo questa poesia fra i Canti popolari dei classici poeti sardi, dice che «siccome la maggior parte delle poesie del Padre Cubeddu si aggirano su temi profani, e poco interessanti al nostro fine, noi ce ne passeremo, e daremo tra tutte la preferenza a quella che tratta felicemente un tema cotanto nobile, qual si è l’onestà d’una sarda donzella che serba intemerato il giglio castissimo della sua verginità.» Noi però, chiedendone licenza al colto abate, confessiamo di sentire nei versi castissimi del Padre Cubeddu distintissimi i due profumi dell’ambra e dell’incenso, dell’harem e della chiesa; cose e luoghi che nel mondo dell’arte non son poi tanto lontani come da molti si crede.

I canti sacri e popolari della Sardegna son molto antichi, innumerevoli come le arene del mare, e per la più parte di autore ignoto. La pietà dei fedeli li ha raccolti; e ogni villaggio ha i suoi prediletti, così come ha i suoi santi particolari. Eccovi un saggio di queste poesie, in onore di Sant’Antioco, il martire di Sulcis.

[175]

De sa Cresia Santo honore

Terrore de su Paganu

Sant’Antiogu Sulcitanu

Siades nostru intercessore.

Cumparzistis in s’Oriente

De mama jamada Rosa.

Ch’in sa fide fervorosa

Bos educat santamente

Comente e sole lughente

Diffundistis s’isplendore.

Onore della Santa Chiesa, terrore del Pagano, Sant’Antioco sulcitano, siate nostro intercessore.

Nasceste nell’Oriente da una madre chiamata Rosa, che nella fede fervorosa vi educò santamente, come un sol lucente diffondeste lo splendore.

Antichissima deve essere l’invocazione dell’angelo custode alla culla del bambino e che il canonico Spano, già settuagenario, udì dalle labbra di sua nonna:

Su lettu meu est de battor cantones

Et battor anghelos si bei ponen,

Duos in pes et duos in cabitta

Nostra Segnora a costazu m’ista

E a mie narat, dormi e reposa

No hapas paura de mala cosa,

No hapas paura de malu fine.

[176]

S’Anghelu Serafine

S’Anghelu Biancu

S’Ispiridu Santu

Sa Virgine Maria

Tote siant in cumpagnia mea.

Anghelu de Deu

Custodiu Meu

Custa nott’illuminame!

Guarda e difende a mie

Ca eo mi incommando a tie.

Il letto mio è di quattro angoli, e quattro angeli vi si mettono, due ai piedi e due alla testa. La Nostra Vergine mi sta vicino e mi dice: Dormi e riposa, non aver paura di cattive cose, non aver paura di cattivo fine.

L’Angelo Serafino, l’Angelo bianco, lo Spirito Santo, la Vergine Maria, sian tutti in mia compagnia. Angelo di Dio, mio custode, illuminami questa notte, guardami e difendimi, ch’io mi raccomando a te.

Un genere singolarissimo di poesia sacra popolare è quello che ci è dato in Sardegna dai così detti misteri o commedie sacre in versi. Quell’instancabile Canonico Spano, che, parlando di Sardegna, conviene citare ad ogni pagina, ha redento dall’oscurità, ora è poco, uno di questi misteri che correva solo nella bocca del popolo a Ploaghe; giovandosi dell’opera del curato di quel villaggio, Salvatore [177] Cossu; e che fu assai bene illustrato anche da Maltzan.

È un vero tipo della specie. S’Historia de Juseppe Hebreu, Dramma Sard, in due atti; ognuno dei quali ha dodici scene. Noi non daremo che la scena fra Giuseppe e la moglie di Putifarre. Udite la poco casta signora:

Juseppe bello, non fuas

Mirami una pagu in cara;

Et dae me, Juseppe, impara

Ad m’istimare.

Pro te mi querzo olvidare

S’isfera et s’istadu meu;

Non fuas no, o bellu Ebreu,

Dae quie t’amat.

Istuda custa fiama

Qui giuto in pectus accesa!

Non t’accendet sa belleza?

Juseppe mira....

O bel Giuseppe, non fuggire, guardami un poco in faccia, da me, Giuseppe, impara ad amarmi; per te mi voglio dimenticare il rango e il mio stato, non fuggire, no, bell’Ebreo, da chi ti ama. Spegni questa fiamma che tengo in petto accesa! Non ti accende la bellezza? mira o Giuseppe...

[178]

E il troppo casto Giuseppe risponde:

Femina, guardemi Deu

Dae simile peccadu!

Non t’amo, et nemmancu amadu

Querzu, qui sia.

O femmina, guardami Dio da simile peccato! Io non ti amo e nemmen voglio essere amato.

Fra i canti popolari sacri dei poeti classici stanno quelli di Pintor Sirigu nato in Cagliari nello scorso secolo, e a lui dobbiamo: S’Existentia de Deus, Sa Natividade de N. S. G. Cristu; Sa Natividade de sa V. Maria, ecc. Citeremo anche i nomi, se non i versi del distinto filologo e parroco di Sassari, Maurizio Serra, di Osilo (morto nel 1834); il capuccino e celebre predicatore Gavino Achena di Ozieri (morto nel 1829); l’ex-gesuita Bonaventura Licheri di Neoneli, il poeta della Beata Vergine. Forse il più popolare fra tutti fu Giovanni Battista Madeddu, parroco di Tadasune che parafrasò i salmi e innalzò inni alla Vergine, a Sant’Antioco, il martire di Sulcis e a San Giorgio, vescovo di Barbagia, i due santi nazionali della Sardegna. È anche suo [179] l’inno che cantano i contadini quando fanno le loro processioni per implorare la pioggia dal cielo:

Sos chelus hazis serradu

Pro non nos dare alimentu;

Sas abbas hazis detentu

Sos trigos hazis siccadu

Cum costu hazis accabadu

Sa nostra fragilidade.

Abba Deus imploramus,

E abba Deus pedimus,

Pro s’abba Deus pianghimus,

Et pro s’abba suspiramus,

Cum sas abbas ch’ispettamus

Sas terras fertilidade.

Avete chiusi i cieli per non darci alimento; avete trattenuto le acque, avete seccato i grani, con questo avete finito la nostra fragilità.

Acque, o Dio imploriamo, e acqua Dio domandiamo, per l’acqua o Dio piangiamo, e per l’acqua sospiriamo, e con le acque aspettiamo fertilità alla terra.

La poesia sarda è povera di poemi e potremmo appena citare Sa Jerusalem victoriosa di Melchior Dore e alcuni poemetti di Raimondo Congiu (morto nel 1813) del Padre Lucas e di Antonio Demontis Licheri [180] che celebrano fatti eroici della storia moderna di Sardegna. Francesco Carboni che l’abate Pischedda chiama genio prepotente d’eloquenza latina, nato a Bunnannaro nel 1746 scrisse due poesie latine: De Sardua Intemperie et de Coralliis. Lo stesso Pischedda, parlando della prima di queste epopee dice che «trovò tanta accettazione ne’ dotti che disaminato a fondo e con giusta bilancia, ravvisarono in essa la grazia di Catullo, la purità di Lucrezio in fatto di stile; la robustezza, la maestà e la vivissima espressione di Virgilio nelle sue descrizioni, e la profondità d’Orazio in molti de’ suoi concetti. Le poesie più scielte del Carboni furono raccolte in un volume e pubblicate per cura del Reverendo Monsignore Don Emmanuele Marongio. Uno dei suoi più cari ed intimi amici, il famoso Dettori di Tempio lo salutava col nome di Latinissimo, il Roberti gli dava il glorioso titolo di Doctae Sardiniae decus novellum; e l’Accademia italiana l’onorava col nome di Primo latinista del secolo[13].

[181]

Anche di elegie propriamente dette non è ricco il parnaso sardo. Ecco un lamento di Marcello in cui piange le sterili sue ricerche di una sposa:

Tota sa vida caminende so

In chirca de mi poter cojuare.

Sa chi cherz’eo na mi cherent dare

Sa chi mi dana, non la cherzo no.

Andadu so a parte e Campidanu

A su Marghine, fin’a a Bortigale,

Giovana mai bidu ne uguale.

Ma si non l’hat in pe l’hat in sa manu,

E usant un istile suberanu

Pro lograre su istadu maritale,

Bendent s’honore pro uno reale.

Et timidu hapo pro coronare.

Per tutta la vita io vo cercando di prender moglie. Quella che voglio io, non me la vogliono dare; quella che mi danno non la voglio io.

Sono andato al Campidano, al Marghine fino a Bortigali, non ho mai veduto una giovane eguale, ma se non ha un difetto, ne ha un altro, e usano uno stile sovrano per conseguire lo stato maritale, poi vendono l’onore per un reale e io ho paura di essere coronato.

Eccovi un altro lamento poetico del cieco Cherchi sulla sua vita infelice:

[182]

Cando penso in sa trista vida mia,

Abbunda su piantu pius sobradu

Faltada est dai me cudda allegria,

Sa chi tantu m’haiat corteggiadu

Como fatto a sas penas cumpagnia

A chis m’hat sa sorte incumandadu

Et rodeadu dai sas matessi

Suspirare e piangher mi meressi.

Quando penso alla mia triste vita, abbonda il pianto più eccessivo. È mancata da me quella allegria, quella che tanto m’aveva corteggiato, adesso faccio compagnia alle pene alle quali m’ha la sorte raccomandato, e circondato dalle stesse mi tocca sospirare e piangere.

Se mancano i veri poeti elegiaci, io trovo però nella poesia sarda una tinta melanconica che mi pare uno dei caratteri più salienti. Io sento in molti poeti una malinconica effusione di sentimenti non soddisfatti e perfino l’amore che fa vibrare tutte le corde del cuore e della fantasia usa più spesso in bocca loro la voce del lamento e rare volte effonde il giubilo della vittoria o il grido di guerra. L’abate Gavino Pes, che è giudicato da molti il più celebre poeta che abbia fiorito nella Gallura nel secolo XVIII, e che si meritò il nome di Metastasio Sardo ha scritto cose tristissime, rimpiangendo nella fredda età delle rughe le amorose follie della sua calda giovinezza. Eccovi [183] alcune strofe del Lu Pentimentu colla bella traduzione in versi del Pischedda.

La vicchiaia è vinuta

Candu mi figurava più piccinnu:

Drummitu era, e mi sciuta,

Gridendi: già se’ vecchiu, e senza sinnu,

Mallugratu haï l’anni

In middi pregiudizi, in midd’inganni

Simile a l’umbra vana

Sparisi amori, e briu, cant’aia:

L’alligria mundana

Fuggi la me’ canuta cumpagnia:

E l’amori mi scaccia,

Palch’anda nudu, e timi la mè jaccia.

Vecchiezza è giunta e mi ha sorpreso questa

Quando più giovin mi saria creduto.

Io dormiva, e dal sonno ella mi desta

Gridando: ah! vecchio, ’l senno hai tu perduto.

Che di tua vita hai mal lograti gli anni

In mille pregiudizi, in mille inganni.

Sparì, come sparisce un’ombra vana,

Tutto quel foco, e spirto, e vigoria;

Da me fuggendo ogni allegria mondana

Schiva la mia canuta compagnia,

Ed amor che va nudo ei pur mi scaccia

Temendo il freddo gel delle mie braccia.

Vedete, quanta vera poesia vi sia in questi altri suoi versi Lu Tempu:

[184]

Palchi no torri, di, tempu passata?

Palchi no torri, di, tempu paldutu?

Torra alta volta, torra a fatti meu;

Tempu impultantu, tempu prizïosu,

Tempu chi vali tantu quant’è Deu

Par un cor ben fattu e viltuösu.

Troppo a distempu, o tempu caru, arreu

A cunniscitti (oh pesu agunïosu!)

Quantu utilosu mi saresti statu,

Tempu, aënditi a tempu cunnisciutu!

Palchi no torri, di, tempu passatu?

Palchi no torri, di, tempu paldutu?

L’alburi tristu senza fiori e frondi,

Vinutu maggiu, acquista frondi e fiori;

A campu siccu tandu currispondi

Un beddu traciu d’allegri culori.

Supelbu salta d’inverru li spondi

Rïu d’istïu poaru d’umori;

E l’anticu vigore rinuatu

Non sarà maï in un omu canutu?

[185]

Perchè non torni, di’, tempo passato?

Perchè non torni, di’, tempo perduto?

Deh ritorna, ritorna a farti mio

Tempo perduto, tempo prezioso

Tempo che vali tanto quanto Dio

Per un core ben fatto e virtuoso!

Deh ritorna a far pago il mio desio!

Ed oh! quanto mi è grave e doloroso

Il non averti più! Quanto giovato

M’avria l’averti in tempo conosciuto.

Perchè, non torni, di’, tempo passato!

Perchè non torni, di’, tempo perduto!

L’arbor ch’è tristo senza fiori e fronde

Giunto maggio, riacquista e fronde e fiori;

Al biondo prato allora corrisponde

Un bel prospetto d’allegri colori

Nell’inverna stagion varca le sponde

Superbo un fiumicel d’estivi umori,

E l’antico vigore rinnovato

Non vedrassi in un uom veglio canuto?

[186]

Tristi armonie trovate anche nell’Instabilitad di la fultuna di D. Salvadori Sanna di Tempio; nella Miseria umana e in altre poesie del dottor Girolamo Araolla di Sassari e le potrete gustare nella raccolta del Pischedda.

Nella satira festevole e nell’amore si sono esercitati con molta fortuna alcuni poeti sardi. Pasquale Capeu di Perfugas e nostro contemporaneo aguzza la sua lingua contro le donne semidotte:

Perfugas nach est tontu e no est beru

Favola veramente calunniosa

Eo bos fatto idere una cosa,

Chi cum fazzilidade si cumprende,

Hamus tantas signoras imparende,

Chi faghene sa ficca a Cicerone;

In tres vocales de su cartellone

Sunt tres meses e mesu tipi tapa,

Hoc ischin s’aligarza, cras sa nappa,

Barigadu cugumere sinzeru.

Dicono che Perfugas è ignorante e non è vero, favola veramente calunniosa, io voglio farvi vedere una cosa.

Che con facilità si comprende, abbiamo delle signore studiose che fanno la fica a Cicerone in tre vocali del cartellone, già da tre mesi e mezzo fanno chiasso, oggi sanno il ravanello, domani la rapa, posdomani il vero citriuolo!

[187]

Principe dei satirici sardi è giudicato Diego Mele di Bitti, il quale ha dedicato una delle sue più belle poesie a canzonare i cittadini di Ula che nel 1855 mostrarono troppo paura del colera. Egli ci racconta il caso di un asino che giunto ad Ula da un paese infetto, viene sottoposto a suffumigi e disinfezioni.

Gavino Cocco ha dedicato un sonetto satirico a un poeta, Matteo Madau, che soleva andare in giro per il suo paese, vendendo le sue opere.

A me inghirias, Matteu, gas’arriadu

De pabiru, et chentu libereddos?

Che lattaju, ch’jughet moitteddos,

Chi chircat ispazare su cazadu

Ea quantos, cilene cherros, has leadu

Trinta soddos pro cussos tomigheddos?

Sos chi no balent trinta dinareddos;

Quantu, segundu cussu, has haer furadu?

Tue ses obbligadu a la torrare

Intera, cusa summa male binta,

Et no abbastat ancora a ti salvare

T’imparat sa morale mancu istrinta,

Cheres, Matteo, su dannu reparare?

Bendedi tua matessi a soddos trinta.

Dove vai Matteo, così carico di carte e di cento libriciattoli? Come lattajo che porta secchielli, che cerca di smerciare le giuncate? Eh, quanto, senza volere, hai preso [188] trenta soldi per questi tomicini? Quei che non valgono trenta centesimi, quanto, secondo questo, avresti rubato? Tu sei obbligato a restituire intiera questa somma male avuta, e non basta ancora per salvarti. La morale meno stretta ti insegna questo: Vuoi, Matteo, riparare al danno, vendi te stesso per trenta soldi.

La poesia bernesca ha un buon rappresentante in Sardegna nel contadino Pietro Canu di Chiaramonti, assassinato nel 1845 e di cui Maltzan ci ha dato uno scherzo poetico, in cui l’infelice autore mette in ischerzo la sua povertà, discorrendo della dote che vuol dare alla sua figliuola.

Come cosa più curiosa che bella, accennerò per ultimo alle poesie sardo-latine dell’abate Madao, le quali dimostrano la grande ricchezza di parole latine che posseggono i dialetti sardi. Vedete:

Salve, salve, o purissima

Sola columba candida,

Semper intacta et libera

De originale macula;

Non umbra est in te Virgine

Inter feminas unica,

De laesione adamitica,

Et de culpa primaria.

. . . . . . . . . . . . . . .

Hymnu de Maria Virgine.

[189]

O fragiles creaturas, et errantes!

O tempus breve! o humanas mutationes!

Bene et male operamus inconstantes,

Ruimus, et vitamus occasiones,

Teneros nos sentimus, et amantes

Duros etiam, ingratos. O passiones!

Libera nos, o Deus, cum clementia,

Et clamores intende cum patientia.

In te Maria Virgine speramus,

Inter sanctos, et justos sancta, et pura

Gementes cum fervore, et supplicamus

Qui intercedas pro tanta creatura

Fragile et delinquente. Si imploramus

Auxiliù et patrociniù da et procura

Defendere tuos servos, qui anhelantes

Suspiramus in terra militantes.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Divina Providentia.

Possa questa rapida corsa fatta nel campo della poesia sarda averne segnato il profilo saliente; possa destare in alcuno la voglia di tradurne alcuna fra le più belle; onde gli Italiani possano tutti gustare le bellezze poetiche di una italianissima fra le nostre provincie.

[190]

CAPITOLO V.

Le malattie della Sardegna. — La malaria e l’inerzia. — Drenaggio ed educazione. — L’Arcadia esiste anche in Sardegna e più che mai. — Agricoltura e vini. — Monti granatici e barraccelli. — Scarsa popolazione dell’isola. — Chi debba salvare la Sardegna.

La Commissione d’inchiesta sulla Sardegna e il Parlamento hanno fatto alla nostra isola una larga promessa che son tenuti a mantenere e che, io ne son sicuro, manterranno. La vita d’un popolo però non comincia e finisce nella sala dei cinquecento o nelle aule dei ministeri; e povero quel paese, che dopo aver conquistata la propria libertà, affida tutte le proprie speranze al governo, quand’anche questo fosse il più liberale e il più sapiente del mondo. Una provincia che [191] per sventura o per peccato si trova addietro delle altre nella via del progresso deve innanzi tutto voler guarire di per sè stessa del proprio male; e quando chiama un medico dal difuori a sanarla, deve pur sempre trattarlo come consulente, da cui si prende consiglio, ma che pur si congeda con mille e cortesissimi ringraziamenti. Questo pei Sardi: gli italiani della penisola fuori delle sfere ufficiali e legislative devono aiutare i loro fratelli, coll’apportarvi i loro capitali e il loro lavoro; studiar la Sardegna, amarla e farla amare; e anch’io con questo mio modestissimo scritto vorrei concorrere a quest’opera di fratellanza, alzando il grido: Ricordatevi che esiste un’isola che si chiama Sardegna!

Sarebbe crudele calunnia il dire ai Sardi: siete i soli autori dei vostri mali; così come sarebbe una sterile adulazione il lamentare che la Sardegna è povera, è infelice soltanto per colpa di governo e di leggi. Calunnie e adulazioni che con triste ed eterna vicenda si gettano in faccia governo e popolo nel nostro paese; come se le membra dolenti e il cuor fiacco avessero a lamentarsi l’uno [192] coll’altro dei loro acciacchi, rinfacciandosene a vicenda la colpa. I governi passati ebbero molti torti verso quell’isola: anche i governi dei nostri tempi ebbero le loro colpe, ma è ormai sterile fatica l’assegnare ad ognuno il peccato e la misura della colpa; dacchè la Sardegna è paese italiano, e tutti quanti abbiam debito di venirle in aiuto e riparare anche ai peccati che non son nostri. Lasciamo le accuse e le sentenze ai giudici, e noi lavoriamo insieme a guarire il malato, che è nostro fratello; fratello fra i più cari perchè tra i più infelici.

La Sardegna è malata di due gravi malattie, la malaria e l’inerzia: deve guarirne però e ne guarirà, perchè non sono malattie mortali, nè ancora hanno roso le viscere e la sorgente della vita circola celata ma vigorosa nelle profonde latebre di un corpo ancor vigoroso.

La Sardegna è cinta quasi per ogni parte da una gran fascia miasmatica che la stringe di un amplesso omicida e lungo i suoi fiumi non domati dalla mano dell’arte serpeggia il veleno della palude e su larghe zone nell’interno [193] s’addensa in terreni acquitrinosi e sul letto di laghi antichi non bene asciutti ancora. I venti gagliardi che fanno continuo tumulto sull’isola portano poi i miasmi fin sulle vette dei monti e nelle alte valli; talchè anche fra l’aroma dei pini e i graniti muschiosi delle Alpi galluresi tu vedi l’uomo che trema dei lividi pallori d’una febbre che gli inviano paesi lontani dell’isola, forse a lui sconosciuti fin di nome.

Ad onta dei lavori di Cheirasco, di Efisio Massa e Giovanni Masnata e di altri[14] sul miasma della Sardegna, rimane a farsi una monografia di questo male e le fatiche e il denaro spesi ad avere una carta topografica del miasma, colla statistica delle affezioni palustri saranno fra le migliori provvidenze che governo e cittadini possano dare alla Sardegna. Prima di curare un male conviene conoscerlo e la malaria di quell’isola è poco e mal studiata. Senza bisogno [194] di nuove commissioni nell’isola si potrebbe affidare al conservatore del vaccino, il professore Falconi di Cagliari, già così benemerito della pubblica igiene, la compilazione della Carta geografica del miasma sardo. Il Falconi, l’ebbi già a dire altrove, è uno dei pochi uomini, nei quali è difficile il dire se sia maggiore il culto dell’arte sua o più ardente lo zelo con cui attende agli uffizi del suo ministero. Le epidemie di colèra e di vaiuolo lo hanno trovato sempre il primo fra i combattenti e in Sicilia e in Sardegna; nè egli è il solo medico filantropo nell’isola e aiutato dai suoi colleghi potrà farci la diagnosi della gran febbre sarda.

Il Maltzan dà dell’insalubrità dell’isola un quadro troppo fosco e di tinte esagerate; e a sentirlo la Sardegna sarebbe pestifera come Cajenna o come le coste dell’Africa. La Sardegna ha paesi sani, ne ha anche di sanissimi; e meno Oristano, Tortoli ed altri pochi luoghi anche le febbri intermittenti decorrono benigne, e le perniciose non sono frequenti. Nello scorso anno per le pioggie straordinarie l’isola tutta quanta fu ravvolta in un nembo [195] di epidemia miasmatica; s’ebbe grande mortalità nei bambini e nei fanciulletti e la febbre s’arrischiò ad altezze non mai arrivate. Anche il castello di Cagliari ebbe il suo miasma; ma fu questa una sventura eccezionale e il giudicare dalle statistiche mortuarie del 68 la salubrità della Sardegna sarebbe lo stesso che misurare quella d’un paese in piena epidemia di vaiuolo o di colèra.

Maltzan ha esagerato, ha esagerato grandemente l’insalubrità della Sardegna; ma al disotto dell’esagerazione vi ha una verità che non ha bisogno di essere ingrandita dalla penna dello scrittore per essere una triste, una dolorosa verità. Vi son paesi dove ogni anno il libro del parroco vi susurra all’orecchio questa tremenda notizia che il becchino è chiamato più spesso della levatrice; che le fosse si fanno più spesso che non le culle. In molti paesi anche i sani che passeggiano per le vie hanno dipinta sul volto la febbre sofferta e attraverso alla pelle terrosa vi par di palpare la milza grossa e i ventri idropici. Più d’una volta operai venuti dal continente, nello scavare un terreno per fare una strada, si fecero [196] invece la loro fossa e le zappe sprigionarono dal sottosuolo miasmi rinchiusi chi sa fin da quando. Non cito paesi, non cito cifre, perchè aspetto che si faccia la carta miasmatica della Sardegna, ma mi pare che il poco detto basti a spiegare il terrore del Maltzan, e ad incuorare i Sardi a farla finita con questo veleno che lento e inesorabile serpeggia loro nelle vene.

La Sardegna non guarirà dalla sua febbre finchè l’agricoltura non abbia trasformato in succo per le radici il miasma della palude; finchè non abbia con una chimica sapiente e quasi miracolosa cambiato il veleno in pane. Il piccolo drenaggio della zappa e dell’aratro, il gran drenaggio di larghe e profonde fosse devono asciugare i terreni, dove da lunghi secoli fermentano addensati i cadaveri delle piante. L’ossigeno deve essere portato dall’uomo nelle viscere del sottosuolo a bruciare i lenti miasmi; e una rigogliosa vegetazione deve sorgere sul suolo rinsanito. Le terre ubertose e i lieti giardini di Orri erano al principio di questo secolo una palude; e il Marchese di Villaermosa può vantare di aver [197] creato in una volta sola la salute e la ricchezza. Coi miei occhi ho veduto a Sanluri lo Stabilimento Vittorio Emmanuele, dove una palude, quasi lago, con una larga e profonda fossa fu trasformata in una terra feconda. Nè questi sono gli unici esempj di rinsanicamenti parziali della Sardegna, ma sono però ancora troppo rari esempj; e Cicerone redivivo potrebbe anche al dì d’oggi scrivere a suo fratello, legato di Pompeo in Olbia: Cura mi frater, ut valeas et quamquam est hiems, tamen Sardiniam istam esse cogites.

Il drenaggio deve essere la chinina della Sardegna, ma anche le sue lagune dolci e salate vogliono essere studiate, e corrette, sicchè non avvenga la miscela delle acque dolci e delle salate e dove è possibile, si elevi l’orlo troppo sottile delle loro acque, che sulle sponde imputridite s’alzano e s’abbassano con flusso e riflusso di cadaveri e di miasmi.

Anche aspettando i capitali, e il drenaggio e un po’ d’idraulica nei fiumi scapigliati, i Sardi possono fare assai per migliorare le condizioni igieniche dell’isola, togliendo alle case il letame, alle persone il sudiciume; togliendo [198] ai vivi il troppo intimo contatto coi morti. Nel cimitero di Cabras un senatore mio amico vedeva, or non è molto, la zappa del becchino che s’affondava nelle carni ancora molli d’un cadavere troppo fresco, onde lasciare il posto ad un’altro fratello più fresco di lui. In molti villaggi ho veduto io stesso nei cortili cumuli di letame alti quasi come le case. Non parlo delle vie trasformate in latrine, perchè è questa vergogna di quasi tutta Italia e d’altri paesi latini d’Europa.

Contro questi miasmi umani, omicidi come i palustri, vuolsi adoperare un altra maniera di drenaggio, quello che porti l’ossigeno dell’istruzione e dell’educazione nelle vene più sottili della classe povera e mezzana. Medici, parroci, maestri, insieme alla medicina, al vangelo, all’alfabeto devono insegnare l’igiene; perchè un popolo che si lava, che distingue casa da stalla, che gode della santa voluttà, della pulitezza è un popolo sano e che meglio resiste degli altri anche al miasma delle paludi.

[199]

L’inerzia è antica consuetudine dei Sardi e finch’essa duri, inutile è sperare che venga sanata del miasma della palude e le due malattie messe insieme t’andranno corrodendo fino alla midolla. Senza vincer l’inerzia inutili saranno le leggi, inutili le ferrovie, inutile scoprire ogni giorno nuove e ricche vene di piombo e di zinco. Finchè vedo le mine in mano di stranieri o di forestieri; finchè vedo l’unico ospedale di Iglesias fatto e mantenuto da inglesi; finchè vedo i Sardi fuggire anche dalle piccole industrie; non dispero, ma crollo il capo e aspetto la reazione che guarisca il malato.

Il pastore errante è l’ozioso povero della Sardegna, il piccolo possidente ne è l’ozioso educato; entrambi rappresentanti delle due forme più salienti dell’inerzia isolana. V’è poi l’ozioso impiegato, l’ozioso nobile, l’ozioso parassita, l’ozioso prete ed altre ed altre specie e varietà senza numero. Il pastore vuol essere trasformato in contadino e all’ozio contemplativo o grifagno di cui si compiace convien sostituire il lavoro salubre e moralizzatore della terra. Tutti gli altri oziosi di rango superiore [200] devono essere convertiti in industriali, in commercianti, in uomini di mare e d’officina; in ingegneri e in maestri: pochissimi si serbino ai cavilli del foro e ai triboli della medicina.

L’inerzia dei Sardi che in molti è vera apatia e scoraggiamento deve esser vinta con questi due mezzi: avvicinarli al continente ed educarli; che è quanto dire ferrovie e scuole, le due leve giganti della civiltà moderna.

Una ferrovia che unisca Cagliari a Terranuova e un vapore che avvicini Terranuova ad Orbetello ridurranno di due terzi la distanza che separa da noi la prima capitale dell’isola. I Sardi verranno più facilmente e più spesso fra noi, e noi andremo più spesso in Sardegna; sicchè l’isola divenga una seconda penisola italiana e i contatti crescan gli affetti e dall’attrito d’uomini e di idee nasca la scintilla che accende l’amor proprio e la nobile ambizione del progresso. Le strade son sempre figlie della civiltà, ma ne sono anche le madri; e in Sardegna anche con pochi abitanti e poche merci e guadagni incerti convien coprire il paese di ferrovie e sopratutto e per la prima stendere quella da Terranuova a Cagliari. [201] Finchè questa non si faccia, i Sardi stenderanno invano le loro braccia verso la penisola sorella, e attraverso i vuoti deserti del mare noi non sentiremo le loro voci, nè potremo rispondere a quell’amplesso che ci domanda aiuto ed amore.

Molto s’è fatto in questi ultimi anni per l’educazione della Sardegna, ma non s’è fatto abbastanza e alcune e provvide fila ordite da un ministro vennero dimenticate o rotte dal suo successore. Sanguinetti faceva un viaggio in Sardegna per incarico d’un ministro, visitava tutte le scuole; proponeva molti provvedimenti; ed ora sul lavoro abbandonato del nostro collega tessono sicuri le loro fila i ragni. A Nuoro, paese di pastori, spesso briganti, avete un ginnasio e non una scuola tecnica; e quando io vidi quei fieri montanari tormentare la loro mente sulle pagine di Cornelio Nipote, sospirai profondamente, esclamando entro di me: Arcadia, Arcadia quando sarai tu morta? E quando in una delle città minori della Sardegna udii da gente colta lamentarsi l’abbandono degli studj classici e quando ancora seppi che per desiderio degli abitanti in altre città un istituto [202] tecnico era stato convertito in ginnasio, sospirai profondissimamente; esclamando una seconda e una terza volta: Arcadia, Arcadia quando sarai tu morta?

I Maurelli di Iglesias mandano poco volentieri i loro bambini alle scuole; ma fuori di là le scuole sono implorate dai padri, son frequentate dai figliuoli. Ad Oschiri vidi nelle scuole elementari 60 o 70 fanciulle e solo una trentina di maschi; e questi invece son nel campo dietro le pecore o il bue, educandosi all’ozio che forse più tardi li porterà dinanzi al Tribunale. In alcuni paesi di Sardegna è così difficile andare a scuola che a conquistar l’alfabeto si esige fede d’apostolo e quasi entusiasmo di martire.

Nelle montagne della Gallura vi sono alcuni parroci più poveri dei loro contadini, più santi dei santi; ed io vorrei esser papa un giorno solo della mia vita per poterli beatificare. I curati di San Pasquale, San Francesco e Luogo Santo fanno scuola dalla mattina alla sera e la fanno gratuitamente. I loro discepoli arrivano da immense distanze e a cavallo; e più d’una volta un contadinello [203] sulla strada raccoglie in groppa due o tre compagni; e questi gruppi infantili e pittoreschi giungono a tutte le ore del giorno alla scuola del parroco, rinnovandogli la fatica e la noia. Eppure sopra 125 abitanti raccolti a Luogo Santo fra quei monti deserti trovate 17 scolari. Eppure quei poveri parroci comperano coi loro quattrini carta, penne, inchiostro; tutti gli istrumenti primi della civiltà.

Molte delle scuole della Sardegna avrebbero bisogno di un po’ di culto, onde i discepoli, se non in un tempio, almeno credessero di entrare in luogo pulito e decente. Nella scuola d’un comune del Circondario di Oristano, non più in là del 1853, i discepoli sedevano sopra grosse pietre ammucchiate nella scuola; e il maestro, horribile dictu, aveva fatto cattedra d’un gran vaso da notte rovesciato.

In paese così lontano dal centro politico gran parte di inconscia educazione si riceve per via degli impiegati e delle autorità. Il pastore, il contadino, il piccolo possidente sentono battere i polsi della vita pubblica, si sentono membra d’una società umana, soltanto [204] per via del carabiniere, dell’esattore, del sindaco e più su per via del pretore e del prefetto. Ministri, deputati, parlamento son per essi un mito. Or bene questa educazione potente che dovrebbe esser fatta per mezzo delle autorità è più spesso invece corruzione e oscuramento.

Nel Circondario di Iglesias su ventiquattro sindaci otto sono analfabeti e d’inchiostro e di letteratura non conoscono altro che la croce con cui firmano. Ignoranza vuol dire immoralità, chè sinonimi più sinonimi di questi io non conosco al mondo; e voi vedete molti sindaci di comuni rurali divedersi coi parenti i frutti della loro professione. Molti hanno uno stipendio di 200, 500 e fin 1000 lire all’anno, stipendio votato in famiglia. Se voi domandate la ragione di questo sussidio di rappresentanza vi si risponde, che il sindaco è in campagna un vero oste, dovendo albergare il viandante senza alloggio. I maligni poi vi raccontano come un certo sindaco nel conto redatto ad un ricco viaggiatore facesse figurare il cespite di lire sette in prezzemolo.

Ma i sindaci, mi direte voi giustamente, son [205] frutti del paese; ma in Sardegna avete alti e mezzani impiegati venuti d’oltremare e che vi fanno arrossire per la loro ignoranza, per la loro rozzezza. Io so che quando un uomo è gravemente malato si cerca del miglior medico, e la Sardegna come provincia malata dovrebbe avere i migliori impiegati.

Il servire in Sardegna dovrebbe essere una gloria e non un castigo; dovrebbe essere un campo nobile e fecondo all’intelligenza operosa e generosa dei giovani impiegati e non un ospizio di mendicità per gli inetti o i colpevoli. In questo, paese e parlamento devono alzar forte la voce; e cessi una volta quell’isola sventurata di essere in una volta sola l’Irlanda e la Siberia dell’Italia.

L’ignoranza si fa sentire più crudele che altrove sulle campagne della Sardegna, dove s’accumula insieme alle altre piaghe dell’agricoltura; la polverizzazione delle proprietà, l’immensa massa di terre demaniali e comunali, i furti campestri e via via altri cancri e gangrene senza numero.

L’agricoltura è in gran parte della Sardegna men che bambina, neonata; e i sapienti [206] avvicendamenti e la provvida associazione del campo alla stalla e le irrigazioni e tutte le moderne conquiste dell’agraria vi son lettera morta. L’ulivo vi è educato assai bene in alcune terre; e lo vidi bellissimo a Bosa e a Sassari: anche la vite vi è accarezzata con qualche amore; ma dei vini squisiti che distilla tutto il merito è dovuto all’antico ceppo spagnuolo e al sole fecondo di quell’isola. Eppure nei vini di Sardegna vi è una mina d’oro pressochè vergine ancora; eppure in essi si ha tal varietà e ricchezza di tipi da poter fare concorrenza in una volta sola alla Francia, alla Spagna e al Portogallo. Non è vero quel che ripetono molti, che la Sardegna non abbia che vini spiritosi che accendono il palato e devono essere sorbillati meglio che bevuti. L’Ogliastra ha vini rossi da pasto da star vicinissimi ai migliori della Borgogna e del Bordelese ed io ho bevuto a Lanusey del vino rosso che meriterebbe una corona civica. In quel paese un operoso farmacista, Agostino Gaviano, fabbrica vini così squisiti, che già furon cercati per l’esportazione transatlantica e degno suo rivale è il [207] parroco di quella città, nella cui cantina abbiano trovati vini che non sdegnerebbe la tavola d’un Lord.

La varnaccia d’Oristano, il moscato di Bosa; i vini d’Alghero, d’Olliena, il Canonado, il Girò ed altri son tutti vini di lusso che ridotti a tipi costanti troveranno un sicurissimo spaccio sui mercati di Parigi, di Londra e dell’America. Presso Tempio avete un moscato che è fratello legittimo del Frontignano. S’accordino i Sardi a migliorare la loro industria vinicola e potranno in pochi anni diventare i primi produttori d’Italia; potranno arricchirsi, onorando la patria comune. Il Governo favorisca l’insegnamento industriale, fondi una scuola d’agraria; chè nel sardo l’amore all’agricoltura è virtù antica, direi nazionale; ma fin qui è ancor sterile, perchè non fecondata dalla scienza. Colle mie orecchie ho udito queste parole che con vera commozione diceva un vecchio sardo: Il terreno è nostro padre, è nostra madre, è nostro figlio, nostro fratello; ci dà il denaro senza usura, è il primo e l’ultimo dei nostri benefattori.

La suddivisione delle proprietà è così gran [208] male in Sardegna, che il Comitato Popolare di Cagliari nelle sue proposte presentate alla Commissione Parlamentare d’inchiesta, osava proporre l’espropriazione forzata. Udite le parole del Presidente Senatore Di Laconi e meditatele; perchè dette da un sardo e a nome della Sardegna hanno una eloquenza singolare:

«Chi si proponesse di ottenere l’unione delle terre in Sardegna coi soli mezzi indiretti, come sarebbe, a non dir altro, l’esenzione dei diritti e tasse per tutti quelli atti che abbiano questo scopo, suggerirebbe rimedio inconcludente se non ridicolo.

················

»Allorchè un male arriva a tal punto non valgono a porvi riparo i mezzi indiretti, ma occorrono rimedi radicali che operino una vera rivoluzione nel sistema passato. Il Comitato intanto è venuto nella determinazione di far voti acciò venga da voi pure indicato al Parlamento questo farmaco ormai indispensabile, inquantochè se vi si riscontra una qualche violazione di libertà non è affatto in urto col nostro diritto pubblico interno. La proprietà [209] violasi di soventi per opere di utilità pubblica, e questa pretesa violazione è ordinata e regolata dalle nostre leggi. Quale maggior opera di pubblica utilità di questa che tende a migliorare utilmente e realmente l’agricoltura di un intiera provincia, a stabilire di fatto la proprietà perfetta del suolo, a porre un freno efficace alla pastorizia nomade, che devasta i nostri campi ed è origine di tanta immoralità e di tanti delitti?

«D’altronde, se vuolsi realmente migliorare la sarda agricoltura fa d’uopo, come già avemmo l’onore di dirvi, richiamare la popolazione alle campagne, far sorgere le case coloniche ed i poderi in quelle stesse terre, che oggidì sono frazionate in estensioni infinitesimali. Come raggiungere questo scopo con mezzi indiretti? Se quello dell’espropriazione forzata non si adotta, nasceranno e spariranno forse parecchie generazioni prima che sia una realtà quell’equa divisione del suolo che permetta gli utili miglioramenti di coltura. Però, il Comitato, avendo coordinate tutte le sue deliberazioni ad un solo scopo, non vorrebbe venisse accordata questa eccezionale facoltà di espropriare [210] che a condizioni tali da far sicuri dell’utilità di sì estrema misura.»

Quando un ammalato invoca ad alta voce che gli si amputi un membro, deve essere gravemente infermo; e quando un paese domanda coll’autorità d’uno dei suoi primi patriotti l’espropriazione forzata, deve essere gravemente, profondamente malato.

Io credo che lo sviluppo concorde dell’istruzione, dell’industria e del commercio sanerà l’agricoltura senza bisogno di ricorrere all’espropriazione forzata, rimedio che forse non oserebbero applicare quelli stessi che lo consigliano.

Quand’io vedo per esempio un proprietario a Lanusey così povero che a seminare uno starello di frumento ha bisogno di chiederne in prestito due, e mentre affida l’uno alla terra, cambia l’altro in pane per tenersi vivo fino alla messe; mi domando a che possa servire questa omeopatica proprietà che non basta a salvare la dignità dacchè non vale a difenderlo dalla fame: ma quando poi io penso al nobile e santo amore del sardo per la sua terra, mi domando ancora, se la scienza non [211] possa trasformare questa forza vergine e potentissima in ricchezza nazionale.

I sardi liberi del regno italiano, allorchè sono tentati di spegnere la loro energia in queruli lamenti contro il Governo, rammentino la Spagna e il suo feudalismo, prima origine del fatale frazionamento delle terre.

A Villa Sor, fra campi fecondi di biade e boschi di mandorli e vigneti e siepi di cacti che sembrano foreste, trovate un villaggio modesto, ma lieto di una serena agiatezza. L’unico convento è divenuto una scuola, e l’ultimo francescano rimane in una cella deserta, quasi fuggendo dal contatto della scuola che lo ha ucciso. Fra le vigne e il villaggio però erge il capo con tristo cipiglio un vecchio palazzo baronale, turrito, pesante, grigio, irto di inferriate, cupo; un mucchio di fango divenuto prigione, un sogno spaventoso di ventricolo obeso. In quel castello trovate ancora molte e grosse catene di ferro destinate ai sardi d’un tempo, e nel muro anelli di ferro che si aprivano per stringere il collo ai più ribelli fra i sardi d’un tempo. Ecco la Sardegna spagnuola. Il convento divenuto scuola: [212] ecco la Sardegna italiana. Il campo e la chiesa divenuti scuole anch’essi; ecco la Sardegna dell’avvenire.

Lo Stabilimento agricolo del Deputato Costa presso Alghero; lo Stabilimento Vittorio Emmanuele son crepuscoli di un’agricoltura nuova; ma la luce del sole non si è veduta ancora.

La Sardegna ha nei suoi monti granatici una particolare istituzione di credito agricolo. «Questi monti sono sorti in ciascun Comune per le iniziative dei vescovi e riordinati da un ministro intelligente, col ricavo del lavoro per parte di tutti gli agricoltori di un Comune su di un terreno pure comunale (roadie), il di cui prodotto venne applicato a costituire il capitale di queste banche locali, capitale che ora si crede ascenda ad oltre i due milioni nella sola Provincia di Cagliari. Queste piccole banche prestan agli agricoltori il grano occorrente per la semente e tenue somme di denaro ad un medio tasso d’interesse non inferiore al 3 per % e non superiore al 6[15].

[213]

Questa istituzione antichissima e di forme quasi patriarcali è minacciata seriamente in questo nostro secolo così maniaco di forzati accentramenti e di prepotenti unificazioni; mentre invece a salvarla basterebbe darle vesti più moderne e indirizzo più sicuro; rinvigorirla colle idee moderne dell’economia politica.

È certo che in Sardegna s’aggrava sulla terra con inumano peso l’usura. Il proprietario, pur di non vendere la terra avita, prende denaro al 20, al 30, al cento per cento e ravvolto nelle spire fatali del debito rimane soffocato dalla valanga degli interessi accumulati. Le terre demaniali e le comunali e le altre che appartengono ad enti morali sono fra le maggiori piaghe dell’agricoltura sarda. Son essi che danno il pascolo al pastore rapace ed assassino, che corrompono l’amministrazione del Comune, che devastano le selve; son masnadieri che all’oscuro e coll’impunità dell’anonimo assassinano il paese. Siamo sicuri che una provvida legge restituirà all’agricoltore e agli individui quello che ora è deserto o preda di anonimi ladri.

[214]

A difendere i campi dai ladri fin da remoti tempi si istituirono in Sardegna le compagnie barraccellari.

»Le compagnie barraccellari, società di vigilanza e di assicurazione ad un tempo sorsero e si mantennero per necessità di tempi ed insipienza di governo noncurante od impotente a rendere in compenso delle imposte il principale servigio per cui si pagano; quello di preservare dagli altrui attentati il tranquillo godimento degli averi e l’integrità delle persone.

Le antiche leggi avevano ordinato questa instituzione a guisa che il servizio ne fosse obbligatorio per tutti i cittadini; innovazioni però effettuate sotto il regime liberale tolsero questo vincolo.

Da ciò nacquero gli inconvenienti che oggi si lamentano, per cui non sempre nè dovunque i migliori cittadini entrarono a formare le Compagnie; da ciò l’instanza di quasi tutti i Comuni per ricondurle all’antico, solo introducendovi alcune riforme[16]

I barraccelli di Nuoro esigono dai proprietarii una tassa del cinque per cento sui prodotti [215] agricoli e a questo patto li assicurano; ma essi stessi son ladri. In alcuni altri paesi essi pagano un’indennità di cinquanta lire per ogni vacca rubata; e siccome queste valgono molto di più, convien spesso ai barraccelli il diventar ladri.

Una volta tutti i barraccelli stavan raccolti nella piazza d’un paesetto della Sardegna; quando si venne a riferire ad essi che un campo era stato depredato. Uno di essi allora sorse a dire: Ma chi può mai aver rubato, se siamo qui tutti?

Quest’aneddoto può esser storia e può esser favola; ma nella storia o nella favola il buon senso popolare ha formulato il suo giudizio; e i barraccelli voglion esser disfatti per esser trasformati in altri uomini, in altra cosa con altro nome. È istituzione da medio evo, che ebbe le sue glorie e la sua missione in altri tempi; ed ora rimane fuori di luogo come grottesca rovina del passato.


Parecchi fra quelli che studiarono le condizioni attuali della Sardegna credettero di [216] pronunciare una sentenza piena di politica sapienza, affermando che tutti i mali dell’isola derivano dalla sua scarsa popolazione. Questi signori però scambiano il capo colla coda; e tanto varrebbe dire che il deserto di Sahara è terra sterile e infelice, perchè non ha alberi. In Sardegna, vi dicono, non si possono fondare nuove industrie, non si può coltivare bene la terra, non si può raggiungere le altre provincie italiane nella via della civiltà, perchè mancano le braccia; e se questo ragionamento fosse logico, nascerebbe spontaneo il consiglio che a redimerla dall’inerzia, ad arricchirla basterebbe mandarvi greggi umani che la popolassero. Son queste parodie economiche, lamenti di malato irrequieto che sa di non sentirsi bene, ma che ignora l’organo che patisce; son volgari chiacchiere che sembrano sentenze, perchè hanno una simmetria; frasi che sembran pensieri, perchè hanno un verbo e un soggetto. Sarebbe tempo di finirla con questi sofismi che adoperati come raziocini, conducono ad imprese pericolose, a rimedj peggiori che il male.

[217]

La Sardegna è spopolata, perchè è inferma; perchè è un organismo sterile e malato che non produce pane bastante per i suoi poveri, perchè non dà esca d’entusiasmo alle menti elette, non fascino di attiva ricchezza alle menti volgari. Per produrre più uomini che non abbia, la Sardegna deve inanzi tutto sanare il grembo in cui gli uomini nascono, deve guarire dalla malaria; deve col lavoro assiduo e gagliardo strappare le erbe parassite che l’ingombrano e prima d’ogni altro il pastore nomade e il nobile ozioso. I pochi abitanti della Sardegna che amano la loro terra nativa devono lavorare pei molti abitanti che mancano; e dei pochi i pochissimi che studiano e amano in una volta sola, devono lavorare, lavorare, lavorare; sicchè il lavoro generi la ricchezza e la ricchezza generi gli uomini. Non si lamenti la Sardegna di aver pochi uomini: tutte le terre furon spopolate un tempo e i pochi generarono sempre i molti, i pochissimi salvarono sempre i moltissimi. Che i pochi sieno gli eletti e le braccia sorgeranno a cento, a mille a domandar loro dove si debba solcar la terra, dove [218] si debbano rizzare edifizi, come si debbano alleare le forze della natura con quelle dell’uomo. Gli eletti, che son sempre pochi dovunque, hanno in Sardegna più che altrove un compito difficile, una missione santa, eroica, quella di salvare il loro paese. Non s’accontentino di unire il loro lamento al coro del volgo che aspetta sempre il bene e il male dal suo pastore, ma si mettano inanzi a tutti e suscitino con robusta parola la santa crociata del lavoro. La Sardegna ha in sè il germe di una ricchezza senza confine, ha vene straricche di metalli, ha un suolo ferace di biade e coste portuose e acque ricche di pesci; ha i tesori della terra e del mare; ma dov’è il minatore che scavi questi tesori, dov’è il gioielliere che lavori queste gemme? Io spero che minatore e gioielliere si trovino celati nel popolo sardo, e sorgeranno dalla nuova generazione cresciuta alla brezza vivificante della libertà, educata alla religione del lavoro e della nobile ambizione dell’andare avanti. Io non credo all’onnipotenza delle colonie portate in Sardegna d’oltremare; non credo ai miracoli che può fare gente povera [219] raccogliticcia, messa insieme, spesso da speculatori ignoranti e avidi. La Sardegna può bastare a sè stessa, purchè il voglia; deve salvare sè stessa purchè a sè stessa il comandi.

Questa è la missione dei Sardi che amano la loro terra: agli italiani delle altre provincie tocca poi il circondare quell’isola bella e infelice del loro caldo affetto; al Parlamento, al Governo tocca aprire più larga vena che faccia la sorella lontana membro vivo e caldo dell’organismo italiano. Si mandi in Sardegna una buona semente, che il caldo cielo e la terra feconda ci restituiranno con usura una lieta messe di spighe.

[221]

NOTA SUL PORCHETTO DEI SARDI

I sardi leggeranno con qualche interesse questa nota sulla porchetta delle Romagne, sorella al loro porcheddu, e che è tolta da un libro piuttosto raro che devo alla squisita cortesia del mio egregio amico Dott. Domenico Bilancioni di Rimini, e che porta il titolo:

Porcus Trojanus o sia la Porchetta. Cicalata ne le nozze di Messer Carlo Ridolfi Veronese con Madonna Rosa Spina, Riminese. Altra Edizione.

È niente meno che un volume di 134 pagine, con 224 note; pieno di pellegrina erudizione e di saporitissimo spirito.

La Porchetta, nota agli antichi Romani sotto il nome di Porcus Trojanus, altro non è che un porco intiero sbudellato, o come vogliam dire sventrato, riempito di pepe, aromati, aglio, sale, finocchio fresco e poscia cotto intiero nel forno. Non v’è giorno di festa o di mercato, che non si venda a libbre così saporosa vivanda, la quale usasi la state, non già perchè nell’inverno non sia ugualmente buona, e forse migliore, ma perchè dovendosi vendere al minuto, si raffredderebbe troppo. Per grandi conviti può farsi in qualunque stagione.

[222]

Nell’Umbria, e nella Marca ogni mattino,

Che sia festivo in mezzo della piazza

Havvi di cotti arrosti un magazzino,

Per cui la povertà non poco sguazza

Senza far di pignatta in la giornata

E in tre o quattr’ore il magazzin si spazza[17].

Cotto in porchetta s’intende nella Romagna il porco intiero cotto nel forno. Così chiamano cotto in porchetta i polli, ed altri animali intieri cotti nel forno.

Porchetta, o come dicono i Toscani, porcella viene dal latino porcella, significante picciola porca o da porcetra parimente latino significante porca unipara e questa era riputata la migliore, presso gli antichi Romani per cuocersi in porchetta, che in tal caso chiamavasi porcus trojanus, come ne fanno ampia fede Macrobio, Pompeo Festo e come può vedersi in altri autori.

I Romani erano innamorati del porco e Giovenale osò chiamarlo divino:

....... voveasque sacellis

Exta: et candidula divini thomacula porci.

Tra le prose fiorentine vedi nella Cicalata IV, dove la porchetta ò chiamata porco deliziosissimo. Difatti chi non esclamerà al solo vedere la porchetta col Dott. Chimentelli. Che Nepentisi! che panacea! che pancresti! che giulebbi o manuscritti perlati!

Le porcilie piaculari, tanto usate nei sacrifizi, non erano che una porchetta un poco più tenera, la quale sventrata ed offerte le viscere agli Dei, extis porrectis, cuocevasi per colezione o merenda di quei non storditi sacerdoti.... I fratelli Arvali, che pure erano persone nobili e delicate, [223] ed erano dodici soltanto, e non sempre tutti intervenivano al sacro epulo, in una giornata di maggio ogni anno immolavano in un loro Luco, fuori di Roma, due porcelle piaculatorie, e purgavano in tal guisa il sacro bosco. Verso il mezzogiorno, deposta la protesta, così per colezioncina, per un semplice asciolvere, per un jentacolo, che più tardi facevasi l’epulo grande, mangiavansi le due grassoccie porcellette in porchetta, ed il sangue delle medesime fritto. E l’autore anonimo di quest’opera arguta, che era canonico e dotto bibliotecario di Rimini, aggiunge, «Il sangue delle altre vittime lo spargevan bene colla Patena sull’Ara, ma questo della porcella se lo friggevano gloriosamente.»

Arnobio ci assicura di questi sacrifizi con quelle parole. — Quæ est enim causa, requiram, ut eadem rursus, ut ille Tauris Deus, hædis alius honoretur, aut ovibus? Hic lactantibus porculis, alter intonsis agnis, hic virginibus buculis, capris ille cornutis, hic sterilibus vaccis, at ille incientibus scrofulis? Hic albentibus, ille tetris, alter feminei generis, alter vero animantibus masculinis? etc.

È certo che oltre i sagrifizi porcini da noi altrove mentovati, usavansi anche dopo parto felice. Plaut. Rud. A. 4. Sc. 6.; e per ottenere buon raccolto. Verris obliquum meditantis ictum Sanguine donem. Hor. L. 3. Od. 23.; ma più comunemente nelle alleanze, come si disse, e come può vedersi in Varr. R. R. 2. 4., Liv. I. 9., e IX, 5., Virg. Æn. 12. v. 170, Homer. Illiad. 19. ecc. Anche a’ dì nostri, ci assicura la Bibliotheque Universelle di Ginevra (Juillet 1817. p. 261.) i naturali dell’Isola di Vahoo sagrificano il porco al loro Dio, e lo mangiano. Lo stesso si fa nell’Isola Tonga del Mar Pacifico da que’ selvaggi per usi sacri, e nelle nozze, facendosi la porchetta, che poi si distribuisce al popolo (Bibl. Un. Dec. 1817. p. 361.) A proposito però del mangiare, di cui parla Marziale nella seguente nota, è da osservarsi, che il porcello di un mese è buono a mangiarsi, [224] e che con uno di questi quel buon arnese di Nerone, per mezzo di una certa femmina chiamata Locusta, avvelenò il di lui fratello Britannico, come narra Svetonio.

Ateneo ci racconta che in alcuni luoghi sacrificavasi con porcelli di latte; ma più bella la schicchera Porfirio il quale racconta che Pittagora, e Pittagora era uomo di senno, non sacrificava mai altri animali che porchette tenerissime. Oh andatevi a fidare di chi dice che Pittagora non mangiava il porco! se le sacrificava le avrà anche mangiate, perchè i sacrifizi, come sapete, vogliono essere mangiati. Non mangiava bensì altre carni, ma quella del porcello (cioè la porchetta) gustavala. Aul. Gell. Noct. Att. 4. 11. Che diremo dunque di que’ Pittagorici che odiano il Porco? Ser Magiro mio, non vi fidate di lasciare la vostra porchetta in luogo solitario, ove potesse penetrare qualche Pittagorico. Lasciereste le pere in guardia all’orso: e la porchetta andar potrebbe in visibilio. Del resto le Porcilie piaculari, o espiatorie si immolavano ad Aram, laddove la Vacca onoraria immolavasi ad Foculum. Alcuni credono che per Ara s’intendesse l’altare del tempio, e per Foculum l’altare domestico. Altri credono che le Are fossero le are avanti ai lari nelle case, ed il Foculo fosse il fuoco istesso che ardeva nelle dimestiche abitazioni in onore dei medesimi e che di qui ne sia nato il proverbio Dimicare pro aris et focis.

Gli antichi stimavano impura ai sacrifizi la porcella che non avesse compiti i cinque giorni, e Coruncano non voleva che fosse pura finchè non era divenuta bidente, come ci assicura Plinio (L. 7. c. 51.). Varrone (de R. R. l. 2. c. 4.) dice che vi vogliono dieci giorni perchè sia pura. Per me credo che pura e buona presso questi signori fosse sinonimo. Comunque sia, a noi poco importa di tutto ciò. Dunque, punto.

Catone poi insegna la formula colla quale invocavansi gli Dei, o le Dee in simili congiunture dicendo: O Dio, [225] o Dea, cui è sacro questo bosco, ti prego con questo espiatorio Porco, ecc.: E nel Carme lustrico dice, Priusquam Porcum foeminam immolabis, Jano struem commoveto sic; Jane Pater te hac strue bonas preces precor, uti sis volens propitius mihi, liberisque meis, domo, familiaeque meae. Poi si offriva il vino. Qui poi la parola strues è sinonima di Libum. Vedasi Festo, e la Cornucopia del Perotti. Vedansi parimenti i medesimi sulla Porca, secondo i tempi in cui sacrificavasi, ora detta Porca praecidaria o praecidanea, ora succedanea. Eravi poi l’uso d’immolare piuttosto vittime maschie agli Dei maschi, e vittime femmine alle Dee femmine, e lo stesso usavasi col Porco, ma non sempre questo rito era osservato con rigore. I Porci destinati al sacrifizio appellavansi Porci Sacres, o Sacrivi. Vedi Varrone de R. R., e Plauto Menaechm. A. 2 Sc. II.

I Porci del Medio Evo erano anche regaglie, o exenia, che dai Coloni dovevansi ai Padroni. Vedete la lettera 64 del lib. X. di S. Greg. M., ed i Papiri di Monsig. Marini, note al Papiro 34 pag. 234, e note al Papiro 133. Etelstano Re d’Inghilterra dava buoni prosciutti agli affamati (ex Tom. I. Concil. Britan. Concil. Grateleanum), e ne fece una legge nell’anno 928. Queste erano regaglie, o canoni più belli ed utili assai che non furono nel Medio Evo, e nei bassi tempi i Canoni trium quartorum Polastris, fogatias duas, duo brachia candelarum, unam bonam quartam vacce, unam spallam carnium, unum turdum, medietatem quarte partis unius turdi, unam bonam tortocraeam, quatrinos tres, tria petia ficorum, duos tertios medii Caponis pinguis, fumum Caponis cocti, medie once cere nove, unam unctiam piperis, unam bonam casciatam, ficas restas tres, turta munda, unum par caponorum grassorum, ed altri simili, o del canone di quattro reste di fichi, o dodici porri, che vedonsi nel Codice Bavaro edizione di Monaco del 1810 pag. 72, o dell’ala [226] di Cappone che una famiglia pagava in Piemonte a non so qual luogo, come seco lui confabulando, mi assicurò il celebre Ab. Denina; o di un piatto di neve pagato altrove, come può vedersi nel libro Les ruines de Port-Royal des Champes. Vedasi anche il Muratori, Dissertazione XXXVI sopra le Antichità Italiane.

Anche ai tempi dei Romani si esigevano Porci dai possessori da distribuirsi ai Soldati, come può vedersi in Cassiodoro lib. XII. ep. 14., e dalla L. 2. del Codice Teodosiano de erogat. milit. an. Davasi anche ai Tribuni ed altri militari strutto, lardo, ecc. Ad Aureliano, prima che fosse Imperatore, mentre era Tribuno, Valeriano assegnò porcellum dimidium. Mengotti Commerc. de’ Romani. Anche le contribuzioni pagavansi dal Popolo in generi e porcina.

L’uso delle porcellette di latte o bimestri come piacevano ad Orazio, si è conservato ancora oggidì nel Lazio e nella Sabina. Ai tempi di Roma per banchetti e nozze adoperavansi le porche le più tenere e saporose per farle in porchetta all’uso nostro e riuscire così, al dire del buon Varrone, il boccone più buono che gli Iddii abbiano concesso per banchettare. Quanto all’età doveva passare i sei mesi e quasi toccare l’anno. Osservavasi quando la porca cominciava dal dorso al capo avere le setole divise, nel qual caso chiamavansi porci biseti, o delici e talora anche verri, ed in questo caso erano stimati eccellenti alla grand’opera. Per avere poi la carne di dette porche saporosa, le ingrassavano, e chiamavanle poscia così ingrassate eximii porci.

Vi ricorderete quando Automedonte nel libro IX dell’Iliade d’Omero, allorchè Achille ricevè gli ambasciatori del Campo Acheo, si mise a fare un abbondante cucina, e tra le altre cose, come traduce il Monti:

.... il pingue saporoso tergo

Di saginato porco

[227]

e poco dopo:

A rosolar sul fuoco i saginati

Lombi suini....

Marco Apicio aveva inventato un modo particolare di ingrassamento. Costui prendeva la porca femmina e dopo due giorni d’inedia castravala, poscia cominciava l’ingrassamento che durava quaranta giorni e questo lo faceva con fichi secchi. Finalmente quando era ben grassa, dava alla vittima una gran bevanda di acqua melata, e così la faceva morire subitamente di ripienezza.

Il canonico Luigi Nardi dà per l’etimologia del Porcus Troianus: Avevano ben ragione di chiamarlo con tale nome; poichè siccome il Cavallo Trojano, che pure fu inventato da un cuoco greco di nome Epeo, era gravido d’armi e d’armati, così le loro porchette avevan l’anima di eccellentissimi ingredienti composti, che formavano un assai buono e badiale ripieno. Ecco perchè le chiamavano Porcus Troianus.

Nel Porcus Troianus vi mettevano per entro, i Romani, oltre il pepe, gli aromati, sali e le altre cose di rubrica, dei tordi, beccafichi arrostiti, rossi d’uova, salsiccia, vulve abbocconate o trinciate, e qualche volta dei crostacei, o a dir meglio dei frutti marini come ostriche, pettini e simili. Udito Macrobio: turdi assi, ficedule, vitelli ovorum, et ostrea, et petinis, lucanica, vulvae concisae, ecc. Le vulvae concisae però, cavate dalle porcelle stesse erano il miglior boccone e di cui facevasi dai Romani la più squisita e ghiotta pietanza, che avessero, ed il descrivere la quale troppo lungo sarebbe, rimettendo gli amatori dell’antichità a Plinio, a Marziale, a Macrobio ed altri, contentandomi di accennare la stima che ne facevano i due celebri poeti Orazio e Giovenale. Il primo così si esprime:

Nil milius turdo, nil vulva dulcius ampla.

[228]

Ed il secondo:

Qui meminit calidae sapiat quid vulva culinae.

Non solo i Romani, ma anche gli Etruschi, gli antichissimi Greci ebbero l’uso di immolar le porchette nelle nozze, assicurandoci Varrone che la porca uccidevasi non solo nella alleanza de’ Regi, ma eziandio dai Magnati di Etruria in principio dello loro nozze, nelle quali moglie e marito immolavano la porca; dagli antichissimi popoli del Lazio prima dei Romani; e Varrone ne rende le doppie ragioni. La prima perchè dovevasi la Porca immolare nelle alleanze, e lo sposalizio è l’alleanza legittima e perpetua di un maschio con una femmina, definizione che Baldo istesso non saprebbe migliorare; la seconda per la ragione mistica di sua fecondità. Auguravasi così alla sposa che fosse feconda; ed immolavasi come animale alla Cipria Dea assai devoto: Mactatabur Porca non modo quia omnium animalium maxime in Venerem prona est, sed etiam ut nupta in suscipiendis liberis foecunda esset ut scropha, quæ olim inventa est sub ilicibus, la quale fece tanti figli in una volta, come dice Virgilio:

........... Ingens inventa sub ilicibus Sus

Triginta capitum foetus enixa.

I Romani pertanto come gli Argivi ed i Re, e potenti dell’Etruria, nelle nozze a Venere dea della voluttà la porca sacrificavano, come altri la sacrificavano alla sorocchia di Giove, cioè a Giunone Iugale, nel cingere la Zona alle nuove spose, per significare l’amore coniugale ove fu anche appellata la porchetta Sacrificium Nuptiale ed io scommetterei (dice sempre il dotto canonico) un pescennio nigro che l’uso di chiamare oggidì le Nozze il giorno, in cui si mangian le primizie del porco frescamente ucciso, deriva da questi sacrifizi nuziali antichi, [229] indispensabili a tutti gli sposalizii. Se poi questa porchetta fosse la famosa nuziale pietanza detta Nuptialis o Nuptialicus, su cui si son rotte lo teste tanti antiquari, a me non appartiene il definirlo, benchè inclini a crederlo.

«Fastosi andar dobbiamo noi, che nei nostri paesi (dice il canonico riminese) conservata abbiamo un eroica vivanda, che altrove comunemente non usasi e che nulla ha di comune coll’antica napoletana porchetta o con quella della soppressa famosissima bolognese birrichinaglia[18], ma che è totalmente antica, totalmente nobile, totalmente nostra propria....»

Fu Enea il primo che ai Lari sagrificò la scrofa coi figli, al dire di Dionigi di Alicarnasso presso il Grenovio T. vii. col. 165. Furono anche detti perciò Lares Grundiles. Orazio (III. 23):

Si thure placaris, et horna

Fruge Lares, avidaque Porca

E altrove

Immolet æquis

Hic Porca Laribus.

E Tibullo (Lib. 1. Eleg. 4.):

At nobis aerata, Lares, depellite tela,

Hostia erit e plena mystica Porcus ara.

[230]

Così nelle Feste Compitali, che ai Lari erano sacre gli antichissimi Romani descritti da Properzio (lib. 4. eleg. 1) sagrificavano il porco

Parva saginati lustrabant Compita Porci.

Immolavasi anche nei notissimi sagrifizi Suovetaurilia così detti, come indica il nome stesso, perchè sagrificavasi prima il porco, poi la pecora, infine il toro. Le famose Tavole Eugubine anch’esse ricordano sagrifizi porcini.


Tra i canoni pagati all’Episcopio di Rimini, incontrasi nel XIV secolo quello singolare ed unico del Compito di un porchetto. Vedasi il Fantuzzi, Monum. Ravenn. Tom. VI. anno 1376 ed il codice di Leale Malatesta. Anche Rimini città vicina al Compito nel XV secolo cooperò molto per la restaurazione delle Porchette. Negli antichi Statuti Riminesi del 1464. Rubrica CXLV del Libro 2 (Vedi il Fantuzzi loc. cit. ed il ch. Battaglini. Memorie storiche di Rimini, parte 2. pag. 140) leggesi «In Festo» .... annuatim curratur bravium octo brachiorum scharlecti qui detur primo venienti, et una Porchetta quæ detur secundo venienti et unus Gallus cum uno marsupio novo ad collum dicti Galli cum una libra piperis qui detur ultimo venienti. Quod bravium dictis Porchetta et Gallo debeant stare in capite fori, etc.

È singolare anche il porco che pagavasi nel secolo X da un fondo confinante col Rubicone come vedesi in una carta dell’anno 952 nel Fantuzzi. Mon. Rav. T. 1. pag. 132.

FINE.

[231]

INDICE

Una parola al lettore Pag. 7
 
CAPITOLO I.
 
La Sardegna vuol essere amata. — Le città della Sardegna. — Cagliari. — I giardinetti e un pazzo di San Bartolomeo. — Sassari e una lezione di storia. — Le grandi e le piccole borgate della Sardegna. — I villaggi e gli stazzi 13
 
CAPITOLO II.
 
La natura In Sardegna. — I boschi d’aranci di Millis. — Lande e foreste. — Fauna. — Gli uomini della Sardegna. — Etnografia sarda e tipi più salienti. — Le donne sarde. — Mancanza del proletario. — Carattere e costume dei Sardi. — Aneddoti di vendette e d’amori. — Foggie di vestire. — Ospitalità splendidissima dei Sardi. — Pranzi e gastronomia 59
 
CAPITOLO III.
 
I proverbi sardi. — Classificazione e statistica dei proverbi. — Le superstizioni studiate nel proverbio. — Virtù, vizi ed usi ricercati per questa via. — L’agricoltura, la medicina popolare e la meteorologia dei proverbi. — Corsa attraverso i proverbi morali, filosofici e satirici 118
 
[232]
CAPITOLO IV.
 
La poesia popolare In Sardegna. — La giunta municipale di Bortigadas. — Gli Improvvisatori e le loro lotte poetiche. — Poesie amorose. — Poeti sacri, antichi e moderni. — I misteri. — Poeti epici ed elegie. — Satire festevoli ed amare. — Poesie bernesche. — Poesie sardolatine dell’abate Madao 154
 
CAPITOLO V.
 
Le malattie della Sardegna. — La malaria e l’inerzia. — Drenaggio ed educazione. — L’Arcadia esiste anche in Sardegna e più che mai. — Agricoltura e vini. — Monti granatici e barraccelli. — Scarsa popolazione dell’Isola. — Chi debba salvare la Sardegna 190
 
Nota sul porchetto dei Sardi 221

NOTE:

1.  Ho mutato alcune circostanze del fatto, volendo rimaner scrittore e non diventare accusatore; e amando meglio ritrarre un tipo del vero che una fotografia.

2.  Itinerario dell’Isola di Sardegna del Conte Alberto Della-Marmora, tradotto e compendiato con note dal Canonico Giovanni Spano. Cagliari 1868.

3.  Itinerario dell’Isola di Sardegna del conte Alberto Della-Marmora, tradotto e compendiato con note dal Canon. Giovanni Spano. Cagliari 1868, pag. 401.

4.  Mantegazza. Rio dela Plata e Tenerife. Milano 1867 pagina 676.

5.  Lamarmora e Spano, Itinerario dell’Isola di Sardegna. Cagliari 1868, pag. 111.

6.  Heinrich Freiherr von Maltzan. Reise auf der Insel Sardinien. Leipsig, 1869. pag. 164.

7.  His quondam (τὸ παλαιον) irati Barbaris Vandali, exiguam eorum manum cum uxoribus ablegaverunt in Sardiniam, ibique clausos continebant. Progrediente tempore (χρόνου προϊοντου) elapsi illi, vicinos Carali monte occuparunt: unde viciniam occultis latrociniis infestarunt initio. Denique cum ad 3000 excrevissent, renuntiarunt latebris, ita ut aperte circumiectis in locis omnibus grassarentur, dicti ab indigenis Barbaricini. Hos contra Mauros Salomon hac hieme classem paravit.

De bello vand., II, 13.

8.  Il culto dei Sardi per la barba è espresso nel proverbio: homine de paga barba, homine de paga proe; uomo di poca barba uomo di poco valore.

9.  È fatto costante questo che là dove il terreno è più fertile, dove un immegliamento nella coltura sarebbe più possibile e proficuo, ivi il terreno è frazionato in parti infinitesimali. Migliaia di appezzamenti non rappresentano che la estensione di poche are. La smania del frazionamento è giunta a tal punto che in alcuni comuni poche are di terreno, ove sorgono due piante appartengono a tre distinti proprietari: uno, cioè, possiede il suolo, ed altri due una pianta ciascuno; altrove in una estensione ristrettissima di terreno vignato sonovi quattro o cinque proprietari, ciascuno dei quali non possiede che pochi ceppi di vite. Sulle condizioni della Sardegna. Osservazioni e Proposte del Comitato Popolare di Cagliari alla Commissione Parlamentare d’inchiesta pag. 6.

10.  Noi non abbiamo voluto rubare il mestiere ai filologi, ma cogliere soltanto nelle poesie popolari sarde una parte dello spirito dei nostri isolani, e perciò non siamo entrati in questioni di lingua. Convien però ricordare che la Sardegna ha tre dialetti principali; il meridionale parlato in Cagliari, Iglesias, Tortoli, Oristano, da quanti insomma vivono da Spartivento al Belvi; il centrale parlato in Logudoro (e detto quindi loguderese) da Gennargentu fino al Limbara; e il settentrionale che è parlato dai Sardi di Sassari e di Gallura. Vedi Giovanni Spano, Vocabolario Sardo-Italiano, Cagliari 1851.

11.  Avere il panno vale avere il premio, vincere; ed è preso dai Berberi che danno ai cavalli vincitori nella corsa un pezzo di broccato o di panno.

12.  Pietro Cherchi, il Demodoco sardo, come mi scrive quell’adorabile uomo che è il Canonico Spano, era un prodigio di memoria. Sagrestano, serviva la messa, suonava le campane; conosceva tutti per nome; distingueva al tatto le monete ed anche i colori. Poeta, componeva e improvvisava nella sua città versi che spezzavano il cuore.

13.  Tommaso Pischedda. Canti popolari dei classici poeti sardi tradotti ed illustrati. Sassari, 1854, pag. 183.

14.  Cheirasco. Sulle condizioni igieniche della Sardegna. Cagliari 1865. — Efisio Massa e Giovanni Masnata. Memoria sull’intemperia di Sardegna, presentata al signor Governatore della Provincia di Cagliari, ecc.

15.  Sulle condizioni della Sardegna. Osservazioni e proposte del Comitato popolare di Cagliari alla Commissione Parlamentare d’inchiesta, pag. 9

16.  Op. citata pag. 16.

17.  Tigrinto Bistonio. Elogi del porco, Canto 11.

18.  È nota la porchetta che al 24 agosto dai magistrati bolognesi distribuivasi alla ciurmaglia bolognese, appellata birichinaglia, e gli individui della medesima birichini. La porchetta bolognese ebbe origine da un fatto accaduto in Faenza nel 1281. Tigrinto Bistonio, parlando della porchetta bolognese e della birichinaglia, dice italianamente:

Ciurmaglia BERETTINA in quantità.

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