The Project Gutenberg eBook of Lo Stato e l'istruzione pubblica nell'Impero Romano

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Title: Lo Stato e l'istruzione pubblica nell'Impero Romano

Author: Corrado Barbagallo

Release date: February 8, 2024 [eBook #72900]

Language: Italian

Original publication: Catania: Battiato, 1911

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LO STATO E L'ISTRUZIONE PUBBLICA NELL'IMPERO ROMANO ***

LO STATO E L’ISTRUZIONE PUBBLICA NELL’IMPERO ROMANO


CORRADO BARBAGALLO

LO STATO
E
L’ISTRUZIONE PUBBLICA
nell’Impero Romano

CATANIA
FRANCESCO BATTIATO, EDITORE
1911


PROPRIETÀ LETTERARIA

Catania, Stab. Tip. Cav. S. Di Mattei & C.



INDICE


[5]

INTRODUZIONE

L’istruzione pubblica in Europa è tutta creazione italica. Il più geniale dei filologi francesi, Gastone Boissier ha illustrato mirabilmente, da par suo, questo grandissimo, tra i meriti della nostra stirpe, nella storia della civiltà umana: «Appena gli eserciti romani erano penetrati nei paesi sconosciuti, vi si fondavano scuole; i retori vi giungevano dietro le orme del generale vincitore, portando seco la civiltà. La prima cura di Agricola, appena ebbe pacificata la Britannia, fu di ordinare che ai figli dei capi s’insegnassero le arti liberali.»

«Appena i Galli furon vinti da Cesare, si aperse la scuola di Autun. Per farci intendere che presto non vi saranno più barbari e che gli estremi paesi dal mondo si inciviliscono, Giovenale dice che nelle più remote isole dell’Oceano, perfino a Thule, si pensa di far venire un retore. La retorica conquistava il mondo nel nome di Roma, e i Romani sentivano di doverle una grande riconoscenza e che l’unità del loro impero si era fondata nella scuola. Popoli, che differivano fra loro per l’origine, per la lingua, per le abitudini, per i costumi, non si sarebbero mai così [6] fusi insieme se l’educazione non li avesse raccostati e riuniti. Ed essa vi riuscì in modo mirabile. Nell’elenco dei professori di Bordeaux, quale Ausonio ce l’ha tramandato, noi vediamo figurare insieme e vecchi romani e figli di Druidi e sacerdoti di Beleno, l’antico Apollo gallico, che insegnano tutti, come gli altri, grammatica e retorica. Le armi li avevano mal sottomessi; l’educazione li ha interamente domati»[1].

Non ostante così grande merito, la letteratura storica del nostro paese è forse l’unica, che non possegga una sola monografia sulla forma e sullo svolgimento della istruzione pubblica nell’evo antico. Ma tale considerazione, per quanto grave, non potrebbe, forse, giustificare del tutto un nuovo studio sull’argomento. La cultura moderna, che ha come suo carattere la internazionalità, riesce a prevenire, il più delle volte, il desiderio, o il bisogno, di una produzione nazionale su determinati oggetti d’interesse generale. E precisamente, nel caso nostro, nonostante la mancanza di lavori italiani, nonostante che anche la letteratura francese, ch’è stata in ogni secolo un mezzo maraviglioso di diffusione delle idee, non ce ne porga compenso adeguato, potremmo pur dire di avere molto da attingere, dalla produzione storico-pedagogica dei popoli dell’Europa non latina, specie, come sempre, dalla grande nazione tedesca e un po’ anche (chi l’avrebbe mai detto?) da quella delle nazioni slava e ungherese[2].

[7]

Ma tutti questi scritti, che, salvo poche eccezioni, riescono quasi inaccessibili alla maggior parte dei lettori e degli studiosi italiani, sono macolati in genere da due difetti organici. L’uno è ch’essi fondono insieme la trattazione della istruzione pubblica romana con quella greca,[3] il che, a sua volta, produce due conseguenze fatali: la negligenza dello studio dell’istruzione pubblica nel mondo latino, la cui importanza viene, praticamente, rimpicciolita ed oscurata, e la confusione di tipi, di istituti e di condizioni, che, se hanno fra loro innegabili rapporti di analogia e di parentela, rimangono pure profondamente distinti. L’altro difetto è che tutte le monografie, esistenti sulla istruzione pubblica nel mondo romano, o romanizzato, si sono esclusivamente limitate a dare un’idea — sia pure esatta e minuta — del meccanismo interiore della scuola a tipo classico. Or bene, di questo noi siamo oggi perfettamente informati, e non mette in verità conto proseguire ad occuparcene. Ma ciò non significa punto che si possegga — o si sia fornito — un adeguato concetto della diffusione, e delle condizioni della istruzione pubblica, nel mondo romano.

Questo concetto può solo scaturire dall’esame degli istituti scolastici, nei vari paesi dominati da Roma; ma è appunto tale studio che può dirsi manchi interamente alla letteratura pedagogica europea.

Inoltre, da questa insistenza delle varie monografie a dissertare del funzionamento della scuola greca e [8] romana, consegue un difetto ancor più grave per il nostro studio: la trascuranza delle sue specifiche condizioni durante l’età imperiale. Infatti, poichè il generale ordinamento interno della scuola romana, nel massimo fiorire della repubblica, differisce assai poco da quello della medesima nell’età successiva, è chiaro che chi ha illustrato la prima non ha poi creduto necessario ripetere il lavoro per la seconda, nella quale tuttavia gl’istituti di istruzione pubblica raggiunsero il loro più notevole sviluppo.

Da queste premesse il lettore può in anticipazione rappresentarsi alla mente le linee generalissime del lavoro, che crediamo debba ancora essere tentato dagli studiosi europei, e specialmente dagli italiani. Esso dovrebbe riuscire da un lato alla illustrazione di tutti gli elementi specifici, apportati da l’impero romano nell’istruzione pubblica del mondo da esso dominato; dall’altro, a una serie di monografie sulle condizioni, le vicende, lo svolgimento di questa istruzione, nei varii paesi, che soggiacquero alla dominazione romana. Appunto perciò la prima parte di uno studio, quale noi lo concepiamo, deve essere dedicata a chiarire la natura dei rapporti tra il governo centrale e la istruzione pubblica, e a dare l’idea dello svolgimento di questa forma della politica imperiale; perchè la caratteristica dell’istruzione pubblica nell’impero, quella che tutte le altre accoglie e subordina, fu appunto l’ingerenza del potere centrale, che concluse con la creazione di quella istruzione di stato, ch’è oggi il tipo più universale, quella anzi che noi siamo indotti a identificare con l’istruzione pubblica propriamente detta.

Tale l’indagine storica, che oggi presento ai lettori, [9] e che mi è riuscita meno agevole di quanto la natura del soggetto farebbe supporre, sopra tutto a motivo della incertezza dei suoi mutevoli confini, che ho dovuti a ogni passo rimettere in discussione. Infatti, con la parola istruzione, io non volli intendere soltanto la coltura intellettuale, ma anche l’educazione morale; nè l’una e l’altra volli identificare con certe categorie determinate, oggi a noi più familiari, dell’insegnamento, ma le sorti di entrambe ricercare attraverso tutte le varie, impreviste forme, in cui si esplicò l’azione dei principi e dei governi, che furono intenti ad istruire e ad educare. Era per ciò facile — e quindi pericoloso — che il nostro studio storico sull’istruzione pubblica si tramutasse in un saggio sulla cultura intellettuale del tempo, o, peggio, in una dissertazione sul mecenatismo dei principi romani. Ma, per quanto, all’atto pratico, le varie distinzioni non riescano agevoli, tuttavia io mi sono sempre guardato dal cadere in siffatti equivoci, e, se di cultura o di mecenatismo ho qualche volta discorso, è stato solo per mettere uno sfondo al quadro, o una premessa alla dimostrazione.

Ugualmente facile (o pericoloso?) era venire a discorrere di certe forme d’istruzione speciale, che vantò anche l’impero romano e di cui possono indicarsi, quali esempi, le scuole d’armi, le scuole dei gladiatori etc. Ma è parso a me evidente che questi e simili istituti non rientrassero nel concetto generale d’istruzione pubblica, a cui pure viene subordinata, per certi caratteri di universalità, anche l’istruzione professionale, e ho tralasciato questa parte, che forse, anche, avrebbe richiesto per se sola tutta una speciale trattazione.

Ma tali gravi difficoltà nel fissare i limiti del mio [10] compito sono piccole e scarse rispetto alle numerose, suscitate dall’esame dei mille argomenti e dei mille svariatissimi problemi, coi quali il soggetto del presente studio va indissolubilmente congiunto. Moltissimi invero tra questi non hanno ancora avuto una trattazione o una soluzione definitiva; molti non ne hanno avuta nessuna, e io mi sono, caso per caso, dovuto accingere a fornirne qualcuna. Non mi illudo di avere sempre colto nel segno; sarebbe presunzione eccessiva. Sono però convinto d’avere sempre, nei limiti delle mie forze, compiuto il mio dovere di ricercatore e sopra tutto di avere soddisfatto a quell’obbligo, che è sommo per chiunque, e che il più grande storico dell’arte antica incideva in una frase scultoria dell’opera sua maggiore, l’obbligo cioè di ogni studioso «di non mai paventare la ricerca del vero, anche se a pregiudizio della propria estimazione», chè «i singoli debbono errare, affinchè i molti procedano verso la verità»[4].

[11]

CAPITOLO I. Gli Imperatori di casa Giulio-Claudia e l’istruzione nell’Impero Romano.
(30 a. C.-68 d. C.)

I. La politica scolastica degli Imperatori di casa Giulio-Claudia. I privilegi di Augusto ai praeceptores. Una scuola di stato per la nuova aristocrazia imperiale. — II. Le biblioteche pubbliche augustee. — III. Il governo di Augusto e la custodia delle opere d’arte. — IV. Augusto e l’immunità dai carichi pubblici ai medici e ai docenti di medicina. — V. Augusto e la nuova educazione della gioventù. — VI. Contenuto religioso e morale di questa educazione. — VII. Augusto istituisce un ufficio di sovrintendenza generale su l’istruzione e l’educazione della gioventù romana. — VIII. Augusto e l’istruzione pubblica nelle provincie; la biblioteca del Sebasteum; l’amministrazione e la direzione del Museo alessandrino. — IX. L’istruzione pubblica e il governo centrale da Augusto a Nerone. Caligola e i concorsi di eloquenza. Il Museum Claudium. — X. La corte e la sua influenza sulla nuova aristocrazia. I concorsi di eloquenza istituiti da Nerone e l’incremento degli studi di retorica. Il governo di Nerone e gli studi di filosofia. — XI. Le immunità agli insegnanti datano probabilmente da Nerone. — XII. Rassegna e ampiezza di queste immunità. — XIII. Casi di immunità speciali a favore degli insegnanti primarii. — XIV. Nerone e l’ellenizzarsi dell’educazione fisica in Roma. — XV. Nerone e l’incremento dell’istruzione musicale. — XVI. I successori di Augusto e le organizzazioni giovanili a Roma e in Italia. — XVII. Nerone ricompone le biblioteche perite nell’incendio del 64. — XVIII. Gli Imperatori di casa Giulio-Claudia e gli studi di giurisprudenza. — XIX. Il nuovo regime e l’istruzione pubblica.

[12]

I.

Ebbero, e praticarono, gl’imperatori della casa Giulio-Claudia quella che oggi si direbbe una politica scolastica loro propria? Chi scorra, anche con diligenza, le trattazioni esistenti sulla storia dell’istruzione e dell’educazione nel mondo romano non può non rispondere negativamente. Il governo di quegli imperatori sembra rimanere estraneo a tutta l’operosità ufficiale svoltasi in questo campo durante il primo secolo di C. Eppure, è ben difficile dire se altre dinastie abbiano, nello svolgimento dell’istruzione e dell’educazione nazionale, esercitato un’influenza pari a quella dei Giulio-Claudii, come è altrettanto difficile indicare i principi romani, che ne abbiano, in maniera egualmente larga, affrontato il non agevole problema.

Fra essi, al posto di onore, va, come era prevedibile, collocato Augusto. Tre sono i provvedimenti, che di lui si sogliono ricordare, e che, direttamente e indirettamente, si connettono alle cure dell’istruzione pubblica: 1) un privilegio concesso ai docenti nell’occasione di una grande carestia; 2) l’istituzione di una scuola pei principi; 3) l’istituzione di pubbliche biblioteche.

Augusto continuò il concetto e la politica di Cesare. Per lui, come per il suo grande predecessore, i maestri delle scuole elementari, medie e superiori, erano, nella vita dello stato, non quantità ingombranti, ma elementi di forza e di benessere sociale. Così, nell’occasione di una grande carestia in Roma, probabilmente quella del 10 di C., egli fu costretto a ordinare lo sfratto di tutte le ciurme di schiavi trasportati a Roma per la vendita, [13] di tutte le bande di gladiatori, persone, come si vede, destinate a uffici, o esercenti mestieri, dei cui vantaggi il pubblico romano nè soleva, nè sapeva, privarsi. Il decreto di sfratto fu esteso a buona parte degli schiavi addetti ai servizii domestici e pubblici in Roma — si voleva, pare, diminuire ad ogni costo il numero delle bocche — nonchè a tutti i forestieri. Chi ha un’idea di quello che sogliono essere le città capitali, specie se città cosmopolite, può formarsi una lontana idea degli effetti di quest’ultima parte del decreto imperiale. Chè Roma non era soltanto una capitale; era, in quel tempo, la capitale del mondo, era l’universal porto di mare, era la città, che, come si esprimevano i suoi poeti, sarebbe cessata di vivere, se gli stranieri non l’avessero colmata di loro stessi[5]. Privarla di tutti i forestieri era lo stesso che mutilarla di una parte viva del suo organismo. Tra quei forestieri numerosissimi erano i greci, anzi gli abitatori di tutto il mondo ellenizzato, e, quindi, i pedagoghi, i litteratores, i grammatici, i rhetores[6]. Con la loro espulsione Roma sarebbe rimasta priva di una buona metà di coloro che v’impartivano l’istruzione. E due sole eccezioni Augusto fece: l’una per i praeceptores,[7] l’altra per i medici, maestri anch’essi, come vedremo;[8] e il privilegio accordato significò che, per il primo degli imperatori romani, ridurre al popolo il pane della scienza era più dannoso del lasciarne ridurre il pane quotidiano.

[14]

Di Augusto — dicemmo — si rammenta altresì l’istituzione di una scuola pei principi. Svetonio, esponendo la biografia del grammatico Verrio Flacco, narra che, «scelto da Augusto quale precettore ai suoi nipoti, egli passò nel palazzo imperiale con tutta la sua scuola ma con l’impegno di non ammettervi più alcun altro discepolo. Ivi egli fece lezione nell’atrio della domus Catilinae, che era allora una parte del palazzo imperiale, con lo stipendio annuo di 100,000 sesterzi»[9]. (L. 25,000 circa).

Qualche storico[10] ha raccostato tale fatto al provvedimento dell’imperatore Vespasiano, di cui avremo a suo tempo ad occuparci, pel quale taluni dei retori greci e latini furono stipendiati a spese pubbliche.[11] Evidentissimamente, il paragone non regge: i due atti sono di natura essenzialmente diversa. Vespasiano, col suo provvedimento, metterà a disposizione del pubblico dei buoni maestri, reggenti scuole pubbliche, e porrà, accanto alle altre, una scuola di paragone, di cui toccava allo stato scegliere gl’insegnanti. Augusto invece confiscava a beneficio di una ristretta classe di persone una scuola aperta per l’innanzi al pubblico. E il suo tentativo, se a qualcosa, accenna, non già all’avocazione della scuola allo stato, bensì al regime della istruzione domestica.

Ma senza dubbio una scuola esclusivamente domestica la sua non fu. I cittadini e i residenti in Roma mandavano i loro figliuoli ad istituti di vario merito e [15] di vario nome. È quello che accade in ogni tempo per le scuole rette da privati. Ogni cittadino sceglie il maestro più consono al suo modo di vedere in fatto di questioni morali, politiche, didattiche, e più acconcio alle proprie risorse economiche. Ogni classe sociale ha quindi gli istituti privati, in cui preferisce mandare i suoi figli. La scuola di Verrio Flacco dovette essere quella dell’aristocrazia romana. Augusto vi mandò i suoi nipoti, e ne chiuse l’accesso ad elementi estranei, e stipendiò, a compenso dei danni eventuali, nonchè a garanzia propria, il maestro. Egli alimentò così la scuola della nuova aristocrazia romana imperiale.

Ma fece anche di più: «educò ed istruì, insieme con i propri, i figliuoli di molti principi alleati di Roma»[12].

Egli dunque, mentre da un lato alimentava una scuola per l’aristocrazia romana, dall’altro voleva che quella scuola fosse un corso speciale per l’istruzione dei principi romani e di quelli, che con Roma vivevano (ed egli desiderava vivessero) in rapporti amichevoli. Per tal via la scuola di Verrio Flacco assumeva un chiaro intendimento politico, Augusto mirava a consolidare e a conquistare, con la voluta somiglianza dei costumi e dell’indirizzo educativo, con l’intimità dei rapporti personali, i buoni rapporti internazionali dello Stato romano. L’opera saggia, ma di un carattere affatto diverso da quella che inizierà Vespasiano, è dunque, sopra tutto, un’opera personale di Augusto. E onere suo personale fu con certezza lo stipendio fornito a Verrio [16] Flacco, che non gravava sul bilancio dello Stato, bensì sulla cassa privata del principe. Questo particolare però non deve avere l’importanza, che potrebbero farvi attribuire analogie contemporanee. È notorio: nell’impero romano i confini tra la cassa privata dell’imperatore e il bilancio dello Stato, fra le attribuzioni personali dell’imperatore e quello del governo centrale, furono sempre assai incerti, e le istituzioni ed erogazioni del principe potevano bene — nel loro valore politico — apparire — od essere — un atto dello Stato, come ogni pubblica iniziativa assurgere — nel suo merito — a iniziativa personale dell’imperatore.

II.

Più notevole, nei rapporti con l’istruzione pubblica, si fu l’istituzione di pubbliche biblioteche. Questo era stato uno dei propositi migliori di Giulio Cesare;[13] uno dei tanti, che il pugnale dei congiurati aveva spezzato con la sua vita.

In sui primi anni dell’êra cristiana, l’idea veniva ripresa da un privato cittadino, C. Asinio Pollione, e da lui attuata con l’apertura al pubblico di una biblioteca greco-latina[14]. Augusto collaborò da par suo all’opera di Pollione.

La prima biblioteca augustea fu la Palatina, fondata nel 28 a. C. nel luogo stesso, in cui la casa di Augusto era stata colpita dal fulmine, perchè ivi — gli [17] aruspici avevano spiegato — Apollo reclamava l’erezione di un suo tempio. E sorse il tempio, e, col tempio, un portico, nonchè una biblioteca greco-latina[15].

La seconda biblioteca, fondata da Augusto, fu l’Ottaviana (25 a. C.)[16]. L’incarico di ordinarla venne affidato al grammatico Caio Melisso[17], un personaggio del circolo di Mecenate; e come la precedente, anzi, come tutte le biblioteche del tempo, essa ebbe al solito due sezioni: una greca e una latina.

Quanto al mantenimento e al personale delle due biblioteche, noi non possediamo nessuna precisa notizia dell’età di Augusto, o almeno nessuna, riferibile a questo tempo. Ma, dall’analogia dei decenni più prossimi, possiamo trarre la conclusione che il personale, almeno nei gradi più elevati, fu allora, per la Palatina, reclutato tra gli ufficiali della casa e gli addetti alla cancelleria del principe, e che il mantenimento gravò sul fiscus imperiale[18]. Quanto alla Ottaviana, in epoca impossibile a determinare, noi troviamo codesto istituto di proprietà municipale[19]. Se quindi essa venne fondata dall’imperatore appositamente per il municipio di Roma, il personale e il suo mantenimento dovettero, fin da Augusto, gravare solo sull’aerarium cittadino, senza che la cassa speciale del principe si addossasse altre spese all’infuori di quelle della fondazione. Se [18] invece tale trapasso avvenne in età più tarda, la sua sorte, durante il regno di Augusto, dovette essere identica a quella della Palatina e perciò la biblioteca dipendere direttamente dal governo centrale. Come che sia, anche a proposito delle biblioteche di Augusto, ha pieno valore il rilievo, che credemmo opportuno fare discorrendo della scuola dei principi. In questi primi albori del governo imperiale, noi non riesciamo a distinguere esattamente quanto merito spetti alla persona dell’imperatore, quanto alle iniziative del governo, quali e quanti carichi si addossi il primo, quali e quanti tocchino al secondo. Ma noi dobbiamo, egualmente, soggiungere quello che allora dicevamo. «Nell’impero romano, i limiti fra la cassa privata dell’imperatore e il bilancio dello Stato, fra le attribuzioni personali dell’imperatore e quelle del governo centrale, furono sempre assai incerti, e ogni istituzione od erogazione del principe poteva bene — nel suo valore politico — apparire, od essere, un atto dello Stato, così come ogni pubblica iniziativa assurgere — nel suo merito — a iniziativa personale dell’imperatore». E questo criterio, a motivo della natura del servizio, cui ora più specialmente ci riferiamo, va affermato con maggiore intenzione di quello che nel precedente paragrafo non facemmo.

III.

Come per la fondazione delle prime pubbliche biblioteche, il governo di Augusto va segnalato per la inaugurazione dei primi Musei e delle prime pubbliche Pinacoteche.

[19]

L’amore e la ricerca delle opere d’arte datava in Roma da molti anni, e fin da Cesare noi notiamo quella che sarà la caratteristica dell’impero: la trasformazione dei templi da luoghi di religione in luoghi effettivamente destinati al pubblico culto dell’arte, i cui monumenti vi si potessero da chiunque conoscere ed ammirare[20]. Ma quivi, come nei luoghi pubblici, non si accoglieva, almeno per ora, che una piccola parte di tutto ciò che l’aristocrazia romana era andata acquistando, o depredando, in Grecia ed in Oriente. La maggiore rimaneva ancora nelle case dei privati, che vi destinavano gallerie apposite, loro dominio e loro geloso godimento. Era chiaro come tutto ciò fosse in contrasto col desiderio delle classi popolari e con gli intendimenti di un governo, che voleva essere democratico. E colui che raccolse il pensiero dei più, il pensiero del governo, e lo espresse pubblicamente all’aristocrazia romana, fu M. Vipsanio Agrippa.

A grippa, sebbene Plinio lo dica uomo, per cui la vita rude riusciva preferibile alla trionfante mollezza del suo secolo,[21] fu uno dei più squisiti amatori delle belle arti, che vanti la storia del mondo civile. Di capolavori artistici ne acquistò molti in Oriente; alla sua edilità si deve la ricostruzione di gran parte di Roma, ch’egli aveva trovato di mattoni e lasciava di marmo. Il suo amore per l’abbellimento edilizio ed artistico non si limitò alla capitale, ma si prodigò anche a favore [20] di altri municipii italici e provinciali[22]. Ed egli, in Roma, non sappiamo in quale occasione della sua fervida attività politica, forse nella circostanza della inaugurazione del Pantheon,[23] pronunziò un discorso, col quale esortava vivamente l’aristocrazia ad aprire al pubblico i proprii musei e le proprie pinacoteche[24].

Noi non sappiamo quanti accogliessero la esortazione, che egli lanciava, non tanto come suo pensiero personale, quanto come pensiero del governo. Sappiamo però di certo che l’accolse colui che già era stato il fondatore della prima pubblica biblioteca in Roma, C. Asinio Pollione, e che ora aperse egualmente al pubblico la sua galleria ed il suo museo[25].

Ma l’esortazione imperiale, che fu tanto efficace da scuotere uno dei più irosi repubblicani del tempo, dovette venire assai più diligentemente raccolta, e meditata, dalla aristocrazia di recente formazione, devota al nuovo regime, e così pedissequa imitatrice, come instancabile ricercatrice, di ogni desiderio che accennasse dall’alto. Sopra tutto è presumibile, anche in mancanza di notizie positive e specifiche, che la pubblicità fosse subito data alle opere d’arte contenute nei musei e nelle pinacoteche imperiali.

Come dunque delle private collezioni di libri greci e latini, così il governo di Augusto è da presumersi [21] autore diretto, e indiretto, della prima esposizione al pubblico delle principali opere d’arte, che sino a quell’ora i felici della capitale del mondo serbavano gelosamente custodite al proprio esclusivo godimento spirituale. Da quest’inizio si svolgerà il piccolo nucleo dell’amministrazione delle belle arti in Roma, che, come vedremo, sarà uno dei meriti della politica degli imperatori del II. secolo dell’êra volgare.

IV.

Ma un atto di Augusto, che sarà il primo anello di una lunga tradizione, un atto che avrà tangibili effetti immediati, non suole essere minimamente ricordato dagli storici dell’istruzione pubblica. Nel 23 a. C. Augusto, guarito da grave malattia, faceva conferire, dal senato, una piena immunità da ogni carico pubblico al medico orientale, che l’aveva salvato e ai suoi colleghi di professione, nè solo ai viventi, ma eziandio ai futuri[26].

Già vedemmo di un privilegio concesso ai medici in occasione della carestia del 10 di C. L’una e l’altra concessione hanno per noi un’importanza notevolissima, in quanto che esse non andavano soltanto a favorire l’esercizio materiale della professione, ma eziandio l’insegnamento medico, creatore a sua volta di nuovi professionisti. Di che, a parte la naturalezza della cosa, abbiamo la esplicita riprova in talune più tarde costituzioni degli imperatori di questo e dei due secoli successivi, nelle quali, ai medici, esentati dai carichi pubblici, si riconosce anche un ufficio insegnativo, ed essi, [22] nella loro qualità di «magistri», vengono collocati accanto ai retori, ai grammatici ed ai filosofi[27].

Nel mondo greco ed orientale, infatti, fiorivano da secoli illustri scuole di medicina. Ne fiorivano ad Atene, a Cirene, ad Alessandria, in Asia Minore, nelle isole dell’Arcipelago, in Bodi, a Marsiglia, nella Magna Grecia, e in altri luoghi ancora[28]. Scuole private fiorivano anche in Roma, specie dopo la concessione della cittadinanza, appositamente largita da G. Cesare ai medici,[29] e quivi ognuno di essi aveva numerosi apprendisti, che egli, dietro onorario, istruiva e conduceva seco al letto dei malati[30]. E in Roma, insieme con l’insegnamento privato, i più famosi medici davano, in luoghi pubblici, conferenze, esperimenti, e si esponevano anche a discussioni, venendo con questa loro attività a costituire un vero e vivo focolare di istruzione medica[31].

A tutti costoro Augusto largiva la esenzione dagli oneri pubblici, e non soltanto alle loro persone, ma anche a quelle dei successori.[32] Si beneficava così, per la prima volta, tutto un genere di insegnamento professionale, [23] ai cui seguaci, pel fatto solo di scegliere una determinata professione, che esentava da numerosi carichi, si veniva a concedere un utile materiale quotidiano[33]. Gli effetti della liberalità di Augusto li rileveremo tra qualche secolo. Il numero degli esercenti la medicina si sarà allora così moltiplicato da imporre una qualche restrizione delle godute liberalità.

Quali fossero intanto gli oneri, da cui i medici, sia nella loro qualità di esercenti che d’insegnanti, venivano, pel momento e per l’avvenire, esentati, noi specificheremo più innanzi, là dove la concessione largita diventerà comune ad altre categorie di «magistri», ed avrà assunto, progredendo, tratti più decisi.

V.

Ma la grande riforma, iniziata da Augusto nell’istruzione e nella educazione della gioventù, la riforma tutta sua, che da sola basta a fargli assegnare un posto eminente nella storia della civiltà italica, si svolge su altro terreno, con altri mezzi, ed è assai strano che gli storici dell’educazione e dell’istruzione nell’impero romano o non ne abbiano tenuto il conto che si doveva, o ne abbiano assolutamente taciuto. Intendo accennare alla prima organizzazione della gioventù italica in quelle associazioni, che saranno i collegia iuvenum romani e municipali.

Le fonti letterarie e storiche ci dànno con sufficiente [24] ampiezza un’idea dei criterii, che, secondo Augusto, avrebbero dovuto informare l’educazione della nuova gioventù romana. Era il ritorno all’antico, all’esercizio fisico, alla vita militare, all’apprendimento e alla pratica della religione dei padri. Orazio, uno dei migliori interpreti del pensiero di Augusto e dei più efficaci diffonditori delle sue idee politico-sociali, cantava:

«Bisogna svellere i germi di ogni tendenza malvagia e temprare le infrollite menti a studii più aspri. I giovinetti inesperti non sanno stare a cavallo e han paura di esercitarsi alla caccia, troppo esperti invece, sia che si invitino al greco giuoco del paleo, sia a quello dei dadi vietati dalle leggi».[34] «Il giovinetto, ingagliardito dall’aspra milizia, apprenda invece a tollerare lietamente l’austera povertà, e, cavaliere temuto, tormenti coi colpi della sua lancia i Parti, e viva sotto l’aperto cielo, nell’ansietà dei cimenti»[35].

Dione Cassio, in una, storicamente famosa, allocuzione ad Augusto, ch’egli mette in bocca a Mecenate, ripete fedelmente, sebbene più prosaicamente: «Che i fanciulli dell’ordine senatorio ed equestre frequentino le scuole, e, appena divenuti adolescenti, apprendano a cavalcare e si addestrino nelle armi, avendo all’uopo maestri stipendiati dallo Stato per l’uno e per l’altro insegnamento[36]. Così essi, sin da fanciulli, [25] saranno atti a sè e a ogni cosa, e capaci di fare quanto è necessario che facciano gli adulti, sia per averlo appreso che per averlo praticato»[37].

L’idea radiosa era nel pensiero e nel cuore di tutti i poeti civili del tempo, nel cuore degli amici e dei frequentatori del circolo di Augusto. Con quale compiacenza Virgilio non descrive le exercitationes e i ludi campestres della antica gioventù latina! «E già i giovani al termine della via vedevano le torri e le alte case dei Latini, e si accostavano al muro. Innanzi alla città, fanciulli e giovinetti si esercitavano a montare a cavallo, a reggere carri nell’arena, a tendere gli archi difficili, a vibrare dardi, e si sfidavano alla corsa ed al getto».[38] «Siamo noi una gente vigorosa fin dalla nascita. Noi portiamo ai fiumi i fanciulli appena nati e li tempriamo nelle acque gelide. I fanciulli frequentano le cacce e percorrono le selve; è loro giuoco domare i cavalli e tendere le saette su l’arco corneo. I giovani poi, tolleranti della fatica e contenti di un parco vitto, o lavorano il suolo, o battono in guerra le fortezze. Ogni età si esercita nelle armi, e l’asta rovesciata è il pungolo pei nostri giovenchi»[39].

E con quale compiacenza, a vieppiù esaltarli, non vi contrapponeva egli i costumi e la vita del mondo greco-orientale! Il mondo, in cui si vestono abiti tinti di croco e di porpora, ove la vita scorre tra gli ozii, i piaceri, le danze. Il mondo, in cui si portano turbanti [26] intricati di nastri, e tuniche con maniche che impacciano; il mondo, ove non si conosce che il frastuono dei timpani e delle bifori tube di Cibele![40]. Oh, strappare la gioventù, e non la sola gioventù romana, alla perdizione, cui la guidavano gli invadenti costumi greco-orientali, ricondurla all’antico, e renderla gagliarda e sana di corpo e di spirito, gagliarda come l’antico figliuolo del suo progenitore,[41] infonderle il sentimento del dovere, della sua partecipazione alla vita dello Stato, renderla capace e degna della difesa e della gloria della patria!

Così Augusto disciplinò in quadri ufficiali la gioventù romana, rinnovò la consuetudine dell’antica educazione fisica, creò e organizzò un’efebia italica. Egli, sulle orme del padre suo, richiamò a certa vita l’antico equestre lusus Troiae per i fanciulli[42] e i ludi sevirales per i tirones, i giovinetti dai quindici ai diciasette anni[43], che dovevano anche partecipare ad altri giuochi ginnastici, a corse di carri, a cacce di bestie feroci nel circo[44].

Così essi, ora, come ai begli anni della storia romana,[45] tornano — prima del servizio militare — a esercitarsi [27] quotidianamente al campo di Marte, marciano, cavalcano, nuotano, lottano, s’addestrano nel maneggio delle armi, nel getto del disco, dei dardi[46]. E come gli efebi greci riconoscevano, suprema autorità, il cosmeta, così i nuovi efebi romani riconoscono, quale loro cosmeta, l’imperatore. Come, in Grecia, la vita, gli studii, gli esercizii ginnastici e militari degli efebi erano guidati dai παιδορίβαι, in Roma, i fanciulli e gli efebi hanno i loro maestri: i magistri dei lusus Troiae, i magistri iuventutis,[47] i seviri equitum. E come la gioventù di ogni città greca aveva avuto un magistrato onorario, l’ἅρχων ἐφήβων,[48] così tutta la iuventus romana ha, quale magistrato onorario, il princeps iuventutis, che di consueto è un membro della famiglia imperiale.[49]

VI.

Ma la nuova organizzazione della gioventù non doveva — dicemmo — essere solo una federazione ginnastica.

Augusto voleva animarla spiritualmente, gettarvi dentro un contenuto religioso. Augusto — è noto — fu un riformatore, anzi un restauratore, anche in religione. Augusto ricostruisce templi andati in dimenticanza, rimette sugli altari culti e riti obliati, ne introduce di nuovi, che più intimamente si legavano alla nuova vita sociale [28] del tempo, palesando in tal guisa di volere, così, fare della religione un elemento integrante e vivo della società[50]. In primis venerare Deos! E il poeta, che così parlava, è quello stesso che meglio intuì, e propagò, i disegni di rigenerazione sociale di Augusto,[51] quello stesso, che ci diede, nel maggior poema epico latino, il più grande poema religioso della romanità[52].

Il tempio, sacro alla gioventù, del nuovo culto religioso; il tempio, in cui la religione non si insegnava; ma si viveva, si praticava, si respirava nell’aria, come nell’opera, dovevano essere le nuove associazioni giovanili. Augusto aveva ristabilito il culto delle antiche divinità latine, e i collegi giovanili municipali avranno, nel loro seno, speciali sacerdotes,[53] e si intitoleranno ad Ercole, Giove, Giunone, Diana, Marte, Minerva, all’Onore, alla Virtù, divinità, che in sè recano tutto lo spirito militare e arcaicizzante delle riforme di Augusto. «Già — aveva cantato il coro dei giovani e delle giovinette nel Carme secolare di Orazio — «già ritornano la Fede, la Pace e l’Onore e il Pudore antico e la negletta Virtù e l’Abbondanza beata col pieno corno. L’Augure Apollo» «sospinge la potenza di Roma e il Lazio felice verso un’altra età sempre migliore. Diana, che tiene l’Aventino e l’Algido, cura le preghiere dei Quindecemviri e ascolta benigna i voti dei fanciulli. Noi, esperti nel celebrare le lodi di [29] Febo e di Diana, sentiamo che questo è il pensiero di Giove e di tutti gli Dei»[54].

La partecipazione di quei giovinetti e di quelle fanciulle a quella festa pubblica ed ufficiale, come, nel 2 a. C., all’altra per la grande ricorrenza della ricostruzione del tempio a Marte Ultore,[55] non era circostanza trascurabile; era invece un punto del programma sociale di Augusto.

Così le nuove associazioni giovanili sono eziandio — e in Roma e fuori — associazioni con carattere religioso. Esse offrono corone agli Dei, celebrano feste pubbliche, partecipano, in tutta la pompa della loro giovinezza, alle processioni religiose e ai pubblici spettacoli in onore degli Dei, protettori della patria e della vita civile. Così, nel pensiero di Augusto, la spirituale rinnovazione religiosa e la nuova educazione fisica andavano legate ad un alto intendimento morale e sociale. Così Augusto intendeva rifare lo spirito, i costumi, le tendenze delle future generazioni italiche.

L’opera del primo imperatore della casa Giulia si limitò a Roma, o si esercitò anche in altri municipii italici, per lo meno nei municipi limitrofi del Lazio, nella cui vita interna egli aveva, altre volte, esercitato un’azione diretta?

Noi non possediamo di ciò alcuna prova positiva, ma tutto induce a pensare che così sia stato, che cioè, conforme al suo piano, Augusto abbia creato, o ricreato a nuova vita, altre associazioni giovanili municipali. Dati i suoi scopi di rinnovamento fisico, militare e morale [30] dell’Italia; data la natura delle molteplici associazioni giovanili italiche del I. secolo di C., di nessuna delle quali tuttavia riesce possibile rintracciare la precisa cronologia dell’origine, noi sentiamo che egli non poteva (e non dovette!) limitarsi a influire sull’aristocrazia romana,[56] come a questa, del resto, non si limitarono, animati da assai più tepidi spiriti, i successori. Per tal guisa l’organizzazione ed i nuovi compiti assegnati alla gioventù italica furono la grande scuola nazionale suscitata da Augusto, da germi forse esistenti, con le aggiunte e le correzioni, che suggerivano al suo pensiero l’esempio di altri paesi o le esigenze della vita nuova circostante. E i primi gloriosi secoli della storia militare dell’impero romano saranno una delle maggiori fra le sue benemerenze.

VII.

Ad Augusto medesimo deve risalire la creazione di un nuovo ufficio a corte, il cui reggente avesse l’alta sorveglianza della educazione della gioventù, nonchè della istruzione pubblica in Roma, tenesse l’imperatore al corrente delle vicende dell’una e dell’altra, e gli fornisse all’uopo consigli e suggerimenti.

Gli elementi di fatto, che ci inducono in tale opinione, sono parecchi. Nella immaginaria allocuzione ad Augusto, che Dione Cassio mette in bocca a Mecenate, quest’ultimo esorta il principe a creare un magistrato, tratto dal più eccelso ordine sociale romano, e destinato a sorvegliare le famiglie, l’uso ch’esse facevano [31] delle proprie sostanze, i costumi dell’aristocrazia romana — senatori e cavalieri, uomini e donne, adulti e fanciulli — sulla quale egli avrebbe esercitato un diretto controllo morale, come di tutto avrebbe riferito al monarca[57]. Un magistrato, fornito di codeste competenze, esisteva di fatto nel III. secolo di C., giacchè noi sappiamo che l’imperatore Eliogabalo aveva, al suo posto, nominato un istrione[58]. Ma i critici del passo di Dione sono corsi troppo oltre il segno, supponendo che il subcensore, l’ὑποτιμητὴς tratteggiato da Mecenate, fosse soltanto l’ingenua anticipazione di una carica del secolo III., e nell’identificare quel personaggio con un altro ufficiale romano di quell’età, l’a censibus.

Viceversa, dal regno di Claudio fino a mezzo circa il secolo IV., noi possediamo tutta una lunga serie di epigrafi, le quali ci dànno l’indicazione precisa di un nuovo funzionario del gabinetto imperiale, l’a studiis, il quale, dapprima semplice liberto, andrà poco a poco accrescendo e l’importanza del suo ufficio e il grado sociale fino a che, nel II. secolo, la sua carica sarà costantemente occupata da un cavaliere[59], tale e quale, secondo Dione Cassio (e sarà stata questa l’unica sua prolepsi) l’avrebbe voluto Mecenate.

Ma ciò, che forse ha impedito agli studiosi di rettamente interpretare Dione e di assegnare ad Augusto [32] l’iniziativa che gli spettava, è stata la grande incertezza, in cui essi sono rimasti circa le competenze dell’a studiis, le cui attribuzioni non ci sono mai, da nessun genere di informazioni, direttamente definite, incertezza, la quale ha fatto sì che intorno alla natura loro moltiplicassero le ipotesi più diverse.[60]

Se non che, a parte il fatto suggestivo che l’a studiis è, sotto i migliori imperatori, un dotto e, con preferenza, un dirigente grandi istituti di studio, come le biblioteche romane e il Museo Alessandrino[61], un’epigrafe ostiense del II. secolo ci porge la traduzione greca, anzi una esegesi in greco del nome dell’ufficio, e questo è ivi illustrato come una sovrintendenza sull’istruzione e sulla educazione, forse in tutto l’impero, forse nella sola Roma. Infatti, ivi, Giulio Vestino, a studiis e a libellis di Adriano, è detto ἐπιστάτης ἐπί τῆς παιδείας Ἀδριάνου καὶ ἐπιστολεὺς τοῦ αὐτοῦ αὐτοκράτορος.[62]

La glossa è troppo eloquente perchè abbia ad essere trascurata, come fin’ora è stato fatto, ed essa ci pone in grado di fermare il nucleo principale delle attribuzioni dell’a studiis, che sono quelle precedentemente indicate. Un tale funzionario è dunque molto più degno di essere identificato con l’altro, della cui reale esistenza noi abbiamo un positivo accenno sotto Eliogabalo, di [33] quel che non fosse l’a censibus. Ma sarebbe ancora un errore supporre che la sua carica dati solo dal regno dell’imperatore Claudio, sotto cui null’altro che una fortuita combinazione ci fornisce il primo indizio.

Da Augusto a Claudio invero nè l’amministrazione imperiale subì alcuna sensibile modificazione, nè le sorti della istruzione pubblica in Roma, o nell’impero, offrirono novità tali da reclamare un nuovo funzionario. Fino a Nerone, la tradizione augustea imperò sovrana su tutto il governo dei quasi sempre inetti successori col fascino di un’eredità intangibile, con l’autorità di un organismo giudicato perfetto e quindi inviolabile. Ma, come se questo non bastasse, chi ben guarda si accorge agevolmente che la carica dell’a studiis noi non la troviamo istituita da Claudio; la troviamo solo fornita di numeroso personale[63].

Non si era dunque agli inizi, e il merito di ciò spetta, come per tutto il resto del governo dei Giulio-Claudii, al primo loro grande predecessore, ad Ottaviano Augusto, che, fin dal suo tempo, largì allo Stato romano un ufficio consultivo e ispettivo, forse anche elementarmente direttivo, sulle cose della pubblica istruzione ed educazione in Roma, anzi, più precisamente — conforme ai limiti, entro cui egli operò le sue riforme — sulla educazione e sulla istruzione delle due classi della nobiltà romana del tempo: l’aristocrazia senatoria e l’aristocrazia equestre.

[34]

VIII.

Ma, nella sua molteplice operosità, Augusto — fatto veramente singolare, se si considera la politica di tutti gli imperatori fino al II. secolo — rivolse anche le sue cure alla istruzione pubblica nelle provincie. E la provincia privilegiata fu — lo si poteva in anticipazione giurare — quella, che maggiormente seppe conquistarsi le sollecitudini della sua imperiale amministrazione: l’Egitto.

Quivi egli trovava le arti e le lettere già onorate da due suoi predecessori, lo zio Giulio Cesare e il rivale Marco Antonio. Ed era previdibile, che, se l’esempio del primo avrebbe dovuto incoraggiarlo a continuarne l’opera, i grandi donativi del secondo alle pubbliche biblioteche di Alessandria dovevano costituire un amaro termine di paragone, che Augusto sarebbe stato tratto a voler offuscare e superare.

Perciò egli cominciò con l’allogare nel Sebasteum, il tempio, che, lui vivo, fu eretto al suo culto divino in Alessandria, una biblioteca meravigliosa,[64] rivale delle altre due esistenti nel Serapeum e nell’antico Museo alessandrino.

La biblioteca era ancora nella pienezza della sua magnificenza sotto Caligola, ma, dopo questo tempo, sembra che la sua ripercussione sulla vita intellettuale alessandrina sia, per motivi ignoti, andata divenendo scarsissima, e che il suo ricordo e la sua presenza [35] siano stati ricacciati nell’ombra da un altro istituto rivale, il Museo.

Ma fu appunto al famoso Museo alessandrino, che accoglieva in sè la maggior gloria dell’antichità, che vennero rivolte le maggiori sollecitudini di Augusto, il quale ne dette per primo l’esempio a tutti i successori.

Che cosa si fosse il Museo non è agevole spiegare, date le associazioni mentali, di cui oggi possiamo disporre. Conteneva sale di anatomia, un osservatorio astronomico, giardini per acclimatazione di piante esotiche, parchi di animali di specie rare, una meravigliosa biblioteca, il tutto, sotto il patronato delle Muse, a cui vi era stato eretto un tempio apposito. E ivi lavoravano letterati, poeti, scienziati, eruditi, filosofi. Vi conducevano ricerche, isolatamente o in comune, discutevano, poetavano, componevano, tenevano, non si sa bene, se corsi ufficiali o liberi, per giovani e per giovanetti. Qualcosa dunque tra il tempio, l’accademia, l’università, il museo (secondo la moderna significazione di tale vocabolo), il laboratorio, il seminario filologico; in ogni caso, un istituto con proprio indirizzo, il quale nulla ha più oggi di simile, ma in cui lo studio e l’istruzione venivano praticati con l’antica indipendenza da ogni stereotipia burocratica.[65]

[36]

Il Museo era stato fondato dai primi due Tolomei, e, finchè questi vissero e governarono, la monarchia egiziana si era addossato il carico del suo mantenimento e della sua amministrazione, come quei sovrani, il diritto di nominarvi gli scienziati e i letterati, che avrebbero avuto a farne parte, ad esservi alloggiati e mantenuti, nonchè quello di mettervi a capo persona di loro nomina e di loro fiducia. I suoi locali si trovavano anzi nel cuore del Palazzo reale, e la politica dei Tolomei era stata così sottile da imporre, a quel massimo fra gl’istituti di cultura del regno, la sovrintendenza, non già di un dotto, ma di un uomo politico e straniero per giunta, un greco, come greci erano i dominatori[66].

Ma i mezzi indiretti di addomesticamento e di coercizione usati dai Tolomei non furono questi soltanto. L’inframmettenza del Re giunse talora fino a sospendere, e pei motivi più futili, lo stipendio dei dotti del Museo[67]. Gli è perciò che un poeta satirico chiamava il Museo, anche quando esso era nel suo periodo migliore, non il tempio, ma «la gabbia» o «la stia delle Muse,»[68] intendendo significare con questo che i costosi volatili, nudriti in quella reale uccelliera, non avevano precisamente agio di cantare in qualunque tono avessero voluto.

Se dunque la politica dei Tolomei non aveva imposto [37] una filosofia, una storia e una poesia ufficiale, aveva fissato, per tutte queste discipline, dei limiti invalicabili, aveva reso loro necessaria una speciale tournure, che, nella storia della letteratura greca, ha ben una denominazione particolare, l’alessandrinismo, e quegl’illustri pensionati regi sarebbero stati male ispirati, ove si fossero accinti a dissertare sul miglior governo possibile, a discutere gli atti del sovrano, a scriverne la storia con imparzialità, a mettere in questione gli Dei e, più specialmente, quel culto dei sovrani, che mai forse i Greci erano riusciti a pigliare sul serio.[69].

Or bene, estinta la casa dei Tolomei, costituito l’Egitto in provincia romana, gl’imperatori del mondo avrebbero potuto interrompere le liberalità e la politica dei predecessori, avrebbero, come faranno i principi cristiani, nei riguardi di altri famosi istituti d’istruzione pubblica, potuto abbandonare alle sue sole risorse la vita del Museo, avrebbero magari, nella migliore ipotesi, potuto continuare automaticamente, svogliatamente, l’antica tradizione. Viceversa, Augusto volle che l’impero avesse per il Museo alessandrino le stesse cure della monarchia tolomaica. Egli ne addossò al pubblico tesoro il gravame del mantenimento, e, come i Tolomei, aggiunse la carica e il nome del sovrintendente del Museo al non breve elenco dei grandi funzionari imperiali. Anzi, quasi non gli bastasse la diretta influenza, che egli avrebbe potuto esercitare su quel funzionario, in un paese, ove il carattere della amministrazione imperiale fu sempre così strettamente personale, la sovrintendenza del Museo rimase uno dei pochi ufficii della [38] provincia d’Egitto, del cui titolare l’imperatore volle riserbata a se stesso la nomina[70]. Una sola modificazione venne apportata dal nuovo governo, modificazione, che ci è, in modo positivo, testimoniata relativamente tardi,[71], ma che si deve presupporre datante da quei primi anni: a sovrintendente supremo del Museo non fu più scelto un greco, ma un romano.

Gl’intendimenti politici, che avevano guidato i Tolomei in quel campo della loro politica, continuano dunque ad ispirare adesso, con ugual metro, gl’imperatori romani, i quali appaiono consapevoli della gravità dei motivi, che li determinavano. Ed essi non ristanno dal far gravare sul più notevole centro della produzione intellettuale di quel tempo l’uggia di quell’invisibile trama di lacci d’oro, fatta di protezione scientifico-letteraria, ma in pari tempo di inquisizione politico-religiosa, che era stata così mirabilmente intessuta dai Tolomei.

IX.

Dal primo imperatore di casa Giulia, fino a Nerone, l’incuria del governo romano verso l’istruzione pubblica fu certamente assai grave. Anzi — fenomeno interessante poichè riguarda uomini differentissimi per indole, per attitudini politiche e per metodi di governo — dopo Augusto, la politica imperiale, nei rispetti della istruzione, tornerà a farsi valere soltanto con Nerone.

Dell’opera di Tiberio, noi abbiamo a ricordare soltanto [39] l’istituzione di una terza biblioteca nel così detto Nuovo tempio di Augusto[72], giacchè l’elevamento al grado di senatore, avvenuto, durante il suo governo, di un maestro elementare, un semplice litterator, non fu certamente segno delle buone disposizioni dell’imperatore verso i rappresentanti la scuola primaria, ma soltanto del favore del suo ministro Seiano verso un disonesto[73].

Di Caligola si può ricordare il periodico concorso di eloquenza greca e latina, da lui istituito, verso il 39 o 40 di C., a Lione, e che vi si celebrava alla ricorrenza annua del concilium delle Gallie, intorno all’Ara, sacra al culto di Augusto, ed era periodica occasione di convegno dei retori di tutto il paese[74].

Forse più degna di nota, è, nella sua modestia, l’opera dell’imperatore Claudio.

Claudio fu solo tra gli imperatori romani a concepire un disegno, che arieggiasse alla lontana il pensiero dei remoti Tolomei nel fondare il Museo alessandrino. All’antico egli aggiunse un nuovo collegio di dotti, che installò in un secondo Museo, il quale dovette elevarsi nel quartiere, che si diceva di Rhacotis, o, come il Museo tolomaico, in quello del Bruchion — i soli occupati dai [40] Cesari e dai loro luogotenenti — e che prese nome dal principe, che ne era stato il fondatore[75].

Sulle particolarità della nuova fondazione noi sappiamo assai poco, e assai poco, quindi, sui suoi rapporti di somiglianza e di differenza dalla precedente. Pare però che la prima origine debba ricercarsene nel seguente fatto.

Aveva Claudio scritto venti libri di storia degli Etruschi e otto di storia dei Cartaginesi. Or bene, la principale clausola, ch’egli impose ai membri del sodalizio beneficiario del nuovo Museo, fu la pubblica lettura annua, in giorni stabiliti, della sua duplice istoria. Ma questo compito non fu loro speciale, chè obbligo analogo Claudio impose ai loro colleghi dell’antico Museo alessandrino, sì che gli uni e gli altri avrebbero dovuto leggere, nei rispettivi locali, alternativamente e ad epoca fissa, i suoi 20 libri della Storia degli Etruschi e gli 8 della Storia dei Cartaginesi[76].

Tale originario intendimento si ricollega alla usanza delle letture pubbliche, assai diffusa in Roma in quel tempo, e, sotto tale aspetto, il Museo Claudio avrebbe potuto definirsi l’auditorium alessandrino delle recitazioni imperiali. Ma questa consuetudine, voluta da un principe romano in un istituto suscitato in mezzo ai dotti di Alessandria, conteneva il germe di una notevole innovazione. C’era anzi tutto, fin da ora, in Alessandria, un nuovo Museo e una scuola rivale dell’antica; [41] poi l’eccitamento ad ambedue di occuparsi, ed in maniera speciale, di studi e di ricerche storiche. E di quale storia! La storia delle due più grandi nazioni dell’evo antico vinte e soggiogate da Roma; la storia dell’Etruria, madre di buona parte delle istituzioni primitive di Roma, e patria di una grande religione e di un’altrettanto grande civiltà; la storia di Cartagine, che tutto aveva colonizzato l’Occidente e dato vita a tanta parte della sua storia futura. L’Etruria e Cartagine riconducevano all’Oriente e alla Grecia. Le opere dunque, e le innovazioni di Claudio, aprivano il più vasto campo possibile alle investigazioni del passato e facevano, dei due Musei, due speciali seminarii di storia e di antichità classiche ed orientali. Era facile prevederlo: negli anni di poi, i dotti dell’uno e dell’altro non si sarebbero più limitati alla lettura in pubblico delle opere dell’imperatore, ma avrebbero intrapreso, in giorni determinati, la lettura di opere proprie, frutto di lungo e difficile lavoro.[77]

L’oscurità grande, che incombe sulle sorti future del Museo Claudio, non ci dà agio di determinare fino a qual segno le speranze del principe e dei suoi consiglieri siano state esaudite. Certo si è che un’indicazione, posteriore di ben due secoli, non solo ce lo mostra ancora in vita, ma già trasformato in sede di studio, in laboratorio letterario e filosofico, con apposita biblioteca, nel quale cioè i suoi dotti pensionati si occupavano di quegli studi misti di grammatica, di retorica e di filosofia, tanto in voga in quel tempo[78].

[42]

Se non a tutti, il Museo Claudio rispondeva dunque al fondamentale tra gli scopi dei Musei ellenici[79]. E appunto per questo non è piccolo il valore della sua fondazione, nuovo segno delle cure della politica imperiale verso l’istruzione pubblica nelle provincie.

X.

Ma per una di quelle apparenti anomalie, di cui anche l’impero romano dà esempio, assai più grande fu, sulla istruzione, sulla coltura, sulla educazione pubblica, l’influenza del governo del più matto e del più feroce tra gli imperatori, Nerone. Come sempre, nelle grandi monarchie assolute, così ora, ognuna delle molle della vita della nuova aristocrazia imperiale, sparsa per l’Italia e per le provincie, è retta dalle influenze della Corte e del principe. La Corte reagiva sui costumi e su tutto il tenore della vita sociale. Le idee, i gusti, le manie personali dell’imperatore, dei membri della sua famiglia, dei suoi favoriti divenivano per essa regola e legge. Essa si plasmava a immagine e somiglianza del principe,[80] e la propria sembianza mutava, senza esitazione e senza riserbo, a seconda delle mutazioni che in alto avvenivano. «Noi ci pieghiamo — scriverà Plinio nel suo Panegirico a Traiano — per qualunque verso il principe voglia; noi siamo in una parola i suoi imitatori. Noi vogliamo riuscirgli graditi; noi ne desideriamo [43] l’approvazione, che si spererebbe invano, se se ne fosse diversi. E siamo giunti a tale continua e rispettosa imitazione, che quasi tutti viviamo secondo i costumi di un solo». «La vita del principe è una vera censura, una censura perpetua, che è la nostra regola e la nostra mèta»[81].

La severità dei costumi della aristocrazia italica e provinciale, dopo Vespasiano, è quindi un riflesso del nuovo regime della Corte imperiale.[82] Il buon mercato a Roma va e torna coll’andare e col tornare delle abitudini parsimoniose degli imperatori.[83] Come il Nazareno moltiplica i pani, così Marco Aurelio moltiplica i saggi e i filosofi.[84] I cibi favoriti dell’imperatore popolano le tavole dei ricchi, il sistema dei suoi medicinali invade e dispare con la sua vita, con le sue abitudini, col mutare anzi delle sue abitudini. I principi amanti della musica fanno i musicisti; i principi amanti delle lettere, i letterati; i principi amanti dell’agonistica, i ginnasti.

È chiaro perciò quale profonda influenza sulla coltura nazionale doveva esercitare un monarca come Nerone, che volle apparire, quale realmente non era, un intellettuale, e tanto amò di essere imitato.

Già fin da Augusto era penetrata nella sezione occidentale dell’impero la consuetudine, perfettamente greca, dei concorsi poetici, e noi, sotto quel primo imperatore, come sotto Claudio, ne troviamo istituiti, e [44] celebrati, in Roma ed a Napoli.[85] Caligola — vedemmo — aggiunse, alle gare poetiche, dei concorsi di eloquenza. Nerone, conforme al carattere ellenizzante della parte più intellettuale della sua politica, non poteva dimenticare, nè dimenticò, questi ultimi, e uno dei punti del programma delle solenni Neronee, da lui istituite nel 60 di C., furono le gare oratorie, a cui egli non mancò di partecipare in persona.[86] Ma nè fu quella soltanto la pubblica esibizione, che, della propria valentia, Nerone fece in concorsi del genere,[87] nè altre solennità, celebrate sotto il suo regno, dovettero mancare di questa specie di concorsi tanto rispondenti alle personali velleità dell’imperatore[88].

Il fatto era stato straordinario, ma non meno inevitabile fu il contagio dell’esempio. A tali gare partecipò buona parte degli aristocratici del tempo[89]. Tutta l’attività, che i contemporanei della repubblica avevano svolta nel foro e nei comizi, fu adesso impiegata nello sforzo (ahi quanto spesso vano!) di conseguire la perfezione nell’arte oratoria, e torrenti di eloquenza sgorgarono dalle mille penne e dalle mille bocche degli aristocratici del tempo. E a Roma affluì nuova ingente copia di maestri e di dottori di retorica, e le scuole moltiplicarono, e l’incanto, che faceva ancora giudicare tale professione tra le più umili, fu rotto, e molti di bassa fortuna salirono al vertice della [45] piramide sociale, e l’unico maestro senatore di Tiberio vide moltiplicare i suoi colleghi sugli scanni del primo consesso del mondo[90].

In maniera analoga, il fatto che Nerone aveva avuto una speciale istruzione filosofica, che anzi l’aveva ricevuta da due stoici, il fatto di un imperatore, che, dopo i pasti, si dilettava di assistere a dispute filosofiche, più o meno sincere e calorose,[91] dette un considerevole impulso alla cultura filosofica dell’aristocrazia romana, e, insieme con gli oratori e coi retori, moltiplicarono i precettori di filosofia, le scuole e l’amore della saggezza.

La grande copia di nomi di stoici, venuti in fama, a Roma, nell’età di Nerone, e l’abbondanza e la precisione delle notizie ad essi relative, che appaiono meravigliose al paragone degli anni precedenti, non sono indice insignificante. Nelle case degli aristocratici si accolgono circoli di filosofi, che divengono guide spirituali dei componenti quella classe. Rubellio Plauto, già presso a morire, ascolta i consigli di Cerano e di Musonio Rufo: Trasea Peto, in identiche condizioni, conversa col cinico Demetrio; Barea Sorano ha maestro l’infido Egnazio Celere[92].

Gli aristocratici mostrano così di avere ognuno nelle proprie case, un saggio, un precettore di filosofia, mescolato alla lor vita intima, consigliere in ogni repentaglio dell’esistenza[93]. E, come se questo non bastasse, [46] essi si recano a compiere studii più dispendiosi all’estero, in Gallia, in Grecia, in Asia[94].

Dell’età di Nerone si tramandano per l’Italia nomi di scuole di filosofia famose: quella di Anneo Cornuto, sui cui banchi sedevano, fra gli altri, Persio e Lucano;[95] quella di Musonio Rufo,[96] quella di Metronatte. Ed esse non sono soltanto popolate di giovani, sono anche frequentate da persone di età matura[97].

Ma se riprova occorresse del fatto (che si dovrebbe, anche a priori, assumere come non dubbio) del prodigioso incremento degli studi filosofici dopo l’avvento al trono di Nerone — essa sarebbe certamente la degenerazione dell’amore della filosofia nella moda, nella mania della medesima,[98] e quella corruzione dell’ufficio e del ministero dei maestri, che, flagellata più tardi dai poeti satirici,[99] maturava già fin dagli anni del principe lottatore, oratore e filosofo,[100] e che, come ogni corruzione, era segno di raggiunta pienezza di sviluppo.

XI.

Di così improvviso rigoglio di studi di retorica e di filosofia era stato artefice Nerone. Ma io sono fermamente convinto che a lui, ed a questo tempo, si debba [47] ricondurre un assai notevole provvedimento legislativo, che sarà più tardi constantemente ripetuto dagli imperatori romani. Intendo accennare alle immunità largite ai pubblici docenti. Un passo del Digesto infatti, discorrendo di una concessione di Vespasiano e di Adriano, parla di magistri qui civilium munerum vacationem habent[101]. L’esenzione aveva dunque dietro di sè una consuetudine. Ma questa non era stata certamente iniziata da nessuno degli imperatori, che regnarono fra Augusto e Nerone, e in questo convincimento ci induce anche una superficiale conoscenza della loro politica e delle loro cure. Che vi abbia dato principio Augusto è possibile, non probabile, chè altrimenti o ne avremmo menzione in quella autobiografica rassegna dei più cospicui fra gli atti di lui, che fu il Monumentum Ancyranum, o troveremmo tanta innovazione esaltata dai suoi numerosi apologisti, per lo meno a proposito dell’analoga immunità da lui concessa ai medici.

Se quindi escludiamo dalla nostra considerazione Augusto, l’unico, tra questo principe e Vespasiano, su cui sia lecito soffermarsi, può essere solo Nerone, il grande protettore degli esercizi di retorica, il discepolo di due filosofi, di cui uno era a sua volta figlio di un retore, e fu il consigliere e l’ispiratore di una buona parte della politica imperiale. Onde a Nerone io penso si possa con tranquilla coscienza ricondurre l’origine di una consuetudine di governo, che, salvo lievi variazioni, dominerà tutta la politica scolastica dello impero, la consuetudine — dico — di largire ai maestri [48] di grammatica, di retorica, di filosofia, quanto Augusto, aveva largito ai medici nella esultanza della convalescenza: la immunità dai carichi pubblici e dalle pubbliche funzioni.

Tale concessione del governo romano non fu esclusivo privilegio delle su citate categorie di professionisti, nè può dirsi ch’essa, per ora, sia più che ai suoi inizii. Man mano che la costituzione politica e l’organismo fiscale dell’impero si rinsalderanno, la teoria delle immunità riceverà sempre più larghe applicazioni per divenire, negli ultimi secoli, una delle molle necessarie al funzionamento dello stato.

Essa infatti consisteva nell’eccitare gli individui di determinate classi a fornire alla società l’opera loro (di cui questa aveva assolutamente bisogno) in cambio della esenzione di una, più o meno larga, serie di oneri, gravanti sul resto dei cittadini. Fra codesti oneri rientrano poco a poco le pubbliche funzioni, gli honores, i quali così vanno via via assumendo il carattere di munera, imposti dallo stato ai suoi sudditi, per fini a lui propri — quali che possano essere i sentimenti e le convenienze dei sudditi stessi — il che veniva a sancire quell’assimilazione dell’honor al munus, che fu certo uno dei tratti più caratteristici del diritto pubblico nell’impero romano[102].

Or bene, tra le categorie di persone, di cui lo stato fin d’ora dichiara di avere assoluto bisogno ed a cui offre, in ricambio dei loro servigi, l’esenzione di parecchi [49] carichi, sono i ministri del pubblico insegnamento, dichiarato così anch’esso — implicitamente — funzione essenziale della società e della vita civile.

Abbiamo noi mezzo di stabilire fin d’ora la portata ed i limiti di quella esenzione? Quali tra i professionisti dell’insegnamento ne godettero? Da quali carichi andarono essi esenti?

Il Digesto, riferendosi all’età, che precede Adriano e ai magistri, che allora godevano della vacatio civilium numerum, ne specifica[103] le varie categorie in medici, grammatici, oratores (cioè: retori) e philosophi. I maestri elementari, i litteratores, sono quindi, fin d’adesso, come, per regola generale in seguito, esclusi da ogni immunità. Viceversa, il beneficio non dovette limitarsi solo a Roma. Se Augusto aveva privilegiato tutti i medici esercenti dell’impero, i privilegiati d’adesso non avrebbero potuto essere soltanto romani, o, se così fosse stato, se cioè la riconferma del privilegio avesse contenuto qualche restrizione, lo si sarebbe certamente dichiarato.

Questa considerazione è ribadita dalla parola stessa del Digesto: «Il Divo Vespasiano e il Divo Adriano — s’esprime un giurista — dichiararono in un rescritto che agli insegnanti, i quali hanno l’immunità dai pubblici oneri, e cioè i grammatici, i retori, i medici e i filosofi, gli imperatori avevano implicitamente largito l’esenzione dall’obbligo di hospites recipere[104]». E altrove: «È inserito nelle costituzioni dell’imperatore [50] Commodo il passo di un’epistola di Antonino Pio, nel quale si dice che anche i filosofi sono esentati dall’obbligo della tutela. Le parole son queste: — Del pari a tutti costoro il Divo mio padre, salendo al trono, con una costituzione confermò i precedenti onori e le preesistenti immunità, sancendo che i filosofi, i retori, i grammatici ed i medici sono esenti dalla ginnasiarchia, dalla agoranomia, dai sacerdozii, dall’obbligo della ospitalità, dall’obbligo della sitonia e della elaionia, e che non possono essere costretti a fungere da giudici o da ambasciatori, o a prestar servizio militare, o a sottostare a qualunque altro carico — »[105].

Una così ampia e universale concessione di immunità, che, come si dichiara, precede Adriano e Vespasiano, mentre da un lato ribadisce la interpretazione che le immunità ai magistri dovettero varcare la cerchia delle mura di Roma e i confini d’Italia, assicura eziandio dall’altro che esse furono comuni a tutti i restanti paesi dell’impero.

XII.

Ma l’epistola di Antonino Pio ci dà anche l’elenco degli oggetti, su cui queste immunità ai magistri vertevano prima di Adriano, e (noi possiamo pensare) vertevano a un di presso sin dalla loro origine.

I grammatici, i medici, i retori e i filosofi erano, secondo la parola della costituzione riconfermata da Adriano, esenti dall’ufficio: 1) di γυμνασιαρχοι 2) di ἱερεῖς; 3) dall’obbligo della ἑπισταθμία; 4) dall’ufficio di σιτῶναι, 5) [51] di ἐλαιῶναι, 6) di κριταί, 7) di πρέσβεις, 8) di στρατιῶται e da ogni altro carico di qualsiasi genere[106].

Non sarà male, piuttosto che tradurre verbalmente, chiarire, specificando, l’importanza di ciascuna di codeste esenzioni.

L’espressione gymnasiarchia ci richiama anzi tutto al mondo greco. Ivi, nel periodo classico, essa era stata una liturgia, forse identificabile con la lampadodromia,[107] e tale rimaneva ancora, nel periodo romano, non ostante avesse, qua e là, assunta la forma di magistratura. Perciò il gymnasiarca offriva agli efebi vesti, forniva olio per il ginnasio, dedicava stabilimenti di bagni, accudiva alla celebrazione di sacrifici e di festività, acquistava le vittime all’uopo richieste, provvedeva all’allestimento dei banchetti, che seguivano i sacrifizi, costituiva a sue spese il fondo per i premi richiesti dai vari concorsi, innalzava pubbliche costruzioni. Era dunque il suo, specie se, come talora avveniva, si cumulava con quello di agonoteta, un ufficio terribilmente dispendioso[108].

Ma il concetto di gymnasiarchia, contenuto nel paragrafo del Digesto, che qui interpretiamo, non può, come talora è stato fatto,[109] riferirsi specificatamente alla liturgia o alla speciale magistratura greca, che portava codesto nome. Deve invece riferirsi alla cura in genere dei pubblici spettacoli, a quel ludorum publicum regimen, [52] che, nel mondo greco, spettava, come abbiamo visto, al gymnasiarca; in Roma, nell’età imperiale, al pretore[110]; nei rimanenti municipii, agli edili;[111] o, nell’una e negli altri, a curatores speciali[112]. E quanto gravoso fosse codesto onere si può convincersene, rammentando che in Roma erano proverbiali i dispendii, a cui gli edili soggiacevano, durante la celebrazione di determinate festività, e che assai spesso i magistrati desideravano andarne esenti.

L’ἀγορκνομία è una magistratura notissima nel mondo greco ed ellenistico. Ma la nostra fonte giuridica, se si esprime in greco, non si riferisce unicamente al mondo ellenico, sibbene, al solito, rende, con la parola greca, un concetto, che, negli altri municipii, specie in quello di Roma, corrispondeva a magistrature rette da funzionarii, che portavano altri nomi.

L’edile della repubblica romana era stato infatti per eccellenza agoranomo: aveva sempre provveduto a che i viveri, specie il frumento, non subissero rincari esagerati, aveva impedito, e mitigato, anche con largizioni proprie, gli effetti delle carestie, sorvegliato i pesi e le misure. Nell’età dell’impero, l’ufficio di curator dell’ànnona in Roma, era stato assunto da speciali magistrati, ma nei municipii italici esso era, di regola, rimasto còmpito precipuo dell’edile[113].

Anche il sacerdozio (ἱεροσύνη) rientrava, come i due uffici precedenti, nella categoria degli honores. Nell’impero [53] romano esistettero sacerdoti urbani e sacerdoti provinciali. Ma quell’onore si traduceva, pur troppo, in un vero e proprio carico patrimoniale, giacchè chi lo rivestiva soggiaceva a pesi determinati, all’obbligo di donativi in danaro per pubblici edifici, e l’ufficio aveva rapporti molteplici e costosi con i giuochi dei gladiatori e con le cacce degli animali feroci[114].

Viceversa, l’ἐπισταθμία era un carico esclusivamente patrimoniale. Essa consisteva nell’obbligo dei proprietari di case di ospitare, a turno, magistrati e funzionari, viaggianti o in missione, insieme con il loro seguito, a cui bisognava pure fornire alloggio, letti, legna, sale, fieno per le bestie[115]. E, se si fosse trattato di hospitium militare, tutti indistintamente gli abitanti di un paese sarebbero stati tenuti a fornire, ai soldati in marcia, alloggio, fuoco e quanto costoro avessero potuto chiedere o desiderare[116].

Le rimanenti immunità riguardano dei munera personarum. Le σιτωνίαι e le ἐλαιωνίαι (emptiones frumenti et olei) si riconnettono al problema della cura dell’annona urbana, che fu tra i più tormentosi dell’antichità. Si trattava di fare delle grandi provviste di grano e di olio pei bisogni del mercato, in parte con le entrate dello Stato, in parte con volontarie contribuzioni. Delle prime venivano, in Grecia, incaricati appositi magistrati, i σιτῶναι, una delle cariche del paese più onorifiche e [54] delicate;[117] delle seconde, gli ἐλαιῶναι[118]. Nei municipii non ellenici si curano di ciò per adesso gli edili; più tardi, vi troveremo addetti appositi curatores[119].

L’ufficio di κριτὴ (munus iudicandi) corrispondeva all’esercizio delle funzioni di giudice (iudex, recuperator) nei processi civili. Finalmente il πρεσβεύειν (munus legationis) era l’obbligo della legatio, cioè di assumere la carica di legatus delle varie città presso l’imperatore, il senato, i patroni residenti in Roma; e l’εἰς στρατείαν καταλέγεσθαι (munus militiæ) corrispondeva a l’obbligo di soggiacere al servizio militare, tanto per conto dello stato come dei municipii[120].

Da tutti questi onori e da questi carichi venivano adesso esentati i docenti di arti liberali. Ma, nonostante così ampio esonero, l’immunità dei privilegiati non si sarebbe potuta dire completa. Noi sappiamo infatti che altre categorie di sudditi godevano esenzioni da altri numerosi gravami[121], di cui, a proposito dei maestri, non si fa, nei documenti che abbiamo riferito, specificatamente parola. Onde l’autore della su citata costituzione Adrianea sentiva il bisogno di completarne il dispositivo, chiudendo con l’ampia dichiarazione di [55] esonero da qualsiasi altro carico, dando così alla concessione quel carattere di universalità, che vi sarà concordemente riconosciuto dai giuristi maggiori dell’evo imperiale[122].

La liberalità dello Stato non poteva essere più completa. Il linguaggio ufficiale degli anni successivi definirà questa come una immunità realmente illimitata[123]. Ma il suo merito non risale, come a un’indagine superficiale potrebbe apparire, ai principi dell’ultima, sibbene a quelli della prima età dell’impero, al paragone dei quali i successori non procederanno sempre nella via delle larghezze.

Ci rimane a rispondere a un’ultima domanda: Quale fu l’ampiezza cronologica, che l’imperatore volle donare alle sue immunità? Si limitavano esse ai professionisti viventi sotto il suo regno, o anche ai futuri?

Su ciò — per ora — non può illuminarci che l’analogia della immunità concessa ai medici da Augusto, che riguardò esplicitamente, non solo i viventi, ma anche gli altri che sarebbero sopravvenuti[124]. Era veramente un impegnare un po’ troppo l’avvenire, e le conferme, che i successori riterranno opportune, e le limitazioni, ch’essi vi arrecheranno, sono prova sicura del fatto che, se nella ingenua, o buona, volontà di ciascuno dei largitori il beneficio non doveva aver limiti di tempo, nel concetto dei principi successivi, [56] le liberalità concesse erano in vigore solo fino al giorno, in cui non fossero state abrogate o confermate[125].

XIII.

Abbiamo nel paragrafo precedente discorso delle immunità dei grammatici, dei retori e dei filosofi, e abbiamo soggiunto che di regola codesto privilegio non si estendeva ai maestri elementari, i ludi magistri. Ed infatti il silenzio, serbato su di loro dai documenti di questa prima età, ci verrà confermato da altri posteriori del secondo e del terzo secolo, i quali dichiareranno come gli imperatori non credano che le immunità debbano applicarsi agli insegnanti primarii[126].

Tuttavia tale divieto risponde solo a una disposizione generalissima; e, come la dispensa delle immunità conteneva clausole particolari, rispondenti alle condizioni e alla natura dei singoli luoghi,[127] così le sue norme generali potevano spesso, anche per volontà dell’imperatore, subire delle gravi deroghe. È quello che noi troviamo accadere a proposito dei ludi magistri. Si davano infatti dei casi, in cui anche questi docenti erano, per volontà imperiale, dichiarati immuni da determinati oneri. Ce ne informa una delle scoperte epigrafiche più [57] importanti, la così detta Tabula Vipascensis, una iscrizione latina del Portogallo, nella quale, per esprimerci nei termini più generici, si regolavano le cose del distretto minerario di Vipascum, appartenente al fisco imperiale, e si fissava l’ordinamento del borgo formatosi intorno al territorio della miniera.

Or bene, in uno dei capitoli di detta legge, è stabilita l’immunità dei ludi magistri del borgo[128].

A noi importa mediocremente la cronologia del documento. Lo si è, dai suoi editori, con sorprendente unanimità, pensato della fine del I. secolo di C., ma può dirsi che un argomento convincente a favore di questa cronologia non esista. Si erano invocati la paleografia e lo stile[129]. Ma, quasi non bastasse la nota scarsa sicurezza, che indici del genere offrono, specie a proposito di documenti ufficiali, è sopravvenuta la scoperta di un nuovo regolamento minerario della stessa località — forse uno dei frammenti, che ancora si attendevano, dell’epigrafe vipascense — in cui, non ostante l’identità della grafia,[130] la datazione è sicura: il governo di Adriano.

Ma la Tabula Vipascensis non contiene l’originale di un contratto intercesso tra il fisco e una compagnia di appaltatori; è invece la forma generale, il tipo tradizionale dei capitolati dell’appalto delle [58] miniere[131]; per cui rimane esclusa ogni possibilità di assegnare a quelle norme generiche una definitiva cronologia. Gli è per questi motivi che noi non esitiamo a discorrere fin d’ora della epigrafe e delle disposizioni, che vi si contenevano relative ai ludi magistri, preferendo collegarle con tutta la materia delle immunità, di cui abbiamo precedentemente trattato.

Il testo dunque è — verbalmente — chiarissimo: «ludi magistros a procuratore metallorum immunes ess(e placet)». E che vi si trattasse delle consuete immunità dai munera civilia e pubblica, o, almeno, soltanto dai primi, era stato ammesso da tutti gli studiosi della epigrafe[132]. Ne aveva dubitato uno solo, il quale aveva sospettato si trattasse, non della immunità a muneribus, sibbene della sanzione di una indipendenza dei ludi magistri dalla autorità straordinaria e speciale del distretto minerario, il procurator metallorum, per cui i primi non avrebbero potuto essere citati dinnanzi al tribunale del procuratore, ma solo a quello dei giudici ordinarii. Tale significato della frase della legge egli trovava eziandio in un passo di un’orazione di Cicerone (Pro Font. 12, 27). E forse — aveva ancora opinato — il fisco, redigendo il modulo di concessione, che costituisce la materia dell’epigrafe, aveva voluto eccettuare l’insegnamento elementare dal monopolio, cui erano [59] soggette altre professioni, esercitate nel distretto, quella di calzolaio, di barbiere, di lavandaio, di banditore, di proprietario di bagni etc. etc.[133]

Noi dobbiamo dichiarare che, se anche tali sospetti e tale interpretazione fossero legittimi, ci troveremmo del pari dinnanzi a un atto notevole, compiuto dall’autorità imperiale nei riguardi degli insegnanti elementari, atto, che, per gli scopi del nostro studio, avrebbe importanza pari alla concessione della consueta immunità a muneribus. Se non che, a chi ben guardi, quell’ipotesi non è la più probabile.

Anzi tutto, i casi di analogie, citati dal nostro critico, non hanno il valore che egli vi pretende. Nella orazione Pro Fonteio, Cicerone esprime un concetto affatto diverso di quello che si richiederebbe, giacchè ivi dice soltanto, e nei termini più generali, che la Gallia vedeva nella rovina di Fonteio «quasi la propria immunità e la propria libertà.»[134] Ma, come che sia, per la esenzione dell’insegnamento elementare dal monopolio, cui altri impieghi soggiacevano, non vi era punto bisogno di un capitolo speciale dell’epigrafe. Bisognava soltanto non farne menzione, chè la lex Vipascensis non istabiliva un monopolio universale, ma un monopolio per mestieri e per professioni determinate.

Quanto poi alla supposta esenzione dall’autorità del procurator imperiale, sfugge a noi ogni motivo del privilegio conferito ai ludi magistri e — quel che più importa — soltanto ad essi. Il procurator fa a Vipascum [60] le veci dell’autorità municipale[135]. Perchè mai dunque la esenzione dei ludi magistri, e di loro soltanto, dalla sua giurisdizione?

Ci pare dunque assai preferibile l’interpretazione, più comune, di una esenzione a muneribus. Ma si trattava di esenzione dai carichi comunali o da tutti i carichi pubblici imposti dallo Stato? È probabile che, su questo punto, una esenzione limitata ai primi risponda maggiormente a verità.[136] Una immunitas a procuratore metallorum deve più probabilmente riguardare soltanto i carichi dipendenti dalla autorità del procuratore, e, in tal caso, solo i munera civilia, i carichi comunali, che quegli imponeva in virtù degli stessi diritti, per cui, nei municipii, li imponevano la curia e i magistrati locali.

Noi veniamo intanto a sapere che una di quelle condizioni speciali, che spingevano il governo ad accordare ai maestri la immunità dai pubblici oneri, quella immunità, che ad essi di regola non si largiva, era la singolarità dell’aggregato sociale, tra cui si sarebbe desiderato si svolgesse l’opera loro. Nel distretto minerario di Vipascum, s’era formata, o si sarebbe andata formando, una popolazione composta dei minatori e delle loro famiglie, che il bisogno o l’allettamento del guadagno avrebbe potuto stabilmente trattenervi. Per creare questa condizione di cose, da cui appunto dipendeva la vita della miniera, occorreva offrire, più che [61] fosse possibile, sicuramente ed a buon mercato, qualcuno dei più importanti servizii. Il desiderio di raggiungere tale scopo avea fatto creare dei monopolii, che da un lato garantivano la bontà del servizio, dall’altro la suscettibilità del consumatore contro pretese eccessive.[137] Queste stesse cause e queste stesse preoccupazioni davano origine al privilegio in favore degli insegnanti elementari, i quali, in quella rara oasi, avrebbero trovato quella esenzione a muneribus, che, soli fra i pubblici docenti dell’impero, ignoravano, e che li avrebbe fatti accorrere numerosi a diffondere l’istruzione, ciò che precisamente lo Stato mirava a conseguire.

Quello che accadeva a Vipascum doveva accadere in tutti i distretti minerarii, che si trovavano in pari condizioni territoriali; doveva accadere in tutte quelle circostanze, in cui gli agglomeramenti di sudditi dello impero, su cui il governo aveva interesse di rivolgere la sua attenzione, presentavano analoghi caratteri. Le fonti non ci hanno specificato tutti i casi, in cui il provvedimento ebbe a ripetersi, ma noi abbiamo, ugualmente, il pieno diritto di non presumere isolata la franchigia dei maestri di Vipascum.

XIV.

Ma la impronta caratteristica, che il governo di Nerone lasciò nella storia dell’istruzione pubblica, non si rintraccia nelle scuole primarie o in quelle di retorica o di filosofia.

L’originalità del suo governo consistette invece nella [62] introduzione di una nuova forma di educazione fisica nel piano generale dell’istruzione e della vita romana, non che il decisivo trionfo del culto dell’istruzione musicale: due fatti, che reagirono contro tendenze tradizionali, subirono discussioni e contrasti vivaci, e furono tutta opera personale del principe.

Lo spirito dell’educazione fisica romana era stato in categorico contrasto con quello dell’educazione fisica greca, e il costume ellenico, che aveva fatto schiava e prigione Roma in tutti i gradi e in tutte le forme dell’istruzione e della educazione intellettuale, era rimasto irrimediabilmente escluso dai termini dell’educazione fisica. Un frammento del De Republica di Cicerone rivela tutto l’orrore romano contro l’educazione fisica a tipo ellenico, arte ch’era fine a se stessa, suscitata da un desiderio di bellezza, che, come l’arte propriamente detta, prescindeva da ogni altra considerazione. L’esercizio a corpo nudo è, per il buon romano, una lesione del fondamento stesso della vita morale e civile[138]. «Quanto non è assurda, scrive Cicerone, l’educazione fisica dei giovani nei gymnasia, quanto fatua la milizia degli efebi greci! A quanti contatti e a quanti liberi amori non dà essa luogo!»[139].

L’uso degli esercizii fisici a corpo nudo avrebbe tratto i Greci alla mollezza e al servaggio. «Erano stati — si pensava — i gymnasia e le palestre a portare in copia nelle città l’inerzia e l’ozio, cattivo consigliero, e la consuetudine della omosessualità, e la corruzione dei giovani. Tutti dediti a dormire, [63] a passeggiare, a regolare la vita e i movimenti, i Greci avevano poco a poco abbandonato l’uso delle armi, e, senza avvedersene, preferito essere agili e bei ginnasti, anzichè opliti e cavalieri valenti»[140].

E come, per il buon romano antico, l’educazione fisica doveva limitarsi, e subordinarsi, ai ristretti scopi della milizia e alle modeste esigenze della sanità del corpo[141], per il romano più intellettuale dell’età dell’impero, essa poteva al più, oltre che a questo,[142] tendere a completare le qualità del buon oratore, regolandone i gesti e i movimenti, aggraziandone l’attitudine e il passo, tramutandosi in una chironomia[143].

Le riforme augustee nell’educazione dei giovani non avevano derogato da codesti criteri. Era riserbato a Nerone sconvolgere, o iniziare lo sconvolgimento, di tanto salda ideologia e di tanta tradizione. «Nel suo quarto consolato, narrano Tacito e Svetonio, consoli lo stesso Nerone e Cornelio Cosso, egli istituiva in Roma, per la prima volta, una festa quinquennale, le cui norme furono appunto ricalcate su quelle della corrispondente solennità ellenica»[144]. Furono queste le Neronee. Si ebbe perciò, per la prima volta, in Roma, una solennità con gare di corsa di carri e di ginnastica, da rinnovarsi ogni cinque anni, a spese, non più dei magistrati preposti a quell’ufficio, ma dello [64] Stato. E a tali concorsi — qui appunto risiedeva la innovazione, fonte di tanto scandalo — avrebbero dovuto partecipare, come vi parteciparono in grande copia, cittadini dell’aristocrazia romana, spettatrice tutta la loro classe, che avrebbe assistito al grande agone in costume greco.

La rara, periodica solennità richiedeva — ed era naturale — l’addestramento e l’allenamento dei partecipanti al concorso. E Nerone provvide, ed edificò in Roma, insieme con le sue terme, un gymnasium, l’edificio, presso i Greci, sacro all’educazione e all’allenamento fisico dei giovani, dei cittadini, degli atleti. E, nell’inaugurarlo, distribuì graeca facilitate l’olio ai senatori e ai cavalieri, segno indubbio degli scopi dell’istituto e delle classi sociali, a cui, nel suo pensiero, veniva destinato[145].

Erano i primi passi, ma passi decisivi, verso quella glorificazione dell’educazione fisica greca, che altri imperatori continueranno. Ne era anzi la consacrazione ufficiale, ed è facile, dalle lamentele degli scrittori contemporanei, o immediatamente successivi, intravedere tutta la efficacia di quel tentativo. L’amore dell’esercizio fisico viene infatti all’ordine del giorno. Nelle case, in locali appositi, dei maestri, dei palaestrici — gente grossolana, che gli intellettuali del tempo disprezzavano cordialmente, giacchè, a loro dire, passavano tutto il giorno a ingollare vino, a ungersi di olio e a riversar sudore — impartivano, come i retori e i grammatici, [65] lezioni di ginnastica ad uomini, ed anche, fin d’allora, a donne[146].

L’educazione fisica entra così a parte dei programmi di educazione e di istruzione generale, e l’opinione comune tenta di collocarla a fianco delle arti liberali, insieme con la filosofia, la grammatica, la retorica[147]. Perciò essa ridesta tutta l’avversione dei conservatori romani e alimenta largamente la protesta delle persone così dette autorevoli[148].

Ma anche questa volta, così come contro più antiche recriminazioni, il nazionalismo ebbe la peggio. E, nonostante le lamentele dei circoli conservatori romani, l’amore dell’educazione fisica, regolata secondo i criterii, cui si era ispirata in Grecia, sia pure inclinando verso quelle forme, che costituiscono la sua degenerazione, come l’atletica e l’acrobatica[149], nessuno, per lungo tempo, ebbe più mezzo di svellere.

XV.

Quello che è a dirsi delle sorti dell’istruzione fisica, sotto l’ultimo degli imperatori Claudii, non differisce — lo accennammo — gran fatto da ciò che sarebbe a dire dell’istruzione musicale.

È noto come, già fin dal II. secolo a. C., la musica greca fosse prevalsa assolutamente sulla romana, e come, [66] fin da quel tempo, lentamente, ma tenacemente, l’amore della sua cultura si diffondesse per l’Italia romana[150]. È evidente in che alta misura il nuovo regime imperiale dovesse favorire l’amore degli spettacoli musicali e l’apprendimento delle discipline che vi si riferiscono. La cresciuta ricchezza, la pace interna, lo sfarzo naturale delle corti principesche, che le classi aristocratiche, avrebbero voluto imitare, il contatto con nuove e antichissime civiltà e con società, squisitamente dotate di senso musicale, tutto contribuiva a tale risultato.

Come invero la conquista della Grecia aveva, nella società romana, portato la diffusione della musica greca, così la conquista dell’Egitto determinò in Occidente l’invasione del ballo e della musica istrumentale alessandrina.

L’età di Augusto inaugura infatti l’êra delle pantomine, genere di spettacolo ancora ignoto ai Romani, costituito da una schiera di ballerini e da accompagnamento di canti corali e di musica orchestrale, che di lì a poco occuperà nella vita antica lo stesso posto, che nella nostra occupa l’opera[151]. Cotali orchestre dettero man mano luogo a veri e propri concerti — pubblici e privati — indipendenti da ogni rappresentazione teatrale, e fu questa una delle grandi manìe della corte e delle case aristocratiche sin dai primi anni dell’impero[152].

[67]

Alle rappresentazioni filodrammatiche ed ai concerti, gli imperatori aggiunsero i concorsi musicali. A perpetuare il ricordo di Azio, Augusto istituì a Nicopoli — nella Città della vittoria — gare di musica, che presero regolarmente posto accanto ai quattro agoni tradizionali. Lo stesso egli fece a Pergamo;[153] e a Roma, nel 17 a. C., la celebrazione di quei ludi saeculares, dei quali — nel suo pensiero — nulla più grande l’umanità aveva veduto e mai più doveva rivedere[154], fu coronata da uno spettacolo prettamente musicale, il Carmen saeculare, dettato da Orazio e cantato da un coro di 27 fanciulli e 27 fanciulle romane[155].

Degli imperatori, che succedettero ad Augusto e dei principi di casa Giulio-Claudia, parecchi protessero, e coltivarono apertamente, l’arte musicale: Caligola, Tito, Britannico[156], Claudio; e i ludi saeculares, celebrati da quest’ultimo, ebbero anche i trattenimenti musicali, che avevano allietato quelli di Augusto[157]. Ma chi dà il maggiore degli impulsi a quell’arte e alla sua cultura fu, come per altre cose, Nerone.

Nerone non amava passare per dilettante, pretendeva essere un artista di valore. Appena sul trono, chiamò il famoso citaredo Terpino e studiò disperatamente canto e musica. Nel 59 si produce, come poeta e come [68] citaredo, nelle feste Iuvenalia, da lui istituite;[158] nel 60, bandisce i giuochi neroniani, le cui gare musicali formavano uno dei punti più importanti del programma;[159] nel 64, a Napoli, debutta in teatro, cantando sulla cetra una melodia greca, e il suo entusiasmo, quel giorno, è tale da non fargli interrompere la festa, neanche al sopravvenire di un terremoto[160]; nel 65, si produce in Roma, nel teatro di Pompeo, nell’agone quinquennale da lui stesso istituito[161]; nel 66, intraprende la sua grande tournée artistica in Grecia, ove allieta, e onora, del suo canto Olimpia, Delfo, i giuochi istmici[162]. E già, in fin di vita, fa voto di celebrare la vittoria contro Galba con giuochi, in cui avrebbe suonato l’organo, la cornamusa, cantato in coro e rappresentato per ultimo, in pantomima, il Turnus di Virgilio.[163].

Quale fosse l’impulso, che Nerone e i suoi predecessori erano così venuti a dare alla musica e alla istruzione musicale della gioventù, noi lo possiamo constatare fin da questo tempo. Ci limiteremo a fornire, fra le tante, qualche prova.

Nerone volle che i componenti l’aristocrazia partecipassero alle rappresentazioni teatrali, come attori, e allorquando — narra un contemporaneo alquanto misoneista — Nerone istituì i suoi Iuvenalia, «tutti i cittadini indistintamente vi si inscrissero. Nè la nascita, [69] nè l’età, nè il riguardo di antichi onori rivestiti impedirono ad alcuno di esercitare il mestiere di istrione greco o latino, e di imitarne i gesti e i canti meno degni di uomini. Perfino delle donne illustri per nascita si compiacquero esercitarsi in simili sconcezze». «Di là si diffusero la sregolatezza e l’infamia, nè mai altra volta i già corrotti costumi furono più gravemente sommersi in tanta vergogna.[164]» E meditando, e rimpiangendo, sulla decadenza effettiva degli studii filosofici, uno stoico, e non dei più rigidi, esclama: «Ma quante cure invece perchè il nome di un qualunque pantomimo non perisca! La dinastia dei Pilade e dei Batillo sta salda nei successori. Di queste arti sono numerosi i cultori, numerosi i maestri. Ogni casa ha un palcoscenico, e questo risuona continuamente di danze, a cui partecipano, e in cui gareggiano, individui di ambo i sessi».[165]

Roma è già in questi anni invasa di frenesia per l’apprendimento della musica, della danza, del canto, e ad essa, da ogni angolo della Grecia e dell’Asia ellenizzata, affluiscono musici e virtuosi. Le scuole di musica sono tra le più frequentate[166]. Eccellono per zelo le signore dell’aristocrazia, e, allorquando l’autore dell’Apocalisse vorrà, in quel tempo, lanciare, come il suo angelo, la peggiore delle qualifiche contro la città maledetta, la definirà senz’altro città di musicanti, di citaredi, di suonatori di flauti e di trombettieri.[167]

[70]

XVI.

Col nuovo grandioso impulso, dato da Nerone alla consuetudine della ginnastica e alla passione della musica, si lega la sua riforma di quelle associazioni giovanili, che erano state la gloria del governo di Augusto, e di cui Nerone fu, tra i Claudii, il più felice diffonditore.[168] È sopra tutto per loro mezzo che l’istruzione musicale e l’educazione fisica, improntata ai criteri greci, hanno presa sulla gioventù e penetrano vittoriose nel programma generale dei suoi studi.

Noi abbiamo elementi per assicurare che l’organizzazione, fondata da Augusto, era continuata non ingloriosamente sotto i successori fino a Claudio. Caligola anzi aggiunge alle feste dei Saturnali un giorno, che disse Iuvenalis, nel quale, naturalmente, dovevano aver luogo i ludi iuventutis,[169] e dà giuochi, ai quali partecipava specialmente la gioventù senatoria, con le note cacce, con il lusus Troiae.[170].

Altri dati, e non meno significativi, si riferiscono al governo di Claudio.[171] L’istituzione, voluta da Augusto, è dunque salva. E noi siamo anche sicuri che fin da questo tempo le associazioni giovanili erano già [71] uscite da Roma e penetrate in altre cittadine italiche, specie nel Lazio.[172]

Ma in Nerone — vedemmo — all’amore per le gare ginniche si accompagnava l’altro, ancora più ardente, per la musica e per le rappresentazioni sceniche. I suoi esercizi fisici furono quindi tosto sopraffatti dalla frequenza delle rappresentazioni musicali, e a queste, cui egli partecipò direttamente, volle, per amore o per forza, partecipassero anche quei iuvenes augustiani, quella guardia del corpo, che, seguendo l’esempio delle corti ellenistiche, l’imperatore si era formata tra i giovani tirones provenienti dalle due classi della nobiltà romana[173]. Fu la circostanza, in cui si determinò il nuovo indirizzo delle associazioni giovanili. E nel 53, cioè a dire nel giorno della sua assunzione della toga virile, egli inaugurava i Iuvenalia. Il loro nome rammenta Caligola e l’interesse di lui per l’antica istituzione. In quello stesso tempo, nei municipii italici, il culmine delle feste giovanili era precisamente il lusus iuvenalis, consistente in cacce di fiere, gare di scherma e lotte nell’arena[174]. Nerone non poteva fare, e non sembra abbia fatto, a meno di ciò;[175] ma per lui gli esercizii sportivi non bastarono, ed egli vi aggiunse danze, canti a solo, canti corali, non che rappresentazioni [72] sceniche[176]. Nessuna di queste cose poteva darsi senza un precedente tirocinio, e sorsero quindi all’uopo apposite scuole preparatorie — scuole di musica e di ginnastica — con speciali maestri[177]. Anche Nerone ebbe i suoi, Seneca e Burro, che dovettero accompagnarlo sulla scena[178].

Com’è palese, l’indirizzo militare e civico, con iscopo patriottico e contenuto religioso, della educazione augustea aveva deviato. E noi ora veniamo invece a trovarci di fronte ad una educazione, tra sportiva e teatrale, con contenuto e pura forma greca.

Più grave appare la deviazione dall’antico, pel fatto stesso che Nerone, come abbiamo accennato, si formò, della organizzata gioventù romana, una vera e propria guardia del corpo: se nella prima parte della sua riforma può ben dirsi che egli seguisse un suo più largo e nuovo ideale di educazione, nella seconda, egli realmente indirizzava ad altri scopi le antiche associazioni giovanili, e questi non costituivano più un organico sviluppo degli intendimenti della riforma di Augusto.

XVII.

Innanzi di lasciare per sempre il governo di Nerone, è nostro debito di storici rivendicare a lui alcuni altri atti, concernenti le sorti della pubblica istruzione in Roma, che si sogliono in genere attribuire a merito [73] dell’ultimo imperatore Flavio, Domiziano, la ricostruzione cioè e la ricomposizione di talune delle biblioteche, fondate dai precedenti imperatori e perite nel terribile incendio del 64. Ed invero, se il così detto Tempio nuovo di Augusto è già restaurato nel gennaio del 69[179], è quasi certo che codesta cronologia sia stata preceduta dalla restaurazione della biblioteca, di cui Tiberio l’aveva arricchito[180]. Anche anteriore è la riattazione del tempio ad Apollo,[181] ed è probabilissimo che con esso Nerone abbia ricomposto l’ancor più gloriosa biblioteca, che Augusto vi aveva aggregata. Ma poichè gli istituti di tal genere, periti nel 64, non dovettero essere quelli soltanto — la Biblioteca della Domus tiberiana, che sorgeva anch’essa sul Palatino[182], non potè certamente sfuggire alla quasi universale rovina — e, poichè questi ed altri accenni tendono a dimostrare come Nerone abbia mirato a restaurare tutto quanto l’incendio aveva distrutto, è lecito supporre che i suoi restauri non si limitarono alla Palatina e alla Biblioteca del Tempio nuovo, ma sovvennero anche le altre, che, nell’incendio del 64, avevano subito una sorte egualmente infelice. Cosicchè Domiziano, di cui un biografo[183] dirà avere egli avuto il grande merito di restituire le biblioteche precedentemente distrutte, dovette esercitare la sua liberalità verso [74] quelle sole tra esse ch’erano perite negli incendi avvenuti tra la fine del regno di Nerone e l’esordio del suo governo[184].

XVIII.

Ci rimane a dire qualcosa dei rapporti intercessi, sotto gli imperatori di casa Giulio-Claudia, tra lo stato e l’insegnamento della giurisprudenza, già così evoluto e così prossimo alla ufficialità in sullo scorcio della repubblica[185].

Secondo i più autorevoli storici del medesimo, l’impero avrebbe compiuto, nel campo dell’istruzione giuridica, una vera e propria rivoluzione. Esso, cioè, sarebbe riuscito a possedere quello che la repubblica non aveva mai conosciuto, delle vere e proprie scuole giuridiche di stato, e tale rivolgimento sarebbe, a loro dire, interamente palese sotto Antonino Pio, o fors’anco sotto Adriano, come proverebbe un classico passo di Gellio, nel quale si accenna esplicitamente, come a fatto ovvio ed universale, a scuole, numerose in Roma, di ius pubblice docentium[186].

Ma la misura di codesto rivolgimento, nel campo dell’istruzione giuridica in Roma, è assolutamente esagerata, e la sua importanza viene attenuata da quanto più recenti studi han potuto ricostruire circa i limiti [75] e la natura dell’istruzione giuridica nell’età repubblicana.[187] È perciò più esatto asserire che, da questo tempo a quello degli Antonini, si rileva solo un notevole crescendo dell’istruzione giuridica, un regolarizzarsi e un perfezionarsi delle forme, in cui essa veniva impartita, senza che questo nulla abbia a vedere con una vera e propria rivoluzione, più che con un naturale svolgimento di condizioni preesistenti. Il nostro compito deve quindi limitarsi a indagare la parte, che, in codesto incremento e svolgimento, abbiano avuto gli imperatori di casa Giulio-Claudia.

Come narra l’unico antico sistematico espositore della storia e dell’insegnamento del diritto nella repubblica e nell’impero romano, Pomponio, uno dei principali doveri dei Pontefici, e poi dei giureconsulti romani, era stato, fin dall’età repubblicana, quello dei responsa, cioè a dire delle consultazioni giuridiche a magistrati e a privati, che fossero venuti a richiederneli.

Tale ufficio aveva una grande, e grave, ingerenza nelle controversie giudiziarie. Il compito di giudice, nella vita sociale romana, era stato facile finchè gli atti giuridici si erano apprezzati, dirò così materialmente, senza alcuna ricerca delle intenzioni delle parti, e fino al giorno, in cui il diritto non era divenuto una scienza indipendente, la quale, oltre alla pratica del foro, reclamava uno studio speciale. Ma più tardi, in mancanza di una apposita classe di giudici professionisti, era invalsa man mano la consuetudine che essi si circondassero [76] di un consiglio di gente sperimentata e che le parti comunicassero loro, quale argomento decisivo, l’avviso, il responsum, di giureconsulti autorevoli, per quanto legalmente estranei alla causa[188].

Ma se, fino ad Augusto, il dare responsa dipendeva dal buon volere dei giureconsulti, dalla loro capacità, dalla fiducia che altri riponeva in loro, da Augusto invece si ebbero dei ius respondentes patentati[189].

Sotto questo imperatore, venne stabilita una differenza tra i responsa e il loro valore effettivo, sì che, mentre, fin allora, dei pareri, esibiti dalle parti, poteva non tenersi alcun conto, il giudice, adesso, qualora il responso fosse opera di un giurista, specialmente patentato, era moralmente tenuto a riconoscerlo, perchè esso era stato formulato in nome del principe; costituiva cioè delle emanazioni della di lui sovrana autorità.

Tale innovazione non subì alcuna interruzione sotto i successori di Augusto — patentarono giuristi Tiberio, Caligola, e altri[190] — ed essa, col rialzare notevolmente il prestigio di questa classe di studiosi, era fatale avesse delle ripercussioni sull’insegnamento e sulla diffusione della cultura giuridica. Darsi agli studi del diritto, praticarne l’insegnamento era adesso un mezzo con cui raccogliere la fiducia dei principi; respondere populo, con tanta efficacia pratica, era anche fonte di lucro. Massurio Sabino ne aveva dato l’esempio e provato i beneficii: egli, consultore pubblico, patentato da Tiberio, inaugurò la serie dei professori di giurisprudenza [77] retribuiti di regolare onorario dai loro auditores[191].

È possibile che gli imperatori della casa Giulio-Claudia abbiano fatto anche qualcosa di più. Come il governo repubblicano aveva, ad un pontefice, assegnato un alloggio sulla Via Sacra per le sue pubbliche consultazioni,[192] sembra che analogo provvedimento si sia ora adottato a vantaggio delle nuove scuole dei giuristi. La cosa può dirsi fuori dubbio per l’età di Adriano,[193] ed è probabile anche per quella immediatamente precedente. Allora gli auditoria dei giuristi e dei loro scolari avranno sede nelle biblioteche di fondazione imperiale[194]. Ma è legittimo supporre che l’usanza fosse cominciata anche prima. Le biblioteche dell’età di Traiano e di Adriano non sono che ricostruzioni di istituti rispondenti a l’idea, che Augusto ne aveva avuta, e, come, nella prima metà del II. secolo di C., erano in esse delle intere sezioni giuridiche[195], altre analoghe ne avevano contenute le biblioteche augustee, sì che, secondo l’esagerazione di uno scoliasta di Giovenale, Augusto avrebbe, nel tempio di Apollo Palatino, inaugurato un’intera biblioteca di diritto civile.[196] Perchè dunque l’ipotesi che qualcuna delle sale di tali biblioteche fosse ritrovo dei giuristi e dei loro discepoli, non dovrebbe convenire anche alla prima metà del I. secolo di C.? Perchè non riconoscerla legittima se [78] la ufficialità è nell’intima essenza dell’istruzione giuridica romana e se la sua pubblicità è perciò, non solo da intendere nel senso che tutti potevano goderne, ma in quello ch’essa veniva impartita col consenso, o con la sottintesa iniziativa, del potere centrale?[197].

Fu questa l’opera e furono questi gli atti, con cui, inconsapevolmente, e consapevolmente, gli imperatori della casa Giulio-Claudia promossero l’istruzione giuridica. Pur troppo, la natura stessa del nuovo potere assoluto era tale da ridurre di parecchio gli effetti di così benevoli intendimenti.

XIX.

Noi abbiamo ora sott’occhio tutto il quadro della politica degli imperatori di casa Giulio-Claudia, nei rispetti dell’istruzione nazionale. E possiamo senza esitazione affermare ch’esso occupa un posto eminente nella storia della civiltà umana. Noi vi notiamo da un canto il grande impulso dato allo studio di talune discipline, la inestimabile iniziativa della fondazione di pubbliche biblioteche, lo stabilirsi di una condizione privilegiata ai precettori delle arti liberali. Noi vi notiamo l’introduzione di elementi fin ora ignorati e trascurati: l’educazione fisica a tipo greco, l’istruzione musicale, e — ciò che è assai più importante — fin da Augusto, un piano sufficientemente completo di educazione ufficiale della gioventù.

Assai strano è intanto constatare come i maggiori [79] propulsori dell’istruzione pubblica romana, in questa età, siano stati due uomini, due principi, le mille miglia lontani l’uno dall’altro per indole e per politica: Augusto e Nerone, sì che, nel I. secolo dell’impero, la istruzione e l’educazione delle classi elevate ondeggino tra questi due poli: l’indirizzo Augusteo e l’indirizzo Neroniano.

Ma più importante è un’altra constatazione, che ci è imposta dalle vicende della storia politica dell’impero romano e che dà la chiave dell’enigma delle strane sorti della produzione intellettuale nei secoli venturi. L’impero perfeziona e moltiplica gli strumenti esteriori e materiali del progresso, ma fin d’adesso — ugualmente — la scuola comincia ad essere vuotata della sua anima, della sua libertà formatrice d’intelletti e di coscienze e cessa di produrre tutti i suoi frutti. Le scuole di retorica moltiplicano sin da Nerone, ma non formano più oratori, formano dei retori. Le scuole di filosofia dilagano, ma il filosofare diviene d’ora innanzi un pericolo, e sola filosofia possibile non è più quella che scandaglia per tutti i recessi dell’abisso profondo, dove, come s’esprimeva Seneca, giace la verità, ma l’altra, che si cristallizza in una secca e vuota ermeneutica dei più celebri autori dei secoli trascorsi o che si deforma in una sofistica arguta e sottile, che insegna meno a vivere, a sentire, a pensare, di quello che a disputare e a schermagliare.[198] La stessa educazione fisica va man mano smarrendo il proprio scopo e [80] cede il posto all’atletica e all’acrobatica. La cultura e la scienza divengono così ornamento mnemonico o intellettuale, non creano, nè ricreano l’uomo. Questo non fu per certo conseguenza di volontà colpevole di individui; fu bensì effetto di tempi mutati, fu derivazione necessaria di istituti politici, che svolgevano tutte le deleterie influenze, a cui l’intima capacità li costringeva, e sospingeva, ma di cui non meno gravi saranno le fatali ripercussioni.

[81]

CAPITOLO II. Gl’imperatori di casa Flavia e l’istruzione nell’impero romano.
(69-96)

I. Vespasiano e la fondazione di nuove biblioteche. — Riconferma delle immunità ai maestri di grammatica, retorica e filosofia. — Stipendio ai principali insegnanti di retorica in Roma. — Non si tratta di una statizzazione delle scuole di retorica. — II. Motivi della innovazione. Condizioni economiche dei maestri di retorica. — Il provvedimento di Vespasiano quale misura della considerazione sociale dei retori. — III. Trascuranza del governo imperiale verso i grammatici e gli insegnanti elementari; loro condizioni economiche. — IV. Rapporti amministrativi e giuridici dei retori stipendiati con lo stato. Giudizio dei contemporanei. — V. Quintiliano primo retore stipendiato, come maestro e come pedagogista. — VI. Tito rimane fedele alla politica scolastica del padre. Domiziano riedifica le biblioteche distrutte. La ripercussione della operosità imperiale sulla diffusione e sul regime delle biblioteche. — VII. Domiziano e il trionfo della educazione fisica a tipo ellenico. Vespasiano, Domiziano e l’istruzione musicale. — Il nuovo indirizzo dei collegi giovanili. — IX. Il rovescio della medaglia: Vespasiano contro le scuole filosofiche ateniesi. — X. Il governo dei Flavii e l’istruzione pubblica nell’impero romano.

[82]

I.

Buona parte dell’opera, che il primo imperatore di casa Flavia svolse nel campo della istruzione pubblica, ricalca fedelmente le orme del passato.

Anche Vespasiano fu, probabilissimamente, un felice inauguratore di pubbliche biblioteche. Nel Templum Pacis, da lui fondato, Gellio e Galeno menzionano una biblioteca omonima,[199] e, sebbene questo nuovo istituto non sia esplicitamente indicato come sua opera, è in tutto verisimile che autore ne sia stato lo stesso Vespasiano, il quale, come era avvenuto di altre biblioteche, l’avrebbe aggregata al tempio da lui stesso edificato[200].

In maniera analoga, come i suoi predecessori, egli mantenne inviolate le esenzioni dai pubblici carichi, concesse fin allora ai grammatici, ai retori e ai filosofi, e riconfermò esplicitamente la loro immunità dall’ius recipiendi, civile e militare,[201] di cui abbiamo discorso,[202] e che, probabilmente per poca chiarezza delle precedenti ordinanze imperiali, o per altri motivi, era contestata da funzionarii o da generali viaggianti.

[83]

Ma, se qui si fosse arrestata, l’opera di Vespasiano avrebbe avuto scarsa originalità, e la politica scolastica degli imperatori di casa Flavia si sarebbe adagiata negli stessi confini dei predecessori di casa Giulio-Claudia. Se non che uno degli anni del governo di Vespasiano, fra il 70 e il 79 di C., segna il principio di una rivoluzione profonda nei rapporti dell’istruzione pubblica col governo centrale romano.

In uno di questi dieci anni, l’imperatore, tra le svariate cure, di cui ebbe ad onorare i poeti e gli artisti,[203] deliberò di stipendiare a spese del fisco, cioè di quella parte delle entrate dell’impero, amministrata direttamente dall’imperatore, i maestri di retorica greca e latina, fissando loro una retribuzione annua di 100,000 sesterzi,[204] pari a L. 25,000 circa.

Dai sommarii accenni delle fonti noi riusciamo malamente ad avere un’idea dei particolari della riforma, che lascia adito a molti dubbi e a molte interrogazioni. Furono stipendiati tutti i retori greci e latini dell’impero, o almeno d’Italia, o soltanto quelli di Roma? E, se la riforma venne limitata a Roma, furono stipendiati tutti i retori romani, o solo i più famosi? Quali furono i rapporti, che d’ora innanzi si stabilirono fra questi nuovi professori ufficiali e l’insegnamento libero?

Svetonio, che è la fonte principale, non risponde alla prima nostra domanda, ma ad essa rispondono chiaramente gli informatori di un più tardo storico, Zonara, il quale avverte che si trattò (ed era pel momento naturale) [84] di una riforma limitata esclusivamente alla capitale del mondo[205].

Che non si trattasse poi di tutti i retori di Roma, ma solo di qualcuno tra i più famosi, si può rilevare da un fatto e da una considerazione: il fatto che noi, in realtà, non conosciamo che un solo retore stipendiato, Quintiliano, e la considerazione, che, in tanta copia di scuole romane di retorica, ogni più liberale innovazione avrebbe imposto alle finanze dello stato un aggravio non trascurabile, che un principe quale Vespasiano, tacciato persino di avarizia, non avrebbe mai consentito.

Ma, da quanto precede, risulta ancora che l’innovazione non può essere definita una statizzazione delle scuole di retorica[206]. L’insegnamento privato rimane ugualmente, come per l’innanzi, libero e preponderante, incoraggiato, per giunta, dalla realtà, o dalla speranza, di un assegno annuo da parte del fisco. Ed invero, gli stessi maestri di retorica stipendiati furono degli insegnanti liberi; libera rimase la loro scuola da ogni influenza dello Stato, che non impose alcun programma o alcun controllo; liberi i maestri di richiedere, [85] come richiesero, da ciascuno dei discepoli, un onorario, che costituiva il loro maggiore provento. Anzi, siccome il fatto stesso di uno stipendio imperiale, elevava le pretese dei retori, che lo godevano, e la classe sociale degli alunni, che ne ricercavano le scuole, esso dovette altresì, per un consueto fenomeno di livellamento economico, accrescere i proventi di tutti i loro colleghi, e, insieme, le pretese di una classe di persone, la cui dignità morale veniva anch’essa tangibilmente esaltata.

L’insegnamento privato non riceve dunque alcun danno. Solo, per la liberalità di Vespasiano, lo Stato, scegliendo fra i molti, indica e sussidia alcuni pochi istituti, che si potrebbero definire istituti di paragone. Il vantaggio della coltura era tanto palese, quanto palese che le intenzioni del legislatore rimanevano lungi da ogni idea di una scuola di Stato, e persino di una scuola ordinata e controllata dallo Stato. Se non che — ed era fatale — al di là delle intenzioni degli inconsapevoli iniziatori, la scuola di Stato dell’avvenire si sarebbe svolta dal germe seminato dal primo degli imperatori Flavii.

II.

Quali poterono essere intanto le ragioni, che indussero Vespasiano a tentare ciò che tentò?

Gli storici moderni, più malevoli degli antichi, hanno, con rara facilità, visto nel suo atto un machiavellico ritrovato di addomesticamento dei retori e delle loro scuole,[207] anzi, più ancora, un felice espediente, per [86] il quale egli intendeva schierarli intorno al proprio carro, a difesa degli attacchi dei filosofi.

In verità, i limiti e la natura della riforma escludono assolutamente la possibilità del conseguimento di tale scopo, ed escludono perciò che Vespasiano non vedesse — il che era agevolissimo — la inanità dei mezzi, che vi avrebbe adoperati. A chi ben guardi, anzi, la limitazione del sussidio dello Stato a determinati retori era un motivo atto a raggiungere effetti opposti alle intenzioni attribuite all’imperatore. Chi non vede a quante gelosie, gare, disillusioni e recriminazioni, non doveva quella scelta dar luogo? E, al tempo stesso, a quanti attacchi contro l’imperatore e contro i suoi ministri? Poteva ciò essere un mezzo di corruzione di tutta la classe? Questo non vuol dire che il privilegio inaugurato da Vespasiano non si volesse anche interpretato come un onore concesso all’insegnamento della retorica e ai suoi ministri, come una lontana captatio benevolentiae. Come abbiamo accennato, Vespasiano tenne sempre a ostentare un tal quale mecenatismo verso le scienze e le arti, nonchè verso coloro che le professavano. E in tal senso egli potè mirare a passare eziandio come un protettore, tra i più benemeriti, delle scuole di retorica. Il mecenatismo era la malattia aulica del secolo, e non per nulla la nuova munificenza fu direttamente prelevata sugli introiti dell’impero a disposizione dell’imperatore.

Ma, per Vespasiano, di peso assai grande dovette essere la conoscenza delle condizioni economiche della classe dei retori — condizioni sempre tristi, nonostante gli onori e le esenzioni, di cui essi erano stati oggetto. Noi non abbiamo notizie relative ad età precedenti; [87] ma, nell’età di Traiano[208], in cui, dopo il privilegio, concesso dal primo dei Flavii, la dignità di quell’insegnamento doveva essersi di molto elevata, Giovenale traccia un quadro miserando della vita dei retori e dei grammatici. «Tu insegni a declamare, o Vezio. Tu hai dei polmoni di ferro». «Tutto quello che poco prima avevi letto, stando a sedere, tu dovrai ripeterlo in piedi, e negli stessi termini. Il ripetere fino alla sazietà uccide il disgraziato maestro. Giacchè tutti vogliono conoscere quale sia il colorito da dare a una discussione, quale il genere di una causa, ove ne risieda il punto fondamentale, quali possano essere le varie obbiezioni. Salvochè nessuno vuol pagare l’onorario. Ti si rinfaccia: — Tu chiedi il pagamento dell’onorario? E che cosa ho io appreso? — La colpa, naturalmente, dovrà essere del maestro, se non c’è un briciolo di anima in questo giovane arcade. Ogni giorno mi ha rotto i timpani col suo dirus Hannibal, il quale discute (che so io!) se dopo Canne debba recarsi a Roma, o se, più prudente, debba, dopo una tempesta ripiegare sulle città vicine. Quanto vuoi fissare (io sborso subito la somma) perchè suo padre lo stia ad ascoltare tante volte quante è toccato a me? — Così protestano altri sei o più maestri», e «la loro ricompensa maggiore è l’importo di una tessera per frumento a buon mercato. Indaga invece presso i [88] citaredi Crisogono e Pollione quanto renda loro l’insegnamento ai fanciulli ricchi.... Tu sfogli invece il manuale del retore Teodoro....

«Si spenderanno seicentomila sesterzi a costruire dei bagni, e più, per un portico, nel quale il signore si faccia portare a passeggio quando piove (dovrebbe forse attendere il sereno, o lasciare che i suoi cavalli siano spruzzati di mota recente?)». «Altrove egli edificherà una sala da pranzo con eccelse colonne di marmo numida e che sia tutta esposta al sole invernale. Conforme alla dignità della casa, gli occorreranno cuochi di svariate abilità. Fra questi dispendii, due mila sesterzi saranno di troppo per un Quintiliano. Così ad un padre niente costerà meno di un figliuolo.»[209]

E nulla in realtà poteva costar meno. Dal fugace accenno dello stesso Giovenale, l’onorario mensile dei retori, che corrispondeva all’importo di una tessera per frumentazioni, non giungeva, a quel tempo, a superare i 20 sesterzi, in cifra tonda L. 5 al mese per alunno[210].... Due secoli dopo, in tanto più elevato tenor di vita, l’onorario dei maestri di retorica si aggirava intorno alle L. 6,25 mensili per alunno[211]. L’amaro accenno di Giovenale doveva dunque essere l’eco di una protesta generale. Che cosa sarebbe avvenuto delle migliori scuole di retorica, qualora fossero state abbandonate al [89] proprio destino? Era possibile che un governo di Mecenati proteggesse i musici, o gli attori celebri, e trascurasse i maestri, formatori e creatori delle coscienze e delle intelligenze romane? Poteva esso trascurarli, quando, per di più, dal gesto di protezione, che loro avrebbe rivolto, era lecito sperare un compenso di gloria e, magari, di gratitudine avvenire?

Quale fu intanto il rapporto, in cui codesto sussidio stette con la considerazione, che i retori godevano in Roma, e presso i poteri centrali?

Taluni moderni hanno, anche qui, malevolmente, confrontato lo stipendio assegnato a quelli da Vespasiano con i premii da lui largiti ad altri professionisti, e ne hanno tirato delle gravi conclusioni circa la scarsa stima sociale dei retori. Se non che balza evidente agli occhi di ogni spassionato osservatore l’impossibilità del confronto. Nell’un caso, si tratta di stipendio annuo, nell’altro, di sussidi una volta tanto. Se un confronto si voleva istituire, esso doveva farsi con altri funzionari stipendiati. Tra questi si potevano scegliere i procuratores imperiali. Siamo nel I. secolo di Cristo, e noi ne conosciamo due sole categorie, i ducenarii e i centenarii[212], stipendiati cioè, i primi, a 200.000, i secondi, a 100.000 sesterzi annui. Noi non possiamo dire, per ora, quali procuratores si trovassero nell’una, quali nell’altra condizione; ma, di qui a poco più di un mezzo secolo, saranno procuratori centenarii i governatori di parecchie provincie e certi funzionarii urbani e provinciali, come il procurator alimentorum, il procurator aquarum, il procurator ludi magni, il procurator operum publicorum, ed altri [90] ancora, fra cui il procurator bibliothecarum[213]. Or bene, accanto a tutti costoro, vanno, per considerazione sociale, allogati i centenarii insegnanti di retorica. Vero è che, in questo ulteriore periodo, i procuratores centenarii rappresentavano il più basso ordine dei tre, che allora di codesta classe esistevano; ma non si può negare che non sempre, anche in tempi più civili, il maestro di retorica si è trovato in così buona compagnia tra i funzionarii dello Stato.

III.

Ma, dopo quanto precede, noi non possiamo trascurare di porci un’ultima domanda. Perchè Vespasiano limitò i suoi favori ai maestri di retorica, e non li estese anche ai litteratores e ai grammatici, maestri, rispettivamente, della scuola primaria e media inferiore?

Eppure, se i retori stavano male, i precettori di grammatica e i litteratores stavano peggio. Dei primi — l’abbiamo accennato — ci informa lo stesso Giovenale: «E il maestro di grammatica? Quale guadagno ritrae dal suo lavoro il maestro di grammatica? Il suo salario è inferiore a quello del retore, ma, per miserando che esso sia, ne detraggono una parte lo scempio pedagogo e l’amministratore. Ma, povero Palemone, tollera anche questa ritenuta, come un qualsiasi mercante di stuoie invernali e di bianchi cortinaggi, purchè non invano tu ti sii levato all’ora della notte, [91] in cui nè il fabbro ferraio, nè il cardatore di lana sono in piedi!» «Chè il salario tu l’otterrai di rado senza ricorrere al tribuno. Eppure voi, o genitori, esigete che un precettore conosca le leggi del linguaggio, che conosca tutta la storia, tutti gli autori a mena dito, cosicchè, interrogato all’improvviso, mentre si reca alle Terme o ai bagni di Apollo, sappia dire chi fu la nutrice di Anchise e il nome e la patria della matrigna di Anchemolo e quanti anni visse Alceste e quante urne di vino siculo donò ai Frigii. Eppure, voi esigete che egli plasmi le tenere menti, come altri foggia con la cera un volto umano, esigete che egli faccia da padre e impedisca che i fanciulli amino le cose turpi e non le pratichino insieme. Non è cosa da nulla sorvegliare tante mani e tanta mobilità di occhi. Questo tu devi curare, e al termine dell’anno ricevi pure i cinque aurei, che il popolo reclama per l’atleta vincitore»[214].

La concorrenza doveva infatti essere grandissima, e, se, in sullo scorcio della repubblica, Roma contava oltre venti scuole di prim’ordine[215] di grammatici, codesta cifra era naturale si fosse ormai più che quadruplicata. Ove poi volessimo avanzare di qualche secolo fino all’età di Luciano, noi apprenderemmo che tutto il provento dei grammatici bastava appena a pagare il sarto, [92] il medico e il calzolaio.[216] E, nell’editto dioclezianeo de pretiis rerum venalium del 302 di C., troveremmo che il maestro di grammatica, greco o latino, veniva in media pagato con 200 denarii (L. 4.50) mensili per scolaro[217].

Se questo è a dire dei grammatici, peggio ancora è a ripetere dei litteratores. Durante la fanciullezza di Orazio, i fanciulli delle più ricche famiglie romane corrispondevano loro mensilmente una retribuzione, che si aggirava intorno agli otto assi, cioè a dire a circa quaranta o cinquanta centesimi al mese.[218] Nell’età di Diocleziano, la tariffa era salita a L. 1,25, o poco più, al mese.[219] Si sottraggano i tre o quattro mesi di vacanza,[220] e si vedrà che la vita non sarebbe stata possibile, se i maestri — con quanto vantaggio dell’insegnamento è facile comprendere — non avessero pensato di sopperire con dei mestieri accessori[221]. Parrebbe evidente da tutto ciò che i grammatici e i litteratores dovessero attendersi dalle cure imperiali parecchio di più di quello che l’impero concedeva alle scuole di retorica. Invece la realtà parla in senso opposto. E la ragione è crudele: lo stato romano promuoverà, e curerà, quasi esclusivamente, gli istituti ed i gradi superiori [93] dell’istruzione pubblica, e seguirà per tal guisa un criterio di amministrazione, che sarà, pur troppo, anche nel più lucido avvenire, difficilmente sorpassato. Noi avremo di ciò una conferma nei provvedimenti di ordine didattico e scientifico degli imperatori, ma possiamo subito ricordare qualche fatto, che riguarda anch’esso le sorti economiche dei maestri. Antonino Pio tornerà a regolare la materia delle immunità, ma da esse saranno esplicitamente esclusi gli insegnanti elementari: per questi il governatore doveva curare soltanto che non fossero sovraccarichi di oneri..... Più tardi, apprenderemo che la regolarità dei salari ai maestri verrà garantita dallo Stato; ma, se tale garanzia era da questo riconosciuta come un suo debito preciso verso i retori, essa veniva largita come un mero favore ai grammatici ed ai litteratores, i quali, sostiene il relativo documento ufficiale, abusavano, in tale pretesa, dell’analogia della loro funzione con quella dei retori.[222]

Evidentemente, per lo Stato romano, curante solo gli interessi delle classi superiori, non esisteva che un’unica forma d’istruzione da privilegiare e da garantire: l’istruzione media di secondo grado e quella superiore, talora anche l’istruzione professionale. La primaria e la media inferiore dovevano invece abbandonarsi a tutte le sorti della concorrenza, a tutti i colpi del destino.

IV.

Una questione, che potrebbe sembrare — ma non è — più difficile, perchè non possediamo intorno ad [94] essa alcun ragguaglio positivo, è quella che concerne i rapporti — diremo così — amministrativi e giuridici (ai rapporti didattici abbiamo accennato) dei nuovi retori stipendiati con lo Stato.

Come se ne fece in quel tempo la selezione? Quali obblighi venivano essi ad assumere verso il governo? Anzi, esistevano degli obblighi in proposito? Rappresenta l’innovazione di Vespasiano un’ufficiale istituzione di cattedre, o solo un beneficio a reggenti cattedre, che già esistevano, e che erano legate soltanto alla loro opera e alla loro persona?

Circa il primo punto la risposta è prevedibile. La scelta, sebbene la responsabilità ne risalisse all’imperatore, dovette, per ora, essere soltanto compito di persone di fiducia del capo dello Stato. Ma di obblighi è possibile non se ne sia imposto alcuno. Come il programma dell’insegnamento non subì nè coercizioni, nè controlli, così nessuna codificazione dovette farsi di quello che oggi si direbbe il contratto d’impiego. I retori stipendiati non erano — è bene ripeterlo — dei funzionarii dello Stato; erano delle persone benemerite sussidiate.

Può, a tale veduta, fare ostacolo la dichiarazione di Quintiliano, che egli avrebbe avuto bisogno di impetrare, dopo venti anni d’insegnamento, il favore d’essere messo a riposo?[223] Evidentemente, no. Qui non si tratta di obbligo, che lo Stato avrebbe potuto continuare ad addossargli, nè di un esonero, che egli avrebbe dovuto chiedere, ma di un onore, che il governo avrebbe desiderato l’illustre maestro continuasse a [95] largire alla città, e di una cortesia, che traeva il retore a chiedere al principe quella licenza morale, cui i lunghi anni di godimento del sussidio e la fiducia imperiale l’obbligavano.

E neanche la risposta all’ultima delle nostre domande può — a nostro modo di vedere — essere dubbia. L’imperatore Vespasiano non istituisce alcuna ufficiale cattedra di retorica in Roma. Egli non si preoccupa della stabilità dell’insegnamento di quella disciplina. Le scuole dei retori erano tante, che una simile preoccupazione sarebbe stata fuori di luogo. Egli si limita soltanto a istituire uno stipendio ad personam in favore di taluni retori. Quando questi fossero morti o si fossero ritirati, il beneficio poteva passare ad altri; ma le antiche cattedre non rimanevano scoperte; cessavano semplicemente del tutto. Di qui si svolgerà più tardi la pratica dell’istituzione di vere e proprie cattedre di retorica o d’altra disciplina; ma, per adesso, Vespasiano non pensa a un così regolare procedimento.

E la modestia della innovazione, negli intendimenti di coloro che l’operavano, e l’assenza di ogni intendimento rivoluzionario ci sono confermate dall’impressione dei contemporanei, che non videro in essa più di quanto il principe aveva voluto metterci.

Videro anzi qualcosa di meno: non un favore verso l’istituzione, o verso i migliori che la rappresentavano; ma un favore verso le persone — in quanto persone — che il provvedimento imperiale veniva a beneficare. E il beneficato per eccellenza appare uno solo: Quintiliano. Un ex-senatore, decaduto, per sue personali traversie, a insegnar retorica in Sicilia, inaugurava il suo corso, esordendo nella prolusione con una frase, che si può [96] ritenere quasi testuale: «Ecco i tuoi giuochi, o fortuna! Tu fai senatori dei maestri, e fai maestri dei senatori!»[224] Quintiliano era allora stato insignito degli ornamenti consolari[225]. E il fatto meraviglioso del retore di Calagurris divenuto console fu, per tutti i suoi contemporanei, un esempio palmare della cecità della fortuna, un motivo frequente di recriminazioni a suo carico. «Passiamo sopra», esclama Giovenale nello scritto dianzi citato, «a questo strano esempio dei favori del destino. Se si è fortunati, si ha la bellezza e il coraggio; se si è fortunati, si è sapienti, nobili e generosi»; «se si è fortunati, si è anche grandi oratori e motteggiatori; se assiste la fortuna, magari colpiti da raffreddore, si canta bene ugualmente. Importa molto invero il genere di stelle, sotto cui si mandano i primi vagiti, sudici ancora del sangue materno. Se la fortuna vuole, si diviene da retore console....»[226].

V.

Ma la verità era che ben difficilmente il pensiero di Vespasiano poteva essere tradotto nella pratica in modo più degno di quello che fu realmente, per opera dell’uomo, che, ricolmo dell’onore del principe, salì primo in Roma la cattedra di retorica: Quintiliano.

Quintiliano fu veramente un grande maestro. La cattedra, ch’egli tenne in Roma per venti anni, lasciò nella storia dell’istruzione pubblica e della letteratura [97] romana una traccia, che mai più avrebbe potuto cancellarsi. Il maestro modello, che Vespasiano col suo atto indicava alla cittadinanza, volle che anche i lontani ed i posteri avessero nozione del suo insegnamento e del suo pensiero, e, ritiratosi dalla cattedra, concepì il disegno di raccogliere in un solo volume tutta la fine teorica del suo magistero.

Era quanto mille desiderii tesi verso di lui chiedevano istantemente. Quando egli attendeva ancora all’insegnamento, i suoi scolari, «nimium amantes», avevano pubblicato le sue lezioni e le avevano fatte passare come veri e proprii trattati di retorica. Il maestro, pieno d’indulgenza, non sconfesserà quell’indiscrezione, ma vorrà darci ben altra cosa: il libro, il vero e solo libro, a cui le sue lezioni avrebbero potuto dare origine, cioè i suoi precetti per la formazione dell’oratore e la teorica della sua pratica pedagogica. Questa fu la sua Institutio oratoria, che egli pubblicò negli ultimi anni del secolo I. di C.

In questo suo libro, che accoglieva il meglio del suo pensiero e della sua esperienza, Quintiliano non si palesa, come potrebbe attendersi, un severo e radicale novatore. La nuova scienza, officialmente favorita, non rivela in lui un indirizzo sconosciuto, o una riforma ab imis dell’antico. Numerose e fiere erano già in quel tempo le accuse contro le scuole dei retori e contro la loro vanità:[227] accuse, che hanno traversato i secoli con una tenacia solo pari all’altra, con cui quel tanto combattuto indirizzo pedagogico è rimasto tenacemente radicato [98] nell’insegnamento secondario. Forse, se non è fattura d’altri, nel suo scritto su Le cause della corrotta eloquenza, Quintiliano aveva ribadito anche lui, e in maniera più esplicita, quelle accuse. Certo, altri prima di lui, e con lui, le avevano lanciate. Ma adesso, dal sommo della gloria e della lunga esperienza, Quintiliano può meglio comprendere e giudicare e misurare il valore delle accuse e delle difese e le esigenze della realtà. I suoi rari appunti sono incidentali e sono esposti in forma oggettiva:[228] piccoli e lievi colpi, che, nella costruzione del suo edificio, egli è costretto a dare contro alcuni particolari, che mal si adattano all’architettura dell’insieme. Il suo compito è un’altro: è anzitutto quello di rendere sano, pratico, perfetto l’indirizzo esistente. La sua opera riesce così mirabilmente architettonica, pensata, martellata, come un mosaico, fin nei minimi particolari, e fondata sur una conoscenza inappuntabile delle teoriche esistenti su ciascuna speciale questione. Per questa parte, i suoi successori non avranno per lungo tempo altro ad aggiungere od a creare: avranno soltanto a spiegare e a commentare Quintiliano. Ma assai più mirabile per ogni età sarà il principio informatore, che anima l’opera sua, principio creatore della pedagogia stessa. Egli concepisce il suo compito, non già come una comunicazione d’insegnamenti addizionali ed esteriori, ma come un’opera di formazione interiore del fanciullo e dell’adolescente, dai primi anni fino all’età matura, all’uomo che si sarebbe dovuto plasmare. La grande virtù dell’oratore non sarà, per Quintiliano, la schermaglia vana, che sprizza [99] dall’abilità disonesta del cavillatore, ma il pensiero compiutamente reso, perchè compiutamente maturato; e l’oratore romano è, per lui, grande oratore, solo in quanto sia veramente uomo e cittadino.

Per tale rispetto, Quintiliano è il sommo tra gli scrittori latini di cose pedagogiche[229].

Ma, anche in quella sua esposizione, il maestro si rivela assai più grande del teorico. Gli ammonimenti, le osservazioni sagaci, le riflessioni particolari mostrano in lui una capacità insegnativa di prim’ordine, l’uomo che sa intendere, prendere e maneggiare i giovani secondo una propria idea, secondo una sua propria intenzione[230]. E a compiere questo miracolo didattico non avrebbero mai posseduto virtù sufficiente nè l’invidia dei colleghi meno fortunati, nè la rabbia malevola dei poeti satirici.

VI.

Gli elementi originali della politica degli imperatori Flavii sono pressochè tutti contenuti nell’opera di Vespasiano. I suoi due figli, durante il loro regno, non fecero che rispettarli e lasciarli immutati, senza dar mano ad alcuna aggiunta, senza tentare alcuna [100] sostanziale innovazione. Che questo fosse avvenuto sotto Tito, noi lo apprendiamo da una notizia assai esplicita. Tito confermò tutti i benefici e i privilegi concessi dai predecessori.[231] Con lui dunque furono ripetute le immunità ai maestri di grammatica, di retorica, di filosofia; con lui fu ripetuto lo stanziamento in bilancio di una retribuzione per i retori; sotto di lui, Quintiliano continuò a dettar lezioni dalla sua cattedra, protetta dal favore del principe; e continuò, per i letterati e gli artisti, a spirare il benessere del governo di Vespasiano.

Lo stesso noi dobbiamo dire di Domiziano. Quintiliano infatti proseguì, fino all’88, le sue lezioni, percependo dallo Stato il sussidio consueto[232], e poco di poi veniva dal principe invitato a colmare i propri ozii con l’occuparsi dell’educazione dei suoi nipoti.[233] In compenso di questo e dei lunghi servigi resi all’istruzione pubblica, egli riceveva la prima onorificenza, con cui il governo del nostro paese avrebbe onorato il riposo ufficiale dei suoi maestri, il grado e le insegne consolari[234].

Ma, nei rispetti dell’istruzione pubblica, il governo di Domiziano è assai notevole per tre altri ordini di fatti: in primo, l’operosità sua a vantaggio delle biblioteche romane; in secondo, la restituzione delle antiche gare oratorie; in terzo, i nuovi impulsi dati all’educazione fisica e musicale.

Narra invero il biografo dei primi Cesari, Svetonio, [101] che Domiziano, «senza badare a spese», fece costruire, e ricostruire, le biblioteche perite negli incendi precedenti, chiedendo per ogni parte nuovi manoscritti e mandando persino ad Alessandria persone, che li collazionassero ed emendassero, servendosi degli esemplari contenuti in quella biblioteca.[235] Si tratta, com’è facile intendere dalla diligenza, dai criteri e dalla difficoltà del lavoro, di un disegno di prim’ordine, che merita tutta la riconoscenza dei posteri. Quali siano state le biblioteche da Domiziano ricostituite, riesce a noi ben difficile indicare con sicurezza. È possibile che egli stesso abbia rifatto l’Ottaviana bruciata sotto Tito[236] e che ritroviamo menzionata più tardi[237], ma è impossibile tanto essere sicuri di singoli riferimenti, quanto completare l’elenco delle ricostruzioni, che dovettero essere molteplici[238].

Più interessante è invece porre in rilievo il fatto che tanta operosità imperiale, in rapporto alla fondazione e alla restituzione di pubbliche biblioteche, dovette, fin da questo momento, avere la prevedibile e consueta ripercussione nel campo dell’opera privata e comunale, in Roma e fuori. Numerose collezioni di libri dovettero, fin d’ora, aprirsi al pubblico, in Roma, in Italia e in provincia. Singoli privati, come poco di poi [102] faranno il console Giulio Aquila Polemano, per Efeso,[239] Plinio il giovane, per Como[240], e, non sappiamo quando, un ignoto donatore, per Volsinii, cominciarono a legare ai municipii delle somme per la fondazione e il mantenimento di pubbliche biblioteche[241]. Le stesse collezioni private appalesano fin d’ora una grandiosità e una ricchezza, che suscitano commenti e censure, come quelle, in cui lo scopo della cultura appariva subordinato al lusso ed alla vanità[242]. Ma, come a siffatta bibliomania noi dobbiamo la conservazione di buona parte della produzione classica, così i dotti del tempo dovettero all’esempio, che veniva dall’alto, l’agevolezza, che fu ormai una consuetudine, di servirsi delle collezioni private dei loro doviziosi amici o mecenati, e, quindi, di istruirsi e di lavorare, il che, in circostanze diverse, non sarebbe certamente avvenuto. Per identico tramite, dovette, durante questo tempo, introdursi, nel regime delle pubbliche biblioteche, tutta la serie di liberalità[243], tendenti a soddisfare le esigenze dei lettori e degli studiosi, che sono oggi patrimonio universale di quei nostri istituti di cultura. Ed anche di questo noi dobbiamo essere, sopra ogni altro, riconoscenti all’ultimo degli imperatori Flavii.

[103]

VII.

Dicemmo che un secondo provvedimento, caratteristico del governo di Domiziano, fu la istituzione di nuovi concorsi di eloquenza in Roma. Abbiamo visto come su questo campo egli fosse stato preceduto da Nerone, ma la grande reazione politica, seguita alla fine della casa Claudia, aveva interrotto la prosecuzione di quell’istituto[244]. Domiziano torna a provvedervi in modo più serio, più solenne e, forse, anche più fortunato.

Nell’88 di C., egli istituiva il tanto celebrato Agone Capitolino, un nuovo cimento olimpico, come iperbolicamente fu definito dai contemporanei[245], una festa quinquennale in onore di Giove Capitolino, in cui, fra l’altro, furono rinnovati dei concorsi, che si dissero, anche questa volta, musicali, ma che compresero delle gare poetiche ed oratorie[246]. La festa era celebrata con solennità rara e grandiosa, e un’apposita giurìa assegnava i premi ai vincitori, i quali ricevevano dalle mani stesse dell’imperatore il segno della vittoria, una corona di quercia.[247]

Noi non possediamo notizie distinte di ciascuno dei due concorsi oratorii e poetici. Ma, se anche i primi non ebbero, come taluno ha pensato, la lunga vita [104] dei secondi,[248] la gloria, o la solennità, ne fu, finchè esistettero, di poco minore. Del pari che pei concorsi poetici, le previsioni sul loro esito dovettero, ogni volta, essere oggetto delle più appassionate discussioni dei circoli romani. I candidati vi accorrevano numerosi, e il conseguirvi vittoria rimase per parecchio tempo uno degli scopi più alti e più gelosi dei letterati dell’impero.

Ma, insieme con questa gara solenne, in Roma, Domiziano ne istituì una seconda più modesta, in Albano. Richiamò egli quivi un vecchio culto romano a Minerva, protettrice della poesia e della letteratura, dal quale ufficio ella era stata, da circa un secolo, fugata da Apollo[249], e vi istituì un collegio religioso, avente, fra l’altro, l’incarico di organizzare concorsi oratorii, oltre che poetici, da celebrarsi ogni anno, il 19 marzo, in onore della Dea. Anche qui era una giurìa, anche qui erano assegnate, quali premi ai vincitori, corone auree di ulivo.[250] Ma, probabilmente, meno fortunati, i concorsi albani si spensero prima degli altri, romani e capitolini, di eloquenza.[251]

VIII.

Ci resta a discorrere dei mezzi, con cui Domiziano promosse il culto dell’educazione fisica a tipo greco in Roma. Domiziano fu un principe essenzialmente [105] imitatore. Dopo aver imitato il padre, dopo avere, nell’amore e nella cura delle pubbliche biblioteche, imitato Augusto, egli entrò in gara con Nerone.

Ed invero, l’Agone Capitolino, da lui istituito, comprese eziandio una prova equestre (ἀγῶνες ἱππικοί) ed una ginnastica (ἀγῶνες γυμνικοί). Tra i concorsi ginnici — pretta imitazione ellenica — a cui pigliavano parte fanciulli romani liberi, si diedero, sull’esempio della antica Sparta, anche gare di corsa di fanciulle. E come Nerone aveva costruito un ginnasio per gli esercizi fisici, Domiziano costrusse al Campo di Marte, per le gare ginniche ed equestri, uno stadio[252] capace di oltre 30 mila spettatori. Il carattere ellenico della festa fu anche nell’apparato esteriore. Presiedeva l’imperatore in veste purpurea e assistevano, e giudicavano, il Flamen Iovis, nonchè i membri del collegio Flavio, vestiti anch’essi in costume greco[253].

I giuochi capitolini sopravvissero fino agli ultimi confini dell’antichità romana, e ad essi sopratutto si deve se gli spettacoli atletici divennero fin da allora comuni in ogni genere di spettacoli in Roma. Ma quello che a noi più importa è che, in Roma, fin dall’età di Domiziano, si nota una sicura e decisa prevalenza dei fautori della educazione fisica greca, che penetra ormai vittoriosa, così nella consuetudine, come nel quadro della educazione italica dei fanciulli liberi di ambo i sessi[254].

[106]

Al nuovo indirizzo della educazione fisica vanno congiunti gli impulsi, non meno efficaci, dati alla istruzione musicale. Anche su questo terreno, la politica dei Flavii si era sperimentata fin da Vespasiano. L’antico soldato aveva reagito contro il gusto degli ultimi Cesari, rimettendo in onore il culto dell’antica musica classica.[255] Ma non era andato più oltre; aveva anzi continuato a profondere ricompense ai virtuosi dell’arte musicale: 400 mila sesterzi a un cantor tragico; 200 mila a due citaredi; 140 mila ad altri, e corone d’oro a iosa. Il ritorno all’antico non osava più violare i confini di una assennata disciplina dell’avvenire, e il nuovo era accettato, e ratificato, in tutto quello che esso aveva avuto di rivoluzionario e che aveva di novatore.

Identica può sembrare la contraddizione, in cui si avvolge Domiziano, ma quest’ultimo dei Flavii, che sembra nato per far riscontro all’ultimo dei Claudii, riesce a decidere delle sorti dell’educazione e dell’istruzione musicale, nella società romana. Domiziano comincia con l’abolire le pantomime pubbliche.[256] Si è detto che facesse ciò per gelosia della moglie e per avere subìta una sgradevole esperienza domestica.[257] La spiegazione è certo insufficiente, e il divieto, che fu limitato alle pantomime recitate in pubblico, non la rende davvero più attendibile. Rimosse poscia, dal Senato, Cecilio Rufino, solo perchè amator della danza.[258] Ma, nello stesso tempo, Domiziano inaugurava, nell’Agone Capitolino, il più [107] grande e il più felice concorso musicale dell’età imperiale, in cui si distribuivano premi per la citaredia, per la citaristica, per gli a solo di flauto, per la corocitaristica, e a cui accorrevano artisti di ogni paese,[259] ed egli stesso costruiva appositamente, per gli spettacoli musicali, l’Odeon, al Campo di Marte, capace di contenere circa 10 mila spettatori.[260] Era quanto di più grandioso e di più onorifico fosse stato concesso, fin allora, al culto di Euterpe, in Roma, e subito se ne videro tangibilmente gli effetti. Nelle case dei ricchi, i maestri di musica divennero più ricercati dei loro colleghi di retorica. Nell’età di Giovenale, i citaredi Crisogono e Pollione sono divenuti dei signori, al confronto di Vezzio, il precettore di retorica.[261] Non più i poeti, ma i citaredi hanno fortuna;[262] e Marziale, consigliando un amico intorno alla carriera, cui avviare il proprio figliuolo, scrive: «Fuggi per carità e grammatici e retori!» «Fa versi? Caccia di casa il poeta!» «Intende imparare un’arte lucrativa? Che egli divenga citaredo o coraulo!»[263].

Noi possiamo da tutto ciò prevedere quale sia stata l’opera dei Flavii circa l’educazione della gioventù nei collegi giovanili. Vespasiano era rimasto nell’orbita della schietta tradizione augustea,[264] ma Domiziano svolge e integra, come nel resto, il programma di Nerone. Egli istituisce — questa volta ne siamo informati in maniera [108] positiva — anche fuori di Roma, dei Iuvenalia, cui prendono parte i suoi iuvenes augustales,[265] e fonda collegia iuvenum, con appositi maestri, i quali danno caccie di bestie feroci, rappresentazioni sceniche, e gareggiano in concorsi di poesia e di eloquenza.[266] Con Domiziano dunque si consolida, e trionfa, l’indirizzo educativo Neroniano.

IX.

La luccicante medaglia ha anch’essa il suo rovescio. E non vogliamo con questo accennare alle persecuzioni, così frequenti in quest’età, contro qualche retore, o contro schiere di filosofi, colpevoli di opinioni antidinastiche, persecuzioni le quali ricadevano fatalmente sulle loro scuole e sulla pratica libertà dell’insegnamento. Gl’imperatori Flavii possono allegare a loro parziale discolpa la pur dubbia attenuante di avere avuto in questo dei predecessori tra gli imperatori Claudii. Intendiamo invece accennare a qualche specifico provvedimento ai danni delle scuole esistenti nell’impero romano, e precisamente delle scuole filosofiche di Atene, ch’era allora la capitale intellettuale di tutto l’Occidente.

È nota la violenta reazione di Vespasiano contro le libertà municipali, già restituite alla Grecia da Nerone, e a Vespasiano, o al suo governo, deve riferirsi una misura, la cui paternità non possiamo, con uguale verisimiglianza, attribuire ad alcuno dei successori, e che [109] noi conosciamo solo attraverso un rescritto di Adriano, che ne interruppe definitivamente l’applicazione.

È noto come i creatori delle varie scuole filosofiche greche avessero fondato in Atene delle comunità di studiosi, per la diffusione della loro rispettiva filosofia. Ciascuno di essi aveva trasmesso, per testamento, la propria carica ed il proprio ufficio alla persona, che aveva creduto più indicata, e questa, a sua volta, ne aveva seguito l’esempio[267]. Ma Vespasiano, nella sua avversione alla filosofia, e nei pericoli politici, di cui la credeva capace, intervenne a limitare la facoltà dei testatori. Secondo una sua prescrizione, gli scolari di ciascuna scuola filosofica dovevano essere cittadini romani, nè essi potevano nominare successori che non rivestissero tale qualità[268].

I motivi di siffatta disposizione si possono facilmente immaginare. Vespasiano aveva voluto, per quanto sapeva e poteva, garantire se stesso e lo Stato contro la potenzialità rivoluzionaria della filosofia, e rendere questa politicamente innocua col farla impartire da cittadini romani. Ma altrettanto prevedibili sono gli inconvenienti di quel sistema. La scelta del successore era, ogni volta, dipendente, non già dalle degnità e dal merito, e neanche dalla maggiore fedeltà dell’eligendo alle idee del maestro, sibbene dalla condizione esteriore della sua cittadinanza. Veniva così, in una città e in un paese [110] tanto poco romanizzato, come la Grecia, chiusa la via alle iniziative del genio locale, che aveva dato al mondo i pensatori ed i filosofi più illustri, e quella via si apriva invece al privilegio della breve schiera dei cittadini romani, professanti colà discipline filosofiche. E la libera scelta del successore, preclusa una prima volta allo scolarca, tornava a chiudersi ugualmente, più tardi, alla comunità degli studiosi, qualora essi, conforme alla consuetudine, avessero voluto correggere la nomina e procedere a una nuova elezione[269].

Era un viluppo di ostacoli, che ledeva necessariamente la libertà e l’efficacia dell’insegnamento filosofico in Atene. E i maestri e i discepoli tollerarono, per anni, duramente, quel freno; per anni cercarono di romperlo. Finchè, interceditrice una principessa imperiale, il più greco degli imperatori avrà, come noteremo, l’onore di esaudire il semisecolare desiderio.

X.

Tale la politica degli imperatori Flavii.

A quest’opera loro, in rapporto all’istruzione pubblica, suole, nella storia della medesima, riconoscersi un’importanza decisiva. I Flavii — si dice — avrebbero deposto la prima pietra di quell’edifizio, che l’avvenire dedicherà solennemente alle cure della istruzione pubblica.

La disamina, che noi abbiamo precedentemente tentata, non ci consente un giudizio così entusiasta. L’opera [111] di quei tre imperatori non contiene, salvo una sola eccezione, alcun elemento, che già non fosse stato posto dagli imperatori della casa Giulio-Claudia. Per qualche parte, anzi, il lavoro dei predecessori non è continuato; per qualche altra, l’opera stessa dei Flavii è demolita da un’insanabile intima contraddizione.

L’unico tratto originale è rappresentato dalla concessione dello stipendio ai maestri di retorica. A parte però il brevissimo àmbito di persone e di ordini di scuole, cui essa ebbe a riferirsi, è necessario, per poterla valutare, distinguere la portata e l’importanza del provvedimento, considerato isolatamente, dalla idea che esso ne induce nel pensiero degli storici moderni. Noi oggi non riusciamo più a concepirlo fuori dagli svolgimenti, che più tardi ne derivarono, e siamo costretti a scorgervi il primo consapevole passo verso quella statizzazione delle scuole primarie, medie e superiori, cui mirò la civiltà posteriore, e verso cui tende la civiltà attuale. Ma Vespasiano e i suoi ministri rimasero le mille miglia lontani da tanta preveggenza. Uno stipendio annuo a qualche retore — come le ingenti somme prodigate ai poeti, agli scultori, ai musicisti — non costituivano per loro una rivoluzione, non ebbero, per loro, l’importanza, ch’esso assume presso i tardi storici dell’avvenire. Vespasiano intese porgere — a chi lo meritava — nulla più e nulla meno di un principesco incoraggiamento, e sarebbe oggi meravigliato nel vedersi attribuire un più vasto pensiero.

Ma il merito, che certamente spetta agli imperatori Flavii, è di aver condotto alla perfezione e al trionfo parecchi dei nuovi elementi e dei nuovi indirizzi, introdotti nella politica scolastica dello Stato, dai loro [112] immediati predecessori. L’educazione della gioventù, voluta da Augusto e da Nerone, riesce ora soltanto, in Roma e in Italia, a prevalere su le avverse intransigenze. La cura delle pubbliche biblioteche ha, con Domiziano, uno dei momenti migliori nella storia dell’amministrazione imperiale; ed uno dei punti fondamentali del programma scolastico dei ministri di Augusto — quello dei maestri pubblicamente retribuiti — si traduce in atto per la prima volta con Vespasiano.

E poichè la storia non è fatta soltanto di grandi, originali iniziative, ma del lavoro paziente della revisione e della perfezione, il merito della dinastia dei Flavii, nei rispetti della istruzione pubblica, se non deve esagerarsi, non deve neanche essere apprezzato al di sotto del suo giusto valore.

[113]

CAPITOLO III. Gl’imperatori da Nerva a M. Aurelio e l’istruzione pubblica nell’impero romano.
(96-180)

I. Reazione di Nerva e di Traiano alla politica dei Flavii; gli stipendi ai retori interrotti; esitanze nella riconferma delle immunità. — II. Reazione all’educazione fisica e musicale ellenizzante. — III. La biblioteca Ulpia-Traiana. — IV. I pueri alimentarii e i provvedimenti relativi in Roma, in Italia e nelle province. — V. Traiano e i maestri; rifiorimento della coltura. — VI. P. Elio Adriano. — VII. Adriano, le immunità, gli onori e i beneficii largiti ai maestri. — VIII. L’Athenaeum e la biblioteca Capitolina. Adriano e gli studi di giurisprudenza. — IX. Adriano e l’istruzione pubblica nelle provincie; riforme nelle scuole degli Epicurei; innovazioni nel Museo Alessandrino. — X. Le nuove norme di Antonino Pio circa le immunità dei maestri. — XI. Antonino Pio non inaugura scuole di Stato in provincia, ma vi promuove l’istituzione di scuole municipali di retorica e di filosofia. — XII. Marco Aurelio e la fondazione delle prime cattedre imperiali universitarie in Atene. — XIII. I concorsi universitarii. — XIV. Le cattedre di fondazione imperiale nell’Athenaeum romano. XV. Gli Antonini, le istituzioni alimentari e l’istruzione primaria. — XVI. Gli imperatori da Traiano a Marco Aurelio e l’istruzione musicale. — XVII. Il governo ed i collegi giovanili. La cura delle belle arti. L’amministrazione delle biblioteche. L’età degli imperatori da Nerva a Traiano, e la scuola e la coltura nell’impero romano.

[114]

I.

Il periodo, che intercede da Nerva a Marco Aurelio, pur attraverso cautele e riserve, tendenti a non ferire interessi temibili o diritti costituiti, rappresenta — è noto — una reazione all’indirizzo politico della dinastia Flavia; reazione, che si appalesa più stridente quanto meno ci allontaniamo dall’ultimo imperatore di questa casa[270]. A tale tendenza non doveva, nè poteva sfuggire la politica scolastica dei nuovi principi. Ed invero, da Nerva ad Antonino Pio, forse anche fino a Marco Aurelio, noi non troviamo più menzione di insegnanti di retorica stipendiati dal fisco. Di retori illustri, in questo tempo, vissero parecchi, e P. Annio Floro e Polemone e Dionigi di Mileto e Lolliano e Favorino e Castricio e Aristocle di Pergamo e Rufo di Perinto e Paolo e Adriano di Tyro e Demetrio di Alessandria e non pochi altri ancora;[271] ma a nessuno toccò l’ambito onore, che già un terzo di secolo prima era toccato a Quintiliano.

Nè del silenzio delle fonti si può tener responsabile una casuale dimenticanza. Il governo e la politica di Traiano vantano un descrittore e un apologista, che nulla di ciò avrebbe trascurato, se lo avesse potuto. Intendo accennare a Plinio il Giovane e al suo Panegirico. Eppure, mentre, in un capitolo, che riguarda appunto l’opera dell’imperatore nei rispetti della scuola e dei maestri, il suo autore elogia il principe per l’onore, [115] in cui teneva i docenti di retorica e di filosofia, studii e discipline, che quasi poteva dirsi tornassero dall’esilio — nè qui, nè altrove, accenna che tanta degnazione fosse accompagnata da vere e proprie largizioni di utili materiali, e chi da questo passo ha concluso diversamente non ha certo interpretato con esattezza le parole del suo autore[272].

Sembrerebbe contraddire alla nostra ipotesi un editto di Nerva, che possediamo nel suo testo, il quale riconfermava i privilegi di coloro, che avessero — pubblicamente, o privatamente — ricevuto beneficii dai suoi predecessori[273]. La induzione però sarebbe, a mio credere, alquanto audace. Nell’editto di Nerva si ha un esempio di quello che oggi si direbbe un mantenimento di diritti acquisiti. Ma questi diritti dovevano essere già in godimento, e, come abbiamo notato, lo stipendio ai retori, se per taluno (noi conosciamo il solo Quintiliano) era già una realtà, per molti altri, era rimasto un principio teorico, di cui non s’era mai fatta la pratica applicazione. Se, quindi, i maestri nelle condizioni di Quintiliano conservarono, anche sotto Nerva, il loro antico stipendio, tutto ciò non costituì menomamente un impegno verso i futuri retori non stipendiati, e l’assenza di ogni notizia su persone, che in questo tempo si trovino in tale condizione, anzi di ogni notizia in proposito, riesce — lo ripetiamo — gravemente decisiva.

Del resto, non poteva avvenire diversamente. Inteso in una forma più estensiva, il mantenimento dei privilegi [116] accordati si sarebbe tradotto nell’irrigidimento del governo di ciascun imperatore entro lo schema tracciato dai predecessori. Anche i delatori ufficiali ed ufficiosi, privilegiati da Domiziano, subiranno un trattamento opposto sotto Nerva e Traiano, e quest’ultimo, con precauzione voluta, non confermerà nè esplicitamente, nè sempre, in tutti i loro particolari, i beneficii, privati e pubblici, conferiti dai predecessori[274]. Ed invero, potevano i principi rispettare gli interessi personali e i diritti in godimento dei beneficati dai loro predecessori; ma, qualora non lo avessero creduto, non era punto ragionevole che continuassero ad applicare a nuove persone i vecchi beneficii.

Siamo quindi sicuri che nuovi conferimenti di stipendio a retori o a grammatici, sotto i primi imperatori così detti senatorii, non ne avvennero. Rimasero però in vigore quelle esenzioni dai pubblici carichi a retori, grammatici, filosofi, medici, che datavano da molti anni più innanzi?

Un rescritto di Traiano riguarda precisamente una questione del genere. Un Flavio Archippo aveva chiesto di essere dispensato del sedere giudice in grazia della sua qualità di filosofo, e aveva anche allegato un editto e un’epistola di Nerva, che, a suo parere, gliene confermavano il diritto. Taluno avea invece osservato che egli, non che dispensato, doveva essere escluso dal numero dei giudici e sottoposto all’espiazione di una condanna precedentemente riportata[275]. L’editto o l’epistola, di Nerva, trattandosi questa volta di un [117] diritto acquisito, indurrebbero nella persuasione del mantenimento di quelle tali immunità, che Vespasiano per ultimo aveva così solennemente ripetute, ma il rescritto di Traiano sorvola su codesto punto. Flavio Archippo — esso lascia intendere — può, per mera opportunità, non essere costretto ad espiare la sua condanna. Se debba però essere esentato dal suo obbligo di giudicante, non dice; e, quel che più monta, anche il governatore, che l’aveva interpellato, rimane esitante.[276]

Probabilmente, anche a tale proposito, Traiano non aveva voluto impegnarsi con formule generiche, e aveva al solito preferito che, tacitamente, se un diritto acquisito esisteva, i suoi sudditi, medici, grammatici, oratori, filosofi, continuassero a goderne. Per sentire invece ripetere esplicitamente qualcuna di codeste esenzioni, bisognerà che la reazione passi e che si giunga ad Adriano.

II.

Viceversa, segni di esplicita reazione ci vengono, col governo di Traiano, segnalati nei due campi della istruzione pubblica, dove più s’era industriata l’attività dell’ultimo dei Flavii: l’istruzione fisica su modello greco e l’istruzione musicale.

È lo stesso Plinio il Giovane ad avvisarcene. In una sua lettera egli riferisce le vicende di una seduta del Consiglio della corona, nella quale si era discusso della soppressione o meno di un agon gymnicus a Vienne, nella Gallia. Nel Consiglio si erano scontrate le due [118] tendenze del tempo: la conservatrice e la novatrice. Al momento dei voti, uno dei consiglieri aveva dichiarato di votare contro il concorso ginnastico in discussione, e protestato altresì contro la tolleranza di simili spettacoli a Roma. A consiglio finito, l’imperatore pronuncia la reclamata soppressione a Vienne[277].

Rispettivamente, nel suo Panegirico di Traiano, Plinio accenna alla soppressione in Roma, per ordine imperiale, delle pantomime in pubblico pur consentite da Nerva. Evidentemente, l’imperatore avea ceduto agli attacchi della parte più conservatrice della cittadinanza romana, che accusava quegli spettacoli di effeminatezza e di sconvenienza[278].

Contraddice a tutto questo la fugace notizia, che ci viene da un più tardo storico, della costruzione in Roma, ordinata dall’imperatore, di un Gymnasium e di un Odeon?[279]. Non parrebbe; anzitutto, perchè non dovette trattarsi di una costruzione ex novo, ma di una riattazione o ricostruzione;[280] in secondo luogo, perchè il ginnasio e l’Odeon, come gli Odea e i ginnasi già costruiti, avevano un valore per sè stante di edifici pubblici, e riattarli non era soltanto un giovare all’incremento della ginnastica o della musica, ma eziandio un curare le sorti della pubblica edilizia. Per giunta, il ginnasio romano non serviva solo all’educazione e [119] all’allenamento fisico dei cittadini romani, ma sovratutto agli esercizii degli atleti alla vigilia delle gare e dei pubblici spettacoli. Finchè questi non fossero soppressi, era risibile sopprimerne il mezzo, quasi necessario, alla celebrazione. E l’imperatore, che, per iscarso spirito di resistenza verso la nuova opinione pubblica, o per altro motivo, non giungeva fin là, non poteva esimersi dal voler preparato degnamente uno spettacolo, di cui l’ufficio, ch’egli rivestiva, faceva risalire a lui ogni responsabilità.

III.

Se non che i motivi di questa benefica reazione erano di tale natura da non impedire che Traiano continuasse la politica dei predecessori, là dove la bontà dell’opera loro era evidentissima, o dove questa non recava alcuna speciale impronta dei suoi autori. Così anche Traiano continuò ad ornare Roma di quella costellazione di pubbliche biblioteche, la quale, nonchè dell’evo antico, potrebbe tornare a vanto dell’evo moderno. Egli fondò la biblioteca Ulpia Traiana nel foro omonimo, che sopravvisse probabilmente fino all’età di Diocleziano.[281] In essa si conservava tutta la collezione dei libri così detti lintei, che pigliavan nome dalla tela di lino su cui erano scritti, e, con essa, gli elephantini, o tavolette di avorio, rilegate in volumi, le quali contenevano atti ufficiali. Ma, più notevole ancora, la sezione latina di questa biblioteca conteneva scritti giuridici di non piccolo [120] valore: tutti gli editti fin allora promulgati[282], che formeranno il materiale, su cui verrà compilato l’Edictum perpetuum adrianeo.

Ma se fin qui l’importanza dell’opera scolastica di Nerva e di Traiano non supera quella dei predecessori, anzi ne rimane forse inferiore, un istituto affatto nuovo, di cui incalcolabili furono le conseguenze sull’incremento della istruzione e dell’educazione della gioventù, impone che si assegni ai due primi imperatori, così detti senatorii, un posto segnalato nella storia della coltura e della civiltà romana. Intendo riferirmi all’istituto dei pueri alimentarii.

IV.

Si conoscono due specie di pueri alimentarii, a seconda che si tratti di Roma, o dell’Italia e delle province.

I pueri alimentarii romani sono tutto merito di Traiano. Fino a Traiano, i fanciulli erano esclusi dalle frumentationes ordinarie,[283] il che produceva, fra le famiglie povere, gli identici effetti che oggi, in Italia, la mancanza della così detta refezione scolastica. I poveri, piuttosto che mandare i loro figliuoli a scuola, li impiegavano in qualsiasi mestiere, nominabile ed innominabile, purchè materialmente fruttifero.

Traiano inscrisse i fanciulli di origine libera — non meno di 5000 — nelle tribù, ed essi ebbero così il vantaggio [121] di partecipare alle distribuzioni frumentarie, non che alle altre distribuzioni del tempo e di avere in parte assicurata l’alimentazione durante la loro prima età[284].

Il Panegirico di Plinio celebra l’innovazione, cogliendone appieno il grande valore sociale. «Tutti i fanciulli romani», egli esclama rivolgendosi all’imperatore, «sono stati per Tuo ordine accolti e inscritti nelle tribù. Così, fin dalla infanzia, essi, che per tal guisa hanno potuto ricevere un’educazione, sanno per prova d’avere un pubblico genitore. Crescono a Tue spese coloro che crescono per Te; nutriti da Te, pervengono all’età della milizia, e tutti debbono a Te solo quello che ciascuno dovrebbe ai suoi genitori. Tu hai fatto egregiamente, o Cesare, ad alimentare tanti fanciulli, speranze del popolo romano[285]. Essi sono allevati a spese dello Stato per esserne il sostegno in guerra, l’ornamento nella pace; ed apprendono così ad amare la patria, non solo come patria, ma come propria genitrice»[286].

Ma la liberalità e la previggenza di Traiano non sarebbero state complete se si fossero limitate a Roma. Fuori di Roma era l’Italia, era l’impero romano. Quante miserie da lenire, quante giovani vite da consacrare [122] al bene e alla forza dello Stato! E come Traiano aveva, per Roma, curato la partecipazione dei fanciulli alle pubbliche frumentazioni, così, per l’Italia, egli, seguendo l’esempio del predecessore, istituì, dove potè, e come potè, delle vere e proprie fondazioni alimentari, destinando gli interessi di capitali, variamente investiti, al mantenimento di determinati contingenti di fanciulle e di fanciulli. Ci informano della cosa monumenti epigrafici e artistici importantissimi.[287] Sappiamo così, positivamente, di due istituzioni del genere, l’una a Velia presso Piacenza[288], l’altra, presso i Liguri Bebiani[289], a Campolattaro nel Sannio. Ma istituzioni alimentari dovettero aversi, fin da Traiano, in ogni regione d’Italia, e di esse troviamo incaricati praefecti, procuratores, quaestores e altri ufficiali minori[290].

Come sempre, l’iniziativa imperiale, esercitò una larga influenza sulla iniziativa privata. Mentre, fino a questo tempo, noi non abbiamo esempio che di una sola munificenza del genere[291], d’ora innanzi esse moltiplicano di numero e d’importanza, onde l’azione imperiale riceve largo ausilio dal concorso dell’aristocrazia dell’impero. Avremo infatti fin d’ora istituzioni alimentari [123] private a Como,[292] a Florentia,[293] a Tarracina,[294] a Ostia,[295] a Hispalis,[296] a Sicca Veneria[297] e in molti altri luoghi.

V.

L’opera di Traiano, che, direttamente e indirettamente, ma sostanzialmente sempre, si connette con l’istruzione pubblica, è coronata da una personale sollecitudine dell’educazione della gioventù, da una personale attenzione a l’opera dei maestri.

I precettori di eloquenza e di filosofia sono tornati in onore, sono tornati nella più squisita considerazione del principe[298]. Essi trovano facile, anzi libero accesso presso di lui, così che questi, dalla sua reggia, ha, senza parere, ma pur sempre consapevolmente, la direzione spirituale della gioventù romana[299].

Quale sia stato l’effetto di tutto ciò noi non possiamo non presentire. Le nostre fonti non ci forniscono prove della ripercussione di ciascuno degli atti, che abbiamo enumerati, sulla istruzione pubblica nell’impero romano. Tali prove — trattandosi di un fenomeno [124] tanto complesso nelle sue cause — sarebbero state forse impossibili. Ma il rifiorimento della coltura sotto Traiano è palese, e fu sentito, e dichiarato, dagli stessi contemporanei.

In una lettera di Plinio il Giovane, che può riferirsi alla fine del I. secolo[300], questi celebra la resurrezione degli studi liberali in Roma, di cui numerosi potrebbero essere gli esempi[301]. L’ultimo imperatore di casa Flavia aveva cacciato in esilio retori, oratori, filosofi; aveva, insieme con essi, bandite le loro discipline, i più cari studi professati. Ora questi studi riacquistano la loro patria, risorgono rianimati, vivificati; il loro culto si svolge quotidianamente sotto gli occhi del principe, alla portata delle sue orecchie, dei suoi occhi, del suo esempio[302]. E il mondo intellettuale romano torna ad essere quale il principe dimostra nuovamente di volerlo.

VI.

Successore di Traiano fu, com’è noto, P. Elio Adriano. È ben difficile forse trovare in tutta la storia romana un uomo politico, il quale, come Adriano, chiuda nel proprio pensiero un senso ed un concetto della vita, in cui insieme, e quasi organicamente e perfettamente, si fondano l’ideale della vita greca e quello della vita romana, l’anima pagana e l’anima cristiana, le tendenze spirituali dell’età vecchia e quelle dell’età nuova; un [125] uomo, che egualmente abbia unito in sè la molteplicità dei più svariati talenti.

Poeta e prosatore, latinista e grecista, pittore e cultore di arti plastiche, filosofo e oratore, artista e scienziato, mistico e realista, superstizioso e scettico, generoso e implacabile, uomo di pensiero e uomo d’azione, egli fermò il piede su tutti i campi dello scibile, accolse e subì tutte le suggestioni, di cui è capace la grande anima umana, e da ogni disciplina, da ogni ispirazione, scoccò una scintilla per il suo ingegno, rilevò un tratto per la sua complessa personalità.[303]

Chi dunque meglio di lui, chi meglio dell’imperatore letterato[304], rappresentante del genio greco del tempo — genio letterario, oratorio, didascalico, filosofico — chi meglio di Adriano avrebbe potuto fissare uno scopo sovranamente pedagogico al suo governo? Chi meglio di lui avrebbe potuto proporsi quella creazione spirituale delle generazioni future, ch’era l’ideale sommo degli antichi politici greci? Chi non attenderebbe da lui un’orma assai più profonda, o pari almeno a quella, che, nella storia della educazione nazionale romana e italica, avevano lasciata e Augusto e Domiziano e lo stesso Nerone? Eppure, quando noi ci rechiamo sott’occhio tutto il quadro della politica scolastica di Adriano, troviamo [126] che, se essa perfezionò l’opera dei predecessori e ne colmò le lacune, non può tuttavia aspirare a quel merito, che dall’uomo, che la curava, ci saremmo attesi, poichè riesce a stento ad assumere una figura sua propria.

VII.

Aurelio Vittore, nelle sue biografie dei Cesari, narra che Adriano, paragonabile in ciò ai grandi statisti della Grecia, fu il primo ad inaugurare, in Roma, dei locali per l’educazione fisica e a interessarsi dei maestri di discipline intellettuali[305].

Come abbiamo visto, tale opera ha ben altri precursori e, per quanto grande possa essere stato il merito di Adriano, esso certamente non può dirsi originale. Ma questo non significa punto che noi non dobbiamo soffermarci a studiare i particolari di questo frammento dell’opera di lui.

Una sua costituzione assai notevole, che ci viene in parte riferita in un’altra di Commodo, regola in tutti i particolari la materia delle immunità ai retori, ai grammatici, ai filosofi, etc. Di essa non torneremo ora ad occuparci, essendocene lungamente intrattenuti in molte pagine di uno dei precedenti capitoli[306], e basterà solo rilevare come la caratteristica delle disposizioni ivi contenute fosse quella di specificare minutamente la portata di una concessione, che aveva già una esistenza e che vantava un’anteriore cronologia di origine, probabilissimamente fin dall’ultimo degli imperatori Claudii.

[127]

Ma l’onore, accordato da Adriano agli uomini di lettere e di scienze, non si limita alla riconferma delle immunità. Le frasi, che il Panegirico di Plinio adoperava per definire il mecenatismo di Traiano, sono da altri scrittori ripetute in forma poco diversa, per Adriano. Egli ebbe in sommo onore e in somma intimità ogni genere di dotti: filosofi, grammatici, retori, matematici, poeti, pittori, astrologi[307], e raramente, come sotto Adriano, il mecenatismo esercitò sì largo campo di influenze e di azione; raramente i detti occuparono in tanto numero le maggiori cariche dello Stato[308].

Ma fece anche l’imperatore qualcosa di più, come taluno ha ritenuto?[309] Istituì cioè delle cattedre pubbliche di retorica, di grammatica, di filosofia, etc.? O, per lo meno, estese ad altri maestri ciò che Vespasiano aveva largito ad uno o a più retori? L’autore della biografia di Adriano nella Historia Augusta accenna a due generi di atti, cioè ad onori resi da Adriano ai grammatici, ai retori e agli oratori, anzi a tutti i docenti, che egli avrebbe eziandio arricchiti, e al provvedimento, ancora più salutare, di avere esentato dall’insegnamento, anzi di avere vietato l’insegnamento ai maestri, che, [128] per età o per malattia, ne apparissero ormai incapaci[310].

Or bene, da questi due passi, sembra sufficientemente chiaro che non si tratta di istituzione di cattedre ufficiali, ma, nella migliore ipotesi, di stipendi vitalizii a maestri di grammatica, di retorica, di filosofia etc., o anche, semplicemente, di larghi donativi del principe, e di assegni straordinari, conferiti loro, specie all’istante del collocamento a riposo. Nè tale interpretazione manca dall’essere confermata da un passo delle Biografie dei sofisti greci di Filostrato, il quale, in una lunga narrazione, che pur si occupa, e di proposito, dei professori di eloquenza e della istituzione delle relative cattedre ufficiali in Grecia, dice, di Adriano, soltanto che egli «fu fra gli antichi imperatori il più disposto ad incoraggiare il merito»[311].

Ma un altro più grave motivo ci induce a non attribuire a questo principe quell’istituzione di cattedre pubbliche, che si è pensata. Se così egli avesse fatto, se cioè i suoi «incoraggiamenti» a filosofi, grammatici, retori, matematici, pittori, astrologi etc., fossero da identificarsi con la istituzione di cattedre ufficiali, queste non potrebbero limitarsi alla retorica e alla filosofia, come è stato fatto da chi ha accolto tale interpretazione, ma dovrebbero riguardare eziandio la grammatica, l’astrologia, la matematica, la pittura, tutti cioè gli insegnamenti, che, noi positivamente sappiamo, furono [129] protetti da Adriano[312] — ipotesi questa assolutamente inverosimile, come l’ulteriore svolgimento della politica scolastica degli imperatori assicura senza lasciare alcun dubbio.

Adriano dunque sarebbe stato il grande incoraggiatore degli studii e dei loro diffonditori, avrebbe, a più riprese, specie nel caso di incapacità ad un ulteriore lavoro, sovvenuto largamente i maestri più bisognosi e più meritevoli; ma nulla induce a pensare che egli sia stato l’autore di provvedimenti, con cui si istituivano in Roma, o altrove, delle cattedre pubbliche per le discipline più notevoli, che erano allora oggetto di insegnamento.

La sua opera rimane così limitata entro la cerchia delle idee e delle misure adottate dal primo dei Flavii. Vespasiano, infatti, dicemmo, non istituì una o più cattedre di retorica in Roma, ma solo uno stipendio personale e vitalizio in favore di taluni retori. Coi successori la sua iniziativa aveva subito un improvviso arresto. Con Traiano, par certo, gli assegni vitalizi ad personam non andarono più a favore di alcuno. Ora Adriano — saggiamente — ne riprende l’idea, che i bisogni e le circostanze stesse imponevano, e la riprende con i ritocchi e nella misura, che la nuova politica e la interrotta tradizione imponevano. Egli estende il beneficio ad altri insegnanti, che non fossero soltanto quelli di retorica; sostituisce talora, all’assegno vitalizio, incoraggiamenti, più o meno larghi, più o meno ripetuti, ma sempre irregolari; ne mette a parte anche i docenti [130] delle province;[313] fissa quelli che oggi si direbbero dei limiti di età alla carriera dei maestri, o, piuttosto, dei limiti di carriera, quando l’età aveva fatto manifesta l’insufficienza didattica dell’insegnante, e, in tal caso, assicura ai maestri la restante esistenza con abbondanti assegni vitalizii. Tutto questo è certamente meritorio, e costituisce un progresso di fronte a Vespasiano; ma non è ancora la istituzione di vere e proprie cattedre pubbliche, che andassero a formare un primo nucleo di scuole medie, o superiori, o primarie, nelle varie località dell’impero.

VIII.

Invece di una pubblica scuola, Adriano creò per essa, in Roma, un grande locale apposito. Fin allora, grammatici, retori e filosofi erano costretti ad appigionare dei locali, ove impartire l’insegnamento. Solo forse i giureconsulti — come a suo luogo accennammo — avevano a propria disposizione dei locali pubblici forniti dallo Stato.

Egualmente, i conferenzieri, i poeti, i tragici, tutta l’innumerevole serqua dei lettori pubblici dell’età imperiale, erano, volta per volta, costretti anch’essi a procurarsi il locale necessario alla loro pubblica produzione letteraria. Adriano ebbe in animo — e l’ispirazione venne a lui certamente dal mondo ellenico ed ellenistico — di innalzare un tempio dell’insegnamento e della pubblica coltura. In Atene, esistevano parecchi [131] locali destinati all’insegnamento superiore: l’Accademia, lo Stoa, il Palladion, l’Odeion, il Lyceion, il Cynosarges, il Diogeneion, il Ptolemaion.[314] In Alessandria, due almeno delle sale dei due Musei erano destinate a lezioni e a conferenze scientifiche. Come mai Roma avrebbe potuto mancarne? Sorse, così, da questa ispirazione e con questo intendimento, l’Athenaeum romanum, un ludus ingenuarum artium, una scuola delle discipline destinate all’istruzione dei liberi in Roma.[315]

Era desso un ampio auditorium in forma di anfiteatro,[316] eretto probabilmente sul Campidoglio,[317] che i letterati trovavano a loro disposizione per leggervi pubblicamente i propri scritti, e i maestri, per impartirvi le loro lezioni.

Ma quali categorie di maestri? Tutti i passi della Historia Augusta, che accennano all’Athenaeum, discorrono di letture di poeti o di lezioni di retori greci e latini[318].

Ma quell’auditorium non poteva essere aperto a questi soli docenti. Un antico — abbiamo visto — lo chiamava ludus ingenuarum artium. A suo dire, dunque, tutte le arti libere avrebbero potuto trovarvi accesso, e la retorica e la grammatica e la musica e la filosofia. Ma sarebbe inesatto dire che la natura dell’Athenaeum [132] ci permetta una così larga interpretazione. L’Athenaeum, attraverso tutta la sua storia, ci appare invece come un edificio destinato a conferenze e a lezioni, di cui il grande pubblico dei giovani e degli adulti avesse potuto fruire. Come tale, noi dobbiamo escludere dal novero delle arti liberali, che vi avevano accesso, la musica, che in pubblico non poteva dar luogo a lezioni, ma solo a concerti, istrumentali e vocali, e verso cui grandi erano le ripugnanze della pedagogia romana, la geometria, che in Roma aveva uno scopo strettamente professionale,[319] ed era, non già insegnamento fondamentale, ma una disciplina sussidiaria — lontanamente sussidiaria — di quell’arte, che assommava in sè quasi tutti gli scopi e gli sforzi della pedagogia, l’oratoria,[320] e da ultimo, forse, o almeno per ora,[321] la grammatica, disciplina, che si rivolgeva soltanto a dei giovanetti e faceva parte di quell’insegnamento secondario, che non può occupare l’attenzione dei più. L’Athenaeum, qualche cosa tra l’Università popolare moderna e la sala di conferenze, doveva rimanere estraneo a tutto ciò; doveva, specie nelle sue origini, essere luogo di coltura pubblica, generalissima, non istituto di insegnamenti speciali o d’insegnamenti secondarii inferiori, ma, sopratutto, un luogo, in cui si dispensava [133] quella cultura, che, senza essere impartita per ufficiale volontà superiore, era tuttavia, da numerose condizioni, tratta ad apparire, e ad essere, oggetto di insegnamento ufficiale. Ed è appunto perciò che noi, sebbene le fonti, di cui disponiamo, non ce ne parlino, dobbiamo supporre che fin da Adriano, nell’Athenaeum, insieme con l’insegnamento della retorica, venissero impartiti quelli della filosofia e della giurisprudenza, della quale ultima, del resto, vedremo anche più innanzi.

È assai probabile che, all’Ateneo, Adriano abbia aggregato una biblioteca. Forse poche circostanze erano state altrettanto favorevoli all’idea di una simile fondazione. Un locale di istruzione pubblica, ove si adunavano discenti e maestri, non avrebbe potuto rispondere degnamente al suo ufficio senza una collezione di libri a portata di mano e a disposizione degli studiosi. E poichè grande è il numero delle biblioteche pubbliche romane, di cui non riusciamo a rintracciare i fondatori o la cronologia della fondazione, e poichè noi possediamo esplicita menzione di una biblioteca Capitolina[322], di una biblioteca, cioè, avente sede negli stessi paraggi dell’Athenaeum, la sua origine può, fra le tante ipotesi che si sono fatte, essere preferibilmente riferita al regno di Adriano.[323]

Ma la politica di Adriano arrecò del pari nuovo incremento allo studio del diritto. La carriera dei giuristi [134] acquista fin d’ora un valore assai maggiore che non nel passato. Anzitutto le prerogative e l’efficacia dei responsa dei giuristi patentati crescono ancora di un grado. Questi non hanno più un peso soltanto morale. I responsa, se concordi, assumono valore di leggi[324], e, solo in caso di disparità di pareri, l’imperatore si riserva di giudicare e decidere egli stesso con l’assistenza del suo Concilium. Ma è noto quale innovazione questo Concilium principis avesse subìto ai tempi di Adriano. Esso, che fin allora era stato in maggioranza un consiglio di senatori, delegati dal senato, accoglie ora, stabilmente, nel suo seno, quali membri ordinarii, dei giureconsulti[325].

La carriera giuridica aperse così i migliori orizzonti ai giovani studiosi di Roma e delle provincie, come la produzione dei giuristi riscosse, dal governo centrale, una sollecitudine e, direi, un incoraggiamento maggiore che nel passato. Esistevano già in Roma (e il grammatico Gellio, riferendosi alla sua giovinezza, ne parla come di consuetudine saldamente costituita) delle stationes ius publice docentium aut respondentium[326]. Come è stato notato, anche il vocabolo statio suole indicare località pubblica ed ufficiale. Esse erano quindi località, non private, ma proprietà del populus o del princeps[327]. Al tempo dunque di Adriano, ve n’era un gran numero. Ma questi — naturalmente — dovette pensare ad assegnare, [135] anche ai giuristi, l’uso del nuovo stabilimento, il grande Athenaeum imperiale, nè, per concludere in tal senso, fa bisogno di attendere una diretta testimonianza delle fonti.

IX.

La fondazione dell’Athenaeum è certamente il tratto più caratteristico dell’opera di Adriano, nei rapporti con l’istruzione pubblica. Ma nello stesso campo un’altra parte della sua attività è anche notevole, specie in quanto essa riguarda i primi provvedimenti imperiali, che si interessino sul serio dell’istruzione pubblica nelle province.

Fino a quel giorno, per questo riguardo, la politica imperiale cadeva ancora sotto la censura formulata nell’epistola di un filosofo, diretta a dei magistrati romani: «Dei porti, degli edifici, dei portici, dei passeggi pubblici taluno di Voi ha avuto cura; ma dei fanciulli, che sono nelle città, o dei giovani, o delle donne, nè Voi, nè le leggi romane s’interessano»[328]. Adriano fu il primo a rompere questa tradizione di noncuranza verso tutto ciò che non riguardasse la vita esteriore e materiale delle città sparse nelle provincie. Ma, come sempre in tutti gli esordi delle opere umane, ciò ch’egli fece valse meno a creare degli utili effettivi, che ad aprire una via, che i successori avrebbero largamente percorsa.

Le sue cure si rivolsero all’ordinamento scolastico e agli istituti di istruzione pubblica nei due centri maggiori [136] del mondo intellettuale di quel tempo: Atene ed Alessandria.

In Atene, Adriano raccolse, e fondò, una splendida biblioteca, che aggiunse all’altra del Ginnasio di Tolomeo, nonchè un nuovo Ginnasio, la cui importanza maggiore non consiste nelle cento colonne di pietra libica, di cui ci discorrono i touristes dell’antichità,[329] ma nel fatto che uno dei ginnasii greci, divenuti ormai istituti d’educazione intellettuale, oltre che fisica[330], sorgeva, questa volta, per le cure del governo romano.

Ma Adriano fece anche di più e di meglio: s’ingerì, con intenzioni benevole e benefiche, nelle vicende dell’insegnamento superiore privato di quel tempo. Conosciamo infatti, attraverso un’epigrafe, da noi precedentemente richiamata, che rimonta al 121 di C.,[331] un notevole provvedimento da lui adottato a favore della scuola filosofica degli Epicurei, e che può dirsi tornasse eziandio a vantaggio dell’insegnamento filosofico in genere.

Accennammo a suo luogo all’altro provvedimento di Vespasiano, con cui si vietava che dei cittadini non Romani coprissero l’ufficio di scolarchi nelle varie [137] scuole filosofiche ateniesi, e ne segnalammo le deplorevoli conseguenze[332].

Or bene, nel 121, la madre adottiva di Adriano, Plotina, intercede caldamente, esponendone le ragioni, affinchè il figliuol suo liberi la scuola epicurea, di cui ella si palesa seguace, da ogni pastoia, e conceda allo scolarca ateniese del tempo, e ai suoi successori, di poter testare — ed in lingua greca[333] — a favore anche di stranieri; l’imperatore, se mai, avrebbe potuto riserbarsi il diritto di approvare e ratificare tali scelte ex lege[334].

E la sua intercessione fu fortunata: l’epigrafe, che contiene la lettera commendatizia dell’imperatrice, contiene anche il rescritto dell’imperatore, che, esaudendo, in tutto e per tutto, l’istanza, rendeva intera la libertà della scienza e dell’insegnamento alla filosofia epicurea in Atene.

Fu poscia analoga liberalità largita da Adriano, o dai successori, alle altre scuole filosofiche? Noi l’ignoriamo. Ma quello che a me sembra certo si è che non possiamo, con i pochi e dubbi elementi di due o tre epigrafi, affermare, come si è fatto,[335] che gli scolarchi [138] delle altre scuole filosofiche ateniesi continuassero, anche più tardi, a scegliersi tra i cittadini romani. La serie anzi dei nomi dei titolari delle future cattedre di fondazione imperiale darebbe, forse, a pensare l’opposto; e ad un opposto convincimento induce più ancora la considerazione, che altri imperatori, successi immediatamente ad Adriano, non potevano certamente desiderare che la scuola degli Epicurei fosse lasciata in una relativa condizione di privilegio.


Sollecitudini maggiori Adriano dedicò al Museo alessandrino. Da lunghi anni quell’istituto sembrava vegetare, anzichè vivere, e il più eccelso favore, che gl’imperatori romani vi usavano, era di continuare gli assegni necessari al mantenimento suo e dei suoi pensionati.

Adriano, per quella predilezione, che sempre nudrì verso l’Egitto e verso quel centro sovrano di cultura intellettuale, che fu Alessandria, cominciò col curarsene direttamente. Anzitutto vi pose a capo una delle persone più competenti, il sofista L. Giulio Vestino, autore di opere filologiche e poscia procuratore delle biblioteche di Roma[336]. Ma questo fu il meno. Vi apportò eziandio una riforma fondamentale. Fin allora il Museo era stato un’accolta di dotti, che ivi lavoravano, ivi erano alimentati, e forse anche abitavano. Adriano largì a parecchi altri letterati dell’impero, specie greci, il titolo onorifico di membri del Museo e una pensione relativa, corrispondente all’utile materiale, di cui la lontananza da Alessandria veniva a privarli. Tra i favoriti, gli [139] antichi ricordano il sofista Polemone,[337] il sofista Dionigi di Mileto,[338] il poeta egizio Pancrate,[339] il filosofo Elio Dionigi di Alicarnasso[340] e altri ancora.[341]

I posti del Museo sono ora dunque soltanto pensioni, e la sua mensa, mentre prima serviva ai reali bisogni dei dotti residenti in quell’istituto, diviene un più o meno lauto stipendio agli uomini, per speciali meriti illustri, di tutte le parti del mondo,[342] o a coloro (e qui risiedeva l’inevitabile pericolo dell’innovazione), che l’imperatore avesse voluto giudicare tali. Ma fu questo certamente un progresso. I vantaggi materiali del Museo andavano così a prodigarsi a una più larga cerchia di persone, la libertà di scelta fu maggiore, e maggiore il contributo, che, in seguito a codesti benefici, i dotti del mondo sarebbero stati in grado di arrecare alla scienza.

X.

Assai interessante riesce seguire passo passo, atto per atto, lo svolgersi e il perfezionarsi degli istituti sociali, attraverso l’opera di uomini, che ne furono al tempo stesso gli artefici ed i pazienti. Da Adriano, anzi da Vespasiano a Marco Aurelio, è tutta una lenta incrostazione di provvedimenti diversi, di cui ciascuno [140] completa, o modifica insensibilmente, il precedente, la quale alla fine darà il fatto nuovo, con fisonomia e individualità propria, la specifica creazione scolastica dell’impero, che sarà l’ordinamento ufficiale dell’istruzione superiore.

In questo lento, insensibile lavoro, assai più di Adriano, Antonino Pio ha segnato il suo posto ed il suo ufficio.

La sua opera si inizia con la regolamentazione delle immunità ai docenti, che raggiunge con lui una precisione ignota negli anni trascorsi. Probabilmente, le città avevano rilevato degli inconvenienti nell’ampiezza delle immunità ai sofisti, ai grammatici, ai filosofi in genere. Probabilissimamente, ogni volenteroso di quel privilegio era ormai solito dichiarare, senza eccessivo scrupolo di esattezza, la qualità e la condizione sociale più acconcia a farglielo conseguire. Probabilissimamente, il numero dei maestri di grammatica, di retorica, di filosofia e d’altre discipline era, anche in virtù delle esenzioni tradizionali, cresciuto in misura da arrecare dei danni sensibili all’erario delle varie comunità. E con ogni probabilità noi dobbiamo alle loro rimostranze lo schema delle norme, con cui Antonino Pio ebbe a regolare tale materia, schema pervenutoci attraverso l’intelligente e autorevole compendio di una costituzione imperiale, lasciatoci dal giurista Modestino[343].

Quella costituzione stabiliva che, nelle piccole città, le immunità dovessero al massimo estendersi a 5 medici, 5 sofisti (maestri di retorica),[344] e 3 grammatici; [141] nelle medie, a 7 medici, 4 sofisti e 4 grammatici; nelle grandi città, a 10 medici, 5 sofisti e 5 grammatici. Dei filosofi, Antonino Pio non stabiliva il numero dei privilegiandi,[345] ma questo — e lo desumiamo da ciò che egli s’affretta a soggiungere — non dipendeva da una maggiore liberalità, che egli avesse voluto usare verso quella categoria di professionisti, sibbene dalla loro scarsezza numerica. «Io penso», egli avvertiva, «che i filosofi ricchi offriranno volentieri alla patria le utilità, che loro derivano dalle ricchezze; chè se, invece, cavillando, mostrassero di fare troppo conto dei beni materiali, questo solo basterebbe a provare che essi non sono filosofi.»[346].

Insieme con tali norme noi possediamo di Antonino Pio altre disposizioni, relative alla immunità dei docenti, di cui talune sono frammenti della sopra riferita costituzione, altre sono clausole speciali, che ne dipendono o la illuminano, cioè: a) che il diritto alle immunità era strettamente legato al paese di origine del docente, sì da andare perduto per chi professasse altrove;[347] b) che però tale disposizione era passibile di eccezione pei docenti insigni, anche in soprannumero ed esercenti altrove;[348] c) che la specificazione degli oneri, o degli onori, [142] da cui si aveva diritto di andare esenti, rimaneva sempre quella amplissima, già fissata da Adriano;[349] d) che gli insegnanti primarii, di qualunque specie e grado, dovevano andare esclusi da ogni immunità;[350] e forse, da ultimo, anche la norma che, fra i docenti discipline speciali, quelli di calligrafia (librarii), i quali preparavano ad uffici di segretari, copisti etc., tanto richiesti dalle amministrazioni pubbliche e private del tempo, godevano la esenzione dagli oneri più gravi[351].

Il documento principale si riferiva, in modo speciale, alla provincia di Asia. Ma è chiaro ch’esso doveva idealmente far parte, e organicamente connettervisi, di quella larga serie di provvedimenti, di cui Antonino Pio fu così liberale verso le provincie. Non vi sarebbe stata coerenza logica a stabilire per l’Asia delle restrizioni e delle norme in materia di immunità, che poi non dovessero essere ripetute, o non fossero già state stabilite per altre provincie dell’impero, o, almeno, per quelle, che uguale necessità ne risentivano. Questo è infatti il pensiero del giurista, che ci tramanda la costituzione antonina[352]; questa, l’opinione, che deve tenersi come in generale applicabile.

Qualche dubbio invece lascia la qualità delle persone, su cui l’antico privilegio e le sue recenti limitazioni andavano a raccogliersi.

[143]

Si tratta di insegnanti pubblici, ufficiali, sia di retorica che di grammatica, o di insegnanti privati?

La prima ipotesi è stata fatta, ed è stata portata a sostegno dell’assunto, che già, con Antonino Pio, si avesse in Atene quell’abbastanza regolare assetto degli studii superiori, che chiaramente troviamo dopo Marco Aurelio;[353] ma essa è certamente infondata. Ed invero, noi siamo assolutamente sicuri che, sotto Antonio Pio, nella migliore ipotesi, non ci fu in Atene che un solo ufficiale docente di sofistica, Lolliano,[354], la cui cattedra però, come a suo a tempo diremo, non dovette essere di istituzione imperiale, e che uno egualmente ce ne fu sotto Marco Aurelio.[355] Or bene, pur volendo rammentare che Antonino Pio, nella sua costituzione, fissava dei massimi, noi, seguendo l’ipotesi sopra esposta, verremmo ad ammettere che, nel centro maggiore di studii dell’Oriente (se ne togli Alessandria), là dove la fioritura dei maestri di retorica fu sterminata, e la ressa dei candidati notoriamente grande, il numero dei docenti ufficiali di retorica era inferiore perfino a quello supposto pei più piccoli centri dell’impero. Per quali casi avrebbe dunque Antonino Pio fissato le sue cifre iperboliche e considerato financo la probabilità che codesti massimi fossero raggiunti,[356] senza che per [144] questo esaurissero la serie degli aspiranti al privilegio?

D’altro canto, di cattedre ufficiali di grammatica, in Atene, non abbiamo — almeno per ora — nessuna menzione; forse di istituite dagli imperatori non ve ne furono mai.[357] Eppure, secondo l’interpretazione, dianzi accennata, della costituzione di Antonino Pio, al suo tempo, Atene avrebbe dovuto contarne tante quante ne contava di retorica!

E che dire dei docenti di filosofia, che la costituzione di Antonino Pio farebbe evidentemente supporre inferiori di numero ai sofisti e ai grammatici, mentre poi, sotto Marco Aurelio, ne troviamo probabilmente due per ogni scuola, e cioè otto nella sola Atene?[358].

L’ipotesi dunque che i docenti, immuni da oneri, siano stati professori ufficiali riesce, sotto ogni rapporto, insostenibile.

Ma v’è proprio necessità d’identificare i privilegiati della esenzione, con dei professori ufficiali? Tra le immunità e l’insegnamento ufficiale non esiste nessun legame diretto, e come, fin da Augusto, noi abbiamo assistito a una dispensa notevole di immunità, senza che per questo le persone, che via via avevano a goderne, fossero menomamente fornite di incarichi ufficiali, così ora possiamo con sicurezza concludere che, quando Antonino Pio limita il numero dei docenti beneficiati, egli non si riferisce all’insegnamento ufficiale, ma all’insegnamento in genere,[359] e che la limitazione sua è [145] provocata soltanto dal danno, che l’erario delle singole città risentiva dalla pletora dei privilegi.

Un altro problema, dinanzi a cui ci pone la su riferita costituzione imperiale è quello del criterio occorrente per classificare le città dell’impero in città di primo, di secondo, di terzo grado. Ce ne dà la soluzione il commento del giureconsulto Modestino, il quale informa come città di primo grado fossero le μητροπόλεις τῶν εθνῶν, cioè, sin dal II. secolo, le principali città delle province, onorate ufficialmente del titolo di metropoli;[360] di secondo grado, le sedi di un conventus iuridicus (αὶ ἔχουσαι ὰγορὰς δικῶν); di terzo, tutte le altre. E questa interpretazione, fornitaci da un antico, è, per molte ragioni, tra cui questa ch’essa proviene da un’età, in cui le norme di Antonino Pio erano ancora in vigore la più accettabile sovra ogni altra.

Ma la limitazione, introdotta dal principe nel numero dei privilegiati, insinua un concetto giuridico affatto nuovo nei rapporti tra questi e il governo, che privilegiava. In realtà, non siamo più dinanzi a un onore conferito ad personam, e neanche dinanzi a un privilegio conferito ad una classe di persone; siamo dinanzi a un privilegio conferito a delle comunità, che sole possono esentare da determinati oneri un certo numero di persone, le quali le ricambiano di determinati utili, morali o materiali[361].

Con tutto questo concorda perfettamente un’altra [146] disposizione — che però non è chiaro se Modestino ce la riferisca come ordinata, anch’essa, da Antonino Pio, o come una sua propria illazione — secondo cui il Senato locale, se non poteva accrescere il numero degli esenti, poteva però, con una sua disposizione interna, fissare un massimo inferiore a quello stabilito dall’imperatore.[362] Di guisa che, per l’ammissione al privilegio, non sarebbe bastata più la dichiarazione della professione, ma occorreva invece un decreto del Senato, dichiarante che, date le oggettive condizioni volute dalla disposizione imperiale — accolta integralmente, o limitata, da un successivo provvedimento interno — la persona o le persone, che avevano avanzato domanda di immunità, potevano essere ammesse a goderne[363].

Quali criteri si seguissero in caso di eccesso di domande; in base a quali elementi i rimandati di oggi venissero, alla prima vacanza, ripresi in considerazione, è assai difficile dire, nell’assenza di ogni indicazione che ci illumini. I criteri potevano essere parecchi: o l’ordine delle domande, o l’anzianità, o il merito speciale, o un criterio misto, che tenesse conto dei varii elementi. Ma, in rapporto a tutte le nuove norme seguite da Antonino Pio, s’impone un quesito pregiudiziale. Eran desse delle clausole, per cui si richiedeva un’applicazione immediata, o delle disposizioni generali, che dovevano applicarsi gradualmente? In una parola (ed è qui l’importanza della questione) i diritti acquisiti sarebbero stati rispettati, anche se venivano, in tutto o in parte, a urtare contro le nuove disposizioni?

[147]

La risposta, a mio avviso, non può essere che positiva.

A parte il principio, costantemente seguito dalla legislazione imperiale, di non arrecar mai detrimento ai diritti acquisiti,[364] troppo grave sarebbe stata la lesione degli interessi individuali e collettivi, qualora i nuovi criterii si fossero voluti imporre immediatamente, turbando tutti gli antichi rapporti. Ma, a parte questo e a parte il valore di precedente, che ogni beneficio accordato recò per il successore, noi sappiamo che taluni maestri ebbero adesso ripetute dall’imperatore in persona le antiche immunità,[365] e che altri non ismarrirono quel diritto.[366] Le disposizioni di Antonino Pio si sarebbero dunque applicate gradualmente, e sarebbero entrate in pieno vigore solo alla morte di tutti quelli, che fin allora avevano conservato l’antico privilegio.

XI.

Quale fu l’opera di Antonino Pio riguardo alla statizzazione dell’insegnamento privato nelle città dell’impero? Eccoci dinanzi a uno dei più tormentosi problemi del suo governo. La biografia sua, contenuta nella Historia Augusta, narra che egli «conferì onori (honores) e stipendi (salaria) ai retori e ai filosofi residenti nelle provincie».[367] Non ostante la organica fallacia [148] della fonte, da cui si è costretti ad attingere,[368] la notizia, per quella parte che possiamo controllare su altri elementi, è esatta. Ed invero gli honores, accordati da Antonino Pio, furono, in massima parte, le esenzioni dai pubblici carichi, di cui abbiamo precedentemente discorso, che vennero largite ai retori, ai grammatici e ai medici. Ma è la notizia ugualmente esatta per la parte che riguarda gli stipendi, fossero pure limitati, come la nostra fonte li vuole, ai retori e ai filosofi? Le ragioni del dubbio esistono, sebbene i moderni studiosi dell’argomento, intenti piuttosto a seguire lo sviluppo della scuola, che a indagare quanta parte di merito, o di responsabilità, risalga a questo o a quell’imperatore, abbiamo preferito sorvolarvi.

Ed invero, mentre nessuna fonte discorre di filosofi nominati e stipendiati da Antonino Pio, dall’elenco dei retori, i quali insegnarono in Atene, per tutta l’età degli Antonini, che si ricava dalla Biografie dei sofisti di Filostrato — opera tanto più attendibile della Historia Augusta — noi apprendiamo che il primo insegnante, il quale, stipendiato dall’imperatore, abbia salito la cattedra di retorica in Atene, fu il sofista Teodoto, nominato, non già da Antonino Pio, ma dal suo successore, Marco Aurelio.[369]

Tale notizia contraddice categoricamente al passo della Historia Augusta dianzi citato. Se non che, quasi tale contraddizione non bastasse, lo stesso Filostrato, [149] altrove, informa che il primo a salire la cattedra di retorica in Atene fu invece Lolliano di Efeso[370], il quale fiorì sotto Antonino Pio — essendo stato scolaro di Iseo, sotto Traiano,[371] e maestro di Teodoto — e raggiunse la pienezza della sua gloria sotto Marco Aurelio[372].

Per uscire da questa e dalle precedenti difficoltà, si sono tentate parecchie vie. Non si è certamente potuto supporre che, a proposito di Lolliano, si parli di una cattedra privata, giacchè, in tal caso, non lo si sarebbe detto «il primo maestro di retorica in Atene», ma si è pensato che egli ricoprisse una cattedra ufficiale senza stipendio, e che Marco Aurelio avesse per primo applicato in Atene delle disposizioni, che Antonino Pio avrebbe emanate per tutte le provincie, relative agli stipendi dei retori e dei filosofi[373].

La prima parte dell’ipotesi è per se stessa risibile: una cattedra ufficiale senza stipendio è un non senso, e, in ogni modo, essa contraddice all’introduzione dei salaria, vantata dal biografo di Antonino Pio. Nè più valida è la seconda. O il provvedimento di Antonino Pio fu tradotto parzialmente in pratica, e nessuna città poteva essere da lui presa in considerazione prima di Atene, o non lo fu, ed allora tanto la dizione della Historia Augusta, quanto il passo di Filostrato contraddicono all’assunta interpretazione.

Eppure, è assai più difficile pensare che Filostrato, [150] avendo sott’occhio fonti abbastanza prossime agli avvenimenti illustrati, abbia errato e si sia grossolanamente contradetto, anzichè ammettere che noi ci sbagliamo nell’interpretare la sua compendiosa esposizione, tanto più facilmente intelligibile ai suoi contemporanei. E, se Filostrato non ha errato, la soluzione, o mi inganno, non può essere che quella sola, la quale parmi risulti anche dal confronto dei suoi due passi in discorso: il sofista Teodoto fu il primo ad ascendere una cattedra ufficiale, istituita e stipendiata dall’imperatore, dietro nomina imperiale; Lolliano, invece, fu il primo a salire una cattedra, anch’essa ufficiale, ma non di fondazione imperiale, bensì di fondazione comunale[374].

Così noi siamo in grado di conciliare i due passi di Filostrato fra loro e con quello della Historia Augusta, interpretando da un lato che fu solo Marco Aurelio il primo a istituire delle cattedre sovvenute dallo Stato, e sulle quali più direttamente si esercitò l’ingerenza del principe; dall’altro, che Antonino Pio impose a talune città il dovere, o concesse la facoltà, di istituire un certo numero di cattedre e di stipendiare all’uopo dei retori e dei filosofi, come ci dicono e la sua biografia e la biografia di Lolliano in Filostrato.

Cotale imposizione di cattedre, in qualche municipio, era certamente nelle normali attribuzioni dell’imperatore, ma spettava egualmente a lui concedere ai municipii [151] di istituirne delle altre. Come troveremo più tardi chiaramente formulato per legge,[375] i comuni non erano autorizzati a spese, che non fossero consentite dal governo centrale. Siffatta impacciante tutela era per essi cominciata fin dal regno di Traiano, e il suo sistema si affinò ancor più sotto Antonino Pio. Quando per ciò gli storici lodano questo imperatore di avere, nei rispetti della pubblica istruzione, praticato, per le provincie, gli stessi criteri che per Roma e di avere conferito stipendi ai retori ed ai filosofi colà residenti, essi fanno uno dei migliori elogi dell’amministrazione provinciale di Antonino Pio, che per la prima volta avrebbe iscritto, come spese obbligatorie, nei bilanci comunali, quelle relative al mantenimento delle scuole.

Ma la nostra interpretazione ci conduce a risolvere un altro problema, che il succinto e fugace accenno della Historia Augusta poneva: i salaria, istituiti fin da Antonino Pio, furono prelevati sul fisco imperiale — come un tempo, sotto Vespasiano, lo stipendio ai retori di Roma — o sul bilancio delle singole città?

Le due opinioni sono state ugualmente sostenute.[376] Ma ciascuna di esse risponde soltanto a una parte della verità. I salaria furono, attraverso la loro non breve istoria, prelevati ora sul fisco imperiale, ora sull’erario delle singole città. Ma, nell’età di Antonino Pio, non ci troviamo ancora di fronte a delle istituzioni imperiali, onde, a sopportare il peso di quegli stipendii, dovettero essere appunto gli erarii comunali. Tutt’al più, [152] specie dato il grande interessamento del principe per il benessere delle provincie e per la cultura dell’impero, egli potè, con le risorse del fisco, sovvenire talora i bilanci, esigui o stremati, dei singoli municipii.

XII.

Ciò che Vespasiano aveva appena iniziato, ciò, a cui taluno ha creduto che Adriano e Antonino Pio avessero dato mano, in Roma e nelle provincie, o in qualcuno dei centri più notevoli dell’impero, ha la sua piena attuazione con Marco Aurelio.

Di lui narrano i suoi biografi com’egli ripetesse sovente il detto di Platone che le città sarebbero state fiorenti solo quando avessero regnato i filosofi, o quando i principi fossero stati filosofi[377]. Come tutte le anime profondamente intellettuali, egli nudrì infatti una grande fiducia, e una più grande illusione, nella potenza della ragione, nell’opera educativa della scienza, nell’efficacia pratica del magistero dell’insegnamento. Questa sua fede è anzi tutto palese dal culto, ch’egli ebbe per coloro, che l’avevano educato ed istruito. Egli amò di un amore infinito il suo maestro Frontone, spirito mediocre, moralmente e intellettualmente, e a lui, come segno tangibile di quel ricordo, consacrò una statua nei locali del Senato. Elevò Procolo alle supreme cariche del governo, e onorò di ricordi marmorei Giunio Rustico, altro suo intimo, spirituale confidente. Di tutti Marco Aurelio custodiva le immagini fra quelle dei suoi [153] Penati, e a loro, quando essi non furono più, offeriva voti e sacrifici.[378] Ma il più durevole monumento, in loro onore, è consegnato nelle pagine dei suoi Pensieri, ove egli scolpì nell’oro della prosa, moralmente più bella di tutta l’antichità classica, le virtù e gl’insegnamenti, di cui essi gli erano stati esempio e maestri[379].

Di un principe, che così fortemente sentiva la virtù dell’insegnamento, dovevano attendersi grandi rinnovamenti nel campo della pubblica istruzione. Nè l’aspettativa dei contemporanei rimase delusa.

Sino a Marco Aurelio, dall’età gloriosa di Atene, l’insegnamento superiore era quivi rimasto cosa privata, in mano di privati scolarchi, nel cui magistero lo Stato entrava solo per offrire il luogo di convegno necessario alle lezioni. Ma nel 176, narra lo storico Dione Cassio, Marco Aurelio, venuto in Atene, dopo essersi iniziato nei Misteri Eleusinii, vi istituì cattedre ufficiali, con docenti pubblici per ogni disciplina, retribuiti di regolare stipendio annuo[380]. La data è forse inesatta. Nel 176, Marco Aurelio aveva certamente istituito, già da tempo, una cattedra di retorica, ed egli, venuto in Atene, aveva potuto intrattenersi in dotte dispute col retore, che allora l’occupava, e che non era il primo. La cronologia va dunque spostata a qualche anno innanzi[381]. Ma non è neanche esattissimo [154] il riferimento di cattedre istituite per ogni disciplina (ἐπὶ πάσης λόγων παιδείας), di cui è fonte lo stesso Dione.

Noi sappiamo in verità di cattedre imperiali di retorica e di filosofia, inaugurate in Atene da Marco Aurelio e continuate dai successori. Ma nè di lui nè degli altri ci rimane menzione alcuna di cattedre di grammatica, di medicina, di musica etc., quali noi aspetteremo dalla dizione dello storico romano. Sebbene non sia sempre prudente concludere da un argomento ex silentio, è tale, nel caso presente, la copia delle circostanze favorevoli, e la natura delle altre fonti sussidiarie, che noi possiamo essere sicuri che quelle due soltanto furono le discipline, per cui Marco Aurelio ebbe ad istituire in Atene delle cattedre imperiali.

La cattedra di retorica, istituita dall’imperatore, fu una sola, e primo titolare, da lui direttamente nominato, fu il sofista Teodoto. Ma ebbe questi l’incarico di insegnare tutta la materia, che vi si atteneva, o non piuttosto una parte di essa, la materia pertinente all’oratoria civile e giudiziaria, a quello, che si diceva il λόγος πολιτικὸς e δικανικὸς?[382]

Questa seconda opinione, accolta dai più, è, secondo il mio modo di vedere, l’effetto di un equivoco nell’interpretazione di Filostrato. Filostrato, invero, dice che l’imperatore «propose ai giovani Teodoto per la sua celebrità, dichiarandolo atleta τῶν πολιτικῶν λόγων», ma lo dice anche «decoro dell’arte retorica»[383], e soggiunge [155] che Teodoto visse altri cinquanta anni, tenne la cattedra per due, e, quanto all’arte del dire, riuscì pari così nel genere giudiziale (τοῖς δικανικοῖς) come nel più alto genere sofistico (καὶ τοῖς ὐπερσοφιστεύουσιν). Or bene, da questo — o io m’inganno — consegue chiaramente che la cattedra, il θρόνος, occupato da Teodoto, non fu soltanto un θρόνος λόγων πολιτικῶν, ma un θρόνος σοφιστικὸς nel più largo senso della parola.

Ma la cattedra di retorica non fu la sola, nè la più importante tra quelle istituite dal secondo degli Antonini. La vera, la grande innovazione riguarda invece l’insegnamento della filosofia. Marco Aurelio istituì parecchie cattedre di questa disciplina; quante con precisione non è noto; ma la cifra più ragionevole è ancora quella di otto,[384] due per ciascuno dei quattro principali indirizzi filosofici del tempo, il peripatetico, il platonico l’epicureo, lo stoico. Ed invero, poichè, per queste scuole soltanto, noi sappiamo che furono nominati dei docenti ufficiali,[385] poichè sappiamo che di peripatetici ve ne furono precisamente due,[386] non è possibile pensare, come si è fatto, che Marco Aurelio avesse reso ai restanti indirizzi filosofici (tra cui era anche lo stoico, quello al quale egli stesso aveva consacrato la sua vita) meno onore che al peripatetico. Se anzi una diversa illazione fosse da ricavare, essa sarebbe questa: che le cattedre imperiali di filosofia, in Atene, potevano magari, per qualche scuola, essere superiori a due, e, nella loro cifra totale, superiori ad otto.

[156]

Era ben difficile che il regno di Marco Aurelio, quel suo governo, che fu definito di filosofi, avesse una più tangibile espressione della sua intima essenza. L’Università ateniese, così come egli ebbe a concepirla, fu quasi interamente una facoltà filosofica. Secondo il suo pensiero, i giovani dovevano essere anzitutto largamente istruiti nelle discipline filosofiche; solo in via secondaria, nelle discipline puramente letterarie; lo scopo professionale, poi, non doveva trovarvi, come non vi trovava, quartiere.

Gli stipendi assegnati dall’imperatore furono, per la cattedra di retorica, 10.000 dramme,[387] e 10.000 dramme ancora per ciascuna delle varie cattedre di filosofia[388]. Indubbiamente, queste somme venivano prelevate dal fisco imperiale, e di ciò, non solo ci avverte la natura particolare dell’istituto, che è tutta una personale volontaria creazione dell’imperatore, ma lo dichiarano eziandio le fonti da noi conosciute, e in una maniera così esplicita da non dar luogo a discussioni o a diversità d’interpretazione[389].

XIII.

La prima nomina dei docenti di retorica e di filosofia in Atene era stata fatta dall’imperatore, o direttamente o per mezzo di persona di sua fiducia, che, in quel caso [157] speciale, fu il celebre sofista Erode Attico, a cui appunto era stata delegata la scelta dei primi maestri ufficiali di filosofia[390]. Ma subito dopo erano state redatte delle norme definite, il primo regolamento per le prime ammissioni nell’insegnamento superiore, la cui importanza è, fra l’altro, notevole, per essere rimasto, nei secoli di poi, la pietra angolare di tutti i giudizii del genere, e perchè i suoi criterii fondamentali restano saldi ed immutati ancor oggi.

Di tutto questo ci informa un brillante dialogo di Luciano; ma nè questo, nè altro ci specifica quale sia stato l’atto imperiale, che quelle norme aveva fissate ed imposte. Era stato un editto, un rescritto, una circolare (mandatum)? Di ciò non possediamo, pur troppo, nessuna particolare indicazione, e sappiamo solo che, vivente ancora Marco Aurelio, in seguito alla morte di uno dei due filosofi peripatetici, erano già state iniziate le operazioni per la nomina del successore, ed era stato bandito quello che precisamente si dice oggi un concorso.

La commissione giudicatrice — informa Luciano — era composta «dei migliori fra i personaggi più anziani e più sapienti di Atene».[391] Si trattava dunque di tutti «i migliori» (nel senso classico della parola)? O, in caso diverso, quali ne erano le limitazioni, e chi aveva regolato, e regolava, la cernita?

È legittimo presumere che la lista degli ἄριστοι, i cittadini, cioè, in quel tempo, in Atene, eleggibili alle [158] pubbliche cariche, non coincidesse perfettamente con l’elenco dei membri della commissione giudicatrice, alla quale spettava il giudizio in merito al valore dei concorrenti. Una cernita tra gli ἅριστοι ateniesi era probabilissima, e la condizione dell’età e della capacità dei giudicanti (πρεσβύτατοι καὶ σοφώτατοι) è proprio — o io mi inganno — nel passo di Luciano, il criterio limitativo del numero degli ottimati. Ma, se questo imponeva una riduzione, mi sembra ancor più probabile che il loro numero venisse d’altra parte accresciuto con quello di tutti i competenti, che risiedevano da tempo nella città (σοφώτατοι τῶν ὲν τῆ πόλει) e ch’erano ormai considerati come degni e capaci di portare i loro lumi nel giudizio[392].

La Commissione giudicatrice sarebbe stata dunque formata dei cittadini più anziani dell’aristocrazia del censo e dell’intelligenza ateniese e avrebbe compreso anche i pubblici e privati professori della città. Vi era, fra quelli e questi, fra i cittadini non docenti e gli altri, una diversità o un diverso grado di funzioni, diremo così, giudicatrici?

Un acuto storico delle scuole filosofiche ateniesi, lo Zumpt,[393] ha pensato che i secondi non avessero che un voto meramente consultivo perchè, in caso contrario, — egli ragiona — ci troveremmo dinnanzi all’assurdo [159] di filosofi, giudicanti candidati di scuole contrarie alla loro.

Tale obbiezione è, in verità, infondata, prima di tutto perchè a scuole contrarie potevano appartenere anche i σοφώτατοι non docenti; in secondo, perchè tale appartenenza non mutava il valore del giudizio, in quanto — come vedremo a momenti — nel concorso, non si trattava di valutare il merito delle dottrine di una scuola in confronto di quelle d’un’altra, ma solo il merito di ciascuno dei concorrenti di una stessa scuola. Ma ciò che decide in modo assoluto è il testo medesimo di Luciano. Per l’umorista greco, i δικαστα ψηφοφοροῦντες sono tutti insieme οί ἅριστοι καὶ πρεσβύτατοι καὶ σοφώτατοι[394], e i diritti dell’intero corpo giudicante non vengono menomamente graduati in due ordini diversi.

Ma chi fissava, volta per volta, il numero e le persone? A chi spettava il diritto della scelta? Chi presiedeva la commissione giudicatrice? Neanche di tutto questo siamo direttamente informati. Ma, se la scelta delle persone doveva dipendere da uno di questi tre enti, o il governatore della provincia o l’Areopago o il Senato, dal primo, come rappresentante l’imperatore, dagli altri, come delegati dal primo, in grazia di una tradizione, che ne faceva i due corpi cittadini, supremi sorveglianti della educazione e della istruzione pubblica ateniese,[395] la presidenza della commissione giudicatrice di un concorso, per ogni cattedra imperiale, non poteva spettare che al governatore della provincia.

[160]

Passando ora dai giudici ai giudicandi, notiamo subito che la schiera di questi soggiaceva ad assai minori limitazioni dei primi. Anzi non ne conosceva che una sola: l’omogeneità delle dottrine con il filosofo estinto da surrogare. Non limiti di età, non limiti di condizioni sociali, neanche forse di sesso,[396] e neanche, per ora, requisiti morali e fisici imprescindibili.[397] Tutto questo poteva essere un elemento negativo o positivo, che entrava a pesare, favorevolmente e sfavorevolmente, nel giudizio dei commissarii, non mai condizione assoluta d’incapacità, d’indegnità, d’inammissibilità. E di tanta liberalità è anche prova il comico caso, che dà materia al dialogo di Luciano, la fonte precipua di queste nostre informazioni.

La prova pubblica del concorso consisteva in una discussione tra i candidati, interrotta probabilmente da interrogazioni ed osservazioni dei commissarii, nella quale ciascuno dimostrava la propria perizia nelle dottrine di quella scuola, per cui si ricercava il titolare.[398] Finita la prova, la Commissione discuteva, e alla discussione seguiva il voto. Non doveva essere necessaria la unanimità, ma, qualora i giudici si fossero trovati dinanzi a casi e a condizioni impreviste, qualora i pareri fossero stati molto varii e divisi, o, insieme con i due fondamentali dell’approvazione e della disapprovazione, altri minori se ne fossero tenacemente [161] manifestati, il giudizio veniva sospeso e rimesso in definitiva all’imperatore.[399]

La esposizione del processo, che abbiamo tentato, è, nonostante le inevitabili lacune, abbastanza completa. Solo ci rimane qualche lieve dubbio. Anche in caso normale di giudizio compiuto e di proposte concrete della Commissione, era riserbato all’imperatore un ulteriore giudizio e piena libertà di scegliere e di deliberare, anche in senso contrario alle designazioni della Commissione giudicatrice? Aveva, oltre l’imperatore, anche la città dei diritti sulla nomina del titolare a qualche determinata cattedra, fondata dal governo centrale? Le norme, che finora abbiamo esposte, erano limitate ai filosofi, o si adattavano, anche in quest’età, ai sofisti? E quali variazioni subivano in tal caso? A queste domande, per quanto la tradizione taccia, noi possiamo fornire risposte abbastanza sicure e definitive.

Il giudizio ultimo dell’imperatore è da ammettersi assolutamente. In realtà, la Commissione non ha poteri, se non in quanto essa ne è, volta per volta, investita. L’imperatore potrebbe anche farne a meno (i successori di Marco Aurelio, anche i più costituzionali, faranno talora così), e nulla impone il convincimento che Marco Aurelio, appena agli inizii della pratica dei concorsi, dovesse rinunziare a cotale sua prerogativa. Viceversa, per queste cattedre di fondazione imperiale, noi ignoriamo assolutamente, e potremmo anzi escluderla, l’esistenza di diritti speciali della città.

D’altra parte, le clausole fissate da Marco Aurelio, fermo restando ogni privilegio dell’imperatore, devono [162] potersi applicare anche ai sofisti. Astrazion facendo dalla analogia con l’età immediatamente successiva[400], ce lo suggerisce la verisimiglianza intrinseca della cosa. Perchè un concorso per i filosofi e non anche per i sofisti? Come avrebbe altrimenti l’imperatore potuto giudicare e scegliere, ove le domande fossero venute anche da concorrenti stranieri, di pari grido e valore, o magari da ateniesi a lui ignoti? Per i sofisti però, stante la diversa natura dell’insegnamento, non doveva trattarsi di una discussione fra i candidati, ma di una o più prove oratorie su temi determinati da svolgere, estemporaneamente o in seguito a preparazione, esperimento questo, per cui gli ἄριστοι πρεσβύτατοι σοφώτατοι ateniesi erano allora, a dir vero, più competenti che non a giudicare di dibattiti filosofici[401].

XIV.

Tutto questo, e cioè l’istituzione di cattedre imperiali, la regolarizzazione delle nomine dei docenti, fu fatto solo in Atene, o fu da Marco Aurelio ripetuto in altre città, già fiorenti e gloriose per studii, tanto quanto la capitale della Grecia? Ad onta della verisimiglianza di questa seconda ipotesi, a noi non è rimasta la menoma menzione di un tal fatto. Ciò che di certo sappiamo si è che, parallelamente alla gloria della scuola ateniese, s’accresce in questo tempo il prestigio e l’importanza dell’Athenaeum romano. Esso è ormai il luogo, [163] dove impartiscono regolarmente lezioni i docenti di Roma e, con uguale frequenza, docenti venuti, talora chiamati, dall’estero, specie dalla Grecia, i quali ultimi non si può perciò dubitare che godessero ormai di uno stipendio fisso da parte dell’imperatore.

Dobbiamo quindi supporre, anche nell’Athenaeum, una costellazione di cattedre ufficiali. Quante per adesso, e con quali stipendii, l’ignoriamo. Certo, quelle cattedre, almeno per la retorica, sono considerate come superiori alle corrispondenti ateniesi, e, dei migliori insegnanti, che di là, o d’altrove, sono chiamati a coprirle, si dice appunto che si recano a occupare una cattedra «superiore» (ὁ ἄνω θρόνος). Non sappiamo però se anche per Roma occorresse alle varie nomine un concorso, o se queste della capitale dell’impero dipendessero, per ora almeno, direttamente dall’imperatore. Nell’assoluta mancanza di dati, ogni soluzione sicura è impossibile. Forse però, non soltanto il luogo di residenza dell’istituto, che si trovava sotto la diretta sorveglianza del principe e dei suoi ministri, ma anche il fatto che quelle cattedre venivano occupate da insegnanti già sperimentati in concorsi, e, per lo più, già provetti nell’insegnamento ufficiale, rende maggiormente probabile l’ipotesi di una diretta e immediata nomina dell’imperatore.

Grande dunque è stata la via percorsa fin da Vespasiano, e dallo stesso Adriano, a Marco Aurelio. Da uno o più stipendi largiti in Roma a determinate persone, i due principali centri di cultura dell’impero possono ora vantare cattedre d’istituzione imperiale o municipale, insegnanti di retorica, di filosofia, di giurisprudenza, forse di grammatica. Abbiamo, in Atene e in Roma, tutta una serie ufficiale di cattedre, anzi, in [164] Atene, una vera e propria facoltà filosofica, e nell’una, se non nell’altra città, un apposito istituto per il libero insegnamento, superiore o medio-superiore. Possiamo con questo dire di trovarci dinnanzi al fatto compiuto di una statizzazione dell’istruzione pubblica? Nulla di più errato di tale affermazione. Dall’insegnamento ufficiale sfuggono interamente e l’insegnamento medio inferiore e il primario. Lo stesso insegnamento superiore e il medio-superiore contano un numero esiguo di cattedre ufficiali, rispetto all’abbondanza degl’insegnanti e delle cattedre private[402]. Mentre oggi, nel nostro paese, le Università libere e le così dette Università popolari rappresentano l’eccezione, queste, nell’età di Marco Aurelio, sono ancora la regola. Solo l’imperatore, scegliendo dalla grande folla, ha assegnato dei docenti di più scrupolosa elezione e godenti la sua fiducia, a una serie di cattedre, le quali recavano seco la stabilità, che proveniva dalla loro natura e dalla loro origine.

Ma, a rigore di termini, non si può neanche, per ora, parlare di Università, e neanche, forse, di vere Facoltà universitarie. Cotali nostri istituti presuppongono necessariamente un piano didattico e amministrativo, che presieda al loro funzionamento, un insegnamento integrale ed organico, un vincolo collegiale. Nulla di tutto questo troviamo, almeno per adesso, in Atene od in Roma. Ci sono cattedre, ci sono insegnanti; manca la scuola; o, se scuola c’è, la determina la tradizionale, non l’ordinamento imperiale. Nessun rapporto lega fra loro i maestri, nessun obbligo gli scolari. La scuola [165] pubblica, in quanto organicamente costituita, non esiste, e la sua impronta ufficiale si farà attendere ancora per oltre un secolo.

XV.

Questo per l’insegnamento superiore e medio superiore. Meno liete rimanevano ancora le condizioni dell’insegnamento primario. Ma, se l’impero non vi imprime ora, come non vi imprimerà mai, alcun suggello ufficiale, se anzi avrà quasi cura di tenerlo lontano da ogni contatto di ufficialità, gli Antonini proseguono a favorirlo indirettamente, calcando le tracce dei due immediati predecessori in quella parte della loro amministrazione, che riguardò le fondazioni alimentari.

Sotto Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio, quest’istituto riceve un assai notevole incremento.[403] Si fondano speciali corporazioni di fanciulli beneficati,[404] se ne avvantaggiano numerosi municipii italici, se ne regola con maggiore studio il funzionamento e si creano all’uopo speciali magistrati[405].

Troviamo così fondazioni alimentari in Liguria, in Lombardia, nel Veneto, nel Piceno, nell’Umbria, nel Lazio, nei Bruzii, in Lucania, in Apulia, nel Sannio, in Campania e altrove. Adriano assegna l’ufficio di praefectus alimentorum ai curatores viarum Italiae, dando [166] così a vedere che di pueri alimentarii ve n’era per tutte le regioni della penisola. Marco Aurelio nomina dei praefecti alimentorum di rango consolare e dei procuratores ad alimenta, risedenti in Roma, creando così un’amministrazione centrale per quel ramo[406], mentre, sin dal suo regno, altri procuratores appaiono come funzionari subordinati e coadiutori dei prefetti distrettuali[407]. L’esempio, che veniva così copioso e così efficace dall’alto, è ora più che mai fecondo di benefiche conseguenze. Di quest’età noi abbiamo tracce di vistose fondazioni private in Grecia[408] in Spagna,[409] in Africa[410]. E il buon volere riceve un grande impulso dalle nuove garanzie e dalle nuove disposizioni, relative all’amministrazione dei municipii, che tendono altresì a salvaguardarne gli interessi e ad assicurare loro i beneficii dei doni e dei lasciti per istituzioni alimentari fatti da ricchi cittadini.[411]

Ma quanto grande sia la importanza e il peso di cotali norme legislative, nei rispetti dell’istruzione primaria, lo prova ancor più il fatto che i lasciti dei ricchi privati, non soltanto andavano a favorirne la diffusione, indirettamente, per mezzo delle istituzioni alimentari, ma più volte vi concorrevano direttamente col mantenimento di scuole municipali primarie e secondarie. Talora essi sono indirizzati, come [167] è detto, a vantaggio della istruzione dei fanciulli (eruditione puerorum)[412]. Ed anche questi lasciti, con siffatta speciale destinazione, ricevono fin d’ora, e solo da questo momento, il beneficio della sicurezza e della tutela dello Stato.

XVI.

In questo periodo, in cui così forti sono gli scambi spirituali col mondo greco, in cui noi vediamo, in assai maggior misura che nei secoli trascorsi, trapiantati in Roma metodi e istituti di istruzione ellenica, in questa, che è l’età di Adriano e di Marco Aurelio, noi non possiamo non aspettarci — quello che realmente si ebbe — un più vigoroso incremento dell’istruzione musicale. Il II. secolo di C. è veramente l’età più gloriosa della musica romana. Le compagnie liriche e drammatiche — i così detti sinodi dionisiaci — raggiungono ora il culmine della gloria e della considerazione universale. Le epigrafi esibiscono, in questa età la maggior copia di agoni, di giuochi e di premii. I concorsi Pitici ed Olimpici divengono universali; ogni città di mediocre importanza ha i suoi; ne sorgono di nuovi, si fregiano dei nomi degli imperatori o dei loro favoriti: Traiani, Adriani, Antinoi. La mania universale invade anche i privati, che dispensano alle città grandi somme per giuochi in proprio onore.[413] Si dispiega alla luce della [168] storia tutta una ricca, inaudita fioritura di studii musicali, e questi sono gli anni, che tramandano la maggiore, e la miglior parte dei trattati teorici di musica dell’evo antico[414].

Ma dal giorno, in cui gli autori lirici, o drammatici, avevano cessato di essere anche autori della musica, che accompagnava le loro opere, lo sviluppo di quest’arte, ormai indipendente da ogni altra, era stato rapidissimo.[415] Era quindi divenuto urgente e difficile il problema di un’istruzione musicale, che valesse a creare dei virtuosi, che avrebbero poi dato prova di sè, avanti al gran pubblico, ed in ampie rappresentazioni.

A risolverlo, avevano, fin dall’età alessandrina, cercato di provvedere i su riferiti sinodi dionisiaci, divenendo ogni giorno più scuole pratiche, sia pure ametodiche, di musica e di recitazione[416]. Uno dei più famosi fu allora quello numerosissimo di Teo, che, ai primi dell’età imperiale romana, trasporterà la sua sede in Lebedo[417]. E non senza rapporti fra loro debbono essere state la presenza del sinodo in quel paese e l’accurata istruzione musicale, che troviamo impartita ai fanciulli ed agli efebi del luogo. Noi conosciamo ciò che oggi si direbbe il programma di questa educazione. Si insegnava ai fanciulli e ai giovani a suonare gli istrumenti musicali, salvo (strana eccezione!) gli istrumenti ad aria; si insegnava il canto, la composizione musicale e l’arte della recitazione. [169] E, insieme con questo, si impartivano loro nozioni di coltura generale, di letteratura, di pittura etc.[418].

Questo di Teo non restò l’unico sodalizio del genere[419]. Or bene, gl’imperatori cosidetti senatorii, che furono grandi fautori e suscitatori di celebri compagnie drammatiche,[420] erano implicitamente, e necessariamente, portati a essere promotori, e protettori, delle scuole professionali di musica, che in quelli si venivano, o si erano venute, nel progresso dei tempi, formando.

Ma il culto della persona degli Augusti, che in questo periodo si diffonde per tutto l’impero e che così largamente è provocato dall’azione individuale degli imperatori, suscita al tempo stesso una vasta fioritura di speciali collegi di artisti lirici, che, più naturalmente e direttamente dei sinodi dionisiaci, ricordano le antiche corporazioni degli aedi vaganti, e d’insegnamenti musicali prodigati a giovani ed a fanciulli. Ne abbiamo in Asia minore, a Smirne, a Pergamo, ad Efeso, in Tracia, in Roma,[421] con appositi maestri di musica, di canto, di danza, cose tutte che dovevano certamente a loro volta sollecitare un incremento grande della istruzione musicale, [170] diretta a scopi meramente professionali. E non si può quindi fare a meno di pensare che la larga messe dei teorici studi di musica di questo e del secolo successivo fiorisse da un terreno regolarmente apparecchiato, nella cui preparazione l’opera e la politica degli imperatori avevano avuto non piccola parte.

XVII.

Ma della istruzione musicale, promossa, non già per iscopi professionali, sibbene quale elemento necessario di cultura generale, segno preciso è ora la rigogliosa fioritura dei collegia iuvenum, che, fin da Traiano dopo aver popolato tutta l’Italia, penetrano anche nella vicina Gallia,[422] e il cui sviluppo, per quanto possa magari ritenersi di autonoma origine municipale, pure non avrebbe mai raggiunto tanto rigoglio senza il favore del governo.

Parecchi monumenti artistici e numismatici del tempo[423] ci mettono sott’occhio iuvenes e ludi iuveniles; Antonino Pio inaugura dei periodici ludi decennales,[424] e tutto l’ingranaggio dinastico degli Antonini richiama l’ordinamento Augusteo della gioventù equestre nei suoi rapporti con la famiglia imperiale[425].

[171]

Ma questa età, così feconda in provvedimenti, che, direttamente o indirettamente, influirono sui vari rami dell’istruzione pubblica, vide compiersi un che di più nuovo, di più significativo e di più singolare. Fu dessa l’età, in cui, nella nuova estrema rinascenza dell’arte antica, trovò posto, fra gl’ingranaggi dell’amministrazione imperiale, qualcosa che oggi corrisponderebbe a una sovrintendenza generale delle belle arti.

La cura delle opera pubblica, si era, fino a questo tempo, tradotta in un insieme di funzioni indistinte, sia che riguardassero costruzioni e lavori pubblici, non escluse le aedes sacrae, sia che riguardassero antichità e belle arti. Ora essa comincia per la prima volta a differenziarsi nei suoi varii elementi. Due epigrafi del regno di Antonino Pio parlano esplicitamente, l’una, di un procurator Augusti a pinacothecis[426], l’altra, di un procurator moniment[or]um terra (?) imaginum[427]. I due procuratori avevano alle loro dipendenze un personale subalterno, degli adiutores destinati a coadiuvarli nell’ufficio,[428] forse anche appositi operai e laboratori per la costruzione, la riattazione, la riproduzione delle opere d’arte poste sotto la loro sorveglianza[429]. Su che cosa invero il procurator a pinacothecis e il procurator monimentorum terra imaginum dovessero esercitare il loro [172] ufficio, a me par chiaro. Per certo, sulle opere architettoniche, le statue, le pitture, collocate nei palazzi imperiali od esposte in luoghi pubblici, al cui riguardo quelli dovevano avere buona parte delle attribuzioni, che ora, presso di noi, possiede, ad esempio, la direzione generale delle belle arti. Essi venivano così, come dicemmo, a gerire la sovrintendenza generale delle pubbliche gallerie, dei musei, delle opere di plastica o di pittura, contenute nei templi ed altrove, dei monumenti artistici, in una parola, della capitale del mondo; e, probabilissimamente, non solo in quello che riguardava la loro custodia, la loro collocazione, o la relativa conservazione, ma eziandio in tutto ciò che riguardava la ricerca, l’acquisto, la riproduzione delle opere d’arte.

Ma le sollecitudini di Antonino Pio non si limitarono alla capitale dell’impero. In quella copia di disposizioni, che l’imperatore emise per concorrere all’incremento della vita municipale, noi ne troviamo talune, che riguardano precisamente le opere d’arte in Italia e nelle provincie. Gli abitanti dei municipii solevano spesso legare o donare per fidecommisso dei fondi destinati a lavori d’arte (statuas vel imagines ponendas). Ebbene, Antonino Pio stabilisce delle norme assai severe, perchè il malvolere degli eredi non venga a defraudarne le città: «Se il testatore non ha fissato il giorno per la consegna delle statue e delle imagines lasciate in eredità, il governatore della provincia ne fisserà uno, e, se gli eredi non soddisferanno al loro obbligo, pagheranno, per i primi sei mesi, un interesse inferiore al 6%. Se invece il testatore ha fissato il giorno della consegna, gli eredi dovranno soddisfare puntualmente al loro obbligo, e, se essi pretendono [173] di non trovare le statue, o fanno difficoltà per il loro collocamento, dovranno pagare subito gli interessi del 6%»[430].

Spesso i privati s’impegnavano di concorrere, a profitto dello Stato o di una città, alla manutenzione e all’abbellimento di opere esistenti. Antonino Pio prescrive: «Se una città ha monumenti artistici in copia, ma denaro non sufficiente alla loro manutenzione, i fondi lasciati in eredità per opere nuove debbono impiegarsi alla manutenzione di quelle esistenti»[431].

Così la sorveglianza imperiale sulle opere d’arte si estende, da Roma, all’Italia; dall’Italia, alle provincie, e si costituisce la prima molecola di organismi, che tanto maggiore sviluppo assumeranno negli Stati più civili del mondo moderno. Così, ancora una volta, i nostri migliori istituti, in fatto di pubblica istruzione, tornano a collegarsi alla politica degli ottimi fra gli imperatori romani del I. e del II. secolo.

Da questa stessa età, e precisamente del governo di Antonino Pio, ha origine anche una complicazione nel servizio delle biblioteche.

Fin ora, a capo di queste, noi conoscevamo solo il procurator bibliothecarum, o procurator Augusti a bibliothecis, funzionario della seconda o della terza classe dei procuratori[432]. Adesso cominciamo a conoscere anche un procurator bibliothecarum sexagenarius[433], funzionario di quarta classe, stipendiato cioè con soli 60,000 [174] sesterzi (L. 15,000) annui, ch’è un impiegato inferiore[434], probabilmente addetto soltanto alla parte amministrativa dei singoli istituti[435].

Possiamo ora giudicare tutto il valore dell’opera degli Augusti, che tennero l’impero da Nerva a Marco Aurelio, in fatto d’istruzione pubblica. Esso può dirsi semplicemente inestimabile. Se l’impero romano non avesse avuto quei principi, le successive vicende politiche avrebbero ritardato di oltre un secolo quelle forme, che l’istruzione pubblica andò con loro assumendo. Ma essi non si limitarono a creare gli organi materialmente adatti; essi posero eziandio le condizioni necessarie per il lavoro dell’intelligenza; essi, con le loro opere e le loro iniziative, diffusero dappertutto l’amore della cultura e la cultura stessa. «L’impero è tutto pieno di scuole e di discenti», esclamano insieme il retore greco Aristide e il poeta romano Giovenale[436]. La letteratura, la filosofia, la scienza, cessano di essere proprietà riservate di cenacoli e di spiriti colti, e divengono popolari. La coltura non è la più profonda, ma è la più universale; l’attività dello spirito, non la più ferace, ma la più diffusa; la scienza, non la più pura, ma la più popolare[437]. Assai di rado, [175] nella storia del mondo, ricorse l’esistenza di una società così appassionata di tutte le manifestazioni dell’intelligenza. Questo per certo non si deve esclusivamente all’opera del governo; ma ben di rado un governo interpretò, con altrettanta fedeltà, le condizioni del secolo che passava, e tutti i mezzi, di cui disponeva, tutte le condizioni favorevoli offerse alla soddisfazione dei vari bisogni intellettuali, o quei bisogni suscitò dove e quando essi sonnecchiavano latenti o inconsapevoli.

[177]

CAPITOLO IV. Lo Stato e l’istruzione pubblica da Commodo all’abdicazione di Diocleziano.
(180-305)

I. La cultura e l’istruzione pubblica in questo periodo. — II. Il nuovo carattere militare dei collegia iuvenum sotto i Severi. — III. La nuova legislazione a tutela dei maestri e degli studenti. Il governo centrale e l’istruzione pubblica nei comuni. — IV. Le nuove istituzioni scolastiche di Alessandro Severo. — V. La decadenza delle istituzioni alimentari nel III. secolo. La politica del governo e l’istruzione pubblica da Alessandro Severo a Diocleziano. La imposta municipalizzazione delle scuole di Antiochia. — VI. Diocleziano e l’insegnamento del diritto. L’editto de pretiis rerum venalium e gli onorari degli insegnanti. — VII. La soppressione delle cattedre di astrologia. La distruzione delle biblioteche cristiane. — VIII. Costanzo Cloro e l’istruzione pubblica nelle Gallie. Le Gallie nel III. e nel IV. secolo. La nomina del retore Eumenio in Augustodunum.

I.

Fu veramente il III. secolo, come suole di consueto giudicarsi, un periodo di regresso per la coltura nelle varie provincie dell’impero?

Per chi guardi senza preconcetti la storia della civiltà [178] dei popoli, che componevano l’impero romano, codesta domanda deve avere una risposta negativa. Con la serie degli imperatori senatorii, non muore la virtù spirituale del mondo romano; muore soltanto una sua fase contingente, quella della cultura esclusivamente greco-romana. D’ora innanzi le varie provincie assumono coscienza del proprio genio civile, e questo s’impone, e riesce a farsi valere, nella vita ufficiale dello Stato. Antiche forme di pensiero e di espressione, con cui usavamo identificare la civiltà romana si esauriscono; se ne disegnano altre, nuove, inattese, cui sarà riserbata la conquista dell’avvenire.[438] E tutto ciò si opera, non solo a dispetto delle contingenze politiche del secolo, ma in parte con il loro ausilio. L’avvento al trono delle nuove dinastie di principi africani ed orientali può ben contrariare la lunga serie dei laudatores temporis acti, ma queste hanno, nella storia della civiltà dell’impero romano, anzi nella storia della civiltà umana, un peso e un merito non minore di quelle dei principi, che le avevano preceduto.

Ed invero, limitandoci, come è nostro compito, ai rapporti del governo con l’istruzione pubblica, dobbiamo notare anzitutto che nessuno degli elementi di progresso, tramandatici dal passato, viene ora meno o cade in dimenticanza.

L’insegnamento pubblico in Roma e in Atene permane, sì che Dione Cassio, discorrendone verso il 229, non ha bisogno (come sarebbe certamente avvenuto nel caso contrario) di deplorarne la fine o la decadenza; [179] anzi esso riscuote sollecitudini non minori del passato, e noi conosciamo dei sofisti, che sono al tempo stesso docenti imperiali nell’una o nell’altra città, e possiamo anzi rilevare, la diretta, talora eccessiva e personale, ingerenza dei principi nel fatto della loro scelta[439]. La protezione, gli onori e le agevolezze ai pubblici e privati insegnanti, di cui, fra l’altro, sono segno le così dette immunità, vengono prodigati con larghezza pari a quella degli anni trascorsi,[440] e, come altrove accennammo, noi conosciamo una delle fondamentali leggi di Adriano in proposito, solo in grazia di una costituzione di Commodo, che la riproduce[441]. L’impulso, dato dagl’imperatori del II. secolo alla coltura musicale, prosegue con l’antico vigore. Caracalla tiene a continuare il mecenatismo degli Antonini verso le compagnie drammatiche[442]; Commodo istituisce nuovi concorsi musicali,[443] e i privati gareggiano nell’assecondare le iniziative, che vengono dall’alto[444]. La coltura giuridica acquista ancora nuovo incremento, dopo la nuova riforma, che, fin da Commodo, si opera del concilium principis, i cui membri della sezione permanente si trasformano in funzionarii stipendiati,[445] e dopo la instaurazione, da parte di Diocleziano, di nuovi vasti congegni burocratici. Commodo stesso[446] [180] e Gordiano I. — quest’ultimo anche innanzi la sua assunzione all’impero[447] — rinnovano i iuvenalia di Nerone e di Domiziano, il che equivale a proseguire, intensificandola, quella forma di educazione e di istruzione della gioventù, per cui i primi imperatori romani vanno benemeriti. L’amore e la consuetudine della educazione fisica si diffondono nelle province, che più n’erano rimaste estranee, e i privati vi prodigano tutto il favore, che da loro poteva attendersi[448]. Persino la filosofia continua a ritrovare, sul trono, dei Mecenati. Plotino vanterà, fra le sue più illustri amicizie, quella dell’imperatore Gallieno, che, se non fosse stata l’avversione di qualche cortigiano, avrebbero dato vita all’eterno sogno platonico di una città di filosofi, da edificare in Campania, ove maestri e discepoli avrebbero potuto vivere insieme, e dove ad altre leggi non si sarebbe obbedito fuor che a quelle emanate dal Divino Maestro ateniese[449].

Talora, a tratti, tanta prosecuzione di iniziative è interrotta dalla stranezza di qualcuno dei bizzarri imperatori, di cui il secolo III. di Cristo non andò privo. Così Caracalla, un giorno, per un suo fatto personale con gli alessandrini, e in modo speciale con gli aristotelici, brucia i libri di Aristotele e sopprime a quei filosofi tutti i beneficii del Museo di Alessandria, di cui essi godevano[450]. [181] Così egli stesso, un altro giorno, ferito dalla incapacità oratoria di un retore ateniese, priva senz’altro, delle immunità da lustri godute, lui e tutti i retori dell’impero[451]. Ma come tale divieto veniva, dal suo stesso autore, poco dopo, revocato, così questo ed altri atti consimili rimangono opera personale — tosto cancellata — di singoli imperatori. La politica generale dei principi del III. secolo, nei rispetti dell’istruzione pubblica, è invece tutta sulla grande via maestra dei loro predecessori immediati, la cui opera, spesso, o rimaneggiano secondo vedute proprie, o completano e perfezionano con istituti, che sono nuove creazioni.

Gli imperatori, sotto i cui nomi possiamo riassumerla sono tre, due della dinastia dei Severi, Settimio ed Alessandro, e il vero fondatore della monarchia assoluta nell’impero romano, Diocleziano, così come la loro attività può compendiarsi:

1. nei nuovi ritocchi all’indirizzo dei collegia iuvenum e, quindi, della educazione giovanile;

2. nella varia opera legislativa a tutela dei docenti;

3. nell’istituzione di nuove cattedre e nella largizione di nuovi ausilii all’istruzione pubblica.

II.

Cominciamo dall’illustrare il primo punto.

Sotto i Severi, l’educazione fisica dei giovani e la natura dei collegia iuvenum subiscono un ricorso verso l’originario indirizzo augusteo, o, piuttosto, una intensificazione [182] della parte propriamente militare dei loro vari caratteri, riforma questa, che era invocata a gran voce dalle nuove sorti dell’impero e dalla politica della casa regnante. I giuochi militari, che Settimio Severo dava nella ricorrenza del natalizio di Geta,[452] non possono certamente, come talora è stato creduto, considerarsi quale segno del nuovo allenamento militare della gioventù. Essi non riguardavano la gioventù romana, ma soltanto i soldati. Se non che quella singolare celebrazione natalizia fa presupporre tutta una serie nuova di consuetudini di governo e fa pensare a nuove istituzioni, tendenti a identico scopo, o alla trasformazione in questo senso di antichi istituti. Infatti, l’altro figlio di Severo, Caracalla, aveva, come pochi principi ereditari, ricevuto una perfetta istruzione ginnico-militare[453]. E, poichè, nella qualità di erede al trono, i rapporti suoi con l’aristocrazia equestre romana sono, come sempre, durante i primi tre secoli dell’impero, intimissimi; e poichè egli, come, del resto, anche l’infelice fratello suo, fu princeps iuventutis[454], la gioventù equestre romana non potè esimersi dal seguirne le tendenze e i metodi di educazione.

Ma, se questo accadeva in Roma, un più chiaro indizio della riforma accennata dànno i collegi giovanili provinciali. Essi, in questo tempo, si tramutano in vere [183] e proprie milizie del territorio[455], entrano a far parte degli eserciti locali in piede di guerra, e di essi pigliano tutti i costumi e tutti i caratteri.

III.

Ma la prima metà del III. secolo, da Settimio ad Alessandro Severo, è tanto ricca di operosità militare, come di operosità giuridica. Da questo tempo provengono gli scritti degli autori più famosi, che fornirono materia al Digesto giustinianeo, Ulpiano, Paolo, Modestino, i quali tutti avevano occupato a corte uffici notevoli. In questo periodo, quindi, noi abbiamo una più completa elaborazione delle norme precedenti, relative alle immunità, e l’emanazione di norme nuove su questa materia e su altre affini, concernenti gli insegnanti e l’insegnamento nell’impero romano.

Secondo infatti c’informa il giureconsulto Modestino, nella prima metà del III. secolo, la serie delle immunità, concesse dai Giulio-Claudii, e le limitazioni numeriche, fissate da Antonino Pio, che sono ancora pienamente in vigore,[456] vengono, dal governo dei Severi, integrate con ulteriori disposizioni, che saranno più tardi ribadite da Diocleziano e dal suo collega. Viene così stabilito che non si poteva godere della immunità nei [184] varii municipii, se non dietro decreto del Senato, il quale anche (e questo criterio morale è veramente nuovo) avrebbe indagato se il docente adempieva o no con diligenza al proprio ufficio[457].

Ma l’importanza di questo ritocco è certamente inferiore a quella di qualche altra disposizione, che troviamo in vigore sin da questo tempo. I retori, che professano in Roma l’insegnamento, sia stipendiati pubblicamente, sia liberi professionisti, sono, da Settimio Severo e da Caracalla, esentati da ogni onere, anche se non romani; Roma anzi non soggiace più alle limitazioni numeriche fissate dal primo degli Antonini[458]. Era questa una vera e propria eccezione alle norme di Antonino Pio, che legavano strettamente l’utile dell’immunità al corrispettivo servizio, che il retore forniva alla propria patria, ed un notevole ampliamento della eccezione ai dotti più cospicui, che Antonino stesso aveva formulata. La ragione pratica della cosa deve ricercarsi in una liberalità speciale, che l’imperatore intendeva largire ai suoi sudditi nella capitale del mondo, ove tanti retori si affollavano, ove si poteva non guardare per il sottile alle necessità dell’erario, ove i postulanti avevano più diretta possibilità di sollecitare l’imperatore. La ragione teorica è indicata da Modestino stesso: Roma è la patria comune dei sudditi dell’impero, e chi vi fornisce degli utili acquista diritti pari a chi li rende alla patria propria.[459]

Analogamente, chi insegna in Roma diritto civile, è [185] ora esente da ogni onere, mentre non lo è invece chi insegna in provincia[460]; la quale disposizione, oltre a riuscire di giovamento ai giureconsulti, doveva più specialmente tendere a richiamare in Roma i migliori maestri di diritto dell’impero e a mettervi l’insegnamento della giurisprudenza in una condizione assoluta di favore.

Viceversa, ora, per la prima volta, vengono apportate delle limitazioni alla sconfinata immunità serbata ai filosofi, al confronto dei medici e dei professori di arti liberali. Nel III. secolo, infatti, i filosofi sono dichiarati immuni dal carico delle tutele e da ogni onere personale, ma non più dagli oneri, che avrebbero gravato sulle loro sostanze. «Infatti», spiega, o ripete, un giureconsulto di questa età, «i veri filosofi disprezzano il danaro, e, qualora mostrassero di tenervi, dimostrerebbero eziandio che le loro affermazioni teoriche non sono che vuota ipocrisia»[461].

Le immunità ai maestri vengono ora estese — fatto assai significativo — anche agli studenti, e, nell’età dei Severi, sono privilegiati gli studenti, venuti in Roma a frequentarvi i corsi di giurisprudenza,[462] il che ribadisce l’interpretazione, che testè demmo delle ragioni dell’analoga liberalità ai loro maestri.

Insieme con tutto questo è, ai maestri, riconosciuto diritto a ricorso contro i compensi mancati, che a loro si dovessero per prestazione di opera; anzi codesto diritto a ricorrere è formulato come un privilegio ammesso soltanto per talune categorie di maestri e per pochi [186] altri professionisti. Autorità competente all’uopo è fatto il governatore della provincia[463]. I maestri, che possono esperirne il tribunale, sono quelli delle arti liberali: i retori, i grammatici, i matematici (geometrae) e con essi i medici. Ne sono invece esclusi gli insegnanti di filosofia e quelli di diritto; gli uni, perchè il primo merito della loro opera è — si dice — l’esercizio gratuito; gli altri, perchè — si soggiunge — la controversia e i calcoli di un pubblico giudizio ne degraderebbero il ministero.[464] Agli insegnanti primarii poi, sebbene — si osserva — non professori, pure, in ossequio alla consuetudine, è fatta ugualmente grazia del diritto di ricorso, per mancato compenso, al governatore della provincia. E analoga concessione si ripete per due categorie di maestri, il cui insegnamento aveva uno scopo specialmente professionale, i maestri di calligrafia (librarii) e quelli di stenografia (notarii)[465].

Con questa serie di norme, che completano e regolano la materia delle immunità e quello che oggi si direbbe il contratto di impiego o di lavoro dei maestri, altre, pure di questo periodo, segnano le prime tracce di una diretta ingerenza del governo nel funzionamento delle scuole municipali.

Anzi tutto, nel nuovo sistema di intervento dell’autorità imperiale per entro l’amministrazione finanziaria dei comuni, che datava dai primi anni del II. secolo, era stato stabilito, come norma generale, che i loro Consigli non potessero disporre a piacimento delle pubbliche [187] finanze. Or bene, adesso, è, a questo, fatta una esplicita e nobile eccezione, ed essa riguarda gli stipendi dei maestri e le cattedre delle discipline liberali[466]. In secondo, un rescritto di uno dei tre Gordiani informa che i consigli municipali, che avevano nominato i maestri del luogo, grammatici o retorici, sono, in caso di legittimi motivi, investiti anche della facoltà di sospenderli o, semplicemente, di revocarli dall’ufficio[467]. Per ultimo, al pari dei privati, i comuni, che non corrispondono ai maestri gli stipendi dovuti, sono giudiziariamente tenuti a rispondere del loro fallo dinnanzi al governatore provinciale[468]. Più tardi, vedremo che il governo centrale, per mezzo dell’autorità provinciale, si curerà di richiamare in anticipazione al proprio dovere i municipi cronicamente insolventi[469], ma ora — gli è evidente — abbiamo un primo accenno verso cotesto metodo, che, se non previene, mira certamente a reprimere, quando fosse occorso, la loro noncuranza o il loro mal volere.

IV.

Ma gli atti più notevoli del governo dei Severi, nei rispetti della pubblica istruzione, riguardano la parte propriamente scolastica di questa materia. Il merito è tutto del più greco di quegli imperatori, Alessandro Severo. I suoi biografi, con l’iperbole che è loro consueta, [188] ma a cui pure risponde una grande parte di verità, ce lo descrivono come un nuovo Adriano: latinista e grecista anche lui, prosatore e poeta, provetto nella musica e nel canto, pittore, matematico, dotto in astrologia e in aruspicina[470]. E da tanta pienezza di cultura, che lasciava anche supporre un pari apprezzamento del merito di questa, derivò, in assai maggior copia che in Adriano, l’ispirazione a curare la scuola e le condizioni pratiche della sua efficacia. Le cattedre di fondazione imperiale erano finora, in Roma, limitate alla retorica, e, sull’analogia di Atene, possiamo supporre, ve ne fossero anche di filosofia. Ora, Alessandro ne istituisce altre di grammatica, di medicina, di aruspicina, di astrologia, di ingegneria e di architettura[471]. Queste ultime discipline non facevano parte delle arti liberali, e questa sola infrazione alla tradizionale politica scolastica romana, come è segno dei tempi nuovi, è anche indice della importanza della riforma di Alessandro Severo. Specie per ciò che riguarda l’aruspicina e l’astrologia. Gli astrologi erano stati fin allora tanto ansiosamente ricercati in segreto, quanto ufficialmente perseguitati[472]. Contro di loro, la giurisprudenza aveva foggiato apposite disposizioni punitive[473], e fin nell’età [189] più recente, Settimio Severo, che pure di quelle scienze era stato un caldo amatore e un profondo conoscitore[474], aveva sigillato nella tomba di Alessandro Magno tutti i libri di astrologia del suo tempo, e aveva avuto mano in quelle sanzioni penali a carico degli studiosi di aruspicina e di astrologia, di cui un suo illustre prefetto del pretorio ci ha lasciato menzione[475].

Alessandro Severo si dimostra invece di opinione affatto contraria, ed egli innalza quelle due discipline alla dignità di scienza e agli onori dell’insegnamento. Agirono in lui due diversi moventi: la sua coltura intellettuale, non che lo spirito del secolo, tutto dedito a questioni trascendenti la materia; ma dovette ugualmente influirvi la preoccupazione di avere un’aruspicina e un’astrologia controllate e disciplinate dallo Stato e di potere riserbare a questo il monopolio di tutti i loro pericolosi segreti[476]. Gli aruspici, gli astrologi e le rispettive scienze costituivano una perenne minaccia, politica e dinastica, un eccitamento a sedizioni e a congiure[477]. Come sarebbe stato opportuno creare un’aruspicina e un’astrologia ufficiale, con cattedre e docenti propri agli stipendi e alla dipendenza del principe! Era stato il sogno segreto, dormiente in fondo alla contradittoria politica astrologica degli imperatori. E questo, insieme con la grande voga di quelle discipline, e con la grande richiesta di quella speciale coltura, di che era prova vivente la persona del principe, [190] sospinse, nel III. secolo di C., il governo romano alla sua rivoluzionaria innovazione.

Non meno significativa è la istituzione di scuole di Stato per la medicina e per l’architettura.

Fino a quel giorno, l’esercizio dell’una e dell’altra disciplina era stata prerogativa degli stranieri, e, precisamente, dei Greci e degli Orientali[478]. In questo momento, invece, lo Stato fonda apposite scuole, cui convengono insieme schiavi, liberti, clienti, liberi di ogni paese, ma, naturalmente, in modo speciale, di Roma e d’Italia.

Tutta la riforma poi è d’ispirazione greca. Alessandria era uno dei centri di studii di medicina e di matematica più famosi dell’antichità, e lo Stato ne favoriva e sovvenzionava le scuole; Atene aveva cattedre semiufficiali di medicina, di astronomia e di astrologia; Efeso aveva medici stipendiati da un Museo cittadino, e tutte in genere le numerose scuole di medicina, esistenti nelle province orientali, facevano parte di più larghi istituti di cultura, mantenuti dai Comuni o dallo Stato[479]. Onde è evidente come siano stati questi i paesi, da cui Alessandro Severo, il più ellenizzante dei principi romani, abbia tratto l’esempio ed i suoi modelli.

Alessandro però non dovette porre gli insegnamenti, per cui istituiva nuove cattedre, alla pari con gli altri, [191] più antichi, delle tradizionali arti liberali romani. E di tale distinzione si trova, a mio avviso, conferma nella erezione in Roma di nuovi locali scolastici[480]. Noi conoscevamo soltanto l’Athenaeum, sede dell’insegnamento della retorica, del diritto, della filosofia; adesso invece si erigono nuovi auditoria, e questi, naturalmente, sono la sede delle scuole, nelle quali cominciano a impartirsi le nuove discipline.

Ma la più importante tra le riforme scolastiche di Alessandro Severo fu quella, tutta pervasa di spirito moderno, che riguardò la fondazione di un certo numero di borse di studio, da corrispondere in natura (annonae) ai discepoli poveri di qualsiasi disciplina, purchè di nascita libera[481]: innovazione, la quale veniva a favorire il diffondersi della coltura media e superiore (cui si concedeva per ciò un beneficio, fin allora riservato alla istruzione primaria) e che era segno preciso della grande importanza, che il suo possesso aveva per le menti dei contemporanei, nonchè del grande interessamento del principe a suo riguardo.

V.

Uno solo dei mezzi, con cui gli imperatori del II. secolo avevano promosso le sorti della pubblica istruzione, rimase talora gravemente negletto dai principi, che loro immediatamente succedettero nell’età, di cui, in questo capitolo, ci occupiamo. Intendo accennare alle fondazioni alimentari. Commodo infatti trascurò per ben nove [192] anni di destinarvi la rendita che vi spettava, e il successore, ritenendo impossibile, od oneroso, mettersi in pari, interruppe senz’altro quella liberalità[482]. L’istituto viene ristabilito, e con generosa larghezza, da Didio Giuliano[483]. Ma, ecco, subito dopo, Settimio Severo e Caracalla sottoporre i lasciti privati per istituzioni alimentari al diffalco della legittima agli eredi[484], e le iscrizioni continuare, ancor sotto Eliogabalo, a menzionare rarissimamente funzionarii con uffici connessi all’istituto degli alimenta. Solo con Alessandro Severo, questi ripigliano l’antico vigore. Vengono fondati nuovi ordini di puellae e di pueri alimentarii;[485] vengono richiamate in vigore le migliori disposizioni dell’età di Adriano e dei primi Antonini,[486] e le epigrafi tornano, come per incanto, a ripopolarsi di accenni relativi a quel genere di fondazioni[487].

Ma la morte di Alessandro Severo segna, come è noto, un ritorno all’anarchia politico-militare, che aveva caratterizzato i trent’anni immediatamente precedenti al governo dei Severi. All’anarchia interna si aggiungono anzi le pericolose aggressioni barbariche. Tale crisi si prolunga sino all’ultimo quarto del secolo III., sino all’avvento di Diocleziano. Fino a quel giorno, l’attività politica dell’impero non può, salvo rari momenti, che rivolgersi ad imprese di guerra, e le opere della pace e [193] l’istruzione pubblica esulano dalle preoccupazioni dei governi, successivamente e rapidissimamente alternantisi.

Noi non abbiamo nessun elemento per pensare all’abbandono o alla soppressione di qualcuno degli istituti e delle riforme scolastiche dei due ultimi secoli; ma abbiamo motivo di sospettare che gravi danni derivassero indirettamente dal nuovo stato di cose[488], e che poco di nuovo, o di utile, la politica dei nuovi imperatori abbia aggiunto all’edifizio del passato.

E di questi sparsi frammenti dell’opera loro, che richiamano in modo speciale alle glorie passate, noi dobbiamo segnalarne uno, che, quantunque isolato, è di importanza veramente eccezionale. Noi troviamo registrato da un cronista bizantino come l’imperatore Probo, il quale regnò tra il 276 e il 282, ordinasse, con un editto imperiale, le già fiorenti scuole di Antiochia.

Questa città era allora uno dei principali centri di studio dell’Oriente ellenizzato, e contava numerosi docenti di lingua e letteratura greca, di eloquenza, di filosofia e di diritto[489]. Ma tali scuole non erano mantenute dalla città, e le condizioni economiche dei maestri ne erano assai tristi[490]. L’imperatore Probo volle che della spesa necessaria all’istruzione media e superiore, fin allora impartita, si incaricasse la città, e che questa fornisse degli stipendi in natura ai maestri, nonchè un’istruzione gratuita agli scolari[491]. [194] Fissò anch’egli la misura di tali stipendi, come da altri imperatori vedremo praticare fra non molto? Noi non lo sappiamo, e non è forse probabile; giacchè anche più tardi udremo le lamentele dei retori contro l’insufficienza delle condizioni economiche, il che non accadde in nessuna parte dell’impero per stipendii fissati dal governo centrale. La misura, in cui questi sarebbero stati corrisposti, dovette dunque, con maggiore probabilità, essere lasciata interamente alla coscienza degli amministratori locali. Ma l’iniziativa di Probo non ha per questo un minor valore; essa prosegue la politica, a cui, nelle pagine precedenti, abbiamo accennato, e che trovammo per la prima volta documentata in sullo scorcio della metà di questo stesso secolo, politica fatta di una sempre maggiore ingerenza dello Stato nell’amministrazione dell’istruzione pubblica spettante ai comuni, e questa consuetudine noi potremo seguire, in tutte le sue fasi, negli anni di poi.

VI.

Nuove condizioni favorevoli di vita tornano a riaversi con l’età di Diocleziano e col nuovo ordinamento, che questi volle dare all’impero.

Una delle tendenze più significative del nuovo governo è il favore accordato allo studio della giurisprudenza, l’insegnamento professionale maggiormente richiesto dall’assetto politico, che ha principio appunto con Diocleziano.

I Severi avevano esentato dagli oneri pubblici i giovani, [195] che frequentavano i corsi di diritto in Roma. Diocleziano curerà l’altro centro di studii giuridici dell’impero, la siria Berito, che solo ora vediamo venire in piena luce, e concederà che i giovani dell’Arabia, colà studenti, specie se di diritto, non ne siano distolti fino al venticinquesimo anno di età, e vengano, fino a quel tempo, esentati da ogni carico personale[492]. La quale concessione mostra quanta importanza l’imperatore assegnasse alla frequenza degli studii, da parte della gioventù, al confronto del loro obbligo verso il disimpegno dei pubblici doveri.

Ma il provvedimento più notevole, per quanto vano e fugace del governo di Diocleziano, e che — insieme con tante altre cose — riguardò anche l’istruzione pubblica, fu il suo Editto del 301, sui prezzi delle cose venali, nel quale era anche ufficialmente tassato l’onorario dei pubblici docenti[493].

Il compilatore dell’Editto distingueva le seguenti categorie di insegnanti:

1. insegnanti di ginnastica (ceromatitae);

2. pedagoghi (paedagogi);[494]

3. maestri elementari di lettura e scrittura (magistri institutores litterarum);

4. maestri elementari di aritmetica (calculatores);[495]

[196]

5. insegnanti di stenografia (notarii);

6. insegnanti di calligrafia (librarii sibe antiquarii);[496]

7. insegnanti di lingua e letteratura greca e latina (grammatici graeci sibe latini);

8. insegnanti di geometria (geometrae);

9. insegnanti di retorica (oratores sibe sophistae);

10. insegnanti di architettura (architecti magistri).

Oltre dunque a un insegnamento apposito per l’educazione fisica, e oltre al pedagogo, l’editto considerava una e, forse, due specie di maestri appartenenti alla istruzione elementare (gli institutores litterarum e i calculatores); ne considerava due per l’istruzione media (i grammatici e i geometrae); due per l’insegnamento superiore (gli oratores o sophistae e gli architecti), e due per insegnamenti speciali (i notarii e i librarii).

L’onorario di questi insegnamenti, espresso nell’editto, in denarii dioclezianei, era, tenuto conto del valore di quella moneta[497], rispettivamente, per mese e per alunno, il seguente:

1. insegnanti di ginnastica L. 1,00 ca.
2. pedagoghi » 1,00 »
3. maestri di lettura e scrittura » 1,00 »
4. maestri elementari di aritmetica » 1,50 »
5. insegnanti di stenografia » 1,50 »
6. insegnanti di calligrafia » 1,00 »
7. insegnanti di lingua e letteratura greca e latina » 4,00 »
8. insegnanti di geometria o di matematica » 4,00 »
9. insegnanti di retorica » 5,00 »
10. insegnanti di architettura » 2,00 »

[197]

Un insegnante di lingua e di letteratura latina avrebbe così, per una scolaresca di 50 alunni, percepito L. 200 mensili; un insegnante di retorica, L. 250, e così via, onorarii questi di entità media, che, confrontati con quelli dei secoli precedenti, dànno (e fu questo merito del legislatore) l’impressione di segnare cifre proporzionali al fabbisogno dei docenti.

Gl’insegnanti, considerati dall’editto, prestano un servizio in iscuole aperte al pubblico. Di questo ci avverte il fatto che a tutti, non escluso il paedagogus, era fissato un onorario mensile per discepolo, il che impone si presupponga una collettività di discepoli[498]. Se non che la tassazione non doveva valere soltanto nei rispetti delle scuole di fondazione privata, ma eziandio (o specialmente?) in quelli delle scuole municipali e delle scuole dello Stato. Tale convinzione discende dal carattere di universalità dell’editto stesso, dall’equità dello stipendio calcolato, nonchè dalla mancanza, pur fra tanta cura di dettagli, di un capitolo speciale per le retribuzioni degli insegnanti municipali e imperiali, che invece dovevano essere state le prime a fermare l’attenzione del governo. In tal caso, i pagamenti avrebbero dovuto farli, non più i privati, ma il governo o [198] gli enti municipali, e il metodo della liquidazione degli stipendi, proporzionali al numero dei discepoli, sarebbe dovuto essere molto simile a quello che oggi si adotta per le libere docenze universitarie. Ciò, evidentemente, avrebbe, alla prova, portato delle complicazioni e la necessità, fino ad allora non sentita, di una più numerosa burocrazia addetta a quel servizio. Ma l’editto, come accennammo, venne, subito dopo la sua promulgazione, abrogato,[499] onde le sue clausole rimasero senza nessuna pratica influenza sulle sorti della istruzione pubblica nei secoli successivi.

VII.

Ciò non ostante, il governo di Diocleziano palesa eziandio chiari segni di reazione contro l’indirizzo di qualcuno dei principi, che più avevano curato le vicende dell’istruzione pubblica nell’impero; nè manca di un rovescio, che ne attenua gravemente i meriti verso le sorti della cultura in quell’età e nei secoli successivi. Diocleziano e Massimiano riprendono l’antica tradizione di provvedimenti contro l’astrologia e le scienze affini. Essi vengono così a demolire buona parte dell’opera di Alessandro Severo: «È d’interesse pubblico» — suona un loro editto — «apprendere ed applicare la matematica; è al contrario condannabile ed interdetto l’apprendimento dell’astrologia»[500].

Contemporaneamente, Diocleziano faceva bruciare tutti i libri egiziani e persiani, che trattavano di alchimia, [199] non tanto forse perchè quell’insegnamento non aprisse — come fu detto — filoni di nuovi tesori ai popoli che ne usavano,[501] quanto per obbedire a un’ostile prevenzione comune al suo tempo. Ma evidentemente, così legiferando, Diocleziano e Massimiano, mentre ribadivano la necessità e la dignità delle cattedre ufficiali di matematica, sopprimevano recisamente le altre di astrologia, nonchè di aruspicina, istituite da Alessandro Severo. E tale soppressione sarà, pur troppo, definitiva.

Ma più gravi certamente furono le conseguenze di un altro provvedimento di Diocleziano, che, nella mente del suo autore, doveva tuttavia avere uno scopo meramente politico. Intendo accennare alla grande persecuzione del 303 contro i Cristiani. Uno degli articoli dell’editto, che l’ordinava, portava, questa volta, la clausola della distruzione di tutte le biblioteche cristiane.[502] Noi possiamo da vari indizi arguire quale fosse il contenuto di queste collezioni. Le biblioteche cristiane possedevano gli scritti del Nuovo e del Vecchio Testamento, notevoli sovratutto per i voluminosi commentari che li accompagnavano, lunghe serie di libri necessari alla liturgia, le opere dei primi autori cristiani, biografie di santi e di martiri, scritti didascalici, panegirici, inni religiosi,[503] tutte copiose e interessantissime collezioni, che venivano ora sacrate allo sterminio.

[200]

La persecuzione fu universale, sebbene non esercitata dovunque con eguale rigore. Ma fierissima essa fu là dove, a prescindere dalle intenzioni, più gravi si potevano prevedere gli effetti, negli Stati cioè del secondo Augusto, che comprendevano la Spagna, l’Italia e l’Africa: l’Italia, con Roma, sede delle più importanti biblioteche cristiane, che vi erano proprietà del governo centrale della Chiesa, e l’Africa, nelle cui città si conservavano i manoscritti biblici più preziosi e più copiosi,[504] i quali, in parte rintracciati dai funzionari imperiali, in parte consegnati dai proprietari o dai depositari infedeli, vennero, senza eccezione, rigorosamente distrutti[505].

Noi possediamo ancora taluni resoconti di quelle perquisizioni e di quelle consegne, e vogliamo qui riferirne dei brani, che più ci interessano e che fanno parte del verbale redatto da un Munazio Felice, flamine perpetuo e Curatore della Colonia di Cirta in data del 19 maggio 303: «Quando — riferisce quel verbale — si fu arrivati alla casa, nella quale si riunivano i cristiani, Felice, flamine perpetuo e curatore, disse al vescovo Paolo: — Portateci le Scritture della vostra legge e tutti gli altri scritti che qui avete, e obbedite così agli ordini dell’imperatore. — Il vescovo Paolo [201] rispose: — Le Scritture non le abbiamo; le hanno i lettori; ma noi vi daremo tutto quello che abbiamo. — Il flamine Felice replicò: — Indicaci i lettori o manda a cercarli. — Il vescovo Paolo disse: — Voi li conoscete tutti.... — Si recarono quindi nella biblioteca, ma gli armadi erano vuoti.... Il flamine perpetuo e curatore Felice disse: — Portaci le Scritture, che tu possiedi, e obbedisci così agli ordini imperiali. — Catulino consegnò un grosso volume. Il flamine perpetuo e curatore Felice chiese a Marcuclio e a Silvano: — Perchè avete dato un solo volume? Portate le Scritture che possedete. — Catulino e Marcuclio risposero: — Noi non ne abbiamo altri perchè siamo subdiaconi; i volumi li hanno i lettori. — Il flamine perpetuo e curatore Felice disse allora a Marcuclio e a Catulino: — Indicateci i lettori. — Marcuclio e Catulino risposero: — Noi non sappiamo dove abitano. — Felice replicò: — Se non sapete dove abitano, dateci almeno i loro nomi. — Catulino e Marcuclio risposero: — Noi non siamo dei traditori; facci piuttosto uccidere. — E il flamine perpetuo e curatore: — Che essi siano tratti in arresto! —

«Quando furono arrivati alla casa di Eugenio [uno dei lettori], il flamine perpetuo e curatore Felice gli disse: — Dacci le Scritture che tu possiedi, e mostra così la tua obbedienza. — Questi gli portò quattro volumi. Il flamine perpetuo e curatore Felice disse a Silvano e a Caroso: — Fate conoscere gli altri lettori! — Silvano e Caroso risposero: — Il vescovo vi ha già dichiarato che gli uscieri Edusio e Giunio li conoscono tutti; fatevi indicare da costoro le loro case. — Gli uscieri Edusio e Giunio dissero: — Noi [202] te le indicheremo, signore. — E, quando si fu alla casa del mosaicista in marmo, Felice, questi consegnò cinque volumi. Quando si fu arrivati a quella di Proiecto, questi mise insieme cinque grossi volumi e due piccoli. Quando si fu alla casa del grammatico Vittore, il flamine perpetuo e curatore Felice gli disse: — Dacci le Scritture, che tu possiedi, e mostrati così ossequente. — Il grammatico Vittore consegnò due volumi e quattro quaderni. Il flamine perpetuo e curatore Felice disse: — Porta le Scritture; tu ne hai ancora. — Il grammatico Vittore rispose: — Se ne avessi ancora, le avrei consegnate. —

«Quando si fu giunti alla casa di Euticio di Cesarea, il flamine perpetuo e curatore Felice gli disse: — Obbedisci e consegna le Scritture, che tu possiedi. — Euticio rispose: — Io non ne ho. — Il flamine perpetuo e curatore Felice disse: — La tua risposta sarà messa a verbale. — Quando si fu alla casa di Codeone, la di lui moglie portò sei volumi. Il flamine perpetuo e curatore disse: — Cercate, se ne avete altri ancora e portateli. — La donna rispose: — Io non ne ho più. — Il flamine perpetuo e curatore Felice disse allora a Bos, schiavo pubblico: — Entra e cerca se essa ne possiede degli altri. — Lo schiavo pubblico disse: — Ho cercato e non ne ho trovati. — Il flamine perpetuo e curatore Felice disse a Vittorino, Silvano e Garoso: — Se voi non avete fatto tutto ciò che avreste dovuto, ne sarete tenuti responsabili — »[506].

[203]

Questi pochi brani di un processo verbale forniscono una chiara idea della diligenza e della durezza della ricerca, nonchè del danno, che alla cultura del tempo e a quella dei secoli successivi dovette arrecare la persecuzione di Diocleziano. Si salvarono le sole biblioteche di Gerusalemme e di Cesarea, e, per l’astuzia del vescovo, un po’ quella di Cartagine[507]. Altrove la devastazione fu ovunque gravissima, e tutto il patrimonio della cultura cristiana dei primi tre secoli, insieme con quello delle civiltà, che vi avevano attinenza, andarono miseramente perduti.

VIII.

Ma, se così tristi furono le sorti della cultura cristiana, la mancanza di guerre estere e la nuova tranquillità, che, col governo della Tetrarchia, si era andata ovunque diffondendo, non avevano mancato, e non mancavano, di produrre, come sempre, i loro benefici effetti, specie in quelle provincie dell’impero, che godevano dei principi più tolleranti e più illuminati.

Un altro sopravvenuto motivo di bene era adesso il frazionamento dell’impero in quattro governi sufficientemente autonomi. Questa nuova condizione politica si traduce in un vivo stimolo ad occuparsi, ciascuno, dei territori, sottoposti alla sua giurisdizione, con quella sollecitudine, che mai non aveva potuto usare l’accentrato governo di Roma. Da questo momento perciò si hanno i più significativi indizi della cura imperiale, intesa ad estendere in Oriente e in Occidente la lingua [204] latina e a far fiorire ovunque tutti i più svariati generi di studi[508].

Il mezzo è triplice: l’assunzione, quasi esclusiva, di dotti e di letterati alle supreme magistrature; l’eccitamento ai singoli comuni alla fondazione di nuove scuole; l’invito a maestri famosi di trasferire colà le loro cattedre. Così il retore Eumenio è subito nominato magister memoriae del reggente delle Gallie;[509] così Diocleziano chiama a Nicomedia il grammatico Flavio e il retore Lattanzio;[510] così Costanzo Cloro, vero «princeps iuventutis», come lo definisce un suo apologista,[511] sceglie ufficialmente per Augustodunum, il maggior centro intellettuale delle Gallie, quello stesso Eumenio, che già aveva chiamato al suo gabinetto imperiale.

Ma questa ultima nomina ha per noi assai più valore di quello che l’atto materiale non possa significare.

Le Gallie toccavano ormai, nel IV. secolo di C., la pienezza della loro civiltà e della loro romanizzazione. L’opera, iniziata fin da Augusto, aveva maturato i suoi frutti migliori. In circa tre secoli, esse si erano dappertutto popolate di scuole famose, da Autun (Augustodunum) a Vienne, da Arles a Tolosa, da Lione, a Bordeaux, da Poitiers ad Angoulème, da Besançons a Treveri.

Ma a questa germinazione spontanea, nella quale, se facili a supporsi, difficili a precisarsi erano, fino ad ora, i meriti ufficiali, si aggiungono, nel IV. secolo, gli sforzi assidui e diretti del governo imperiale.

[205]

La Gallia aveva molto sofferto durante il secolo precedente: era stata teatro di guerre civili fra gli autocandidati a l’impero, teatro di invasioni di Franchi e di Alemanni, aveva subito gli assedii e la distruzione di parecchie città, era stata devastata da insurrezioni di contadini e da scorrerie di briganti. Essa ben meritava dunque le cure speciali del nuovo governo, di cui, per giunta, era divenuta una delle residenze privilegiate. E quelle cure, come a tutto il resto, si volsero alla restaurazione degli istituti scolastici.

Augustodunum aveva più di ogni altro sofferto dei torbidi precedenti. Le sue scuole e i suoi monumenti erano stati devastati e saccheggiati; il titolare di quella cattedra di eloquenza, che l’aveva sin allora resa la regina delle Gallie, era morto, e Costanzo Cloro, intervenendo per la prima volta in un campo di amministrazione, che, fino a questo momento, era rimasto, in Gallia, dominio privato o municipale, sceglieva uno dei più insigni maestri del tempo, allora addetto alla sua cancelleria imperiale, il retore Eumenio[512].

La lettera di nomina, che noi conosciamo, è uno dei documenti più significativi dell’interessamento del principe verso gli uomini di studio e le cose dell’intelligenza, e, se fa onore a chi la ricevette, ne fa altrettanto a chi ebbe ad inviarla[513]. Ma Eumenio stesso, [206] che più ne era in grado, come quegli, il quale avea occupato uno dei più eccelsi uffici a corte, illustra, in una sua orazione, gli intenti sociali e politici, che ispirarono quella manifestazione della politica imperiale. «Gl’imperatori», egli dice, «si sono curati della sorte delle lettere, con sollecitudine pari a quella fino ad ieri usata nell’amministrazione militare. Essi hanno stimato loro obbligo provvedere a che la scuola avesse un maestro, affinchè coloro, i quali occorreva formare all’arte della parola o alle cariche delle sacrae cognitiones o ai magisteria Palatii», «ricevessero una acconcia preparazione»[514].

Secondo Costanzo, dunque, spettava alla scuola media e superiore del tempo preparare alle professioni liberali e ai più alti uffici nello Stato. Ma lo studio delle lettere, non ha — per lui — soltanto uno scopo professionale; ne ha uno più elevato e spirituale.

«Le lettere, spiega l’antico magister memoriae di Costanzo, sono la base di tutte le virtù; sono maestre della continenza, della vigilanza, della pazienza. Esse, allorquando hanno piegato lo spirito fin dalla più tenera età, lo rendono atto a tutti gli uffici della vita, anche a quelli della milizia, che ne sembrano in più categorica opposizione...... Esse preparano le menti dei giovani ad amare un genere migliore di vita....»[515].

L’insegnamento è dunque una scuola di morale civile. Ma è anche scuola di patriottismo. I giovani imparano dai maestri «a celebrare le gesta dei Principi [207] più illustri — (quale ufficio migliore potrebbe infatti spettare all’eloquenza?)». «Essi, nei locali scolastici, vedono, e ammirano, ogni giorno, le carte, in cui sono segnati tutti i paesi, tutti i mari, tutte le città, le genti, le nazioni, che gl’invitti Principi romani proteggono con il loro amore, avvincono con la loro virtù, tengono schiave col terrore»[516].

Per tali motivi, o anche per essi, è bene che l’istruzione sia impartita pubblicamente, e non privatamente. «Importa molto alla gloria dei Principi romani» «che i giovani, i quali sono istruiti per celebrarne le virtù, sentano il grande palpito, che li accompagna dal cuore di tutta la nazione»[517].

Ma non sono questi soltanto i particolari, che interessano di quella elezione. Fatto, per noi egualmente notevole, è che l’imperatore destini un pubblico docente ad una cattedra istituita, non già dal governo centrale, ma dalla città, e che tale circostanza non gli vieti di nominarvi egli stesso il titolare, nè di fissare il suo stipendio. Continuiamo, secondo si vede, a procedere per la china delle ingerenze imperiali nella istruzione pubblica municipale. Già dai Severi era stato concesso — come qualcosa che s’aveva diritto a concedere — la facoltà di destinare una parte dei redditi locali agli stipendii dei maestri; con i Gordiani, il principe stesso deferisce ai Consigli dei municipi le attribuzioni disciplinari su quei docenti; quaranta anni di poi, l’imperatore Probo municipalizza le [208] scuole di uno dei centri più notevoli dell’impero; ora, il principe stesso impone il titolare di una cattedra comunale, e ne fissa il relativo stipendio.

Uno stipendio tutt’altro che trascurabile e il cui ammontare ha un ben alto significato! Esso fu di sexcena milia nummum,[518] pari, giacchè l’atto è posteriore alla riforma monetaria dioclezianea, a L. 15.000[519]. Or bene, quando noi pensiamo che Eumenio aveva, fino a quel momento, occupato uno dei maggiori uffici dello Stato, quello di magister memoriae[520], il quale era retribuito in misura elevata al confronto di parecchi altri;[521] e che, ciò non ostante, il suo stipendio di insegnante di retorica ad Augustodunum ne rappresenta una cifra precisamente doppia, possiamo ben farci un’idea del favore, di cui Costanzo volle circondare la restaurazione della scuola di Augustodunum, e, in buona parte anche, dell’importanza, che, nella società e nella politica del tempo, riscoteva il ministero dell’insegnamento medio e superiore.

Tuttavia è bene subito soggiungere che lo stipendio di Eumenio, a cui raramente si accostarono quelli dei suoi colleghi dell’Oriente e dell’Occidente, deve pur sempre considerarsi come un’eccezione, anzi propriamente [209] come uno stipendio ad personam. Egli aveva occupato un ufficio notevolissimo nel gabinetto imperiale; e, quando aveva abbandonato quel posto per fare la volontà del suo sovrano, andando a dirigere una modesta scuola di provincia, era ragionevole, non solo che egli non vedesse assottigliato il proprio utile, ma che ricevesse un’indennità compensatrice. Ciò che, naturalmente, fu, a suo vantaggio, ordinato.

[211]

CAPITOLO V. L’istruzione pubblica nell’impero romano, Costantino il Grande e i suoi figli.
(312-361)

I. La monarchia Dioclezianea — Costantiniana e il trasporto della capitale a Costantinopoli. Ripercussione di ciò sulle sorti della istruzione pubblica nell’impero. — II. Costantino e la coltura. L’Università Costantinopolitana. — III. Una nuova biblioteca pubblica. Costantino e l’istruzione professionale. L’istruzione primaria; fine delle fondazioni alimentari. — IV. Privilegi e garanzie ai docenti privati e pubblici nelle città di provincia. — Ampliamento delle immunità e suoi motivi. Immunità ai professionisti delle arti edilizie e industriali. — V. Costantino e la cura delle opere d’arte. — VI. I figli di Costantino ne continuano la politica; gl’imperatori, il Senato e i governatori nella scelta dei maestri. Riforme nell’Università Ateniese. Dichiarazione dei nuovi criterii di governo in fatto d’istruzione pubblica. — VII. I figli di Costantino e probabile limitazione delle immunità.

I.

La nuova riforma dello assetto politico dello Stato, che, iniziata sotto Diocleziano, ebbe a consolidarsi definitivamente con Costantino, e la fondazione di una [212] seconda capitale in Oriente, la quale veniva ad accrescere il lustro e le esigenze di quest’altra vasta porzione dell’impero, sono le due grandi determinanti di quel meraviglioso progresso delle sorti dell’istruzione pubblica, di cui il primo imperatore cristiano si rese benemerito nella storia della civiltà. Queste due condizioni bastarono perchè quest’uomo, che consacrò la nuova fede con la più solenne delle approvazioni, dovesse poi, in tutta la sua vita, in tutta la pratica di ogni giorno, negarne il principio fondamentale: il regno degli uomini non essere di questo mondo, e il regno di questo mondo volesse adorno di tutte le grazie più squisitamente pagane.

Già avvertimmo che la nuova e macchinosa burocrazia, le cui sorti andavano strettamente connesse alle recenti riforme politiche, richiedeva, in modo indispensabile, un più diretto e palese intervento dello Stato nelle cose dell’istruzione pubblica. Il governo ormai, per funzionare, aveva bisogno di uomini, che sapessero, e potessero, starne a capo[522]; meglio ancora, aveva bisogno di produrli. La responsabilità di questa produzione come del funzionamento dello Stato, era passata, da un’anonima classe sociale, nella persona stessa del dirigente supremo. Onde tutta quella serie di insegnamenti, che, fin allora, parevano risolversi soltanto nell’utile di privati, e di cui solo i più chiaroveggenti scorgevano l’intimo rapporto con la vita pubblica e sociale, diventavano ora insegnamenti professionali di prima necessità. E fra essi il posto di onore doveva toccare all’insegnamento [213] indispensabile per dei buoni amministratori: la giurisprudenza. Tutto ciò — ripetiamo — maturava da tempo, senza aver potuto determinare una crisi risolutiva di effetti; ma ecco, avvenire con Costantino, la fondazione della nuova città, che doveva essere anche la città capitale. Tutto quanto in Roma, od altrove, l’opera dei secoli aveva lentamente formato, dovea quivi essere creazione immediata del governo centrale. Onde, come tutto il resto, bisognava — e bisognò — suscitare nella nuova metropoli, sin dai più elementari, tutti gli organi della pubblica istruzione; il che bastava a far sì che questa creazione ex novo non fosse ritardata dalla tradizione, ma si adattasse immediatamente ai sopravvenuti bisogni, alle sopravvenute influenze dell’ambiente sociale.

Ma il fatto stesso della nuova città, che si fondava, si popolava e si abbelliva, richiese tutta un’altra serie di cure per altri ordini di insegnamenti, esclusivamente professionali, a cui, fino a quel giorno, quasi nessun imperatore aveva pensato. Bisognò all’uopo evocare tutte le energie delle industrie del tempo; e questo, Costantino, nei limiti delle sue forze, e a seconda delle circostanze, non esitò a tentare gloriosamente.

I nuovi rivolgimenti dovevano provocare altri effetti sull’equilibrio della cultura nell’impero romano. Ed essi furono gli stessi, che, nell’ordine politico, avrebbe arrecato la fondazione di Costantinopoli e la residenza, che ivi, stabilmente, fisseranno, gl’imperatori. Il mondo civile avrà ora due soli, uno, pallido, del tramonto, l’altro, luminoso e fulgido, dell’oriente; ed esso si volgerà con preferenza a quest’ultimo. In Costantinopoli, e non più in Roma, preferiranno d’ora innanzi [214] accorrere i più illustri dottori del tempo; in Costantinopoli, dove essi, sotto gli occhi imperiali, potranno più facilmente sperare onori e ricompense. Ma il danno, che per ciò stesso ne consegue all’antica metropoli, torna eziandio a vantaggio di altre città di provincia. L’incantesimo del suo monopolio intellettuale è rotto, e la nuova capitale irradia della sua luce anche altri centri di cultura. Gli studii, fino ad ora ristretti e raccolti in una sola città, si spargono intorno. I dotti non disdegnano rimanere nella breve patria provinciale; onde, insieme con la decadenza di una città, si assiste allo spettacolo di altri fari luminosi, che le si accendono intorno — da presso e da lungi — effetti imprevisti di cause inconsapevoli e di atti compiuti con intendimenti diversi.

II.

Costantino il Grande, che aveva iniziato la sua carriera imperiale tra le battaglie e le vittorie, non fu solamente un guerriero valoroso; non soltanto quel grande uomo politico, che ebbe agio di rivelarsi in parecchie delle più difficili circostanze; fu egualmente — ed in pari misura — persona colta ed amante d’ogni disciplina intellettuale. Il padre suo Costanzo Cloro, aveva cominciato a praticare, nel seno della sua stessa famiglia, quel culto dell’istruzione, che aveva ispirato buona parte della sua amministrazione. E Costantino adolescente aveva frequentato un corso regolare di studii letterari e vi si era distinto fra i coetanei. Gli amori dei primi anni non lo abbandonarono facilmente. E adulto e glorioso, aveva proseguito a coltivare le lettere, aveva amata la compagnia dei filosofi, aveva, come [215] Augusto, gradito la conversazione delle Muse e gli omaggi dei poeti, e, come Augusto, s’era compiaciuto di asserire (e di darne la prova!) che i poeti e gli scrittori del suo secolo avevano sempre trovato presso di lui il più benevolo ascolto, come gli studiosi, l’adeguata ricompensa del loro valore.[523]

Nè le tempestose vicende del primo periodo della sua vita avevano mancato dal confermarlo in questa tendenza politica. Il suo più fiero avversario, Licinio, era stato un barbaro infesto alle lettere,[524] onde un’elementare opportunità di governo obbligava l’antagonista a brillare per qualità opposte.

Così Costantino, primo imperatore cristiano, il quale teneva mostrarsi soltanto alla Croce debitore di ogni suo trionfo, e che alla gloria di questa aveva innalzato una nuova capitale nell’impero, non tralasciò per tutta la vita di onorare al tempo stesso quell’Atene, che rimaneva ancora l’invitta e sdegnosa cittadella del disprezzato Paganesimo, dichiarando che egli, imperatore universale, preferiva a tutti gli onori e a tutte le cose l’umile carica di stratego ateniese e il modesto ricordo, che di lui quella città aveva voluto scolpire nella pietra.[525] Così le virtù della guerra e la saviezza dell’opera legislativa egli aveva voluto alternare con le opere della cultura, e fare in modo che gli imparziali avessero a tramandare ai posteri il suo nome come quello di uno dei principi romani, che più, e meglio, avevano [216] favorito il progresso delle lettere e delle discipline liberali[526].

Grandi cose erano dunque da aspettarsi da quest’uomo, appena le cure materiali e più urgenti del governo gli avessero dato pace. Il che doveva avvenire (ed avvenne) subito dopo la guerra con Licinio e la edificazione di Costantinopoli.

Alessandria aveva il suo Museo, Roma il suo Ateneo; era pur necessario, e non soltanto per desiderio di simmetrie architettoniche, che la nuova capitale del mondo possedesse qualche cosa di corrispondente all’uno od all’altro, od all’uno ed all’altro insieme. E Costantino vi provvide. Non certo con l’erezione di quell’edifizio, che dal numero de’ suoi portici venne denominato Ottagono, e che i cronisti bizantini[527], insieme con la maggior parte degli storici moderni, s’accordano ad attribuire a Costantino ed anche a definirlo un istituto pubblico destinato all’istruzione superiore dei cittadini constantinopolitani[528]. Questo locale, ove — secondo ci si informa — abitavano, mantenuti a spese pubbliche, un collegio di religiosi, non era che un seminario teologico[529] e, quindi, una scuola, espressione di [217] assai più matura fase della civiltà cristiana ed orientale[530]. Ma la vera e propria Università constantinopolitana doveva sorgere altrove.

E sorse, infatti, in quella, che le fonti bizantine denominano la Basilica, e che noi rimaniamo dubbiosi se sia da identificare con la Βασιλικὴ Κινστέρνα o non piuttosto con altro edifizio omonimo, situato sul Campidoglio, nell’ottava Regione costantinopolitana, là dove, più tardi, una costituzione di Teodosio II. ci additerà la sede ufficiale dei docenti le principali discipline, che, al suo tempo, si impartivano alla gioventù della metropoli[531]. Ma, al pari della Κινστέρνα[532], è quasi certo che la seconda Basilica sia stata costruita da Costantino il Grande,[533] sì che l’uno o l’altro edifizio troviamo destinato al pubblico insegnamento già fin dalla giovinezza dell’imperatore Giuliano, che lo frequentava coi suoi condiscepoli e col suo pedagogo, durante il suo primo, breve soggiorno a Costantinopoli[534].

I docenti, che vi insegnavano, non erano certamente [218] dei privati. Ce lo dice, oltre l’analogia con Roma e la universale consuetudine del tempo, il fatto che noi, sin da questo momento, troviamo dei professori ufficiali a Costantinopoli e anche la succennata costituzione di Teodosio II. — la quale regolava definitivamente un assetto di cose, che esisteva da molti anni[535] — da cui si desume come i maestri di discipline liberali, nell’apposito pubblico edifizio sul Campidoglio, fossero degli stipendiati del governo.

Quali discipline insegnassero, noi lo ricaviamo da varie fonti. Giuliano vi cominciò i corsi di grammatica (lingua e letteratura) greca e di retorica;[536] un epigramma dell’Antologia parla a chiare note dell’insegnamento del diritto;[537] i docenti ufficiali, che noi andiamo fin d’ora conoscendo in Costantinopoli, sono maestri di retorica latina;[538] e dal ruolo dei professori, fissati da Teodosio II., come da qualche altra minore disposizione,[539] si desume l’esistenza di cattedre di lingua e letteratura greca e latina, di retorica, di filosofia e di giurisprudenza, di cui almeno quelle fondamentali dovevano avere avuto principio con Costantino.

Chi nominava questi insegnanti?

Sotto Teodosio II. sarà investito di tale diritto ed [219] ufficio il senato;[540] ma tale consuetudine, che già da tempo troviamo in vigore nelle città di provincia, si deve, nella nuova capitale, ritenere sincrona della prima istituzione di quella Università, sincrona quindi del governo del primo Costantino.

III.

Abbiamo così un corpo organico d’istituti imperiali per l’istruzione media e superiore della gioventù. È, dopo questo, supponibile che Costantino non avesse pensato a edificare, in Costantinopoli, almeno una pubblica biblioteca, che facesse degno riscontro alle ventotto, che in quel tempo adornavano la consorella dell’Occidente?[541] Può anzi supporsi che, a Costantinopoli, i giovani, i quali subito vi accorsero numerosi,[542] riuscissero a dedicarsi alle varie discipline, e i vari ordini di docenti, ad attendere al culto della scienza, senza l’ausilio di biblioteche? E poichè una pubblica biblioteca[543] esisteva nella Basilica antonomastica, di cui discorrono le fonti, e che oggi noi non sappiamo se identificare con la Basilica Cisterna, o con i locali dell’Università, sul Campidoglio, e poichè, come in Roma, essa era annessa al massimo istituto cittadino di istruzione, la sua origine si lascia facilmente ricondurre al primo fondatore di quell’edificio e di quell’istituto.

.

[220]

Fin qui noi troviamo le sollecitudini di Costantino quasi esclusivamente limitate agli insegnamenti tradizionali nell’impero romano, cioè a quella cultura umanistica, che tutti i secoli precedenti e tutti i centri principali dell’impero avevano conosciuta. Ma, come accennammo, il solo fatto della fondazione di Costantinopoli mise subito in evidenza le lacune di un tale ordinamento, e — maggiore fra tutte — quella degli insegnamenti professionali, pressochè ignorati nell’impero romano. E in verità, l’impero, che sapeva dare al mondo filosofi ed oratori, non era in grado di fornire, o di fornire a sufficienza, uomini, che potessero dirigere e compiere il lavoro di edificazione e d’ornamentazione di una sola città. Perciò, in una sua lettera al Prefetto d’Italia, la cui giurisdizione si estendeva anche all’Africa, Costantino raccomanda di tentare ogni mezzo, perchè, nella grande deficienza d’architetti, si stabilissero, nelle provincie africane, delle scuole con appositi professori e vi si istituissero premii e privilegi, che valessero ad eccitare allo studio dell’architettura quanti più giovani, già istruiti nelle discipline liberali, si potesse. Uno dei mezzi, atti a raggiungere tale scopo, doveva essere perfino lo stanziamento di annue borse di studio.[544]

Tale circolare non fu forse l’unica diramata a tale scopo, nè l’Italia, o l’Africa, le sole regioni, in cui Costantino ebbe a curare la fondazione di vere e proprie scuole professionali.[545] Viceversa, come sempre, [221] come sotto i precedenti imperatori, il governo centrale continuò, anche adesso, a trascurare le sorti della istruzione elementare, e tale condizione viene forse con Costantino ad aggravarsi, in quanto con lui si chiude la tradizione delle istituzioni elementari, così felicemente inaugurate da Traiano.

Costantino — è noto — compie a tale proposito una radicale riforma, inaugurando un’opera di sovvenzione universale dell’indigenza, i cui particolari furono profondamente pervasi di spirito cristiano[546]. Ma appunto per questo, la sua opera benefica divorzia — nei risultati e negli scopi — quasi interamente, dalle sorti dell’istruzione elementare. Costantino non offre, a una parte qualsiasi della società romana, costantinopolitana, o di altre città, i mezzi per educare e istruire la propria prole. Egli, invece, con i nuovi provvedimenti, disperde per tutto l’impero, nei mille rivoli di una saltuaria beneficenza individuale, gran parte delle pubbliche entrate. Per tal guisa, la sua opera porta seco tutte le caratteristiche, tutta la vanità, tutti i disinganni di quelli che ora possono dirsi i vecchi sistemi della carità cristiana, i quali nè elevavano le classi sociali, nè assicuravano l’avvenire dei singoli, ma fugacemente sanavano le occasionali strettezze — e, fra queste, le [222] peggiori soltanto — di qualche individuo, in qualche ora del tempo.

IV.

La legislazione di Costantino non poteva andare disgiunta da provvedimenti speciali, che riconfermassero gli atti degli imperatori precedenti o regolassero i nuovi emergenti rapporti amministrativi e sociali. E le costituzioni sue su questa materia furono animate da uno spirito veramente rivoluzionario.

Una legge del 321[547] conferma anzitutto le immunità godute dai medici, dai grammatici e dai restanti professori di lettere nelle città dell’impero; viene quindi a porre le persone dei docenti al riparo da eventuali procedimenti giudiziarii, sancendo ch’essi non possano venir tradotti in giudizio, al riparo da qualsiasi ingiuria avesse mirato colpirli, sia per parte di schiavi che di liberi, fissando all’uopo delle gravi pene contro i colpevoli e contro i magistrati, che non avessero ottemperato alla legge; e richiama, infine, i privati ed i municipii alla osservanza del pagamento degli onorarii o degli stipendii (mercedes et salaria) ai docenti, professanti nelle varie città.

Con questa legge, il principe, se, da una parte, vuole sottrarre le persone, in essa nominate, ai munera publica e civilia, nonchè ai pubblici soprusi, dall’altra, vuole che le città e i privati, oltre che a pagare i maestri, siano tenuti a rispettarli: alle quali due cose si doveva da tempo, spesso, mancare, forse anche a motivo della sopravvenuta [223] intolleranza dei municipii cristiani contro i docenti, che erano in genere pagani o usciti da scuole pagane[548].

Ma una seconda legge di Costantino del 326[549] largisce, e specifica, una nuova serie di immunità — forse implicite nelle antiche formule generiche, certo non mai così solennemente dichiarate — a favore dei medici e agli ex-medici di corte, nonchè — fatto più notevole — delle famiglie dei privilegiati. E, finalmente, un’ultima legge del 333,[550] confermando i precedenti beneficii ai medici e ai professori di lettere, li estende, anche per queste due categorie, alle loro mogli ed ai loro figliuoli.

Le tre leggi dànno luogo a qualche non trascurabile osservazione. La immunità infatti, largita da Costantino, è la più ampia che si conosca nelle serie delle concessioni imperiali. Essa per la prima volta oltrepassa le persone stesse dei docenti e si estende ai componenti le loro famiglie. Meglio ancora, essa abroga le gravi limitazioni fissate da Antonino Pio, e rimaste in vigore fino a questo tempo, e parifica i diritti delle città di provincia con quelli delle capitali, ove i maestri da tempo non soggiacevano più alle restrizioni imposte al loro privilegio fin dalla metà del II. secolo di C.

Se non che, ad osservare con attenzione, tali leggi impressionano meno per il grande numero di persone, che esse beneficano, di quello che per la loro intima liberalità. Infatti, secondo le clausole della prima costituzione, [224] sono, fra l’altro, concesse, ai medici e ai docenti, una forma e una misura d’inviolabilità, che oggi, nei nostri regimi costituzionali, non godono neanche i rappresentanti politici della nazione, ed è forse unicamente riservata al sovrano: l’inviolabilità cioè da ogni procedimento giudiziario, concretata nel divieto di tradurre i privilegiati in giudizio.

Evidentemente, se questa è la esatta interpretazione di una delle clausole della legge, noi ci troviamo al cospetto di un beneficio — il così detto privilegio del ἱερᾶσθαι — che pel passato era stato concesso solo in via eccezionale a qualcuno dei più illustri maestri dell’impero,[551] e che, reso così universale, sembrerebbe dovesse abbattersi contro la impossibilità di una pratica applicazione. O la legge dunque doveva, sia nel pensiero dei delegati ad applicarla, sia nella parola di altre disposizioni, essere temperata da consuetudini e da norme complementari; o essa doveva rispondere a una straordinaria condizione del momento. Ma può darsi anche che noi non siamo più in grado di interpretare rettamente il passo, e che si tratti dell’antico diritto dei medici e dei docenti di non fungere da giudici, o di una nuova facoltà di non comparire personalmente in giudizio, e di potervisi fare rappresentare da procuratori — un che di simile ai privilegi concessi per le testimonianze giudiziarie ai nostri così detti grandi ufficiali dello Stato — nel quale caso, Costantino o nulla di nuovo, o nulla d’incredibile avrebbe accordato.

[225]

Ma, a parte codesta clausola, impressiona il fatto che in quelle leggi, anche nelle due (la prima e la terza) in cui più si sarebbe attesa, manca una esplicita menzione dei docenti di filosofia, sebbene costoro godessero da tempo gli stessi privilegi dei grammatici, dei medici e dei retori. L’omissione è difficilmente concepibile, e bisogna ben ammettere che con la dizione generica di professores litterarum artium si accenni anche agli insegnanti di filosofia. Infatti, nella più tarda legge del 333, in cui si dichiarava di confermare i beneficii largiti dai predecessori, le litterae sono identificate con gli studia liberalia, e, in una costituzione di Teodosio II.,[552] la quale ripristina questa di Costantino, i filosofi sono esplicitamente elencati insieme con i loro colleghi.

Ma la soluzione, relativa ai professori di filosofia, non può adottarsi, come forse si attenderebbe, per quelli di giurisprudenza: i giurisperiti, i quali non possono comprendersi fra i professores litterarum artium, rimangono, non ostante tutto, esclusi ancora dal beneficio di ogni immunità,[553] e tali rimarranno sino a Giustiniano.

Quali furono intanto i motivi delle nuove, e certo gradite, liberalità?

[226]

Ce li illustra la chiusa della terza legge. Essa spiega che tanta generosità era mossa dal desiderio che i beneficati si dedicassero largamente all’insegnamento, e formassero quindi il maggior numero di discepoli.[554] Il che, mentre da un lato avverte che i medici, gli archiatri e gli ex-archiatri, a cui Costantino si riferisce sono favoriti delle immunità, non solo in quanto medici curanti, ma altresì in quanto docenti di medicina, dimostra che lo scopo delle tre leggi rientra interamente nei rapporti del pubblico insegnamento, e che, favorendo i docenti, si voleva appunto favorire la più grande diffusione della coltura e rendere più frequente l’esercizio di carriere determinate.

Tutto questo per i docenti di arti liberali. Ma come Costantino aveva curato con provvedimenti diretti l’insegnamento professionale, così altri beneficii escogitò a favore di coloro, che avrebbero dovuto esserne i promotori ed i maestri.

Una sua legge, promulgata dopo la di lui morte, largisce l’immunità dai pubblici oneri a tutta una lunga serie di professionisti, specie di arti edilizie, perchè — dice il dispositivo — coloro che avranno a goderne, abbiano agio di dedicarsi a quelle arti, «e ne diventino più esperti essi stessi, ed esperti ne facciano i propri figliuoli».[555] La lunga serie dei beneficati, che avrebbero potuto risiedere in qualunque città dell’impero, riguarda i seguenti ordini di persone: architetti, costruttori di soffitte, stuccatori e [227] intonicatori,[556] falegnami, medici (?),[557] tagliapietre, lavoratori dell’argento, muratori, veterinari, scalpellini, inargentatori e indoratori,[558] costruttori di pavimenti o di scale (scasores o scansores), pittori, scultori, trapanatori, di pietre e di metalli preziosi, intagliatori, statuari, mosaicisti, lavoranti in bronzo, ferro, marmo, doratori, fonditori di metalli, lavoranti in fino di metalli o tintori in rosso di seta (bractearii o blattiarii), lastricatori di pavimenti, orafi, costruttori di specchi, carpentieri, conduttori d’acque, vetrai, lavoratori dell’avorio, lavandai, stovigliai, lavoratori del piombo, pellicciai.[559]

La portata della legge è chiara. Costantino, che aveva dovuto sperimentarlo nella costruzione della nuova metropoli, aveva notato nell’impero romano una grande deficienza di esercenti professioni speciali, segnatamente professioni meccaniche, e voleva ad ogni costo provvedervi. Il suo editto al Prefetto del pretorio d’Italia, circa le nuove scuole d’architettura, ne era stato un primo segno. Adesso, egli trovava necessario formare, [228] non soltanto degli architetti, ma tutta la serie di artisti, di meccanici e di artefici, richiesta da una società civile, e agli uni e agli altri largiva, per la prima volta, una serie di immunità, come, fino a quel tempo, si era solo usato verso i rappresentanti le professioni liberali. E questo era il primo vigoroso affermarsi di quelli, che oggi si direbbero i diritti dell’insegnamento professionale.

V.

L’opera di Costantino a vantaggio della coltura e dell’istruzione pubblica è coronata da nuovi provvedimenti, tendenti alla difesa e alla conservazione delle opere d’arte, ch’erano state tramandate dall’evo antico.

Già notammo come, fin da Adriano e dai primi due Antonini, alla cura semplicemente edilizia delle città si era accompagnata l’altra delle loro opere d’arte. Ma adesso ci troviamo in un tempo, in cui più vivi e numerosi dovevano essere i motivi di una tale preoccupazione. La storia del periodo, che adesso s’inizia, segnala il disastro di demolizioni inconsulte, per opera di privati o di imperatori, gli uni e gli altri, sospinti da zelo religioso, da ignoranza, da misoarcaismo. La preoccupazione degli eccessi di tale andazzo è palese nelle costituzioni de operibus publicis, che si succedono fin da Costantino, e in esse è degno di rilievo l’insensibile sfumare della cura edilizia in quella delle antichità e delle belle arti, sì che difficile riesce segnarne il preciso confine.

Ma, in questa medesima età, dopo i lunghi torbidi di oltre un secolo, riappare altresì quella forma specifica [229] di sorveglianza delle opere d’arte, che, creata dagli Antonini, assume via via nuove denominazioni. Troviamo ora, in Roma, un curator statuarum, addetto alla erezione e alla manutenzione delle statue urbane,[560] e, poco dopo, ma quale magistratura già da tempo in vigore, un centurionato rerum nitentium, a cura e tutela degli oggetti d’arte, nonchè dell’abbellimento dei pubblici monumenti della città[561]. E tutte queste non piccole preoccupazioni di un imperatore, sospinto dall’ironia della sorte a difendere, contro le ingiurie del tempo e le intransigenze dei seguaci della religione favorita, i segni superstiti del passato, che così vigorosamente egli aveva cooperato ad abbattere, devono andare, non soltanto a discarico di quella minima parte dell’opera sua, che fu accusata di irriverente iconoclastia artistica,[562] ma a merito grande — e positivo — della sua amministrazione.

VI.

I figli e gli eredi di Costantino proseguono, con diligenza unica più che rara, l’opera del padre nel campo della pubblica istruzione, e, sebbene, nel loro legiferare su questa materia, nulla di caratteristico li distingua dai predecessori, pure le disposizioni particolari, da essi emanate, sono la più meritoria esecuzione di ciò che quelli, fin allora, avevano creato e immaginato.

[230]

Verso il 342 o 343, Costante chiamava a insegnare a Treviri — uno dei maggiori centri di studio della Gallia — il più celebre sofista del tempo, Proeresio, e lo faceva suo commensale. Di qua, per esaudire un di lui desiderio, lo manda a Roma a impartire il suo insegnamento dalla maggior cattedra del mondo. E da Roma il fratello suo e collega, Costanzo II., colui che tra breve raccoglierà ancora una volta tutto l’impero nelle sue mani, gli concede di trasferirsi in Atene, e lo colma di doni regali, e lo nomina stratopedarca, incaricando al tempo stesso il prefetto dell’Illiria di celebrare il giorno del conferimento di tanta dignità con una solenne gara di eloquenza nella Università ateniese.[563]

Nel 344, Costanzo II. e Costante insieme largiscono una serie di immunità agli ingegneri, agli architetti, agli aquae libratores, e, per la prima volta, ai matematici, i quali, benchè la loro disciplina rientrasse nel circolo delle arti liberali, erano, fin a quel tempo, rimasti esclusi da ogni esenzione.[564]

E la determinante della liberalità — si dichiara — è ancora una volta quella, che aveva sospinto Costantino il grande: il bisogno di persone adatte alle professioni edilizie, cui quei beneficati attendevano, e, quindi, il desiderio di moltiplicarne il numero e di migliorarne la specie,[565] come in verità doveva essere richiesto dal nuovo incremento edilizio di Costantinopoli, di Antiochia e di altre città orientali.

[231]

Lo stesso Costanzo si cura di rifornire copiosamente, ed a proprie spese, la pubblica biblioteca di Costantinopoli, che sembra solo ora assurgere a quel grado di importanza, che nella nuova capitale si richiedeva,[566] non che di fornire Costantinopoli dei migliori maestri del mondo. Ed invero, nel 342, noi vi troviamo un retore di Cappadocia, fattovi appositivamente venire dall’imperatore,[567] e, nel 351, questi vi chiamava da Nicomedia, Libanio — uno tra i più insigni maestri di retorica di quell’età — nominandolo pubblico docente di sofistica con uno stipendio vistosissimo, e facendolo segno alle maggiori dimostrazioni di stima.[568]

E, come sempre avviene in questi casi, l’esempio del principe provoca l’emulazione fra le maggiori autorità dello Stato. Vediamo, in questo tempo, e il Senato e i governatori gareggiare di zelo per le sorti della istruzione pubblica nelle varie città e nelle varie province. Ciò che una volta era stato detto a carico del governo romano: ch’esso non si curava d’altro se non dei porti, degli edifici e dei pubblici passeggi, non solo sarebbe adesso contrario a verità, ma suonerebbe come audace calunnia. Per decidere sui problemi, relativi alla pubblica istruzione, le città si rivolgono ora ai governatori, che dispensano consigli, avanzano proposte e intervengono con le loro iniziative. Il retore [232] di Cappadocia, che noi troviamo nel 342 a Costantinopoli, era stato, prima che dal principe, richiesto insistentemente dal Senato;[569] Libanio stesso si era recato a professare a Nicomedia, invitatovi dal pretore di Bitinia, che n’era stato sollecitato dalle preghiere di quella popolazione[570]. Nel 351, l’anno del ritorno di Libanio, quale pubblico docente a Costantinopoli, vive pratiche del Senato e del pretore di Bitinia avevano preceduto l’intervento imperiale.[571] E poco dopo, agli Ateniesi, preoccupati della decadenza della loro Università, il luogotenente imperiale della Grecia, Strategio, rispondeva, formulando acconce proposte, e consigliandoli a invitarvi sofisti valorosi di altre città. Libanio ci ha conservato un passo di quella risposta: «Voi», aveva detto Strategio, «che avete fama universale di inventori e di maestri dell’agricoltura, non trovate nulla di disonorevole a cibarvi di grano importato dall’estero; se faceste lo stesso per la istruzione pubblica, credete forse che la vostra gloria ne sarebbe compromessa?»[572] Ed anche ad Atene era stato chiamato Libanio.

«I Romani volevano», scrive uno degli antichi espositori della vita scolastica ateniese in questa età, «i Romani volevano che ad Atene ci fossero numerosi sofisti e numerosi scolari.»[573] E noi abbiamo [233] gravi motivi per non dubitare di una riforma, quivi compiuta dal governo, verso il 340, alla morte di un altro fra i titolari di quella cattedra di retorica, il sofista Giuliano. Quando questi spirò, si ebbe una vera e propria ressa di concorrenti alla successione. Le brighe fra i candidati e le lotte tra i commissarii giudicanti e i senatori ateniesi dovettero essere vivacissime. Ne seguì la proposta di ben sei titolari, e il governatore romano non esitò a ratificarla. Così, invece di una, si ebbero sei cattedre ufficiali di eloquenza greca.

Per tal guisa, Atene potè godere largamente della munificenza dei dominatori. E non Atene soltanto. Accorreva quivi tutta la gioventù della Grecia, dell’Oriente, dell’Asia, dell’Asia Minore, dell’Arabia e dell’Egitto. Atene era il maggior centro intellettuale di una buona metà dell’impero, e su tutto questo paese, nella pienezza della sua civiltà, venivano adesso a diffondersi i benefici della innovazione del governo romano.

Ma, assai più significativa di queste indicazioni isolate, noi possediamo di Costanzo una lettera ufficiale, concernente la nomina di un filosofo, Temistio, a membro del senato di Costantinopoli, in cui si contengono quelli che oggi si direbbero i criteri informatori di un programma di governo nei rispetti dell’istruzione pubblica, lettera, per cui può affermarsi che da questo momento, non solo nella tacita pratica di ogni giorno, ma nelle più solenni teoriche ufficiali, bandite dai gradini del trono, le armi hanno definitivamente ceduto alle toghe.

«L’uomo — scrive l’imperatore — che queste mie parole esaltano, non professò una filosofia insocievole; [234] ma quella dottrina, che egli apprese con fatica, ora, fattosi banditore dell’antica sapienza e sacerdote dei sacrarii e dei templi della filosofia, con maggior fatica impartisce a chi la ricerca». «Egli, per quel che può, guida ciascun uomo, affinchè curi di vivere secondo ragione e sapienza».

«Niuna, invero, tra le cose umane, può riuscire a buon fine senza l’ausilio della virtù, nè nella vita domestica, nè in quella cittadina; onde i filosofi, che educano ed esercitano in questa i giovani, potrebbero bene essere detti padri comuni. Essi, ai padri appunto, insegnano i compiti della educazione, ai figli, quali cure debbano avere verso i padri. Ma son queste piccole cose; la verità è che giudice e rettore universale è il filosofo. Egli è colui che insegna quali siano i doveri verso il popolo, quali verso i governanti: è insomma la regola infallibile di tutta la vita civile. Così che, se accadesse che tutti gli uomini sapessero operare da filosofi, la loro vita sarebbe liberata da ogni malvagità, verrebbe a togliersi ogni pretesto alla iniquità e cesserebbe il bisogno delle leggi, giacchè quelle cose, da cui ora gli uomini si rattengono per timore, essi allora abborrirebbero spontaneamente.»

«Io, essendomi sempre adoperato con zelo perchè la filosofia risplenda dovunque, voglio che essa fiorisca sopratutto nella nostra città. Questo io so appunto che le tocca ora per merito di Temistio, e che per lui Costantinopoli va gloriosa del concorso di tanti giovani, amatori della filosofia, ed è già divenuta sede universale della dottrina, così che tutte le altre accordano ad essa di buon grado la palma del sapere e riconoscono che dalla nostra città, come [235] da pura fonte, si diffondono per ogni dove i dettami della virtù». «E se circondare la città di mura, se adornarla di edifizi, se la sua popolosità sono segni dell’affetto del principe, quanto non ne sarà segno maggiore accrescere il Senato di un tanto uomo, che renderà migliori le anime di quelli che vi abitano, e, fra gli altri edifici, innalzerà il Ginnasio della virtù! Chi a una città appresta gli altri doni, largisce i beni migliori, ma chi ha cura della sua saggezza e della sua coltura, quegli le porge il bene più prezioso, che molti agognano e che soltanto pochi conseguono.»[574].

Così, ispirandosi a Platone ed a Marco Aurelio, scriveva al senato di Costantinopoli Costanzo II., in onore di Temistio. E questi, che, sebbene di opposta fede religiosa, fu il migliore interprete del di lui pensiero e della di lui politica, così, in altra occasione, commentava, sia pure con l’enfasi e con l’iperbole consuete alla letteratura del suo tempo, i meriti di Costanzo verso l’istruzione pubblica in Costantinopoli: «Fin ora, in questa città, gli uomini godevano solo della sua bellezza, perchè vi si portavano i prodotti di tutta la terra, ma niente se ne poteva esportare, salvo che sabbia e immondizie. Ora invece si può trafficare ed esportare da Voi, non oro o legname, o porpora, come da una miniera o da una foresta, o da una tintoria, e neanche vino, o legumi, o frutta (tutte queste cose, io penso, anche gente migliore può convenientemente ritrarle da gente peggiore), ma le due grandi mercanzie [236] del nuovo emporio, che il principe volle a Voi fornire: la virtù e la saggezza.»

«E qui verranno a Voi, o cittadini di Costantinopoli, non già mercatanti o marinai, o volgare plebaglia, ma gli eletti, i cittadini d’ogni città, i più amanti della dottrina, il fiore della Grecia, e saran merci solo la dottrina e l’istruzione. Credete dunque che a torto le Muse si compiacciano di andare al campo, a fianco del nostro imperatore, e di procacciargli luminose vittorie, nelle quali nulla Marte ebbe che vedere?»[575].

VII.

Nonostante così largo e così illuminato mecenatismo, è pure probabile che i tre figli di Costantino abbiano infirmato quell’ampiezza di esenzione dai pubblici oneri, goduta da professori e da medici, che noi vedemmo concessa dal padre loro con la più sconfinata liberalità. Ce ne fa nascere il dubbio il confronto di una legge del successore, Giuliano l’Apostata,[576] la cui politica fu sostanzialmente una reazione al governo precedente, il confronto — dico — di quella legge con parecchie altre dei figli di Costantino.[577]

In essa, come è stato osservato,[578] Giuliano, riconfermando le immunità largite ai medici dal fondatore di Costantinopoli, invoca il precedente, non già dei [237] figli di Costantino, ma dei veteres principes, mette in vistoso rilievo la equità e la liberalità sua di donatore, e conclude, facendo notare che così i beneficiati avrebbero potuto passare tranquillamente «il resto della loro vita.»

La legge, come si vede, ha una intonazione polemica, e sembra accennare a una ripresa, più che alla semplice stereotipa conferma di un privilegio. E in tale opinione veniamo a confermarci, quando consideriamo che le altre costituzioni, testè richiamate, dei figli di Costantino, escludono assolutamente dall’esenzione degli oneri pubblici tutte le persone fornite di dignità onorarie, fossero quella di curiale, di senatore, di conte, di preside o di perfettissimo. E poichè queste dignità erano, più o meno strettamente, legate alla persona dei medici e dei professori,[579] s’impone la probabilità dell’ipotesi che, per ragioni a noi ignote (forse anche perchè degli uomini d’intelletto e di valore non mancassero di prestare l’illuminata opera loro nell’esercizio delle pubbliche cariche) i figli di Costantino avessero ristretto, a loro danno, i privilegi concessi dal padre.

Il governo di Costanzo II. ha fine con l’autunno del 361. Ancora pochi mesi, e il mondo assisterà, se non alla più grande, certo alla più tempestosa riforma scolastica, che mai imperatore romano aveva fin allora intrapreso.

[239]

CAPITOLO VI. Le innovazioni scolastiche di Giuliano l’Apostata.
(361-363)

I. Giuliano e gli atti più notevoli della sua legislazione scolastica. Reintegrazione dell’antica larghezza di immunità; sua bibliofilia. La legge del 362 su l’insegnamento pubblico e privato. — II. L’editto circa l’insegnamento classico. Un secondo editto? — III. Giudizio sulla legge del 362. Gli antichi e l’editto; l’approvazione dei cristiani intransigenti; la disapprovazione dei cristiani moderati, dei pagani e degli indifferenti. — IV. Giudizio dei moderni. — V. Il merito e la portata de l’editto. — VI. L’applicazione e gli effetti. — VII. Disegni di nuove scuole e di riforme a vantaggio dell’istruzione classica e musicale. Giuliano e il favore accordato ai retori e ai filosofi. Il valore dell’opera dei Constantiniani nei rispetti della istruzione pubblica.

I.

L’ultimo dei discendenti della casa di Costantino, Giuliano l’Apostata, è uno dei pochi imperatori di questa estrema età, che siano riusciti a divenir popolari; certo è il solo, di cui oggi — anche all’infuori della breve cerchia degli studiosi — si conoscano i tratti più caratteristici della politica scolastica.

[240]

L’opera scolastica di Giuliano appartiene al secondo anno del suo impero. Di questo tempo ci è anzi tutto pervenuta una legge, in cui Giuliano conferma ai medici il privilegio, concesso dai predecessori, di non essere tenuti all’obbligo di gerire i pubblici uffici e di subirne gli oneri conseguenti.[580] Ma, se è soltanto probabile che, con tale legge, egli volesse eliminare una restrizione imposta dai figli di Costantino il grande,[581] è certo che egli mirò con essa a favorire, non solo l’arte della medicina, ma anche l’insegnamento di questa, che aveva già assunto una notevolissima importanza, e di cui grande è la stima che Giuliano dimostra di fare.[582]

Forse, in quello stesso anno, Giuliano fondava in Costantinopoli, nel Portico regio, una nuova biblioteca, nella quale trasferiva tutti i libri di sua privata proprietà, ma che non pare egli abbia aperta al pubblico.[583]

L’amore di Giuliano pei libri, pur fra le logoranti cure del suo governo, fu indicibile. Secondo la sua stessa espressione, il suo amico migliore era lo schiavo bibliotecario,[584] e noi abbiamo delle informazioni sui mezzi, forse eccessivi, cui talora egli dette di piglio, per impedire che talune collezioni di opere andassero sperdute, e affinchè venissero invece raccolte nelle pubbliche biblioteche dell’impero.[585]

[241]

Ma fin qui nulla di rivoluzionario e di caratteristico. Noi siamo sull’antica via, battuta dai predecessori. Gli atti caratteristici del suo governo, e che tanto incendio di odii e di entusiasmi destarono tra i contemporanei, e, più di censure che di lodi, tra i posteri, riguardano un’altra cosa; riguardano l’insegnamento pubblico e privato. La prima disposizione in proposito è contenuta in una legge, anch’essa del 362. Questa stabiliva, per chiunque avesse voluto professare l’insegnamento, la necessità dell’autorizzazione, sia da parte delle autorità municipali, sia da parte del potere centrale; autorizzazione, per rilasciare la quale si sarebbero dovute pigliare in considerazione così le qualità morali, come i meriti scientifici e didattici del richiedente. La legge diceva con precisione: «È necessario che i maestri eccellano prima per costumi, poi per eloquenza. Ma giacchè Io non posso trovarmi a giudicare nelle singole città, ordino che chiunque voglia insegnare non vada d’un tratto, e audacemente, a quell’ufficio, ma ottenga l’approvazione dell’ordine dei curiali e ne sia autorizzato da un loro decreto, dietro parere d’una Commissione di competenti. Il decreto sia quindi passato a Me, per un ulteriore esame, affinchè l’interessato acceda all’insegnamento, rivestito — dopo il Nostro giudizio — di un più alto onore.»[586]

La prima questione, che tale legge solleva è relativa alla qualità delle persone, cui essa si indirizzava. Si [242] indirizzava ai docenti d’ogni grado, o, soltanto, a quelli dei gradi superiori dell’insegnamento?

Il quesito a me sembra venga sciolto dal primo periodo della legge stessa, per cui i docenti avrebbero dovuto eccellere, oltre che per costumi, «per eloquenza». È noto come tale requisito non poteva ricercarsi negli insegnanti primarii, i litteratores. La legge dunque non poteva riferirsi ad essi, ma ai grammatici, ai retori, ai filosofi; e tale ipotesi viene confermata dalla idea, che ormai possiamo esserci formata, della varia cura, che lo Stato nutrì verso i tre gradi dell’istruzione impartita ai fanciulli ed ai giovani.

D’altra parte, si riferiva la legge a tutti i docenti pubblici e privati, o a quelli soltanto? La più comune è — inesplicabilmente — la prima delle due ipotesi.[587] Se non che essa riesce, a mio parere, insostenibile. Che i docenti pubblici, i docenti cioè nelle cattedre comunali venissero nominati dietro giudizio e decreto dei curiali era norma antica, consueta e costante. Ma, nella legge di Giuliano, la novità, che si impone, è appunto tale decreto, giacchè la ratifica del principe — per chi legga senza preconcetti — rimane come un’aggiunta trascurabile, sulla quale non si mostra neanche l’intenzione di calcare. Basterebbe questo solo per convincere che la legge doveva riguardare anzi ogni altro i docenti privati. Ma non è tutto: se si volesse vedere, [243] come s’è veduta, un’intenzione malevola nella tinta anodina dell’ultima clausola; se si volesse supporre la legge creata apposta per quell’epilogo, che avrebbe nascosto nelle pieghe un tranello — l’espulsione dei Cristiani dall’insegnamento — e se si connettesse perciò alla legge come anche è stato fatto — [588] un editto dello stesso imperatore, che esamineremo più innanzi, il quale illustra l’incompatibilità della fede cristiana con l’ufficio d’insegnante nelle scuole a tipo classico, la nostra opinione sui riferimenti della legge ne verrebbe assolutamente confermata, in quanto l’editto parla di docenti in genere, non di pubblici docenti soltanto, e stabilisce una contraddizione, non già tra la qualità di Cristiani e i doveri verso lo Stato pagano, ma fra la fede Cristiana e una certa forma d’insegnamento.

Per ultimo, noi sappiamo che la legge di Giuliano venne indubbiamente abrogata da un’altra di due anni dopo, a firma degli imperatori Valentiniano e Valente. Or bene, la dizione di quest’ultima è tale da escludere ogni volontà di riferirla alle sole scuole municipali: «A coloro, i quali, vuoi per dignità di vita come per eloquenza, sono pari all’ufficio di istruire i giovani, si dà facoltà di aprire una nuova scuola, o di riaprire l’antica, che eventualmente avessero dovuto chiudere»[589].

Si trattava dunque di scuole tenute da privati e da [244] Comuni, e, quindi, di una misura, che non aveva precedenti. Fino a quel tempo, l’insegnamento era stato libero, e solo la legge della concorrenza aveva regolato la buona o la cattiva sorte delle numerose scuole dell’impero. Certo, violazioni di questa libertà c’erano state, anzi — l’abbiamo visto — non così di rado come taluni storici hanno amato supporle; ma erano rimaste misure straordinarie di repressione, non mai forme legali di prevenzione, con cui si fossero applicate agli insegnanti privati le specie di autorizzazione, allora in uso per le cattedre mantenute a spese pubbliche, e per cui si fosse riservata ai consigli comunali ed al principe la facoltà di dispensarle. Ora siamo appunto a questo;[590] l’insegnamento privato è colpito, e l’unica sua forma, che poteva rimanere, e che certo rimase, immune da tale controllo, sia per la difficoltà della verifica, sia perchè ad essa non sembra abbia mirato una legge del tenore, che abbiamo riferito, era ormai solo quella dell’insegnamento privato domestico.

II.

La costituzione di Giuliano non dovette dunque mancar di produrre la generale impressione di una novità rivoluzionaria. Ma, oltre ad essa, ce n’è pervenuta una seconda, che suole impropriamente chiamarsi, e chiameremo anche noi, editto, che i successori esclusero dai codici ufficiali e che ci è quindi unicamente serbata nella raccolta delle lettere di lui,[591] con cui si vieta [245] ai Cristiani, e pel presente e per l’avvenire, l’insegnamento nelle scuole di retorica e di grammatica. È desso un documento polemico di tale importanza, che mette ben conto riferirlo per intero: «Noi pensiamo che una sana istruzione ed educazione non consistano nell’accurata euritmia dalle parole o dell’eloquio, ma nella disposizione di una mente sana e che abbia un verace concetto del bene e del male, dell’onesto e del disonesto. Per la qual cosa chi ha un’opinione e ne insegna un’altra diversa è tanto lontano dall’impartire ciò che si dice una educazione, quanto dall’essere una persona dabbene. Se il disaccordo tra il pensiero e la parola si limita a cose di piccola importanza, egli arrecherà del male, sebbene in misura tollerabile. Ma, se, in questione di grandissima importanza, egli pensasse in un modo e insegnasse il contrario di quello che pensa, il suo sarebbe certamente un agire da mercanti, non dico onesti, ma pessimi. Infatti, al pari di costoro, tali maestri insegnerebbero specialmente ciò che specialmente giudicassero falso, ingannando e adescando coloro, ai quali vogliono — o io m’inganno — vendere le loro cattive merci, che coprono di elogi.[592]

«Occorre perciò che tutti coloro, i quali aspirano all’insegnamento siano di retti costumi, e non nutrano [246] opinioni in contrasto con quelle professate in pubblico. Ma io penso ciò imprescindibile per quelli che insegnano ai giovani, illustrando le opere degli antichi, in qualità di grammatici, di retori e, più ancora, di sofisti, i quali ultimi tengono, al confronto degli altri, ad essere, non solo maestri di eloquenza, ma eziandio di morale, e sostengono che spetti ad essi la filosofia del vivere civile. Se questo sia vero o meno, io ora non discuto; ma, pur lodandoli per le loro aspirazioni a così nobili dottrine, li loderei di più se non mentissero, e se non si condannassero da sè, insegnando cose diverse da quelle che realmente pensano.

«Ma come? Omero, Esiodo, Demostene, Erodoto, Tucidide, Isocrate e Lisia stimano che gli Dei debbano ispirare e guidare tutta la educazione; di essi, taluni si credevano sacerdoti di Mercurio, altri delle Muse, e non sarà dunque assurdo che coloro, i quali ne illustrano le opere, vituperino gli Dei da quelli onorati?

«Tuttavia, non perchè giudico assurdo tutto questo, io dico necessario ch’essi mentiscano dinanzi ai giovani, ma io li lascio liberi di non insegnare ciò che non reputano conveniente, e richiedo che, se vogliono insegnare, insegnino prima con l’esempio e convincano i discepoli che nè Omero, nè Esiodo, nè alcuno di quegli autori, ch’essi illustrano, e dei quali hanno condannato l’empietà, la stoltezza e le aberrazioni religiose, sono realmente empii o stolti. Altrimenti, poichè essi sono, come maestri, alimentati dai salarii, che ricavano in grazia degli scritti di quelli, confesserebbero di essere sordidamente ingordi e capaci [247] di subordinare tutto a poche dramme di guadagno.

«Fino ad oggi molte cause impedivano di frequentare i tempii, e il terrore, che incombeva d’ogni parte, li scusava di nascondere le loro vere opinioni in fatto di religione. Ma poichè gli Dei ci concessero la libertà, mi sembra assurdo che s’insegnino dottrine giudicate erronee. Se i maestri pensano che furono sapienti gli autori, che essi ora illustrano e di cui quasi seggono interpreti, li imitino anzi tutto nella pietà verso gli Dei. Ma se invece pensano che quelli abbiano errato circa le Divinità, che dovrebbero essere più sacre, vadano nelle chiese dei Galilei e interpretino Matteo e Luca, i quali impongono — e Voi, maestri cristiani, ne ripetete il precetto — che si debba astenersi dalle cerimonie sacre pagane. Quanto a me, io vorrei che le Vostre orecchie e la Vostra lingua — userò di una delle Vostre espressioni — si rigenerassero in quelle dottrine, alle quali io mi auguro sempre di rimanere fedele, come lo auguro a chiunque pensa e opera cose a me gradite.

«Questa legge riguarda gli educatori e i maestri; chiunque invece dei giovani vuol frequentare le scuole non ne è escluso. Infatti non è ragionevole chiudere la via migliore ai fanciulli, ancora ignari dell’indirizzo da scegliere, o condurli, per timore, nolenti, alle patrie consuetudini. Forse sarebbe logico curarli, anche contro lor voglia, come si curano i deliranti; ma noi tollereremo in tutti questa malattia, giacchè io penso che sia d’uopo istruire, non mai punire, coloro che riteniamo in errore.»

Tale il famoso editto di Giuliano sulle scuole pubbliche [248] e private dell’impero, editto repressivo e preventivo ad un tempo, in quanto esso riguardò i maestri in funzione ed i maestri futuri. Vi seguì qualcosa di più grave?

Tutti gli scrittori cristiani delle cose di questo tempo affermano, con quasi invariata stereotipia, che Giuliano vietò anche ai Cristiani di apprendere le lettere greche e latine e di frequentare le scuole pagane.[593] Se non che, nonostante l’ampiezza della testimonianza non si può con tranquilla coscienza pensare ad una seconda legge, od editto, di quest’imperatore, che avessero il contenuto che vi si attribuisce.

Quel contenuto anzitutto sta in categorica contraddizione con la parola e con lo spirito delle disposizioni precedenti. Il primo editto invero concludeva: «Questa legge riguarda gli educatori e i maestri; chiunque invece dei giovani vuol frequentare le scuole non ne è escluso. Infatti non è ragionevole chiudere la via migliore a fanciulli, ancora ignari dell’indirizzo da scegliere, o condurli, per timore, nolenti, alle patrie consuetudini. Forse sarebbe giusto curarli, anche contro lor voglia, come si curano i deliranti; ma noi tollereremo in tutti questa malattia, giacchè io penso che sia d’uopo istruire, non punire, coloro che riteniamo in errore.»

Ma non basta: un divieto del genere supposto dagli oratori e dagli storici ecclesiastici è per sè stesso inammissibile.

Giuliano bramava che la cultura classica raggiungesse [249] tutta la sua piena efficacia; era questo uno dei suoi pensieri dominanti; per questo egli la voleva impartita da credenti pagani; ma egli, per ciò stesso, non poteva volerne esclusi i giovani cristiani, anzi aveva motivo di volere ch’essi accorressero numerosi a riceverla.

Infine, il silenzio di tutte le fonti di ogni altro genere (che non siano le cristiane) sul divieto, imputato all’imperatore, dell’istruzione classica ai giovani cristiani, mentre sappiamo che esse sono assai ben informate intorno all’attività politica di lui, deve gravemente impensierire. E significativa sopratutto è la mancanza, nelle stesse fonti cristiane, di un diretto accenno a due leggi, o a due editti distinti, di cui il secondo contenga le disposizioni incriminate, che pur si desidererebbe conoscere. Le fonti cristiane accusano in genere l’imperatore del tenore dell’opera sua, ma passano assolutamente sotto silenzio il testo, anzi la sola specificazione, di un secondo editto, che le loro accuse lascerebbero supporre[594]. È chiaro dunque come debba trattarsi di un equivoco e di una infedele relazione del contenuto dell’unico divieto esistente. E di tale fatto noi siamo in grado di rintracciare la genesi. Giuliano aveva vietato ai maestri cristiani l’insegnamento; e gli oratori sacri del tempo tuonarono che i cristiani venivano perciò esclusi dal diritto comune di apprendere le lettere e l’eloquenza greca e latina. Tutti gli altri ripeterono quella imaginosa informazione, e la calunnia amara traversò i secoli, divenendo l’arme peggiore ai danni della reputazione dell’imperatore filosofo.

[250]

III.

Le più notevoli disposizioni di Giuliano circa l’insegnamento si possono quindi limitare a due: il controllo dell’autorità municipale e imperiale sui titoli di coloro, che aspiravano ad insegnare, e il divieto relativo ai Cristiani. Ma la vivacità delle polemiche, che intorno vi si sono agitate, impone ora anche a noi di riandarle ampiamente e di esprimere in proposito un qualunque giudizio.

La prima legge di Giuliano non ha nulla di men che ragionevole. La quasi sconfinata libertà d’insegnamento, lasciata fin allora dal governo romano ai singoli docenti, se era un bene, in quanto — teoricamente almeno — non insidiava, nè meccanizzava, il contenuto o i metodi dei singoli docenti, poteva tradursi in un danno pubblico tutte le volte che l’insegnamento veniva accaparrato da maestri ignoranti od inetti. Ed invero, il fatto della concorrenza, che in parte valeva ad impedire ciò, si combatteva, non soltanto nel campo del merito, ma anche in quello dell’economia, e il maestro di minor merito, ma più a buon mercato, poteva conseguire maggior fortuna e maggior numero di scolari di altri, più degni e più meritevoli. Riusciva quindi, nell’interesse pubblico, necessaria una disamina preventiva della capacità dei docenti, e, siccome dubitare della imparzialità dei Consigli municipali non era certamente cosa temeraria (ne aveva dubitato anche l’insospettabile Costantino con una sua citata legge del 321), l’imperatore poteva ben a ragione volervi aggiunto il controllo del governo centrale. L’una e l’altra [251] di queste due ingerenze corrispondono perfettamente a quanto oggi si pratica nella maggior parte delle nazioni civili.

Rimane l’editto, che — si è detto — veniva a limitare la libertà d’insegnamento.

Le censure della grande maggioranza dei cristiani di quel tempo sono in verità assai poco persuasive; tradiscono anzi la propria debolezza, rivolgendosi, come esse fanno, non contro l’editto, ma contro una sua equivoca interpretazione, secondo cui Giuliano avrebbe vietato, non già ai maestri Cristiani, l’insegnamento, ma ai giovani di quella fede, l’apprendimento delle lettere e dell’eloquenza greca e latina. Certo, in tal caso, il provvedimento di Giuliano sarebbe stato gravemente deplorevole; per fortuna, si trattò di ben altra cosa, e questa soltanto sarebbe bisognato discutere, e, se fosse stato d’uopo, censurare.

Non è però da credere che i più che rari scrittori cristiani, i quali con maggior verità accennano al provvedimento, che fu realmente adottato da Giuliano, lo definiscano in modo benevolo. Tutt’altro! Essi, come era costume di quel tempo, agitato da grandi passioni politiche e religiose, corsero all’eccesso opposto, e S. Giovanni Crisostomo, che non fu l’ultimo tra quei Cristiani, rendendo il pensiero, che doveva essere della maggioranza, definisce senz’altro l’editto «una mala azione»[595].

Ma non tutti i credenti nella nuova religione accolsero con egual sentimento i divieti imperiali. Una piccola parte tra essi ne fu soddisfatta. Questi — erano [252] i più intransigenti — approvarono, esultanti. Finalmente veniva rotto ogni pericoloso contatto con la coltura classica, diffonditrice dell’aborrito politeismo! Finalmente il Cristianesimo si sarebbe servito di mezzi e di forme proprie, nè più si sarebbe contaminato con il pensiero e con il sentimento pagano![596]

Ma, se così esplicito fu il giudizio dei cristiani, transigenti ed intransigenti, non altrettanto possiamo dire dei pagani. Esultarono essi dell’editto? Non v’ha, nelle nostre fonti, nessun elemento, nessuna traccia che ci autorizzi ad affermarlo. Ma questo silenzio è di quelli, che recano in se stessi un grave significato. È infatti impossibile immaginare che, in tanto fervore di polemiche, i Cristiani avessero obliato quella, che certamente, se ci fosse stata, avrebbero definito con le frasi più atroci: la demoniaca esultanza degli avversarii trionfatori; è inconcepibile che questi, se tale esultanza avessero provata, non fossero anch’essi entrati in polemica.

Ma della noncuranza, anzi forse del biasimo dei pagani, noi abbiamo una diretta riprova nel giudizio aspro, che Ammiano Marcellino dà dell’editto, ch’egli definisce «misura degna d’essere sepolta sotto un perenne silenzio».

Come assai giustamente è stato notato, Ammiano Marcellino fu un onesto ed imparziale narratore, ma uno spirito mediocre, il quale non prese interesse, non che alle questioni religiose, ad alcuna delle grandi questioni ideali del tempo, di che la sua Storia ci fa fede [253] piena. Egli, specie dopo l’insuccesso, non poteva quindi non deplorare che un principe, tanto prode come Giuliano, si fosse impelagato nei flutti insidiosi delle dispute teologiche[597]. Se non che, tale stato di animo, tale indifferenza, tale mediocrità di pensiero e di sentimento dovevano essere comuni alla grande maggioranza dei pagani del tempo, come sono, del resto, in ogni tempo, comuni alla grande maggioranza degli uomini. Da siffatta constatazione ebbe anzi a provare le maggiori amarezze l’imperatore filosofo, nella sua vanamente tentata riforma spirituale. Il suo editto aveva parlato di cristiani; ma quanti maestri pagani non tradivano ugualmente, dalla cattedra, la loro missione rigeneratrice, quale la concepiva Giuliano! E che veniva, per essi, ormai blaterando costui, in un editto, odiosa preparazione, e conseguenza insieme, di tante altre sue fastidiose riforme e velleità? Cotale irritazione sorda, cui l’insuccesso diede la baldanza e l’insolenza della viltà, è consegnata nella frase di Ammiano Marcellino, e risponde all’atteggiamento spirituale della grande maggioranza dei pagani.

Solo qualche spirito eletto intese il pensiero imperiale: qualcuno di quei nobili sognatori, che insieme con lui si affaticavano invano a fermare l’ora del tempo, che mai non s’arresta; qualcuno dei migliori tra i filosofi o i retori, in corrispondenza con lui, forse Massimo, forse Prisco, l’amico, più che il protetto di Giuliano, che alla fine di lui e del suo sogno di risurrezione del paganesimo, nascose l’infinita amarezza dell’anima, e seppellì, come si esprime un suo biografo, [254] la lunga vecchiezza negli antichi templi della Grecia;[598] forse Libanio, che con grande finezza spiegava come l’imperatore «ritenesse indissolubili l’eloquenza e il culto degli Dei.»[599] Ma che valor politico poteva avere, che efficace conforto poteva arrecare la tacita o aperta approvazione di qualche isolato?

IV.

Gli storici moderni non sono potuti essere, nè sono stati, più imparziali o più benevoli degli antichi. Per inevitabile caso, la maggior parte di coloro, che hanno studiato l’opera del grande Apostata, sono stati dei cristiani; taluni, dei ferventi cristiani. Questa condizione vietava loro di essere imparziali, e li sospingeva a precipitare là, dove conduce la più triste delle cecità, la cecità di parte religiosa. Ma sarebbe ciò stato possibile anche nel caso, non dirò di un opposto indirizzo, ma di una maggiore remissività di tendenze? È pur troppo da disperarne! La Chiesa, il Cristianesimo sono cose troppo intime, troppo connesse con la civiltà di cui viviamo, occupano troppa parte nella nostra vita d’ogni giorno, perchè con tutto il buon volere possiamo giudicare all’infuori delle nostre passioni e delle nostre prevenzioni. Specie poi in argomento come questo, che, con facile equivoco, tende a risuscitare le preoccupazioni di tutta la civiltà moderna pro o contro l’insegnamento così detto confessionale, pro o contro l’insegnamento [255] così detto laico. In tali condizioni, la vantata imparzialità dello storico si riduce a ben piccola cosa: alla sua onestà nel servirsi delle fonti, alla cautela e al valore delle sue personali opinioni. Questo è tutto quanto gli si può richiedere. Ma è di questo, pur troppo, che gli storici di Giuliano hanno, nella grande maggioranza, mancato!

Spigolando infatti tra i giudizii meno remoti e più autorevoli, troviamo anzitutto che gli ortodossi espositori delle relazioni fra la Chiesa e lo Stato, nel IV. secolo di C., hanno definito con frasi durissime l’atto legislativo di Giuliano. L’editto, le cui parole apparirebbero imbevute di fiele e di vanità letteraria, rappresenta per loro, addirittura, il denudarsi sfacciato del suo odio anticristiano.[600] L’editto, ciecamente intollerante, sarebbe un misto di violenza e di astuzia settaria[601], il cui fine era soltanto quello di precipitare nell’ignoranza e nel disprezzo i Cristiani[602]. C’erano state persecuzioni più brutali, non mai persecuzione più irritante[603].

I tiepidi hanno scritto che l’editto fu un’iniquità, una misura insidiosa, illegale (??), intollerante, ben meritevole dell’aspra censura ch’ebbe a colpirla; che il moralista vi si appalesa un cavilloso azzeccagarbugli, e che il lettore non può non associarsi alla giusta ira di [256] Gregorio Nazianzeno.[604] Hanno scritto che le vedute pedagogiche dell’editto di Giuliano sono da condannarsi da un punto di vista semplicemente umano, e che il diritto alla cultura ellenica è diritto sulla lingua e sull’eloquio greco, ma che esso è indipendente da qualsiasi più intima connessione con quella civiltà....[605] Giuliano avrebbe detto brutalmente, sia pure in veste filosofica: «O la mia scuola, o l’ignoranza», e avrebbe dato il primo crudo esempio di ulteriori dilemmi, coi quali altri Stati cercheranno di imporre la propria scuola ed i propri maestri.[606]

Finalmente, i più benevoli nel giudicare l’opera di Giuliano, quando non si sono accodati alle due categorie precedenti di censori,[607] non hanno sempre osato giudicare l’editto, e giustificarlo, senza reticenze, senza ambagi, parlando come forse pensavano. Hanno detto invece che l’opinione di Giuliano sul diritto degli studiosi e dei maestri a servirsi della cultura greca era, per il suo tempo, tanto giustificata quanto l’opinione degli avversarii; ma che oggi noi possiamo dire che [257] la ragione stava dalla parte di questi ultimi, e che il giudizio di Ammiano Marcellino può ben meritare di essere a cuor tranquillo confermato.[608] Hanno spiegato che Giuliano concepiva la lotta fra la civiltà greca e la cristiana così come i cristiani più intransigenti, sicchè per lui nessuna conciliazione poteva supporsi fra l’una e l’altra, e bisognava che, in quel duello, ciascuna si avvalesse delle risorse e dei mezzi proprii e non tentasse trionfare con le armi dell’avversaria.[609] Ma hanno al tempo stesso avuto cura di premettere che, solo da tale punto di vista, tutto sociale dell’imperatore, e nel cui merito essi si sono ben guardati di entrare, i suoi provvedimenti potevano dirsi logici e giustificabili. Hanno soggiunto che Giuliano era più chiaroveggente dei suoi censori, giudicando impossibile l’uso equo e rispettoso degli autori pagani nelle scuole tenute da Cristiani, ma che sarebbe stato ancor più chiaroveggente, qualora avesse compresa, e non già respinta, la inevitabile, graduale infiltrazione di elementi ellenici nel cristianesimo. Che, ad ogni modo, si può disapprovare la sua politica, ma non disapprovare la sua indignazione contro i tentativi operati dai Cristiani a danno delle letterature classiche[610].

Solo fra i moderni, quasi ricollegandosi, non nel tenore dei giudizii, ma nelle audacie dell’indipendenza, agli Enciclopedisti e ai filosofi del secolo XVIII., i [258] quali si erano sforzati di rivendicare il pensiero e la figura dell’imperatore Apostata, un italiano, Gaetano Negri, non storico di professione, ma fine osservatore ed uomo politico, ha discusso la non difficile questione con maggiore originalità e senno di ogni altro; e, movendo da considerazioni indubbiamente più elevate, ha giudicato che Giuliano era nel suo pieno diritto, allorchè esigeva il consenso dei maestri alle opinioni degli autori classici, oggetto del loro insegnamento. E poichè, dopo questo, egli rimandava i Cristiani ai libri genuini del Cristianesimo e i Pagani, ai libri del Paganesimo, egli non veniva con ciò — menomamente — ad infirmare la libertà religiosa dei suoi sudditi, nè tanto meno ad offendere quella che suol dirsi la libertà dell’insegnamento. Giuliano avrebbe, nella sua legislazione scolastica, applicato quella stessa teorica, che, nel grave dibattito dei diritti e dei doveri dello Stato, il Negri sceglie e fa, per suo conto, propria, la teorica, la quale riconosce che, in fatto di disciplina sociale, lo Stato è un interessato, il quale, come ha il diritto di difendere la propria organizzazione, ha anche il dovere di imporre — ai docenti che esso istituisce — una propria dottrina morale.[611]

Come avremo a vedere, le giustificazioni del Negri non sono sempre esattissime, ma egli è certo, fra i moderni, l’unico che abbia cercato di giudicare con criteri, che non fossero nè frutto di volgare empirismo, nè stereotipe ripetizioni di perifrasi altrui.

[259]

V.

Esaminiamo ora, per nostro conto, pacatamente, l’editto nelle motivazioni, che il suo autore ce ne porge, e nella sua intima essenza.

In esso, noi possiamo anzi tutto costatare che, se c’è qualcosa, da cui Giuliano mostra di rifuggire con tutte le forze dell’animo, qualcosa, anzi, che egli avversa con tutto lo sdegno della sua passione, è quella che noi diciamo la scuola secondaria neutra, quella scuola, in cui, pur aspirandosi alla educazione morale e intellettuale dei giovani, non si formano nè convinzioni, nè sentimenti determinati circa la vita ed il mondo, quella scuola, in cui le discipline che si insegnano, gli autori che si illustrano hanno il più estrinseco valore formale, e non solo nessun valore scientifico, ma nessun valore, nessuna efficacia formativa. La scuola è, per lui, generatrice o rigeneratrice di anime, e, per lui, «una sana istruzione ed educazione non consistono nella accurata euritmia delle parole e dell’eloquio, ma nella disposizione di una mente, che abbia un verace concetto del bene e del male, dell’onesto e del disonesto». E questa condizione, se egli riteneva opportuna per ogni forma e grado dell’insegnamento, diceva di ritenere «imprescindibile» — richiamo le sue stesse parole — per coloro che insegnano ai giovani, per coloro, che dicono di voler essere, non solo maestri d’eloquenza, ma eziandio di morale e di vita civile. È noto quali per gli Elleni si fossero il bene ed il male, il lecito e l’illecito, l’onesto e il disonesto. Il mondo classico nutriva fede indomita nella potenza della ragione, esaltava [260] il valore della bellezza sensibile, la giocondità della vita, la energia superba dell’azione. Tutto ciò costituiva la sua caratteristica, la sua forza, la sua gloria, ciò che bisognava amare, e far amare, ed apprezzare.

Era questo il compito dei professori di letteratura. Esercitare un’azione morale sui giovani, dirigerne lo spirito, ciò che, a detta del grande Platone, i genitori richiedevano più ancora della scienza delle lettere e dell’arte della cetra[612], spettava agli illustratori della poesia e dell’arte antica, la grande, e, per lungo tempo, unica scuola del dovere, l’istitutrice per eccellenza della vita. Ma tutto ciò, come gli ideali dell’anima pagana, come la legittimità di dirigere a tale scopo la lettura dei poeti, dei prosatori, dei filosofi antichi, era — ed è stato in ogni momento della storia — recisamente negato dalla Chiesa cristiana.

Se però la censura e il pensiero di Giuliano riguardavano direttamente la scuola media del tempo, quella che appunto si diceva scuola del grammatico, essi non ismarrivano alcun che della loro efficacia, quando venivano ad applicarsi — come era pur detto — a uno degli insegnamenti superiori dell’antichità, quello della retorica. Non solo, invero, le differenze costitutive fra questi due gradi di istruzione, per cui oggi la prima si vuole essenzialmente educativa, la seconda, essenzialmente scientifica e professionale, non trovano esatta rispondenza nell’antichità, in cui, per limitarmi a un solo esempio, la scuola del retore continuava ad essere [261] per buona parte una scuola formativa del gusto e del pensiero del discente. Ma, come se questo non bastasse, le esercitazioni, che la occupavano, erano, per loro essenza, le più lontane dallo spirito cristiano. La retorica, maestra della scienza oratoria, non poggiava infatti sulla verità assoluta, o su quella che tale si fosse creduta, ma sulla minore o maggiore capacità polemica degli argomenti, che essa porgeva a seconda delle circostanze. Suo punto d’onore era fornire gli espedienti, per cui si riesce a imporre, non già la convinzione del vero e la confutazione del falso, ma, indifferentemente, l’accoglimento dell’uno o dell’altro. Il retore, in quanto tale, non ha perciò opinioni o passioni; tutte le passioni e tutte le opinioni gli rimangono estranee. Egli non va a fondo di nessuno dei problemi del mondo e della vita; per lui, tutto sta nella maniera, con cui abbellire, e far passare, qualsiasi opinione; ed è noto, infatti, come il culto della forma per la forma, e la negligenza del contenuto, in quanto contenuto, sono giunti a noi dalle scuole di retorica dell’antichità.[613] Or bene, questo, nel piano generale della vita e dell’educazione pagana, aveva il suo scopo, il suo merito, come aveva anche i suoi pericoli. Ma che di più antitetico, di più contradditorio con lo spirito cristiano, e come mai dei Cristiani avrebbero potuto farsene maestri?

Ma, a parte tali considerazioni, come non sentire, e non prevedere, che il grammatico e il retore, che di [262] cristiano non avessero soltanto il nome, erano naturalmente portati a opporre un’altra teologia a quella dei filosofi, che facevano studiare, a dare un senso nuovo alle leggende dei poeti, ad attenuare con delle riserve, a neutralizzare, non soltanto l’efficacia logica di quell’insegnamento, ma la stessa sua efficacia educativa, a spianare ad ogni istante le pieghe, ch’esso imprimeva nell’animo dei discenti. Tutto ciò equivaleva a cancellare il più che si poteva, a distruggere forse, l’efficacia di quella stessa scuola, di cui i docenti erano i ministri e i sacerdoti.

Ma se a questo si fosse limitato, il loro metodo avrebbe potuto costituire un male rispetto alle finalità della scuola, in cui insegnavano, ma in fondo, entro modestissimi confini, esso avrebbe pure potuto dar vita ad altre forme d’insegnamento e di educazione spirituale. Ma tutto ciò non facevano, nè potevano fare, che i migliori; i più dovevano vuotare la scuola classica di tutto il suo spirito, senza nulla collocare al suo posto; dovevano farla degenerare, come più tardi degenerò, in un esercizio, in una meccanicità, non si sa bene, se più risibile, o più colpevole. Sarà questo infatti il carattere generale dell’insegnamento classico in tutte le scuole cristiane, specie in quelle rette da religiosi; di qui avrà origine l’idea delle edizioni espurgate degli autori antichi[614], e Giuliano era perfettamente nel vero, quando voleva fin da principio impedire il consolidarsi di una tale deformità didattica.

[263]

L’insegnamento, dunque, che egli condannava, subiva la sorte meritata, non in quanto era impartito da una certa categoria di persone, più che da una altra; non in quanto contraddiceva alle idealità della società pagana, ma in quanto esso contraddiceva agli elementi oggettivi fornitigli dalla scuola, in cui s’impartiva, in quanto repugnava agli istrumenti, di cui si serviva, in quanto — peggio ancora — si tramutava nella negazione di se stesso. E la condanna di Giuliano, quali che ne fossero stati i primi eccitamenti personali, conteneva in sè un alto valore didattico ed educativo, come la tendenza, a cui le volute riforme rispondevano, era la sola capace di restituire alla scuola la virtù del docente, la sua efficacia, quale plasmatore di anime e di intelligenze, tutto ciò, infine, per cui la parola e il concetto di scuola han valore. Richiamando e grammatici e retori alla coerenza con se stessi, Giuliano restaurava l’uomo nel docente, e in quel suo richiamo era tanto di verità quanto difficilmente si sarebbe potuto trovare in una concezione opposta, magari liberata dagli errori, di cui l’imperatore avea potuto macolare la propria.

Non basta! Quest’idea centrale, profondamente sana, dell’illustrazione, che Giuliano premette al dispositivo del suo editto, non induce Giuliano, come si è pensato, al divieto assoluto dell’insegnamento ai Cristiani; lo fa invece concludere con la imposizione che esso sia da loro tentato con mezzi e con ispirito proprio. «Se [i maestri] pensano che furono sapienti gli autori, ch’essi ora illustrano, e di cui quasi seggono interpreti, li imitino anzi tutto nella pietà verso gli Dei. Ma, se invece pensano che quelli abbiano errato circa le Divinità, che [264] dovrebbero essere più sacre, vadano nelle chiese dei Galilei e interpretino Matteo e Luca, i quali impongono, e Voi, maestri cristiani, ne ripetete il precetto, che si debba astenersi dalle cerimonie pagane.» E quanto ai giovani scolari, essi sono, nell’editto, dichiarati esplicitamente liberi di frequentare le scuole dei Cristiani o pure quelle dei grammatici e dei sofisti pagani, «chè non è ragionevole — continua l’editto — chiudere la via migliore a fanciulli, ancora ignari dell’indirizzo da scegliere, o condurli per timore nolenti alle patrie consuetudini»; «occorre, infatti, istruire, non punire, coloro che riteniamo in errore».

Dell’esigenza di una conformità tra le opinioni dei maestri e lo spirito pubblico non v’è dunque alcuna traccia; e così l’accusa, rivolta a Giuliano, di avere, con la sua legge e col suo editto, offeso la libertà dell’insegnamento, e di avere formulato l’una e l’altro solo allo scopo di apparecchiare la cieca e partigiana esclusione dei Cristiani dalle scuole, può dirsi tranquillamente, e in modo assoluto, infondata e suggerita o da partigianeria, o da esagerato ossequio alla tradizione, o da incompiuto esame dei fatti.[615]

[265]

Ma, se la libertà d’insegnamento non riceve nessuna violenza, è forse l’editto ispirato a una determinata teorica, concernente il diritto dello Stato d’imporre le proprie dottrine morali, e di escludere le altre, come taluno dei migliori fra i critici moderni ha pensato?[616]

Neanche questo. Giuliano non faceva una questione di privilegio per le dottrine dello Stato, ma una questione sostanzialmente pedagogica, quali che ne fossero state le ispirazioni politiche e morali, che ve lo avevano determinato, quali le ripercussioni, sociali e politiche, che potevano attendersene. O, se esercizio di prerogative dello Stato è nel suo editto a riconoscere, si tratta di ben altra cosa, non sufficientemente constatata; si tratta di una più intima ingerenza del potere centrale nelle faccende relative all’istruzione pubblica. Ma, per questo rispetto, l’imperatore nulla innovava; continuava bensì la politica, ormai da circa un secolo e mezzo inaugurata dai predecessori, politica che, incensurati o lodati, i suoi successori cristiani spingeranno a più estreme conseguenze[617], e che, in ogni modo, a torto o a ragione, è, dal progresso della civiltà, riconosciuta ovunque legittima.

Tutto questo non intesero gli scettici del tempo, anche se pagani; questo non volle intendere, o non intese, la maggior parte dei Cristiani, vuoi perchè le leggi emanate dai principi, debbono sempre, a ragione od a torto, combattersi dai loro avversarii, vuoi perchè la società cristiana si trovava allora già avviata in una pericolosa china di adattamento con la massa, o pagana [266] o incredula, dei contemporanei, adattamento, da cui non ebbe mai più la possibilità di ritrarsi. Questo invece — l’abbiamo visto — intesero i pochi Cristiani intransigenti superstiti[618]. Nella loro ignoranza, essi forse non ricordavano che il problema dell’educazione, anzi il problema della incompatibilità dell’insegnamento pagano con la fede cristiana, era stato già dibattuto fin dalle origini del Cristianesimo, e che allora appunto i Cristiani l’avevano risolto come ora lo risolveva Giuliano. Ma la fede viva e pura fece loro intravedere ugualmente la occasione propizia di una rottura completa con le vecchie ideologie, e la continuazione, nella scuola, di una propaganda spirituale, che avrebbe ricollocato il mondo su nuove basi morali. Ed essi soltanto resero giustizia all’Apostata.[619]

Ma i critici antichi e recenti di Giuliano sono in certo modo giustificabili pel fatto che neanche l’imperatore intese tutta la portata del principio, da cui moveva, o, se la intese, non l’applicò in tutta la sua pienezza e in tutte le sue conseguenze.

Nell’editto, invero, il consenso intimo, che si richiede tra docenti e insegnamento, si limita solo alla fede dei [267] primi e alle opinioni teologiche degli autori, strumenti del loro ministero. E mentre la scuola deve, non già infondere delle nozioni teologiche, ma determinare, in chi apprende, uno stato morale nei rispetti della vita, che ogni giorno si vive; mentre il difetto, constatato dall’imperatore — l’assenza dell’uomo nel maestro — inquinava la educazione del tempo, che s’era andata vuotando di qualsiasi contenuto spirituale e — peggio ancora — sterilmente meccanizzando, le perturbatrici prevenzioni religiose arrestarono e limitarono i provvedimenti di Giuliano a qualcosa, che parve, e in minima parte potè essere, rappresaglia religiosa e politica. Ciò che l’avrebbe — irrimediabilmente — perduto nel giudizio dei futuri.

VI.

Quali furono, intanto, o si possono calcolare, le conseguenze pratiche della legge del 362 e dell’editto?

Uno storico, dianzi citato, scriveva: «Il colpo ebbe una grande eco. Non ci fu una città di studio, con scuole, che non entrasse d’un subito in orgasmo. Dappertutto erano professori cristiani. Cosa avrebbero fatto? E gli allievi si sarebbero costretti a non ascoltare e a non seguire che un insegnamento, condannato ormai, senza contrasto, all’errore?»[620]

Anzitutto — è bene metterlo ancora in rilievo, poichè non è mai stato fatto a sufficienza — il divieto di Giuliano non riguardava tutti gli ordini e tutte le specie di scuole. L’insegnamento elementare rimaneva estraneo [268] alle considerazioni dell’editto. E non questo solo. Le scuole di filosofia, di giurisprudenza, di scienze esatte, le scuole professionali, già incoraggiate da Costantino I. e dai suoi figli, rimanevano anch’esse aperte a maestri cristiani e a pagani. Tutta l’istruzione primaria, quella professionale e una buona parte dell’insegnamento superiore non avevano dunque conosciuto ancora alcun limite alla propria indipendenza. L’editto era stato la traduzione del preciso intendimento di Giuliano di sottrarre ai Cristiani le scuole aventi come precipuo scopo la formazione spirituale dell’uomo e del cittadino nella società pagana, le scuole cioè di cultura media e media superiore a tipo esclusivamente classico, e non si era occupato di altro. Or bene, che, nelle scuole di grammatica e di retorica, stessero ad insegnare dei Cristiani è noto, ma essi costituivano una piccolissima frazione del corpo dei docenti.

Si dovette dunque trattare di poche dimissioni e di qualche destituzione. Gli storici rammentano le due più famose. A Roma, il retore Vittorino preferì abbandonare quella scuola, com’egli la diceva, smerciatrice di ciarle, anzichè la fede di quel Dio, che rende eloquenti i fanciulli appena nati e vuole ch’essi sappiano fare a meno dell’insegnamento della retorica.[621] Tali dimissioni furono certamente un atto lodevole; ma il volgare concetto, che quel maestro aveva dei fini e dei mezzi del proprio ufficio, bastano da soli a fare gravemente meditare sull’opportunità dell’editto imperiale, che liberava la scuola di uomini, i quali spiritualmente l’avevano da tempo disertata e da tempo [269] avevano smarrito la divina virtù del proprio magistero. Più vivaci commenti della dimissione di Vittorino dovette destare quella di Proeresio, il retore, che abbiamo visto chiamato in Gallia e poi a Roma, ove una statua, innalzatagli nel foro, recava la scritta: «Al re dell’eloquenza, Roma, regina del mondo.»[622] Egli, nel 362, insegnava in Atene, dove, insieme con due tra i più illustri Padri della Chiesa, S. Gregorio Nazianzeno e S. Basilio, aveva già avuto discepolo anche l’imperatore Giuliano. Giuliano altra volta aveva esaltato l’eloquenza di lui, l’aveva proclamato rivale di Pericle e l’aveva invitato a divenire suo storiografo[623]. E, memore del passato, egli tentò di usare verso il maestro tutte le indulgenze, di cui, nonostante l’editto, la sua potestà imperiale era capace. Gli concesse infatti di continuare a insegnare retorica ai giovani cristiani[624]. Ma Proeresio rifiutò la concessione ed abbandonò sdegnosamente la cattedra[625].

Nessun altro nome ci viene fatto dagli antichi. Questo non vuol dire che i destituiti e i dimissionarii si limitassero a due soli. La schiera dei colpiti dovette essere più numerosa, e ad essa va aggiunta l’altra — che le fonti cristiane amano dire insignificante — [626]degl’imbelli, che dichiararono di convertirsi, pur di [270] serbare la cattedra. Ma, dato il complesso di tutte le nostre informazioni, sebbene questa volta ci troviamo dinnanzi a dei narratori, interessati alla parzialità, possiamo ben affermare che le conseguenze di questa così detta persecuzione furono assai minori di quelle, che sotto altri principi, avevano per l’innanzi subìto, non dirò i Cristiani, ma gli stessi filosofi pagani. L’esempio inoltre della generosità, voluta usare nei riguardi di Proeresio, è assai significativo, e poichè il giudicare spettava, volta per volta, al principe, noi possiamo pensare che la sua pratica dovette informarsi al criterio di escludere dall’insegnamento solo quei Cristiani, che l’incapacità e l’intransigenza, o l’una e l’altra insieme, rendevano inconciliabili col loro ministero[627].

Un gravissimo turbamento, dunque, nel personale insegnante dell’impero, non dovette avvenire. Se ne verificò uno tra i giovani cristiani, che sino ad allora avevano seguito le lezioni di grammatica e di sofistica dei maestri cristiani? Il divieto di insegnare si tradusse, direttamente, e maggiormente — come è stato asserito — [628] in una morale impossibilità, da parte dei giovani, di frequentare le scuole dei pagani?

Questa seconda ipotesi è ancor meno ammissibile della precedente. E prima e dopo i divieti di Giuliano, i giovani cristiani frequentavano indifferentemente maestri cristiani e maestri pagani, o, se una scelta essi fecero, [271] fu soltanto tra maestri celebri e maestri ignoti. I più famosi oratori e teologi del tempo si erano sobbarcati a lunghi viaggi, a strettezze e a dispendii, pur di ascoltare i più rinomati maestri pagani del tempo. S. Gregorio Nazianzeno e S. Basilio erano andati, dimorandovi per parecchi anni, a studiare e perfezionarsi in quel centro di cultura pagana, che era Atene. Giovanni Crisostomo e Teodoro di Mopsuesto seguivano, in Antiochia, le lezioni di Libanio, l’apologista per eccellenza della reazione politica di Giuliano. Diodoro di Tarso, il fondatore della scuola ascetica di Antiochia, frequentò, e qui e in Atene, le scuole dei maestri pagani. E tutto ciò era perfettamente conforme alla bizzarra teorica dei Cristiani del tempo, secondo cui lo studio delle letterature classiche non doveva avere più di un semplice valore formale: insegnamento di parole, di bei costrutti e di null’altro.

I divieti di Giuliano, se dunque poterono irritare delle suscettibilità o sollevare delle indignazioni, non produssero praticamente alcun effetto deleterio nella cultura dei Cristiani, e i giovani allievi non ne subirono alcun sensibile turbamento. Ma noi, se ben guardiamo a fondo e scorriamo tutti i fatti, che sono indizio delle vicende del tempo, abbiamo anche la prova di due altre circostanze, trascurate dagli storici moderni: l’una, che l’editto, se chiuse le scuole dei Cristiani, docenti discipline classiche, non chiuse punto le altre dei Cristiani, docenti discipline cristiane, o, meglio, quelle scuole, in cui, attraverso la letteratura cristiana, si intendeva conseguire quegli identici effetti, che altri Cristiani dicevano di attendere dallo studio degli autori classici; l’altra, che, se la legislazione di Giuliano non [272] fosse stata di così breve durata, avrebbe dato luogo a tutta una nuova letteratura scolastica e a una completa istruzione cristiana.

Ed infatti gli storici ecclesiastici narrano che due cristiani del tempo, uno, insegnante di retorica, l’altro, di grammatica, vollero attingere alle Sacre Scritture la materia di un insegnamento scolastico, e rifecero i Salmi in odi pindariche, i libri di Mosè, in esametri, e composero comedie e tragedie d’argomento sacro[629], tutti strumenti di una nuova scuola e di una nuova cultura. Certo, il metodo dei loro tentativi era sbagliato e doveva mettere capo a lavori, che sarebbero precipitati nell’oblìo, appena, con l’abrogazione dei divieti di Giuliano, essi fossero entrati in concorrenza con i modelli delle letterature classiche. Ma non per questo il criterio ispiratore era meno vero, e, sopra tutto, non perciò quei tentativi ci avvertono meno della libertà, rimasta inviolata, dell’insegnamento cristiano, purchè fosse stato condotto con mezzi e con ispirito proprio, purchè non venisse alla contraffazione della parola e dello spirito delle antiche letterature classiche, quale appunto non lo voleva Giuliano.

VII.

L’editto, che si legava alla legge del 362, rappresentava la parte negativa, il rovescio — diremo così — dell’opera, che Giuliano intendeva dedicare alla istruzione e alla educazione pubblica. Vedemmo come suo [273] criterio dominante fosse quello di ridurre la scuola classica, da maestra di parole, come il tempo e gli uomini l’avevano resa, a diffonditrice di determinate ideologie. Un divieto non bastava a raggiungere tale scopo; occorreva un’azione positiva, e Gregorio di Nazianzo informa che Giuliano «aveva in mente di edificare conventi e monasteri», luoghi di ritiro e di studii religiosi, lontani dal mondo e dalle sue impurità. Meglio ancora, egli «si era accinto a fondare scuole in ogni città e a istituire cattedre di vario genere, dalle quali si spiegassero e si bandissero i principii fondamentali del Paganesimo e di cui talune avessero, come contenuto, un insegnamento morale; altre, delle materie più difficili e di indole specialmente teorica»[630].

È ben difficile, da una fonte, quale, a tale proposito, è la nostra — la violenta requisitoria di S. Gregorio di Nazianzo contro Giuliano — che accenna, più che non chiarisca, e la quale, per gli scopi che animavano il suo autore, tende, non tanto a spiegare, quanto ad annebbiare e a screditare i progetti di Giuliano; è ben difficile — dico — formarsi una chiara idea delle istituzioni vagheggiate da quest’ultimo. Tuttavia sembra che egli, per mezzo di un’istruzione, per natura sua più intima o meno esteriore di quella delle scuole del tempo, abbia pensato di tentare un ravvicinamento spirituale dei contemporanei all’anima della religione, della filosofia e della morale ellenica. Dalla scuola, così rinnovata, sarebbero dovuti escire i migliori sacerdoti e i [274] maestri migliori delle nuove generazioni. Alla propaganda spirituale del Cristianesimo Giuliano intendeva contrapporre una propaganda spirituale dell’Ellenismo. Ed egli preparava le persone acconce a tale ufficio e s’accingeva a mandarle fra gli uomini, apostoli di un’idea, di una certa concezione della vita.

Quale che sia la fede religiosa dell’osservatore, è d’uopo convenire che il disegno era veramente nobile e grande e non meritava davvero le derisioni e le invettive, di cui il Nazianzeno l’ha ricoperto. Forse, anzi, la sua stessa bellezza era tanta da costituire una tra le condizioni negative della sua attuabilità; certo, la brevità del governo di Giuliano impedì che se ne sperimentassero i primi effetti.

Ma qui non si arresta la serie delle riforme vagheggiate da Giuliano.

Ammiano Marcellino e Giuliano stesso ci segnalano, in questa età, una vera e propria frenesia per la musica, ma insieme una decadenza del buon gusto e di quest’arte medesima. «Le poche case — scrive quello storico — un tempo celebrate per serietà di studi, ora sono invase dal gusto dei piaceri proprii della torpida ignavia, e risuonano senza interruzione di canti e del dolce tinnir delle cetre...... Non si fabbricano che organi idraulici e lire enormi come carrozze, tibie e strumenti di sesquipedali dimensioni, che servono ad accompagnare le pantomime»[631]. Giuliano, discorrendo di Antiochia, la città ellenistica per eccellenza, ribadisce queste accuse[632]. [275] Ed egli stesso pensò, nei limiti delle sue forze, di ricondurre la musica verso la buona scuola del buon tempo antico. Esiste in proposito una ufficiale lettera di lui al prefetto d’Egitto, Edicio: «Conviene — scrive l’imperatore — se di cosa alcuna, curarsi della musica sacra. Tu dunque scegli, tra gli Alessandrini, fanciulli di buona famiglia, e ordina che siano loro fornite ogni mese due artabe[633] di frumento, olio e vino, e che i sovrintendenti dell’erario forniscano loro anche una veste. Questi fanciulli siano scelti per la loro voce, e quelli, che conseguiranno la perfezione nell’arte del canto e della musica, sappiano che Noi abbiamo stabilito per essi ricompense non piccole.... Quanto poi ai discepoli del musico Dioscoro, fa che apprendano con cura la musica: Noi siamo pronti ad aiutarli in tutto ciò che essi vorranno.»[634] Giuliano, dunque, e proponeva sussidii, e istituiva borse di studio, e prometteva premii ai giovani, che si fossero resi provetti nell’arte del canto e della musica, materia, della cui cura egli faceva ai monarchi un preciso dovere. Ebbe egli la fortuna di vedere realizzato il suo sogno? O la brevità del suo governo troncò insieme e la sua vita e le sue speranze?

Anche questa volta noi restiamo nella più assoluta [276] incertezza. Ma è così per la massima parte dell’opera di quel principe disgraziato. Se un simbolo volesse tutta esprimerla con un segno solo, non potrebb’essere che quello stesso, che gli uomini pongono sulle tombe di coloro, i quali morirono giovani, perchè cari al cielo: il tronco di una breve colonna infranta; onde ciò che di vivo e di perenne resta di lui è solo, per noi, il senso dell’ardore, non mai placato, col quale egli amò quegli ideali, di cui non era destinato a vedere la gloria.

E di questo amore l’unica forma tangibile, in cui egli riuscisse a tradurlo praticamente, fu il favore largamente accordato ai dotti del tempo. Tornò con lui — si disse — il regno dei retori e dei filosofi, e gli uomini della città, che Giuliano amò di amore umano, i rappresentanti dell’Università di Atene — sentinelle morte di un passato irrevocabile — egli volle, nei brevi mesi della sua vita di monarca, colmare di ogni favore ed innalzare a suoi ispiratori quotidiani. «Fratello desideratissimo ed amatissimo», scriveva un giorno a Prisco, «io ti giuro, per l’Autore e per il Conservatore di tutti i miei beni, che, se io desidero vivere, è solo per essere a Voi utile; e, quando io dico Voi, intendo i veri filosofi, tra i quali sei tu[635]

E attorno a sè egli chiamò, appena imperatore, il retore Mamertino, il sofista Imerio, i filosofi Massimo, Crisanzio, Eustazio, Aristosseno e Prisco stesso. Di simili inviti sono piene quelle sue lettere, che documentano l’attiva sua corrispondenza con gli uomini maggiori per intelletto e per cultura del tempo, con i succitati, [277] con Temistio, con Sallustio, con Proeresio, con Evagrio, con Ermogene, con Libanio, con Eugenio, con Oribasio, con Elpidio, forse con Giamblico,[636], e con altri ancora. E come sono calde le sue esortazioni! Come egli, ch’è pur l’imperatore, mostra di sentirsi al disotto degli scalini del trono, che innalzano a ogni lor fedele la cultura e la scienza! Come sono teneri gli accenti, ch’egli trova per i suoi genitori spirituali, per i suoi maestri d’elezione! Libanio è «il suo fratello amatissimo.»[637] A Giamblico scrive: «Allorchè riconobbi il tuo messo, io corsi di un balzo a lui, lo abbracciai e piansi dalla gioia di avere tue lettere.... O nobile anima, tu, che sei il salvatore riconosciuto dell’ellenismo, tu devi scrivermi spesso, tu devi sorreggermi, eccitarmi, incoraggiarmi quanto più puoi.... Una tua lettera vale per me tutto l’oro della Lidia.»[638] Ad Aristosseno scrive: «Alcuno chiederà come mai noi possiamo essere amici, pur non conoscendoci di persona. Ma io chiedo a mia volta come mai amiamo quelli, che vissero mille o due mila anni prima di noi. Certo, li amiamo perchè furono valenti ed ottimi. Desideriamo dunque di essere tali anche noi, sebbene dall’esserlo realmente, almeno per parte mia, siamo le mille miglia lontani.... [278] Ma a che mi perdo in parole? Se, perchè tu venga, occorre che non ti chiami, tu verrai certamente; se attendi una mia esortazione, ecco, io ti esorto. Vieni dunque a me!....»[639].

A Massimo scrive: «Se vuoi che la tua conversazione epistolare mi tenga luogo della tua presenza, scrivi, scrivi spesso, o, piuttosto, in nome degli Dei, vieni, e tieni per fermo che, fino a che starai lontano, io non potrò dire di vivere, se non in quanto mi è concesso di leggere le tue lettere.[640]».

Ecco in qual modo Ammiano Marcellino racconta l’episodio dell’arrivo di Massimo a Corte. Giuliano era intento a giudicare taluni processi, quando fu annunziato l’arrivo del filosofo. Egli balzò improvvisamente dal suo seggio, dimentico d’ogni riguardo, e gli corse incontro, fuori dal vestibolo, ad abbracciarlo e a baciarlo, e lo condusse seco trionfalmente nella sala[641].

E, come Massimo, tutti i retori, i sofisti, i filosofi, i dotti del tempo, sia che venissero a lui, sia che preferissero rimanere lungi dalla corte, ricevettero gli onori attesi e promessi. Mamertino, in un solo anno, percorse la scala di tutte le onorificenze; e fu intendente del tesoro, prefetto del pretorio d’Illiria, console; Temistio è prefetto; Aurelio Vittore è nominato consolare della seconda Pannonia e onorato di una statua di bronzo; Imerio, Prisco, Massimo occupano a Corte il primo posto tra gli amici e i consiglieri del principe. Crisanzio, che preferì non venire, è nominato gran sacerdote [279] della Lidia; la sua consorte, sacerdotessa. E, quando Proeresio, in forza di un editto del principe, che non riguardava la sua persona, ma la classe in genere dei sofisti cristiani, rischiò di essere deposto dalla sua cattedra. Giuliano, memore, volle — sia pure invano — stabilire per lui un’eccezione. La religione li aveva divisi; l’amore della scienza antica li univa ancor più indissolubilmente.

La gioia di prodigare il suo amore alla cultura e agli uomini, che la impersonavano, la gioia di esserne ricambiato fu una delle poche, che Giuliano godesse nel triste viaggio della sua esistenza, l’unica, che lo accompagnasse fino all’ultimo respiro. E, nella notte tragica, in cui egli moriva sulle sabbie ardenti dell’Asia inospitale, il suo letto di morte era circondato dagli amici filosofi, coi quali egli s’intrattenne a lungo, conversando, come Socrate fra i suoi discepoli. E le ultime sue parole furono raccolte ed incise sulle tavolette di cera da colui, che doveva essere il suo futuro storico, Ammiano Marcellino; e l’anima sua, che fuggiva, sfiorò, passando, le fronti di Prisco e di Massimo, veglianti tra la febbre e lo spasimo a un capezzale, ove si spegneva infranta la vita dell’ultimo degli Elleni[642].

Così, nonostante il gran discutere degli antichi e dei moderni, chi adesso abbracci con uno sguardo tutta l’opera scolastica di Giuliano, deve rilevare che le sue riforme, come non sono macolate dalle colpe, che si è amato ascrivervi, nè ebbero il valor pratico di altre, che le avevano precedute o che le seguiranno, nè lasciarono traccia durevole nella storia dell’istruzione [280] pubblica nell’impero romano. La morte interruppe l’esecuzione dei suoi disegni migliori, e il poco, che egli fece o tentò, si spense con la sua vita.

Ma chi da Giuliano volga lo sguardo a tutti i principi, che ressero lo Stato romano durante la seconda metà del IV. secolo di C., non può non convenire che questi furono anni veramente meravigliosi. Noi assistiamo alla creazione di un nuovo centro di studii medii e superiori, a una nuova germinazione degli studii liberali nell’Oriente, a nuovi impulsi, dati a tutti gli indirizzi della cultura, anche a quelli più remoti dall’antico pensiero classico, a un nuovo elevamento delle condizioni sociali dei maestri, ciò che costituisce l’indice migliore della civiltà d’uno Stato.

A tutto questo, che fu merito precipuo della casa di Costantino, corrispose un periodo di splendore nelle produzioni dell’ingegno greco e romano. Ma, poichè il ciclo di tale fenomeno si compirà alla fine del IV. secolo, noi attenderemo quel momento per considerarlo e descriverlo con ampiezza maggiore del cenno fugace, che qui, adesso, ne facciamo.

[281]

CAPITOLO VII. La dinastia valentiniana e l’istruzione pubblica nell’impero romano.
(364-383)

I. La reazione alla politica scolastica di Giuliano — II. Un regolamento disciplinare per gli studenti stranieri in Roma — III. Valentiniano riconferma le immunità; nuove immunità ai maestri di pittura — IV. Valente e la biblioteca costantinopolitana; Valente contro l’astrologia; distruzione di opere scientifiche classiche; giudizio che di lui fa Temistio — V. Le riforme scolastiche di Graziano; l’ordinamento delle scuole in Gallia — VI. Valentiniano, Graziano e i medici di Roma e della Corte; la cura dei monumenti antichi e delle opere d’arte — VII. La rinascita intellettuale in tutto l’impero.

I.

Le sorti dell’istruzione pubblica nell’impero romano non ebbero a risentire grave danno del trapasso dei Costantiniani. La nuova dinastia, cui fu capostipite un generale, acclamato imperatore durante la seconda sosta funebre di quello stesso esercito, che Giuliano aveva condotto alla infelice spedizione persiana, segue fedelmente la tradizione dei predecessori.

[282]

Era tuttavia prevedibile che l’indirizzo, propugnato da Giuliano in fatto di istruzione pubblica, dovesse, alla sua morte e all’avvento dei nuovi principi cristiani, subire una vigorosa reazione. Il breve regno di Gioviano non aveva potuto iniziarla; ma, tostochè il successore ebbe dato assetto agli affari maggiori del governo, appena ne ebbe divise le attribuzioni con il fratello Valente, venne, dal proprio volere, da quello della corte, dall’opinione pubblica, sospinto a portare le necessarie innovazioni anche nel campo della scuola.

I bersagli della reazione cristiana furono la legge e l’editto del 362. Contro l’una e contro l’altro tuonavano gli oratori sacri, scrivevano e parlavano i retori, brigavano gli uomini politici. Ad essi dovevano dunque mirare i primi atti dell’imperatore. Esiste tuttavia — ed è troppe volte a constatarsi nella storia e nella vita politica — una muta solidarietà tra gli uomini, anche di parti opposte, che assumono il potere; essi si contraddicono, ma non si smentiscono clamorosamente. E tipico esempio di un tale fenomeno fu la legge di Valentiniano I., con la quale si abrogava l’altra aborrita di Giuliano del 362 e l’editto relativo. La concisione è ivi pari alla misura e alla circospezione necessaria a non trascurare alcun riguardo verso l’imperatore estinto. La legge, indirizzata al prefetto del pretorio dell’Italia, e, quindi, dell’Illirio e dell’Africa, dice: «A coloro, i quali, vuoi per dignità di vita, vuoi per eloquenza, si dimostrano pari all’ufficio di istruire i giovani, viene data facoltà di aprire una scuola, o di riaprire l’antica, che eventualmente avessero dovuto chiudere.»[643] È questa l’abrogazione della legge di Giuliano? È l’abrogazione di altra legge? [283] È un provvedimento estraneo a qualsiasi abrogazione? Sarebbero tutte domande lecite e dubbii assillanti, se noi, per valutare ed intendere, non dovessimo tener conto delle ferree esigenze della ragion di Stato, e cogliere, non solo ciò che il documento dice, ma, più ancora, ciò che esso accenna.

La nuova legge, dunque, voleva essere la cassazione pura e semplice dei due atti più notevoli di Giuliano, in fatto di istruzione pubblica. Ma, a chi ben guardi, la reazione di Valentiniano non fu così radicale come il carattere anodino delle parole potrebbe fare supporre. Noi possediamo, di qualche anno dopo, un’altra costituzione dello stesso imperatore, che si riferisce agli insegnanti di filosofia, ed essa ci parla, come di norma in vigore, dell’approvazione dei «competenti» (a probatissimis adprobati), cui quelli sarebbero da tempo costretti a soggiacere. Ma, poichè tale approvazione non poteva essere chiesta direttamente, nè tali commissioni di competenti funzionare all’infuori dell’iniziativa della locale autorità, noi dobbiamo ritenere che essa corrispondeva a quel parere, che, secondo la legge di Giuliano, i Consigli comunali invocavano prima di rilasciare le autorizzazioni all’insegnamento. In tale forma, la legge di Giuliano rimase infatti in vigore sino a più tarda età;[644] onde l’abrogazione di Valentiniano ne riguardò solo una parte: non quella, concernente l’autorizzazione dei Consigli municipali, ma l’altra, che si riferiva alla ulteriore conferma del principe, in cui, [284] a torto o a ragione, il passato lasciava temere si annidasse il veleno politico della precedente riforma.

Ma arrecava inconvenienti più gravi un’altra condizione di cose, che, se si era originata via via durante l’impero, si era specialmente acuita sotto il governo di Giuliano,[645] l’eccessivo numero di coloro, che, spacciandosi per maestri di filosofia, venivano a godere della esenzione delle pubbliche cariche e dei pubblici oneri.

Noi vedemmo a suo tempo quali norme Antonino Pio avesse introdotte riguardo agli altri ordini di docenti; quali limitazioni avesse arrecate al numero di coloro, che delle immunità avrebbero goduto, e notammo ancora come egli avesse escluso da tali restrizioni i filosofi, contando sulla loro scarsità e sulla autoefficacia delle loro dottrine morali. Vedemmo le nuove limitazioni, poste al diritto di insegnare da Giuliano, con la legge del 362. Ma la copia dei docenti di filosofia si era andata spaventevolmente accrescendo, sì che il regno di Giuliano, come quello di Marco Aurelio, era stato detto, e sul serio, e per derisione, l’impero dei filosofi, e le inibizioni morali non avevano impedito gli abusi nella caccia audace dei privilegi. Valentiniano I. volle provvedere, e forse, provvedendo, cedette, anche in questo, alla reazione cristiana del suo tempo, e scrisse al prefetto del pretorio d’Italia, Illirio ed Africa, ordinando che «chiunque, indebitamente e sfrontatamente, dichiarasse di professare l’insegnamento della filosofia, venisse tosto rimandato in patria», giacche «è [285] vergognoso che chi si vanta di tollerare anche i colpi della fortuna dica di non potere sottostare agli oneri imposti dalla propria patria». Una sola eccezione era fatta — l’abbiamo dianzi accennata — e riguardava i docenti di filosofia, i quali, su parere di commissioni competenti, fossero stati autorizzati all’insegnamento.

Non si trattava con ciò, come malamente anche questa volta è stato detto, di una statizzazione dell’insegnamento; ma per certo, con codesta disposizione, si abrogava, o limitava, qualche altra da tempo in vigore, e si poneva termine ad una consuetudine trionfante, che aveva finito per risolversi in un abuso. Si abrogava cioè la disposizione, per cui non esistevano limiti nel numero dei filosofi dell’impero, aventi diritto al godimento delle immunità, e si limitava la consuetudine di considerare costoro come una classe privilegiata dalla saggezza, e perciò esente dagli obblighi della vita municipale.

II.

Fin qui i ritocchi e gli emendamenti al passato; ma, nei rispetti dell’istruzione pubblica, il regno di Valentiniano è ancor più notevole per un regolamento disciplinare, emanato nel 370, che riguardò i giovani, i quali dall’estero accorrevano a studiare nell’Ateneo romano,[646] e della cui applicazione venne incaricato il prefetto di Roma.

Valentiniano stabiliva che chiunque si fosse recato [286] nella Città eterna per istudiare, dovesse anzi tutto presentarsi al magister census, e presentargli la relativa autorizzazione, rilasciatagli dal governatore della provincia, donde veniva. Tale autorizzazione doveva contenere, chiaramente specificati, il luogo di provenienza, il nome della città natale e gli eventuali titoli onorifici della famiglia dello studente. In secondo luogo, la nuova legge richiede che i giovani facciano una immediata dichiarazione del genere di discipline, a cui intendono dedicarsi, e dell’abitazione, in cui vanno ad installarsi, affinchè l’ufficio del magister census possa agevolmente sorvegliarli, consigliarli, e verificare se, e come, attendano agli studi dichiarati. Lo stesso ufficio doveva curare: 1) che, nelle pubbliche riunioni, i giovani si dimostrassero persone dabbene; 2) che rifuggissero dal far parte di associazioni, la cui natura e i cui intendimenti fossero in certo modo sospettabili[647]; 3) che non frequentassero eccessivamente pubblici spettacoli, e non partecipassero intempestivamente a pubblici banchetti. Qualora gli studenti avessero contravvenuto a tali prescrizioni, e si fossero comportati in modo diverso da quello richiesto dalla dignità degli studii, era concesso al magister census, o ai suoi agenti, di infligger loro la pena della pubblica flagellazione, e, magari, di rimpatriarli. Gli studenti, invece, i quali avessero diligentemente seguito il corso degli studii, avrebbero avuto facoltà di dimorare, a tale scopo, in Roma, fino al ventesimo anno. Ma, scaduto questo termine, sarebbero dovuti tornare [287] sollecitamente in patria, a meno che non si fossero inscritti in qualcuno dei corpora romani[648]; e chi avesse contravvenuto a questa disposizione, o non si fosse così garantito, avrebbe potuto essere rimpatriato d’ufficio, per ordine del prefetto della città. Affinchè poi tutte queste prescrizioni fossero osservate diligentemente, l’imperatore incaricava il prefetto della città di sollecitare l’ufficio censuale a tenere appositi, ordinati registri mensili, in cui si segnassero i nomi degli studenti, che arrivavano, la loro provenienza, non che i nomi di quelli, che, scaduto il termine concesso al soggiorno in Roma, erano in obbligo di ripartire. I varii registri sarebbero ogni anno dovuti inviarsi al gabinetto dell’imperatore, affinchè questi avesse avuto notizia delle buone o cattive note degli studiosi e avesse potuto servirsi di loro per le eventuali necessità di governo.[649]

Risalta facilmente agli occhi del lettore il carattere poliziesco del nuovo regolamento.

Questa sorveglianza così intima sulla vita degli studenti e, per giunta, sugli studenti forestieri, quali che [288] siano stati i motivi, con cui la si sia voluta dissimulare, era in buona parte una sorveglianza politico-religiosa, e le pene minacciate erano quelle stesse, in cui incorrevano i colpevoli di manifestazioni politiche, le quali turbassero ciò che soleva, e suole in ogni tempo, dirsi l’ordine pubblico. Meglio ancora lo provano le gelose e sicure informazioni, che l’imperatore richiede di tutta la carriera degli studenti. Certo, uno degli scopi di tali richiesta era il bisogno di scegliere tra essi, in modo illuminato, i funzionari dell’impero, i pubblici insegnanti, gl’impiegati del suo gabinetto. Ma, in tale scelta, è evidente, avrebbero dovuto pesare le informazioni riservate del prefetto della città e ad esse, quindi, oltre ai meriti, non sarebbero potuti rimanere estranei gli elementi della religione e della politica.

Ultimo, ma pur significativo, particolare, il limite di età, già consentito ai giovani, come termine massimo, per attendere alla loro istruzione superiore, è ridotto di ben cinque anni. Dai Severi gli studenti di giurisprudenza in Roma erano stati esentati dalla tutela, carico, che colpiva i cittadini venticinquenni. Da Diocleziano, tutti gli studenti di Berito, e, quindi, a potiori, di Roma, furono in modo identico riservati agli studii fino ai 25 anni e, fino a questa età, esentati da ogni gravame personale. Adesso si vuol tagliar fuori dalle Università il corpo migliore, gli studenti maggiorenni, che avevano formato la gloria degli antichi Atenei, come lo formeranno di quelli medievali, ma che certamente erano anche la popolazione meno maneggevole e più ribelle dei grandi centri di studio. E questa — gli è chiarissimo — non era una previggenza scolastica, ma una precauzione di politica o, forse meglio, di polizia.

[289]

Tutto questo però non vuol dire che le intenzioni inquisitorie fossero state le sole a determinare il pensiero del legislatore. Non è questa l’occasione per intrattenerci diffusamente su la vita e su la condotta degli studenti nel mondo antico; ma noi abbiamo su ciò, da altre fonti, informazioni, che riguardano i principali centri di studio della Grecia, dell’Africa e dell’Oriente,[650] e possiamo ben giudicare come fosse veramente nell’interesse, così dell’ordine pubblico, come degli stessi giovani, disciplinare le loro troppo spesso eccessive manifestazioni. Or bene, tutto quello che avveniva ad Atene, a Cartagine, a Costantinopoli, doveva ripetersi, poco più, poco meno, a Roma, città cosmopolita per eccellenza, ove affluivano, e si mescolavano insieme, genti di ogni ceto, di ogni paese, di ogni intenzione, per cui anche molte volte la qualifica di studenti doveva essere una simulazione legale. Tenere il più che possibile i giovani lontani da costumanze torbide, da distrazioni pericolose, non significava soltanto provvedere all’ordine pubblico; significava giovare agli studiosi stessi, alla loro istruzione, e il meccanismo, escogitato dai funzionarii del gabinetto imperiale a disciplinare l’anarchia precedente, fu certo — e i fatti lo provarono — in buona parte — acconcio a raggiungere un tale scopo. Allorquando, circa un lustro di poi, S. Agostino lascerà Cartagine per venire ad insegnare a [290] Roma, dichiarerà di averlo fatto solo a motivo dell’assai maggiore disciplina, che era fama contenesse gli studenti della capitale del mondo, e che in realtà regnava tra loro.[651]

III.

Ma Valentiniano stesso ripete, come oramai da tempo era in uso, le concessioni di immunità dei precedenti imperatori. In una legge del 370,[652] forse emanata durante i preparativi militari di una spedizione all’estero, egli dichiara di riconfermare le concesse immunità ai docenti di Roma «perchè le loro consorti siano esenti da ogni preoccupazione, essi stessi, liberi di tutti i pubblici oneri, nè mai tenuti al servizio o all’obbligo dell’acquartieramento militare».

La legge non ha alcun valore speciale: o essa è una ripetizione pura e semplice, o forse, come la sua dicitura farebbe sospettare, essa conferma, con qualche restrizione, le precedenti liberalità di Costantino il Grande, che aveva esteso la esenzione del servizio militare dalla persona dei privilegiati a quella dei loro figliuoli.

Ma la concessione di privilegi veramente notevole del regno di Valentiniano I. riguarda i maestri di pittura africani.[653] Una sua legge del 374, con audacia [291] di novità non mai tentata, stabilisce che i professores picturae di nascita libera siano esenti: 1) dalla capitatio, imposta, che colpiva la loro persona e quella dei componenti le loro famiglie; 2) dalla dichiarazione censuale dei propri servi barbari; 3) dalla negotiatorum collatio[654], qualora fondamento ne fosse il traffico delle loro opere; 4) da ogni fitto per le botteghe e i così detti studii di pittura in luoghi pubblici, che avessero dovuto adibire per la loro professione; 5) dall’obbligo dell’hospitium; 6) dalla soggezione all’autorità dei giudici pedanei; 7) dall’obbligo di un domicilio fisso e determinato; 8) dall’obbligo di soggiacere alle requisizioni di cavalli, per esigenze militari; 9) dall’obbligo di fornire gratuitamente l’opera propria per determinati lavori, attinenti alla professione e che i governatori solevano imporre.

Questa legge ha un’importanza e un significato veramente eccezionali. Essa è, con qualche altra di Alessandro Severo e di Costantino, una delle pochissime emanate dagli imperatori romani, le quali stiano a significare un interessamento dello Stato per rami dell’istruzione pubblica diversi dalle classiche tre o quattro discipline liberali. E certamente, per ispiegare l’iniziativa di Valentiniano, che in tutta la sua legislazione, se dà prove di coerenza alla tradizione, non ne dà veramente di grande audacia novatrice, fa d’uopo richiamare le sue speciali attitudini in pittura e scultura, di cui è testimone qualcuno degli storici del suo tempo[655].

Ma la legge porge occasione ad altri rilievi. Essa [292] è diretta al governatore dell’Africa. Si tratta dunque di un nuovo favore largito a quella provincia, che, come sembra, dava all’impero anche i migliori, e più numerosi, professionisti e maestri di pittura. E poichè i suoi privilegi riguardano solo i liberi, noi possiamo scoprirvi l’altro intendimento di promuovere, presso costoro, lo studio e l’esercizio di quell’arte.

Ma, poichè gli artefici erano già esenti ab omnibus muneribus, la speciale esenzione ai pittori, come quelle precedenti in favore degli ingegneri, degli architetti e degli aquae libratores sotto Costanzo significa solo che si voleva esentare questi da carichi speciali o che, ad essi, in rapporto alla loro professione, riuscivano soverchiamente gravosi. Le solite immunità sono perciò accompagnate da altre non mai concesse. Così i pittori non avrebbero più soggiaciuto alla negotiatorum collatio; non più all’obbligo, tassativo nella legge romana, di un domicilio fisso e determinato, che contrastava con le esigenze della professione. Non più sarebbero stati costretti a fitti gravosi per provvedersi di uno studio o di una bottega, ove attendere alle loro occupazioni, ove esporre e smerciare le proprie opere. Non più sarebbero stati tenuti a compiere lavori notevoli, per ordine del governatore, senza congruo compenso, e così via. Ma con i privilegi, che si traducevano immediatamente in utili materiali, se ne notano degli altri, che rialzavano moralmente il credito e la dignità della professione, mettendola alla pari delle più onorate dell’impero. E tra queste sono significative le due concessioni, che ritroviamo soltanto a questo proposito, la prima dalle quali rendeva i maestri di pittura indipendenti dalla giurisdizione dei iudices pedanei — una specie di [293] giudici conciliatori del tempo — [656] e li sottoponeva esclusivamente all’autorità dei magistrati maggiori, mentre l’altra esentava i maestri di pittura dall’obbligo di denunciare i barbari trapiantati sul suolo romano e impiegati in qualità di loro coloni, perchè, come tutti gli altri cittadini romani, soggiacessero al controllo esercitato dallo Stato sugli schiavi, posseduti da ciascun proprietario[657].

Ma più notevole ancora è, riguardo alla considerazione morale, che i maestri di pittura venivano ad acquistare, la natura della pena minacciata a coloro, che la legge e i conferiti privilegi avessero violato: la pena, senz’altro, del sacrilegio. Ciò non ostante, non può non apparirci strano il silenzio sullo scopo della legge stessa. Allorquando Costantino aveva privilegiato gli architetti, egli aveva dichiarato il suo intendimento, ch’era di promuovere la produzione professionale; allorquando aveva privilegiato tutta un’altra serie di professionisti di varie arti, egli aveva ripetuto la ragione del suo atto[658]. Questa volta, non una parola di tutto ciò. L’imperatore benefica una certa categoria di persone, ma non esprime i motivi, che avevano determinato la sua [294] volontà. I quali, tuttavia, non rimangono per questo meno chiari come non meno evidente ne riesce il nesso con le sorti dell’istruzione pubblica del tempo. Promuovere la pratica della pittura non era soltanto promuovere un mestiere od un’arte mercenaria; era far convergere verso quell’attività, con effetti inattesi, energie distratte altrove, era elevare la dignità degli studii dei pittori, tramutarli in focolari di arte pura, era farvi accorrere, assai più che nel passato, giovani volenterosi di seguirne le tracce e raggiungere la gloria; era creare la scuola d’arte, dove prima non aveva dominato che il mestiere.

La legge è del 374. Un anno dopo, Valentiniano I. moriva improvvisamente, interrompendo così la sua politica scolastica, come la sua tenace difesa dell’impero Occidentale dalle sempre incalzanti scorrerie dei Germani. Ma di lui rimane imperituro l’elogio, che, dirigendosi al giovane successore, ebbe a dettarne Temistio: «Sotto quale imperatore — egli esclamerà — le Muse ebbero tanto splendore e tanto fiorirono, come sotto il tuo genitore? Chi altrettanto sollecitò gli animi dei giovani verso l’istruzione e verso la cultura? Chi vi propose eguale copia di premi? Chi, come lui, onorò gli illustri per eloquenza tanto quanto gli illustri in armi? A chi la filosofia — arditamente — rese più insigne testimonianza di onore?»[659]. Parole, che, toltene le iperboli consuete al genere di componimento adottato, ben si attagliano a l’opera di un principe, che aveva avuto la fortuna, o la sciagura, di vivere, e, insieme, il merito di saggiamente regnare, in un’età agitata da grandi passioni sociali.

[295]

IV.

Insieme con Valentiniano I. era, nel 364, salito al governo dell’impero il fratello di lui, Valente. Egli aveva con lui sottoscritto tutte le leggi, che riguardavano l’Occidente, come altre ne sottoscriverà, che discenderanno dall’iniziativa del suo futuro collega; ma la sua opera personale, si riguardi nel suo complesso, o in ciò che specialmente concerne i problemi della pubblica istruzione, ci appare, al confronto, assai più fiacca e più scarsa. Ed invero, quantunque più zelante del fratello per le sorti della religione cristiana, egli non ha l’energia di abrogare, nella sezione dell’impero affidata alle sue cure, la legge e l’editto di Giuliano, relativi ai maestri di discipline liberali, ch’egli preferisce lasciar cadere in dimenticanza, e l’atto di lui più notevole, di cui ci sia rimasta menzione, può dirsi sia una breve costituzione riguardante la biblioteca Costantinopolitana.

Vedemmo infatti come Costantino il grande e il figlio di lui Costanzo avessero lavorato a formare, nella capitale dell’Oriente, ampie raccolte di libri classici. Valente stabilisce, per la pubblica biblioteca costantinopolitana, un ruolo apposito di antiquarii (trascrittori e curatori di codici) quattro per la sezione greca, e tre per quella latina,[660] da stipendiarsi in natura[661] sul fondo destinato alle annonae populares di Costantinopoli, consistenti in [296] forniture di pane, olio, carne, vino, vesti e frumento.[662] Contemporaneamente, provvede alla custodia della biblioteca ed ordina che vi siano adibiti dei conditionales, cioè degli schiavi, legati per la vita alla loro condizione ed al loro ufficio.

Se non che, mentre in tal guisa Valente curava la conservazione delle opere degli antichi, riusciva fatale alla cultura del tempo, anzi, un poco, alle sorti di tutta la cultura avvenire, attraverso una serie di eventi, che sembrò dapprima nulla vi avessero di comune. Valente non era un imperatore tollerante, come Costantino e come qualche altro dei successori del primo principe cristiano. Era un seguace della dottrina di Ario, e come perseguitò spietatamente l’ortodossia cristiana, non palesò una meno vivace ostilità contro i seguaci dell’antico culto e delle antiche ideologie. Un episodio, avvenuto durante il suo regno, bastò a farlo prorompere in eccessi veramente deplorevoli. Nel 371, s’imbastiva un enorme processo a carico d’individui, denunziati come rei di magia, per aver tentato di sapere chi mai sarebbe stato il successore di Valente. Le prigioni rigurgitarono per lungo tempo di accusati; poi, dopo il processo e la conseguente condanna, si ebbe un’esecuzione in massa degli indiziati e, insieme, dei complici, diretti e indiretti, nonchè di coloro, che l’operazione magica avrebbe lasciati supporre eredi del trono di Costantinopoli. Gli accusati e gli uccisi furono, com’era naturale, per la più parte, dei neoplatonici, anzi dei filosofi pagani in genere.[663] Una strage così grande [297] fece per lunghi anni vuote le cattedre e le aule delle scuole dell’impero. Ma il principe e i suoi ministri non si limitarono ad infierire sulle persone. Essi istituirono, in quel triste quarto d’ora, in Costantinopoli, dei veri e propri tribunali di inquisizione, sequestrarono nelle biblioteche private, e a maggior ragione in quelle pubbliche, le opere più sospette dell’antica cultura, e tutte abbandonarono alla distruzione. Si trattò, dice, forse esagerando e con qualche inesattezza, uno storico pagano, di mucchi di codici e di volumi di discipline scientifiche e di opere giuridiche[664], bruciati in enormi falò, sotto gli occhi impassibili dei giudici.[665] Era la scienza la forma più odiata dell’antica cultura, quella che racchiudeva e sviluppava le più stridenti dottrine teologiche e cosmologiche, ed era ormai scoccato per essa l’istante della persecuzione.

Tuttavia, la intransigente ortodossia non spinse l’imperatore ad avversare a priori ogni forma della cultura classica. Il filosofo pagano Temistio, che fu uno dei suoi favoriti e che più volte enumera i principi, che a loro volta avevano giovato al progresso della filosofia, pone anche Valente tra i primi insieme con Valentiniano I. e con Costanzo II. «Tu apprezzi», aveva detto una volta, rivolgendosi a lui, «la filosofia più della retorica»; «tu chiami a Te i filosofi dubitosi, e Tu occupi in esercizi di cultura la parte dell’anno, nella quale sei costretto a rimanere presso di noi. Tu tieni in pari onore gli uomini di guerra e gli [298] uomini di pensiero; sì che ti cinge della migliore difesa, non la sola scorta della potenza, ma, insieme con essa, quella della saggezza».[666]

E gli elogi di quest’uomo, che non era nè un ariano, nè un cristiano, nonostante la consueta esagerazione ufficiale e personale che li inquina, hanno tuttavia un peso che non può essere misconosciuto.

V.

Ma le deficienze e le mende, che noi siamo costretti a notare nel governo di Valente, nei rispetti della pubblica istruzione, vengono largamente colmate dal suo collega dell’Occidente, il figlio e successore di Valentiniano I., Graziano. L’opera di costui, nella sezione dell’impero assegnata alle sue cure, è veramente di prim’ordine.

A una sua prima legge del 376,[667] diretta al praefectus praetorio delle Gallie, va legato tutto l’ordinamento e l’incremento della pubblica istruzione in quel paese durante i secoli successivi. In tale legge, Graziano prescriveva che, nelle città principali della Gallia, venissero nominati dei maestri di grammatica e di retorica latina e greca, stipendiati dagli enti locali. La elezione di tali maestri è dall’imperatore lasciata ai Consigli municipali delle varie città; ma la sua legge ha cura di soggiungere che tale libertà non si estendeva alla misura degli stipendi. Questi, a parte la regolarità, con cui dovevano essere corrisposti, sono fissati [299] in ragione di 24 annone per i retori, e di 12 per i grammatici greci e latini, in ciascuna delle città in cui esistevano, o si istituivano, le nuove scuole municipali. In Treviri poi, capoluogo della provincia e sede della casa regnante, Graziano crede opportuno stabilire un trattamento speciale. Il maestro di eloquenza avrebbe dovuto percepirvi 30 annone; il grammatico latino, 20 annone; il grammatico greco, «se qualcuno degno se ne poteva trovare», 12 annone.[668]

Siamo già, come si vede, nel cuore di quel periodo della storia romana, in cui le imposte e gli stipendii non si pagano più in denaro, ma in natura, e in cui il regresso materiale dell’impero riconduce a forme da tempo trapassate di economia naturale.[669] Come che sia, l’annona rappresentava il fabbisogno individuale d’una persona, e comprendeva pane, frumento, olio, vino etc. Ma, se questo è fuori dubbio, non è cosa facile stabilire a quanto con precisione ascendesse, in questo tempo, un’annona in Gallia. Nel 445, per una metà dell’Africa settentrionale, l’imperatore aveva fissato un’annona militare in 4 solidi annui (L. 60 circa).[670] Ma le circostanze, [300] in cui tale provvedimento venne preso, furono eccezionali, e non è lecito generalizzare a tutto l’impero quella equivalenza. Un secolo dopo, per l’Africa settentrionale in genere, il Codice Giustinianeo fisserà l’equivalenza di un’annona annua in 5 solidi (L. 75 circa)[671], secondo cui 12 annone annue sarebbero state pari ad uno stipendio di L. 900; 24, a uno di L. 1800; 20, a uno di L. 1500, e 30 annone, ad uno di L. 2250. Ma, a parte che non sappiamo affatto quali rapporti di somiglianza intercedessero fra le condizioni economiche della Gallia, in sulla fine del IV., e dell’Africa, in sulla prima metà del VI. secolo di C., un semplice calcolo matematico, che poggi su un diverso procedimento, mostra quanto incerta debba essere l’attendibilità di ogni equivalenza fondata su così fragili e fuggevoli elementi.

Noi sappiamo infatti che, secondo l’Editto dioclezianeo de pretiis rerum venalium, un moggio ordinario di frumento doveva, nei primi del quarto secolo, costare, ed essere, in tutto l’impero, venduto, per circa L. 1,00[672]. Sappiamo ancora che, nell’età imperiale romana, l’annona frumentaria mensile era di 5 modii,[673] e, calcolando su questi elementi, abbiamo, per 12 annone annue di solo frumento, L. 720; per 24, L. 1440; per 20, L. 1200; per 30 L. 1800. A queste bisogna aggiungere le annone, che non si percepivano in frumento. Di esse le più onerose, quelle che realmente portavano un aggravio allo Stato, erano le annone di olio. Temistio, [301] che è proprio di questa età e che in una sua orazione discorre dei contemporanei pagamenti in natura, usati a Costantinopoli, informa che, per un medimno di frumento, si dava un’anfora di olio.[674] Per un moggio, quindi, (pari a 1⁄6 circa di medimno) si sarà corrisposto solo 1⁄6 di anfora (l. 4. o poco più), e perciò, per 12; 24; 20; 30 annone annue, rispettivamente, l. 2880; l. 5760; l. 4800; l. 7200. Il prezzo dell’olio comune, secondo l’Editto dioclezianeo, era di 12 denarii (L. 0,25) per un sextarius italico[675] (l. 0,546), cioè di L. 0.45 circa al litro. Calcolando su codesto prezzo, abbiamo una spesa annua per fornitura d’olio alle quattro categorie di docenti stipendiati dallo Stato di circa L. 1300, L. 2600, L. 2150, L. 3350, secondo che quelli percepivano 12, 24, 20, 30 annone. Sommando tali cifre a quelle ricavate pel frumento, è facile avvedersi come si pervenga a resultati di gran lunga diversi dagli altri, conseguiti, ragguagliando, per la Gallia del IV. secolo, un’annona a 5 solidi. Tutto ciò, senza tener conto delle annone vinarie, il cui importo non doveva essere esiguo,[676] e delle elargizioni accessorie.

Ma, non ostante la impossibilità di raggiungere cifre concrete, noi siamo sempre in grado di formarci una idea generale del valore di quegli stipendii. I resultati dianzi esibiti, anche se incompleti, assicurano che essi rappresentano cifre inferiori allo stipendio, fissato da Vespasiano per il professore di eloquenza latina in [302] Roma, cifre inferiori a quelle, fissate da Marco Aurelio, pei docenti di filosofia in Atene, cifre inferiori all’ammontare dello stipendio di Eumenio in Augustodunum. Ma ciò non vuol dire che quegli stipendi debbano considerarsi come insufficienti. Infatti, nel passo dianzi citato, Temistio, dichiarava di percepire, non s’intende bene a quale titolo,[677] l’emolumento privilegiato di 200 medimni l’anno, cioè di 1200 modii di grano. Ma 1200 modii stanno a rappresentare 20 annone annue, quante ne spettavano al professore di lingua e di letteratura latina a Treviri, e poco meno di quante avrebbero dovuto percepire i professori di eloquenza nelle altre città. E, se a quest’argomento si aggiunge la testimonianza di uno dei docenti stessi della Gallia, il retore e poeta Ausonio, il quale, nelle sue commemorazioni dei professori di Bordeaux (Burdigala) non accenna mai a tristi condizioni economiche dei suoi defunti colleghi, noi possiamo dire di possedere una riprova, sufficientemente valida, della nostra opinione.

Ma Ausonio medesimo ci previene di non errare, generalizzando eccessivamente, che la condizione dei grammatici greci, retribuiti con sole 12 annone annue, non doveva essere lieta.

Discorrendo infatti di questa categoria di docenti, egli accenna alla modestia dei loro utili e alla ingloriosa arte loro.[678] Accenna ancora alla indifferenza della gioventù gallica verso l’apprendimento della lingua e della letteratura, di cui essi tenevano cattedra. I redditi dunque dei grammatici greci, non arrotondati [303] da alcun privato provento, dovevano limitarsi alle 12 annone annue dei municipii, e queste, secondo Ausonio, erano uno stipendio esiguo per una vita mediocremente agiata. Se poi i grammatici latini, anch’essi retribuiti dovunque, salvo che in Treviri, in pari misura, non versavano in eguali strettezze, ciò si doveva a compensi estranei al loro insegnamento ufficiale.

In ogni modo però l’ammontare degli stipendii, fissati dall’imperatore, non può concepirsi che come la designazione di un minimum invalicabile, e senza dubbio i singoli municipii potevano, a seconda delle proprie risorse, elevarli a cifre maggiori, ed è a credere che qualcuno di essi abbia tradotto in realtà una così gradita aspettazione.

VI.

Il governo dei Valentiniani è notevole ancora per qualche provvedimento di minore importanza, che, direttamente, o indirettamente, può dirsi in relazione con le sorti della pubblica cultura.

Valentiniano I., con due successive leggi, del 368 e del 370, regolò e migliorò le condizioni economiche e morali dei medici condotti in Roma[679], ed egli stesso e Graziano riconfermarono, specificandole, le antiche immunità, e di nuove ne concessero, ai medici di Roma e della Corte[680].

[304]

Gli è evidente come questi favori dovessero al solito promuovere l’esercizio della medicina e, quindi, diffondere tra i giovani il desiderio e l’interesse del suo studio. Ma alle su citate si accompagnano ancor più notevoli disposizioni, riguardanti la conservazione degli antichi monumenti artistici dell’impero.

Già con Valentiniano I. si era, nel 365, avuta una costituzione, comminante delle pene ai magistrati dell’impero, i quali avessero seguito la mala consuetudine di abbellire le maggiori città, non solo trasportandovi statue di altre minori (il che sarebbe stato un lieve inconveniente) ma adoperando ad altri scopi la materia prima di antiche opere d’arte[681].

Graziano redige, in forma di missiva al senato, una nuova legge, che si limita a Roma, ma che è assai più energica e più decisa della precedente. Essa, dopo aver ripetuto che nè ad alcun prefetto di Roma, nè ad alcun prefetto del pretorio, era d’ora innanzi lecito costruire edifici o monumenti nuovi, dovendo curare invece la conservazione degli antichi, soggiunge — ed è questa la clausola più notevole — che chiunque tra i privati voglia in Roma costruire possa farlo, ma a patto di rispettare scrupolosamente le tracce dell’arte antica. «Chiunque — si esprime testualmente l’imperatore — vuole costruire in Roma, lo faccia a sue spese e con materiali propri, senza invadere gli edifici antichi, senza demolire le fondamenta di costruzioni celebri, senza servirsi di materiali venuti in luce, senza spogliare altri edifici e asportarne via i marmi»[682].

[305]

Nella storia di questo tempo, i due divieti di Valentiniano I. e del figlio suo sono una nobile eccezione, ed essi riescono per noi ancora più interessanti quando si riflette che non erano stati determinati da quello zelo religioso, che aveva guidato, e guiderà, le precedenti e successive demolizioni ordinate dagli imperatori cristiani, o che avrebbe potuto guidare le ricostruzioni di principi pagani, ma da uno schietto intendimento d’arte e di coltura. Ed invero, l’ultimo provvedimento di Graziano era, come del resto tutte le sue leggi, relative a cose dell’istruzione pubblica, uscito dalla ispirazione di un letterato, di un poeta, e, quindi, di un estimatore dell’antichità classica, il suo maestro Ausonio, colui che, chiamato da Valentiniano I. alla corte quale precettore del principe ereditario, venne da costui elevato alla prefettura d’Africa, d’Italia e delle Gallie; e, quindi, agli onori del consolato; colui, che Graziano amò dell’amore più squisito e più tenero di discepolo.[683]

VII.

Con Graziano noi siamo ormai al colmo della rinascita intellettuale, iniziatasi fin da Costantino. «Nel IV. secolo» scrive un moderno storico della letteratura greca «appare d’un tratto come una nuova rinascenza. Di nuovo noi incontriamo, nella società classica, degli oratori famosi». «Accanto all’eloquenza pagana, e ad essa di gran lunga superiore, sorge una [306] potente eloquenza cristiana, quella degli Atanasio, dei Basilio, dei Gregorio di Nazianzo, dei Crisostomo. E se noi guardiamo intorno ad essi, l’aspetto dell’Oriente greco è ben diverso che nel secolo precedente. Mentre allora il movimento delle idee sembrava nullo fuori delle scuole, ora al contrario l’agitazione è dappertutto. Grandi dibattiti eccitano e appassionano gli spiriti; grandi correnti di opinioni si formano e poi si urtano fragorosamente. La parola e il pensiero ritornano ciò che da secoli avevano cessato di essere, gli strumenti del pensiero e dell’azione.»[684]

Nè tale fenomeno è limitato alla cultura greca. È questa l’ora, in cui veramente la lingua e la cultura latina conquistano l’Europa occidentale,[685] e sembrano vincere la gara di concorrenza con le lettere greche, che da gran tempo sembrava irrimediabilmente perduta.[686] «Da Costantino» «il deserto comincia a ripopolarsi»; «le lettere si rianimano; gli scrittori di prose e di versi divengono più copiosi, e un gran secolo letterario incomincia». Sorgono «poeti, come Ausonio, Paolino da Nola, Prudenzio, Claudiano; poligrafi, come Simmaco e S. Girolamo; oratori, come S. Ambrogio e S. Agostino». «Le lettere profane sono in progresso come le sacre: è un risveglio universale della letteratura»[687].

Da circa sessant’anni gli oratori, quali che siano le [307] simpatie e gli attaccamenti personali, sono costretti a celebrare l’amore che gl’imperatori del tempo dimostrano verso la coltura. Perciò Temistio celebra Costanzo, Gioviano, Valentiniano, Valente, e proclama che la dottrina e le lettere riscuotono ormai a Corte un favore eguale a quello delle armi.[688] Non è stereotipa e insignificante adulazione, come taluno ha pensato; è constatazione di un nuovo indirizzo. L’amore della coltura trionfa ancora di ogni divario di fedi e di opinioni religiose.

Per certo, tale risveglio non fu, neanche questa volta, opera esclusiva della scuola o dello Stato. Il risorgimento intellettuale di un popolo non è mai elaborazione burocratica od aulica. Ma lo Stato può porgerne o contrastarne i mezzi, può favorirlo od avversarlo. E i principi romani dei primi quattro quinti del IV. secolo furono — sia gloria a loro! — tra i più consapevoli, che la storia rammenti, dei proprii doveri verso l’istruzione e verso la pubblica coltura.

[309]

CAPITOLO VIII. La dinastia dei Teodosii e la istruzione pubblica.
(383-450)

I. La reazione cattolica di Teodosio I. e l’istruzione pubblica: la soppressione degli stipendi ai docenti pubblici in Roma e in Atene. — II. Eccezioni a favore dei medici; cura delle opere d’arte. Ripresa della decadenza intellettuale del III. secolo. — III. I due figli di Teodosio continuano la politica del padre. — IV. Teodosio II. riconferma le immunità ai maestri. I provvedimenti di Teodosio relativi alla Università Costantinopolitana. — V. Carattere di quest’opera. L’università Costantinopolitana e quella ateniese. La distribuzione delle cattedre. L’abolizione dell’insegnamento privato pubblico. VI. — Il nuovo ordinamento e le altre scuole medie e superiori, create dallo Stato. — VII. Teodosio conferma di nuovo le immunità ai maestri. La compilazione del Codex Theodosianus; la scienza e l’insegnamento giuridico.

I.

La prima interruzione di tanto favore, che per oltre mezzo secolo era disceso dall’alto del trono imperiale sulle sorti della cultura dell’impero, si ha con Teodosio il grande.

Teodosio I. inizia l’allegra vendetta di Giuliano. Egli [310] incarna la prima grande reazione cristiana, anzi cattolica, contro la società pagana del tempo, le sue passioni, i suoi gusti, i suoi amori. Si era fatta colpa a Giuliano di aver voluto ridar vita a un grande passato, che tramontava, ed ecco ora Teodosio sospingere, con pari violenza, fino alla vittoria più schiacciante il presente, che già aveva trionfato. Si era accusato Giuliano, o i suoi governatori, di avere demolito qualche tempio, cristiano e Teodosio ordina una sistematica e regolare crociata contro i templi e i monumenti dell’antichità pagana. Si era accusato Giuliano di avere rotto, a favore del paganesimo, la perfetta equanimità dell’Editto di Milano, e Teodosio, assai più violento, la distrugge senz’altro a favore del cristianesimo, anzi del solo cattolicesimo. Si era accusato Giuliano di legare le sorti della cultura a quelle della sua religione preferita, ed ecco Teodosio far coincidere la politica più antipagana[689] con la negligenza più palese e con l’avversione, più manifestamente dichiarata, alla buona sorte della istruzione pubblica nell’impero romano!

Il suo regno quasi ventennale — quello di Costantino I. aveva in realtà toccato appena i tre lustri — ebbe dei periodi di guerra, come ognuno dei brevi governi dei predecessori aveva avuti, ma godette eziandio di lunghi periodi di pace incontrastata, e Teodosio I. fu, con Teodosio II. e con Giustiniano, uno degli ultimi imperatori, che di fatto, oltre che di diritto, riunirono ancora una volta nelle proprie mani le due sezioni [311] dell’impero. Ma, durante così felice governo, non un solo atto di lui viene segnalato, che promuova le sorti dell’istruzione pubblica, non una scuola che si apra, non una biblioteca che si eriga, non un docente o una classe di docenti che si favorisca.

Noteremo anzi qualche provvedimento di tenore e di effetti opposti. Ma la politica di Teodosio, anche considerata nelle sue linee più generali, doveva, nei rispetti della pubblica coltura, andare incontro a degli effetti disastrosi. Noi abbiamo infatti con Teodosio I. il tentativo della distruzione di ogni traccia superstite del culto antico. Forse sin dal 384 egli aveva ordinato la chiusura di tutti i santuari pagani; ma già, nel 391, egli proscriveva assolutamente ogni sacrificio, ogni atto di adorazione degli antichi Dei, e iniziava una guerra regolare contro la incolumità dei loro templi, per applicare, poi, nel 392, ai violatori del suo editto, le gravi pene dei reati di lesa maestà.[690]

Era la fine della religione, delle feste, dei giuochi, delle processioni, delle cerimonie, dei teatri, delle immagini degli Dei, in cui viveva tanta parte della poesia e dell’arte antica. Come avrebbe il tronco potuto reggere, colpito così fieramente nei rami, nelle fronde, nelle radici?

Ma agli effetti imprevisti si accompagna un’opera meditata contro la coltura. Nel 383, una legge, diretta al prefetto dell’Oriente,[691] viene a limitare le immunità dei docenti. Già con altre sue disposizioni Teodosio I., da quel zelante e rude amministratore ch’egli fu, aveva [312] più volte cercato di limitare o il numero delle persone, aventi facoltà di sottrarsi ai pubblici oneri e alle pubbliche cariche, o la portata della loro immunità,[692] movendo dal criterio che l’immediato interesse pubblico doveva prevalere su quello individuale[693]. Ma, fino al 383, dei maestri non si era fatta esplicita menzione. Adesso, il loro nome viene pronunziato; i maestri vengono sottoposti alla regola comune, che imponeva di ottemperare ai munera civilia, e, insieme con essi, i loro figli, già esentati dalle leggi di Costantino.

Ma — fatto ancora più grave — noi rileviamo da una lettera di Simmaco, che, in un certo anno del regno di Teodosio I., gli stipendi ai maestri dell’Ateneo romano vennero improvvisamente soppressi[694]. «La tua partenza — scrive Simmaco a un amico — porta con sè un seguito di coorti di letterati, e come taluni sogliono recarsi in Atene, o visitare i luoghi, sacri alle Muse, così, tratti dal desiderio, essi seguono le tue peregrinazioni. Nè a te, cui affluiscono copiosi gli appannaggi, che si legano alla tua carica militare, riesce gravoso tanto accompagnamento di amici. Sii lieto dunque di mantenere i dotti con le ricchezze, che ti provengono dal tuo ufficio, e spera che più numerosi accorrano tosto a te gli ospiti, dacchè sono [313] stati soppressi gli stipendii ai maestri della gioventù romana....»

E, dopo questa constatazione, dopo avere cioè rilevato come, sotto Teodosio I., venissero rotti i vincoli, che legavano la prima Università del mondo alle iniziative dello Stato, riesce forse troppo cervellotica — come potrebbe a prima vista apparire — l’ipotesi,[695] che altrettanto fosse accaduto a qualche altra, pur famosa, Università dell’impero, la quale, agli occhi del principe intransigente, doveva apparire ancor più macchiata di paganesimo, che non quella di Roma? È cervellotico supporre che Teodosio I. abbia soppresso il contributo imperiale, corrisposto fin da Marco Aurelio all’Università ateniese, abbandonandola alle sole risorse delle sue rendite private? O, piuttosto, non è ragionevole ammettere che la sorte di questa dovette essere identica all’altra di Roma?

Sola, fra tutte, l’Università costantinopolitana, sia per la natura speciale di scuola, in cui le tinte classiche erano notevolmente sfumate, sia per il rispetto verso la città, in cui sorgeva, potea attirare gli sguardi e le sollecitudini imperiali. Ma Teodosio, in altre faccende affaccendato, non ebbe agio o volontà di curarsi neanche di quella, e preferì trapassare ai posteri trionfante per gloria di armi e per fede di cristiano, anzichè per eccellenza di amore verso la pubblica coltura.

II.

Due soli atti di lui noi possiamo lodare come giovevoli [314] alla coltura del tempo: tre leggi, concedenti nuovi favori ai medici di corte (gli archiatri sacri Palatii),[696] e una quarta, che coincide, secondo che sembra, con un fuggevole, lucido intervallo delle tendenze politico-religiose del governo di Teodosio, relativa alle antiche opere d’arte dell’impero[697].

Le tre prime leggi, anzi, poichè coloro, che ne vennero favoriti, vi si denominano medicinae professores, sono state da taluno considerate[698] come riguardanti veri e propri docenti di medicina. Ma, pur troppo, codesta seducente interpretazione non è che un inganno. La qualità di medici di Corte basterebbe ad escludere la possibilità della loro condizione di pubblici o privati docenti di medicina; ma ancor più, agli scopi della nostra dimostrazione, giova il confronto tra quelle leggi e un passo di una lettera di Simmaco,[699] in cui lo scrittore chiama medicinae professore, i medici condotti di Roma, significando con ciò che tale denominazione si attagliava, oltre che a dei docenti, a dei comuni professionisti della medicina. Ad ogni modo, questi nuovi privilegi, accrescendo onori ed utili a quell’arte, dovevano, come al solito, invogliare molti al suo apprendimento, e, quindi, concorrere indirettamente a intensificarne la cultura e lo studio.

La quarta legge, da noi segnalata ad onore di Teodosio I., riguarda, come accennammo, la cura delle opere di arte. Pur troppo, non ostante i divieti di [315] Valentiniano e di Graziano, le provincie romane continuavano ad essere bersaglio della meno perdonabile devastazione artistica per opera, e questo, per eccitamento, di privati, di sodalizi, di autorità. Ma sembra che lo zelo dei credenti sia stato ancora maggiore di quello del nuovo monarca, che pur non era piccolo, e che i loro eccessi abbiano, come sempre, oltrepassato i limiti di ogni discrezione e provocato una reazione nel seno stesso del concilium principis. Certo, nel 382, Teodosio I., pur ripetendo gli antichi divieti circa il culto pagano, ordinava la riapertura al pubblico di uno dei più famosi templi dell’Oriente, un tempio nella Mesopotamia, e, più precisamente, nella Ostroena,[700] ricchissimo di preziose opere d’arte. Teodosio stesso ha cura di far rilevare che tale deliberazione, la quale abroga ogni altra precedente, era stata presa dietro ampia discussione e maturo consiglio (publici consilii auctoritate); che anzi ogni disposizione precedente doveva considerarsi come carpita alla distrazione del potere esecutivo (obreptivum oraculum). Ed egli stesso sentenzia altresì che le opere d’arte debbono essere apprezzate per il loro intrinseco valore, e non già per il culto, a cui si riferiscono, e che si ha quindi il diritto di volerle esposte pubblicamente.

Era questo per certo un atto veramente encomiabile. Ma esso, che risale ai rosei esordi del governo di Teodosio, [316] fu subito dopo sopraffatto da disposizioni di tenore diverso od opposto, nè poteva, in ogni modo, avere la forza di contrastare alla generale decadenza, la quale ora ripiglia trionfalmente il suo fatale andare. A questa età infatti, e non ad altra, si riferisce Ammiano Marcellino in quel suo quadro delle condizioni morali e intellettuali di Roma, da lui conosciuta solo dopo il regno di Valente, e che è disegnato nel libro decimoquarto delle sue Istorie[701]. Egli vi deplora la decadenza degli studii di filosofia e di eloquenza: «Le poche case, un tempo celebrate per la serietà degli studii, che vi si coltivavano, ora sono affaccendate nelle occupazioni più molli e più oziose.... Ai filosofi si preferiscono i cantanti; agli oratori, i maestri di musica. Le biblioteche[702] sono chiuse a mo’ di sepolcri», «e a tal punto di indegnità s’è arrivati, che, recentissimamente, nell’imminenza d’una carestia, sono stati espulsi precipitosamente gli stranieri, e, quindi benchè pochi, tutti coloro che coltivavano le discipline liberali, senza neanche lasciare ad essi il tempo di pigliar fiato».[703]

Così, per la prima volta, dopo Augusto, gli studiosi e i maestri tornano, nella capitale dell’impero romano, ad essere considerati quale materiale ingombrante, quale zavorra da buttar via, a cautela della sicurezza annonaria dei dominatori del mondo!

[317]

III.

I primi tredici anni del regno dei figliuoli di Teodosio non hanno, per l’argomento che c’interessa, maggiore, o diversa, importanza del regno paterno.

I soli tra i loro atti, che fermino in certo modo la nostra attenzione, riguardano anch’essi quella che noi abbiamo definito la cura dei monumenti e delle antiche opere d’arte.

In due editti dei primi del 398,[704] Onorio ripete, per tutta la prefettura delle Gallie,[705] il divieto ai governatori — già emanato da Valentiniano I. e da Graziano — con cui si comminavano loro determinate pene, se avessero asportato le opere di arte o gli ornamenti della città alla loro dipendenza, o li avessero semplicemente accolti in dono dalla servilità adulatrice dei Consigli municipali, che si dichiara di ritenere in ugual misura responsabili.

E l’anno successivo, con due nuovi editti, concernenti, oltre le Gallie, l’Africa e la Spagna,[706] Onorio riconferma la sua intenzione di salvare dalla rovina universale gli antichi templi insieme con le opere d’arte, che essi custodivano.

Questa tendenza dell’imperatore romano appare in categorico contrasto con la politica del collega e fratello suo in Oriente. Quivi, infatti, ove tuttavia erano i maggiori [318] tesori dell’arte ellenica, nè Arcadio emana alcun editto, che mostri di volerli salvaguardare, o, se qualcuno di sua iniziativa ne venne pubblicato, esso fu lungi da ogni pietà per i monumenti del culto antico[707].

Tale differenza di vedute politiche doveva, fra l’altro, dipendere dalle opposte influenze, che gravavano sulle due Corti e sugli uomini, che ne guidavano l’azione. E di ciò, se ve ne fosse bisogno, abbiamo una prova in quella polemica in versi di Prudenzio contro Simmaco, composta, per ragioni politiche, proprio in questo giro di tempo,[708] nella quale il poeta riferisce, o formula lucidamente, la teorica, che la custodia dei resti dell’arte antica debba considerarsi come un pubblico dovere.

Marmora tabenti respergine tincta lavate,

o proceres, liceat statuas consistere puras,

artificum magnorum opera; haec pulcerrima nostrae

ornamenta fuant patriae nec decolor usus

in vitium versae monumenta coinquinet artis.[709]

Questi e simili concetti Prudenzio aveva dovuto molte volte udire, o leggere, espressi dagli uomini politici contemporanei, dal cui circolo d’influenza dovevano essere usciti i citati provvedimenti di Onorio. Ma l’Oriente non aveva avuto la fortuna di tanta moderazione. Quivi, ove la civiltà e lo spirito pagano si erano dispiegati con maggior fasto ed orgoglio, la reazione cristiana, come era più vigile, voleva eziandio essere più crudele, e la Corte di Costantinopoli non può, [319] in questo breve giro di anni, vantare, agli occhi dei posteri, neanche le piccole glorie, di cui, non ostante tutto, il governo imperiale romano riusciva a farsi benemerito in Occidente.

IV.

Nel 408, saliva al trono il figliuolo di Arcadio, il giovane Teodosio.

Teodosio II. è, tanto nella storia politica, come in quella dell’istruzione pubblica del V. secolo, uno dei personaggi più notevoli dell’età sua.

Egli aveva ricevuto a Costantinopoli una educazione e un’istruzione accuratissime, nelle quali, nonostante le prevenzioni religiose della Corte, dovettero — come richiedevano la prammatica e la necessità del tempo — occupare il primo posto le discipline liberali dell’antichità classica.[710] La sua cultura e il suo amore agli studii sono iperbolicamente celebrati da Sozomeno nella dedica, che questi gli fece della sua Historia ecclesiastica. E la buona memoria di tale insegnamento e degli uomini, che glielo avevano impartito, fece sì che, appena salito al trono, egli tornasse a rinnovare, in favore dei docenti, quei privilegi, che i suoi predecessori erano stati soliti concedere o ribadire.

Noi abbiamo infatti del 414, e dello stesso giorno, due sue leggi, le quali trattano appunto di questo,[711] [320] ed esse sono o una piena e vigorosa conferma delle immunità precedentemente accordate ai medici, ai grammatici, ai retori e ai filosofi, in genere a tutti i professori di arti liberali, o una specificazione di determinati casi particolari, in cui quelle immunità dovevano applicarsi — e non sempre venivano applicate — conforme al testo del loro dispositivo.

Ma i buoni genii ispiratori di Teodosio II. non furono soltanto, come per il primogenito di Valentiniano I., i suoi maestri. Nel 421, egli celebrava un ben bizzarro matrimonio: sposava una greca, Atenaide, figliuola di un sofista dell’Università Ateniese, giovane tanto bella e colta, quanto modesta di fortuna. La influenza di un così intellettuale coniugio doveva tosto manifestarsi nell’amministrazione dell’impero, e se, quattro anni dopo, vediamo Teodosio II. dar mano a una delle opere più nobili, alla più notevole, forse, delle sue iniziative, noi dobbiamo pensare che ciò non accadde senza la cooperazione o l’ispirazione dell’Augusta consorte.

Nel 425, infatti, egli assegnava nuovi locali, e dava un nuovo regolare assetto, alla Università costantinopolitana. Di ciò si occupano due sue costituzioni, una del febbraio 425, pervenutaci in due diversi titoli del Codice Teodosiano, e una del marzo,[712] le quali, adoperando un termine consueto alle Università medievali, si potrebbero definire come i fondamenti statutarii di quell’Ateneo. Con la prima legge, Teodosio II. assegna ai pubblici docenti costantinopolitani nuove sale (exedrae) nei portici del Campidoglio. Queste egli distingue in due [321] gruppi: le exedrae del portico settentrionale, vaste, arieggiate e luminose, per le quali non sarebbe occorso alcun restauro, e le exedrae dei lati orientale e occidentale, anguste e mancanti di sbocco, che avrebbero dovuto essere ampliate, aggregandovi i vani delle abitazioni e delle botteghe limitrofe. A tale scopo la costituzione ordina che questi locali siano espropriati a spese pubbliche e per la pubblica utilità.

Assegnato per tal guisa un edificio, quale richiedeva l’incremento della Università Costantinopolitana, Teodosio II., viene a stabilire un punto, che è fondamentale nel nuovo ordinamento della medesima. Egli prescrive che cotali locali debbano esclusivamente considerarsi riservati ai professori pubblici, regolarmente eletti, e che a ciascuno, per evidentissime ragioni disciplinari, si assegni un’aula distinta e speciale. L’Università, quindi, avrebbe dovuto avere il seguente ruolo d’insegnanti: 1) tre professori di eloquenza latina; 2) dieci professori di lingua e di letteratura latina (grammatici); 3) cinque professori di eloquenza greca (sophistae); 4) dieci di lingua e di letteratura greca; 5) un professore di filosofia; 6) due professori di giurisprudenza.

Tali disposizioni fondamentali vengono accompagnate da altre, non meno notevoli, sebbene contenute poco ordinatamente nella stessa costituzione e nell’altra successiva del marzo, che può dirsi formino il breve nucleo di una legge sullo stato giuridico dei professori dell’Università Costantinopolitana.

Teodosio infatti dispone: a) che la nomina degli insegnanti ufficiali della Università venga fatta dal Senato, che avrebbe proceduto all’esame dei titoli e della [322] condotta morale dei candidati, e quindi — se lo avesse creduto — alla proposta della nomina;[713]

b) che i docenti così nominati debbano sottostare al divieto assoluto dell’insegnamento privato, sia pubblico, sia domestico, pena l’esclusione dai privilegi per loro appositamente stabiliti;

c) che, dopo venti anni di lodevole insegnamento e di lodevole condotta morale, i docenti della Università ricevano il titolo di conti — la onorificenza della così detta Comitiva primi ordinis — che li avrebbe, senz’altro, fatti entrare nei quadri della nobiltà dell’impero;

d) che ogni insegnamento pubblico, impartito da altri maestri, anche se in locali estranei a quelli universitarii, sia severamente proibito, pena la nota d’infamia e persino l’espulsione dei contravventori;

e) che, viceversa, sia ai professori, estranei alla Università, consentito l’insegnamento privato, ma nella sola forma d’insegnamento domestico.

V.

I provvedimenti, adottati da Teodosio II., dànno luogo a parecchie considerazioni.

Anzi tutto, dall’insieme delle due costituzioni, risulta confermato che non si tratta, come talora si è creduto, di una fondazione ex novo, ma solo di un riordinamento. [323] E questo si desume in modo indubitabile dalla struttura delle due leggi, le quali accennano per incidenza a disposizioni, che sono veramente fondamentali, anzi ne tralasciano alcune importantissime (ad esempio quelle relative allo stato economico fatto ai docenti), e invece pongono in rilievo, come disposizioni, che delle due leggi formino l’obbietto precipuo, altre, assolutamente secondarie. Il che, mentre significa che l’innovazione si limitava a queste ultime, significa eziandio che l’Università non si istituiva allora — il fondatore invero n’era stato Costantino I. — ma soltanto si riordinava, moralmente e materialmente.

Ma, se la prima fondazione dell’Ateneo costantinopolitano può sollevare il dubbio di pregiudizi, indirettamente arrecati all’antica Università ateniese, il grandioso riordinamento, escogitato da Teodosio II., ritorna a imporci più insistentemente tale quesito. Veniva ora a costituirsi una concorrenza pericolosa per quell’altra Università, ove aveva insegnato e forse — (chi sa?) — insegnava tuttora il padre dell’imperatrice? Anzi, la riforma era stata forse tentata per affrettare la rovina di quel glorioso centro di studii, che era Atene?

Queste due opinioni, condivise da parecchi storici,[714] riescono, a mio parere, assolutamente insostenibili. Anzi tutto, le Università di Atene e di Costantinopoli avevano caratteri assolutamente diversi. In Atene preponderavano le cattedre di filosofia; mancavano quelle di [324] letteratura e di eloquenza latina; le altre di giurisprudenza erano tenute in una considerazione assai scarsa, e, in compenso, vi erano dei corsi di discipline speciali, come la medicina, l’astronomia etc. A Costantinopoli, invece, la cura per lo studio delle lettere e della eloquenza latina pareggia all’incirca quella per l’eloquenza e per le lettere greche; si hanno ben due cattedre di giurisprudenza, e minima è l’importanza data all’insegnamento della filosofia, cui si riserbava una sola cattedra.

Nessuna possibilità, dunque, di concorrenza. E, se tale presunzione non bastasse, noi ne abbiamo la riprova nel fatto. In questo tempo, non si ribadisce la decadenza, che, da qualche secolo, travolgeva l’Università ateniese; questo tempo coincide invece col culminare della rinascita di quell’istituto nella così detta Seconda scuola ateniese, la cui esistenza prosegue fino a Giustiniano.[715]

Ma, se il riordinamento di Teodosio II. non potè esercitare, ai danni di Atene, l’influenza deleteria, che vi si attribuisce, tanto meno è possibile che siffatta influenza vi si fosse voluta consapevolmente esercitare.

A parte il grave dubbio che l’esecuzione dell’Università ateniese non si sarebbe potuta compiere senza il consenso e la complicità dell’imperatrice, Teodosio II. non aveva creato un nuovo istituto; ne aveva semplicemente riordinato uno antico, e tale riordinamento, come era obbligo di principe oculato, rimaneva estraneo a [325] qualsiasi velleità di rappresaglia o di reazione cristiana, escludeva ogni malevola idea di concorrenza distruttrice.

A considerazioni di maggior rilievo dà luogo la natura e la distribuzione delle cattedre. Quella che si è detta la Università Costantinopolitana era in realtà un istituto unico di istruzione media di secondo grado e d’istruzione superiore. Noi vi notiamo infatti, oltre alle discipline, attinenti oggi all’insegnamento superiore, tutte le numerose cattedre di lingua e di letteratura latina e greca, che allora facevano parte dell’insegnamento secondario più elevato. D’altra parte, se l’istituzione di cinque cattedre di eloquenza greca, contro tre di eloquenza latina, corrispondeva esattamente alla preferenza, fatta alla lingua greca, come strumento della vita pubblica,[716] la parità delle cattedre delle due lingue e delle due letterature, fondate nella capitale dell’Oriente, rilevava la ferma volontà imperiale che il latino fosse uno degli elementi essenziali della cultura degli uomini di governo e della burocrazia.

Passando ora agli insegnamenti propriamente superiori, colpiscono subito l’attenzione di chi osserva i ruoli degli insegnanti di filosofia e di scienze giuridiche.

La filosofia è quasi abolita: l’Università costantinopolitana non ne conta che una sola cattedra, e questo era atto di pieno ossequio ai dettami della religione cristiana, per cui l’insegnamento filosofico o doveva essere conglobato con quello teologico, o doveva considerarsi come nemico della vera sapienza[717].

[326]

Viceversa, il numero delle cattedre di giurisprudenza è raddoppiato,[718] e la scienza del diritto, fino a ieri relativamente trascurata come insegnamento superiore, viene adesso a tenere, nel nuovo ordinamento, un posto di onore e di privilegio.

Ma ecco un carattere nuovo dell’Ateneo costantinopolitano. Noi altrove, d’istituzione imperiale, abbiamo trovato solo delle cattedre, o, al più, qualcosa, che oggi si potrebbe paragonare alle nostre Facoltà universitarie, accanto alle quali altre cattedre si reggevano o per virtù della iniziativa cittadina, o per volontà degli studiosi. Il pieno organismo di una intera Università non era mai stato concepito dal governo imperiale. Ciò accade ora, per la prima volta, in Costantinopoli. Qui solo si ammira una completa Università, tutta proporzionata nelle sue parti, foggiata secondo un certo disegno pedagogico, senza Facoltà ipertrofiche, ma senza dannose deficienze. Erano questi i vantaggi arrecati dalla sua origine, che non era stata elaborata dalle cieche energie della storia, ma affidata al diretto intervento di un’intelligenza consapevole; ma, pur troppo, a motivo di tale sua natura, quell’istituto, insieme con il valore, avrà tutti i difetti, che sono propri delle costruzioni artificiali: la mancanza di rigoglio e la brevità della vita.

Ma il particolare più notevole delle due costituzioni teodosiane, il particolare, che segna un vero e proprio rivolgimento della politica scolastica dell’impero, è la fine decretata dell’insegnamento privato-pubblico.

[327]

Questo è il primo momento, in cui, può dirsi, si inaugura, sia pure per una sola città, il monopolio ufficiale dell’insegnamento medio e superiore, e in cui, per la prima volta, lo Stato reclama per sè il diritto esclusivo della pubblica istruzione. È difficile dire quali fossero le cause di tanta risoluzione. Si potrebbe — con un po’ di malevolenza — intravedervi la volontà dell’imperatore di scegliere maestri di sentimenti consoni agli spiriti religiosi suoi e della Corte. Ma tale ipotesi, io credo, non regge al cimento dei fatti. Nonostante l’imperversare della reazione cristiana, che si esercitava sui templi, sugli idoli, sulla pratica dei sacrifizi, anche sotto Teodosio II., come sotto il suo grande omonimo, la erudizione e l’ingegno ebbero sempre piena tolleranza e reverenza. Ed infatti, qualcuno dei nomi di docenti pubblici, onorati nella legge del marzo 425, ci richiama a dei fedeli credenti nel paganesimo, a dei profughi di terre, donde li aveva scacciati l’intransigenza cristiana,[719] che pure, in Costantinopoli, erano divenuti docenti ufficiali e venivano ora, da Teodosio II., rivestiti di una delle maggiori dignità dell’impero, nonchè riconosciuti uomini di vita lodevole e di costumi immacolati.

Non dunque, a tali considerazioni, aveva dovuto ispirarsi quel principe. Ma è più probabile che il suo divieto mirasse unicamente a salvaguardare la dignità e la serietà stessa dell’insegnamento. I metodi, infatti, consueti ai docenti pubblici e privati per accaparrarsi [328] discepoli — lo deplorano tutti gli scrittori del tempo[720] — costituivano un avvilimento quotidiano della dignità del maestro agli occhi dei suoi scolari ed è possibilissimo che Teodosio II. abbia voluto eliminare questa iattura, dettando i suoi voleri in quella forma aspra, che la sua prima legge palesa e proibendo ai docenti ufficiali dell’Ateneo costantinopolitano di attendere a procacciarsi discepoli, da cui avessero potuto ritrarre privati guadagni.

Gl’inconvenienti deplorati, e cercati di evitare, si sarebbero al certo ripetuti presso gl’insegnanti privati, ma Teodosio, questa volta, provvede, riducendone al minimo l’importanza nell’insegnamento cittadino e limitando la loro eventuale attività a quella di ripetitori domestici.

Il trionfo dell’insegnamento ufficiale era assicurato. Se non che la liberalità di questo nuovo monopolio emerge luminosa dal fatto che esso si riduce alla scelta dei maestri e al divieto dell’insegnamento privato-pubblico. Ma gl’insegnanti ufficiali conservano piena la libertà di dettare ciò che vogliono e come vogliono. Non programmi, non norme costrittive, non sorveglianze più o meno rigorose. L’imperatore non legifera in alcun modo per menomare la indipendenza dell’insegnamento ufficiale. E anche questo può dimostrare che non erano stati dei motivi politici o religiosi a consigliare il rivolgimento, di cui egli si rese responsabile dinanzi al giudizio dei contemporanei, e a quello, di consueto assai più grave e inappellabile, della storia.

[329]

VI.

Le norme generali delle due costituzioni, riguardanti l’ordinamento interno della Università costantinopolitana, di cui la prima, nella collezione legislativa pubblicata da Teodosio II., si ritrova fra le misure relative all’ordinamento degli studii in Roma, oltre che in Costantinopoli (De studiis liberalibus Urbis Romae et Costantinopolitanae), si riferiscono solo a questa seconda città, e non anche all’antica capitale del mondo, la metropoli dell’Italia?

Il motivo, che ha indotto qualche studioso[721] a sostenere questa seconda opinione, poggia forse sur un equivoco, giacchè la identità della rubrica del titolo, sotto cui l’una e l’altra sono elencate, si può spiegare anche col fatto che la sua prima parte contiene la costituzione di Valentiniano I. sulla disciplina degli studenti, che si riferiva appunto a Roma[722].

Ma vi è qualche altro particolare, il quale ci induce a sospettare che più tardi taluna delle norme, emanate da Teodosio II. per l’Università costantinopolitana, si applicasse anche all’Ateneo romano. Quivi, infatti, in questo e nel secolo successivo, sarà in vigore il conferimento della Comitiva primi ordinis, la quale — vedemmo — era un’onorificenza che Teodosio II. concedeva ai professori di Costantinopoli, dopo un ventennio di [330] lodevole insegnamento. Noi possediamo anzi il documento della prima concessione di codesta dignità in Roma, in un’epigrafe, che anche altri indizii palesano del secondo quarto del secolo V., secondo la quale il felice privilegiato fu un cristiano insegnante di retorica.[723] Codesto punto delle innovazioni di Teodosio II. o trovò dunque la sua applicazione in Occidente dopo il 438, allorchè il Codice teodosiano cominciò ad entrare in vigore anche in questa parte dell’impero, o Roma ne godette nello stesso tempo che Costantinopoli.

Ma tale rivelazione, che concerne una delle riforme scolastiche di Teodosio, solleva in noi il sospetto che altrettanto fosse avvenuto di parecchie delle rimanenti.

Chi infatti si dia la pena di scorrerle trova manifesto che la maggior parte non hanno nulla di peculiare per la giovane capitale dell’Oriente. La forma della nomina ufficiale dei maestri, il divieto fatto loro dell’insegnamento pubblico ai maestri privati, sono tutte norme, di cui talune — la prima ad esempio — troviamo più tardi osservate anche fuori di Costantinopoli, e le altre, nulla esclude lo siano state, egualmente, altrove. Nella tendenza, che ormai aveva assunto l’impero romano, di disciplinare e di accentrare ogni cosa, e nell’occasione, che si porse, per l’ultima volta, a Teodosio II., di reggere nelle sue mani i destini di ambedue le sezioni, orientale ed occidentale, tutto lascia agevolmente supporre che l’ordinamento, da lui imposto [331] agli studi medii e superiori di Costantinopoli, fosse, subito dopo, applicato anche a Roma.

E, forse, non a Roma soltanto. Non le sole due capitali dell’impero ebbero scuole di Stato. L’impero altra volta statizzò determinati insegnamenti, affidandoli a determinate città.[724] Perchè mai non si sarebbero, anche per queste, ripetute le misure preventive, che, nel pensiero del governo, valevano a salvaguardare la serietà e la dignità dell’insegnamento secondario e superiore di Costantinopoli? Come si vede, tutti i criterii di verisimiglianza ci inducono a propendere verso quest’ultima opinione.

VII.

Nel 427,[725] Teodosio II. riconfermava gli antichi privilegi, già confermati ai maestri con la costituzione del 414. Era il periodico bisogno di richiamare in vita disposizioni obliterate o male applicate. Ma, due anni dopo, egli si accingeva ad un’opera ancor più duratura nei riguardi della civiltà, e che indirettamente, ma in modo decisivo, si sarebbe ripercossa sur una delle varie forme d’insegnamento impartito nelle scuole del tempo, l’insegnamento giuridico.

Dall’età repubblicana a quella imperiale, grande era stato il rivolgimento subìto dalla pura scienza del diritto. Fino al primo secolo di Cristo, il diritto aveva avuto, come suo esclusivo fondamento, le Dodici Tavole, qua e là lievemente ritoccate o dalla consuetudine, o da deliberazioni [332] popolari, o da senatus consulta, o dagli editti dei pretori. Ma, con l’impero, si erano introdotte nuove classi di fonti giuridiche: le costituzioni del principe sotto forma di edicta, mandata, decreta, rescripta, e fino al secolo IV.,[726] i responsa dei giuristi. Anzi, col procedere del tempo, le costituzioni imperiali erano moltiplicate di numero e di importanza, e, nel secolo IV., in quel notevole mutamento, che la religione cristiana, salita per la prima volta al trono, arrecò nelle antiche consuetudini civili, e in cui, a parte la religione, era scoccata l’ora critica del distacco di un nuovo mondo da quello antico pagano, esse erano divenute profondamente novatrici, anzi, addirittura, rivoluzionarie.

Giungiamo così all’età di Teodosio II., nella quale lo stato delle fonti giuridiche era il seguente. In teoria, avevano vigore i dispositivi degli antichi plebisciti, i senatus consulta, gli editti dei magistrati; le costituzioni imperiali, e la consuetudine; in pratica, si ricorreva solo alle opere dei giureconsulti, o alle costituzioni imperiali, trascurando affatto le fonti prime ed originarie. Se non che, gli scritti dei giureconsulti erano numerosissimi, rari, costosi, peggio ancora contradittorii; le costituzioni, infinite, emanate in circostanze e in tempi diversi, sperdute per gli archivi dei Prefetti del Pretorio e dei governatori delle provincie, difficili a possedere in raccolte complete[727].

Appunto per ciò, nonostante le due collezioni, che allora esistevano — un Codex Gregorianus e un Codex [333] Hermogenianus[728] — il bisogno di un testo unico, che fissasse e ordinasse, in forma definitiva e ufficiale, tutte le leggi e le loro interpretazioni fin dall’età repubblicana, era, al tempo di Teodosio II., vivissimo. Ne risentivano la necessità, non solo i funzionari dell’impero, non solo i giudici, ma gli studiosi di giurisprudenza. Dove attingere tutta la materia da consultare? Come avere tra mano, senza inutili pleonasmi, senza ripetizioni, senza lacune, e in un testo unico, tutto quanto occorreva al magistero giuridico?

In questo disordine del materiale, gli scrittori del IV. secolo credevano appunto di ritrovare la cagione della incontrastabile decadenza della scienza giuridica[729]. Essa da tempo veniva stimata mestiere degno solo di liberti.[730] Da tempo, gli studiosi, atterriti dalla inestricabile confusione e dalla copia delle leggi — «un carico da cammelli» — si volgevano a discipline, il cui apprendimento riescisse più tollerabile, ragione per cui la giurisprudenza restava in mano di maestri ignoranti e di volgari azzeccagarbugli, di cui Ammiano Marcellino, nel IV. secolo,[731] e Giustiniano, nel VI., faranno il giudizio che essi meritavano[732].

Ma il rapporto, che intercedeva fra tale stato di cose [334] la scienza e la scuola, non isfuggiva neanche all’imperatore. «Perchè — si chiede egli, nella costituzione, che sanzionerà l’autorità del nuovo Codice — perchè, pur essendo proposti tanti premi a coloro, che coltivano le arti e le scienze, sono tuttavia solo pochi quelli, che si possono veramente dire ricchi di sapienza giuridica? Perchè, in tanta miseria di questo genere di produzione, appena uno o due è lecito giudicare realmente forniti di solida dottrina?»[733] Ed anch’egli crede di trovare la ragione del fatto nel gran disordine del materiale legislativo, anch’egli pensa che, da un generale riordinamento, grande vantaggio sarebbe derivato alla scuola e al progresso delle scienze giuridiche. Fu appunto a tale impresa che si accinse Teodosio II.[734].

Il 16 marzo 429, egli nominava una commissione, composta di magistrati, di addetti al gabinetto imperiale, di giuristi, con l’incarico di raccogliere in un corpo unico le costituzioni emanate degli imperatori, fino dall’età di Costantino il grande[735].

La Commissione incaricata non aveva ancora, nel decembre 435, ultimato i suoi lavori, e l’imperatore, con una seconda ordinanza, investendola di poteri maggiori di quelli che non convenissero a semplici raccoglitori, colmava le lacune, in quel frattempo operatesi tra i commissarii, e ne accresceva notevolmente il numero e l’autorità.[736] Questa seconda commissione pare [335] avesse nel suo seno un professore di diritto (doctor iuris), un Erozio. Così ampliata, essa era, due anni dopo, in grado di fare prevedere imminente la pubblicazione del nuovo Codice, che veniva poi fatta nelle due sezioni dell’impero, entro il 438, dieci anni dopo l’inizio dell’impresa.

Non può essere questo certamente il luogo per un esame critico del valore letterario, giuridico e politico dell’opera. Essa fu certamente, sotto tali rispetti, notevolissima, e Teodosio stesso ebbe cura di metterlo in evidenza[737]. Ma a noi basta far notare la sua grande efficacia nei riguardi della scienza e dell’insegnamento giuridico. Era quella la più completa e la prima ufficiale collezione delle leggi e dei decreti, emanati nell’impero romano, da oltre un secolo.

Forse, anzi, il paragone, che noi abbiamo invocato, non riesce a rendere con esattezza la natura dei Codici ufficiali del tempo. Le nostre raccolte di leggi e decreti rispondono solo a una parte di ciò che il Codice Teodosiano fu, giacchè in esso rientrava anche quanto oggi siamo costretti a ricercare nelle raccolte di sentenze emanate dai supremi corpi giudicanti.

In un paese, ed in un’età, in cui il commercio intellettuale era ostacolato fortemente dall’assenza di mezzi rapidi di trasmissione, è facile intendere l’efficacia e l’impulso, che l’opera di Teodosio dovette esercitare sulla diffusione della cultura giuridica. Eppure, essa non rispondeva certamente a tutto il complesso genere di lavoro, cui si sarebbe dovuto dar mano. Circa un secolo dopo, noi udiremo dalla bocca stessa di un [336] successore di Teodosio, dalla bocca di Giustiniano, la enumerazione di tutto quello che ancora sarebbe stato necessario fare, delle lacune che sarebbe stato d’uopo colmare, e vedremo quanto egli stesso tenterà.

Sarà questo il compito di un altro tempo e di altri uomini. Ma l’opera di Giustiniano nè cancellerà l’importanza di quella di Teodosio II., nè può, ai nostri occhi, menomarla. Nonostante il futuro Codice Giustinianeo, quello Theodosiano, che lo precede di circa un secolo, rimane per noi il più saldo e il più sicuro contrafforte, tra le cui difese la scienza e la cultura giuridica del mondo antico seppero sfidare i secoli per giungere fino a noi.

[337]

CAPITOLO IX. L’impero e l’istruzione pubblica dalla morte di Teodosio II. alla fine del governo di Giustiniano.
(450-565)

I. Necessità di estendere il presente studio fino VI. secolo. — II. Il governo di Teodosio, la coltura e l’istruzione pubblica in Italia. — III. Prosecuzione della politica di Teodorico sotto Atalarico e Teodato. Atalarico e le scuole di Roma. — Rinascita intellettuale. — IV. Giustiniano, la sua reazione cristiana; il divieto d’insegnamento ai pagani. — V. Soppressione dell’università ateniese. — VI. Sospensione degli stipendii ai docenti di arti liberali. — VII. La compilazione del Codex iustinianeus, del Digestum e delle Institutiones. — VIII. Scopi e vantaggi di tale opera rispetto alla scuola e all’insegnamento. — Riduzione delle scuole di giurisprudenza; aumento del personale insegnante in Costantinopoli e in Berito; immunità ai professori di giurisprudenza; prolungamento del corso; la disciplina degli studenti. — IX. I nuovi programmi per l’insegnamento della giurisprudenza. — X. Giustiniano e l’istruzione pubblica negli ultimi anni del suo governo.

I.

Teodosio II. moriva nel 450. In quell’anno stesso, spirava l’ultima figliuola di Teodosio il grande, colei, che, per circa cinque lustri, aveva, quale reggente di [338] Valentiniano III., tenuto il governo della sezione occidentale dell’impero. Nel 451, Attila invadeva coi suoi Unni l’Europa; nel 452, penetrava in Italia, e non è del tutto inaccettabile la tradizione che, in quella sua corsa rovinosa attraverso la penisola, egli vi abbia vagheggiato un piano radicale di distruzione del romanesimo[738]. Nel 455, invadevano l’Italia e Roma stessa i Vandali d’Africa. Dal 455 al 476 si susseguivano otto imperatori, eletti e deposti, con alterna ironia, da generali barbari — figure senza energia, strumenti di volontà non proprie. Così si giunge al 476, l’anno in cui suole segnarsi la fine dell’impero romano d’Occidente. Ma questa data, che ha un mero valore cronologico, non può essere quella, a cui debbono arrestarsi le nostre ricerche sui rapporti tra lo Stato e l’istruzione pubblica nell’impero romano. Allorquando Odoacre assumerà il governo d’Italia e rimanderà la porpora e il diadema all’imperatore dell’Oriente, tacito invito a [339] un governo nominale sull’Occidente, l’autorità di questo principe, su questa parte dell’Europa, non cesserà, ma continuerà nella identica misura, in cui da parecchi lustri essa si esercitava. E, subito dopo, Teodorico, re degli Ostrogoti, venuto a spodestare Odoacre, dichiarerà di compiere l’impresa in nome dell’imperatore di Oriente, e lascerà intatto l’ordinamento dell’Italia, e gl’imperatori lo nomineranno loro luogotenente, confermandone gli atti suoi e dei successori, e continueranno a legiferare per l’una e l’altra sezione dell’impero, come su proprio immutato possesso[739]. Meglio ancora, qualcuno tra essi tornerà a tenere, per non brevi anni, nel suo pugno, le sorti di tutto l’impero.

Fino a Giustiniano, dunque, l’unità ideale e politica dell’impero romano non è rotta teoricamente, e, praticamente, essa lo è tanto, o tanto poco, quanto sin dalla morte di Teodosio il grande. Ancora nei secoli V. e VI., Roma è uno dei due centri, donde irraggia, sui resti dell’impero occidentale romano, tutta l’autorità, di cui un tempo disponevano gl’imperatori; e i re barbari, soggiornanti in Italia, avranno cura di proseguirne scrupolosamente la politica.

Ma se questo si può dire dell’Occidente, ancora più forti sono le ragioni, che ci inducono a inoltrarci fin nel secolo VI. della storia dell’Oriente. Il regno di Giustiniano è l’ultimo grande atto della portentosa trilogia della vita ideale di Roma, e le sue vicende scolastiche vi assegnano un’importanza capitale nella storia dell’insegnamento. Giustiniano, come vedremo, [340] applica, anche a questo campo dell’amministrazione, tutti i criterii dominanti la politica generale dello Stato e porta alle estreme conclusioni quelle tendenze, che, nei rapporti della istruzione pubblica, si erano da tempo manifestate e avevano, con Teodosio II., avuto una così significante espressione. Riesce dunque impossibile allo storico, che si occupi dei fenomeni, che noi andiamo in queste pagine rievocando, arrestarsi alle soglie del secolo VI. Ma, se così evidenti sono i motivi che ci sospingono a penetrare fin nel cuore del VI. secolo della storia dell’impero romano d’Oriente, non altrettanto invincibili sono quelli, che ci inducono ad arrestarci a questo momento. La barriera cronologica, che si suole fissare alla morte di Giustiniano, non poggia sulla realtà dei fatti; essa corrisponde solo a una inveterata distinzione fra storia del pensiero greco e storia del pensiero bizantino, anch’essa sprovvista di ogni valore ideale[740]. Ma la forza della consuetudine e le sue esigenze sono ormai troppo grandi, perchè sia lecito violarle in una trattazione d’argomento così particolare, e questa ragion pratica è la sola ad impedire che la nostra esposizione prosegua, per l’Oriente, oltre la seconda metà del VI. secolo di Cristo, oltre cioè la fine del governo di Giustiniano.

[341]

II.

È noto il grande rispetto, che agli istituti del passato portarono i due re barbari, i quali governarono l’Italia innanzi la restaurazione di Giustiniano. E tale tendenza, ch’è in germe nella politica e nel fugace governo di Odoacre, si dispiega intera con Teodorico. Tutta la parte più intellettuale della politica di questo principe fu ispirata da uno dei più grandi dotti romani del tempo, il senatore Cassiodoro, figlio di un altro Cassiodoro, che Odoacre aveva levato alle più alte dignità e nipote di uno dei personaggi più illustri dell’età immediatamente precedente[741]. Ed egli stesso ce ne lasciò documento in quelle sue preziose Variae, che sono una delle fonti più notevoli della storia del governo di Teodorico.

Alla corte del monarca ostrogoto, Cassiodoro percorse tutta la scala degli onori: fu questore, patrizio, console, senatore, magister officiorum[742]. Ma più delle dignità esteriori, è per noi significativa la natura dei suoi rapporti col principe. Cassiodoro stesso ci informa come, non ostante la rozzezza della sua cultura, il re aveva colloqui frequenti con i dotti; colloqui, che volgevano spesso su problemi di filosofia, di scienze naturali, di astronomia. «Teodorico — scrive Cassiodoro — libero dalle cure del suo governo, ascoltava i dotti, perchè voleva, con le proprie opere, uguagliare gli antichi, [342] e si informava del corso degli astri, della configurazione dei mari, delle sorgenti meravigliose, con tanto zelo, che, a vederlo così scrutare nei misteri della natura, l’avresti detto, non un monarca, ma un filosofo rivestito della porpora»[743].

Interpretando il desiderio e la volontà del re, Cassiodoro, nelle lettere e negli editti, che stendeva in suo nome, non tralascia occasione per lodare i letterati e i filosofi dei tempo e per mettere in rilievo i meriti intellettuali di coloro, che il principe nominava ai più alti uffici dello Stato.[744] Tanto pregio della cultura e dei dotti fa sì che Teodorico intervenga a curare direttamente le scuole del paese ch’egli governa. È stato scritto e ripetuto ch’egli vietasse ai Goti di frequentare le pubbliche scuole. Probabilmente, si tratta di una esagerazione o di un equivoco,[745] in fondo ai quali, di vero non c’è che l’adulazione di un settatore del generale greco, futuro trionfatore dei Goti, e la volontà di Teodorico che la grande massa del suo popolo custodisse un vigoroso allenamento militare[746]. Diversa è invece l’educazione, che egli volle per i figliuoli e per i congiunti. La figlia Amalasunta è da lui fatta diligentemente istruire in tutte le discipline liberali,[747] ed il nipote Teodato, riceve un’istruzione romanamente [343] perfetta[748]. Non si poteva attendere nulla di diverso da un principe, che tanto sospirò il possesso di quella cultura, di cui egli mancava. E quando Amalasunta volle educare il proprio figliuolo alle arti liberali romane, il che doveva — disgraziatamente — fruttarle buona parte della sua sciagura, si può ritenere ch’ella seguisse, e interpretasse, il più sincero sentimento del padre suo.

In ogni modo, qualunque sia stato il pensiero di quel principe circa l’educazione da impartire ai Goti, i suoi intendimenti, nei riguardi della popolazione romana, non si scostarono di un pollice da quanto avevano giudicato i migliori tra i suoi predecessori imperiali.

Egli infatti, più benevolo e più zelante di Valentiniano I., pose sotto la sorveglianza speciale del prefetto di Roma — «la città delle lettere», «la madre feconda dell’eloquenza», «il tempio di tutte le virtù», com’egli soleva chiamare questa metropoli — i figliuoli o i congiunti di quegli stranieri, i quali amavano che i loro giovani connazionali frequentassero le scuole della Città eterna[749]. E, per giunta, il re accompagnava il suo permesso con la clausola che nè i giovani lasciassero Roma, nè i parenti li ritirassero, finchè quelli non avessero ultimato gli studii e non ne avessero realmente profittato, il che, come egli stesso aggiungeva, non sarebbe dovuto spiacere ai maggiori interessati[750].

Oltre che agli studiosi, Teodorico pensa ai docenti. [344] Quegli stipendii o quelle annone, che da Adriano si solevano corrispondere ai professori dell’Ateneo romano, e che vedemmo soppressi sotto Teodosio I., sono da Teodorico ripristinati, e corrisposti, con lodevole precisione amministrativa. I beneficati sono i docenti di grammatica, di retorica, di giurisprudenza, di medicina. E ad informarcene è precisamente un paragrafo della Prammatica Sanzione di Giustiniano,[751] il quale, a Teodorico appunto dovrà ispirarsi per mitigare le sue leggi contrarie alla diffusione dell’istruzione classica nell’impero.

Ma di un altro ramo della pubblica istruzione ebbe anche a curarsi Teodorico, come di rado si erano curati i suoi predecessori. Intendo accennare alla conservazione delle antiche opere d’arte. Nelle Variae di Cassiodoro si discorre spesso di tale soggetto. «Assai acerbo è pel nostro animo», scrive una volta Teodorico, «constatare che, mentre noi cerchiamo ogni giorno di accrescere la bellezza della città, i monumenti antichi vengano quotidianamente a perire.»[752] «A nulla giova fermare i principii delle cose, se poi si distrugge ciò che si è incominciato». «Solo è durevole ciò che la prudenza incomincia e la cura custodisce; maggiormente perciò si deve badare a conservare, anzichè ad iniziare.»[753]

E in Roma e in Italia egli ripara, a proprie spese, mura, edifici pubblici, canali, terme, teatri[754]; nomina appositi architetti[755], crea la carica della comitiva romana, [345] che richiama la cura statuarum del II. secolo e il tribunato rerum nitentium del IV., con l’incarico di invigilare sulla sicurezza e sulla incolumità delle opere d’arte esposte pubblicamente in Roma[756]. E uno scrittore del tempo nota, pieno di maraviglia e di ammirazione, che con Teodorico risorgono a nuova vita Roma e l’Italia intera[757].

III.

L’opera e l’indirizzo politico di Teodorico non si interrompono con la sua morte. Atalarico e Teodato continuano nella via tracciata dal nonno e dallo zio[758].

Con essi anzi, il mecenatismo di Teodorico si fa più intenso e più frequente: Cassiodoro assurge alla prefettura del pretorio;[759] l’«eloquente» Aratore viene nominato Conte dei Domestici;[760] il retore Felice, questore del sacro palazzo[761]. E, durante il loro governo, le sorti dell’istruzione pubblica nella capitale del regno vengono prese a cuore in modo ancora più energico che nel passato.

Ebbe, invero, Atalarico la fortuna, non comune, di Graziano e di Teodosio II. insieme, di avere al suo fianco due rari genii ispiratori, la madre Amalasunta e il ministro Cassiodoro[762]. E di lui noi possediamo [346] il testo di una relazione al senato, che vale la pena di riprodurre per apprendere dalla sua stessa bocca come, pur esprimendosi ne l’orribile prosa del tempo, pensava quest’ultimo fra i Romani: «È noto, — egli scrive — che Noi lasciamo a buon diritto ai padri le questioni, che riguardano i figliuoli, perchè essi sentano il dovere di curare il profitto di questi, ai quali interessa il sempre migliore ordinamento degli studii in Roma. Non è perciò da credere che Voi possiate non essere solleciti verso le cose, da cui deriva e ornamento alla Vostra stirpe, e, con l’assiduo insegnamento, consiglio a tutta la società. Or bene, recentemente (poichè le cure Vostre toccano anche Noi) abbiamo appreso che i professori di eloquenza in Roma non riscuotono le ricompense fissate all’opera loro, e che, per il mercanteggiare di taluni, accade spesso che essi vedano ridursi le somme destinate ai pubblici docenti. Ora, poichè è chiaro che le varie discipline sono alimentate dalla speranza dei relativi compensi, noi giudichiamo sommamente colpevole sottrarre alcunchè ai maestri della gioventù, i quali invece sono piuttosto da eccitare alla gloria degli studii, con l’accrescerne gli agi, di cui ora godono.

«La scuola di grammatica è infatti il fondamento migliore delle lettere, la madre gloriosa della eloquenza, ciò che insegna a nobilmente pensare e a parlare impeccabilmente. La scuola di grammatica insegna ad aborrire gli errori del discorrere, nella stessa guisa, in cui il buon costume aborre dalla colpa. E come il musico sa foggiare una dolcissima melodia con cori fra di loro intonati, così il grammatico sa recitare, disponendo convenientemente i [347] varii accenti. La grammatica è maestra della parola, abbellatrice del genere umano; essa, mettendoci in grado di leggere le opere mirabili degli antichi, viene ad offrirci l’ausilio della loro saviezza. De’ suoi beneficii non godono i re barbari; essa — è noto — rimane esclusivo privilegio dei principi legittimi. Qualunque persona infatti può possedere le armi: solo l’eloquenza favorisce i re dei Romani. Con essa contendono gli oratori civili; da essa procede la nobiltà del dire, per cui vanno onorati tutti i sommi, e, volendo omettere il resto, è per essa che noi siamo in grado di parlare.

«Per questo, o senatori, Noi deferiamo volentieri a Voi e la cura e l’autorità necessaria perchè coloro, che via via succedono all’insegnamento, quando vengano riconosciuti idonei all’ufficio, e in questo confermati da un decreto del senato, siano grammatici, siano retori, siano giuristi, riscuotano, da chi spetta, senza alcuna menomazione, gli utili goduti dai predecessori, nè alcuno di loro abbia a correre il rischio di vedersi le annone stornate e ridotte, ma tutti, dietro Vostro ordine e con la Vostra garanzia, godano sicuramente quello che loro compete.

«Il prefetto della città è incaricato dell’esecuzione di ciò che Voi avrete stabilito. E affinchè nulla debba restare alla mercè di chi è deputato al pagamento[763], Noi ordiniamo che, appena scorso il primo semestre [348] dell’anno, i maestri riscuotano la metà dello stipendio fissato, e il secondo semestre non si chiuda senza il dovuto saldo delle annone». «È tanto Noi vogliamo che tali norme siano osservate rigorosissimamente, che, se qualcuno di coloro, a cui tocca, stimerà di differire questa funzione, che gli incombe come l’adempimento di un dovere, se, per deplorevole cupidigia, egli defrauderà dei dovuti vantaggi coloro che lavorano meritoriamente, soggiaccia al pagamento degli interessi secondo le norme consuete. Se Noi largiamo le nostre ricchezze in spettacoli teatrali, per diletto del popolo, e ne facciamo con ogni scrupolo godere persone, che non sono stimate così necessarie, quanto maggiormente, e senza indugi, non dobbiamo far ciò a vantaggio di coloro, che alimentano gli onesti costumi e forniscono gli uomini dell’intelletto e di eloquenza alla nostra corte?

«Quest’altro Nostro proposito ordiniamo che Voi comunichiate alla benemerita classe degli attuali docenti di lettere: sappiano essi che Noi siamo solleciti del loro utile, ma siamo assai più esigenti del profitto dei giovani. Non abbia ormai più ragion d’essere quell’opinione, ripetuta da queruli poeti satirici, che cioè l’umano intelletto non deve essere impegnato in due cure diverse. Oggi essi godono di un trattamento non disprezzabile; abbiano dunque un’unica cura e si dedichino con tutto l’animo agli studii delle arti liberali.»[764]

Così, romanamente, nel 534 di C., parlava Atalarico al senato di Roma, e l’ascoltavano i superstiti di quello, [349] che per dieci secoli era stato il più grande consesso del mondo.

Una traccia, così dei nuovi provvedimenti, come del nuovo benessere, di cui, per circa mezzo secolo, ebbe a godere tutta la nazione (che fu anch’esso merito dei principi seguìti all’ultimo imperatore romano) noi possiamo ritrovare in quella estrema rinascita della cultura italica, che è contemporanea ai primi lustri del VI. secolo di C.

Il regno di Teodorico e dei suoi successori immediati è l’età di Boezio e di Cassiodoro, due nomi che basterebbero da soli a onorare tutta un’età, ed è anche quella di Ennodio, di Massimiano, di Fausto, di Avieno, di Aratore, di Simmaco, Festo, Probino, Cetego, Agapito, Probo, Olibrio[765]. Adesso si coltivano con ardore gli studii classici di ogni specie,[766] e la società colta romana è invasa da una vera e propria febbre di umanesimo. Si trascrivono e correggono codici greci e latini, si fanno nuove edizioni di vecchi testi[767]. Cassiodoro, ritirandosi dal mondo e abbracciando la vita monastica, impone, come una delle principali regole ai suoi confratelli di clausura, l’illustrazione, la ricerca e la trascrizione dei codici antichi[768]. Sì che, quando di lì a otto secoli, la Rinascenza leverà alla luce del giorno tutta la gloria dell’antichità, reagendo, o credendo di reagire, contro la secolare barbarie medievale, [350] essa non avrà fatto che ripigliare il lavoro cominciato sotto il secondo dei principi barbari in Italia.

Ma Teodorico era morto nel 526; Atalarico moriva nel 534, e già, nel 536, la dominazione, o la luogotenenza degli Ostrogoti in Italia agonizzava. Un tentativo di reazione antiromana da parte di quei barbari aveva pôrto la sospirata occasione, perchè l’imperatore d’Oriente, Giustiniano, intervenisse, e ordinasse al suo miglior generale la conquista dell’Italia. Ventisette anni dopo, questa era già un fatto definitivamente compiuto, e un legittimo imperatore aveva ripreso nelle sue mani il governo di tutto l’orbe conquistato dall’antica capitale del Lazio.

IV.

Giustiniano assomma nella propria persona il tipo ideale di monarca cristiano assoluto,[769] che l’impero e la nuova religione erano andati insieme creando. Il concetto della potestà imperiale non ha per lui confini, ed egli crede a sè riserbato il diritto, anzi il dovere, di fondere in una massa unica tutto l’impero, di cancellarne le varietà, di creare uno Stato, in cui i sudditi non professino che due soli culti: quello dell’autorità del principe e l’altro della religione ufficiale. Dell’antico impero romano Giustiniano non ammira, e non vuol restaurato, che il potere delle armi e l’autorità delle leggi. Anche nel riconoscimento di queste ultime, egli [351] formula, per vero, delle riserve, e la sua giurisprudenza non sarà precisamente quella repubblicana o dei primi secoli dell’impero. Ma di tutto il resto egli pensava dovesse farsi senz’altro man bassa, specie della religione. Tutti i membri del gran corpo dovevano essere pervasi da un solo spirito, da una sola fede.

Tutto quello, che ricordava l’indipendenza o le incertezze del passato, doveva essere distrutto. Così Giustiniano fu, quale era voluto essere, il Luigi XIV. dell’Oriente e dell’impero romano, nel VI. secolo di Cristo; così il suo governo segnò l’ultima grande persecuzione contro i resti del paganesimo sopravvissuto.

Giustiniano, infatti, interdice ogni riunione di dissidenti, ogni atto di religione pagana, pena la morte; esclude i pagani e i loro figliuoli da tutte le pubbliche funzioni, anche dalle più libere, come l’avvocatura; destituisce dai varii impieghi i sudditi tenaci nell’antica eresia, e istituisce pei funzionari il giuramento sull’Evangelo.

Come se ciò non bastasse, esclude i pagani da ogni atto della vita civile. Il pagano non può amministrare i propri beni, non disporne; i suoi figliuoli, se seguono la fede del padre, sono privati della eredità e sostituiti con i discendenti ortodossi. Il pagano non può testimoniare, non possedere uno schiavo pagano. I suoi figli, che si convertono al cristianesimo, sono sottratti alla sua potestà di padre e privilegiati in confronto dei loro fratelli non ortodossi. Tutte le donazioni e i legati, fatti allo scopo di sostenere l’antico culto, sono nulli, e quelli, che tentassero simulatamente di raggiungere un tale scopo, soggetti a confisca.

Era molto, ma non era tutto. Il paganesimo resisteva [352] ancora. Bisognava raggiungerne e stroncarne le estreme radici. Così ogni pagano convertito, che tornava alla fede dei padri, venne senz’altro predestinato alla pena capitale; gli altri furono invitati a darsi in nota ai poteri dello Stato, per fare pubblica professione di fede ortodossa e battezzarsi al più presto, a meno che non avessero voluto incorrere in pene gravissime, specificate. Il cittadino non fu più soltanto responsabile di se stesso, ma anche della fede della propria moglie, dei propri figliuoli, dei propri servi. Egli deve convertire anche questi, pena la destituzione, se è pubblico ufficiale, o la confisca dei beni, se è un privato. I pagani non possono avere diritto che a una sola cosa — e anche questa è graziosa liberalità del principe — alla vita.[770]

Tanta reazione è portata nella scuola. La vendetta di Giuliano può dirsi ora completa. E come questi aveva proibito ai retori e ai grammatici cristiani l’insegnamento nelle scuole classiche del tempo, così Giustiniano proibisce qualsiasi forma d’insegnamento, da parte dei pagani superstiti. Noi possediamo il testo preciso del divieto: «Coloro, i quali sono affetti dalla insania del paganesimo, nè entrino nella milizia, nè godano di alcuna pubblica carica, nè, sotto l’apparenza di insegnare una qualche disciplina, sia loro lecito trascinare le anime semplici ai propri errori, e renderli in tal modo più tepidi verso la vera e pura fede ortodossa»[771]. E, in altra occasione, l’imperatore [353] ripete: «Noi proibiamo che l’insegnamento di alcuna disciplina sia impartito da coloro, che sono travagliati dalla insania del paganesimo, affinchè in tal guisa simulando di istruire coloro, che, pur troppo, li frequentano, non corrompano le anime dei discepoli. Nè alcuna annona ricevano essi dal fisco, essi, che, nè in virtù delle lettere sacre, nè delle forme prammatiche, hanno alcun che di simile a reclamare. E, se taluno, nella capitale o nelle province, si troverà in tali condizioni, e, insieme con la moglie e coi figliuoli non si affretterà a recarsi nelle nostre sante chiese, egli andrà soggetto alle pene sopra specificate, le sue sostanze saranno confiscate, ed egli stesso verrà mandato in esilio.»[772]

V.

Eppure era entro i confini dell’impero una cittadella inviolata del pensiero antico, un istituto di istruzione pubblica, cui non avevano attentato, od osato attentare, nè i figli di Costantino, nè i Valentiniani, nè i Teodosiani: l’Università ateniese. Ma ora l’intransigenza religiosa di Giustiniano la vince trionfalmente su ogni scrupolo.

Narra Zosimo che, nella sua invasione in Grecia, Alarico, dinanzi alle mura di Atene, la Città eterna dell’Ellenismo, era stato colpito dalla visione della vergine Pallade in armi, quale la statua colossale dell’Acropoli la figurava, pronta a piombare sugli assalitori e a sterminarli, e che, a quella vista, egli si sarebbe [354] arrestato[773]. Ma il fascino che l’antichità greco-romana aveva, od avrebbe, secondo il racconto dello storico pagano, esercitato sul barbaro invasore, nulla potè contro l’imperatore romano. Nel 529, due anni dopo il suo avvento al trono, Giustiniano iniziava la esecuzione dell’Università ateniese, sopprimendo l’insegnamento della filosofia[774], che, in quel giro di anni, costituiva la sola sua gloria, anzi la sua ragion d’essere; e, forse, devolveva ad altri usi le rendite private, destinate al mantenimento di quelle cattedre[775].

Ma ormai non si trattava soltanto di una soppressione d’insegnamenti. Rotto l’incantesimo, che aveva fin allora cinto della sua difesa la grande città, i docenti di Atene si trovarono esposti a tutti i colpi della nuova reazione religiosa. Come altri loro connazionali, come altri fedeli osservanti del culto antico, essi ora avrebbero corso il rischio della confisca dei beni, dell’arresto, dell’esilio, della morte. Su di loro incombeva l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione dal diritto comune dei cittadini; incombeva, anche se la legge ne taceva, il divieto di avere libri, di produrre, di studiare, di pensare[776]. Essi erano ormai insidiati nei loro possessi più cari e più gelosi. Era la fine della loro vita. Parte di [355] quei filosofi emigrarono, e le vicende di quell’esilio volontario hanno qualcosa che stringe il cuore.

Nel 531, il re Cosroe era salito al governo della lontana Persia. Si diceva che egli amasse le lettere e conoscesse Aristotele meglio di un greco, che leggesse quotidianamente i dialoghi di Platone, che fosse esperto in tutte le arti e in tutte le scienze, che fosse anzi il più sapiente e il più saggio di tutti coloro, i quali avevano coltivato la filosofia. In quell’impero di principe-filosofo, i sudditi erano buoni e modesti. Non furfanti o predoni battevano le vie; non si commettevano reati; ognuno poteva lasciare ovunque incustodite le masserizie sue più preziose: era il regno della giustizia, della moderazione, della virtù. Fu allora che l’ultimo dei neoplatonici della Università ateniese, Damascio di Siria, con i suoi colleghi, un Simplicio, un Eulamio, un Prisciano, un Ermia, un Diogene e un Isidoro, «il fiore dei filosofi del tempo», venne, per sè e per i suoi compagni, a invocare dall’erede dei Sassanidi, dal monarca dei soli invitti nemici dello Stato romano, quella protezione, che essi più non trovavano nell’impero e nella patria loro. Furono ben ricevuti, ma l’Eldorado platonico, che avevano sognato, differiva assai dalla realtà. I nobili del paese erano — come dovunque — superbi; i cortigiani, adulatori e servili; i magistrati, iniqui; i sacerdoti bacchettoni e intolleranti; il saggio principe, un uomo vano, crudele, ambizioso. Disillusi e scoraggiati, essi domandarono di partire. Meglio chiudere gli occhi nel paese natale, che restare, colmi di onori e di doni, fra stranieri, egualmente disistimati! E Cosroe condiscese al loro desiderio, e fece anche di più: impetrò — ed ottenne — per essi, da Giustiniano, la concessione di [356] poter custodire la fede avita e di morire indisturbati nel suo seno[777].

Ciò accadeva nel 532 o 533[778]. In quello stesso anno, una nuova ordinanza di Giustiniano sopprimeva la facoltà giuridica di Atene[779], abbattendo in tal guisa l’ultimo angolo della superstite grandezza intellettuale della vetusta metropoli.

Era la fine di quella Università ateniese. L’astro della scienza, che, secondo l’iperbole di Giuliano, non avrebbe potuto mai tramontare dal cielo purissimo della Grecia, come giammai le fonti del Nilo possono esaurirsi e disseccarsi,[780] fuggiva, oscurando la sua patria terrena, per tanti secoli illuminata. Costantinopoli poteva finalmente, e sul serio, vantare il monopolio incontrastato dell’insegnamento delle discipline liberali nella sezione orientale dell’impero, e un epigrammista avrebbe potuto ben irridere: «Voi altri Ateniesi avete sempre in bocca i vostri filosofi antichi, i Platoni, i Socrati, i Senocrati, gli Epicuri, i Pirroni, gli Aristoteli, ma in realtà non avete che l’Imetto e il suo miele, le tombe dei vostri morti e le ombre dei vostri saggi. [357] È qui a Costantinopoli che ormai albergano la fede e la sapienza.»[781]

VI.

Si ebbe ancora di peggio? La reazione antipagana, sotto Giustiniano, si congiunse ad una vera e propria persecuzione contro qualsiasi forma dell’insegnamento classico? È quello che noi siamo costretti a chiederci, scorrendo qualcuno dei più notevoli storiografi contemporanei di quelle vicende. Secondo infatti la Historia arcana di Procopio, Giustiniano avrebbe ordinato la soppressione di tutte le annone corrisposte dallo Stato e dai municipii ai medici e ai professori di discipline liberali[782].

Noi abbiamo oramai un’idea esatta circa l’attendibilità di quell’anonimo pamphlet, che fu il su citato scritto di Procopio, con cui il suo autore credette di pigliarsi vendetta allegra di un imperatore, che aveva altrove, anche smaccatamente, elogiato, e che riteneva forse fallito alle sue migliori speranze. È dunque da ammettere a priori ch’egli, in questa parte del suo racconto, abbia esagerato, come esagerò in molte altre[783]. Tuttavia l’esagerazione ha anch’essa bisogno di un appiglio, nè, guardando con attenzione, è difficile rintracciare la realtà, che questa volta vi corrisponde. [358] Ed invero ciò che, secondo Procopio, Giustiniano avrebbe tentato non sarebbe un fatto nuovo: sarebbe la continuazione dell’opera del più ortodosso fra i suoi predecessori, Teodosio I. Per l’uno e per l’altro, la cultura a tipo classico si confondeva con il paganesimo; il filosofo, il retore, il maestro d’ogni arte liberale, con il pagano. Che vi sarebbe di assurdo se, intendendo colpire quest’ultimo, l’uno e l’altro avessero colpito anche i primi, come infatti vedemmo farsi da Teodosio? Che di strano se, per estirpare i riti del paganesimo, Giustiniano avesse estirpato, o tentato di estirpare, le scuole dei retori, dei filosofi, tutte in una parola, le scuole romane tradizionali, tanto più che, di fatto, in un gran numero di casi, forse nel maggiore, i titolari delle cattedre, relative a queste discipline, erano ancora pagani? Che di strano nel pensare e nell’affermare che Giustiniano preferisse, fin dove poteva, che le risorse dello Stato e dei municipi andassero prodigate, e consacrate, a scopi più utili che a lui non parevano quelli dell’insegnamento classico?

E che Procopio dica il vero noi ne abbiamo conferma in quel capitolo degli Annali di un più tardo storico bizantino, Zonara, ove si discorre di Giustiniano e del suo governo. Anche Zonara parla della soppressione degli stipendi ai docenti di arti liberali e della seguìta decadenza delle scuole dell’impero. Ma egli dimostra, dal contesto del suo racconto, di seguire una fonte diversa di Procopio, fonte a noi sconosciuta, ma che, da altri particolari, sembra essere stata veramente ottima[784]. Or bene, egli spiega che Giustiniano ebbe, per [359] la riattazione e la fabbrica di nuove chiese, bisogno di danaro, di molto danaro, e che perciò, dietro consiglio del prefetto di Costantinopoli, soppresse le annone dei maestri in tutte le città,[785] abbandonando le scuole al loro destino. La narrazione di Procopio non può dunque essere rigettata o trascurata, come, pur troppo, hanno fatto anche storici autorevolissimi. L’esagerazione sua sta solo nel non avere — per vieppiù colorire le tinte del racconto — voluto distinguere tra la soppressione degli stipendi ai maestri pagani e quella degli stipendi a tutti gli altri; sta — più ancora — nell’avere generalizzato il provvedimento così nello spazio come nel tempo.

Gli ordini di Giustiniano, infatti, non dovettero esser tanto universali quanto il nostro storico ce li farebbe temere. Noi non possiamo concepire che tutte le scuole pubbliche dell’impero, ove s’impartivano discipline liberali, fossero state soppresse. Lo potevano mai essere quelle di Costantinopoli? Ed esiste un documento, il quale, forse, comprova in modo diretto come tale eccezione non sia stata l’unica. Nel 554, Giustiniano, riconfermando, con la sua Prammatica Sanzione, gli atti di Teodorico e del suo immediato successore, non che gli stipendi ai grammatici, agli oratori, ai medici e ai professori di giurisprudenza, in Roma, che quei principi solevano pagare loro, lascia intravedere che tale encomiabile consuetudine rispondeva a un privilegio da lui stesso accordato. «L’annona — egli s’esprimerà — che Teodorico era stato solito dare, e che Noi consentimmo ai Romani, ordiniamo che sia anche data per l’avvenire, come del pari gli stipendi, che si era soliti corrispondere [360] ai grammatici, ai retori, ai medici e ai giurisperiti.»[786] Questo dunque, che egli concedeva a Roma, città regia sì, ma cittadella anch’essa del paganesimo, perchè non dobbiamo supporlo concesso anche ad altre città e ad altre scuole? Ad ogni modo, la soppressione non dovette oltrepassare i confini di una misura transitoria; e di questo convince il racconto, veramente prezioso, di Zonara, secondo cui gli stipendi e le immunità sarebbero state sospese perchè, in vista di determinati scopi, occorreva temporaneamente del denaro.

La cronologia del provvedimento non si può desumere che per via indiretta. La ricostruzione o la edificazione ex novo delle chiese, di cui parla, avvenne poco dopo la tremenda insurrezione del 432, che distrusse buona parte di Costantinopoli. La sospensione delle annone ai maestri delle arti liberali dovette dunque accadere verso quegli anni. Ma, comunque, ciò che Giustiniano ebbe per tal guisa a tentare non fu cosa di piccolo momento.

Da quando lo Stato romano aveva concesso ai comuni il privilegio di disporre delle proprie entrate, anche a vantaggio dell’istruzione pubblica, il suo diritto d’ingerenza nelle amministrazioni comunali non si era mai esercitato a loro danno, a loro deminuzione. E l’istruzione comunale si era diffusa largamente in ogni luogo. Per giunta, una società ricca, fiorente, vigorosa può fare a meno della iniziativa pubblica, può crearsi essa stessa le scuole che le occorrono, ma una società, come quella dell’impero romano, nel VI. secolo di Cristo, era [361] mestieri venisse, dalla soppressione di Giustiniano, condannata all’ignoranza e alla estinzione spirituale. Per buona fortuna, ripetiamo, come gli ordini di Giustiniano non dovettero essere tanto universali quanto il suo storico ce li fa temere, così non era facile imporne dappertutto — e violentemente — la esecuzione; meno facile ancora, impedirne la contravvenzione.

VII.

Ma vi era un altro insegnamento, un insegnamento penetrato un po’ tardi nel programma dell’istruzione pubblica dei cittadini dell’impero, una disciplina non contemplata nel novero delle arti liberali romane: la giurisprudenza. Ad essa rimangono estranee la maggior parte delle ordinanze precedenti, e alla riforma di questo insegnamento si lega la sola opera positiva, un’opera veramente grandiosa, compiuta da Giustiniano nei rispetti della pubblica istruzione.

Egli cominciò col proseguire l’iniziativa di Teodosio II. La deficienza di coltura giuridica era ancora la regola del tempo, ed essa era tanto manifesta, anche presso coloro, che, per ragioni di ufficio, meno avrebbero dovuto esserne colpevoli, che il Governo aveva, sino dalla seconda metà del V. secolo, dovuto provvedere in via legislativa. Noi possediamo infatti due costituzioni imperiali, rispettivamente del 460 e del 505, nelle quali si prescriveva che niuno potesse esercitare l’avvocatura senza che si fosse ufficialmente constatato avere egli compiuto il corso legale degli studi,[787] e senza che [362] egli avesse superato un esame speciale presso un’apposita commissione di giurisperiti[788].

Il bisogno di un più razionale e più completo riordinamento del materiale legislativo era di bel nuovo grandissimo, e grandissimo il bisogno di uno svolgimento e di una interpretazione teorica, che rendessero quel materiale praticamente e scientificamente utilizzabile.

A soddisfare tali esigenze Giustiniano ordinò, e condusse a termine, fra il 528 e il 533, la compilazione del Codice, che portò il suo nome — opera ancora più grandiosa di quello Teodosiano — nonchè di quel mirabile trattato di scienza giuridica dell’antichità, che fu il Digesto[789]. Se però il Codice Giustinianeo conservava tutto ciò, che ancora valeva la pena di conservare delle costituzioni imperiali fin dall’epoca di Adriano; se il Digesto era, come si espresse l’imperatore, «il tempio sacro della giustizia romana,»[790] nè l’uno nè l’altro potevano davvero dirsi quell’agevole manuale pratico, che i giovani studenti di giurisprudenza, come gli studenti di ogni tempo, desideravano[791]. Ma anche il manuale per la scuola aveva voluto apprestare Giustiniano e aveva anche di questo incaricato il suo ministro, il giureconsulto Triboniano, e due tra i professori, che avevano collaborato alle raccolte precedenti. E tale opera, [363] intrapresa col Digesto, ultimata un mese prima, veniva pubblicata insieme con questo, in quattro libri, i libri delle Istituzioni.

VIII.

Giustiniano ebbe invero piena coscienza dei varii scopi, che egli avrebbe raggiunto con l’opera propria: uno scopo propriamente giuridico, in quanto sostituiva dei testi precisi all’arbitrio dei magistrati; uno scopo scientifico, in quanto salvava tutta la scienza antica, raccogliendola come in un’arca santa, capace di traversare l’oceano del tempo; uno scopo pratico, in quanto, in luogo della farraggine disordinata dei vecchi testi, egli offriva leggi brevi, precise, accessibili a tutti,[792] e che, quindi, ogni cittadino poteva, in ogni occasione, recarsi comodamente sotto occhio. Ed egli intese anche perfettamente il valore, che la nuova legislazione recava nei rapporti della scuola e dell’insegnamento. Le sue Istituzioni sono dedicate ai giovani e, nell’Avvertimento che vi precede, Giustiniano, dopo avere anzi tutto affermato che «la maestà imperiale romana deve essere, non solo ornata di armi, ma anche armata di leggi»,[793] soggiunge di avere ordinato la compilazione di quel manuale affinchè i giovani «possano apprendere i primi rudimenti della giurisprudenza, non dalle antiche favole, ma da un solenne testo ufficiale e affinchè gli animi e le orecchie loro non ascoltino dissertazioni inutili e disordinate, ma discussioni, che [364] riguardino il nocciolo stesso dei varii problemi». «Quelle costituzioni imperiali — egli continua — che i Vostri antenati riuscivano appena a leggere in un quadriennio, Voi ora potete apprendere in sull’inizio dei vostri studii. Voi avete avuto la fortuna e l’onore di veder procedere dalla voce del principe il principio e la fine dell’istruzione legale.»[794] «Accogliete pertanto con fervore e con alacre studio queste nostre leggi, e mostratevi tanto dotti, da potere lietamente sperare che, compiuto il corso di giurisprudenza, abbiate a governare il nostro impero negli uffici, che a Voi si dovessero un giorno affidare.»[795]

Anche nella prefazione al Digesto, Giustiniano torna a rivolgersi agli studenti, dichiarando di avere fornito loro i mezzi per diventare eloquenti oratori, insigni giuristi, ottimi avvocati e magistrati.[796] Ma non era tutto; questa volta egli accompagnava la sua opera giuridica con notevoli provvedimenti, relativi all’insegnamento del diritto, che sarà opportuno passare singolarmente in rassegna.

Anzi tutto, Giustiniano sopprime le scuole giuridiche, vigenti in parecchie città dell’impero, e prescrive che scuole ufficiali, o, almeno, riconosciute, di giurisprudenza sono da considerare soltanto quelle delle due città regie: Roma e Costantinopoli, nonchè quella di Berito «altrice di leggi.»[797]

[365]

Così egli prescriveva nel 533, allorchè Roma, sebbene fuori del suo governo effettivo, veniva considerata in diritto come l’altra capitale dell’impero. Ed egli specifica le ragioni del nuovo divieto: «Noi abbiamo saputo» «che alcuni ignoranti si sono sparsi anche nella splendida città di Alessandria, in Cesarea e in altri luoghi,[798] e che insegnano ai discepoli una scienza adulterata. Noi vietiamo assolutamente un siffatto tentativo, ordiniamo che i colpevoli, i quali oseranno persistervi e insegnare fuori delle due città regie e di Berito, siano condannati a una multa di dieci libbre d’oro e siano espulsi da quella città, nella quale non insegnano, bensì violano le nostre leggi.»[799]

Ma tale limitazione circa il numero delle scuole nell’impero portò seco un aumento nel numero delle cattedre e dei professori. Noi dobbiamo ritenerlo provato dal proemio al Digesto, quella costituzione così detta, dalla sua parola introduttiva, Omnem, la quale si rivolge ai professori di diritto dell’impero, che sono elencati appunto in numero di otto. E poichè non si deve ammettere — ciò che non sembra punto verosimile — che Berito ne avesse da sola sei, per riserbarne appena due a Costantinopoli, e poichè la distribuzione dei programmi [366] era tale da richiedere, nell’una e nell’altra università, almeno tre professori per i primi tre anni di corso,[800], è mestieri pensare che i docenti di diritto in Costantinopoli fossero ora saliti almeno a quattro, a un numero cioè uguale a quello, che se ne suppone per Berito.[801]

Non basta: il numero di quattro, per quest’ultima città, sembra che segni anch’esso un aumento sulla serie delle cattedre, ivi, fin allora, esistenti. Dall’elenco, infatti, dei professori di diritto chiamati in ciascuna delle svariate Commissioni, di cui Giustiniano ebbe a valersi, noi rileviamo che essi furono scelti in pari numero tra Berito e Costantinopoli[802]. Questa parità numerica dei Commissarii, tratti dalle due Università, fa pensare a un egual numero di cattedre in esse esistenti; e poichè, prima del VI. secolo, in Costantinopoli, ve n’erano solo due, due soltanto deve supporsene fin allora anche in Berito, che Giustiniano avrà, durante il suo governo, raddoppiate, nell’una e nell’altra città.

Ottennero ora tutti questi docenti le immunità e i privilegi, di cui già godevano i professori di diritto in [367] Roma, e da cui tutti gli altri erano rimasti esclusi per lo specioso pretesto, recato da Ulpiano, che la cultura giuridica è cosa troppo sacra, perchè si debba degradarla, valutandola in denaro? Sotto un governo, non più di retori o di filosofi, ma di giureconsulti, con un ispiratore quale era Triboniano, non sarebbe dovuto accadere diversamente, nè diversamente consentiva accadesse, la nuova condizione di Costantinopoli, capitale privilegiata dell’impero, e la perfetta equiparazione dei diritti di Costantinopoli e di Berito a quelli di Roma, rispetto al magistero della giurisprudenza. Ma, pur troppo, non abbiamo nessun dato positivo, che risponda alla nostra aspettativa, se ne togli una variante, da noi a suo luogo citata, che si ritrova in qualche manoscritto del Codice Giustinianeo, a un passo di un editto di Costantino, la quale può interpretarsi come una delle non sempre scrupolose, ma sempre intenzionate, interpolazioni di Triboniano e dei suoi colleghi alle antiche costituzioni imperiali. Se tale, infatti, fu il loro arbitrio, noi possiamo constatare ed indurre che essi, riproducendo, nel Codice giustinianeo, la terza delle costituzioni costantiniane sulle immunità dei medici e dei professori, aggiunsero a questi i «doctores legum», volendo così creare una progenitura a una novità, ch’era propria del loro tempo, e di cui essi erano stati certamente gli ispiratori.

Ciò stabilito per le cattedre e per i maestri, Giustiniano veniva ad occuparsi degli studenti.

Le innovazioni per questa parte non erano numerose. L’imperatore cambia anzi tutto la consueta denominazione degli studenti del primo anno. Essi erano, fino a quel tempo, chiamati Dupondii. Ma questo titolo sembra [368] a lui «frivolo e ridicolo», nè confacente alla serietà del nuovo materiale legislativo,[803] ed egli lo vuole, non solo, rigorosamente abolito ma mutato in un altro, che ricordi quello del principe; egli vuole che, per ora e per l’avvenire, gli studenti del primo anno portino il nome di Iustiniani novi.

Con maggiore serietà di osservazione e d’intendimenti, il corso degli studi giuridici è da lui accresciuto di un anno e fatto perciò di cinque. Cominciava esso allora, come in Berito, ai tempi di Diocleziano, a 21 anni, oppure, come l’aveva ridotto Valentiniano I., per Roma, a 17, sì che ora l’ingresso nelle facoltà di giurisprudenza sarebbe stato consentito appena a 16 anni? È problema, su cui la parola dell’imperatore non riesce ad illuminarci.

È chiaro invece che gli studii dell’ultimo biennio non erano più, come, per l’innanzi, quelli del quarto anno, degli studii privati. Fin allora — secondo Giustiniano si esprime — gli studenti di quell’ultimo corso «studiavano da sè» i Responsa del giureconsulto Paolo;[804] adesso, invece, persino la materia del quinto anno doveva essere illustrata dalla parola stessa degli insegnanti,[805] sì che all’apprendimento e alla iniziativa personale privata dei giovani non rimanevano che le due ultime parti del Digesto.[806]

[369]

Ma nella citata costituzione, Giustiniano, come già, un secolo e mezzo innanzi, Valentiniano I., regola anche — e con maggiore severità che pel passato la disciplina degli studenti, e sopra tutto mira a reprimere, e a prevenire, gli abusi, consuetudinarii nel mondo antico, e un po’ in quello moderno, degli studenti anziani contro i loro compagni matricolini: «A nessuno di coloro — egli scrive — che si dedicano agli studii del diritto, sia lecito tentare giuochi e scherzi indegni o di pessimo gusto, che unicamente si converrebbero a degli schiavi, e il cui solo effetto è di fare il male o commettere altri reati, contro i professori e i loro compagni, specialmente contro quelli, che, ancora inesperti, si accingono allo studio delle leggi.» «Noi non tollereremo ciò a nessun patto, sia perchè vogliamo stabilire il buon ordine negli studii, per il presente e per l’avvenire, sia perchè siamo convinti che, innanzi di essere dotti, occorre essere moralmente degni.[807]» E di tale sorveglianza sulla scolaresca Giustiniano incaricava, per Costantinopoli, il prefetto della città, e, per Berito, il prefetto della Fenicia marittima, nonchè il vescovo e lo stesso corpo accademico di quella Università.[808]

IX.

Ma la grande, la rivoluzionaria novità della sua riforma è la pubblicazione — che avviene ora per la prima [370] volta — di un corpo di istruzioni e di programmi relativi all’insegnamento universitario del diritto, che vale la pena di riferire largamente.

La costituzione che li contiene, è sempre quella, che testè menzionammo, rivolta, e dedicata, ai professori di diritto in Costantinopoli e in Berito, e la breve introduzione ne illustra la ragione e lo scopo. «Poiché — essa s’esprime — a Voi, pubblici professori di diritto, era mestieri conoscere quali cose, e in qual tempo, Noi pensiamo sia necessario insegnare ai giovani studiosi, perchè possano divenire onesti ed eruditi, reputiamo opportuno rivolgervi il presente discorso, affinchè tanto Voi, quanto i Vostri successori, osserviate le Nostre norme, e tutti possiate così gloriosamente percorrere le vie della giurisprudenza.

«Per il passato, come Voi ben sapete, della grande moltitudine di opere giuridiche[809] esistenti — circa duemila volumi e tre milioni di righi — gli studenti non apprendevano, dalla viva voce del maestro, che sei libri soltanto, i quali, per giunta, peccavano di confusione, e solo di rado contenevano nozioni giuridiche utili. I rimanenti, caduti in desuetudine, venivano da tutti trascurati.

«Fra questi sei libri, erano le Institutiones del nostro Gaio e quattro libri singulares, il primo, famoso, de re uxoria, il secondo, de tutelis, il terzo e il quarto de testamentis e de legatis, i quali però non si studiavano per intero, ma se ne tralasciavano molte parti reputate superflue. Per giunta, questa materia, [371] che si svolgeva nel primo anno, veniva impartita, non secondo la progressione dell’Edictum perpetuum, ma disordinatamente e confusamente, mescolando l’utile all’inutile, anzi assegnando maggior tempo alle cose inutili.

«Nel secondo anno, senza ordine fisso, si insegnava la Prima pars legum, salvo taluni titoli, poichè sarebbe stata cosa enorme che, dopo le Institutiones, si leggesse qualcosa di diverso di ciò che, per la sua natura, ebbe il nome di Prima parte. E dopo questo insegnamento, che anch’esso non si faceva continuatamente, ma in esposizioni staccate, e che s’indugiava in questioni per gran parte inutili, s’illustravano ai giovani altri titoli, tra cui quelle parti del comentario dell’Editto,[810] che si denominano de iudiciis, i quali del pari non si esponevano di seguito, ma saltuariamente (come se tutto il resto del volume fosse costituito da informazioni inutili), e i sette libri de rebus, omettendo anche di questi molte parti, che gli insegnanti trascuravano, in quanto non acconce alla cultura giuridica. Nel terzo anno, poi, i giovani apprendevano quanto di questi due libri non era stato fin allora insegnato, e ciò, secondo l’alternazione dei due volumi, che questa materia contengono. Si apriva così, per i giovani, la via al sommo Papiniano e ai suoi Responsa. Ma di questa materia dei Responsa, che si conteneva in 19 libri, essi apprendevano otto libri soltanto, e neanche per intero, ma pochi e brevi frammenti, sicchè ne venivano staccati, ancora desiderosi [372] di apprendere. «Delle altre opere di Papiniano gli studenti leggevano, nel terzo anno, solo poche parti, tra le molte, e, per giunta, saltuariamente.»[811]

«Apprese solo queste cose dai professori, i giovani studiavano da sè i Responsa di Paolo, ma neanche questi per intero (appena 18 libri in tutto),[812] imperfettamente e, secondo la mala consuetudine, inorganicamente. Tale era, nel quarto anno, la fine di tutta l’antica sapienza giuridica. Chi vorrà fare il conto di tutto quello che si insegnava troverà che, di tanta copia di opere giuridiche, i giovani apprendevano a mala pena solo circa 60 mila righi; il resto era da loro trascurato, o ignorato, e solo si pensava che si dovesse studiare, in piccolissima parte, qualora a ciò avessero costretto le esigenze dei procedimenti giudiziarii, o Voi stessi, o Maestri, Vi foste affrettati a scorrerne qualche punto, per avere una cultura un po’ superiore a quella degli scolari.

«Questa era la condizione della vecchia istruzione giuridica, siccome anche Voi potete testimoniare.»[813]

Dopo questa vivace critica dei metodi e dei vecchi programmi, relativi a l’insegnamento superiore della giurisprudenza, Giustiniano viene a parlare dei proprii meriti e delle proprie innovazioni.

«Noi, avendo trovato tanta penuria di raccolte di leggi, e stimando questa, cosa veramente miserevole, abbiamo aperto ai volenterosi i tesori della giurisprudenza, [373] che, distribuiti con misura dalla Vostra sapienza, potranno fare i Vostri discepoli dottissimi oratori e valorosi giurisperiti.

«Nel primo anno, dunque, apprenderanno i giovani le nostre Institutiones, che sono state raccolte da quasi tutto il corpo delle vecchie Institutiones e, come in liquido stagno, derivate da molte torbide fonti. Nel resto dell’anno, poi, secondo l’ordine migliore, Noi vogliamo che sia insegnata quella prima pars legum, che con vocabolo greco si chiama πρῶτα, cui nulla può precedere, perchè quello che è primo non può avere altro innanzi a sè. Questo sia tutto il programma del primo anno».

«Nel secondo anno, poi, Noi decretiamo che i giovani apprendano i sette libri de iudiciis e gli otto de rebus, e ciò, secondo la consuetudine, che vogliamo conservare immutata. Ma questi libri apprendano per intero, e organicamente, senza alcuna omissione, poichè la nuova redazione è bella e non vi è nulla di inutile, nulla di vieto. All’uno o all’altro di codesti libri de iudiciis o de rebus, Noi vogliamo che, nel programma del secondo anno, siano aggiunti quattro libri singulares, che abbiamo ricavati da quattordici libri, cioè uno dai tre volumi che abbiamo composto sulla materia delle doti, uno dai due, che abbiamo composti sulla tutela, uno dai due volumi sui testamenti, uno dai sette sui legati, sui fidecommessi e questioni analoghe. Solo dunque questi quattro libri, che si trovano in principio di ciascuna delle opere succitate, Noi ordiniamo che siano da Voi insegnati ai giovani; gli altri dieci saranno da riserbarsi per un tempo più opportuno, essendo impossibile lo studio [374] e la spiegazione scolastica di questi quattordici libri nel solo secondo anno.

«Nel terzo anno, si tenga l’ordine seguente: si facciano studiare i libri de iudiciis o quelli de rebus, secondo richiederà l’alternarsi delle materie, insegnate precedentemente. Contemporaneamente, si studino tre trattati di leggi speciali e, anzi tutto, il libro, che riguarda la formula ipotecaria, che Noi abbiamo posto a suo luogo, dove si discorre delle ipoteche, perchè, avendo la formula ipotecaria grande affinità con le azioni dipendenti dal contratto di pegno, che stanno nei libri de rebus, vertendo l’una e le altre pressochè sulla stessa materia, quella non doveva starne discosta.

«Dopo questo libro, venga impartita la materia del l’altro libro dell’Editto degli edili intorno all’azione redibitoria, alle evictiones, nonchè sulla stipulatio dupla. E, poichè le garanzie legali delle compere e delle vendite sono contenute nei libri de rebus e tutti poi i capitoli, di cui parlammo, erano stati posti nell’ultima parte del primo editto, abbiamo dovuto metterlo più innanzi, affinchè non fossero troppo discosti dal contratto di vendita, di cui sono quasi come gli strumenti.

«E abbiamo messo l’insegnamento di questi tre libri con quelli dell’acutissimo Papiniano. Il sommo Papiniano somministrerà materia notevolissima d’insegnamento, non solo dai suoi 19 libri di Responsa, ma anche dai 37 libri di Quaestiones, dai due intorno alle Definitiones, dal trattato De adulteriis e da quasi tutto ciò che di lui abbiamo riportato in varii luoghi dei nostri Digesta.

[375]

«Con lui, dunque, si chiuda il programma del terzo anno.

«Gli studenti del quarto, invece dei Responsa del sapientissimo Paolo, curino di studiare i dieci libri singulares, superstiti dei quattordici, che dianzi abbiamo elencato, e siano certi di conseguire, dallo studio di questi, molto maggiore e più vasta cultura, che dai Responsa. Così sarà loro impartita la materia dei libri singulares, da noi rielaborati e distribuiti in diciassette libri, e in due parti del Digesto, cioè nella quarta e nella quinta, seguendo la divisione in sette parti. Così apparirà vero ciò che Noi dicevamo con le prime parole di questo Nostro discorso, che cioè, con lo studio di 36[814] libri dei Digesta, i giovani possono istruirsi completamente ed essere preparati a qualunque lavoro giuridico e riuscire non indegni del nostro secolo. Le due altre parti, cioè la sesta e la settima dei nostri Digesta, divise in quattordici libri, sono state qui aggregate, non perchè siano illustrate pubblicamente, ma perchè i giovani possano studiarle da sè e citarle nei giudizi.

«Dopo aver bene assimilato i Digesta, gli studenti del quinto anno, cureranno di conoscere e di analizzare il Codice delle costituzioni. Così ad essi non mancherà la nozione di alcuna parte della giurisprudenza, ma le avranno tutte percorse e abbracciate. Così, tra le restanti discipline, le quali, anche se di molto inferiori, mancano tuttavia di confini, questa [376] sola scienza, per opera Nostra, potrà ora vantare dei limiti fissati invariabilmente.»[815]

X.

Tutto ciò veniva ordinato e compiuto nel 533. Il governo di Giustiniano, che aveva determinato una grave crisi nelle antiche scuole di retorica e di filosofia dell’impero, erigeva invece, alla istruzione e alla cultura giuridica, il più grandioso monumento, che principe abbia mai concepito. Ma degli ultimi anni di quel regno, noi possediamo il testo di un curioso documento, relativo agli affari della istruzione pubblica in Costantinopoli, che ci dà indirettamente la prova di qualcos’altro: la prova del mutato atteggiamento dell’imperatore nel considerare il valore sociale di quelle discipline, così fieramente avversate in su gli esordii del suo governo.

Si tratta del decreto di nomina di un pubblico insegnante a Costantinopoli, in persona di quel mediocre autore di opere storiche, astronomiche, ed antiquarie, che fu Giovanni Lorenzo Lido. Il documento[816] risale al 551 circa[817], e in esso l’imperatore, dopo avere esaltato il valore letterario del nominato, continua, dicendo essere sua ferma intenzione che questi possa attendere con pieno agio agli studii, e proclamando che sarebbe indegno dei tempi lasciare inonorato un uomo così meritevole. Sì che, mentre promette maggiori ricompense, [377] gli assegna un pubblico stipendio, e dichiara che sarebbe molto lieto, se egli volesse dedicarsi a comunicare altrui la propria cultura. In osservanza di questa lettera, narra il beneficato medesimo, il prefetto di Costantinopoli dispose che gli venisse assegnato un locale nella Università, ove pare egli abbia tenuto cattedra di lingua e letteratura latina[818].

Adesso, dunque, l’imperatore dichiara essere indegno di sè e del suo secolo lasciare senza onore i meriti letterarii e la cultura dei sudditi più eminenti. Siamo dunque dinanzi a una concezione parecchio lontana da quella, con cui egli aveva inaugurato il suo regno. Gli anni e l’esperienza avevano, anche a lui, insegnato quello, di cui, già da tempo, i suoi predecessori si erano convinti,[819] che, se nessun governo si regge, trascurando le sorti della pubblica cultura, o partendo in guerra contro di essa, tanto meno lo poteva il governo romano in Oriente; ed egli, al pari dei rappresentanti la religione cristiana, di cui era voluto essere il braccio secolare, aveva dovuto fare dei notevoli strappi alle estreme conseguenze del suo pensiero di credente.

Ancora tre anni, e, nella Prammatica Sanzione, riguardante l’Italia, l’imperatore si compiacerà, e ne sarà lieto, di mantenere gli stipendii per tutte le cattedre dell’Ateneo romano. Era la smentita di tutto il suo remoto passato, e ad essa non possiamo assistere senza provare [378] un senso di amarezza e (perchè non dirlo?) anche d’esitanza. Erano questi atti conformi a una rinnovata opinione teorica o si trattava di un nuovo espediente di governo?

Frattanto le rovine del passato non si risollevavano. L’ultima gloria ateniese era precipitata, le scuole dell’impero erano intristite, gli ultimi argini contro il Medioevo irrompente erano stati strappati e travolti. Chi avrebbe avuto cuore di assolvere il responsabile, anche dopo la conversione?

[379]

CONCLUSIONE

I. La politica scolastica della repubblica e dell’impero. Il governo centrale e le scuole di Stato. — II. Il governo e le scuole municipali e private. — III. Lo Stato, i maestri, gli studenti; la libertà dell’insegnamento. — IV. Lo Stato e gli insegnamenti professionali. — V. Le biblioteche pubbliche e loro amministrazione. — VI. Lo Stato, le Accademie, i Musei; la cura delle opere d’arte. — VII. L’imperatore, il Senato e la suprema direzione della istruzione pubblica. — VIII. L’amministrazione centrale e provinciale. — IX. Gli impulsi indiretti del governo alla istruzione pubblica; il tentativo d’una educazione ufficiale; lo Stato e l’educazione fisica. — X. La decadenza intellettuale, e la vanità effettiva dell’opera dello Stato.

I.

Io mi propongo di tracciare, in questo capitolo, le linee generali della politica dello Stato romano verso l’istruzione pubblica durante i primi secoli dell’êra cristiana, e, fondandomi sugli elementi successivamente sottoposti all’intelligenza del lettore, esporre in una sintesi conclusiva, e in modo sistematico, il meccanismo — (e i principii direttivi del suo funzionamento) — in quegli anni messo in opera, a vantaggio della pubblica istruzione. [380] La politica dell’impero verso l’istruzione pubblica è un naturale svolgimento di quella dell’età repubblicana, e, come questa, non mira all’attuazione di un piano determinato a priori, ma procede a tentoni, per mille imprevisti casi ed atti, fino a terminare, nei secoli V. e VI., con l’inaugurazione di una vera e propria scuola di Stato.

Ma se la pratica è conseguente, le teoriche espresse dalle due età sono l’una diametralmente opposta all’altra. Si voglia codesta teorica, per il primo periodo della storia romana ritrovare tutta intera, e in modo assoluto, nelle parole de La repubblica di Cicerone, là dove si afferma che nelle buone tradizioni nazionali romane non trovava posto alcun sistema di educazione pubblica ed uniforme per tutti i fanciulli di nascita libera;[820] o si vogliano le parole di Cicerone, come è forse più probabile,[821] interpretare con discrezione e cautela maggiori del consueto, l’impero può in ogni modo contrapporre ad esse una molto diversa teorica. Che, se Costanzo II, in un documento ufficiale dirà, che il primo merito di un governo e di un principe è quello ch’egli si conquista verso la pubblica istruzione,[822] Simmaco, uno dei più grandi personaggi del secolo IV. ribadirà, rivolgendosi al primo magistrato romano, che «la prova della floridezza di uno Stato si desume dallo stanziamento di cospicue retribuzioni ai pubblici docenti»[823].

[381]

Ci troviamo dunque, come si vede, in aere e dinnanzi a concepimenti assai diversi. Per l’impero romano, lo Stato ideale è quello che largisce a sue spese la pubblica istruzione; per la repubblica, ogni paese civile poteva serenamente prescindere da siffatte preoccupazioni.

Per quali vie s’era compiuta tanta rivoluzione? La risposta non riesce difficile a chi con noi ha seguito, passo passo, lo svolgersi dell’amministrazione scolastica dello Stato romano.

Questa parte della sua attività si esplica sotto tre forme: creazione di scuole pubbliche ed ufficiali; regolamenti sull’istruzione municipale; vigilanza sull’istruzione privata.

Quanto alle scuole di Stato, duplice fu la via, che noi abbiamo vista seguire dal governo romano. Da un canto, esso istituisce delle cattedre di discipline, preferibilmente attinenti all’insegnamento superiore. Ciò avvenne dapprima nella capitale del mondo, nella città regia per eccellenza, in Roma; poscia, nelle città più notevoli per il loro passato, letterario e scientifico, e perciò più degne delle cure imperiali, quale, ad esempio, Atene.

Tale istituzione non importava di necessità che lo Stato si arrogasse il diritto della nomina del docente. In genere — almeno nel rito esteriore — essa era lasciata al Consiglio municipale, cioè al senato del luogo; importava bensì che lo Stato si addossasse l’onere dello stipendio del docente. Ma insieme con questo procedimento l’impero amò seguirne un altro. Esso preferì talvolta avocare a se stesso determinati insegnamenti, designando una città come loro sede officiale, imponendovi, più o meno [382] rigorosamente, i suoi programmi, facendone la depositaria responsabile, spesso liberandola da ogni concorrenza. Fu il caso della facoltà giuridica di Berito con Giustiniano e coi suoi predecessori, sin forse da Diocleziano.[824] Questa volta siamo dinnanzi ad un’investitura morale, non già ad una creazione ex novo di cattedre, e lo Stato rimane estraneo sia alla nomina dei docenti, sia alla retribuzione dell’opera loro.

Fra l’una e l’altra forma di scuola di Stato, fra le due età, in cui ciascuna viene incarnata, noi assistiamo al primo sorgere, su modello appositamente scelto di una completa Università, che raccoglie nel suo seno l’insegnamento delle varie discipline, ritenute fondamentali e necessarie. È questa l’ora della fondazione dell’Ateneo Costantinopolitano, e sarà anche questo il momento, in cui l’autorità del potere centrale, così solennemente affermatasi, libererà l’Università ufficiale da tutte le altre forme di insegnamento, che fino allora le erano fiorite accanto, e ne darà a quella l’assoluto monopolio. Ancora un altro secolo, infatti, e ciò che Teodosio II., integrando l’opera di Costantino I., aveva disposto per la sola Costantinopoli, sarà da Giustiniano ripetuto per altre scuole o cattedre dell’impero — private, municipali, imperiali — e dell’organismo dell’istruzione dello Stato, saranno, pur disciplinandole scrupolosamente, mantenute solo quelle parti, che il governo riterrà opportuno mantenere.

Ma tanta operosità non riguarda tutte le forme dell’antico insegnamento; l’istruzione elementare rimane ancora estranea a ogni iniziativa dello Stato, e le cattedre, [383] che questo curò e raccolse, quali sedi di insegnamenti ufficiali, corrisposero invece alle sole contemplate dal nostro insegnamento superiore e dal nostro insegnamento medio di secondo grado.

Le discipline fondamentali — qua e là ce ne poterono essere anche delle altre — oggetto del primo, furono la eloquenza greca e latina, la filosofia, più tardi, la giurisprudenza; le discipline, oggetto dell’insegnamento secondario superiore: la lingua e la letteratura latina. E se, come taluno ha asserito, la denominazione di Università non si attaglia perfettamente agli istituti d’istruzione pubblica, sorti in Roma, in Atene, in Costantinopoli e nelle altre città, che quegli insegnamenti raccolsero in un corpo unico, l’eccezione ha valore sopra tutto, in quanto dei programmi di codeste scuole facevano parte anche quelle discipline, che oggi costituiscono il nostro insegnamento secondario superiore.

Ma la cura e la sorveglianza del governo centrale sulle scuole di Stato non si limita a largire uno stipendio ai docenti, a raccogliere questi ultimi in un istituto unico, a pareggiare, a quelle di fondazione imperiale, alcune scuole, che tali non erano state, a coordinarne l’opera, sia pure entro gli incerti confini, che abbiamo segnati. Vedemmo, dall’esempio di Roma e di Costantinopoli, come lo Stato fornisse i locali; ma esso curava ancora la disciplina degli studiosi, sì che l’autorità, che oggi viene divisa fra il rettore dell’istituto, il corpo accademico e l’autorità politica, veniva dal governo centrale assegnata solo a quest’ultima. Era questa la conseguenza necessaria dell’acefalia della scuola, ove, se c’erano degli insegnanti, non c’era un ufficio direttivo. E noi vediamo che, sotto Valentiniano I., nella [384] mancanza dell’organo necessario per la disciplina, le scuole venivano governate dal prefetto della città, in Roma e — si può presumere — anche in Costantinopoli, e dalle altre autorità provinciali più immediate, nelle quattro prefetture dell’impero, come, più tardi, insieme con queste, dalle supreme autorità ecclesiastiche del luogo.[825] Un dirigente d’istituto di nomina imperiale non esiste,[826] e il collegio dei professori o non è investito di alcun potere, o ne ha uno assolutamente subordinato, e solo sussidiario, a quello dell’autorità civile e religiosa.

Ma tale delegazione all’autorità politica dei poteri disciplinari, che non è un male, come potrebbe temersi, giacchè quella si limitava esclusivamente a sorvegliare la parte più esteriore, e meno intima, della condotta degli studenti, dipende anche dalla concezione dell’insegnamento, che lo Stato romano ereditò — e mantenne fedelmente — dalla repubblica. Per esso, fu l’insegnamento un’attività liberissima tra le libere; per esso, l’insegnante dovea farsi valere con la sua capacità; lo scolaro apprendere per il bisogno intellettuale o professionale, che lo sospingeva[827]. Il fallo scolastico non è quindi contemplato; esistono solo dei reati comuni, e di reprimerli è, naturalmente, incaricata l’autorità civile o giudiziaria.

Questo è il fondo teorico della pratica seguita dall’impero romano in fatto di disciplina scolastica. Va [385] da sè che esso era troppo bello, per tradursi senza alterazioni nella realtà; e, infatti, provvedimenti speciali di questo o di quell’imperatore ne ombrarono la classica purezza. Ma essi non riuscirono mai a intaccare vitalmente il sistema, che rivivrà più tardi, attraverso i più celebri istituti d’istruzione pubblica del Medioevo.

II.

Tali le norme, che regolarono le scuole di Stato. Ma queste non furono, nel concetto, che i Romani ebbero della loro importanza, paragonabili alle nostre scuole regie, secondarie e superiori. Per i Romani, fino almeno a Giustiniano, la scuola di Stato fu un istituto di lusso, una speciale degnazione del superiore governo verso determinate città; fu una scuola modello, non la scuola ministra quotidiana e ordinaria del sapere e della cultura. Quella invece, che, per valor sociale, nel concetto degli uomini politici di quel tempo, avrebbe potuto paragonarsi alle nostre, fu la scuola municipale, ed a questa si deve la romanizzazione del mondo conquistato.

Delle sue sorti, vedemmo, il governo imperiale comincia ad occuparsi fin da Antonino Pio. Quest’imperatore inscrive, per il primo, fra le spese obbligatorie di parecchi Comuni dell’impero, anche quella per il mantenimento di determinate cattedre, ed autorizza altri, che lo chiedevano, ad aprire pubbliche scuole. E la sua iniziativa è proseguita ininterrottamente fino all’ultima età. Il governo imperiale investe ufficialmente i Consigli comunali della nomina dei maestri, stabilisce appositi concorsi, li fa sorvegliare e, in taluni casi, infligge, o fa infliggere loro, punizioni determinate e [386] perfino la destituzione[828]. Viceversa, impone ai Comuni dei privilegi a favore dei maestri, non che l’esenzione dai carichi locali, e richiede da essi la scrupolosa osservanza del pagamento degli stipendi[829].

Vi è un certo momento anzi — fu questo il biennio del governo di Giuliano — in cui lo Stato giunge ad arrogarsi il diritto di conferma delle nomine dei maestri municipali, di cui vuol controllare il merito scientifico ed il valore morale. Ma, se questa particolare ingerenza cessa con la morte di quel principe, lo Stato non consente mai che si rallenti la sorveglianza dei Comuni sulle loro scuole, e sempre si conduce come se pensasse che quelli non fanno che operare in nome ed in rappresentanza del governo centrale[830].

Appunto per questo, esso crede talora di potere senz’altro nominare direttamente gl’insegnanti comunali — è il caso di Proeresio a Treviri, di Flavio e di Lattanzio a Nicomedia, di Eumenio ad Augustodunum —; esso crede di poter fissare, ed imporre, la misura degli stipendii — è il caso dell’ordinamento dato da Graziano all’istruzione pubblica nelle Gallie —; esso crede di poter direttamente destituire dei maestri, o sopprimere, sia pure temporaneamente, delle scuole; così fanno Giuliano e Giustiniano. Solo, da tanta cura, rimane, anche sotto l’impero, di bel nuovo, esclusa ogni forma di istruzione primaria.

Verso l’istruzione privata le pretese, gli atteggiamenti, del governo centrale sono assai più rimessi e modesti, [387] nè le condizioni, in cui tale forma d’istruzione suole in ogni tempo vivere, consentono che sia fatto in modo diverso. Tutto l’insegnamento privato domestico fu dunque libero da ogni sorveglianza e da ogni controllo. Anche quando Giustiniano opererà i suoi tagli cesarei nell’organismo delle scuole dell’impero, egli non colpirà che l’istruzione impartita pubblicamente, e con lui, e dopo, perfino in Atene, l’insegnamento domestico, se non prospererà, non cesserà di sopravvivere.

Non basta. Nella stessa istruzione privata, impartita pubblicamente, lo Stato non cura, nè sorveglia, che una sola forma: l’istruzione media e superiore a tipo classico, quella, che metteva capo alla così detta scuola di grammatica, greca e latina, a quella di retorica, di filosofia e delle restanti discipline, contemplate nel quadro dei programmi scolastici consuetudinari.

Quasi tutte le altre specie di insegnamento, che non riguardavano le discipline canonizzate dalla tradizione — come le scuole professionali, le scuole cristiane, catechetiche, teologiche etc. — rimangono estranee all’invadenza del governo centrale.

Ben diversamente procedevano le cose nei rispetti dell’istruzione privato-pubblica di tipo classico. Giuliano vuole che gli insegnanti abbiano la ratifica dei Consigli municipali e la propria. I successori si contenteranno della prima soltanto, ma talora, per evitare una spesso temibile concorrenza, seguiranno l’esempio di Teodosio II., e preferiranno vietare in modo assoluto, sotto la minaccia di gravi pene, ogni insegnamento pubblico-privato.

Ma, com’è nella sua natura, questa forma d’insegnamento, sfidò anche allora, ogni controllo e contravvenne [388] ad ogni divieto. Morto Giuliano, si constata che l’impero è pieno di docenti di filosofia, sprovvisti di autorizzazione, e, sotto Giustiniano, i volontari docenti di giurisprudenza riescono ugualmente pericolosi sia per la loro ignoranza come per il loro numero.[831]

III.

Ma chi voglia frugare in fondo ai criteri, che ispirarono lo Stato romano nei riguardi dell’istruzione; chi voglia intenderne compiutamente il principio animatore non può sottrarsi ad un’assai significativa constatazione, che s’impone al confronto delle cure e della sorveglianza, che lo Stato antico ebbe, ed esercitò, con quelle, avute ed esercitate, dagli Stati moderni.

Noi ci occupiamo della scuola e crediamo di operare al suo effettivo incremento, sovvenendola, o correggendola, nei suoi elementi oggettivi e impersonali; l’impero romano si occupò sovra tutto dell’elemento soggettivo, del maestro e dello scolaro, e fu elevandone la condizione, materiale e morale, ch’esso credette giovare alla scuola e agli studii. Perciò noi ritroviamo, fino dai primi tempi dell’impero, quella copia di immunità dai pubblici carichi e di altri privilegi, di cui ad ogni passo sono onorati gl’insegnanti — persino, qualche volta, gli eterni dimenticati, i maestri elementari. Perciò noi li vediamo, nelle costituzioni imperiali del IV. secolo, parificati, in onorificenze, ai più grandi dignitari dello Stato. Perciò il loro ufficio, riguardato dapprima con [389] disdegno e con diffidenza, tocca rimunerazioni elevatissime, come, ad esempio quella assegnata ad Eumenio in Gallia. Perciò, poco a poco, i maestri divengono gli ispiratori della politica imperiale, e si dànno dei lunghi periodi, come sotto Marco Aurelio, sotto Alessandro Severo, sotto Giuliano, in cui essi possono ben dirsi i principi dello stato, dopo l’unico principe effettivo. Perciò, dal II. secolo ai primi anni del IV., si suscita, e fiorisce, quell’ampia distesa di istituzioni alimentari, che costituiranno il terreno fecondatore della istruzione pubblica in questa età, nella quale, allorchè non infieriranno eventi contrari, la coltura pubblica raggiungerà il massimo della sua diffusione. Perciò, sin dal III. secolo, noi vedremo assegnati dei privilegi e delle borse di studio ai giovani studenti di questa o di quella disciplina, o di tutte le discipline insieme. Conforme a tali criterii, conforme cioè al criterio che il bene della scuola non si raggiunge con riforme di programmi e di ordinamenti scolastici, ma con il merito e l’eccellenza dei maestri, con il benessere degli scolari, l’insegnamento rimane libero da ogni imposizione ufficiale. Il controllo dello Stato, o che lo Stato richiede dai Comuni, si limita alla verifica della capacità, della diligenza e della dignità della vita degl’insegnanti. Tutto il resto, programmi, orarii, metodi, tutto, nello Stato antico, è di esclusiva spettanza del maestro. E come l’insegnante, esente da ogni imposizione, è responsabile solo degli effetti dell’opera sua, così manca ogni responsabilità collettiva ed ogni forma di accordo didattico fra i vari docenti di un unico istituto. Le scuole dell’antichità, che non conferivano diplomi o attestati, che non conoscevano l’umiliante soggezione degli esami, non avevano neanche [390] bisogno di imporre e di promuovere con artifici la diligenza dei maestri e l’efficacia del loro insegnamento. La scuola allora poteva bene avere un’anima, e fu vero peccato che, per la mancanza di questa intima virtù, che non infondono nè la scienza, nè l’ufficio, ma l’indole personale dei maestri e la vita storica circostante; per questa deficienza spirituale, che tanto faceva fremere Giuliano, i docenti abbiano, da così grande libertà, ritratto una copia sempre minore di vantaggi effettivi.

Venne l’ora, in cui tutto questo ebbe termine, o si volle almeno che avesse termine. Quando, in una grigia giornata invernale, Giustiniano fissò schematicamente i programmi delle poche scuole riconosciute di giurisprudenza, inaugurò quell’obbligo, di cui grandissimi, sono, insieme con i pregi, i difetti, e che impera tuttavia nelle scuole pubbliche dei paesi latini e degli altri che hanno avuto la malinconia di imitarli, l’obbligo — dico — di una scuola, la cui essenza più intima e più gelosa si sia voluta ufficialmente plasmare.

IV.

Come abbiamo dianzi affermato, quasi tutti gli insegnamenti di discipline, che non fossero quelle giudicate fondamentali, rimasero nell’impero romano estranei ad ogni cura ed a ogni ingerenza imperiale. Qualche tentativo in senso contrario ebbe tuttavia luogo, e fu più o meno audace, a seconda dei tempi e dei principi.

Il momento più propizio fu il regno di Alessandro Severo. Egli istituì — lo vedemmo — in Roma, cattedre ufficiali di medicina, di astrologia, di aruspicina, di ingegneria, di architettura, cattedre cioè di discipline, [391] scientifiche o pseudoscientifiche, attinenti all’insegnamento superiore e improntate all’esempio di altre esistenti, per iniziativa privata o municipale, nelle provincie, nonchè cattedre d’insegnamenti schiettamente professionali. È nota la miseranda fine delle scuole d’astrologia, e, da quanto noi conosciamo, è facile dedurre eziandio l’abbandono, in cui i successori lasciarono precipitare le cattedre di materie scientifiche, istituite da Alessandro Severo, che rimasero interamente escluse dal quadro tipico della Università costantinopolitana.

Ma l’insegnamento professionale venne allora favorito con altri mezzi, che non fossero quelli diretti della istituzione di scuole apposite in qualche città dell’impero. Le scuole vennero lasciate all’iniziativa privata; soltanto, esse furono, più o meno interrottamente, protette e sussidiate, i giovani vennero eccitati con vantaggi tangibili, e per essi vennero posti in condizione privilegiata coloro, che tali scuole avrebbero tenute. Furono questi i criterii seguiti per le scuole di musica da Adriano; poi, per queste e per altre professionali da Costantino I., da Giuliano, dai Valentiniani; e, se è soltanto probabile che essi siano riusciti più proficui di quelli, che avevano ispirato Alessandro Severo, è certo che la loro applicazione ne fu più continua e più duratura.

V.

Le esigenze della pubblica istruzione furono, dal governo dell’impero, non soltanto soddisfatte con la creazione di un più perfetto organismo scolastico, ma altresì con la istituzione di biblioteche, e con l’istituzione, e il mantenimento, di accademie, di musei, di gallerie.

[392]

La fondazione di pubbliche biblioteche fu una lodevole iniziativa, che rimonta al I. secolo di Cristo. Essa, come le scuole di Stato, venne dapprima limitata a Roma, ma più tardi, si eressero e si fondarono biblioteche pubbliche e semipubbliche anche altrove, ad esempio, in Alessandria, in Atene e in Costantinopoli. E, se dapprima il loro unico tipo fu quello di istituti di coltura generale, in cui si accoglieva tutta la produzione letteraria, greca e latina, allora esistente, è probabile che, in seguito si siano andate man mano specializzando. Così, se noi non siamo sicuri di imbatterci in raccolte speciali di libri scientifici, le antiche collezioni giuridiche delle biblioteche greco-latine dovettero col tempo trasformarsi in biblioteche autonome o in sezioni di biblioteche quasi indipendenti.

Le nostre notizie sul personale e sul reggimento delle biblioteche pubbliche, se non tali e così copiose come le desidereremmo, non sono però eccezionalmente scarse. Dall’età di Claudio — potrebbe anche dirsi da Augusto — e certamente per tutto il primo secolo, l’amministrazione delle biblioteche imperiali romane fu affidata ad un procurator bybliothecarum o ad un procurator Augusti a bibliothecis.[832]

I procuratores erano in genere degli affrancati, addetti al servizio personale dell’imperatore, e questo li soleva contraddistinguere dai procuratores Augusti, membri dell’ordine equestre e depositarii di una più larga e diretta autorità dello Stato nel disimpegno dei pubblici servizi.[833] Noi troviamo infatti, nell’amministrazione [393] delle biblioteche, taluni procuratores, che sono esplicitamente detti liberti imperiali,[834] ma, poichè di altri questo deve escludersi[835] e poichè ci furono veri e proprii procuratores Augusti, deve inferirsi che la procura delle biblioteche, e, perciò, il servizio ad esse relativo, siano da considerarsi quali uffici e servizi di Stato, e non già impieghi o servizi privati della Corte imperiale. Nel II. secolo, i procuratores sono due, di diverso ruolo, uno, l’antico procurator bybliothecarum, l’altro, un procurator sexagenarius, stipendiato cioè con soli 60.000 sesterzii annui, e, forse, addetto soltanto alla parte amministrativa dei singoli istituti. Ebbe tutto ciò a mutare nel III. secolo, nel quale un’epigrafe ci addita un procurator rationum summarum privatarum bybliothecarum Augusti nostri,[836] secondo cui il servizio delle biblioteche imperiali parrebbe tornato a carico della cassa privata dell’imperatore? Questa ipotesi, che pure ha avuto dei sostenitori, non è certo la più probabile. Anzi tutto, l’epigrafe può comportare interpretazioni e riferimenti diversi dai consueti: essa può intendersi riferita alla biblioteche private dell’imperatore, che neanche in Roma o in Costantinopoli alcuna sufficiente ragione riesce ad escludere[837], e può il nostro [394] procurator del III. secolo essere stato soltanto l’amministratore di quella parte di patrimonio privato, con cui l’imperatore avrebbe accresciuto il non lauto fondo destinato alle biblioteche, specie a costituirne di nuove. Ma la considerazione più grave, che vale ad escludere l’ipotesi di un regresso delle biblioteche, da istituti pubblici a proprietà private del principe, muove dall’indirizzo generale dell’amministrazione dell’impero, che coi secoli andò, in tutti i suoi rami, perdendo ogni carattere di servizio personale per convertirsi man mano, più saldamente, in servizio di Stato.

Questo per il personale superiore delle biblioteche. Quello subalterno appare, fin dal I. secolo di C., composto di liberi, di liberti imperiali e di schiavi, che, nel IV. secolo e in Costantinopoli, si preferirono pubblici, e furono, come tanti altri funzionari, stipendiati su le annonae populares[838].

VI.

Di Accademie, fondate dagli imperatori, non ve n’è che una sola, il Museo Claudio, sede di studio, laboratorio di scienze e di letteratura, auditorium destinato a pubbliche conferenze. Ma gl’imperatori romani continuarono nel mantenimento e nella direzione dell’antico Museo alessandrino, di cui, a suo tempo, notammo i tratti caratteristici. Noi vedemmo, anzi, come gli imperatori abbiano col tempo reso più universali i benefici di quella Accademia, facendone partecipi i dotti di [395] altre provincie dell’impero, e fornendo loro, ovunque risiedessero, delle congrue pensioni, che ne garantissero l’agio dell’esistenza.

Ma certo assai più interessante ed efficace, nei riguardi della cultura pubblica, fu la sollecitudine del governo imperiale pei monumenti antichi ed artistici di Roma, di Costantinopoli e di altre città d’Italia e delle provincie, che contribuì non poco a formare quel gusto della scultura, della pittura e dell’architettura, così esiguo durante il periodo repubblicano, e a salvare più tardi, al culto dei posteri, gli ormai pericolanti resti dell’arte greco-romana.

Ed infatti, nell’età imperiale, noi assistiamo alla ordinata conversione in pubblici di parecchi musei e gallerie, esistenti nella capitale del mondo, e alla formazione di un primo nucleo di amministrazione centrale e provinciale delle belle arti. La serie dei magistrati, che l’avrebbero costituita, porta nomi diversi attraverso i tempi. Da un procurator a pinacothecis e da un procurator moninentum terra (?) imaginum dell’età degli Antonini noi passiamo, nel IV. secolo, a imbatterci in un curator statuarum e in un centurio o tribunus o comes rerum nitentium. Noi non siamo sempre in grado di distinguere le attribuzioni di ciascuno; non siamo neanche in grado di distinguere cronologicamente il tempo, in cui il loro ufficio si volgeva soltanto alla città capitale, da quello, in cui cominciò a esercitarsi nella città di provincia. Ma sappiamo tuttavia di essere certamente dinanzi a una consuetudine e a un ordinamento così notevoli, che, attraverso le disavventure dei tempi, rimarranno ancor saldi durante il governo del secondo Re barbaro in Italia. E sappiamo ancora che cotali magistrati, [396] quando non dipendevano direttamente dall’imperatore, stavano alle dipendenze delle varie autorità provinciali (praefecti praetorio, vicarii, duces) o della suprema autorità cittadina delle due metropoli regie, il praefectus urbi, e che essi furono altre volte, da apposite costituzioni imperiali, direttamente incaricati della custodia, della manutenzione, dell’esposizione e dell’apertura al pubblico di opere e di edifici, considerati monumenti nazionali[839].

VII.

Le due autorità, che, durante l’impero, quasi sino all’ultimo, si ripartirono la direzione degli affari concernenti la pubblica istruzione, furono l’imperatore e il senato, ciascuno, naturalmente, con il diverso, effettivo potere, di cui disponeva, nelle nuove invalse consuetudini della politica generale dello Stato. E può dirsi recisamente che i poteri del senato, infinitamente minori di quelli dell’imperatore, andassero man mano assottigliandosi, per restare da ultimo limitati all’ordinamento della istruzione pubblica in Roma e in Costantinopoli. Fu questo un processo di involuzione, analogo a quello, che le attribuzioni del senato ebbero a subire in tutti i campi dell’amministrazione; onde quel consesso, che, sotto Augusto, aveva cominciato col largire l’immunità a tutti i medici e i docenti dell’impero, terminò, nei secoli V. e VI. di Cristo, con [397] l’assumere il modesto carattere di minuscola, subordinata autorità municipale.

In Roma e in Costantinopoli, dunque, il senato sceglie i pubblici docenti,[840] ne fissa gli stipendii,[841] conferisce loro nuove immunità[842] e propone per essi le onorificenze contemplate dalla legge,[843] provvede alla custodia dei monumenti e delle opere d’arte,[844] mantiene, in una parola, la generale sorveglianza sulle cose attinenti alla cultura e alla pubblica istruzione, ed è tramite necessario tra il pensiero o il volere imperiale e i maestri delle due città[845].

Ben altra, conforme alla natura del nuovo regime, fu l’autorità legale ed effettiva dell’imperatore!

Come monarca assoluto, come responsabile di ogni atto e di ciascuna delle norme regolatrici del suo governo, egli, nell’àmbito della pubblica istruzione, non soggiace ad alcuna norma superiore, che diriga o limiti la sua potestà. Le regole generali e particolari della sua amministrazione egli le crea saltuariamente, volta per volta, e l’unico termine di appello a qualche cosa di costante è la tradizione dei predecessori.

Così l’imperatore fonda cattedre, stipendia pubblici insegnanti, crea ex novo, o sopprime, interi istituti di istruzione, riordina le scuole provinciali, legifera sull’insegnamento privato, conferisce immunità e privilegi ai docenti e ai discenti, fonda biblioteche, musei, accademie, [398] stabilisce le norme fondamentali dell’educazione dei giovani, promuove speciali rami d’istruzione, investe di tutte coteste competenze la burocrazia dell’impero, ha, in una parola, potere sovrano su tutte le cose, dalle massime alle minime, che alla pubblica istruzione si riferiscono. Ma non solo egli può tutto quello, che gli altri insieme non riescono a potere; egli è altresì ognora in diritto di strappare oggi quello che ieri poteva aver voluto e fissato. Così, ad esempio, benchè la scelta dei docenti, anche nelle scuole di Stato, tocchi ai Comuni, dove esse risiedono, il principe, talora, tralasciando di consultarli, non si fa scrupolo di arrogarsene direttamente la facoltà, e non già solo in circostanze eccezionali, per soddisfare a urgenti necessità di servizio, come può dirsi avvenisse per le prime cattedre di filosofia in Atene, ma anche in tempi normali, anche per rendere dei favori[846] o soddisfare il capriccio personale, il che non viene punto giudicato un arbitrio, ma un atto di legittimo imperio, spesso un segno solenne di sovrana degnazione. Così, benchè le leggi, via via emanate, stabiliscano e specifichino le immunità e i privilegi consentiti, i principi son sempre in facoltà di conferirne motu proprio, a singoli maestri, di nuovi e di speciali,[847] [399] perfino di ereditarii,[848] come di togliere loro quelli conferiti dalle leggi comuni[849]. Così, sebbene nessuna legge generale ne dia loro il diritto, gli imperatori possono mettere a riposo maestri in servizio, come possono, qualora lo vogliano, destituirli improvvisamente, ciò che, ad esempio, vedemmo avvenire sotto Adriano[850] e sotto Giuliano.

VIII.

Dietro il Senato e l’imperatore, che rappresentano i due poteri dirigenti, noi ne aspetteremmo ancora altri, quali esecutori della loro rispettiva volontà, nel campo della pubblica istruzione. Se non che, a reggere il nuovo organismo amministrativo, che si era venuto formando, lo Stato non sentì vivo il bisogno di destinarvi un apposito congegno burocratico.

I nuovi uffici, creatisi a corte in quell’età dell’impero romano, in cui l’autorità assoluta del principe cominciò a farsi valere anche nelle forme esteriori, differiscono dai nostri, in quanto riguardano, non un genere di lavoro determinato, ma la forma comune di lavori diversi, non assolutamente separati nè distintamente assegnati. È questo il motivo, per cui noi non troviamo, in questo tempo, un nucleo di amministrazione centrale, che degnamente risponda al nuovo servizio e, meno ancora, delle apposite amministrazioni provinciali per la pubblica istruzione.

[400]

L’unico ufficio infatti, che, nella vecchia capitale dell’impero, ci apparisca fornito di tali caratteri, è quello dell’a studiis, ma, se l’oscurità, che avvolge le sue funzioni direttive scolastiche, è prova della sua scarsa importanza, almeno al confronto delle nostre aspettative, è altresì degno di rilievo il fatto che l’a studiis non incombeva soltanto sulle cose della pubblica istruzione, nè la durata della sua carica oltrepassò il regno di Costantino[851]. Nel momento cioè, del maggiore sviluppo della politica scolastica dell’impero, l’unico ufficio, che direttamente la riguardava, dispare[852] o si confonde con altri di specie diversa,[853] e la direzione suprema delle cose della pubblica coltura rimane alla mercè dei mutevoli suggerimenti e dell’opera di questo o di quel ministro, qualunque carica essi rivestano, sì che, allorquando Giustiniano sopprimerà buona parte delle scuole dell’impero, noi apprenderemo con meraviglia che consigliere di quel gravissimo provvedimento era stato soltanto il prefetto di Costantinopoli[854].

In modo analogo, fuori della Corte ci troviamo dinanzi a una serie di attribuzioni scolastiche, assegnate a questo o a quel magistrato civile, non dinanzi a una vera e propria amministrazione scolastica. Le persone, incaricate della cura e della trattazione degli affari, relativi all’istruzione pubblica, furono i praefecti urbi, coi loro dipendenti nelle due città regie, esecutori tanto [401] della volontà dell’imperatore come di quella del senato[855], i governatori, col personale loro dipendente, nelle provincie, o, più tardi, nelle prefetture; talora, anche, in qualche sede speciale, per l’ultima età dell’impero, le autorità ecclesiastiche[856].

Questi sono i naturali destinatari, delle numerose costituzioni imperiali, relative ai professori, agli studenti e alle cose dell’istruzione pubblica in genere. Ma una distinzione di attribuzioni tra il praefectus urbi e le autorità provinciali o il prefetto del pretorio non esiste. Ciò che determina la differenza delle loro funzioni è solo il diverso àmbito territoriale, su cui si esplicano le rispettive competenze amministrative. Il praefectus urbi si incarica della sorveglianza disciplinare sui maestri, di Roma e di Costantinopoli, cui ha facoltà di infliggere pene determinate;[857] si incarica della manutenzione degli edifici scolastici di proprietà dello Stato; dell’assegnazione a ciascun docente di un determinato locale nell’università cittadina;[858], e, forse, dopo Giustiniano, del regolare svolgimento dei loro programmi. Consiglia l’imperatore nei suoi provvedimenti scolastici;[859] sorveglia il pagamento degli stipendi;[860] cura che i maestri siano informati delle onorificenze[861] e delle [402] immunità concesse, o ridotte, o negate; esegue e garantisce l’applicazione delle leggi relative, sia per parte dello Stato che dei municipi; invigila sulla condotta degli studenti, dentro e fuori la scuola, per il che mette in opera l’attività del dipendente ufficio censuale. Infine, come governatore di ciascuna delle due metropoli, che sono anche i centri maggiori della pubblica istruzione, provvede talora di pubblici docenti le città di provincia, che ne abbisognano[862], e, almeno fin dal IV. secolo, raccoglie nelle proprie mani l’amministrazione generale delle biblioteche di ciascuna delle due città[863].

Analogamente, i governatori provinciali o i prefetti del pretorio, ciascuno nel proprio àmbito territoriale, sorvegliano l’apertura e la chiusura delle scuole pubbliche e private ed i maestri che le dirigono;[864] ne impongono di nuove, o ne regolano il mantenimento insieme con la nomina, lo stipendio dei docenti[865] e, dopo Giustiniano, forse anche l’insegnamento. Al pari del praefectus urbi, informano i docenti delle immunità concesse, o ridotte, o negate, e ne eseguono e garantiscono, l’applicazione, non solo per parte dello Stato, ma anche per parte dei municipi; rimpatriano i docenti, che aspirano a torto a determinate immunità, cercando così di sottrarsi ai loro obblighi sociali[866]; curano che i municipi osservino gli altri privilegi, dall’imperatore [403] stabiliti pei maestri, sia di arti liberali che di altre discipline, e infliggono ai violatori le penalità comminate;[867] bandiscono e corrispondono borse di studio agli studiosi; sorvegliano la disciplina, e la condotta extrascolastica, degli scolari, rilasciano loro il permesso di recarsi altrove a studiare[868]. Nè questo è tutto. Le notizie pervenuteci sulle scuole ateniesi, che sono le più abbondanti, ci dànno qualche altro particolare prezioso. I governatori provinciali nominano, o fanno nominare dai Consigli municipali, le Commissioni di concorso, le presiedono, decidono sulle loro proposte, sui reclami dei candidati, convocano i professori e gli studenti a gare solenni, premiano i vincitori, propongono quesiti, sentenziano nelle contese, sospendono, destituiscono, reintegrano, richiamano al dovere i maestri, che disertano la cattedra, inducono le città a determinate scelte, inviano all’imperatore rapporti sullo stato delle scuole; sono in una parola, fin dal IV. secolo, i veri e propri curatori dell’andamento delle scuole, almeno delle principali, collocate entro la loro giurisdizione[869].

IX.

Oltre al nuovo organismo scolastico creato dallo Stato e all’assoggettamento dell’istruzione municipale e privata [404] al governo centrale; oltre, e all’infuori di ciò che questo poteva operare per tal via, noi abbiamo dovuto notare come ugualmente grandi — sebbene meno direttamente apprezzabili — fossero gli impulsi, che, da varie forme dell’attività, o del capriccio imperiale, derivarono a parecchie e corrispondenti forme della cultura sociale. L’incremento degli studi filosofici, musicali e giuridici non si deve ad altro. Ma di questi impulsi indiretti, venuti dallo Stato all’istruzione e alla educazione pubblica, è sovra ogni altra cosa degna di rilievo la concezione di quel piano generale di educazione delle classi dominanti, che Augusto elaborò e che, per circa due secoli, s’impose in Italia e nelle provincie.

Noi vedemmo a suo luogo quali ne fossero stati i criterii ispiratori — criterii morali, politici, civili e religiosi — e indicammo anche, con sufficiente ampiezza, quali istituti e quali consuetudini si fossero creati o fatti rivivere. Ma occorre che ora c’indugiamo alquanto a chiarire i rapporti dei collegi giovanili italici e provinciali (che dell’esecuzione di tale disegno furono lo strumento migliore) coi poteri centrali e locali dello Stato.

Che quelli fossero associazioni meramente private fu opinione un tempo divisa dagli studiosi, ma che è oramai da abbandonare definitivamente[870]. Esse invece costituirono uno degli ingranaggi della vita dello Stato romano nei secoli II. e III. di C. L’effigie dell’imperatore che ritroviamo in talune tessere plumbee, non prova in modo incontrastabile, il carattere ufficiale [405] dell’istituto,[871] ma è, ciò non ostante, fuori dubbio che, come quei collegi furono più volte fondati dagli imperatori, la loro vita rimase sempre sotto gli auspici dell’unico o del maggiore magistrato dell’impero[872]. Altra volta, gli stessi municipii domandano il riconoscimento legale di un collegio giovanile. Verso il 130, Cizico ne chiede l’autorizzazione al Senato romano,[873] segno questo evidentissimo del loro carattere pubblico, e, nella stessa Africa, la corporazione giovanile è una suddivisione della curia municipale[874]. Egualmente significativa è la considerazione, di cui essi godono nella vita dei municipii: i collegi giovanili vantano il primo posto tra gli altri della città, e lo cedono soltanto, e di rado, agli Augustales e ai Seviri. I loro magistrati poi hanno strette relazioni con le autorità municipali, talora con le autorità militari, e queste — come se si trattasse di collegia propriamente militari — vanno ad istruirvi i giovani e a sorvegliarne la disciplina[875]. I collegia iuvenum non furono dunque istituzioni private, ma istituti pubblici, voluti e favoriti dallo Stato romano, che ne ebbe tutto il merito; e, sia per la loro importanza come per l’efficacia sociale, esercitata durante tre secoli, possono ben definirsi la più originale e fortunata creazione della politica scolastica imperiale romana.

E con impulsi indiretti, più che con le sollecitudini, [406] usate verso quelli, che si consideravano gli elementi integranti dell’istruzione scolastica, noi ritroviamo favorito dal governo di Roma ciò che, nel mondo ellenico, era stato il primo punto dei programmi scolastici: l’educazione fisica degli adolescenti e dei giovani.

Noi non sappiamo se in Roma (o anche altrove) lo Stato stipendiasse all’uopo dei maestri; noi ignoriamo affatto la condizione dei magistri dei ludi Troiae e dei magistri iuventutis, esistenti fra i giovani dei vari collegi giovanili dell’impero; ma noi sappiamo che dallo Stato erano, per l’educazione fisica della gioventù, assegnati locali appositi, e che ivi i maestri potevano insegnare e i giovani esercitarsi ed allenarsi.

X.

Ebbero la progrediente cura dello Stato, verso l’istruzione pubblica, e il perfezionarsi degli istituti ufficiali d’insegnamento una efficacia decisiva sulle opere dell’intelletto? La risposta, per chi scorra la produzione letteraria della repubblica e dell’impero, non può essere che negativa, e la constatazione, a cui si è costretti, rompe contro un vecchio pregiudizio della chiesa cattolica e, insieme, della democrazia moderna, che cioè la scuola abbia la virtù di creare la società e la vita, più di quanto non ne sia essa medesima influenzata e soggiogata; che sia insomma la scuola, e non la società tutta, a determinare il valore dell’insegnamento e a renderlo operoso e fecondo. Pur troppo, la scuola ufficiale non è sempre, o soltanto, un mezzo d’apprendimento e di diffusione della cultura; non soltanto lo strumento di preparazione a determinati uffici o professioni, reclamato [407] da una società, che si trova al colmo della sua floridezza intellettuale e materiale; essa è, assai più spesso, l’espediente escogitato per sanare un male, arrestare un regresso, promuovere artificialmente una serie di effetti, che, per altra via, non sembrava possibile conseguire. La scuola ufficiale è dunque, assai di consueto, l’indice di una società, che organicamente decade. E, se essa può, per un certo tempo, reagire contro questo fatale andare, ne è a sua volta, alla fine, sopraffatta e soffocata. La società male assestata, la società, distratta da altre cure, inquina e corrompe la scuola, la disordina, la piega, la deforma a scopi, che quella non può avere, la isola, la diserta, ne isterilisce ogni buon effetto. È ciò che noi vediamo seguire negli ultimi secoli dell’impero, ciò che noi vedremo ripetersi nell’ultima fase delle Università medievali.[876]

Durante questo periodo, la scuola, che ammanisce tutte le specie del sapere, che prepara a tutte le attività intellettuali, non produce più nè prosatori, nè scienziati, nè filosofi, nè giuristi, nè letterati; nè riesce a fermare l’ignoranza, che sale, o a chiudere le porte all’invadente Medioevo dell’intelletto.

Ma la specifica vanità dell’opera della scuola ufficiale, dell’opera dello Stato, rispetto alla produzione intellettuale, è forse ancora più sensibile nei periodi felici dell’impero romano, ad esempio, nell’età degli Antonini. La società ci offre allora il curioso spettacolo di un appassionarsi a tutte le manifestazioni dell’intelligenza, per cui la letteratura, la filosofia, la scienza si diffondono per le varie classi sociali e si fanno popolari. Ma [408] quella società ha acquistato in cultura tutto ciò che ha perduto in qualità e in potenza di pensiero, e la scienza e l’arte vi hanno guadagnato in estensione e in diffusione tanto quanto hanno perduto in virtù ed in profondità. Non è più questa, pur troppo, l’êra della grande arte e della grande speculazione. Mancano all’uopo la capacità individuale e la collettiva, che non si possono creare per sapienza di reggimento scolastico. Ciò che il retore Materno aveva, con profondo pessimismo, sostenuto nell’immortale dialogo Degli oratori, è, in tesi generale, intimamente vero, per la sorte di tutte le discipline dell’intelletto: «L’arte, della quale parliamo non è amica del riposo e della pace, non ama la probità e la moderazione..... Essa è figlia della licenza, che gli stolti chiamano libertà, è compagna e ispiratrice dei rivolgimenti pubblici: senza rispetti, incapace di servire, ribelle, temeraria, arrogante, tale da non poter fiorire in una città bene ordinata..... La vegetazione più vigorosa è figlia della terra, che non ha mai subìto l’aratro...»[877].

[409]

SOMMARIO

INTRODUZIONE pag. 5
 
CAPITOLO I. — Gli imperatori di casa Giulio-Claudia e l’istruzione nell’Impero Romano (30 a. C. — 68 d. C.) 11
 
I. La politica scolastica degli Imperatori di casa Giulio-Claudia. I privilegi di Augusto ai praeceptores. Una scuola di Stato per la nuova aristocrazia imperiale — II. Le biblioteche pubbliche augustee. — III. Il governo di Augusto e la custodia delle opere d’arte. — IV. Augusto e l’immunità dai carichi pubblici ai medici e ai docenti di medicina. — V. Augusto e la nuova educazione della gioventù. — VI. Contenuto religioso e morale di questa educazione. — VII. Augusto istituisce un ufficio di sovrintendenza generale su l’istruzione e l’educazione della gioventù romana. — VIII. Augusto e l’istruzione pubblica nelle provincie: la biblioteca del Sebasteum; l’impero assume l’amministrazione e la direzione del Museo alessandrino. — IX. L’istruzione pubblica e il governo centrale da Augusto a Nerone. Caligola e i concorsi di eloquenza. Il Museum Claudium. — X. La Corte e la sua influenza sulla nuova aristocrazia. I concorsi di eloquenza istituiti da Nerone e l’incremento degli studi di retorica. Il governo di Nerone e gli studi di filosofia. — XI. Le immunità agli insegnanti datano probabilmente da Nerone. — XII. Rassegna e ampiezza di queste immunità. — XIII. [410] Casi di immunità speciali a favore degli insegnanti primarii. — XIV. Nerone e l’ellenizzarsi della educazione fisica in Roma. — XV. Nerone e l’incremento dell’istruzione musicale. XVI. — I successori di Augusto e le organizzazioni giovanili a Roma e in Italia. — XVII. Nerone ricompone le biblioteche perite nell’incendio del 64. — XVIII. Gli imperatori di casa Giulio-Claudia e gli studii di giurisprudenza. — XIX. Il nuovo regime e l’istruzione pubblica.  
 
CAPITOLO II. — Gl’imperatori di casa Flavia e l’istruzione nell’Impero romano (69-96) 81
 
I. Vespasiano e la fondazione di nuove biblioteche. Riconferma delle immunità ai maestri di grammatica, di retorica e di filosofia. Stipendio ai principali insegnanti di retorica in Roma. Non si tratta di una statizzazione delle scuole di retorica. — II. Motivi della innovazione. Condizioni economiche dei maestri di retorica. Il provvedimento di Vespasiano quale misura della considerazione sociale dei retori. — III. Trascuranza del governo imperiale verso i grammatici e gli insegnanti elementari; loro condizioni economiche. — IV. Rapporti amministrativi e giuridici dei retori stipendiati con lo Stato. Giudizio dei contemporanei. — V. Quintiliano primo retore stipendiato, come maestro e come pedagogista. — VI. Tito rimane fedele alla politica scolastica del padre. Domiziano riedifica le biblioteche distrutte. La ripercussione della operosità imperiale sulla diffusione e sul regime delle biblioteche. — VII. Domiziano inaugura nuovi concorsi di eloquenza. — VIII. Domiziano e il trionfo della educazione fisica a tipo ellenico. Vespasiano, Domiziano e l’istruzione musicale. Il nuovo indirizzo dei collegi giovanili. — IX. Il rovescio della medaglia: Vespasiano contro le scuole filosofiche ateniesi. — X. Il governo dei Flavii e l’istruzione pubblica nell’impero romano.  
[411]  
CAPITOLO III. Gli imperatori da Nerva a M. Aurelio e l’istruzione pubblica nell’Impero romano (96-180) 113
 
I. Reazione di Nerva e di Traiano alla politica dei Flavii; gli stipendi ai retori interrotti; esitanze nella riconferma delle immunità. — II. Reazione all’educazione fisica e musicale ellenizzante. — III. La biblioteca Ulpia Traiana. — IV. I pueri alimentarii e i provvedimenti relativi in Roma, in Italia e nelle province. — V. Traiano e i maestri; rifiorimento della coltura. — VI. P. Elio Adriano — VII. Adriano, le immunità, gli onori e i benefici largiti ai maestri. — VIII. L’Athenaeum e la biblioteca Capitolina. Adriano e gli studii di giurisprudenza. — IX. Adriano e l’istruzione pubblica nelle provincie: in Atene; riforme nella scuola degli Epicurei; innovazioni nel Museo alessandrino. — X. Le nuove norme di Antonino Pio circa le immunità dei maestri. — XI. Antonino Pio non inaugura scuole di Stato in provincia, ma vi promuove l’istituzione di scuole municipali di retorica e di filosofia. — XII. Marco Aurelio e la fondazione delle prime cattedre imperiali universitarie in Atene. — XIII. I concorsi universitarii. — XIV. Le cattedre di fondazione imperiale nell’Athenaeum romano. — XV. Gli Antonini, le istituzioni alimentari e la istruzione primaria. — XVI. Gli imperatori da Traiano a Marco Aurelio e l’istruzione musicale. — XVII. Il governo ed i collegi giovanili. La cura delle belle arti. L’amministrazione delle biblioteche. L’età degli imperatori da Nerva a Traiano, la scuola e la coltura nell’impero romano.  
 
CAPITOLO IV. — Lo Stato e l’istruzione pubblica da Commodo all’abdicazione di Diocleziano (180-305) 177
 
I. La cultura e l’istruzione pubblica in questo periodo — II. Il nuovo carattere militare dei collegia iuvenum sotto i Severi. — III. La nuova legislazione a tutela dei maestri e degli studenti. Il governo centrale e l’istruzione pubblica nei comuni. — IV. [412] Le nuove istituzioni scolastiche di Alessandro Severo. — V. La decadenza delle istituzioni alimentari nel III. secolo. La politica del governo e l’istruzione pubblica da Alessandro Severo a Diocleziano. La imposta municipalizzazione delle scuole di Antiochia. — VI. Diocleziano e l’insegnamento del diritto. L’editto de pretiis rerum venalium e gli onorari degli insegnanti. — VII. La soppressione delle cattedre di astrologia. La distruzione delle biblioteche cristiane. — VIII. Costanzo Cloro e l’istruzione pubblica nelle Gallie. Le Gallie nel III. e nel IV. secolo. La nomina del retore Eumenio in Augustodunum.  
 
CAPITOLO V. — L’istruzione pubblica nell’Impero romano, Costantino il Grande e i suoi figli (312-361) 211
 
I. La monarchia Dioclezianea-Costantiniana e il trasporto della capitale a Costantinopoli. Ripercussione di ciò sulle sorti della istruzione pubblica nell’impero. — II. Costantino e la coltura. L’Università Costantinopolitana. — III. Una nuova biblioteca pubblica. Costantino e l’istruzione professionale. L’istruzione primaria; fine delle fondazioni alimentari. — IV. Privilegi e garanzie ai docenti privati e pubblici nelle città di provincia. Ampliamento delle immunità e suoi motivi. Immunità ai professionisti delle arti edilizie e industriali. — V. Costantino e la cura delle opere d’arte. — VI. I figli di Costantino ne continuano la politica; gl’imperatori, il Senato e i governatori nella scelta dei maestri. Riforme nell’Università ateniese. Dichiarazione dei nuovi criterii di governo in fatto di istruzione pubblica. — VII. I figli di Costantino e probabile limitazione delle immunità.  
 
CAPITOLO VI. — Le innovazioni scolastiche di Giuliano l’Apostata (361-363) 239
 
I. Giuliano e gli atti più notevoli della sua legislazione scolastica. Reintegrazione dell’antica larghezza di immunità; sua bibliofilia. La legge del 362 [413] su l’insegnamento pubblico e privato. — II. L’editto su l’insegnamento classico. Un secondo editto? — III. Giudizio sulla legge del 362. Gli antichi e l’editto; l’approvazione dei cristiani intransigenti; la disapprovazione dei cristiani moderati, dei pagani e degli indifferenti. — IV. Giudizio dei moderni. — V. Il merito e la portata dell’editto. — VI. L’applicazione e gli effetti. — VII. Disegni di nuove scuole e di riforme a vantaggio dell’istruzione classica e musicale. Giuliano e il favore accordato ai retori e ai filosofi. Il valore dell’opera dei Costantiniani nei rispetti della istruzione pubblica.  
 
CAPITOLO VII. — La dinastia Valentiniana e l’istruzione pubblica nell’Impero romano (364-383) 281
 
I. La reazione alla politica scolastica di Giuliano. — II. Un regolamento disciplinare per gli studenti stranieri in Roma — III. Valentiniano riconferma le immunità; nuove immunità ai maestri di pittura. — IV. Valente e la biblioteca costantinopolitana; Valente contro l’astrologia; distruzione di opere scientifiche classiche; giudizio che di lui fa Temistio. — V. Le riforme scolastiche di Graziano; l’ordinamento delle scuole in Gallia; gli stipendii dei maestri. — VI. Valentiniano, Graziano e i medici di Roma e della Corte; la cura dei monumenti antichi e delle opere d’arte. — VII. La rinascita intellettuale in tutto l’impero.  
 
CAPITOLO VIII. — La dinastia dei Teodosii e la pubblica istruzione (383-450) 309
 
I. La reazione cattolica di Teodosio I. e l’istruzione pubblica: la soppressione degli stipendi ai docenti pubblici in Roma e in Atene. — II. Eccezioni a favore dei medici; cura delle opere d’arte. Ripresa della decadenza intellettuale del III. secolo. — III. I due figli di Teodosio continuano la politica del padre. — IV. Teodosio II. riconferma le immunità ai maestri. I provvedimenti di Teodosio relativi [414] alla Università costantinopolitana. — V. Carattere di quest’opera. L’Università costantinopolitana e quella ateniese. La distribuzione delle cattedre. L’abolizione dell’insegnamento privato-pubblico. — VI. Il nuovo ordinamento e le altre scuole medie e superiori, creato dallo Stato. — VII. Teodosio conferma di nuovo le immunità ai maestri. La compilazione del Codex Theodosianus; la scienza e l’insegnamento giuridico.  
 
CAPITOLO IX. — L’impero e l’istruzione pubblica dalla morte di Teodosio II. alla fine del governo di Giustiniano (450-565) 337
 
I. Necessità di estendere il presente studio fino al VI. secolo. — II. Il governo di Teodorico, la cultura e l’istruzione pubblica in Italia. — III. Prosecuzione della politica di Teodorico sotto Atalarico e Teodato, Atalarico e le scuole di Roma. Rinascita intellettuale. — IV. Giustiniano, la sua reazione cristiana, e il divieto d’insegnamento ai pagani. — V. Soppressione dell’Università ateniese. — VI. Sospensione degli stipendi ai docenti di arti liberali. — VII. La compilazione del Codex iustinianeus, del Digestum e delle Institutiones. — VIII. Scopi e vantaggi di tale opera rispetto alla scuola e all’insegnamento. Riduzione delle scuole di giurisprudenza dell’impero; aumento del personale insegnante in Costantinopoli e in Berito; immunità ai professori di giurisprudenza; prolungamento del corso; la disciplina degli studenti. — IX. I nuovi programmi per l’insegnamento della giurisprudenza. — X. Giustiniano e l’istruzione pubblica negli ultimi anni del suo governo.  
 
CONCLUSIONE 379
 
I. La politica scolastica della repubblica e dello impero. Il governo centrale e le scuole di Stato. — II. Il governo e le scuole municipali e private. — III. Lo Stato, i maestri, gli studenti, la libertà dell’insegnamento. — IV. [415] Lo Stato e gl’insegnamenti professionali. — V. Le biblioteche pubbliche e loro amministrazione. VI. Lo Stato, le accademie, i musei; la cura delle opere d’arte. — VII. L’imperatore, il senato, e la suprema direzione dell’istruzione pubblica. — VIII. L’amministrazione centrale e provinciale. — IX. Gli impulsi indiretti del governo alla istruzione pubblica; il tentativo di una educazione di Stato; l’educazione fisica. — X. La decadenza intellettuale e la vanità effettiva dell’opera dello Stato.  

[417]

INDICE ANALITICO — ALFABETICO

A censibus, 31; 32-33; (V. Census).

Adriano, A. e l’istruzione pubblica in genere, 124-126; 127; A. e le immunità agl’insegnanti, 49-50; 50 sgg.; conferisce stipendii agli insegnanti di Roma e delle province, 129-130; fissa per loro dei limiti di età e delle pensioni, 127-128; 130; costruisce in Roma un edifizio per il pubblico insegnamento, 130 sgg.; fonda la Biblioteca Capitolina, 133; A. e lo studio del diritto, 133-135; A. fonda un Ginnasio in Atene, 136; A. e la scuola Epicurea di Atene, 136-137; A. e il Museo alessandrino, 138-139.

Agone capitolino, 103; 105; 106-107.

Agrippa (M. V.), Suo amore per la coltura, 19; esorta l’aristocrazia romana ad aprire al pubblico i suoi Musei e le sue pinacoteche, 20.

Agricola, e l’istruzione pubblica in Britannia, 5.

Alessandria, Scuole di medicina, 22; di musica, 275; di giurisprudenza, 365; il Museo di A. 34 sgg.; 131; 138-139; il Museo Claudio, 39 sgg.; il Sebasteum, 34.

Alessandro Severo, Sua coltura, 187-188; fonda in Roma cattedre di grammatica, medicina, aruspicina, astrologia, ingegneria, architettura, 188-191; 390-391; erige in Roma nuovi edifici scolastici, 191; istituisce borse di studio per gli alunni poveri, 191; A. S. e le istituzioni alimentari, 192.

Alimentari (Istituzioni), (V. Pueri alimentarii).

Annonae (borse di studio), 191; 275; 403; (V. Stipendi).

Antiochia, Scuole di A., 193.

Antiquarii, (V. Librarii).

Antonini, Gli A., e le istituzioni alimentari, 165-167; e l’istruzione musicale, 167-170; e i collegia iuvenum, 170; e la cura delle opere d’arte, 171-173; gli A. e l’insegnamento medio-superiore, [418] 163-165; la politica scolastica degli A., 174-175; (V. Antonino Pio; Marco Aurelio; Caracalla).

Antonino Pio, e le immunità agli insegnanti, 50 sgg.; 140 sgg.; e l’insegnamento municipale, 150-152; 385; e la cura delle opere d’arte, 171-173; e il governo delle biblioteche, 173-174.

Architetti, 188, n. 2; 196; immunità agli A., 226; 230; Architecti magistri (professori di architettura) e loro onorario, 196-197.

Architettura, Scuole di A. in Roma, 188; 188, n. 2; 390; 391; in Africa, 220-221; professori di A. (V. Architecti magistri).

Areopago, L’A. ateniese e l’istruzione pubblica, 158, n. 1; 159.

Aruspicina, L’A. e la politica romana, 189; Scuole di A. in Roma, 188; 390-391.

Asia Minore, Scuole di medicina, 22.

Astrologia, L’A. e la politica romana, 188-189; Settimio Severo e l’A., 189; pene contro l’esercizio dell’A., 188-189; Alessandro Severo e l’A., 189-190; scuole di A. in Roma, 188; 390-391.

A Studiis, 30 sgg.; 400.

Atalarico, Sua politica scolastica, 345-348; A. e le scuole di Roma, 346 sgg.

Atene, Scuole di medicina, 22; 190; di astronomia e di astrologia, 190; le scuole filosofiche di A. e Vespasiano, 108-110; Adriano e la Scuola Epicurea, 136-138; locali scolastici universitari, 130-131; Adriano fonda in A. una biblioteca e un Ginnasio, 136; M. Aurelio vi fonda cattedre di retorica e di filosofia, 153-156; A. e Costantino, 215; l’Università di A. nel IV. secolo di C., 232-233; Giuliano e l’Università di A., 276; Teodosio I. e l’Università di A., 213; L’Università di A. e quella di Costantinopoli, 323 sgg.; fine dell’Università di A., 353-357.

Athenaeum, 130-133; 135; l’A. sotto gli Antonini, 162-163; l’A. e Teodosio I., 312-313; e Teodosio II., 329-331; e Teodorico, 343.

Attila, e l’insegnamento del gotico in Italia, 338, n. 1.

Augusto, Privilegi concessi ai maestri, 12-13; fonda in Roma una scuola per la nuova aristocrazia dell’impero, 14-16; fonda le biblioteche Palatina e Ottaviana, 16-18; fa aprire al pubblico taluni privati Musei e Pinacoteche, 18-21; A. e le immunità ai medici, 21-22; e i collegia iuvenum, 23 sgg.; e l’a studiis, 30 sgg.; e l’istruzione pubblica nelle province, 34 sgg.; e il Museo alessandrino, 37-38; e l’arte musicale, 67; A. patenta dei ius respondentes, 76.

[419]

Augustodunum Autun, Scuole, 5; 204; 205; 208; 386.

Aurelio (Marco), Sua fede nella efficacia della scuola, 152-153; fonda cattedre di retorica, 153-156; norme pei concorsi alle cattedre di filosofia e di retorica in Atene, 157-162.

Ausonio, 302; 305.

Belle Arti, Augusto e la cura dello opere d’arte, 18-21; gli Antonini, 171-173; Costantino, 228-229; magistrati preposti alla cura delle opere d’arte, 395-396; il Senato e le B. A., 397; (V. Valentiniano I; Onorio; Arcadio; Teodorico; Comitiva romana; Curator statuarum; Procuratores; Vicarii; Duces; Praefectvs).

Berito, Scuole, 195; sede ufficiale per l’insegnamento della giurisprudenza, 364; 382; numero dei professori di giurisprudenza, 360-366.

Biblioteche, G. Cesare e le B. pubbliche, 16; Asinio Pollione rende pubblica la sua B., 16; Augusto e le B. romane, 16 sgg.; la Palatina, 16-17; 73; la Ottaviana, 17; 101; la B. del Sebasteum, 34-35; del Museo alessandrino, 35; del Nuovo Tempio di Augusto, 39; 73; la B. Domus Tiberianae, 39, n. 1; 73; le B. pubbliche e le scuole di giurisprudenza, 77-78; Biblioteca Pacis, 82; Domiziano fa ricostruire le B. romane incendiate, 101; le B. municipali e private dopo Domiziano, 101-102; il servizio interno delle B., 102; Traiano fonda la B. Ulpia-Traiana, 119-120; Adriano fonda la B. Capitolina in Roma e una B. pubblica in Atene, 133; 136; distruzione delle B. cristiane nel 303, 199 sgg.; B. di Costantinopoli, 219; 231; 295-296; B. privata di Giuliano in Costantipoli, 240; B. generali e speciali, 392; Personale delle B., 173-174; 392-394; le B. private sulla fine del IV. secolo di C., 316; B. imperiali private, 393 e n. 4; le B. pubbliche e il Praefectus Urbi, 402.

Borse di studio, (V. Annonae).

Burdigala (Bordeaux), I professori delle scuole di B., 6; loro condizioni economiche, 302.

Calculatores, 195; 195, n. 4; 196.

Caligola, istituisce a Lione un concorso di eloquenza, 39; protegge l’arte musicale, 67; patenta dei ius respondentes, 76.

Capitolina (Biblioteca), 133.

Caracalla, Sua educazione ginnico-militare, 182; suo mecenatismo verso le compagnie drammatiche, 179; brucia i libri di [420] Aristotile ed esclude gli Aristotelici dal Museo Alessandrino, 180; C. e le immunità, 181; 184; e le istituzioni alimentari, 192.

Cassiodoro, 341; 345; 349.

Census, a censibus, 31; 32-33; magister C., 286.

Centurio rerum nitentium, 229.

Ceromatitae, 195; 196.

Cesare (C. G.), La politica scolastica di C., 12-13; C. e la prima idea delle pubbliche biblioteche in R., 16.

Cesarea, Scuole di giurisprudenza, 365.

Cirene, scuole di medicina, 22.

Claudio, e l’a studiis, 31; 33; il Museum Claudium, 39 sgg.; C. protegge l’arte musicale, 67.

Codex Gregorianus, 332.

Codex Hermogenianus, 332-333.

Codice Giustinianeo, 362; 366.

Codice teodosiano, 334-336.

Collegia Iuvenum, sotto Augusto, 23 sgg.; da Augusto a Nerone, 70; nel Lazio, 70-71; sotto Nerone, 71-72; sotto Domiziano, 107-108; nel II. secolo di C., 170; nel III. secolo, 181-183; sono istituti pubblici, 404-405; i C. I. e le autorità municipali e militari, 405; (V. Magistri).

Comitiva romana, 344-345.

Comitiva primi ordinis, 322; 329-330.

Commodo, C. e le immunità degli insegnanti, 50 sgg.; istituisce nuovi concorsi musicali, 179; rinnova i Iuvenalia, 179-180; C. e le istituzioni alimentari, 191-192.

Concorsi, di eloquenza, 39; 103-104; di poesia e musica, 43-44; 67-69; 103-104; 179; C. per l’insegnamento superiore, 157-162; i C. e le autorità provinciali, 159; 403.

Conditionales, 296.

Consigli Municipali, I C. M. e la nomina degli insegnanti, 159; 159, n. 2; 241; 250; 283; 381; 385; e la concessione delle immunità agli insegnanti, 146; 183-184; e le spese per l’istruzione pubblica, 186-187; e il governo delle scuole, 187; 385-386; I C. M. responsabili degli stipendii non pagati agli insegnanti, 187.

Cornuto (A.), Sua scuola, 46.

Costante, C. e Proeresio, 230; C. elargisce l’immunità agli ingegneri, architetti etc., 230.

[421]

Costantiniani, Gl’imperatori C. e l’istruzione pubblica, 229 sgg.; probabile limitazione delle immunità degli insegnanti, 236-237.

Costantino, e l’istruzione pubblica, 211 sgg.; fonda l’Università Costantinopolitana, 216-217; fonda una biblioteca pubblica in Costantinopoli, 219; C. e gl’insegnamenti professionali, 220; 226-228; abolisce le istituzioni alimentari, 221-222; C. e le immunità degli insegnanti, 222-228; e le belle arti, 228-229.

Costantinopoli, La fondazione di C. e l’istruzione pubblica, 211-212; 213-214; l’Ottagono, 216-217; l’Università, 217-219; 320 sgg.; 323-326; la biblioteca pubblica, 219; 231; C. sede ufficiale dell’insegnamento della giurisprudenza, 364.

Costanzo Cloro, nomina Eumenio professore di retorica ad Augustodunum, 204; 205; C. C. e l’istruzione pubblica, 205-208.

Costanzo II., e Proeresio, 230; C. largisce l’immunità agli ingegneri, architetti etc. 230; rifornisce la biblioteca di Costantinopoli, 231; sue dichiarazioni circa i doveri dello Stato verso l’istruzione pubblica, 233-235.

Cristiani, Gli insegnanti C. e Giuliano, 243; 247; 248; 268-270; i giovani C. e Giuliano, 248-249; 270-271; giudizii dei C. su l’editto di Giuliano circa l’insegnamento classico, 251-252; i giovani C. e le scuole pagane, 270-271.

Curator statuarum, 229.

Didio Giuliano, e le istituzioni alimentari, 192.

Diocleziano, e le scuole di Berito, 195; e gli onorari e gli stipendi degli insegnanti, 195-198; D. sopprime le cattedre di astrologia e di aruspicina di Roma, 198; D. e i libri egiziani di alchimia, 198-199; distrugge le biblioteche cristiane, 199 sgg.; chiama a Nicomedia il grammatico Flavio e il retore Lattanzio, 204.

Domiziano, e Quintiliano, 100; fa ricostruire le biblioteche romane incendiate, 101; istituisce in Roma l’Agone capitolino, 103-104; istituisce in Albano dei concorsi oratorii e poetici, 104; promuove l’educazione fisica a tipo greco, 104-105; D. e l’istruzione musicale, 106-107; D. e i collegi giovanili, 107-108.

Donne, Le D. e l’educazione fisica al tempo di Nerone, 65; e l’istruzione musicale, 69; Le D. possono aspirare all’insegnamento, 160.

[422]

Diritto, (V. Giurisprudenza).

Duces, I D. e la cura delle belle arti, 396; e il regime dell’istruzione pubblica, 402-403.

Educazione fisica, in Roma e in Grecia, 62-63; l’E. f. e Nerone, 63 sgg.; l’E. f. sotto i Flavii, 104-105; nel III. secolo di C., 180; 181-182; (V. Palaestrici; Ceromatitae).

Eliogabalo, e l’a studiis, 31.

Epicurei, La scuola filosofica degli E. e Vespasiano, 109-110; e Adriano, 136-137.

Eumenio, E. magister memoriae di Costanzo Cloro, 204; professore di retorica ad Augustodunum, 204; 205; Suo stipendio, 208-209; 389.

Filosofia, Insegnanti di F. in Roma, 45-46; incremento degli studii di F. sotto Nerone, 45-46; sotto M. Aurelio, 43; le scuole di F. in Atene, 108-110; 136-138; 155-156; 325; 354; concessione dello immunità agl’insegnanti di F., 185; gli insegnanti di F. e il diritto a ricorso, 186; Valentiniano I. e gli insegnanti di F., 284-285.

Flavii, Gli imperatori F. e la loro politica scolastica, 110-112.

Gallerie, (V. Musei; Pinacoteche).

Gallie, (V. Augustodunum; Burdigala; Lione; Marsiglia; Treviri); Scuole nelle G., 5; 204; Ordinamento dato da Graziano all’istruzione pubblica nelle G., 298 sgg.; 386.

Gallieno, e la filosofia, 180.

Geometrae, (V. Matematici).

Ginnasio, Il G. di Nerone, 64; di Traiano, 118; di Adriano in Atene, 136.

Ginnastica, (V. Educazione fisica).

Giuliano, e le immunità degli insegnanti, 236-237; 240; G. fonda una biblioteca imperiale privata in Costantinopoli, 240; sua legge circa l’insegnamento pubblico e privato, 241-244; 250-251; 387; suo editto circa l’insegnamento classico, 244 sgg.; 259 sgg.; giudizi degli antichi e dei moderni su l’editto, 251-258; nessun divieto ai giovani cristiani di apprendere le lettere greche e latine, 248-249; conseguenze dell’editto, 267 sgg.; disegni di G. per la propaganda dell’Ellenismo, 273-274; G. e le scuole di musica, 274-275; G. e i maestri, 276-279; la politica scolastica di G., 279-280.

Giulio-Claudii, Gl’imperatori G. C. e la loro politica scolastica, 78-80.

[423]

Giurisprudenza, Insegnamento della G. nella repubblica romana, 74-75; 77; l’insegnamento della G. e gl’imperatori Giulio-Claudii, 76 sgg.; scuole di G., 74; 75-77; gli studii di G. nel I. secolo di C., 76-77; Adriano e di studii di G., 133-135; lo studio della G. sotto Commodo e Diocleziano, 179; nel III. secolo di C., 183; immunità ai professori di G. in Roma, 184-185; i professori di G. esclusi dal diritto di ricorrere per compensi mancati, 186; studenti di G. in Berito, 195; le fonti del diritto nella repubblica e nell’impero, 331-333; collezioni giuridiche, 333 sgg.; 361-363; la G. nel IV. secolo, 333-334; nei sec. V.-VI., 370-372; riforme di Giustiniano nelle scuole di G., 363-376.

Giustiniano, Carattere del suo governo, 350-351; politica religiosa, 351-353; politica scolastica, 339-340; 352-353; 376-378; G. sopprime l’Università ateniese, 353-357; riduce le scuole municipali dell’impero, e ne incamera le rendite, 357-361; G. e le collezioni giuridiche del VI. secolo, 361-363; G. e l’insegnamento della giurisprudenza, 363 sgg.

Gordiano I., rinnova i Juvenalia, 180.

Grammatici, (V. Insegnanti secondari; Grammatica; Immunità; Scuole).

Grammatica, Scuole di G. in Roma, 13; 188; l’Ateneo romano e l’insegnamento della G. 132; cattedre di G. nell’Università costantinopolitana, 218; 325.

Graziano, e l’istruzione pubblica nelle Gallie, 298 sgg.; 386; G. e i medici di R. 303; e la cura delle opere d’arte, 304-305.

Gregorio di Nazianzo (S.), 256; 256, n. 2; 269; 271; 273; 274; 306.

Immunità agli insegnanti secondari e superiori, 47 sgg., ai medici, 21-23; 49; 222-223; 240; 303; 320; Vespasiano, Adriano, e le I., 49-50; Antonino Pio limita le I. degli insegnanti, 140 sgg.; le I. nel III. secolo di C., 183-185; Costantino e le I., 222 sgg.; I. ai professionisti di arti meccaniche, 226-228; agli ingegneri etc., 230; riduzione delle I. dei maestri sotto i figli di Costantino, 236-237; Giuliano e le I., 240; Valentiniano I. e le I., 290; I. ai maestri di pittura africani, 290-294; Teodosio I. limita di nuovo le I. degli insegnanti, 311-312; Teodosio II. riconferma le I. degli insegnanti, 319-320; I. ai professori di giurisprudenza, 366-367; chi conferisce le I. 397; 398-399; I. del ἱεράσθαι, 224; 398, n. 2; chi garentisce l’osservanza delle I., 401-402; 402-403.

[424]

Imperatore, Poteri dell’I. nel campo della istruzione pubblica, 397-399.

Impero, La politica scolastica dell’I. romano, 379-381; l’I. romano e le scuole di Stato, 381-383; e le scuole elementari, 382-383; e le scuole medie e superiori comunali, 385-386; e l’istruzione privata, 386-388; e l’istruzione scientifica e professionale, 390-391; l’I. e i maestri e i discepoli, 388-389; e la coltura in genere, 404; e l’educazione fisica, 405; l’I. non ha una speciale amministrazione per l’istruzione pubblica, 399 sgg. (V. a Studiis); suo metodo di amministrare le cose relative all’istruzione pubblica, 400-403.

Ingegneri (Mechanici), 188, n. 2.

Ingegneria, Scuole di I. in Roma, 188; 188, n. 2; immunità agli ingegneri (mechanici), 230.

Insegnamento, I. professionale, (V. Librarii; Notarii; Calculatores; Matematici; Astrologia; Aruspicina; Pittura; Professionisti; Scuole professionali); Libertà d’I., 384-385; 389.

Insegnanti, privilegiati da Augusto, 12-13; onorati da Traiano, 123-124; onorati e beneficati da Adriano, 127-130; autorizzati a ricorrere contro i compensi mancati, 185-186; 187; gli I. pubblici e privati e Teodosio II., 321-322; 326-328; onorificenze agli I., 322 (V. Stipendii; Immunità); I. di ginnastica, 64-65; 195; 196; I. primarii (litteratores; ludi magistri); numerosi in Roma, 13, esclusi in genere dalle immunità, 49; casi in cui ne venivano beneficati, 56-61; gli I. primari e il procurator metallorum, 58 sgg.; condizioni economiche, 92; 196; I. secondari (grammatici) numerosi in Roma, 13; condizioni economiche, 90-92; 197; nomina, 381; 386; 397; 398; gli I. secondari, lo Stato, e i Comuni, 385-386; e il Praefectus Urbi, 401-402; e il Praefectus praetorio, 402-403; e i governatori provinciali, 402-403; (V. Impero; Consigli Comunali; Senato); I. superiori di retorica (rhetores; sophistae) numerosi in Roma, 13; condizioni economiche, 86-90; stipendiati da Vespasiano, 83 sgg.; abolizione degli stipendii degli I. di retorica da Nerva ad Adriano, 114-115; I. di giurisprudenza, (V. Giurisprudenza); di filosofia, (V. Filosofia); di architettura, (V. Architettura); Adriano e gli stipendi agli I. superiori, 127-130; altri beneficii di Adriano, 127-130; gli I. superiori dell’Università costantinopolitana, 321-322; nomina degl’I. superiori, 381; 385; [425] 386; 307; 398; gli I. superiori, lo Stato e i Comuni, 385-386; e il Praefectus Urbi, 401-402; e il Praefectus praetorio, 402-403; e i governatori provinciali, 402-403; (V. Impero; Pittura; Consigli municipali; Senato).

Institutiones, Le I. di Giustiniano, 363-364.

Istruzione, I. privata, 322; 327-328; 386; 386-388; (V. Impero; Insegnanti; Praefectus; Vicarii; Duces; Scuole).

Ius Respondentes, prima e dopo Augusto, 75-76; Responsa dei I. R., 134; 332; Stationes dei I. R., 134.

Iuvenalia, 68-69; 71; 108.

Iuventus, 23 sgg.; 27; (V. Collegia iuvenum; Ludii Magistri; Princeps Iuventutis).

Libanio, 231; 232; 254; 271; 277.

Librarii (= Antiquarii), 142; 186; 196; 295.

Lido (G. L.), professore a Costantinopoli, 376-377.

Lione, concorso di eloquenza greca e latina, 39.

Litteratores, (V. Insegnanti primarii).

Lolliano, 149; 150.

Ludi magistri, (V. Insegnanti primarii).

Ludi, sevirales, 26; iuventutis, 70; 170; decennales, 170; (V. Lusus).

Lusus Troiae, 26; 27; 70; iuvenalis, 71.

Maestri, (V. Insegnanti).

Magna Grecia, Scuole di medicina, 22.

Marsiglia, Scuole di medicina, 22.

Magistri, dei lusus Troiae, 27; 405-406; iuventutis, 27; 405-406; census, 286; (V. Ludi magistri).

Matematica (Geometria), 132; (V. Matematici).

Matematici (Geometrae), 186; 196-197.

Mechanici, 188, n. 2.

Medici, Privilegiati da Augusto, 13; 226; non stipendiati da Vespasiano, 84, n. 1; immunità ai M., 21-22; 141; 222-223; 226; 236-237; 240; 303-304; 314.

Medicina, Scuole di M., 22; 190; in Roma, 188; 190; 390-391.

Metronatte, Sua scuola di filosofia, 46.

Musei, I M. privati in R., 19; Augusto e i primi M. pubblici, 18-20; M. V. Agrippa e i primi M. pubblici, 20; Asinio Pollione apre al pubblico il proprio M., 20; gli Antonini e la cura dei M., 171-172; lo Stato romano e i M., 391; 396-396.

[426]

Museo Alessandrino, 35 sgg.; 394-395; i Tolomei e il M. A., 36-37; Augusto e il M. A., 37-38; riforme di Adriano, 138-139.

Museo Claudio, 39 sgg.; 394.

Musica, La M. greca in Roma, durante l’età repubblicana, 65-66; nel primo secolo di C., 66-67; 69; concorsi poetico-musicali, 43-44; 67-69; la M. e i collegia iuvenum, 71-72; scuole di M., 69; 72; 168-170; 275; la M. sotto i Flavii, 106-108; coltura musicale sotto gli imperatori senatorii, 167-170; 391; la decadenza della M. nel IV. secolo, 274; Giuliano e la coltura musicale, 275.

Nerone, e i concorsi di eloquenza, di poesia e di musica, 43-44; e gli studii di retorica, 44-45; di filosofia, 45-46; e le immunità agli insegnanti, 46-49; e l’educazione fisica romana, 61 sgg.; istituisce le Neronee, 44; 63-64; fonda in Roma un Ginnasio, 64; N. e l’istruzione musicale, 67 sgg.; e i collegia iuvenum, 70 sgg.; e le Biblioteche pubbliche, 72-74.

Neronee, 63-64.

Nerva, Abolisce gli stipendii ai retori di Roma, 114-116; N. e le istituzioni alimentari, 122.

Notarii, 186; 196.

Onorio, e la cura delle opere d’arte, 317-318.

Onorarii, (V. Stipendi).

Onorificenze, agli insegnanti, 237; 397; 401; (V. Comitiva primi ordinis).

Ottaviana, la biblioteca O., 17-18; 101.

Palaestrici, 64-65.

Palatina, La biblioteca P., 16-17; 73; collezione giuridica in essa contenuta, 77.

Pedagoghi, 13; 195; 195, n. 3; 196; 197.

Pinacoteche, Le P. private in Roma, 19; Augusto e le prime P. pubbliche, 18-20; Asinio Pollione apre al pubblico la propria P., 20; gli Antonini e la cura delle P., 171; Procurator Augusti a pinacothecis, 171-172; 395; lo Stato romano e le P., 391; 395-396.

Pittura, Costantino e i maestri di P., 226-227; Valentiniano I. e i maestri di P., 290 sgg.

Pollione (C. A.), apre al pubblico la sua biblioteca, 16; il suo museo e la sua pinacoteca, 20.

Praeceptores, (V. Insegnanti).

Praefecti, Il P. Urbi e gli studenti stranieri, 287; 343; e gli [427] studenti in genere, 369; e i professori 347; 377; 400-402; e la cura delle belle arti, 396; il P. praetorio e il governo delle scuole, 402-403; e la cura delle belle arti, 396.

Princeps Iuventutis, 27.

Probo, municipalizza le scuole di Antiochia, 193-194.

Procuratores, Il P. metallorum e gli insegnanti primari, 58 sgg.; il P. Augusti a pinacothecis, 171-172; il P. monimentorum terra (?) imaginum, 171-172; i P. bibliothecarum, 173-174; 392-394; (V. Curator; Pueri alimentarii).

Proeresio, 230; 269; 270; 277; 386.

Professionisti, I P. di arti meccaniche e loro immunità, 226-227; Avvocati, 361-362; (V. Medici).

Pueri alimentarii, in Roma, 120-121; fondazioni alimentari imperiali, 122; 165; 389; private, 122-123; 166; 192; sotto gli Antonini, 165-166; praefectus alimentorum, 165-166; procuratores ad alimenta, 166.

Quintiliano, 84; 94; 95; 96; 100; Q. maestro, 96-99.

Repubblica, La politica scolastica della R. romana, 379-381.

Responsa, 75-77; 134; (V. Ius Respondentes).

Retori, (V. Immunità; Insegnanti superiori; Scuole).

Rodi, Scuole di medicina, 22.

Roma, Scuole di grammatica, 13; 188; di retorica, 13; 83; di medicina, 22; 188; di aruspicina, astrologia, ingegneria, architettura, 188; biblioteche, 16-18; 72-73; 82; 101-102; 119; 133; pinacoteche e musei pubblici, 18-21; i pueri alimentarii romani, 120-121; R. sede ufficiale dell’insegnamento giuridico, 364; (V. Ateneo).

Scuole, elementari, 13; 56 sgg.; 268; 382-383; S. di grammatica e di retorica in Roma, 13, 188; S. pei principi istituita da Augusto, 14-15; S. di medicina, 22; 188; di filosofia, 46; di ginnastica, 71, n. 4; 72 (V. Palaestrici); di musica, 69; 72; 275; di giurisprudenza, 74 sgg.; 168-170; di aruspicina, di astrologia, di architettura, 188; S. di Stato, 381-385; S. comunali, 385-386; S. private, 386-388; S. scientifiche e professionali, 390, 391; S. cristiane, 271-272; della S. non c’è un ufficio direttivo, 383-384; governo delle S., 384; fondazioni scolastiche, 166-167; la S. e la politica romana, 1-2.

Sebasteum, Biblioteca del S., 34.

[428]

Senato, (V. Consigli municipali); Il S. di Costantinopoli e l’istruzione pubblica, 231-232; e la nomina degli insegnanti della Università costantinopolitana, 321-322; il S. di Roma e gli insegnanti nell’Ateneo, 346-348; poteri del S. di Roma e di Costantinopoli nei rispetti dell’istruzione pubblica, 396-397.

Settimio Severo, e l’istruzione pubblica, 181 sgg.; e l’immunità dei retori, 184; e l’astrologia, 188-189; e le istituzioni alimentari, 192.

Severi, L’educazione fisica e i collegia iuvenum sotto i S., 181-182; la tutela giuridica dei professori e degli studenti, 183 sgg.; (V. Alessandro e Settimio Severo).

Seviri equitum, 27.

Sinodi dionisiaci, I. S. d. e l’istruzione musicale, 167 sgg.

Sophistae, (V. Insegnanti superiori).

Stipendi e ONORARI, degli insegnanti, 14; 83; 88; 91; 92; 127-130; 156; 195-198; 208-209; 301-302; 397; in natura (annonae), al personale della biblioteca di Costantinopoli, 295-296; 394; agli insegnanti, 299 sgg.; 344; 359-360; Teodosio I. sopprime gli S. agli insegnanti delle Università romana e ateniese, 312-313; Teodorico li ripristina agl’insegnanti di Roma, 344; Atalarico e gli stipendii dei professori dell’Ateneo romano, 346-348; il Praefectus; Urbi, i Praefecti praetorio e gli S., 401-402.

Stoici, in Roma, 45-46.

Studenti, Immunità agli studenti, 185; 195; borse di studio, 191; 275; gli S. cristiani e l’editto di Giuliano, 248-249; 270-271; e le scuole pagane, 270-271; regolamento disciplinare per gli S. di Roma, 285 sgg.; Teodorico e gli studenti stranieri in Roma, 343; il regime disciplinare degli S., 383-384; gli S. e i Praefecti Urbi, i Praefecti Praetorio, e le restanti autorità provinciali, 402; 403; consociationes di S., 286; 286, n. 1; scarsa disciplina degli S. universitari, 289-290; Giustiniano e gli S. in giurisprudenza, 363-364; 367-369; gli S. e gli studii di giurisprudenza nei secoli V.-VI, 370 sgg.

Teodorico, e la coltura, 341; e la istruzione dei Goti e dei membri della sua famiglia, 342-343; T. e gli studenti stranieri in Roma, 343; ripristina gli stipendi agli insegnanti dell’Ateneo romano, 344; T. e la cura delle opere d’arte, 344-345.

Temistio, 233-236; 277; 294; 297-298; 300-301; 302; 307.

[429]

Teo, Il Sinodo dionisiaco di T., 168; l’istruzione musicale in T., 168-169.

Teodosio I., Reazione cristiana, 309-311; T. limita le immunità degli insegnanti, 311-312; sopprime gli stipendii ai professori delle Università romana e costantinopolitana, 312-313; T. e i medici, 314; e la cura delle opere d’arte, 314-315; decadenza della coltura sotto T., 315-316.

Teodosio II., Sua educazione, 319; riconferma le immunità agli insegnanti, 319-320; 331; T. e il riordinamento della Università costantinopolitana, 320 sgg.; T. e l’insegnamento privato-pubblico, 322; istituisce la Comitiva primi ordinis, 322; le riforme di T. nelle scuole medie e superiori dell’impero, 329-331; il Codice teodosiano, 334-336.

Teodoto, 149; 154.

Tirones, 26.

Tito, favorisce l’arte musicale, 67; segue la politica scolastica del padre, 100.

Tiberio, fonda in Roma una biblioteca, 38-39; nomina senatore un maestro elementare, 39; patenta dei ius respondentes, 76.

Traiano, Abolisce gli stipendi ai retori di Roma, 114-117; reagisce contro l’educazione fisica a tipo greco, 117-118; contro l’istruzione musicale, 118; fonda la biblioteca Ulpia-Traiana, 119-120; T. e le istituzioni alimentari, 120-123; T. e le sue cure per l’istruzione pubblica, 123-124.

Treviri, Scuole, 204; 303; 386.

Ulpia-Traiana, La biblioteca U.-T., 119-120.

Università, Caratteri delle U. antiche, 164; 325; 383; 389-390; (V. Roma; Atene; Costantinopoli).

Ὑποτιμητής, 31.

Valente, e la biblioteca di Costantinopoli, 295-296; V. contro l’astrologia e la coltura classica, 296-297; la politica scolastica di V., 295; 297-298.

Valentiniano I., Abroga la legge e l’editto di Giuliano sulle scuole, 282-283; V. e i professori di filosofia, 284-285; regolamento disciplinare relativo agli studenti di Roma, 285 sgg.; V. e le immunità degl’insegnanti, 290; e i maestri di pittura, 290-294; e i medici di Roma, 303; e la cura delle opere d’arte, 304-305; l’opera scolastica di V., 294.

[430]

Valentiniani, Gl’imperatori V. e l’istruzione pubblica, 305-307.

Verrio Flacco, 14; 15.

Vespasiano, e le immunità degl’insegnanti, 49-50; 82; fonda la Biblioteca Pacis, 82; fissa una retribuzione annua ai più illustri retori di Roma, 83 sgg.; motivi di tale provvedimento, 85 sgg.; sua portata, 93-96; V. e l’istruzione musicale, 106; e le scuole filosofiche ateniesi, 108-110.

Vestino (G.), 32; 138.

Vicarii, I. V. e la cura delle Belle arti, 396; e l’amministrazione della istruzione pubblica, 402-403.

Vipascum, 57 sgg.

Vittorino, 268-269.

[431]

ERRATA — CORRIGE

Segno qui taluna delle sviste tipografiche più gravi, nelle quali si è incaduto durante la stampa e che rischiano di alterare il senso. Le altre correggerà da sè, benevolmente, il lettore.

p. 39, r. 1, seconda biblioteca leggi: terza biblioteca
» 39, n. 1, Tiberiana » Tiberianae
» 148, n. 1, Scluhz » Schulz
» 180, r. 16, avrebbe » avrebbero
pp. 193-194. La n. 1 di p. 194 va apposta come n. 4 all’ultimo rigo di p. 193.
pp. 282-283. La n. 1 di p. 283 risponde al richiamo [1] di p. 282.
p. 284, r. ultimo, rimandando leggi: rimandato
» 333, n. 3, lat. 11 » LAT. 11, 20
» 349, r. 1, di più » il più
p. 352, La prima annotazione rimasta senza numero è richiamata al r. 14.
p. 354, n. 3, Ἔλλ. ἔθους leggi: Ἔλλ. ἔθνους
» 393, n. 2, CIL. 10, 75. 848 » CIL. 7580
» 403, n. 1, CI. 10, 53, 6, 4, 1) » C. I. 10, 53, 6) 4, 1; 2

DELLO STESSO AUTORE

1. Il Senatus consultum ultimum; studio di storia e di diritto pubblico romano, Roma, E. Löscher, 1900, pagine IX-137 L. 3
2. Le relazioni politiche di Roma con l’Egitto dalle origini al 50 a. C., Roma, E. Löscher, 1901, pp. IX-195 4
3. La fine della Grecia antica, Bari, G. Laterza, 1905, pp. XVI-531 5
4. Contributo alla storia economica dell’antichità, pp. VII-87, Roma, E. Löscher, 1907 3

NOTE:

1.  Boissier, La fin du paganisme, Paris, 1891, I, 228 sgg.

2.  Cito ad esempio Lazic, Ein Blick auf die Schule und die Stellung d. Lehrer bei den Römern, Karlovitz, 1901 (progr.) — Szabo, L’educazione presso i Romani, Raab, 1877 (progr.) (in ungherese).

3.  È questo il difetto fondamentale dello studio, anch’esso fondamentale, del Grasberger, Erziehung u. Unterricht im klass. Alterthum, Würzburg, 1864-81.

4.  «Man muss sich nicht scheuen die Wahreit auch zum Nachtheile seiner Achtung zu suchen, und Einige müssen irren damit Viele richtig gehen» (Winkelmann, Gesch. d. Kunst d. Altertums, in Werke, VI, 1825, p. 366.)

5.  Lucan. Phars. 7, 404-405.

6.  Horat. Epist. 2, 1, 156-157. Pel cinquantennio di poi cfr. Iuv. 3, vv. 60 sgg.

7.  Svet. Aug. 42.

8.  Cfr. pp. 21 sgg. del presente scritto.

9.  Svet. de gramm. 17.

10.  Duruy, Hist. des Romains, Paris, 1843-1885, IV, 183, n. 3.

11.  Svet. Vesp. 17-18; cfr. Cap. II, § I sgg. del pres. scritto.

12.  Svet. Aug. 48; cfr. CIL. 6, 8980 e Friedländer, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms in d. Zeit von August bis zum Ausgang d. Antonine, I6, pp. 147-148.

13.  Svet. Caes. 44 — Isid. Orig. 6, 5, 1 — Langie, Les bibliothèques publiques dans l’ancienne Rome et dans l’empire romain, Fribourg, 1908, pp. 40-41.

14.  Plin. N. H. 7, 115 — Isid. Orig. 6, 5, 2.

15.  Svet. Aug. 29.

16.  Ihm, Die Bibliotheken in alten Rom, in Centralblatt für Bibliothekswesen, 1893, p. 510. Tale cronologia non è però sicurissima; cfr. Langie, o. c. 54-55.

17.  Svet. de gramm. 21.

18.  Cfr. Langie, o. c. pp. 137 sgg.

19.  CIL. 6, 2347; 5192: i suoi impiegati sono servi publici.

20.  Plin. N. H. 35, 26 — Curtius, Kunstmuseen, Berlin, 1870, pp. 14-15 Primo esempio tipico del genere fu il tempio di Apollo sul Palatino.

21.  Plin. l. c.

22.  Hirt, M. Agrippa als Kunstfreund in Musaeum d. Alterthumswissenschaft, I 1807, pp. 233 sgg. — Frandsen, M. V. Agrippa, Altona, 1836, pp. 139, sgg. — Gardthausen, Augustus u. seine Zeit, I, 2, Leipzig, 1896, 749 sgg.

23.  Gardthausen, o. c. I, 2, 750.

24.  Plin. l. c.

25.  Plin. N. H. 36, 33.

26.  Dio Cass. 53, 30 — Zonar. Ann. 10, 30 (P. I. 534).

27.  Digest. 50, 4, 18, 30.

28.  Fuchs, Gesch. d. Heilkunde bei den Griechen, in Handb. d. Gesch. d. Medic. di Neuburger u. Pagel, Jena, 1902, pp. 192-193 — Bloch, Ubersicht über d. ärztl. Ständesverhältnisse in d. west-und öström. Kaiserzeit, ibid. I, 571. — Reinach, Medicus, in Daremberg et Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III, 2, 1673 sgg. — Neuburger, Gesch. d. Medicin, Stuttgart, 1906, I, pp. 164 sgg.

29.  Svet. Caes. 42.

30.  Haeser, Gesch. d. Medicin, Jena, 1875, I3, 85-86 — Puschmann, Geschichte d. Medicinischen Unterrichts, Leipzig, 1889, p. 83.

31.  Friedländer, o. c. I6, 347-348.

32.  Dio. Cass. 53, 30.

33.  Il Bozzoni (I medici e il diritto romano, Napoli, 1904, p. 140) e il Pohl (De graecorum medicis publicis, Berolini, 1905, p. 40) opinano si tratti solo dei medici di Roma, ma tale restrizione non poggia su nessun fatto e su nessun argomento.

34.  Carm. 3, 24, vv. 51 sgg.

35.  Carm. 3, 2, 1 sgg.

36.  Non mi pare che l’accenno ai maestri stipendiati dallo stato debba necessariamente interpretarsi (come fa ad es. il Meyer, De Maecenatis oratione a Dione habita, Berolini, 1891, p. 6) come un suggerimento, che lo storico accoglie dalla pratica del secondo secolo di C.

37.  Dio Cass. 52, 26, 1 sgg.

38.  Aen. 7, vv. 160 sgg.

39.  Aen. 9, vv. 603 sgg.

40.  Aen. 9, vv. 614 sgg.

41.  Virg. Aen. 4, vv. 156 sgg.

42.  Svet. Aug. 43 — Dio Cass. 49, 43. 51, 22. 53, 1. 54, 26. I ludi puerorum, descritti da Virgilio (Aen. 5, vv. 548 sgg.) come avvenuti in età preistorica, hanno rapporto con le riforme di Augusto (Norden, Vergils Aeneis im Lichte ihrer Zeit, in N. Jahrb.; für klass. Altert., 1901, 1, 263).

43.  Svet. Aug. 43 — Dio Cass. 53, 1 — Rostowzew, Römische Bleitesserae, Leipzig, 1905, p. 62.

44.  Svet. Aug. 43 — Dio Cass. 53, 1. 54, 26. 55, 10.

45.  Cicer. Pro Coel. 11.

46.  Horat. Carm. 1, 8, rr. vv. 3 sgg.; Ep. 2, 3, vv. 161 sgg.; 379-381 — Strab. 5, 3. 8.

47.  Rostowzew, Tesserar. plumbear. Romae et suburbi Sylloge, Petersbourg, 1903, n.ri 834-836; 838.

48.  Saranno tali, fin da Augusto, Caio e Lucio Cesare.

49.  Rostowzew, o. c. 68; 71.

50.  Boissier, La religion romain d’Auguste aux Antonins, Paris, 1874, I, 75 sgg.

51.  Boissier, o. c. I, 248 sgg.

52.  Boissier, o. c. I, 258 sgg.

53.  Jullian, Iuventus in Daremberg et Saglio, o. c. III, 1, 783 e fonti ivi citate.

54.  Horat. Carm. saec., vv. 57 sgg.

55.  Dio Cass. 55, 10.

56.  Cfr. Rostowzew, o. c. 90-91.

57.  Dio Cass. 52, 21: cfr. 33.

58.  Herodian. 5, 7, 7.

59.  Friedländer, o. c. I6, 109. — Hirschfeld, Kaiserliche Verwaltungsbeamte bis auf Diocletian, 2ª ed., 333-334. Il Mommsen, in Gebhardt u. Harnack, Texte u. Untersuchungen zur Gesch. d. altchristlichen Litteratur, N. S. 1903 (9) 3, pp. 112, crede che, sebbene nessuna notizia ce ne informi direttamente, quell’ufficio sia proseguito anche oltre il IV. secolo.

60.  Cfr. Cuq, Le Conseil des empéreurs, in Mémoires de l’Academie des Inscriptions et Belles lettres, Paris, 1884, pp. 373 sgg. — Hirschfeld, o. c. Iª ed., pp. 210-11, n. 2; 2ª ed., p. 333, n. 1. — Liebenam, Beiträge zur Verwaltungsgeschichte d. röm. Kaiserreichs, Jena, 1886, p. 57, n. 3. — Friedländer, o. c. I6, 109 e n. 10. — Mommsen, in Gebhardt u. Harnack o. c. pp. 111-12.

61.  CIG. 5900 (=IG. 14, 1085).

62.  IG. l. c.; cfr. Friedländer, o. c. I6, 186.

63.  Cfr. CIL. 6, 8637. Se nel passo di Filone (Legat. ad Caium 39 = 591 M.) si potesse con sicurezza vedere un accenno a una carica di a studiis, si avrebbe una prova positiva della tesi, che qui sosteniamo, che cioè essa datava dal regno di Augusto.

64.  Phil. Legat. ad Caium, 22. Sulla cronologia del tempio, che l’accoglieva, cfr. Lumbroso, L’Egitto dei Greci e dei Romani, Roma, 1895, pp. 187-188.

65.  Sul Museo alessandrino, cfr. Parthey, Das alexandrinische Museum, Berlin, 1838. — Matter, Hist. de l’école alexandrine, Paris, 1840-1848, specie il vol. I. — Lumbroso, Recherches sur l’économie politique de l’Égypte sous les Lagides, Turin, 1870, pp. 276-277. — Göll, Kulturbilder aus Hellas u. Rom, Leipzig u. Berlin, 1880, II, 242 sgg. — Couat, La poésie alexandrine sous les premiers Ptolémées, Paris, 1882, 9 sgg. — Bouché-Leclerq, Hist. des Lagides, Paris, 1903, I, 128 sgg.; 217 sgg.

66.  Strab. 17, 8. Sulle varie opinioni intorno all’ἐπιστάτης del Museo, cfr. Letronne, Recueil des inscriptions grecques et latines de l’Égypte, Paris, 1842, I, 278 sgg. — Lombroso, L’Egitto dei Greci e dei Romani, 2ª ed., pp. 129 sgg. — Otto, Priester u. Tempel im hellenistischen Aegypten, Leipzig u. Berlin, 1905, I, p. 58 sgg.; 166 sgg.

67.  Bouché-Leclerq, o. c. I, 217 sgg.

68.  τάλαρος Μουσέων, in Athen. I, pp. 22 d.

69.  Cfr. Letronne, o. c. I, 361-362. — Lumbroso, o. c. 130-131.

70.  Marquardt, Röm. Staatsverwaltung, I2, 443.

71.  Strab. l. c.

72.  Svet. Tib. 74. — Plin. N. H. 34, 43; cfr. Garbelli, Le biblioteche in Italia all’epoca romana, Milano, 1894, pp. 146 sgg. — Ihm, o. c. 519. — Langie, o. c. 63. Essa forse costituì più tardi il fondo della biblioteca così detta Domus Tiberianae, su cui cfr. Gell. N. A. 13, 19, 1. — (H. A.) Vita Probi 2, 1.

73.  Tac. Ann. 3, 66.

74.  Svet. Cal. 20 e le osservazioni del Lafaye, De poëtarum et oratorum certaminibus apud veteres, Lutetiae Parisiorum, 1883, pp. 93 sgg.

75.  Svet. Claud. 42. Cfr. Iuv. Sat. I, 44 — Matter, o. c. I, 64 — Ziegler, Die politische Seite d. Regierung Kaisers Claudius I, Linz, III (1881), p. 21 (progr.).

76.  Svet. Claud. 42 — Matter, o. c. I, 257-258.

77.  Cfr. Matter, o. c. I, 258 sgg.

78.  Athen. 6, p. 240 c. — Matter, o. c. I, 262-263.

79.  Cfr. Baumstark, Museum in Pauly, Realencyklopädie etc., V, 271 sgg. — Couat, o. c. 12-13, non che Weinberger, in Jahrbücher f. class. Philol. 1892, pp. 268 sgg.

80.  Claudian. Paneg. de IV cons. Honorii, vv. 296-302.

81.  Plin. Paneg. ad Traian. 45.

82.  Tac. Ann. 3, 55.

83.  (H. A.) Pertin. 8, 10-11.

84.  (H. A.) Ant. Phil. 23, 9.

85.  Lafaye, o. c., pp. 49 sgg.

86.  Svet. Nero 12; de rhet. 1.

87.  Tac. Ann. 14, 20-21.

88.  Schiller, Nero, Berlin, 1872, p. 549.

89.  Tac. l. c.

90.  Svet. de rhet. 1.

91.  Tac. Ann. 14, 16.

92.  Tac. Ann. 14, 59; Hist. 4. 10.

93.  Cfr. Rénan, Marc Aurèle, Paris, 1882, 40 sgg.

94.  Schiller, o. c., p. 566.

95.  Hieron. ad. a. 67 p. C. (II, p. 157 ed. Schöne) — Vita Persii, in Svet. Reliquiae, p. 73, ed. Reifferscheid.

96.  Sulla scuola di Musonio Rufo, cfr. Fronto, Ad Verum ep. I, 1 p. 115, ed. Naber — Musonii, Reliquiae, ed. Hense, XXIII sgg.

97.  Cfr. Sen. Ep. 76, 1 sgg.

98.  Sen. Ep. 108, 5 sgg.

99.  Iuven. Sat. 2, 65 e scolio.

100.  Cfr. Gentile, Studii sullo stoicismo romano nel I. secolo di C., Trani, 1904, pp. 32-33.

101.  Dig. 50, 4, 18, 30.

102.  Cfr., su questa teorica, Kuhn, Die städtische u. bürgerliche Verfassung d. röm. Reichs, Leipzig, 1864, I, 40 sgg. e il bellissimo studio del Platon, La démocratie et le droit fiscal à Athènes, à Rome et de nos jours, Paris, 1899, pp. 189 sgg. e passim.

103.  Nel Dig. 50, 4, 18, 30 è detto: magistris qui civilium munerum vacationem habent, item grammaticis etc. L’item deve essere un idest, o equivalervi; cfr. Kuhn, o. c. I, 83.

104.  Dig. 50, 4, 18, 30.

105.  Dig. 27, 1, 6, 8.

106.  Dig. 27, 1, 6, 8.

107.  Böckh — Fränkl, Staatshaltung d. Athener, I, 548 sgg — Dumont, L’éphébie attique, Paris, 1876, I, 219 sgg. — Glotz, Gymnasiarchia in Daremberg et Saglio, o. c. II, 2, 1675.

108.  Glotz, o. c. in Daremberg et Saglio, o. c. II, 2, 1676 sgg.

109.  Kuhn, o. c. I, 105-106.

110.  Vaglieri, Aedilis, in De Ruggiero, Diz. epigr. I, 241.

111.  Vaglieri, o. c. I, 262.

112.  De Ruggiero, Curator, in o. c. II, 1329; 1341.

113.  Vaglieri, o. c. I, 259 sgg. — De Ruggiero, Annona, in o. c. I, 485.

114.  Kuhn, o. c. I, 106 sgg.

115.  Kuhn, o. c. I, 61. — Lecrivain, Hospitium, in Daremberg et Saglio, o. c. III, 1, 299.

116.  Cagnat, Hospitium militare, in Daremberg et Saglio, o. c. III, 1, 302-303.

117.  Böckh-Fränkel, o. c. I, 111 sgg. e n. 153. — Gilbert, Handbuch d. griechischen Staatsalterthümer, Leipzig, 1881, 205.

118.  Gilbert, o. c. I, 250; 183. — IG. 3, 1, 38 ll. 9-11; cfr. Plin. Ep. ad Traian. 23, 1-2.

119.  Humbert, Curatores annonae in Daremberg et Saglio, o. c. I, 2, 1614.

120.  Lecrivain, Munus in Daremberg et Saglio, o. c. III, 2, 2041; 2042-2043.

121.  Kuhn, o. c. I, 35 sgg. — Daremberg et Saglio, o. c. III, 2, 2041 seg.

122.  Dig. 27, 1, 6, 8.

123.  Cod. th. 13, 3, 1; 3.

124.  Dio Cass. 53, 30: «οὐκ ὄτι τοῖς τότε οὖσιν, ὰλλὰ καὶ τοῖς ἔπειτα ἐσομένοις.»

125.  Svet. (Tit. 8) mette a riscontro l’età precedente il governo di Tito con quella successiva, in cui gl’imperatori avrebbero ritenuto validi i privilegi, anche se non esplicitamente riconfermati. Come vedremo, tale diversità di criteri non risponde a realtà.

126.  Dig. 50, 4, 11, 4. 50, 5, 2, 8.

127.  Dig. 50, 6, 6, 1.

128.  CIL. 2 suppl. 5181, l. 57.

129.  Soromenho, La table de bronze d’Aljustrel; rapport adressé à M.r le Ministre par l’Intérieur, Lisbonne, 1877, p. 5 — Hübner, in Eph. ep. 3, 170 — Re, La Tavola vipascense, in Archiv. giuridico, 1879 (23), p. 334.

130.  Cagnat, in Journal des Savants, 1906, p. 671.

131.  Re, o. c. 335; cfr. Hübner, in Deutsche Rundschau, III, fasc. 11, 201 — Mispoulet, Le régime des mines à l’époque romaine etc. in Nouv. revue hist. du droit français et etr. 1907, p. 350.

132.  Hübner, in Eph. ep. 3, p. 185 — Mommsen, in Eph. ep. 3, 187-188 — Flach, in Nouvelle revue hist. du dr. français et étranger, 1878, p. 686.

133.  Re, o. c. pp. 385-386.

134.  12, 27: «..... ex Fontei calamitate in qua illa provincia prope suam immunitatem et libertatem positam esse arbitratur.»

135.  Flach, o. c. 686.

136.  Flach, o. c. 686. Si potrebbe tuttavia pensare che fosse il procurator imperiale ad applicare nel distretto gli onera publica stabiliti dalla legge provinciale o a garantirne la esenzione.

137.  Flach, o. c. 278-279.

138.  Cfr. Cic. Tusc. 4, 70.

139.  Cic. de rep. 4, 4.

140.  Plut. Q. R. 40.

141.  Cic. de offic. 1, § 130; de fin. bon. et mal. 5. § 35.

142.  Sen. Ep. 15, 4 — Plin. Ep. 3, 1, 4 sgg.; cfr. Krause, Die Gymnastik u. Agonistik d. Hellenen, Leipzig, 1811, 293-294.

143.  Quint. Inst. orat. 1, 11, 16-17.

144.  Tac. Ann. 14, 20 — Svet. Nero 12; cfr. Dio Cass. 61, 21 e Friedländer, o. c. II6, 480.

145.  Svet. Nero, 12 — Tac. Ann. 14, 47. Sul gymnasium neroniano, cfr. Richter, Topographie d. Stadt Rom, München, 1901, 246.

146.  Sen. Ep. 15, 3 — Quint. Inst. or. 1, 11, 15 — Juv. 2, 53 — Mart. Epigr. 7, 32, 5 sgg.

147.  Sen. Ep. 88, 18.

148.  Sen. Ep. 88, 18. 15, 2-3 — Tac. Ann. 14, 20 — Plin. N. H. 35, 168 — [Tac.] de orat. 29.

149.  Grasberger, o. c. III, 493.

150.  Macrob. Sat. 3, 14 (= 2, 10), 6 sgg. — Gevärt, Hist. et théorie de la musique dans l’antiquité, Gand, 1875-81, II, 601-602.

151.  Gevärt, o. c. II, 605. Sulle pantomine romane, cfr. Friedländer, o. c. II6, 450 sgg.

152.  Gevärt, o. c. 607-608.

153.  CIG. 3208 — Gevärt, o. c. II, 586.

154.  Zosim. 2, 5, 1.

155.  Il programma di quella festa ci è conservato in una lunga epigrafe (Eph. ep. 8, pp. 227 sgg.), che il Mommsen (ibid., pp. 234 sgg.) ha illustrata.

156.  Gevärt, o. c. II, 610-611 e fonti ivi cit.

157.  Plin. N. H. 7, 159.

158.  Friedländer, o. c. III6, 356.

159.  Svet. Nero, 12 — Tac. Ann. 14, 20; cfr. Lafaye, o. c. 56 sgg.

160.  Svet. Nero, 20.

161.  Tac. Ann. 16, 4 — Dio Cass. 62, 29. — Svet. Nero, 21.

162.  Svet. Nero, 22. sgg. — Gevärt, o. c. II, 613.

163.  Svet. Nero, 54.

164.  Tac. Ann. 14, 15.

165.  Sen. Qu. Nat. 7, 32, 3; cfr. Sen. Contr. 1 praef. 8.

166.  Colum. De re rust., praef. 5.

167.  18, 22.

168.  Cfr. Rostowzew, Sylloge, nu. 836, 837, 870, 874, 875, e, con minor sicurezza, Rostowzew et Prou, Catalogue des plombs de la Bibliothèque nationale, Paris, 1900, p. 92, n. 8.

169.  Rostowzew, Bleitesserae, 72 — Svet. Cal. 17.

170.  Svet. Cal. 18.

171.  Svet. Claud. 21; Nero, 7 — Tac. Ann. 11, 11.

172.  CIL. 14, 2592, 2631, 2635, 2640 e 2121 (cfr. Rostowzew, Bleitesserae, pp. 81-83) — Tac. Hist. 2, 62.

173.  Tac. Ann. 14, 14-15; Hist. 3, 62 — Svet. Nero, 20 — Rostowzew, Bleitesserae, 74 e note; 78; Sylloge, nu. 839, 847.

174.  Rostowzew, Bleitesserae, 87 sgg.

175.  Dio Cass. 61, 19, 2: «Infatti tutti si esercitavano in ciò che potevano e come potevano, e furono aperte scuole, che frequentarono gli aristocratici, uomini, donne, fanciulle, fanciulli, vecchie, vecchi.»

176.  Dio Cass. 61, 19 — Tac. Hist. 3, 62.

177.  Dio Cass. l. c.

178.  Dio Cass. 61, 20.

179.  CIL. 6, 2051, vv. 14-15.

180.  Plin. N. H. 31, 43. Plinio compose la sua grande opera dal 41 al 71, pur continuando a ritoccarla qua e là fino alla sua morte, che del resto precede il regno di Domiziano.

181.  Tac. Hist. 1, 27.

182.  Langie, o. c. 63-64.

183.  Svet. Dom. 20.

184.  Un elenco di codesti incendii è in Werner, De incendiis urbis Romae aetate imperatorum, Lipsiae, 1906, pp. 28-32.

185.  Dig. 1, 2, 35-38 — Jörs, Rom. Rechtswissenschaft zur Zeit d. Republik, Berlin, 1888, pp. 29 sgg.; 76 sgg.

186.  N. A. 13, 13, 1 — Puchta-Krüger, Institutionen, 19, 274 sgg.

187.  Jörs, o. c. pp. 231 sgg. Per l’impero, cfr. anche le savie osservazioni del Bremer, Die Rechtslehrer u. Rechtsschulen, Berlin, 1868, pp. 47 sgg.; 7 sgg.

188.  Cuq, Instit. jurid. des R., Paris, 1902, II, 35-36.

189.  Dig. 1, 2, 49.

190.  Dig. 1, 2, 50 sgg.

191.  Dig. 1, 2, 50 — Bremer, o. c. 48.

192.  Dig. 1, 2, 37.

193.  Cfr. § IX. del Cap. III. del pres. scritto.

194.  Bremer, o. c. 13 — Friedländer, o. c. I6, 21.

195.  Gell. N. A. II, 17, 1.

196.  Schol. ad Iuv. 1, 128: «bibliothecam iuris civilis...... in templo Apollinis Palatini dedicavit Augustus.»

197.  Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig, 1885, I, 673.

198.  Meiners, Storia della decadenza dei costumi, delle scienze e della lingua dei Romani nei primi secoli dopo la nascita di Cristo, (trad. it.), Milano, 1833, pp. 315 sgg.

199.  Gell. N. A. 5, 21, 9; 16, 8, 2 — Galen. de compos. farm. 1, 1; de antid. 1, 13 (XIV, ed. Kuhn).

200.  Garbelli, o. c. 152-153. — Ihm, o. c. 520; cfr. Jordan-Hülsen, Topographie der Stadt Rom im Altertum, Berlin, 1907, I, 3, p. 4, n. 8; 6, n. 12 — Langie, o. c. 68-69.

201.  Dig. 50, 4, 18, 30.

202.  Cfr. pp. 49; 53 del pres. scritto.

203.  Svet. Vesp. 17-19.

204.  Svet. Vesp. 18 — Zonar. 11, 17 e (= P. I. 577) — Hieron. ad a. 88 (ed. Schöne, II, 161).

205.  11, 17 c: διδασκάλους ὲν τῆ Ρώμη κτλ. Il Reinach (Medicus in Daremberg et Saglio, Dictionnaire etc. III, 2, 1674), il Briau, il Jacquey (De la condition juridique des médecins privés et officiels dans l’empire romain, Nancy, 1877, p. 112) e altri hanno opinato che Vespasiano retribuisse anche i docenti di medicina, e ne allegano a prova il passo del Dig. 50, 4, 18, 30, in cui essi sono, coi grammatici, coi retori e coi filosofi resi immuni dai carichi pubblici. Ma da questa comunanza di immunità non è lecito inferire una comunanza di pubblica retribuzione.

206.  Così la definisce il Peter, Die geschichtliche Litteratur über die römische Kaiserzeit, Leipzig, 1897, I, 41.

207.  Peter, l. c.

208.  I versi, di Giovenale, che qui riferiamo, riguardano uno stato di cose anteriore al governo di Adriano; cfr. l’edizione di Giovenale del Friedländer, Introd. 10-11 — Dürr, Die zeitgeschichtlichen Beziehungen in den Satiren Iuvenals, Cannstadt, 1902, pp. 20-21.

209.  7, v. 150 sgg.

210.  Sui prezzi del grano a Roma nel I. secolo dell’impero, cfr. Barbagallo, in Riv. di st. ant. 1905, pp. 39 sgg. Una tessera importava 5 modii di frumento.

211.  È la tariffa dell’editto di Diocleziano de pretiis rer. ven. 7, 71, ed. Mommsen-Blümner.

212.  Hirschfeld, o. c., 433-434.

213.  Hirschfeld, o. c. 439-440 — Cagnat, Procurator, in Daremberg et Saglio, o. c. IV, 1, 664.

214.  7, 216 sgg. Ho, nella traduzione, sostituito ad aurum (mercede) del v. 241 del testo, il suo riferimento, acconcio alla circostanza — cinque aurei (L. 125 ca.) — dato dallo scolio; cfr. anche (H. A.) Anton. phil. 11, 4. Evidentemente, qui non si tratta di un onorario annuo per alunno, ma del provento annuo medio complessivo del grammaticus.

215.  Svet. de gramm. 3.

216.  Lucian. de merc. cond. 38. Sulle condizioni economiche dei grammatici, cfr. Bergmann, Zur Gesch. d. socialen Stellung d. Elementarlehrer u. Grammatiker, Leipzig, 1877, pp. 45 sgg.

217.  7, 70.

218.  Hor. Sat. 1, 6, 75, ove, secondo i migliori codici, si legge: pueri..... ibant octonos referentes Idibus aeris; cfr. anche Becker-Göll, Gallus, II, 88 sgg.; 91-92.

219.  Ed. de pretiis, etc., 7, 66.

220.  Mart. Epigr. 10, 62, 6 sgg.

221.  Cfr. CIL. 10, 3969, l. 5. Sulle condizioni economiche dei maestri elementari, cfr. Bergmann, o. c. 8 sgg.

222.  Dig. 50, 13, 1, 6.

223.  Inst. orat. 1 prooem.

224.  Plin. Ep. 4, 11, 2.

225.  Auson. Gratiar. actio, 7, 31.

226.  Iuv. Sat. 7, 189-198.

227.  Cucheval, L’éloquence romaine depuis la mort de Cicéron etc., Paris, 1893, I, 230 sgg.

228.  Inst. or. 2, 1, 8; 5, 2, 10-11; 8, 6; 10, 3; 11, 1 e passim.

229.  Kämmel, Quintilianus in Schmid, Encyklopädie d. gesamten Erziehungs- u. Unterrichtswesen, VI2, 565 sgg.

230.  Loth, Die paedagog. Gedanken d. Inst. orat. Quintilians, Leipzig, 1898, pp. 13-15 — Cucheval, o. c. II, 187 sgg. Sull’indirizzo pedagogico di Quintiliano confronta anche le sensate osservazioni del Monroe, Source book of the history of education for the greek and roman period, London, 1902, 447 sgg. È nota poi la straordinaria influenza di Quintiliano sulla pedagogia del Rinascimento.

231.  Svet. Tit. 8 — Dio Cass. 66, 19.

232.  Hieron. ad a. 88 (ed. Schöne, II, 161).

233.  Quint. Inst. or. 4 prooem. 2.

234.  Auson. Gratiar. actio 1, 31.

235.  Svet. Dom. 20.

236.  Dio Cass. 66, 24.

237.  Così opinano anche il Garbelli (o. c. p. 131), l’Ihm (o. c. 518), il Werner (De incendiis urbis Romae, p. 32). il Langie (o. c. 55).

238.  Svet. Dom. 20.

239.  Cfr. Heberdey, in Jahreshefte d. österreich. arch. Institutes in Wien, 1905, p. 234.

240.  Plin. Ep. 1, 8, 2 — CIL. 5, 5262, ll. 14-15.

241.  CIL. 11, 2704.

242.  Suid. Epaphr.Senec. de tranquill. animi, 9, 4 sgg. — Lucian. Adversus indoctum, passim.

243.  Cfr. Langie, o. c. 150 sgg.

244.  Friedländer, o. c. II6, 481.

245.  CIG. 2810 b., l. 29.

246.  Svet. Dom. 4, 4 — Lafaye, o. c. 64-69; 70 sgg.

247.  Visconti, Il sepolcro del fanciullo Q. Sulpicio Massimo, Roma, 1871, p. 7.

248.  Friedländer, o. c. III6, 426 sgg. — Lafaye, o. c. 87 sgg.

249.  Cfr. Jahn, in Berichte d. sächs Ges. d. W. 1856, p. 299.

250.  Svet. Dom. 4 — Mart. Epigr. 4, 1, 5. 9, 23; 24; 35, 9 — Stat. Silvae 3, 5, 28. 4. 2, 62. 5, 3, 227 — Lafaye, o. c. 62-64. — Friedländer, o. c. III6, 428.

251.  Friedländer, l. c.

252.  Svet. Dom. 5 — Chronograph. del 354, ed. Mommsen in Abh. d. sächs. Gesellschaft, I, 646.

253.  Svet. Dom. 4 — Friedländer, o. c. II6, 481 sgg.

254.  Mart. Epigr. 7, 32, 6 sgg.; 7, 57 — Iuv. Sat. 6. 352 sgg. — Friedländer, o. c. II6, 489-90.

255.  Svet. Vesp. 19.

256.  Svet. Dom. 7.

257.  Gevärt, o. c. II, 614, n. 4.

258.  Dio Cass. 67, 13.

259.  Svet. Dom. 4 — CIG. 1720. l. 9; 2810 b. add. l. 29;. cfr. Gevärt, o. c. II, 614-615.

260.  Chronogr. l. c.Svet. Dom.

261.  Iuv. Sat. 7, vv. 175-177 e prec.

262.  Mart. Epigr. 3-4, vv. 7-8.

263.  5, 56, 3 sgg.

264.  Rostowzew, Bleitesserae, p. 75, n. 2.

265.  Idem, o. c. p. 75; Sylloge, n. 847.

266.  Svet. Dom. 4 — Dio Cass. 67, 14 — Fronto, Ad M. Caes. 5, 22-23 (37-38).

267.  Zumpt, Über Bestand d. philosophischen Schulen in Athen u. die Succession d. Scholarchen, in Abhandl. d. Konigl. Akademie d. Wissenschaft zu Berlin, 1842, pp. 30 sgg.

268.  CIL. 3, 2 suppl. 12283, ll. 4 sgg. L’epigrafe parla solo degli Epicurei, ma il divieto si può supporre esteso alle altre scuole.

269.  Tale sistema troviamo indicato dalla epigrafe stessa (ll. 8-10) ed era in vigore in altre età; cfr. Index Academ. philos., col. 6-7 (pp. 38-39 ed Mekler).

270.  Cfr. Svet. Dom. 23.

271.  Cfr. Gräfenam, Gesch. d. klas. Philolologie, III, 134; 137 sgg.

272.  Così ad es. il Rossi, L’istruzione pubblica nell’antica Roma, Siena, 1892, p. 50.

273.  Plin. Ep. 10, 66, 7 sgg.; 10.

274.  Cfr. Plin. Ep. 10, 58; 60.

275.  Plin. Ep. 10, 58, 2.

276.  Plin. Ep. 10, 60.

277.  Plin. Ep. 4, 22.

278.  Plin. Pan. 46. Le pantomime, di cui Plinio parla altrove (Ep. 7, 24, 4 sgg.), sono spettacoli privati. D’altra parte, la reazione contro l’istruzione musicale è limitata al mondo romano. A Smirne, Traiano fondava agoni musicali (CIG. 3208, ll. 11).

279.  Dio Cass. 69, 4.

280.  Richter, Topographie d. Stadt. Rom, München, 1901, p. 246-247.

281.  Garbelli, o. c. 157-159.

282.  Gell. N. A. 11, 17, 1 — Francke, Gesch. Trajans, Leipzig, 1840, p. 615 e fonti ivi cit.

283.  Svet. Aug. 41; cfr. Cardinali, Frumentatio, in De Ruggiero, Diz. ep. 3, 254 sgg.

284.  Plin. Pan. 26; 28. A fanciulli beneficati del publicum frumentum si riferiscono le epigrafi CIL. 6, 10220; 10221; 10222; 10224 b; 10226 e qualche altra. Sulla loro cronologia non abbiamo però alcuna precisa informazione.

285.  Plin. Pan. 26.

286.  Plin. Pan. 28.

287.  Sulle istituzioni alimentari di Traiano, cfr. Francke, o. c. 377 sgg. — De La Berge, Essai sur le règne de Trajan, Paris, 1877, pp. 110 sgg. — Hirschfeld, o. c. 212 sgg. — De Marchi, La beneficenza in Roma antica, Milano, 1899, pp. 34 sgg. — Lallemand, Hist. de la charité, Paris, 1902, I, 162 sgg.

288.  CIL. 11, 1127.

289.  CIL. 9, 1455.

290.  De Ruggiero, Diz. ep. I, 406 sgg.

291.  CIL. 10, 5056.

292.  Plin. Ep. 48; 7, 18 — CIL. 5, 5262.

293.  CIL. 11, 1602.

294.  CIL. 10, 6328.

295.  CIL. 14, 350.

296.  CIL. 2, 1174.

297.  CIL. 8, 1641.

298.  Plin. Pan. 47 — Philostr. V. S. 1, 25, 5. 2, 25, 5.

299.  Plin. Pan. 47: «quid vitam, quid mores iuventutis, quam principaliter formas!»

300.  Sulla varia cronologia, che vi è stata assegnata, cfr. Schanz, Gesch. d. röm. Litteratur, II2, 2, 273.

301.  1, 10.

302.  Plin. Pan. 47.

303.  Sui gusti intellettuali e su l’atteggiamento spirituale di Adriano, cfr. il saggio, sempre vivo e vero, del Sainte-Croix, Sur le goût de l’empéreur Hadrien pour la philosophie, la jurisprudence, la littérature et les arts in Mémoires de littérature tirées des Régistres de l’Académie Royale des Inscriptions et Belles-lettres, 1808 (49), pp. 405 sgg.

304.  È la definizione, di cui lo contrassegna il suo successore, Giuliano (Caesares, p. 311 d).

305.  Caes. 14, 1-3.

306.  Cfr. pp. 49 sgg. del pres. scritto.

307.  (H. A.) Hadr. 16, 10 — Gell. N. A. 13, 22 (21). 1 — Iuv. Sat. 7, 1 sgg.

308.  Si guardi solo alla serie degli a libellis di Adriano, elencati in Friedländer, Sittengesch. etc. I6, 185 sgg.: lo storico Svetonio, i retori Eliodoro, Vestino, Celere, il procurator bibliothecarum Eudemone.

309.  Zumpt, o. c. 44 — Weber, De Academia litteraria atheniensi seculo secundo p. C. constituta, Marburgi, 1858, pp. 3-4 — Zeller, Phil. d. Griechen, III3, p. 683-684 e n. 3.

310.  «omnes professores et honoravit et divites fecit»; «doctores qui professioni suae inhabiles videbantur dilatos honoratosque a professione dimisit».

311.  1, 24, 5.

312.  (H. A.) Hadr. 16, 10.

313.  Phil. V. S. 1, 24, 5; 25, 5 sgg.

314.  Plut. de exil. 14 — Strab. 8, p. 396; cfr. Ahrens, De Athenaeum statu politico et litterario, Gottingae, 1829, p. 76 — Dumont, o. c. I, 241; 207 sgg.

315.  Aur. Vict. Caes. 14, 3.

316.  Sidon. Apoll. 9, 14, 2.

317.  Jordan, o. c. I, 2, 61 — Gilbert, Gesch. u. Topographie d. Stadt Rom im Alterthum, 33, 337.

318.  (H. A.) Pertin. 11, 3; Al. Sev. 35, 2; Gordian. 3, 4.

319.  Senec. Ep. 88, 10. sgg; cfr. Müller, Quam curam respublica apud Graecos et Romanos literis doctrinisque colendis et promovendis impenderit, quaeritur, Gottingae, 1837, pp. 43-44. — Boissier, Fin du paganisme, I, 183.

320.  Quint. Inst. or. 1, 10, 35 agg.

321.  Allorchè, nel V. secolo, Teodosio II. riordinerà l’Ateneo Costantinopolitano, noi vi troveremo delle cattedre ufficiali di grammatica, che probabilmente erano state istituite da Costantino.

322.  Eus. Chron. (II, p. 174, ed. Schönk) — Oros. Adv. paganos, 7, 16, 3.

323.  Cfr. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Milano, 1822-1826, II, 370 — Preller, Die Regionen d. Stadt Rom, Jena, 1846, p. 220; 170 e nota — Gilbert, o. c. III. p. 340.

324.  Gaius, I. 7, ed. Krüger-StudemundCuq, Le Conseil des empéreurs, pp. 335-336; Les institutions juridiques des Romains, II, p. 37.

325.  Cuq, Le Conseil des empéreurs, pp. 328 sgg.

326.  N. A. 13, 13, 1.

327.  Karlowa, o. c. 1, 673.

328.  Appoll. Tyan. Ep. 54. ed. Kayser.

329.  Sul ginnasio e la biblioteca di Adriano, cfr. Pausan. 1, 18, 9 — Eus. Chron. II., 166; Hieron. Chron. II, 167, ed. Schöne. Sugli scavi recenti eseguiti nei locali, che ne furono sede, cfr. Athen. Mittheil. 1896, pp. 463-464 — Judrich, Topographie von Athen, München, 1905, pp. 334 sgg.; 337; 373 — Wachsmuth, in Pauly-Wissowa, RE. (suppl.): Athenai, pp. 186-187.

330.  Cfr. Dumont, o. c. I, pp. 240 sgg.

331.  CIL. 3, 2 suppl., 12283. Cfr. anche gli Oesterr. Jahreshefte, II. 271-272.

332.  Cfr. il. §. IX del prec. capitolo.

333.  ll. 7-8: «ut illi permittatur a te graece [t]estari circa ha[n]c partem iudiciorum suorum, quae a[d] diadoches ordinationem pertinet»; cfr. Dareste, in Nouv. Revue du droit français et étr., 1892, p. 623. Il graece testari può però — a mio avviso — interpretarsi anche come facoltà di testare a seconda del diritto etnico del testatore.

334.  l. 9: «s[i i]ta suaserit profectus personae»; cf. Dareste, o. c., p. 624.

335.  Cfr. ad esempio il Diels, in un suo interessante studio sull’epigrafe (in Archiv für Geschichte d. Philosophie, 4, (1891), p. 490) e il commento all’epigrafe in CIL. 3, 2 suppl., p. 2078.

336.  Suid. VestinusCIG. 5900 (= IG. 14, 1085).

337.  Phil. V. S. 1, 25, 5.

338.  Phil. V. S. 1, 22, 5.

339.  Athen. 15, p. 677 e.

340.  BCH. 4, pp. 405-406.

341.  Cfr. Parthey, o. c. 93-94.

342.  Cfr. Phil. l. c.

343.  Dig. 27, 1, 6, 2 sgg.

344.  Kuhn, o. c. I, 90-92.

345.  Dig. 27, 1, 6, 7.

346.  È però possibile che il chiarimento non sia di Antonino Pio, ma di Modestino (cfr. Lacour-Gayet, Antonin Le Pieux, Paris, 1888, 315 n. 4).

347.  Cfr. Inst. 1, 25, 15 — Dig. 27, 1, 6, 9. In questo passo, la disposizione è attribuita a Settimio Severo o a Caracalla, ma tutto il contesto mostra che essa rimonta ad Antonino Pio. Forse ciò che si attribuisce a S. Severo e a Caracalla è solo l’applicazione o l’esemplificazione di quella norma generale.

348.  Dig. 27, 1, 6, 10.

349.  Dig. 27, 1, 6, 8; cfr. pp. 50 sgg. del pres. scritto.

350.  Dig. 50, 4, 11, 4 — C. I. 10, 58, 4; questa costituzione si riferisce ai calculatores (insegnanti primari di aritmetica).

351.  Dig. 50, 6, 7. Il giureconsulto, che ci informa di tale disposizione, è Tarrunteno Paterno, vissuto sotto Marco Aurelio e Commodo.

352.  Dig. 27, 1, 6, 2; cfr. Kuhn, o. c. I, 83.

353.  Weber, o. c. p. 8, e n. 51 — Wachsmuth, Die Stadt Athen im Alterthum, Leipzig, 1874, I, 699 — Rauschen, Das griechisch — römische Schulwesen zur Zeit des ausgehenden antiken Heidentums, Bonn, 1900, p. 21.

354.  Phil. V. S. 1, 23, 1; cfr. il paragrafo seguente del pres. capitolo.

355.  Phil. V. S. 2, 2, 1-2.

356.  Dig. 27, 1, 6, 10.

357.  Weber, o. c. 34-35 — Zumpt, o. c. 53 e n. 2.

358.  Phil. V. S. 2, 2, 2. — Lucian. Eun. 3 — Porph. Vita Plot. 20.

359.  A identica conclusione viene recisamente il Mommsen, Röm. Gesch. (Berlin, 1885), V, 303, n. 1.

360.  Marquardt, Staatsverwaltung, I2, 343-344 — Lacour-Gayet, o. c. 229-230.

361.  Kuhn, o. c. I, 520.

362.  Dig. 27, 1, 6, 3.

363.  Cfr. Dig. 27, 1, 6, 4.

364.  Cic. In Verr. 1, 42 — Cod. th. 1, 1, 3 — C. I. 1, 11, 7.

365.  Aristid. Orat. 50. 75, ed. Keil. Sulla cronologia, cfr. Letronne, Recherche pour servir à l’histoire de l’Égypte, Paris, 1823, p. 253.

366.  Cfr. Phil. V. S. 2, 25, 5 insieme con 1, 25, 5.

367.  Ant. Pius. 11, 3.

368.  Quella fonte è sempre sospetta, ma sui dubbi, che questo speciale paragrafo solleva, cfr. Schulz, Das Kaiserhaus d. Antonine u. der letzte Historiker Roms, Leipzig, 1907, p. 21.

369.  Phil. V. S. 2, 2, 1-2.

370.  Phil. V. S. 1, 23, 1.

371.  Suid. Lollianus.

372.  Phil. V. S. 2, 2, 2; cfr. Zumpt, o. c. 47-48.

373.  Weber, o. c. 19, n. 38.

374.  Su tale questione e risoluzione, cfr. Zumpt, o. c. 48-50 — Bernhardy, Grundriss d. griech. Litteratur, I4, 608 — Kuhn, o. c. 1, 91 — Rohde, Der griechische Roman, 2ª ed. (1900), p. 324.

375.  Cod. th. 12, 2, 1, (= C. J. 10, 37); Dig. 50, 9, 4, 1-2.

376.  Müller, Quam curam etc. p. 14 e n. 30 — Zumpt, o. c. 45.

377.  (H. A.) M. Ant. phil. 27, 7.

378.  (H. A.) Ant. phil. 2, 2 segg. — Phil. V. S. 2, 10, 7. Sui rapporti tra il giovane Marco Aurelio e i suoi maestri, cfr. il bel saggio del Boissier, La Jeunesse de Marc Aurèle, in Revue des deux mondes, 1868, pp. 671 sgg.

379.  1, 5 sgg.

380.  Dio Cass. 71, 31, da cui derivò Zonara, 123 (=P. I. 596 c.).

381.  Ahrens, o. c. p. 71 — Zumpt, o. c. 51.

382.  Ahrens, o. c. p. 72 — Kayser, P. H. Lollianus, Heidelberg, 1841, p. 10. Sulla differenza tra il λόγος πολιτικὸς e il λόγος σοφιστικὸς, cfr. Brandstätter, De notionum πολιτικὸς et σοφιστὴς usu rhetorico, in Leipz. Stud. 15 (1893), Cap. 1 (pp. 133 sgg.).

383.  Phil. V. S. 2, 2, 2.

384.  Ahrens, o. c. 70 — Müller, o. c. p. 15; 42 — Gräfenhan, o. c. III, 29 — Zeller, o. c. III3, 1, 686.

385.  Phil. V. S. 2, 2, 2 — Lucian. Eun. 3.

386.  Lucian. l. c.

387.  Phil. V. S. 2, 2, 1.

388.  Lucian. Eun. 3, 8 — Tatian. Orat. ad Graecos 19, ed. Otto. Quest’ultimo, che, con certezza, si riferisce a Marco Aurelio, parla, in cifra approssimativa, di 600 aurei.

389.  Tatian. l. c.Lucian. l. c.Phil. V. S. 2, 2, 2.

390.  Phil. V. S. 2, 2, 2.

391.  Lucian. Eun. 2; δίκη δὲ ὅμως συνειστήκει καὶ δικασταὶ ψηφοφοροῦντες ἧσαν οί ἄριστοι καὶ πρεσβὺτατοι καὶ σοφώτατοι τῶν ἐν τῇ πόλει.

392.  L’Ahrens (o. c. 74), distingue gli ἅριστοι, che, secondo il suo pensiero, sarebbero stati gli Areopagiti o i Buleuti, dai σοφώτατοι (i professori e gli studiosi di filosofia e di letteratura). Ma, se la sintassi, del periodo imponesse una distinzione, questa dovrebbe essere triplice: ἅριστοι; πρεσβύτατοι; σοφώτατοι.

393.  o. c. p. 52.

394.  Luc. Eun. 2; 11.

395.  Su queste attribuzioni dell’Areopago, cfr. Plut. Cie. 24, 3 — Actus Apost. 17, 19 — Diog. Laërt. 5, 38. In occidente, nomineranno i maestri pubblici, i Consigli municipali.

396.  Luc. Eun. 7. Cfr. Chiappelli, in Saggi e note critiche, Bologna, 1895, pp. 105 sgg.

397.  Luc. Eun. 5-6; 10.

398.  Luc. Eun. 4.

399.  Luc. Eun. 12.

400.  Cfr. Ahrens, o. c. p. 74.

401.  Il procedimento dei concorsi per le cattedre di sofistica è ricostruito ampiamente in Hertzberg, Geschichte Griechenlands unter d. Römern, Halle, 1875, 3, 315 sgg.

402.  Cfr. Ahrens, o. c. p. 68.

403.  Desjardins, De tabulis alimentariis, Parisiis, 1854, pp. 28 sgg. — De Champagny, Les Antonins, Paris, 1875, 3, 422-423.

404.  IG. 14, 1127; cfr. Lacour-Gayet, Antonin le Pieux, p. 212.

405.  De Ruggiero, in Dis. ep. 1, 406 sgg.

406.  Hirschfeld, o. c. 217 sgg.

407.  Idem, o. c. 221-222.

408.  IG. 3, 1, 61.

409.  CIL. 2, 1174.

410.  CIL. 8, 1641.

411.  Mancini, Curator reipublicae in De Ruggiero, Diz. ep. II, 1347.

412.  Dig. 30, 117.

413.  Foucart, De collegiis scenicor. artificum apud Graecos, 1873, pp. 93 sgg. — Poland, De collegiis artificum Dionysiacorum, Dresden, 1895, pp. 19-21; Gesch. d. griechischen Vereinwesens, Leipzig, 1909, 47; 143 sgg.

414.  Gevaert, o. c. I, 57; II, 615.

415.  Plut. de musica 30 — Reisch, De musicis graecorum certaminibus, Vindobonae, 1885, pp. 28 sgg.

416.  Cfr. Horat. Epist. 2, 3, 414-415 — Gevärt, o. c. II, 583.

417.  Strab. 14, 29 (= p. 643); cfr. Lüders, o. c. pp. 85 sgg.

418.  CIG. 3088; cfr. 3059; 3060. — Dittenberger., Sylloge inscr. graec. II2, 523, ll. 15 sgg. Taluni hanno creduto che qualcuna di queste epigrafi si riferisca appunto alla scuola del sinodo (Lüders, o. c. 135 sgg. — Gevaert, o. c. II, 583-584); per l’opinione opposta, cfr. Müller, Griechische Bühnenalterthümer, Freiburg, 1886, p. 395, n. 4 — Poland, De collegiis etc. p. 13, n. 68.

419.  Poland, o. c. 8 sgg.; Gesch. d. Wereinsw. 129 sgg.

420.  Poland, De collegiis, etc. pp. 20 sgg.

421.  Poland, Griechische Vereinswesen, 46 segg. — Österr. Jahresh. 1908, p. 106.

422.  Rostowzew, o. c. 82 e n. 10 con le fonti ivi citate.

423.  Sono elencati e illustrati in Rostowzew, o. c. 69 sgg. Cfr. anche Petersen, L’arco di Traiano a Benevento, in Rom. Mittheil., 1892, pp. 248 sgg.; 259 sgg. — Dressel, Ludi decennales in Hirschfelds Festschrift, pp. 280 sgg.

424.  Dressel, loc. cit.Cohen, Médailles impériales, II2, 337, nn. 667 R; 673 R.

425.  Dio Cass. 71, 35 — (H. A.) Ant. phil. 6, 3.

426.  CIL. 6, 10.234, l. 2.

427.  CIL. 6, 9007, ll. 3-4. Si è pensato ad emendare in procurator monument[or]um [statuarum] imaginum ma non pare vi si possa contar troppo. Sarebbe audace pensare a un terra[e] imaginum?

428.  CIL. 6, 10.234, ll. 2-3 e fors’anche CIL. 6, 31053, l. 4 [adi]u[tor] rat[ionis] stat[uarum].

429.  CIL. 6, 2270, ll. 2-3 (a. 199), che dà anche un libertus Augusti officinator a statuis.

430.  Dig. 50, 10, 5.

431.  Dig. 50, 10, 7.

432.  Hirschfeld, o. c. 439-440.

433.  CIL. 10, 7580.

434.  Infatti, a differenza di altre iscrizioni precedenti, il titolo di procurator bibliothecarum viene questa volta in coda a parecchi altri.

435.  Lacour-Gayet, o. c. 318.

436.  Sat. 15, vv. 110-112. È questa una delle ultime satire del poeta, certo posteriore al 127; cfr. Friedländer, o. c. pp. 573-574 nella sua edizione di Giovenale.

437.  Lacour-Gayet, o. c. 351 — De Champagny, o. c. II, 215.

438.  Réville, La réligion à Rome sous les Sévères, Paris, 1886, 11 sgg.

439.  Phil. V. S. 2, 12, 4. 2, 30, 1 e passim.

440.  Cfr. Phil. Apoll. 1, 3; V. S. 2, 30, 1-2.

441.  Dig. 27, 1, 6, 8.

442.  CIG. 6829, l. 12 e il commento del Böckh.

443.  CIG. 1720, l. 10.

444.  Foucart, De collegiis etc., pp. 98-99.

445.  Cuq, Le Conseil des empéreurs, pp. 352 sgg.

446.  Dio Cass. 72, 17, 1 sgg. — (H. A.) Commod. 8, 5.

447.  (H. A.) Gordiani tres, 4, 6.

448.  CIL. 8, 895; 1353; 1577 e, forse anche, 1501 e 1858.

449.  Porph. Vita Plot. 12.

450.  Dio Cass. 77, 7. La persecuzione di Caracalla non involse, come in genere si è pensato, tutti i dotti del Museo, o, tanto meno, tutti gl’istituti di istruzione pubblica alessandrini (cfr. Matter, o. c. I, 295 sgg.).

451.  Phil. V. S. 2, 30, 2.

452.  (H. A.) Maxim. duo, 2, 4 sgg.

453.  Schiller, Gesch. d. Kaiserzeit, Gotha, 1883-1887, I, 2, 740 e fonti ivi cit.

454.  Cohen, Médailles impériales, IV2: Geta 156 — Eckhel, Doctrina nummorum, 7, 229 — De Foville, in Revue numismatique, 1903, p. 275.

455.  Mommsen, Die Schweiz in römisch. Zeit, pp. 20-21 — Cagnat, De municipalibus et provincialibus militiis, Lutetiae-Parisiorum, pp. 81-82 — Kornemann, Zur Städteentstehung in den ehemals keltischen u. germanischen Gebieten des Römerreichs, 1898, pp. 51-52 — Rostowzew, Bleitesserae, pp. 77; 90.

456.  Si rileva dal Dig. 27, 1, 6, 1 sgg.

457.  Dig. 27, 1, 6, 4 — C. I. 10, 53, 5.

458.  Dig. 27, 1, 6, 11.

459.  Dig. 27, 1, 6, 11; cfr. Kuhn, o. c. 1, 120-121.

460.  Dig. 27, 1, 6, 12.

461.  Dig. 50, 5, 8, 4.

462.  Fragm. vat. 204, ed. Mommsen.

463.  Dig. 50, 13, 1.

464.  Dig. 50, 13, 1, 4-5.

465.  Dig. 50, 13, 1, 6.

466.  Dig. 50, 9, 4, 1-2.

467.  C. I. 10, 53, 2.

468.  Dig. 50, 13, 1.

469.  Cod. th. 13, 3, 1-2.

470.  (H. A.) Al. Sev. 27, 5-9.

471.  (H. A.) Al. Sev. 27, 5. 44, 4-5. Traduco con ingegneria ed architettura le denominazioni delle due cattedre, che il biografo di Alessandro Severo fa, rispettivamente, tenere, da mechanici e da architecti. Su queste due denominazioni, cfr. Promis, Gli architetti e l’architettura presso i Romani, Torino, 1871, pp. 7 sgg.; 12 sgg. Analoga distinzione fa il Cod. th. 13, 4, 3.

472.  Meiners, o. c. 343 sgg.

473.  Berthelot, Origines de l’alchimie, Paris, 1885, pp. 13-14 — Bouché-Leclerq, L’astrologie grecque, Paris, 1899, 560 sgg.

474.  Maas, Die Tagesgötter in Rom und den Provinzen, Berlin, 1902, pp. 142 sgg.

475.  Paul. Sententiae, 5, 21, 1-3.

476.  Bouché-Leclerq, o. c., pp. 559, n. 4.

477.  Paul. Sententiae 5, 21, 3.

478.  Promis, o. c. 7 sgg. — Albert, Les médecins grecs à Rome, pp. IX-X.

479.  Weber, o. c. 34-35 — Häser, Lehrbuch d. Gesch. d. Medicin, I3, 391 sgg. — Keil, Arteninschriften aus Ephesos, in Oesterr. Jahreshefte, 1905, 135 sgg. — Bloch, Übersicht über d. ärzt. Standesverhältnisse etc. in Handb. d. Medicin I, 571.

480.  (H. A.) Al. Sev. 44, 4.

481.  (H. A.) Al. Sev. 44, 4.

482.  (H. A.) Pertin. 9, 3.

483.  (H. A.) Did. Iul. 2, 1.

484.  Dig. 35, 7, 89.

485.  (H. A.) Al. Sev. 57, 7.

486.  Dig. 34, 1, 14, 1.

487.  Sulle vicende degli istituti alimentari nel III. secolo, cfr. Desjardins, o. c. 30-31.

488.  Gravi, ad esempio furono i danni subìti da tutti gl’istituti di coltura in Alessandria (Amm. Marc. 22, 16, 15 — Euseb. Chron. ad. a. 272 (II, p. 182 ed. Schöne) — Euseb. H. E. 7, 21 — Matter, o. c. I, 300 sgg.)

489.  Bernhardy, Grundriss d. griech. Litteratur, I4, 662-664.

490.  Cfr. Sievers, Libanius, Berlin, 1868, pp. 38 sgg.

491.  Malal. 12O 400 cd.

492.  C. I. 10, 50, 1.

493.  7, 64; 65; 66; 67; 68; 69; 70; 71; 74, ed. Mommsen-Blümner.

494.  Anche il pedagogo, che non solo accompagnava gli alunni in classe, ma assisteva alle lezioni, rivedeva i loro compiti, e li riprendeva e castigava, partecipava all’ufficio della istruzione.

495.  In verità, quello dei calculatores, era un insegnamento intermedio fra l’elementare, il secondario ed il professionale (cfr. Isid. Orig. 1, 3, 1).

496.  Essi, come i loro discepoli, erano richiesti per uffici di segreteria, per trascrizione di documenti, di codici etc. etc.

497.  Il denarius dioclezianeo valeva poco più di L. 0,02 (cfr. Mommsen, Das diocletianische Edict über die Waarenpreise, in Hermes, 1890, p. 26).

498.  Il pedagogo doveva perciò prestare servizio presso parecchie famiglie.

499.  [Lactant.] De mortib. persec. 7 A.

500.  C. I. 9, 18, 2.

501.  Suid. Diocletianus — Acta S. Procopii, Bollandisti, Iulii, II, 557 A; cfr. Berthelot, Les origines de l’alchimie, Paris, 1885, pp. 47; 72-73.

502.  Eus. H. E. 8, 2.

503.  Cfr. Marin, Les moines de Constantinople, Paris, 1897, pp. 403 sgg.

504.  De Rossi, La biblioteca della sede Apostolica, in Studi e documenti di storia e diritto, 1884, p. 334 — Allard, La persécution de Dioclétien, Paris, 1890, I, 183-185 — Grisar, Le bibliotheche nell’antichità classica e nei primi tempi cristiani, in Civiltà cattolica, 1902 (8), pp. 464-465.

505.  Allard, o. c. I, 191 sgg. — Leclerq, Bibliothèques in Dom Cabrol, Dictionn. d’archéol. chrétienne, de liturgie etc. fasc. XIV, col. 859-860.

506.  Gesta apud Zenophilum consularem, (seguito di S. Aug. Opera, IX, 1106-1107, ed. Gaume).

507.  Leclerq, o. c. col. 859; 862 — Allard, o. c. I, 201-202.

508.  Paneg. lat. 4, 5.

509.  Paneg. lat. 4, 11.

510.  Hieron. de vir. ill. 80 — Lact. div. Inst. 5, 2.

511.  Paneg. lat. 4, 6.

512.  Eumen. Pro rest. schol. (in Paneg. lat. 4) 6; 11. Su Eumenio e gli scritti suoi, o a lui attribuiti, cfr. Brandt, Eumenius von Augustodunum, Freiburg, 1887.

513.  Eumen. o. c. 44. Il Seek (Studien sur Gesch. Diocletians u. Constantius, in Jahrbücher für classische Philologie del Fleckeisen, 1888 (137) p. 720) opina a ragione che il documento fosse controfirmato dagli altri tre imperatori del tempo.

514.  Paneg. 4, 5; cfr. 7, 23.

515.  Paneg. 4, 3; 14.

516.  Paneg. 4, 10; 20.

517.  Paneg. 4, 9. Cfr. su tutto ciò anche Pichon, Les derniers écrivains profanes dans les Gaules, Paris, 1906, pp. 27 sgg.; 74 sgg.

518.  Eumen. o. c. 11; 14.

519.  Il nummus è pari al nuovo denarius di rame (Eumen. o. c. 5; 11; 14), che valeva poco più di L. 0,02. Non si può tentar di ridurre, come pare è stato fatto, la somma a sexaginta milia nummum, perchè essa, dice Eumenio, era doppia del suo stipendio di magister memoriae, pari a 300.000 nummi (Eum. o. c. 11). Cfr. su questo anche Mommsen, in Hermes, 1890, p. 27.

520.  Eumen. o. c. 6.

521.  Cuq, Le Conseil des empereurs, 473.

522.  Lo notarono anche i contemporanei; cfr. Eumen. o. c. 5 — Ioann. Chrys. De vita monast. 3, 5.

523.  Cfr. le due lettere di Ottaziano Porfirio e di Costantino in Optat. Porfir. Carmina, ed. Müller, pp. 3, 4.

524.  Aur. Vict. Epit. 41, 8.

525.  Iulian. Orat. 1, 8 c., ed. Hertlein.

526.  Aur. Vict. Epit. 41, 14.

527.  Codin. Antiqu. const. P. 42 d. — Anon. Ant. const. 1, 31 (in Bandurius, o. c. I, 3, p. 12). Veramente; l’uno e l’altro dicono soltanto che la successione dei maestri, adibitivi all’insegnamento, durò 414 anni, fino al 10º dell’impero di Leone Isaurico. La fondazione sarebbe dunque avvenuta nel 313 di C., innanzi cioè quella di Costantinopoli.

528.  Gräfenhan, o. c. III, 30 — Christ. Griech. Litter. 809, (4ª ed.) — Bysantios, Κωνσταντινόπολις, Atene, 1890, I, 458.

529.  Anon. o. c. I, 31 — Codin. o. c. P. 42 d. — Zonar. 15, 3, 13-16 (= P. II. 104 b. c.) — Cedren. P. 454 c. d.

530.  Cfr. Manso, Ueber das rhetorische Gepräge d. römischen Litteratur, in Vermischte Abhandlungen u. Aufsätze, Breslau, 1821, p. 83, n. x.

531.  Notitia urbis constantinopolitanae, 9, 10 (in Notitia dignitat. ed. Seek). — Cod. th. 14, 9, 3. Sulla Basilica Capitolina, cfr. Anth. pal. 9, 660 — Bandurius, o. c. II, 853 — Bysantios, o. c. I, 283.

532.  Anon. Enarr. Chronogr. antiqu. Constant. 296 (in Bandurius o. c. I, 103).

533.  Cfr. Hertzberg, Die Geschichte d. Griechenland unter d. Herrschaft. d. Römer, Halle, 1875, III, 494. — Güldenpenning, Geschichte d. öströmischen Reiches unter den Kaisern Arcadius u. Theodosius II., Halle, 1885, p. 275.

534.  Socrat. H. E. 3, 1 b.

535.  Cfr. il cap. VIII del pres. scritto.

536.  Socrat. l. c.

537.  Anth. pal. 9, 660.

538.  Hieron. Chronicon (ed. Schöne, II, 195) — Auson. XVI, 2, 4 — Themist. Or. 23, p. 292 a sgg. Cfr. Monnier, De rhetoricae discipulis atque magistris per Orientem in IV. Cristiani aevi saeculo, Parisiis, 1866, pp. 41-42.

539.  Cod. th. 14, 9, 3. 6, 21, 1.

540.  Cod. th. 6, 21, 1.

541.  Curiosum Urbis e Notitia (in Richter, Topographie d. Stadt Rom, p. 375)

542.  Themist. Orat. 23, p. 294 b.

543.  Suid. Malchus.

544.  Cod. th. 13, 4, 1.

545.  Se noi fossimo sicuri che non ci sia errore materiale in una delle nostre fonti, potremmo anche discorrere di una vera e propria biblioteca di libri di meccanica raccolta da Costantino in un apposito edificio, i Μάγγανα, ch’era altresì un arsenale di macchine e di materiali di guerra (Glyc. Ann. 3, P. 252 o un codice de l’Anon. Antiqu. constant. 2, 69 in Bandurius, o. c. II, 606). Ma è lecito sospettare che il testo originario, in luogo di βίβλοι μηχανικαὶ, abbia discorso di ὕλαι μηχανικαὶ (cfr. Bandurius, l. c.).

546.  Cfr. Cod. th. 11, 27, 1-2.

547.  Cod. th. 13, 3, 1.

548.  Cfr. il commento del Gothofredus alla legge.

549.  Cod. th. 13, 3, 2.

550.  Cod. th. 13, 3, 3.

551.  Cfr. Phil. V. S. 2, 25, 5 e Gothofredus (V, 29) nel suo commento al Cod. th. 13, 3, 1. — Keuffel, Historia originis ac progressus scholarum inter Christianos, Helmstadi, 1743, pp. 41 sgg.

552.  Cod. th. 13, 3, 16.

553.  Di tale fatto ci fornirebbe un’indiscutibile riprova una variante, che del passo della legge ci è offerta in alcuni mss. del C. I. 10, 53, 6, dove essa verrà riprodotta e dove, insieme con gli altri beneficati, si elencano i doctores legum, se però quella variante potesse sicuramente interpretarsi come una meditata interpolazione dei giurecousulti compilatori del C. I. Cfr. Dernburg, Die Institutionen d. Caius, Halle, 1869, p. 8, n. 14.

554.  quo facilius liberalibus studiis et memoratis artibus multos instituant.

555.  Cod. th. 13, 4, 2 (= C. I. 10, 66, 1).

556.  Il Cod. th. ha albarii; il C. I., albini e dealbatores.

557.  I codici hanno medici, ma l’inclusione dei medici tra questi professionisti non si spiega, e deve trattarsi di un errore.

558.  Per indicare gli indoratori, il testo adopera barbaricarii e deauratores. Sulla differenza di significato tra questi due sinonimi, cfr. Böcking, Adnot. ad Notit. dignitat., Bonnae, 1839-1853, II, 1, pp. 364-365.

559.  Il C. I. (l. c.) aggiunge: gli scavatori di pozzi (o lectarii, fabbricatori di letti?), i magnani, i cocchieri (o costruttori di quadrighe?), i fabri (meccanici?), i sarti, i piumai (o ricamatori?), i coniatori, i lavoratori di lino. Ma sul valore e la paternità di queste aggiunte del C. I., data la grande libertà e varietà di criteri, cui si attennero i compilatori, non possiamo dire nulla di sicuro.

560.  CIL. 6, 1708 — Notitiadignit. occid. 4, 14; cfr. Hirschfeld, o. c. p. 272 — De Ruggiero, Diz. ep. II, 1327.

561.  Amm. Marc. 16, 6, 2; cfr. Winckelmann, Gesch. d. Kunst, in Werke, Donaueschingen, 1825, VI, 346-348.

562.  Cfr. Bernhardy, Grundriss der griech. Literatur, I4, 656.

563.  Eunap. V. S. p. 492, ed. Boissonade.

564.  Fragm. vat. 150, ed. Mommsen.

565.  Cod. th. 13, 4, 3 (= C. I. 10, 66, 2) e commento del Gothofredus.

566.  Themist. Or. 4, 59 d. sgg. Non si tratta di una nuova pubblica biblioteca, come pure è stato creduto. Il passo di Temistio non autorizza in nessun modo a ritenerlo, e il Cod. th. 14, 9, 2, come Suid. Malchus, parlano di una sola pubblica biblioteca costantinopolitana.

567.  Liban. Or. 1, p. 27, ed. Reiske.

568.  Liban. Or. 1, pp. 52-54; 58; 126.

569.  Liban. Or. 1, p. 27.

570.  Liban. Or. 1, p. 36.

571.  Liban. Or. 1, p. 52 sgg.

572.  Liban. Or. 1, p. 58.

573.  Eunap. V. S. p. 487 — Petit de Iulleville, L’école d’Athènes, Paris, 1868, pp. 29; 33-34.

574.  Constant. Oratio ad Them. (in Themist. Orationes, ed. Dindorf, p. 21 sgg.) pp. 20 a-21 c.

575.  Themist. Or. 4, 61 a-b.; cfr. anche p. 54 d.

576.  Cod. th. 13, 3, 4.

577.  Cod. th. 12, 1, 36; 41; 42; 44.

578.  Cfr. il commento del Gothofredus a Cod. th. 13, 3, 4.

579.  Cod. th. 13, 3, 2; cfr. 6, 21, 1.

580.  Cod. th. 13, 3, 4; cfr. il commento del Gothofredus — Iulian. Ep. 26, ed. Hertlein.

581.  Cfr. pp. 236-237 del pres. scritto.

582.  Kuhn. o. c. I, 89 — Iulian. Ep. 45.

583.  Zosim. 3, 11, 3.

584.  Iulian. Epist. ad S. P. Q. Athen. p. 277 c.

585.  Iulian. Ep. 9; 36.

586.  Cod. th. 13, 3, 5. Nel C. I. 10, 53, 7, che la riproduce, manca, grazie alla libertà dei compilatori, l’ultima parte, relativa all’autorizzazione del principe.

587.  Negri, Giuliano l’Apostata, Milano, 1902, 2ª ed., p. 327 — Allard, Julien l’Apostat, Paris, 1903; II, 354 e passim, e così la maggior parte degli storici. Fra le poche eccezioni parmi debbano annoverarsi il Mücke, Flavius Claudius Julianus, Gotha, 1867-1869, 2, 81 sgg. e il Gothofredus nel suo commento.

588.  Il Rode, Gesch. d. Reaction Kaiser Iulianus etc., Jena, 1877, p. 64 — Largaiolli, Della politica religiosa di G. imperatore, Piacenza, 1887, pp. 110-111. — Negri, o. c. p. 329.

589.  Cod. th. 13, 3, 6.

590.  Mücke, o. c. 2, 81.

591.  Iulian. Ep. 42; cfr. anche Amm. Marc. 22, 10, 7-25, 4, 20.

592.  Questa mi pare la più ragionevole interpretazione di questo passo, che vedo invece reso da altri diversamente: πῶς οὐ τοῦτο ἐκεῖνο καπήλων ἐστὶν, οὔτι χρησῶτν, ἀλλὰ παμπονήρων ἀνθρώπων, οἴ μάλιστα παιδεύουσι ὄσα μάλιστα φαῦλα νομίζουσι, ἐξαπατῶντες καὶ δελεάζοντες τοῖς ἐπαίνοις εὶς οὕς μετατιθέναι τὰ σφέτερα ἐθέλουσι οἴμαι κακά.

593.  Greg. Naz. 4, 5-6; 101 sgg. — August. De civ. Dei, 18, 52 — Rufin. H. E. 10, 33, ed MommsenSocrat. H. E. 3, 16 c.Sozom. 5, 18 b.

594.  Cfr. su ciò anche Rode, o. c. 66, n. 8.

595.  κακουργία (In Iuvent. et Maxim. 1).

596.  Socrat. H. E. 3, 16.

597.  Negri o. c. p. 335.

598.  Eun. V. S. p. 482, ed. Boissonade: τοῖς τῆς Ἑλλάδος ἱεροῖς εῖς μακρὸν τι γῆρας ανύσας.

599.  Or. 18, p. 574.

600.  De Broglie, L’Église et l’empire romain au IV. siècle, Paris, 1862, IV, pp. 209-210; 213; 217.

601.  Allard, o. c. II, 357 agg.

602.  Hergenröther-Kirsch, Storia universale della Chiesa, (trad. it.), Firenze, 1904, I, 14.

603.  De Broglie, o. c. IV, 217.

604.  Largaiolli, o. c. 110-111.

605.  Gibbon, The history of decline and fall of the roman Empire, 1829, IV, pp. 92 sgg. — Bartenstein, Zur Beurteilung d. Kaisers Iulianus, Bayreuth, 1891 (progr.) 23-24. È questa la tesi ampiamente svolta da S. Gregorio di Nazianzo (Or. 4, 5, sgg.), il teologo di quel tempo più violento contro Giuliano. Ma — (singolare contradizione!) — le due orazioni di S. Gregario contro Giuliano sono per buona parte un attacco vivacissimo contro la cultura classica e la immoralitè dell’insegnamento, che è possibile ritrarre dagli scrittori pagani.

606.  De Marchi, La libertà di riunione; di associaz. etc. in Rendiconti dell’Istituto lombardo di sc. e lett., 1900, p. 851.

607.  Ad es. il Martha, Études morales, Paris, 1883, p. 294.

608.  Mücke, o. c. 2, 84.

609.  Naville, Julian l’Apostat et sa philosophie du polythéisme, Paris, 1877, pp. 170-172.

610.  Gardner, Iulian philosopher and Emperor, New-York, 1895, p. 239-240.

611.  Negri, o. c. 344 sgg.

612.  Plat. Protag. 15.

613.  Sui criteri pedagogici, informatori delle scuole di retorica, cfr. Boissier, Fin du paganisme I, 218 sgg. e le acute osservazioni, di cui è cosparso uno scritto, che gli storici di solito non leggono, Sorel, La ruine du monde antique, Paris, 1901, pp. 69 sgg.

614.  Per le scuole famose di Port-Royal, cfr. Carré, Les pédagogues de Port-Royal, Paris, 1887, pp. XVII-XVIII; 60-61; 61, nn. 1 e 2; 272 sgg.

615.  Si potrebbe dire di più: il passo dell’editto di Giuliano (Ep. 42 c.), che richiedeva che i maestri non nudrissero opinioni contrarie a quelle da loro professate in pubblico (μὴ μαχόμενα τοῖς δηποσίᾳ τὰἐν τῇ ψυχῇ φέρεν δοξάσματα) è stato con cecità partigiana, anche dai migliori (cfr. Allard, o. c. II, 357), interpretato come recante l’imposizione di una conformità di vedute tra i maestri e l’opinione pubblica. Tale interpretazione, se stenta ad accordarsi con la grammatica, termina certamente per attribuire a Giuliano il più illogico e il più sbagliato dei ragionamenti.

616.  Negri, o. c. 344 sgg.

617.  Cfr. i Cap. VIII e IX del pres. scritto.

618.  Socrat. H. E. 3, 16.

619.  È stato da più di un moderno ricordato che, anche ai nostri giorni, degli ecclesiastici hanno chiesto il bando degli autori classici dalle scuole (Boissier, o. c. I, 353). Ma essi non hanno rilevata la singolare, ma non istrana, coincidenza, per cui le scuole cattoliche, che sono tutte confessionali, e il cui grande pregio è di inculcare una fede, e di farne il fuoco centrale ispiratore dell’educazione e dell’insegnamento, ripetono, con le opportune, o necessarie, mutazioni di mezzi e di fini, la loro natura dal criterio fondamentale dell’editto di Giuliano.

620.  De Broglie, o. c. IV, 213.

621.  Aug. Confess. 8, 5, 10.

622.  Eun. V. S. p. 492.

623.  Iulian. Ep. 2.

624.  Hieron. Chron. ad. a. 366 (II, 196 ed. Schöne).

625.  Hieron. l. c.Eun. V. S. p. 493. Non ho potuto vedere il Lalanne, Influence des Pères de l’Église sur l’éducation, ove, secondo trovo riferito, si sostiene che Proeresio non sarebbe stato cristiano.

626.  Oros. 7, 30, 3 — Ioann. Chrys. In Iuv. et Maxim. 1.

627.  Mücke, o. c. 2, 82 — Bartenstein, o. c. 22.

628.  De Broglie, o. c. IV, 216 e n. 1 — Gibbon, Decline and fall of the rom. empire, IV, 93 — Lasaulx, Der Untergang d. Hellenismus, München, 1854, p. 64, n. 184 — Rode, o. c. 66 — Allard, o. c. II, 363-364.

629.  Socrat. H. E. 2, 46, 3, 16 aSozom. H. E. 5, 18 c.

630.  Greg. Naz. Orat. 4, 111-112; cfr. Sozom. H. E. 5, 16.

631.  14, 6, 18.

632.  Cfr. anche Harrent, Les écoles d’Antioche, Paris, 1898, 114 sgg.

633.  pari a ca. l. 64. Sull’arruffata questione della capacità dell’artaba, nell’età imperiale romana, cfr. Hultsch, Beiträge zur Aegyptischen Metrologie, in Archiv f. Papyrusforschung etc. II, 283 sgg. — Grenfell-Hunt, in Tebt. Pap. I, 232-233 — Barbagallo, Contributo alla storia economica dell’antichità, Roma, 1907, pp. 57-59.

634.  Ep. 56.

635.  Ep. 71.

636.  Com’è noto, l’autorità delle lettere di Giamblico a Giuliano è stata più volte posta in dubbio (Schwarcz, De vita et scriptis Iuliani imperatoris, Bonn, 1888, pp. 23 sgg. — Zeller, o. c. III4, 2, 736-8, n. 3); ma quei dubbi non hanno in verità fondamenta troppo solide (Croiset, Hist. de la litter. grecque, Paris 1899, V, 888 e n. 1 — Negri, o. c. 451, n. 1).

637.  Ep. 3.

638.  Ep. 40.

639.  Ep. 4.

640.  Ep. 15.

641.  22, 7, 3, — cfr. Liban. Or. 18, p. 574.

642.  Amm. Marc. 25, 3, 15 sgg.

643.  Cod. th. 13, 3, 6.

644.  Così mutilata la ritroviamo nel C. I. 10, 53, 7.

645.  Amm. Marc. 23, 5, 11.

646.  Cod. th. 14, 9, 1.

647.  Queste consociationes debbono essere state le corporazioni degli studenti, i cui atti — talora criminosi — sono più volte censurati dagli scrittori contemporanei.

648.  I corporati erano persone, facenti parte di associazioni speciali, riconosciute dallo Stato, le quali, nel IV. e nel V. secolo di C., ebbero una importanza massima nella vita dell’impero, segnatamente in Roma e in Costantinopoli, e vennero incaricate di speciali servizi pubblici, in cambio dei quali godevano determinati privilegi; cfr. Waltzing, Les corporations professionelles chez les Romains, Louvain, 1896, II, 139 sgg.; 193 sgg. e passim.

649.  Cfr., oltre a quello del Gothofredus, il bel commento alla legge del Conring, in De Sallengre, Novus thesaurus antiquitatum, III, Venetiis, 1735, pp. 1199-1232, nonchè le osservazioni del Kruffel, o. c. § 12-16 e del Vigneaux, Essai sur l’histoire de la praefectura urbis à Rome, Paris, 1896, pp. 305; 118.

650.  Le fonti sono Libanio, S. Gregorio di Nazianzo, S. Agostino. Per un quadro generale di quella vita e di quell’ambiente, cfr. Hertzberg, o. c. III, 349 sgg. — Harrent, Les écoles d’Antioches, pp. 205 sgg. — Monceaux, Les Africains, Paris, 1894, 66 sgg. — Rauschen, o. c. 29.

651.  Aug. Confess. 5, 8, 14: quietius studere adulescentes et ordinatiore disciplinae coercitione sedari.

652.  Cod. th. 13, 3, 10.

653.  Cod. th. 13, 4, 4. Il testo dà picturae professores. Tale epiteto non basterebbe a designare dei maestri. Ma la legge è richiamata in un’altra di Teodosio II. (Cod. th. 13, 3, 18; cfr. C. I. 12, 40, 8), rubricata sotto il titolo de professoribus, che questa volta sono realmente insegnanti pubblici e privati.

654.  Era un’imposta che gravava sui mercanti.

655.  Amm. Marc. 30, 9, 4.

656.  Mommsen, Röm. Strafrecht, Leipzig, 1899, 249-250.

657.  Questa è la più probabile interpretazione della seconda tra le clausole da noi enumerate della legge di Valentiniano. Essa dette luogo a un’interessante discussione tra il Savigny (Römische Steuerverfassung unter d. Kaisern in Verm. Schriften, II, 83-84) e lo Zachariak von Liedenthal (Zur Gesch. d. röm. Steuerwesen in d. Kaiserzeit, estr. dalle Mémoires de l’Académie imper. des sciences de S. Pétersbourg, 1863, pp. 5 sgg). Cfr. anche Platon, o. c. 95 sgg.

658.  Cod. th. 13. 4, 1; 2.

659.  Orat. 9, p. 123 b.

660.  Cod. th. 14, 9, 2.

661.  Era questa la forma di rimunerazione, adottata ora anche per i pubblici docenti; cfr., ad es., Themist. Or. 23, p. 292 a sgg.

662.  Cardinali, in De Ruggiero, Diz. ep. III, 282 sgg.

663.  Zosim. 4, 14-15.

664.  Amm. Marc. 29, 1, 41. Perchè, ad es., i libri di diritto?

665.  Cfr. anche Sozom. H. E. 6, 35 e Bernays, Ueber die Chronik d. Sulpicius Severus in Gesammelte Abhandlungen, Berlin, 1885, II, 102.

666.  Orat. 10, p. 129 d-130 a.

667.  Cod. th. 13, 3, 11.

668.  Questa singolare modestia di stipendio del grammatico greco di Treviri si può spiegare col fatto che, in questa città, l’uso del greco era raro, l’apprendimento svogliato (cfr. Auson. 16, 9 ed. Schenkl) e l’insegnamento, quindi, negletto come cosa superflua.

669.  Bucher, Die Diokletianische Taxordnung vom Jahre 301, in Zeitschrift für die gesammte Staatswissenschaft. 1894, p. 197 — Meyer, Die wirtschaftl. Entwickelung etc. in Jahrb. f. N. Ö. 1895, p. 742 e nota.

670.  Leges novellae ad Theodosianum pertin.; Val. 13, 3, ed Mommsen-Meyer; cfr. Barbagallo, in Vierteljahrschrift für Social — u. Wirtschaftsgesch. 1906, pp. 659 sgg.

671.  I, 27, 1, 22 sgg.

672.  CIL. 3 suppl. 2, p. 235828, l. 1 a.

673.  Gran. Lic. p. 34, ed. Flemisch.

674.  Themist. Or. 23, p. 292 a.

675.  Edict. de pretiis etc. 3, 3, ed Mommsen-Blumner.

676.  Secondo l’Edictum de pretiis (2, 1 sgg.), il vino, nell’impero romano, era uno dei prodotti più costosi.

677.  Cfr. Cardinali, in De Ruggiero, Diz. ep. III, 285 sgg.

678.  16, 9, 6: fructus exilis tennisque sermo.

679.  Cod. th. 13, 3, 8 (= C. I. 10, 53, 9); 9 — Symmach. Ep. 10, 27 (= 10, 40= 10, 47) 2 sgg. — Vercouter, in Revue arch. 1880 (39) p. 355 sgg.

680.  Cod. th. 13, 3, 10; 12.

681.  Cod. th. 15, 1, 14. Cfr. Amm. Marc. 27, 3, 10.

682.  Cod. th. 15, 1, 19.

683.  Auson. Gratian act. 17 e passim. Su Ausonio precettore di Graziano, cfr. Iullian, Ausone et son temps, in Revue histor. 1891 (47) 256 sgg.

684.  Croiset, Hist. de la litt. grecque, V, p. 863.

685.  Boissier, Fin du paganisme, II, 209-210.

686.  Così suona il lamento degli Ellenofili; cfr. Liban. Orat. 1, p. 133.

687.  Boissier, o. c. II, 437.

688.  Themist. Or. 5, p. 63 c; 9, p. 123.

689.  Sulla reazione religiosa di Teodosio, cfr. Lasaulx Der Untergang d. Hellenismus, München, 1854, pp. 98 sgg. — Schultze, Gesch. d. Untergangs d. Heidentums, Jena, 1887, I, 257 sgg.

690.  Schultz, o. c. I, 259; 276 sgg. e fonti ivi cit.

691.  Cod. th. 12, 1, 98 (= C. I. 10, 32, 35).

692.  Cod. th. 12, 1, 86; 87; 90; 91; 93; 94.

693.  Cod. th. 12, 1, 98: ne quid patriae periisse videatur.

694.  Symmach. 5, 35 (= 33). Noi conosciamo il destinatario solo attraverso le poche lettere indirizzategli da Simmaco, che vanno dal 382 al 389. D’altra parte, fino al 380, il diritto a cotali stipendii non era stato messo in discussione (cfr. Symm. 1, 79 (= 73).)

695.  Cfr. Petit de Julleville, L’école d’Athènes, p. 128.

696.  Cod. th. 13, 3, 13; 14; 15.

697.  Cod. th. 16, 10, 8.

698.  Ad es. il Müller, o. c. p. 47.

699.  Ep. 10, 27 (= 40 = 47).

700.  Il Gothofredus e, sulla sua fede, anche lo Schultze (o. c. I, 256 e n. 1) pensa sia stato un tempio della metropoli di quella regione, Edessa, quello stesso, che Libanio celebra nella sua orazione Pro templis, 10. Il Duchesne (Hist. ancienne de l’Église, Paris, 1906-07, II, 631, n. 2) pensa che si tratti invece della città di Harran, l’antica Charrae.

701.  Amm. Marc. 14, 6, 12 sgg. Ammiano compose le sue Istorie verso il 390; cfr. Teuffel, Gesch. d. röm. Litt., II5, 1093.

702.  Intendi le biblioteche private, come il testo chiarisce.

703.  Amm. Marc. 14, 6, 18-19.

704.  Cod. th. 15, 1, 37 (= C. I. 8, 11, 13) — C. I. 1, 24, 1.

705.  I due editti sono indirizzati a un Teodosio, allora praefectus praetorio delle Gallie (Claudian. 17, vv. 50 sgg.).

706.  Cod. th. 16, 10, 15; 18 (= C. I. 1, 11, 3). Circa i paesi, cui il primo si riferirà, cfr. il commento del Gothofredus.

707.  Cod. th. 16, 10, 16.

708.  Ebert, Histoire générale de la littérature du Moyen âge en Occident (trad. fr.) Paris, 1883, I, 298.

709.  Advers. Symmachum. I, vv. 501-505.

710.  Gregorovius, Atenaide, storia di un’imperatrice bisantina (trad. it.), Torino, 1882, pp. 47 sgg.; 55 sgg. — Guldenpenning, Geschichte d. öström. Reiches, II, 223.

711.  Cod. th. 13, 3, 16 (= C. I. 10, 53, 11); 17.

712.  Cod. th. 15, 1, 53. 14, 9, 3 (= C. I. 11, 19, 1-2). 6. 21, 1 (= C. I. 12, 15, 1).

713.  Ciò è detto implicitamente nella legge del marzo (Cod. th. 6, 21, 1 — C. I. 12, 15, 1). Per la emendazione dei passi corrotti di questo testo, ho seguito le ipotesi del Gothofredus, accolte anche dal Mommsen, nella sua edizione del Codex Theodosianus.

714.  Hertzberg, Gesch. Griechenlands unter d. Herrschaft d. Römer, III, 272 — Guldenpenning, o. c. 275 — Buty, A history of later roman Empire from Arcadius to Irene, London, 1889, I, 128. Il Gregorovius (o. c. 120-121) oscilla fra le due opinioni.

715.  Simon, Hist. de l’école d’Alexandrie, Paris, 1845, II, 371 sgg. — Vacherot, Hist. critique de l’école d’Alexandrie, Paris, 1846, II, 192 sgg. — Petit de Julleville, o. c. pp. 129 sgg. — Zeller, o. c. III4, 2, 805 sgg.

716.  Guldenpenning, o. c. 278.

717.  Gregor. Turon. Mirac. 1 praef.Ennod. CDXXXVIII, 10 (p. 301-302), ed. Vogel; cfr. Guldenpenning, o. c. 277-278.

718.  Si desume, confrontando il Cod. th. 6, 21, 1 con il Cod. th. 14, 9, 3.

719.  Tale infatti fu Elladio, un dotto, che aveva risieduto in Alessandria fino al 381, ove, per giunta, era stato sacerdote di Giove (Socrat. H. E. 5, 16 a).

720.  Harrent, o. c. 234-235; 240 sgg. e fonti ivi cit.

721.  Cfr. Preller, Die Regionen d. Stadt Rom, p. 170, n. *.

722.  Cfr. Savigny, Storia del diritto rom. nel M. E. (trad. it.), Torino, 1854, I, 262, n. c.; 263, n. i.

723.  CIL. 6, 9858, illustrata in Boll. crist. 1863, p. 14. Sul retore privilegiato nel VI. secolo, cfr. Jahn, in Berichte über die Verhandlungen d. Königlich-Sächsischen Gesellschaft d. Wissenschaft zu Leipzig, Phil.-hist. Classe, 1851, pp. 351-352.

724.  Cfr. il Cap. IX. del pres. scritto.

725.  Cod. th. 13, 3, 18 (= C. I. 12, 40, 8).

726.  Cuq, Institutions, II, 777, n. 2.

727.  Cfr. Savigny, o. c. I, 20 sgg. — Gibbon, o. c. VIII, 1 sgg. — Cuq, o. c. II, 777 sgg.

728.  Su questi due codici, cfr. Karlowa, o. c. I, 941 sgg. — Krüger, Hist. des sources du droit romain, trad. fr., Paris, 1894, pp. 381 sgg. — Costa, Storia delle fonti del diritto romano, Torino, 1909, pp. 114-116 e la bibliografia ivi citata.

729.  Amm. Marc. 30, 4, 3 sgg.; 11: iuris professi scientiam repugnantium sibi legum abolevere discidia.

730.  Paneg. lat. 11, 20.

731.  Amm. Marc. 30, 40, 8 sgg.

732.  (Digest.) Const. Omnem, 1 sgg.

733.  Nov. Theod. 1, 1 sgg.

734.  Su l’opera giuridica di Teodosio II., cfr. Karlowa, o. c. I, 943 sgg.

735.  Cod. th. 1, 1, 5.

736.  Cod. th. 1, 1, 6.

737.  Nov. Theod. 1; cfr. Karlowa, o. c. 1, 943 sgg.

738.  Si tratta di una curiosa tradizione, che vale proprio la pena di riferire. Pietro Alcionio, un letterato della prima metà del sec. XVI., fa, in un suo scritto (De exilio, Lipsiae, 1707, pp. 213-214), raccontare dal cardinal Giovanni de’ Medici, che, nella di lui biblioteca, era un libro di autore greco de rebus a Gothis in Italia gestis, in cui si diceva che Attila, allorquando ebbe invaso l’Italia, ordinò che niuno adoperasse più il latino e chiamò anzi dal suo paese maestri perchè insegnassero il gotico agli Italiani. Il Tiraboschi (o. c. II, 587-588) obbietta che Attila non poteva considerare l’Italia come cosa sua, e, quindi, legiferare secondo l’Alcionio riferirebbe. In verità, l’obbiezione non è insuperabile. Piuttosto, si potrebbe notare la stranezza del fatto che Attila avrebbe imposto il gotico, anzichè l’unno, come lingua ufficiale. Ma ne anche a questa seconda obbiezione è impossibile replicare.

739.  Const. Omnem 7 — Cod. iust. 1, 17, 1, 10.

740.  Ha dato di ciò una magistrale dimostrazione il Krumbacher, Gesch. d. byzant. Litteratur, München, 1897, 2ª ed., Einl. 1 sgg. Sui problemi di classificazione cronologica dell’antichità e del Medio Evo, discussi in questo breve paragrafo, cfr. Gutschmid, Die Grenze zwischen Altertum u. Mittelalter, in Kleine Schriften, Leipzig, 1894, V., 393 sgg.

741.  Usener, Anecdota Holderi, Bonn, 1877, p. 67 — Mommsen, Prooemium alle Variae di Cassiod., senat. p. VIII.

742.  Usener, o. c. 68 sgg. — Mommsen, o. c. IX sgg.

743.  Var. 9, 24, 8.

744.  Var. 2, 3, 1 sgg.; 15, 4. 3, 33, 1 sgg. 10, 7, 2 sgg. etc.

745.  La fonte è Procopio (De bello goth. 1, 2), il quale però non riferisce la cosa come un fatto, della cui constatazione egli assuma la responsabilità, ma come un argomento dei nazionalisti Goti contro la figlia di Teodorico, Amalasunta.

746.  Cfr. Cassiod. Var. 1, 24.

747.  Cassiod. Var. 10, 4, 6.

748.  Procop. de bello goth. 1, 3.

749.  Cassiod. Variae 1, 39, 4, 6 e, fors’anche, 2, 22. Cfr. Mauso, Gesch. d. öst-gothischen Reiches in Italien, Breslau, 1824, p. 132, n. v.

750.  Cassiod. Var. 5, 22. 4, 6.

751.  in Nov. App. 7, 22.

752.  Cassiod. Var. 2, 35.

753.  Idem, Var. 1, 25.

754.  Cassiod. Chron. ad a. 500.

755.  Idem, Var. 1, 25; 28. 2, 7; 34; 39. 3, 29, 31. 4, 51. 7, 15.

756.  Cassiod. Var. 7, 13.

757.  Ennod. Paneg. Theod. 56 e CDXXXVIII; cfr. Mauso, o. c. 124 sgg.; 136 sgg.

758.  Cassiod. Var. 8, 29; 30, 10, 30.

759.  Cassiod. Var. 9, 24, 11.

760.  Cassiod. Var. 8, 12, 8.

761.  Cassiod. Var. 8, 18, 4.

762.  Procop. de b. g. 1, 2; cfr. Hodgkin, Italy and her invaders, Oxford, 1885, III, 585 sgg.

763.  Debbono essere gli impiegati dell’officium a rationibus, cui spettava la cura suprema del fiscus; cfr. Rostowzew, Fiscus in De Ruggiero, Diz. ep. III, 133 sgg. — Hirschfeld, Untersuchungen etc., pp. 29 sgg.

764.  Cassiod. Var. 9, 21.

765.  Ennod. CDLII, 18, sgg. Fra i personaggi più colti dell’aristocrazia romana del tempo erano anche delle donne.

766.  Ennod. Paneg. Theod. 2; 76 — Cassiod. De inst. dir. praef.

767.  Tiraboschi, o. c. III, 51 sgg.

768.  Idem, o. c. III, 35 sgg. — Montalembert, Les moines d’Occident, Paris, 1860, II, 79-81.

769.  Agath. (5, 14) si esprime testualmente: «Di quanti regnarono in Costantinopoli egli fu il primo sovrano assoluto, così di fatto, come di nome».

770.  Sulla politica religiosa di Giustiniano, cfr. Lasaulx, o. c. 144 sgg. — Schultze, o. c. I, 437 sgg. — Diehl, Justinien et la civilisation byzantine au VI. siècle, Paris, 1901, 552 sgg.

771.  Cod. iust. 1, 5, 18, 4.

772.  Cod. iust., 1, 11, 10, 2-3.

773.  Zosim. 5, 5.

774.  Malal. 18, O 187 d-e.

775.  Su questo particolare, cfr. Gregorovius, Gesch. d. Stadt d. Athen, I, 55-56 e 56, n. 1. Non mi è stato possibile avere tra mano il Paperregopulos (Ἱστορία τοῦ Ἔλλ. ἔθνους, 1887), ove, secondo trovo indicato, si nega la realtà delle soppressioni avvenute nel 529, tesi questa, che però non è stata accolta dai più recenti storiografi di quell’età.

776.  Agath. 2, 30 — Mal. 18, O 237-238.

777.  Agath. 2, 28; 30-31. Sulla fine della Università ateniese, cfr. anche Zumpt, o. c. 59 sgg.

778.  Zumpt, o. c. 63 — Zeller, o. c. III4, 2, 917, n. 1.

779.  Malal. 18, O 187 d-e. Il cronista fa tale divieto contemporaneo all’altro dell’insegnamento della filosofia. Ma questo è impossibile. Nel 529 Giustiniano aveva già riconosciuto quelle scuole (Malal. 18, O 183). L’ordine della chiusura della facoltà di giurisprudenza deve essere quindi contemporaneo alla pubblicazione del Digesto (Const. Omnem 7).

780.  Iulian. Or. 3, p. 153.

781.  Cramer, Anecd. graeca e Codd. Paris. IV, 315.

782.  Procop. H. A. 26 (= P. 74 c-d).

783.  Su Procopio, quale fonte della storia di Giustiniano, cfr. Haury, Zur Beurtheilung d. Geschichtsschreibers Procopius, Munich, 1896 — Brückner, Zur Beurtheil. Procopius, Ansbach, 1896, Croiset, o. c. V, 1018-1019 — Krumbacher, o. c. I2, 230-237 — Bury, o. c. I, 359 — Diehl, o. c. XII sgg.

784.  Krumbacher, o. c. I2, 373.

785.  Zonar. 14, 6, 31-32 (= P. 2. II. 63, b.)

786.  in Nov. App. 7, 22.

787.  Cod. iust. 2, 7, 22, 4-5; 24, 4-5.

788.  Cod. iust. 2, 7, 11, 1 sgg.

789.  Sull’opera giuridica di Giustiniano, cfr. Gibbon, o. c. VIII, 30 sgg. — Karlowa, o. c. I, 1003 sgg. — Kruger, o. c. p. 431 sgg. — Diehl, o. c. 250 sgg. — Costa, o. c. 130 sgg., ove, assai più del testo è pregevole il copioso apparato bibliografico.

790.  Const. Deo auctore 5.

791.  Const. Tanta, 11.

792.  Const. Tanta 13.

793.  Const. Imper. maiest., praef.; cfr. De Iust. cod. conf. praef.

794.  Const. Imper. maiest. 3.

795.  Ibid. 7.

796.  Const. Imper. maiest. 3.

797.  Const. Omnem 7. Giustiniano (ibid.) soggiunge che tale investitura ufficiale fu, dai suoi predecessori, data anche a Berito, a Roma e a Costantinopoli, ma non ad altri luoghi. Egli dimentica però le costituzioni imperiali, cui si riferisce un passo del Digesto (27, 1, 6, 12), secondo cui i principi riconoscono l’insegnamento della giurisprudenza nelle province, pur non onorandone i maestri delle consuete immunità: «qui ius civile docent in provincia vacationem non habent, Romae docentes habent.»

798.  Cotali sedi di scuole giuridiche non dovevano essere poche; cfr. Dig. 27, 1, 6, 12 e Bremer, Rechtslehrer u. Rechtsschulen, 71 sgg.

799.  Const. Omnem 7.

800.  Cfr. il § IX. del pres. capitolo.

801.  Cfr. Savigny, o. c. I, 263 n. a.Karlowa, o. c. I, 1023. A Berito dovevano esservene certamente più di due. Durante i lunghi anni di compilazione delle Pandette, noi troviamo nella Commissione due professori di Berito, i quali, naturalmente, erano costretti a soggiornare a Costantinopoli. Se a Berito non ve ne fossero stati altri, quella gloriosa facoltà giuridica sarebbe rimasta senza maestri.

802.  Per la compilazione della prima edizione del Codice v’è solo un professore di Costantinopoli; per la seconda, solo uno di Berito; per le Pandette, due di Costantinopoli e due di Berito; per le Istituzioni, uno di Costantinopoli e uno di Berito.

803.  Significava Dupondii studenti da due dramme? E in che modo a codesto nome si convenivano le critiche imperiali? Cfr., su codesta oscura, questione, Pernice, Miscellanea, I, 107 sgg. — Rudorff, in Zeitschrift f. Rechtsgeschichte, III, 38.

804.  Const. Omnem 1.

805.  Const. Omnem 7.

806.  Const. Omnem 5.

807.  Const. Omnem 9-10.

808.  Const. Omnem 10. Non è inopportuno rilevare l’analogia di queste disposizioni con quelle che regolano le Università medievali, di cui fu modello Bologna (Savigny, o. c. I, 556-557).

809.  Il testo, come in altri punti della costituzione, ha leges, ma sul significato della parola, cfr. Krüger, o. c. 468, n. 1.

810.  Giustiniano dice partes legum, ma cfr. Kruger, l. c.Karlowa, o. c. I, 1026.

811.  Const. Omnem, 1; 4.

812.  Ibid. 1; 5.

813.  Const. Omnem 1.

814.  Sul probabile valore simbolico di questa, come di parecchie altre cifre, contenute in questi programmi, cfr. Bury, o. c. I, 368-369.

815.  Const. Omnem 2 sgg.

816.  Ioann. Lydus, De magistr. 3, 29.

817.  Hase, Commentarius de Ioanne Laurentio Lydo, p. IX, nell’edizione Bonnense delle opere di Lido.

818.  l. c. L’Hase rimane incerto fra la lingua greca e la latina, ma il testo del decreto fa propendere per quest’ultima: Giustiniano lo lodava per la sua perizia nella ρωμαίων φωονὴ (Lyd. De magistr. 3, 29).

819.  Cfr. Aur. Vict. Caes. 10, 1.

820.  Cic. De rep. 4, 3, 3.

821.  Cfr. Barbagallo, Scuola, Stato e politica in Roma repubblicana, in Riv. di filol. class., 1910, fasc. 4º.

822.  Δημηγωρία etc. (in Themist. Orationes, ed. Dindorf) p. 21 b-c.

823.  Symmach. Ep. 1, 79.

824.  Const. Omnem, 7.

825.  Const. Omnem 10.

826.  Cfr. Harrent, o. c. 227 e sgg. — Grupp, Kulturgesch. d. Kaiserzeit, Stuttgart, 1903, I, 141.

827.  Cfr. Petit. o. c. 84.

828.  C. I. 10, 53, 2.

829.  È tipica la legge del Cod. th. 13, 3, 1.

830.  Cfr. Cod. th. 12, 2, 1 (= C. I. 10, 37 (36)).

831.  Const. Omnem 7.

832.  CIL. 8, 20.684.

833.  Cfr. Cagnat, Procurator in Daremberg et Saglio, Dict. d’ant. class. 4, 1, p. 662.

834.  CIL. 10, 1739.

835.  Cfr. in ispecie il CIL. 10, 7580; 14, 2916.

836.  CIL. 6, 2132.

837.  Così hanno opinato, contro il Mommsen (in Harnack u. Gebhardt, Texte u. Unters. etc. 1903, 111-112), l’Hirschfeld, o. c. 305 nota e il Langie, o. c. 140-141. Ma, fuori di Roma, gli imperatori avevano certamente biblioteche private — ne è prova quella greco-latina, collocata da Adriano nella sua villa a Tivoli —, e, se questo accadeva fuori di Roma, doveva a potiori avvenire in Roma e in Costantinopoli.

838.  CIL. 6, 4233; 5188; 5190; 5884; 8679; 8743 — Cod. th. 14, 9, 2.

839.  Cod. th. 15, 1, 14. 16, 10, 15 ( = C. I. 1, 11, 3); 10, 18 etc. Circa la sorveglianza del praefectus urbi sui monumenti pubblici, cfr. Vigneaux, o. c. 323 sgg.

840.  Cod. th. 6, 21, 1; cfr. Liban. 1, pp. 27; 51-52, ed. Reiske.

841.  Cfr. anche Symm. 1, 79.

842.  Cfr. Dio Cass. 53, 30.

843.  CIL. 6, 9888.

844.  Cod. th. 15, 1, 19.

845.  Cassiod. Variae, 9, 21, 9.

846.  Philostr. V. S. 2, 12, 4; 30, 1-2.

847.  Traiano e Adriano dànno al sofista Polemone e ai suoi successori la facoltà di viaggiare in franchigia, il diritto di portare la praetexta, il privilegio del ιερασθαι (Phil. 1, 25, 5. 2, 25, 5); Marco Aurelio dà al sofista Adriano, oltre a doni ricchissimi, mensa quotidiana a spese dello Stato, un posto riservato in pubblico, il privilegio del ιερασθαι e tutti gli onori, cui può ambirsi da un libero (Philostr. 2, 10, 7). Cfr. su ciò anche Weber, o. c. 21 sgg.

848.  Philostr. V. S. 2, 25, 5.

849.  Philostr. V. S. 2, 20, 2; 30, 1.

850.  H. A. Hadr. 16. 11.

851.  CIL. 6, 1704 e Mommsen, in N. Memorie dell’Istit. di corr. arch., 1865, pp. 328-329.

852.  Hirschfeld, o. c. p. 334.

853.  Mommsen, in N. Memorie, 1865, p. 329, in Harnack u. Gebhardt, o. c. 1903(9) 3, p. 112.

854.  Zonar. 14, 6, 31-32 (= P. II 63 b).

855.  Cfr. Symm. 1, 79 — Cassiod. Variae, 9, 21.

856.  Cfr. Const. Omnem 10.

857.  Cod. th. 14, 9, 3 (= C. I. 11, 19, 1-2) — Const. Omnem 7. L’esecutore di questa clausola non può, in Costantinopoli, essere altri che il praefectus urbi, così come, nelle città di provincia, i governatori del luogo.

858.  Cod. th. 16, 1, 53. 14, 9, 3 — Ioann. Lyd. De magistr. 3, 29.

859.  Symmach. Ep. 10, 5 — Zonar. 14, 6, 31-32 (= P. II 63 b).

860.  Symmach. 1, 79 — Cassiod. 9, 21.

861.  Cod. th. 6, 21, 1 (= C. I. 12, 5. 1).

862.  August. Confess. 3, 13, 1.

863.  Cod. th. 14, 9, 2; cfr. Mommsen, in Harnack u. G. Texte u. Unters. 1903, 3, 111.

864.  Cod. th. 13, 3, 6 — Const. Omnem 7.

865.  Cod. th. 13, 3, 1; 11.

866.  Cfr. Cod. th. 13, 3, 7 (= C. I. 10, 53, 9).

867.  Cod. th. 13, 3, 1 (= C. I. 10, 53, 6) 4, 1; 2 (= C. I. 10, 66, 1); 3 (= C. I. 10, 66, 2).

868.  Cod. th. 13, 4, 1. Circa il destinatario, cfr. il commento del Gothofredus al Cod. th.

869.  Cfr. Weber, (o. c. 7-8; 15), che tuttavia non ha sempre inteso rettamente le fonti consultate e riferite — Petit, o. c. 30; 33 sgg.; 39; 41; 70 — Hertzberg, o. c. III, 312 sgg.

870.  Rostovzew et Prou, o. c. 91.

871.  Così pensarono il Rostowzew et Prou, o. c. 94; 100 e lo stesso Rostowzew, R. Bleitesserae, pp. 59; 86.

872.  Cfr. Rostowzew, o. c. 59; 86.

873.  Eph. epigr. 3, 156 — CIL. 3 suppl. 7060.

874.  Cagnat, in Année épigr. 1896, N. 32 — Rostowzew, o. c. 92, n. 2.

875.  Rostowzew et Prou, o. c. 94-95; 97 — Rostowzew, o. c. 86.

876.  Cfr. Savigny, o. c. I, 546-547.

877.  [Tac.] De orator. 40.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Le correzioni indicate a pag. 431 (Errata-corrige) sono state riportate nel testo.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.