The Project Gutenberg eBook of Roma antica, Vol. 1/3

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Title: Roma antica, Vol. 1/3

La preparazione e il trionfo

Author: Guglielmo Ferrero

Corrado Barbagallo

Release date: February 27, 2024 [eBook #73061]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Le Monnier, 1921

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)

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ROMA ANTICA I.
LA PREPARAZIONE E IL TRIONFO


GUGLIELMO FERRERO
E CORRADO BARBAGALLO

ROMA ANTICA

I.

LA PREPARAZIONE E IL TRIONFO

FIRENZE
FELICE LE MONNIER
1921


Proprietà letteraria italiana

Copyright by G. Ferrero and C. Barbagallo

Le copie che non portano la firma di uno degli Autori s’intendono contraffatte.



INDICE


[v]

PREFAZIONE

Questo libro è stato scritto per agevolare il compito a coloro che devono insegnare e imparare la storia di Roma nelle scuole. Agli uni ed agli altri ci parve potesse essere di aiuto un’opera, la quale esponesse quella storia nella lunga concatenazione dei singoli episodî, che non si possono intendere a pieno se non nell’unità di cui fanno parte. Se il libro potrà essere di qualche vantaggio anche alle persone vaghe di istruirsi per proprio desiderio, tanto meglio. Nell’età fortunosa in cui viviamo, non perde il suo tempo chi indugia qualche ora a sfogliare il grande volume del passato.

La visione e la esposizione della storia romana, che il lettore troverà in queste pagine, sono quelle stesse che tanto piacquero agli uni e tanto spiacquero agli [vi] altri in Grandezza e Decadenza di Roma. Dalla morte di Silla alla morte di Augusto quest’opera riassume la precedente. Prima e dopo continua e prolunga, impicciolendolo un poco nelle proporzioni, il disegno di questa: quale sarebbe stato se Grandezza e Decadenza avesse preso le mosse dalla fondazione dell’Urbe; quale sarà quando Grandezza e Decadenza sarà portato a compimento. Il mio collaboratore ed amico ha acconsentito a servirsi di questo disegno, non tanto per una cortesia, di cui potrei essergli gratissimo, come gli sono grato dei ritocchi e dei miglioramenti che a quello ha apportati, quanto per un’intima comunanza di vedute.

Posso aggiungere che questo libro è stato composto e pubblicato anche per aiutare quel riscatto spirituale della nazione, a cui sarebbe tempo di por mano davvero con le opere e non soltanto nei discorsi? Da cinque anni questo riscatto è l’occasione e il pretesto di tante vanissime ciarle e di tante imposture, che chi senta di aver per quello lavorato davvero, ha quasi scrupolo e noia di parlarne. Accennerò [vii] tuttavia anche a questo punto, perchè crediamo, il mio collaboratore ed io, di potere senza arroganza annoverarci tra i pochi, che non hanno improvvisato nessuna teoria sulla scienza e sul pensiero tedesco, per i bisogni della piazza e dell’ora, dopochè la guerra mondiale è scoppiata. Quanto a me personalmente, in mezzo al fragoroso rovinare della civiltà occidentale, distrutta a mezzo dalla mostruosa forza della Germania, ho continuato a dire e a pensare del pensiero tedesco, svolgendolo e chiarendolo alla luce degli eventi, ciò che avevo già o detto o chiaramente accennato prima della guerra, massime nel libro, dove è la chiave del mio pensiero: il Tra i due mondi. Posso dunque continuare senza sospetto, presso gli uomini di buona fede, a svolgere questo pensiero, per quanto concerne la storia.

La Germania ha nell’ultimo secolo sfogato anche nella storia il suo impeto, la sua alacrità e la sua vasta ambizione. Ha scritto più che i popoli latini, e con foga ed audacia maggiori. Ma nel molto che [viii] ha scritto c’è del buono, del mediocre e del cattivo; tra i quali — ed è stato il suo primo torto — il nostro insegnamento ufficiale non ha saputo scegliere. Esso ha ammirato come un capolavoro ogni opera stampata in caratteri gotici; ha accolto con grandi inchini e riverenze, e raccomandato ai giovani come modelli, anche libri mediocri e cattivi. Quanto agli autori buoni e di merito, essi sono numerosi e ricchi di pregi, che anche a noi gioverà imitare con discrezione; ma tenendo presente che spesso incorrono in due difetti pericolosi, da cui abbiamo cercato che questa opera fosse esente.

Primo difetto: quel volere a tutti i costi travestire la storia da scienza. La storia non è una scienza, almeno se chiamandola scienza si vuole appaiarla alla chimica, alla fisica o alla fisiologia. Queste studiano, per via di esperimento o di osservazione, dei fenomeni che si ripetono e cadono sotto i sensi, almeno in parte. La storia non sperimenta, non osserva, e non studia neppure dei fatti che cadono o che potrebbero cadere sotto i sensi, ripetendosi; [ix] ma cerca di divinare e descrivere, valendosi di ricordi frammentarî, degli «stati di animo» di uomini, o di gruppi di uomini, o di folle, che vissero e operarono nel passato. Il documento non è, come l’esperimento o il fatto osservato, l’oggetto della ricerca, ma il segno visibile, spesso indiziario e quasi stenografico, di questo oggetto invisibile, e che non può rivivere alla meglio se non nell’immaginazione e nell’intuizione dello storico, aiutate dal ragionamento. Chi tratta dunque la storia come una scienza, chi parla ad ogni momento, a proposito della storia, di metodi, di conclusioni e di scoperte «scientifiche», confonde come identiche operazioni mentali e criterî di verità e di certezza, che nella storia e nelle scienze vere sono diversi.

Senonchè questo difetto è il meno grave dei due, perchè, quando lo storico è valente, alla fine trova nel suo cammino la storia, anche se si è messo in viaggio per cercare la scienza.

Più grave invece è il secondo difetto, che sta nel trasportare entro la storia antica [x] quello che si potrebbe chiamare l’illimitato della civiltà moderna. Dalla rivoluzione francese in poi la civiltà occidentale sta tentando la prova forse più temeraria, in cui il genere umano abbia cimentato sinora le sue forze; e che spaventò come empio delirio gli antichi, ogniqualvolta l’orgoglio e l’ambizione la fecero loro intravedere possibile: togliere a tutte le forze fattive e creative dello spirito umano ogni freno interno, spingerle anzi a svolgersi ed ingrandirsi fino all’estremo limite della possibilità, che nessuno sa dove sia, e che tutti vogliono collocare più lontano, quanto più le forze crescono ed ampliano il proprio dominio. Gli antichi invece intendevano la vita e il consorzio civile proprio nel modo opposto: come uno sforzo chiuso entro limiti insuperabili, perchè dichiarati inviolabili dalla tradizione, dalla volontà degli Dei, dalla saggezza degli uomini, dalla loro debolezza e povertà, dalle leggi.

Questo rivolgimento è il più grande che sia avvenuto nella storia del mondo, dopo l’apparizione del cristianesimo. Esso ha [xi] mutato talmente le idee, i sentimenti, le istituzioni, i costumi, che la civiltà antica, la sua arte, la sua morale, la sua politica è diventata per i moderni poco meno di un immenso geroglifico, la cui chiave è perduta e pochi segni appena sono intelligibili ancora. Le generazioni che hanno imparato l’arte di governare alla scuola delle rivoluzioni e delle guerre del secolo XIX, che si sono avvezzate a viaggiare il mondo in ferrovia ed in piroscafo, che ora imparano perfino a volare, non si imaginano neppure quanto sia loro difficile di intendere una statua greca, o un’ode di Pindaro, o le Georgiche di Virgilio, o un dialogo di Platone, o un capitolo del Vangelo, o la politica del Senato romano, o i tempi e la vita di Giulio Cesare. Persuasi come siamo tutti, o quasi tutti, che il mondo in cui viviamo è il solo vero e perfetto; che tante generazioni ci hanno preceduti solo per preparare questa felice potenza, di cui siamo così orgogliosi, noi rammoderniamo troppo spesso l’antico, proprio in quelle cose e parti in cui più differiva da noi, [xii] e opponeva al nostro ideale della vita uno specchio di perfezione opposto, in cui riconoscere i nostri difetti.

Questo rammodernamento è, in misura diversa, vizio comune a tutti gli storici moderni dell’antichità; ma negli storici tedeschi è maggiore che negli altri, forse perchè la Germania è tra le nazioni moderne la più spiritata dall’«eroica follia dell’illimitato», e l’ha pur troppo mostrato recentemente, trascinando per i capelli il mondo là dove ora è. Esempio: Teodoro Mommsen, il maestro di quanti hanno strappato al suo secolo la storia romana per travestirla nel nostro. Per quale ragione ha egli falsato così profondamente la storia di Roma? Per la difficoltà di capire uno Stato in cui l’élite governante fosse, come a Roma, non chiusa, ma limitata. Dopo la rivoluzione francese, gli Stati dell’Europa, pur differendo fra loro per la forma, i principî e gli spiriti, hanno avuto in comune quella che si potrebbe chiamare la dilatabilità: una forza interna, per cui i gruppi dirigenti — così l’aristocrazia come l’alta e la media borghesia — facilmente [xiii] e continuamente si allargavano, crescevano di numero, e quindi offrivano allo Stato un personale più numeroso ad ogni generazione, nel tempo stesso in cui gli chiedevano posti, cariche, stipendî, onori in quantità maggiore. In Roma antica, invece, l’aristocrazia a due piani — ordine senatorio, ordine equestre — che la governava, non era chiusa, perchè anch’essa si rinnovava; ma era limitata, perchè non solo cresceva poco, e a distanza di secoli, ma di nulla aveva più orrore che di crescere troppo. Molto più frequenti che gli ampliamenti dei gruppi dirigenti e gli innesti, sono, nella storia romana, le riduzioni, i tagli, le potature: onde, mentre negli Stati moderni accade spesso che il gruppo dirigente cresca spesso più rapidamente che la superficie, la ricchezza e la potenza dello Stato, nella storia di Roma accade l’opposto. L’impero, la sua potenza e le sue ricchezze crescono più del gruppo dirigente.

La ragione di questa differenza sta in quel grande rivolgimento della storia umana, a cui abbiamo accennato. Stati, quali [xiv] i moderni, che ambiscono solo di accrescere la propria potenza e ricchezza, hanno bisogno di un personale sempre più numeroso, anche se preparato in fretta e alla meglio. Gli Stati antichi, invece, miravano a una certa perfezione intrinseca, che li facesse durare: onde esigevano dai governanti una preparazione più lunga e più laboriosa, e ambivano piuttosto di averne pochi ma buoni, che molti e scadenti. Il Mommsen non ha avuto sentore di questo divario; e allora a che gli ha servito di aver trascritto e commentato tante iscrizioni, di aver raccolto e studiato tanti testi? Egli ha cercato invano nello Stato romano quella temerità imprevidente, quel disprezzo delle forme e dei principî legali, quella cieca venerazione del successo, quell’adocchiare desideroso e arruffare tutto il possibile, quell’avventurarsi precipitoso nell’avvenire, quella smania di alterarsi e snaturarsi, che sono proprî degli Stati moderni. E perciò non ha capito quella lotta continua tra la potenza e la saggezza, tra la ricchezza e la coscienza morale, che è la trama [xv] grandiosa di tutta la storia di Roma; e si è smarrito in quella tragica contraddizione di una società che sa di dover perdere la sua forza se esce dai limiti angusti della disciplina tradizionale e perciò vuol chiudercisi; mentre da ogni parte gli eventi la incalzano ad uscirne per conquistare il mondo e i suoi tesori.

Noi abbiamo cercato di liberarci da tutti i preconcetti modernizzanti, che hanno impedito a tanti storici di capire questo dramma: uno dei più immensi della storia, agli occhi di chi sappia abbracciarlo tutto. E raccontandola succintamente con sufficienti particolari, crediamo di avere anche somministrato un soggetto di utili meditazioni ad un’età, la quale precipita in una orrenda anarchia, perchè tutti gli Stati, presi dalla smania di espandersi, quasi si vuotano e non sono più capaci di stare entro se medesimi.

Non è forse opera vana opporre a questa febbre distruggitrice l’esempio di una nazione antica, che potè espandersi nel mondo nel tempo stesso con tanta fortuna e travaglio, perchè riluttò sempre a uscire da [xvi] se medesima; e volle chiudersi in se medesima perchè sapeva che uno Stato può essere grande o piccolo, ma, grande o piccolo, non può avere forza e coesione e una certa padronanza del suo destino, se non si propone un certo ideale di perfezione morale e civile, che valga più della potenza e della ricchezza. Perchè queste sono spesso dono della fortuna; quello è opera e merito dell’uomo.

Firenze, ottobre 1920.

G. F.

[1]

CAPITOLO PRIMO LA MONARCHIA E IL PRIMO TENTATIVO MERCANTILE DI ROMA

(754?-510? a. C.)

1. L’Italia nell’VIII secolo a. C. — I tempi, a cui risalgono le prime e incerte notizie di Roma, sono per noi il principio della storia nostra. Ma per gli uomini che li vissero, erano la fine di una lunga storia precedente, a noi quasi ignota. Quanti avvenimenti aveva già veduti l’Italia, verso la metà dell’ottavo secolo a. C.! Aveva veduto ricoverarsi nelle caverne gli uomini che lavoravano la pietra e cacciavano con le frecce aguzze di onice le belve sui monti boscosi; aveva veduto emergere dai laghi e dai fiumi i villaggi difesi dalle acque; aveva veduto quella forza misteriosa che non dà tregua alle genti umane, l’invenzione, fare la prima immensa rivoluzione della storia, creando il bronzo, estraendo e plasmando il ferro; aveva veduto, man mano che l’uomo aveva imparato a fabbricare strumenti più utili [2] e saldi, moltiplicarsi gli armenti, diffondersi la coltivazione dei cereali, i primi tralci delle viti pendere dagli alberi, curvarsi gli ulivi sulle pendici, i colli incoronarsi di città turrite, e le industrie e le arti, che si dicono civili, fare le prime loro prove. Ma aveva veduto pure infuriare la guerra; e genti diverse invaderla da ogni parte, contendersi le regioni con le armi. Verso la metà del secolo VIII a. C. l’Italia era già popolata da razze diverse: ma quante fossero e quali, e in che differissero propriamente, onde venissero e dove risiedessero è impossibile dire con sicurezza. I dotti del secolo XIX, per i quali la storia non ha segreti, hanno preteso di saperla lunga anche su questo punto; ma, secondo il loro costume, ognuno cercando di dimostrare che tutti i predecessori erano stati in errore. Sarebbe vana fatica avventurarsi in loro compagnia in questa jungla di discussioni sottili e inconcludenti: meglio varrà riassumere le conclusioni più probabili, dicendo che, nel secolo VIII, mentre sulle coste meridionali incominciavano a metter piede le colonie greche e ad apparire la Magna Grecia, di cui erano già, o sarebbero fra non guari, ornamento Cuma, Posidonia, Metaponto, Reggio, Locri, Crotone, Sibari, Taranto, la maggior parte dell’Italia meridionale e dell’Italia centrale era occupata da una popolazione, a cui si suol dare il nome comune di Italici. Questa popolazione, che forse era partita insieme con gli Elleni dall’Oriente, ed era entrata nella penisola attraversando l’Illiria e l’Adriatico, si raccoglieva in gruppi distinti, di cui quello degli abitatori del Lazio passerà alla [3] storia col nome di Latini; gli altri, posti a settentrione, a oriente e a mezzogiorno del Lazio, saranno chiamati Umbri, Piceni, Sabini, Equi, Marsi, Vestini, Marrucini, Ernici, Volsci, Peligni, Frentani, Sanniti, Osci, Lucani: ma tutti fratelli per lingua, per religione, per istituzioni e costumi; tutti popoli agricoltori e guerrieri, che non avevano ancora fondato molte città; che esercitavano solo le industrie più semplici, trafficavano poco, e vivevano semplicemente. Altri due popoli di cui si può congetturare che avessero comune con gli Italici la stirpe, risiedevano nella pianura padana; i Liguri a occidente, dal mare e dalla Macra al Ticino alle Alpi ed al Varo; i Veneti a Oriente, dall’Adige all’incirca e dai monti fino allo specchio del mare Adriatico. Infine lo spazio che intercedeva tra il territorio indipendente dei Veneti e dei Liguri, e tra questi due popoli e gli Italici, e cioè la parte migliore dell’Italia, era dominato dagli Etruschi. Occupavano tutto il territorio, che si estendeva dalla radice delle Alpi centrali, fino all’Italia media ed al Tevere, toccando da un lato l’Adriatico, dalla foce dell’Adige al Rubicone; dall’altro, il Tirreno, dalla Magra al Tevere; si erano impadroniti dell’Elba, l’isola ricca di piombo e di ferro; avevano colonizzato le terre occidentali della Corsica e avevano occupato anche, in pieno territorio popolato dagli Italici, una delle regioni più felici dell’Italia: la Campania. Non erano però potenti solo per la vastità del territorio e per la ricchezza, ma anche per le arti e per la cultura: poichè, insieme con i Greci, che incominciavano a colonizzare l’Italia meridionale, [4] essi erano, in mezzo ai Liguri, ai Veneti, agli Italici ancora poveri e semplici, il gran popolo navigatore, mercante, industrioso e, per i tempi, colto e civile, dell’Italia. Disputatissime ne sono le origini e la stirpe, come quasi ignota è la lingua: ma certo è invece che essi correvano il mare — pirati o mercanti — con molte navi; che avevano costruito molte città sui monti o nel piano — Mantova, Felsina (Bologna), Ravenna, Volterra, Fiesole, Arezzo, Vetulonia, Populonia, Tarquinii, Caere, Veio, Perugia; che, imitando i Fenici e i Greci, si studiavano di far prosperare in quelle le industrie e le arti; che professavano una religione propria ed eccellevano nell’architettura e nella pittura; che avevano fortificato e provvisto le loro città di acquedotti e di cloache; che scolpivano il legno e la pietra, e conoscevano un ordinato regime politico. Non formavano un vasto impero, ma una confederazione di piccoli Stati, ognuno governato da Re (lucumoni); e probabilmente tenevano diete periodiche, sentendosi, come gli Elleni, un solo popolo e una sola gente, divisa in città e Stati diversi.

Nell’Italia, dominata dagli Etruschi, colonizzata dai Greci, popolata in tanta parte da popolazioni cosiddette italiche, fu fondata Roma. Quando? Come? Da chi? Per quale ragione?


2. La fondazione di Roma (754? a. C.). — Quella scuola storica, che ha nell’ultimo secolo fiorito in tutta Europa, e che con parola greca germanizzata si è detta critica, ha di solito il difetto di volere troppo spesso e a tutti i costi ripescare nell’oceano [5] del passato anche le notizie, affondate a tanta profondità che nessun palombaro può sperare di scendere fino laggiù. Perciò parecchi discepoli di quella scuola troppo ardita si son proposti di dimostrare che la tradizione sbaglia i suoi conti, quando ci racconta che Roma è stata fondata verso la metà del secolo ottavo a. C. e, precisamente, secondo la data, ormai universalmente accettata, negli anni 754 o 753. E Dio sa se questi critici non hanno fatto spreco di induzioni ingegnose e di argomenti sottili! Il male è che ad uno storico ingegnoso non faranno mai difetto gli argomenti sottili per sostener qualunque tesi, di cui si innamori, e che questa volta tutte le congetture e i sillogismi e i ragionamenti si rompono contro un fatto: aver Roma sempre affermato ufficialmente, nella sua cronologia, ab urbe condita, di essere stata fondata verso la metà dell’VIII secolo a. C. I Romani antichi erano in grado di sapere meglio di noi quando la città loro era stata fondata: chè se poi anch’essi avevano dimenticata, per una ragione o per un’altra, la vera data, pare poco probabile che riesca a noi, dopo tanti secoli, di rintracciarla. Sinchè non si scopra chi, come, quando e perchè abbia falsificato la data della fondazione, sarà necessario prestar fede alla cronologia ufficiale, che è documento più sicuro dei più ingegnosi ragionamenti moderni; e argomentare dall’aver essa ufficialmente contato gli anni suoi ab urbe condita che Roma non crebbe a caso per un lento processo di sviluppo spontaneo, ma sorse già adulta per un atto di volontà: fu fondata da un uomo o da una città o da un popolo. Molto [6] più difficile invece è sapere chi la fondò. Quante leggende ci ha raccontate l’antichità! La più antica favoleggiava che Roma sarebbe stata fondata da un eroe, figlio di Giove, un Romo, che le avrebbe imposto appunto il suo nome. Ma questa ed altre leggende consimili erano troppo semplici, per spiegare le origini di una città così illustre e potente: onde a poco a poco si frugò, affinchè anche Roma avesse le sue patenti storiche di nobiltà, in quella specie di archivio, che tante altre città del mondo mediterraneo avevano saccheggiato: nella poesia greca e nei miti e nelle leggende, che essa ha trattati con tanto splendore. Enea era stato preso di mira in modo particolare, perchè, avendo molto viaggiato, poteva aver denominato o fondato quanti luoghi e città si voleva. Così Capri si gloriava di derivare il suo nome da una cugina dell’eroe; Procida, da una nipote; Aenaria (Ischia), da Enea stesso; Capua, dal suo avolo, Capio; il golfo di Gaeta, dalla nutrice. D’altra parte la leggenda omerica aveva favoleggiato che la gente di Priamo non sarebbe tutta perita, e che, per un gettone dei suoi rami collaterali, rinascerebbe a maggiore gloria dalle sue ceneri. Riconducendo l’origine di Roma fino ad Enea, si faceva predire la grandezza di Roma da Omero in persona. Il primo re di Roma — Romo o Romolo — sarebbe stato dunque figlio di Enea! Ma questa favola, così lusinghiera per l’amor proprio romano, non poteva durare a lungo, per una difficoltà cronologica, di cui gli antichi, anche senza aver studiato nei seminari filologici, non tardarono ad accorgersi. Romolo non poteva essere precisamente [7] figlio di Enea perchè, ragguagliate la cronologia greca e la romana, tra la distruzione di Troia e la fondazione di Roma correvano troppi più anni di quanti possono correre fra un padre e un figlio. La leggenda fu allora ritoccata, probabilmente amalgamata con leggende e tradizioni indigene; e Roma discese da Troia e da Enea, ma attraverso una lunga genealogia di Eneadi. Un figliuolo di Enea, Ascanio, aveva fondato Alba Longa, capitale di un mitico regno del Lazio, che era stato governato dopo di lui da una lunga genealogia di Re: gli ultimi dei quali, Numitore ed Amulio, erano venuti in discordia; e l’uno, il maggiore, sarebbe stato sbalzato di trono dal fratello, che, per maggior precauzione, avrebbe condannato ad eterna verginità, come Vestale, la figliuola, Rea Silvia. Ma il Dio Marte avrebbe vendicato l’usurpazione, e i due gemelli, nati dal Dio e dalla Vestale, avrebbero riposto sul trono l’avolo Numitore. Solo più tardi la nostalgia del luogo natio avrebbe indotto i due giovani a fondare una nuova città; ne avrebbero ottenuto licenza da Numitore; e, postisi a capo della fazione albana, irrequieta fautrice di Amulio e avversa al legittimo re, avrebbero sul Palatino e sulla sinistra del Tevere, in luogo acconcio alla difesa e al commercio, costruito una città, che sarebbe stata una colonia di Alba e l’emporio di tutto il paese.


3. Fu Roma fondata dagli Etruschi? — Così Roma sarebbe pronipote di Troia e figlia di Alba. Che fosse pronipote di Troia è certamente una favola; ma si può ritenere invece che sia figlia [8] di Alba? Che Alba abbia fondata una colonia sulla riva sinistra del Tevere non è inverosimile. Ma una difficoltà si presenta.

Roma apparisce essere stata nei suoi primi due secoli una città mercantile e industriosa. Avremo occasione di ritornare spesso su questo punto, che è capitale per l’antica storia di Roma. Ora è certo che i Latini erano a quel tempo agricoltori; fabbricavano pochi e rozzi oggetti per soddisfare i loro semplici bisogni, e compravano dagli Etruschi i pochi oggetti di lusso di cui si contentavano. Non si capisce come avrebbero fondato, scendendo dai monti sulle rive del Tevere, una città, che divenne presto sede fiorente di industrie. Nè si capisce come il Lazio potesse alimentare un ricco commercio. Il Lazio non aveva derrate da vendere ai forestieri: produceva scarso farro, non frumento, poco vino e mediocre; non aveva miniere: aveva invece boschi antichi e magnifici; e quindi avrebbe potuto far grosso commercio di legname. Ma noi sappiamo che i suoi boschi erano quasi intatti nella seconda metà del secolo IV a. C.: segno che i secoli precedenti non avevano dilapidato quella preziosa ricchezza[1]. Se dunque, come vedremo e come è certissimo, Roma fu, nei primi suoi tempi, una città industriosa, altri popoli oltre i Latini devono aver posto mano a fondarla; e se fu nel tempo stesso un porto e un emporio, dovette essere il porto e l’emporio, non già del Lazio, che non aveva quasi nulla da vendere, ma di altre contrade dell’Italia media, già fiorenti per industria e per traffici, che di quel porto abbisognavano. Questa considerazione [9] deve indurci a prendere in seria considerazione una ipotesi immaginata da più di uno storico moderno: se Roma non sia stata colonia etrusca[2].

L’ipotesi potrà sembrare sul principio strana, ma essa trova qualche appoggio in notizie antiche. Dionisio di Alicarnasso dice che una tradizione assai diffusa voleva Roma fondata dagli Etruschi[3]. D’accordo con questa antica tradizione, gli eruditi moderni si sono messi alla ricerca degli argomenti atti a confermarla, e ne hanno trovati in quantità. Ci sono ragioni che permettono, se non di provare, di congetturare senza temerità che etrusco possa essere addirittura il nome di Roma, derivato dalla gente dei Ruma; etrusco, secondo l’etimologia e la tradizione, quello delle tre tribù che formarono il primo popolo romano, Ramnes, Tities, Luceres; etruschi, i nomi di tutti i Re, e non soltanto quello dei Tarquinî; etrusco, il modo in cui la città fu costruita e i casolari sparsi sul Palatino ridotti ad unità urbana; etrusca, l’arte primitiva di Roma fino al III secolo[4]. Certo è poi che Roma, appena sorta, si mostrò nemica delle genti latine; che distrusse Alba e i minori borghi vicini; che nei primi secoli le grandi famiglie romane imparavano l’etrusco, come più tardi il greco[5]; che etrusche infine erano le norme della religione e — quel che ha maggior peso — del più antico commercio laziale[6]. Come indizi dunque, ce ne sono molti più che non occorrano ad uno storico moderno e modernizzante, per congetturare che in un tempo, in cui le città etrusche tenevano tanta parte dell’Italia settentrionale e centrale, nonchè [10] la Campania, esse si sarebbero, fondando Roma, impadronite delle foci del Tevere, e della grande via fluviale, per cui l’Etruria centrale poteva sboccare nel Tirreno, avvicinando la parte meridionale dell’Impero etrusco, la Campania, alla parte settentrionale, l’Italia del nord. Onde se Roma, sempre secondo questa dottrina, fatta adulta e potente, rinnegò la sua discendenza, il popolo enigmatico degli Etruschi, che è sparito portando con sè nella tomba il proprio segreto, vivrebbe ancora ignorato nelle due grandi metropoli della civiltà italiana: Roma e Firenze.

Ipotesi senza dubbio attraente, sia per gli ingegnosi argomenti, con cui l’erudizione può sostenerla; sia perchè spiega come Roma abbia potuto sorgere in mezzo a genti rustiche e semplici, quale prospera città di commerci e di industrie, e sede di civiltà, per i suoi tempi cospicua. Gli Etruschi erano più atti dei Latini a fondare un florido emporio sulle rive del Tevere, verso la metà del secolo VIII a. C. Tuttavia è una congettura, che può apparir verisimile, ma che non può provarsi con un argomento decisivo, e contro la quale sta pur sempre la tradizione. Come spiegare, se Roma fu fondata e governata per più di due secoli dagli Etruschi, che sotto la repubblica essa abbia potuto latinizzarsi a segno, da dimenticare interamente la sua origine? D’altra parte è proprio necessario sconvolgere a questo modo la tradizione, per spiegare la storia della Roma dei Re? Non potè Roma, per essendo in origine colonia latina di Alba, mutarsi in città di commercio e di industria? Esaminiamo, per rispondere, la tradizione.

[11]


4. La Roma dei Re. — Come è impossibile decidere se Roma fa fondata dai Latini o dagli Etruschi, ancor più vanamente ci punge la bramosia di conoscere il nome del fondatore, che, secondo calcoli ingegnosi, in un giorno della primavera del 754 a. C., vide volare sul suo capo dodici augelli augurali, e, guidando un toro bianco e una bianca giovenca, diresse il solco, che avrebbe segnato il pomerio della città, e vi gittò la zolla primigenia, su cui tra non guari si sarebbero levate le mura della grande metropoli.

L’antica leggenda ci aveva narrato per secoli di Romolo e di Remo. Ma la dotta critica ha creduto di poter dimostrare che Romolo e Remo non sono che eroi immaginari, balzati fuori dal nome stesso di Roma; così come, forse, gli eruditi di qui a due mila anni sapranno insegnarci che Amerigo non fu che un immaginario eroe eponimo del nome di America; Colombo, della Columbia britannica; Bolivar, della Bolivia. E poichè non c’è modo di dimostrare che Romolo e Remo furono personaggi storici, non staremo a tentar di confutare queste moderne dottrine: ma cercheremo di riassumere in breve il poco che si può rintracciare, se non come certo, almeno come probabile, nelle confuse tradizioni tramandate dagli antichi. Tutti sanno che, secondo la tradizione, i Re di Roma furono sette e si chiamarono: Romolo, Numa Pompilio, Anco Marzio, Tullo Ostilio, Tarquinio I (Prisco), Servio Tullio e Tarquinio II (il Superbo). Qualunque sia il credito che si voglia o si possa dare alle molte notizie trasmesse dagli antichi su questi sovrani, è possibile ancora riconoscere [12] nelle loro storie, in mezzo a molte favole, due êre: la prima, che potrebbe chiamarsi l’êra più propriamente latina, e comprende i primi quattro Re; la seconda, che potrebbe chiamarsi l’êra più propriamente etrusca, e abbraccia gli ultimi tre. Nel primo periodo la cittadella fondata da Alba cresce rapidamente, sotto il governo di una monarchia elettiva e vitalizia, simile a quella che resse nei primi secoli Venezia; e diviene un fiorente emporio di industrie e di commerci, nel tempo stesso in cui amplia con le armi i suoi territori. Non ci pare che sia necessario, per render ragione di questa prosperità, supporre che Roma fosse addirittura fondata dagli Etruschi. La felice posizione della città che, posta sopra un fiume, presso alla foce, ma non sul mare, era facile a difendersi e acconcia al commercio; forse anche il naturale desiderio di una città nuova di crescere, servito da provvide leggi, dovettero attrarre in grande numero, alla spicciolata o a gruppi, immigranti dai popoli vicini, che la città accoglieva, facendoli facilmente entrare a far parte delle trenta curie, in cui il territorio e la cittadinanza si dividevano. E nulla vieta di supporre, anzi tutto concorre a far credere che tra questi immigrati siano stati numerosi i Sabini, e più numerosi ancora gli Etruschi, i quali nella nuova città latina portarono lo spirito del commercio e dell’industria. Sin dai tempi remoti dei primi Re, dunque, se Roma è un’operosa officina, se il viandante ode battere frequente il martello che lavora il bronzo, il rame e il ferro, o stridere rapido il tornio del vasaio; se gli artigiani si raccolgono nelle prime associazioni di mestiere; se navi [13] romane scendono intrepide al Tirreno, in Roma e nel Lazio vi sono anche molti piccoli, medi e grandi agricoltori, che coltivano e vendono entro assai più breve raggio i cereali, il vino, la lana, e che preferiscono la vita quieta e riposata della campagna alla operosità del porto di Ostia o al mercato di Roma. Sin da allora insomma incomincia il dissidio e l’antagonismo tra l’elemento mercantile e l’elemento agrario, che ritroveremo, ora più violento ora meno, in tutta la storia di Roma. Senonchè, in quei primi principî della città, esso non pare aver generato discordie troppo aspre. L’elemento etrusco e mercantile e l’elemento latino e agrario sembrano crescere ognuno a suo agio insieme con la città, senza troppo vivi conflitti, sotto il governo semplice, fermo, vigoroso, ma non arbitrario, dei Re. I poteri del Re sono ampi, ma non illimitati; e sono di tre ordini: militari, giudiziari e sacerdotali. I poteri militari sono, come è naturale, i più larghi. Il Re comanda l’esercito in guerra; può imporre al popolo i tributi necessari per condurre innanzi le varie imprese; ha diritto di vita e di morte sui soldati. Ma in pace e sui cittadini il Re ha poteri giudiziari molto ristretti: giudica soltanto i reati contro lo Stato e contro la religione, e le controversie in cui le parti liberamente lo scelgono ad arbitro. La giustizia è ancora in parte azione privata, in parte privilegio e ufficio dei capi delle famiglie, che giudicano i membri. Infine, in virtù dei poteri sacerdotali, il Re compie, in nome del popolo, tutte le cerimonie sacre, aiutato dai numerosi collegi di sacerdoti e sacerdotesse; dagli Augurî e dagli Aruspici, che interpretano dai segni naturali il [14] pensiero degli Dei circa gli atti da compiersi dal potere pubblico; dalle Vestali, addette al culto della dea Vesta, protettrice della casa e dello Stato; dai Pontefici, incaricati di sorvegliare tutto il culto; dai Feziali e dai Flámini, i primi, custodi dei principi di diritto internazionale; gli altri, incaricati del culto di talune divinità particolari.

Ma se il Re aveva ampi poteri, questi poteri non erano ereditari. Il Re era nominato dal Senato, e la sua nomina doveva essere ratificata dal popolo, radunato nelle trenta curie. Che cosa era il senato e che cosa erano le curie? Il senato era un consesso, che eleggeva nel suo seno il Re e lo assisteva del suo consiglio; nel quale sedevano, a quanto sembra, parte per diritto ereditario, e parte per scelta del Re i capi delle gentes. In Roma infatti primeggiavano un certo numero di famiglie ricche e potenti, ognuna delle quali si raccoglieva intorno un certo numero di famiglie povere — contadini, piccoli possidenti, artigiani — legandole a sè con il vincolo religioso dei sacra comuni, con il proprio nomen, che essa dava loro, insieme con la sua protezione. Queste associazioni di famiglie si chiamavano gentes. Quante fossero allora non sappiamo; ma pare che tutte le famiglie, che davano il nome ad una gens e ne erano il sostegno, entrassero, dopochè il loro capo era stato assunto nel senato, nell’ordine dei patricii; in quel piccolo numero di famiglie che si consideravano ed erano considerate da più della restante popolazione per la condizione sociale e per i privilegi: tra i quali il privilegio religioso degli auspicia, di chieder cioè a Giove i segni della sua volontà [15] secondo le regole della divinatio; e il privilegio politico di essere scelte dal Re ai principali uffici dello Stato. Sembra invece che i cittadini ricchi, i quali, pur formando una gens, non erano riusciti ad entrare in senato, appartenessero, insieme con i loro gentili e con i cittadini poveri che non facevano parte di alcuna gens, alla plebe. Le trenta curie invece erano una divisione territoriale e politica di tutti i cittadini: si radunavano nei così detti comizi curiati per ratificare l’elezione del Re, per nominare i magistrati, per approvare le leggi e per decretare la pace e la guerra; infine, per compiere taluni atti importanti della vita civile, come i testamenti e le adozioni.

Tali sembrano essere stati, nelle grandi linee, per quel che ancora se ne può sapere, gli ordini politici di Roma sotto i Re. È probabile che questi ordini non nascessero tali e quali, già adulti: ma crescessero lentamente, sebbene non si possa argomentare come e in quanto tempo e per quali vicende. Certo è invece che Roma non tardò ad ampliare con le armi il suo territorio. Il suo esercito era piccolo in origine come la città: ogni curia forniva cento fanti — una centuria — e una decuria di cavalieri: in tutto 3000 fanti e 300 cavalieri: la sola legione di cui si componeva l’esercito romano dei primi tempi; e nella quale i soldati si raccoglievano per gentes e servivano gratuitamente. Ma non è dubbio che di questo piccolo esercito Roma seppe fare un uso vigoroso sino dal principio, come se dall’ardimento etrusco e dalla tenacia latina prorompesse nella nuova città un ardito spirito di espansione, che la spinse ad ampliare [16] nel tempo stesso i suoi traffici e i suoi territori. La tradizione crede di poter seguire passo passo Romolo, Tullo Ostilio e Anco Marzio nelle guerre e conquiste con cui i primi Re di Roma, ad eccezione del pacifico Numa Pompilio, ampliarono il territorio dello Stato. Sarebbe vano voler sceverare il vero dal falso in questa tradizione e assegnare ad ogni monarca la parte delle conquiste che proprio gli spetta. Certo è che Roma combattè sin dalle sue origini molto e con fortuna; e che l’evento capitale di queste prime guerre fu la distruzione di Alba, attribuita al terzo e più guerriero dei Re. Ma, opera di questo o di altro Re, la distruzione di Alba, la città più potente del Lazio dei Prisci Latini, il centro politico e religioso, della contrada, è certamente un fatto storico e la prima grande vittoria di Roma. Distrutta Alba, deportata sul Celio e incorporata la sua popolazione nella città, assunta l’egemonia della lega religiosa e politica dei Latini, Roma cominciò a essere veramente un piccolo potentato, e potè estendere il territorio sino al mare. Vuole la tradizione che il re Anco Marzio deducesse ad Ostia, alle foci del Tevere, la prima colonia di cittadini romani, che la storia ricordi. Che sotto il quarto Re Roma già tentasse di possedere un porto sul mare aperto, alle foci del Tevere, è chiara prova, non solo del prosperoso commercio, ma della forza che la città si sentiva.


5. I Tarquinî e la prevalenza dell’elemento etrusco — Roma potenza mercantile (2ª metà del sec. VII-sec. VI a. C.). — Senonchè a questo punto la [17] storia di Roma è interrotta da un rivolgimento, che dovette esser profondo, se ha lasciato tante e così visibili tracce nelle favolose tradizioni degli antichi. Narrano costoro, che ad Anco Marzio succedè nel governo di Roma un avventuriero di Tarquinî, un ricco straniero, che avrebbe avuto nome Lucumone, e che era figliuolo di un gran mercante di Corinto discendente — vuolsi — dalla regia stirpe dei Bacchiadi, e di una nobile dama etrusca. Nelle sue vene dunque, secondo la tradizione, scorrevano commisti insieme sangue greco e sangue etrusco, sangue di mercanti e sangue di nobili. Non potendo, perchè figlio di uno straniero e di un profugo, ottenere dignità e onori in Etruria, egli avrebbe migrato a Roma e quivi, salutato novello Romolo dal favorevole augurio del cielo, sarebbe stato ricevuto ospitalmente a corte dal re Anco; e, segnalatosi così in guerra come in pace, per valore, per saggezza e per generosità sarebbe stato eletto Re alla morte di Anco. Senonchè, se sino a questo punto la tradizione concorda in Livio e in Dionigi di Alicarnasso, da questo punto in poi diverge. Tito Livio sorvola sul regno di Tarquinio, accennando appena a diverse guerre, a qualche riforma politica e a varie opere pubbliche fatte dal Re; Dionigi di Alicarnasso invece si stende in lungo e in largo a parlare sopratutto delle sue guerre, e tra queste racconta le guerre che ebbe, lunghe e accanite, con gli Etruschi, narrandoci nientemeno che alla fine le città etrusche riconobbero Tarquinio come loro Re. In altre parole, il figlio del ricco e nobile immigrato d’Etruria, salito alla suprema carica, in [18] quella città nuova e perciò più aperta delle antiche alle ambizioni degli stranieri intraprendenti, avrebbe conquistato l’Etruria e sarebbe diventato Re di Roma e dell’Etruria. Possiamo noi accettar per vera questa, tradizione?

A noi pare si possa. Essa non è inverosimile. L’Etruria può essere stata sorpresa da Roma in un momento di debolezza e di disgregazione politica. E se non è inverosimile, la tradizione ci spiega anche quel tanto che nella storia degli ultimi Re di Roma è etrusco, senza obbligarci a fare degli Etruschi addirittura i fondatori della città eterna. Conquistata l’Etruria da un Re, nelle cui vene scorreva tanto sangue etrusco e greco; portata a Roma la capitale dell’Etruria, del suo commercio e della sua industria, l’influenza etrusca prevale sulle tradizioni latine, così come, tanti secoli dopo, l’Oriente conquistato doveva a sua volta conquistar Roma. Se noi non siamo in grado di sceverare il vero dal falso nei racconti che gli storici antichi ci hanno trasmessi sugli avvenimenti occorsi nei regni di Tarquinio Prisco, di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo, noi possiamo intender chiaro nelle grandi linee il corso della storia di Roma sotto questi Re. Non ci meravigliamo più che Roma faccia numerose guerre con i Sabini, con gli Equi, con i Volsci, e allarghi il suo territorio, impadronendosi di tutta la costa tirrenica, dal Tevere a Terracina[7]. Noi ci spieghiamo la pompa e il cerimoniale etrusco, di cui questi sovrani si circondano; il grande commercio che Roma mantiene con la Sardegna, con la Corsica e con i Cartaginesi, con la Sicilia e con la Magna [19] Grecia, con l’Adriatico e con l’Oriente ellenico[8]; il grande numero degli opifices e delle corporazioni che lavorano il rame, il legno, le pelli, le ceramiche, il ferro. Noi sappiamo per quale ragione la coltura ellenica è ora in favore a Roma[9]; e la città si allarga, cosicchè Servio Tullio potè chiudere entro poderose mura, lunghe sette miglia e mezzo, parte del Celio, l’Esquilino, il Viminale, il Quirinale e il Palatino, dividendo tutto il territorio in quattro regioni. Nè ci fa meraviglia più di leggere negli antichi scrittori che i Re dotano Roma di insigni monumenti e fanno grandi lavori: le mura già ricordate di Servio Tullio, il Circo Massimo, il tempio di Giove sul Campidoglio, i ponti sul Tevere, la Cloaca massima, la bonifica della parte bassa della città, fino ad allora palude selvaggia, rotta da sterpi e boscaglie e sparsa di gruppi di tombe abbandonate, sulla quale sorgerà quel Foro romano, cui tanti illustri destini si legheranno. Noi comprendiamo infine come fuori della cinta sacra, del pomoerium, gli stranieri, provenienti dal mare, i «meteci» di Roma antica, abbiano installato i loro Dei, e verso l’interno, presso l’isola Tiberina, o in quello che si disse il Vico tusco, tra il Palatino e il Campidoglio, abbiano posta la propria sede i nuovi immigrati etruschi, e i mercanti che vengono ad esporre le loro derrate e le loro manifatture, innanzi di ripigliare il viaggio alla volta della Campania. Roma è diventata la capitale dell’Etruria!


6. La costituzione di Servio Tullio. — Ma c’è di più: noi possiamo spiegare in modo soddisfacente [20] la profonda alterazione che l’antica costituzione romana subì per opera di Servio Tullio, il quale diede allo Stato romano alcuni lineamenti rimasti indelebili per sette secoli. Il popolo aveva sino ad allora votato nei così detti comizi curiati, cioè nelle trenta curie, in cui ricchi e poveri, grandi e plebei si mescolavano; e i poveri, essendo in numero maggiore, prevalevano[10]. La tradizione racconta che Servio Tullio divise i cittadini romani in cinque classi, ascrivendoli a una di queste, via via dalla prima alla quinta, secondo che possedessero un censo, che non fosse inferiore a 100.000, a 75.000, a 25.000, a 12.500 (o, secondo altri, 11.000) assi. Ogni classe poi suddivise in centurie, facendo di ognuna di queste centurie una unità politica, militare e fiscale. Per eleggere i magistrati, per approvare le leggi e deliberare la pace o la guerra, il popolo voterebbe per centurie, in ogni centuria deliberando la maggioranza e ogni centuria contando per un voto. Allo stesso modo ogni qualvolta lo Stato avesse bisogno di soldati e di denaro, dividerebbe il contingente e l’imposta per centurie. Siccome Servio Tullio aveva divisa in 98 centurie la prima classe, in 20 la seconda, in 20 la terza e la quarta, in 30 la quinta; siccome aveva costituito, oltre queste, quattro centurie di cittadini aventi in guerra uffici particolari, che votavano con qualcuna delle classi superiori, e raccolto in una centuria quelli che non avevano il censo della quinta classe, quale dovette essere l’effetto della riforma serviana, è chiaro. Le classi ricche, essendo meno numerose e distribuite in un numero di centurie maggiori, preponderarono nella nuova assemblea [21] elettorale e legislativa detta dei comizi centuriati; ma in compenso ebbero a servire più spesso nell’esercito e a pagare di più; mentre i poveri, esclusi dalle cinque classi, furono anche esenti dalla milizia e dal tributo.

La costituzione di Servio Tullio è dunque una costituzione censitaria; o, come dicevano gli antichi, timocratica. Il principio su cui posa è il privilegio del denaro. Le curie, invece, nelle quali ogni uomo ricco o povero contava per uno, riposavano sul principio dell’eguaglianza e della maggioranza. Ma una riforma timocratica della costituzione non si addice che ad una città, nella quale la ricchezza possa più che il numero o la tradizione. Perciò parecchi storici moderni, tedeschi i più, hanno voluto trasportarla al IV sec. a. C., la Roma dei Re essendo a loro giudizio ancora troppo povera e piccola, per una costituzione di tale natura. Ma il ragionamento si può rovesciare; e, tenendo ferma la tradizione, argomentare dalla riforma la prosperità e la ricchezza di Roma in quei tempi; dire che, se Servio Tullio potè fare quella riforma, Roma doveva esser più ricca e potente che non si supponga. E questa conclusione quadra sia con quanto siamo venuti esponendo sin qui, sia con quanto sappiamo dell’estensione e della popolazione del territorio romano nei tempi posteriori[11]. Capitale dell’Etruria e ricco emporio di commercio e d’industria, dove eran numerosi gli arricchiti di fresco e i mercanti, Roma poteva sostituire al principio egualitario delle curie il principio timocratico di Servio Tullio. A che cosa mirasse Servio Tullio con questa riforma, non è [22] difficile congetturare: accrescere la potenza delle classi mercantili e industriose, a scapito della aristocrazia latina e del senato, che ne era l’organo.

Abbondano infatti nella tradizione i vestigi di una lotta tra il vecchio patriziato latino e la nuova monarchia etruschizzante. Quello cerca di conservare i suoi privilegi e di difendere il suo potere; questa si studia di rafforzarsi, accarezzando la plebe, la gente nova, i ricchi mercanti; introducendo nel senato, e quindi nell’ordine dei patrizi, quanti uomini nuovi può. Tito Livio, il quale è così conciso intorno a Tarquinio Prisco, ci racconta che questo Re accrebbe il senato di cento nuovi membri, «non per fare il bene dello Stato, ma per avere egli maggiore potenza». La storia è vecchia; e si è ripetuta cento volte. Dopochè Roma ebbe conquistato la supremazia sull’Etruria, l’equilibrio tra l’elemento etrusco e l’elemento latino si rompe; l’elemento etrusco, mercantile, danaroso, avventuroso, meno ligio alle tradizioni, domina; e mentre fa di Roma un sontuoso e ricco emporio, tenta di spodestare una antica aristocrazia tradizionalista con il braccio di una monarchia rivoluzionaria. Onde una lotta tra la tradizione e il denaro, tra l’elemento latino e l’etrusco, tra i Re e il senato, che alla fine mette capo alla catastrofe.


7. La caduta della monarchia (510? a. C.). — Note sono le favole che gli antichi raccontano intorno alla caduta della monarchia, tra le quali l’oltraggio arrecato a Lucrezia. Queste favole hanno indotto alcuni storici moderni a mettere in [23] dubbio tutto il racconto antico ed a supporre che l’autorità regia non sia stata rovesciata da una rivoluzione, ma si sia spenta a poco a poco, per esautoramento progressivo. Ma è questa una congettura che non ha fondamento alcuno nei racconti degli antichi, i quali, se contengono favole, dicono chiaro e concordi che l’autorità regia cadde per una rivolta armata del patriziato. Il che non può esser cagione di meraviglia, dopo quanto abbiamo esposto, anche se non possiamo, pur troppo, narrare come e perchè la rivoluzione scoppiasse e vincesse. Dobbiamo quindi star paghi di dire — ma questo possiamo affermarlo, senza abusare del diritto di critica — che la monarchia elettiva e vitalizia, che l’aveva governata nei primi secoli, cadde in Roma, sulla fine del VI sec. a. C., per una rivolta dell’elemento latino, guidata dal patriziato, contro l’indirizzo troppo etrusco, mercantile e assoluto degli ultimi Re[12].

La monarchia era durata, secondo la tradizione e secondo verisimiglianza, poco meno di due secoli e mezzo (dal 754 o 753 al 510 o 509), ma aveva fatto grandi cose. Non era piccola la gratitudine che Roma le doveva al suo cadere. Sotto lo scettro dei Re, la città fondata da Romolo si era ingrandita, arricchita, abbellita; aveva vinto gli Etruschi e si era allargata sul mare. Ma un odio implacabile avvolgerà tanti meriti in un’ombra sinistra, imponendosi alle generazioni come un dovere civico; sebbene, o forse perchè, appena caduta la monarchia, la fortuna della giovane città improvvisamente declina e par quasi sul punto di precipitare nel nulla.

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Note al Capitolo Primo.

1.  Sui boschi del Lazio nella seconda metà del IV sec. a. C., cfr. Theophr. H. Plant. 5, 8, 1 e 3.

2.  Cfr., fra gli altri, W. Schulze, Zu den römischen Eigennamen, in Abhandl. d. Götting. Ges. d. Wissenschaft, N. S., 5, 2; K. O. Müller, Die Etrusker, Stuttgart, 1877, I, pp. 112 sgg.; V. Gardthausen, Mastarna oder Servius Tullius?, Leipzig, 1882; K. J. Neumann, Die hellenistischen Staaten und die römischen Republik, in Weltgeschichte, Berlin, 1907, pp. 361 sgg.; W. Soltau, Anfänge d. römischen Geschichtsschreibung, Häffel, 1909, p. 145; Mythus oder literarische Erfindung in der älteren römischen Geschichte, in Preussische Jahrbücher, marzo 1914, p. 453; A. Grenier, Bologne villanovienne et etrusque, Paris, 1912, pp. 54-56 e passim; V. A. Ruiz, Le genti e la città, in Annuario della R. Università di Messina, 1913-14.

3.  Dionys. Hal., 1, 29, 2: τήν τε Ῥώμην αὐτὴν οἱ πολλοὶ τῶν συγγραφέων Τυρρηνίδα πόλιν εἴναι ὑπέλαβον.

4.  Cfr., oltre alla bibliografia della precedente n. 2, R. Delbrück, Die drei Tempel am Forum holitorium in Rom, Roma, 1903 (ed. del Kaiserlich deutschen Institut), pp. 25 sgg.; 28 sgg.; 30 sgg.

5.  Liv., 9, 36.

6.  Liv., 1, 8. — Sulle analogie tra le nundinae romane ed etrusche, cfr. Macrob., Sat., 1, 15, 13.

7.  La potenza continentale di Roma, alla fine della monarchia, è testimoniata, oltre che da Polyb., 3, 22, dall’ampiezza della lega latina, che, alla caduta della monarchia, si formerà contro Roma a salvaguardia della ricuperata indipendenza; cfr. Dionys. Hal., 5, 61. Cato, fr, 58, ed. Peter.

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8.  Cfr. E. Gabrici, Il problema delle origini italiche, in Rivista di storia antica, 1907, I, p. 94 sgg., ed il primo trattato romano-cartaginese, trascrittoci da Polibio (3, 22), stipulato nel primo anno della repubblica, di cui discorriamo nel capitolo seguente.

9.  Cic., De Rep., 2, 19, 34.

10.  Sulle curie e sui comizi curiati si è lungamente e variamente discusso dai moderni. A noi pare però che non si sia tenuto il debito conto del passo di Dionys. Hal., 4, 20, che accettiamo come del tutto veritiero. Cfr. anche Dionys. Hal., 4, 21; 7, 59; 9, 41; 11, 45.

11.  Dal rapporto stabilito da Servio tra ogni classe e il suo contingente militare, si arguisce che non sono indicati tutti gli atti alle armi di ciascuna classe. Infatti la prima classe — la meno numerosa perchè formata dei ricchissimi — dà 98 centurie, ossia 9800 uomini atti alle armi; mentre ciascuna delle altre classi, evidentemente più numerose, ne dà solo 2000 o 3000. Si può quindi, per un calcolo degli atti alle armi, pigliare come base la prima classe. Ognuna delle classi serviane può dunque dare almeno 9800 atti alle armi; il che fa per tutte le prime cinque classi, 49000 atti alle armi, dai 17 ai 60 anni. Quattro volte questa cifra, secondo il rapporto statistico consueto, darebbe tutta la popolazione delle prime cinque classi: 196.000 anime. Ma questi sono solo gli abbienti. Restano i non abbienti che, secondo il rapporto consueto, stanno ai primi come 3 a 2. Sarebbero perciò 294.000, che, aggiunti ai 196.000, dànno una popolazione complessiva di 490.000 anime, in cifra tonda un mezzo milione. Ma questo — ripetiamo — non è ancora che un minimo, perchè noi abbiamo calcolato tutte egualmente numerose le prime cinque classi, il che non doveva essere. Si può andare perciò fino a 600-700.000. Or bene, quando nel 280 a. C. il territorio di Roma si stese in tutta l’Italia centrale compresa la parte della Campania, riconquistando così l’antico impero dei Tarquini, il censimento di quell’anno dette una popolazione di 287.222 cittadini (Liv., Ep., 13) che dà un totale di oltre un milione di anime: cifre che si accordano perfettamente con quella da noi adottata pel tempo di Servio, ove si tenga conto che nel terzo secolo parte della Campania era fornita del diritto di cittadinanza romana, e che in 3 secoli la popolazione italica doveva essere cresciuta.

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12.  Cfr. in Liv., 1, 59, 9-10 il discorso, che lo storico latino mette in bocca ai congiurati del 510 o 509.

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CAPITOLO SECONDO I PRIMI PASSI DELLA REPUBBLICA

(Sec. VI-V a. C.)

8. Il primo trattato di commercio con Cartagine e la perdita dell’Etruria. — Il primo documento sicuro della storia romana che noi possediamo è un trattato di commercio: il trattato che, nel 510 o 509 a. C., l’anno primo della repubblica, Roma conchiudeva con Cartagine. Polibio ce ne ha conservato il testo (3, 22). Esso suona così:

«Ai Romani e ai loro alleati è vietato navigare al di là del Bel Promontorio (il capo Farina, cfr. Pol., 3, 23), salvo che non vi siano costretti dalla tempesta o dai nemici.... Se alcuno sarà stato costretto ad approdarvi, non gli sia lecito comperare o prendere cosa alcuna, salvo il necessario a riparare le navi e a compiere i sacrifici, e ne riparta entro cinque giorni. Coloro che si recheranno per ragioni di commercio» [si intende, a Cartagine, nell’Africa al di qua del Bel Promontorio, e in Sardegna] «non saranno tenuti ad alcuna imposta, salvo a quella dovuta al banditore o allo scrivano pubblico; e di quanto sarà venduto in loro presenza la fede pubblica [28] resterà garante al venditore, e ciò per quanto concerne le vendite fatte in Africa e fatte in Sardegna. Se poi alcun romano verrà in quella parte della Sicilia soggetta ai Cartaginesi, i suoi diritti saranno per ogni verso eguali [a quelli dei Cartaginesi]. I Cartaginesi, d’altro canto, s’impegnano a non danneggiare le città di Ardea, di Anzio, di Laurento, di Circei e di Terracina, nè alcun’altra città latina soggetta a Roma. In modo analogo, essi s’impegnano verso le città del Lazio non soggette a Roma. Se per caso prendessero alcuna città, la renderanno, senza danneggiarla, ai Romani; nè costruiranno alcuna fortezza in territorio latino»[13].

Questo trattato è stato frainteso dagli storici moderni. Eppure il suo testo parla chiaro: Roma rinuncia a navigare e a commerciare nel Mediterraneo orientale, e i Cartaginesi promettono in cambio di non far guerra e danno alcuno al territorio o alle città del Lazio, soggette o non soggette a Roma. È così vero che la monarchia fu rovesciata dall’elemento latino ed agrario, sollevatosi contro l’elemento etrusco e mercantile, che, appena fondata, la repubblica fa un passo indietro sulle vie del commercio arditamente tentate dagli ultimi monarchi e compra la pace da Cartagine, restringendo nel Mediterraneo il suo commercio. Questo è il senso, lo spirito e lo scopo del trattato. Nè è temerario congetturare che la repubblica si affrettasse a comperare a questo prezzo la pace da Cartagine, perchè si trovò subito in guerra con l’Etruria. Se, quando la monarchia fu rovesciata, il dominio romano in Etruria fosse così vasto come [29] ai tempi di Tarquinio Prisco, noi non sappiamo: certo è che la repubblica ebbe subito a sostenere una fiera guerra con gli Etruschi, sia che gli Etruschi soggetti si ribellassero, sia che gli Etruschi indipendenti approfittassero dell’occasione per liberare le città soggette, sollecitati, come vuole la tradizione, da Tarquinio. E neppure è dubbio che la repubblica fu vinta dagli Etruschi, e che Roma cadde sotto il dominio etrusco per alcuni anni. Per quanti, è difficile dire con precisione; non molti, a ogni modo, perchè al principio del V secolo Roma era riuscita, bene o male, a riacquistare la sua indipendenza.


9. Le guerre con i Volsci e con gli Equi (principio del V secolo). — Ma solo per affrontare nuovi nemici, che da ogni parte l’assaltano. Tutto il Lazio insorge, rivendicando la libertà e l’autonomia; altre barbare popolazioni circonvicine — le tribù dei Sabini, ad esempio — che la monarchia aveva tenute soggette o in rispetto, ritornano a saccheggiare i territori romani; pericolo ancor più grave, le popolazioni del Subappennino romano — i Volsci e gli Equi — si spingono nella pianura del Lazio verso occidente e la costa tirrenica da Anzio a Circei. Intorno alle guerre incessanti, che la repubblica dovè combattere contro questi popoli, e massime contro i Volsci e gli Equi, gli antichi contano molte belle favole e poco di sostanzioso. Un documento sicuro — il trattato di alleanza, conchiuso nel 493 dal console Spurio Cassio, che pose fine alla guerra con le città latine, di cui Dionigi d’Alicarnasso ci [30] ha conservato il testo[14] — ci dice che, anche con i Latini, come già con Cartagine, la repubblica pagò del suo le spese dell’accordo, poichè rinunciò alla supremazia ed al comando, riconobbe l’autonomia delle città latine e la loro confederazione, e con questa conchiuse un’alleanza difensiva a condizione di parità e di reciprocanza perfette. Quanto alle guerre contro i Volsci e gli Equi, che riempiono della loro confusa storia tutta la prima metà del V secolo, una cosa sola possiamo affermare con sicurezza: che per più di mezzo secolo Roma si tenne sulla difesa; che per difendersi fece entrare nella lega latina anche gli Ernici, che non erano certo Latini e forse erano Sabini; che in queste guerre ebbe spesso la peggio e non riuscì a impedire che il suo territorio fosse ogni tanto invaso e saccheggiato.


10. Le prime disfatte della repubblica e le loro conseguenze. — Il piccolo impero, che la monarchia aveva creato, cade dunque nei primi decenni della repubblica; e insieme decadono l’industria e il commercio. Se la repubblica, appena fondata, aveva abbandonato una parte del Mediterraneo a Cartagine, verso il 450 a. C. Roma era, si può dire, sparita dal novero degli empori di qualche importanza nel Mediterraneo. Il primo tentativo mercantile di Roma, il primo disegno di fondare sulle rive del Tevere un grande emporio, simile a Cartagine, a Corinto, a Taranto, ad Atene e a tante altre città greche, era dunque fallito. Ma questa rovina del commercio dovette impoverire la città, e questa povertà fu accresciuta dalle guerre [31] disgraziate. La preda era il pane delle guerre antiche. Il soldato romano andava alla guerra, non solo per tenere lontano dal proprio territorio il nemico, ma con la speranza di entrare nel suo territorio e di prendere quel che poteva. Fu infatti principio costante della milizia romana che il generale avesse diritto di disporre delle manubiae — metalli, bestiame, schiavi — e di spartire il bottino tra lo Stato e i soldati, ai quali una parte doveva toccare, e di solito non la minore: il che ci spiega come nei primi secoli Roma potesse imporre a tutti i cittadini delle prime cinque classi il servizio militare obbligatorio e gratuito. Ma con questo modo di intendere la guerra, se le guerre vittoriose potevano, in una certa misura, arricchire il popolo, perchè quelli almeno che non ci morivano, portavano a casa dei metalli preziosi, del bestiame, degli schiavi, le guerre disgraziate lo impoverivano, perchè in queste non solo i soldati militavano senza compenso, ma parti più o meno vaste del territorio erano o perdute o saccheggiate. Le lunghe e incerte guerre con i Volsci e con gli Equi impoverirono dunque la condizione media e la plebe, nei primi cinquanta anni della repubblica. Molti possidenti si impaniarono nei debiti, perdendo a poco a poco i beni prima e la libertà poi, giacchè le terribili leggi del tempo condannavano il debitore insolvente a servire il creditore come schiavo.


11. Patrizi e plebei — La lotta per l’eguaglianza civile e politica (prima metà del V secolo). — A giudicar dunque dai primi effetti, la caduta della [32] monarchia fu per Roma una calamità. Eppure la rivoluzione non aveva fatto subire alle istituzioni di Roma che un leggero ritocco. Il senato aveva conservato gli antichi poteri, come i comizi centuriati e, nella forma a cui la costituzione Serviana li aveva ridotti, i comizi curiati; solo l’autorità regia era stata trasferita a due magistrati, i consules, denominati in origine praetores. Eletti ogni anno dai comizi centuriati, i consoli ricevevano dai comizi curiati e dal senato l’imperium prima esercitato dai Re, e cioè il potere militare e giudiziario senza le facoltà religiose, che furono deferite a un nuovo magistrato denominato rex sacrorum; ed avevano, come i Re, per aiutanti i quaestores. Come mai da un mutamento così piccolo, aveva potuto procedere un effetto così grande? Perchè il mutamento era piccolo solo in apparenza. La monarchia, combinazione sapiente del principio elettivo e del principio vitalizio, era stata un potere vigoroso e fattivo, che aveva retto e diretto davvero lo Stato. Ma la repubblica, facendo questo potere annuale e dividendolo tra due magistrati, ognuno dei quali poteva esercitarlo separatamente, l’aveva indebolito; e quindi aveva trasferito il reggimento dello Stato non dal Re ai consoli, ma dal Re al senato, che, essendo stabile, primeggiò nel nuovo ordine di cose. Ma il senato romano era l’organo del patriziato; e il patriziato era una casta privilegiata e chiusa. Invano la monarchia aveva cercato di aprirla ad uomini e famiglie nuove; non appena, scacciati i Re, essa fu arbitra dello Stato, la casta si affrettò a rifar la serrata; non volle più accogliere [33] genti nuove, si trincerò nei suoi privilegi come in una fortezza. Questi privilegi — il divieto di connubio con i plebei, gli auspicia e il diritto di occupare tutte le cariche — erano diversi ma tutti legati tra di loro, perchè non c’era atto o cerimonia pubblica che un magistrato potesse compiere senza aver prima interrogato il cielo o gli uccelli o gli altri segni della volontà divina. Lo Stato cadde dunque in potere di una oligarchia piccola, orgogliosa ed esclusiva; tutte le famiglie povere e le famiglie arricchite nelle ultime generazioni, che non avevano sangue patrizio nelle vene, furono escluse dal governo.

Ma questa piccola oligarchia chiusa non era in grado di ben governare e di difendere la repubblica. Questo è il segreto della storia dei primi decenni della repubblica, che invano gli antichi scrittori hanno cercato di nascondere in mezzo alle leggende. Quale ne fosse il difetto capitale, se un troppo cieco attaccamento alla tradizione latina, se un soverchio spirito di casta, se lo scarso numero o l’intelligenza manchevole, o il poco favore della fortuna, noi non sappiamo. Certo è invece che questa oligarchia non seppe conservare le conquiste della monarchia; dovè acconciarsi a trattare i Latini da pari a pari; difese male e a stento Roma dagli attacchi dei Volsci e degli Equi, e forse fu più sollecita della prosperità propria che del benessere generale; onde fu presto bersagliata da una opposizione, che prese di mira tutti i suoi privilegi. Questa opposizione nasce quasi con la repubblica, e cresce rapidamente, a mano a mano che le guerre poco fortunate screditano la piccola [34] oligarchia dominante. I plebei ricchi, esclusi dal potere, fanno lega con i plebei poveri e tormentati dalla miseria; questi chiedono l’addolcimento delle leggi sui debiti e leggi agrarie, quelli protestano contro i privilegi dei patrizi; tutti lamentano la parzialità e l’incertezza delle leggi, l’arbitrio con cui l’oligarchia dominante le applica, gli abusi e le prepotenze dei magistrati patrizi non minori di quelle dei Re, reclamando con audacia crescente l’eguaglianza civile e politica dei ceti. Le armi di cui possono servirsi sono poche, in principio; ma il senato stesso, senza pensarci e senza volerlo, ne mette loro in mano qualcuna abbastanza potente. Così già nel 495 a. C. — la data è stata contestata dalla critica moderna, ma senza seri motivi — il senato aveva diviso tutto il territorio romano in 21 tribù e distribuito in quelle tutti i cittadini, in quanto proprietari di qualche bene nel distretto, incaricando ogni tribù di provvedere, in caso di guerra, al pagamento dell’imposta fondiaria e alla leva delle milizie. La riforma sembra aver avuto soltanto uno scopo amministrativo; ma par possibile congetturare che ben presto i malcontenti ne fecero un’arma di opposizione politica; che i capi delle tribù, preposti ad un ufficio così importante, divennero in breve gli organi del malcontento della maggioranza, ossia dei plebei. Così si può spiegare come qualche anno dopo — la data non è sicura nè presso gli antichi, nè presso i moderni — i patrizi dovessero consentire che nei vecchi comizi curiati, nei quali la ragione democratica del numero prevaleva, e che sembravano ormai sopravvivere a se [35] medesimi, si eleggesse ogni anno un magistrato nuovo, due tribuni plebis, che difendessero il loro ceto contro ogni sopruso dei patrizi e dei loro magistrati[15]. Fu la prima arma vigorosa di cui i plebei disposero; e non perdettero tempo per rinforzarla. Già nel 471 a. C. il numero dei tribuni è portato a quattro o a cinque e l’elezione passa dai comizi curiati ai comizi tributi, ossia all’assemblea generale delle tribù: mutamento questo di molta importanza, perchè se i nuovi comizi tributi non differiscono molto, quanto al numero e al genere dei partecipanti, dai comizi curiati, in compenso però, non essendo ancora un’assemblea elettorale o legislativa, possono radunarsi senza l’autorizzazione del senato e senza nessuna di quelle formalità liturgiche, di cui tanto i patrizi abusavano a scopo politico[16]. Nè a questi primi passi la plebe si ferma. Poco dopo i tribuni ricevono, come aiutanti, gli edili della plebe; si arrogano prima una potestà coercitiva, ius prensionis, contro chiunque — fosse anche un magistrato — avesse osato offendere o danneggiare un plebeo; poi il ius intercedendi o il privilegio, veramente regale, di sospendere con un veto qualunque atto del governo e perfino le assemblee costituzionali, qualora il popolo fosse chiamato a deliberare su proposte, che avessero potuto presumersi contrarie agli interessi plebei; poi ancora il ius agendi cum plebe, la potestà di convocare la plebe a comizio, e di discutere con questa i suoi particolari interessi e quanto nella politica generale dello Stato fosse legato a questi interessi, nonchè il diritto di presentare leggi nei comizi tributi; infine, [36] e più tardi, la facoltà di trattare con il senato su quanto toccasse gli interessi dei loro rappresentanti (ius agendi cum patribus). Prima ancora che tutti questi poteri fossero loro conferiti, nel 462 il tribuno C. Terentilio Arsa propose di affidare ad una commissione di cinque, il compito di preparare una legge, che delimitasse i poteri dei consoli, ponendo fine a quel loro impero non meno arbitrario e assoluto — a quanto diceva il tribuno — del potere regio.


12. Il decemvirato e le «Dodici tavole» (451-449 a. C.). — L’oligarchia patrizia, non avendo autorità bastevole per resistere su tutti i punti alla agitazione della plebe, indebolita come era dalle guerre disgraziate, aveva ceduto sulla questione dei poteri dei tribuni e aveva lasciato che nel cuore dello Stato sorgesse un potere legalmente incaricato di fare l’ostruzione a vantaggio dell’opposizione. Ma alla proposta di Terentilio Arsa si oppose invece con vigore, perchè, invece di accrescere il potere della plebe, limitava i poteri del patriziato. Nacque una furibonda contesa che, interrotta ogni tanto dalle incursioni dei Volsci e degli Equi, inasprita da violenze e da processi, durò dieci anni.

Alla fine si addivenne a una transazione. Tre ambasciatori, Spurio Postumio Albino, A. Manlio, P. Sulpicio Camerino furono, se vogliamo credere a Livio, mandati in Grecia a studiare le leggi di quel paese; e quando costoro furon tornati, i tribuni proposero che per l’anno prossimo tutte le magistrature patrizie e quelle plebee, nonchè [37] i rispettivi corpi politici — consoli, questori, tribuni, assemblee curiate, centuriate e tribute — fossero sospese; e in loro vece fosse creata una nuova magistratura, il decemvirato: dieci magistrati che al tempo istesso governerebbero lo Stato e redigerebbero una costituzione, nella quale fossero incluse quelle disposizioni capitali di diritto civile e penale, che, negli Stati primitivi, sono ancora parte del diritto pubblico. Questa nuova costituzione doveva valere per i patrizi e per i plebei; i magistrati incaricati di compilarla potevano dunque essere patrizi o plebei.

La legge fu, dopo qualche contrasto, approvata. Ma eletti furono solo dieci patrizi, i quali in un solo anno (451) condussero a compimento l’opera ponderosa. Alla fine del 451, ben dieci tavole di leggi rendevano testimonianza del lavoro compiuto. La storiografia tradizionale, vergata quasi esclusivamente da penne patrizie, celebrerà più tardi con i più alti elogi la moderazione e la saggezza di quei primi legislatori. Ma ben diverso sembra essere stato il giudizio dei plebei e dei patrizi sulla nuova costituzione, appena fu pubblicata. E non è impossibile, pur in mezzo alle incerte notizie della tradizione storica, intravedere il motivo di tanto malcontento. Non è dubbio che i decemviri avevano cercato un compromesso tra il privilegio patrizio e l’eguaglianza che stava a cuore alla plebe. Il compilare quelle leggi con chiarezza e il pubblicarle erano già due grandi concessioni alla plebe, due grandi limitazioni dell’onnipotenza patrizia. Senonchè è naturale che i patrizi, per bilanciare queste concessioni, abbiano cercato di conservare [38] quanti più privilegi potessero. Inoltre, istituendosi il decemvirato, si erano aboliti anche i tribuni plebei e i comizi tributi; e il compenso dovesse apparir magro; tanto è vero che in quel primo anno i decemviri erano stati tutti patrizi.

I plebei dunque si dolsero di aver perduto i loro magistrati senza avere ottenuto quanto era loro diritto; i patrizi a loro volta accusarono la nuova costituzione di aver troppo largheggiato con i plebei a loro danno. Anche questo compromesso scontentava tutti; e peggio fu l’anno seguente, quando i plebei riuscirono a far eleggere decemviri tre candidati plebei. Una parte del patriziato, la più avveduta, non vide di mal’occhio questa vittoria della plebe; anzi lo stesso Appio Claudio, il più autorevole dei decemviri, la favorì, sperando placasse il risentimento per tante altre aspirazioni insoddisfatte: ma accanto ai pochi savi c’erano, anche nel patriziato, gli arrabbiati, e questi vollero subito un compenso. Nel secondo anno del decemvirato due nuove tavole sancirono solennemente il divieto dei matrimoni tra patrizi e plebei. Esasperati da questa politica della bilancia, i due partiti furono concordi almeno nel detestare egualmente e voler morto il decemvirato; il che ci spiega come la tradizione, raccolta da T. Livio, abbia potuto raccontare che dal primo anno al secondo il decemvirato si sarebbe ad un tratto mutato in una illegale tirannide. Abolita ogni guarentigia; la capricciosa volontà dei decemviri, sola legge; patrizi e plebei, compagni ormai di sventura e vittime della stessa violenza; alla fine dell’anno prolungati arbitrariamente, dagli stessi decemviri, i propri [39] poteri. Non il decemvirato era mutato, ma il sentimento di tutti i partiti, che, dopo aver troppo sperato, avevano ad un tratto disperato della nuova costituzione. Nè il decemvirato potè resistere a lungo alla coalizione degli interessi lesi, ai sospetti dei patrizi e dei plebei, allo spirito di tradizione così forte. Qualche errore (il noto episodio di Virginia, non è forse tutto romanzo, come romanzo non è l’episodio iniziale dei Vespri siciliani) e una sconfitta diedero al suo vacillante potere le ultime spinte, quelle che lo fecero cadere. Sui primi del 449 Sabini ed Equi invadevano ancora una volta il territorio romano. Otto decemviri presero il comando degli eserciti romani. Solo Appio Claudio, la colonna del minacciato governo, rimase con un collega plebeo in Roma, dove il pericolo era maggiore. Ma quei duci improvvisati furono sconfitti; l’esercito si ribellò; e, sotto il comando degli ufficiali minori, marciò su Roma, dove l’antica costituzione fu ristabilita. Così il decemvirato spariva, lasciando, come la monarchia, una rinomanza non buona ed un’opera insigne: la legge civile e penale, che aveva cancellato tante antiquate differenze tra i ceti sociali e che sarebbe stata per secoli il fondamento di tutto l’ordine giuridico e, in parte anche, dell’ordine politico.


13. I «Tribuni militares consulari potestate». — Il secondo cinquantennio del V secolo è migliore del primo per le vicende esterne. Roma respira. I Volsci e gli Equi l’assalgono più di rado e più mollemente: segno che le forze crescono a Roma [40] e che scemano ai suoi nemici. Roma però si tiene ancora sulla difesa. Si riaccende invece, cinque anni dopo che il decemvirato è caduto, la grande contesa dell’eguaglianza politica e civile. Nel 444 il tribuno della plebe C. Canuleio propone di abrogare la legge delle Dodici tavole, che interdiceva il connubio di patrizi e plebei; e i suoi nove colleghi propongono di riconoscere console chi il popolo elegga, patrizio o plebeo. La cittadella dei privilegi patrizi era assalita nel tempo stesso da due parti, nella famiglia e nello Stato. La resistenza fu quindi ardente e tenace, non eguale però sui due punti, per quanto tra i privilegi familiari e i privilegi politici del patriziato, ci fosse un nesso: gli auspicia. Ma, come tutte le caste chiuse, il patriziato romano si assottigliava e impoveriva, mentre la plebe si rafforzava di nuove famiglie arricchite di fresco; perciò la legge Canuleia, se feriva l’orgoglio della casta patrizia, poteva rinsanguarla di nuove intelligenze e di nuove ricchezze. Se non fu facile, non fu neppur troppo difficile a Canuleio di spuntarla, tanto più che i patrizi speravano, contentando la plebe su questo punto, di indurla a rinunciare all’altra domanda. Ma si ingannarono: incoraggiati dalla fortuna di Canuleio, gli altri nove tribuni mantennero la proposta; a loro volta i patrizi si opposero disperatamente. Si fece pace alla fine con una transazione. Fu proposto e approvato che, negli anni in cui il senato lo credesse opportuno, fossero eletti, non più due consoli, ma tre tribuni militares consulari potestate, i quali sarebbero scelti dal popolo liberamente, tra i patrizi o tra i plebei. Il senso di [41] questa singolare transazione non è chiarissimo. Considerando che il tribunus militum era il comandante militare subordinato al console, si può attribuire ai patrizi l’intenzione di salvare almeno formalmente il proprio privilegio, concedendo ai plebei una specie di consolato mutilo e monco. Certo è invece che la transazione gettò non cenere, ma olio sul fuoco. A tutte le altre discordie si aggiunse una nuova ragione di continui litigi: il decidere ogni anno se si dovessero eleggere dei consoli o dei tribuni militari. I plebei volevano i tribuni; i patrizi, i consoli. La transazione insomma indebolì ancora più la suprema autorità dello Stato, che la repubblica aveva già tanto indebolita; cosicchè fu forza usare ed abusare di quella che era l’ultima ratio della costituzione romana: la dittatura. Sospesa la costituzione, i consoli nominavano, approvante il senato, e per non più di sei mesi, un dittatore: un magistrato, come sembra, di origine forestiera, osca od etrusca, munito di pieni poteri, nel quale era ricostituita per breve tempo l’unità e l’autorità del potere regio. Destreggiandosi con mosse avvedute, facendo uso accortamente delle armi che forniva la costituzione, prevalendosi della maggiore esperienza politica, che è frutto del lungo governare, negli estremi frangenti nominando un dittatore, i patrizi riuscirono ad impedire per quaranta anni e più che neppur un plebeo fosse eletto tribuno militare, e riuscirono anche a togliere una parte dei suoi poteri al vacillante consolato, per il giorno in cui cadesse in potere dei plebei. Poichè i consoli erano troppo occupati nelle guerre, i patrizi proposero, e fecero approvare nel [42] 443 a. C., che si nominasse la nuova magistratura dei censori — ai quali furono passati molti carichi e uffici dei consoli, tra i più gravi: il censimento della cittadinanza, la compilazione del ruolo dei senatori, l’amministrazione delle rendite ordinarie dello Stato, i pubblici appalti, la sorveglianza dei costumi di tutti i cittadini — patrizi e plebei. Potere formidabile, perchè armato di inappellabili sanzioni.

La tenace resistenza patrizia spiega come, nell’ultimo quarto del secolo, i plebei non tentino più di scalare d’assalto la rocca del potere, il consolato; ma cerchino di prenderla con una specie di lungo e paziente assedio, conquistando ad una ad una le magistrature minori, come i forti esterni che la difendevano. Nel 421 la plebe ottiene che il numero dei questori sia portato a quattro e che anche i plebei possano essere eletti a questa magistratura; nel 409 conquista per la prima volta la maggioranza nel collegio questorio. È vero che i questori non sono più, come nei primi lustri della repubblica, magistrati criminali; ma dei cassieri o pagatori, ai quali è commesso di custodire il tesoro pubblico e di sorvegliarne le entrate e le uscite. Tuttavia, con questa riforma della costituzione, il primo passo, che è sempre il più difficile, era fatto; tanto è vero che poco dopo alla plebe riuscì di raddoppiare il numero dei tribuni militari e di ottenere che dei sei tribuni una parte dovesse essere plebea.

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Note al Capitolo Secondo.

13.  La cronologia del trattato è definita dai nomi dei consoli (L. Giunio Bruto e M. Orazio) dell’anno, che Polibio lesse nel trattato medesimo, e non v’è un solo argomento che possa far dubitare della sua autenticità. Questo documento s’ingrana perfettamente nella storia primitiva di Cartagine e di Roma repubblicana. Polibio inoltre lo cita per visione diretta del testo originale che dovette faticosamente interpretare; ed in questa esposizione dei rapporti diplomatici romano-cartaginese, egli è troppo preciso e circostanziato, perchè si abbia a dubitare di errore alcuno. Tuttavia i critici tedeschi contemporanei, e al loro seguito taluno dei più recenti studiosi italiani di storia antica hanno dubitato del documento e della sua cronologia; altro esempio di quella mania di revocare in dubbio, a furia di argomentazioni logiche, i fatti meglio accertati, che è propria di tanta parte nella critica storica tedesca o tedeschizzante dell’Europa contemporanea. Cfr. le assennate osservazioni di A. Pirro, Il primo trattato fra Roma e Cartagine (in Annali della R. Scuola normale superiore di Pisa, 1892).

14.  Dionys. Hal., 6, 95.

15.  Che l’elezione dei tribuni della plebe spettasse in origine ai comizi curiati è esplicitamente e indubbiamente affermato da Cic., Pro Corn., fr. 24, ed.; Dionys. Hal., 6, 89; 9, 41.

16.  Cfr. Dionys. Hal., 9, 41.

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CAPITOLO TERZO LA DISTRUZIONE DI VEIO E L’INCENDIO DI ROMA

(fine del V sec.-367 a. C.)

14. La guerra contro Veio. — A questo punto, sul finire del V secolo, e quasi all’improvviso, la repubblica, che dalla sua fondazione si è tenuta sulla difesa, passa all’attacco. Per quali ragioni? E perchè assale Veio?

Non è dubbio che un secolo di guerre continue contro i Volsci e gli Equi, quasi tutte combattute per difendersi e perciò senza frutto, avevano stancato il popolo romano. Non si potrebbe, se no, spiegare come in questi tempi i tribuni della plebe osassero così spesso fare opposizione al senato, incitando la plebe a rifiutare il servizio militare; e come accusassero così spesso e volentieri i patrizi di andar attaccando briga con tutti i vicini, per logorare con le guerre la plebe e dominare sicuri, mentre vera guerra da combattere non era che tra patrizi e plebei. Queste accuse e questi lamenti dicono chiaro che questi cittadini, obbligati a servire gratuitamente, erano stanchi di combattere [46] sempre in guerre di difesa, nelle quali tutt’al più si riusciva, quando le cose andavano bene, a non perdere il proprio. Il senato doveva dunque tentare, appena potesse, una di quelle lucrose guerre di conquista, che per gli antichi erano, ancor più che la difesa, la giustificazione vera dei carichi militari, imposti a tutti i cittadini. Ma se è facile rendersi conto del motivo che spinse il senato all’impresa, è possibile spiegare per quale ragione il senato posò gli occhi su Veio?

Roma e Veio avevano già parecchie volte incrociato le spade. Le prime ostilità tra Veienti e Romani risalgono, secondo una tradizione non scevra di verisimiglianza, alla monarchia. Romolo avrebbe strappato ai Veientani le saline poste alle foci del Tevere e una parte del territorio trasteverino, là dove pose sua stanza una delle più arcaiche genti romane, i Romili; Anco Marzio, la Selva Arsia, ricca di buon legname per navi. Fece in seguito Veio parte dell’impero etrusco, a cui Roma presiedè sotto Tarquinio Prisco e i suoi successori? È probabile. Certo è che, caduta la monarchia, Veio partecipò, e con proprio vantaggio, alle guerre dell’Etruria contro Roma; che dal 474, per circa quaranta anni, regnò tra le due città una pace, che sembra essere stata imposta da Veio; e che questa pace fu rotta di nuovo tra il 437 e il 425, quando nacque guerra tra Fidene e Roma e Veio corse ad aiutare Fidene. Fidene era, dopo Roma, la città più importante edificata sulla riva sinistra del Tevere; aiutando Fidene, Veio volle disputare a Roma il dominio totale del basso Tevere: ma i Romani avendo vinto e, Fidene essendo stata distrutta, [47] la pace fu di nuovo conchiusa nel 425 con una tregua di 20 anni, ma questa volta a danno e a spese di Veio, che ormai, distrutta Fidene, venne a dipendere, per la navigazione del Tevere, da Roma. Se un popolo, che va in cerca di conquiste e di gloria, facilmente volge le sue mire verso un avversario già vinto, le ambizioni e le cupidige di Roma furono, allo scadere della tregua, incoraggiate ai danni di Veio dal precipitare della potenza etrusca. Già minacciata a mezzogiorno dalle fiorenti colonie greche della Sicilia, dell’Italia meridionale, e dalle irruzioni dei Sanniti in Campania, la potenza etrusca era da qualche decennio minacciata nell’Italia settentrionale da una invasione di popoli barbari, per quanto affini, per lingua e per origine, a molte parti degli antichi abitatori dell’Italia: i Celti o Galli che, venuti dal nord, occupavano sullo scorcio del secolo V una vasta parte dell’Italia settentrionale, e avevano ridotto di molto il dominio degli Etruschi, dei Veneti, degli Umbri. In quel momento dunque Veio, se Roma l’assalisse, non avrebbe potuto sperare aiuto dalle altre città etrusche.

È pure probabile non fosse estraneo all’impresa il proposito di riconquistare una parte di quell’Etruria, che già aveva appartenuto a Roma, e che l’oligarchia patrizia aveva perduta. Ma uno dei motivi più forti, se non il più forte addirittura, fu di sicuro la ricchezza dell’agro veientano. Le grandi famiglie dell’ordine senatorio e le ricche famiglie plebee avevano conservato sino ad allora il privilegio di prendere in affitto la maggior parte delle terre dello Stato: e non tanto [48] forse per un’altra prepotenza a danno degli umili, quanto per una ragione di ordine economico. I demani della repubblica, fossero boschi o terre coltivabili, si componevano di vasti possessi, posti lontano dalla città, che non potevano essere sfruttati se non da famiglie provviste di mezzi ed in grado di aspettare a lungo i frutti dei capitali investiti. Del resto, solo con questi affitti, l’aristocrazia partecipava ai guadagni delle guerre vittoriose, perchè della preda mobile, come abbiam visto, la parte che non era distribuita ai soldati, era versata all’erario. Il privilegio poteva sembrare, sino a un certo punto, giustificato da ragioni di equità. Se Roma dunque riuscisse a prendere e a distruggere Veio, a catturare e a vendere schiavi la maggior parte dei suoi abitanti, tutto l’agro veientano passerebbe alla repubblica e potrebbe essere affittato alle ricche famiglie patrizie e plebee, che lo avrebbero coltivato con grande profitto per mezzo di schiavi.

Certo è, ad ogni modo, che l’impresa fu con molta prudenza preparata da una riforma, la quale fece obbligo allo Stato di corrispondere un soldo ad ogni cittadino sotto le armi. La guerra contro Veio poteva essere lunga; quante occasioni si sarebbero offerte ai tribuni per disturbare o intralciare l’impresa! Non promettendo alla plebe soltanto una ricca preda, ma assicurandole subito un guadagno sicuro, si poteva sperare di spuntare in mano ai tribuni una delle armi più pericolose di opposizione. I tribuni infatti oppugnarono accanitamente la riforma. Ma il senato aveva questa volta capito nel tempo stesso il desiderio del [49] popolo e le necessità dello Stato. La legge fu approvata; e per essa l’impresa di Veio potè essere felicemente compiuta. Sarebbe inutile discutere, se l’assedio di Veio durò proprio un intero decennio, come vogliono gli antichi scrittori, o se il numero degli anni che durò fu arrotondato per dare all’assedio di Veio una certa simiglianza con l’assedio di Troia. Ma l’assedio fu lungo, di questo non si può dubitare; e non ostante l’istituzione del soldo, mise a durissima prova la pazienza dei Romani, che dovettero passare nelle trincee parecchi inverni, mentre, a Roma, i capi dell’opposizione plebea cercavano di approfittare del malcontento popolare contro l’impresa. Fu dunque necessaria nel senato una grande fermezza. Un dittatore, M. Furio Camillo, riuscì finalmente a prendere la città, la distrusse, vendè la popolazione, annettè il territorio, e divise tutta la preda mobile tra i soldati e la plebe: la preda più ingente che Roma avesse conquistata, dalla caduta della monarchia.


15. L’invasione gallica e l’incendio di Roma (390?). — La vittoria era stata faticosa, ma grande. La repubblica incominciava a riconquistare il perduto. Anche lo stato interno della repubblica se ne risentì. Dopo l’assedio di Veio, si intravede una scissione nel partito della plebe; perchè i ricchi plebei — o almeno una parte — se ne distaccano e si accostano, dimenticati gli antichi dissensi, ai patrizi. Effetto del nuovo prestigio, che al patriziato aveva conferito la vittoria, o della agitazione che scoppiò tra la plebe a proposito dell’agro veientano? Forse le due cause concorsero [50] insieme. La plebe questa volta non volle riconoscere quella spartizione tra ricchi e poveri del bottino e delle terre, che era entrata nelle tradizioni; e, dopo aver ricevuto le spoglie della guerra, incominciò a chiedere che una parte della popolazione di Roma fosse trasportata a Veio e ricevesse le terre e le case dei Veientani. Questa richiesta non piacque punto ai patrizi e a molti ricchi plebei; nacque una lotta furibonda; e il senato non riuscì a far respingere la legge che ordinava quel trasporto, se non cedendo alla plebe una parte dell’agro veientano e assegnando sette iugeri a testa. Insomma, subito dopo la conquista di Veio, nasce dalla vittoria una nuova cagione di discordia; e chi sa quante mutazioni e rivolgimenti questa nuova discordia avrebbe generato, se, dieci anni all’incirca dopo aver distrutto Veio, Roma non avesse subìto la stessa sorte.

I Galli avevano, senza volerlo, aiutato Roma a conquistar Veio, indebolendo la potenza etrusca nell’Italia settentrionale e nell’Italia centrale. Ma la necessità, che incalza di sede in sede i barbari, spingeva di continuo numerose e bellicose colonne a cercare più lungi terre e bottino. Nel 390, secondo gli uni, nell’inverno dal 388 al 387 secondo altri, nell’inverno del 387-386 secondo una terza opinione[17], parecchie migliaia di Galli della tribù dei Senoni — una delle tribù più meridionali, che aveva stanza sull’Adriatico, nella parte costiera delle odierne Marche — oltrepassato l’Appennino, scendevano impetuose verso il sud-ovest, saccheggiando le terre etrusche; si spingevano, quasi senza incontrare resistenza, al di là del lago [51] Trasimeno, sino alla splendida e potente città etrusca di Chiusi; indugiavano un poco attorno a Chiusi; ma, non essendo capaci di assediare città fortificate, e dopo aver devastato il territorio circostante, proseguivano alla volta del Lazio, mirando forse alla ricca e fertile Campania. A ogni modo essi dovevano attraversare il territorio romano. A giudicare da quel po’ che sappiamo intorno ai Galli e alle loro orde, non avrebbe dovuto essere impresa troppo difficile per Roma e per i suoi alleati, ricacciare l’invasione alla sorgente o disperderla. Che cosa accadde invece? Il punto non è chiaro. Par che Roma, giudicando il pericolo o meno grave o più lontano che non fosse, si lasciasse sorprendere alla sprovvista. Fatto sta che alla battaglia dell’Allia, piccolo affluente del Tevere, un esercito romano, che Livio chiama tumultuarius, fu interamente disfatto; e che tutta la popolazione, alla notizia della sconfitta, sgombrò Roma precipitosamente, lasciando solo un manipolo di giovani animosi nella rocca Capitolina, sotto il comando di un valoroso patrizio, M. Manlio. I Galli poterono entrar nella città senza colpo ferire, saccheggiarla e incendiarla, mentre la repubblica fuggiasca tentava di organizzare un nuovo esercito per riconquistarla. Ma come a Chiusi, i Galli invano assediarono e tentarono di prendere la rocca, difesa da Manlio: l’assedio si protrasse; la carestia non tardò a tormentare l’imprevidente orda barbara; sopraggiunse l’estate e, con i calori, la febbre. L’acropoli resistendo e crescendo il pericolo di essere attaccati alle spalle dal nuovo esercito, che la repubblica preparava, i [52] Galli s’indussero alla fine a venire a patti. Un mucchio d’oro pagò lo sgombro del territorio e la volontaria ritirata.


16. La ricostruzione di Roma. — Il male era stato minore della paura; Roma era stata non distrutta da un nemico implacabile, ma malmenata da una scorreria di barbari predatori. Ma era pur stata presa, incendiata e riscattata a prezzo d’oro! Lo spirito pubblico fu sbigottito a tal segno, che quando, fra le rovine ancora fumanti, l’assemblea centuriata si radunò per deliberare la ricostruzione della città, i tribuni della plebe proposero di abbandonare Roma e di riedificarla sulle rovine di Veio. Già molti Romani, fuggiti da Roma all’avanzarsi dei Galli si erano rifugiati a Veio, nelle case ancora abitabili dopo dieci anni di abbandono; non era consiglio migliore restarci per sempre e far sorgere dalle ceneri della grande città in rovina, un nuovo Stato in cui vinti e vincitori, patrizi e plebei, potessero finalmente unirsi davvero, sotto nuove leggi e istituzioni, sfuggendo per sempre alla stretta dei privilegi e delle tradizioni che soffocavano Roma? La proposta piacque, massime alla plebe, profondamente percossa e turbata nell’animo dalla grande rovina. Si oppose il patriziato, campione ostinato della tradizione; e la lotta fu viva. La tradizione vinse; Roma fu riedificata, prendendo il materiale che mancava a Veio, là dove, pochi mesi prima, quando, all’avvicinarsi dei Galli, i simulacri degli Dei erano stati portati a Veio, si diceva che la Giovinezza e il Dio Termine avessero chiaramente manifestato la [53] ferma volontà di restare; là dove da tempo immemorabile aveva bruciato e brillato il fuoco di Vesta, ed erano caduti dal cielo gli scudi sacri; là dove infine si favoleggiava che poco prima fosse stato rinvenuto, misteriosamente sepolto, un cranio d’uomo, segno, a detta degli indovini, che quel luogo era destinato a diventare il cuore e il cervello del mondo. Ma quanto diversa dalla Roma dei Re! Per far presto, si abborracciò la nuova città senza alcun piano o disegno prestabilito; le nuove casupole, creature della fretta, della miseria e del malvolere, sorsero disordinate e ineguali; alle strade, larghe e diritte, tracciate dai Re, furono sostituite viuzze anguste e tortuose, che sconceranno per secoli la metropoli dell’impero.


17. Conseguenze della invasione gallica. — E in questa città riedificata in fretta ridivamparono le lotte civili, esasperate dalla miseria. Non ostante tutte le facilitazioni e gli aiuti del pubblico erario e dei ricchi, la plebe impoverisce di nuovo, come nei primi tempi della repubblica. Alla rovina della città e alla devastazione delle campagne si aggiunsero alcune guerre; chè pronti gli Equi, i Volsci, gli Etruschi e alcuni alleati latini, cercarono di approfittare delle calamità da cui Roma era oppressa. Di nuovo il Lazio si coprì d’ipoteche; di nuovo la maggior parte della popolazione cadde nei debiti e pericolò nei beni e nella libertà; di nuovo la miseria gemè e tumultuò entro le mura della città, ora implorando, ora esigendo con le minacce riduzioni dei debiti e leggi agrarie. Ma la plebe non è più assistita da quegli uomini che [54] con tanto vigore hanno lottato negli anni precedenti alla guerra di Veio. I tribuni sono muti o fiochi; i patrizi riescono facilmente ad escludere i plebei dal tribunato militare; fanno i sordi a tutte le richieste del popolo e si affrettano solo a recuperare i frutti della vittoria su Veio, incorporando nel territorio dello Stato i territori conquistati nell’Etruria meridionale, in cui era tanta ricchezza di terre da affittare. Così nel 387 furono istituite nei nuovi territori quattro nuove tribù: la Stellatina, la Tromentina, la Sabatina, l’Arniensis.


18. L’agitazione di M. Manlio Capitolino (385-384 a. C.). — Non si può spiegare questo universale abbandono della plebe, se non ammettendo che la scissione, incominciata dopo l’assedio di Veio, sia andata crescendo; e che i plebei ricchi, spaventati da quel che chiedevano i plebei poveri, abbiano fatto, per interesse, causa comune con i patrizi. Certo è che la plebe non trovò in questi anni altro protettore che un generoso e glorioso patrizio; quel M. Manlio che aveva difeso con tanto valore il Campidoglio ed era detto perciò Capitolino. Di questa singolare figura solo qualche lineamento si scorge a fatica nella tradizione, troppo ritoccata dagli odi patrizi. Ma non è dubbio che in tempi, in cui i ricchi, patrizi e plebei, si stringevano in una lega contro la miseria e le sue collere, questo patrizio, fosse spinto o da ambizione, come dicono gli antichi scrittori, o da un sentimento sincero di equità e di zelo civico, si mise a capo, nel 385, di una agitazione popolare che chiedeva [55] pei poveri terre e addolcimenti alla legge dei debiti. Grande fu il favore che il popolarissimo difensore del Campidoglio acquistò presso la moltitudine; ma non minore l’astio, di cui lo perseguitarono i capi delle due parti, quella patrizia e quella plebea. I tribuni della plebe non sono meno avversi dei tribuni militari a questo patrizio, che non chiede più l’eguaglianza politica, ma soccorsi e sollievi per i poveri, di cui tutti i ricchi — patrizi e plebei — avrebbero dovuto fare le spese. La lotta fu dunque, per due anni, piena di violenze e di insidie. Riuscì alla fine ai ricchi patrizi e plebei di liberarsi di Manlio accusandolo di aspirare al regno. Manlio fu condannato a morte, con un processo probabilmente altrettanto iniquo quanto illegale[18]: ma non cessò l’agitazione, perchè la miseria non cessava, anzi era accresciuta dalle guerre frequenti. Molti tra i soci latini tentarono di riacquistare la libertà. Si dedusse qualche colonia: a Sutrium (383), a Setia (382), e a Nepi (381)[19]. Inutilmente: chè il rimedio era piccolo a paragone del male. Esasperato il popolo minuto accusò apertamente i patrizi di inventare una rivolta di alleati o una guerra, appena a Roma si incominciava a ragionare di debiti o di leggi agrarie, per portar via da Roma la plebe valida.

Di nuovo l’ostinazione dei patrizi metteva a repentaglio lo Stato, già tanto indebolito dalla guerra gallica. Per fortuna, il male e il pericolo crescendo, a poco a poco l’antico partito della plebe si scosse dal suo torpore; e cautamente, sotto l’usbergo della sacrosanta potestà tribunizia, ripigliò [56] l’opera di Manlio. Nel 380 i tribuni della plebe impediscono con il veto che si facciano le leve per una guerra nata allora allora contro Preneste e che nessun debitore sia tratto in schiavitù per debiti. Nel 378 di nuovo i tribuni della plebe vietano che si facciano leve per respingere una incursione di Volsci; e questa volta il patriziato cede. Si approvò una legge che vietava, sinchè durasse la guerra, di esigere il tributo e di intentare azioni per rimborso di crediti. Ma, terminata la guerra, la legge antica riprese il suo imperio, e la plebe ricominciò a gemere e ad imprecare. Non pareva esserci scampo da quella inestricabile difficoltà. I blandi e saltuari espedienti a cui il partito della plebe ricorreva per guarire il male dei debiti erano inefficaci; non si poteva proporre rimedi radicali, perchè il partito dei patrizi spadroneggiava nel senato e nei comizi, e spadroneggiava perchè i plebei ricchi non volevano aiutare la plebe a scalzar con queste leggi le fondamenta giuridiche della proprietà. Come uscire dal labirinto?


19. Le leggi Licinie-Sestie (377-367 a. C.). — I due tribuni della plebe dell’anno 377, C. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano, trovarono il filo. Ambedue appartenevano a quella aristocrazia di ricchi plebei, che, se avversava con i patrizi le leggi richieste dalla plebe, avversava pure con la plebe i privilegi politici del patriziato. Infatti, nel 377, essi proposero una legge sui debiti, una legge agraria e una legge che ammettesse i plebei al consolato. La legge sui [57] debiti disponeva in favore dei debitori, come forse due secoli e mezzo prima in Atene, la non meno famosa e discussa seisachteia del saggio arconte Solone, che dall’ammontare totale del debito fosse dedotta la somma già pagata per gli interessi, e che il rimanente fosse pagato a rate in tre anni. La legge agraria disponeva che nessun patrizio potesse possedere più di 500 iugeri di agro pubblico e che il resto dovesse essere equamente distribuito tra il proletariato plebeo. Infine la legge sul consolato aboliva i tribuni militari, ristabiliva il consolato, ma disponeva che uno dei consoli dovesse esser plebeo.

Intorno a queste leggi molto hanno scritto i critici moderni, per dimostrare che la tradizione mentisce, e che la legge agraria sarebbe posteriore di molti anni, forse di qualche secolo[20]. Ma senza alcun argomento decisivo; e riuscendo solo, con queste divagazioni, ad oscurare la tradizione che, così come è, ci rende chiara ragione degli scopi e degli atti dei due tribuni. Non è dubbio che costoro volevano di nuovo unire tutti i plebei, ricchi e poveri, divisi dall’incendio di Roma in poi, contro i patrizi, portando sollievo alla miseria del popolino con le leggi sulle terre e sui debiti e soddisfacendo un’antica aspirazione dei ricchi plebei con la legge del consolato. Il consolato doveva compensare a costoro il danno delle altre due leggi. La mossa era abile, ma non riuscì facilmente; perchè anche allora non tutti erano disposti a pagare a peso d’oro l’incremento, non già della potenza propria, ma di quella del proprio [58] ceto. Non è meraviglia che la lotta abbia durato molti anni — dieci, secondo la tradizione; — e che in questi anni da una parte e dall’altra si sia adoperata senza scrupolo l’arma dell’ostruzione legale. I patrizi a più riprese trovarono tribuni della plebe che opposero il veto quando i loro colleghi si accingevano a far votare queste leggi: chiarissima prova che l’opposizione dei ricchi plebei non era stata disarmata interamente. A loro volta i due autori delle leggi, rieletti tribuni ogni anno, risposero sospendendo le funzioni vitali dello Stato, sinchè riuscirono a vincere l’impegno, e a far approvare le tre leggi. Nel 367 la plebe riceveva il sollievo delle due leggi sugli affitti e sui debiti; e il consolato, la suprema carica della repubblica, cessava di essere un privilegio patrizio. A compenso fu stabilito che oltre i due consoli, sarebbe eletto, ogni anno, ma solo tra i patrizi, un praetor, qui ius in urbe diceret, un magistrato cioè per amministrare la giustizia, e che pure tra i patrizi si eleggerebbero due aediles curules.

Note al Capitolo Terzo.

17.  La cronologia del 390 è quella della tradizione romana; l’altra del 387-86 è data da Polibio, I, 6 e da Diod., 14, 110 sg. V’è tuttavia una terza cronologia, secondo cui quell’invasione sarebbe seguìta un anno prima, nel 388-87; cfr. Dionys. Hal., I, 74.

18.  Su M. Manlio Capitolino, cfr. C. Barbagallo, Critica e storia tradizionale a proposito della sedizione e del processo di M. Manlio Capitolino, in Rivista di filologia classica, 1912, fasc. 2-3.

[59]

19.  Sulla cronologia di queste tre colonie, cfr. Vell. Pat., I, 14.

20.  Una legge agraria Licinio-Sestia fu negata radicalmente da B. Niese, Die sogenannte licinisch-sextische Ackergesetz, in Hermes (1888), pp. 416 sgg., la cui opinione è stata seguìta dalla massima parte degli studiosi contemporanei. Una revisione critica di quella teoria è cominciata solo da poco; cfr. W. Sinajsky, Studien zur römischen Agrar- und Rechtsgesckichte, Dorpat, 1908, I, p. V e §§ 29-30 (in russo con introduzione e riassunto in tedesco); C. Barbagallo, op. cit., pp. 233 sgg.; G. Cardinali, Studi graccomi, Roma, Löscher, 1912, pp. 129 sgg.

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CAPITOLO QUARTO I SANNITI

20. La prima guerra sannitica (342-341). — Ma neppure le leggi Licinie-Sestie posero fine alle turbolenze di Roma. Continuano nella travagliata repubblica le contese per l’elezione dei consoli e le agitazioni degli indebitati. Gli arrabbiati del partito patrizio tentano di impedire che siano nominati consoli plebei, ora per mezzo del console che presiedeva alle elezioni e che poteva escludere a suo arbitrio quante candidature voleva; ora sostenendo invece che nessuna legge poteva vietare ai cittadini di eleggere chi più loro piacesse. Nel 357 due tribuni della plebe fanno passare una legge che fissa il saggio dell’interesse all’uno per cento al mese. Nel 352 è nominata una commissione di cinque, la quale liquidi le partite troppo intricate, o con denaro pubblico, sostituendo con opportune cautele lo Stato ai creditori; o soddisfacendo costoro con beni dei debitori, stimati secondo equità. Neppure le leggi Licinie erano riuscite a guarire il male dei debiti.

Il solo conciliatore infallibile degli interessi e dei rancori è il Tempo. Soltanto nel secondo decennio [62] dopo l’approvazione delle leggi Licinie-Sestie le cose si vanno un po’ tranquillando, anche perchè altre inquietudini sopraggiungono. I Galli non avevano cessato di dar molestia. Due volte, nel 360 e nel 348, avevano tentato di rioccupare il paese, che avevano così facilmente invaso la prima volta. Anche con l’Etruria ci furono guerre e difficoltà: ma il maggior travaglio venne dagli alleati. Il patto, sancito da Spurio Cassio, non reggeva più; sia che il colpo dei Galli e le dissensioni interne avessero screditato Roma, sia che, dopo più di un secolo, anche quella alleanza fosse invecchiata. Per Roma, minacciata dai Galli e premuta dagli Etruschi, questo dissolversi per vecchiaia della lega latina era un grande pericolo: onde non solo noi possiamo argomentare che i partiti e i ceti siano stati indotti da questo pericolo ad accettare alla fine lealmente la transazione attuata dalle leggi Licinie-Sestie; ma spiegare anche l’alleanza conchiusa nel 354 con i Sanniti e il secondo trattato con Cartagine, giurato nel 348. I Sanniti erano una potente confederazione di popoli guerrieri, che, annidati in tempi più antichi nelle montagne poste tra l’Apulia e la Campania, di là erano scesi a conquistare quasi tutta l’Italia meridionale, da un mare all’altro, assoggettando le razze indigene, debellando gli Etruschi e i Greci: il maggior potentato forse dell’Italia, in quel momento in cui gli Etruschi declinavano e i Galli, inquieti, mobili, tumultuanti, scorazzavano tanta parte della penisola, senza radicarsi ancora in nessuna regione. È chiaro che Roma, la quale, prendendo saldo piede nel territorio dei Volsci si [63] era avvicinata al territorio sannitico, doveva desiderare amica la potente confederazione, in tempi in cui le sue antiche alleanze vacillavano. Nè di minor rilievo è il secondo trattato con Cartagine conchiuso nel 348[21], che confermò in molti punti quello del 510, ma lo ritoccò in altri, quasi sempre a vantaggio di Cartagine. Incluse nella nuova alleanza gli Uticensi e i lontani Tyrii della costa siriaca; vietò alle navi latine di viaggiare al di là delle colonne d’Ercole, nei dominî più occidentali dell’Africa cartaginese; vietò ai Romani non solo di fondar colonie, ma anche di commerciare in Sardegna ed in Africa, fuorchè in Cartagine. Insomma questo secondo trattato è anche peggiore per Roma di quello del 510, perchè le chiude in faccia le porte dell’Africa e della Sardegna: in compenso assicura a Roma «che, se in paese latino essi [i Cartaginesi] prendano qualche città non sottoposta al dominio romano, tratterranno il denaro e i prigionieri, ma consegneranno la città ai Romani». La ragione del nuovo trattato apparisce chiara: Roma rinuncia all’Africa e alla Sardegna, perchè Cartagine si impegna di nuovo a non passare dalla Sardegna e dalla Sicilia sulle coste dell’Italia. In quegli anni, in cui le antiche alleanze della repubblica si scioglievano, Roma aveva avuto tanta paura che i Cartaginesi volessero insediarsi sulle coste, da abbandonare la Sardegna tutta quanta a Cartagine, purchè Cartagine di nuovo rinunciasse alla terra ferma.

Ancora una volta Roma faceva prova di quella prudenza, che quasi sempre usò nelle faccende [64] esterne e che fa così strano contrasto con la spensierata imprudenza delle sue lotte intestine. Roma aveva ragione di accarezzar Cartagine, perchè, se le sue antiche alleanze vacillavano, le nuove erano poco sicure. Quasi d’improvviso, nel 343, essa si trovò alle prese con quella confederazione sannitica, con cui pochi anni prima aveva stretto alleanza. La ragione o l’occasione di questo conflitto tra due Stati che sino allora avevano ambedue potuto ampliare i propri territori senza toccarsi, fu la Campania. Quell’aprica e fertile contrada, bagnata dal Tirreno e coronata dagli altipiani e dai gruppi sparsi dell’Appennino napoletano, che antichi e moderni hanno denominata Campania, era da tempo immemorabile abitata da una popolazione intelligente e operosa, che i Greci e i Latini chiamavano Osci (Ὄσχοι). Essi avevano dissodato il terreno; essi ci avevano piantato la vite e seminato i cereali; essi avevano fabbricato le prime città dell’Italia meridionale ed erano forse cresciuti di numero molto più che le restanti popolazioni della penisola. Più tardi avevano conosciuto i Greci e gli Etruschi; ne avevan subito il dominio e le colonie; ma senza essere oppressi, avviliti o distrutti, anzi imparando: cosicchè fino alla metà del secolo V, le civiltà greca, osca ed etrusca avevano potuto fiorire insieme ed accanto, l’una più sulla costa, le altre due più nell’interno, quasi integrandosi a vicenda. Il viaggiatore ammirava nel paese, accanto agli antichi e meschini santuari oschi di legno, i grandiosi templi dorici di marmo, di cui quello di Pesto è ancor l’ammirazione del mondo, e, negli uni o [65] negli altri, i bronzi oschi e greci, le terrecotte policrome, le forme svelte e i profili inimitabili degli Dei d’Omero; ammirava gli atrii delle case etrusche, ampliati dai peristili ellenici; ritrovava nelle modeste e rudi casupole osche le filigrane d’oro, gli argenti, i rami, i ninnoli di ambra, le ceramiche nere e lucenti, gli oggetti di vetro, che i Greci e gli Etruschi fabbricavano o importavano.

Ma sin dalla seconda metà del V secolo, un quarto popolo era venuto a turbare quella lenta fusione. I montanari dell’Abruzzo — i Sanniti — erano discesi nella regione occupata da Greci e da Etruschi; avevano strappato a questi ultimi le colonie più vicine e proseguito verso Oriente, minacciando, da presso o da lungi, le città greche della Campania[22]; quelle belle vive e ricche città, nelle quali il partito aristocratico e il democratico combattevano tra loro con tal furore da sollecitare gli aiuti, ogni qualvolta soggiacevano all’avversario, dello straniero più vicino e potente. I Sanniti avevano approfittato di queste discordie per allargarsi in Campania; ma popolo, a quanto si sa, di rudi guerrieri, non avevano conosciuto la civiltà etrusca e greca senza alterarsi profondamente. I Sanniti, che avevano occupato città etrusche come Capua o città greche come Cuma, si erano presto appropriati la lingua, i costumi e soprattutto i vizi di quei popoli tanto più colti e civili; onde dalla contaminazione della civiltà etrusca e greca con la rudezza sannitica era nato un popolo nuovo e bastardo, che aveva rinnegato la stirpe materna. Capua, ad esempio, la più ricca [66] e la più potente tra le città della Campania, che i Sanniti avessero presa agli Etruschi, la cui aristocrazia era composta in gran parte di Sanniti, rinverniciati di civiltà etrusca e greca, era in guerra continua con la confederazione sannitica. Cosicchè, verso la metà del IV secolo a. C., questa, felice tra tutte le terre d’Italia, era un caos. Gli Etruschi l’avevan ormai quasi interamente sgombrata; ma l’ellenismo si lacerava in discordie furiose, ed ora lottava contro la potenza sannitica, ora ricorreva a questa per soddisfare i suoi odi e le sue ambizioni, soggiacendo quasi sempre nell’un caso e nell’altro; per assimilar poi i barbari vittoriosi, si imbastardiva, pur riuscendo a svegliare nelle loro rudi anime un orgoglio, una sete di piaceri, una cupidigia di ricchezze, che presto o tardi rinnegavano la madre patria. Insomma: l’ellenismo in guerra perenne con sè medesimo e con i Sanniti; i Sanniti, sempre in lotta con la propria stirpe, imbastardita dalla civiltà greco-etrusca.

Roma sarebbe un giorno o l’altro costretta a intervenire nei confusi e sempre inquieti affari della Campania. Quale fu la prima occasione e la prima spinta non è chiaro; perchè il racconto che Tito Livio ce ne ha trasmesso è oscuro; e sembra essere stato poeticamente abbellito per nascondere eventi e fatti, di cui l’orgoglio romano non aveva ragione di compiacersi. A ogni modo ecco quanto sembra possa congetturarsi. Nel 343[23] era nata di nuovo guerra tra la confederazione sannitica e quelle che si potrebbero chiamare le sue rivoltose colonie della pianura: i [67] Sidicini e i Campani. La guerra era scoppiata da principio tra i Sanniti e i Sidicini; ma i Sidicini avevano poi ottenuto l’aiuto di Capua. Senonchè Sidicini e Campani, avendo presto disperato di tener testa al Sannio, si rivolsero a Roma, dimostrandole che essa doveva impedire ai Sanniti di stabilirsi nella Campania. Roma, che era alleata dei Sanniti, esitò lungamente; sinchè — se vogliamo credere a Tito Livio — Capua si offrì addirittura come suddita a Roma. Non resistendo allora alla tentazione dell’agro campano, Roma mandò un’ambasceria ai Sanniti per avvertirli di rispettar Capua, che ormai le apparteneva; onde nacque e fu combattuta nel 342 la prima guerra sannitica, o quella che suol chiamarsi così, nelle storie.

Intorno alla quale gli storici moderni hanno disputato lungamente, dubitando che sia stata mai combattuta. Che Tito Livio ce ne faccia un racconto di fantasia, non è dubbio; perchè, a volergli credere, dopo pericoli immensi, miracolosi scampi e straordinarie vittorie dell’esercito romano, tutt’a un tratto, l’anno seguente, nel 341, Sanniti e Romani fanno una pace ragionevole. I Sanniti restan liberi di far la guerra ai Sidicini; i Romani si tengono la Campania, che i Sanniti promettono di rispettare; di nuovo Romani e Sanniti si alleano. Senonchè, se questo racconto è oscuro e confuso, non ci par possibile cancellare dalla storia di Roma questa guerra, sia perchè non è facile spiegare come e perchè la tradizione l’abbia inventata, sia perchè non si riesce più a intendere come Capua e Roma vengano la [68] prima volta a toccarsi. Pare dunque verisimile supporre che Capua sia riuscita, se non proprio assoggettandosi a Roma, offrendole grandi vantaggi, a far nascere nel 342 serie difficoltà e un principio di guerra tra il Sannio e Roma. Ma questa guerra deve aver durato poco, perchè nè Roma nè i Sanniti volevano impegnarsi fino all’ultimo sangue. Ad ambedue conveniva più l’intendersi che il combattere.


21. La rivolta degli alleati latini e il nuovo ordinamento del Lazio (340-338). — Senonchè — e a questo punto usciamo dalla congettura per rientrare nella storia — questa pace era fatta a spese dei Sidicini e dei Campani. I quali non l’intendevano allo stesso modo. A Capua un partito — il partito democratico — non aveva accettato l’alleanza con Roma, che per aiutare i Sidicini e combattere i Sanniti. Questo partito giudicò dunque la pace tra Roma e il Sannio come la giudicarono i Sidicini: un tradimento; e, insieme con i Sidicini, fece un passo molto ardito: si rivolse alla Lega latina e le offrì alleanza contro Roma. Questa mossa basta da sola a dimostrare quanto profondo fosse il malcontento della Lega. Difatti la Lega latina, spezzando il patto secolare che la legava a Roma, accettò l’alleanza; e Roma, alleata al suo recente nemico, ebbe a sostenere l’urto dei suoi alleati — antichi e nuovi — unitisi tutti contro di lei.

La nuova guerra durò tre anni; ed ebbe anch’essa vicende di cui la tradizione non ha conservato un ricordo molto chiaro. Forse fu anch’essa [69] una di quelle sorprese, che ogni tanto si ripetono nella storia. Poche guerre sembrano aver da principio fatto più paura a Roma; e si capisce. Non solo la rivolta degli alleati sconvolgeva tutto l’ordinamento militare di Roma; ma nessun nemico poteva parere più pericoloso di questo, che parlava la stessa lingua, adoperava le stesse armi e da un secolo guerreggiava con i Romani. La tattica e la strategia romana non potevano aver per lui nè misteri nè sorprese. Invece la guerra fu facile e breve. Una sola battaglia, vinta dai Romani a Trifano, sul confine del Lazio e della Campania, bastò a rompere il fascio delle forze latine e campane, che ai Romani era sembrato da principio così formidabile: prova manifesta, che era debole, sebbene non sia possibile spiegare perchè sembrasse tanto e fosse così poco forte. Sappiamo solo che Capua aveva aderito alla Lega latina, spinta dal partito democratico; che l’aristocrazia parteggiava per Roma e mandò a Trifano, in aiuto delle legioni, un contingente di quella cavalleria capuana che era così famosa, decidendo forse della vittoria; che la battaglia di Trifano, in una città incerta e divisa, bastò a far pendere di nuovo la bilancia dalla parte di Roma. Forse anche in molte città latine, accanto al partito della rivoluzione, c’era un partito fedele. Comunque sia, la battaglia di Trifano frantumò la lega latino-campana.

Questa facile vittoria, in una guerra che era apparsa così difficile e pericolosa, ebbe effetti profondi su Roma. Non solo cancellò dalle menti gli ultimi ricordi dell’incendio gallico; ma infuse [70] nella politica della repubblica, sino ad allora così timida, una insolita risolutezza. Vedendo la lega latino-campana sfasciarsi, Roma non esitò ad impadronirsi del Lazio e della Campania; e con due anni di guerra ridusse tutte le città che non si arresero spontaneamente, dando a tutte un ordinamento nuovo. Al maggior numero delle città latine non fece subire nè violenze nè confische: lasciò il territorio e le leggi; tolse solo a tutte connubia, commercia et concilia inter se; ossia sciolse la federazione latina, vietando a ogni città di fare alleanza, di commerciare e di contrarre matrimoni con le altre, obbligando ciascuna a contrarre per proprio conto un’alleanza separata con Roma. A questo modo, invece di trattare da pari a pari con una potente confederazione, primeggiò come città egemone tra molti piccoli potentati isolati, di cui ognuno era molto più debole. Nel tempo stesso Roma provvide ad allargare intorno alla città il territorio romano dalla parte di settentrione, di levante e di mezzodì. Lanuvio, Aricia, Nomento, Pedo, Tuscolo, perdettero l’indipendenza e furono annessi allo Stato romano, con la concessione della civitas cum suffragio. Ad Anzio fu tolta la flotta e nel suo territorio fu dedotta una colonia. Egual sorte toccò a Velletri e a Terracina. Altre città, come Tivoli, Preneste, pur restando città latine, quindi indipendenti di nome e alleate, furono per castigo spogliate di parte del territorio. A Capua ne fu tolta una striscia sola, piccola e fertile. La stessa Capua, Fondi, Formia, Cuma e parecchie altre città minori furono sottoposte alla signoria romana con la [71] civitas sine suffragio; il che vuol dire che ebbero della cittadinanza romana tutti i diritti e tutti i doveri, tranne il diritto di eleggere i magistrati e di essere eletti.

Questa guerra era, dopo la conquista di Veio, la più felice impresa compiuta dalla repubblica. Dopo averla compiuta, Roma poteva affrontare il paragone con gli anni più felici della monarchia. Al trattato di Spurio Cassio con la lega latina, essa ha sostituito una forte egemonia. Il territorio romano si stende ormai, comprese le colonie del Lazio e della Campania, dai monti Cimini fin quasi al Vesuvio, per circa 6000 kmq.; a cui occorre aggiungere i 5000 kmq. degli alleati e delle colonie latine; in tutto, più di 10.000 kmq., di cui la parte propriamente romana doveva contare oltre mezzo milione di abitanti, e poco meno il paese indirettamente soggetto. Non è quindi arbitrario argomentare che Roma potesse mettere in campo 50.000 uomini: gran forza, per quei tempi, se si pensa che, in questi stessi anni, Alessandro il Grande moveva dalla Grecia a fondare il suo impero con 30.000 uomini. Infine Roma è ormai in contatto con l’ellenismo. Nella prima metà del IV secolo, la repubblica incominciò dunque a raccogliere i frutti del suo lungo, ostinato e un po’ confuso lavoro. Che i primi frutti siano maturati a un tratto, come per una specie di miracolo, non è da stupire; perchè tutti i grandi mutamenti della storia si preparano nel silenzio. È invece singolare che i Sanniti abbiano lasciato Roma allargarsi e rafforzarsi a questo modo. Che i due grandi Stati abbiano vissuto in pace, sinchè Roma [72] aveva adocchiato le coste del Lazio e l’Etruria meridionale, si capisce. Ma è più difficile di spiegare come il Sannio lasciasse Roma insediarsi tranquillamente nella Campania, che esso aveva ora conquistata, ora perduta e sempre ambita. Eppure non solo dopo la guerra coi Latini Roma si impadronisce definitivamente di Capua, di Formia, di Fondi; ma negli anni seguenti deduce due colonie a Cales (Calvi) e a Fregellae (Ceprano): sentinelle avanzate sui confini del Sannio. E la confederazione non muove un dito....


22. La guerra tra Roma e Napoli (327). — Non c’è che un modo di spiegar questa inerzia, se non si vuole — e non par che si possa — apporla alla torpida lentezza della confederazione sannitica, più valorosa che avveduta. Proprio in questi anni i Sanniti erano alle prese con un altro nemico, apparso dal mare: Alessandro il Molosso, zio di Alessandro il Grande, re di Epiro, che i Tarantini avevano assoldato per combattere i Lucani ed i Bruzzi. Anche nell’estrema Italia meridionale le città greche della costa guerreggiavano con le popolazioni indigene dell’interno. I Sanniti, che avevano sempre combattuto l’elemento greco e difeso l’elemento indigeno, furono involti in questa guerra, che durò parecchi anni con diverse vicende e che fu terminata dalla morte di Alessandro. Sembra che questa guerra abbia costretto i Sanniti a lasciar mano libera a Roma. Ma, morto Alessandro e ristabilita la pace nell’Italia del sud, alla prima occasione, il torpido colosso montano dell’Italia centrale e l’agile atleta [73] del Lazio vennero alle mani. L’ellenismo — che sin dal principio aveva cercato di prosperare in Italia sulle discordie degli elementi indigeni — accese la grande guerra tra Roma e il Sannio.

Quel che sia accaduto tra Roma e Napoli non è chiaro[24]. Ma Napoli era città greca, e perciò sempre ostile all’elemento italico che prevalesse in Campania: a Roma dunque, l’ultima venuta, la più intraprendente e fattiva. Che ci fosse a Napoli un partito avverso a Roma è quindi cosa naturale. Ma come si venne ad una rottura tra Roma e Napoli non si sa. Per un movimento spontaneo di tutta la popolazione greca contro l’egemonia romana? Per accordi segreti coi Sanniti? Per un rivolgimento politico interno?

Non siamo in grado di sciogliere questi quesiti. Certo è che, nel 327, la guerra tra Napoli e Roma scoppiava; e Roma incaricava il console Q. Publilio Filone di muovere all’assedio di Napoli. Ma quando il console giunse sotto le sue mura Napoli aveva ricevuto notevoli rinforzi sanniti. A Napoli Roma trovava dunque il Sannio, alleato dell’ellenismo. Per quale scopo? Per disputargli forse le conquiste campane? Roma, fatta ardita dalla vittoria sui Latini, non esitò a voler chiarita la faccenda, a rischio di una nuova guerra; e, mentre incominciava l’assedio di Napoli, mandò ambasciatori a chiedere che i presidi fossero ritirati da Napoli. La confederazione cercò di eludere la dimanda, allegando che i Sanniti accorsi alla difesa di Napoli erano dei privati, arruolatisi per proprio conto. Roma allora ruppe gli indugi e dichiarò la guerra al Sannio.

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23. I principî della seconda guerra sannitica (327-326). — Il dado era tratto. Incominciava il duello tra Roma e il Sannio per il dominio dell’Italia meridionale; quel duello interminabile, che è uno dei tanti indovinelli della più antica storia di Roma. Anche per questa guerra bisogna cercar di leggere nelle lacune e nelle oscurità della tradizione antica. Da principio i due avversari tentarono di spaventarsi a vicenda con mosse diplomatiche e militari, ma senza venire a un cimento decisivo. Roma occupò tre cittadine sulla linea del Volturno — Aflife, Callife e Rufrio — e ne fece tre avamposti romani, destinati a proteggere la Campania in pieno territorio sannita; poi cercò alleati nell’Italia meridionale, e riuscì a indurre i Lucani e gli Apuli a stringere con lei un patto e a promettere armi ed uomini per la guerra, prendendo a rovescio i Sanniti; ciò fatto, si restrinse a continuare l’assedio di Napoli. Alla loro volta i Sanniti fanno scorrerie nei territori romani, cercano alleati tra i Tarantini e si sforzano di staccare gli Apuli e i Lucani dall’alleanza romana; ma non sembrano compiere alcuna seria operazione militare e non muovono un braccio per soccorrere Napoli. Cosicchè in quell’anno non si combattè che intorno a Napoli. E fidando nel soccorso sannita, Napoli resistette per tutto il 327. La bella città, gemma d’Italia e occhio della Campania, una delle pochissime della Magna Grecia, non ancora sommerse dal flutto tempestoso degli elementi indigeni, che conservava, come conserverà per secoli, tutti i caratteri di metropoli ellenica; la bella città, le cui lunghe mura ricordavano al viaggiatore [75] quelle, ancor più gloriose, che congiungevano Atene alla marina, per un intero anno costrinse la sua fiorente gioventù ad abbandonare le opere della pace per far la guardia delle mura e delle porte; per un anno prodigò le sue ricchezze per stipendiare migliaia di mercenari sanniti, e vide di giorno in giorno diradarsi le navi in partenza e in arrivo nel suo bel golfo. Gli opifici cittadini ammutolirono, insieme con le liete feste cittadine e rionali, celebrate dalle fratrie urbane. Non più le belle donne napolitane si incoronarono di fiori al ricorrere di ogni maggio o assistettero agli spettacoli e alle gare periodiche del teatro, dell’Odeon, dello Stadio. Non più schiere di forestieri d’ogni foggia e d’ogni paese convennero nella grande città, a commerciare, a sollazzarsi, ad oziare mollemente, sotto il suo bel cielo. I ginnasi, palestre dello spirito e del corpo, ove il pubblico in folla veniva ad ammirare gli atleti più famosi, o ad ascoltare gli oratori più illustri e più brillanti; ove, fino a pochi mesi prima, ferveva l’ardore di migliaia di giovani, bramosi di tutte le cose belle, si erano vuotati. E l’alba del primo giorno del 326 vide Napoli ancora in armi, inviolata: cosicchè Roma, sorpresa da questa resistenza, fu costretta ad adottare un provvedimento, che doveva essere padre di molte conseguenze nell’avvenire: a prorogare il comando al console che faceva l’assedio e a creare il primo proconsolato romano.

Senonchè la lentezza e le incertezze della confederazione sannitica resero vana questa tenacia. Sia che non volesse, sia che non potesse, la confederazione [76] sannitica non mosse al soccorso di Napoli, non assalì le comunicazioni dell’esercito assediante, non tentò diversioni sul territorio nemico. Napoli si stancò; il partito della guerra perdette terreno; la popolazione, rovinata dal lungo assedio, prese in odio i Sanniti, come alleati malfidi e impotenti. Un bel giorno, i più cospicui cittadini e gli stessi magistrati intavolarono trattative per la resa. Il proconsole impose loro, come prima condizione, di licenziare le milizie mercenarie e di accogliere un presidio romano; poi stipulò un trattato, che lasciava alla ricca città tutto il suo territorio, e ne rispettava l’autonomia, salvo l’obbligo di un’alleanza offensiva e difensiva[25].


24. L’abolizione del «nexum» (326) e le «forche caudine» (321). — Non le armi sole, ma le armi ed il senno fondano gli imperi. Concedendo condizioni così generose, Roma dava un bell’esempio di senno politico. Nell’Italia meridionale le alleanze erano mobili come la terra, sempre percossa dai terremoti. I Sanniti, infatti, eran già riusciti a staccar dall’alleanza di Roma i Lucani; e a stringere un patto con i Vestini. Era dunque miglior consiglio amicarsi i Napoletani, che vendicarsene. Dopo la caduta di Napoli, la guerra languì. Da quel poco che gli antichi ci raccontano, si ricava che i Sanniti e i Romani continuarono negli anni seguenti a molestarsi con incursioni, scorrerie, saccheggi, senza mai venire alla decisione. Senonchè dovunque la milizia è un dovere civico di tutti i cittadini ricchi e poveri, i poveri preferiscono le [77] guerre violente ma brevi, alle caute ma lunghe. La plebe non tardò a lagnarsi di queste lungaggini; e le classi alte se ne impensierirono tanto, che in questi anni, nel 326, una legge abolì finalmente il nexum. La legge era un compenso dei sacrifici, che la lunga guerra contro i Sanniti imponeva al popolo. E difatti per un po’ la plebe, pur lagnandosi, ebbe pazienza; poi, come di solito avviene, si stancò, non fu più paga dei compensi; e incominciò a chiedere guerra più risoluta e più corta; sinchè nel 322 il partito della guerra ad oltranza soverchiò nei comizi il partito della prudenza. Consoli per il 321 furono due uomini nuovi, Sp. Postumio Albino e T. Veturio Calvino, i quali avevano promesso nei comizi elettorali di passare all’offensiva, invadendo il paese nemico. Ben tre o quattro legioni entrarono in quell’anno nel paese nemico dal confine orientale della Campania, per quello stesso territorio, ove più tardi doveva passare la via Appia. Ma la via Appia non era ancora stata tracciata. La difficoltà delle comunicazioni, la precipitazione, la ignoranza dei luoghi, forse anche la incapacità del comando furono cagione di una calamitosa disfatta. Nella gola di Caudio, tra le attuali borgate di Arienzo e Montesarchio[26], in un passo, che gli annalisti avrebbero descritto coi colori più paurosi, l’esercito romano si trovò d’ogni parte accerchiato dai Sanniti. Invano gli impeti di un valore disperato tentarono spezzare quel cerchio di uomini e di ferro. Dopo alcuni giorni, stremati di forze, scoraggiati, affamati i Romani vennero a patti col nemico. I Sanniti non vollero trucidare i Romani, provocando quella [78] guerra mortale, di cui avevano paura: par che qualcuno proponesse di rimandarli liberi, senza impegni di sorta, sperando che questo atto generoso li riconcilierebbe durevolmente con Roma. Prevalse alla fine un partito di mezzo. Il generale supremo, Caio Ponzio Telesino, stipulò con l’esercito vinto un trattato di pace, con cui Roma si impegnava a lasciar tranquillo il Sannio e a sgombrare tutti i territori sanniti occupati e in particolar modo quello di Fregelle; fece passare sotto il giogo l’esercito e lo rimandò libero, trattenendo soltanto poche centinaia di ostaggi.

Ma quando l’esercito vinto ritornò a Roma con questo trattato, Roma lo rinnegò. Il senato — come era suo diritto, del resto — rifiutò di ratificare la pace accettata dai suoi generali. Esasperati, i Sanniti si gettano, l’anno seguente, nel 320, su Fregelle e la prendono: a loro volta i Romani fanno una spedizione in Apulia, assediano Lucera presidiata dai Sanniti, l’occupano e ci mettono guarnigione, tentando prendere il Sannio alle spalle e tagliare le comunicazioni con l’Adriatico. Per un momento pare che i due popoli vogliano cercare una decisione.... Quand’ecco una nuova sorpresa: la tregua di due anni, che essi conchiudono nell’anno seguente. Per quale ragione? Perchè i due avversari desideravano prepararsi meglio? È probabile. Certo è invece che della tregua l’uno e l’altro approfittarono per affilare le armi. Fino a quel momento Roma aveva combattuto in aperta pianura, nel Lazio o in Campania; e perciò aveva potuto servirsi di una unità tattica numerosa, compatta e armata pesantemente, paragonabile [79] in una certa misura alla falange ellenica, quale era allora la legione. Per combattere i Sanniti nelle montagne, occorrevano eserciti mobili e rapidi. La legione fu dunque sciolta in 45 manipoli, ciascuno dei quali doveva porsi nella battaglia ad una certa distanza dall’altro, pur procurando in genere che gli intervalli della prima linea fossero coperti dai manipoli della seconda; e quelli della seconda dai manipoli della terza. La distanza fra un soldato e l’altro fu accresciuta; l’antica e pesante lancia abolita o quasi, e distribuito in sua vece ai soldati il pilum o giavellotto, che era un’arma doppia, da punta e da getto. Finalmente, in luogo del pesante e piccolo scudo di bronzo, di cui sin allora erano state armate solo le prime 98 centurie, tutto l’esercito imbracciò il grande scudo quadrato di cuoio della seconda e della terza classe. Anche la cavalleria e la istruzione furono riformate. Nel tempo stesso Roma cerca di rinnovare gli accordi con gli Apuli; occupa Teano, Canusio e Ferento, riesce a conchiudere alla fine un accordo con tutta l’Apulia; cerca di far violenza ai Lucani, che respingono gli accordi, occupando Nerula. I Sanniti a loro volta cercano di seminare la ribellione nelle città campane e nelle vicine colonie, vacillanti dopo la rotta di Caudio; e si preparano ad assaltare il Lazio, apprestando una specie di leva universale.


25. Gli effetti politici della guerra e la censura di Appio Claudio (315-308). — Nel 315 la guerra divampò di nuovo. I Sanniti approfittarono di un attacco fatto dai Romani alla cittadina di Saticula (S. Agata dei Goti), per tentare la offensiva contro [80] il Lazio dal confine meridionale, tagliare le comunicazioni con la Campania e impedire che l’esercito romano, operante sul confine sannitico-campano, tornasse indietro a impedire l’invasione. Di là, sollevando le contrade che avrebbero attraversate, i Sanniti sarebbero mossi verso il cuore del territorio romano. I due eserciti cozzarono a Lautule, sul confine del Lazio. Non è dubbio che l’esercito romano, se non fu annientato, ebbe però la peggio e dovè ritirarsi. I Sanniti poterono così porre l’assedio a Terracina (315); il Lazio meridionale e la Campania romana, Capua non esclusa, vacillarono; Lucera scacciò la guarnigione romana.

Ma Roma non si perdè d’animo. I Sanniti, così impetuosi nel primo slancio, non osarono arrischiarsi fra la fitta selva delle città e delle colonie latine, nè riuscirono facilmente ad espugnare Terracina assediata. Roma ebbe dunque il tempo di approntare nuove difese. L’anno dopo, due eserciti romani erano già in campo ad operare contro i Sanniti, l’uno, nel Lazio, di fronte a Terracina; l’altro, in Apulia, contro Lucera. La battaglia di Terracina segnò la prima riscossa. La valle del Liri, ancora in tumulto, ritornò in potere dei Romani, e la Campania, grazie a un colpo di spalla della fedele aristocrazia capuana, si sottomise di nuovo (314). Lucera fu ripresa; e assicurata questa volta con una forte colonia di 2500 cittadini. I prosperi eventi sembrano toglier animo ai Sanniti e ridarlo ai Romani. Questi nel 313 pigliano Nola e ripigliano Fregelle; deducono una colonia a Interamna sul Liri (Teramo) ed un’altra nelle isole Pontine di faccia al golfo di Gaeta; [81] nel 312 fanno una spedizione contro i Marrucini. I Sanniti invece sembrano essersi di nuovo rinchiusi nelle loro montagne e aver prestato un debole aiuto alle città e ai popoli assaliti da Roma.

Così questa guerra di spossamento si protraeva e si ampliava, alterando a poco a poco all’interno la composizione e lo spirito della società romana. Durante la guerra sannitica maturò la conciliazione delle leggi Licinie-Sestie. Lo spirito esclusivo delle antiche famiglie patrizie cede finalmente alla forza dei tempi; un numero considerevole di ricche famiglie plebee occupano le magistrature e il consolato, entrano a far parte del senato, e nel senato cominciano a mischiarsi con le antiche famiglie patrizie, formando quell’aristocrazia patrizio-plebea che governerà la repubblica, per molti secoli. Senonchè anche altri effetti, meno felici di questo, generava la lunga guerra. Non è improbabile che con le guerre sannitiche — e per effetto loro — incominci quella crisi della agricoltura italica, che travaglierà per più di due secoli la repubblica romana; e proprio il lento logorio della piccola possidenza e il dilatarsi della grande proprietà a schiavi.

I soldati romani erano, in questo tempo, quasi tutti piccoli possidenti, che alla chiamata del console lasciavano la vanga per la spada, affidando le terre alle donne, ai vecchi, ai fanciulli. Le guerre lunghe toglievano alla agricoltura, e proprio nelle stagioni in cui la terra ne ha più bisogno, le braccia più vigorose: con quanto danno della piccola possidenza è facile imaginare. Il soldo del legionario era un bel magro [82] compenso. A questo danno si aggiungevano le morti; poichè ogni colpo nemico, che non andava a vuoto, orbava una famiglia di un agricoltore nel pieno vigore delle forze, mentre le bocche inutili non diminuivano. Non è dunque da meravigliare se in questi anni crebbe il numero dei possidenti rovinati, che andavano a cercare un pane a Roma, nelle colonie romane o latine; se ai ricchi fu facile di unire in latifondi e di far coltivare da schiavi molti campicelli, che erano stati coltivati sin allora da famiglie libere. In quei tempi di guerre continue gli schiavi dovevano abbondare; nè il nuovo padrone si curava che la terra, coltivata dagli schiavi, producesse minor quantità di derrate, se egli ricavava, avendola acquistata a vil prezzo, un buon profitto.

Ma la guerra, anche in quei tempi, se impoveriva gli uni, arricchiva gli altri. Un soldato, che partecipasse a una spedizione fortunata in un territorio ricco, sotto un console generoso, poteva portare a casa un bel gruzzolo, come parte sua del bottino. Inoltre la guerra, anche allora, faceva correre il denaro, promoveva certi commerci e certe industrie, sia pur prendendo agli uni quello che dava agli altri. Ai trentamila uomini, che quasi ogni anno Roma dovè mettere in campo in questi anni, occorrevano molte cose: armi, viveri, vestiti. Tra qualche anno, la guerra sannitica richiederà anche una armata navale. Come squilleranno allora le incudini degli improvvisati cantieri sulla costa del Lazio e della Campania! Quanto si affaticheranno sui colli selvosi del Lazio, nuovo ed antico, le braccia e le accette degli [83] improvvisati legnaiuoli, per abbattere e spaccare le querci, gli abeti e i pini della regione, i più belli d’Italia![27]. È questo infatti il momento, in cui, nel territorio romano, incomincia a circolare la moneta d’argento; perchè quella di bronzo non basta più ai cresciuti bisogni.

Roma insomma incomincia ad affrontare compiti più vasti, a misurarsi con difficoltà più grandi, a meglio conoscere l’ellenismo. Anche le sue idee si allargano. Ne è prova una singolare figura di questo tempo, che apparisce proprio in mezzo alla aristocrazia romana, sino allora così ligia alle sue tradizioni, così sollecita dei suoi immediati interessi: Appio Claudio Cieco, che fu censore appunto tra il 312 e il 308. In mezzo alle inquietudini, alle spese, alle turbolenze della guerra sannitica, Appio Claudio inizia due costose opere pubbliche: un grande acquedotto e una grande strada da Roma a Capua, il primo tronco della futura e famosissima Via Appia. Nel senato la maggioranza si spaventa. Roma, per lunghi anni, aveva bevuto l’acqua del Tevere, delle cisterne o dei pozzi scavati nella città, e nessuno aveva trovato a ridire. Le vecchie strade del Lazio avevan pur servito alle legioni, che avevano conquistato prima, difeso poi la Campania. Era quello il momento, quando lo Stato era stremato dalle spese della guerra con il Sannio, di porre mano a opere così grandiose e dispendiose? Ma Appio Claudio è, come sono e saranno tutti i Claudi, un uomo orgoglioso, risoluto e testardo: egli sa che i tempi cambiano e che Roma non è più la piccola città di un tempo; capisce che non si può [84] e non si deve lasciare inoperose tante braccia, che non dissodano più la terra; e non ostante l’opposizione del senato e le difficoltà dell’erario, rinnova la grande tradizione edilizia della monarchia, interrotta da due secoli. Nè basta: vuole anche ringiovanire la costituzione. Tra le famiglie, che le guerre arricchivano, ce ne erano talune, che avrebbero potuto servire utilmente lo Stato, rinforzando la nuova aristocrazia patrizio-plebea. Questi arricchiti di fresco non erano dello stesso sangue e della stessa carne di quei plebei, che da mezzo secolo, dopo le leggi Licinie-Sestie, toccavano così agevolmente i fastigi del potere, e sedevano sugli stalli del senato? Appio Claudio volle affrettare e allargare quel rinnovamento dell’aristocrazia governante, che da una generazione o due procedeva abbastanza rapido; e nel compilar l’albo dei senatori inscrisse nel senato molti plebei ricchi e attivi, e non esitò ad aggiungere nella lista, perfino qualcuno di quei liberti, che cominciavano a formare il nerbo del nuovo ceto commerciale romano. Nè, mentre pensava ai plebei ricchi, Appio Claudio dimenticò la turba degli artigiani. Esclusa dalle centurie, perchè non possedeva il censo richiesto ed iscritta tutta nelle quattro tribù urbane, non poteva prender parte ai comizi centuriati e contava poco o nulla nei comizi tributi: non aveva dunque diritti; ma aveva dei doveri; perchè a dispetto delle disposizioni della costituzione serviana, ancora in vigore in teoria, si ricorreva spesso anche a questi proletari, che non avrebbero dovuto prestare il servizio militare, quando c’era bisogno di soldati. Appio Claudio, [85] concedendo che ognuno potesse scegliersi la tribù, in cui essere ascritto senza riguardo alla sua residenza, li distribuì in tutte le tribù rustiche, così da accrescerne l’influenza politica[28].

Ma queste ardite riforme non passeranno lisce. L’aristocrazia romana gridò allo scandalo contro l’audace novatore, che sconvolgeva l’ordine civile e politico della repubblica. E come i consoli dell’anno successivo si ricusarono di convocare il nuovo senato, gli storiografi dell’aristocrazia condanneranno Appio Claudio e l’opera sua, e chiameranno a confermare il proprio giudizio il suffragio della divinità, la quale non avrebbe esitato a punire il grande censore, privandolo della vista. Ma l’apparizione di questo censore rivoluzionario, proprio nel bel mezzo della prima grande guerra che Roma ebbe a combattere per la conquista del suo impero, è un lampo di luce, che ci lascia intravedere quel che accadeva, per effetto delle guerre esterne, nella società romana. La forza delle tradizioni veniva meno; nuove idee e nuovi bisogni nascevano; gli ordini politici e sociali si aprivano alla gente nuova e al nuovo spirito; le classi si ravvicinavano, pur odiandosi ed ingiuriandosi, nella fraternità delle armi. Due leggi che furono proposte nel 311 da tre tribuni della plebe e approvate, ce lo confermano. La prima disponeva che sedici dei ventiquattro tribuni militari fossero ogni anno nominati non dal console o dal dittatore, ma dal popolo. La seconda, che il popolo eleggesse pure i duoviri navales classis ornandae reficiendaeque. Si incominciava a sentire bisogno di un’armata più forte, e si disponeva [86] che i magistrati incaricati di approntarla, e di distribuire il lavoro e le commissioni, fossero eletti dal popolo. Cresceva l’autorità dei comizi, anche nelle cose militari.


26. La fine della guerra (311-304). — Ma in quei tempi, tutti pieni di armi e di guerre, le riforme di Appio non potevano essere che un episodio della storia civile. Proprio nel 311, mentre Appio Claudio stava ringiovanendo la costituzione, un nuovo pericolo nasceva nel settentrione. Da molto tempo la confederazione etrusca si era rassegnata alla perdita dei territori meridionali. Neppure la guerra sannitico-romana sembrò scuotere da principio l’accidia di quel popolo; forse perchè, se i Romani gli avevano preso l’Etruria meridionale, i Sanniti lo avevano spogliato della Campania: perdita anche più dolorosa! Tuttavia, prolungandosi, la guerra tra Romani e Sanniti mosse alla fine anche la confederazione etrusca. Alleati con i Sanniti, gli Etruschi posero nel 311 l’assedio a Sutri, una città posta fra i laghi Cimino (Lago di Vico) e Sabatino (Lago di Bracciano), che Roma aveva conquistata al tempo della guerra di Veio, e che era una delle più fedeli colonie latine.

L’Etruria era tuttavia uno dei maggiori potentati dell’Italia; e se avesse conchiuso l’alleanza con i Sanniti più presto, allorchè la fortuna delle armi era ancora favorevole a questi, avrebbe potuto porre in serio pericolo la nascente potenza di Roma. Prendeva invece le armi un po’ tardi, quando Roma incominciava a temprarsi al nuovo [87] cimento. Tuttavia, anche se tardivo, l’intervento dell’Etruria non era un pericolo piccolo. I Romani furono costretti ad assottigliare gli eserciti operanti contro il Sannio, ad armare nuove milizie e ad accorrere alla difesa della città pericolante. Ma sloggiare i nemici dai loro accampamenti apparve ben presto impresa difficile. Invano ci si provarono gli eserciti romani: onde l’anno seguente il console Q. Fabio Rulliano, rimasto in Etruria, deliberò di lasciar da parte Sutri e gli Etruschi assedianti; e, mentre il suo collega andrebbe in Apulia per trattenere i Sanniti, egli si getterebbe nel cuore della stessa Etruria, cercando di costringere l’esercito etrusco di Sutri ad accorrere in difesa della patria minacciata. Mossa arditissima, che, riuscendo, poteva terminare in poco tempo la guerra, come, fallendo, condurre a perdizione l’esercito. Ma la mossa riuscì: gli Etruschi, raccozzatisi in fretta e furia d’ogni parte, furono sconfitti in un luogo, che è diversamente indicato dagli antichi; le città dell’Etruria centrale (Arezzo, Cortona, Perugia) si affrettarono a concludere la pace col vincitore; e poco dopo, liberata Sutri dall’assedio, l’esempio fu seguito da tutte le città dell’Etruria meridionale (310).

Invece le cose non andarono altrettanto bene nel Sannio, dove l’altro console, Caio Marcio Rutilo, sembra essere stato in quell’anno sconfitto. Certo ci fu a Roma un panico e si nominò dittatore Papirio Cursore, il più provetto tra i generali che avevano combattuto contro il Sannio. Nel 309 Papirio sembra aver restituito ai Sanniti [88] il colpo da questi inferto l’anno prima ai Romani; e Rulliano avere vinto definitivamente, in una seconda battaglia presso Perugia, gli Etruschi, che ancora non avevano fatto pace. Ma, pacificata l’Etruria, ecco, nel 308, parecchie popolazioni dell’Italia centrale, alleate più per forza che per amore, gli Umbri, i Marsi, i Peligni, e una parte degli Ernici, approfittare delle strettezze, in cui Roma si dibatteva, per ricuperare la indipendenza. Roma dovette affrontare anche questi nuovi nemici, fra cui primeggiava la confederazione umbra. E li affrontò non senza fortuna, nel tempo stesso in cui Nocera, l’altra città della Campania ancora in possesso dei Sanniti, cadeva. Ormai il Sannio era esausto e Roma vicina ad esaurirsi. Si avvicinava il momento dello spossamento supremo, in cui quello dei due belligeranti, che avesse conservato l’ultima riserva per l’ultimo sforzo, potrebbe debellare il rivale. I consoli del 306, alla testa di quattro legioni, ritentarono l’invasione del Sannio, fallita nel 321 con la disfatta di Caudio. Il Sannio era proprio sfinito; e fu invaso, percorso e devastato, senza seria resistenza. Non si arrese tuttavia ancora; raccolse anch’esso le sue forze; e l’anno seguente, nel 305, tentò una incursione in Campania. L’esercito fu vinto; il territorio di nuovo invaso; Boviano, uno dei principali centri del Sannio, e lo stesso generale supremo, Stazio Gellio, caddero nelle mani dei Romani.

La guerra era finita e la pace, tanto desiderata ed attesa dalle due parti, era conchiusa l’anno successivo. Le condizioni sono mal note; [89] ma da quel poco che se ne sa, non sembrano adeguate, per il vincitore, alla lunghezza della guerra. L’antica alleanza romano-sannitica dovette essere ristabilita con qualche clausola, forse, più favorevole a Roma, ma senza subire alterazioni sostanziali. Neanche un palmo del Sannio propriamente detto fu ceduto dai Sanniti. Essi perdettero solo le loro conquiste migliori e tra queste la Campania tutta, che del resto, al principio della guerra, già non era più nelle loro mani.

Ma non ostante le poco dure condizioni di pace, la potenza sannitica fu distrutta da questa guerra. Non solo i Sanniti furono ridotti entro i confini del loro antico territorio; ma, separati dal Tirreno per la perdita della Campania, non potevano ormai più evitare di essere esclusi tra poco anche dall’Adriatico. Da questa parte, essi comunicavano ancora con il mare per il territorio dei Frentani, amici o soggetti: ma la loro debolezza e le arti romane chiuderanno tra poco, per sempre, anche quella via. Altrettanto invece era cresciuta la potenza politica e militare dei Romani. Non così forse per le vittorie campali, come per la prova che avevano fatta della forza loro, e per i nuovi territori acquistati. Roma era ormai, alla fine della prima guerra sannitica, il più temuto e il più vasto degli Stati italici, poichè il suo territorio aveva quasi raggiunto gli 8000 kmq. e, contando anche i territori degli alleati, 28.000 kmq.

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Note al Capitolo Quarto.

21.  Cfr. Polyb., 3, 24; Liv., 7, 27; Diod., 16, 69, 1. Diodoro menziona per quest’anno (348) un trattato romano-cartaginese, che, per errore, dice primo.

22.  Sulla Campania in questo tempo e sui rapporti tra Osci, Etruschi, Greci e Sanniti, cfr. A. Sogliano, Sanniti ed Osci, in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, 1912, pp. 208 sgg.

23.  Questa prima guerra sannitica, la cui realtà storica è stata revocata in dubbio da taluni moderni, ci è attestata da Dionys., 15, 3, 2; da App., Samn., 1; da Liv., 7, 29 sgg.

24.  Secondo la tradizione, raccolta e diffusa dagli annalisti romani, la guerra, non si sarebbe combattuta fra Napoli e Roma, ma tra Palepoli e Roma. È forse più accettabile la versione di Dionys., 15, 5 sgg., che parla solo di una guerra contro Napoli.

25.  Su questo trattato, cfr. gli accenni sparsi che si ricavano da Strab., 5, 4, 7; Polyb., 6, 14, 8.

26.  Cfr. E. Cocchia, I Romani alle Forche Caudine: questione di topografia storica, in Studî filologici, Napoli, III, 378 sgg.

27.  Cfr. Theophr., H. Pl., 5, 8, 1.

28.  Diod., 20, 36, 3; Liv., 9, 46.

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CAPITOLO QUINTO LA GUERRA CON TARANTO E LA CONQUISTA DELL’ITALIA

27. La coalizione degli Umbri, dei Galli, degli Etruschi e dei Sanniti (299-290). — La pace del 304 non fu duratura. I Sanniti erano stati vinti, non distrutti. Roma aveva vinto, ma non aveva ancora riputazione di invincibile. I Sanniti si accinsero a preparare la riscossa; e Roma cercò alleanze e fondò colonie. Due di queste, Alba e Carseoli, furono dedotte nel territorio degli Equi; una, Sora, nel territorio dei Volsci; una, Narni, nel territorio degli Umbri. Ma queste cautele, accrescendo i sospetti e le paure, affrettarono la nuova guerra. Nel 299 i Sanniti assalirono i Lucani per costringerli all’alleanza; i Lucani ricorsero a Roma; Roma accordò il chiesto aiuto e dichiarò di nuovo guerra al Sannio.

Sin dal principio era corsa voce che i Sanniti intendessero fare alleanza con gli Etruschi, da qualche tempo inquieti. Tuttavia nei primi due anni i Romani non ebbero da combattere che i Sanniti, [92] i quali parvero difendere, e mollemente, il territorio.... Ma doveva essere una finta; perchè nel 296, all’imprevista, un esercito, comandato da Gellio Egnazio, uscì dal Sannio; si congiunse in Etruria con l’esercito etrusco ed avviò trattative con i Galli, mentre gli Umbri aderivano, e i Lucani, per i quali Roma aveva preso le armi, abbandonavano l’alleanza e si univano ai Sanniti. La coalizione, preparata di lunga mano e in segreto, si manifestava ad un tratto e formidabile: a settentrione, con il grosso esercito di Sanniti, di Etruschi, di Galli e di Umbri, che si addensava; a mezzogiorno, con un altro esercito sannitico, che si gettava nella Campania e nel Lazio, devastandoli.

Roma fu sorpresa, ma non sgomenta. Già nel 296 un energico contrattacco respingeva le forze sannitiche, che avevano invaso la Campania ed il Lazio. È probabile non fossero ingenti. Ma grandi apparecchi furon fatti per il 295, ed il tempo ad approntarli non mancò a Roma, perchè anche Gellio Egnazio e la coalizione avevano bisogno di tempo per affilare le armi. Rieletti per il 295, a dispetto della legge, i due consoli del 297, Q. Fabio Rulliano e P. Decio Mure, non vollero ricominciare la interminabile guerra di spossamento, ma tentar di rompere con un colpo solo ed ardito la coalizione. Nè si scoraggiarono, perchè una legione di avanguardia, sorpresa dai Galli e dai Sanniti a Camerino, fu accerchiata e annientata; ma dall’Etruria tentarono di entrare in Umbria; e presso Sentino incontrarono l’esercito della coalizione, comandato da Gellio Egnazio. [93] Si favoleggiò in seguito di 350.000 tra Galli, Sanniti, Umbri ed Etruschi che avrebbero combattuto, dei quali 100.000 sarebbero morti: certo è che la battaglia fu sanguinosissima; che uno dei due consoli, P. Decio Mure, e Gellio Egnazio perdettero la vita; e che i collegati furono disfatti. Pronto, il console superstite invase il territorio gallico, staccando i Galli dalla coalizione; e l’anno seguente anche l’Etruria deponeva le armi, le città etrusche essendosi arrese, le più a condizioni non dure.

Roma non poteva incrudelire, perchè, se la coalizione era disfatta, il Sannio non era vinto. Cinque anni ancora Roma dovè combattere nel Sannio, con alterna vicenda; e non potè conchiudere la pace che nel 290; dopochè nel 291 era riuscita a fondare a Venusia, in Apulia, una colonia latina, forte, pare, di ben 20.000 coloni, la più numerosa che sino ad allora fosse stata dedotta in Italia. Quando una così forte colonia latina fu stabilita in Apulia, le sorti dei Sanniti furono decise. Ma la nuova pace fu mite, poichè fu paga di rinnovare l’antica alleanza con qualche piccolo ritaglio di territorio e rispettando l’indipendenza della confederazione sannitica. È vero però che questa era ormai circuita da ogni parte e tagliata fuori dal mare.


28. La «Lex Hortensia» (287). — Insomma Roma aveva vinto una potente coalizione e rivinto il Sannio; ma non aveva punto ingrandito, con questa sanguinosissima guerra, il suo territorio. Questa vittoria sterile non sembra aver rallegrato [94] molto il popolo, se, nell’anno medesimo, in cui la repubblica faceva la pace con i Sanniti, il console Manio Curio Dentato, forse prendendo il pretesto che i Sabini avevano aiutato i Sanniti, conquistava, a sud dell’Umbria, quasi tutto il loro territorio; quindi entrava nel Piceno meridionale — il così detto paese dei Praetutii — lo conquistava e ci fondava Hadria (Atri), giungendo per tal guisa fino al Mare Adriatico. A questo modo i Sabini e i Praetutii facevano le spese della vittoria, riportata da Roma sulla coalizione e sul Sannio. Il territorio romano fu grandemente ampliato, da circa 8000 a circa 20.000 kmq. Ma il beneficio di questi ampliamenti non poteva farsi sentire che con il tempo. Alla pace con i Sanniti segue in Roma una viva agitazione della plebe per l’eterna questione dei debiti: prova manifesta che la seconda guerra sannitica, come la prima, aveva impoverito molte famiglie di possidenti. Quale sollievo i debitori chiedessero non appare: sappiamo solo che l’agitazione generò graves et longas seditiones; che fu necessario nominare un dittatore nella persona di Q. Ortensio; e che a questo dittatore è attribuita una legge, per la quale i plebisciti, ossia le deliberazioni dei comizi tributi, avrebbero d’ora innanzi forza di leggi generali, obbligatorie per patrizi e plebei[29]. I comizi tributi erano insomma eguagliati ai comizi centuriati. A ben collocare questo fatto staccato nella storia dei tempi, occorre congetturare che i sollievi chiesti dalla plebe fossero risolutamente avversati dalla nobiltà e dai ricchi, dominanti nei comizi centuriati; che i tribuni della plebe, disperando [95] di far approvare da questi le loro proposte, le portassero innanzi ai comizi tributi, chiedendo nel tempo stesso che i comizi tributi, la cui competenza era già stata allargata da leggi precedenti, come la Valeria Horatia del 444 e la Publilia del 334, potessero, come i comizi centuriati, legiferare per l’universale. Non è meraviglia che la proposta sia stata occasione di una secessione, addirittura: perchè i comizi tributi potevano essere convocati senza il consenso del senato e senza alcuna formalità religiosa, e non erano, come i comizi centuriati, dominati dal denaro, ma, come gli antichi comizi curiati, dal numero. Approvandola, si snaturava profondamente la costituzione timocratica di Servio Tullio. Questa volta però la plebe vinse; e non è difficile argomentare il perchè. Si poteva negar questa soddisfazione ai vincitori di Sentino e del Sannio, ai conquistatori della Sabina e del Piceno, con tanti nemici intorno, non ancora rassegnati alla vittoria di Roma? La Lex Hortensia, prova quel che già la censura di Appio aveva dimostrato: che le lunghe guerre indebolivano le tradizioni mescolando le classi, suscitavano nuove idee, facevano più popolari le istituzioni.


29. La riscossa Gallo-Etrusca (285-280). — Ortensio aveva appena sedato quella grave turbolenza, che Roma dovè misurarsi con tutta, si può dire, l’Italia. Le difficoltà incominciarono nell’Italia meridionale, dove i Lucani, forse imbaldanziti dalla alleanza con Roma, si erano guastati con le città greche della costa. Una di queste Thurii [96] (Turio), assalita dai Lucani, ricorse a Roma; e Roma, forse per equilibrane anche nell’Italia meridionale le forze, ingiunse ai Lucani di rispettare Turio. I Lucani fecero i sordi; e Roma stava per snudare la spada a difesa dell’ellenismo nell’Italia meridionale, quando un pericolo molto più grave nacque nel nord. Nel 285, una parte delle città etrusche aiutate da un esercito di Galli Senoni, tentarono la riscossa e posero l’assedio ad Arezzo, perchè fedele a Roma. Arezzo chiese aiuto a Roma, la quale non poteva lasciar che la città cadesse in potere del nemico, perchè la via del Lazio sarebbe stata aperta al nemico, proprio mentre l’insurrezione si propagava a mezzogiorno lungo la via Cassia sino a Volsinio. Roma, dunque, accorse. Ma presso Arezzo ben 13.000 Romani, tra cui il console Cecilio Metello, morsero la polvere e gran numero di legionari caddero prigionieri nelle mani dei nemici (285). Sentino pareva vendicata; e di nuovo l’insurrezione divampò in Etruria, nel Sannio, nell’Italia meridionale. I Lucani colsero l’occasione per vendicarsi di Roma e di Turio e trascinarono i Bruzzi; i Senoni osarono perfino trucidare gli ambasciatori, mandati a chieder ragione dell’aiuto che essi, alleati di Roma, avevano prestato agli Etruschi. Ma Roma non si perdette d’animo. Apprestò due forti eserciti; ne mandò uno a tenere in rispetto i nemici sotto Arezzo, l’altro nel paese dei Senoni, a vendicare la strage degli ambasciatori, trucidando e saccheggiando. Vendetta esemplare, che però mosse i Galli Boi ad allearsi con gli Etruschi, e a tentare, nel 283, una mossa su Roma. Ma Roma [97] parò anche questo nuovo colpo. L’orda fu assalita per via, presso il lago Vadimone, lungo la linea del Tevere e totalmente distrutta (283). La battaglia del lago Vadimone decise le sorti della guerra e della coalizione, sebbene le armi non fossero ringuainate fino al 280. I Sanniti, chiusi da ogni parte, poco poterono fare; i Galli Boi prima, e poi ad una ad una le città etrusche, conchiusero pace; i Lucani e i Bruzzi, ormai soli, non avrebbero potuto resistere a lungo. Roma guadagnava una nuova striscia di paese: il territorio dei Senoni dall’Esino sino al Rubicone, sul quale fondava la colonia di Sena Gallica (Sinigaglia). Ma i Lucani assediavano ancora Turio.... Roma volle approfittare del momento propizio; e mandò nel 282 un forte esercito al soccorso di Turio. Ma allora una nuova guerra divampò, e molto più grave: un vero e proprio conflitto con l’ellenismo.


30. Origini ed occasioni della guerra con Taranto (282-281). — Sui primi del secolo III a. C. le città greche della Magna Grecia non erano più, come due o tre secoli prima, le incontrastate dominatrici della regione. Indebolite, cercavano alleanze a Roma, in Sicilia, nella Grecia, per difendersi alla meglio contro gli elementi indigeni, che si ribellavano con fortuna crescente. Ma gli Stati, a cui le forze non bastavano più per difendersi da soli, non possono salvarsi che scegliendo le alleanze con molta accortezza e praticandole con molta fermezza. Invece quelle città erano meno costanti del mare, su cui la maggior parte si specchiava. I partiti si avvicendavano, si incalzavano, [98] precipitavano, scrosciando come marosi; sfruttando ognuno la passione popolare del momento, e scherzando temerariamente con il pericolo, che minacciava l’ellenismo in quella penisola, in cui esso era, non ostante le sue molte virtù, forestiero e avventizio.

Questa mobilità dei partiti e dello spirito pubblico spiega come l’ellenismo non sapesse approfittare della forza di Roma, anzi spensieratamente se la inimicasse. Roma doveva essere più avversa all’ellenismo, che amica. I Romani erano degli italici come i Lucani, come i Bruzzi. Ma le invasioni galliche, le guerre etrusche, la guerra latina, e le guerre sannitiche non avevano fin ora consentito a Roma di prendere partito nella lotta tra gli Italici e i Greci, di cui l’Italia meridionale era campo. Si aggiunga il rispetto di un potentato recente, favorito dalla fortuna, e voglioso di nobilitarsi, per i Greci, maestri di tutte le arti e di tutte le scienze. I Greci dell’Italia meridionale avrebbero insomma potuto ripararsi per qualche tempo dietro lo scudo di Roma. Turio lo aveva capito; lo avevano capito Locri e Reggio, che imitarono l’esempio di Turio. Ma l’orgoglio e l’egoismo di Taranto impedirono all’ellenismo di approfittare di queste discordie indigene. Taranto era la più ricca e la più potente tra le città elleniche dell’Italia meridionale; e da un pezzo s’era arrogato di parlare da sola in nome di tutte, aspirando, a rinforzo del suo commercio, a una specie di egemonia politica. Per questa ragione Turio e le altre città greche avevano preferito chiamare in aiuto contro Lucani e Bruzzi Roma, anzichè Taranto. Ma anche [99] per questo Taranto considerò il loro passo come un tentativo di alterare l’equilibrio delle forze in quella remota plaga della penisola. Taranto era governata da una democrazia che, come tutte le democrazie, si studiava di lusingare le passioni più veementi delle masse; e tra queste l’orgoglio, rinfocolato dal confronto delle proprie ricchezze e della propria civiltà con la povertà, la rozzezza e l’ignoranza delle popolazioni italiche. Anche i Romani erano, per i Tarantini, dei barbari insolenti e prepotenti, i quali volevano intromettersi nelle faccende dei popoli, che avrebbero dovuto venerare come maestri. L’intervento dei Romani a Turio esasperò questa rabbia; e bastò un incidente a far scoppiare la guerra.

L’incidente fu una operazione militare, compiuta durante la guerra di Turio. Un vecchio trattato vietava alle navi romane di oltrepassare il promontorio Lacinium[30], in cui la punta della penisola si sporge più innanzi nell’Ionio. Anche la ragione di questa clausola, come delle clausole consimili inserite nei trattati tra Roma e Cartagine, doveva essere piuttosto commerciale che militare. Ma per soccorrere Turio, era troppo comodo a Roma servirsi del mare, sia pur violando i patti di un così antico trattato. Pare dunque che convogli di truppe e di viveri fossero spediti da Roma a Turio per mare. I Lucani furono respinti; Turio, liberata e presidiata con una guarnigione romana: ma la vittoria dei Romani esasperò i Tarantini, che aspettavano l’esito della guerra, sperando la sconfitta delle armi romane; e che per vendicarsi, fecero appiglio al vecchio [100] trattato. Un giorno, quando una flottiglia romana comparve all’imboccatura dell’ampio golfo tarantino, la squadra della grande città greca, che incrociava in quei paraggi, dopo avere tentato invano di richiamare gli ammiragli romani all’osservanza del trattato, attaccò le navi nemiche, e parte le colò a fondo, parte le catturò. Subito dopo un esercito tarantino mosse su Turio, occupò la città, costrinse alla resa il presidio romano, e rimise il governo al partito filelleno, ossia ai democratici.

La provocazione era grave. Ma Roma non distoglieva gli occhi dal pericolo etrusco e gallico, minacciante da settentrione. Non era difficile prevedere che Taranto avrebbe fatta lega con i Sanniti e con gli altri popoli italici; e Roma non voleva esser presa in mezzo tra una coalizione gallo-etrusca a settentrione, ed una coalizione italo-greca a mezzogiorno. Cercò quindi di intendersi e di ottenere una amichevole soddisfazione diplomatica. Ma l’orgogliosa democrazia tarantina non intendeva ragione. Fu mestieri allora ribadire con la forza le inutili proposte di conciliazione. Il console Q. Emilio Barbula, che campeggiava nel Sannio, ebbe ordine di marciare senz’altro alla volta di Taranto e di fare sotto le mura della città una vera e propria dimostrazione militare: non per incominciare una guerra, ma per strappare, pur che si fosse, una soddisfazione non disonorevole. Anche questa mossa fallì; anzi ottenne l’effetto opposto. Taranto rispose, chiamando in suo aiuto un principe greco: Pirro, re dell’Epiro.

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31. Pirro in Italia: le battaglie di Eraclea (280) e di Ascoli (279). — Parte dell’Europa orientale e dell’Asia occidentale non avevano ancora trovato posa dopo il grande trambusto, provocato dalla morte di Alessandro Magno. Quivi i regni e gli imperi continuavano a nascere, a precipitare, a rinascere. Uno dei tanti Regoli, apparsi, scomparsi e riapparsi in quel disordine, era appunto Pirro. Sul trono dell’Epiro, l’aveva preceduto il padre suo, Eacida: ma aveva dovuto una prima volta andare in esilio, poi era tornato ad occupare il trono, poi di nuovo aveva dovuto fuggire. Tornato alla fine, sin dal 295, in Epiro come Re, e questa volta definitivamente, aveva ampliato il suo regno a settentrione, a mezzogiorno e ad oriente, occupando l’odierna Albania, Corfù, alcuni distretti della Macedonia, forse l’Atamania, e la bella città di Ambracia. Ma non era ancora soddisfatto: aspirava a ingrandire i suoi Stati, a illustrare il suo nome, a impinguare il suo tesoro, a conquistare la corona di Macedonia. Accettò dunque l’invito di Taranto, che lo invocava campione dell’ellenismo in Italia; e in sui primi del 280 sbarcò con poco più di 20.000 fanti, 3000 cavalli e un certo numero di elefanti da guerra. Taranto prometteva di allestire un esercito alquanto maggiore; al quale si sarebbero aggiunti i contingenti degli alleati italici e delle città greche amiche. Taranto, città greca, si metteva a capo di una coalizione di Italici e di Greci contro Roma, che era apparsa nell’estrema Italia come alleata dei Greci contro gli Italici! Ben confusa era dunque [102] la mischia degli interessi e delle ambizioni; e l’accresceva una specie di malinteso tra Pirro e Taranto, che è la occulta ragione di molte strane vicende di questa guerra singolare. Taranto chiamava Pirro come un mercenario, che fa le guerre degli altri a pagamento; ma Pirro veniva come il Re dell’Epiro, ambizioso di fondare anche egli, come tanti altri suoi compagni d’arme, un impero, piccolo o grande.

A ogni modo una nuova coalizione minacciava la repubblica. Sembra che da principio Roma si sia illusa di sbaragliare questa coalizione, come Fabio e Decio Mure avevano, nel 295, sbaragliato la coalizione dei Greci, dei Sanniti, degli Etruschi, degli Umbri: con poche mosse risolute ed audaci. Mentre Pirro attendeva, nella primavera del 280, a raccogliere le varie milizie sue e degli alleati, un esercito romano lo assalì all’improvviso tra Eraclea e Pandosia, presso la costa tarantina, nella valle tra gli odierni Acri e Sinni. Ma Pirro aveva imparata la guerra alla scuola dei generali di Alessandro; era stato, come ufficiale, alla battaglia di Ipso, nel 301; era dunque altro avversario che i generali etruschi o galli o sanniti. E quello che assaliva Pirro era un unico esercito consolare di due legioni, che con le truppe ausiliarie faceva appena 20.000 uomini. I Romani combatterono con grande valore; ma furono alla fine sconfitti; e in pochi giorni, sotto l’impressione di questa disfatta, l’egemonia romana parve vacillare in tutta l’Italia meridionale. Le guarnigioni romane o dovettero sgombrare o furono fatte prigioniere e consegnate a Pirro, il quale, rinforzato dai [103] Sanniti e dai Lucani, mosse risolutamente verso il Lazio. Mirava a far sollevare i territori circostanti? O a tentare addirittura l’assalto su Roma? O a dar la mano alle città etrusche, contro cui Roma guerreggiava ancora a settentrione? Difficile dirlo. Forse Pirro voleva soltanto, con una risoluta offensiva, mettere alla prova la fermezza dell’avversario; salvo a prendere poi il partito che gli eventi suggerirebbero, nel corso dell’azione. Ma Roma aveva pertinacia e coraggio da affrontare anche il genio di un grande guerriero; e a questa ardita offensiva oppose un supremo sforzo: si accordò, come potè, con gli Etruschi; reclutò anche i nullatenenti; spedì due eserciti contro l’invasore. Pirro, che aveva provato ad Eraclea il valore romano, non osò attaccare; e, dopo aver campeggiato a lungo, tornò indietro, ritirandosi novamente a Taranto nell’autunno. La campagna del 280 era finita.

La guerra ricominciò nella primavera del 279. Pirro invase l’Apulia, conquistando parecchie città. I Romani accorsero con due eserciti consolari; e lo assalirono ad Ausculum (l’antica Ascoli di Puglia). Due giorni durò la battaglia. Alla fine del secondo giorno i Romani furono sconfitti, ma non sgominati; e poterono ritirarsi in buon ordine nei propri accampamenti, lasciando 6000 dei loro sul campo, ma dopo avere inflitto al nemico gravi perdite. Senonchè, sebbene poco fortunate per le armi romane, le due prime battaglie decisero egualmente le sorti della guerra a vantaggio di Roma. Pirro era un generale troppo valente da non argomentare, da queste due così difficili e non [104] decisive vittorie, che Roma era un duro avversario e che egli non aveva forze sufficienti per debellarlo. Non poteva dunque più pensare a fondare quell’impero, la cui speranza lo aveva tratto a varcare il mare, nell’Italia continentale. Ma proprio allora insistenti inviti gli giungevano dalla vicina Sicilia; ove Siracusa, la rocca forte dell’ellenismo siculo, era stretta, per terra e per mare, da un esercito e da un’armata cartaginese. Questo invito fece concepire a Pirro un nuovo piano: far la pace con Roma, tenere le città greche dell’Italia meridionale, che lo avevano chiamato, e servendosi di queste come base di operazione, conquistare la Sicilia; riunire insomma sotto il suo scettro, in un solo impero, tutte le città greche della Sicilia e le maggiori città greche dell’Italia meridionale. Iniziò infatti con Roma quelle trattative di pace, intorno a cui tante leggende famose furono raccontate, chiedendo solo che Roma sgombrasse quei territori dell’Italia meridionale, da cui minacciava le città greche, e ristabilisse con Taranto i patti anteriori al 282. Il senato, stanco della lunga guerra, inquieto per la malavoglia con cui le classi rurali rispondevano, quando erano chiamate alle armi — nel 280 era stato necessario arruolare i nullatenenti — inclinava ad accettare. Quand’ecco levarsi Appio Claudio, il famoso censore, ormai vecchio e cieco. Questo uomo audace, che già aveva fatto violenza a tanti pregiudizi di casta e a tante tradizioni di prudenza, insorse con veemenza anche contro questa debolezza, che voleva rinunciare all’Italia meridionale proprio quando la fermezza poteva [105] farla romana per sempre. Cartagine a sua volta aiutò l’eloquenza di Appio. Avendo saputo che le città siciliane avevano fatto appello a Pirro, la astuta repubblica si era affrettata a mutare gli antichi trattati con Roma in una vera e propria alleanza di difesa e di offesa[31]. Abbandonando la Sicilia ai Cartaginesi, Roma poteva dunque sperar di conquistare per sempre l’Italia meridionale. L’occasione era troppo bella; gli accordi fallirono, e la guerra ricominciò.


32. Pirro in Sicilia, il suo ritorno in Italia e la sua partenza definitiva (278-275). — Senonchè Pirro non mutò proposito per il rifiuto di Roma; perchè giudicò di aver forze sufficienti a conquistare la Sicilia e a difendere le città greche e i punti dell’Italia meridionale che più gli premevano contro i Romani. Non è dubbio che questo mutamento di piano parve ai Tarantini un tradimento. Essi avevano chiamato Pirro perchè debellasse Roma e non perchè conquistasse la Sicilia. Ma Pirro era allora il più forte. Sullo scorcio dell’estate del 278, dopo due anni e mezzo di soggiorno nella penisola, egli partiva alla volta della Sicilia con mezze le sue forze, lasciando il resto a presidiare le città greche che l’avevano chiamato.

Pirro non s’era ingannato, giudicando di poter conquistare la Sicilia e tenersi sulla difesa nel continente. Nei tre anni che durò la sua assenza, i Romani poterono di nuovo invadere con varia fortuna il Sannio e prendere alcune città greche, quali Locri, Crotone, Eraclea; ma non poterono far nulla contro Taranto, nè minacciare seriamente [106] le posizioni di Pirro sul continente. Intanto Pirro ricacciava con rapide mosse i Cartaginesi da tutta l’isola, salvo dalla fortezza di Lilibeum (Marsala). Il disegno di raccogliere sotto un solo dominio le città greche della Sicilia e dell’Italia meridionale pareva riuscire; a segno che Pirro prese perfino a costruire una grande armata, che fosse l’organo potente di questo impero posto tutto sul mare. Ma l’opposizione dei Sicelioti mandò a vuoto l’ardito disegno. La Sicilia non era uno Stato unitario ed omogeneo, capace di una politica stabile e continua, di sacrifici protratti e adeguati. Pirro era un valoroso soldato, ma non un politico abile; e anche in Sicilia il suo governo soldatesco, spicciativo e rapace spaventò ed offese. Non tardarono a nascere malumori; una parte dei Greci, dopo aver chiamato Pirro contro i Cartaginesi, incominciò a cospirare con i Cartaginesi contro Pirro; intanto Taranto e le altre città, sempre minacciate da Roma, smaniavano e lo richiamavano perchè accorresse a terminare la guerra. Giunse il giorno in cui egli fu forzato a scegliere: o ritornare nell’Italia meridionale o perderla. Ritornò: ma non era ancora così sicuramente padrone della Sicilia, da poterla abbandonare; e infatti, appena fu partito, i Cartaginesi, che si trovavano ancora a Lilibeo, ripresero coraggio; attaccarono la sua flotta e le inflissero una sconfitta. Alla notizia di questa sconfitta, tutta l’isola insorse; e la Sicilia fu perduta, senza che Pirro potesse accorrere al suo soccorso. Di nuovo egli era impegnato nella lotta contro i Romani. Infatti, nella primavera del 275, [107] Pirro tentò sorprendere uno dei due eserciti romani, operanti nel Sannio e in Lucania. Non lungi da Benevento (l’antica Maleventum) sul tratto della via Appia, che da Caudio si addentra nel cuore del Sannio, stava allora accampato il console M. Curio Dentato, deliberato a non lasciarsi smuovere dalle provocazioni del Re epirota, prima che il collega fosse arrivato dalla Lucania. Occorse perciò che Pirro si risolvesse a dar l’assalto a quella fortificazione semovente, che furono sempre i castra dei Romani. Ma l’assalto riuscì vano; e poichè il Re non poteva ora resistere ai due eserciti romani, prossimi a congiungersi, deliberò di ritirarsi: peggio ancora, giudicando che il suo doppio disegno sulla Sicilia e sull’Italia meridionale era ormai fallito, deliberò di lasciare l’Italia, e di recarsi a cercar fortuna in altro campo, in Grecia. Per mascherare la fuga, lasciò un corpo di milizie epirote; e, al comando di queste, in sua vece, il figliuolo Eleno. Poco di poi, avrebbe egualmente richiamato in patria e l’uno e le altre.


33. La conquista dell’Italia meridionale (275-270). — Con minor fretta, con minor genio ma con tenacia e con fermezza maggiore, mentre le triremi del Re fuggivano alla volta dell’Illiria, Roma si apparecchiava a conquistare tutta e per sempre l’Italia meridionale. Essendo ormai la più forte, essa rivolgeva alla conquista la guerra, incominciata per difendersi. Occorsero però ancora cinque anni, e spedizioni, combattimenti, assedi: operazioni parziali e staccate contro i frammenti della coalizione, che resistevano ancora, [108] ognuno da sè e con le sue forze. Finalmente, verso il 270, Roma era signora dell’Italia meridionale. Roma non aveva più nessuna ragione di usare indulgenza: il Sannio fu quasi tutto annesso allo Stato romano, e coperto di colonie; solo la sua parte centrale — il così detto paese dei Pentri — rimase in una certa misura indipendente. Il gran duello era finito per sempre. Il popolo sannita avrà ancora, qualche volta la forza di scuotersi, non più quella di risorgere e di minacciare.

Sorte non più lieta ebbero i Bruzzi e i Lucani, costretti anch’essi a cedere parte del loro territorio. Nella Lucania, lungo il mare, a Posidonia (Pesto), fu dedotta una colonia di cittadini romani. La grande città, di cui tutt’oggi si ammirano le ruine meravigliose, tra il mare e il cielo, faceva ancora un passo giù per la china dolorosa del suo imbarbarimento. Solo le antiche metropoli elleniche, compresa forse la stessa Taranto, cagione di tanto male, diventarono città alleate di Roma, conservando, almeno di nome, la propria autonomia.

Poco prima di questa catastrofe, nel 273 o nel 272, Pirro, già vicino a porsi sul capo la agognata corona macedone, periva oscuramente in un minuscolo fatto d’armi, in una viuzza di Argo.

Note al Capitolo Quinto.

29.  Plin., N. H., 16, 10, 37, Gell., N. A., 15, 27, 4; Dig., 1, 2, 8.

30.  App., Samn., 7.

31.  Cfr. Polyb., 3, 25, 3-4.

[109]

CAPITOLO SESTO ROMA E CARTAGINE

34. Roma, grande potenza mediterranea. — Dopo la guerra di Taranto, Roma ha ormai conquistato tutta l’Italia degli antichi; ossia la penisola, che dall’Arno e dal Rubicone si stende fino al mare Jonio. È dunque diventata, come oggi si direbbe, una grande potenza. Quanto cammino, sia pur faticosamente e inciampando a ogni passo e più di una volta ferendosi in qualche pericolosa caduta, aveva fatto la repubblica, in meno di due secoli e mezzo! Come era mutato il Mediterraneo, dai giorni lontani, in cui la repubblica era nata, debole e timida, da una rivoluzione! L’Etruria non è ormai quasi più che un nome. Anche l’impero persiano è caduto da più di un secolo e mezzo; e con esso la superstite potenza della Fenicia orientale è precipitata nella polvere. Tutto l’Oriente è ormai greco. Il genio greco regna sovrano nelle arti, nella politica, nella guerra, nelle lettere, nella religione, nella cultura, nell’industria e nel commercio, in tutti e tre i grandi Stati in cui si era frantumato l’impero d’Alessandro: [110] la monarchia dei Seleucidi, signora del vario paese, che dalle coste egee dell’Asia minore, attraverso la Siria propriamente detta, la Mesopotamia, l’Iran, si stendeva fino al bacino dell’Indo e all’Oxus; i Tolomei, regnanti sull’Egitto, sulla Cirenaica, sulla Siria meridionale, su Cipro, su Creta e su parecchi territori di confine della Tracia, dell’Ellesponto, dell’Asia minore; infine, gli Antigonidi di Macedonia, i più irrequieti, i più smaniosi di ingrandire a nord ed a sud, in Dalmazia e in Grecia, la difficile eredità che Filippo II il Macedone aveva loro lasciato. Oltre queste, un’altra potenza ellenistica, Siracusa, aveva più volte tentato, con il braccio dei suoi tiranni e dei suoi condottieri — Dionisio, Timoleone, Agatocle — di fondare un impero; aveva signoreggiato sulle città greco-sicule, le così dette città siceliote. Ma, pur troppo, ormai, dopo la spedizione di Pirro, essa era incalzata da Cartagine. Cartagine era allora la maggiore e la più antica potenza del bacino occidentale del Mediterraneo; occupando tutta l’Africa settentrionale, dai confini della Cirenaica alle colonne d’Ercole; le città costiere della Spagna meridionale, la Sardegna, la Corsica, la Sicilia settentrionale, la Sicilia ad occidente del Platani.


35. Cartagine e il suo impero. — In questa cerchia delle grandi potenze mediterranee entrava ora, per misurarsi successivamente con tutte, la più giovane, Roma. Paragoniamola alla più antica, poichè l’una e l’altra stanno per impegnarsi in un duello mortale. Per tesori accumulati, per [111] ricchezza di commerci e di industrie Cartagine superava Roma di molto. Essa passava a ragione per una delle più ricche città del mondo. Nè era soltanto una prosperosa repubblica di mercanti; possedeva anche un esercito, che gli storici hanno forse troppo spregiato, perchè composto di soldati forestieri e di mercenari. Ma se si può giudicar variamente la forza di Cartagine in terra, non è dubbio il vantaggio che aveva sul mare. L’aristocrazia governava Cartagine come governava Roma; e se a Cartagine la vecchia nobiltà militaresca era avversa alla nuova nobiltà mercantile, anche Roma era agitata e scissa dalle ambizioni e dagli interessi che si azzuffavano. Nè si dimentichi che il governo cartaginese era stato poco prima giudicato un modello da Aristotele. Infine pare che i due imperi avessero all’incirca eguale vastità. Per molti rispetti quindi Cartagine sembra avere avuto il vantaggio su Roma. Senonchè i due imperi erano ordinati e retti secondo principî diversi. Nell’Africa settentrionale, il territorio cartaginese era coperto da innumerevoli città e villaggi, le une popolate da Libo-fenici, una gente nata dall’incrocio dei colonizzatori fenici e degli indigeni, le altre da puri Libi, che vivevano tutti coltivando la terra, esercitando qualche industria e sfruttando le ricchezze naturali del suolo. Tra i Libo-fenici e tra i Libi Cartagine reclutava una parte dei suoi eserciti, integrandola con mercenari spagnuoli, liguri e galli. Senonchè — e questo è punto capitale — Cartagine era una grande potenza mercantile, che vendeva e comprava tutte le cose, il cui valore poteva [112] mutare, mutando luogo. Ma il commercio antico prosperava per monopoli; e i monopoli possono essere imposti dalla forza soltanto. Noi sappiamo infatti che tutte le popolazioni soggette a Cartagine non potevano nè comperare nè vendere, se non osservando certe regole imposte dalla metropoli; e che ogni specie di autonomia era loro negata. Le città libo-fenicie erano governate con impero diretto e assoluto da Cartagine, mediante funzionari da essa nominati; i Libi, divisi in tribù, erano sottoposti al governo di Re, i quali poi dipendevano da Cartagine. Sole godevano di una certa autonomia le popolazioni rimaste nomadi al di là della zona coltivata: i Numidi, come i Romani li chiameranno; i quali però dovevano anch’essi riconoscere l’autorità di Cartagine, fornire dei contingenti di cavalleria e non molestare le ricche popolazioni sedentarie. Allo stesso modo si può spiegare il fatto che molte città non fossero fortificate. Cartagine non vedeva di buon occhio fortificazioni, che avrebbero potuto servire come appoggio, por qualche rivolta contro la metropoli e i suoi privilegi.


36. Lo Stato romano e la sua composizione. — Insomma Cartagine aveva coperta una larga parte del suo ricco territorio di colonie non militari, ma agricole e commerciali. Ben diverso era l’ordinamento del territorio romano. In questo tempo il piccolo impero, che Roma con tanta fatica ha raccolto intorno a sè, è un fascio di elementi vari. Si compone di due parti ben diverse: il territorio romano e il territorio degli alleati. Il primo, vasto [113] circa 25.000 kmq., è amministrato da molte città, ciascuna delle quali provvede al territorio suo, e che sono o colonie romane, o colonie latine, o municipi. Le colonie romane, a differenza delle colonie greche, erano fondazioni statali; e, a differenza delle cartaginesi, avevano scopi militari e politici. I loro abitanti, coloni romani e indigeni accomunati in una nuova unità amministrativa, erano cittadini romani; godevano in Roma dei diritti civili e politici, anche se la distanza impediva loro di fame uso; e, nella colonia, di autonomia amministrativa. La colonia aveva magistrati propri (duoviri o praetores), un consiglio (decurionum ordo), sacerdoti (flamines), assemblee popolari (comitia), finanze autonome. Infine ogni colonia romana era una città fortificata.

Senonchè le colonie romane che si contano, fino alla metà del III secolo, sono poche, quasi tutte sul mare e tutte piccole. Di solito i coloni dedotti erano un trecento e non più. Nerbo della potenza romana in Italia erano invece le colonie così dette latine. Erano questi, rispetto alla metropoli, Stati sovrani; possedevano leggi ed istituzioni proprie, piena autonomia amministrativa, il diritto di batter moneta e il diritto di esilio, l’immunità dal tributo, un territorio che non faceva parte delle tribù romane. Due sole limitazioni Roma imponeva alla sovranità: l’obbligo di fornire contingenti e di riconoscere Roma arbitra delle guerre e della pace, delle alleanze e dei trattati. Roma concedeva inoltre ai coloni latini lo ius connubii e lo ius commercii, il diritto di contrarre matrimoni e di possedere secondo la legge romana: non [114] la cittadinanza romana, naturalmente, chè sarebbe stata incompatibile con la cittadinanza propria. L’ordinamento delle colonie latine posa dunque su principî opposti a quelli con cui Cartagine reggeva il suo impero. E a prima vista può sembrare strano che Roma abbia seminato in ogni parte d’Italia questi Staterelli quasi indipendenti; che non abbia temuto di dedurre in molte di queste città un numero di coloni ben maggiore che nelle colonie romane, da 2000 a 20.000; che abbia concesso loro di coprir l’Italia di fortezze, ognuna delle quali poteva rivolgersi un giorno contro la metropoli. Ma si spiega; ed è un effetto lontano, causa a sua volta di prossimi e grandiosi eventi, della rivoluzione, che aveva rovesciato la monarchia e interrotto a Roma il suo primo disegno e la sua prima ambizione mercantile. Non essendo un potentato mercantile, Roma non aveva monopoli da imporre; non avendo monopoli da imporre, poteva fondare le sue colonie, seguendo principalmente la ragione militare.

I municipia comprendevano tutte le città italiche cadute sotto il dominio di Roma. Alcune, le più maltrattate, quelle che avevano ricevuta la civitas sine suffragio, potevano essere paragonate alle città suddite di Cartagine. Gli abitanti non avevano nè il diritto di votare nè quello di essere eletti alle magistrature romane; ma dovevano prestar servizio nell’esercito, pagare il tributo ed obbedire alle leggi romane. Roma mandava a governarle un praefectus juri dicundo. Altre, un po’ meglio trattate, conservavano l’antica autonomia comunale; altre, infine, e il loro numero andò [115] col tempo crescendo, godevano della piena cittadinanza romana (civitas optimo iure). Gli abitanti però di tutti e tre gli ordini di municipia, al pari delle colonie latine, possedevano lo ius commercii e lo ius connubii.

Al di là del territorio, che faceva parte dello Stato romano, si distendeva il territorio delle città alleate, pari all’incirca a 100.000 kmq. Roma le aveva trattate, come la lega latina dopo la grande guerra del 340-338: cercando di frantumare tutte le vecchie confederazioni e legando a sè le singole città; umiliando le più potenti e accarezzando le più deboli; favorendo in ogni città il partito romano ai danni del partito nazionale. Le città alleate rimanevano autonome, ma dipendevano da Roma per tutti i rapporti con gli altri Stati, ed erano tenute ad arruolare, equipaggiare e stipendiare milizie di terra e di mare, per tutte le guerre di Roma.


37. Il pomo della discordia: Messina. — Non è dunque meraviglia che Roma e Cartagine fossero state per due secoli e mezzo amiche. Il mare e la debolezza di Roma avevano mantenuto la pace. Ma nei due secoli e mezzo, corsi dalla fondazione della repubblica, Roma era cresciuta anch’essa; e i due imperi ormai quasi si toccavano. Così fu che la pace fu rotta a un tratto, nel 265, in pochi mesi, in apparenza per un incidente da nulla. Ventiquattro anni prima un corpo di mercenari, in buona parte italici, assoldati da Agatocle di Siracusa per fare la guerra ai Cartaginesi, erano stati congedati. Ma, invece di ritornare in patria, avevano [116] preso d’assalto Messina, vi si erano installati e avevano esteso il loro impero sulle cittadine limitrofe di qua e di là del Faro, assumendo il pomposo titolo di Figli di Marte (Mamertini). Pirro prima, e, partito Pirro, i Romani, quando si erano accinti a sottomettere le città italiche di quell’estremo lembo della penisola, li avevano combattuti. Ma i Mamertini avevano potuto conservare Messina sino al 270. In questo anno invece furono prima sconfitti in campo aperto e poi assediati nella città da Gerone di Siracusa; e sentendosi in estremo pericolo, cercarono un aiuto, anzi degli aiuti: perchè gli uni si rivolsero a Cartagine e consegnarono a un generale punico l’acropoli della città; gli altri invece si rivolsero a Roma.


38. Pace o guerra? I due partiti a Roma e le loro ragioni. — Messina invitava dunque la grande potenza italica, che a piccoli passi la vittoria aveva condotto alle sponde del mare siculo, a passare lo stretto. Piccolo braccio di mare, dalle cui rive l’occhio discerne le città, i villaggi e sin le case dell’opposta sponda: ma che passo smisurato sarebbe invece per Roma, il varcarlo! Il primo passo verso la conquista di un impero mondiale. Roma lo sentì. Noi sappiamo che la domanda dei Mamertini fece nascere in Roma una agitazione, quale da un pezzo nessun accidente o incidente politico aveva suscitata. I pericoli erano palesi. Intervenire in Sicilia e dichiarare guerra a Cartagine, erano la stessa cosa. Certo la Sicilia era una delle gemme del Mediterraneo: ma poteva [117] Roma, anche per la Sicilia, affrontare Cartagine, formidabile per armi e per ricchezze? Noi non ci meravigliamo leggendo negli antichi scrittori che il senato esitava. Ma non esitava invece la pubblica opinione. Noi conosciamo, grazie a Polibio, gli argomenti che i fautori dell’intervento opponevano alle sagge considerazioni dei prudenti[32]. Essi dicevano che Cartagine era padrona ormai di quasi tutta la Spagna, della Corsica, della Sardegna e delle altre isolette sparse in quei mari; che già possedeva buona parte della Sicilia; se anche Messina, e cioè tutta la Sicilia, cadesse in suo potere, l’Italia — sono le precise parole dello storico greco — sarebbe «accerchiata e soffocata» da Cartagine. Che altro poteva essere Messina, se non il ponte per assaltare l’Italia? Polibio aggiunge che i partigiani della guerra magnificavano anche il beneficio che la guerra apporterebbe ai singoli cittadini; i quali, danneggiati dalle guerre passate, prestavano orecchio volentieri a questi discorsi, sperando di potersi rifare.

Roma si trovava proprio alla svolta decisiva. Abbiamo veduto come ormai da un secolo le guerre e le conquiste venivano rapidamente alterando in Roma l’antico assetto delle fortune, dei ceti, delle idee, delle tradizioni, sconvolgendo, distruggendo, rovesciando, rinnovando or questa or quella parte dell’ordine antico. Ma per parecchie ragioni la guerra contro Taranto e la conquista dell’Italia meridionale avevano impresso una nuova spinta a questo movimento. Innanzi tutto l’aver vinto Pirro, uno dei generali educato alla scuola di Alessandro il Grande, aveva accresciuto l’orgoglio di [118] Roma, la sua fiducia nelle proprie forze, l’ambizione. L’opinione pubblica si era fatta più ardita, più esigente. Nel tempo stesso la conquista della zona interna dell’Appennino e la riduzione ad ager publicus di tanta parte dei vasti territori conquistati acceleravano il grande rivolgimento di fortune, incominciato, a quanto sembra, in mezzo alla guerra sannitica; l’ingrandirsi dei dominî fondiari, sotto forma di proprietà o di possesso; l’incremento del proletariato urbano, dell’industria e del commercio. In questi anni, per la prima volta, la legge agraria licinio-sestia è veramente violata; la nobiltà romana, che, di buona e più spesso di mala voglia, aveva fatto la guerra contro Pirro, si affretta dopo la vittoria a gettarsi sulle terre conquistate nell’Italia meridionale, locando per pochi assi vaste estensioni di terreno, comperando gli schiavi, gettati sul mercato in copia dalle disfatte nemiche, e ripigliando su più larga scala, e con maggior copia di mezzi, la tradizione sannita e lucana della grande pastorizia. Senonchè il moltiplicarsi e l’ingrandirsi delle fortune fondiarie richiedevano abbondanza di terre pubbliche da affittare e abbondanza di schiavi; quindi nuove guerre e nuove conquiste. Inoltre è certo che, dopo la vittoria su Taranto, rinascono le aspirazioni a far di Roma una città mercantile, come aveva tentato la monarchia: aspirazioni, che la maggior conoscenza del mondo ellenico, la cresciuta fiducia, l’abbondanza del capitale, l’ampliato dominio non potevano non incoraggiare. Infine, anche i costumi e le idee si rinnovano. L’ellenismo fa rapidi progressi a [119] Roma, dopochè la Magna Grecia è stata incorporata nel suo impero, e con la Magna Grecia le vie più rapide per tragittare in Grecia e nell’Oriente ellenistico. Un greco di Taranto, Livio Andronico, porta in Roma l’epica e la dramatica greca, anzi la mania di tutta la coltura ellenica. A sciami, assai più che ai tempi di Tarquinio I e di Tarquinio II gli Etruschi, irrompono dall’Italia meridionale nella antica città i Greci, portando la coltura, le divinità, i costumi, i vizi ed il lusso dell’Asia ellenica. Già nel 275 un console era stato espulso dal senato, perchè sulla sua mensa splendeva un troppo ricco vasellame; e due anni dopo la conquista dell’Italia meridionale, Roma avrà bisogno di coniare monete d’argento, di aprire all’uopo zecche nel Lazio e in Campania.


39. La guerra a Cartagine deliberata dai Comizi. (264). — Tutte queste aspirazioni ed inclinazioni e ambizioni confluirono in una corrente unica, che spinse la repubblica a varcare lo stretto, anche a rischio di dar di cozzo contro Cartagine. Grandi possidenti che arricchivano sulle terre conquistate nel Sannio e nell’Italia meridionale; giovani signori, che imparavano a gustare la letteratura e la filosofia greca; appaltatori degli eserciti o dei lavori pubblici; operai od artigiani, che vivevano sulle guerre o sulle spese pubbliche; senatori, cavalieri e ricchi liberati, che incominciavano a tentar qualche commercio, imitando i Tarantini, i Siracusani o i Cartaginesi; oscuri plebei e modesti possidenti che, dimenticando quanti eran morti od erano stati rovinati dalle guerre precedenti, vedevano [120] soltanto i fortunati, ritornati con un gruzzolo, facevano violenza alla pavida prudenza dei saggi. Cartagine, l’amica secolare, era diventata il pericolo; Cartagine, che aveva occupato l’Africa e la Sardegna, che si impadroniva della Spagna, avrebbe, se Roma non si affrettava, invaso un giorno l’Italia, come già aveva invaso la Sicilia.

Questa corrente popolare era così forte che il senato non osò pigliarla di petto. Ma non osò neppure secondarla; onde si appigliò ad un partito, di cui raramente fece uso nella lunga storia di Roma: trasmise la domanda dei Mamertini ai comizi centuriati. In questo momento supremo, il popolo fu chiamato ad esser giudice ed arbitro della sorte di Roma! E nei comizi centuriati il partito della guerra prevalse.

Note al Capitolo Sesto.

32.  Polyb., 1, 10.

[121]

CAPITOLO SETTIMO LA PRIMA GUERRA PUNICA E IL SECONDO TENTATIVO MERCANTILE DI ROMA

40. La prima guerra punica (264-241). — La prima guerra tra Roma e Cartagine incomincia con una spedizione a Messina. Nel 264 Roma manda il console Appio Claudio con un esercito in aiuto ai Mamertini, i quali, non appena sicuri della protezione di Roma, avevano scacciato il presidio cartaginese. Ma Cartagine risponde inviando un’armata e un esercito contro Messina, e stringendo alleanza con i Siracusani; e con tanta prontezza che, quando il console Appio Claudio, nell’estate del 264, giunse a Reggio con le legioni, Messina già era stretta per mare e per terra dai Cartaginesi e dai Siracusani. Che fare? Passare lo stretto, senza aver prima vinta la flotta cartaginese? La mossa era temeraria. Misurarsi con Cartagine sul mare? Roma non aveva un’armata sufficiente. Il senato aveva avuto ragione di esitare, innanzi a quel breve braccio di mare; poichè [122] era singolare temerarietà disputare un’isola ad una grande potenza navale con una piccola armata.

Ma la guerra ormai era dichiarata, e Appio Claudio non poteva guardare da Reggio, con le braccia conserte, l’assedio di Messina. Affrontò dunque — non aveva altro scampo — il doppio rischio: eludere il blocco cartaginese di notte e gettarsi, forzando le linee degli assedianti, nella città. Le due imprese erano arditissime; e se l’una o l’altra falliva, l’esercito era perduto. Ma Appio Claudio riuscì nell’una e nell’altra. Una volta in Messina, non perdette tempo; e sconfisse in due battaglie Cartaginesi e Siracusani, liberando la città. Padrona di Messina, Roma poteva ormai comunicare con il continente abbastanza sicuramente, per quanto ancora sotto la minaccia di Siracusa. Ne approfittò per mandare l’anno seguente in Sicilia un nuovo esercito, che doveva assalire Siracusa e togliere a Cartagine tutti i punti di appoggio sulla costa orientale. Anche questa mossa riuscì. Ora che i Romani si erano impadroniti di Messina, Siracusa si sentì troppo addosso la potenza romana, da poter perseverare nell’alleanza con Cartagine. Il partito avverso ai Cartaginesi prevalse in Siracusa; e Gerone, abbandonata l’alleanza cartaginese, si alleò con Roma. Alla fine del 263 Roma aveva dunque posto saldamente il piede sulla Sicilia.

Ma non bastavano queste vittorie a scoraggire Cartagine. Cartagine assoldò Liguri, Galli e Spagnuoli in quantità; mandò in Sicilia soldati ed armi; fece di Agrigento la nuova base di operazione [123] contro Romani e Siracusani; spedì flotte a saccheggiare le coste dell’Italia. A loro volta Romani e Siracusani posero, nel 262, l’assedio ad Agrigento, iniziando il secondo periodo della guerra, che doveva durar quanto l’assedio, otto mesi, e cioè tutto il terzo anno. Solo nel tardo autunno e dopo essere stati più volte sul punto di levare il campo, i Romani poterono vincere in battaglia un esercito cartaginese, spedito al soccorso, e impadronirsi della città, non però della guarnigione cartaginese che riuscì a fuggire attraverso le linee romane, raggiungendo l’esercito vinto. Ma questa nuova vittoria, la resa delle altre città, che seguì quella di Agrigento, soprattutto l’ingente e inusitato bottino esaltarono in Roma il sentimento pubblico. Popolo e grandi ormai furon tutti concordi in un solo pensiero: costruire una armata e scacciare i Cartaginesi dalla Sicilia. La tradizione narrò come Roma, ignara di navi, avesse pigliato a modello una quinquireme, che la tempesta aveva gettata sulle coste dell’Italia meridionale. Senonchè Roma non era così nuova al mare come la leggenda suppone, poichè possedeva navi da guerra e da carico, e disponeva delle flotte degli alleati, italici e siracusani. Ma la leggenda, se esagera, non è tutta una invenzione, poichè sembra probabile che nè Roma nè l’Italia conoscessero ancora l’uso delle navi a cinque ordini di remi, di cui si compose quasi tutta la sua prima grande armata navale, forte di 120 vascelli. Tuttavia i Romani diffidavano della propria capacità sul mare; e perciò provvidero la armata di un nuovo ordigno, i ponti volanti d’abbordaggio, [124] a cui diedero il nome di corvi. Con questi ponti, ciascuna nave poteva avvinghiare un naviglio nemico, e dare il passo ai legionari.

Ad approntare quest’armata navale sembra sia stato speso tutto l’anno 261, nel quale non si registrano grandi fatti di guerra. Nè il tempo sembrerà troppo lungo, chè fu necessario anche addestrare le ciurme. Al principio del 260 la flotta romana era in mare; e a primavera aprì la terza fase della guerra (260-255), discendendo lucida e nuova verso la Sicilia e cercando animosamente, sotto il comando del console C. Duilio, la vecchia flotta cartaginese, rotta a tutti i mari, carica di trofei, che da secoli combatteva su quelle acque. La trovò infatti, dopo un primo insuccesso, a Milazzo (Mylae) presso Messina e le diede battaglia (260). I corvi furon provati con buon successo; i Romani combatterono con grande impegno, volendo mostrare che anche sul mare eran forti; la flotta cartaginese perdette oltre la metà dei suoi legni, che erano 130; lo stesso ammiraglio ebbe a stento salva la vita e Roma riportò sul mare una vittoria non indegna degli allori che aveva raccolti sulla terra.

Al suo ritorno in Roma C. Duilio fu oggetto di straordinari onori, e per quale ragione, non è difficile intendere. Poche vittorie sbalordirono i contemporanei, come la vittoria di Milazzo. Roma aveva appena varata la sua prima grande armata; e subito vinceva sul mare la maggior potenza navale del tempo! Ma gli effetti della vittoria furono più piccoli della impressione. Cartagine si accinse con grande lena a rinforzare l’armata; si difese [125] ostinatamente contro tutti gli attacchi romani; cercò di tirare in lungo la guerra, sperando di stancare Roma, che doveva ogni anno chiamare alle armi i suoi cittadini, mentre essa adoperava dei mercenari. Difatti, nei tre anni che seguono (259-257) noi vediamo i Romani combattere in Sicilia, assalire la Corsica e la Sardegna, ritornare a combattere in Sicilia; cercar insomma di mettere a frutto la padronanza del mare, conquistata con la vittoria di Milazzo: ma senza costringere Cartagine alla pace. Sinchè, volendo terminare a ogni costo questa onerosissima guerra, che durava ormai da nove anni, Roma si risolvè, nel 256, per finirla, a ripetere il tentativo fatto dal siracusano Agatocle nel 310, sbarcando in Africa addirittura. L’impresa era ardua e pericolosa, poichè l’armata cartaginese vigilava poderosa il passaggio. I preparativi furon grandi e adeguati. Presso la foce del Salso (l’antico Himera) non lungi dall’odierno monte S. Angelo (l’antico promontorio Ecnomo) sulla costa meridionale della Sicilia, fu apparecchiata una grande armata di 300 legni, fra navi da guerra e da carico; e in quella furono imbarcati circa 140.000 uomini tra soldati e ciurme, agli ordini dei consoli L. Manlio Volsone e M. Atilio Regolo. La flotta cartaginese, non minore di forze, tentò di sbarrarle il passo; nei pressi di Ecnomo stesso si impegnò una aspra battaglia navale, nella quale i Romani riuscirono a passare; e, sconfitta la flotta cartaginese, poterono approdare all’opposto lido africano, occupando la città di Clupea, a occidente del Capo Bon, e facendo di questa la propria base di operazione in Africa.

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Occorre a questo punto supporre che Cartagine si credesse al sicuro da un simile attacco e fosse sorpresa dall’invasione con forze insufficienti. Non è una supposizione invece, ma una notizia sicura che, appena l’esercito romano fu sbarcato in Africa, una grave rivolta scoppiò tra i Numidi, i quali irruppero nel territorio cartaginese. Ma solo quella supposta impreparazione e questa rivolta accertata dei Numidi possono spiegare come l’esercito romano abbia comodamente saccheggiato in un vasto territorio città e villaggi, che, le più non essendo fortificate, non si difendevano; abbia raccolto con poco pericolo un ingente bottino, massime di quadrupedi e di schiavi; l’abbia spedito tranquillamente in Italia e rimpatriato dopo poco con uno dei consoli una parte considerevole dell’esercito di invasione. Non rimase che Atilio Regolo con forze non grandi: imprudenza singolarissima, che soltanto la difficoltà di tenere a lungo un esercito numeroso in Africa e la illusione di aver già debellato Cartagine possono spiegare. Ma Cartagine non era punto debellata. Impreparata a respingere l’attacco improvviso, cercò di temporeggiare, trasse in lungo, mandò un piccolo esercito a trattenere i Romani; e quando questo esercito fu vinto, aprì trattative di pace.... Ma intanto arruolava soldati in Numidia, in Spagna ed in Grecia; assoldava Santippo, un generale spartano, che conosceva l’arte della guerra meglio dei generali cartaginesi. Atilio Regolo accettò volentieri di trattare la pace; ma credendo proprio che la resistenza di Cartagine fosse infranta, [127] impose condizioni durissime. Invece il nuovo esercito cartaginese si stava approntando; alla fine Cartagine respinse le condizioni; e Santippo entrò in campo. L’esercito romano fu dall’abile stratega sgominato; Atilio Regolo stesso fatto prigioniero (255).

L’audace mossa dell’esercito romano, che la fortuna aveva favorito da principio, era da ultimo rovinosamente fallita. Ma Roma non sbigottì: subito approntò un’altra flotta e la mandò a salvare gli avanzi dell’esercito romano, che si erano rifugiati e fortificati a Clupea. Questa flotta riuscì, sconfiggendo una armata cartaginese, a passare il mare e a imbarcare i superstiti di Clupea; ma a sua volta fu nel viaggio di ritorno quasi tutta distrutta da una tempesta, non lungi dal Capo Passaro. Di 364 navi se ne salvarono 80. Rianimati da questa nuova sventura romana, i Cartaginesi pensarono addirittura di passare all’attacco e di scacciare i Romani dalla Sicilia, mandando una spedizione. Pronta Roma rispose mandando a sua volta, nel 254, una flotta e un esercito ad assediare Palermo, che fu presa; e si accinse ad allestire una nuova spedizione che assalirebbe l’Africa, per il 253. La guerra riardeva dunque nella terra e sul mare più violenta che mai; ma fu questa l’ultima fiammata di audacia. La seconda spedizione romana in Africa fallì come quella del 256, e ancora prima di giungere in Africa, parte per gli errori dei comandanti, parte per un’altra tempesta; e con essa cadde a Roma per sempre l’ambizioso disegno di colpire Cartagine in Africa. Disperando [128] di tener testa a Cartagine sul mare, Roma si restringe a combattere con le sue legioni in Sicilia, per la conquista della ricca isola.

Incomincia il quarto ed ultimo periodo della guerra, quello che è ormai circoscritto alla Sicilia (253-241). Abbraccia ben 13 anni, e la sua stessa lunghezza, l’alternativa incessante di sconfitte e di vittorie mostrano la stanchezza dei due avversari. Nel 251 il console L. Cecilio Metello infligge una grave sconfitta sotto Palermo ai Cartaginesi che tentano di liberar la città; i Cartaginesi sgombrano allora tutte le piazzeforti della Sicilia, riducendosi a difendere, sulla costa occidentale, Lilibeo e Trapani; la Sicilia è ormai quasi tutta in potere dei Romani. Questi, ripreso coraggio, si propongono di finirla con un ultimo sforzo; rifanno un’armata; e con quella pongono l’assedio a Lilibeo. Ma nel 250 il console Publio Clodio perde una flotta, volendo attaccare nelle acque di Trapani l’ammiraglio cartaginese Aderbale; e un’altra ne perde l’anno dopo il console Lucio Giunio Pullo sulla costa meridionale della Sicilia. I Romani sono costretti a togliere l’assedio di Lilibeo e a rinunciar di nuovo al dominio sul mare; e buon per loro che Gerone restò fedele e, nel 248, rinnovò l’alleanza con Roma: chè altrimenti avrebbero potuto trovarsi a mal partito quando, nel 247, Cartagine mandò finalmente in Sicilia un grande generale, Amilcare Barca, il padre di Annibale. Costui riorganizzò l’esercito; occupò una posizione formidabile presso Palermo (Monte Pellegrino?), conquistò Erice, e comunicando per Trapani con Cartagine, incominciò a molestare con [129] rapide e continue incursioni sulla terra e sui mare tutta la Sicilia e le coste dell’Italia, con il chiaro proposito di vincere Roma con una guerra di spossamento, esaurendo il suo erario e stancando la pazienza delle popolazioni, tutti gli anni chiamate alle armi. Difatti dal 247 al 242, Roma sembra sul punto di dichiararsi vinta, tanto il popolo è scoraggito. Quando, in uno sforzo supremo, essa capisce che non è possibile costringere Amilcare a scendere dalla formidabile posizione, da cui minaccia la Sicilia e l’Italia, se non riconquistando il dominio del mare, e tagliando le comunicazioni con Cartagine. Ma come varare, dopo tante altre che il fuoco o l’acqua hanno distrutte, una nuova flotta? I più ricchi cittadini romani, coloro ai quali risalivano le maggiori responsabilità dell’impresa, dovettero, per salvare lo Stato in mezzo allo scoramento universale, armare a proprie spese una nuova flotta. Era la primavera del 242, allorchè furono messe in mare le ultime 200 grosse navi da guerra, che lo Stato romano era in grado di approntare. Con queste il console C. Lutazio Catulo si recò a bloccare Drepano (Trapani) e Lilibeo (Marsala). Una flotta cartaginese tentò di rompere il blocco e portare ad Amilcare rinforzi e rifornimenti. Ma Lutazio l’affrontò, la vinse e in parte la distrusse in una grande battaglia, combattuta presso l’isola di Aegusa, una delle Egadi.

Lo sforzo supremo aveva sortito il suo effetto. Roma era di nuovo padrona del mare; le comunicazioni tra Cartagine e la Sicilia erano interrotte; Amilcare non poteva più mantenersi se Cartagine non avesse riconquistato in poco tempo il mare. [130] Ma anche Cartagine ormai era esausta. I suoi mercenari le costavano molto più che a Roma gli eserciti di leva; e a lungo andare la spesa della guerra era diventata insopportabile anche per la sua ricchezza. Essa non era più in grado di pagare gli eserciti, che tumultuavano e insorgevano. Fu quindi forza stipulare la pace, consigliata dallo stesso Amilcare. Roma non fu molto esigente, perchè non ne poteva più e si accontentò di assai meno che non avesse chiesto Regolo. Cartagine dovè cedere la parte della Sicilia che era stata sua insieme con le isolette limitrofe, fra l’Italia e la Sicilia, e impegnarsi a versare a Roma, entro dieci anni, la somma di 2200 talenti.


41. La riforma dei comizi centuriati (241). — Roma aveva vinto; ma a quale prezzo! Il censimento, fatto proprio nell’anno della pace, contò 260.000 cittadini; e quello fatto cinque anni prima 241.712, mentre i censimenti precedenti erano riusciti a contarne perfino 297.234. Diminuzione pari, o forse maggiore, deve argomentarsi per i Latini e gli alleati. Sulle finanze non abbiamo notizie; ma non è temerario supporle nelle più gravi strettezze, dopo una guerra così lunga, e sinchè la indennità cartaginese non fosse venuta a restaurarle, mentre occorrevano spese maggiori per tenere saldamente la parte della Sicilia conquistata e per far fronte agli impegni di una politica più vasta e grandiosa.

A tutte queste difficoltà Roma cerca di provvedere, come al solito, con concessioni politiche. La guerra democratizzava la costituzione romana! [131] Già nell’ultimo anno della guerra i censori si erano mostrati larghi nel conferire la cittadinanza a buon numero di Italici, quanti bastavano a creare due nuove tribù, la Velina nel Piceno, e la Quirina nella Sabina, destinate forse a riempire i vuoti fatti dalla guerra nella popolazione. Ma ben presto si procedette oltre, ad una riforma dell’ordinamento dei comizi centuriati, che accrebbe di molto il potere del ceto medio e del popolare, a danno delle classi più ricche. Fu abbassato il censo dell’ultima classe, per accrescere il numero dei cittadini obbligati al servizio militare. Da un pezzo si chiamavano alle armi, quando occorreva, anche cittadini senza censo, che la legge esonerava; cosicchè, per quel che concerne gli obblighi, la riforma legalizzò soltanto una pratica ormai inveterata. Ma d’altra parte la riforma dovette riconoscere i diritti corrispondenti agli oneri, facendo entrare questi cittadini non solo tra le file dei soldati, ma anche nelle schiere dei legislatori. Senonchè una siffatta innovazione non avrebbe da sola alterato l’equilibrio delle forze dei partiti e dei ceti nei comizi centuriati, se non si fosse anche assegnato ad ogni classe il numero medesimo di centurie, ossia di unità votanti. La complicata riforma ci è pur troppo mal nota: sembra che le cinque classi siano state, per dir così, immerse nelle 35 tribù esistenti; e, mentre prima le centurie erano composte di cittadini appartenenti a tutte le tribù, d’ora innanzi i componenti di ciascuna tribù siano stati, a seconda del patrimonio, distribuiti nelle cinque classi, ogni [132] classe dovendo essere rappresentata in ciascuna tribù con due centurie. Si ebbero così, per ciascuna tribù, 10 centurie (2 x 5); in totale 350 (10 x 35), e per ciascuna classe, 70 centurie (35 x 2). E, giacchè al conto devono aggiungersi le 18 centurie dei cavalieri della prima classe e le cinque vecchie centurie poste fuori delle classi, la nuova cittadinanza romana fu divisa in 373 centurie, egualmente distribuite in ogni classe. Ne seguì che la maggioranza discese verso la terza e la quarta classe, e che l’assemblea centuriata rappresentò ormai la volontà e il pensiero, non più dell’aristocrazia, ma delle classi medie[33].


42. La conquista della Sardegna e della Corsica (238). — La pace con Roma era appena conchiusa, che Cartagine era impegnata in due nuove guerre, l’una con i sudditi africani, l’altra con i mercenari non soddisfatti. Nè basta: questa era stata appena repressa, che si sollevavano i mercenari di Sardegna, invocando l’aiuto di Roma. Roma da prima esitò; ma poi cedè alla tentazione e dichiarò novamente guerra a Cartagine con pretesti piuttosto speciosi: che gli armamenti fatti per riconquistare l’isola minacciavano l’Italia; che taluni mercanti romani erano stati maltrattati in Africa; che, infine, la Sardegna, quale territorio tra la Sicilia e l’Italia, era compresa nel trattato precedente (238). Cartagine, non sentendosi in forze per resistere, piegò il capo per il momento; cedè la Sardegna e acconsentì anche a pagar 1200 talenti di indennità[34]. Alla conquista della Sardegna seguì quella della Corsica, che Cartagine [133] forse aveva già abbandonata e che non aveva mai sicuramente tenuta.

Roma si era impadronita in pochi anni della maggior parte della Sicilia, della Sardegna e della Corsica. Ma queste isole erano poste fuori dei confini dell’Italia propriamente detta, abitate da genti d’altra lingua e costume. Non si poteva governarle come le regioni dell’Italia; onde proprio dopo la conquista della Sicilia, della Sardegna e della Corsica, Roma incomincia ad abbozzare un nuovo regime politico ed amministrativo: quello che applicherà poi via via a tutte le province del suo vasto impero. La Sicilia, la Sardegna e la Corsica furono appunto le prime province dell’impero. Questo ordinamento provinciale posa sul principio che il suolo e l’autorità appartengono a Roma. Il suolo è di regola proprietà (praedium) del popolo romano, che può confiscarlo a proprio vantaggio, quale ager publicus, o lasciarlo ai sudditi nella forma di possesso, con l’obbligo di pagare come tributo un decimo dei prodotti (decuma). E tutta la provincia è sotto la piena autorità di un governatore, da principio un pretore (Roma infatti, nel 227, avrà ben quattro pretori), munito dei pieni poteri, militari, civili e giudiziari, che la regge e amministra. A quanti popoli e territori saranno un giorno applicati questi due principî! E quanti abusi nasceranno!


43. La conquista delle due rive adriatiche (229-215). — Ma per il momento, nessuno a Roma pensava che in Sicilia, in Sardegna e in Corsica si faceva il primo esperimento di ordinamenti e istituzioni, [134] che dovrebbero per secoli essere le travi e i muri maestri di un immenso impero. Roma aveva appena assestato, dopo una così lunga guerra, le faccende del Mediterraneo, e già doveva volgere la sua attenzione all’Adriatico; e per ragioni e in condizioni, che meritano di essere considerate con particolare attenzione. Mentre Roma era impegnata nel Tirreno e in Sicilia contro Cartagine, s’era formato sulle coste della Dalmazia, così frastagliata di scogliere, di rifugi, di porti e di isolette, un principato illirico, il quale, cattivatosi l’amicizia del nuovo Re di Macedonia, Demetrio, minacciava l’Epiro, e le città della costa occidentale della penisola balcanica. Il nuovo Stato, come tutti gli Stati antichi, cercava di accaparrare per sè il commercio di queste regioni e di escludere, un po’ con la concorrenza, un po’ con la violenza e la pirateria, i rivali. Ora non appena la guerra con Cartagine fu terminata e appianate le nuove difficoltà nate da quelle, da ogni parte d’Italia si levarono verso il senato lamenti per questa condizione di cose; e con i lamenti, le più vive sollecitazioni perchè le armi di Roma assicurassero ai negozianti italici il libero commercio nell’Adriatico[35]. E questi lamenti e queste sollecitazioni furono alla fine così forti, da costringere il senato a mandare nel 230 un’ambasceria alla regina degli Illiri, Teuta. Basta questo fatto a provare quanto lo spirito mercantile, che abbiamo visto svilupparsi dopo la guerra con Taranto, si fosse rafforzato e diffuso in Italia durante la prima guerra punica; a provare che i mercanti italiani tentavano [135] ora di impadronirsi del commercio dell’Adriatico; a provare che cresceva a Roma il numero dei senatori, i quali ambivano che Roma, ora che l’aveva vinta con le armi, umiliasse Cartagine nei traffici, fondasse un impero mercantile non meno vasto e ricco. Dopo più di tre secoli, insomma, la repubblica ritornava ai disegni ed alle ambizioni mercantili della monarchia. Ma in condizioni quanto diverse!

L’ambasceria, mandata a Teuta, non ottenne soddisfazione. La guerra fu dichiarata. Duecento navi con 22.000 uomini furono spedite in Illiria; il nemico fu facilmente vinto; e Teuta dovette accettare la pace impostale. I confini meridionali del principato illirico furono stabiliti a Lissos (Alessio); gli Illirî si impegnarono a non navigare più a sud di Lissos con un numero di navi maggiore di due e a pagare tributo; i territori, tolti ad essi, furono quasi tutti dati a Demetrio di Faro. La potenza illirica era fiaccata; e gli interessi mercantili degli Italici messi al sicuro. Una clausola della pace aprì a Roma un nuovo campo di azione politica. I territori di parecchie città greche — Corcira, Apollonia, Epidamno — in una parola, la costa illirica, da Alessio ai confini dell’Epiro, comprese le isolette limitrofe, furono introdotte nella confederazione italica, e la pace annunziata a parecchie città greche, agli Etoli, agli Achei, ai Corinzi, agli Ateniesi, che accolsero il messaggio e i messaggeri con entusiastiche dimostrazioni di giubilo. Anche i Greci si volgevano verso Roma, sperando protezione contro i loro nemici, [136] massime contro i Macedoni: grande fatto, dal quale nasceranno grandissimi eventi, e che prova quanto il prestigio romano fosse cresciuto in tutto il mondo mediterraneo!


44. La nuova reazione delle campagne: il tribunato di Caio Flaminio (233). — Se la guerra illirica era stata un nuovo segno della crescente potenza degli interessi mercantili, fra qualche anno se ne aggiungerà un altro anche più chiaro: una legge Claudia, votata nel 218 dai comizi tributi, non ostante la più accanita opposizione del senato, la quale interdiceva ai senatori di possedere navigli di più che 300 anfore (8000 litri circa) di volume[36] e capaci di trasportare più che i prodotti delle loro terre. Quale prova più chiara che l’amore della ricchezza, la passione del lucro, la smania dei traffici erano entrate perfino nel senato, rocca venerabile dell’antica tradizione romana? La mercatura, che secondo questa tradizione non si addiceva a quell’altissima dignità politica, cominciava ad essere tollerata, e in misura tale, che una legge aveva dovuto tentare di porre un freno al male. Ma ancor più che per i senatori i quali si davano al commercio, il ceto mercantile si rafforzava per il crescere dei pubblici appaltatori. Roma non era più una piccola città, ma un grande Stato, il quale non disponeva, come gli Stati moderni, di una numerosa burocrazia, ma solo di pochi magistrati, eletti quasi tutti ogni anno, e ordinati in principio per servire una città. Sebbene il numero dei magistrati fosse stato accresciuto nel corso delle generazioni, lo Stato aveva bisogno di essere [137] di continuo aiutato dalla intraprendenza privata a disimpegnare i servizi pubblici. La lista delle aggiudicazioni, a cui i censori procedevano ogni anno, si era fatta molto lunga e molto più lucrosa di un tempo: lavori pubblici, trasporti, forniture militari, percezioni di decime, di altre imposte e di dogane nelle province, locazioni di agro pubblico, di miniere, di saline, di boscaglie. Era regola antica e sempre osservata dall’amministrazione romana dividere questi appalti tra molti medi e piccoli accollatari; cosicchè a mano a mano che l’impero di Roma ingrandiva, crescevano in Roma quelli che noi chiameremmo agiati borghesi, accollatari di questo o quel servizio pubblico; e costoro si interponevano tra l’ordine senatorio ed equestre, dai quali ricevevano gli appalti e talora i capitali da far fruttare, e il popolino degli artigiani e dei proletari a cui davano lavoro e pane: vero puntello e sostegno della politica di espansione. In tempi in cui la grande industria era ignota, solo il continuo ingrandirsi di Roma poteva moltiplicare, per questa gente avida e intraprendente, le fonti di lucro e le occasioni di fortuna. Molteplici interessi si davano dunque la mano, attraverso tutto lo Stato romano, dal senato sino alla plebe, per rinfocolare in Roma l’ambizione di emulare Cartagine nei traffici, per spingerla a più vaste conquiste, per indebolire in tutti i modi le tradizioni e la potenza del ceto rurale[37].

E infatti, mentre il ceto mercantile ingrossava, arricchiva, si impadroniva dello Stato, l’antico ceto rurale, che era stato nei secoli precedenti il nerbo di Roma, si logorava, per ragioni molteplici. Infatti [138] il tributo del sangue era sempre più gravoso. Ormai occorrevano ogni anno intorno alle quattro legioni, spesso di più; il servizio militare si allungava; molti soldati avevano perduto il conto dei loro stipendi; altri da anni non avevano più rivisto l’Italia, e già cominciavano a invecchiare sotto le insegne. Nè tutti tornavano. Sarebbe stato necessario dedurre nuove colonie sulle terre conquistate, piantando dappertutto nuovi seminari di possidenti e di soldati. E invece, ormai da un pezzo non si deducono più colonie; le terre che Roma conquista, sono quasi tutte appaltate ai ricchi, cavalieri e senatori i più, e non soltanto per l’egoismo e l’ingordigia dei grandi. A questi riesciva facile di togliere al popolo le terre, perchè le terre non erano più desiderate come un tempo dal popolo; e non erano più desiderate come un tempo, perchè la piccola possidenza andava rovinandosi oltre che per le guerre, per ragioni di ordine generale. L’Italia antica era allora in gran parte coltivata a grano; ma ingombra di troppe montagne e male irrigata da pochi e piccoli fiumi, poco fertile, fuorchè in alcune regioni, e isterilita ancora più dalla siccità e dal calore estivo, produceva poco. La piccola possidenza aveva potuto vivere, sinchè le famiglie erano state paghe di lavorare molto e di vivere semplicemente, consumando i prodotti della propria terra, facendo con la propria lana gli abiti, fabbricando tutti gli oggetti, di cui avevano bisogno, e comperando al mercato meno che si potesse. Ma i contatti più frequenti con l’ellenismo, le spedizioni militari in paesi ricchi come la Sicilia, svogliavano i possidenti dal [139] duro lavoro dei padri e li invogliavano a vivere meglio, mentre la cresciuta abbondanza dei metalli preziosi rincarava gli oggetti. Anche la piccola proprietà sentiva dunque maggior bisogno di denaro; ma del grano, che essa coltivava, solo una piccola parte poteva esser venduto, e a prezzi bassi, nel mercato più vicino, perchè lontano non si poteva trasportare. Nè poteva il piccolo possidente sperare nemmeno di approfittare delle carestie, che ricorrevano frequenti, massime a Roma. Lo Stato, sospinto dalle recriminazioni e dai clamori della plebe, ammucchiava nei granai di Ostia e di Roma il frumento della decima di Sicilia e di Sardegna, ch’esso buttava sul mercato, ogni qualvolta i prezzi rincaravano troppo. Cosicchè il piccolo possidente stentava la vita, e quanti potevano cercavano una sorte migliore, diventando accollatari o mercanti, i più intraprendenti e fortunati; artigiani o proletari nelle città vicine o a Roma, i più inetti e disgraziati. Protrarre il servizio militare diventava facile, anche perchè a molti non spiaceva di restare lunghi anni sotto le armi, guadagnando il soldo e il bottino. L’esercito di mestiere si formava dalla rovina della piccola possidenza, il cui potere politico anche scemava. Ogni tanto, è vero, qualche censore cercava di annullare la riforma di Appio Claudio, che aveva inscritto in tutte le tribù i nullatenenti, relegandoli di nuovo nelle quattro tribù urbane. Ma invano: chè la disposizione non rimaneva mai in vigore per lungo tempo, e dopo qualche anno un altro censore imitava di nuovo Appio Claudio.

Senonchè Roma era da secoli una repubblica [140] di contadini, alla quale l’aristocrazia aveva inculcato sul nascere una diffidenza vivissima del commercio. L’elemento mercantile non poteva impadronirsi dello Stato senza contrasto. Tra la prima e la seconda guerra punica, infatti, la piccola possidenza si agita, cerca di difendere gli interessi e i principî che erano suoi, contro il mercantilismo che si fa adulto; nasce e cresce un partito democratico rurale, il quale trova per capo un grande uomo, che doveva acquistare nella storia una fama immortale: Caio Flaminio. Tribuno della plebe nel 233, nell’anno stesso in cui i mercanti minacciati nell’Adriatico dagli Illirici assediavano il senato con i loro reclami, Caio Flaminio proponeva una legge con la quale il territorio, tolto ai Galli Senoni sin dal 283 e rimasto ozioso agro pubblico, era distribuito in piccoli lotti ai plebei poveri d’Italia. Il pensiero riformatore della legge è chiaro; ed è un pensiero che ritornerà per due secoli, come una fissazione, nelle lotte nei partiti romani: la piccola proprietà, semenzaio di soldati, decade; occorre dunque impedire che i ricchi accaparrino tutte le terre e dedurre nuove colonie, ma più grandi che un tempo, per rifare il medio ceto rurale, che la guerra e il nuovo corso dei tempi andavano man mano annientando. Il senato si oppose vivacemente; ma Flaminio si servì senza scrupoli dei privilegi conferiti alla plebe dalla lex Hortensia del 287, per far approvare il suo plebiscito ad ogni costo. Senonchè, mentre i proponimenti aspettavano da quella una rinascita della piccola possidenza, ne nacque intanto una guerra: una guerra, che doveva contare nella storia di Roma quanto le guerre puniche.

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45. La conquista della valle del Po (225-222). — La colonizzazione dell’antico paese dei Senoni risvegliò l’odio dei Galli. Quel popolo non si era mai rassegnato alla perdita dell’ager gallicus. Nel 237, anzi, i Galli Cisalpini, dopo avere radunato numerose milizie mercenarie nella regione del Rodano, avevano, sia pure invano, tentato di ricuperarlo. Ma adesso, certo temendo che quella colonizzazione fosse il primo passo a nuove conquiste, tentarono una riscossa disperata. Tra Galli d’Italia e di oltr’Alpe, misero in piedi un forte esercito, e irruppero, attraverso l’Etruria, nell’Italia centrale fino a tre giornate dalla capitale. Roma dovè approntare le maggiori difese: chiamò alle armi tutta la lega italica, trasse dalla sua alcune popolazioni dell’Italia transpadana, i Galli Cenomani e i Veneti; aspettò che la gola della preda facesse dimenticare a quei barbari il vero scopo della guerra; e riuscì ad accerchiare e sgominare, presso il promontorio Telamone, sulle coste dell’Etruria, il grande esercito gallico. Distrutto il maggior nerbo delle forze galliche, la Cisalpina, per qualche anno almeno, era in balia delle armi romane. E Roma non era più la timida potenza di un tempo, che si fermava dopo ogni vittoria. Il partito democratico, che aveva voluto l’assegnazione dell’ager gallicus, vide che, per render sicure queste terre da futuri assalti gallici, occorreva approfittare dell’occasione, conquistare la valle del Po e annientare per sempre il pericolo gallico: il popolo lo capì; e sebbene nel senato fosse un forte partito avverso a questa nuova impresa, la Gallia Cisalpina fu nel 224 invasa. Tre anni (224-222) durò la guerra. Nel 224, dopo aver [142] conquistato la parte orientale della Cispadana, la terra dei Galli Boi, i consoli varcarono la linea del Po e occuparono, nella Transpadana, il paese degli Insubri. L’anno successivo, lo stesso C. Flaminio, il tribuno del 233, l’autore primo della guerra gallica, fu console. Flaminio e i consoli dell’anno successivo assoggettarono la Transpadana, espugnando la sua capitale, l’antica Milano (Mediolanum). Nel paese dei Galli Boi fu fondata la colonia romana di Modena (Mutina) e la linea del Po fu assicurata con le colonie di Piacenza (Placentia) e di Cremona (218).

Mentre il ceto mercantile spingeva il senato a conquistare la sponda orientale dell’Adriatico e a combattere Cartagine, il medio ceto rurale, affamato di terre, aveva spinto Roma nella valle del Po, nella grande pianura, coperta di foreste e di paludi silenziose, sparsa di bei laghi, solcata da numerosi corsi d’acqua, attraversata dal maggior fiume, che fino ad allora i Romani avessero conosciuto e che l’Italia possegga. La plebe rovinata dalla guerra cercava di salvarsi con la guerra, quasi rinnovando il mito della lancia d’Achille. Illusione anche questa: poichè neppure la conquista della valle padana poteva salvare la piccola possidenza romana. Ma inseguendo questa vana speranza, sul punto di sparire per sempre, l’antica plebe rurale aveva dato a Roma quella che sarebbe la più bella gemma dell’Italia. Tra un secolo e mezzo il paese conquistato da Flaminio sarà il giardino d’Italia e il baluardo dell’impero romano[38].

[143]

Note al Capitolo Settimo.

33.  Le fonti non ci indicano con precisione nè il tempo nè il modo di questa riforma; e neppure ci attestano che, com’è verosimile, essa coincida con la riduzione del censo dell’ultima classe, che apprendiamo solo per via indiretta, da Polyb., 6, 19, 2. Gli eruditi hanno quindi oscillato nelle più varie opinioni, nè può aversene alcuna sicura. Noi abbiamo preferito pensare al 241, non solo per le ragioni di politica interna accennate nel testo, ma perchè questo fu l’anno in cui le tribù raggiunsero il numero di 35 e in cui la conquista della prima provincia transmarina dovette porre lo Stato romano di fronte a nuove necessità militari.

Circa poi il contenuto specifico della riforma stessa, intorno al quale gli accenni delle nostre fonti sono davvero insufficienti, noi abbiamo seguìto l’ipotesi che fu per primo avanzata da un umanista italiano, Ottavio Pacato (il Pantagato) parecchi secoli or sono, e ch’è ancor oggi la più sensata e la più diffusa. Cfr. G. Bloch, La République romaine, Paris, 1913, pp. 132 sgg.

34.  Polyb., 1, 88, 8, 12; 3, 10, 3.

35.  Polyb., 2, 8.

36.  Liv., 21, 63.

37.  Questo processo sarà compiuto alla metà del II secolo a. C., come risulta da Polyb., 6, 17.

38.  Cfr. Cic. Phil., 3, 5, 13; Strab., 5, 1, 12.

[145]

CAPITOLO OTTAVO LA SECONDA GUERRA PUNICA

(218-201)

46. Cartagine in Spagna. — Di quanto avvenne a Cartagine dopo il 241, poco sappiamo. Certo è che la repubblica fu governata da una consorteria di ricche famiglie, di cui Amilcare, il grande guerriero e statista illustratosi nella guerra con Roma, e la famiglia dei Barca, a cui apparteneva, furono la colonna; che Cartagine, invece di tentare la riconquista delle isole perdute, cercò compensi in Spagna. Poco dopo il 238, Amilcare Barca è in Spagna con un forte esercito, intento a conquistare la vasta penisola; e non, come si argomentò poi da quel che successe, per fare della Spagna il ponte da cui assaltare l’Italia. Perdute la Sicilia e la Sardegna, Cartagine doveva ridursi sulla difesa, lo svantaggio dell’attaccare l’Italia essendo dalla sua parte. Nè altri che un uomo di mente malata avrebbe allora potuto vagheggiare di assalire Roma dalla Spagna, anticipando l’evento per cui tra qualche anno l’impresa potrà [146] apparire possibile. Cartagine va dunque in Spagna, perchè si è rassegnata a lasciar la Sicilia e la Sardegna a Roma.

A sua volta, Roma non dovette sulle prime esser malcontenta che Cartagine impegnasse le sue forze nella conquista della Spagna, invece di pensare a riconquistare le isole. Non è dunque meraviglia che Amilcare abbia potuto per nove anni allargare il dominio cartaginese nella penisola iberica. Caduto nel nono anno Amilcare in battaglia, Cartagine affidò l’impresa al suo genero, Asdrubale. Asdrubale la continuò, più trattando che combattendo, ma sempre con fortuna; sinchè, alla fine, Roma incominciò ad inquietarsi. La Spagna era ricca di miniere e abitata da gente bellicosa: se Cartagine se ne impadronisse, non troverebbe nel tempo stesso i soldati e i mezzi per assoldarli? Conquistando la Spagna, Cartagine non si avvicinava troppo ai Galli, con i quali Roma era sempre in guerra? Roma cercò allora di amicarsi le città maggiori, ancora non soggette a Cartagine; con Sagunto conchiuse addirittura un’alleanza; e nel 226, non sappiamo se poco prima o poco dopo, ottenne che Asdrubale si obbligasse per trattato a non varcare con l’esercito l’Ebro[39]. Questo limite imposto in Spagna, doveva offendere e irritare la grande potenza africana; ma Cartagine aveva ancora tanto da fare al di qua dell’Ebro, che Asdrubale potè firmare il trattato senza che le relazioni tra le due grandi potenze fossero turbate. Par che Cartagine si accontentasse di non ratificare il trattato firmato da Asdrubale, pur senza rinnegarlo; in modo da [147] poter sconfessarlo quando volesse, pur rispettandolo finchè le fosse conveniente. Quand’ecco, nel 221, Asdrubale muore; gli eserciti di Spagna acclamano a capo il figlio di Amilcare, Annibale, che aveva allora 26 anni; il senato cartaginese ratifica la nomina dei soldati; e Annibale subito attacca Sagunto, la città alleata di Roma; la assedia e la prende nel 219, non badando alle intimazioni e alle minacce di Roma. Roma allora manda a Cartagine un’ambasceria, minacciando la guerra se Annibale non le è consegnato; e in pochi mesi la guerra tra le due grandi potenze mediterranee di nuovo divampa.


47. La grande causa della guerra e il piano di Annibale. — Per qual ragione gli eventi precipitarono così rapidamente? Per l’ambizione di Annibale e per il suo odio contro Roma, come fu detto e ripetuto? Annibale era un grande uomo; e non si può credere che impegnasse Cartagine in una guerra così tremenda, solo perchè il farla gli parve glorioso e bello. D’altra parte Annibale iniziò e condusse la guerra d’accordo e con l’appoggio di un grande partito e del governo legale di Cartagine, il quale deve aver avuto le sue ragioni per affrontare Roma una seconda volta, dopo avere per molti anni cercato di vivere in pace. Questa ragione — o almeno la principale — sembra doversi cercare nella conquista della Gallia Cisalpina fatta dai Romani. Se a Roma non piaceva che Cartagine si allargasse troppo in Spagna, a Cartagine non poteva piacere che Roma si insediasse nella valle del Po; sia perchè si avvicinava [148] alla Spagna; sia perchè si impadroniva di un territorio, non solo fertile e ricco, ma popolato da quei Galli o da quei Liguri, tra i quali Cartagine reclutava parte dei suoi eserciti. Secondo questa congettura — la sola che sembri render ragione dell’improvvisa inimicizia rinata tra Roma e Cartagine — la seconda guerra punica deve considerarsi come un effetto della conquista romana della Cisalpina. Nè basta: la conquista della Cisalpina spiegherebbe anche il piano di Annibale, che è esso pure un indovinello, come l’improvviso scoppiare della guerra. Non si possono spiegare le mosse singolarissime di Annibale se non ricordando che, perdute la Sicilia e la Sardegna, il vantaggio dell’attacco era passato da Cartagine a Roma, ed ammettendo che Annibale voleva innanzi tutto recuperare in parte questo vantaggio iniziale: giungere con un piccolo esercito nell’Italia meridionale, staccarla forse per sempre dal dominio romano, eccitare alla rivolta gli alleati e i sudditi, impadronirsi di un porto, inchiodare in Italia una parte delle forze romane; e allora assaltare la Sicilia dalle due parti, dall’Italia e dall’Africa; staccata l’Italia meridionale da Roma, riconquistata la Sicilia e la Sardegna, farne il ponte per un ultimo attacco dell’Italia, alla testa di una potente coalizione. Per questa coalizione egli aveva già gettato gli occhi anche sulla Macedonia e sul nuovo re Filippo, che la presenza dei Romani sulle coste orientali dell’Adriatico incominciava ad inquietare massime dopo la breve ma fortunata guerra combattuta da Roma contro Demetrio di Faro, nel 220. [149] Senonchè assalire l’Italia dalla Spagna con tal disegno sarebbe stata una pazzia, sinchè la valle del Po fosse stata indipendente da Roma; l’impresa invece poteva apparire possibile, se pur rischiosa, subito dopo la conquista, quando le popolazioni galliche anelavano alla riscossa. Vedremo che Annibale intendeva incominciare la sua impresa alleandosi con i Galli e facendo della Gallia Cisalpina la prima base d’operazione contro Roma e l’Italia.


48. Il passaggio dei Pirenei e delle Alpi (estate-autunno 218). — Il piano di Annibale era molto ardito e complicato. Ma Annibale era uomo da porlo ad effetto. Dopo aver provveduto a munire la Spagna e l’Africa di sufficienti difese, sui primi dell’estate del 218, egli lasciò con 50.000 fanti e 9000 cavalli la Spagna cartaginese. Non era certo esercito che bastasse a conquistare un paese, capace di armare a sua difesa circa 800.000 uomini[40]; ma noi possiamo spiegare come Annibale lo giudicasse sufficiente, se si ammette che doveva servire non a conquistare l’Italia, ma solo a preparare la situazione strategica e la coalizione, che verrebbe a capo della potenza romana. Il viaggio del piccolo esercito non fu facile. Al freddo e ai disagi della montagna, incontrati nei Pirenei, si aggiunsero, nella valle del Rodano, le molestie di talune popolazioni celtiche; sicchè, passato il Rodano, l’esercito già era ridotto a 38.000 uomini e ad 8000 cavalli.

Peggio ancora fu quando l’esercito cartaginese cominciò a salire il versante settentrionale delle [150] Alpi; e quando, sventate le insidie delle popolazioni alpine e raggiunta in nove giorni la vetta — se al passo del piccolo S. Bernardo o al passo del Monginevra o al passo del Moncenisio è gran disputa da secoli — incominciò, sul principio dell’autunno, la discesa, che durò sei giorni. Ma se il passaggio fu aspro, cinque mesi e mezzo dopo aver lasciato la Cartagine spagnuola — Cartagena — Annibale potè piantare le sue tende alle radici delle Alpi, in territorio amico, con 20.000 fanti e 6000 cavalieri[41].

Che faceva frattanto Roma? Roma era corsa alle armi con molte illusioni, proponendosi addirittura di attaccare Cartagine nel tempo stesso in Spagna ed in Africa. Aveva mandato il console P. Cornelio Scipione in Spagna con sessanta vascelli e due legioni; il suo collega, Tiberio Sempronio Longo, con altre due legioni e 160 quinqueremi in Sicilia, affinchè arruolasse le milizie necessarie e assaltasse l’Africa. Ma la grande mossa di Annibale recise i garetti all’uno e all’altro disegno. Non appena si seppe nella Gallia Cisalpina che Annibale si moveva, i Galli Boi e gli Insubri avevano assalito le colonie romane di Piacenza e di Cremona da poco fondate, costretto i coloni a rifugiarsi a Modena, e posto l’assedio a questa città. Il senato, per soccorrere le tre colonie, ordinò a Scipione di mandare una delle sue legioni nella valle del Po e di reclutare una legione nuova: l’obbedire richiese tempo, cosicchè, quando il console sbarcò a Marsiglia con l’esercito, apprese che Annibale già marciava a grandi tappe verso l’Italia. Che fare? Scipione tentò di [151] inseguirlo; ma si stancò presto alla corsa; onde, mutato piano, mandò la maggior parte dell’esercito in Spagna al fratello Cneo, affinchè tagliasse le comunicazioni tra Annibale e la Spagna; ed egli ritornò a Pisa; raccolse sotto il suo comando le legioni che operavano nella Gallia Cisalpina; e con queste mosse incontro ad Annibale nella valle del Po. Egli sperava di affrontarlo ai piedi delle Alpi, esausto dal passaggio. Quel che Publio Scipione aveva fatto per proprio consiglio, l’altro console fece per ordine. Non appena il senato vide chiaro nei disegni di Annibale, richiamò Sempronio dalla Sicilia; e gli ordinò di raccogliere l’esercito ad Ariminum (Rimini) sul confine della Gallia Cisalpina. Invece di attaccare Cartagine in Africa ed in Spagna, Roma raccoglieva le sue forze nella valle del Po, prima cagione della guerra e primo campo di battaglia.


49. Battaglia della Trebbia (dicembre 218). — Scipione intanto aveva passato il Po e il Ticino, risoluto ad affrontare l’esercito cartaginese, che si trovava nei pressi di Victumulae, nel Vercellese, prima che avesse avuto tempo di riposarsi. Ma sulla destra del Ticino, a circa due giornate di marcia dal fiume[42] l’avanguardia romana incontrò un corpo di cavalleria nemica, e fu volta in fuga precipitosa. Il console stesso, gravemente ferito tra i suoi rotti squadroni, potè a mala pena salvarsi per il valore del suo figliuolo, un giovinetto diciassettenne, che doveva poi far molto parlare di sè. Scipione era arrivato troppo tardi: Annibale aveva avuto tempo di rimettere [152] l’esercito in assetto e di aprire trattative con i Galli, se non di conchiuderle, perchè la notizia che i Romani giungevano teneva sospesi i Galli. Uomo di guerra avveduto, il console romano, sebbene sole la cavalleria e la fanteria leggera fossero state provate nello scontro, rinunciò dopo quello scontro ad attaccare subito i Cartaginesi; e rapido ripassò il Po ripiegando su Piacenza, per aspettar il collega che raccoglieva il suo esercito a Rimini. Annibale potè molestarlo nella ritirata, non impedirgliela; ma, come era da aspettare, non appena gli eserciti romani ebbero passato il Po, un certo numero di Galli si dichiarò per Annibale e un certo numero di ausiliari gallici, che servivano sotto la bandiera romana, si ribellò.

Annibale, che ormai era padrone del corso del Po sino a Piacenza, potè comodamente passare sulla riva destra a monte della città. Minacciato di esser preso alle spalle in Piacenza, Scipione si portò sulla Trebbia, per coprire, appoggiando la destra alla fortezza e la sinistra all’Appennino, la via che conduceva all’Adriatico e a Roma e quindi tutta l’Italia. Alla Trebbia lo raggiunse Tiberio Sempronio Longo. I due eserciti consolari erano ora forti di quattro legioni e di un numero pari di ausiliari italici, in tutto poco più di 35.000 uomini. A questi Annibale opponeva 20.000 fanti, e, grazie ai nuovi contingenti dei Galli, circa 10.000 cavalieri. Le forze si bilanciavano. Perciò Scipione opinava di aspettare l’assalto di Annibale e Sempronio invece voleva attaccare. Le impazienze di Sempronio si spiegano perchè [153] i Romani dovevano desiderare una battaglia e una vittoria, per trarre alla propria parte i Galli, i quali stavano ad aspettar gli eventi. Ma essendoci di mezzo un fiume, e le forze bilanciandosi, l’attaccare era disegno di molto rischio: e in questo aveva ragione Scipione. Del dissenso dei consoli e della impazienza di Sempronio approfittò Annibale per farsi attaccare. Nel mese di dicembre un corpo di cavalieri numidi passò la Trebbia e assalì il campo romano. Sempronio (Scipione era ancora malato per la sua ferita) lanciò sul nemico tutta la sua cavalleria e 6000 uomini di fanteria leggera; subito, come fosse vinta, la cavalleria numida ripiegò in tumulto sulla riva sinistra della Trebbia; Sempronio allora, credendo il nemico in fuga e l’occasione buona, chiamò fuori in fretta tutto l’esercito, che ancora non aveva mangiato; lo cacciò nelle acque gelide della Trebbia, e via di corsa all’assalto. Ma, valicato il fiume, i Romani si trovarono di fronte l’intero esercito cartaginese, fresco, rifocillato, non intirizzito da un bagno freddo, schierato con la cavalleria ai fianchi e gli elefanti sul fronte. Le condizioni erano troppo ineguali. Al primo urto la cavalleria cartaginese rovesciò quella romana e scoperse i due fianchi della fanteria. Invano le prime due linee del centro combatterono valorosamente. I Cartaginesi piombarono sui fianchi di queste, mentre 2000 uomini, nascosti da Annibale in una vicina imboscata, assalivano alle spalle la terza linea di riserva, e, sfondata questa, si buttavano sulla seconda e sulla prima. L’esercito romano sfuggì alla distruzione grazie [154] al valore disperato dei soldati; ma fu costretto a ritirarsi a Piacenza.


50. Il Trasimeno (217). — La sconfitta era grande. Tutta la Gallia Cisalpina, fuorchè le fortezze romane, era perduta e in rivolta; la via dell’Italia centrale aperta all’invasore. A compensarla non bastavano i felici successi di Cneo Scipione, che al di là dei Pirenei era riuscito a tagliare le comunicazioni tra Annibale e la Spagna. Temendo che l’Italia fosse assalita dal nord e dal mare, il senato incaricò i consoli dell’anno successivo (il 217) C. Flaminio, il conquistatore della Cisalpina, e C. Servilio Gemino, di sbarrare con forze ingenti le due vie di accesso all’Italia centrale, l’orientale che passava per Rimini, l’occidentale che passava per Arezzo; rinforzò tutte le piazze forti, mandò soldati in Sicilia, in Sardegna e sulle città costiere, chè una flotta cartaginese già era stata fugata dalle acque del Tirreno; chiese infine aiuti agli Stati amici, e tra questi anche a Gerone re di Siracusa. La prudenza di Scipione era stata giustificata dall’evento. Il senato si metteva sulla difesa, cercando di obbligare Annibale a dar di cozzo contro Rimini o contro Arezzo, come Scipione aveva tentato di trarlo a rompersi contro la linea della Trebbia.

E il senato aveva ragione, almeno in parte. Se non pensava ancora ad assaltare l’Italia, Annibale non poteva neppure sostare nella valle del Po; doveva giungere al più presto con il suo piccolo esercito nell’Italia meridionale e provocare [155] la rivolta degli Italici. Infatti subito dopo la battaglia aveva liberato i prigionieri italici, rimandandoli alle loro case, perchè dicessero ai propri concittadini che Annibale era venuto a liberare l’Italia e a restituire ad ogni città quel che Roma le aveva tolto. Nell’inverno aveva rinforzato l’esercito, arruolando i Galli; e alla primavera del 217 si mosse per la via occidentale. Senza incontrare resistenza valicò l’Appennino e giunse a Fiesole; ma qui, avendo saputo che Flaminio lo aspettava con un forte esercito ad Arezzo, e non volendo prender di fronte questa fortezza, come non aveva voluto assaltare la linea della Trebbia, immaginò un nuovo strattagemma, ancora più audace dei precedenti. Mosse da Fiesole verso Arezzo per la grande via, incendiando e saccheggiando: poi a un tratto lasciò la strada e si gettò con tutto l’esercito nelle vaste paludi che l’Arno allora faceva a primavera nella parte superiore del suo corso, con l’intenzione di girare Arezzo a settentrione. Per quattro giorni e tre notti l’esercito camminò nell’acqua e nel fango; ma alla fine sbucava alle spalle di Flaminio[43]. La mossa era temeraria, poichè in fin dei conti Annibale si avventurava verso l’Italia meridionale, lasciando alle spalle due forti eserciti intatti; e se Flaminio avesse aspettato che il suo collega giungesse da Rimini!... Ma Flaminio era il capo del partito rurale; e, appena sbucato alle sue spalle, Annibale aveva ripreso a incendiare e a saccheggiare. Poteva egli, dopo essersi lasciato sfuggire Annibale di mano a quel modo, lasciarlo devastare le campagne e rovinare i campagnuoli? Tutti i danni [156] che questi riceverebbero, non li imputerebbero alla sua imperizia? Flaminio non seppe temporeggiare; e rincorse l’invasore. Annibale accennò da prima a sfuggire all’inseguimento; poi, a un certo punto, nelle vicinanze del lago Trasimeno, rallentò il passo. Smanioso di venire a battaglia, Flaminio si lasciò attirare in una angusta valle, posta tra due catene di monti e chiusa all’un capo da una collina elevata e di difficile accesso, dall’altro, dal lago. Ma in questa valle i Romani, sorpresi alle spalle, ai fianchi, di fronte dai Cartaginesi appostati, parte furono gettati nel lago, parte trovarono la morte prima ancora che avessero potuto disporsi a battaglia. Anche Flaminio, il conquistatore della valle del Po, uno dei creatori dell’Italia, cadde nella mischia. Pochi giorni dopo la cavalleria dell’altro esercito, che correva in aiuto di Flaminio, 4000 uomini in tutto, era distrutta.


51. Canne (2 agosto 216). — La seconda vittoria, riportata nel cuore dell’Italia era maggiore della prima, poichè questa volta un intero esercito era stato annientato. Lo sgomento a Roma fu indicibile; la città stessa parve in pericolo; si ricorse ai rimedi eroici; si ordinò la leva di quattro nuove legioni, e si nominò un dittatore nella persona di Q. Fabio Massimo: un gran personaggio, che già era stato console due volte, censore, dittatore; che nel 232 aveva combattuto felicemente i Liguri, e aveva fama di soldato valoroso e prudentissimo[44]. Ma Annibale, disdegnando per acerba l’uva che non poteva cogliere, non assalì [157] Roma; e seguendo il suo piano che lo portava nell’Italia meridionale, discese a oriente, entrò in Umbria, e dopo aver tentato invano di prendere Spoleto, passò nel Piceno, e attraversando il territorio dei Marrucini e dei Frentani si diresse alla volta dell’Apulia; aggirò insomma, e molto alla larga, Roma, come poco prima aveva aggirato Arezzo, puntando forse già sino d’allora sul gran porto di Taranto e cercando di scuotere sul suo passaggio la fedeltà degli alleati. Ma in Apulia trovò Q. Fabio Massimo, che si era recato a prendere il comando delle milizie di Servilio colà ritiratosi da Rimini; e che si attaccò a lui, lo seguì passo passo, lo molestò senza tregua, cercò di impedirgli il vettovagliamento, ma rifiutò sempre battaglia. A sua volta Annibale ricominciò con lui il giuoco, che era così ben riuscito con Flaminio: mise a ferro e a fuoco le campagne; e poichè Fabio assisteva indifferente al saccheggio dell’Apulia, torse il suo cammino a occidente; passò nel Sannio e dal Sannio addirittura nella Campania, devastando sotto gli occhi di Fabio la parte più ricca e più bella dell’Italia. Ma invano: il savio dittatore lo lasciò fare e non mutò proposito.

Senonchè quel temporeggiare metteva a duro cimento la pazienza del popolo romano, il quale non aveva armato tante legioni per lasciar mezza Italia in balia del nemico. Nè meno vivi erano i lamenti e i rimproveri degli alleati italici. Così Roma li difendeva e difendeva i loro beni? Le discordie politiche invelenirono le discussioni strategiche. L’aristocrazia non aveva risparmiato accuse allo sventurato generale, che sul Trasimeno [158] aveva perduto la vita insieme con la battaglia; e affettava di lodare la prudenza di Fabio, quasi come la necessaria correzione della imprudenza di Flaminio. Il partito democratico se ne risentì, aizzò il malcontento popolare, accusò addirittura il senato di protrarre ad arte la guerra: la vecchia accusa, che ogni tanto rifaceva capolino nelle lotte civili di Roma.

Quando Fabio ebbe deposto la dittatura, nella primavera del 216, all’aristocrazia riuscì a mala pena di far nominare console uno dei suoi, L. Emilio Paolo: l’altro console fu C. Terenzio Varrone, ardente fautore del partito di Flaminio. Le elezioni avevano detto chiaro che il popolo era malcontento; e questo malcontento crebbe a segno, che alla fine il senato si risolvè a mutare stile. Deliberò di mandare una legione nella Cisalpina, per riconquistarla; e ben otto legioni contro Annibale, ciascuna con un effettivo di 5000 uomini. Aggiungendo i contingenti alleati, i consoli disponevano di circa 90.000 uomini, i quali dovevano affrontare in Apulia un nemico che, sì e no, poteva sommare alla metà. Roma si preparava questa volta ad assalire i Cartaginesi con forze soverchianti.

Annibale frattanto era tornato in Apulia, forse mirando sempre a Taranto; e in Apulia i due consoli lo raggiunsero presso l’Ofanto. Si racconta che tra il console aristocratico e il console democratico nascesse presto discordia, per l’eterna ragione, che quello consigliava prudenza e questo non voleva sentirne parlare. Comunque sia, il 2 agosto, i due eserciti erano l’uno di faccia all’altro presso la sponda meridionale dell’Ofanto, [159] quello romano con la fronte volta a mezzogiorno, quello cartaginese con la fronte volta a settentrione. L’esercito romano era schierato secondo il solito modo; anzi Varrone, ammaestrato dalla esperienza, aveva fatto i manipoli delle tre linee più profondi del consueto. Annibale invece aveva schierato la sua fanteria in una linea continua, forse più sottile del solito, e certamente assai più sottile di quella romana, collocando alle ali le milizie migliori, quelle africane, e distribuendo la cavalleria sui fianchi ma in modo che alla sinistra i suoi squadroni fossero in tali forze da soverchiare il nemico. Poi aveva fatto avanzare al centro la fanteria, in modo da tracciare una curva convessa, le cui estremità s’innestassero ai corpi laterali degli Africani di destra e di sinistra, allineati diritti. Incominciata la battaglia, prima ancora che le truppe leggiere, le quali solevano dar principio al combattimento, avessero terminato la loro azione, la cavalleria romana dell’ala destra era stata sconfitta e tagliata a pezzi dalla soverchiante cavalleria raccolta all’ala sinistra cartaginese, e questa senza perder tempo passava ad attaccare l’ala sinistra romana. Era ormai sicuro: le ali della fanteria sarebbero rimaste tra non guari scoperte. Intanto la fanteria pesante romana aveva fatto impeto nel centro della sottile linea cartaginese, ne spianava la curva e lo costringeva a retrocedere. Questa vittoria apparente delle due prime linee romane trascinò la riserva (i triarii), i comandanti romani non essendosi accorti che le ali della fanteria cartaginese non erano ancora entrate in azione; cosicchè, quando [160] la linea romana piegata in due ad angolo ottuso, fu penetrata abbastanza nel vuoto, ch’essa con il proprio impeto si apriva dinanzi, i due corpi laterali degli Africani, fatta una lieve conversione, attaccarono di fianco i Romani. Il cuneo era preso a sua volta in una tanaglia. Ma l’esercito di Varrone era tanto più numeroso, che avrebbe potuto far fronte all’assalto laterale e frontale, se in quel momento la cavalleria pesante cartaginese, vincitrice dei due corpi avversari, non avesse assalito i Romani alle spalle. Non ci fu prodezza che potesse liberare i Romani dall’accerchiamento. Seguì un macello, nel quale caddero circa 70.000 uomini, un console — Paolo Emilio — due proconsoli, due questori, ventun tribuni militari, ottanta senatori. Diecimila uomini, lasciati a guardia dell’accampamento romano, furono dopo la battaglia assaliti e fatti prigionieri. I Cartaginesi non avevano perduto che 8000 uomini[45].


52. La lotta per la Sicilia (216-210). — Immenso fu lo sgomento, non soltanto in Italia, ma in tutto il mondo mediterraneo. Questa volta l’Italia meridionale si scosse. I Bruzzi, i Lucani, una parte degli Apuli, tutti i Sanniti ad eccezione dei Pentri, passarono dalla parte dell’invasore. Si ribellarono in parte la Magna Grecia e la Campania; Capua aprì le porte ad Annibale; Filippo di Macedonia, sino ad allora tentennante, fece finalmente causa comune con Cartagine[46]. Il colpo era stato così forte, che Roma abbandonò ogni proposito di offensiva; diede tregua alle sue lotte interne; raccolse quanti soldati potè; li affidò a [161] un valente generale, il pretore Marco Claudio Marcello, il quale fu contento di impedire che Annibale si impadronisse di tutta la Campania e, in questa, di un porto. Annibale invece, ormai stabilito saldamente nell’Italia meridionale, si volge ad attuare la seconda parte, la decisiva, del suo disegno: ricongiungersi con Cartagine attraverso la Sicilia riconquistata. La guerra si allarga e nel tempo stesso si spezzetta in piccole operazioni parziali.

Gli ultimi mesi del 216 furono spesi in combattimenti poco importanti tra Annibale e Marcello in Campania. Annibale prese Nocera, Acerra e Casilino; i Romani salvarono Cuma, Nola e Napoli. Ma la guerra ridivampò nel 215, e non in Italia soltanto; anzi fuori d’Italia più che entro i suoi confini. Nella Spagna, i Romani fecero notevoli progressi a sud dell’Ebro, perchè Asdrubale, che comandava in Spagna, fu costretto a ritornare in Africa per domare una rivolta di Siface, re dei Numidi, sobillata dai Romani. A loro volta i Cartaginesi prepararono grandi rinforzi da mandare in Italia e tentarono un attacco alla Sardegna che non riuscì. In Italia Cartaginesi e Romani continuarono a battagliare in Campania ed in Apulia, in scontri di poco rilievo, senza che Annibale riescisse a conquistare un porto e senza che Roma riuscisse a riprendere Capua. Cosicchè la guerra sembrò languire in Italia; ma non rallentò l’alacrità di Annibale che, se non diede nessuna grande battaglia, in compenso riuscì in quest’anno a conchiudere un trattato di alleanza con Filippo di Macedonia e incominciò a porre ad effetto il [162] suo disegno sulla Sicilia. Per sua istigazione, essendo morto il re Gerone, il vecchio e fido amico di Roma, suo nipote Geronimo denunciò l’alleanza con Roma e si alleò con Cartagine. L’attacco alla Sicilia, preparato di lunga mano, incominciava.

A tirar le somme, gli eventi del 215 erano stati piuttosto sfavorevoli a Roma, e massime in Sicilia. A Roma non sfuggì che lì doveva decidersi la guerra, poichè, perduta la Sicilia, Roma sarebbe stata accerchiata da tutte le parti. Non meno di quattro legioni furono reclutate l’anno seguente — il 214 — per essere mandate in Sicilia; e furono poste al comando del miglior generale che Roma avesse: Marco Claudio Marcello. A sua volta Cartagine fece grandi preparativi per una spedizione in Sicilia. In Italia invece continuò il minuto guerreggiare, come continuarono in Spagna i progressi dei Romani, che ampliarono la loro dominazione nella parte meridionale e incominciarono a riedificare Sagunto. Una nuova guerra si aggiunse infine alle altre in questo anno, e contro Filippo di Macedonia. Il Re di Macedonia si era impegnato a rinforzar la flotta cartaginese di 200 navi e a tentare uno sbarco sulle coste dell’Italia: ma, non avendo sicure comunicazioni nè con Annibale nè con Cartagine, e non essendo uomo molto animoso, agì con poco vigore e non die’ molto filo da torcere a M. Valerio Levino, che Roma aveva mandato a combatterlo. Cosicchè l’annata sarebbe stata buona per i Romani, se le cose non fossero precipitate in Siracusa. Poco dopo essersi alleato con Cartagine, Geronimo era stato ucciso [163] da una congiura e la monarchia abolita; lì per lì era sembrato che il potere passasse nelle mani del partito aristocratico, favorevole ai Romani; ma poco di poi una rivoluzione democratica rovesciava il governo e riconfermava l’alleanza con Cartagine. Marcello, che da principio era ricorso alle trattative, non esitò più; marciò contro Siracusa e la cinse d’assedio.

Nel 213 la guerra continuò a volger favorevole ai Romani in Spagna ed in Illiria; e non troppo male in Italia, dove essi presero Arpi e riuscirono ancora a impedire ad Annibale di conquistare un porto. Ma i grandi eventi si svolgono quest’anno in Sicilia. Cartagine occupa Agrigento e spedisce una flotta in aiuto di Siracusa; l’isola si solleva in buona parte contro i Romani; Siracusa si difende con grande energia — tra i suoi difensori c’era Archimede —; Marcello prosegue le operazioni di assedio e si difende contro gli attacchi dei Cartaginesi con straordinario vigore. Dal suo esercito dipende il tutto: se Marcello prende Siracusa, Roma può sperar di salvare la Sicilia; se Marcello è distrutto sotto Siracusa, le sorti della guerra pericolano. Tutto l’anno si combatte accanitamente in Sicilia. Al principio del 212 Annibale riesce finalmente ad impadronirsi di Taranto; del porto dove l’armata macedone e la cartaginese avrebbero potuto riunirsi, per disputare a Roma il dominio del mare e terminar la conquista della Sicilia. Colpo grave per Roma, mentre ancora pendevano incerte le sorti della guerra intorno a Siracusa! Per rifarsene, il senato ricorse agli accorgimenti diplomatici e alle armi: stipulò con [164] la lega etolica un’alleanza, impegnandola a combattere Filippo; approfittò della lontananza di Annibale, che era andato a Taranto con il fiore delle sue forze, per stringere d’assedio Capua. Ma ben presto Roma ricevette un compenso molto maggiore: Siracusa. Non ostante i vigorosi sforzi fatti da Cartagine per soccorrere Siracusa, Marcello se ne impadronì. La immensa preda ristorò le stremate finanze della repubblica, e la vittoria rialzò le sorti delle armi romane in Sicilia. L’isola però non era ancora riconquistata; perchè i Cartaginesi si mantenevano in Agrigento, risoluti alla estrema resistenza.

Nel 211, la guerra ricominciò più accanita che mai. Roma potè vantare una grande vittoria in Italia, riprendendo Capua. Invano Annibale era accorso da Taranto in aiuto; e aveva tentato perfino, per distogliere una parte dell’esercito romano dall’assedio e per facilitare una riscossa degli assediati, di simulare una marcia su Roma. Le forze di Annibale erano troppo piccole; nè la finta su Roma ingannò i Romani. La caduta di Capua fu un fiero colpo per il prestigio di Annibale in tutta l’Italia meridionale, che da questo momento incominciò a dubitare della sua fortuna. Le tre debolezze di Annibale erano ormai palesi: la fiacchezza di Filippo di Macedonia, che Roma veniva avvolgendo in una fitta rete di intrighi diplomatici; le comunicazioni con Cartagine, difficili perchè Roma era ancor troppo forte in Sicilia e sul mare; la mancanza di macchine per gli assedi. Si rimprovera di solito a Cartagine di aver sostenuto Annibale troppo poco: ma [165] come giudicare, sapendo così male quel che Cartagine fece e quello che era in grado di fare? Non essendo dubbio che Cartagine molto fece per soccorrere la Spagna e per riconquistar la Sicilia, è lecito chiedersi se essa non abbia fatto di più, perchè non poteva, con di mezzo il bastione della Sicilia, il mare vigilato dalle forze romane e tutti i porti per molti anni in potere del nemico. Comunque sia, la caduta di Capua era una sciagura per Annibale, non un colpo mortale. Egli disponeva ancora di forze ingenti e di numerosi appoggi in Sicilia; i Cartaginesi si reggevano ad Agrigento, e in quello stesso anno la fortuna si volgeva ad un tratto contro i Romani in Spagna. Asdrubale, composte le cose di Africa, era tornato, e aveva ricacciati i Romani al di là dell’Ebro. I due Scipioni, che comandavano l’esercito, erano stati uccisi e le loro legioni poco meno che annientate.


53. La battaglia del Metauro (207). — Nel 210, mentre in Italia continuavano i piccoli scontri tra Annibale e gli eserciti romani, finalmente cadeva Agrigento, e i Cartaginesi sgombravano la Sicilia. L’isola ritornava in potere di Roma. Il colpo era fiero per Annibale, a cui falliva per sempre quel sicuro congiungimento con l’Africa attraverso l’isola riconquistata, a cui è probabile egli mirasse sin dalle prime mosse. Tuttavia Annibale non si scoraggiò. La vittoria era costata a Roma carissima. Da parecchi anni si tenevano sotto le armi più di 20 legioni, oltre i contingenti alleati e la flotta, ossia più di 200,000 uomini; l’erario [166] era stremato; l’Italia a metà rovinata, per le devastazioni, le morti, le imposte, lo scempio dell’agricoltura derelitta, in mezzo a tanto tumulto di armi. In quest’anno poi l’Italia fu desolata da una terribile carestia, a cui soltanto l’amicizia del re d’Egitto, che fornì grano, portò sollievo. Annibale pensò che un colpo vigoroso rovescerebbe il crollante nemico; e poichè, fallito il disegno della Sicilia, non poteva più aspettar rinforzi dal mare, pensò di chiamarli per terra, per la medesima via per la quale egli era venuto. Ora che la Spagna, dopo le vittorie del 211, era di nuovo in potere dei Cartaginesi, il disegno poteva riuscire. D’accordo con il governo di Cartagine, il fratello suo, Asdrubale, preparerebbe un forte esercito in Spagna e con quello rifarebbe il cammino di Annibale, per piombare sull’Italia, esausta da tanti anni di guerre, congiungersi a lui e vibrare il colpo decisivo.

Roma ebbe sentore di questo nuovo disegno e mandò in Spagna un uomo capace: Publio Cornelio Scipione, il figlio del console che aveva comandato alla Trebbia e che era stato ucciso poco prima in Spagna. Per la nobiltà del sangue, le prove di valore già date, l’ingegno e la cortesia dei modi, il giovane Scipione, che nel 211 aveva 24 anni, era popolarissimo; e a lui molti pensarono, in quel gran bisogno di generali, con tanti eserciti da comandare, per la impresa di Spagna. Ma a quell’età egli non poteva essere nè pretore nè console.... Una legge tolse di mezzo la difficoltà legale, conferendogli l’autorità di proconsole; provvida legge, chè, appena giunto, nel 209, Scipione tentò un colpo [167] magistrale: l’assalto di Cartagena, la capitale dell’impero punico-spagnolo, giudicata da tutti inespugnabile. La città fu presa, o piuttosto sorpresa con un unico assalto, insieme con le provvigioni, le riserve metalliche — circa 600 talenti — e un ricco bottino; e subito in tutta la penisola scoppiò una insurrezione anticartaginese, che inchiodò i tre generali punici operanti nelle diverse regioni della Spagna. In questo stesso anno, i Romani riuscivano a ripigliar Taranto, che fu, come Siracusa, spietatamente saccheggiata.

Il 209 era stato dunque un anno piuttosto buono per i Romani. Ma intanto Asdrubale allestiva il nuovo esercito; e nel 208, mentre i Romani perdevano in Italia Marcello, il loro più grande generale, che fu ucciso in Lucania; e in Oriente riuscivano a muovere contro Filippo Attalo, Re di Pergamo, Scipione in Spagna non riuscì a fermare Asdrubale. Gli diede battaglia a Baecula, sul Baetis; disse di averlo vinto; ma Asdrubale passò, varcò i Pirenei prima, e poi le Alpi molto più facilmente che suo fratello, perchè, in dieci anni di guerra, le popolazioni alpine si erano avvezzate al passaggio degli eserciti. Nei primi mesi del 207, Asdrubale compariva inaspettato nella valle del Po, alla testa di un forte esercito; eccitava di nuovo i Galli, gli Etruschi, gli Umbri alla rivolta. Il terrore dei Romani e degli Italici, rimasti fedeli, fu immenso. Roma parve perduta, se Asdrubale e Annibale riuscissero a congiungersi. In fretta e furia il console Marco Livio Salinatore fu mandato verso il settentrione contro Asdrubale; il suo collega, Caio Claudio Nerone, [168] fu spedito a mezzogiorno a fronteggiare Annibale, che era in Apulia. Il primo, giunto a Sena Gallica, deliberò di aspettar Asdrubale, che intendeva prendere da Fano la via Flaminia e forse congiungersi con Annibale sulla via di Roma; Nerone battagliò con varia fortuna contro Annibale, e parve riuscisse a trattenerlo in Apulia, sebbene probabilmente Annibale non intendesse ancora avviarsi incontro al fratello, non avendo di lui notizie e non supponendo che potesse giungere così presto. Quando, un giorno, intercettata una lettera che Asdrubale spediva ad Annibale, Nerone viene a sapere che Asdrubale marcia alla volta di Fano e della via Flaminia. Congetturando a ragione che tra pochi giorni il collega sarebbe alle prese con Asdrubale, e che una disfatta sarebbe irreparabile, egli si assume una tremenda responsabilità: sceglie 7000 uomini nel suo esercito, i migliori; corre di nascosto, lasciando il resto a fronteggiare Annibale, a marce forzate, camminando notte e giorno, in aiuto di Livio; e giunge proprio come il salvatore, al momento in cui Livio doveva o lasciar il passo ad Asdrubale sulla via Flaminia o attaccarlo.... La battaglia ebbe luogo presso il Metauro, in un luogo che giace non lungi dall’odierna Cagli (nelle Marche). La bravura di Nerone e i suoi 7000 uomini decisero della vittoria. Asdrubale fu vinto e ucciso; il suo esercito annientato. Anche questo nuovo piano di Annibale falliva, per la prontezza di Nerone e per un accidente singolare: perchè Asdrubale, avendo incontrato minore difficoltà nelle Alpi, era arrivato in Italia innanzi il previsto.

[169]


54. La controffensiva romana (207-202). — La battaglia del Metauro migliorò molto le sorti della guerra per i Romani. Annibale sgombrò l’Apulia e la Lucania e si ridusse sulla difesa nel paese dei Bruzzi; la guerra languì in Italia, dove i Romani ridussero l’esercito. Anche meglio procedettero le cose per Roma, fuori d’Italia. L’anno successivo — il 206 — i Cartaginesi furon sconfitti da Scipione di nuovo a Baecula; e quasi tutta la Spagna cadde in potere di Roma. Cartagine cercò rifarsi, mandando Magone con gli avanzi dell’esercito a tentare un assalto sull’Italia. Nel 205 Magone prese Genova, arruolò Liguri e Galli, tentò di sollevare l’Etruria: ma con le poche forze di cui disponeva non potè far nulla che contasse davvero. In questo stesso anno anche Filippo di Macedonia, stanco della guerra decennale coi Greci, coi Romani e coi loro alleati, dopo avere, pochi mesi innanzi, concluso pace coi primi, regolava definitivamente la sua lunga vertenza coi Romani in Illiria, e si ritirava dalla guerra.

Si avvicinava il giorno in cui Roma potrebbe finalmente, dopo essersi così a lungo difesa, attaccare Cartagine. In quell’anno stesso P. Cornelio Scipione, reduce dalla Spagna, appena eletto console, chiedeva ai senato di riprendere il piano fallito ad Atilio Regolo nella prima guerra punica, e vagheggiato un istante al principio della seconda: portare la guerra in Africa. Scipione era uomo da tanto; e le condizioni delle armi ormai così favorevoli come non erano state mai. Ma le difficoltà erano in patria, nella stessa Roma. Dileguato il pericolo, di nuovo la concordia tra i [170] partiti veniva meno: quel giovane, che presumeva tanto di sè, e per cui era stata già violata la legge dell’età, suscitava invidie e diffidenze; molti ricordavano con terrore la sorte di Atilio Regolo. Insomma, il senato era avverso. Scipione dovè minacciare di appellarsi all’assemblea delle tribù. Solo dopo questa minaccia ottenne la provincia di Sicilia, con il permesso di recarsi nel territorio cartaginese, se l’avesse reputato opportuno; e potè partire per l’Africa al principio del 204, con 35.000 soldati, 40 navi da guerra e 40 da carico.

Come Annibale al suo primo arrivo in Italia, Scipione pensava staccare da Cartagine i suoi alleati. A tale scopo egli contava molto su Siface, il re di Numidia, con cui, fino a poco prima, i Cartaginesi erano stati in guerra. Ma proprio allora Siface fece pace con Cartagine, cui portò 50.000 fanti e 10.000 cavalli; onde a Scipione non restò che intendersi con un altro capo numida, il re Massinissa, un rivale di Siface, che aveva militato in Spagna con Asdrubale, ma che Cartagine aveva all’ultimo abbandonato per il suo avversario; onde allora si trovava senza regno. Scipione dovè dunque incominciare la guerra con i suoi 35.000 uomini, e con questi pose l’assedio ad Utica. Ma dovette levarlo, quando i Cartaginesi e Siface si avvicinarono con forze preponderanti; e ridursi in un campo trincerato, su un promontorio tra Utica e Cartagine, dove passò l’inverno, avviando trattative di pace, più per ingannare la vigilanza del nemico che per il serio proposito di riescire. A primavera infatti, sorprendendoli all’impensata, Scipione riuscì a sconfiggere [171] separatamente prima i Numidi e poi i Cartaginesi. Li sconfisse poi una seconda volta in una battaglia campale, in seguito alla quale Massinissa invase, alla testa di forze romane, il regno di Siface, vinse e fece prigioniero il Re. Dopo questi rovesci Cartagine aprì trattative di pace. Scipione chiese, oltre una indennità, la Spagna. Fu trattato intanto un armistizio, a condizione che Annibale e Magone sarebbero richiamati dall’Italia. Il triste messaggio raggiunse il grande cartaginese in Calabria, nell’antica Cotrone, non lungi da quel promontorio Lacinio, dove, negli ultimi anni del suo soggiorno nella penisola, su un altare dedicato a Giunone, egli aveva vergato nel bronzo, in greco ed in punico, quella narrazione delle sue gesta, che doveva servire di traccia all’opera magistrale di Polibio. Egli meditava allora, ed ordiva per la seconda volta, un nuovo piano di alleanza con la Macedonia. Ciò non pertanto obbedì, e, non mai vinto, sgombrò volontariamente quel suolo, che teneva da più di tre lustri. Ma l’annunzio della partenza e del ritorno di Annibale, se fu per l’Italia, come il rimuoversi di uno spavento orribile, riuscì fatale a Cartagine. Il partito della guerra rialzò il capo. Un’armata romana, incaricata del rifornimento dell’esercito di Scipione, fu catturata; le ostilità rinnovate, e Annibale costretto a mettersi a capo di una nuova guerra, mentre era venuto solo per suggellare una pace.


55. Zama (202). — La battaglia decisiva fu combattuta in territorio numidico, presso Zama. L’ordinamento che quel giorno Annibale dette ai [172] suoi soldati richiama quello dei più celebri fatti d’arme della campagna d’Italia. Collocò i mercenari, che Cartagine aveva da poco arruolati, nella prima linea, fiancheggiati dalla sua eccellente cavalleria e sostenuti da ottanta elefanti da guerra. Essi dovevano affrontare i legionari romani, appena questi fossero stati scompigliati dall’urto degli elefanti, e, se quelle bestie fossero respinte o fermate, infliggere, sostenuti dalla seconda linea — le milizie nazionali cartaginesi — una prima sconfitta al nemico, se potessero, se no, logorare o stancare l’avversario, sia pur facendosi sconfiggere e terminando col retrocedere. Interverrebbe allora a dar l’ultimo e decisivo colpo la terza linea, composta di veterani reduci dalle campagne d’Italia.

Scipione invece dispose, come al solito, l’esercito su tre linee, ma non, come i generali romani solevano, a scacchiere; bensì lasciando tra i manipoli delle tre linee intervalli che si corrispondessero, in modo che tra i manipoli corressero dei corridoi, lunghi quanto l’esercito. Negli intervalli dei manipoli di avanguardia dispose i veliti, che, all’arrivo degli elefanti, dovevano, fuggendo e disperdendosi, tirare gli animali in questi corridoi aperti tra i manipoli, dove sarebbero stati saettati dalle due parti. Senonchè questo accorgimento riuscì in gran parte inutile. Spaventati dal suono delle trombe e aizzati dalle punture delle frecce dei veliti romani, la maggior parte degli elefanti si rovesciò sulla cavalleria cartaginese dell’ala sinistra, rendendo così facile al corpo avversario della cavalleria romana di caricarla e di [173] metterla in fuga. La grande macchina dei successi annibalici, la vittoria iniziale della cavalleria, era questa volta rovesciata a pro dei Romani; e l’insuccesso riusciva più grave, perchè l’altra ala della cavalleria cartaginese era al tempo stesso sbaragliata.

Era dunque urgente per Annibale che la battaglia fosse decisa prima del ritorno offensivo della cavalleria nemica vincitrice. Ma se la sua prima linea combattè con onore, gli fu quasi impossibile far muovere la seconda, quella composta di Cartaginesi arruolati da poco e che, poco agguerrita, fu presa da panico. I mercenari della prima linea si credettero traditi, e si gettarono infuriati sulla seconda linea: sulle due parti dell’esercito cartaginese che si azzuffavano piombò allora la massa romana, tramutando quel macello in fuga. Ma Annibale non si die’ per vinto: raccolse alle ali quel che rimaneva della prima e della seconda linea, mentre Scipione imbarazzato dai cadaveri, che gli giacevano innanzi, in mezzo al campo, allungava il suo fronte collocando ai lati la seconda e la terza linea e nel centro quel che gli restava della prima. Così i due eserciti vennero all’urto finale, che fu terribile. Le sorti del combattimento apparivano ancora incerte, allorchè alle spalle delle milizie di Annibale comparve la cavalleria dei Romani, reduce dall’inseguimento nemico. L’esercito cartaginese fu avvolto; e la mossa e la sorpresa di Canne si rinnovarono. Dei 60.000 cartaginesi, ben 20.000 rimasero sul campo, ed altrettanti furono fatti prigionieri; lo stesso Annibale potè salvarsi a [174] stento con un pugno di cavalieri ad Hadrumetum[47].

Da Hadrumetum il generale si recò tosto a Cartagine a consigliare, come quarant’anni prima, suo padre, dopo le Egadi, la pace. E la pace fu fatta. Cartagine riconosceva il nuovo regno di Numidia nella persona di Massinissa; entro i confini che Roma le avrebbe indicati. Si impegnava a pagare a questa, per cinquant’anni, una contribuzione annuale di 200 talenti; a consegnare, salvo dieci, tutte le navi e gli elefanti da guerra; ad abbandonare, per ora e per l’avvenire, ogni conquista esterna; a limitare i suoi armamenti, rinunziando alle leve dei mercenari stranieri; a far guerra in Africa solo con licenza dei Romani (201). Così, dopo poco più di sessant’anni di guerra, il più grande Stato dell’Occidente, europeo ed africano, spariva dal numero delle grandi potenze.

Roma aveva vinto perchè, possedendo la Sicilia, aveva per sè il vantaggio strategico, cosicchè Cartagine dovè attaccarla con il lungo giro fatto da Annibale; perchè, per la maggior parte della guerra, si tenne sulla difesa e non passò all’offesa che sull’ultimo; perchè le colonie latine rimasero fedeli, cingendola di una corazza di fortezze invincibili; e perchè dei sudditi, Galli, Italici, Greci ed Etruschi, solo una parte si ribellò. A queste tre ragioni conviene aggiungerne una quarta: l’esercito di coscrizione. Gli eserciti romani, reclutati con leve obbligatorie, erano più scadenti degli eserciti cartaginesi, composti di soldati di mestiere; onde si spiegano le gravi disfatte [175] dei primi anni. Ma in compenso Roma potè disporre di forze più numerose; onde alla fine, la guerra essendo durata così a lungo, la quantità vinse la qualità.

Note al Capitolo Ottavo.

39.  Polyb., 2, 13, 7; 3, 27, 9 dà il testo della clausola capitale del trattato: μὴ διαβαίνειν Καρχηδονίους ἐπὶ πολέμῳ τὸν Ἴβηρα ποταμόν. Si tratta, dunque, come gli storici non hanno avvertito, di un accordo, con il quale Cartagine accettava una limitazione delle sue armi, impegnandosi a non mandare truppe oltre l’Ebro, per nessuna ragione; e non già di una delimitazione delle due reciproche sfere d’influenza. Come Polibio stesso osserva, i Romani, con questo trattato, non riconoscevano punto la Spagna al di là dell’Ebro quale territorio cartaginese (2, 13, 7).

40.  Cfr. Polyb., 2, 24: uno dei capitoli più importanti di tutta l’opera del grande storico.

41.  Queste, come le cifre precedenti e seguenti, risalgono a un’epigrafe dettata dallo stesso Annibale in memoria delle sue gesta italiche, a Lacinium, che lo storico Polibio conobbe e seguì nella sua grande opera (3, 56). Non abbiamo accolto i dubbi della moderna critica tedesca sulla presunta esagerazione di queste perdite, sia perchè Annibale ci pare fosse in grado di sapere quanti soldati aveva perduti meglio dei professori moderni; sia perchè la storia militare ci avverte come, in parecchie grandi campagne, antiche e moderne, le perdite che gli eserciti hanno subite per via dell’inclemenza delle stagioni, sono state più gravi di quelle toccate nelle vere e proprie battaglie campali.

42.  Il nome tradizionale dello scontro, è quello di battaglia del Ticino; ma il luogo preciso ove avvenne la battaglia è incerto.

[176]

43.  Molto hanno discusso gli eruditi per ritrovar dove fossero queste famose paludi; e con tanto maggiore accanimento, perchè Polibio e Livio non solo si contradicono tra di loro su questo punto, ma sono ambedue oscuri e imprecisi. Senonchè per sciogliere i dubbi non c’è che un mezzo: tener conto della ragione militare. Annibale non può aver imposto al suo esercito la fatica di marciare per parecchi giorni nelle paludi con l’acqua a mezza gamba, se non per evitare un ostacolo che gli sbarrava la strada. Ora dalla battaglia delle Trebbia sino alla battaglia del Trasimeno il solo ostacolo serio che egli doveva incontrare, era Arezzo, dove Flaminio l’aspettava. Noi sappiamo d’altra parte che Annibale eluse Flaminio, sbucandogli all’improvviso alle spalle, tanto che Flaminio fu costretto a rivoltare il fronte del suo esercito e inseguirlo nella direzione del Trasimeno. È dunque chiaro che Annibale ha gettato il suo esercito nelle paludi, per aggirare la posizione di Arezzo, costringere Flaminio ad uscire in campo aperto, invece di assalirlo nella posizione fortificata.

44.  La più sicura biografia politica di Fabio Massimo è contenuta in un’epigrafe, dettata in sua memoria e in suo onore; CIL, I, p. 288, n. XXIX.

45.  La nostra descrizione della battaglia di Canne deriva principalmente dal racconto di Polibio, 3, 110 sgg.

46.  Il testo del trattato è contenuto in Polibio, 7, 9.

47.  Fonte principale della descrizione della battaglia di Zama è al solito Polibio, 15, 9-14.

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CAPITOLO NONO L’EGEMONIA MEDITERRANEA

56. La guerra con la Macedonia (200-196 a. C.). — La guerra annibalica aveva dissanguato l’Italia. Ma Roma aveva conquistato tutta la Sicilia, incluso il territorio siracusano, e la Spagna, ricca di uomini e di metalli. Signora della Sicilia, della Sardegna, della Corsica e della Spagna, essa dominava ormai il Mediterraneo occidentale. Gli errori degli avversari, la saggezza del senato, il valore dei soldati, la tenacia dello spirito pubblico, la fortuna, che tanto può in queste cose, avevano concorso a far di Roma, in meno di un secolo, una delle maggiori, forse già la maggiore potenza del bacino mediterraneo. Si potrebbe quindi aspettare che Roma proceda d’ora innanzi, fatta ardita dalla fortuna, ad ingrandire il suo impero. Per quale ragione Roma non avrebbe, come Alessandro poco più di un secolo prima e sia pure con maggiore lentezza, cercato di sfruttare subito i favori della fortuna?

Invece, dopo la seconda guerra punica, avviene nella politica romana un subito rivolgimento. [178] Giova intenderlo bene, se si vuole capire come a Roma venisse fatto di creare l’impero più duraturo del mondo antico. La prima spinta a questo nuovo corso fu data dagli affari di Oriente. Mentre Roma era alle prese con Cartagine, l’Egitto era andato indebolendosi per diverse ragioni, le più di ordine interno; la Siria invece, sotto la forte mano di Antioco il Grande, e la Macedonia, sotto il governo intelligente, se pur oscillante, di Filippo, si erano notevolmente rafforzate. Perciò, morto nel 204 Tolomeo IV e passata la corona dell’Egitto a un fanciullo minorenne, Tolomeo V Epifane, i due sovrani di Macedonia e di Siria si erano alleati per spartirsi i possessi dei Lagidi posti fuori dell’Egitto. Nel 202 Antioco aveva invaso la Palestina, Filippo si era gettato sulle Cicladi, sul Chersoneso tracico e sulle coste della Bitinia, senza che l’Egitto, governato da una reggenza incapace e rapace, movesse un dito. Ma le città, che preferivano il protettorato nominale dei Lagidi al duro governo macedonico, si erano difese da sole; le città libere, Rodi, Chio, Cizico, Bisanzio, spaventate anche esse dalle ambizioni di Filippo, avevano stretto alleanza, assoldato milizie — etoliche la più parte —, apprestato navi; Attalo, Re di Pergamo, si era unito a questa alleanza. Senonchè la guerra era stata ripresa nel 201 da Filippo, e con tanto vigore, che Rodi ed Attalo erano ricorsi per aiuto a Roma. Erano sopraggiunti di lì a poco ambasciatori degli Ateniesi, a chiedere anche essi aiuto, essendo, in seguito ad un incidente fortuito, venuti in guerra con Filippo, che aveva mandato un generale ad [179] invadere l’Attica. L’Egitto essendo impotente, Roma sola poteva salvare l’Oriente dalla egemonia della Macedonia e della Siria.

Ma Filippo ed Antioco avevano scelto bene il momento. Se l’Egitto era impotente, l’Italia era in mille difficoltà. Dal braciere del grande incendio appena domato sprizzavano turbini di faville, che avrebbero per lunghi anni sollevato incendi minori: guerre nella Spagna, vinta ma non pacificata; guerre nella pianura padana, ove i Galli avevano sino all’ultimo disperatamente combattuto per la causa cartaginese e non accennavano a deporre le armi neppure dopo la pace; guerre in Liguria, donde gl’indigeni infestavano le vie marittime tra l’Italia e la Spagna, non che le coste galliche e iberiche. Poteva Roma, con l’Italia esausta dalla grande guerra allora allora finita, impegnarsi a fondo nelle faccende orientali, che in fin dei conti la toccavano molto poco, solo per impedire che Filippo ed Antioco ingrandissero troppo i loro Stati, a spese dei Lagidi? Noi sappiamo infatti che a Roma l’opinione popolare reclamava la pace. Il senato invece non esitò ad accoglier la domanda di aiuto; spedì a Filippo un’ambasceria, che gli chiedesse di cessar dalle armi contro gli alleati; e, quando l’ambasceria ritornò senza risposta, non esitò a far proporre ai comizi dai consoli dell’anno seguente — il 200 a. C. — la guerra alla Macedonia.

Come si spiega questo risoluto atteggiamento del senato? Tito Livio pone in bocca al tribuno della plebe, che più strenuamente oppugna la guerra, un discorso in cui accusa il senato e i [180] Grandi di far nascere di proposito le guerre l’una dall’altra, così da non finirle più; e al console che pèrora la guerra un altro discorso, che si può riassumere così: occorre far la guerra a Filippo in Macedonia, perchè se no tra poco Filippo verrà a farla a noi in Italia[48]. In questi discorsi, anche se inventati da Tito Livio, sono esposte le viste vere dei due partiti, quello della pace e quello della guerra. Il popolo era stanco di combattere; ma a quanti guardavano oltre il bisogno e l’interesse del giorno, la guerra annibalica aveva dimostrato che, mentre Roma allargava il suo impero oltre il mare, l’Italia non era punto sicura. Annibale era pur riuscito ad entrare in Italia, e a restarci sedici anni; non solo, ma a trovar soldati e aiuti e appoggi di tutti i generi. L’Italia era questa volta scampata al pericolo; ma l’avventura era stata troppo calamitosa, perchè la gente avveduta non reputasse necessario premunirsi per l’avvenire. L’inviolabilità dell’Italia diventa, da questo momento, un principio capitale della politica romana. Non per altra ragione il senato volle nel 200 la guerra contro la Macedonia, se non per tagliar la strada, prima che potesse mettersi in cammino, ad un nuovo Annibale. La Macedonia era forte d’armi e ricca di denaro; era stata alleata di Annibale; aveva già mostrato di temere i Romani e di non gradire la loro presenza sulla sponda orientale dell’Adriatico; non era infine più distante dall’Italia di Cartagine; e — vantaggio di cui Cartagine non aveva goduto — era uno Stato greco.... Non bisogna dimenticare che a quei tempi l’Italia meridionale era ancora, per metà, greca; [181] cosicchè uno Stato greco poteva considerarla come un territorio riserbato al proprio impero. Che cosa sarebbe successo se un giorno, mentre i Cartaginesi continuavano copertamente ad alimentare nell’Italia settentrionale la rivolta dei Galli, la Macedonia avesse tentato di assalire Roma dal sud, rivoltando contro di lei i Greci del mezzogiorno e ripigliando il disegno di Pirro?

Il senato voleva dunque impedire alla Cartagine dell’Adriatico di rafforzarsi troppo. Ma il popolo non ne voleva sapere; e nei comizi respinse la guerra. A sua volta il senato insistè; si sforzò di convincere il popolo, facendolo arringare da numerosi oratori; riuscì a portar di nuovo la questione ai comizi, e, questa volta, a vincere il punto. Il fatto è d’importanza, perchè ci dimostra quanto la guerra annibalica avesse accresciuto l’autorità del senato e dell’aristocrazia. Il partito democratico-rurale, che prima della guerra annibalica veniva acquistando potere, era sparito durante la guerra; e non è difficile intenderne la ragione. In quegli anni terribili Roma dovette, non disputar di politica, ma difendersi: il senato, che solo sapeva dirigere una guerra così lunga e così vasta, predominò per necessità di governo, crebbe di prestigio e di forza, e si ritrovò alla fine pieno degli uomini o dei figli degli uomini, che si erano illustrati in tante battaglie, unito e concorde come non era stato mai, perchè le rivalità di partito, le gelosie e gli odi di famiglia si erano indeboliti, e quasi del tutto era stata cancellata l’antica differenza tra patriziato e senatori plebei. Noi conosciamo i nomi di 148 senatori, che [182] dal 312 al 216 avevano coperto le così dette magistrature curuli, la dittatura, la censura, il consolato, l’edilità curule: 73 sono patrizi e 75 plebei; e mentre i 73 senatori patrizi appartengono a 15 famiglie soltanto, i 75 senatori plebei appartengono a 36[49].

La guerra contro la Macedonia fu dunque imposta dal senato al popolo, come la prima guerra contro Cartagine era stata imposta dal popolo al senato. Ma il senato non mirava punto ad una guerra di conquista in Macedonia. Ogni anno era necessario mandare un esercito nella Gallia Cisalpina a combattere i Galli che, guidati da irregolari cartaginesi, incominciavano una guerra atroce di sorprese e d’imboscate, di paci simulate e di rivolte subitanee. Roma non poteva impegnarsi in una impresa transmarina troppo ardita. I disegni del senato erano modesti: costringere Filippo a raccogliere in più piccolo cerchio le sue ambizioni; e costringerlo non con le armi soltanto, ma anche e più con l’arte diplomatica, sfruttando le infinite e inviperite discordie del mondo greco. Roma era già alleata con il Re di Pergamo, con Atene, con Rodi: occorreva guadagnare gli Etoli, da lungo tempo nemici della Macedonia; gli Achei, che invece inclinavano piuttosto all’alleanza macedonica; e quanti altri popoli o Stati si potesse: accerchiare insomma Filippo e obbligarlo a cedere, risparmiando denari e soldati. Il che ci spiega il singolare e incerto andamento della guerra. Nel primo anno i due principali avversari sembrano, più che cercarsi, schivarsi. Il console Publio Sulpicio Galba sbarca ad Apollonia in Illiria con [183] un esercito e lì si ferma, per far dell’Illiria una base di operazione contro la Macedonia e per intrigare presso gli Etoli, gli Achei e i piccoli principati illirici. Filippo invece si butta con notevoli forze nell’Attica, dove operavano forze romane, rodie e pergamee sbarcate a difesa di Atene. Queste riescono di sorpresa a impadronirsi di Calcide, ma non osano affrontare Filippo; Filippo per rappresaglia devasta l’Attica, mentre intriga per tirare dalla sua gli Achei. L’anno 200 si chiude perciò senza eventi decisivi. Sulpicio è riuscito a guadagnare gli Atamani e alcuni piccoli principi illirici; ha fallito invece con gli Etoli e non è venuto in contatto con l’esercito macedone; Filippo a sua volta ha tentato invano gli Achei. Etoli e Achei vogliono vedere come si metteranno le cose, prima di decidere. Sulpicio capisce che la sola presenza di un esercito romano in Illiria non basta a scuotere i due popoli: e l’anno dopo, nell’estate del 199, irrompe attraverso l’Illiria nella Macedonia superiore, mentre la flotta romana, unita con quella di Attalo e di Rodi, attacca le coste della Macedonia, l’Eubea e le isole minori. Filippo si reca a fronteggiar l’esercito romano, ma non si impegna a fondo; a sua volta il console romano non cerca di costringere il nemico a una battaglia decisiva, sia che non voglia, sia che non possa; e dopo diversi combattimenti favorevoli alle armi romane, quando gli Etoli si son dichiarati per Roma, invece di avanzare verso il cuore della Macedonia, si ritira di nuovo in Illiria come chi ha ottenuto il suo intento. Nella seconda metà del 199, egli cede il comando al console Publio Villio che, [184] giunto d’Italia dopochè gli Etoli hanno accettato l’alleanza romana, muta il piano di guerra; e pensa di minacciar la Macedonia, non più dal nord, ma dall’Etolia e dalla Tessaglia. Al principio del 198 egli mette ad effetto il piano, tentando di invadere la Tessaglia: ma più pronto, Filippo gli sbarra la strada occupando una fortissima posizione nelle gole dell’Aoo. Incapace di girarla e non sentendosi di assalirla di fronte, Villio si ferma: per un certo tempo i due eserciti campeggiano di fronte, senza muoversi; e chi sa quanto sarebbe durata quell’inazione, se ancora nella primavera non fosse sopraggiunto il successore di Villio, Tito Quinzio Flaminino, un giovane di molto ingegno e di molta risolutezza. Il quale, dopo aver consumato quaranta giorni a osservare il nemico senza muovere un passo e dopo aver tentato invano di intendersi con Filippo, riuscì con l’aiuto di un principe epirota a minacciare di aggiramento, per certi sentieri poco noti della montagna, la posizione di Filippo. Allora il Re di Macedonia si ritirò in Tessaglia, devastandola al suo passaggio, e dalla Tessaglia passò in Macedonia; ma senza essere inseguito da Flaminino. Il console romano si recò in Epiro, a ricevere la sottomissione di popolazioni sino allora rimaste fedeli a Filippo; poi, insieme con gli Etoli, entrò in Tessaglia e incominciò ad assediare tutte le città fedeli ai Macedoni o presidiate da loro, sinchè all’avvicinarsi dell’inverno ritornò sul golfo di Corinto, per provvedere ai quartieri d’inverno; con uno sforzo supremo riuscì a guadagnare alla causa romana gli Achei, promettendo loro Corinto; e con forze [185] achee, aiutate da una flotta romana, mosse contro questa città.

Insomma anche Flaminino non mirava a colpire al tronco la Macedonia, ma a reciderne i rami troppo allungatisi, e la cui ombra dava noia a Roma. Senonchè il terzo anno già volgeva al suo termine, e la guerra non accennava a finire: a Roma molti erano malcontenti e gli amici di Flaminino ne approfittarono per ottenergli il prolungamento del comando. Essi convinsero senato e popolo che la guerra andava per le lunghe, perchè ogni anno si cambiava il generale. Flaminino tentò allora, nell’inverno dal 198 al 197, di finire la guerra con le trattative; ma Roma voleva ottenere senza combattere il premio della vittoria; ossia che Filippo abbandonasse tutta la Grecia, comprese le piazzeforti di Demetriade, di Calcide e di Corinto. Non fu possibile intendersi. Nel 197, Flaminino, raccolto un esercito, mosse risolutamente per assalire la Macedonia. A questo attacco serio Filippo dovè rispondere, parando sul serio. I due eserciti si incontrarono finalmente a Cinocefale; e il macedonico fu disfatto.

Alla battaglia seguì un armistizio, poi una tregua, durante la quale fu negoziata la pace. Gli alleati di Roma chiedevano la distruzione della Macedonia. Ma Roma non acconsentì. La Macedonia doveva restare forte abbastanza, da essere baluardo della Grecia contro i barbari del nord, ma non quanto fosse pericolo a Roma. La Macedonia ebbe dunque la pace, acconsentendo ad abbandonare tutti i possedimenti nell’Illiria, in Grecia, in Tracia, in Asia minore, nelle isole dell’Egeo; [186] a pagar mille talenti, metà subito metà in dieci anni; a ridurre l’esercito a 5000 uomini e l’armata a 5 navi coperte; a non fare alleanze e guerre fuori della Macedonia senza il consenso del senato romano. Era insomma ridotta poco meno che alla condizione di Stato protetto: ma era tanto vero che i Romani volevano solo togliersi dal fianco il pericolo macedone, che dei vasti territori conquistati non si appropriarono neppure un palmo. Gli Etoli riebbero quel che avevano perduto nella prima guerra macedonica; gli Achei ottennero Erea e la Trifilia; il territorio illirico fu dato a principi illirici: quanto al resto, tutte le città greche, che erano state soggette a Filippo in Grecia ed in Asia, furono da Flaminino dichiarate libere, con un decreto che in mezzo a un delirante entusiasmo fu letto dal proconsole romano nei giuochi istmici del 196. Esser dichiarate libere significava, per queste città, ridiventare ciascuna autonoma, come nei tempi il cui ricordo splendeva ancora così luminoso innanzi alla Grecia ormai tanto decaduta. Ai Romani questa soluzione cadeva acconcia per sbarazzarsi del fardello di tutte queste città, di cui non potevano caricarsi; per non cederle a chi potesse servirsene contro la loro potenza; per rendere omaggio a quella libertà repubblicana, che i Romani ammiravano tanto a paragone della sudditanza monarchica.


57. La nuova politica dell’egemonia militare e diplomatica. — A chi la giudichi alla stregua dell’insaziabile avidità di territori, che da due secoli non dà pace agli Stati dell’Europa e dell’America, [187] questa pace può sembrar singolare. Avere in propria balìa la Macedonia e la Grecia, e resistere alla tentazione! Ma dalla fine della guerra annibalica in poi, man mano che gli anni passano, cresce in Roma l’avversione agli ampliamenti territoriali. Se si vuol vigilare tutto il Mediterraneo e spegnere sul nascere le coalizioni che l’invidia e la paura possono ordire, non si vogliono ingrandire i confini dell’impero, poichè le forze militari di Roma bastano appena a difendere quel che già essa possiede. Questa moderazione era savia. L’esercito romano si componeva di due parti: le legioni composte di cittadini romani e i contingenti italici. Era necessario che tra queste due parti ci fosse una certa proporzione, cosicchè i secondi non soverchiassero troppo i cittadini. Ma i cittadini diminuivano: 262.321 nel 294-293 non erano più che 258.318 nel 189-188. Aumentare l’esercito voleva dunque dire italicizzarlo. Inoltre il servizio militare era a Roma, come abbiamo detto più volte, un dovere civico e non un mestiere; onde, se Roma poteva con minore spesa di Cartagine e dei sovrani orientali, che adoperavano milizie mercenarie, tenere sotto le armi un esercito più numeroso, non poteva servirsene così liberamente per spedizioni lontane, nè tenerlo sotto le armi per anni ed anni. In tutti i tempi gli eserciti di leva hanno servito meglio a difendere il proprio territorio, che a conquistare con guerre lunghe territori lontani. Le legioni, mandate alla guerra di Macedonia, avevano minacciato più volte di ammutinarsi[50]. Se non era facile aumentare i soldati, anche più difficile sarebbe stato per [188] Roma aumentare il numero degli ufficiali e tutto il personale amministrativo, quanto gli ampliamenti dell’impero avrebbero richiesto. Questo personale non poteva essere somministrato che dall’aristocrazia senatoria, sia perchè tutto l’ordinamento politico e militare della repubblica posava sulla nobiltà, sia perchè la nobiltà aveva acquistato un tal prestigio, che le classi medie e la plebe di Roma e dell’Italia ormai non ammettevano più nemmeno di poter essere comandate in guerra da uomini di altra condizione. Ma la nobiltà romana era una piccola oligarchia — un centinaio di famiglie, sì e no —, e non poteva mettere al mondo, ad ogni generazione, più che un certo numero di generali, di ambasciatori, di giureconsulti, di amministratori.


58. La guerra con la Siria (191-189). — Non è dunque da stupire, se nel proposito di non ampliare più i confini dell’impero noi troviamo a questo punto concordi tutte le classi e tutti i partiti. Il più illustre e risoluto campione della nuova dottrina è lo stesso vincitore di Zama. Riordinare le finanze, riconquistare definitivamente la valle del Po, che era stata la cagione della seconda guerra punica, assicurarsi la Spagna ancora riottosa, per il resto del mondo mediterraneo, tener gli occhi aperti e impedire con tutti i mezzi il crescere di Stati troppo potenti: questi sono i propositi capitali della nuova politica. Guerre, sì; conquiste, no: tale è la singolare divisa di questa politica negativa, per la quale Roma, sentendo, a torto o a ragione, di non poter più crescere, voleva impedire [189] ad altri Stati di oltrepassarla. Senonchè questa politica non era nè facile nè di poco impegno. Anche per essa le guerre generavano le guerre: concatenazione fatale. La guerra con la Macedonia non era ancora terminata, e già nascevano pericoli e preoccupazioni dalla parte della Siria. Nel 198 Antioco, mentre Roma e la Macedonia erano alle prese, conquistava parecchie città poste sulla costa meridionale dell’Asia minore; nel 197 occupava Efeso; nel 196 metteva il piede in Europa, a Lisimachia. E le città della Troade ricorrevano a Roma, implorando aiuto, alcune anche facendo testo del decreto con cui Flaminino liberava le città greche dell’Europa e dell’Asia. Roma era dunque, in certa misura, impegnata a sostenerle; e difatti nel 196 i commissari mandati dal senato a riordinare la Macedonia videro Antioco a Lisimachia; e in forma cortese gli chiesero la libertà di quelle città. Ma questi abboccamenti furono interrotti dalla falsa notizia della morte del Re di Egitto, che obbligò il Re di Siria a ritornare nei suoi Stati; e Roma, che non voleva impegnarsi alla leggiera in una nuova guerra, si riservò di ripigliar la questione ad altro momento. Intanto però un nuovo pericolo nasceva dalla parte degli Etoli. Gli Etoli non solo non avevano ottenuto le spoglie della Macedonia dilaniata; ma la libertà, concessa alla Grecia, era stata nefasta alle loro ambizioni. Perciò incominciavano a intrigar contro Roma, sia sobillando le città greche, sia invitando con viva istanza Antioco a passare in Europa. Infine — e non era cosa di poco momento — Annibale, che, per ragioni [190] non ben chiare, era stato costretto a lasciare Cartagine, giungeva nel 195 alla Corte di Siria!

Roma teneva d’occhio questi maneggi, ma desiderava di evitare una nuova guerra in Oriente. La Gallia Cisalpina, ove ogni anno occorreva spedir truppe; la Spagna, sempre inquieta e turbolenta, davano già troppi fastidi. Perciò essa tentò a più riprese di persuadere Antioco, con le buone, a ritornare in Asia, abbandonando Lisimachia e a liberare le città greche; ma inutilmente. Antioco vantava i suoi diritti storici sulle città traciche; consigliava i Romani, se proprio eran tanto teneri della libertà delle città greche, a liberare Taranto e Siracusa; e insomma sempre più propendeva al partito anti-romano, che gli faceva ressa d’intorno. Sinchè, nell’autunno del 192, fidando negli Etoli, i quali avevano promesso che, al suo apparire nella penisola, tutta la Grecia si sarebbe sollevata, approdava in Tessaglia con 10.000 fanti, 500 cavalli e 40 navi. Roma fu costretta a raccogliere la sfida. Per fortuna, in quell’anno la Cisalpina era quieta; onde il senato potè spedire nel 191 un forte esercito contro Antioco.

D’altra parte gli Achei, Atene, molte delle città greche, e lo stesso Filippo di Macedonia parteggiarono per Roma: cosicchè, non appena l’esercito romano sbarcò in Grecia, il Re di Siria, sentendo di non poter tenere la Tessaglia, si ritirò verso la Grecia centrale. Al passo delle Termopili, egli sperò di ritentare con maggior fortuna le gesta di Leonida. Ma i Romani non erano i Persiani; Antioco fu vinto e costretto a ripassare in Asia, [191] mentre tutta la Grecia, ad eccezione degli Etoli, di nuovo si sottometteva ai Romani. Poco dopo, la flotta romana, rinforzata da quelle di Rodi e di Pergamo, sostenuta con aiuti di tutti i generi dalle grandi città delle isole dell’Egeo — Samo, Chio, Lesbo — vinceva nelle acque di Chio la flotta di Antioco, assicurandosi il dominio del mare. Roma ne approfittò per preparare subito una spedizione in Asia, che colpisse al cuore la Siria: impresa vasta ed ardita, per la quale si pensò al vincitore di Zama. Ma Publio Scipione non poteva esser rieletto console, poichè il tempo legale non era ancora trascorso dalla sua ultima elezione: si pensò dunque di eleggere console suo fratello, L. Cornelio Scipione, e di porgli accanto, con titolo e autorità di proconsole, il fratello. Al principio del 190 Scipione passò in Grecia con il nuovo esercito; conchiuse una tregua con gli Etoli, che ancora non volevano dichiararsi vinti; si fece dare un contingente dagli Achei e attraversò la Macedonia e la Tracia per passare in Asia; dove i Re di Pergamo e Rodi facevano grandi preparativi per prestargli man forte. A sua volta Antioco raccoglieva i rinforzi di tutti i suoi alleati dell’Asia minore: dei Galati, dei Paflagoni, della lega Licia, del Re di Cappadocia; rinforzava la flotta, l’anno prima vinta, dando il comando di una parte ad Annibale. Ma Annibale fu vinto dai Rodî; Antioco non riuscì ad impedire il passaggio dell’esercito in Asia; e tentò invano di vincere il Re di Pergamo prima che si congiungesse con i Romani, poi di trattare. Dovè dunque, sul finire dell’anno 190, accettare battaglia presso Magnesia ad Sypilum; [192] e in questa i Romani, grazie soprattutto all’aiuto di Eumene, lo disfecero interamente. Caduta l’ultima sua speranza, Annibale fuggiva in Bitinia, e il Re vinto abbandonava a Roma tutta l’Asia al di qua del Tauro; acconsentiva a pagare in 12 anni una indennità di 15.000 talenti, a ridurre la flotta e a non tenere più elefanti da guerra. Il bottino della guerra era stato dunque copioso; ma Roma non tenne per sè che l’indennità di guerra, e distribuì ai suoi alleati tutti i territori ceduti da Antioco. Le città greche furono liberate; i Rodî ebbero buona parte della Caria e la Licia: il Re di Pergamo ottenne la maggior parte e la migliore di quello che un tempo era stato il giardino del regno dei Seleucidi: il Chersoneso tracico, la Lidia, la Frigia e una parte della Caria (189)[51]. Non ci furono, a Roma, discussioni e dissensi su questa pace. Tutti erano d’accordo nella formula della nuova politica: guerre sì, conquiste no. Dopo aver vinto, nel volgere di pochi anni Cartagine, la Macedonia, la Siria — i tre maggiori potentati del tempo —; dopo averli costretti a pagare ingenti indennità, Roma era ormai la potenza egemone del Mediterraneo. Questa egemonia, sostenuta con il denaro dei vinti, valeva agli occhi dei Romani più che gli ingrandimenti territoriali.

Note al Capitolo Nono.

48.  Liv., 31, 6 e 7.

49.  Cfr. G. Bloch, La République romaine; conflits politiques et sociaux, Paris, 1913, p. 138.

50.  Liv., 32, 3.

51.  Polyb., 21, 14, 3 sgg; 22, 7, 7 sgg.; 22, 26, 1 sgg.

[193]

CAPITOLO DECIMO IL CREPUSCOLO DELL’ANTICA ROMA

59. Rivolgimenti economici e sociali della prima metà del II secolo. — Tuttavia queste guerre di Oriente, se non ingrandirono l’impero di Roma, generarono un effetto anche maggiore: precipitarono la rovina della antica Roma, che aveva fondato la repubblica e latinizzato tanta parte d’Italia; e che già da più di un secolo veniva alterandosi per opera dell’ellenismo. Quante cose non erano cangiate negli ultimi cinquanta anni! Intanto, per la prima volta, dopo secoli di continue strettezze, lo Stato conosceva la felicità del facile e largo spendere. L’erario riboccava d’oro. Le miniere d’argento della Spagna, le indennità imposte a Cartagine, alla Macedonia e alla Siria, il bottino delle guerre della Cisalpina, della Spagna e dell’Oriente — metalli preziosi, redditi di miniere, terre, boschi, schiavi — lo colmavano. Cosicchè Roma poteva spendere largamente, non solo per le guerre, ma pure per i servizi civili. Il primo trentennio del [194] secondo secolo è meritamente famoso per le grandi opere pubbliche a cui si pose mano. Nel 187 si cominciò la costruzione della via Emilia, che avrebbe continuato la Flaminia attraverso la Cispadana, da Rimini a Piacenza; nel 181 si terminerà la fognatura di Roma e il prosciugamento delle paludi pontine; nel 177 si aprirà attraverso l’Etruria la nuova via Cassia; la censura del 174 andrà famosa per il gran numero di lavori pubblici ordinati a Roma e nelle colonie. Cosicchè mai come in questo trentennio gli appalti pubblici erano stati così numerosi, lucrosi e molteplici: lavori pubblici, forniture militari, imposte, dogane da riscuotere, miniere, foreste, terreni appartenenti allo Stato. Molti giovani della media classe rurale, che avevano portato un piccolo capitale dalle guerre di Oriente e d’Occidente, sollecitarono e ottennero con facilità di questi appalti, o da soli, o in società, o facendosi prestare dei capitali da qualche persona ricca, che avrebbe partecipato al guadagno comune. La conoscenza e la pratica di questa specie di affari si diffusero; e in Roma e in Italia si formò in quel trentennio una classe così numerosa di medi capitalisti, vivente agiatamente sulle pubbliche forniture, che qualche decennio più tardi Polibio potrà dire addirittura che «tutti i cittadini romani» facevano di questi affari[52].

Anche l’agricoltura e la pastorizia sembrano svilupparsi. Sin dalla fine della guerra annibalica si era speculato a Roma largamente sulle terre dell’Italia meridionale, rinvilite per le devastazioni e la morte dei proprietari. In seguito, man mano che i capitali e gli schiavi divennero più numerosi, [195] tutta l’Italia si diede a speculare sul nuovo ager publicus. Molti proprietari, latini o alleati, ne ottennero facilmente un pezzo, che aggiunsero al loro campicello e misero a coltura, dopo aver comperato degli schiavi, con le economie della guerra. I più ricchi pigliarono in affitto vaste terre pubbliche, sia in Italia che fuori, per pascolare mandrie di buoi, di maiali, di capre, di pecore. La grande pastorizia doveva rendere molto in quegli anni; chè gli eserciti consumavano molte pelli di capre per le macchine, molta carne salata di porco per i soldati. Crebbe dunque nel senato e nell’aristocrazia il numero delle grandi fortune fondiarie. L’antica politica agraria è ripresa su più vasta scala: nelle nuove colonie della Cisalpina, dedotte fra il 189 e il 177 — Bologna, Parma, Modena, Aquileia, Lucca, Luni — si assegnano ai nuovi occupanti campi più vasti che nelle antiche.

Acquistò forza anche maggiore e si diffuse di più lo spirito mercantile, quell’inclinazione al commercio, che già due volte aveva tentato di far di Roma una seconda Cartagine. Durante la seconda guerra macedonica si eran veduti dei soldati romani esercitar l’usura tra gli indigeni. Negli anni seguenti molti Romani e Italiani, contadini e piccoli possidenti, che come soldati o fornitori degli eserciti avevano conosciuto la Grecia e l’Asia, le loro ricchezze, i loro commerci, comprarono, venduto il campo avito o con il gruzzolo messo in disparte nelle guerre, una nave; gli uni si stabilirono a Delo, che, dopo il 192, diventa un ricco emporio romano, e vi apriron depositi di mercanzie asiatiche per i mercanti che venivano [196] dall’Italia a empire di vari oggetti la propria nave, e ai quali era più comodo far capo a Delo, che a Rodi o a Corinto; altri esercitarono il commercio tra Delo e Roma o nel Mediterraneo occidentale. Sorsero sulle coste italiane molti piccoli cantieri; i boschi della Sila, dove si raccoglieva la pece, furono appaltati dallo Stato a gran prezzo; membri della nobiltà senatoria, a dispetto dei divieti[53], parteciparono ai lucri di questa mercatura transmarina, prestando a liberi o a liberti i capitali occorrenti per cominciare.

Insieme con l’ordinamento delle fortune si alterarono gli antichi costumi e le antiche idee. Tornando dall’Oriente, soldati e mercanti portavano il seme di nuovi lussi e bisogni. Se Roma era ancora considerata in Grecia — e a ragione — come una brutta città, senza monumenti e palazzi, imparava però a godere e a sfoggiare; e l’Italia ne seguiva l’esempio. Poco dopo la seconda guerra punica, si aprirono in Roma i primi bagni pubblici — sino ad allora il popolo si era bagnato nel Tevere —; gli abili cuochi incominciarono in questo trentennio ad esser pagati carissimi; si cercarono con grande spesa i vini della Grecia e le costose ghiottonerie dei paesi lontani; si importò dalla Grecia l’arte squisita di ingrassare i volatili; si videro — scandalo nuovo — cittadini comparire nelle assemblee ubriachi, magistrati avviarsi al foro mezzo brilli, tanto che nel 181 si fece una legge per frenare la troppo diffusa inclinazione alla crapula. Belle schiave e bei fanciulli acquistarono pure un gran prezzo.... Tra le antiche, semplici e troppo rare feste latine furono intercalati [197] nuovi e costosi spettacoli, come la caccia alle belve e i giuochi dei gladiatori in occasione dei funerali; la legge Oppia, che restringeva il lusso, fu abolita nel 195; i profumi orientali, i tappeti babilonici, i mobili incrostati di oro e di avorio incominciarono a vendersi anche in Italia, massime a Roma.

Infine, nelle alte classi, la cultura greca mette radice. Tutti i giovani delle grandi famiglie studiano ormai il greco. La filosofia greca apre lo spirito alle idee generali. Le teorie politiche, elaborate dai Greci, cominciano a essere conosciute e discusse dalla nobiltà, che fin allora non aveva conosciuto altra scuola che la pratica e la tradizione. I tentativi letterari, iniziati cinquant’anni prima, riescono a creare le prime opere ragguardevoli. È questa l’età di Plauto, di Ennio, di Pacuvio. Il primo scrive le più belle commedie latine; il secondo introduce in Roma i metri greci e compone il primo poema epico; il terzo innova in Italia il genere tragico.


60. Marco Porzio Catone e il movimento tradizionalista. — I primi trenta anni del II secolo a. C. furono per l’Italia una di quelle età felici, in cui anche chi comincia con poco può far fortuna; perchè il tenor di vita, i desideri, l’industria, il commercio, l’audacia, la cultura, crescono, ingrandiscono, si allargano insieme; onde il lavoro abbonda, i guadagni sono facili, da ogni ricchezza nuova nascono molte occasioni di lucro, le ricchezze figliano rapide. Noi diremmo oggi, con orgoglio, che in quel trentennio Roma e l’Italia [198] progredirono assai. Ma i contemporanei invece si lamentavano che Roma si corrompesse. Quel che noi chiamiamo progresso e civiltà, gli antichi giudicavano corruzione. Già in questo trentennio, che a noi par così prospero e fortunato, una sorda inquietudine angustia le classi alte — specie la sua parte migliore —; e proprio in questo trentennio apparisce nella politica romana un personaggio nuovo, il puritano arcigno, che fa il broncio ai suoi tempi: Marco Porzio Catone. Catone era nato a Tuscolo, nel 234. Era dunque un coetaneo di Scipione l’Africano; apparteneva alla generazione che aveva combattuto Annibale; e, nato da una famiglia modesta di medi possidenti, aveva trascorso la sua giovinezza, combattendo contro i Cartaginesi e coltivando il suo podere. Non era facile, in quella città aristocratica, ad un modesto possidente salire alle più alte cariche dello Stato. Ma Catone era intelligente, attivo, eloquente, energico, coraggioso, onesto; e i tempi erano così difficili, che non consentivano di trascurare un tale uomo. Aiutato da un patrizio, L. Valerio Flacco, dalla cui famiglia la famiglia di Catone era protetta, egli potè essere eletto a 29 anni questore, a 35 edile, a 36 pretore, a 39 console, a 50 censore. Al punto a cui siamo giunti della storia di Roma, dopo la guerra siriaca, Catone è uno dei Grandi della repubblica e il più fiero, ardito, autorevole campione del movimento tradizionalista, che sorveglia e cerca di frenare quelli che noi chiameremmo oggi i progressi della società romana. Mentre vuol che le medie classi rurali siano, come in antico, il sostegno della repubblica, [199] egli venera l’autorità del senato, combattendo solo i senatori e i gruppi dei senatori, che, dimentichi della tradizione, favorivano troppo il nuovo indirizzo. Causa precipua d’ogni male è per lui l’ellenismo. «Catone, — narra un suo biografo antico[54] — disprezzò veramente tutte le discipline proprie dei Greci. Diceva Socrate loquace e violento, e l’accusava di aver favorito in ogni modo la tirannide col rovesciare i costumi patrii e col trascinare i suoi concittadini ad opinioni contrarie alle leggi....». E la profezia, che lascerà al suo figliuolo, sarà che, «allorquando codesta mala genia (i Greci) avrebbe diffuso in Roma la sua letteratura, tutte le cose sarebbero precipitate». Onde egli avversa con tutte le forze il nuovo andazzo dell’istruzione privata e pubblica, l’amore delle cose greche, e tutto quello che all’amore delle cose greche si collega: massimamente il nuovo lusso e la smania dei godimenti, che dilagano per ogni dove. Li combatte con le leggi suntuarie, che limitano il numero dei convitati, le spese per i banchetti, lo sfarzo dell’abbigliamento muliebre; e quando questa arma gli sarà spezzata nelle mani dall’opposizione degli appetiti e degli interessi, si vendicherà nella sua censura, gravando tutti gli oggetti preziosi di imposte quasi proibitive. Tien d’occhio, denuncia e, quando può, reprime senza pietà la rapacità degli usurai, le frodi dei pubblicani, gli abusi dei governatori; perseguita, con accanimento l’insolenza dei meteci romani: i liberti, che, cento volte respinti, sono ritornati alla conquista della cittadinanza romana; e combatte [200] la grande consorteria aristocratica degli Scipioni, che, forte della gloria dell’Africano, cercava di accaparrare per sè la repubblica.


61. Corruzione e progresso. — Catone non avrebbe potuto primeggiare nella repubblica, difendendo questi principî, se fosse stato solo o sostenuto da scarsi e deboli consentimenti. Ma i consentimenti, che egli trovò numerosi, possono stupire solo chi giudichi gli antichi alla stregua di alcune idee moderne, che quelli non professarono e che sarebbero apparse loro false e poco meno che empie. Non è possibile capire nè i tempi moderni nè i tempi antichi, se non si intende come su questo punto le idee degli uomini si siano capovolte. Solo dopochè l’uomo ha inventato la macchina a vapore e scoperto il mezzo di creare rapidamente grandi quantità di ricchezza, egli è venuto nell’idea che sia una perfezione, e quindi un dovere, accrescere i propri bisogni e spendere largamente. Ma non è più di un secolo e mezzo, che l’uomo ha imparato a servirsi a questo modo e per questo scopo del fuoco: prima l’uomo possedeva soltanto gli strumenti che la sua mano o i muscoli degli animali movevano, e quindi, se poteva fabbricare oggetti eccellenti o bellissimi, non poteva fabbricarne che pochi. La semplicità e la parsimonia erano dunque allora, due virtù elettissime; e il lusso, un pericolo, perchè facilmente dissestava le fortune delle famiglie e dei singoli; onde in tutte le civiltà antiche moralisti e legislatori, governi e religioni hanno raccomandato agli uomini la moderazione dei desideri e la semplicità delle [201] abitudini. Roma non poteva fare eccezione alla regola; aveva anzi particolarissimo bisogno di non arricchir troppo, se non voleva che la sua potenza militare fosse scalzata dalle fondamenta. La contradizione era insolubile; e bisognava capirla bene, se si vuole capire la immensa tragedia che incomincia in questi tempi. Abbiamo già detto che i cittadini romani, tra i quali si reclutavano le legioni sostegno della potenza romana, erano un pugno di uomini: tra 2 e 300.000. Ma se il maggior numero di questi cittadini, deposta la vanga e l’aratro, si dava al commercio e agli appalti, arricchiva, si avvezzava ai comodi, ai piaceri ed ai lussi, avrebbe ancora sopportato le fatiche e i disagi delle lunghe guerre? Già durante le guerre di Macedonia e di Siria, gli eserciti romani avevano incominciato a zoppicare. Delle legioni avevan reclamato il congedo; i sotterfugi per sfuggire al reclutamento si facevano più ingegnosi; si vedevano soldati andare alla guerra con il servo, che portasse il fardello e preparasse il cibo; l’antica disciplina si rilassava, perchè i soldati si vendicavano nei comizi dei generali troppo severi. Ma questo non era il solo pericolo. La ricchezza, la cultura greca, lo scetticismo indebolivano nella nobiltà l’abnegazione civica, il rispetto delle leggi, lo spirito di concordia, il senso dell’onore e della rettitudine. In questo trentennio si incominciarono a veder fatti e cose, che non potevano non inquietare chi sapeva quanti nemici circondavano Roma. Appariva una generazione nuova di uomini di Stato: ambiziosi, impazienti, cupidi di cose nuove, che rispettano poco le leggi [202] e punto le tradizioni. Molti si presentano candidati alle magistrature innanzi l’età; la corruzione elettorale si faceva più ardita e sfacciata; e il sospetto che i magistrati abusassero delle cariche per far quattrini, soprattutto appropriandosi parte del bottino in guerra, si divulgava. A torto o a ragione? Sarebbe difficile affermarlo, per quanto, come sempre accade, la facilità del sospetto sembri poter considerarsi come il segno o l’esagerazione di un male che esisteva davvero e cresceva, anche se più lento e meno grave che non pensasse la credula opinione del pubblico. Del resto queste esagerazioni erano a loro volta il segno di un altro male: l’inasprirsi delle rivalità e delle discordie tra le grandi famiglie, man mano che con la potenza, la ricchezza e la cultura di Roma, crescevano l’orgoglio, le ambizioni, le cupidige della nobiltà che la governava. Ne è prova uno dei più clamorosi scandali della storia di Roma, che scoppiò poco dopo la guerra siriaca, e per causa di questa. I due vincitori di Antioco, Lucio e Publio Scipione, furono accusati, il primo di peculato per essersi appropriato una parte della preda siriaca; il secondo, addirittura di perduellione, per aver ricevuto denaro e promesse da Antioco nelle trattative di pace. Gli scrittori antichi ci raccontano questa storia in modo molto confuso, dimodochè non ci è possibile dire se queste accuse fossero o no del tutto arbitrarie[55]. Certo è però che nel senato accusatori e difensori si azzuffarono con forsennata violenza; che tra gli accusatori primeggiò Catone; e che l’Africano, disgustato e stanco, si allontanò da Roma in volontario [203] esilio. Brutto segno, sia che le accuse fossero false sia che fossero vere: nel primo caso, perchè era vergogna che il vincitore di Zama fosse trattato a quel modo; nel secondo, perchè era vergogna che avesse commesso addirittura il crimine appostogli[56].


62. La guerra contro Perseo e il nuovo ordinamento dell’Oriente (171-168). — Tutte queste ragioni ci spiegano Catone, i suoi numerosi seguaci, le loro veementi proteste, quello che si potrebbe chiamare il «Catonismo». Roma, in questo supremo momento, aveva quasi paura di diventar troppo ricca, grande e potente. L’avvenire la spaventava, perchè le appariva troppo bello, almeno alla stregua nostra del giudicare. Strane complicazioni degli eventi umani! Senonchè Roma era ormai spinta alla sua ascesa da forze così numerose e potenti, che fonderebbe un grande impero, non ostante la paura che la faceva sgomenta. La generazione, che visse nel primo trentennio del II secolo, aveva pensato di poter con quella sua ingegnosa politica di interventi equilibrare le cose in modo da impedire agli Stati dell’Oriente di ingrandirsi a spese di Roma, senza che Roma fosse nel tempo stesso obbligata ad ingrandirsi a loro danno. Ma questi Stati orientali erano diversi tra loro e avvezzi da secoli a combattere per ingrandirsi gli uni a spese degli altri; molti potevano vantare una storia più grande e antica di quella di Roma, e disponevano di grandi mezzi: cultura, ricchezze, territori, uomini. Impossibile era pietrificare l’Oriente in quell’equilibrio artificioso, [204] che più conveniva ai Romani. La vita ripigliava ad ogni momento i suoi diritti; e il faticoso equilibrio ogni momento pericolava. Chi potrebbe enumerare tutte le brighe che la politica romana trovò nelle cose di Oriente dopo la vittoria su Antioco? Oggi era la lega achea, che veniva in guerra con Messene; domani la lega etolica, che interne discordie laceravano: un giorno Filippo di Macedonia, approfittando dei servigi resi a Roma nella guerra contro Antioco, cercava di riallargare il suo dominio nella Grecia e nella Tracia, e faceva nascere una grande paura nella lega etolica e nel regno di Pergamo; un altro giorno il Re di Pergamo si azzuffava con il Re di Bitinia, o moveva, con il Re di Cappadocia, guerra al Re della Cappadocia pontica, in cui aiuto voleva moversi il nuovo Re di Siria, il successore di Antioco III, Seleuco IV; il quale poi ripigliava a intrigare e a combattere contro l’Egitto, l’eterno antagonista! Roma era costretta quasi ogni giorno a intervenire e a compiere un lavoro di Sisifo, che dappertutto feriva interessi, offendeva orgogli, moltiplicava i nemici. Nel ventennio che segue la grande vittoria siriaca, crebbe in Oriente l’avversione per Roma: e gli animi ritornarono dovunque, per opposizione, più che per spontanea simpatia, verso la Macedonia. Sebbene Roma avesse alla fine, dopo averli tollerati in principio, impedito i nuovi ingrandimenti tentati da Filippo ai danni di Eumene e della lega etolica, Filippo non si era scoraggito: si era rivolto ad allargare il suo dominio nella Tracia; a riordinare le finanze; ad amicarsi le valorose popolazioni barbare dimoranti oltre il [205] Danubio; così da poter lasciare, morendo nel 179, uno Stato forte e fiorente al figlio Perseo. Perseo continuò le arti del padre; cercò amicizie palesi e nascoste, in Grecia e nell’Illiria, sposò una figlia del Re di Siria, riuscì ad annodare dei buoni rapporti con Rodi, l’antica amica di Roma, che incominciava a stancarsi della sua troppo potente protettrice; tentò di avvicinarsi alla lega achea e divenne la speranza di tutti i nemici di Roma, in Grecia e in Oriente.

A poco a poco quell’artificiale politica dell’equilibrio generava l’effetto opposto: lo squilibrio universale, un disordine maggiore, la tempesta. Perseo diventa il campione e la speranza di tutti i nemici di Roma, in Grecia e in Oriente, più per forza di cose che per deliberato proposito. Non privo di intelligenza, ma timido e gretto, temeva il cimento a cui lo spingevano gli eventi ed i tempi; ma non aveva neppure l’intelligenza e la volontà necessarie per resistere a queste spinte. Così a poco a poco lasciava che la nuova guerra maturasse, senza prepararsi. Con questo procedere a mezzo egli poteva sortire un solo effetto: che la guerra scoppiasse nel momento per Roma più favorevole. E così accadde. Roma aveva in Oriente un amico sicuro: il Re di Pergamo. Costui sorvegliava inquieto le mosse del partito anti-romano, dappertutto crescente; e a poco a poco tanto disse e tanto fece, — si recò persino a Roma in persona — che persuase il senato romano a toglier di mezzo il pericolo, facendo guerra alla Macedonia e distruggendola. Se no, il prestigio di Roma in Oriente cadrebbe. Il senato allora, prese [206] il primo pretesto che gli si offrì, per dichiarare, pel 171, alla Macedonia la guerra. Di nuovo Roma assaliva per la paura di essere assalita più tardi.

Senonchè i due primi anni di guerra furono pieni di sgradite sorprese per Roma e per i suoi amici. Apparve ad un tratto quanto la forza militare di Roma fosse indebolita. C’erano nelle legioni ormai troppi soldati che andavano alla guerra con il servitore, che non volevano più obbedire se non quando faceva loro comodo, e che non di vittoria erano avidi, ma famelici di bottino. E i comizi troppo facilmente eleggevano a consoli e a pretori degli uomini leggieri e incapaci, destri solo nel lusingare i vizi e i difetti della moltitudine. L’esercito di coscrizione, che era stato la forza di Roma nella seconda guerra punica, si dissolveva, perchè i cittadini romani si erano fatti troppo ricchi e avevano perduto l’antico spirito. Per l’indisciplina delle legioni e per l’inettitudine dei generali, la guerra cominciò con parecchi clamorosi rovesci e si trascinò per due anni, il 170 e il 169, incerta, lenta, dubbiosa. Il prestigio di Roma vacillò; amici e alleati, ad eccezione di Eumene, incominciarono a tentennare; i Romani dovettero rinunciar perfino a servirsi di contingenti greci ed etolici, tanto poco erano sicuri; il partito macedonico prevalse in molte città greche, tra parecchi popoli dell’Illiria e dell’Epiro; perfino Rodi, antica e fedele amica di Roma, spedì a Roma un’ambasceria a proporre di entrar nel conflitto non più come alleata, ma come mediatrice tra Roma e la Macedonia; e il nuovo Re di Siria si preparò ad assalire ancora una [207] volta l’Egitto! Guai a Roma, se Perseo, più intelligente e più attivo, avesse saputo sfruttare le prime vittorie! Ma Perseo era lento, timido, gretto. A Roma invece i rovesci e il pericolo risvegliarono la coscienza pubblica. Spaventato, il popolo andò a cercare un illustre avanzo della generazione annibalica, un membro eminente del partito tradizionalista, di cui Catone era il capo: il figlio del console caduto a Canne, che da molti anni viveva in disparte, perchè poco amico della gente nova, da cui la repubblica era stata invasa. Eletto console, Paolo Emilio fu mandato nel 168 in Macedonia, con grandi rinforzi.

Paolo Emilio restaurò la disciplina nell’esercito e con una breve ma vigorosa campagna riuscì in quell’anno stesso, con una sola battaglia, a terminare la guerra; sconfiggendo a Pidna Perseo[57]. Il Re di Macedonia fu fatto prigioniero, e in pochi giorni la Macedonia si arrese. Non appena Roma aveva fatto uno sforzo adeguato, il pericolo tanto temuto era dileguato. La Macedonia era prostrata: occorreva statuire sulla sua sorte. Ci fu chi propose di annetterla. Ma Catone, Paolo Emilio, tutto il partito tradizionalista, in quel momento così autorevole, si opposero. Che fare? Si applicò di nuovo l’antico metodo, ma inasprendolo. Come ogni Stato, che vuol comprimere i movimenti vitali di popoli o di classi, Roma era a poco a poco tratta ad usare il terrore. L’antico regno di Alessandro Magno fu questa volta, addirittura smembrato in quattro principati, legalmente autonomi, ma vassalli di Roma; e, quel che è peggio, separati l’uno dall’altro. Tra Stato e Stato il commercio [208] e i matrimoni furono proibiti. Il paese fu disarmato; molte famiglie aristocratiche furono deportate in Italia; la metà delle imposte, che i sudditi versavano all’erario macedone, devolute a Roma. Le miniere d’oro appartenenti al Re di Macedonia furono chiuse: disposizione per noi singolare, e che deve attribuirsi all’autorità di Paolo Emilio e del partito tradizionalista, il quale non voleva che Roma arricchisse troppo. L’Epiro fu saccheggiato barbaramente: 70 città, distrutte; 150.000 Epiroti, venduti schiavi. Alla Grecia, Roma non tolse la libertà, ma inflisse più di un castigo e si premunì con crudeli precauzioni da nuove infedeltà. I notabili dell’Etolia, avversi ai Romani, furono trucidati, e il territorio della confederazione, ristretto; mille cittadini achei furono deportati in Italia, e tra questi Polibio, il grande storico; in tutte le città il partito macedonico fu perseguitato, decimato, rovinato, e molti odi e vendette di famiglia si compirono, prendendo a pretesto la politica. Anche Rodi fu punita per aver tentennato un istante. Il partito mercantile la voleva morta, per toglier di mezzo un concorrente; ma Catone e il partito tradizionalista la salvarono dall’estrema rovina. Pure il partito mercantile riuscì a farle togliere quasi tutti i possedimenti continentali e a far dichiarare porto franco Delo, che era data ad Atene. Delo, ormai piena di mercanti italiani, potè così rapidamente fiorire, come Rodi deperì. Perfino Eumene sentì l’irosa diffidenza di Roma; e ad Antioco di Siria, che stava guerreggiando con l’Egitto, e già quasi aveva conquistato Cipro, fu mandata, per mezzo di [209] Caio Popilio, l’intimazione di ritornar nei suoi Stati e di non molestar l’Egitto. Il Re si affrettò ad obbedire.

Le cose di Grecia e d’Oriente avevano subìto una specie di rimaneggiamento brutale. Roma si faceva più sospettosa, violenta, crudele, a mano a mano che raccoglieva il frutto delle difficoltà seminate; era tratta ad imporre la sua volontà spaventando, dividendo, distruggendo. Era una catena. Ma sino a che punto avrebbe potuto la forza mantenere quell’equilibrio impossibile, a cui Roma mirava?

Note al Capitolo Decimo.

52.  Cfr. Polyb., 6, 17, 2 sgg.; è questo uno dei passi più importanti dell’opera di Polibio.

53.  Il divieto era fatto dalla Lex Claudia del 220 (Liv., 21, 63).

54.  Plut., Cato major, 22, 1-2.

55.  Su questi famosi processi degli Scipioni, è stato discusso lungamente. Riferiamo gli studi più importanti: Th. Mommsen, Die Scipionprozesse, in Römische Forschungen, II, 417 sgg.; C. Pascal, Il processo degli Scipioni e L’esilio di Scipione Africano, in Fatti e leggende di storia antica, Firenze, 1903, pp. 53-84. Il lavoro del Pascal è assai interessante, in quanto, con argomenti difficilmente contestabili, taglia corto alla tendenza della moderna critica tedesca e italiana di ritrovare, nello studio delle fonti di quei processi, infinite falsificazioni di età posteriore. Ad identico intendimento ci ispirano due studi posteriori: G. Bloch, Observations sur le procés des Scipions, in Revue des études anciennes, 1906, e A. Barbato, Il processo degli Scipioni in Livio, Aversa, 1913. Un altro voluminoso studio sull’argomento: Fraccaro, I processi degli Scipioni in Studii storici per l’antichità classica, 1911, pp. 217-414 è, viceversa, tutto informato alla ipercritica e alla così detta critica radicale, caratteristica dei seminari filologici di Germania e d’Italia.

[210]

56.  Sull’argomento del presente paragrafo, cfr. G. Ferrero, Grandezza e decadenza di Roma, Milano, 1902, vol. I, cap. II.

57.  Sulla battaglia di Pidna, cfr. I. Kromayer, Antike Schlachtfelder in Griechenland, Berlin, 1907, II, pp. 310 sgg.

[211]

CAPITOLO UNDICESIMO LA CRISI DELL’EGEMONIA

63. La grande rivolta della Spagna (154 a. C.). — Alla battaglia di Pidna seguirono alcuni anni tranquilli. Tutto il Mediterraneo, atterrito, non si mosse. Soltanto in Siria, in Egitto, nell’Adriatico nacque qualche difficoltà, ma di poco conto; e tutte furono facilmente appianate. Inoltre alla guerra macedonica seguirono anni di nuova e insperata prosperità. L’erario fu così ricolmo dal bottino della guerra, dal tributo della Macedonia e dai redditi affluenti dalle altre province, che nel 157 vi ristagnavano 16.810 libbre d’oro, 22.070 libbre d’argento e 61.035.400 libbre di argento monetato[58]. Roma non era mai stata così ricca e potente.

Senonchè, passata la paura e in tanta abbondanza di denaro, anche i buoni propositi degli ultimi anni della guerra duraron poco. La corrente nuova, ellenizzante, plutocratica, mercantile, prevalse di nuovo sul partito tradizionalista, e tutti si lasciarono vincere, più o meno; tutti, anche Catone. Noi sappiamo che l’acerbo nemico dell’ellenismo studiò sui tardi anni le lettere greche; [212] che l’apologista della piccola proprietà diventò con il tempo un latifondista; che il persecutore degli usurai e dei pubblicani finì anch’egli per praticare il commercio, interdetto ai senatori, salvis legibus, per l’interposta persona di un suo liberto prestanome. Per quanto gli antichi considerassero come corruzione e dissolvimento, molte cose che noi consideriamo come progresso, e sebbene gli spiriti resistessero allora un po’ più di oggi, non resistevano neppure allora che sino ad un certo punto alla attrazione della ricchezza e del nuovo, appena il pericolo del corrompersi, non apparisse più così grande. Roma chiudeva di nuovo gli occhi, godeva il fortunato momento, e lasciava spensieratamente agire le forze oscure, che venivano dissolvendo lo Stato e l’esercito. I consoli esentavano in gran numero, nelle leve, i cittadini agiati, per non farsi dei nemici. Gli ufficiali chiudevano un occhio ed anche due, lasciavano servi e prostitute frequentare gli accampamenti, permettevano ai soldati di ubriacarsi, di prendere il bagno caldo, di commettere rapine e violenze, di schivar fatiche e pericoli. Si studiavano tutti i ripieghi per scemare agli impoltriti signori dell’impero i pesi della milizia: ridurre il servizio a sei anni; congedare per sempre i soldati che avessero fatte sei campagne; aumentare i contingenti latini ed italici. Il servizio militare obbligatorio per tutti i cittadini, che era stato sino ad allora la forza e la salvezza di Roma, incominciava a mutarsi in un rovinoso fattore di decomposizione sociale.

Sotto la vistosa prosperità di questi anni maturava [213] infatti una crisi immensa e terribile. La prima spinta fu data dalla Spagna. Nel 154 si sollevarono parecchie popolazioni della Celtiberia: i Belli, i Titti e gli Arevaci. Roma era avvezza a queste rivolte; onde da prima nessuno se ne diede pensiero. Ma uno dei consoli del 153, mandato a reprimere la rivolta, Quinto Fulvio Nobiliore, fu una prima volta vinto non lungi da Numanzia e vinto una seconda volta sotto le mura della città, perdendo — se gli antichi non esagerano — sei mila uomini nella prima battaglia e quattro mila nella seconda. Fulvio dovè ridursi sulla difensiva; la rivolta si allargò; e il suo successore, M. Claudio Marcello, arrivato con otto mila uomini di rinforzo, credè più prudente trattare, e riuscì infatti a conchiudere la pace. Ma nel 152, mentre Marcello trattava con le popolazioni della Celtiberia, insorgevano i Lusitani; e nel 151 L. Licinio Lucullo giungeva in Spagna a sostituire Marcello con il proposito di accrescere la modesta fortuna della famiglia con la preda di qualche fortunata campagna. Avendo trovata la Celtiberia pacata, assalì senza ragione i Vaccei, e fece nascere una nuova guerra.


64. La terza guerra punica (149-146 a. C.). — Ben presto Roma si accorse che la guerra di Spagna era più seria delle solite rivolte; così seria, che si stentava a trovare soldati e ufficiali[59]. I generali incominciarono a fare in Spagna una guerra di sterminio, di rapina e di stratagemmi sleali, senza che nessuno a Roma protestasse, fuori che il vecchio Catone, e anche costui [214] platonicamente. Ma le crudeltà e le perfidie esasperarono, invece di atterrire, le fiere popolazioni della Spagna; e la guerra divampò così violenta, che il rumore ne giunse — e non sgradito — ad una città, alla quale la Spagna ricordava un impero perduto: Cartagine. Dopo Zama, Cartagine s’era rassegnata al destino, giungendo a sacrificare, nel 196, lo stesso Annibale. Molti Italici si erano stabiliti in territorio cartaginese; Cartaginesi e Romani si ritrovavano in Sardegna; rapporti amichevoli intercedevano tra Cartagine e il nuovo regno di Massinissa. E di essersi rassegnata al giudizio delle armi, Cartagine non poteva lagnarsi, almeno per le ricchezze. I Cartaginesi erano tanto più abili e destri dei Romani nel commerciare, che, non ostante la sconfitta e la perdita dell’impero, con i capitali di cui disponevano, la conoscenza dei mercati e le antiche relazioni, avevano conservato l’egemonia mercantile del Mediterraneo e continuavano a raccogliere nelle loro mani tutto il commercio, che veniva verso il Mediterraneo dall’Africa centrale. Del che i Romani provavano nel tempo stesso invidia e paura. A quei mercatores e a quei pubblicani, che ormai erano così numerosi e potenti; ai senatori e ai plebei, che seguivano l’andazzo dei tempi e ambivano fare di Roma un grande emporio, la concorrenza di Cartagine era una umiliazione ed un danno. Ad altri, a quanti credevano che Roma, rosa dalla corruzione, s’indebolisse, le ricchezze di Cartagine facevano paura. E se un giorno uscisse di Cartagine un nuovo Annibale? Onde cresceva in Roma, di anno in anno, una animosità nuova contro Cartagine, [215] che, non potendo altrimenti, si sfogava in una subdola politica di dispetti: incoraggiando Massinissa, sotto mano, a usurpar qua e là pezzi di territorio cartaginese, e dando poi sempre ragione a Massinissa, quando il litigio, a tenore del trattato di pace, era devoluto all’arbitrato romano. Trattata a questo modo, Cartagine ripagava Roma con un odio non meno profondo e tenace.

Tra il 151 e il 150 questi odi latenti scoppiarono. Un rivolgimento politico, avendo portato al potere in Cartagine il partito popolare, una quarantina di cittadini eminenti furono banditi. Questi si rifugiarono presso Massinissa, il quale chiese a Cartagine di riammetterli. Cartagine rifiutò. Massinissa ne approfittò per invadere di nuovo il territorio cartaginese; ma questa volta il nuovo governo di Cartagine non ricorse più all’arbitrato di Roma: dichiarò guerra a Massinissa, raccolse un esercito, lo affidò al comando di Asdrubale e si difese. Disgraziatamente per Cartagine, Massinissa inflisse al suo esercito una grave disfatta; e allora l’astio e l’invidia che da un pezzo covavano, scoppiarono a Roma. Da ogni parte si gridò che Cartagine aveva violato il trattato di pace, che bisognava dichiararle la guerra e darle una solenne lezione. Gli interessi mercantili, smaniosi di indebolire Cartagine per toglierne di mezzo la concorrenza ed ereditarne il commercio, soffiarono nel fuoco; e, quando il senato, spinto dalla opinione pubblica, chiamò sotto le bandiere un nuovo esercito, i volontari affluirono da tutte le parti. Mentre nessuno voleva andare in Spagna, dove [216] c’erano da ricevere colpi in quantità e scarso bottino da raccogliere, tutti facevano ressa per andare in Africa, dove si sperava preda copiosa e facile. I Cartaginesi, spaventati, rovesciarono il governo popolare, condannarono a morte Asdrubale, già fuggito, e mandarono a Roma un’ambasceria per comporre il dissidio. Era troppo tardi. Le cose erano ormai in tal movimento, che nessuna forza umana poteva più fermarle. L’ambasceria ritornò senza aver ottenuto che una risposta sibillina. Roma però non voleva impegnarsi a combattere nel tempo stesso in Spagna ed in Africa. Che fare? Il senato si radunò in sedute segrete; e dopo lunghi dibattiti deliberò di finirla con il pericolo cartaginese, distruggendo Cartagine, come fosse un villaggio spagnuolo. Per risparmiarsi una nuova guerra, si cercherebbe di pigliar Cartagine di sorpresa, a tradimento, così da poter distruggerla senza colpo ferire. Mai forse nella storia uno Stato civile, in piena pace, a mente fredda, senza seria provocazione, deliberò una più mostruosa violenza. Ma l’orgoglio era inferocito dalla paura; e l’orgoglio e la paura dall’interesse.

Il piano fu eseguito con una perfidia diabolica. Inutilmente i Cartaginesi mandarono una seconda ambasceria, con l’incarico di intendersi a qualunque costo: quando questa giunse a Roma, sul principio del 149, già il senato aveva dichiarato la guerra; e i due consoli Manio Manilio e Lucio Marcio Censorino erano passati con l’esercito e con la flotta in Sicilia. Spaventati, credendo ormai tutto perduto, gli ambasciatori caddero nel [217] laccio che il senato tendeva loro: dichiararono che Cartagine rimetteva interamente la sua sorte in balìa di Roma. Il senato finse di rabbonirsi; e, congratulandosi che Cartagine si mettesse sulla via della ragione, rispose ambiguamente che, se entro trenta giorni avessero consegnato 300 ostaggi delle maggiori famiglie, e obbedito agli ordini che impartirebbero loro i consoli, Roma non toccherebbe nè le loro leggi, nè il loro territorio. Della città, non una parola. Questo silenzio inquietò prima gli ambasciatori e poi i Cartaginesi, i quali non ignoravano certo che a Roma molti e potenti interessi chiedevano la distruzione della città; ma, se in quel silenzio era nascosto un tranello, come schivarlo? I Cartaginesi si illusero; consegnarono e spedirono in Sicilia gli ostaggi, e si rivolsero ai consoli che frattanto erano sbarcati ad Utica, per eseguire gli ordini di Roma. I consoli prima ordinarono il disarmo della popolazione. Di nuovo i Cartaginesi esitarono, temendo. Poi anche quell’ordine fu eseguito. Allora, ma allora soltanto, fu reso di pubblica ragione il feroce decreto del senato, che ordinava la distruzione di Cartagine e l’internamento dei suoi abitanti a ottanta stadi (15 km.) dal mare. Le leggi, la libertà, il territorio erano rispettati; la città, distrutta, perchè — commentò uno dei consoli — Roma voleva il bene della sua alleata, e perciò con quell’ingiunzione distoglieva i cittadini dall’infido commercio, obbligandoli alle più sane e sicure occupazioni dell’agricoltura.... Ma la grande città, che non aveva saputo vivere, volle almeno morire degnamente. Quanto il furore della disperazione può suggerire fu fatto, [218] con fulminea rapidità, ed adoperando i larghi mezzi di cui Cartagine disponeva; cosicchè, quando l’esercito romano giunse sotto le mura, trovò una città, di cui non avrebbe potuto aver ragione se non dopo un lungo assedio.


65. La insurrezione e l’annessione della Macedonia (149-148 a. C.). — Il bel disegno di aver Cartagine per inganno, senza trarre la spada, era dunque fallito. Già impegnata in Spagna, Roma doveva affrontare una nuova guerra in Africa. Ma stava per succedere di peggio: in quello stesso anno nuove difficoltà nacquero in Macedonia. Anche in Macedonia la politica negativa di Roma incominciava a dare i suoi frutti. Lo spezzettamento del regno aveva leso troppi interessi, distrutto troppe tradizioni vitali. Caduto il potere regio, le gare, le animosità, le ambizioni, le prepotenze locali, ormai non più tenute a freno da un’autorità predominante, avevano tolto al paese la pace. Ovunque il partito macedone, fedele al regime caduto, aborriva come traditore il partito romanofilo che governava, e non restava dall’aizzare il malcontento dei più. Onde un malessere generale e crescente, che sarebbe scoppiato alla prima occasione. Sopraggiunsero, a dar la spinta alle cose macedoniche, che da qualche tempo appena appena si reggevano in bilico, le notizie della Spagna e dell’Africa? È probabile. Ad ogni modo, bastò che nel 149 un avventuriero, un tal Andrisco, si spacciasse per figlio di Perseo; e in un baleno tutta la Macedonia si levò in suo favore. Fu necessario approntare un nuovo esercito, che passerebbe l’Adriatico nel 148, [219] sotto il comando del pretore Quinto Cecilio Metello. Giungevano frattanto a Roma, con queste della Macedonia, cattive notizie dall’Africa. Le popolazioni soggette si mantenevano fedeli a Cartagine; gli eserciti romani avevano la peggio nelle prime operazioni contro la città. Bisognava combattere in Macedonia, in Spagna, in Africa.

Che movimento d’armi vide dunque la primavera del 148! Ma le cose non migliorarono nè peggiorarono in Spagna, dove la guerra continuò con incerta vicenda. In Africa, invece, il console Lucio Calpurnio Pisone non solo non riuscì a prendere Cartagine, ma neppure a guadagnare con la forza o con i trattati le città libofenicie. Combattè, perdette uomini, senza altro effetto che di infervorare i Cartaginesi nei loro propositi di resistenza estrema. Asdrubale, il generale condannato a morte l’anno innanzi, fu chiamato nella città e investito del supremo comando. Più prosperamente volsero invece le cose in Macedonia, dove in poco tempo riescì a Metello di domare l’insurrezione dell’impostore e di riconquistar la Macedonia: ma non era ancora pacificata la Macedonia, che nuove turbolenze nascevano, in Grecia, questa volta. Anche le notizie dell’Africa, della Spagna e della Macedonia avevan operato il solito effetto: Roma vacillava, era il tempo di insorgere! La lega achea, stanca della tutela con cui Roma le impediva di sciogliere le vecchie questioni con Sparta, diede il primo segno della rivolta. Come a Cartagine, al partito oligarchico, che era romanofilo, era succeduto al potere il partito popolare, nazionale e antiromano; e questo ruppe gli indugi nel 148. [220] Saltando i divieti di Roma, dichiarò guerra a Sparta. Non è difficile capire come a questo punto l’opinione pubblica in Roma perdesse la pazienza. Che facevano dunque tutti questi consoli e pretori, a capo di tante legioni? Non si riusciva più a scovare nelle grandi case di Roma un generale, che sapesse vincere Lusitani e Cartaginesi? Catone prestò ancora una volta la sua voce alla collera pubblica, quando definì quei generali non uomini ma ombre[60]. E già doveva incominciarsi a sospettare una coalizione tra Cartagine, la Spagna, la Grecia. Ma da questo malcontento proruppe alla fine un movimento improvviso. Al tempo delle elezioni era venuto dall’Africa, dove serviva come tribuno militare, per presentarsi candidato all’edilità, Publio Cornelio Scipione Emiliano, un figlio di Paolo Emilio, entrato per adozione nella famiglia degli Scipioni. Grande e illustre nobiltà, dunque, se altra ce n’era in Roma: ma di atti e di virtù e non solo di nome; chè il giovane Emiliano aveva già militato con lode prima in Spagna e poi in Africa. A lui e ai suoi consigli si attribuiva quel po’ che in Africa era stato ben fatto e con fortuna. Abbagliato dal nome e dalla buona reputazione del giovane, il pubblico si persuase che quello era l’uomo che ci voleva per la guerra con Cartagine, se fosse nominato non edile, ma console. Ma c’era un impedimento: l’età del candidato e la legge che regolava la successione delle magistrature esercitate. Il popolo scavalcò l’ostacolo, sospendendo per Scipione Emiliano, con una legge apposita, la regola comune. Scipione fu eletto console per l’anno 147.

[221]

Il popolo non si era ingannato. Il nuovo console era veramente, come diceva Catone, un uomo tra le ombre. Andato in Africa, al principio dell’anno 147, con rinforzi di uomini e navi, ristabilì la disciplina e assediò finalmente sul serio la città, bloccandola con ingenti e penosi lavori. Le cose dunque presero a migliorare in Africa; e giunsero a conchiusione nella Macedonia. Nel 147 la Macedonia era di nuovo interamente in potere di Roma; e il senato questa volta la dichiarava provincia romana, come la Sicilia, la Sardegna e la Spagna. Deliberazione grave, perchè proprio quando già aveva tanti nemici e tante brighe sulle braccia, Roma ampliava l’impero di una vasta provincia confinante con i barbari. Ma essa doveva subire la forza soverchiante della necessità. Distrutta la dinastia nazionale, fallito il ripiego dello spezzettamento, che altra alternativa restava a Roma se non abbandonare alla sua sorte la Macedonia o annetterla? La Macedonia ormai cascava addosso a Roma, come un peso o un corpo morto da sostenere. Le cose invece, migliorate in Africa e in Macedonia, peggiorarono in Lusitania ed in Grecia. Intorno a questo tempo, mentre si cominciava a sperare che la guerra languisse, a capo della Lusitania ribelle si mise un vero soldato, un tal Viriato, un semplice pastore, di cui la guerra avrebbe fatto un eroe. Egli iniziò una guerriglia, che doveva infliggere ai Romani le più memorande sconfitte. E il pericolo di gravi turbolenze cresceva pure in Grecia, dove il senato romano aveva castigato la lega achea, togliendole alcune importanti città, acquistate dopo [222] la seconda guerra macedonica. Onde torbidi, tumulti e un nuovo fermento di malumori; cosicchè anche l’anno 147 corse per Roma inquieto, tra le ansie di due guerre sanguinose e la minaccia di una terza guerra.


66. La distruzione di Cartagine e di Corinto (146). — Nel 146 però Roma colse il primo frutto dell’elezione di Scipione Emiliano. A Scipione riuscì prima di sgominare l’esercito che i Cartaginesi avevano raccolto per venire in soccorso della città assediata; poi di prendere la città. Fu necessario prima entrare nella città dopo aver superato le fortificazioni esterne; poi passo passo, per le vie strette, tortuose, asserragliate, combattendo senza tregua sei giorni e sei notti, giungere sino alla cittadella, dove 50 mila cittadini si erano rifugiati. Ma quando, alla fine, anche questi si arresero, Roma fu padrona di Cartagine. Non esitò allora, perchè aveva troppa paura. La Commissione senatoria, incaricata di assestare le faccende cartaginesi, procedè subito alla distruzione della città: i quartieri, gli edifici, i monumenti, che erano scampati alla guerra, furono demoliti; la popolazione superstite, dispersa; il suolo, consacrato agli Dei Infernali, cosicchè a nessuno doveva essere più lecito di dimorarvi. Distrutta Cartagine, occorreva deliberare intorno alla sorte del suo territorio. Si ripresentava la alternativa della Macedonia; o abbandonarlo a se medesimo o annetterlo, almeno in parte. La necessità vinse anche questa volta i dubbi della ragione: tutto il dominio cartaginese fu ridotto a [223] provincia romana sotto il nome di Africa, salvo le parti orientali confinanti con la Cirenaica, le Emporie e le altre città di Sabrata, Oea e Magna Leptis, che rimasero alla Numidia, e salvo Utica, Ippona ed alcune altre, che, in ricompensa della loro defezione, ottennero l’indipendenza e una parte dell’antico territorio di Cartagine. La popolazione superstite dovè, per vivere, disperdersi nelle campagne e darsi all’agricoltura. Là dove era stato il più florido impero mercantile, sottentrerebbe uno Stato agricoltore. Del territorio cartaginese una parte fu confiscata; e divenne il più grande ager publicus extra-italico, fin allora posseduto da Roma. Il resto fu lasciato ai nuovi provinciali, con l’obbligo di pagare un tributo fisso (stipendium)[61].

Cartagine, il terrore di tanti anni, non era più! Ma mentre Cartagine andava in fiamme, la Grecia insorgeva. La lega achea era riuscita a tirare alla sua parte i Beoti, i Focesi, i Locresi, gli Eubei; e nel 146 dichiarava di nuovo la guerra a Sparta. Roma intervenne, questa volta, senza esitazioni e riguardi. Dopo aver debellato la Macedonia e Cartagine, non aveva paura della Grecia, anche se in Lusitania a Viriato crescevano, con i prosperi successi, l’autorità e le forze. Metello, accorso dalla Macedonia, inflisse una prima sconfitta alla lega; re Attalo II mandò in soccorso la flotta; il console Lucio Mummio, arrivato di lì a poco, sgominò a Leucopetra il nemico. La lega si sciolse; e in pochi giorni Mummio potè impadronirsi di Corinto e domare la rivolta. Per la terza volta, in tre anni, si poneva innanzi al senato il [224] dubbio: quale sorte riserbare ai vinti? Alle città, che non avevano preso parte alla guerra, il senato, sempre alieno dalle conquiste, fu lieto di conservare l’indipendenza. Ma si poteva restituirla alle città ribellate? E se non si poteva, che altro partito restava, se non l’assoggettarle? I territori di queste città furono incorporati dunque alla Macedonia e dichiarati provincia; tutte le leghe furono sciolte; tutte le città, isolate; in ciascuna, le democrazie abolite a favore, come in Italia, di governi oligarchici, i quali dessero affidamento di amministrar la città come piaceva a Roma; tutti i fautori della guerra e della politica antiromana, ricercati e severamente puniti; il paese, saccheggiato; una parte del territorio incamerato, e Corinto, l’antica città, famosa per la sua storia, per i suoi monumenti, per la sua bellezza e per la sua ricchezza, fu data alle fiamme[62].

Note al Capitolo Undicesimo.

58.  Plin., N. H., 33, 3, 55.

59.  Polyb., 35, 4, 4 sgg. I frammenti della nuova Epitome liviana, scoperti tra i Papiri di Oxyrynchus, hanno portata nuova luce sull’asprezza delle contese provocate in Roma dalla insurrezione spagnola; cfr. Oxyr. Pap. IV, pp. 90 sgg., ll. 177; 182-84; 207, 209 — E. Kornemann, Die neue Livius Epitome aus Oxyrynchus, Leipzig, 1904, pp. 107 sgg.

60.  Liv., Epit., 49.

61.  Cic., in Verr. III, 6, 12.

62.  Sulla condizione fatta alla Grecia nel 146, cfr. G. Colin, Rome et la Grèce de 200 à 146 a. J. C., Paris, 1903, pp. 640 sgg.

[225]

CAPITOLO DODICESIMO I GRACCHI

67. La crisi economica della seconda metà del II secolo a. C. — Che nel volgere di due anni Roma abbia osato distruggere due città, così antiche, ricche, gloriose, come Cartagine e Corinto; questo fatto solo basterebbe a provare che la potente città era tormentata da un qualche terribile male interno. La storia narra poche violenze più orrende di queste. Passi ancora per Cartagine, che aveva tentato di annichilire Roma! Ma Corinto non aveva mai pensato di misurarsi con Roma in un duello mortale. Corinto fu distrutta, perchè gli interessi mercantili, imbaldanziti dalla distruzione di Cartagine, vollero toglier di mezzo un’altra pericolosa concorrente; e perchè l’opinione pubblica, irritata e spaventata dalla lunga lotta, lasciò fare.

Ma Roma era giunta ormai a una stretta paurosa. La savia politica degli Scipioni aveva tentato invano di salvarla dal pericolo delle troppo vaste ambizioni. La forza delle cose aveva anche [226] questa volta sbugiardato la saggezza degli uomini. Le recenti annessioni erano nate dall’esaurimento della politica di egemonia. Roma era stata costretta ad ampliare i suoi possedimenti in Africa ed in Europa; e possedeva ora un impero spezzettato, le cui singole parti, se si potevano sperar fruttuose, erano anche un peso ed un impegno. Un peso, perchè dovevano essere amministrate, governate e difese; un impegno, perchè, prima la necessità di difendere e poi quella di connettere queste parti, per modo che tutte potessero sicuramente comunicare tra loro e con la metropoli, obbligherebbero Roma a conquistare nuovi territori. Roma era ormai spinta innanzi da quella logica delle cose, che nella storia corrisponde così poco alla logica della ragione. Senonchè, mentre l’impero si ampliava, Roma si indeboliva. Non che quell’impeto di cupidige e di ambizioni, che aveva spinto l’Italia a cercar nelle province e sui mari nuove ricchezze, si rallentasse. Molti Italici si arricchivano a Delo, in Asia, in Egitto. Pubblicani e usurai, venuti da Roma e d’Italia, continuavano a dissanguare la Sicilia, la Macedonia, la Spagna. Il commercio degli schiavi continuava a fiorire in segreto accordo con i pirati, su tutto il Mediterraneo. L’agricoltura migliorava in tutta la penisola; la tradizione non era più la sola maestra; i trattati scientifici, greci e cartaginesi, erano studiati. Le vigne e gli oliveti si allargavano; l’istruzione si diffondeva, il latino si sovrapponeva, come unica lingua nazionale, all’osco, al sabellico, all’etrusco, soffocandoli; gramatici e retori, greci e latini, aprivano [227] scuole in molte città. Molti piccoli e medi possidenti mandavano a queste scuole i figli, con la speranza che lo studio fosse per essi la chiave della fortuna. E cresceva pure in tutte le condizioni il lusso e la voglia di spendere. Basterebbe a provarlo la Lex Didia Cibaria approvata nel 143, e che estese a tutta Italia le disposizioni della Lex Fannia contro le prodigalità dei banchetti.

Insomma in tutte le classi operava sordo il fermento delle nuove aspirazioni. Ma i tempi non erano più così facili come nel primo trentennio del II secolo. La prosperità di quel primo trentennio era zampillata da parecchie fonti; metalli preziosi portati in Italia o come bottino di guerra o per pagamento di indennità, che avevano permesso al senato romano di spendere largamente senza aggravare l’Italia d’imposte; vaste confische di terre, specialmente nella valle del Po; abbondanza di schiavi. Ma nel trentennio che seguì la guerra di Perseo queste tre fonti seccano o quasi. Non è dubbio che le tremende guerre combattute dopo il 154 — eccezione fatta della guerra contro Cartagine — fruttarono molto meno. La Macedonia e la Grecia erano state già troppo esauste dalle guerre precedenti, e non avevano avuto il tempo di accumulare nuovi tesori, che bastassero a sfamare ancora una volta l’insaziabile invasore. È probabile che la guerra di Spagna già costasse all’erario più che non fruttava; e tra poco dissesterà le finanze, trenta anni prima così floride. Infine, sebbene nel mondo antico i popoli fossero meno legati tra di loro che nei nostri tempi, è forza argomentare nella distruzione [228] di Cartagine e di Corinto una nuova cagione di impoverimento, per tutto il mondo mediterraneo. Distrutti quei due floridi empori, molte industrie e molti commerci dovettero intisichire o addirittura morire per mancanza di abili ed esperti mediatori. Roma e l’Italia non riuscirono a fare le veci così dei mercanti di Corinto come di quelli di Cartagine in tutti i loro traffici. Alla boria e alla cupidigia, non erano pari nè i capitali nè le conoscenze nè le attitudini. Onde una nuova cagione di povertà per tutti, anche per l’Italia.

Insomma il maggior guadagno di queste guerre furono gli accresciuti appalti delle imposte e delle proprietà pubbliche nelle nuove province. Ma quegli appalti, come quel po’ di commercio che gli Italiani poterono raccattare tra le rovine fumanti di Cartagine e di Corinto, arricchivano solo un piccolo numero. L’agiatezza, di cui aveva goduto tutta Italia nel primo trentennio del II secolo, era nata invece dalle grandi entrate e dalle grandi spese dello Stato; e queste scemando, anche quella languiva. Incominciò dunque di nuovo ad aggravarsi il male dei debiti. Anche la nobiltà, non potendo più vivere con le antiche fortune e non sempre sapendo accrescerle, incominciò a indebitarsi, a corrompersi, e a cercar di sfruttare il potere.

Nel 149 appunto è istituita la prima quaestio perpetua de pecuniis repetundis, il primo tribunale permanente che deve giudicare i magistrati e i senatori accusati di estorsioni a danno degli alleati e dei provinciali. L’ordine dei cavalieri si [229] empiva invece di pubblicani e di mercanti arricchiti, il cui orgoglio e la cui potenza crescevano, man mano che l’aristocrazia storica si corrompeva e impoveriva. Incominciava pure a indebitarsi e a pericolare la media possidenza. Cresceva dovunque, anche nelle campagne più remote, la spesa del vivere, sia perchè crescevano i bisogni e il lusso, sia perchè la moneta rinviliva con l’aumento dei metalli preziosi: ma non cresceva in ogni parte anche il prezzo di tutte le derrate, che il possidente vendeva per pagare i nuovi lussi. Nelle regioni lontane dalle vie maestre o senza ricche città, che non potevano esportare i loro prodotti, questi rinvilivano, appena ce n’era un po’ di abbondanza. Così Polibio ci dice che nella valle del Po, in questi tempi, i viveri costavano pochissimo[63]. Bastava dunque che il possidente si lasciasse un poco andar nello spendere, e cascava nei debiti, dai quali poi gli era difficile liberarsi, massime in tempi in cui le guerre fruttavano poco. La piccola possidenza dappertutto era in travaglio e rovinava; diminuiva in tutta Italia quel medio ceto rurale tra cui si reclutavano le legioni romane e i corpi ausiliari; il latifondo invadeva l’Italia, e, insieme con il latifondo, la pastorizia e la popolazione servile, importata in copia d’oltre mare. La grande proprietà prosperava sulla decadenza militare di Roma. Tiberio Gracco potrà dire tra poco che, se tutte le fiere hanno un covile in cui rifugiarsi, coloro che combattevano e morivano per la difesa dell’Italia, non avevano più altro bene che l’aria in cui respirare. Il levare soldati era proprio un compito ogni anno più arduo. Ormai, [230] appena si annunciava una guerra un po’ seria, Roma doveva ricorrere ad ogni sorta di espedienti per trovar guerrieri.

Questa strana contradizione in cui Roma era impigliata; questa necessità di ingrandire l’impero con forze debilitate, spiegano l’irrequietezza dell’opinione pubblica, i facili spaventi, gli accessi di furore a cui soggiaceva. Roma aveva paura della sua potenza; e neppur le vittorie su tanti nemici ebbero forza di tranquillarla. Sì, questa volta ancora si era vinto, ma con quanta fatica! E poi, se la Macedonia, Cartagine, la Grecia, bene o male, erano state vinte, Viriato non dava tregua in Spagna e la guerra continuava implacabile. Dal 145 si cominciò ad affidarla di nuovo ad uno dei consoli. No, Roma perirebbe ben presto come Cartagine, se l’aristocrazia non sapesse vivere di nuovo con l’antica semplicità; se i Romani non si ricordassero più che il primo dovere del cittadino è il generar molta prole; se non si impedisse la rovina della piccola e della media proprietà rurale, donde erano usciti i soldati e gli eserciti, che avevano conquistato l’Italia e l’impero. In queste idee, dopo la caduta di Cartagine e di Corinto, si infervorava la parte migliore della nobiltà romana, quella che si raccoglieva intorno a Scipione Emiliano, divenuto ormai il primo personaggio di Roma.

Idee, che ben presto tentarono di uscire dalla chiusa cerchia delle conversazioni private. Nel 145 il tribuno C. Licinio Crasso, propose una legge agraria che mirava a ricostituire la piccola proprietà[64]; e poco prima o poco dopo ne imitò [231] l’esempio il pretore Caio Lelio, un grande amico di Scipione, di cui era stato legatus nella guerra di Cartagine. Quali fossero le disposizioni capitali della sua legge, non sappiamo; sappiamo solo che essa fu oppugnata con tanto furore in senato, che Lelio desistè dalla proposta; e perciò fu detto sapiens, il saggio[65]. Questa lode dell’uomo è la condanna dei tempi. Si diagnosticavano i mali, si discutevano i rimedi e sin qui eran tutti d’accordo; ma quando si passava all’atto, gli interessi si spaventavano e c’eran tante buone ragioni per escludere una dopo l’altra tutte le medicine proposte, che savio pareva il medico il quale rinunciava ai farmaci. Anzi succedeva di peggio: mentre tutti gli uomini savi erano d’accordo che occorreva frenare il nuovo spirito che si divulgava nelle moltitudini, non riuscivano che le imprese e i disegni, i quali avevano per effetto di esaltarlo. Buona parte del moderno Piemonte era ancora indipendente dal dominio romano, nè mai, del resto, quelle popolazioni avevano dato occasione a rappresaglie. Ma i Salassi possedevano dei territori auriferi; onde nel 143, senza provocazione alcuna, il console Appio Claudio li attaccava, toglieva loro una parte dei territori e ne faceva concedere le miniere a una compagnia di pubblicani. Victumulae, nel Vercellese, divenne un florido centro del commercio dell’oro[66].


68. Gli scandali della guerra di Spagna: Numanzia. — Fu questo un tempo grigio e fastidioso, in cui Roma ebbe come il sentimento di essere ròsa dentro da un male mortale, ma incurabile. Uno [232] sconsolato pessimismo invade le alte classi e fomenta la discordia. Gli odi, gli asti, i ripicchi tra i grandi e le famiglie inveleniscono; e sono via via inaspriti dalle vergogne della guerra di Spagna. Ora vinto ora vincitore ma sempre in armi, Viriato non dava tregua ai Romani, anzi allargava la rivolta. Tra il 143 e il 142 riusciva a sollevare di nuovo contro Roma i tre popoli, dai quali era incominciata anni prima la rivolta della Spagna: gli Arevaci, i Titti ed i Belli. Numanzia era la rocca di questa nuova guerra. Si ritornava dunque da capo; tutto il sangue e il denaro speso per domare la Spagna erano stati sprecati! Lo sconforto a Roma fu tale che, durante l’anno 141, il proconsole Q. Fabio Massimo Serviliano, che comandava in Spagna e che era un uomo savio, trattò con Viriato e conchiuse con lui una pace onorevole, che riuscì a fare approvare dai comizi. I Lusitani erano quietati, non restava più che debellare Numanzia. Ma nel 140 il fratello di Fabio, Q. Servilio Cepione, diventò console; e tanto disse e intrigò presso il senato, che ottenne il permesso di ricominciare la guerra contro Viriato; proprio mentre il proconsole Q. Pompeo si faceva sconfiggere dai Numantini. Di nuovo la guerra stava per ridivampare in Spagna, quando Servilio Cepione riuscì a venire a capo di Viriato, facendolo assassinare da alcuni sicari.

Spento Viriato a tradimento, la resistenza dei Lusitani venne meno in poco tempo. L’esercito si sciolse; e gli avanzi accettarono, di lì a poco, delle terre intorno a Valenza. Ma la vittoria non era tale, per i mezzi che l’avevano procurata, da incoraggiare [233] i Romani a continuare la guerra contro gli altri popoli: onde sul finire del 140, Q. Pompeo aprì trattative con Numanzia. Gli Spagnuoli accettarono volentieri di discutere; e la pace fu conclusa, a quali condizioni non sappiamo, ma dovevano essere discrete per i Numantini, se costoro acconsentirono a dare ostaggi e denari. La pace era dunque fatta, quando, al principio del 139, giunse il successore di Pompeo: M. Popilio Lena. Ma allora Pompeo, sia che avesse fatto queste trattative per non essere più assalito sino all’arrivo del successore, sia che all’ultimo momento temesse per le sorti del suo trattato a Roma, negò persino di aver mai trattato con i Numantini. Immaginarsi lo scandalo! I Numantini citarono a testimoni i senatori, i prefetti, i tribuni militari, che avevano preso parte alle trattative. Ne nacque una violenta discussione, alla quale Popilio Lena tagliò corto, rimandando le due parti — Numantini e Pompeo — al giudizio del senato. La discussione ricominciò a Roma, e si può immaginare se fu aspra! Risultò che Pompeo aveva trattato e conchiusa la pace; ma il senato non ratificò le sue promesse, e una legge, proposta per consegnare Pompeo ai Numantini, non fu approvata.

Non è difficile argomentare il disgusto, che un simile scandalo generò anche a Roma. Roma era dunque scesa così basso? Ma il male era fatto. La guerra riarse furibonda in Spagna. Popilio Lena non fece quasi nulla, gran parte dell’anno 139 essendo passato nelle discussioni intorno al trattato. Ma le armi furono riprese; e nel 137 Roma subiva una nuova tremenda disfatta. Il console [234] C. Ostilio Mancino fu disfatto e accerchiato con 20.000 uomini; cosicchè per salvar l’esercito dalla distruzione dovè firmare il trattato di pace che i Numantini gli presentarono. Ammaestrati però dall’esperienza, i Numantini questa volta non acconsentirono ad accettare il trattato, se non quando un questore dell’esercito, Tiberio Sempronio Gracco, ebbe loro garantito che il popolo lo approverebbe. Tiberio Sempronio Gracco era figlio del console omonimo del 177 e del 163, che aveva amministrata la Spagna con umanità e giustizia, lasciando nelle popolazioni spagnuole un ricordo aureolato di venerazione: era cognato di Scipione Emiliano, che lo aveva in un certo senso educato; e genero di Appio Claudio, il console del 143. Rappresentava dunque quel che di meglio c’era ancora nella nobiltà romana. I Numantini si fidavano di lui. Ma a torto: chè quando a Roma si conobbero le condizioni della pace, l’opinione pubblica dichiarò di non accettarla. L’autorità dei Gracchi non approdò a nulla. Anche i suoi autorevoli parenti, come Scipione, non ritennero che l’impegno di una famiglia potesse legar la repubblica. Il popolo respinse il trattato.

La guerra dunque continuò, ma fiaccamente. Nel 136 e nel 135 gli eserciti romani, se non ricevettero clamorose disfatte, non compierono nessuna impresa di rilievo. Ma rifiutare la pace e non saper fare la guerra, era troppo: l’opinione pubblica si impazientì; e di nuovo volse gli occhi su Scipione Emiliano. Scipione era in Oriente, per una missione che il senato gli aveva affidata; e la legge vietava che fosse rieletto console. Anche [235] questa volta l’opinione pubblica scavalcò l’ostacolo con un’altra legge; e Scipione fu eletto console per il 134. Egli partì per la Spagna; ma in quali condizioni trovò gli eserciti! Gli accampamenti erano pieni di meretrici, di mercanti, e di schiavi; i soldati si erano avvezzati perfino a prendere i bagni caldi! Gli fu necessario, come sotto Cartagine, rifarsi dalla disciplina e dai primi elementi del mestiere. Per fortuna, l’esercito possedeva qualche buon ufficiale: tra gli altri un certo Caio Mario, un pubblicano datosi alle armi dopo aver fatto fallimento e che veramente era nato più a maneggiare il ferro che l’oro.


69. Il tribunato e la legge agraria di Tiberio Gracco (133 a. C.). — Ma mentre Scipione si accingeva a terminare la guerra di Spagna, gravi cose succedevano in Roma. L’anno 133 fu un anno memorabile della storia di Roma. Era stato eletto tribuno per quell’anno Tiberio Sempronio Gracco, quel giovane che, come questore, aveva garantito ai Numantini il trattato di pace conchiuso con il console Mancino. Anche Tiberio Gracco era spaventato dalla rovina che minacciava insieme la piccola possidenza e l’esercito; ma all’opposto di tanti altri membri della nobiltà, non voleva soltanto lamentare il male, voleva anche curarlo. Sia che il male, aggravandosi, desse la spinta finale a una volontà già ardente; sia che la giovinezza gli nascondesse la difficoltà dell’impresa; sia che l’affronto fatto a lui e alla sua famiglia dal senato e dal popolo, sconfessando la pace di Mancino, lo avesse inasprito, certo è che egli riprese [236] nel 133, come tribuno della plebe, il disegno così facilmente abbandonato da Caio Lelio.

La sua legge agraria del 133, la prima degna di questo nome, dopo la Licinio-Sestia del 367, è dettata appunto dalle inquietudini del partito tradizionalista. La penisola non disponeva più di terre pubbliche assegnabili; ma le terre, che i ricchi avevano locate o usurpate, potevano, in quanto ager publicus, essere legalmente riprese dallo Stato. Se, dopo averle riprese, lo Stato le avesse distribuite in piccoli lotti alla povera gente rovinata, il maggiore tra i mali dell’Italia — l’unico, anzi, che Tiberio vi scorgesse — non sarebbe stato guarito, e l’Italia non sarebbe ridiventata un paese di piccoli agricoltori e di valorosi soldati?

Concretando, Tiberio proponeva: 1) che nessun cittadino romano potesse possedere più di 500 iugeri (Ea. 125) di agro pubblico, o di 750 (Ea. 187,50) se padre di un solo figliuolo, o, al massimo, di 1000 (Ea. 250) se padre di due o più figliuoli: la proprietà così limitata, poteva essere fatta stabile ed esente da tributo; 2) che lo Stato ripigliasse a ciascun cittadino romano la parte di agro pubblico occupato, che superava quelle misure, pur risarcendo ai possessori le spese del dissodamento e dei miglioramenti; 3) che fossero parimenti, ai Latini e agli alleati italici, tolte le terre pubbliche acquistate o assegnate illecitamente o irregolarmente, salvo il diritto di partecipare alle nuove distribuzioni con eguali diritti dei cittadini romani; 4) che tutte le terre pubbliche disponibili in seguito all’applicazione della legge, fossero distribuite in piccoli lotti, probabilmente [237] di 30 iugeri (Ea. 7,50) l’uno, quali possessi inalienabili e con l’obbligo del pagamento di un canone annuo allo Stato; 5) che il compito di applicare la legge fosse affidato a una commissione di tre membri, da eleggersi annualmente dai comizi tributi: tresviri agris iudicandis adsignandis, i quali procederebbero alla misurazione e alla distribuzione delle terre demaniali, con facoltà di istruire essi stessi i processi delle contestazioni e di pronunciare sentenze inappellabili[67].

La legge scatenò le più fiere opposizioni. Non si può spiegare l’accoglienza che ebbe in senato, se non supponendo che avrebbe spogliato il maggior numero dei senatori di molte terre dell’agro pubblico, che allora possedevano. Il che del resto è verosimile, poichè l’agro pubblico era la parte del bottino, con la quale l’aristocrazia senatoria si compensava dei pericoli e delle fatiche della guerra. Ma se i senatori e i ricchi cavalieri erano i primi bersagli, la legge non sonava meno minacciosa a molti Latini e alleati, costretti a mostrare i titoli delle assegnazioni di terre, tramandate per generazioni, vendute, acquistate, impegnate per debiti, assegnate in dote, divise suddivise, novamente conglobate con altre terre assegnate e ricevute in altri tempi. Inoltre, spesso terre assegnate regolarmente si erano confuse con terre occupate senza assegnazione: e nelle une e nelle altre erano stati investiti ingenti capitali e molto lavoro. La legge di Tiberio non poteva applicarsi senza ferire un infinito numero di interessi legittimi, senza sconvolgere le fortune private, senza annullar dei patti federali con gli alleati, [238] che erano a ragione considerati come sacri. Se dunque uno dei colleghi di Tiberio nel tribunato, M. Ottavio Cecina, interpose il veto, noi non abbiamo il diritto di sospettare per questo solo che avesse di mira soltanto il salvare i propri interessi e quelli degli accaparratori di agro pubblico. Ma Tiberio aveva attizzato con la sua proposta un grande incendio, che ormai non era più in suo potere di spegnere. Se molti e accaniti erano gli avversari, la legge era stata accolta con giubilo dagli avanzi dell’antico contadiname romano; dalla plebe urbana e da tutti i poveri che, allora come sempre, accusavano della propria miseria l’avarizia dei grandi; e anche da un certo numero di senatori, che o non avevano agro pubblico in soverchia quantità o ai quali il bene dello Stato premeva più del danno proprio. Tutti costoro formavano, più che un partito, una grande corrente di opinione, che spingeva Tiberio.

All’ostruzione del collega Tiberio, quando vide vana ogni sua preghiera per convertire Ottavio, rispose invitando il popolo a destituirlo. Era questo un procedimento nuovo e rivoluzionario? Nuovo, no, chè in tempi vicini e lontani il senato aveva proposto destituzioni di tribuni: rivoluzionario, sì, per la giustificazione, che Tiberio gli assegnò. Il tribuno della plebe — egli disse — ha per ufficio di difendere la plebe; se egli manca a questo dovere, il popolo, che l’ha nominato, può revocarlo. In altre parole, il veto del tribuno non può più, come spesso era successo, servire all’aristocrazia ed al partito dei ricchi. Questa tesi doveva piacere alle moltitudini agitate e commosse; [239] e Ottavio fu deposto dal voto unanime delle tribù. Ottavio deposto, la legge fu approvata, e nominata per metterla in atto la migliore tra le commissioni possibili: Tiberio, il fratello Caio, e il genero suo Appio Claudio, uno dei pochi senatori favorevoli alle proposte del tribuno. Per semplificare il difficilissimo compito, Tiberio aveva eliminato la clausola relativa alle indennità, con la quale egli s’era inutilmente studiato di placare l’opposizione degli interessati.


70. Il testamento di Attalo e la nuova provincia di Asia (133). — Tra queste agitazioni e lotte giunse a Roma una notizia singolare. Attalo III, Re di Pergamo, era morto; e non avendo figli, lasciava a Roma in eredità il suo regno, trasmettendo alla repubblica tutti i diritti che egli esercitava sulle città greche e sulle popolazioni indigene. Come e per qual ragione, in seguito a quali intrighi, l’ultimo Re di questa dinastia, che aveva prosperato come cliente di Roma, fosse venuto in questa idea singolare, noi purtroppo non sappiamo. Ma la fortuna pareva voler mettere a dura prova la saggezza di Roma. Proprio, mentre a Roma si proponeva una legge terribile come quella di Tiberio Gracco per ricostituire, nel cuore della penisola, l’antica Italia agreste e bellicosa, la fortuna le offriva, senza colpo ferire, in dono, uno dei territori più ricchi del mondo antico, ove fiorivano tutte quelle arti, quei traffici e quegli studi, che sembravano corrompere la sana midolla della vecchia Italia. Giacchè il regno di Pergamo non era vasto, ma quanto era ricco! Passavano per [240] esso le vie commerciali più battute fra l’Occidente e i paesi dell’Oriente — la Caldea, la Fenicia, la Siria, la Persia, l’India — donde venivano l’incenso, la cassia, la resina, la mirra, l’aloe, il cinnamomo, la tartaruga, i diamanti, gli zaffiri, gli smeraldi, le ametiste, i topazi, le perle, le tele, i filati di cotone e di lana, le lane, le stoffe colorate, le sete, le mezze sete, l’avorio, l’indigo, l’ebano, il nardo, la porpora, il vetro, il cristallo; tutti i tesori dell’India, tutte le rarità della Cina, di cui il lusso dei paesi mediterranei faceva sfoggio. Qui il suolo era fertile, qui c’erano appalti, decime, tasse sui pascoli, pedaggi e dogane ricche, come in nessun’altra delle province dell’impero; qui, da un secolo e mezzo, regnava splendidamente la più ricca, la più culta, la più generosa forse, delle Corti ellenistiche; alla cui liberalità noi dobbiamo ancor oggi gli ultimi capolavori della scultura e della architettura greca; un’arte di mirabile perfezione, ora violenta, piena di foga, amante del nuovo e del grandioso, come nel famoso fregio dei Giganti del Museo di Berlino, che decorava un altare colossale, consacrato a Zeus e ad Atena, rappresentante la lotta di Giove con quegli immani figli della terra; ora piena di passione, accorata, come nel Gallo morente del Museo Capitolino in Roma, o nel gruppo, a torto denominato Arria e Peto, del Museo di Villa Ludovisi.

Non occorreva essere profeta, per prevedere che il dono di Attalo sarebbe un dono funesto, alla stregua almeno delle idee che movevano Tiberio Gracco e i suoi amici. Accettando quel dono, la [241] repubblica poneva piede in quell’Oriente, che agli occhi dei tradizionalisti romani della scuola di Catone e di Scipione Emiliano, era il maestro della corruzione tanto temuta. Inoltre il commercio romano, altro veicolo di ricchezze pericolose e di esempi funesti, si sarebbe ancora allargato. Inorientarsi e voler restaurare l’antica Italia semplice e agreste, era una contradizione. Tiberio Gracco e il suo partito avrebbero quindi, a rigore di logica, dovuto proporre a Roma di rifiutare il dono, così come dopo Cinocefale Roma aveva rifiutato la Macedonia e la Grecia. Ma i tempi, mentre lamentavano che l’antica Italia perisse, non resistevano più alle tentazioni della ricchezza e della potenza. Non c’era nè uomo nè partito, che avrebbe potuto persuadere Roma a questa rinuncia: Tiberio meno di ogni altro, perchè minacciato dai potentissimi interessi che aveva lesi. Spinto anzi dalla necessità di opporre interessi a interessi, egli cercò di servirsi anche del testamento di Attalo, e propose che le riserve del tesoro, lasciate dal Re di Pergamo ai Romani, fossero spese per provvedere strumenti ai nuovi coloni poveri; che la nuova provincia, a cui fu dato il nome di Asia, ricevesse i suoi ordini e le sue leggi dal popolo. La prima proposta era opportuna: ma la seconda toccava una delle prerogative più antiche del senato. Si riaccesero quindi le lotte e le dispute; si rinfocolarono gli odi e si invelenirono le accuse.... Frattanto buona parte dell’anno era trascorso, e bisognava procedere alle nuove elezioni. Secondo la legge, le magistrature non potevano essere iterate. Ma Tiberio voleva esser rieletto, sia per [242] poter vigilare all’applicazione della legge; sia per salvarsi dall’accusa di attentato alla costituzione, di perduellio, come si diceva, che dopo il caso di Ottavio, i suoi avversari volevano intentargli. Tanta audacia intimidì gli amici. Da troppo tempo il tribunato non era stato rinnovato da un anno all’altro alla stessa persona. I nemici di Tiberio ebbero buon gioco; molti amici o lo abbandonarono o tentennarono. Le elezioni si facevano nel mese di luglio, il mese della mietitura. Molti piccoli possidenti, che avrebbero votato per Tiberio, non potevano venire a Roma. Gli avversari fecero dunque un grande sforzo.... Nel giorno della votazione i partigiani di Gracco non riuscirono a spuntarla contro coloro che negavano potesse un tribuno essere rieletto. La votazione fu dunque rimandata al giorno seguente. Ma la mattina dopo la discussione ricominciò, e ne nacque alla fine un vero tumulto. Mentre i comizi erano a romore, nel vicino Tempio della Fede, ove il senato era radunato, un gruppo di senatori, con a capo Scipione Nasica, invitò il console a fare il suo dovere, ossia, a reprimere quel tentativo di rivoluzione fatto da Tiberio e dai suoi fautori. Si chiedeva, per un piccolo tumulto elettorale, addirittura quel che lo Stato romano non aveva ammesso se non negli estremi pericoli e anche allora raramente, al tempo della grande lotta tra i patrizi e i plebei: l’impero della legge marziale, il senatus consultum ultimum, come si chiamerà tra poco il decreto di stato d’assedio[68]. Il console non osò accogliere l’invito, e allora lo stesso Nasica, a capo di una schiera di senatori e di cavalieri, [243] coadiuvati dai loro clienti e dai loro schiavi, uscì dal Tempio della Fede, si slanciò in mezzo alla folla, divisa in due partiti e ancora tumultuante. Dopo brevissima e debole resistenza, Tiberio e 300 dei suoi seguaci furono trucidati.


71. La distruzione di Numanzia e la fine delle guerre di Spagna. — Così terminava il primo tentativo fatto sul serio per curare quella «corruzione dei costumi», che minacciava, agli occhi dei più savi romani, di mandare Roma in perdizione. Ai procedimenti rivoluzionari, ancora timidi e incerti, di Tiberio, gli interessi, insediati nella rocca del senato, avevano risposto con una risoluta e aperta violenza. Quanto questi interessi fossero potenti e quanto li avesse Tiberio inferociti, è provato dalla inaudita sopraffazione. Nasica era un uomo autorevole e il senato la più alta autorità dello Stato: tutti giudicarono, poichè aveva avuto la peggio, che Tiberio aveva proprio tentato di sovvertire l’ordine con la forza; e quindi meritata la sua sorte. Anche Scipione Emiliano, che stava assediando Numanzia, fu di questo parere. Il partito di Tiberio fu disperso dal terrore. Ma l’opera dell’infelice tribuno non perì tutta. Dopo la morte di Tiberio, la commissione, incaricata di attuare la legge, si recò nell’Italia settentrionale, nella centrale e nella meridionale, dovunque cercando di ricostituire l’antico agro pubblico, senza lasciarsi scoraggire dalle difficoltà di ogni genere con cui il tempo, gl’interessi e la furberia degli uomini intralciavano l’opera loro. Di questa testimoniano ancor oggi i cippi o pietre [244] terminali, segnanti i confini precisi tra ager publicus e ager privatus, fra podere e podere, recanti impressi i nomi dei triumviri[69]; ma più ancora un dato eloquentissimo, che la parzialità degli storici antichi non è riuscito a nascondere: che, mentre sin dal 164-63 il numero dei cittadini romani scemava, dal 131-30 al 115-14 esso crebbe in una generazione di oltre 75.000 iscritti (394.336 contro 317.823). È verosimile che questo aumento fosse, almeno in parte, un effetto della legge di Tiberio[70]. La terra, come dirà un uomo, che pure fu uno dei più implacabili avversari dei Graccani «era stata strappata al pascolo per essere di nuovo restituita all’aratro»[71].

Nell’anno stesso in cui Tiberio cercava con le leggi di rifar l’antica Italia agreste e guerresca, nel 133, Scipione Emiliano riusciva a prendere e a distruggere Numanzia, terminando finalmente la terribile guerra di Spagna. Una commissione di senatori riordinò, d’accordo con Scipione, la penisola. La Spagna fu divisa in due province, la Citeriore e la Ulteriore, separate fra loro dalla Sierra Morena (il Saltus Castulonensis), ciascuna sotto il governo di un pretore. Nel tempo stesso una nuova guerra nasceva nell’antico regno di Pergamo. La disputa tra Tiberio e il senato sull’ordinamento della nuova provincia aveva fatto perdere del tempo; e di questo tempo approfittò un certo Aristonico, che pare fosse un bastardo di Eumene, per rivendicare il regno. Raccolse uomini e denaro; chiamò gli schiavi a libertà; trasse al suo partito tutti gli amici e i fedeli della spenta dinastia; e insomma seppe così [245] bene fare e dire che i Re di Bitinia, di Paflagonia e delle due Cappadocie, alleati di Roma, e da questa pregati di purgar la provincia dall’usurpatore, non ci riuscirono. Fu necessario spedire rinforzi dall’Italia; e questi furono sulle prime sconfitti: un console ci lasciò la vita, e solo a Manio Aquilio, console nel 129, riuscì di ricuperar la nuova provincia. Comunque sia, poche volte una preda più ricca fu acquistata a minor prezzo. La repubblica romana diventava da un giorno all’altro una potenza asiatica; prendeva posto in Asia accanto alle due grandi monarchie superstiti dell’impero di Alessandro: passo decisivo e tanto più grave perchè non predisposto da alcuna preparazione. Ma lì per lì nessuno sembra averne avuto sentore a Roma; poichè tutti badavano ai travagli interiori. Dall’applicazione della legge agraria una nuova difficoltà nasceva o meglio si inaspriva. Abbiamo visto come la legge di Tiberio provvedesse ai cittadini romani, se si vuole, secondo giustizia, ma a spese dei Latini e degli Italici. Costoro erano privati dell’agro pubblico a torto occupato, e una parte soltanto poteva approfittare delle nuove distribuzioni; perchè i cittadini romani erano soddisfatti prima; e ai Latini e agl’Italici toccavano solo gli avanzi. Troppi avevano ricevuto, in luogo di un bel podere coltivato a viti o ad ulivi, un terreno sterile, boscoso, paludoso! Il torto offendeva tanto più, perchè da un pezzo Latini e Italici erano malcontenti per altre ragioni. Dalla fine della prima punica, non era stata più creata alcuna nuova tribù di cittadini romani. Nel tempo stesso le concessioni [246] del diritto di cittadinanza s’erano fatte più rare. Gli stessi Latini, immigrati in Roma, che per molti lustri ne avevano effettivamente goduto, erano stati a poco a poco cancellati dalle liste dei cittadini. La medesima delusione era toccata ai Latini arrolatisi nelle colonie di cittadini romani, e che per lungo tempo si erano creduti pari a questi. Nè Roma era diventata solo più gelosa del privilegio della cittadinanza, ma più dura nell’esercitare la sua potenza metropolitana, poichè ingrandendo il suo impero nel mondo, si era avvezzata a trattare l’Italia come una provincia, proprio quando era costretta a chiederle un tributo di sangue maggiore che nel passato. A queste ragioni di malcontento s’aggiungeva ora la legge agraria!

La opposizione dei Latini e degli Italici fu per gli avversari della legge agraria un insperato e prezioso aiuto, perchè procurò loro l’appoggio del maggiore personaggio del tempo, di Scipione Emiliano. Scipione era favorevole agli Italici, che aveva visti all’opera in Africa e in Spagna; che sapeva essere ormai il nerbo degli eserciti di Roma. Perciò nel 129 egli intervenne in loro favore, adoperandosi per fare approvare una legge che toglieva alla commissione i poteri contenziosi e li affidava invece ai consoli. Si poteva così presumere che i consoli, quasi sempre avversari delle leggi agrarie, lascerebbero in sospeso le infinite questioni sulla legittimità delle occupazioni, legando le braccia alla commissione. Ma questa concessione indiretta non soddisfece i Latini e gl’Italici, che volevano abolita la legge e che [247] continuarono a venire in Roma a torme, per protestare e difendere i loro interessi. D’altra parte, il partito della legge agraria, che la morte di Tiberio aveva disperso, ma non distrutto, riordinava le sue file, per correre al soccorso della legge minacciata. La lotta diventò furibonda; Scipione stesso fu minacciato; ed essendo egli tra queste dispute morto improvvisamente, il partito di Tiberio fu accusato di averlo assassinato per odio di parte. Il partito della legge agraria pensò perfino, per un momento, di troncare dalle radici l’opposizione dei Latini e degli Italici con un atto di forza. Nel 126 il tribuno della plebe M. Giunio Penno proponeva di espellerli tutti da Roma! Per fortuna prevalsero nello stesso partito di Tiberio propositi opposti, non di sterminio, ma di conciliazione. Per il 125 era stato designato console un caldo fautore della legge agraria, un senatore amico di Tiberio, Fulvio Flacco. E Flacco propose una legge, con la quale si concedeva la cittadinanza romana a tutti quegli Italici, che la chiedessero; e a quelli che non la volessero si concedeva invece il privilegio della provocatio, fin allora riservato ai soli cittadini romani, cioè il diritto di appello ai comizi centuriati contro ogni pena corporale ordinata da un magistrato romano[72]. A che mirasse questa legge, è chiaro: a compensare gli Italici dei danni che la legge agraria infliggeva loro con una concessione politica, che era anche utile a Roma. Italici e Romani avrebbero fatto un popolo solo, di eguali diritti. Ma la proposta giungeva troppo presto. Noi sappiamo che nè il senato nè i comizi [248] la gradirono, cosicchè il console l’abbandonò. L’oligarchia romana era troppo orgogliosa ed egoista da consentire così facilmente ad allargare a tanti uomini il suo prezioso privilegio. Non bastò a scuoterla l’insurrezione di Fregellae, che prese le armi per protestare contro l’abbandono della proposta. Ma la grande proposta era stata fatta; e fra non guari l’avrebbe ripresa il più grande fra gli uomini politici del tempo, Caio Gracco.


72. Caio Gracco (123-121). — Tre anni dopo il fallimento della proposta di Fulvio Flacco, era eletto tribuno, da un’assemblea dei comizi tributi, alla quale gli elettori della città e della campagna accorsero in numero non mai veduto, il fratello di Tiberio, Caio Gracco. Caio aveva assistito all’eccidio del 133, aveva fatto parte della commissione incaricata di attuare la legge; era stato perseguitato dal partito avverso, che, arbitro del senato, aveva cercato prima di inchiodarlo in un’eterna proquestura in Sardegna; poi di accusarlo di complicità nella insurrezione di Fregellae. Ma se il dolore e il rancore ulceravano il suo animo, Caio non era uomo da consumare il suo tribunato in una politica di rappresaglie. Egli voleva continuare l’opera del fratello, ma nel solo modo con cui un uomo intelligente può continuar l’opera di un predecessore: allargandola ed integrandola. Che cosa avevano dimostrato i torbidi di quei dieci anni? Che la legge agraria di Tiberio era stata mutilata nell’applicazione da una doppia opposizione: [249] l’aristocrazia senatoria da una parte, i Latini e gli Italici dall’altra. Era quindi chiaro non potersi applicare davvero la legge agraria senza una riforma politica, che scemasse la potenza dell’aristocrazia e del senato e desse soddisfazione ai giusti lamenti degli Italici. Era una catena. Ma come si poteva indebolire l’aristocrazia ed il senato, l’una e l’altro arbitri della repubblica dopo la seconda guerra punica? Caio Gracco era troppo intelligente per ritentare la prova di Caio Flaminio, e far assegnamento sul popolino, i piccoli possidenti, le classi povere. I tempi non erano più quelli. Il senato era ormai troppo potente, per ricchezza, per cultura, per prestigio. Occorreva un’arma più forte. Caio Gracco pose gli occhi su quella seconda nobiltà che comprendeva i cittadini non senatori, forniti del censo di 400.000 sesterzi e iscritti nella lista dei cavalieri, della quale ormai facevano parte tanti ricchi pubblicani e tanti denarosi mercanti e possidenti. Due nobiltà non possono vivere accanto, trattandosi da pari: ma siccome i cavalieri, fieri della loro ricchezza, non volevano più sottostare, come un tempo, alla nobiltà senatoria, così Caio poteva sperare di indebolire l’ordine dei senatori ingrandendo l’ordine dei cavalieri.

Egli seppe adoperarsi con molta destrezza. Una delle prerogative maggiori del senato era la giurisdizione criminale; perchè le varie quaestiones perpetuae, i giury diremmo noi, che erano ogni anno tratte a sorte per giudicare i reati, si componevano di senatori. Caio Gracco diresse il suo primo assalto al fortilizio dei privilegi senatoriali, [250] su questo punto; proponendo una lex judiciaria, la quale disponeva che nelle quaestiones giudicherebbero non più dei senatori, ma soltanto dei cavalieri. La proposta nascondeva abilmente un intento politico sotto ragioni di giustizia. La più importante delle quaestiones era quella de pecuniis repetundis, istituita, come vedemmo, nel 149 per giudicare i processi di concussione; quindi anche i governatori di provincia accusati di malversazione. Queste accuse spesseggiavano ormai tanto, che l’opinione pubblica reclamava leggi più severe. In quell’anno stesso un altro tribuno della plebe, Manio Acilio Glabrione, proponeva una grande lex Acilia de repetundis. Ma i governatori delle province erano tutti senatori: ora si poteva presumere che dei senatori applicassero severamente le leggi ai loro colleghi? Se non si voleva che la legge fosse una lustra, occorreva far giudicare i senatori da uomini appartenenti ad un altro ordine. Ma Caio non stette pago di questa prima proposta. Il governo romano non aveva ancora scelto, per la nuova provincia d’Asia, tra l’imposta fissa adottata per l’Africa, e la proporzionale, già sperimentata in Sicilia. L’una e l’altra presentavano, per lo Stato, vantaggi e inconvenienti; ma un secolo e più di prova aveva dimostrato in Sicilia che l’imposta proporzionale fruttava grandissimi lucri ai pubblicani che l’appaltavano. Con una seconda legge, Caio propose che fossero adottati per l’Asia gli istituti fiscali della Sicilia, e che l’appalto delle dogane, delle decime e di tutti i tributi della provincia fosse assegnato ai cavalieri romani.

[251]

Con queste due leggi, Caio poteva lusingarsi di trarre alla sua parte, tutto insieme, l’ordine equestre. Immaginò quindi un seguito di provvedimenti, che dovevano giovare a questa o a quella parte della plebe, così da stringere in un fascio le classi medie e povere. Innanzi tutto Caio Gracco si proponeva di ridestare la lex agraria del fratello dal letargo in cui era caduta, facendo ridare ai triunviri i poteri giudiziari che Scipione aveva trasferiti ai consoli. Ma la lex agraria beneficava solo il contadiname e i piccoli possidenti più poveri: non faceva nè bene nè male al proletariato urbano, molto cresciuto in Roma e, perchè residente in Roma, molto potente nei comizi. Anche a questo Caio provvide con la lex frumentaria. Lo Stato metterebbe ogni mese in vendita, a Roma, del frumento a un prezzo di favore, per i poveri ufficialmente riconosciuti come tali. Caio pensava forse anche, facendo fare dallo Stato grandi acquisti di grano in Italia, di giovare all’agricoltura italica; e ordinando la costruzione in Roma di vasti granai, di dar lavoro ai piccoli appaltatori e agli artigiani. Ai quali e alla agricoltura insieme, provvedeva anche un’altra legge, la lex viaria: vasto disegno di nuove vie, da costruirsi in diverse regioni d’Italia, sia per dar lavoro al popolo, come per aiutare gli agricoltori a vendere con maggiore profitto quelle derrate, che potevano esser trasportate ai più lontani mercati. A tutte queste aggiunse una lex militaris, che vietava di arruolare un cittadino romano prima che avesse toccato i 17 anni e faceva obbligo all’erario di pagare al soldato il vestiario [252] militare: una legge che doveva riuscir graditissima al popolo minuto così della città come della campagna.

Roma non aveva ancora visto un corpo di leggi tanto studiate e così ben legate tra di loro; e tutte intese a giovare al maggior numero. Caio diventò quindi in un baleno l’idolo della plebe, il favorito dei cavalieri, il capo di una così potente coalizione di interessi, che tutte le opposizioni vennero meno. Il tribuno fece approvare dai comizi tributi tutte le sue leggi, senza neppur chiedere prima l’approvazione del senato; e subito diede mano ad attuarle, appaltando la costruzione di granai e di vie, costruendo queste con una magnificenza sino ad allora ignota, attendendo tutto il dì a mille faccende, facendo della sua casa il ritrovo dei pubblicani, dei letterati, dei sapienti di Roma, la speranza e l’amore della moltitudine. Impotente, l’oligarchia latifondista del senato taceva e fremeva. L’autorità di Caio era così grande, che egli potè ritentar la prova fallita al fratello: farsi rieleggere tribuno per il 122. Tiberio aveva fatto scuola; e non senza una ragione più profonda che l’ambizione di Caio. L’impotenza del partito democratico nasceva in parte dalla brevità delle magistrature. Se si voleva rinnovare l’invecchiata repubblica, occorrevano nuovi principî e nuovi procedimenti.

Tribuno per la seconda volta, Caio si trovò al sommo della potenza, della popolarità, della operosità. Egli sembrava, davvero, e molti dovevano sussurrarlo, il Pericle della repubblica romana. Ma le leggi del primo tribunato non [253] erano che la preparazione alle due riforme capitali, che Caio vagheggiava per curare dalla radice i mali del tempo. Roma cresceva troppo; troppi artigiani, mercanti, artisti, sapienti, avventurieri, mendicanti concorrevano, da ogni parte, nella nuova metropoli; e ne nascevano infiniti mali; massimo tra tutti il caro prezzo del pane e degli alloggi. La lex frumentaria non era rimedio senza pericolo, tanta spesa avrebbe dovuto sostenere l’erario, già dissestato dalla guerra di Spagna. Bisognava sfollare Roma, inducendo una parte dei mercanti romani a trasferirsi da Roma in altre città acconce alla navigazione e al commercio; perchè molta gente minuta li avrebbe allora seguiti nelle nuove sedi. Caio gettò gli occhi su tre punti della costa mediterranea: a Squillace era già una dogana per le importazioni asiatiche; Taranto era stata lungamente famosa per commerci e per ricchezze. Quei mercanti che facevano commercio con la Grecia, la Macedonia e l’Oriente, non avrebbero potuto risiedere a Taranto o a Squillace, rinominate Nettunia e Minervia, più comodamente che a Roma? Il commercio dell’Africa — quel poco almeno che era sopravvissuto alla rovina di Cartagine — era passato ai mercanti romani: i mercanti romani che commerciavano con l’Africa avrebbero potuto risiedere in Africa meglio che a Roma. Molti infatti si erano stabiliti a Cirta. Non si poteva riedificare, sulle rovine della punica, una nuova Cartagine romana che si chiamasse Giunonia? Egli propose di fondare a Squillace, a Taranto, a Cartagine tre colonie, [254] non di poveri però, come in antico, ma di persone benestanti, a cui, per invogliarle ai lasciare Roma, sarebbero date vaste terre[73].

Anche queste proposte furono approvate, sebbene, a quanto sembra, a fatica, perchè lo sfollamento di Roma noceva a molti. Ma Caio prese ardire ad esprimere alla fine la idea suprema, lungamente meditata in silenzio: concedere, come già aveva proposto il suo amico M. Fulvio Flacco, la cittadinanza romana a tutti gli Italiani; rinforzare la piccola oligarchia di Roma, che rassomigliava a una esile colonna consunta dalle intemperie e dagli anni, sulla quale architetti improvvidi ingrandivano la mole già pesante di una fabbrica immensa. Tale era il disegno di Caio Gracco: posare l’impero non sulla cupidigia e l’orgoglio della piccola oligarchia romana, ma sulle solide e semplici virtù della classe rurale di tutta l’Italia; restaurare le antiche sedi del commercio distrutte o decadute; sollevar Roma dalla congestione di ricchezze e di uomini, che la soffocava.

Roma non aveva ancor visto, e non vedrà più un riformatore dal pensiero così organico, profondo e creativo. Se un uomo potesse addossarsi l’opera che sole le generazioni possono compiere, Caio Gracco avrebbe rigenerato Roma, e sciolta la tragica contradizione in cui Roma si dibatteva. Ma Caio era un grande uomo, non un Dio. Proponendo di accordare la cittadinanza agli Italici, egli aveva oltrepassato il limite, che non poteva essere superato neppure da lui, che pur era un [255] grande uomo. L’opposizione, che aveva disanimato Fulvio Flacco, rinacque: senato, cavalieri, agricoltori, proletariato urbano si trovarono questa volta uniti contro Caio Gracco. Il misoneismo, l’orgoglio, l’egoismo prevalsero su ogni altra considerazione. L’oligarchia romana non intendeva far getto dei suoi privilegi. Quando il tribuno Livio Druso oppose il suo veto, quel popolo, che aveva deposto Ottavio, scoppiò in un applauso caloroso. La popolarità di Caio Gracco incominciò a vacillare. Per maggior disgrazia Caio aveva accettato di far parte della commissione che dedurrebbe a Cartagine la nuova colonia; e quindi dovè lasciar Roma, proprio allorchè la sua presenza sarebbe stata più necessaria, e sebbene la legge vietasse a un tribuno della plebe di uscire dalla città. Egli cercò di far presto, non restò assente più di settanta giorni: ma di questa sua assenza approfittò il partito a lui nemico, per screditarlo del tutto. Strumento di questo partito fu il tribuno Livio Druso; che con perfida abilità propose tre rogazioni assai più generose ancora di quelle di Caio: una, che prometteva al popolo non tre colonie miste di benestanti e di poveri, ma dodici addirittura e tutte di soli proletari; un’altra, che liberava le nuove assegnazioni di agro pubblico dal tributo allo Stato, voluto dalla legge Sempronia; una terza, che prometteva agli Italici la soppressione delle pene corporali, anche sotto le armi. Il volgo, volubile e sciocco, cadde nella pania; si persuase che il senato e il partito oligarchico, a cui Livio apparteneva, [256] si erano ravveduti ed erano diventati migliori amici suoi che Caio. Quando Caio tornò dall’Africa il favor popolare lo aveva abbandonato al punto, che i suoi nemici già preparavano il pubblico alla abrogazione della legge sulla colonia della nuova Cartagine, sussurrando di prodigi minacciosi, che avevano atterrito la prima schiera di coloni: indizio sicuro dell’empietà di coloro che avevano voluto fondare una colonia sul suolo maledetto di Cartagine!

Non fa quindi meraviglia, che le elezioni per l’anno 121 siano state sfavorevoli a Caio. Caio non fu rieletto: invece fu eletto console L. Opimio, uno dei più accaniti tra i suoi nemici. Incoraggiati dalle elezioni, i suoi nemici si decisero a vibrare il primo colpo. Il tribuno Minucio Rufo propose l’abrogazione della legge sulla colonia di Cartagine. Caio non poteva non raccogliere la sfida. Il giorno del voto si presentò al popolo nei comizi, per difendere, almeno con la parola, quella che era una delle più nobili, alte e feconde iniziative della sua politica. Ma gli spiriti erano irritati; anche questa volta un tumulto nacque; e anche questa volta il partito avverso ripetè nel senato al console l’esortazione e l’invito, che dieci anni prima gli aveva vanamente rivolti Scipione Nasica. Ma console era questa volta L. Opimio, che non si fece pregare. Il senatus consultum ultimum fu decretato; rinnovando, dopo circa 263 anni, un provvedimento che nelle future turbolenze della repubblica doveva prendere il posto dell’antica dittatura. In forza del decreto un piccolo tumulto dei comizi [257] passò per un tentativo di rivoluzione; Caio e i suoi seguaci furono assaliti e trucidati; egli medesimo, visto precluso ogni scampo, si fece uccidere da uno schiavo fedele.

Note al Capitolo Dodicesimo.

63.  Polyb., 2, 15.

64.  Varro, R. rust., 1, 2, 9.

65.  Cfr. Plut., Tib. Gr., 8.

66.  Sui Salassi e sulle miniere aurifere dell’antico Piemonte, cfr. Polyb., 34, 10, 18; Strab., 5, 1, 12; Plin., N. H., 33, 4, 78.

67.  Per una illustrazione della legge agraria di Tiberio, cfr. E. De Ruggiero, Agrariae leges, in Enciclopedia giuridica italiana, 1, 2, pp. 798-808.

68.  Sul Senatus consultum ultimum, cfr. Barbagallo, in Rivista di filologia classica (1912), p. 49.

69.  C. I. L., I, 552-556; 583; 1504; IX, 1024-26.

70.  Cfr. Liv., Epit., 59 e 63.

71.  C. I. L., 1, 551.

72.  App., B. C., 1, 34.

73.  Plut., C. Gracc., 9; cfr. anche E. Callegari, La legislazione sociale di C. Gracco, Padova, 1896, p. 99.

[259]

CAPITOLO TREDICESIMO VERSO LA RIVOLUZIONE

73. Lo scandalo di Giugurta (117 a. C.): Verità e leggenda. — All’eccidio tennero dietro i processi, le confische, le condanne. Non meno di tremila furono le vittime. Il partito di Caio fu, come quello di Tiberio, disperso; la nobiltà rimase padrona dello Stato, e pronta si assicurò quella parte della vittoria, che più le premeva: le terre dell’Italia. Distruggere tutto quel che Caio Gracco aveva fatto, non si poteva. La lex judiciaria, la legge sull’Asia, la lex militaris, la lex frumentaria non furono toccate. Fu invece presa di mira la legge agraria, e in due o tre riprese distrutta. L’anno stesso in cui Caio era morto, il senato toglieva il divieto d’alienazione, che la legge Sempronia imponeva alle nuove piccole proprietà. Per tal guisa i poveri ricominciarono spensieratamente ad ipotecarle e poi a venderle; e i ricchi, ad accumular terre. Due anni dopo, nel 119, i comizi approvarono che le leggi agrarie dei Gracchi fossero abolite, e distribuite al popolo le somme ricavate dall’affitto [260] delle terre. Per la gola di questo poco denaro, il popolo aveva rinunciato al prezioso privilegio sul suolo pubblico, che i Gracchi gli avevano accordato: l’ager publicus poteva ora esser affittato da qualunque cittadino, senza limiti o regole particolari[74].

Senonchè il partito di Caio Gracco era stato disperso, non distrutto; e incominciò presto a riaversi. Ma un po’ per paura, un po’ per stanchezza non si fece vivo da prima. I tempi eran quieti; e l’impero in pace. Molti Romani, appaltando imposte e commerciando, incominciavano a far fortuna nella nuova provincia di Asia. La sola impresa di guerra di una certa grandezza fu quella compiuta tra il 125 e il 121 a. C., per porre un termine alle razzie dei Galli nel territorio di Marsiglia alleata e per rendere sicure le vie che conducevano in Spagna. Roma fece guerra all’impero degli Arverni e ridusse a provincia la Gallia Narbonese, le regioni cioè della Francia meridionale poste tra le Alpi e il Rodano; poi, per impedire che gli Arverni potessero tentare la riscossa, deportò in Italia il loro re Bituito e il figlio suo, che erano stati fatti prigionieri. Pure nel 121 un Metello, figlio del Macedonico, conquistò le Baleari; ma dopo non si guerreggiò più che contro le tribù barbare dei confini o dei paesi già conquistati: guerricciole da poco, e a cui nessuno badava in Roma. Insomma, dentro e fuori i confini dell’impero, regnava una quiete apparente. Il fuoco però covava sotto la cenere: discordie, rancori, astii, rivalità. Occorreva solo un accidente, perchè divampasse. [261] E l’accidente non tardò a sopraggiungere: dall’Africa, questa volta.

Micipsa, il Re della Numidia successo a Massinissa nel 149, era morto a sua volta, nel 118, lasciando il regno a due figli, Jempsale e Aderbale, ancora giovanissimi, e a al nipote Giugurta, figlio di un figlio naturale di Massinissa. Giugurta era un uomo fatto, molto capace e intelligente. Aveva comandato i contingenti numidici inviati da Micipsa in aiuto dei Romani a Numanzia; si era fatto un bel nome in tal comando, per valore e per senno; si era legato di amicizia con molti senatori romani e anche con Scipione Emiliano, che l’aveva in grande considerazione per i servizi prestati durante l’assedio. Che un principe numida, intelligente, valoroso, il quale sapeva di aver molti amici a Roma, abbia concepito il disegno di toglier di mezzo i due figli di Micipsa e di regnar solo; che abbia tolto di mezzo, con un tradimento, il cugino Jempsale, e poi assalito Aderbale nei suoi Stati, non sono cose inverosimili. Ma quando Aderbale, impaurito, fuggì nella vicina provincia d’Africa, invocando, nel nome del padre e dell’avo, il soccorso di Roma, dobbiamo noi credere che gli ambasciatori di Giugurta abbiano dimostrato ai senatori romani con argomenti sonanti, come Jempsale fosse perito giustamente, e Aderbale fosse stato giustamente aggredito? Tale è la versione che ci ha tramandata Sallustio, nella sua famosa storia della guerra di Giugurta. Ma c’è proprio bisogno di supporre che Giugurta avesse profuso l’oro a piene mani tra i senatori, per spiegar come il [262] senato mandasse nel 117 in Africa una commissione con l’incarico di spartire la Numidia tra Giugurta e Aderbale?[75]. Il regno di Numidia doveva essere governato o da uno dei principi o da tutti e due. Sarebbe stato ingiusto escludere Aderbale; ma non potevano i senatori, in buona fede e credendo di far cosa nel tempo stesso utile e savia, assegnarne una parte anche a Giugurta? Giugurta era un uomo capace; aveva reso segnalati servigi a Roma sotto Numanzia; aveva meritato le lodi di Scipione Emiliano; aveva molti amici nel senato, tra i quali ce n’erano di venali, ma ce n’erano anche di disinteressati, e questi più autorevoli di quelli. I senatori potevano giudicare in buona fede che fosse savia politica accarezzare in Africa un principe amico e capace come Giugurta, anche se non era modello di ogni virtù.

Sembra dunque più verosimile, che la deliberazione di spartir tra Giugurta e Aderbale il regno fosse presa dal senato in buona fede. Senonchè gli ammiratori ed amici, che Giugurta aveva in senato, erano tutti nel partito della nobiltà, nemico dei Gracchi, il che doveva nuocergli presso il partito avverso; come le ammirazioni e le amicizie non disinteressate, di cui godeva, eran tali da far nascere facilmente sospetti. Ma lì per lì nessuno sospettò o almeno disse nulla, e la commissione divise il regno tra i due principi, se con imparzialità o no è difficile dire. Certo è però che la pace tra i due principi fu presto rotta, e come dice Sallustio, per colpa di Giugurta. Costui voleva tutto il regno; e aggredì, sconfisse [263] e chiuse Aderbale in Cirta. Ma che cosa poteva fare il senato, non volendo spedire in Africa un esercito, se non mandare una dopo l’altra due ambascerie? La seconda era condotta nientemeno che dal princeps del senato, Marco Emilio Scauro, e come la prima cercò di persuader Giugurta a deporre le armi e ai confidare nel giudizio del senato. Senonchè è proprio necessario di supporre, come vuole Sallustio, che Giugurta avesse addirittura corrotto tutte e due queste ambascerie, nelle quali c’erano tanti personaggi ragguardevoli, per spiegare la loro impotenza? Giugurta voleva mettere il senato di fronte al fatto compiuto: tenne dunque a bada con discorsi gli ambasciatori, sempre più stringendo l’assedio di Cirta; sinchè Aderbale, nel 112, si dovè arrendere. Egli allora lo uccise. Con che mezzi potevano i commissari del senato impedirglielo? Far intendere la ragione a un sordo di proposito?

Giugurta sperava che, egli solo superstite, Roma lo riconoscerebbe. La speranza poteva sembrare tanto più fondata, perchè Roma doveva in quel tempo pensare alla frontiera settentrionale dell’Italia. Una popolazione barbara, originaria dell’Europa settentrionale, i Cimbri, aveva invaso l’Illiria settentrionale e mosso guerra ai Taurisci, alleati dei Romani, che abitavano nel Norico. Nel 113 il console Gneo Papirio Carbone, mandato a difendere i Taurisci, era stato disfatto presso Noreia. Senonchè se Giugurta ragionava bene, secondo la consueta ragione di Stato, non teneva conto che a Roma il senato era potente, ma non onnipotente; e che occorreva fare i conti [264] anche con l’opinione pubblica. E questa, apprendendo la resa di Cirta, andò sulle furie, un po’ per pietà di Aderbale, un po’ per dispetto contro Giugurta, un po’ perchè nella presa della città non pochi mercatores italiani erano stati uccisi. Siccome Giugurta era stato protetto dalla nobiltà senatoria, pronto il partito di Gracco, che da un pezzo spiava una buona occasione, approfittò di questo moto dell’opinione pubblica, per infliggerle una umiliazione; il tribuno C. Memmio minacciò scandali e tumulti, se il senato non vendicava Aderbale, dichiarando la guerra a Giugurta. Il partito della nobiltà dovè cedere; il senato rifiutò di ricevere gli ambasciatori mandati da Giugurta; la guerra fu dichiarata, e affidata nell’anno 111 al console L. Calpurnio Bestia. Calpurnio — anche Sallustio lo riconosce — era un uomo serio, capace e dabbene: e scelse per la spedizione, come legati, uomini di grande autorità: tra gli altri M. Emilio Scauro. Ora, se vogliamo credere a Sallustio, quest’uomo capace e serio, e tutti gli autorevoli personaggi che lo accompagnavano, appena sbarcati in Africa, invece di combattere Giugurta, gli avrebbero venduto a peso d’oro una pace vergognosa per Roma. Non è dubbio che, appena in Africa, Calpurnio trattò, richiesto da Giugurta, la pace, e che Giugurta acconsentì ad arrendersi a discrezione: il che non sembra essere una pace tanto vergognosa! Ma anche questa pace, che a Sallustio par tanto sospetta, si può spiegare con ragioni più semplici. Giugurta voleva il regno di Massinissa, non la guerra con Roma, della quale ambiva anzi essere [265] in Africa il fiduciario: se offriva la pace, come poteva un senatore romano, che avesse senno e buon senso, non chiedersi se non fosse meglio risparmiare a Roma, proprio allora che l’Italia era minacciata, una lunga e difficile guerra, voluta da un partito per un puntiglio politico, pur rinunciando a vendicare Aderbale? E poi, vinto e deposto Giugurta, chi avrebbe governato la Numidia? Era prudente creare una nuova provincia, allargando il già troppo vasto impero?

Sembra dunque più verosimile che Calpurnio e Scauro abbiano trattato e concluso la pace con Giugurta a ragione veduta, non solo disinteressatamente, ma per risparmiare a Roma una guerra inutile, anzi pericolosa. Ma essi avevano dimenticato che Giugurta doveva, per il partito democratico, far le vendette di Caio Gracco. Al pubblico, invelenito contro Giugurta, la pace spiacque assai; e ad un tratto il sospetto di corruzione divampò. Si gridò da ogni parte allo scandalo; il partito democratico eccitò ancora più la pubblica esasperazione; C. Memmio non solo fece respinger la pace dai comizi tributi, ma fece ordinare dal popolo al pretore L. Cassio che andasse in Africa a prender Giugurta e lo conducesse a Roma, per essere interrogato pubblicamente, in piena assemblea popolare, sui suoi misfatti e sui suoi complici. Il popolo citava dunque a comparirgli innanzi, per esser da lui giudicato, si può dire il senato tutto, o almeno la sua parte più autorevole e potente. E tale era l’umore pubblico, che il senato non osò opporsi a questa strana proposta. L. Cassio andò in Africa; [266] e Giugurta, che era sempre fisso nel pensiero di riconciliarsi con Roma, accettò di venire. Un bel giorno, dunque, si vide giungere a Roma, vestito dimessamente, e con poco seguito, questo Re che con Roma era in guerra; e comparire poi innanzi al popolo di Roma, radunato a giudicarlo o, meglio, a servirsi della sua testimonianza per infamare il senato, il consesso che raffigurava innanzi al mondo la potenza di Roma! L’odio di parte non aveva immaginato ancora maggior follia. Ma un tribuno, che doveva essere un uomo di buon senso, si levò; e pose il veto ad ogni ulteriore procedimento. Non ci furon grida, invettive, tumulti che valessero a scuoterlo. Giugurta rimase a Roma, a disposizione del popolo, come imputato di un processo politico che non poteva esser discusso. La situazione era bizzarra e inestricabile. Il partito popolare, per il quale la rovina di Giugurta era ormai un impegno d’onore, tentò allora un’altra via: scoprì in Roma un nipote di Massinissa, Massiva, che per paura di Giugurta era fuggito d’Africa e si era rifugiato nella metropoli; lo persuase a chiedere al senato il regno della Numidia. La mossa era abile, poichè Giugurta sperava che Roma si acconcerebbe alla fine a riconoscerlo Re, a dispetto di tutto e di tutti, non potendo trovar altri. Giugurta però non fu tardo al riparo; e non esitò a far assassinare il suo improvviso competitore. L’indignazione popolare si esasperò; tutti capirono che Roma aveva fatto un passo falso, facendo venir Giugurta a Roma; e il senato tagliò con un atto di autorità [267] il nodo: espulse Giugurta dall’Italia e ordinò che la guerra fosse ripresa.

La guerra ricominciò nel 110. Ma il console Spurio Postumio Albino guerreggiò fiaccamente; non seppe costringere a una battaglia campale Giugurta, che l’evitava a tutti i costi e cercava di riallacciare trattative; e verso la metà dell’anno lasciò il comando al fratello Aulo, per tornare in Italia a presedere le elezioni. Aulo, rimasto alla testa dell’esercito, comandò così male che, al principio del 109, fu circuito da Giugurta; e, per salvare l’esercito dallo sterminio, riconobbe a Giugurta il regno e acconsentì a sgombrare la Numidia. Questa nuova sconfitta esasperò addirittura Roma, già irritata dalla cattiva fortuna, che perseguitava i generali romani all’altro capo dell’impero. Noi abbiamo veduto come tra il 125 e il 121 Roma avesse avuto guerra con l’impero degli Arverni e conquistato e ridotto a provincia quella parte della Gallia, che è posta tra le Alpi ed il Rodano; e come, dopo averli vinti, avesse cercato di indebolire gli Arverni, catturando e deportando in Italia il re Bituito e il suo figlio. Senonchè, anche in Gallia, come in Oriente, la debolezza imposta al nemico per precauzione non tardò a diventare un pericolo per Roma stessa. Distrutto con la deposizione di Bituito e della dinastia l’impero arverno, i popoli, che lo componevano, avevano ricuperata la indipendenza, ciascuno sotto il governo della propria aristocrazia; ed erano ricominciate le guerre tra popolo e popolo. Da [268] principio Roma aveva approfittato di questa rinata anarchia, per trattare con i singoli popoli: aveva accordato agli Edni il titolo di fratelli e di consanguinei; dichiarato amici i Sequani e molti popoli dell’Aquitania. Ma ben presto dalla debolezza della Gallia era nato un nuovo pericolo, maggiore dell’Arverno: il Cimbrico. I Cimbri, che nel 113 avevano vinto nel Norico il console Carbone, non avevano osato invadere l’Italia: carichi di preda, avevano risalito il Danubio, con l’intenzione di passare il Reno e invadere la Gallia. Il che avevan fatto nel 109 e con fortuna. Se l’impero arverno fosse stato ancora in piedi, avrebbe potuto opporre alla invasione le forze unite della Gallia: ma l’impero arverno era caduto, e i Cimbri eran passati facilmente attraverso quel pulviscolo di Staterelli rivali. Roma aveva dovuto accorrere in soccorso dei suoi amici della Gallia minacciata; e aveva spedito nel 109 il console Marco Giunio Silano con un esercito. Ma in un luogo, che non è noto, Silano era stato sconfitto, come Aulo in Africa.

Essere sconfitta due volte dai barbari, in Europa e in Africa, era una dura umiliazione per Roma. Roma non volle riconoscere che ambedue le sconfitte erano dovute all’inettitudine dei generali e alla decadenza degli ordini militari troppo invecchiati; e ne attribuì una almeno — quella d’Africa — all’oro, ormai leggendario, di Giugurta. Un tribuno propose che si nominasse una commissione d’inchiesta, sulla guerra di Africa: e la legge fu approvata. Per fortuna però, per l’anno 109, i comizi avevano finalmente nominato [269] console un uomo capace e sicuro, Q. Cecilio Metello; e la sorte, questa volta meno cieca del solito, gli aveva assegnato come provincia la Numidia. Metello, giunto in Africa, ristabilì la disciplina nell’esercito, e incominciò a far la guerra sul serio, infliggendo, nel 109 e nel 108, ripetute sconfitte a Giugurta e costringendolo a porsi sulla difesa. Ma la Numidia era un paese privo di città, abitato da tribù barbare nomadi, semplici, espertissime del paese, mobilissime e quindi molestissime ad un esercito regolare, attardato dai suoi bagagli e dai suoi bisogni. In campo contro un tal nemico, una o più disfatte non potevano troncare la guerra. Occorreva orbare quegli uomini del loro duce. Ma Metello non ci riuscì. Giugurta invece riuscì a conquistare l’amicizia e l’aiuto di altre tribù limitrofe, non meno pericolose, quali i Mauri e i Getuli.


74. Caio Mario e l’ultima campagna contro Giugurta (107-106). — Le vittorie di Metello non placarono nè i rancori nè i sospetti delle classi popolari romane, che ad ogni indugio a stravincere non scorgevano altra causa se non l’oro di Giugurta e la corruzione dell’aristocrazia. Nè poco noceva ai cavalieri quella interminabile guerra, che chiudeva il paese a tutte le loro imprese. Il partito democratico fomentava il pubblico malcontento quanto poteva; e l’effetto si vide nelle elezioni consolari del 108. In quest’anno, pieno di tante agitazioni ed inquietudini, un uomo nuovo, un municipale di Arpino, un oscuro cavaliere fallito molti anni prima, riusciva ad ottenere il consolato [270] e il comando della guerra di Numidia. Era costui quel Caio Mario, che abbiamo visto servir con onore agli ordini di Scipione Emiliano, a Numanzia. Dopo quella guerra egli aveva salito la scala degli onori, ma lento lento, faticosamente, non riuscendo a svincolarsi dalla ressa dei concorrenti, perchè troppo sollecito del bene pubblico e troppo poco dell’interesse di parte. Eletto tribuno della plebe nel 119, s’era inimicato il partito oligarchico, presentando una legge, che faceva segreti per davvero gli scrutinî dei comizi. Ma di lì a poco si era guastato con il partito popolare o di Gracco, interponendo il veto, quando un suo collega si era fatto avanti a proporre un ampliamento della legge frumentaria graccana. Inviso agli uni e agli altri, era fallito nelle elezioni all’edilità; e aveva dovuto ritirarsi per tre anni a vita privata; sinchè nel 115 era stato eletto pretore, e aveva governato con fermezza la Spagna ulteriore. Metello l’aveva condotto in Numidia come legatus, perchè Mario, a dispetto degli oscuri antenati, era un valente uomo di guerra.

Che Mario ambisse ora la suprema carica dello Stato era cosa legittima; in tanta scarsezza di ingegni, c’era in lui la stoffa di un grande console, valoroso in guerra, equanime e non fazioso negli affari civili. Ma un errore di Metello, che pure era anch’egli un uomo di animo eletto, sviò a un tratto questa virtù. Par che Mario fosse tra coloro che giudicavano troppo lento e prudente il guerreggiare di Metello. O che a Metello spiacessero queste critiche, o che l’offuscasse la sua alterigia nobilesca e la sua avversione contro l’ordine dei [271] cavalieri, quando Mario gli chiese il congedo per recarsi a Roma a porre la propria candidatura al consolato per il 107, glielo negò. Mario non desistè dal proposito; ed insistette con tanta forza che alla fine Metello dovè annuire: ma all’ultimo momento, dodici giorni prima dell’elezione, se Plutarco dice il vero, Mario volò in Italia; ma, qui giunto, trovò il partito oligarchico solidale con Metello e concorde nel non volere console l’antico cavaliere pubblicano. Mario non era un uomo di parte; ma, oltraggiato a quel modo dalla vecchia nobiltà, che altro poteva fare se non buttarsi nelle braccia dei democratici?

I tempi erano maturi. Lo scandalo di Giugurta aveva addirittura infamato tutta la nobiltà storica. C’era in tutti un disgusto, una irritazione, un bisogno di cose, di uomini, di aria nuova. Mario accusò apertamente nei suoi discorsi il partito oligarchico e Metello di tirare in lungo la guerra apposta e promise, se eletto console, di finirla in poco tempo; il partito democratico lo prese per suo candidato; il popolino, contadini e artigiani, si dichiararono per lui; i cavalieri gli prestarono man forte. Non era Mario un cavaliere, e non prometteva di finir presto la guerra, come essi desideravano? L’elezione del console diventò un conflitto tra la nobiltà senatoria e gli altri ordini sociali. Mario fu eletto.

La elezione di Mario fu la prima riscossa del partito dei Gracchi. Giugurta aveva fatto le vendette di Tiberio e di Caio. Per colpa di questo oscuro regolo numida e dei suoi torbidi intrighi, l’aristocrazia, che aveva fondato e governato per [272] tanti secoli Roma, era ora sospettata, infamata, umiliata, e forse, in buona parte, senza colpa; l’oscuro cavaliere di Arpino scalava trionfante il consolato e subito infliggeva al senato una seconda umiliazione. Già prima delle elezioni, nella speranza di frustrare la vittoria di Mario, il senato aveva assegnato le province, mantenendo Metello in Africa in qualità di proconsole. Una legge cassò quella deliberazione, e conferì a Mario il comando della guerra numidica. Mario doveva ora fare quel che aveva promesso: finire la guerra. E si mise all’opera, incominciando da una riforma militare, che ringiovaniva gli ordini militari di Roma troppo invecchiati, ma che capovolgeva pure uno dei principî su cui tutto l’assetto sociale della repubblica posava da secoli. Convertendo in regola l’espediente dei tempi difficili, Mario accolse nell’esercito non i soli cittadini censiti, ma quanti si presentavano; anche i proletari[76]. Non è difficile intendere la vitale saggezza e il pericolo mortale di questa riforma. Il vecchio esercito romano del IV e del III secolo, di cui facevano parte solo i cittadini possidenti, non bastava più per due ragioni: perchè il numero dei censiti era troppo piccolo per tante guerre e tante province; e perchè l’agiatezza era ormai cattiva stoffa da far soldati. Questi inconvenienti erano in parte tolti di mezzo, ammettendo nell’esercito gli uomini che non avevano altro capitale che le loro braccia. Non solo costoro erano più numerosi dei censiti; ma siccome la milizia, più che un peso poteva esser per essi una professione e il modo di campare la vita, e di assicurarsi per la vecchiaia, con il [273] bottino di guerra, una certa agiatezza, era così più facile tenerli per lunghi anni sotto le bandiere, insegnar loro le armi e la guerra sul serio, e farli veri soldati. Ma se la riforma era vantaggiosa, non era neppure scevra di pericoli. Non solo l’antico esercito nazionale si convertiva in un esercito mercenario, simile a quelli di Alessandro e dei Diadochi; e il principio professionale sottentrava al politico, come fondamento degli ordini militari; ma le classi medie e agiate si disarmavamo e armavano le classi povere, che non possedevano nulla.

Tuttavia la riforma fu lì per lì universalmente approvata. Lo Stato e i privati ne ricevevano egualmente vantaggio: così i poveri che trovavano un nuovo guadagno, come i ricchi e gli agiati cui più facile sarebbe ottenere la dispensa dal servizio, ed esser rimandati a casa a curare i propri beni o il proprio commercio. Accompagnato dunque dal favore popolare, Mario partiva per l’Africa, incaricando il suo questore, L. Cornelio Silla, di ultimare il reclutamento di uomini e di cavalli in Italia. Era questi un personaggio, di cui — a voler credere le fonti — fin allora non si sarebbero occupate che le cronache equivoche della grande città, il rampollo di un’illustre famiglia decaduta, vissuto fino a quel momento tra mimi, buffoni, cantori, danzatrici, e che solo negli ultimi anni aveva potuto rifare la propria fortuna — così almeno dicono gli scrittori antichi — con la eredità lasciatagli da una etera greca! Quanto a Metello, non aveva aspettato il suo successore: affidate le legioni a un suo luogotenente, [274] era tornato a Roma, dove a compenso il senato gli aveva concesso il trionfo e il titolo di Numidico, Mario non perdè tempo; e con abili mosse, nel 106, riuscì a impadronirsi della Numidia, scacciandone Giugurta che si rifugiò presso Bocco, il Re di Mauritania, di cui era alleato. Ma mentre così finalmente la guerra di Africa si avviava verso la fine tanto desiderata in Italia, nuove calamità succedevano in Gallia. Qui i Cimbri, dopo avere sconfitto Silano, invece di invader la Gallia o minacciar l’Italia, si erano improvvisamente ritirati, cosicchè Roma aveva potuto per qualche tempo illudersi che il suo prestigio avesse, anche dopo una sconfitta, imposto rispetto ai barbari. Ma era una illusione: le due sconfitte che in pochi anni i Cimbri avevano inflitto alle armi romane, forse anche le lungaggini e gli scandali della guerra di Numidia avevano risvegliato il coraggio dei popoli gallici sottomessi da Roma e gli appetiti dei barbari che ronzavano intorno ai confini. I Cimbri si erano allontanati, per raggiungere i Teutoni, mossisi anch’essi dalle loro sedi, per piombare insieme sulla Gallia e sull’Italia; e, poco dopo la partenza dei Cimbri, nel 107, una popolazione, appartenente alla nazione elvetica, i Tigurini, incoraggiati dalla sconfitta di Silano, avevano invasa la Gallia Narbonese. Alla notizia dell’invasione una parte della Provincia era insorta; e a Tolosa il presidio romano era stato fatto prigioniero dalla popolazione indigena in rivolta. Il console Lucio Cassio Longino aveva dovuto marciare contro i Tigurini, che erano comandati da un giovane e abilissimo [275] capo, di nome Divicone: ma al suo avvicinarsi, Divicone aveva fatto finta di ritirarsi e fuggire, traendosi dietro i Romani fin sui confini della Provincia, nel territorio dei Nitiobrogi: là si era ad un tratto fermato e voltato all’offesa, circuendo i Romani. Il console e la parte maggiore dell’esercito erano stati uccisi; i superstiti avevan potuto scampare solo grazie a una pace vergognosa. L’esercito distrutto, Tolosa perduta, mezzo il paese in rivolta, il dominio romano nella Gallia Narbonese vacillante sul finire del 107, fu necessario mandare, nel 106, dei rinforzi ed un console.

Questo console era il pontefice massimo Q. Servilio Cepione, uno dei partigiani più fieri del partito oligarchico. Basti dire, che di tutto il disordine che allora turbava lo Stato, egli voleva approfittare per proporre una lex judiciaria, che riconferisse ai senatori una parte del potere giudiziario da Caio trasferito ai cavalieri! Arrivato in Gallia, Servilio trovò che il pericolo tanto temuto era dileguato: i Tigurini, come i Cimbri, dopo la vittoria, se ne erano andati, come se in tutti i Galli il timore di Roma crescesse dopo le vittorie riportate su di lei: si volse dunque contro i Volchi per liberare Tolosa; se ne impadronì; e per punire la città ribelle, confiscò tutti i tesori accumulati nei templi dalla pietà dei fedeli[77]. Una preda ingentissima, se vogliamo credere agli antichi, ma che non giunse mai a Roma.... La scorta che l’accompagnava fu, secondo si disse, assalita e trucidata per via; i tesori rubati. A Roma, dove Cepione era molto odiato dai cavalieri [276] e dai democratici, i più accusarono addirittura il console di aver rubato il tesoro — il che sembra un po’ difficile; si reclamarono inchieste, si intentarono processi; e insomma un nuovo scandalo, non meno clamoroso del giugurtino, sconvolse Roma. Il solo, che in mezzo a questo disordine grandeggiava nell’opinione del popolo su tutte queste brutture, era Mario, che con le armi e i trattati conduceva rapidamente a buon fine la guerra di Numidia. Dopo che Giugurta era fuggito in Mauritania, Mario, che non voleva impegnarsi in una guerra difficile e lunga contro Bocco, aveva ricorso alle arti diplomatiche: aveva per mezzo del suo questore Silla aperte trattative con Bocco, per indurlo ad abbandonare l’alleanza di Giugurta e a consegnargli il Re. Silla fu molto abile; Bocco, pur avendo esitato a lungo, si persuase alla fine che, se avesse continuato a tenere le parti di Giugurta, avrebbe corso pericolo di perdere anch’egli la corona e il regno; e alla fine, dopo lunghe e varie vicende, acconsentì a tradir l’alleato. Nella primavera del 105, Giugurta, fatto prigioniero durante un convegno, fissato per tutt’altro scopo, fu condotto al generale vincitore. La guerra era finita, dopo sei lunghi anni!


75. I Cimbri e i Teutoni; i quattro consolati di C. Mario (105-101 a. C.). — Ma la gioia della vittoria durò poco. Nel 105 ad un tratto il ciclone, che da qualche tempo romoreggiava sulla Gallia, scoppiò. I Cimbri e i Tigurini ricomparvero ai confini della Gallia uniti e accompagnati da due altri popoli, i Teutoni e gli Ambroni. Chiaro era [277] dunque ormai: i Cimbri e i Tigurini si erano ritirati dopo le vittorie solo per congiungersi e ritornare con nuove forze. Quanto grande apparisse il pericolo, è dimostrato dalle misure che il senato prese: più di ottantamila soldati furono mandati in Gallia sotto il comando del console Gneo Manlio Massimo e di Servilio Cepione, a cui fu continuato il comando con il grado di pro-console. La storia della guerra è mal nota. Pare che i due generali fossero poco valenti e che non andassero d’accordo, cosicchè nel discutere tra loro spesso trascendevano alle ingiurie. Il senato mandò dei commissari per metterli d’accordo, e di nuovo si fecero lunghi discorsi senza approdare a nulla. L’esercito, come tutti gli altri eserciti del tempo, che non avevano servito sotto gli ordini di Mario, era cattivo e poco disciplinato. Da questo disordine nacque alla fine una calamità. Il 6 ottobre del 105, ad Arausium, nelle vicinanze di Orange, l’orda barbara assalì i due eserciti romani, ciascuno dei quali sembra aver combattuto per proprio conto; e li annientò ambedue. Non scamparono, insieme con i due generali, che pochi avanzi. Il dominio romano nella Gallia transalpina era caduto; un esercito di barbari accampava vittorioso sulla grande via di comunicazione tra l’Italia e la Spagna, e aveva aperte innanzi a sè le strade che conducevano all’una e all’altra.

Non è difficile immaginare lo spavento e il dolore di Roma. Una sola speranza confortò in quell’ora tetra, la moltitudine sbigottita: Mario, che era rimasto in Africa ad ordinare il paese conquistato. [278] Di questo un terzo, la porzione orientale della Numidia, era stata annessa alla provincia d’Africa; la porzione occidentale, consegnata, come prezzo del suo tradimento, al Re della Mauritania; il resto, largito a un cugino di Giugurta, un oscuro principe di nome Gauda. Mario non avrebbe potuto essere rieletto console, perchè il numero degli anni prescritti dalla legge non era ancora passato; ma il popolo non sentì ragione: come per Scipione Emiliano, approvò una legge che sospendeva per Mario la regola comune; lo elesse console per il 104; e con un’altra legge gli assegnò la Gallia. Cosicchè il 1º gennaio del 104 Mario potè entrare in Roma, trionfando, e iniziare il suo secondo consolato. Stava al suo fianco, partecipe del grande onore, il suo questore Silla: lo seguiva, tra il clangore delle trombe, gli urrà dei soldati e il plauso assordante della folla, lo spettro di colui che un tempo era stato Giugurta, in catene con i suoi figli, le sue donne, i suoi congiunti, i suoi cortigiani. Allorchè il trionfo fu celebrato, il vinto Re, nuovo Perseo, fu gettato nel carcere tulliano, e quivi lasciato morir di fame.

Roma si era nel pericolo avviticchiata a Mario perchè lo salvasse dal nuovo Brenno. Se il salvar l’Italia fosse un’impresa molto difficile, noi non sappiamo; ma certo il pencolo non era così imminente come allora se lo immaginavano a Roma. I barbari, che percorrevano l’Europa per razziarla, prima di scalare la barriera delle Alpi e invader l’Italia, volevano, ora che avevan distrutto l’esercito romano della Narbonese che li minacciava sul fianco, depredar la Spagna e la [279] Gallia. Difatti, quando Mario giunse, nella primavera del 104, nella Narbonese, il nemico si era allontanato: i Cimbri erano andati in Spagna e i Teutoni, tornando indietro, avevano invaso la Gallia. La Narbonese era dunque tranquilla, almeno a paragone degli anni precedenti; e fuori di pericolo, sebbene qua e là in rivolta. Ma Mario, che era un generale abile, astuto e prudente, non si lanciò punto sulle tracce del nemico; non solo lasciò i Teutoni invadere la Gallia, ma lasciò anche i Cimbri invadere e saccheggiare la Spagna, una delle più ricche province dell’impero. Anzi neppure si adoperò per ristabilire saldamente l’autorità romana nella Gallia Narbonese. Non si curò che di esercitare e migliorare l’esercito. Le informazioni raccolte annunciavano che i Cimbri tornerebbero dalla Spagna, nella primavera dell’anno seguente: bisognava dunque prepararsi a riceverli come si doveva. Mario aveva condotto seco una parte delle agguerrite milizie d’Africa, molte nuove reclute attirate dalla generosità con cui aveva spartito tra i suoi soldati il bottino d’Africa, contingenti chiesti a tutte le popolazioni soggette e alleate di Roma. Di questa varia moltitudine occorreva fare un esercito. Non solo Mario fece istruire ed esercitare, come soleva, con grande cura e rigore le nuove forze; ma, come sembra, introdusse anche, nell’ordinamento e nell’armamento dell’esercito, alcune riforme che dovevano sopravvivergli[78]. Sino allora la legione era stata divisa in trenta manipoli, i quali si schieravano a battaglia su tre linee, ad una certa distanza l’uno dall’altro. Ma un nemico [280] come i Cimbri, temibile per l’impeto di un primo attacco, poteva precipitarsi nei vuoti e scompaginare, isolandoli, i troppo tenui manipoli. Mario portò l’effettivo della legione a 6000 uomini e la divise in dieci massicci corpi di 600 uomini ciascuno, che chiamò coorte dal nome delle unità delle milizie alleate. In tal guisa, non solo i cittadini e gli alleati italici si confusero nel nuovo esercito, ma la legione acquistò una compattezza maggiore, che doveva essere utilissima in tempi in cui i soldati erano in generale di qualità più scadente. Nè Mario trascurò di migliorare le armi. Abolì le lunghe lance e gli scudi enormi; diede a tutti i soldati la sottile arma da getto, propria allora delle prime linee, che era il pilum, col quale si poteva tuttavia trafiggere lo scudo e la corazza nemica, e il clipeus, il piccolo, rotondo e leggero scudo romano.

Certamente coloro i quali avevano creduto che, appena arrivato in Gallia, Mario avrebbe polverizzato il nemico, furono un po’ delusi: ma intanto gli animi si rinfrancavano e aspettavano con maggiore fiducia il grande cimento per la primavera del 103. Senonchè, mentre le cose parevano un po’ quetarsi in Gallia, scoppiava una pericolosa rivolta di schiavi nell’Italia meridionale e in Sicilia; e nuove complicazioni nascevano in Oriente. Nel 104 i dinasti della Paflagonia vennero a Roma a chiedere aiuto alla repubblica, di cui erano amici e clienti, contro il regno del Ponto. Era questo un regno formatosi sulle sponde del mar Nero, al principio del terzo secolo avanti Cristo, tra i rottami dell’impero di [281] Alessandro, e tra popolazioni diverse per lingua, costumi e razza, sotto la dinastia dei Mitridate[79], una nobile famiglia persiana ellenizzata. In questo Stato, sino allora quasi ignoto ai Romani, era salito al trono, nel 111, un giovane sovrano ambizioso e intelligente, il cui nome era Mitridate VI Eupatore[80]; e che, aiutato da un abile greco di Sinope, Diofante, era riuscito in pochi anni a salvare le colonie greche del mar Nero dalla dominazione degli Sciti, e a conquistare la Tauride; poi aveva cercato di ridurre in suo potere tutto il bacino orientale del mar Nero, di allargare il regno del Ponto sino all’Eufrate, di avviare relazioni con le barbare popolazioni dei Sarmati e dei Bastarni, vaganti tra il Danubio e il Dnieper, con le tribù galliche restate nella valle del Danubio, con i Traci e gli Illiri. I re Sciti, scacciati dalla Tauride, erano già accorsi l’anno prima a Roma, a domandar aiuto; ma Roma, atterrita dalle calamità della Narbonese, aveva fatto la sorda. Incoraggiato dall’inerzia di Roma, Mitridate aveva invaso e diviso con il Re di Bitinia, suo alleato, a quanto sembra, nella primavera del 104, la Paflagonia. Per la seconda volta, l’Asia chiedeva aiuto a Roma: a Roma che, essendo diventata una potenza asiatica, dopo l’annessione del regno di Pergamo, non poteva tener sempre chiusi gli occhi sui questi eventi. Per essere sicura della preziosa provincia d’Asia, Roma doveva vegliar che nessun’altra potenza troppo forte e ambiziosa le crescesse vicino.

Il partito democratico, infatti, allora potentissimo, si dichiarò subito avverso a Mitridate e [282] favorevole ai piccoli principati da lui minacciati. Il partito oligarchico invece, per spirito di opposizione, assunse un atteggiamento, se non favorevole a Mitridate, più imparziale. Del resto, aspettandosi gli ambasciatori di Mitridate, nessuna deliberazione fu presa. La Gallia stava sola in cima al pensiero di tutti. Aspettandosi per la primavera del 103 il grande scontro, l’opinione pubblica voleva che il comando dell’esercito restasse a Mario: fu facile quindi al partito popolare di farlo rieleggere console per la terza volta, senza che egli si movesse dalla Gallia, a dispetto delle leggi e della nobiltà, per la quale i consolati di Mario erano una specie di muta, ma costante umiliazione. Mario, Mario solo, e non più il senato solo e le grandi famiglie, era la speranza, la spada e lo scudo di Roma! Le elezioni tutte furono favorevoli al partito democratico. Fra i tribuni della plebe per il 103 fu uno dei democratici più ardenti e più arditi, Lucio Apuleio Saturnino; e durante l’annata fu approvata la Lex Domitia, che faceva elettivi tutti i collegi sacerdotali — pontefici, áuguri, XV viri sacris faciundis, VII viri epulonum — i quali sino ad allora si rinnovavano per cooptazione[81]. Un altro privilegio delle grandi famiglie era distrutto! Nè meno vigorosa fu l’azione del partito, quando gli ambasciatori di Mitridate giunsero a Roma. Sia che veramente questi avessero tentato di convincere dei senatori con l’oro, sia che il partito democratico, un po’ viziato dal successo, volesse approfittare dei facili sospetti del pubblico per rifare [283] lo scandalo di Giugurta, fatto sta che ci furono violente accuse e clamorose dimostrazioni popolari contro gli ambasciatori. Saturnino le capeggiò, e il senato, intimidito, ricorse all’espediente di mandare una ambasceria in Oriente a esaminar lo stato delle cose.

Frattanto la primavera del 103 era giunta; ma con essa non erano giunti nè i Cimbri nè i Teutoni. Le legioni romane rimasero indisturbate in Gallia. Questa quiete deluse molto i soldati e l’Italia; si cominciò a mormorare di Mario e del suo modo di combattere; a domandarsi quanto durerebbe la guerra, combattuta a quel modo. Ma Mario non se ne diede per inteso e non fece un passo per andare in cerca del nemico: fece invece, perchè i soldati non si snervassero nell’ozio, scavare la fossa Mariana, di cui il villaggio di Foz conserva ancora il nome, per fare navigabile l’ultimo tratto del Rodano, spesso ingombro di sabbie. Egli otteneva così tre scopi: occupava i soldati; si assicurava una buona via di vettovagliamento; faceva cosa gradita ai suoi grandi amici di Roma, i cavalieri, ed alla sua preziosa alleata, Marsiglia, migliorando la navigazione del Rodano e aprendo una via sicura al commercio con la Gallia. Senonchè un generale ha l’ufficio di combattere e non di scavare dei canali. L’inerzia di Mario sembrava a Roma protrarsi troppo. Che cosa si farebbe per il 102? Mario desiderava di esser rieletto console, per cogliere il frutto delle lunghe fatiche; il partito popolare era pronto a sostenerlo; ma questa volta il pubblico esitava. [284] Mario dovè muoversi e venire a Roma a sollecitare i suffragi. La sua presenza bastò. Primo caso nella storia di Roma, egli fu eletto console per la quarta volta.

I comizi avevano del resto agito seriamente. Ritardando, la bufera scoppierebbe più violenta. Nel 102 i Cimbri tornarono dalla Spagna, i Teutoni dalla Gallia; e sul Rodano si congiunsero insieme Cimbri, Tigurini, Teutoni, Ambroni, per invadere l’Italia. Avevano distrutto nella Narbonese un esercito romano; avevano saccheggiata la Spagna e la Gallia senza che Roma osasse correre in aiuto della sua provincia e dei suoi alleati: come non avrebbero presunto di poter anche invadere e saccheggiare l’Italia, per tornar poi, onusti di preda, nei loro paesi? Deliberarono infatti di valicare le Alpi in tre colonne. I Teutoni e gli Ambroni passerebbero per la Provincia e le Alpi occidentali; i Cimbri, per le Alpi centrali; i Tigurini, per le Alpi orientali. Così, nella seconda metà del 102, un’orda di Teutoni e di Ambroni mosse attraverso la Narbonese verso l’esercito romano, che da più di due anni li aspettava esercitandosi in silenzio. La battaglia si combattè non lungi da Aquae Sextiae (Aix); e il genio del generale romano, la disciplina dell’esercito vinsero l’audacia e la violenza dei barbari. In due fatti d’arme successivi, gli Ambroni e i Teutoni, abilmente provocati ed assaliti, furono distrutti. Centomila morti — se il numero non è esagerato — dettero a l luogo il nome ferale di Campi Putridi[82].

La grande vittoria di Aix riempì di giubilo [285] Roma; Mario fu eletto console la quinta volta; questa volta senza opposizioni ed esitazioni, ed incaricato di respingere dopo i Teutoni, i Cimbri, che a grandi marce, e forse più numerosi dei Teutoni, invadevano l’Italia settentrionale. Il nuovo pericolo infatti non era minore di quello che il genio di Mario aveva allora allora sventato. Il console Q. Lutazio Catulo, mandato a difendere i passi delle Alpi centrali, non aveva resistito all’urto, e, respinto fino all’Adige, era stato costretto a ripiegare sulla riva destra del Po, abbandonando ai Cimbri tutta la Transpadana. L’Italia era minacciata da una invasione più terribile di quella di Annibale: Mario, Mario solo poteva salvarla! Difatti la fortuna tornò a sorridere, e per l’ultima volta, a colui che da sette anni era il suo favorito. I Cimbri, anzichè proseguire nell’invasione, indugiavano a saccheggiare la pianura padana. Mario ebbe il tempo di richiamare le sue provette legioni dalla Provenza e di ricongiungersi con Catulo, per esser pronto ad assalirli quando quei barbari si disponevano a valicare il Po, non lungi dalla sua confluenza con la Sesia. Nella pianura dei Campi Raudii, i Cimbri subirono in una grande battaglia la sorte dei loro compagni di oltr’Alpe. Si disse che i morti e i feriti fossero più di 120.000, 60.000 i prigionieri (30 luglio 101)[83].

Note al Capitolo Tredicesimo.

74.  App., B. C., I, 27. La data della legge è indicata dalle parole: πεντεχαιδέχα μάλιστα ἔτεσιν ἀπὸ τῇς Γράκχον (intendi Tiberio) νομοθεσίας.

[286]

75.  Sulla guerra così detta giugurtina, C. Sallustio Crispo, un democratico del tempo di Cesare (86-31 a. C.), scrisse un’apposita monografia, De Bello iugurtino; che è un bel libro, ma assai tendenzioso.

76.  Sall., B. J., 86, 2; Plut., Mar., 2, 3, 1; Gell., N. A., 16, 10, 14.

77.  Strab., 4, 1, 13; Justin., 37, 3, 9.

78.  Cfr. J. Marquardt, De l’organisation militaire chez les Romains (trad. fr.), Paris, 1891, pp. 147 sgg.

79.  Le iscrizioni dànno Μιθραδάτης.

80.  Su questa grande figura storica ha scritto un assai bel libro Th. Reinach, Mithridate Eupator roi du Pont, Paris, 1890.

81.  Cic., De leg. agr., 2, 7, 18 sgg; Vell. Pat., 2, 12, 3.

82.  Sulla battaglia di Aquae Sextiae, cfr. M. Clerc, La bataille d’Aix; études critiques sur la campagne de Marius en Provence, Paris, 1906.

83.  Plut., Mar., 25 sgg.

[287]

CAPITOLO QUATTORDICESIMO MITRIDATE

76. La caduta del partito popolare (100). — Dopo Vercelli, il senato stesso aveva proclamato Mario «terzo fondatore di Roma», con Romolo e con Camillo. Nessuno degli uomini, i quali assistettero al trionfo, in cui tanti prigionieri, tanti re e principi barbari sfilarono in catene sotto gli occhi del popolo romano, poteva vedere al di là di tanta gloria, distante soltanto un passo, la rupe Tarpea. Eppure era così. Dileguato il pericolo, gli scrupoli costituzionali, la forza della tradizione, il senso della legalità ripresero il sopravvento. Ora che i barbari erano debellati, Mario non poteva più essere rieletto console. Ma la fortuna aveva acciecato i suoi favoriti. Inebriato dal trionfo cimbrico, il partito popolare, insieme con la candidatura di parecchi tra gli uomini più in vista — L. Apuleio Saturnino e C. Servilio Glaucia tra gli altri — ripropose per la sesta volta la candidatura del vincitore di Giugurta e dei Cimbri al consolato. L’aristocrazia accettò questa [288] volta la sfida; contrappose al vincitore dei Cimbri la candidatura dell’antico generale di Mario, Q. Cecilio Metello; impegnò la battaglia su tutta la linea, disputando non solo il consolato, ma tutte le altre magistrature.

Il partito democratico vinse ancora: Mario, Saturnino e Glaucia furono eletti, console il primo, tribuno della plebe il secondo, pretore il terzo, ma a grande stento, con pochi voti di maggioranza e con grandi violenze. L’elezione di Saturnino fu funestata da grosse turbolenze; poichè il candidato del senato fu ucciso. Ma questa vittoria fu l’ultima del partito democratico, che aveva primeggiato parecchi anni, per la gloria di Mario e per il malcontento generato dagli scandali delle guerre giugurtine e dal pericolo gallico. Le due guerre erano finite; la nobiltà, non ostante i suoi errori, fortemente insediata in senato, ricominciava a rialzar la testa. Per conservare il potere il partito popolare avrebbe dovuto imitare Caio Gracco e allettare le moltitudini con promesse vistose. Ma Mario non era l’uomo che occorreva per questi maneggi: era, a dispetto dei sei consolati, un vecchio romano impacciato da troppi scrupoli costituzionali e tradizionalisti: e non sapeva dirigere quel partito, che in fondo non era mai stato il suo. A questo ufficio era tagliato meglio Saturnino. E Saturnino infatti si mise subito all’opera, presentando una lex agraria, che assegnava le terre della Gallia Transpadana devastate dai Cimbri, i cui proprietari erano spariti nell’invasione; e una lex de coloniis deducendis, che decretava la fondazione di numerose [289] colonie nelle province, in Macedonia, in Acaia, in Sicilia, per distribuire terre ai veterani di Mario[84].

Ai veterani, fossero cittadini romani o italici. Accanto alla tradizione dei Gracchi apparisce in queste leggi qualche cosa di nuovo e che ricorda Scipione Emiliano. Anzi un certo numero dei veterani italici doveva essere onorato della cittadinanza romana; e Mario era incaricato di applicare la legge.

Le due leggi erano dunque, per quanto si può giudicare dopo tanti secoli, provvide e savie. Ma a tutte e due erano aggiunte una clausola e una legge complementare. La clausola aggiunta disponeva che i senatori e i magistrati fossero obbligati, entro cinque giorni, a giurare obbedienza alla legge, sotto pena dì ammenda e della perdita della dignità. La legge complementare era la lex de majestate. Questa rinforzava ancora più, se v’era bisogno, la potenza politica del popolo romano e dei suoi rappresentanti, dichiarando inviolabile la maestà del popolo romano e dei tribuni plebei, e minacciando gravi pene a chiunque avesse osato attentare a questa inviolabilità. La ragione della clausola e della lex de majestate, che doveva poi col tempo diventare così tristamente famosa, è chiara. Era ormai palese a tutti, per una lunga esperienza di venti anni, che al partito popolare riusciva molto più facile di far approvare delle leggi agrarie, che di farle eseguire. L’aristocrazia, fortemente insediata nel senato, nelle magistrature, nei collegi religiosi, aveva mille mezzi di insidiar queste leggi nell’applicazione, [290] quando non riusciva a respingerle nei comizi. Per impedire questa soverchieria, Saturnino aveva rinforzato con quella clausola e con la lex de majestate le due leggi, ma infondendo loro uno spirito tirannico di violenza, che esasperava la nobiltà e inquietava i cavalieri. Costoro avevano favorito negli anni precedenti il partito popolare, quando il loro eroe, Mario, ne era il capo; ma ricchi i più, non potevano gradire leggi, che miravano a conculcare le classi denarose a vantaggio delle povere. La votazione accrebbe il disagio. La lotta fu viva, la nobiltà tentò da prima l’ostruzionismo liturgico, poi l’intercessione dei tribuni; ma i veterani di Mario erano accorsi numerosi e risposero menando le mani. Il sangue corse.

Le leggi furono approvate; ma appena si volle applicarle, apparve subito come quelle loro violente disposizioni ferivano anche il partito che le aveva fatte. Quando, approvate le leggi, il senato fu invitato a giurare, Mario stesso, il capo del partito popolare, esitò, dichiarò da prima di non poterlo fare. Troppo quella clausola gli pareva tirannica! Sollecitato dal suo partito, egli poi si disdisse; e adducendo come pretesto il pericolo di una sommossa popolare, giurò e trascinò seco a giurare tutto il senato, tranne Q. Cecilio Metello, il suo antico rivale, che preferì subire le rappresaglie della legge de majestate e andare in esilio. Ma se il partito popolare era stato lì per lì salvato dalla resipiscenza di Mario, dopo questo incidente si staccò da lui. Non si poteva più inoltre riproporlo una settima volta a console. Il [291] partito popolare si presentò dunque alle elezioni per l’anno 99 senza aver nè Mario tra i suoi candidati, nè il suo appoggio dichiarato e operoso. Mancando Mario, anche i cavalieri abbandonarono il partito popolare; si intesero con la nobiltà e acconsentirono ad appoggiare, invece del candidato popolare Glaucia, il candidato dell’aristocrazia, che era il famoso oratore M. Antonio, purchè l’aristocrazia appoggiasse il candidato loro C. Memmio, il famoso tribuno degli scandali giugurtini. Anche molti dei veterani, mancando Mario, si disinteressarono delle elezioni. Ne seguì che nei comizi tributi, Saturnino, il quale si ripresentava candidato al tribunato, riuscì eletto; ma nei comizi centuriati Glaucia, abbandonato dai cavalieri, fu vinto. Riuscirono M. Antonio e C. Memmio. I popolari non si rassegnarono alla disfatta e al tradimento dei cavalieri; dei grandi tumulti incominciarono; C. Memmio fu assassinato dai partigiani di Glaucia. Ma questa volta neppure il senato e i cavalieri tollerarono in pace tanta violenza. Il senato decretò lo stato d’assedio, e incaricò i consoli, ossia lo stesso Mario, di procedere contro i rivoltosi e di ristabilire l’ordine. Mario avrebbe potuto, sotto la sua personale responsabilità, sottrarsi a quel tremendo uffizio. Ma il vincitore dei Cimbri non ebbe la forza di resistere all’opinione pubblica. Sotto i suoi ordini si schierarono il senato, i cavalieri, i tribuni della plebe, e una buona parte della popolazione urbana. Si combatterono nel Foro delle vere battaglie, nelle quali i veterani di Aquae Sextiae e di Vercelli si trucidarono; il partito [292] di Saturnino e di Glaucia, disfatto, si rifugiò e si asserragliò sul Campidoglio; e Mario lo assediò. Alla fine, come ai tempi di Tiberio e di Caio Gracco, Saturnino e Glaucia furono trucidati, e, con essi, perdette la vita gran numero dei loro seguaci (dicembre 100). Ma il Nasica e l’Opimio del nuovo macello era stato C. Mario: per tanti anni l’eroe e il vanto del partito popolare!


77. Il processo di Rutilio Rufo e la rottura tra il senato e l’ordine equestre. — La reazione fu violenta. Gli scandali della guerra di Giugurta e della guerra contro i Cimbri e i Teutoni furono dimenticati; la nobiltà storica ridivenne l’oggetto dell’ammirazione di tutti; pronto, il senato ne approfittò per ricuperare il potere; e come primo atto richiamò dall’esilio Metello. La maggior vittima di questo rivolgimento fu Mario, che, venuto in odio al partito popolare, senza aver riacquistato il favore del partito della nobiltà, non attese neanche il ritorno del suo antico rivale in Roma. Abbandonando volontariamente la vita politica, in cui non c’era più posto per lui, partì per un lungo viaggio in Oriente, sotto il pretesto di compiere un voto a un’oscura divinità di Pessinunte.

Il partito della nobiltà governava di nuovo l’impero; e, sotto il suo governo, i tempi, se non più felici, si fecero almeno più tranquilli. Il partito aristocratico aveva sul rivale il vantaggio di possedere l’organo di governo più stabile della repubblica, il senato, che in maggioranza era suo. Mentre il partito democratico non aveva potuto [293] impadronirsi, anche negli anni più felici, che delle magistrature maggiori, ed era sempre stato in balìa dei comizi, mutevoli ogni anno, il partito della nobiltà era sempre stato potentissimo per via del senato, anche negli anni in cui gli elettori dei comizi gli erano avversi. Questo divario spiega come il partito della nobiltà, anche in questi anni turbolenti, potesse governare con una prudenza e ponderazione, che fa contrasto con le agitazioni dei brevi anni di egemonia democratica. Certamente neppure i dieci anni, intercessi fra il 100 e il 91, furono esenti da difficoltà e da guerre. La Spagna, sconvolta dall’invasione cimbrica, si risolleva insieme con le popolazioni alpine di recente sottomesse; le nuove province orientali sono (ahi, troppo spesso!) devastate dalle barbare tribù limitrofe; l’Asia minore è turbata replicatamente dalle mene del Re di Bitinia, Nicomede, e del Re del Ponto, Mitridate. A dispetto della commissione inviata dal senato, questi due sovrani avevano ormai occupato la Galazia; poi, mentre Nicomede intrigava in Paflagonia, Mitridate aveva approfittato della guerra cimbrica, per rompere l’alleanza con il Re di Bitinia e impadronirsi da solo della Cappadocia. Ma per nessuna di queste difficoltà il senato sconfinò dai limiti di una politica difensiva, d’interventi militari e diplomatici. Parevano ritornati i tempi di Scipione l’Africano e di Catone. La Galazia fu nel 95 ridata ai tetrarchi, che prima la governavano; la Paflagonia, dichiarata libera; la Cappadocia, posta sotto il governo di un nobile persiano, Ariobarzane cui fu dato il titolo di Re; lo stesso Mitridate [294] fu trattato con tanto riguardo che di lì a due anni, fatta un’alleanza con Tigrane, re di Armenia, invase di nuovo la Cappadocia, scacciando Ariobarzane. Ma neppur questa provocazione strappò al senato una dichiarazione dì guerra contro il Re del Ponto. Il propretore Lucio Cornelio Silla fu mandato con un piccolo esercito a rimettere Ariobarzane sul trono; e null’altro fu fatto. Intorno allo stesso tempo il Re di Egitto, Tolomeo Apione, morì legando al popolo romano la Cirenaica, toccatagli sin dal 116. La Cirenaica era allora un paese ricco d’acqua, fertile e prospero. Ma il senato, ricusato il dono, la dichiarò indipendente.

Il partito della nobiltà cercava insomma, quanto poteva, di ristabilir l’ordine nell’impero e di governar saviamente. La dura lezione dell’ultimo quindicennio non era stata inutile. Ma non ostante la buona volontà del governo, le cose stavano in bilico per miracolo. Quel confuso processo di decomposizione e di ricomposizione, che i Romani chiamavano la corruzione dell’antico costume, e che noi avremmo definito il progresso dei tempi, non era punto cessato. La diffusione della filosofia greca, i progressi dell’istruzione e della ricchezza facevano sentire più vivamente la durezza di tanti rigori formali dell’antico diritto e l’orrore di certe superstizioni barbare ancora superstiti. L’abolizione dei sacrifici umani, di cui qualche avanzo restava ancora in Italia, stava per essere decretata; il diritto progrediva per opera dei pretori, che riconoscevano più arditamente le ragioni della equità nei loro editti. Ma nella gara [295] per la ricchezza, la cultura, il piacere, il potere gli animi inferocivano, le classi e lo Stato si dissolvevano. Più numerosi che mai erano i nobili e i ricchi che costruivano a Roma eleganti palazzi; i signori che si dilettavano di scriver libri, storie, trattati, poesie in greco o in latino; gli oratori che, come Antonio e Licinio Crasso, avevano studiato l’eloquenza nei modelli greci come un’arte. La conoscenza e il gusto dell’arte attica e asiatica si divulgavano; scultori e pittori greci ormai avevano in gran numero lavoro dai Grandi di Roma. Ma queste spese, le etère dell’Oriente, i troppi schiavi, i bagordi rovinavano molte famiglie della nobiltà, riducendole a industriarsi con ripieghi, debiti e concussioni. Molti agricoltori studiavano gli agronomi greci, si facevano prestare un capitaletto, piantavano uliveti e vigneti, s’ingegnavano di coltivare meglio; ma l’inesperienza, la mancanza di vie, le grosse usure rovinavano spesso chi faceva queste prove. Ogni anno si aprivano a Roma, nelle città latine e alleate, nuove scuole di rettorica, a cui traevano numerosi scolari e nelle quali si preparavano una lingua, uno stile e una eloquenza nazionali; ma troppi giovani avvocati non trovavano poi protettori per salire, nè clienti da difendere; troppi si davano al commercio, e se alcuni arricchivano a Delo, in Asia, in Egitto, molti fallivano. Gli spostati, i disperati, i mercanti falliti, i possidenti scacciati infestavano ogni parte d’Italia; la piccola proprietà spariva, la terra era accaparrata da pochi, l’usura prosperava; solo pochi arricchivano, tra i quali qualche avanzo delle antiche [296] nobiltà locali dell’Italia, come quel Caio Cilnio Mecenate, che, pur discendendo da una famiglia reale di Etruria, si era acconciato a venire in Roma e a farsi pubblicano, accontentandosi di prender rango nella seconda nobiltà, l’ordine dei cavalieri. In questo disordine morale e sociale, uno Stato che posava sul principio dell’elezione popolare, come la repubblica romana, non poteva sfuggire ad una specie di dissoluzione universale. Gli avventurieri, gli ambiziosi, i violenti, i furbi, gl’imbroglioni, e i corruttori invadevano i pubblici uffici, scacciandone gli uomini onesti, ai quali non rimaneva altra consolazione che gemere sconsolatamente sulle sciagure dei tempi. Massime nelle alte classi, era opinione comune che la diffusione della coltura nel medio ceto fosse un male. «Chi studia il greco diventa un birbone» si diceva quasi in proverbio. Peggio ancora, il desiderio di acquistare la cittadinanza faceva rapidi progressi nel medio ceto impoverito dell’Italia che si illudeva di potere, acquistando la cittadinanza romana, recar sollievo al proprio disagio; tra i giovani, che avevano studiato eloquenza e che eran mal contenti di dover difendere piccole cause e concorrere alle umili magistrature municipali nella loro cittaduzza; tra tutti coloro (ed eran molti), i quali desideravano i privilegi del cittadino romano.

In simile travaglio, il nuovo governo sarebbe stato debole, anche se avesse potuto far assegnamento sulla concordia dei propri partigiani. Invece il partito della nobiltà era, sì, ritornato al potere, perchè la nobiltà e l’ordine equestre, spaventati [297] dalla rivoluzione, si erano riconciliati; ma questa riconciliazione era assai precaria. Troppo forte e antico era l’odio generato tra i due ordini dalla legge giudiziaria di Caio Gracco prima, dai consolati di Mario poi, infine dal corso degli eventi. I cavalieri insuperbivano ogni dì più per le ricchezze, per le clientele, per il diritto di giudicare i senatori; si consideravano ormai pari o da più della nobiltà storica, mentre una grande parte di questa, disgustata dalla corruzione e dal disordine universale, furente per la sua povertà e per l’insolenza degli uomini novi, affettava di spregiare i cavalieri; rammaricava i tempi, in cui la nobiltà sola era potente; chiedeva leggi severe contro gli abusi dei pubblicani. C’era dunque nella nobiltà storica un forte partito antiplutocratico, e tra i cavalieri, un partito avverso alla nobiltà. Bastò infatti un incidente, in verità tristo assai, per rompere la concordia dei due ordini, sulla quale pure l’ordine sociale tutto quanto posava, e scatenare una delle rivoluzioni più terribili.

Publio Rutilio Rufo era un senatore integro e capace; un nobile di antico stampo, ligio alle tradizioni, per quanto assai colto, e perciò molto avverso alle due forze nuove che da un secolo minacciavano il potere della nobiltà e la grandezza di Roma: la plutocrazia e la demagogia. Aveva reso segnalati servizi alla repubblica; era stato console nel 105; e, nel 96, aveva governato la provincia d’Asia come legatus pro praetore, quando Muzio Scevola era tornato a Roma per presentare la sua candidatura al consolato. Aveva allora represso [298] con energia gli abusi dei pubblicani d’Italia, facendo giustizia senza riguardi e facendosi benedire dai sudditi. Ma i cavalieri, che in Asia avevano ormai tanti interessi, vollero dare un esempio che togliesse ad altri la voglia d’imitare il fastidioso legatus; e quando Rutilio fu tornato a Roma, nel 93, lo fecero accusare, lui, l’incorrotto e l’incorruttibile, di concussione; e condannare dalla quaestio, che Caio Gracco aveva composta di cavalieri.


78. Il Tribunato di Druso (91 a. C.). — Rufo partì per l’esilio; ma per quanto Sallustio l’abbia dipinta con sì foschi colori, la nobiltà di Roma non era ancora così corrotta e avvilita, da subire un simile affronto. La rottura tra i due ordini fu dichiarata. Il 92 pare sia stato un anno di fermentazione tacita. L’episodio più importante di questo anno è l’editto dei due censori, Cneo Domizio Enobarbo e Lucio Licinio Crasso, che chiudeva le scuole di retorica in Roma[85]. Ma la guerra latente tra i due ordini fu dichiarata nel 91 da Marco Livio Druso, tribuno della plebe. Era egli, molto probabilmente, figliuolo di quel Druso, che era stato il più funesto artefice della rovina di C. Gracco. Ma i tempi erano mutati; e il figlio del persecutore di Caio Gracco tentava ora di stringere un’alleanza della nobiltà e del popolo contro l’ordine equestre, al modo stesso con cui Caio Gracco aveva cercato di far l’alleanza del popolo e dei cavalieri contro la nobiltà, presentando un omnibus di leggi, una di quelle leggi per saturam, che fino allora il suo partito aveva [299] combattuto come un abuso dei popolari. Livio Druso infatti propose una lex judiciaria, che cercava di risolvere equamente e nell’interesse della giustizia il vecchio conflitto tra il senato e l’ordine equestre per i tribunali. Disponeva la legge che nel senato fossero ammessi 300 nuovi membri, tratti dall’ordine equestre; che tra i senatori, nuovi e vecchi, si sorteggiassero i giudici delle quaestiones; che si costituisse una quaestio particolare per i reati di corruzione giudiziaria. Aggiunse a questa una lex de coloniis deducendis, che fondava in Italia e in Sicilia colonie da molto tempo proposte e mai dedotte; una lex agraria della quale poco sappiamo, ma che pare fosse una rinnovazione delle leggi dei Gracchi; una lex frumentaria, che scemava il prezzo a cui il grano era venduto dallo Stato al popolo in Roma. Lo scopo di queste leggi è chiaro: comprare nei comizi con le tre ultime la maggioranza che approverebbe la prima. Tanta era l’irritazione contro i cavalieri e il desiderio di toglier loro il potere giudiziario, che una parte della nobiltà aveva messa da parte perfino l’antica avversione per le leggi frumentarie ed agrarie! Ma queste leggi eran troppo disparate e diverse, perchè non suscitassero una vigorosa opposizione; e non solo nell’ordine dei cavalieri, ma anche nella nobiltà. A molti senatori non piaceva che il senato ricevesse 300 membri nuovi. La legge delle colonie e la legge agraria spaventavano infiniti interessi. La lex frumentaria aggravava l’erario, già dissestato. Si formò dunque un’opposizione di cavalieri e senatori; incominciò nel senato, nei comizi, nelle strade una [300] battaglia accanita di discorsi, di processi, di tranelli costituzionali e liturgici, di percosse e di violenze, che durò dei mesi; e nella quale a un certo punto irruppero anche gli Italici. Questi, come ai tempi dei Gracchi, erano in grande ansietà per le nuove leggi coloniali ed agrarie annunciate, che temevano si dovessero applicare a loro spese; ed erano accorsi a Roma in grande numero, per combattere le leggi del nuovo Gracco.

È difficile giudicare se Livio Druso fosse un grande uomo di Stato o un visionario. Certo è che invece di stringere in alleanza il popolo e la nobiltà contro l’ordine equestre, egli era riuscito a dividere la nobiltà, ad invelenire di nuovo l’antico odio tra Romani ed Italici, e a scatenar una mischia furibonda di partiti e di interessi. I tempi erano tristissimi; nessuno si raccapezzava più; degli oligarchi intransigenti erano pronti ad approvare perfino una legge agraria, pur di togliere ai cavalieri il potere giudiziario; degli amici di Rutilio Rufo combattevano la lex judiciaria, che doveva vendicarlo, per paura della legge agraria. Tuttavia in mezzo a questo caos Livio Druso non poteva non essere inquieto per la crescente agitazione degli Italici. Come Caio Gracco, e per gli stessi motivi, egli fu condotto a prometter loro, come compenso, la cittadinanza. Se le leggi passavano, egli proporrebbe una legge che concederebbe a tutti la cittadinanza. Acquistato così il favore degli Italici, egli riuscì a far passare tutte insieme le sue leggi, dopo lotte asprissime e violenze; e die’ mano a mantener la sua promessa agli Italici, con una legge di cittadinanza. Ma il senato, [301] sotto pretesto di un vizio di forma, annullò le leggi già votate; e una triste sera di quel torbido autunno, nell’atrio della sua stessa casa, mentre Livio Druso congedava alcuni amici venuti a colloquio con lui, una mano ignota lo colpiva al fianco. L’assassino non fu mai scoperto[86].


79. La guerra sociale (90-88). — Morto Livio, il partito avverso e i cavalieri, che ne erano a capo, trionfarono. La proposta di concedere la cittadinanza agli Italici era così poco popolare, anche nella plebe, che i nemici di Livio poterono tramutare le sue intese con gli Italici in una cospirazione contro lo Stato e chiedere dei castighi esemplari. Il cadavere di Druso era ancora caldo, e già il tribuno Q. Vario, sostenuto accanitamente dai cavalieri, proponeva di nominare una commissione straordinaria, per inquisire contro gli alleati sediziosi e per giudicare i loro partigiani in Roma. Non era mai spiaciuto ai cittadini romani di far sentire ogni tanto ai Latini e agli Italici che i padroni erano essi; la proposta passò; i commissari non furon paghi di cercare in Roma i rei della pretesa cospirazione; si sparsero nelle varie prefetture e per le città alleate dall’Italia, alla caccia dei responsabili. Ma questa volta la misura era colma. I nemici di Livio avevano osato troppo. Invece della cittadinanza, a compenso dei danni, che le leggi agrarie infliggerebbero loro, Roma dava un tribunale straordinario e una persecuzione partigiana? L’Italia prese le armi ed insorse.

Le ragioni e lo spirito della rivolta appariscono [302] chiari a chi consideri le regioni dove arse più violenta. Quella che insorgeva era l’Italia più povera, montagnosa, del centro e del mezzogiorno, i Marsi, i Peligni, i Piceni, i Sanniti; ossia le regioni che più avevano sofferto della crisi, la quale stava mutando la faccia della penisola; le regioni, in cui le confische del suolo erano state più frequenti; le regioni meno ricche di strade, più lontane dalle città e dalle grandi vie del commercio; le regioni del latifondo e della pastorizia. Invece le città greche dell’Italia meridionale, che avevano continuato a prosperare e che Roma aveva liberate dal pericolo delle invasioni bruzzie e lucane; le città latine, prossime al mare, e le loro colonie che si erano installate in Italia, sfruttando, al pari dei Romani, le popolazioni indigene; l’Umbria, che aveva saputo mutare le sue culture; l’Etruria, che aveva saputo giovarsi della tradizione, industriale e commerciale, ereditata dalla dominazione etrusca; l’Italia celtica, dove i nuovi grandi lavori, le bonifiche, le vie militari avevano portato la ricchezza, o non si mossero o parteggiarono per Roma. La conquista della cittadinanza e della libertà era dunque il disperato sforzo della vecchia Italia, che non sapeva rassegnarsi a morire.

Il pericolo per Roma fu tremendo. Mezz’Italia era insorta, nè si sapeva quale conto fare della fedeltà della restante penisola. A ogni modo, anche se questa rimaneva fedele, i ribelli disponevano di forze all’incirca pari per numero e per qualità, perchè erano tutti nelle armi discepoli di Roma; avevano stabilito un governo comune, con [303] sede a Corfinium, nel paese dei Peligni, creato una rappresentanza delle città insorte, un senato di 500 membri[87], il quale avrebbe avuto facoltà di creare due consoli o capi militari e dodici pretori. Soli vantaggi di Roma erano le più abbondanti ricchezze, il dominio del mare e il prestigio. Sarebbero stati sufficienti? La grandezza del pericolo è provata dai preparativi di difesa. La repubblica chiese aiuto anche agli alleati fuori d’Italia[88]; arrolò schiavi e liberti; richiamò in Italia tutte le forze disponibili; e distribuì le sue milizie in due grandi zone militari: l’una al nord, tra il Piceno, gli Abruzzi e la Campania, ove mandò il console P. Rutilio Rufo; l’altra al sud, nella Campania e nel Sannio, ove si recò il collega di lui, L. Giulio Cesare. Agli ordini del primo militava, avendo chiesto egli stesso un comando qualsiasi, Caio Mario. Contro l’uno e l’altro console operavano i due maggiori generali della lega, Pompedio Silone, l’amico di Druso, e Papio Mutilo.

Il primo anno di guerra — il 90 a. C. — non fu troppo felice per i Romani, che qui vinsero e là furono vinti e che perdettero in battaglia il console Rutilio. L’incerto andamento della guerra era un primo trionfo per gli insorti. Difatti già nel corso del 90 Etruschi ed Umbri incominciarono a tentennare; proprio mentre nuovi pericoli minacciavano in Oriente. Mitridate, che da un pezzo preparava la guerra contro Roma per cacciarla dall’Asia, aveva approfittato della rivolta dell’Italia per rovesciar dal suo trono il Re di Bitinia, sostituendogli un fratellastro di questo, minore [304] di età e per riconquistare, d’accordo con Ariobarzane, la Cappadocia. La prudenza consigliava dunque di debellare la rivolta, non con le armi sole, ma con concessioni. D’altra parte il pericolo aveva fatto rinsavire l’opinione pubblica, la quale incominciava a imprecare contro l’ordine equestre e la sua folle politica. Nelle elezioni per l’89, il partito del tribuno Vario, l’autore della persecuzione contro gl’Italici, era sconfitto; e poco dopo il console L. Giulio Cesare proponeva e faceva approvare senza difficoltà una legge, che accordava la cittadinanza agli alleati italici rimasti fedeli. Anche allora la paura aveva potuto più che la giustizia e la ragione! Ma la lex Julia circoscriveva il pericolo, non lo toglieva di mezzo: l’Italia centrale e la meridionale erano ancora in armi. Fatto senza inciampi il primo passo, Roma non tardò a prendere risolutamente la via delle concessioni. I tribuni dell’89, M. Plauzio Silvano e C. Papirio Carbone, proposero una nuova legge (lex Plautia-Papiria), la quale accordava la cittadinanza romana, non solo a tutte le città che avessero deposto subito le armi, ma a tutti gl’Italici al di qua del Po, che l’avessero chiesta entro il termine di due mesi. Anche questa legge fu approvata senza difficoltà: non solo, ma il tribuno Vario, il persecutore degli Italici, fu cacciato in esilio come reo di lesa maestà; e l’odio popolare ben presto si volse addirittura contro il potentissimo ordine dei cavalieri. Plauzio Silvano fece, dopo quella sulla cittadinanza, votare dai comizi tributi una nuova legge giudiziaria che ritoglieva i tribunali ai cavalieri, [305] e faceva eleggere i nuovi giudici dalle tribù in numero di 15 per ciascuna, senza riguardo all’ordine sociale, cui gli eletti appartenessero[89]. Forse in questo stesso tempo il console Gneo Pompeo Strabone fece approvare la legge, che concedeva alle città della Gallia Cisalpina i diritti delle colonie latine, per sottoporle alla leva e compensare le perdite nel reclutamento, di cui era cagione la rivolta degli alleati.


80. La rottura tra Roma e Mitridate; la perdita della provincia d’Asia (88). — L’insurrezione italica aveva dunque vinto, anche se la fortuna delle armi era stata indecisa. L’effetto delle concessioni fu pronto. Non che tutta l’Italia deponesse le armi: nel Piceno, Ascoli resistè ostinata, e il console Gneo Pompeo Strabone dovette assediarla e prenderla con la forza; la Campania, il Sannio, l’Apulia combatterono ancora.... Ma molti degli Italici deposero le armi; Umbri ed Etruschi non si unirono alla lega; e insomma tutta l’Italia centrale e meridionale era ricondotta all’obbedienza, sul finire dell’89. Solo l’estremo Sannio non cedeva.

Ma l’Italia incominciava appena a riaversi da questo spavento, che un’altra calamità la sopraffece. Abbiamo visto che nel 90, essendo morto il Re di Bitinia, Mitridate aveva spodestato il legittimo successore, Nicomede III, e gli aveva sostituito un fratellastro di lui. Nel tempo stesso, d’accordo con Tigrane, Re d’Armenia, aveva riconquistato la Cappadocia, donde Roma lo aveva cacciato nel 92, e aveva posto sul trono uno dei suoi [306] figliuoli. Ma il senato non si era lasciato intimidire: aveva mandato Manio Aquilio a capo di un’ambasceria per restituire i due Re espulsi sul trono; e Mitridate aveva ceduto, sia che non considerasse i suoi preparativi come ancora bastevoli, sia che la risolutezza di Roma lo avesse spaventato. Le cose d’Asia erano dunque state ricomposte con poca fatica; il che era, in quei tempi pieni di difficoltà, gran fortuna per Roma. Quando ad un tratto, un piccolo intrigo di pubblicani e di senatori le precipitò di nuovo a rovina. Manio Aquilio (almeno se vogliamo credere agli scrittori antichi) non era stato per nulla contento della arrendevolezza di Mitridate, perchè era venuto in Asia per fare al Ponto una guerra lucrosa. D’altra parte il Re di Bitinia, durante l’esilio, aveva contratto grossi debiti coi pubblicani di Efeso, che volevano essere rimborsati. Aquilio fece capire al Re di Bitinia che gli permetterebbe di procurarsi la somma necessaria con una razzia nel Ponto; e alla fine Nicomede, tormentato dai suoi creditori, invase, complice silenzioso e passivo il legato romano, i dominî del suo potente vicino, attizzando il grande incendio.

Con molta abilità Mitridate aveva da prima protestato e chiesto riparazione. Intanto era venuta la fine dell’89; l’Italia era in fiamme, l’Oriente disarmato; tre o quattrocento navi da guerra attendevano armate nei porti del Mar Nero, pronte ad accorrere al primo richiamo del Re del Ponto; dai paesi più barbari dell’Oriente, erano venuti gran numero di mercenari, fanti e cavalieri, armeni, cappadoci, paflagoni, sciti, sarmati, [307] traci, bastarni, celti, e, quel ch’era peggio, anche greci. Grandi riserve di cereali erano depositate nella Tauride. Trattati e intese erano stati conclusi con tutti i maggiori potentati dell’Oriente, con i barbari della Tracia e della Macedonia. La Grecia e l’Asia ellenizzata, stanche del cupido dominio romano, non attendevano che un liberatore. Non c’era dunque più tempo da esitare. All’insolente e inconsiderata intimazione, con cui il legato romano aveva replicato alle sue legittime proteste, Mitridate rispose, nella primavera dell’88, dichiarando la guerra, riconquistando la Cappadocia, sconfiggendo le truppe romane in Bitinia, scacciando Nicomede III, catturando la flotta romana, e invadendo la provincia di Asia.

Colpo più mortale non poteva percuotere Roma. Mentre la guerra sociale aveva rovinato tanta parte dell’Italia, l’invasione dell’Asia privava ora l’erario pubblico della più fruttifera fra le province romane, e Roma e l’Italia del frutto dei capitali collocati in Oriente. La crisi che scoppiò a Roma fu terribile: i pubblicani, impotenti a mantenere i loro impegni con lo Stato; l’erario vuoto; il denaro scarso, e i prestiti difficili e quasi impossibili, chè anzi i capitalisti, atterriti, si sforzavano di ricuperare i loro crediti; gl’interessi, spensieratamente tollerati in tempi di rapido guadagno, risentiti ora come usure impossibili; tutte le vecchie ed obliate leggi sui debiti, richiamate in vigore dalle parti in contesa; il tribunale del pretore, pieno di lagni, di proteste, di minacce. E tutto questo, mentre la questione italica si riaccendeva nella capitale. Il senato, [308] sotto lo specioso pretesto di impedire che la potenza e il numero dei nuovi cittadini ferisse troppo gravemente la sacrosanta autorità dei cittadini originari, propendeva a stabilire che i nuovi cittadini fossero inscritti non in tutte le 35 tribù, ma relegati solo o in otto fra esse o in dieci nuove tribù[90], estranee alla vecchia costituzione. Questi propositi irritavano gli Italici accorsi a Roma; onde la città era piena di agitazioni e di violenze. In quest’atmosfera di fuoco giunsero presto nuove e più terribili notizie dall’Oriente. Nella provincia d’Asia, ormai quasi tutta in potere di Mitridate, circa 100.000 Italici[91], uomini, donne, fanciulli, erano stati sgozzati, annegati, bruciati vivi in un giorno stabilito, dal popolo furibondo delle piccole e grandi città asiatiche; i loro schiavi, liberati; i loro beni, distribuiti tra il fisco regio e le città indebitate. Mitridate aveva preparato questa strage. Nè basta: da Pergamo, dove aveva posto la sua capitale, egli si volgeva ora alla Grecia, dove i vinti di Scarfea e di Leucopetra, i superstiti di Corinto, i patriotti esaltati, i democratici offesi dalle inframettenze del governo romano, i mercanti indigeni, rovinati dalla concorrenza degli Italici, la plebe disoccupata e tumultuante incominciavano a sperare in lui l’atteso liberatore. Che più? Spingendo anche al di là della Grecia i suoi disegni e le sue speranze, Mitridate tendeva la mano agl’Italici. Sanniti e Lucani, ancora in armi, mandavano ambascerie a Mitridate, proponendogli alleanza; il Re del Ponto rispondeva, promettendo la sua discesa nella penisola, tal quale come Annibale. E [309] molti Italici accorrevano ad ingrossare l’esercito di Mitridate.


81. La lotta tra Mario e Silla per il comando della guerra contro Mitridate (88-87). — Mai forse il senato romano aveva avuto un compito più terribile. Tuttavia non esitò. La provincia d’Asia era parte così preziosa dell’impero che, non ostante l’incerta condizione dell’Italia, il senato deliberò di mandare uno dei consoli con un forte esercito in Asia, e per far denaro ordinò che fosse venduta la mano-morta romana, i beni che i templi possedevano in Roma. La sorte designò fra i due consoli L. Cornelio Silla, il legato di Mario del 106, il valoroso ufficiale che aveva nel 103 militato contro i Cimbri, e che si era molto distinto nella guerra sociale. Silla non era nuovo alle cose d’Asia, perchè, nel 102, come pretore, aveva restituito la Cappadocia al candidato romano, Ariobarzane, condotto per la prima volta le legioni a dissetarsi nelle acque dell’Eufrate, e ricevuto, assiso sopra un trono solenne, la prima ambasceria mandata dal Re dei Parti ai Romani. La sorte era dunque stata giudiziosa; e tanto più avrebbe dovuto Roma compiacersene, perchè le cose ormai precipitavano rovinosamente in Oriente. Nella primavera dell’88 Mitridate aveva spedito un esercito, al comando di un suo figlio, in Macedonia e una flotta nell’Egeo al comando di Archelao: della Grecia una parte erasi sollevata e in questa anche Atene, sino allora la più fedele amica di Roma in Grecia; le altre città erano state facilmente conquistate dall’esercito di Mitridate, senza che [310] il governatore della Macedonia potesse soccorrerle, perchè Traci e Galli, a quanto pare alzati dal Re del Ponto, avevano invaso la provincia; anche Delo era stata presa da Archelao e i mercanti italici trucidati. Insomma tutto l’impero orientale — così la parte europea come la parte asiatica — vacillava; l’ellenismo tentava un supremo sforzo per ricacciare Roma in Italia, con il braccio di un sovrano semibarbaro dell’interno dell’Asia, che brandiva una spada ben temprata.

E invece, proprio in questo momento supremo, in faccia a Mitridate vittorioso, quando mezzo l’impero era invaso e in potere del nemico, scoppiò in Italia una guerra civile. Ai cavalieri non piaceva che Silla fosse stato incaricato di riconquistare l’Asia. Il fatto è certo, sebbene le ragioni si possano solo congetturare. Era chiaro che il console, incaricato di riconquistare la perduta provincia, ne sarebbe stato per parecchi anni arbitro e signore assoluto, e avrebbe in quella potuto fare e disfare a suo piacimento. Ora da parecchi anni, dal processo di Rufo in poi, tra ordine senatorio e ordine equestre c’era un odio, che l’agitazione di Livio Druso e la guerra sociale avevano inferocito. Non pochi senatori detestavano i cavalieri assai più che i demagoghi, e avrebbero fatta alleanza anche con questi pur di rovinare e toglier di mezzo quelli.... Non era dunque affare di poco momento, per i cavalieri, che la loro prediletta provincia non cascasse nelle mani di un nuovo Rutilio Rufo. Silla non aveva, sino ad allora, parteggiato a viso aperto nè per gli uni nè per gli altri; si era tenuto in disparte [311] dalle lotte politiche, occupandosi di amministrazione e di guerra. Ma sia che, per le sue origini, fosse considerato dai cavalieri come un nemico, sia che tale fosse davvero già fin d’allora, fatto sta che i cavalieri non lo volevano al comando della guerra d’Oriente. D’altra parte c’era allora in Roma un uomo, un grande generale, nel quale l’ordine equestre, da cui era uscito, aveva sempre avuto fiducia, e che si rodeva di esser condannato all’inerzia: Mario. I tempi infine erano quanto mai turbati e torbidi: i cavalieri smaniavano di ricuperare il potere giudiziario; tra gli Italici fermentava un nuovo malcontento, per i maneggi del senato che cercava di ritoglier loro con accorti espedienti una parte di quanto avevano concesso le leggi dell’89 e dell’88; la crisi finanziaria empiva di disperazione e di furore gli animi. Un pretore era stato ucciso, nel tribunale, dagli usurai, perchè applicava con troppo rigore le leggi contro l’usura.

Da questo atroce e spietato ribollir di interessi, di ambizioni, di cupidige nacque un vasto intrigo politico, a cui tennero mano i cavalieri, Mario, gli Italici, una parte della fazione democratica; e il cui scopo era di ridare all’ordine equestre parte dell’antico potere e di togliere il comando della guerra d’Asia a Silla, che frattanto raccoglieva un esercito a Nola. L’uomo che doveva porre ad effetto questo piano era un nobile, P. Sulpicio Rufo, che la tradizione conservatrice dipingerà, al solito, come corrotto, indebitato, ambizioso. Era costui, nell’88, tribuno della plebe; e come tale presentò tre leggi, che dovevano [312] procurare al partito appoggi e aiuti bastevoli per ottenere che fosse poi approvata la legge, con cui il comando della guerra d’Asia sarebbe trasferito da Silla a Mario. Una prima legge dava ragione agli Italici e ai liberti, disponendo che gli Italici fossero distribuiti in tutte le 35 tribù, e reintegrando nelle medesime tutti i liberti, dove non erano più sin dal 115, ossia dal consolato di Emilio Scauro. La seconda richiamava i cavalieri banditi insieme con Vario nell’89. La terza proponeva una riforma del senato, escludendo tutti i componenti indebitati per 2000 dracme. Silla, che stava allora organizzando presso Nola il suo esercito, si affrettò a tornare a Roma, per opporsi con il suo collega Q. Pompeo Rufo a queste leggi, alla prima soprattutto, che a molti pareva minacciare lo Stato di un sovvertimento totale. E una volta ancora la questione della cittadinanza minacciò di sconvolgere ogni cosa.... Silla e Pompeo commisero un errore: temendo di non riuscire a far rigettare dai comizi la legge, tentarono l’ostruzionismo liturgico, indissero delle feriae imperativae in tutti i giorni, in cui si potevano tenere i comizi, così da rendere questi impossibili. Non è dubbio che l’atto dei consoli era considerato in sè, strettamente legale: ma l’intenzione era manifesta; e tutti gli interessi, che a Sulpicio mettevano capo, non si lasciarono così facilmente disarmare da questo ingegnoso espediente. Sulpicio, in eloquenti discorsi, denunciò per illegali quelle ferie; raccolse una guardia di 600 cavalieri; armò torme di partigiani, con le quali un bel giorno invase il Foro, intimando ai [313] consoli di disdire le ferie e di convocare i comizi. I consoli tentarono di resistere, ma quelli diedero di piglio alle armi. Spaventato, Pompeo fuggì; anche Silla allora abbandonò il campo e si ritirò a Nola presso il suo esercito.

La vecchia repubblica oligarchica crollava sulle sue fondamenta. Esautorati i due consoli dalla loro opposizione sterile e cavillosa, assente uno e sparito l’altro, Sulpicio e la sua fazione restarono padroni dello Stato. Fecero approvare prima le leggi proposte; e poi, cogliendo subito quel momento in cui i comizi erano pieni di Italici e il partito oligarchico avvilito dalla disfatta, proposero e fecero approvare dai comizi tributi la legge sul comando della guerra d’Asia. Appena la legge fu approvata, Sulpicio mandò due tribuni a Nola ad intimare a Silla di consegnare le legioni a Mario. Il piano della coalizione strettasi intorno a Sulpicio poteva dirsi riuscito a pieno.

E sarebbe riuscito del tutto, forse, se l’esercito fosse stato quello di un tempo. Ma Mario l’aveva riformato. Quelle, a cui Silla comandava, erano milizie reclutate secondo la riforma mariana del 107, tra le classi più povere della popolazione. La maggior parte, anzi, erano veterani delle guerre cimbriche e sociali, soldati di mestiere quasi tutti, che ora tornavano ad accingersi ad una nuova gesta e a correre una nuova avventura. Silla li conosceva, uno ad uno, aveva fatto loro promesse così grandi quanto ferrea era la disciplina, ch’egli esigeva da loro in faccia al nemico, sul campo di battaglia. Essi sognavano già i tesori, che avrebbero strappati al barbaro [314] Re del Ponto e che si sarebbero spartiti dopo la vittoria; essi amavano già quel loro duce, valoroso, energico, eloquente, generoso e che aveva fatto le sue prove. Che cosa voleva dire, per questi soldati, la legge approvata a Roma, se non che le ricchezze vagheggiate sarebbero andate nelle mani di altri uomini e di altri soldati? Inoltre, se i due tribuni venivano a chiedere a Silla di deporre il comando in nome di una legge del popolo, Silla era il console, e aveva ricevuto il comando dalla sorte, secondo le leggi. Il caso legale era dubbio, come spesso succede in tempo di rivoluzione; e tanto più dubbio doveva parere a soldati, che avevano interesse a dubitare. Silla, che temeva per sè le rappresaglie del partito vittorioso, osò parlare a questi soldati; chieder loro di difendere la prima legalità contro la seconda.... I soldati ascoltarono; i due tribuni mandati come ambasciatori furono fatti a pezzi; e Silla con le sue legioni marciò su Roma.

Per la prima volta apparivano le conseguenze politiche della riforma militare compiuta da Mario, per cui le classi medie e agiate avevano acconsentito a disarmare, abbandonando la milizia alle classi povere. L’esercito diventava un’arma mercenaria nelle mani delle fazioni. Questa volta serviva, grazie alla risolutezza di Silla, al senato, alla vecchia aristocrazia conservatrice, in guerra con i cavalieri, con il partito popolare e con gli Italici; ma non sarebbe sempre così! Entrare in Roma, con le legioni, era però una audacia quasi sacrilega, di cui nessuno avrebbe mai creduto, sin allora, capace un console. Il che spiega come essa riuscisse facilmente al primo che l’osò, [315] tra lo sbigottimento generale. Un breve ma sanguinoso combattimento per le vie bastò a purgare la capitale del partito, che poche settimane prima pareva arbitro dello Stato. Tutto il partito della vecchia aristocrazia, tranne pochi, che la religione della legalità trattenne, si raccolse intorno a Silla e al suo esercito; tentò quello che noi chiameremmo una reazione. Il senato, radunato dai consoli, annullò le leggi Sulpicie come illegali, perchè votate in giorni festivi; e dichiarò nemici pubblici (hostes publici) dodici maggiorenti del partito democratico, tra cui Rufo e Mario: quindi i consoli proposero diverse leggi, come la lex Cornelia Pompeia unciaria e la lex Cornelia Pompeia de sponsu, che cercavano di venire in aiuto ai debitori: il che oltre a sollevare un po’ i tempi dalla grave crisi finanziaria che li opprimeva, era fors’anco un colpo vibrato all’ordine dei cavalieri, nel quale figuravano i creditori. Le leggi furono approvate; Rufo fu assassinato; Mario riuscì a scampare in Africa: ma quando le nuove elezioni consolari si fecero, il partito di Silla subì un grave scacco. Parecchi tribuni e pretori, e addirittura uno dei consoli — L. Cornelio Cinna — erano ardenti democratici. Se era riuscito di sorpresa, Silla aveva però osato un’audacia quasi incredibile, una violenza che impauriva gli uni, sdegnava gli altri, turbava in moltissimi quella quasi superstiziosa venerazione della legalità, che era così forte in tutti i Romani. Le elezioni ammonivano i vincitori a non abusar troppo di una fortunata violenza, chè già la reazione alla reazione incominciava. A questo primo segno se ne aggiunse un altro: il senato, [316] per dare un esercito anche all’altro console Q. Pompeo Rufo, gli aveva prorogato l’imperium e assegnato le legioni che il proconsole Gneo Pompeo Strabone comandava nella Gallia Cisalpina. Ma i soldati avevano assassinato il nuovo generale: per qual ragione, se di propria iniziativa o per istigazione altrui, non si potè mai sapere. Silla capì che il partito vinto poteva rifarsi presto; fece giurare ai nuovi consoli che rispetterebbero le leggi esistenti; e ritornò al suo esercito. Appena il tempo lo consentì, nella primavera dell’87, con sole 5 legioni, alcune coorti ausiliarie non intere e qualche squadrone di cavalleria, in tutto appena 30.000 uomini e poca flotta da guerra, salpò dall’Italia, andando incontro a un nemico parecchie volte più numeroso, che già aveva invaso quasi tutta la Grecia.

Note al Capitolo Quattordicesimo.

84.  Per questo due leggi, cfr. App., B. C., I, 29.

85.  Cfr. Svet., De clar. rhet., I.

86.  Su Livio Druso si può consultare, C. Lanzani, Ricerche sul tribunato di M. Livio Druso il giovane, in Riv. di filologia classica, 1912, pp. 272-92.

87.  Cfr. C. I. L., I, 203.

88.  Sulla guerra sociale, cfr. App., B. C., I, 39-53; Diod., 37, 2, 4-14.

89.  Ascon., In Corn., p. 71, ed. Orelli.

90.  Sulle due tradizioni, cfr. Vell. Pat., 2, 20; App., B. C., I, 49.

91.  App. (Mithr., 22-23) dice 80.000; Plut. (Sylla, 24) 150.000. Sull’immigrazione italica in Asia, cfr. la descrizione di Cic., De lege Manilia, 7, 17 sgg.

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CAPITOLO QUINDICESIMO LA PRIMA GUERRA CIVILE

82. La guerra mitridatica e la rivoluzione in Roma e in Italia (87-86). — Mentre questi gravi eventi si svolgevano in Roma, Mitridate, forse per tenere d’occhio in tutta la Grecia il partito avverso, aveva spezzettato l’esercito in numerose guarnigioni. Ma quando Silla invase la Grecia, i generali Archelao ed Aristione raccolsero tutte le sparse guarnigioni in Atene, ove si rinchiusero per dar tempo ad un secondo esercito mitridatico d’invadere la Grecia, e di pigliare il nemico alle spalle. In Atene, infatti, essi contavano di mantenersi indefinitamente, come in una città aperta, non disponendo Silla di una armata, che potesse affrontare l’asiatica. Era anzi possibile agli assediati bloccare con le navi l’assediante, tagliandone le comunicazioni con l’Italia.

Il piano dei generali pontici era abile; e trovò un alleato prezioso in Roma stessa, nel partito che Silla aveva umiliato. Appena lui partito, il console Cinna aveva riproposto le leggi Sulpicie, anche quella che distribuiva gli Italici nelle 35 tribù. E di nuovo la terribile questione aveva [318] messo a ferro e fuoco la repubblica. L’altro console, Gneo Ottavio, si era opposto; dei tribuni avevano interposto il veto; l’una e l’altra parte avevano armato bande. Cinna aveva avuto, lì per lì, la peggio ed era stato costretto a fuggire, inseguito da un decreto del senato che lo deponeva, sostituiva, e dichiarava hostis publicus. Ma Cinna aveva ritrovato fuori di Roma quell’esercito, che per due volte era mancato ai democratici. Recatosi a Capua, dove era l’esercito che sorvegliava la Campania appena domata, e nel quale militavano molti Italici, si era presentato come il console, illegalmente deposto dal senato e dal partito degli oligarchi; era riuscito ad ottenere il giuramento di fedeltà e aveva incominciato a reclutare soldati tra gli Italici. Intanto Mario ritornava in Italia; e con l’esercito di Capua accresciuto dalle nuove reclute, Mario e Cinna avevano marciato su Roma. Il senato aveva chiamato a difendere Roma Gneo Pompeo Strabone e Q. Cecilio Metello Pio con i loro eserciti, il primo dalla Gallia Subalpina, il secondo dal Sannio; e sotto le mura di Roma i due eserciti avevano impegnato una battaglia lunga, accanita, confusa, interrotta ogni tanto da trattative. Alla fine Mario e Cinna erano riusciti a forzar la città; e avevano restituito al partito oligarchico il colpo che questi aveva inferto al partito popolare nell’88. Le leggi Sulpicie erano state approvate; moltissimi senatori erano stati trucidati e i loro beni confiscati; Silla era stato dichiarato nemico pubblico e destituito; il suo patrimonio, confiscato; la sua consorte, costretta a riparare in Grecia nel campo [319] del marito; Cinna e Mario, proclamati consoli per l’anno 86.

Il piccolo esercito, che doveva riconquistare la provincia d’Asia, era dunque abbandonato da Roma al suo destino sotto le mura di Atene. Se l’esercito che Mitridate preparava in Asia giungeva prima che Atene capitolasse, Silla e il suo esercito erano perduti. Nessun aiuto o soccorso potevano aspettare da Roma. Ma Silla non si perdè d’animo. Qualunque giudizio si voglia dare di questa strana figura, nessuno storico negherà che fosse un uomo ed un capo. Non conobbe scrupolo, riposo o paura nel pericolo. Per fabbricare macchine da guerra, fece atterrare a colpi di scure i boschetti del Lycaeum e i platani secolari dell’Accademia, all’ombra dei quali aveva filosofato Platone. Per pagare e mantenere i soldati, dissanguò la Grecia, saccheggiò i templi più venerati, convertì in monete d’oro e d’argento i tripodi, i vasi, i gioielli, le opere d’arte, offerte agli Dei da tante generazioni. Per disputare ai nemici il mare inviò un suo giovane ufficiale, L. Licinio Lucullo, a procurarsi una flotta tra gli Stati amici del Mediterraneo, sfidando la crociera delle navi mitridatiche. Per finire l’assedio, studiò tutte le malizie di guerra. Per mantenere animosi i soldati partecipò a tutte le loro fatiche, accorse in tutte le mischie, condusse in persona le colonne d’attacco, e profuse in mezzo ad essi, a piene mani, l’oro preso nei santuari degli Dei.

Ma Atene resistè tutta l’estate dell’87, resistè tutto l’autunno, aspettando i soccorsi. Per fortuna l’esercito che Mitridate mandava in Grecia, [320] impedito dalla difficoltà degli approvvigionamenti, mal comandato, camminava lento. Caio Senzio Saturnino, governatore della Macedonia, potè con poche forze trattenerlo, farlo cogliere dall’inverno e costringerlo a svernare in Macedonia. Ma intanto, sospeso questo, un pericolo maggiore sorse alle spalle di Silla, dall’Italia. Mario era morto al principio dell’86. Il console Lucio Valerio Flacco, nominato in luogo di Mario, aveva proposta una legge, che condonava tutti i debiti per tre parti su quattro; ed era stato incaricato di recarsi con 12000 uomini a togliere il comando a Silla. Silla sarebbe stato, alla primavera, preso tra l’esercito romano e quello di Mitridate, se non prendeva Atene prima che Mitridate o Flacco giungesse. Tutto l’inverno si preparò infaticabile; e il 1º marzo, raccolte tutte le sue forze, diede un disperato assalto; prese la città prima e poi il Pireo, e costrinse Archelao a imbarcare l’esercito e a salpare. Silla era così sfuggito alla sicura rovina che lo minacciava; ma versava ancora in pericolo mortale, dovendo combattere le forze di Archelao che, quasi intatte, avevano raggiunto per mare, alle Termopili, il secondo esercito di Mitridate, in cammino dalla Grecia settentrionale, e quello del console Valerio Flacco, che giungeva dall’Italia. L’avvicinarsi dell’esercito democratico impose a Silla una decisione disperata: attaccare ad ogni costo e subito Mitridate, con la risolutezza consueta. Silla andò incontro all’esercito di Mitridate e gli diede battaglia presso Cheronea, in Beozia, riportando su Archelao, che ne aveva preso il comando, una grande vittoria (86)[92].

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Cheronea era la prima grande vittoria delle armi romane su Mitridate; e incominciò a sollevare le cadenti fortune di Roma in tutto l’Oriente. Da qualche tempo le classi ricche dell’Asia, sopraffatte al tempo della prima invasione, si riavevano, e intrigavano a favore di Roma, approfittando della mobilità delle plebi e del malcontento, di cui eran cagione le continue leve fatte da Mitridate. Alla fine dell’87 Efeso, l’opulento emporio, era già insorta contro Mitridate in favore di Roma. La vittoria di Cheronea infuse nuovo coraggio in tutta l’Asia al partito romanofilo, che a poco a poco risollevava il capo. Nel tempo stesso — e non fu minore fortuna — rese possibile una specie di tacita pace tra Silla e il partito democratico[93]. Così almeno pare si possa congetturare, per spiegare in modo soddisfacente uno dei punti più oscuri di questa tenebrosissima guerra. Par che Flacco fosse un uomo assennato; e che, sbarcato in Epiro, capisse quel che del resto era chiaro per se stesso: essere una pazzia lanciare due eserciti romani l’uno contro l’altro, quando Mitridate si preparava a mandare in Grecia un nuovo esercito per vendicare Cheronea. Silla, a sua volta, sapeva troppo bene che Mitridate era già da solo un nemico temibilissimo. Nè è temerario il supporre che i due eserciti romani, anzichè avventarsi l’uno contro l’altro, preferissero essere condotti insieme al saccheggio della Grecia e dell’Asia. Sembra dunque che, non osando Flacco, per la proscrizione che aveva colpito Silla, unir il suo all’altro esercito, i due generali siano venuti ad un accordo segreto. Flacco che, essendo console, poteva chiedere ai [322] Bizantini la flotta, tenterebbe di invadere l’Asia; Silla aspetterebbe in Grecia Dorilao, che si avvicinava, dopo aver imbarcato nell’Eubea lo scampo dì Cheronea: diecimila nomini. Questo savio accordo fece dell’86 un anno felice per le armi romane. Silla attaccò e distrusse l’esercito di Dorilao a Orcomeno, e poi si ritirò in Tessaglia ai quartieri d’inverno; Flacco invase la Macedonia, respinse in Asia gli ultimi resti dell’esercito pontico, passò il Bosforo sulle navi dei Bizantini. Alla fine dell’86 Mitridate aveva perduto la Grecia e le altre conquiste in Europa.


83. Il trattato di Dardano (85). — Se il partito democratico fosse stato disposto a seguire in Italia il saggio esempio che Flacco gli aveva dato in Asia e a revocare la proscrizione di Silla, forse la guerra d’Oriente sarebbe finita presto e bene per Roma. Ma il partito della vecchia nobiltà pareva ormai distrutto: uccisi gli uni, fuggiti gli altri, impotenti per la paura i pochi rimasti. Il partito popolare era dunque arbitro e padrone della repubblica: delle cariche, dei comandi, dell’erario, degli eserciti, delle province. Poteva esso darsi pensiero di questo ultimo capo del partito vinto, che ancora si trovava in Grecia alla testa d’un piccolo esercito? Nessuno sognava allora che questo terribile uomo potesse trovare la via di tornare in Italia, e con tutto il suo esercito. La politica di Flacco era così poco gradita al suo partito, che l’accordo era stato tenuto segreto: anzi, durante l’inverno dall’86 all’85 uno dei suoi legati, un certo Fimbria, un violento democratico, [323] riuscì a sobillare il soldati, a far uccidere Flacco e a farsi riconoscere generale. L’accordo conchiuso con Flacco era distrutto e Silla si ritrovò nel pericolo di prima, anzi peggio. Non poteva attaccar Fimbria, avendo sopra un fianco la minaccia di Mitridate; non poteva attaccar Mitridate avendo sull’altro fianco la minaccia di Fimbria; non poteva attaccar Fimbria e Mitridate insieme.

Che fare? Un’altra volta ancora Silla prese un partito arditissimo, che doveva decidere non solo del suo destino, ma essere il principio di molti e gravissimi eventi nella storia di Roma. Non potendo combattere insieme Fimbria e Mitridate, non potendo intendersi con Fimbria, cercò d’intendersi con Mitridate. Par che Silla riuscisse a corrompere Archelao, a farsi consegnare la flotta e a persuaderlo a proporre la pace a Mitridate a queste condizioni: si ritornerebbe allo statu quo dell’anno 89; Mitridate conserverebbe l’antico regno del Ponto, riceverebbe il titolo di amico e di alleato del popolo romano, pagherebbe una indennità di 2000 talenti; consegnerebbe un certo numeri di navi da guerra. A sua volta Silla largirebbe una amnistia alle città ribelli dell’Asia. Concedere tali condizioni a un sovrano che aveva mosso a Roma tanta guerra e trucidato persino migliaia e migliaia di cittadini romani, era poco meno che un alto tradimento, come si direbbe adesso, alla stregua delle tradizioni politiche della repubblica. Avevano fatto molto meno di ciò che Mitridate si era permesso, Antioco III, che aveva perduto metà del regno; Perseo, che era stato condotto [324] a Roma in catene; e Cartagine, che era stata rasa dalle fondamenta. Ma Silla non esitò per salvarsi a far buon mercato della majestas del popolo romano, come, nell’88, del principio che Roma non potesse esser violata da forza armata. A sua volta Mitridate aveva bisogno di pace: la sua autorità vacillava in Oriente; l’Asia Minore gli sfuggiva; Fimbria invadeva, nella primavera dell’85, l’Asia e s’impadroniva di Pergamo; Lucullo, che era riuscito finalmente a raccogliere una flotta potente, compariva sulle coste dell’Asia, incitando le città alla rivolta. Conoscendo le difficoltà in cui Silla si dibatteva, Mitridate cercò ancora di mercanteggiare; e minacciò perfino di allearsi con Fimbria.... Ma alla fine accettava la pace così vantaggiosa; e questa era sottoscritta a Dardano, nella Troade, in seguito a un colloquio tra il proconsole romano e il monarca del Ponto (85)[94].


84. Silla in Asia e in Grecia (85-83). — Fimbria era finalmente isolato. Silla subito gli si volse contro, e lo circondò col suo esercito, presso Tiatira, in Lidia. Una buona parte dei soldati e degli ufficiali, i più devoti a Flacco, defezionarono spontaneamente; gli altri furono o persuasi dalla corruzione o costretti dalla violenza; Fimbria stesso, piuttosto che sopravvivere allo sfacelo dell’esercito, preferì uccidersi. Silla restava così padrone dell’Asia riconquistata, a capo di un esercito e di una flotta potente, e con il tesoro ricolmo dalla indennità di Mitridate.

Era giusto, del resto: chè Silla e non altri [325] aveva riconquistato le perdute province di Oriente, vincendo le battaglie di Cheronea e di Orcomeno. Ma questa gloria era offuscata da una macchia: il trattato di Dardano. Silla non l’ignorava; tanto è vero che, fatta la pace con Mitridate, non ebbe più che un pensiero: riconciliarsi con il partito che governava in Italia e ottenere l’approvazione di tutto quanto aveva fatto in Oriente. Presso lui avevano cercato rifugio molti esuli e proscritti, i quali pretendevano di rappresentare al suo fianco una specie di Consiglio senatorio, e lo sollecitavano a ripigliar subito la via dell’Italia allo scopo di perpetrarvi le bramate vendette. Egli invece preferì rimanere in Asia ed in Grecia e passar quel che rimaneva dell’anno 85, tutto l’84, e parte dell’83, a trattare con il governo di Roma, al quale, da Efeso, appena morto Fimbria, ostentando quasi di ignorare la sua qualità di hostis reipublicae, aveva spedito un’elaborata relazione dell’opera compiuta in Oriente. Nè chiedeva cose indiscrete: l’approvazione di quel che aveva fatto in Oriente e il rimpatrio di tutti i proscritti che si erano rifugiati presso di lui. Ma all’arrendevolezza di Silla rispose dall’Italia una irremovibile intransigenza. Il partito popolare era ormai insediato fortemente al governo; e non voleva, accogliendo le domande di Silla, nè veder ritornare a Roma il partito della nobiltà, nè assumersi la responsabilità del trattato di Dardano, che l’opinione pubblica disapprovava pur essendo disposto a goderne i benefici. È vero che nel senato un partito forte propendeva per il richiamo degli espulsi; è vero che, [326] quando alle proposte concilianti di Silla fu risposto con preparativi di guerra, le truppe si ammutinarono; e Cinna stesso, rieletto console, fu trucidato: serio ammonimento di non prendere troppo alla leggera la nuova guerra civile che minacciava. Ma quando mai un partito che si crede sicuro al potere crederà ad un pericolo, che non minaccia proprio di ora in ora? A guastar per sempre l’accordo si aggiunsero i cavalieri. Appena ricuperata l’Asia, Silla aveva imposto alle città della provincia il pagamento delle cinque annualità arretrate e per giunta una grossa indennità di guerra: ma aveva pure abolito gli antichi appalti e dichiarato di volere riscuotere i tributi direttamente, per mezzo di funzionari, dividendo a tale scopo la provincia, in 44 circoscrizioni. Non voleva, che l’erario spartisse il bottino della conquista con i pubblicani; e i cavalieri, che già gli erano avversi, gli giurarono un odio mortale.

Silla intanto ritornava dall’Asia in Grecia, ove passava tutto l’84 e i primi mesi dell’83, sempre trattando per un accordo col partito democratico, ma nel tempo stesso rinforzando l’esercito decimato dalla guerra, reclutando soldati nel Peloponneso, in Macedonia, in Tessaglia. Senonchè nella primavera dell’83 egli dovette convincersi che era necessario ancora una volta sfoderare la spada. Il partito al potere non voleva nè riammettere gli espulsi nè approvare il trattato di Dardano; e aveva fatto ordinare dal senato che tutti gli eserciti fossero congedati, ossia che egli si arrendesse a discrezione. Anche a questa nuova [327] guerra Silla si accinse con la consueta risolutezza. Non era certamente neppure questa una guerra facile. Il nemico aveva innanzi tutto l’immenso vantaggio di aver dalla sua le finzioni della legalità. Disponeva dell’erario dello Stato, dei tributi di tutte le province d’occidente; poteva reclutare soldati in tutta l’Italia, specialmente dopochè, sotto le minacce della nuova guerra, aveva finalmente risolta la questione italica, facendo distribuire i nuovi cittadini in tutte le 35 tribù; poteva infine contare sull’appoggio di molte famiglie della nobiltà, che riconoscevano il suo governo come il governo legale. Tali erano, tra i capi, i due consoli dell’anno, Caio Norbano e L. Cornelio Scipione Asiatico, bisnipote del vincitore di Antioco; tale il figlio di Mario; tale Gneo Papirio Carbone, console nell’85 e nell’84; e Gneo Domizio Enobarbo. A questi si aggiungevano alcuni uomini di natali più oscuri, ma segnalatisi per forza di ingegno e di volontà nelle guerre dei decenni precedenti: tra i quali il più insigne era Q. Sertorio. Silla invece non poteva giustificare l’autorità sua con alcun titolo chiaro e preciso; e alle forze degli avversari opponeva i tesori dell’Asia, circa 40.000 soldati e quella parte della nobiltà storica che aveva cercato scampo presso di lui. È vero però che l’Italia desiderava la pace e un accordo ragionevole con Silla, essendo stanca di guerre civili e non potendo disconoscere che, se Silla aveva fatto il trattato di Dardano, aveva anche inflitto a Mitridate due memorande disfatte. Questo desiderio dell’Italia era per il governo democratico cagione [328] di grande debolezza; perchè la repubblica potrebbe armare in Italia solo delle accozzaglie poco disciplinate, male istruite, tra le quali l’oro avrebbe operato devastazioni non minori del ferro. Il piccolo esercito di Silla invece era un blocco d’acciaio, devoto fino alla morte al duce, che lo aveva arricchito, e maggiori beni prometteva dopo la sicura vittoria.


85. La prima guerra civile (83-82)[95]. — Il primo anno di guerra mostrò subito che le probabilità di vittoria non si potevano misurare dal numero di soldati, di cui ciascun partito disponeva. Sbarcato nella primavera dell’83 a Brindisi, Silla subito sconfisse presso Capua l’esercito del console Norbano; indi procedè contro l’esercito del console Scipione, che trovò non lungi da Teano. Sapendo che Scipione era incline all’accordo, sapendo che i suoi soldati desideravan la pace, Silla iniziò trattative. Scipione acconsentì a trattare; i due generali si videro, discussero insieme lo stato della repubblica, i rimedi che erano necessarî per ricondurre la pace; e fu conchiuso infine un armistizio per aspettar la risposta dell’altro console. Quando, all’ultimo momento, per ragioni che sono oscure a noi e che non dovettero esser chiare neppure allora, Scipione ruppe le trattative, rimandando gli ostaggi a Silla. I suoi soldati allora, accusandolo di aver voluto respingere una pace giusta e ragionevole, gli si ribellarono e passarono a Silla; Scipione fu fatto prigioniero e, liberato da Silla, depose il consolato e si ritirò a Marsiglia. Silla era già padrone dell’Italia [329] meridionale! Questi successi condussero a lui molti nobili sino allora esitanti: tra gli altri M. Licinio Crasso e Gneo Pompeo Strabone, figlio di G. Pompeo Strabone, che era stato console nell’89, giovane ricchissimo, che aveva grandi proprietà nel Piceno, dove egli si mise a reclutar soldati di sua iniziativa e fu da Silla riconosciuto comandante delle forze che aveva levate. Ma gli insuccessi esasperarono invece il governo della repubblica. Il console Norbano non rispose alle aperture di pace fattegli da Silla; i senatori, che avevano raggiunto il nemico, furono dichiarati hostes publici; il figlio di Mario, che aveva solo 27 anni, fu eletto console per l’82 con Gneo Papirio Carbone, per attirare al governo i veterani del padre; armi ed armati furono approntati dalle due parti: dal governo, nell’Italia centrale e settentrionale; da Silla, nell’Italia meridionale. La guerra ricominciò nella primavera dell’82. Carbone, che raccoglieva in Etruria i contingenti mandati da ogni parte dell’Italia settentrionale, spedì un suo legato, Carrinate, nel Piceno, a distruggere le forze che nel Piceno raccoglievano per Silla Metello Pio e Gneo Pompeo. Ma fu sconfitto da Metello; e il legato Carbone già accorreva dall’Etruria al suo soccorso, quando fu fermato e ricondotto indietro da una notizia fulminea: Silla in persona aveva sconfitto tra Segni e Palestrina il giovane Mario, a cui era stato commesso di difendere Roma; lo aveva chiuso e assediato in Preneste; si era impadronito con un ardito colpo di mano di Roma; e già si disponeva a marciar contro di lui. Rapido, [330] Carbone ritornò sui suoi passi, per accorrere al soccorso di Roma: ma in Etruria, a Chiusi, trovò l’esercito di Silla a sbarrargli la strada. Fu appiccata battaglia e fu aspra e lunga; ma nè a Silla riuscì di disfare l’esercito di Carbone; nè a Carbone di disfare l’esercito di Silla. Cosicchè Roma restava in potere di Silla e l’esercito della repubblica diviso in due, parte nel nord, parte intorno a Preneste e nell’Italia centrale e meridionale. Ma Silla, il suo esercito, il suo partito si trovavano a loro volta tra due minacce: l’esercito ancora intatto di Carbone al nord e con il quale poteva con giungersi l’esercito che Norbano reclutava nella Cisalpina; ed una vasta insurrezione che si preparava nel Sannio e nella Lucania. In queste regioni la guerra aveva risvegliato le ultime faville dell’antico sentimento nazionale; e con il consenso e gli aiuti del governo repubblicano si preparava un grosso esercito.

Il frangente era dunque critico per le due parti. Un piccolo errore o un piccolo contrattempo potevano far precipitare le sorti da una parte o dall’altra. Silla si contentò di far buona difesa sulla strada di Roma, per tenerla chiusa a Carbone; e cercò di tagliare le comunicazioni tra Carbone e Norbano. Metello sbarcò con forze considerevoli, a quanto pare a Ravenna, per marciare di là sulla Via Emilia e porsi tra i due generali. A sua volta Carbone, posto in quella difficile situazione, commise un errore, che solo un grande generale avrebbe schivato: non sentendosi la forza di annientare l’esercito di Silla, [331] non volendo abbandonar Preneste e Roma al loro destino e volendo conservare libere le sue comunicazioni con Norbano, divise le sue forze. Mandò al soccorso di Preneste 8 legioni, spedì a Norbano altre forze per aiutarlo a fronteggiare Metello, mantenendo il grosso delle sue milizie a Chiusi. Norbano pare a sua volta aver commesso lo stesso errore: ricevuti i rinforzi di Carbone, sia che non avesse pronto ancora tutto l’esercito, sia che fosse a ciò spinto da qualche ragione a noi ignota, marciò contro Metello con questi rinforzi e con sola una parte delle sue soldatesche. Così queste forze sparpagliate soccombettero tutte, una dopo l’altra, mentre il grosso dell’esercito di Carbone oziava a Chiusi. I rinforzi, mandati al soccorso di Preneste, non giunsero; Norbano fu sconfitto da Metello a Faenza, e la sua sconfitta fece passare a Silla parecchie importanti città, tra le quali Rimini, chiave delle comunicazioni della valle del Po con Roma. Norbano perse allora la testa; abbandonò il comando; e, montato su una navicella, fuggì in Oriente: ma la sua fuga fu il segnale di una catastrofe. Tutta la valle del Po si arrese ai generali di Silla. Allora anche Carbone, sebbene avesse circa 30.000 uomini, considerò l’Italia come perduta e fuggì in Africa, dove sperava di poter continuare la lotta. Sul suo esercito, restato a Chiusi senza capo, Silla lanciò Pompeo, che lo disfece con poca fatica. Gli avanzi si dispersero; e un certo numero raggiunse l’esercito sannitico e lucano, che avanzava dall’Italia del sud verso Roma.

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Anche questo era un esercito considerevole per numero, animato da un feroce spirito di distruzione e di odio. Avrebbe potuto esser funesto a Silla, se fosse arrivato più presto. Ma arrivava quando ormai la repubblica aveva perduto tutta l’Italia, e non conservava più, si può dire, ultimo e inutile baluardo, che Preneste. Tuttavia Silla aveva dovuto a sua volta, in questa singolare campagna, sparpagliar talmente le sue non numerose milizie, che il grande esercito degli Italici, rinforzato dalle reliquie superstiti delle legioni democratiche, riuscì con un’abile marcia notturna a eludere la vigilanza nemica e arrivò improvvisamente sotto le mura di Roma, difesa da milizie insufficienti. È difficile dire quel che avrebbe potuto succedere, se l’energia di un oscuro pretore, Appio Claudio, non avesse salvato Roma da queste orde ardenti di un odio fanatico. Invece di cedere al numero, nuovo Leonida, Claudio oppose un’accanita resistenza, trovando egli stesso la morte nella battaglia; e die’ tempo a Silla, che campeggiava nelle vicinanze di Preneste, di accorrere. Il 1º novembre dell’82[96] i due eserciti si scontrarono alla Porta Collina, non lungi dall’odierna Porta Pia. La battaglia fu accanita, e non in ogni sua fase fortunata per i Sillani. Il merito maggiore della vittoria va dato a un legato di Silla, e proprio a Marco Licinio Crasso, che arrivò a tempo con dei rinforzi. I Sanniti e i Lucani furono sconfitti, e gran parte tratti prigionieri.

Poco dopo anche Preneste capitolava, il giovane [333] Mario si uccideva, e Silla era padrone dell’Italia e della repubblica. Ma l’impero era ben lungi dall’essere pacificato. L’Etruria era ancora in fiamme, la Sardegna, la Sicilia, l’Africa, la Spagna in potere dei Mariani. E allora l’uomo, che aveva meravigliato il mondo per la sua moderazione, si tramutò in un carnefice. Mentre nelle province i suoi legati continuavano a sconfiggere, uno dopo l’altro, i superstiti generali della democrazia, egli si dava ad estirpare in Roma e in Italia, con il ferro e con il fuoco, quella ch’egli credeva la radice d’ogni male. Tutti coloro che avevano favorito il partito democratico, furono perseguitati con l’esilio, la confisca, la morte. La vendetta ricadde sui loro figliuoli, sui loro consanguinei, sui più remoti congiunti; poichè Silla fece decretare che i figli e i nipoti dei proscritti non potrebbero mai più esercitare alcuna magistratura. Intere città furono multate di enormi ammende, ebbero demolite le fortificazioni, incamerata una parte del territorio pubblico e privato. I beni dei condannati e degli esuli, le terre confiscate alle città italiane, furono spartite tra i soldati e gli amici del vincitore. Quanti furono i proscritti e le vittime non si potè mai accertare; i Sanniti furono nella massima parte distrutti insieme con le loro, un tempo fiorenti, città — Boviano, Esernia, Telesia — che furono ridotte a squallidi abituri. Circa 150.000 soldati ottennero terre nel Sannio, nella Campania, nell’Etruria; degli schiavi, dei liberti, dei plebei, dei patrizi impoveriti fecero o rifecero, tra il sangue e le [334] rapine, delle grandi fortune; molti dei proscritti fuggirono tra i barbari, in Spagna, in Mauritania, presso Mitridate, o si dettero alla pirateria.


86. La restaurazione sillana (82-79 a. C.). — Ma confiscare, trucidare, dar di piglio nel sangue e nella roba dei vinti non bastava. Silla era troppo grande uomo di Stato. Nell’82 si fece conferire una magistratura che, antica di nome, era nuova per la forza e l’ufficio: una dittatura legibus scribundis reipublicae constituendae; e compilò da solo una nuova costituzione, senza l’assistenza e l’impaccio dei comizi, centuriati e tributi.

Il suo pensiero era ancora quello di Catone: sradicare da Roma e dall’Italia la tanto temuta e detestata «corruzione», restaurando le istituzioni dei bei tempi in cui Roma e l’Italia erano una gerarchia perfetta di classi; in cima una nobiltà poco istruita, ma disciplinata, in basso una popolazione rurale sottomessa, paziente, agiata e paga della sua sorte. Si sforzò di annullare ad una ad una tutte le conquiste plebee e democratiche degli anni precedenti. Restituì le quaestiones ai senatori; restrinse il potere dei tribuni, togliendo loro il diritto di intercessione contro i decreti del senato e contro le proposte di legge, e ammettendolo solo nei casi personali; escluse coloro, i quali fossero stati tribuni, dalle magistrature maggiori; assoggettò di nuovo i comizi tributi alla tutela preventiva del senato, e fors’anco li privò d’ogni potere legislativo, deferendo questo ai comizi centuriati, che forse furono riformati secondo l’antico ordinamento di Servio Tullio[97]; [335] soppresse le distribuzioni frumentarie; abolì o rese vana la censura, rifacendo per tal guisa inamovibile e onnipotente l’ordine senatorio; abolì la legge Domizia del 103, che aveva affidato ai comizi l’elezione dei collegi sacerdotali; fiaccò l’ordine equestre. Dopo averlo decimato con le persecuzioni e impoverito con le confische, gli tolse il posto d’onore nei pubblici spettacoli, l’appalto delle imposte asiatiche, il potere giudiziario; e quando volle riempire i vuoti fatti nel senato dalla guerra, dalla morte e dalla persecuzione, preferì ai cavalieri gli uomini più oscuri del terzo stato, magari dei suoi veterani[98].

A queste grandi riforme politiche si aggiunsero altre minori riforme amministrative. Per accrescere il personale del governo senza aumentane troppo il numero dei magistrati, Silla creò le così dette promagistrature per cui, mentre nel primo anno di ufficio, consoli e pretori avrebbero risieduto in Roma, in un secondo anno si sarebbero recati, come proconsoli e propretori, a governare le province. Fissò l’ordine e la successione delle magistrature e ristabilì l’antico intervallo biennale tra l’una e l’altra, imponendo anzi un minimo di dieci anni fra due richieste di consolato. Per impedire brighe e favori, volle che le province fossero anticipatamente assegnate per sorteggio; accrebbe a 600 il numero dei senatori; istituì parecchie nuove quaestiones perpetuae, affinchè la giustizia penale fosse più pronta ed estesa; e portò a otto il numero dei pretori, per migliorare la giustizia civile.

L’antica costituzione era restaurata quasi alla [336] perfezione. Mancava solo l’abrogazione della legge Plautia-Papiria, che aveva concesso agli Italici la cittadinanza. Ma Silla si fermò a questo punto. Nessun grande generale romano, a qualunque fazione politica appartenesse, aveva osato mai oppugnare le richieste degli Italici. Dai soli generali, anzi, gli Italici avevano ottenuto quel po’ di vantaggio, di cui ora godevano. Ma se Silla non abrogò la legge Plautia-Papiria, tolse a molti municipi, che l’avevano combattuto, il diritto di cittadinanza. Nel 79 egli poteva contemplare con orgoglio l’opera di archeologo, che aveva inalzata. L’opera pareva perfetta e indistruttibile. Una sola cosa le mancava: l’anima antica, che Silla non poteva resuscitare; onde l’opera era contraddittoria e sarebbe per le sue contradizioni, stata caduca. Silla aveva voluto restaurare lo stato patrizio del V e del IV secolo; ma non aveva potuto rifare — anima e corpo — l’aristocrazia, che era stata il sostegno di quella costituzione. Aveva ridotto tutto lo stato, i comizi, il senato, le magistrature, i comandi, i tribunali in potere, più che di una vera aristocrazia, di una consorteria composta di amici, sgherri e carnefici suoi arricchitisi con le confische; di transfughi del partito mariano; di quasi tutta la vecchia aristocrazia, ormai devota a lui per gratitudine, per interesse o per paura. Questa consorteria, le cui parti eran legate insieme soltanto dal prestigio del capo e dal comune interesse di conservare il potere, era troppo divisa da interessi, ambizioni ed idee diverse per poter tentare di ricondurre in Roma l’ordine che aveva regnato sotto il vero regime aristocratico [337] dei secoli precedenti, massime dopo il grande disordine generato dalla rivoluzione. Anche questa, come tutte le rivoluzioni, aveva indebolito le tradizioni. Se Silla pensava di far retrocedere l’Italia di tre secoli nel cammino della vita e di persuaderla a fuggire l’industria ed il commercio, le sue campagne in Oriente avevano invece portato in Italia un gran numero di schiavi e di liberti, che diventerebbero maestri di nuovi bisogni e di nuovi costumi. Non è quindi da meravigliare se, prima ancora di abbandonare la dittatura e di coronare la grande opera di restaurazione, ritirandosi, novello Cincinnato, a vita privata, egli assistette al primo screpolarsi del suo edifizio. Già nelle elezioni consolari dell’80, che fu l’ultimo anno della dittatura di Silla, vinsero due uomini, di cui l’uno era un assai tepido Sillano, l’altro, M. Emilio Lepido, un avversario dichiarato del dittatore. Pochi mesi dopo, a soli sessant’anni, nella sua villa di Pozzuoli, dopo aver dettato le Memorie della sua grande vita, Silla moriva, lasciando un’opera della quale, in pochi anni, non sarebbero rimasti più che alcuni sapienti ritocchi amministrativi.

Note al Capitolo Quindicesimo.

92.  Su Cheronea, cfr. J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, II, 353 sgg.

93.  Che Valerio Flacco e Silla si intendessero segretamente è congettura molto probabile, anzi necessaria per spiegare tutta la storia della guerra. Fu messa innanzi per primo da H. Bernhardt, Chronologie der Mithridatischen Kriege, Marburg, 1896.

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94.  Sulla pace di Dardano, cfr. App., Mithr. 56-58.

95.  Sulla prima guerra civile, i lavori più recenti sono: E. Pozzi, Studi sulla guerra civile sillana, in Atti della R. Accademia delle scienze di Torino, vol. 49, disp. 9, 1913-14; C. Lanzani, Mario e Silla: Storia della democrazia romana negli anni 87-82 a. C., Catania, 1915.

96.  Circa la data, cfr. Vell. Pat., 2, 27.

97.  App., B. Civ., I, 59. — Sembra poco probabile che una così gran riforma abbia potuto esser fatta da Silla, prima della guerra civile, al tempo del suo primo ingresso in Roma. Più verosimile è collegarla con la grande riforma compiuta dalla dittatura.

98.  Dion. Hal., 5, 77. — L’opposta indicazione di Appiano (B. Civ., 1, 100) che egli vi abbia introdotto 300 dei più nobili dell’ordine equestre, la quale sta in perfetta contradizione con tutti i criterî ispiratori della restaurazione sillana, va intesa nel senso che Silla introdusse nel senato alcuni dei nuovi cavalieri, suoi amici, arricchitisi durante la guerra civile.

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CAPITOLO SEDICESIMO LE GRANDI GUERRE IN ORIENTE

87. La insurrezione di Lepido e di Sertorio (78-75 a. C.). — Dopo la morte di Silla, la consorteria raccogliticcia, discorde, odiosa per i ricordi delle stragi e delle rapine, a cui egli aveva affidato l’ufficio della antica aristocrazia, non ebbe più l’autorità necessaria per governare lo Stato. Subito le vittime della restaurazione incominciarono ad agitarsi; e uno dei consoli, M. Emilio Lepido, propose addirittura l’abolizione di alcune tra le più importanti leggi di Silla: che si ristabilissero le frumentazioni; che si richiamassero gli esuli; che si restituisse il diritto elettorale e le terre alle città, a cui erano state tolte. In Etruria, quando si seppe di questo proposito, i coloni sillani furono espulsi a mano armata dagli antichi proprietari; e di lì a poco Lepido partiva di Roma per andare nella Narbonese, assegnatagli come provincia, si fermava in Etruria ad arruolare i miserabili della regione, mentre un altro nobile, compromesso nella rivoluzione, Marco Giunio [340] Bruto, si accingeva, d’accordo con lui, a reclutare un esercito nella valle del Po. Intanto la rivoluzione risollevava la testa anche in Spagna. Uno dei generali, che la repubblica aveva spedito nell’83 in Spagna, forse a reclutar soldati, Q. Sertorio, non solo ci si era mantenuto dopo la vittoria di Silla; ma, messosi a capo dei Lusitani, aveva, con una guerriglia tenace ed instancabile, quasi strappato la Spagna ai governatori romani, sconfiggendo un dopo l’altro quattro proconsoli; aveva chiamato a sè gli esuli, i proscritti, tutti i malcontenti e le vittime della restaurazione, e costituito un suo governo di fronte a quello romano. Lusitani e Celtiberi lo avevano riconosciuto capo e vindice della loro indipendenza; e, come ad Amilcare e ad Annibale, gli avevano consegnato in ostaggio i figli delle principali famiglie indigene, che egli faceva istruire ed educare secondo l’uso romano. Cosicchè sotto il suo governo, illuminato e forte, la Spagna andava riconquistando la indipendenza e poteva, ora che il partito vinto riprendeva ad agitarsi in Italia, offrire un forte appoggio ad una nuova rivoluzione.

In tanta incertezza e mobilità di cose, era necessario domare subito la rivolta di Lepido. Il senato lo dichiarò nemico pubblico; e incaricò della guerra contro di lui l’altro suo collega, il proconsole A. Lutazio Catulo, e Gneo Pompeo, che era stato nella guerra legatus di Silla. Pompeo non aveva neppure trenta anni e non aveva mai rivestito alcuna magistratura curale: non aveva quindi nessun titolo per comandare un [341] esercito. Ma era stato un favorito di Silla, il quale gli aveva dimostrato una benevolenza così singolare, da incaricarlo, sebbene non fosse nè senatore, nè magistrato, della guerra contro i Mariani in Sicilia, in Africa; e da conferirgli, dopo la vittoria, contro il parere del senato, il trionfo e il titolo di Grande (Magnus). Questo favore del potentissimo capo, la reputazione di valente generale, a torto o a ragione acquistata giovanissimo, la grande paura per quei primi segni di nuova rivoluzione, la scarsezza di generali valenti e sicuri, gli intrighi e le ambizioni di Pompeo poterono più che gli scrupoli costituzionali del senato. Pompeo parve un generale, di cui la consorteria sillana poteva fidarsi, in quel frangente critico; ed ebbe un esercito. La rivoluzione fu del resto facilmente domata nel Lazio, nell’Etruria, nella Cisalpina. Lepido riuscì a fuggire in Sardegna, dove nel 77 morì, non si sa se di malattia o di ferro.

Repressa la rivolta, il senato si volse alle cose di Spagna, e nel 77 deliberò di farla finita anche con Sertorio. Ma la guerra era difficile, richiedeva un generale valente. Pompeo si offrì di nuovo. Questa volta il senato non ne voleva più sapere di un ambizioso così indiscreto. Ma Pompeo seppe, non solo con gli intrighi, ma anche con la minaccia, campeggiando con le sue legioni in armi alle porte di Roma, strappare al senato il comando tanto ambito. Senonchè, mentre Pompeo partiva per la Spagna, l’Italia incominciava a darsi di nuovo pensiero degli affari di Oriente. Sinchè Silla era vissuto, nessuno aveva osato fiatare: [342] ora tutti denunciavano ad alta voce i funesti effetti di quel trattato di Dardano, che aveva tanto indebolito Roma in Oriente. La Grecia e la Macedonia erano molestate dai barbari del settentrione; il bacino orientale del Mediterraneo infestato dai pirati, che catturavano navi, saccheggiavano città, e avevano fondato addirittura una specie di Stato nella Cilicia[99]. Mitridate pareva star quieto: ma si diceva a Roma — e forse non a torto — che egli istigasse i Traci e gli Scordisci a invadere la Macedonia e la Grecia; che aiutava sottomano i pirati; che trattava con Sertorio; che macchinava una nuova guerra. Intanto egli aveva spinto il Re di Armenia, Tigrane, suo congiunto e alleato, a conquistare la Siria sino ai confini dell’Egitto, a invadere la Grande Cappadocia e ad assumere il titolo di Re dei Re. Stava forse per sorgere in Oriente, sulle rovine della Siria, un nuovo impero più minaccioso di quello del Ponto? Che miniera di recriminazioni e di accuse contro Silla e il suo partito! Anche le cose di Spagna aggiunsero esca al fuoco. Sertorio era altro nemico che Lepido; Pompeo non era riuscito, nell’anno 76, meglio che i suoi predecessori; e per spiegare il suo insuccesso aveva preso ad accusare il senato di negargli per invidia i rinforzi e i denari necessari. Cresceva dunque il malcontento; ricominciavano a spesseggiare le accuse contro i personaggi potenti del partito al potere; si chiedeva che l’antica autorità dei tribuni fosse ripristinata e ai senatori fossero ritolti i tribunali: anzi, nel 75, il console Caio Aurelio Cotta riuscì a far abolire la legge di Silla, per [343] cui un tribuno della plebe non poteva più essere eletto ad altra carica.


88. Il testamento del Re di Bitinia e la nuova guerra con Mitridate (75-74 a. C.). — Insomma, sparito Silla, ogni giorno più il governo si infiacchiva e cresceva il malumore pubblico. In mezzo a questa torbida situazione, sul finire del 75 o sul principio del 74, mentre in Spagna la guerra ardeva più violenta che mai, il Re di Bitinia moriva lasciando eredi del regno i Romani. Accettare quel legato voleva dire far la guerra a Mitridate, perchè Mitridate non avrebbe lasciato i Romani insediarsi tranquillamente in Bitinia. Poteva Roma, con la rivoluzione che covava in casa, con la Spagna in rivolta, con la Macedonia minacciata, impegnarsi in una seconda guerra con il Ponto per la Bitinia? Il senato esitava, inclinando a rifiutare la pericolosa eredità. Ma un sussulto dell’opinione pubblica obbligò questa volta il senato a mettere da parte i suoi scrupoli e le sue esitanze. Quanti erano malcontenti, per una ragione o per l’altra, del governo, e lo sapevano esitante, reclamarono a gran voce la Bitinia: si disse che la Bitinia era un’altra Asia; a chi ricordava Mitridate, si rispose che, tanto, una seconda guerra con il Ponto era sicura, che occorreva cancellare l’onta del trattato di Dardano.... Il senato non ebbe forza di resistere alla spinta della pubblica opinione; e annettè la Bitinia.... Ma quelli che temevano Mitridate non avevano torto. Mitridate da un pezzo si apparecchiava a un nuovo scontro con Roma; e non solo faceva [344] tutti quegli apparecchi, di cui lo sospettavano a Roma; ma aveva anche conchiuso un’alleanza con Sertorio. La morte e il testamento di Nicomede indussero perciò il sovrano a romper gli indugi. Inopinatamente, nella primavera del 74, quando a Roma si discuteva ancora comodamente chi comanderebbe la guerra di là da venire, Mitridate mosse il suo esercito di 120.000 uomini e 16.000 cavalli; una parte ne mandò, forse al comando di Tassilo ed Ermocrate, a invadere la Bitinia; con l’altra invase l’Asia, ma non più in proprio nome e quale conquistatore, bensì come alleato e al seguito di un rappresentante di Sertorio. Era costui un certo Marco Mario, che entrava nelle città con le insegne di proconsole e in nome di Sertorio le liberava, condonando parte dei debiti. Mentre Pompeo chiedeva invano dalla Spagna denari e rinforzi per combattere Sertorio; mentre a Roma cresceva il malcontento e il disordine; mentre il senato esitava impotente innanzi alle più piccole difficoltà, Roma si impegnava di nuovo in una guerra con il Ponto! Fortuna volle che allora apparisse un grande uomo e un grande generale: quel Lucio Licinio Lucullo, che abbiamo visto militare in Asia, durante la prima guerra mitridatica, agli ordini di Silla.

Lucullo discendeva da una famiglia antica nobile e povera, che durante la rivoluzione era stata perseguitata dalle accuse e dagli odî dei democratici. Al pari di Catone, aveva vissuto semplicemente; e, benchè ellenista appassionato, apparteneva al partito tradizionalista. Nell’87 si era recato con Silla in Asia; e aveva reso al suo [345] generale servigi segnalati come ambasciatore, generale, ammiraglio, senza approfittare dell’occasione per arricchire, come avrebbe facilmente potuto: era tornato in Italia con Silla e aveva preso parte alla guerra civile, ma non aveva messo le mani sui beni dei vinti. Pretore in Africa, avea trattato i provinciali con dolcezza e onestamente. Dispregiatore degli avventurieri del suo stesso partito, era giunto alla maturità, mantenendo fedeltà alla più pura tradizione aristocratica dei bei tempi antichi, e perciò senza conquistare nè grandissimi onori nè ingenti ricchezze.


89. Le prime campagne di Lucullo in Oriente; la conquista della Bitinia e l’invasione del Ponto (74-72 a. C.). — Nel 74 Lucullo era console. Nessuno era meglio preparato di lui, che già aveva tanto guerreggiato in Oriente, a prendere il comando della guerra contro Mitridate; ma ci furono intrighi, lotte, esitazioni in quantità, perchè altri ambivano quel comando e perchè Lucullo aveva in Roma più nemici che amici. Solo quando giunse la notizia che Mitridate aveva invaso l’Asia, tutti gli indugi e le esitazioni vennero meno: Lucullo ricevette il proconsolato di Cilicia e il comando della guerra; ma dovette anche promettere che le spese della guerra graverebbero sull’erario meno che si potesse e contentarsi quanto a mezzi del minimo: 5 legioni. Il senato non voleva spedire in Asia un generale così esigente come quello che aveva spedito in Spagna e metteva per tempo le mani avanti. Ma Lucullo era un grande generale davvero[100]; e [346] seppe fare prodigi con poco. Appena sbarcato in Asia non volle rischiar subito una battaglia contro le forze preponderanti di Mitridate: ma, raccolto quanto più grano potè, prese a seguire passo passo il nemico, senza accettare mai battaglia; chiudendosi ogni sera nell’accampamento e cercando con subite irruzioni di cavalleria di rendergli difficili gli approvvigionamenti, che giungevano al nemico dalla Tauride. All’esercito di Mitridate, che per il suo grande numero aveva in territorio nemico grosse difficoltà di vettovaglie, queste molestie continue e implacabili divennero alla fine insopportabili. Per non ripiegare sui porti del Ponto, da cui si riforniva, Mitridate tentò di conquistare un vasto porto vicino; piombò su Cizico e la cinse d’assedio. Lucullo lo seguì; e a sua volta assediò l’assediante: sinchè, Cizico resistendo, Mitridate dovè tentare di sciogliersi dalla stretta romana. Divise perciò l’esercito in due; e avviò una parte, la minore, verso la Bitinia, con la speranza dì trarre il nemico sopra una falsa pista, mentre egli con il grosso dell’esercito si metterebbe in salvo per un’altra.... Lucullo fece a tempo a distrugger la prima sul Rindaco, la seconda sull’Edepo. L’Asia era libera, la Bitinia conquistata al principio del 73.

Queste prime vittorie di Lucullo furono cagione di grandissima gioia a Roma. Anche in Spagna le cose incominciarono a volgere meglio, meno per la bravura di Pompeo, che per l’errore, commesso da Sertorio, alleandosi con Mitridate. Quest’alleanza aveva spento le ancor vive, e punto [347] sterili, simpatie che covavano per Sertorio a Roma nel partito di Mario; e che forse non erano estranee al ritardo dei rinforzi spediti a Pompeo. Il partito di Mario si atteggiava a difensore dell’integrità e grandezza dell’impero più risoluto e inflessibile del partito di Silla: quindi non poteva approvar quella alleanza. Prova ne sia il contegno di un giovane, il quale pure sino a quel momento non aveva rischiato poco per il partito di Mario: colui che sarà Giulio Cesare. Cesare era nato nel 100 da un’antica famiglia patrizia impoverita; era nipote di Mario, che aveva sposato una sorella di suo padre, e genero di Cinna; era dunque legato per una doppia parentela al partito di Sertorio e gli aveva tenuto fede, anche quando Silla onnipotente gli aveva ingiunto di ripudiare la figliuola di Cinna, perchè aveva rifiutato di obbedire. Morto Silla, aveva incominciato il suo tirocinio politico nel partito dello zio, accusando due potenti personaggi della consorteria sillana, Cornelio Dolabella e C. Antonio Ibrida: indi era tornato in Oriente a continuare i suoi studi a Rodi. Ma saputo che le vicine città della Caria si ribellavano al governo romano, nel nome di Mitridate e di Sertorio, il nipote di Mario aveva volto le spalle alla politica antiromana dei Mariani di Spagna; e, raccolta un’esigua milizia, aveva fatto di sua propria iniziativa quel che poteva per frenare la ribellione che dilagava. Come il giovane Cesare, molti altri membri del partito di Mario si separarono da Sertorio; nel campo stesso di Sertorio nacquero delle discordie; incominciarono delle defezioni; spuntò un’opposizione, [348] che trovò per capo un certo Perpenna, un ufficiale di Lepido, che gli aveva condotto gli avanzi dell’esercito di costui.

Ma la gioia per le vittorie di Lucullo non fu di lunga durata. Mitridate, sconfitto in terra, aveva ripigliato la guerra sul mare, mettendo a profitto le amicizie e le alleanze con i pirati e con le popolazioni e le città della Tracia. Lo spavento in Italia fu grande: certo la flotta pontica dell’Egeo intendeva minacciare l’Italia; una armata per difenderla mancava! Il senato deliberò che Marco Lucullo, fratello di Lucio, console in quell’anno, facesse come proconsole una grande spedizione in Tracia per distruggere gli alleati di Mitridate; votò precipitosamente 3000 talenti perchè Lucullo costruisse una armata navale; gli prolungò il comando di un anno; forse anche gli diede il governo della Bitinia. Ma Lucullo non aveva aspettato per agire in Asia, che il senato deliberasse a Roma: aveva in fretta raccolto una armata tra gli alleati, e con quella già dava la caccia alla flotta pontica nell’Egeo, assalendo e distruggendo una dopo l’altra le varie squadre, mentre i suoi luogotenenti procedevano a ridurre le città bitiniche ancora in armi, facendo un gran bottino di schiavi e di oggetti. Verso la metà del 73, Lucullo aveva ridotto in suo potere, tranne Eraclea, tutte le città bitiniche; e costretto Mitridate a tornar nel suo regno per mare con gli avanzi dell’esercito condotto l’anno innanzi alla conquista della Bitinia. La missione, che il senato gli aveva affidata, era compiuta; molti generali opinavano si dovesse dar riposo ai soldati [349] e aspettare che Roma deliberasse quel che in seguito occorresse fare. Ma Lucullo era di un altro parere: invadere subito il regno di Mitridate e conquistare il Ponto, cancellando finalmente la vergogna del trattato di Dardano. Era chiaro ormai che Roma non poteva posseder sicuramente l’ambita provincia d’Asia e il nuovo acquisto della Bitinia, se non distruggendo il regno del Ponto. Già infatti Mitridate si ritirava nell’interno montuoso del Ponto, per preparare un nuovo esercito nel triangolo formato da Cabira, Amasia, Eupatoria; chiedeva aiuti a suo genero Tigrane, Re di Armenia, a suo figlio Macare, vicerè della Tauride, e agli Sciti. Se dunque era necessario incrociare ancora una volta la spada con il Re del Ponto, meglio valeva assalirlo subito, debole ancora per i colpi ricevuti in Asia e in Bitinia, prima che avesse avuto il tempo di ricuperare le forze. Difatti, senza aspettar gli ordini di Roma, attraversate la Bitinia e la Galazia, Lucullo entrò nel Ponto indifeso e condusse rapido le legioni sin sotto Amiso e Temiscira, che con una resistenza vigorosa, obbligarono l’esercito romano a passar l’inverno del 73-72 nelle trincee.


90. Spartaco e la rivolta degli schiavi (73-71 a. C.)[101]. — Le cose volgevano dunque bene in Oriente; ma non in Italia, dove nel 73 era scoppiata una rivolta di schiavi, la maggiore forse di quelle che Roma avea fin allora dovuto combattere, e alla cui testa era un uomo potente di ingegno, un trace, Spartaco. Fuggito nel 73 dalla scuola dei gladiatori di Capua, egli era riuscito [350] a comporre di schiavi e di disperati un esercito di una certa forza, anche se non così grande come dissero quelli che faticarono tanto a vincerlo: aveva sconfitto un pretore, che si era illuso di catturarlo facilmente, e si era gettato nell’Italia meridionale; dove i consoli del 72, che tentarono affrontarlo, furono, l’uno dopo l’altro, disfatti. L’Italia correva dunque il pericolo di cadere in potere di schiavi ribelli, mentre in Asia stava conquistando il Ponto, per merito di un generale capace, che si era finalmente scoperto? Il malcontento contro il senato, contro il partito al potere, la costituzione di Silla, era esasperato da questo scandalo. Quasi a compenso, l’anno 72, i due Luculli e Pompeo combattevano felicemente in Asia ed in Europa. Lucullo, lasciata una parte del suo esercito a continuar l’assedio di Amiso e Temiscira, affrontava con l’altra il nuovo esercito di Mitridate e gli infliggeva una disfatta decisiva. Nel tempo stesso suo fratello Marco, proconsole in Macedonia, conquistava la Tracia, al di là dei Balcani, sino al Danubio; e Pompeo in Spagna riusciva alla fine ad avviare la guerra al suo termine, non tanto per merito suo, quanto per opera di Perpenna, che aveva ucciso Sertorio, e incominciava una guerra di devastazione e di sterminio contro le città, che avevano parteggiato per Sertorio o che avevano accolto i senatori suoi partigiani. In Italia invece, quando si indissero le elezioni per il 71, i candidati scarseggiarono, tanto il terribile condottiero di schiavi faceva paura a tutti! Non si era mai vista a Roma vergogna simile. Per finirla, il senato affidò il comando al pretore dell’anno [351] in corso, M. Licinio Crasso, un uomo che s’era segnalato nella guerra civile, salvando Silla alla battaglia di Porta Collina, e che era forse il più ricco dei senatori. La scelta non fu cattiva. Mentre Lucullo conquistava ad una ad una le grandi città greche del Ponto — Amasia, Amiso, Sinope — Crasso riusciva a debellare Spartaco; e faceva crocifiggere 6000 prigionieri, lungo la via Appia, tra Capua e Roma. Dell’esercito di Spartaco scamparono cinque mila uomini, che tentarono la fuga attraverso le Alpi: ma nell’Italia superiore li raggiunse Pompeo, reduce dalle Spagne, e li sterminò. Insieme, i due generali Crasso e Pompeo, giungevano poco dopo alle porte di Roma.


91. La fine della costituzione Sillana: il consolato di Pompeo e di Crasso (70 a. C.); la nuova politica orientale di Lucullo. — L’aver goduto di un privilegio è spesso un impegno d’onore o almeno un puntiglio per chiederne altri. Unico tra tutti i Romani da quando Roma esisteva, Pompeo, a 36 anni, senza aver esercitato nessuna carica, senza essere nemmeno senatore, aveva comandato guerre con autorità di proconsole e ricevuto il titolo di imperator. Non è quindi meraviglia se, avendo vinto Sertorio e ridato a Roma la Spagna, Pompeo tornasse deliberato a concorrere di primo acchito alla massima tra tutte le magistrature: il consolato. Dopo aver comandato come proconsole, Pompeo non poteva acconciarsi a ricominciare, come questore o edile, il curricolo delle magistrature. Ma quando Crasso seppe che [352] Pompeo voleva esser console, volle anch’egli essere console, sebbene non fossero passati i due anni dalla pretura, che la legge imponeva. Il senato si trovò dunque sulle braccia due candidature illegali, messe innanzi, in dispregio delle sue leggi, da due amici e luogotenenti di Silla. Era troppo: i senatori mostrarono chiara e ferma l’intenzione di opporsi. Ma allora Pompeo e Crasso si intesero tra di loro e — quel che più monta — si intesero con il partito popolare, che da tanti anni aspettava il momento di una riscossa. Se essi fossero stati eletti consoli, avrebbero dato soddisfazione al malcontento pubblico, proponendo che fossero abolite le parti della costituzione di Silla maggiormente invise al pubblico. L’uno e l’altro mantenevano intanto l’esercito in armi sotto le mura di Roma, il che metteva in una certa soggezione il senato: questa soggezione, l’intesa fra i due candidati, l’accordo con il partito popolare, il malcontento dell’opinione pubblica, la stanchezza del partito sillano, che dieci anni di potere avevano esausto, vinsero le opposizioni. Il senato ammise le candidature; Pompeo e Crasso furono eletti consoli per l’anno 70.

Mentre queste cose avvenivano in Italia, Lucullo era andato a passar l’inverno del 71-70 nella provincia di Asia, e cercava di frenare con diversi provvedimenti la cupidigia dei pubblicani, senza badare alla potenza dei nemici che irritava. Cose troppo maggiori volgeva nel pensiero il conquistatore del Ponto! Mitridate era fuggito in Armenia. Questo paese, abitato da genti affini per razza e per lingua a quelle che popolavano la [353] Media, la Persia, l’Asia Minore, era stato un tempo una satrapia dell’impero persiano. Poi era passato ad Alessandro Magno. Mai durante le guerre dei Diadochi aveva rivendicato la sua libertà, e invano i Seleucidi di Siria avevano tentato di riconquistarlo: chè il colpo, che Roma aveva inflitto ad Antioco III, gli aveva indirettamente giovato. Negli ultimi quindici anni, per via di matrimoni, di conquiste, di trattati, Tigrane ne aveva ampliato i confini a settentrione fino al Caucaso, dove i barbari d’Albania (Schirwan) e d’Iberia (Georgia) l’avevano riconosciuto come sovrano; e a mezzogiorno, a levante, a ponente, conquistando quasi tutto l’impero dei Seleucidi, la Cilicia, la Siria propriamente detta, la Fenicia; invadendo persino alcune province del regno dei Parti. Orbene, Lucullo pensava nientemeno che di invadere e occupare l’Armenia; e per questo, mentre attendeva a compiere la conquista del Ponto, mandava a intimare a Tigrane di consegnargli Mitridate. Lucullo aveva già interpretato con molta larghezza le istruzioni del senato, allorchè, liberata la Bitinia, aveva invaso e conquistato il Ponto. Ma il Ponto almeno era la patria dell’implacabile nemico di Roma! Ora si trattava di ben altro. Egli voleva affrontare un grande Stato amico, senza un motivo o una ragione qualsiasi, per propria iniziativa. Quella che egli faceva, se ne rendesse conto o no, era una vera rivoluzione politica, che annullava una parte capitale della restaurazione di Silla. Egli sostituiva sè medesimo, ossia l’iniziativa di un proconsole, alla autorità del senato nelle cose di [354] guerra; e alla politica del senato, per lunga tradizione prudente, astuta, versata nell’arte di aggirare gli ostacoli e di tirare in lungo, proclive a intrigare e temporeggiare, prudente nella prospera fortuna e paurosa di ogni sforzo decisivo, sovrapponeva un imperialismo, per usare la parola moderna, aggressivo, una audacia politica di espansione che affrontasse deliberatamente i pericoli e le difficoltà.

Era destino che l’opera di Silla fosse distrutta dai suoi amici e discepoli prediletti. Mentre Lucullo la demoliva nel vasto campo della guerra e dei trattati, Pompeo e Crasso ne battevano in breccia gli ordini interni. I due consoli dell’anno 70 avevano mantenuto le promesse, sebbene tra di loro regnasse poco buon sangue. Leggi proposte da diversi magistrati e sostenute con vigore dai due consoli, restituirono ai tribuni i poteri tolti da Silla, compresa la facoltà di proporre leggi senza sottoporle prima al senato; concessero un’amnistia a tutti i superstiti della guerra civile, non esclusi i seguaci di Lepido e di Sertorio; riformarono i tribunali; disposero che i giudici delle quaestiones fossero estratti a sorte non più fra i soli senatori, ma promiscuamente, fra i senatori, i cavalieri, e i tribuni aerarii. Chi fossero questi ultimi, non sappiamo dire con precisione[102]. Inoltre la censura, sospesa da 17 anni, fu ristabilita; e i censori Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo, indetto il censo in aprile o in maggio, ripulirono con soddisfazione universale il senato di molti amici di Silla. Molte richieste del partito popolare erano dunque state esaudite; e [355] molte più sarebbero state, se Crasso e Pompeo non si fossero sulla fine del consolato guastati: per qual ragione, è poco noto. Pare che già sin da allora Pompeo volesse essere mandato come proconsole a sostituire Lucullo, a cui il senato veniva ogni anno prorogando il comando; e che Crasso si opponesse[103]. Così tutti e due ritornarono, dopo il consolato, a vita privata e nemici, nessuno dei due avendo voluto accettare una delle solite e troppo modeste province.


92. La conquista dell’Armenia e gli intrighi di Pompeo contro Lucullo (69 a. C.). — Lucullo invece invadeva nella primavera dell’anno 69 l’Armenia con due legioni appena e poche migliaia di coorti ausiliarie indigene: in tutto 20.000 uomini. Passato l’Eufrate, marciò direttamente su Tigranocerta, respinse per via l’esercito del generale Mitrobarzane, che era accorso a sbarrargli la strada, e cinse di assedio la città, dove il Re nascondeva i tesori e l’harem. Poi, quando Tigrane sopraggiunse con un esercito di soccorso, distaccò dalle milizie assedianti 14.000 soldati; mosse decisamente contro il nuovo nemico: e allorchè i due eserciti si trovarono di fronte sulle rive del Tigri, una mattina, ordinato ai soldati di passare a guado il fiume dalle correnti vorticose, lanciò il suo piccolo esercito sul nemico cinque volte più numeroso, e lo disfece. A stento il Re riuscì a salvarsi con una fuga precipitosa. Poco dopo anche Tigranocerta capitolava. Padrone delle province nemiche a sud del Tigri, Lucullo ridava ad Antioco l’Asiatico la Siria. Ma non era pago: ricondotti [356] i suoi uomini a svernare nella dolce Gordiana, vagheggiava disegni anche più grandiosi: lanciarsi, nuovo Alessandro, sulla Persia e distruggere in una volta sola l’impero di quei Parti, che Roma non avrebbe mai distrutti. Senonchè a Roma l’astuto e potentissimo Pompeo già intrigava per togliergli il comando e riuscire nel disegno, che nel 70 aveva dovuto abbandonare, a quanto pare, per l’opposizione di Crasso, Pompeo aveva trovato chi l’aiutava nei suoi intrighi non solo nel partito democratico, ma anche tra i cavalieri, malcontenti della giustizia e onestà con cui Lucullo amministrava la provincia d’Asia. Si cominciò ad aizzare il popolo e il senato contro Lucullo, accusandolo di fare una guerra illegale per lucro personale. Presto il senato si impaurì; e per dare una soddisfazione all’opinione pubblica, tolse per l’anno 68 a Lucullo il governo della provincia d’Asia e l’affidò a un propretore. Ma Pompeo e i suoi amici trovarono ben presto un insperato e anche più prezioso aiuto nell’esercito stesso di Lucullo. Se Lucullo era un generale non meno grande di Silla e di Mario, egli trattava i soldati come fossero ancora i legionari delle guerre puniche. Il rigore della sua disciplina, la parsimonia delle sue ricompense, apparivano veramente intollerabili a gente guasta dalle troppe larghezze delle guerre precedenti. Soprattutto si rimproverava a Lucullo di dar troppa poca parte del bottino alle legioni. Alcuni ufficiali di Lucullo, amici di Pompeo, tra gli altri Publio Clodio, uomo nato a clamorosi destini, incominciarono a sobillare i soldati contro il generale, assicurandoli [357] che avevano diritto di esser trattati meglio e più lautamente ricompensati per le loro fatiche; che Pompeo li farebbe contenti. Nel 68, quando Lucullo raggiunse gli eserciti di Tigrane e di Mitridate sui pianori del lago Van, per terminare la guerra, potè ancora sconfiggere Tigrane all’Arsaniade, ma non potè prendere Artaxata, la capitale del regno, perchè i suoi ufficiali e la maggior parte de’ suoi soldati si ammutinarono. Poco prima, a Roma, il partito democratico era riuscito a farlo privare del governo della Cilicia, e a inviare in Asia una commissione con l’incarico di ordinare la nuova provincia del Ponto. La rivolta delle legioni era una nuova spinta alla autorità già vacillante di Lucullo, che Mitridate rovesciò a terra con un ultimo urto: chè, non appena seppe le legioni ribellate, entrò con 8000 soldati nel Ponto, sollevò i contadini, riuscì a chiudere il legato, lasciato da Lucullo nel regno con poche forze, in Cabira; e, quando Lucullo si levò per accorrere in suo aiuto, le legioni rifiutarono di muoversi, avanti la primavera del 67. Per fortuna l’ammiraglio di Lucullo, Triario, potè sbarcare rinforzi nel Ponto e sbloccare il legato da Cabira: ma non scacciare Mitridate dal Ponto. Dovè quindi svernare in faccia all’esercito nemico a Gaziura, nel cuore del Ponto, mandando invano a domandare rinforzi a Lucullo.


93. La destituzione di Lucullo e la «Lex Manilia» (68-66 a. C.). — Anche gli amici più devoti di Lucullo disperavano ormai della sua causa. Si potevano biasimare acerbamente gli intrighi di [358] Pompeo e l’indisciplina dei soldati: ma chi poteva ancora sperare che Lucullo riuscirebbe a riconquistare il Ponto? Un inaspettato accidente piegò definitivamente le bilance del destino dalla parte di Pompeo. Nell’inverno dal 68 al 67, Roma e l’Italia furono afflitte da una grande carestia: per colpa dei pirati — si disse — che intercettavano sul mare i carichi di grano. Ma dell’onnipotenza dei pirati non erano forse colpevoli l’inerzia del senato e l’incuria di Lucullo, che era stato sino a poco prima il proconsole della Cilicia? Pronto, un tribuno, amico di Pompeo, Aulo Gabinio, riuscì a far votare una legge, la lex Gabinia, la quale senza nominare nessuna persona incaricava di far la guerra ai pirati un uomo di rango consolare, assegnandogli una flotta di 200 navi, un grosso esercito, e 6000 talenti, e conferendogli l’autorità proconsolare assoluta per tre anni su tutto il Mediterraneo e sulle coste sino a 50 miglia dalla costa, insieme con la facoltà di scegliersi 15 legati, di reclutare soldati e rematori e di raccoglier denari in tutte le province. La legge istituiva insomma per tre anni una vera dittatura dei mari, quale Roma non aveva ancora conosciuta. Il senato oppugnò accanitamente la legge, ma il popolo, affamato e furioso, minacciò di rivoltarsi; la legge fu approvata con poteri anche più larghi di quelli proposti da Gabinio, e del comando fu incaricato Pompeo(67).

Questi si mise subito all’opera, la quale era assai più facile che in Roma non si credesse. La potenza dei corsari nasceva dall’incuria del governo romano. Con poche operazioni e con pochi [359] esempi severissimi, seguiti da opportuni atti di clemenza, Pompeo scardinò in poche settimane le fondamenta dell’impero di quel singolari dominatori del Mediterraneo; e ripulì, almeno per qualche tempo, i mari. Ma questa dittatura dell’acqua non doveva essere per lui che un mezzo. Nella primavera del 67, quando i suoi soldati glielo avevano permesso, Lucullo si era incamminato con le legioni al soccorso di Triario, ma troppo tardi, chè Triario già aveva dato battaglia a Mitridate ed era stato disfatto. Appena si seppe a Roma la disfatta di Triario, i tribuni della plebe insorsero; Gabinio, d’accordo con Pompeo, propose una nuova legge con cui si toglieva a Lucullo il comando della guerra contro Mitridate e la provincia del Ponto; e dava questa e la Cilicia al console Manio Acilio Glabrione. Il senato dovè questa volta abbandonare Lucullo e lasciar approvare la legge. Lucullo tentò ancora di imporsi ai soldati e di continuar la guerra a dispetto della legge; ma i soldati rifiutarono di obbedire. Roma aveva ormai in Oriente un generale senza esercito ed un esercito senza generale! La situazione era troppo pericolosa perchè potesse durare. Difatti, sul finir del 67, incominciarono a giungere a Roma lettere dall’Asia, che descrivevano paurosamente le condizioni della provincia: Lucullo senza comando; Mitridate di nuovo signore del Ponto; la Cappadocia devastata da Tigrane; colonne volanti già apparse in Bitinia ad abbruciare i villaggi di frontiera.... Roma di nuovo si spaventò; e dello spavento approfittò un altro tribuno, Caio Manilio, per proporre una nuova legge di eccezione, [360] che concedeva al debellatore dei pirati, oltre i poteri già concessigli con la legge Gabinia, il governo dell’Asia, della Bitinia e della Cilicia, il comando della guerra contro Mitridate e Tigrane, e la facoltà di dichiarare la guerra e di concludere alleanze a nome del popolo(66). Questa legge in fin dei conti non faceva che autorizzare quella politica personale e indipendente dalla volontà del senato, che il partito popolare aveva rimproverata a Lucullo, e per cui questi era richiamato. Ma Pompeo non era, come Lucullo, un superstite solitario del detestato partito di Silla: era ormai il capo del partito popolare, il favorito dei cavalieri, il più autorevole dei senatori. Inoltre la nuova legge straordinaria fu raccomandata al popolo dall’eloquenza impareggiabile dei due maggiori oratori del tempo: C. Giulio Cesare, e un giovane avvocato già salito in molta fama: M. Tullio Cicerone. La legge dunque fu approvata[104].

La disgrazia di Lucullo era la fortuna di Pompeo.


94. Pompeo in Oriente: la conquista del Ponto, dell’Armenia, della Siria e della Giudea (66-63 a. C.)[105]. — Pompeo moveva baldanzoso a finire un regno, che sei anni di guerra avevano già stremato. Nel 66 invase il Ponto e con una breve e fortunata campagna riuscì a scacciare Mitridate, obbligandolo a rifugiarsi nella Colchide: quindi si volse a conquistare l’Armenia, pensando che avrebbe preso alla primavera Mitridate nel suo rifugio. Ma la fatica di conquistare l’Armenia gli fu risparmiata dalla dedizione spontanea di Tigrane, [361] che venne solo, a piedi, in atto e vestimento umile, nel campo romano. Pompeo lo ricevè gentilmente, lo confortò, gli restituì tutti i dominî ereditari della famiglia, lo chiamò amico e alleato del popolo romano a condizione che pagasse 6000 talenti, cinquanta dramme a ogni soldato, mille a ogni centurione, diecimila a ogni tribuno militare. Poi portò le milizie a svernare sulle rive del Cyrus (il Kur), sull’estrema frontiera settentrionale dell’Armenia; e preparò, per l’anno dopo, l’invasione della Colchide, avviando trattative con gli Albani e con gli Iberi.

Al principio della primavera del 65, Pompeo invase il paese degli Iberi e li sottomise; passò nella valle del Rioni (l’antico Phasys) e scese nella Colchide, tutta piena dei ricordi di Medea, di Giasone, degli Argonauti, per catturar Mitridate.... Ma troppo tardi: l’indomabile vecchio aveva fatto quel che tutti credevano impossibile: aveva sforzato, con il suo piccolo esercito, il passaggio fino in Tauride, lungo le pendici del Caucaso dirupanti nel mare e infestate dai barbari, e riconquistato un altro Stato. Pompeo non volle invadere dal mare la Tauride; ma, ordinatone il blocco, tornò nella valle del Cyrus, e fece una spedizione nel paese degli Albani, che pare sorprendesse a tradimento; poi si ricondusse nella piccola Armenia; e tutto quell’anno attese a conquistare gli ultimi castelli e a confiscare gli immensi tesori di Mitridate. L’anno seguente, nella primavera del 64, raccolse ad Amiso una corte di Re orientali; distribuì, ingrandì, permutò regni; diede due nuovi re alla Paflagonia [362] e alla Colchide; accrebbe i dominî dei tetrarchi galati; nominò Archelao, figlio del generale che aveva combattuto contro Silla, gran sacerdote di Comana; divise il territorio del Ponto in undici città e ricostituì in queste, sotto la sorveglianza del governatore romano, le istituzioni repubblicane della polis greca. Indi volse la mente ad una nuova grande impresa, che avrebbe donato a Roma una ricca provincia e gloria eterna al suo autore: la conquista della Siria. Il momento buono era quello. Il paese, che Lucullo aveva liberato dalla dominazione armena, era di nuovo in piena anarchia: i pretendenti e gli usurpatori pullulavano a dozzine; le città greche invocavano ardentemente un liberatore. Pompeo si avviò verso Antiochia; mandò in Fenicia e in Celesiria i suoi luogotenenti, Aulo Gabinio e M. Emilio Scauro; e mentre le legioni occupavano a poco a poco tutta la Siria, la dichiarò provincia romana. Quindi discese verso il mezzogiorno. Nel 63 egli si trovava a Damasco, intento a decidere una grossa controversia interna della vicina Giudea.

Da circa cento anni la Giudea era riuscita a riconquistare la sua indipendenza dall’impero siriaco dei Seleucidi, dopochè Roma, con la guerra contro Antioco III, aveva indebolito il regno di Siria e incoraggiato tutti i moti, nazionali e locali, che tendevano a disgregarne l’unità. Nel tempo a cui noi siamo pervenuti, la Giudea era di nuovo uno Stato prospero: ma era anche lacerata da una contesa dinastica, che era nel tempo stesso una lotta religiosa e nazionale; da una [363] guerra civile tra i pretendenti Ircano ed Aristobulo, l’uno spalleggiato dalla fazione dei Farisei, l’altro, dai Sadducei. I partiti in contrasto avevano già chiamato aiuti dal di fuori; e, allorchè Pompeo arrivò, fu invitato dalle due parti a decidere. Uno dei tanti casi, che fanno assai spesso traboccare la bilancia dell’umano giudizio, lo indusse a sentenziare in favore di Ircano e dei Farisei. Ma Aristobulo e i Sadducei, che tenevano allora il governo, non credettero di dover piegare alla parola dell’invitto generale romano; onde questi fu costretto ad assediare la stessa Gerusalemme. Gerusalemme si arrese tosto. Solo il tempio, cinto da formidabili fortificazioni, resistette lungamente, e per prenderlo fu necessario un lungo assedio. Alla fine anche i suoi difensori capitolarono; e l’antico regno di Saul e di Salomone fu annesso alla nuova provincia di Siria. Ma mentre Pompeo indugiava in Siria e in Palestina, lo raggiunse la notizia della morte di Mitridate. Nel suo nuovo e piccolo regno di Tauride il vecchio sovrano aveva concepito un disegno audace: mettersi a capo dei barbari della moderna Russia meridionale e della valle del Danubio, e piombare, come Annibale o come i Cimbri, dalle Alpi centrali od orientali sull’Italia. Ma a eseguir questo piano occorrevano ben altre forze che quelle di un sovrano spodestato del Ponto; il blocco rovinava il commercio del paese; i sudditi, salassati dalle imposte, mormoravano minacciosi. Alla fine un suo figliuolo, Farnace, si mise a capo di una rivolta; e il vecchio Re fu costretto a darsi la morte col veleno (63). Così la fortuna toglieva di [364] mezzo facilmente quel nemico implacabile di Roma. Pompeo potè tranquillamente fermarsi in Oriente quell’anno e tutto il seguente, visitandone molte parti e riordinando in vario modo i vasti territori conquistati; fuse il Ponto e la Bitinia in una provincia unica, che però avrebbe il nome di quello che un tempo era stato il regno di Mitridate; al figlio di costui diede la piccola Tauride, dove erano sepolte le ceneri invendicate del padre; il Re di Cappadocia, Ariobarzane, ottenne qualche aumento territoriale; la Paflagonia fu ricostituita; la Galazia, divisa in tre principati: l’Armenia, lasciata indipendente, ma privata di buona parte delle sue antiche conquiste. Dopo di che Pompeo ripigliava lentamente la via dell’Italia, salutato ovunque da onori divini. Nè a torto: chè in dieci anni erano maturate tutte le conseguenze di quel primo passo fatto da Roma accettando l’eredità del Re di Pergamo. Diventata potenza asiatica, per questo testamento, Roma era ormai la maggiore delle potenze dell’Oriente, e tale era diventata per merito di due uomini, Lucullo e Pompeo, secondati a Roma da piccoli, ma attivi gruppi politici. Il senato invece, come corpo, era stato passivo spettatore di questo grande rivolgimento, che aveva così rapidamente alterato l’assetto del Mediterraneo e che tanto influsso doveva avere sulla storia di Roma e del mondo.

[365]

Note al Capitolo Sedicesimo.

99.  Cfr. Cic., Pro lege Man., 11, 31 sgg.; Plut., Pomp., 24.

100.  Le fonti principali della nuova ed ultima guerra mitridatica, per la parte che riguarda le campagne di Lucullo, sono App., Mithr., 72 sgg.; Plut., Lucull., 6-35. La monografia contemporanea più interessante è quella di Th. Reinach, Mithridate Eupator roi du Pont, Paris, 1890, pp. 320-372. Su Lucullo, la sua figura, la importanza storica e la cronologia delle sue guerre, cfr. G. Ferrero, Grandezza e decadenza di Roma, vol. I, cap. VII e VIII; vol. II, Appendice B.

101.  Sulla guerra così detta di Spartaco, cfr. specialmente App., B. Civ., I, 116-20.

102.  Sui tribuni ærarii, cfr. Daremberg et Saglio, Dictionnaire d’antiquités classiques, a Iudiciariæ leges, e a Tribus.

103.  Si tratta di un’ipotesi, ma assai verisimile: cfr. G. Ferrero, Grandezza e decadenza di Roma, vol. I, p. 271 sgg.

104.  App., Mithr., I, 97. — Cicerone la sostenne eloquentemente con la storica orazione Pro lege Manilia.

105.  Sulle campagne di Pompeo in Oriente, cfr. specialmente App., Mithr., 97 sgg.; Plut., Pomp., 30-42; Th. Reinach, op. cit., 381-410; Ferrero, op. cit., vol. I. capp. XI, XII, XIII.

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INDICE ALFABETICO-ANALITICO

Acerra, presa da Annibale, 161.

Achei, e la prima Guerra illirica, 135; inclinano verso la Macedonia, 182; durante la seconda Guerra macedonica, 183; alleati di Roma (197 a. C.), 184; ottengono Erea e la Trifilia, 186; alleati di Roma durante la Guerra siriaca, 190; deportati a Roma, 208; la lega achea e sua competizione con Sparta, 119; insorge contro Roma, 217; dichiara guerra a Sparta, 219-220; privata da Roma di alcune città, 221-222; nuova dichiarazione di guerra a Sparta, 223; vinta da Metello e da Mummio, 223.

Acilio (M.’ Glabrione) (trib. pl. 123 a. C.), e la lex Acilia de repetundis, 250.

Acilio (M.’ Glabrione) (cons. 67 a. C.), 359; riceve le province del Ponto e di Cilicia, 359.

Aderbale, ammiraglio cartaginese, 128.

Aderbale, figlio di Micipsa e re di Numidia, 261; scacciato da Giugurta, 261; assalito e ucciso (112 a. C.), 263.

Aegusa, una delle isole Egadi, 127.

Aenaria (Ischia), origini del nome, 6.

Africa, provincia romana, 223.

Agatocle, tiranno di Siracusa, 110, 115.

Ager gallicus, 141.

Ager publicus, 118, 133; dopo la guerra annibalica, 195; in Africa, 223, 236, 244; esentato d’imposta, 255; disposizioni del 119 a. C. su l’a. p., 260.

Agricoltura, nel Lazio primitivo, 8, 13, 83; decadenza della piccola proprietà in Italia durante la seconda Guerra sannitica, 82; dopo la Guerra tarantina, 118; dopo la prima punica, 137-138; nei sec. III-II a. C., 194-195; nella seconda metà del II sec. a. C., 226; la piccola e la grande proprietà nella seconda metà del II sec., 229; nella prima metà del I sec. a. C., 295.

Agrigento, fortezza cartaginese, 122-23; assediata e occupata dai Romani (262 a. C.), 123; rioccupata dai Cartaginesi (213 a. C.), 163, 164; ripresa dai Romani (210 a. C.), 165.

Alba, nel territorio degli Equi, colonia dei Romani, 91.

[368]

Alba Longa (nel Lazio), 7, 9, 10, 12; distruzione, 16.

Albania (Schirwan) conquistata da Tigrane, 353; invasa da Pompeo, 361.

Alessandro il Molosso, re d’Epiro, combatte contro Lucani, Bruzzi e Sanniti, 72.

Alleati (Gli) italici, nell’esercito romano, 187; e la legge agraria sempronia, 236, 237, 245. V. Italici.

Allife, 74.

Amasia, città del Ponto, 349.

Ambracia, occupata da Pirro, 101.

Ambroni, 284; vinti da Mario ad Aquae sextiae (102 a. C.), 284.

Amilcare Barca, in Sicilia, 128 sgg.; sua politica dopo il 241 a. C., 145; in Spagna (238?-231 a. C.), 145-147; sua morte (231 a. C.), 147.

Amiso, città del Ponto, 349; assediata da Lucullo, 349, 350; Pompeo ad A., 361.

Amulio, 7.

Anco Marzio, 11, 16; e Veio, 46.

Andrisco, pseudofiglio di Perseo, 218; vinto da Metello (148 a. C.), 219.

Annibale, figlio di Amilcare Barca, generale degli eserciti cartaginesi in Spagna, 147; suo piano della guerra contro Roma, 148-49; sua marcia dalla Spagna in Italia, 149-51; suo esercito 149, 175, n. 3; presso Victumulae, 151; vince presso il Ticino (218 a. C.), 151, 175, n. 4; vince alla Trebbia (218 a. C.), 153-54; A. e gli Italici, 155; dalla Trebbia al Trasimeno, 155-56, 176, n. 5; vince al Trasimeno (217 a. C.), 156; in Umbria, nel Piceno, in Apulia, 157; vince a Canne (2 ag. 216 a. C.) 158-160; prende Nocera, Acerra, Casilino, 161; in Campania (215 a. C.), 161; tenta invano liberar Capua, 164; Cartagine e A. durante la seconda punica, 164-65; in Puglia (207 a. C.), 168; si ritira nei Bruzzi, 169; sua narrazione della impresa d’Italia, 171; medita una nuova alleanza con la Macedonia, 171; lascia l’Italia, 171; è vinto presso Zama (202), 171; consiglia la pace con Roma, 173; alla Corte del re di Siria (195 a. C.), 190; vinto dai Rodii (190 a. C.), 191.

Antigonidi, monarchia degli, 110.

Antiochia, città della Siria; Pompeo ad A., 362.

Antioco III il Grande, re di Siria, 178; sue mire sull’Egitto, 178; e sua alleanza con Filippo V, 178; invade la Palestina (202 a. C.), 178; occupa Efeso (197 a. C.) e Lisimachia (196 a. C), 189; si abbocca con ambasciatori romani, 189; A. e Roma alla vigilia della Guerra siriaca, 190: in Tessaglia (192 a. C.); ripassa in Asia, 190; è vinto nelle acque di Chio, 191; è vinto a Magnesia (190 a. C.), 191; perde tutta l’Asia al di qua del Tauro (189 a. C.), 192.

Antioco IV, re di Siria, assale l’Egitto, 206-7; si ritira dietro ingiunzione di Roma, 208-9.

Antioco l’Asiatico, 355; riceve [369] da Lucullo il regno di Siria, 355.

Antonio (M.), oratore, candidato al consolato pel 99 a. C., 291.

Antonio (C. Ibrida), un sillano accusato da Cesare, 347.

Anzio, 28, 29, 70.

Aoo (Fl.), 184.

Apollonia, nella Confederazione italica, 135.

Appaltatori, in Roma, 136-37. V. Pubblicani, Cavalieri.

Apuleio (L. Saturnino) (trib. pl. I 103 a. C.), 282; capeggia le dimostrazioni contro gli ambasciatori di Mitridate, 283; trib. pl. II (100 a. C.), 287; 288; sue legg., 288-89; eletto tr. pl. III, 291; ucciso (dicembre 100 a. C.), 292.

Apulia, gli Apuli alleati di Roma nella seconda Guerra sannitica, 47, 79; spedizione romana in Apulia (320 a. C.), 78, 79; nuova spedizione romana (314 a. C.), 80; l’A., invasa da Pirro, 103; devastata da Annibale, 157; campagna del 216 a. C. in A., 158; passa ad Annibale, 160, 168; sgombrata da Annibale, 169; nella Guerra sociale, 305.

Aquae Sextiae, battaglia (102 a. C.), 284.

Aquilio (M.’) (cons. 129 a. C.), vince Aristonico, 245.

Aquilio (M.’) ambasciatore a Mitridate, 306; e Nicomede III, 306.

Aquitania, 268.

Arausium (Oranges), battaglia (6 ottobre 105 a. C.), 277.

Archelao, generale di Mitridate, 309; occupa Delo, 310; in Atene, 317; lascia la Grecia (86 a. C.), 320; vinto a Cheronea, 320.

Archelao, figliuolo del prec., gran sacerdote di Comana, 362.

Archimede, 163.

Ardea, 28.

Arevaci, 213, 232.

Arezzo, città etrusca, 4; durante la seconda Guerra sannitica, 87; assediata dai Galli (285 a. C.), 96; battaglia (285 a. C.), 96.

Ariminum (Rimini), 151; in mano di Silla, 351.

Ariobarzane, re di Cappadocia, 293; rimesso sul trono da Silla, 294; riceve da Pompeo nuovi territorî, 364.

Aristione, generale di Mitridate, in Atene, 317.

Aristobulo, pretendente al trono di Giudea, 367.

Aristonico, figliuolo illegittimo di Eumene e pretendente al trono degli Attalidi, 244; insurrezione, 244.

Armata, creazione di un’armata romana durante la seconda Guerra sannitica, 82, 85-86; la prima grande armata romana (261 a. C.), 123-24; Roma manca di un’armata, 319, 342, 348.

Armenia, 294; popolazione, 352; storia, 353; suoi confini nella prima metà del I sec. a. C., 353; mercenari, 306; Mitridate in Armenia, 352; e Lucullo, 353; e Pompeo, 364; Piccola Armenia, 361. V. Tigrane.

Arniensis, 54.

Arpi, occupata dai Romani, 163.

[370]

Arsaniade (Fl.), battaglia, 357.

Aruspici, 13-14. V. Sacerdoti.

Arverni (nella Gallia Transalpina), guerra con Roma, 260; distruzione dello Stato degli A., 260, 267; conseguenze, 267-68.

Ascanio, 7.

Asdrubale, generale di Amilcare Barca, 146; generale cartaginese in Spagna, 146-47; trattato con Roma (226 a. C.), 146, 175, n. 1; morte (221 a. C.), 147.

Asdrubale, fratello di Annibale e generale degli eserciti cartaginesi in Spagna, durante la seconda punica, 161; ricaccia i Romani al di là dell’Ebro, 165; prepara una invasione in Italia, 166; vinto a Baecula (208 a. C.), 167; in Italia (207 a. C.), 167; vinto e ucciso presso il Metauro (207 a. C.), 168.

Asdrubale, generale cartaginese contro Massinissa, 215; disfatto, 215; condannato a morte, 216; generale cartaginese nella 3ª punica 219.

Asia, provincia romana, 241; l’appalto della decima ai cavalieri, 250; importanza finanziaria per Roma, 307; e Mitridate, 307; invasa da Mitridate, 307; Silla amnistia le città ribelli d’A., 323; nuova invasione di Mitridate (74 a. C.), 344 sgg.; liberata da Lucullo, 346.

Asia minore; possessi dei Tolomei in, 110; dopo la Guerra siriaca, 192; Italici in A., 226.

Atamania, occupata da Pirro, 101; alleata di Roma nella seconda punica, 183.

Atene. V. Ateniesi.

Ateniesi, e la prima Guerra illirica, 135; invocano Roma contro Filippo V, 178; alleati con Roma, 182, 190; ricevono Delo, 208; si sollevano contro Roma, 309; i generali mitridatici in Atene, 316; Atene assediata da Silla (87-86 a. C.), 319-20.

Atilio (M. Regolo) (cons. 256 a. C.), 125; in Africa, 125, 126; prigioniero (255 a. C.), 127.

Attalo I, re di Pergamo, contro Filippo V, 167; alleato con Rodi, Chio, ecc., 178; contro Filippo V, 178; invoca Roma (201 a. C.), 178; alleato con Roma, 182; nella seconda Guerra macedonica, 183.

Attalo II, re di Pergamo, manda la flotta in aiuto di Metello, 223.

Attalo III, re di Pergamo; sua morte (133 a. C.); lascia il regno a Roma, 239.

Auguri, 13. V. Sacerdoti,

Aurelio (C. Cotta) (cons. 75 a. C.), e l’abolizione della legge di Silla circa il tribunato, 342-43.

Ausculum (Ascoli di Puglia), battaglia (279 a. C.), 103; (del Piceno), nella Guerra sociale, 305.

Auspicia, 14, 15, 33, 40.


Baecula (in Spagna), prima battaglia (208 a. C.), 167; seconda battaglia (206 a. C.), 169.

Baetis (Fl.), in Spagna, 167.

[371]

Baleari, conquistate da Roma, 260.

Bastarni, 281; mercenari, 307.

Belli, 213, 232.

Benevento, battaglia (275 a. C.), 107.

Beoti, 223.

Bisanzio, contro Filippo V, 178.

Bitinia, 178; il re di B. battuto da Aristonico, 245; invade con Mitridate la Paflagonia, 281. V. Nicomede; la B. in eredità a Roma (75 a. C. o 74 a. C.), 343; invasa da Mitridate (74 a. C.), 344; riconquistata da Lucullo, 346, 348; invasa di nuovo da Mitridate (67 a. C.), 359; provincia unica col Ponto, 364.

Bituito, re degli Arverni, 260; catturato e deportato in Italia, 260, 267.

Bocco, re di Mauretania, alleato di Giugurta, 274; consegna Giugurta a Mario, 276; riceve la porzione occidentale della Numidia, 278.

Boi, 96, 97, 142; assalgono Piacenza e Cremona (218 a. C.), 150. V. Galli.

Bologna, colonia romana, 195.

Boviano, capoluogo del Sannio, 88; distrutta da Silla, 333.

Bruzii, combattuti da Alessandro il Molosso, 72; contro Roma (285 a. C. sgg.), 96-97; perdono parte del territorio dopo la guerra tarantina, 108; passano ad Annibale, 160.


Cabira, città del Ponto, 349, 357.

Caere, città etrusca, 4.

Calcide, piazzaforte macedone in Grecia, 185; occupata da forze romane e pergamee, 183.

Cales (Calvi), colonia romana, 72.

Callife, 74.

Calpurnio (L. Bestia) (cons. 111 a. C.), generale contro Giugurta, 264; e Giugurta, 264-65.

Calpurnio (L. Pisone) (cons. 148 a. C.), combatte in Africa, 219.

Camerino, 92.

Camillo, «secondo fondatore» di Roma, 287.

Campania, Etruschi in C., 3, 10-11; Campania preromana, 64 sgg.; assoggettamento a Roma, 70-71; passa in parte ad Annibale, 160, 161; guerra in C. (215 a. C.), 161; nella guerra sociale, 305; colonie militari in C., 333.

Campidoglio, 17.

Canne, battaglia (2 agosto 216 a. C.), 158-60.

Canuleio (C.), tribuno della plebe; sua legge (444 a. C.), 40.

Canusio, 79.

Capio, 6.

Cappadocia, alleata di Antioco, 191; il re di C. battuto da Aristonico, 245; occupata da Mitridate VI, 293. V. Ariobarzane; seconda invasione mitridatica, 294, 295; terza invasione mitridatica (88 a. C.), 307; la Grande C., invasa da Tigrane, 342, 359.

Capri, origine del nome, 6.

Capua, origine del nome, 6; occupata dagli Etruschi, 65, 66; dai Sanniti, 65; in rotta con la confederazione sannitica, [372] 65-66; guerra coi Sanniti (343 a. C.), 67; alleanza con Roma, 67; in lega coi Latini contro Roma, 68; dopo la Guerra latina del 340-338 a. C., 70; passa ad Annibale, 160; ripresa dai Romani, 164; scuola di gladiatori, in C., 349.

Caria, possesso dei re di Pergamo e dei Rodii (189 a. C.), 192.

Carrinate, 329.

Cartagena, 150; presa da Scipione (209 a. C.), 167.

Cartagine, e Roma regia, 18; primo trattato con Roma (510 o 509 a. C.), 27 segg., 43, n. 1; secondo trattato con Roma (348 a. C.), 62-63; e Roma durante la Guerra tarantina, 105; e Pirro in Sicilia, 106; suo territorio nel III sec. a. C., 110; alla vigilia della prima punica, 110 sgg.; governo, 111; vita economica, 110-12; regime commerciale di monopolî, 112; ordinamento militare, 111, 112, 174; e la prima punica (264-241 a. C.), 121 sgg.; alleata di Siracusa, 121; assedia Messina (264 a. C.), 121; perde la Sicilia e le isole tra la Sicilia e l’Italia, 130; rivolta di mercenari, 130; i Cartaginesi in Spagna dopo il 241 a. C., 145 sgg.; seconda Guerra punica (218-201 a. C.), 147 sgg.; C. dispare dal novero delle grandi Potenze (147 a. C.); dopo la seconda punica, 214; risurrezione economica, 214; e Massinissa, 214, 215; e la Sardegna, 27, 28, 110, 117; commercio cartaginese nella Sardegna romana, 214; rivolgimenti politici (151-150 a. C.), 215; guerra con Massinissa, 215; esordi della seconda punica, 216-217; la terza Guerra punica (149-146 a. C.), 217 sgg.; vinta e distrutta, 222; il territorio cartaginese, provincia romana (146 a. C.), 222-23; conseguenze della distruzione di C. nel mondo mediterraneo; colonia Giunonia, 253-54; e abrogazione della legge relativa, 256.

Casilino, presa da Annibale, 161.

Cassio (Spurio) (cons. 493 a. C.), 29; e la guerra col Lazio, 29.

Cassio (L. Longino) (cons. 107 a. C.), sconfitto dai Tigurini, 274-75.

Cassio (L.) pretore; spedito a Giugurta, 265.

Catone. V. Porzio.

Caudio, 77.

Cavalieri, in Roma, 137, 249; crescente importanza, 228, 229; e la legge agraria sempronia, 237; ottengono la giurisdizione penale, 249; e l’appalto dei tributi della provincia d’Asia, 250; contro C. Gracco, 255; in Numidia, 264, 269; parteggiano per C. Mario, 271, 311; abbandonano il partito popolare (100 a. C.), 291; si riconciliano con la nobiltà senatoria, 296-297; nuova rottura coi senatori, 297; accusano P. Rutilio Rufo (93 a. C.), 298; nelle leggi di Livio Druso (91 a. C.), 299; nuova coalizione col Senato, 299, 300; rottura col Senato [373] dopo il processo di Rutilio Rufo, 310; avversano Silla, 310, 311; e le leggi sulpicie, 312; e le leggi cornelie dell’88 a. C., 315; perdono il potere giudiziario, 334; Silla contro i cavalieri, 335, 337, n. 7; rimessi nei tribunali (70 a. C.), 353. V. Mercatores.

Cecilio (Q. Metello) (cons. 251 a. C.), sconfitto presso Palermo, 128.

Cecilio (Q. Metello) (pretore, 149 a. C.), 219; contro Andrisco, 219; reprime l’insurrezione della Macedonia (148 a. C.), 219; vince la Lega achea, 223.

Cecilio (Q. Metello), figliuolo del prec., conquista le Baleari (121 a. C.), 260.

Cecilio (Q. Metello Numidico) (cons. 109 a. C.) generale contro Giugurta (109 e 108), 269; sconfigge Giugurta, 269; suo conflitto con Mario, 271; sostituito nel comando della Guerra di Numidia, 272; trionfa, 274; candidato dell’aristocrazia al consolato pel 100 a. C., 288; in esilio, 290; richiamato, 292.

Cecilio (Q. Metello Pio) nel Sannio, 318; in difesa del senato contro Cinna, 318; nella prima Guerra civile, 329, 330; sconfigge Norbano a Faenza, 331.

Celesiria, occupata dai Tolomei, 110; dai Romani, 162.

Celio, 16, 17.

Celti. V. Galli.

Celtiberia (in Spagna), insurrezione del 154 a. C., 213; e Sertorio, 340.

Cenomani (Galli), 141

Censori, origine della magistratura, 42; suoi uffici, 42, 137; aboliti da Silla, 335; ristabiliti nel 70 a. C., 354.

Censura. V. Censori.

Centuria, nell’esercito romano primitivo, 15; nella costituzione serviana, 20; nella riforma del 241 a. C., 132. V. Comizi centuriati.

Cheronea (in Beozia), battaglia (86 a. C.), 320, 321.

Chersoneso tracico, 178; ad Eumene, re di Pergamo (189 a. C.), 192.

Chio, alleata di Roma nella Guerra siriaca, 191.

Chiusi, assediata dai Galli, 5.

Cilicia, conquistata da Tigrane, 353; dominio dei pirati, 342; provincia romana, 345, 358, 359.

Cilnio (C. Mecenate), d’origine etrusca; pubblicano a Roma, 296.

Cimbri, invadono l’Illiria e assalgono i Taurisci, 263; sconfiggono Cn. Papirio Carbone (113 a. C.); invadono la Gallia transalpina (109 a. C.), 268; si congiungono ai Teutoni, 274; e ai Tigurini, invadendo di nuovo la Gallia, 276-77; sconfiggono i Romani ad Arausium (6 ottobre 105 a. C.), 277; invadono la Spagna (104 a. C.), 279; invadono l’Italia, 284-85; sconfitti e distrutti ai Campi Raudii (30 luglio 101 a. C.), 285.

Cinocefale, battaglia (197 a. C.), 185.

Cipro, sotto i Tolomei, 110.

[374]

Circei, 28, 29.

Circo Massimo, 17.

Cirenaica, 294; sotto i Tolomei, 110; in eredità a Roma, 294.

Cirta, cittadina numidica, 263; assediata e presa da Giugurta, 263, 264; commercianti italici a C., 264.

Cittadinanza (romana); civitas cum suffragio, 70; sine suffragio, 70-71; e i municipi romani, 114-15; la c. r. agli Italici, 131, 296, 300-301; Silla toglie la c. r. a molti municipi, 336.

Chio, contro Filippo V, 178.

Cicladi, 178.

Cinna, V. Cornelio.

Cizico, contro Filippo V, 178; assediata da Mitridate, 346.

Claudio (Appio) (cons. nel 264 a. C.), e la prima campagna della prima punica (264 a. C.), 121 sgg.

Claudio (Appio, Cieco) (censore, 312-308), sua opera, 83 sgg.; durante la guerra tarantina, 104; tentativi contro le sue riforme, 139.

Claudio (Appio) (cons. 143 a. C.), vince i Salassi, 231; suocero di Tiberio Gracco, 237; uno dei tresviri agris adsignandis, 239.

Claudio (Appio), decemviro, 38, 47.

Claudio (C. Nerone) (cons. 207 a. C.), 167; contro Annibale, 168; si congiunge con l’esercito di Livio Salinatore, 168; vince Asdrubale, 168.

Claudio (M. Marcello) (cons. 152 a. C.), conclude la pace coi Celtiberi, 213.

Claudio (M. Marcello) (pretore, 216 a. C.), 161; guerreggia in Campania Annibale, 161; destinato in Sicilia (214 a. C.), 162; assedia Siracusa, 163; e la prende, 164 (212 a. C.), 164; sua morte (208 a. C.), 167.

Cloaca Massima, 19.

Clodio (P.) (cons. 250), battuto presso Trapani, 128.

Clodio (P.), sobilla i soldati contro Lucullo, 356.

Clupea, 126, 127.

Colchide, Mitridate in, 360; invasa da Pompeo, 361; nuovi re in, 362.

Colonie, romane, carattere, 113; magistrati, 113; forza numerica, 113; latine, 113; ordinamento, 113; diritti civili e politici, 113-14; forza numerica, 114; dopo la seconda punica, 195; colonie proposte da C. Gracco e loro carattere, 253-254. V. leges (de coloniis); e la Guerra sociale, 302; militari, nel Sannio, in Campania, in Etruria, 333.

Comizi centuriati, 21; dopo la caduta della monarchia, 32; riforma di Appio Claudio, 84-85; riforma dei C., (241 a. C.), 130-132; 143, n. 1; riforma di Silla, 334; curiati, e loro ufficio, 15, 20; dopo la caduta della monarchia, 32; tributi, eleggono i tribuni plebei, 35; gli artigiani e i C. t., 84, 85; e le leggi Valeria Horatia (444 a. C.) e Publilia (334 a. C.), 95; e le riforme di Appio Claudio (312-308 a. C.), 85; e la legge Hortensia (287 a. C.), 95-94; riforma di Silla, 334.

[375]

Commercio, del Lazio primitivo, 8, 18-19, 21; decadenza del commercio romano dopo la fine della monarchia, 28; ripresa dopo la Guerra tarantina, 119; commercio romano nell’Adriatico, 134-35; nella seconda metà del III sec. a. C., 136; nella prima metà del II sec. a. C., 195-96; nell’età di Mario e Silla, 295.

Consolato. V. Consoli.

Consoli, 32; eletti dai comizi centuriati, 32; e la legge Canuleia, 40; lotta plebeo-patrizia pel consolato, 42; e la legge licinio-sestia (367 a. C.), 57; i plebei al consolato, 58; intervallo fra due consolati stabilito da Silla, 335.

Coorte, 280.

Corcira, nella confederazione italica, 135.

Corfinium nel paese dei Peligni, 303; capitale degli Italici durante la Guerra sociale, 303.

Corfù, occupata da Pirro, 101.

Corinto, e la prima Guerra illirica, 135; piazzaforte macedone in Grecia, 185; distrutta (146 a. C.), 223-24; ragioni della distruzione, 225; conseguenze sulla economia del mondo mediterraneo, 228.

Cornelio (P. Scipione) (cons. 218 a. C.), 150; nella Cisalpina, 150; a Marsiglia, 150; a Pisa, 151; battuto presso il Ticino, 151; si ritira a Piacenza, 152; poi alla Trebbia, 152; in Spagna; sua morte (211 a. C.), 165.

Cornelio (Cn. Scipione), fratello del precedente, 151; in Spagna, 151; taglia le comunicazioni con l’Italia e la Spagna, 154; sua morte (211 a. C.), 165.

Cornelio (P. Scipione Africano), alla battaglia del Ticino (218 a. C.), 151; carattere e popolarità, 166; proconsole (210 a. C.); in Spagna (209 a. C.), 166; prende Cartagena, 167; vince a Baecula (206 a. C.), 169; e ricomincia la riconquista della Spagna, 169; console (205 a. C.), 169; suo disegno di invasione dell’Africa cartaginese, 169, 170; parte per l’Africa (204 a. C.), 170; assedia Utica, 170; vince Siface e i Cartaginesi, 170, 171; trattative di pace, 170; vince presso Zama (202 a. C.), 171 sgg.; sua politica dopo la seconda punica, 188-89; proconsole nella guerra contro Antioco (170 a. C.), 171; accusato di perduellione, 202, 209, n. 4; in volontario esilio, 202-3.

Cornelio (L. Scipione) (console 190 a. C.), fratello del precedente e generale supremo contro Antioco, 171; accusato di appropriazione indebita, 202, 209, n. 4.

Cornelio (P. Scipione Emiliano), tribuno militare in Africa, 220; carattere e valore, 220; console (147 a. C.), 220; generale romano nella terza punica, 221; vince e distrugge Cartagine, 222-23; suo partito in seno alla nobiltà, 230; in Oriente, 234; console (134 a. C.) e generale in Spagna, 235; suo giudizio su Tiberio Gracco, 243; distrugge Numanzia [376] (133 a. C.), 244; riordina la Spagna, 244; e gli italici, 245; sua morte improvvisa, 247.

Cornelio (P. Scipione Nasica), contro i Graccani, 242-43.

Cornelio (L. Silla), questore di Mario, 273; tratta con Bocco per la cattura di Giugurta, 276; nella Guerra cimbrica, 309; pretore (102 a. C.), rimette sul trono Ariobarzane, 294; console (88 a. C) e generale contro Mitridate, 309; aborrito e avversato dai cavalieri, 310-11; marcia da Nola su Roma, 313-14; sue leggi, 315; in Grecia (primavera dell’87 a. C.), 316; hostis publicus, 318; saccheggia la Grecia 319; vince Archelao a Cheronea (86 a. C.), 320; accordo tacito con Valerio Flacco?, 321, 322, 337, n. 2; vince Dorilao a Orcomeno (86 a. C.), 322; corrompe Archelao, 323; stipula la pace di Dardano con Mitridate (85 a. C.), 323-24; in Asia e in Grecia (85-83 a. C.), 325, 326; tratta col governo democratico di Roma, 325; cambia il sistema d’esazione delle imposte in Asia, 326; prima Guerra civile (83-82 a. C.), 326 sgg.; suo ritorno in Italia (83 a. C.), 328; sconfigge Norbano, 328; padrone dell’Italia meridionale, 328-329; occupa Roma, 329; combatte Carbone, presso Chiusi, e la Cisalpina gli si arrende, 331; grande repressione in Italia, 333; dittatore (82-79 a. C.), 334 sgg.; si ritira a vita privata, 337; muore a Pozzuoli (79 a. C.), 337; suo pensiero politico, 334; sue Memorie, 337; l’opera di Silla distrutta (70 a. C.), 354.

Cornelio (L. Cinna), cons. I (87 a. C.), 315; ripropone le leggi sulpicie, 317; sua fuga, 318; a Capua; torna in Roma, 318; cons. II (86 a. C.), 317; trucidato dai soldati, 326.

Cornelio (L. Scipione Asiatico) (cons. 85 a. C.), bisnipote del vincitore di Antioco, 327; deposto da Silla, si ritira a Marsiglia, 328.

Cornelio (Dolabella), un sillano, accusato da Cesare, 347.

Cornelio (Cn. Lentulo), censore (70 a. C.), 354.

Corseoli, colonia dei Romani, 91.

Corsica, e Roma regia, 18; possesso cartaginese, 110, 117; guerra in C. (259-57 a. C.), 125; provincia romana, 133.

Cortona, 87.

Cremona, colonia romana (218 a. C.), 142.

Creta, sotto i Tolomei, 110.

Crotone, 2; occupata dai Romani, 105.

Cuma, 2; occupata dai Sanniti, 65; municipio sine suffragio, 70-71; nella seconda punica, 161.

Curie, 14, 15, 21; numero, 14; comizi curiati, 15.

Curio (M. Dentato) (cons. 270 a. C.), 94; invade l’Umbria e il Piceno, 94.

Cyrus (Kur) (Fl.), 361.


Dalmazia. V. Illiria.

[377]

Damasco, 362.

Dardano (nella Troade), pace di D. (85 a. C.), 323; sue conseguenze, 341-42.

Debiti, questione dei d., 34, 54-55, 61; le leggi licinio-sestie e i d., 56-57; saggio dell’interesse, 61; il nexum e sua abolizione (326 a. C.), 77; dopo la terza sannitica, 94-95; nella seconda metà del II sec. a. C., 229; richiamo in vigore delle antiche leggi sui d., 307; le leggi Cornelie dell’88 a. C., 315; legge Valeria (86 a. C.), 320.

Decemvirato, 36 sgg.; ufficio, 36-37; primo decemvirato (451 a. C.), e sua opera, 37-38; secondo decemvirato (450-449 a. C.), 38-39; fine, 39.

Decima (decuma), 133.

Decio (P. Mure) (cons. 297; 295 a. C.), 92; muore a Sentino, 93.

Decuria, 15.

Decurioni, magistrati delle colonie romane, 113.

Delo, emporio romano, 175-76; restituita agli Ateniesi e sua nuova floridezza, 208; Italici a D., 226; occupata dai generali di Mitridate, 310.

Demetriade, piazzaforte macedone in Grecia, 185.

Demetrio di Faro, 135; combatte contro Filippo V (220 a. C.), 148.

Demetrio, re di Macedonia, 134.

Dionisio, tiranno di Siracusa, 110.

Distribuzioni frumentarie, introdotte da C. Gracco, 251; le d. fr. e Livio Druso, 299; abolite da Silla, 335.

Dittatore, carattere della magistratura, 41; sua origine, 41.

Dittatura. V. Dittatore.

Divicone, capo dei Tigurini, vince il cons. Longino (107 a. C.), 274-75.

Domizio (Cn. Enobarbo) (censore 92 a. C.), suo editto sulle scuole di retorica, 298; un democratico, 327.

Dorilao, generale di Mitridate, 322.

Drepano. V. Trapani.

Duilio (C.) (cons. 260 a. C.), vince i Cartaginesi a Mylae, 124.

Duoviri, magistrati delle colonie romane, 113.

Duoviri navales, 85.


Eacida, padre di Pirro, 101.

Ebro (Fl.), in Spagna, 146.

Ecnomo (M. S. Angelo), battaglia (256 a. C.), 125.

Edepo (Fl.), battaglia (73 a. C.), 346.

Edili della plebe, 35; curuli, 58.

Edui, in amicizia coi Romani, 268.

Efeso, emporio commerciale, 321; insorge a favore di Mitridate (87 a. C.), 321.

Egadi, battaglia (242 a. C.), 129.

Egitto, sotto i Tolomei, 110; fornisce grano a Roma, 166; decadenza durante le guerre puniche, 178; Italici in E., 226.

Eleno, figlio di Pirro, 107.

Ellenismo, in Roma, nel periodo regio, 18-19; dopo la Guerra tarantina, 118-19; nel II sec. a. C., 197, 226-27; nel I sec. a. C., 294-95, 296.

[378]

Ellesponto, possessi dei Tolomei su l’E., 110.

Emilio (L. Paolo) (cons. 216 a. C.), 158; ucciso a Canne, 160.

Emilio (Paolo) (cons. 168 a. C.), 207; del partito tradizionalista, 207; generale per la terza macedonica, 207; vince a Pidna (168 a. C.), 207; si oppone all’annessione della Macedonia, 207.

Emilio (M. Scauro) (cons. 115 a. C.), 312; esclude i liberti dalle tribù, 312; princeps senatus e ambasciatore a Giugurta, 263; ufficiale nella guerra contro Giugurta, 264.

Emilio (Q. Barbula) (console 281 a. C.), e Taranto, 100.

Emilio (M. Lepido) (cons. 70 a. C.), 339; propone l’abolizione delle leggi sillane, 339; in Etruria ad arruolare ribelli, 337; hostis publicus, 340; vinto da Pompeo, 341; fugge in Sardegna e sua morte (77 a. C.), 341; i seguaci di E. L., amnistiati.

Emilio (M. Scauro), in Celesiria, 362.

Emporie, 223.

Enea, 6, 7.

Ennio, 197.

Epidamno, nella confederazione italica, 135.

Epiro, durante la seconda macedonica, 184; durante la terza macedonica, 206; saccheggiato dopo la terza macedonica, 208.

Equi, 3; guerre con Roma, 29, 30; incursioni a mezzo il secolo V, 36; nel 449 a. C., 39; dopo l’incendio gallico, 53.

Eraclea, battaglia (280 a. C.), 102; occupata dai Romani, 105.

Erea, 186.

Erice, 128.

Ermocrate, generale di Mitridate, 344.

Ernici, 3; in lega con Roma, 30; insurrezione, 88.

Esercito, di Roma regia, 15; legione, 15, 79; gratuità del servizio, 31; obbligatorietà, 187; soldo ai legionari, 48-49; il bottino, 31; modificazioni durante la seconda Guerra sannitica, 79; manipoli, 79; cavalleria, 79; suoi elementi, 187; condizioni durante e dopo la seconda macedonica, 187, 188, 201; durante la terza macedonica, 206; crisi dell’esercito romano di coscrizione, 187, 206; ulteriore decadenza dopo la terza macedonica, 212, 229-30; corruzione degli eserciti romani di Spagna, 235; riforma di Mario e sua portata, 272-73, 279-80; armamento secondo le riforme di Mario, 280; il nuovo esercito, 313-14; colonie militari, 333. V. Veterani; Coorte.

Esernia, città del Sannio, distrutta, 333.

Esino (Fl.), 97.

Esquilino, 19.

Etoli, lega etolica, 164; e la prima Guerra illirica, 135; mercenari etoli, 178; nemici della Macedonia, 182; alleati di Roma nella seconda macedonica, 164; pace con Filippo V (205 a. C.), 169; durante la seconda Guerra macedonica, 183; alleati di [379] Roma, (199 a. C.) 183, 184; dopo la seconda macedonica, 186; contro la politica romana in Grecia, 189; invocano Antioco di Siria, 189; guerra con Roma, 191; discordie interne, 204; notabili etoli avversi a Roma, trucidati, 208.

Etruria, 3-4, e i Tarquinii, 18; Etruria e Roma, 18-62; l’E. meridionale sottomessa a Roma, 49, 54, 87; decadenza nel III sec. a. C., 109; invasa dai Galli (225 a. C.), 141; colonie militari in E., 333; insurrezione dei coloni sillani, in E., 338; repressione della rivolta, 341.

Etruschi, 3. V. Etruria; territorio, 3; dominio, 3; civiltà, 3-4; città, 4; ordinamento politico, 4; in Campania e nel Lazio, 9-10; e Roma, 9-10, 18; in Roma, 12; prime guerre con Roma, 27; minacciati da Greci, Sanniti, Celti, 47; contro il Lazio dopo l’incendio gallico, 53; guerra etrusco-romano-sannitica (311-310 a. C.), 86, 88; nuova sottomissione a Roma (294 a. C.), 93; nuova insurrezione (285-283 a. C.), 96-97; e la Guerra sociale, 302, 303.

Eubea, attaccata dalla flotta romana (199 a. C.), 183; gli Eubei alleati della lega achea, 223.

Eumene, re di Pergamo, alleato dei Romani, nella guerra siriaca, 191; alla battaglia di Magnesia, 192; ottiene il Chersoneso Tracico, la Lidia, la Frigia e parte della Caria (189 a. C.), 192; dopo la Guerra siriaca, 205; incita Roma alla terza macedonica, 205; alleato di Roma nella terza macedonica, 206; sospettato a Roma, 208.

Eupatoria, città del Ponto, 349.


Fabio (Q. Massimo), sua carriera, 156; dittatore (217-16 a. C.), 156; in Apulia, 157; depone la dittatura (216 a. C.), 158.

Fabio (Q. Massimo Serviliano) (cons. 141 a. C.), in Spagna, 232; conclude la pace con Viriato, 232.

Fabio (Q. Rulliano) (cons. 310 a. C.), invade l’Etruria, 87; (cons. 297 e 295 a. C.), 92; vince a Sentino, 92.

Farisei, 363.

Farnace, figlio di Mitridate, ribelle al padre, 363; riceve il regno della Tauride, 364.

Felsina, 4.

Fenicia, occupata da Tigrane, 353; dai Romani, 362.

Ferento, 79.

Feriae imperativae, 312.

Feziali, 14.

Fidene; Veio, Roma e F., 46; distruzione, 46.

Fiesole, città etrusca, 4.

Filippo V, re di Macedonia, 148; guerreggia Demetrio di Faro (220 a. C.), 148; si allea con Annibale, 160, 161; la prima Guerra macedonica (215-205 a. C.), 162, 164, 167, 169; pace con Etoli e con Romani (205 a. C.), 169; seconda Guerra macedonica (200-196 a. C.), 177 sgg.; si allea con Antioco il Grande, 178; sue [380] mire sull’Egitto, 178; occupa le Cicladi, il Chersoneso tracico e la Bitinia, 178; invade l’Attica, 178, 179, 183; alleato con Roma durante la guerra siriaca, 190 sgg.; tenta di espandersi nuovamente in Grecia e in Tracia, 204; si amica i barbari d’oltre Danubio, 204-05; muore (179 a. C.), 205.

Fimbria, luogotenente di Valerio Flacco, 322-23; generale democratico contro Silla, 323; invade l’Asia e occupa Pergamo (85 a. C.), 324; vinto da Silla e suicida (85 a. C), 324.

Flamini, sacerdoti romani, 14; delle colonie romane, 113.

Flaminino. V. Quinzio.

Flaminio (C.) (tribuno della pl. 233 a. C.), 140; legge agraria, 140; (cons. 223 a. C.), 142; (cons. 217 a. C.), 154; a Fiesole, 155; battuto e ucciso al Trasimeno, 155-156.

Focesi, 223.

Fondi, 70.

Forche Caudine, 77-78.

Formia, 70.

Foro romano, 9.

Fossa Mariana, 283.

Fregellae (Ceprano), colonia romana, 72; rioccupata dai Sanniti, 78; ripresa dai Romani (313 a. C.), 80; insurrezione, 248.

Frentani, 3.

Frigia, possesso dei re di Pergamo (189 a. C.), 192.

Fulvio (Flacco) (cons. 125 a. C.), sua legge per la cittadinanza agli Italici, 247.

Fulvio (Q. Nobiliore) (cons. 153 a. C.), disfatto in Celtiberia, 213.

Furio (M. Camillo), e la distruzione di Veio, 49.


Gabinio (Aulo), tribuno della pl. (67 a. C.), 358; lex Gabinia, 358; inviato da Pompeo in Fenicia, 362.

Gaeta, origine del nome, 6.

Galati, alleati di Antioco, 191; invadono la Grecia, 310.

Galazia, 293; i tetrarchi della G., 362; riordinata da Pompeo, 364.

Galli, nell’Italia nord, 47; i G. Senoni, loro territorio, 97; in Toscana e nel Lazio, 50-51; incendiano Roma e assediano il Campidoglio, 51; sgomberano Roma, 52; cronologia dell’invasione, 58, n. 1; invasioni del 360 e 348 a. C., 62; nella terza sannitica, 92-93; i Galli assediano Arezzo e muovono contro il Lazio (285 a. C), 96; Roma ne occupa il territorio, 97; i G. soldati mercenari, 122; guerra con Roma (225-222 a. C.), 141 sgg.; durante la seconda punica, passano dalla parte dei Cartaginesi, 152, 154; arrolati da Asdrubale, 167; da Magone, 169; continuano la guerra con Roma, 179, 182; razzie nel territorio di Marsiglia, 260; e nuova guerra con Roma, 260; i G. nella valle del Danubio, 281; i G. d’Asia Minore. V. Galati; Arverni; Edui; Insubri.

Gallia Cisalpina, occupata da Roma (224-222 a. C.), 141-142; causa della seconda punica, [381] 147-48; guerra nella C., (216 sgg.), 158, 179, 187, 190; progressi economici, 302; e la Guerra sociale, 302; ammessa alla cittadinanza latina (89 a. C.), 305; insurrezione dopo la morte di Silla, 340; e repressione, 341. Narbonese, provincia romana, 260; invasa dai Tigurini (107 a. C.), 274; insurrezione contro i Romani, 271, 275; pacificata, 275, 279. Transalpina, invasa dai Cimbri (109 a. C.), 268. V. Arverni; Edui.

Gaziura, città del Ponto, 357.

Gellio Egnazio, 92; muore a Sentino, 93.

Gellio (L.), censore (70 a. C.), 354.

Gempsale. V. Iempsale.

Genova, presa da Magone (205 a. C.), 169.

Genti, 14; composizione, 14-15; le g. e l’esercito romano, 15.

Gerone, tiranno, poi re di Siracusa, 116, 122; alleato di Roma, 122, 128, 154; sua morte, 162.

Geronimo, nipote di Gerone, 162; si allea con Cartagine, 162; ucciso, 162-163.

Gerusalemme, assediata e presa da Pompeo, 363.

Getuli, alleati di Giugurta, 269.

Giudea, indipendente dai Seleucidi, 362; guerre civili, 362-363; annessa alla provincia di Siria, 363.

Giugurta, figlio naturale di Massinissa, 261; in Spagna, 261, 262; amico di Scipione Emiliano, 261-62; uccide Iempsale e scaccia Aderbale, 261; corrompe il Senato romano? 261-62, 263; nuova guerra ad Aderbale, 263; protetto dalla nobiltà senatoria, 263-264; attaccato dai democratici, 264; guerra giugurtina, (117-106 a. C.), 264 sgg.; chiede pace ai Romani, 264-65; i comizi rifiutano la pace, 265; invitato a Roma, 265-266; fa uccidere Massiva, 268; espulso da Roma, 267; sconfigge Sp. Postumio Albino, 267; è sconfitto da Metello, 269; la guerra e i partiti in Roma, 269-72; sconfitto da Mario, si rifugia in Mauretania, 274; consegnato a Mario (105 a. C.), 276; è fatto morire nel carcere Tulliano, 278.

Giulio (L. Cesare) (cons. 90 a. C.), contro gli Italici, 303; sua legge per la cittadinanza agli Italici, 304.

Giulio (C. Cesare) (100-44 a. C.), famiglia e carriera, 347; un Mariano, 347; discorde dai Mariani di Spagna, 347; e la legge Manilia, 360.

Giunio (M. Silano) (cons. 109 a. C.), spedito contro i Cimbri e sconfitto, 268.

Giunio (L. Pullo) (cons. 259 a. C.), 128.

Giunio (M. Penno) (trib. pl. 126 a. C.), propone di espellere da Roma i Latini, 247.

Giunio (L. Bruto), console nel 510 o 509 a. C., 43.

Giunio (M. Bruto), un nobile, complice di Lepido, 339, 341.

Giunonia, colonia romana a Cartagine, 253; abrogazione della legge relativa a questa colonia, 256.

[382]

Gladiatori, scuola di gl. a Capua, 350.

Gordiana, 356.

Graccani, dispersi dalla reazione, 243; ricostituzione del partito, 247; nuova reazione dopo il 121 a. C., 257.

Gracco. V. Sempronio.

Grecia, e Roma, dopo la prima Guerra illirica, 135-36; indipendente dalla Macedonia (196 a. C.), 186; città greche asiatiche liberate dopo la Guerra siriaca (189 a. C.), 192; persecuzioni dopo la terza macedonica, 208; incorporata alla provincia di Macedonia (146 a. C.), 224; e Mitridate, 307, 308, 309; invasa da Traci e Galli, 310; molestata dai barbari del nord, 342; mercenari greci, 126, 307.

Guerre: Cimbrica. V. Cimbri e Teutoni. Civile (Prima) (85-83 a. C.), 326 sgg. In Italia, V. Roma. Giugurtina, V. Numidia; Giugurta. Macedoniche, V. Roma; Macedonia. Mitridatiche. V. Mitridate, Puniche, V. Roma; Cartagine. Siriaca, V. Roma; Antioco IIIº. Sociale (90-88 a. C.), 302 sgg., 305. In Spagna, V. Spagna.


Hadria (Atri), colonia (290 a. C.), 94.

Hadrumetum, 174.

Hostis publicus, 315, 318, 329.


Iberia (Georgia), conquistata da Tigrane, 253; invasa da Pompeo (65 a. C.), 361.

Illiria (Dalmazia), principato indipendente, 134; guerra con Roma, 135; durante la seconda punica, 162, 163; i Romani occupano l’I. (200 sgg. a. C.), 183; possessi macedoni in I., 185; perduti dopo la seconda macedonica, 185-186; durante la terza macedonica, 206; gli Illirî alleati di Mitridate, 281.

Illiri, V. Illiria.

Iempsale figlio di Micipsa e re di Numidia, 261; fatto uccidere da Giugurta, 261.

Imperium, 32.

Industria, nel Lazio primitivo, 8, 12, 19, 21; la seconda sannitica e l’i. romana, 82.

Insubri, 142; assalgono Piacenza e Cremona (218 a. C.), 150.

Interamna sul Liri (Teramo), colonizzata dai Romani, 80.

Ippona, 223.

Ircano, pretendente al trono di Giudea, 363.

Italia, nell’VIII sec. a. C., 1 sgg.; forze militari nella seconda metà del III sec. a. C., 149; durante la seconda punica, 165-66; Italia e Macedonia, dopo la seconda punica, 179-81. V. Roma.

Italici, 2-3; nell’esercito romano, 187; e l’ager publicus, 195; e il commercio nei primi del sec. II a. C., 195; a Delo, in Asia, in Egitto, 226; e la legge agraria sempronia, 236-237, 245, 246-47; proposta di cittadinanza agli I. (125 a. C.), 247; la legge sempronia sulla cittadinanza agli I., 254-55; Livio Druso e gli I., 255; legge livia sulla cittadinanza agli I., 300-01; inchiesta contro gli I., 301; la Guerra sociale e suo carattere, 301-02; concessione della cittadinanza agli I. (90 [383] e 89 a. C.), 304-05; massacrati in Asia, 308; distribuiti in solo 8 o 10 tribù, 308; nell’esercito di Mitridate, 309; e la legge sulpicia (88 a. C.), 312; e Cinna, 318; distribuiti in tutte le 35 tribù, 318, 327.

Ius commercii, 113.

Ius connubii, 113.


Lacinio (C.), 99; altare a Giunone presso, 171.

Lagidi (=Tolomei) re d’Egitto, 178.

Lanuvio, 70.

Latini, 2, 3; antichi L., 8; Prisci Latini, 16; insurrezione e autonomia (....493 a. C.), 29-30; i L. e Roma dopo l’incendio gallico, 62; Lega latina e insurrezione contro Roma (340-38 a. C.), 68 sgg.; assoggettamento a Roma, 70-71; e l’ager publicus, 195; e la legge agraria sempronia, 236-237, 245, 246-47; e la cittadinanza romana, 246; minacciati di espulsione da Roma, 247; e la Guerra sociale, 302; insurrezione alla morte di Silla. V. Lazio.

Laurento, 28.

Lautule, battaglia (315 a. C.), 80.

Lavori pubblici, in Roma nell’età regia, 19; in sulla fine del IV sec. a. C., 83; in Italia, nella prima metà del II sec. a. C., 184; in Roma nella prima metà del II sec. a. C., 196; e C. Gracco, 251.

Lazio, 3, 7; economia del L. primitivo, 8, 24, n. 1, V. Latini.

Leggi: Acilia de repetundis (123 a. C.), 250. Agrarie: licinio-sestia (367 a. C.), 56-58, 59, n. 4; flaminia (233 a. C.), 140; proposta di C. Licinio Crasso, 230; di C. Lelio, 231; sempronia (133 a. C.), 236 sgg., 253-260; Apuleia (100 a. C.), 288. Apuleiae, V. Apuleio. Aurelia, v. Aurelio (C. Cotta). Canuleia (444 a. C.), 40. Claudia (218). Didia Cibaria (143 a. C.), 227. Cornelia Pompeia unciaria (88 a. C.), 315. Cornelia Pompeia de sponsu (88 a. C.), 315. de coloniis, di C. Gracco, 253-254; di Saturnino (100 a. C.), 288-89; di Livio Druso (121 a. C.), 255; di Druso il giovane (91 a. C.), 299. de maiestate, 289, 290. Domitia de sacerdotibus (103 a. C.), 1; abolita da Silla, 335. Fannia, 227. Frumentariae, sempronia (123 a. C.), 251, 253; livia (91 a. C.), 299. Gabinia (67 a. C.), 358. Hortensia (287 a. C.), 93, 95. Iudiciariae Sempronia (123 a. C.), 250; Livia (91 a. C.), 299; Plautia (89 a C.), 304-05. Iulia de civitate sociis danda (90 a. C.), 304. Licinio-Sestie (367), 56-58, 59, n. 4; conseguenze, 81. Manilia (67 a. C.), 360. Militaris sempronia (123 a. C.), 251-52. Oppia, 197; abolita (125 a. C.), 197. Plautia-Papiria de civitate (89 a. C.), 304; Plautia iudiciaria (89 a. C.), 304-5; Publilia (334 a. C.), [384] 95. Servilia iudiciaria, 275. Sulpicie, 311-12, 315, 317-18. Terentilia (462 a. C.), 36. Valeria-Horatia (444 a. C.), 95. Valeria sui debiti (86 a. C.), 320. Viaria, Sempronia (121 a. C.), 251.

Legione, 15; riforme di Mario, 279-80.

Lelio (C.), amico e legato di Scipione Emiliano, 231; sua proposta di legge agraria, 231; sopranominato Sapiens, 231.

Leptis Magna, 223.

Lesbo, alleata di Roma nella Guerra siriaca, 191.

Leucopetra, battaglia (146 a. C.), 223.

Liberti, in Senato, 84; esclusi dalle tribù (115 a. C.), 312; arrolati per la Guerra sociale, 303; e la legge sulpicia (88 a. C.), 312; nella prima Guerra civile, 333-34.

Libî, 111; e Cartagine, 111, 112.

Libo-Fenici, 111; e Cartagine, 111, 112.

Licia, Lega licia, 191; alleata di Antiochio, 191; ai Rodii (189 a. C.), 197.

Lidia, assediata ad Eumene, re di Pergamo (189 a. C.), 192.

Licinio (C. Stolone), le leggi Licinio-Sestie, 56 sgg.

Licinio (L. Lucullo) (cons. 151), assale i Vaccei, 213.

Licinio (C. Crasso) (trib. pl. 145 a. C.), e sua legge agraria, 230.

Licinio (L. Crasso) (censore, 91 a. C.), suo editto sulle scuole di retorica, 298.

Licinio (M. Crasso), un ricco sillano, 329, 351; vince a Porta Collina (1 nov. 82 a. C.), 332; pretore (71 a. C.), incaricato della guerra contro Spartaco, 350, 351; vince gli eserciti di Spartaco, 351; si presenta al consolato del 70 a. C., 352; opposizione del Senato, 352; accordo con Pompeo e coi democratici, 352; console (70 a. C.), 352; demolisce le riforme di Silla, 354; discordia con Pompeo, 355.

Licinio (L. Lucullo), famiglia e carriera, 344; ufficiale di Silla, 319, 344-45; raccoglie una potente flotta, 324; durante la prima Guerra civile, 345; pretore in Africa, 345; cons. (74 a. C.), 345; proconsole della Cilicia, 345; al comando della nuova guerra contro Mitridate, 345; sua strategia, 346; vince al Rindaco e sull’Edepo, 346; invade il Ponto (73 a. C.), 349; sconfigge definitivamente Mitridate (72 a. C.), 350; e i pubblicani di Asia, 351; invade l’Armenia (primavera 69 a. C.), 353, 355; assedia e prende Tigranocerta, 355; ridona ad Antioco la Siria, 355; suoi disegni, 356; privato della provincia d’Asia, 356; vince Tigrane all’Arsaniade, 357; privato della provincia di Cilicia, 357; destituito, 359.

Licinio (M. Lucullo), fratello di Lucio, nella seconda Guerra mitridatica, 348; proconsole in Macedonia, conquista la Tracia (72 a. C.), 350.

Liguri, 3; soldati mercenari, [385] 122, 169; infestano le vie marittime tra Italia e Spagna, 179.

Lilibeo (Marsala), fortezza cartaginese in Sicilia, 106, 128, 129.

Livio Andronico, 119.

Livio (M. Salinatore) (cons. 207 a. C.), 167; contro Asdrubale, 167; vince Asdrubale, 168.

Livio (Druso) (trib. pl. 122 a. C.), 255; contro C. Gracco, 255; sue leggi, 255.

Livio (M. Druso) (trib. pl. 91 a. C.), forse figliuolo del Druso avversario di C. Gracco, 298; suo programma, 298; sue leggi, 299-300, 300-301; giudizio su L., 300; e gli Italici, 300; sua morte (91 a. C.), 301.

Locresi (gli abitanti della Locride, nella Grecia centrale), alleati della Lega achea, 223.

Locri, nella Magna Grecia, 2; e Roma, 98; occupata da Roma durante la Guerra tarantina, 105.

Lucani, 3; combattuti da Alessandro il Molosso, 72; nella seconda Sannitica, 74, 76; attaccati dai Sanniti (299 a. C.), 91; alleati dei Sanniti (296 a. C.), 92; L. e Greci, dopo la seconda sannitica, 95; contro Roma (285 a. C.), 96-97, 98, 99; alleati di Pirro, 103; perdono parte del territorio dopo la Guerra tarantina, 108; passano ad Annibale, 160; Annibale sgombra il paese dei L. (207 a. C.), 169; e Mitridate, 308; insurrezione durante la prima Guerra civile, 330; marciano su Roma (82 a. C.), 331-32; sconfitti da Appio Claudio e da Silla a Porta Collina (1 nov. 82 a. C.), 332.

Lucania. V. Lucani.

Lucera, occupata dai Romani (320 a. C.), 78; scaccia la guarnigione romana (315 a. C.), 80; colonizzata (314 a. C.), 80.

Luceres, 9.

Lucrezia, 22-23.

Lucullo. V. Licinio.

Lucumoni, 4.

Lucca, colonia latina, 195.

Luni, colonia romana, 195.

Lusitani (in Spagna), insurrezione (152 a. C.), 213, 221; domata, 232; trapiantati a Valenza, 232; e Sertorio, 340.

Lutazio (C. Catulo) (cons. 242 a. C.), vince alle Egadi, 129.

Lutazio (Q. Catulo), sconfitto dai Cimbri (101 a. C.), 285.

Lutazio (A. Catulo) (cons. 78 a. C.), 340; incaricato della repressione della insurrezione di Lepido, 340.

Lyssos (Alessio), 135.


Macare, figlio di Mitridate e vicerè della Tauride.

Macedonia, Pirro e la M., 101; prima Guerra macedonica (215-05 a. C.), 162, 164, 167, 169; seconda Guerra macedonica (200-196 a. C.), 179 sgg.; la M. e l’Italia dopo la seconda punica, 179, 181; guerra in M. (198 a. C. sgg.), 183, 184; dopo Cinocefale, 185-86; smembrata in quattro principati con divieto di commercio e di connubio, 207-08; imposte, 208; miniere d’oro, [386] 208; conseguenze dello smembramento, 218; insorge (149 a. C.), 218; è domata, 219, 221; provincia romana (147 a. C.), 221; pubblicani in M., 226; popolazioni barbariche della M., alleate di Mitridate, 307; molestata dai barbari del nord, 342. V. Filippo. V. Perseo; Andrisco.

Magistrature, della Repubblica romana, 31, 32; intervallo biennale, 335; plebei alle m., V. Plebei; Silla aumenta il numero dei magistrati, 335; e fissa la successione e gl’intervalli fra le magistrature, 335.

Magna Grecia, città della M. G., 2; e Roma regia, 18-19; e i Lucani, 95-96; nel III sec. a. C., 97; passa in parte ad Annibale, 160; e la Guerra sociale, 302.

Magnesia ad Sypilum, battaglia (190 a. C.), 191.

Magone, generale punico, in Italia (206-5 a. C.), 169; prende Genova, 169.

Maleventum, antico nome di Benevento, 107.

Mamertini e Agatocle, 115-16; occupano Messina, 116; sconfitti da Gerone, 116; i Romani e i M., 116, 120, 121.

Manilio (M.’) (cons. 149 a. C.), generale contro Cartagine, 216.

Manilio (G.) (tribuno della pl. 67 a. C.), 359; legge Manilia, 360.

Manipolo, 79, 279-80.

Manlio (A.), ambasciatore in Grecia, 36.

Manlio (M. Capitolino), difensore del Campidoglio durante l’invasione gallica, 54; agitazione, da lui promossa in Roma, 54-55; processo e condanna, 55.

Manlio (L. Volsone) (cons. 256 a. C.), 125.

Manlio (Cn. Massimo) (cons. 105 a. C.), 277; sconfitto ad Arausium (105 a. C.), 277.

Mantova, città etrusca, 4.

Manubiae, 31.

Marcio (C. Rutilo) (cons. 310 a. C.), sconfitto nel Sannio, 87.

Marcio (L. Censorino) (cons. 149 a. C.), generale contro Cartagine, 216.

Mario (C.), pubblicano impoverito, 234; ufficiale in Spagna, 235; sua carriera, 269; cons. I (108 a. C.), e generale nella Guerra giugurtina, 269-270, 272; sua riforma militare, 272-273; vince Giugurta; cons. II (104 a. C.), 278; trionfa (1 genn. 104 a. C.), 278; destinato alla guerra contro Cimbri e Teutoni, 278; nella Narbonese, 279; cons. III (103 a. C.), 282; cons. IV (102 a. C.), 283-84; vince i Teutoni e gli Ambroni, 284; cons. V (101 a. C.), vince i Cimbri, 285; proclamato terzo fondatore di Roma; cons. VI (100 a. C.), 287, 288; e il partito democratico, 288, 290-291; dirige la repressione contro i democratici (dic. 100 a. C.), 291-92; in Oriente, 292; nella Guerra sociale, 303; candidato al comando della Guerra mitridatica, 311-12; hostis publicus, 315; sua fuga in Africa, 315; torna a Roma, 318; cons. VII [387] (86 a. C.), 319: sua morte, 320.

Mario, il giovane, figliuolo del preced., 327; cons. (82 a. C.), 329; sconfitto e assediato in Preneste da Silla, 329; si uccide, 332-333.

Mario (M.), rappresentante di Sertorio, 344; segue gli eserciti di Mitridate in Asia, 344.

Marrucini, 3; spedizione romana contro i M., 81.

Marsi, 3; insurrezione contro Roma (308 a. C.), 88; e la Guerra sociale, 302.

Marsiglia, razzie dei Galli sul territorio di M., 260.

Massinissa, uno dei capi numidi, 170; in Spagna, alleato dei Cartaginesi, 170; alleato di Scipione, 170; invade e occupa il regno di Siface, 171; re di Numidia, 174; M. e Cartagine, 214, 215; muore (149 a. C.), 261.

Massiva, nipote di Massinissa, fatto uccidere da Giugurta, 266.

Mauri, alleati di Giugurta, 269.

Mediolanum (Milano), capoluogo della Gallia Transpadana, 147.

Memmio (C.) (trib. pl.), attacca il Senato sulla questione giugurtina, 264; fa respingere dai comizi la pace con Giugurta, 265; candidato dei cavalieri al consolato pel 99 a. C., 291; ucciso (dicembre 100 a. C.), 291.

Mercatores, italici, a Cirta, 264.

Messina, occupata dai Mamertini, 116; nella prima punica, 121-22; occupata dai Romani, 122.

Metaponto, 2.

Metauro (Fl.), battaglia (207 a. C.), 168; conseguenze, 169.

Metello V. Cecilio.

Micipsa, figlio di Massinissa e re di Numidia, 261; muore (118 a. C.), 261.

Minervia, 253.

Minucio (Rufo) (trib. pl. 121 a. C.), propone l’abrogazione della legge sulla colonizzazione di Cartagine, 256.

Mitridate, dinastia regnante nel Ponto, 281.

Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (111-64 a. C.), 281; e le colonie greche del M. Nero, 281; sue conquiste e alleanze, 281; conquista la Cappadocia, 293; ne è scacciato (92 a. C.), 305; caccia dal trono Nicomede III, 303, 305; occupa di nuovo la Cappadocia, 305-306; prima Guerra con Roma (88-85 a. C.), 307 sgg.; e la Grecia e l’Asia ellenizzata, 307; sua alleanza coi barbari di Tracia e Macedonia, 307; invade la provincia d’Asia, 307; e massacra 100.000 Italici, 308; perde la Grecia, 322; pace di Dardano (85 a. C.), 323-24; e Sertorio, 342, 344; nuovi maneggi e preparativi, 343-44; nuova Guerra mitridatica (74 sgg. a. C.), 344 sgg.; sconfitto da Lucullo (72 a. C.), 350; rientra nel Ponto, (68 a. C.), 357; vinto da Pompeo, 360; si rifugia in Colchide, 360; ultimi tentativi, 361, 363; sua morte (63 a. C.), 363.

Mitrobarzane, generale di Tigrane, 355.

Monarchia, V. Re.

[388]

Moneta, origini della moneta d’argento in Roma, 83, 119; rinvilio nella seconda metà del II sec. a. C., 229.

Mummio (L.) (cons. 146 a. C.), vince a Leucopetra gli Achei, 223.

Municipi, 114; cum suffragio, 115; sine suffragio, 114; altri diritti, 115.

Mutina (Modena), colonia romana, 147, 150, 195.

Mylae (Milazzo), battaglia (260 a. C.), 124.


Napoli, 73, 74, 75; guerra con Roma (327-26 a. C.), 73 sgg.; Odeon, 75; Stadio, 75; ginnasi, 75; fratrie, 75; nella seconda punica, 161.

Narni, 90.

Nepi, colonia (381 a. C.), 55.

Nerula, 79.

Nettunia, 253.

Nexum, 77. V. Debiti.

Nicodeme II, re di Bitinia, 273; sua morte (90 a. C.), 305; Nicodeme III, invade il Ponto, 306; cacciato dal trono da Mitridate, 303, 305.

Nocera, 88; presa da Annibale, 161.

Nola, 80; nella seconda punica, 161.

Nomento, 70.

Norbano (C.) (cons. 85 a. C.), 377; capo del partito democratico, 377; sconfitto da Silla, 328; respinge l’offerta di pace di Silla, 329; recluta nuove milizie in Cisalpina, 330; sconfitto da Metello a Faenza, 331; fugge in Oriente, 331.

Norcia, battaglia (113 a. C.), 263.

Norico, 263.

Numa Pompilio, 11, 16.

Numanzia, 213; i N. sconfiggono Q. Pompeo, 232; concludono la pace, 233; ripresa della guerra, 233; sconfiggono il console Mancino (137 a. C.), 234; fanno pace, 234; la pace è respinta dai comizi, 234; N. distrutta (133 a. C.), 244.

Numidia, i Numidi e Cartagine, 112; insurrezione del 260 a. C., 126; durante la seconda punica, 161; tra la seconda e la terza punica, 214, 215; acquisti dopo la terza punica, 223; spartita fra Aderbale e Giugurta (117 a. C.), 262; Guerra di Roma contro Giugurta (110-7 a. C.), 264, 267 sgg.; nuovo ordinamento, 278.

Numitore, 7.


Oea, 223.

Ofanto (Fl.), 158.

Opimio (L.) (cons. 121 a. C.), 256.

Orazio (M.), console nel 510 o 509 a. C., 43.

Orcomeno, battaglia (86 a. C.), 322.

Oriente, Paesi dell’O., 240; suoi prodotti, 240.

Ortensio (Q.), dittatore (287 a. C.), 94-95; sua legge, 94-95.

Osci, 3; in Campania, 64.

Ostia, colonia, dedotta da Anco Marzio, 16.

Ostilio (C. Mancino) (cons. 137 a. C.), disfatto dai Numantini, 234; fa pace coi Numantini, 234.

Ottavio (M. Cecina) (trib. pl. 133 a. C.), si oppone alla legge [389] agraria sempronia, 238; deposto, 238-39.

Ottavio (Cn.) (cons. 87 a. C.), si oppone alle leggi sulpicie.


Pacuvio, 197.

Paflagonia, alleata di Antioco, 171; il re di P. battuto da Aristonico, 245; i P. chiedono aiuto a Roma contro il re del Ponto, 280; invasa da Mitridate, 281; dichiarata libera dai Romani, 293; Pompeo (64 a. C.), 362, 364.

Palatino, nucleo della primitiva Roma, 7, 19.

Palepoli, 90, n. 4.

Palermo, 127; battaglia (251 a. C.), 128.

Palestina, invasa da Antioco III (202 a. C.), 178.

Paludi Pontine, prosciugate (181 a. C.), 194.

Pandosia, battaglia, 102.

Papio Mutilo, generale degli Italici nella Guerra sociale, 303.

Papirio Cursore, dittatore nel 309 a. C., 87; vittorie sui Sanniti, 87, 88.

Papirio (Cn. Carbone) (cons. 113 a. C.), sconfitto dai Cimbri, 263.

Papirio (C. Carbone) (trib. pl. 89 a. C.), sua legge sulla cittadinanza agli Italici, 304.

Papirio (Cn. Carbone) (cons. 85 e 84 a. C.), 377; cons. 82 a. C., 329; sconfitto da Metello, 329; combatte con Silla a Chiusi, 330; fugge in Africa, 331.

Parma, colonia romana, 195.

Parti, Regno dei, 353; la Parzia invasa da Tigrane, 353; disegni di Lucullo sulla Persia, 356.

Parzia, V. Parti.

Patrizi, 14; lotta tra p. e plebei, 31 sgg.; divieto di matrimonii patrizio-plebei, 38; e la legge Canuleia, 40; nelle magistrature e in Senato, dal 312 al 216 a. C., 181-182.

Pedo, 70.

Peligni, 3; insurrezione del 308 a. C., 88; e la Guerra sociale, 302.

Pentri (nel Sannio), indipendenti, 108; fedeli a Roma, nella seconda punica, 160.

Pergamo (Regno di). V. Attalo; in alleanza con Roma nella Guerra siriaca, 191; in eredità a Roma, 239; sua ricchezza, 240; sua coltura, 240.

Perpenna, un ufficiale di Lepido; contro Sertorio, 348; uccide Sertorio (72 a. C.), 350.

Perseo, re di Macedonia (179-168 a. C.), figlio di Filippo V, 205; sposa una figlia del re di Siria, 205; sua politica in Grecia e in Oriente, 205; vinto e fatto prigioniero a Pidna (168 a. C.), 207.

Persia. V. Parti.

Perugia, città etrusca, 4, 87; battaglia (309 a. C.), 88.

Pesto, V. Posidonia.

Phasys (Rioni) (Fl.), 361.

Piacenza, v. Placentia.

Piceno, 3; occupato dai Romani (290 a. C.), 94; i Piceni e la Guerra sociale, 302.

Pidna, battaglia (168 a C.), 207.

Pirati, origini della pirateria, 324; potenza, 342; uno Stato di pirati in Cilicia, 342; i [390] P. e la carestia del 68-67, 358; disfatti da Pompeo, 358-59.

Pirenei, 149.

Pirro, re d’Epiro, carriera politica, 100, 102; in Italia (280 a. C.), 101; in Sicilia (278-75 a. C.), 105 sgg.; partenza dall’Italia, 107; sua morte (273 o 272 a. C.), 108.

Placentia (Piacenza), colonia romana (218 a. C.), 142.

Plauto, 197.

Plauzio (M. Silvano) (trib. 89 a. C.), sua legge sulla cittadinanza agli Italici, 304; sua legge giudiziaria, 304-5.

Plebei, lotta col patrizi, 31 sgg.; nel secondo decemvirato, 38; nella questura, 42; divieto di matrimonii patrizio-plebei, 38; e la legge Canuleia, 40; scissione tra pl. dopo la distruzione di Veio, 49-50; agitazione guidata da M. Manlio Capitolino, 54-55; agitazioni dal 384 al 377 a. C., 56; conquistano il consolato, 58; Appio Claudio e i pl., 85; nelle magistrature o in Senato, tra il 312 e il 216 a. C., 181-82.

Polibio, 208.

Pompedio Silone, amico di Druso e generale degli Italici nella Guerra sociale, 303.

Pompeo (Cn. Strabone) (cons. 89 a. C.), sua legge per la cittadinanza latina alla Cisalpina, 305; prende Ascoli del Piceno, 305; proconsole nella Cisalpina, 316; in difesa del Senato contro Cinna, 318.

Pompeo (Q.) (procons. 140 a. C.), sconfitto dai Numantini, 237; fa pace coi Numantini, 233; smentisce di aver trattato, 233; processato, 233.

Pompeo (Q. Rufo) (cons. 88 a. C.), 312; fugge da Roma, 313; nella Gallia Cisalpina, 316; assassinato, 316.

Pompeo (Cn. Strabone) il Grande, figlio del cons. dell’89 a. C., 327; legato di Silla, 340; sconfigge a Chiusi l’esercito di Carbone, 331; riceve il titolo di Grande, 341; incaricato della repressione della rivolta di Lepido, 340-41; contro Sertorio in Spagna, 341, 347, 350; vince i resti degli eserciti di Spartaco (71 a. C.), 351; si presenta al consolato pel 70 a. C., 351; opposizione del Senato, 352; accordi con Crasso e coi democratici, 352; (cons. 70 a. C.), 352, 354; demolisce le riforme di Silla, 353; entra in discordia con Crasso, 355; intriga contro Lucullo, 356; e la guerra piratica (67-66 a. C.), 358 sgg.; e la legge Manilia, 360; e la guerra di Oriente (66-63 a. C.), 360 sgg.; riordina l’Oriente, 362; conquista la Siria, 362, 364; suo ritorno trionfale in Italia, 364.

Pontefici, 14; V. Sacerdoti.

Pontine (Isole), colonizzate dai Romani, 80.

Ponto (regno del P.), sue origini, 280-81. V. Mitridate; invaso da Lucullo (73 a. C.), 349; provincia romana, 359; riordinamento per opera di Pompeo, 362; fusione del P. con la Bitinia, 364.

Ponzio (C. Telesino), generale sannita, 78.

[391]

Popilio (M. Lena) (cons. 139 a. C.), ripiglia la guerra coi Numantini, 233.

Popolazione dello Stato romano, nell’età regia, 25-26, n. 11; dopo l’ultima Guerra latina, 171; dopo la prima punica, 130; ai primi del II sec. a. C., 187; dopo l’applicazione della legge agraria sempronia, 244.

Populonia, città etrusca, 4.

Porta Collina, battaglia (1 nov. 82 a. C.), 332.

Porzio (M. Catone), carriera politica, 198; idee politico-sociali, 198-99; accusatore degli Scipioni, 202; si oppone all’annessione della Macedonia, 207; salva Rodi, 208; studioso dell’ellenismo, 211; latifondista e speculatore, 212; protesta contro le crudeltà romane in Spagna, 213-14; contro i generali romani in Africa, 220.

Posidonia (Pesto), in Lucania, 2; colonia, 108.

Postumio (Sp. Albino) (cons. 110 a. C.), generale contro Giugurta, 267.

Postumio (Aulo), fratello del precedente, 267; vinto da Giugurta, 267.

Postumio (Sp. Albino) ambasciatore in Grecia, 36.

Postumio (Sp. Albino) (console del 321 a. C.) alle Forche Caudine, 77-78.

Praefectus juri dicundo, 114.

Praetuttii, 94.

Preneste, 70; Mario il giovane assediato a Pr., 329; sua capitolazione, 332.

Pretori, antico nome dei consoli, 32; magistrati romani con poteri giudiziari (367 a. C.), 58; quattro pretori (227 a. C.), 133; otto pretori, 335; magistrati delle colonie romane, 113.

Pretura, v. Pretori.

Prezzi, delle derrate nella Cisalpina, 229.

Procida, origine del suo nome, 6.

Promagistrature, origine, 335.

Proconsolato, origine, 75.

Provincia, 284. V. Gallia Narbonese.

Province, organizzazione, 133; dopo Silla, 335.

Provocatio, 247; proposta dal cons. Flacco per gli Italici, 247.

Pubblicani, 226; nell’ordine dei cavalieri, 228-229; in Sicilia, Macedonia e Spagna, 226; nel Paese dei Salassi, 231; a Efeso, 306; i p. e Nicomede III, 306; e la provincia d’Asia, 250, 307; e Lucullo, 352. V. Cavalieri.

Publilio (Q. Filone) (console 327 a. C.), assedia Napoli, 73.


Quaestio de pecuniis repetundis, 228, 259.

Quaestiones perpetuae e i senatori, 249, 275, 300, 334, 342; e i cavalieri, 250, 275, 300, 342; riforma del 70 a. C., 354; aumentate di numero da Silla, 335.

Questori, aiutanti dei re e dei consoli, 32; numero, 42; i plebei nella questura, 42; nuove competenze, 42.

Questura. V. Questori.

Quindecemviri sacris faciundis, 282.

[392]

Quinzio (T. Flaminino) (cons. 198 a. C.), generale contro Filippo V, 184 sgg.; in Macedonia, 184; ha prolungato il comando pel 197 a. C., 185; vince a Cinocefale (197 a. C.), 185.

Quirina, tribù, 131.

Quirinale, 17.


Ramnes, 9.

Ravenna, città etrusca, 4.

Re di Roma; nomi etruschi, 9, 11; poteri, 13, 14; nomina, 14; l’opera militare e politica, 16; durata della monarchia. 23; caduta della monarchia, 23 sgg.; sua importanza storica, 23, 24, n. 7. V. Tarquinii.

Rea Silvia, 7.

Reggio, 2; e Roma, 98.

Remo, 11.

Rex sacrorum, 32.

Rimini. V. Ariminum.

Rindaco (Fl.), battaglia (73 a. C.), 346.

Rodano (Fl.), 149.

Rodi, si difende contro Filippo V, 178; invoca Roma contro Filippo V (202 a. C.), 178; alleata con Roma, 182; nella seconda macedonica, 183; nella Guerra siriaca, 191; durante la terza macedonica, 206; privata dei possedimenti continentali, 208; decadenza, 208.

Roma, origini, 5 sgg.; città etrusca?, 7 sgg.; etimologia del nome, 9; arte primitiva, 9; cultura primitiva, 9, 19; storia primitiva, 11 sgg., 18; vita economica di R. primitiva, 12-13, 18, 19; ordinamento politico di R. regia, 15; ordinamento militare, 15; commercio di R. regia, 18-19; ampliamento sotto Servio Tullio, 19; monumenti antichissimi, 19; quartieri, 19; costituzione di Servio Tullio, 19 sgg.; popolazione dello Stato romano nell’età regia, 28-26, n. 11; primo trattato con Cartagine, 27 sgg.; prime guerre con gli Etruschi, 29; sotto il dominio etrusco, 29; guerre coi Volsci, 27; coi Sabini, 29; riconosce l’indipendenza del Lazio (493 a. C.), 30; conseguenze delle guerre della prima metà del sec. V a. C., lotta patrizio-plebea, 31 sgg.; prime guerre con Veio, 46 sgg.; ultima guerra contro Veio, 48; l’incendio gallico, 49 sgg.; ricostruzione, 52-53; conseguenze economiche, 53-54; annessione dell’Etruria meridionale, 49, 54; l’agitazione di M. Manlio Capitolino, 54 sgg.; secondo trattato con Cartagine (348 a. C.), 62-63; prima Guerra sannitica (342 a. C.), 64 sgg.; ultima Guerra latina, 68; estensione del territorio romano dopo la Guerra latina, 71; popolazione, 71; capacità militare, 71; guerra contro Napoli (327-326 a. C.), 73 sgg.; seconda Guerra sannitica (327-304 a. C.), 73 sgg.; conseguenze sociali ed economiche della seconda sannitica, 81-83; guerra etrusco-romano-sannitica (311-10 a. C.), 86-87, 88; estensione del territorio romano dopo [393] la seconda sannitica, 89; terza guerra sannitica (299-90 a. C.), 91 sgg.; nuovo ampliamento del territorio romano, 94; guerra tarantina (280-70 a. C.), 97 sgg.; conquista dell’Italia meridionale, 107-08; confini dello Stato romano dopo la guerra tarantina, 109; sua estensione alla metà del III sec. a. C., 112-13; distribuzione del territorio, 112-113, 115; territorio delle città alleate: estensione e ordinamento, 115; l’economia romana dopo la guerra tarantina, 116-17; l’ellenismo in R., 118-19; la prima Guerra punica (264-41 a. C.), 115 sgg., 121 sgg.; diminuzione della popolazione dopo la prima punica, 130; commercio nell’Adriatico, 134-35; prima Guerra illirica, 133 sgg.; crisi della piccola proprietà, 137-39; conquista della valle padana (225-22 a. C.), 141 sgg.; seconda Guerra punica (218-201 a. C.), 147 sgg.; strettezze dello Stato romano durante la seconda punica, 165-66; prima Guerra macedonica (215-205), 162, 164, 167, 169; potenza dopo la seconda punica, 177; Guerra siriaca (191-89 a. C.), 188 sgg.; progressi economici nei secc. III-II a. C., 193-94, 227; origini del capitalismo e del mercantilismo romano, 194-195; progressi dell’agricoltura, 194-95; diffusione della pastorizia, 195-196; nuovi costumi, 196; progressi della coltura greca in R. nel II sec. a. C., 197; principio della corruzione, 201-202; R. e l’Oriente dopo la Guerra siriaca, 203-04, 205; terza Guerra macedonica (171-168 a. C.), 206 sgg.; prosperità economica dopo la terza macedonica, 211; la terza Guerra punica (149-46 a. C.), 214 sgg.; la coltura in R., nella seconda metà del II sec. a. C., 226-27; crisi economica della società romana nella seconda metà del II sec., 227-229; guerre in Spagna, 154, 213, 221, 230, 232 sgg.; le agitazioni dei Gracchi, 235 sgg.; guerra giugurtina, 264 sgg.; Guerra cimbrica, 263, 268, 274 sgg.; progresso e decadenza nell’età di Mario e Silla, 294-95, 296; Guerra sociale (90-88 a. C.), 302 sgg.; prima Guerra mitridatica (88-85 a. C.), 307 sgg.; prima Guerra civile (83-82 a. C.), 326 sgg.; nuova guerra mitridatica (74-72 a. C.), 345 sgg.

Romo, 6.

Romolo, leggenda, 6, 7, 11, 16; e Veio, 46.

Rubicone (Fl.), 97.

Rufrio, 74.

Ruma, 9.

Rutilio (P. Rufo) (cons. 105 a. C.), sua carriera, 297-98; reprime gli abusi dei pubblicani, 298; accusato di concussione e condannato (93 a. C.), 298; in esilio, 298.

Rutilio (P. Rufo) (cons. 90 a. C.), contro gli Italici, 303.


Sabatina, tribù romana, 54.

Sabini, 3; immigranti in Roma, [394] 12; guerre con Roma, 18, 29; invadono il territorio romano (449 a. C.) 39; il territorio dei S. occupato dai Romani (290 a. C.), 94.

Sabrata, 223.

Sacerdoti, romani, 12-13; elettivi (103 a. C.), 282, 335; v. Lex Domitia.

Sadducei, 363.

Sagunto, alleata di Roma, 146; presa da Annibale (219 a. C.), 147; ricostruita dai Romani, 162.

Salassi, territorio aurifero dei S. 231; conquistato dai Romani (143 a. C.), 231; concesso ai pubblicani, 231.

Samo, alleata di Roma nella Guerra siriaca, 191.

Sanniti, 3; confederazione e territorio, 62; alleanza con Roma (354 a. C.), 62; in Campania, 65; guerra coi Sidicini e con Capua, 66-67; prima Guerra sannitica (342 a. C.) 64, sgg.; contro Alessandro il Molosso, 72; e la Guerra di Napoli (327 a. C.), 73; seconda Guerra sannitica (327-304 a. C.), 73 sgg.; il Sannio dopo la seconda sannitica, 89; i S. attaccano i Lucani (299 a. C.), 91; con Lucani e Galli contro Roma (285-80 a. C.), 96; alleati di Pirro, 103; durante la Guerra tarantina, 105; annessione allo Stato romano, 108; passano ad Annibale, 160; e la Guerra sociale, 302, 303; e la prima mitridatica, 308; insurrezione durante la prima Guerra civile 330; marciano su Roma, 331-32, sconfitti da Appio Claudio e da Silla (1 nov. 82 a. C.), 332; distrutti da Silla, 333; colonie militari nel Sannio, 333.

Santippo, 126, 127.

Sardegna, e Roma regia, 18; nel primo trattato romano-cartaginese, 27-28; divieto di commercio romano in S., 63; possesso cartaginese, 110, 117; Guerra romano-cartaginese in S. (259-57 a. C.), 125; conquistata dai Romani, 132-133; durante la seconda punica, 154, 161; commercio cartaginese in S., 214.

Sarmati, 281; mercenari, 307.

Saticula (S. Agata dal Goti), 79.

Schiavi, primo affluire in Roma, 82; Epiroti venduti schiavi, 208; commercio, 226; abbondanza nella prima metà del II sec. a. C., 194, 226; loro grande prezzo, 196; rivolta in Sicilia, 280; arrotati per la Guerra sociale, 303; insurrezione in Italia (73-71 a. C.). V. Spartaco.

Scipione. V. Cornelio.

Sciti, e le colonie greche del Mar Nero, 281; scacciati dalla Tauride, 281; chiedono aiuto a Roma contro Mitridate, 281; richiesti d’aiuto da Mitridate, 349; mercenari, 307.

Scordisci, e Mitridate, 347.

Scuole di retorica, in Roma, 295; fatte chiudere dai censori del 92 a. C., 298.

Seleucidi, monarchia dei S., nel III sec. a. C., 110.

Seleuco IV, re di Siria, 204.

Selva Arsia, 46.

Sempronio (T. Longo) (cons. 218 a. C.), inviato in Sicilia, [395] 150; richiamato, 151; a Rimini, 151; si congiunge con P. Cornelio Scipione, 152; battuto alla Trebbia, 153-54.

Sempronio (T. Gracco) (cons. 172 e 163), 234; sua buona amministrazione in Spagna, 234.

Sempronio (T. Gracco), 229: questore in Spagna, 237; figlio del console del 177; cognato di Scipione Emiliano e genero di Appio Claudio (il cons. del 143 a. C.), 234; trib. pl. (133 a. C.), 235; sua legge agraria, 236 sgg.; sua proposta relativa al tesoro del morto re Attalo e alla provincia di Asia, 241; si ripresenta al tribunato del 132 a. C., 242; sua morte (133 a. C.), 242-243.

Sempronio (C. Gracco), uno dei tresviri agris adsignandis, 269; questore e proquestore in Sardegna, 248; accusato per la insurrezione di Fregellae, 248; trib. pl. (123 a. C.), 248 sgg.; suo programma, 248 sgg.; e i cavalieri, 249-250; rieletto trib. pl. (122 a. C.), 252; sua legge per la cittadinanza agli Italici, 254-55; a Cartagine, 255; sua morte (121 a. C.), 256-57.

Sena Gallica (Sinigaglia), colonia dei Romani, 97.

Senato, nell’età regia, 14; riforma di Tarquinio Prisco, 22; dopo la caduta della monarchia, 32; liberti nel Senato, 84; e comizi tributi, 95; divieto ai senatori di commerciare (218 a. C.), 136; politica senatoria dopo la seconda punica, 179-81; accrescimento di potere, 181-82; i senatori e la legge agraria sempronia, 237; giurisdizione penale, 249; i senatori governatori di province, 250; contro C. Gracco, 255; coalizione coi cavalieri dopo il 100 a. C., 289 sgg.; nelle leggi di Livio Druso, 299, 300; nuovi screzii coi cavalieri, 310 sgg.; e le leggi sulpicie (88 a. C.), 312; i senatori riacquistano il potere giudiziario, 334; fatti inamovibili da Silla, 335; numero dei senatori fissato da Silla, 336.

Senatus consultum ultimum, 242, 256-57.

Senoni. V. Galli.

Sentino, battaglia (295 a. C.), 92-93.

Senzio (C. Saturnino), governatore della Macedonia, 320; batte un esercito di Mitridate, 320.

Septemviri epulonum, 282.

Sequani, amici dei Romani, 268.

Sertorio (Q.), un democratico, 327; solleva la Spagna contro il governo romano, 340; e Mitridate, 342; malcontento contro S., in Roma e in Spagna, 346-47; ucciso da Perpenna (72 a. C.), 350; i seguaci di S. amnistiati, 354.

Servilio (C. Glaucia), un democratico, 287; pretore (100 a. C.), 288; candidato al consolato pel 99 a. C., 291; trucidato (100 a. C.), 292.

Servilio (C. Gemino) (cons. 217 a. C.), 154; a Rimini, 154; in Apulia, 157.

Servilio (Q. Cepione), pontefice [396] massimo, 275; cons. (106 a. C.), 275; sua lex iudiciaria, 275; attacca i Volchi; riconquista e saccheggia Tolosa, 275; accusato di essersi appropriato il bottino, 275; sconfitto ad Aurausium (105 a. C), 277.

Servilio (Q. Cepione) (cons. 140 a. C.), fratello di Q. Fabio Massimo Serviliano, 232; ricomincia la guerra contro Viriato, 232; che fa assassinare, 232.

Servio Tullio, 11; l’ampliamento e la divisione di Roma 17; sua costituzione, 19 sgg.

Sestio (L. Laterano), leggi licinio-sestie, 56 sgg.

Setia, colonia (382 a. C.), 55.

Sibari, 2.

Sicilia, e Roma regia, 18; e il primo trattato romano-cartaginese, 28; e il secondo trattato romano-cartaginese, 63; e Pirro, 104, 105 sgg.; possedimenti cartaginesi in S., 110; provincia romana, 130, 133; nella seconda punica, 154, 162, 163; sgombrata dai Cartaginesi (210 a. C.), 165; pubblicani in S., 226; rivolta di schiavi, 280.

Sidicini, 67; guerra con i Sanniti (343 a. C.), 67; invocano l’aiuto di Roma, 67; in lega coi Latini contro Roma, 68.

Siface, re dei Numidi, ribelle a Cartagine, 161; rivale di Massinissa, 170; sconfitto e prigioniero, 170-71.

Sila, i boschi della S. appaltati, 196.

Silla. V. Cornelio.

Sinope, città del Ponto, 351.

Siracusa, sua importanza, 104, 110; e Pirro, 104; e Cartagine, 104, 110; alleata di Cartagine, 121; battuta da Roma (261 a. C.), 122; alleata di Roma, 122; rivoluzione repubblicana alla morte di Geronimo, 162-63; si allea con Cartagine, 163; assediata e presa da Marcello (214-202), 163-164; saccheggiata, 167.

Siria, invasa da Tigrane, 342, 353.

Siria, Regno di Siria, 178; si rafforza sotto Antioco il Grande, 178. V. Antioco III il Grande; smembrato da Tigrane, 353; ad Antioco l’Asiatico, 353; conquistata da Pompeo, 362; provincia romana, 362. V. Celesiria.

Sora, 91.

Spagna, prodotti del suolo, 146; miniere, 193; Sp. meridionale colonizzata da Cartagine, 110, 117; nuove conquiste cartaginesi dopo il 241 a. C., 146; nella seconda punica, 151, 154, 161; principio della conquista romana in Sp., 161, 162, 163; i Romani ricacciati al di là dell’Ebro (211 a. C.), 165, 166; la Sp. riconquistata dai Romani (206 a. C.), 169, 177; guerre romane in Sp., 179, 190; insurrezione della Celtiberia (154 a. C. segg.), 154; della Lusitania (152 a. C. sgg.), 213, 221, 232; carattere della insurrezione e della guerra in Spagna, 213; pubblicani in Sp., 226; prosecuzione della guerra, 230, 232 sgg.; costo della guerra, 227; ordinamento [397] dopo il 133 a. C., 244; Citeriore e Ulteriore, 244; nuova insurrezione, 293.

Spagnoli, mercenari cartaginesi, 122. V. Spagna.

Sparta, competizioni con la Lega Achea, 219; assalita dalla Lega achea, 219-220.

Spartaco, un trace, capo di una rivolta di schiavi in Italia, (73-71 a. C.), 347; sconfigge parecchi eserciti romani, 350; vinto da Crasso e da Pompeo (71 a. C.), 351.

Stellatina, tribù romana, 54.

Stipendium, 223.

Sulpicio (P. Camerino), ambasciatore in Grecia, 36.

Sulpicio (P. Galba) (cons. 200 a. C.), 182; in Illiria, 182-83; invade la Macedonia (199 a. C.), 183.

Sulpicio (P. Rufo) trib. pl., (88 a. C.); sue leggi, 311-12, 313; sua agitazione, 312-13; S. e Silla, 313; annullamento delle leggi sulpicie, 315; dichiarato hostis publicus, 315; trucidato, 315.

Sutrium (Sutri), colonizzata dai Romani (383 a. C.), 55; assediata dagli Etruschi (311 a. C.), 86; liberata, 87.


Taranto, 2, 98-99; antico trattato con Roma, 99; durante la seconda sannitica, 74; Guerra contro Roma (280-71 a. C.), 97 sgg.; forze militari, 101; presa da Annibale (212 a. C.); ripresa dai Romani (209 a. C.) e saccheggiata, 167.

Tarquinii, I T. nella storia di Roma, 17; carattere delle riforme dei T., 22.

Tarquinii, città etrusca, 4.

Tarquinio I (Prisco), 11; tradizione e storia, 17-18; e il Senato, 22.

Tarquinio II (il Superbo), 11.

Tassilo, generale di Mitridate, 344.

Tauride (Crimea), abitata dagli Sciti, 281; possesso di Mitridate, 349; centro dei suoi rifornimenti, 307, 346; Mitridate si rifugia in T., 361; bloccata da Pompeo, 361; regno di Farnace, 364.

Taurisci, abitanti nel Norico, assaliti dai Cimbri, 263.

Tavole (Le Dodici), 37-38.

Teano, 70.

Telamone (C.), battaglia (255 a. C.), 141.

Telesia (nel Sannio), distrutta, 333.

Temiscira, città del Ponto, 349; assediata da Lucullo, 349, 350.

Tempio della Fede, 242, 243.

Tempio di Giove (sul Campidoglio), 19.

Terentilio (C. Arsa), tribuno della plebe; sua legge circa il potere dei consoli, 36; opposizione dei patrizi, 36.

Terenzio (C. Varrone) (cons. 216 a. C.), 158; battuto a Canne (2 agosto 216 a. C.), 159-60.

Termopili (Le), battaglia (191 a. C.), 190.

Terracina, assediata dai Sanniti (315 a. C.), 80.

Tessaglia, guerra in T. durante la seconda macedonica, 184; invasa da Antioco il Grande (192 a. C.), 190.

Teuta, regina degli Illirii, 134.

Teutoni, 274; invadono la Gallia, [398] 279, 284; sono disfatti e distrutti ai Campi Putridi presso Aquae Sextiae (102 a. C.), 284.

Thurii, e i Lucani, 95-96; e Roma, 98, 99.

Ticino, battaglia (218 a. C.), 151-52.

Tigrane, re di Armenia, amplia i confini del suo regno, 353; alleato di Mitridate VI, 294, 349; invade la Siria, 342; e la Grande Cappadocia, 342; assume il titolo di Re dei Re, 342; Lucullo e Tigrane, 353; si arrende a Pompeo, 360-61.

Tigranocerta, capoluogo della Armenia, 355; assediata da Lucullo (69 a. C.), 355; sua capitolazione, 355.

Tigurini, 274; invadono la Narbonese (107 a. C.), 274; si ritirano, 275; invadono di nuovo la Gallia, 276-277; sconfiggono un generale romano ad Arausium (6 ottobre 105 a. C.), 277.

Timoleone, tiranno di Siracusa, 110.

Tities, 9.

Titti, 213, 232.

Tivoli, 70.

Tolomei (dinastia regnante in Egitto), nel III sec. a. C., 110. V. Lagidi.

Tolomeo IV, re d’Egitto (morto nel 201 a. C.), 178.

Tolomeo V, Epifane (204 a. C. sgg.), 178.

Tolomeo Apione, re d’Egitto, lascia ai Romani la Cirenaica, 294.

Tolosa, nella Narbonese, 274.

Tracia, terre della T. soggette ai Tolomei, 110; passano alla Macedonia, che le perde dopo la terza macedonica, 185; i Traci alleati di Mitridate, 281, 312; invadono la Grecia, 310, 342; la T. conquistata da M. Lucullo (72 a. C.), 350.

Trapani (Drepanum), fortezza cartaginese, 128; battaglia (250 a. C.), 128; bloccata (242 a. C.), 129.

Trasimeno (L.), battaglia (217 a. C.), 155-56.

Trebbia (Fl.), battaglia (218 a. C.), 152-54.

Tresviri agria iudicandis adsignandis, 237, 239; loro lavoro, 243-44.

Triario (C.), ammiraglio di Lucullo, 357; disfatto da Mitridate (67 a. C.), 359.

Tribù, numero e ufficio, 32; nuove tribù (387 a. C.), 54; riforma di Appio Claudio, 84-85; due nuove tribù istituite nel 242 a. C., 131; 35 tribù, 131; e la riforma del 241 a. C., 131-32; e la scelta dei giudici, 304-5; gli Italici e le tribù, 308.

Tribunali penali, V. Quaestiones perpetuae.

Tribuni aerarii, nei tribunali, 353.

Tribuni della plebe, 35; numero, 75; eletti prima dai comizi curiati, poi dai tributi, 35, 43, n. 3; poteri, 35-36; agitazioni tribunizie dopo il 334 a. C., 56 sgg.; destituibili, 238-39; il tribunato è iterabile?, 241-42; e la riforma di Silla, 334; abolizione della riforma di Silla, 342-43, 353.

[399]

Tribuni militari, 41; in parte elettivi, 85; consulari potestate, 40-41.

Trifano, battaglia, 69.

Trifilia, 186.

Tromentina, tribù romana, 54.

Tullio (M. Cicerone), e la legge Manilia, 360.

Tullo Ostilio, 11, 16.

Tuscolo, 70, 198.

Tyrii, nel secondo trattato romano-cartaginese, 63.


Umbri, 3; e Celti, 47; insurrezione (308 a. C.), 88; nella terza Guerra sannitica, 92; nella Guerra sociale, 302, 303.

Utica, nel secondo trattato romano-cartaginese, 63; indipendente dopo la terza punica, 223.


Vaccei (in Spagna), 213.

Vadimone (L.), battaglia (283 a. C.), 97.

Valenza, 232.

Valerio (M. Levino), contro Filippo V (214 a. C.), 162.

Valerio (L. Flacco), protettore di Catone, 198.

Valerio (L. Flacco) (cons. 86 a. C.), sua legge sui debiti, 320; inviato contro Silla, 320, 321-22, 337, n. 2; in Macedonia e in Asia contro Mitridate (86 a. C.), 322.

Vario (Q.), (trib. pl. 98 a. C.), 301; esiliato per lesa maestà, 304.

Veio, città etrusca, 4; prime guerre e paci con Roma, 46 sgg.; ultima guerra con Roma, 47 sgg.; distruzione, 49.

Velina, tribù romana, 131.

Veneti, 3; e Celti, 47; alleati di Roma nella Grande guerra gallica, 141.

Venusia (Venosa), colonia di, (291 a. C.), 93.

Vestali, collegio sacerdotale, 14; Rea Silvia vestale, 7.

Vestini, 3; alleati dei Sanniti nella seconda guerra sannitica, 76.

Vetulonia, città etrusca, 4.

Veterani, I v. e la legge de coloniis di Saturnino, 289; e la cittadinanza, 289; colonie di v. nel Sannio e in Etruria, 333.

Veturio (T. Calvino) (cons. 321 a. C.), alle Forche Caudine, 77-78.

Victumulae (nel Vercellese), 151; centro del commercio dell’oro, 231.

Vie: Appia, 83; Cassia (187 a. C.), 96, 194; Emilia (187 a. C.), 194; Flaminia (187 a. C.), 194; lex viaria sempronia (123 a. C.), 251; le vie d’Italia e C. Gracco, 251, 252.

Villio (P.) (cons. 198), generale romano contro Filippo V, 183-84.

Viminale, 17.

Viriato, capo dei Lusitani, 221; suoi successi, 223, 230, 232; ucciso, 232.

Volsci, 3; guerre con Roma, 29, 30; incursioni a mezzo il sec. V a. C., 36; dopo l’incendio gallico, 53.

Volterra, città etrusca, 4.


Zama (in Numidia), battaglia (202 a C.), 171 sgg.

[401]

INDICE DEI CAPITOLI.

Prefazione Pag. V
 
La Monarchia e il primo tentativo mercantile di Roma (754?-510? a. C.) 1
I primi passi della repubblica (sec. VI-V a. C.) 27
La distruzione di Veio e l’incendio di Roma (fine del V sec.-367 a. C.) 45
I Sanniti 61
La guerra con Taranto e la conquista dell’Italia 91
Roma e Cartagine 109
La prima guerra punica e il secondo tentativo mercantile di Roma 121
La seconda guerra punica (218-201) 145
L’egemonia mediterranea 177
Il crepuscolo dell’antica Roma 193
La crisi dell’egemonia 211
I Gracchi 225
Verso la rivoluzione 259
Mitridate 287
La prima guerra civile 317
Le grandi guerre in oriente 339
 
Indice alfabetico analitico 367


        Errata Corrige
 
P. 142, r. 4. Insurbi Insubri
P. 268, r. 3. E qui Edni
P. 339, r. 25. legato legato di

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FINITO DI STAMPARE A FIRENZE
NELLA TIPOGRAFIA «ENRICO ARIANI»
IL XXXI MARZO MCMXXI.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 401 (Errata Corrige) sono state riportate nel testo.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.