The Project Gutenberg eBook of Roma antica, Vol. 3/3

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Title: Roma antica, Vol. 3/3

Ultimi splendori, decadenza e rovina

Author: Guglielmo Ferrero

Corrado Barbagallo

Release date: February 27, 2024 [eBook #73063]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Le Monnier, 1921

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)

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ROMA ANTICA III.
ULTIMI SPLENDORI
DECADENZA E ROVINA


GUGLIELMO FERRERO
E CORRADO BARBAGALLO

ROMA ANTICA

III.

ULTIMI SPLENDORI
DECADENZA E ROVINA

FIRENZE
FELICE LE MONNIER
1922


Proprietà letteraria italiana

Copyright by G. Ferrero and C. Barbagallo

Le copie che non portano la firma di uno degli Autori s’intendono contraffatte.



INDICE


[1]

CAPITOLO PRIMO LA QUARTA GUERRA CIVILE

1. Il governo di Galba (9 giugno 68-15 gennaio 69)[1]. — Il nuovo imperatore si proponeva di governare all’opposto di Nerone: di rispettare le tradizioni e il senato, di spendere con parsimonia la pubblica moneta, di comandare con fermezza ma senza commettere arbitrii. Ottimi propositi, ma compito non facile in quei tempi torbidi, e per un uomo quale era Galba, vecchio e avaro, severo e piccino, violento e debole, ostinato e poco abile. Subito infatti venne in rotta con i suoi stessi partigiani. In Gallia maltrattò le città, che erano state avverse a Vindice, offendendo le legioni di Germania, che avevano domato la rivolta del nobile gallo. A questo primo affronto, ne aggiunse un altro, togliendo alle legioni della Germania superiore il loro generale, quel Virginio Rufo, cui invano le legioni avevano offerto l’impero. Con Ninfidio Sabino venne in tal discordia, che costui tentò di farsi gridare imperatore da una congiura di pretoriani. La congiura fu scoperta a tempo; Ninfidio e parecchi ufficiali perirono; ma la guardia pretoriana [2] non fu da questo momento più sicura per lui. Per rappresaglia Galba rifiutò di pagare ai pretoriani il donativo promesso da Ninfidio; il che inasprì ancora più gli animi. Anche con il senato — massime con la fazione che avrebbe voluto restaurare l’antica repubblica — nacquero dissapori e diffidenze; perchè a molti Galba parve autoritario e violento. Gli nocquero infine ed assai i provvedimenti presi per assestare l’erario; e tra questi particolarmente la commissione nominata per investigare le spese e i doni di Nerone. I beni, dispensati da Nerone, erano stati venduti, lasciati in testamento, ceduti, ripartiti, migliorati, accresciuti, confusi con altri; era impossibile ritornare sul passato senza suscitare un immenso subbuglio. Si aggiunga che Galba aveva cercato di toglier via sprechi e feste: savio proposito, ma inviso a troppi, ormai avvezzi a vivere largamente in Roma sulle spese di Nerone. Cosicchè molti, i quali sotto Nerone avevano imprecato alle folli dilapidazioni dell’imperatore, non tardarono a mormorare contro la parsimonia di Galba.

Per tutte queste ragioni nacque presto a Roma un vivo malcontento, che gli amici di Nerone, i fautori rimasti impuniti di Ninfidio, i repubblicani delusi fomentarono quanto poterono. Tuttavia questo malcontento non sarebbe stato un pericolo per Galba, senza un’altra difficoltà: una difficoltà di antica data, ma che sino ad allora era stata elusa o raggirata: la incertezza del principio legale da cui la suprema autorità imperiale scaturiva. È questo un punto di così vitale importanza, [3] che occorre intenderlo a fondo. A poco a poco, per forza di circostanze, era nata e si era consolidata nella antica repubblica aristocratica la suprema autorità imperiale, necessaria ormai così per l’ingrandimento dell’impero come per gli interni mutamenti che la repubblica aveva subiti. Ma il principio legale, da cui questa autorità scaturiva, era, come abbiamo visto, l’elezione del senato, e non l’eredità: principio orientale, che ripugnava a Roma. Da Augusto a Nerone gli Imperatori furono scelti nella stessa famiglia, per una ragione non di diritto ereditario ma di convenienza politica. Senonchè il senato aveva sempre esercitato il suo diritto d’elezione con molta debolezza, sia perchè l’Assemblea non possedeva più l’antico prestigio, sia perchè era lacerata da interne discordie, e parte legata per l’interesse alla nuova autorità, parte avversa a questa per principio e desiderosa di abolirla. E la debolezza del senato aveva pur troppo lasciato intervenire nella scelta dell’imperatore i soldati. Claudio e Nerone erano stati imposti al senato dai pretoriani, e Galba dalla legione di Spagna. Non è difficile immaginare come questi precedenti sembrassero, nella rozza mente dei soldati, in tempi turbati, mentre l’impero e l’esercito non erano più retti da una mano ferma, la prova di un diritto delle legioni a eleggere l’Imperatore. Particolarmente pericoloso era stato l’esempio delle legioni di Spagna, che avevano proclamato Galba. Se le legioni di Spagna avevano eletto l’imperatore, e il Senato l’aveva riconosciuto, perchè non avrebbero avuto lo stesso diritto le [4] altre legioni? Lo spirito d’imitazione e di emulazione, così forte in tutti gli eserciti, doveva, il principio legale della suprema autorità essendo così incerto, eccitar l’amor proprio di tutti gli eserciti a voler ciascuno il suo imperatore.


2. La rivolta delle legioni di Germania e la caduta di Galba (1-15 gennaio 69). — Le legioni di Germania, infatti, diedero l’esempio. Offese da Galba, come abbiamo detto, esse covarono il loro malcontento tutto l’anno 68; ma nei primi giorni di gennaio del 69, proclamarono imperatore Aulo Vitellio, governatore della Germania inferiore. Bastò questa rivolta a rovesciare, in pochi giorni, il governo di Galba. All’annunzio della rivolta, Galba si risolvè a scegliersi un collaboratore più giovane e ad adottarlo come figlio: provvedimento ventilato già da qualche tempo per rafforzare il governo, ma sino allora non attuato, perchè gli amici e consiglieri di Galba non erano d’accordo sulla scelta, gli uni volendo Ottone, l’antico amico di Nerone, il secondo marito di Poppea, altri, altre persone. Le notizie di Germania troncarono gli indugi. Galba però non scelse Ottone, forse perchè era stato troppo amico di Nerone; ma un uomo di opposto costume e pensiero, ligio alla tradizione antica della aristocrazia romana, un nemico di Nerone, L. Calpurnio Pisone Liciniano. Questa scelta indicava chiare le intenzioni del Governo: onde Ottone, dopo l’adozione di Pisone, non esitò più a ordire una congiura tra i pretoriani per rovesciare Galba. I pretoriani erano malcontenti di Galba, [5] perchè aveva negato loro il donativo promesso da Ninfidio, perchè era stato imposto al senato dalle milizie di Spagna, perchè aveva tentato di ristabilire anche nelle loro file una più rigorosa disciplina. E i tempi erano agitati, le menti turbate, Roma, un caos. Il 15 gennaio, una sedizione militare, che prese le mosse da un piccolo manipolo di pretoriani, e a cui si associò tutto l’esercito stanziato in Roma, e gran parte della popolazione esasperata dalla parsimonia del nuovo governo, acclamava imperatore M. Salvio Ottone, e trucidava Galba e Pisone.


3. Ottone e Vitellio: l’Italia invasa dalle legioni germaniche (15 gennaio-16 aprile 69). — Allorchè Ottone ritornò, alla sera di quel giorno, dal senato, che unanime aveva ratificato la proclamazione della guardia pretoriana, le grida festanti del popolo lo salutarono per le vie con il nome di Nerone. Le ingrate virtù di Galba avevano già fatto dimenticare a molti i vizi del predecessore. Nè Ottone mostrò orrore per quel titolo: fece rialzar le statue di Nerone; si affermò anche da alcuni storici antichi — ma il fatto non è sicuro — che assumesse il nome di Nerone nei primi suoi atti ufficiali; soprattutto cercò di ridare a Roma e all’impero, dopo il duro e avaro governo di Galba, un governo facile e generoso, ma con maggior senno e misura che Nerone. Non si può dire che, nell’insieme, il suo breve governo sia stato cattivo. Amnistiò tutte le vittime dei due regimi precedenti; trattò con generosità e deferenza i pretoriani, a cui concesse di eleggere i [6] loro prefetti; si studiò di cattivarsi e di rassicurare il senato; riprese le grandi costruzioni incominciate da Nerone; cercò di evitare violenze, confische, repressioni. Ottone divenne popolare in Roma, e parve consolidarsi anche nelle province, grazie alla convalidazione del senato, essendo riconosciuto dalle legioni della Siria e della Giudea; da quelle della Dalmazia, della Mesia e della Pannonia; dall’Egitto, da tutte le province orientali, e dall’intera Africa. La Gallia e la Spagna invece, per timore del potente esercito di Germania, si dichiararono per Vitellio. Le legioni di Britannia sembrano esser rimaste estranee al tumulto. Insomma Ottone era l’imperatore riconosciuto da quasi tutto l’impero, avendo per sè una parte delle province d’Occidente, l’Italia, tutta l’Oriente e tutta l’Africa. Ciò non ostante egli scrisse più volte a Vitellio, scongiurandolo ad evitare all’impero una nuova guerra civile, e assicurandogli ricchezze e dignità quante volesse: non scoraggiato dalle prime ripulse, cercò, con l’aiuto del senato, di venire a trattato direttamente con gli eserciti del Reno, poichè non aveva potuto accordarsi con il loro capo. Ottone insomma voleva evitar la guerra e, se scoppiasse, non apparirne responsabile; perchè quel nembo oscuro di guerra civile, che si levava silenzioso all’orizzonte, atterriva l’Italia. Da un secolo l’Italia viveva in una dolce pace, coltivando sicura i suoi campi e adornando le sue città; essa aveva perduto la nozione di quel che fosse la guerra civile: ed ecco ad un tratto, di nuovo, si parlava di un torrente di uomini e di ferro [7] che, devastando e saccheggiando, si rovescerebbe su lei.

Ma fu vana prudenza. Vitellio era prigioniero delle sue legioni. Esaltate dal puntiglio, dalla speranza di ricompense e di saccheggi, da quella specie di delirio che si era impossessato dei soldati, le legioni volevano invadere l’Italia e imporre al mondo il loro imperatore. Avrebbero ucciso Vitellio, se avesse fatto la pace. Invece di deporre le armi, Vitellio e i suoi generali precipitarono la guerra, volendo sorprendere Ottone in Italia, prima che arrivassero le legioni del Danubio. Approfittando delle esitanze e delle lentezze del nemico, occuparono nell’inverno i passi delle Alpi, che Ottone aveva lasciati sguerniti: indi invasero l’Italia con due eserciti: il primo, agli ordini del generale Fabio Valente, attraversando la Gallia, doveva entrare nella Narbonese, e per il paese degli Allobrogi e dei Voconzi sboccare dalle Alpi Cozie nella pianura padana; l’altro, agli ordini del generale Alieno Cecina, invaderebbe l’Italia, attraversando il paese degli Elvezi e le Alpi Pennine; l’uno e l’altro dovevano congiungersi nella valle del Po. La rivolta di un corpo di cavalleria, stanziato nella valle del Po e dichiaratosi per Vitellio, stimolò Cecina, che era già giunto nel paese degli Elvezi, ad affrettarsi e a valicare in pieno inverno le Alpi con il suo esercito. È probabile che la valle del Po fosse già nel mese di febbraio in potere di Vitellio.

Ottone dovè impugnare anch’egli le armi. Avendo perduto parte della valle del Po, pensò di minacciare sul fianco con la flotta l’esercito [8] di Valente, sbarcando milizie nella Gallia Narbonese, per impedirgli di venire in Italia. Mentre aspettava le legioni dal Danubio, raccolse e armò altri corpi; e il 14 marzo partì da Roma con tutto l’esercito, di cui pel momento poteva disporre, e con la maggior parte dei magistrati e degli ex-magistrati, nonchè dell’ordine dei cavalieri. Si era deliberato di difendere la linea del Po, aspettando l’arrivo delle legioni del Danubio. Perciò un primo attacco di Cecina contro Piacenza fu respinto vigorosamente. Senonchè le forze che Ottone aveva mandate nella Gallia Narbonese non erano riuscite a trattenere al di là delle Alpi l’esercito di Valente, che, attraversate le Alpi Cozie, era sbucato nella valle del Po, per congiungersi con Cecina. Il più valente dei generali di Ottone, Svetonio Paulino, il padre dello storico, aveva allora varcato il Po, per cercare le forze nemiche e sconfiggerle prima che fossero raggiunte da Valente. E non lungi da Cremona, in un luogo, detto Locus Castorum, era riuscito a infliggere loro una seria disfatta, ma non ad accerchiarle e distruggerle; cosicchè, sebbene sconfitto, Cecina era sfuggito e si era poi congiunto con Valente, che, mentre egli combatteva nei pressi di Cremona, era giunto a Pavia. Ottone convocò allora un Consiglio di guerra. Svetonio sostenne che, poichè non si era riusciti a impedir la congiunzione di Valente e di Cecina, occorreva aspettare a dar battaglia che fossero giunte le legioni del Danubio. Ma prevalse invece un altro piano, intorno al quale gli antichi non ci dànno [9] che notizie molto oscure. Par che Ottone si proponesse, con una marcia di fianco a nord, di portare le sue forze ad occidente di Cremona, alla confluenza dell’Adda con il Po, in modo da tagliar le comunicazioni tra Vitellio che varcava le Alpi e il suo esercito a Cremona: egli starebbe a Brescello, ad aspettare l’esercito che scendeva da Aquileia, e con questo esercito e con l’altro passato a occidente di Cremona accerchierebbe e costringerebbe alla resa l’esercito nemico, prima dell’arrivo di Vitellio. Se tale era il piano di Ottone, esso poteva riuscire, a condizione che l’esercito riuscisse a fare la sua marcia di fianco sino al luogo assegnatogli. Ma sia che i nemici fossero avvertiti dei piani di Ottone, sia che i generali, alcuni dei quali erano contrari a questa mossa, eseguissero male gli ordini dell’imperatore, i vitelliani uscirono a tagliar la strada all’esercito di Ottone e lo affrontarono in marcia, a Bedriaco, una piccola città posta tra Cremona e Verona. Si impegnò battaglia; e la battaglia volse poco favorevole per l’esercito di Ottone. La sconfitta tuttavia non era per nulla decisiva; Ottone avrebbe potuto facilmente rifarsene, solo che avesse aspettato le grandi forze che stavano per giungere: ma all’annunzio della sconfitta, si uccise — è legittimo congetturarlo — non tanto per lo sconforto della sconfitta, quanto per il disperato terrore dell’universale disordine. Intelligente, colto, fine, Ottone deve aver capito che il governo di Nerone, di cui egli era stato un sostegno, aveva precipitato l’impero in un abisso [10] di irreparabili guai; e non sentendosi la forza di ritirarlo su da quell’abisso, si era accasciato sotto il peso della suprema autorità[2].


4. Vespasiano e la rivolta delle legioni di Oriente (luglio 69). — Morto Ottone, Vitellio restava padrone dell’Italia, prima ancora di aver varcato le Alpi. I soldati di Ottone tentarono di resistere e offrirono l’impero a Virginio Rufo, ma questi avendo rifiutato, si rassegnarono alla fine, dopo essersi assicurato il perdono, a riconoscere la vittoria delle legioni di Germania, e a prestare giuramento al vincitore. Il senato, ritornato in fretta a Roma, ratificò la proclamazione di Vitellio ad imperatore e le immagini di Galba furono circondate di lauro e di fiori, portate in giro per la città. Così l’Italia angosciata si rivoltava da un altro lato sul suo letto di spine; e come aveva immedesimato il governo di Nerone con quello, clemente e savio, di Ottone, così ora si sforzava di immedesimare col regime di Galba l’impero di Vitellio. Vitellio frattanto era giunto in Italia con il terzo esercito, che era anch’esso in gran parte composto di Galli e di Germani assoldati. L’Italia imparò per la prima volta a sue spese, che cosa fossero i nuovi eserciti, zeppi di provinciali e di barbari, a cui era affidata la difesa delle frontiere. Le legioni attraversarono l’Italia saccheggiando, ingrossate per via da una torma infinita di improvvisati amici, seguaci, ammiratori: senatori, cavalieri, popolani disoccupati, parassiti, atleti, saltimbanchi, cocchieri, gladiatori; moltitudine avida, che faceva ressa [11] intorno al carro del vincitore per raccattare nella confusione le briciole del bottino.

Vitellio, come tanti altri imperatori, era migliore della sua fama. A Roma, dove giunse in luglio, cercò di mettere un po’ d’ordine nelle cose dell’impero. Non volle più tra i suoi ministri dei liberti e li sostituì con cavalieri; in senato volle non essere considerato da più di qualsiasi altro senatore; sciolse il vecchio corpo dei pretoriani; si studiò di rimandare alle loro province le legioni; e cercò di metter pace tra soldati ottoniani e vitelliani, più inveleniti che mai gli uni contro gli altri. Nel tempo stesso, egli rilevava le statue di Nerone, per dare una soddisfazione alla moltitudine: altra prova che l’ultimo Claudio era ricordato con rammarico dalla plebe minuta. Non si occupò, dunque, solo — come fu detto poi — di imbandire sontuosi banchetti; ma anche di risanare il travagliato impero. Il quale, infatti, per un momento, sperò che la tempesta fosse terminata.

Quand’ecco, ad un tratto, ricominciò più violenta che mai. Dopo l’Occidente, si moveva l’Oriente: le legioni della Giudea, della Siria e dell’Egitto.

Abbiamo lasciato Vespasiano, nella primavera del 68, mentre si accingeva ad assediare Gerusalemme. Ma la caduta di Nerone lo inchiodò sotto le mura della città santa del giudaismo. Pare che, non volendo in così grande incertezza di cose impegnar l’esercito in impresa di tanta mole, si contentasse di conservare le posizioni che aveva occupate intorno alla città, senza procedere ad [12] operazioni decisive. Le legioni goderono quindi di una specie di riposo, mentre tutto l’impero prendeva fuoco. E da principio non pensarono che a godersi quietamente questo riposo. Parte per la maggior distanza dall’Italia; parte perchè gli orientali che militavano in quelle insieme con gli italici erano genti più raffinate e civili delle popolazioni dell’Occidente, le legioni di Giudea, come quelle dell’Egitto e della Siria, stettero per qualche tempo a guardare impassibili il grande conflitto dell’Occidente. Ma, questo durando e complicandosi, a poco a poco, quella specie di pazzia da cui erano tocche tutte le legioni si apprese anche a quelle. Perchè le legioni della Germania soltanto dovevano imporre l’imperatore al senato e godere i vantaggi di questa elezione da loro imposta? Le legioni d’Oriente eran forse da meno? Occorre inoltre considerare che l’Oriente — e quindi anche le legioni in Oriente stanziate — era stato molto più benevolo verso Nerone — per quale ragione è facile intendere — che l’Occidente e l’Italia: il che spiega come avessero così prontamente riconosciuto Ottone. Ma Ottone era perito; e le legioni, che da due anni combattevano contro il più indomabile nemico dell’impero, erano invitate a subire il capriccio dei soldati della Germania o degli imbelli senatori di Roma, che avevano rovesciato, in Nerone, l’imperatore legittimo! Altre apprensioni d’ordine più pratico si mescolavano a questi sentimenti. Come avrebbe il nuovo principe trattato i soldati e i generali che, poco prima, a guerra civile incominciata, si erano dichiarati per il suo rivale? [13] Così fu che sin dai primi mesi dell’avvento di Vitellio, tra l’Oriente e l’Occidente, tra le legioni del Danubio che non avevano potuto combattere contro Vitellio, e le legioni di Siria, di Giudea, di Egitto corressero trattative ed intese, per opporre un nuovo imperatore all’imperatore delle legioni di Germania. Si era pensato prima a Muciano, il governatore della Siria, uomo di molti meriti e di nobilissima stirpe. Muciano avendo rifiutato, fu scelto Vespasiano. Neppure Vespasiano sentiva un’ardente ambizione dell’impero; e a lui difettava un’alta e antica nobiltà di lignaggio. Ma i tempi erano così torbidi! Le legioni, il figlio Tito, intelligente ed audace, Muciano stesso, che sino ad allora non era stato amico suo, insistettero. E il primo luglio del 69 il prefetto d’Egitto proclamava in Alessandria imperatore T. Flavio Vespasiano; qualche giorno dopo gli eserciti di Siria e di Giudea prestavano giuramento sulle immagini del nuovo principe, e di lì a poco tutte le legioni della Mesia, della Pannonia, della Dalmazia, che non avean potuto combattere nè per Nerone nè per Ottone giuravano anch’esse per Vespasiano. Anche i principi orientali della Sofene, della Commagene, della Giudea indipendente, aderirono. Lo stesso re dei Parti si impegnò a non molestare l’impero durante la guerra, che sarebbe necessaria per insediare in Roma il nuovo imperatore.


5. La nuova guerra civile e la vittoria di Vespasiano (luglio-dicembre 69). — Tito avrebbe condotto a termine l’assedio di Gerusalemme; Vespasiano [14] sarebbe andato in Egitto, per impadronirsi del granaio dell’impero e affamare, se fosse necessario, Roma; Muciano si sarebbe recato con una parte delle forze a prendere il comando delle legioni della Pannonia, della Mesia e della Dalmazia, per invadere con quelle l’Italia: tale fu il piano che Vespasiano e i suoi generali concertarono a Berito, in Siria. Il piano era vasto, accorto, prudente; e mirava allo scopo con prudente lentezza. Ma i comandanti delle legioni di stanza in Pannonia, sia che sperassero, assalendo subito l’Italia, di sorprendere i vitelliani impreparati, sia che volessero essere i primi all’onore e alla preda, si radunarono a consiglio in Petovio, sulla Drava, nella Pannonia superiore, e approvarono il consiglio di Antonio Primo, di invader subito l’Italia senza aspettare Muciano. Gli eventi dovevano dar ragione ad Antonio e alla sua impazienza. Parte perchè l’esercito vitelliano non era pronto; parte perchè il generale preposto alla difesa dell’Italia orientale, Alieno Cecina, operò con un’accidia, che parve a molti sorella del tradimento, egli, Antonio Primo, potè giungere con forze considerevoli sulla linea dell’Adige. Poco dopo la flotta di Ravenna si dichiarava per Vespasiano; e allora Cecina, giudicando vana la resistenza, propose ai soldati di imitare l’esempio della flotta. Sdegnate, le legioni misero ai ferri il loro generale, e, risolute a non cedere, ripiegarono su Cremona, per ricongiungersi con altri eserciti e resistere. Ma con rapidità fulminea Antonio Primo, incalzando il nemico, mosse [15] anch’egli verso Cremona. Tra Bedriaco e Cremona, e poi sotto le mura di questa città, fu combattuta una asprissima battaglia, che durò un giorno e una notte. I vitelliani ebbero la peggio; e il miglior esercito che Vitellio avesse in Italia fu quasi distrutto; onde l’altro generale vitelliano, Fabio Valente, fuggì in Gallia, dove anche la Narbonese si era dichiarata per Vespasiano. Poco dopo anche la flotta di Miseno passò al nemico; Muciano a sua volta, con le legioni condotte dall’Oriente, arrivò in Italia; ed il suo esercito, come quello di Antonio Primo, avanzò nell’Italia centrale alla volta del Lazio.

Allora anche il partito flaviano in Roma, che era poi il vecchio partito di Nerone e di Ottone, insieme con i pochi amici del nuovo eletto, e con a capo il prefetto della città, nominato da Nerone e ricollocato a quel posto da Ottone, T. Flavio Sabino, persuasero Vitellio a abdicare. Egli stava questa volta per fare la rinunzia a cui si era ricusato dopo il 15 gennaio 69. Ma, ora come allora, Vitellio non era arbitro del proprio destino: egli era legato ai legionari della Germania e ai soldati furibondi, accorsi a Roma dalla linea del Po. Anche questa volta egli fu costretto a resistere. E fu resistenza accanita e feroce. La città dovette esser presa e conquistata da un triplice attacco, quartiere per quartiere, casa per casa, giardino per giardino. Il Campidoglio fu dato alle fiamme; Sabino, trucidato; lo stesso figliuolo minore di Vespasiano, il futuro imperatore Domiziano, scampò all’incendio e all’eccidio [16] come per miracolo. Ma finalmente la sera del 21 dicembre, dopo ma lungo e ignominioso supplizio, lo stesso Vitellio era precipitato nel Tevere.

Note al Capitolo Primo.

1.  Sul governo di Galba, cfr. C. Barbagallo, Un semestre di impero repubblicano, in Atti della R. Accademia di Archeologia, lettere etc., Napoli, 1913.

2.  Su questa guerra, e sulla guerra tra i flaviani e i vitelliani, cfr. B. W. Henderson, Civil war and rebellion in the Roman Empire a. d. 60-70, London, 1908. — La spiegazione del piano di guerra di Ottone, da noi riferita, è quella che l’Henderson ha imaginata in questa opera, con molte e sottili considerazioni. Essa non è ancora chiarissima; ed è suscettibile di obiezioni: ma è ancora la spiegazione più soddisfacente per chi non si contenti dell’incomprensibile racconto di Tacito. La congettura dell’Henderson riposa su due argomenti capitali: 1) sul fatto che Tacito (Hist., 2, 40) dice esplicitamente l’esercito di Ottone esser stato diretto al confluentes Padi et Adduae fluminum; 2) sulla necessità di dare alla presenza dell’imperatore in Brescello una spiegazione militare, e non la spiegazione romantica di cui si compiace Tacito.

[17]

CAPITOLO SECONDO I FLAVI

(69-96)

6. La pace. — Caduta Roma in potere dei generali di Vespasiano, il senato riconobbe il vincitore. Noi conosciamo parzialmente il testo della legge, con cui i comizi ratificarono il senatus consultum, che aveva deferito a Vespasiano l’impero[3]. Sono enumerati in questa legge tutti i poteri che, conferiti prima all’uno o all’altro o a tutti i predecessori nell’impero, erano ora attribuiti a Vespasiano. Che una lex de imperio, simile a questa, sia stata approvata anche per i suoi predecessori, è verosimile, ma non è provato. Non è però forse un puro caso, che proprio un frammento della tavola di bronzo su cui era incisa la legge di Vespasiano, sia giunto a noi. È chiaro che, incidendo sul bronzo questa legge — e non in Roma soltanto — si vollero far pubblici quanto più si potè i titoli legali dell’autorità del nuovo imperatore. Vespasiano fu il primo imperatore, che veramente governò, il quale non appartenesse alla famiglia di Augusto. Il nome non gli era dunque, come a Claudio e a Nerone, un titolo sussidiario, accanto alla elezione, più [18] o meno libera, del senato. E siccome quel grande disordine era nato dalla incertezza del principio legale da cui la potestà suprema traeva le sue origini, si spiegherebbe che si volesse far manifesto e noto a tutti il maggior titolo legale all’impero di colui che era stato sino ad allora un oscuro senatore: la volontà del popolo e del senato che l’avevano scelto.

Nè c’era tempo da perdere. Neppure la conquista di Roma aveva pacificato l’impero. In Gallia una insurrezione, incominciata tra i Batavi — una popolazione germanica, stanziata sulle bocche del Reno, — per aiutare Vespasiano, si era a poco a poco estesa ad altre popolazioni germaniche e ad alcune popolazioni galliche fin allora reputate fedelissime a Roma, quali i Treviri e i Lingoni, divampando alla fine in una vera guerra di indipendenza contro l’autorità romana. Quattro uomini di grande valore, il Batavo Giulio Civile, i Treviri Giulio Classico e Giulio Tutore, il Lingone Giulio Sabino stavano a capo del moto. Il quale, grazie anche all’aiuto dei resti delle milizie vitelliane del Reno, divenne alla fine così pericoloso, che Muciano, essendo ancora in Oriente, dovè spedire contro i ribelli niente meno che sette legioni, agli ordini del generale Q. Petilio Ceriale. Ma se la Gallia si sottomise, la guerra coi Batavi fu più dura; e per terminarla occorsero, oltre le armi, i trattati (autunno 70).

Nel tempo stesso Sarmati e Daci facevano incursioni nella Mesia sgombra di truppe; grossi torbidi agitavano l’Africa; e i Giudei si difendevano entro le mura di Gerusalemme assediata [19] con disperato accanimento. Solo il 29 agosto del 70 il tempio andò in fiamme e un mese dopo, il 29 settembre, bruciò la città alta. La strage fu immensa; ma non bastò a tranquillare il paese; chè qua e là gruppi di disperati combatterono ancora per più di un anno.

Lo sconvolgimento, generato dalla caduta dei Giulio-Claudi e dalla incertezza del principio legale della successione, non terminò veramente che verso il 72; quando la rivolta in Gallia, la rivolta della Giudea e i torbidi minori dell’impero furono sedati definitivamente; e quando fu chiaro a tutti che Vespasiano, il quale era venuto in Italia nel 70, era ormai universalmente riconosciuto come capo dell’impero e che questo aveva di nuovo un Princeps.


7. Il governo di Vespasiano e di Tito. — Vespasiano, l’abbiamo già detto, era nipote di un centurione, figlio di un publicano. Primi nella famiglia egli e un suo fratello erano entrati in senato e avevano esercitato alte cariche. Era quindi un homo novus, come Cicerone. Ma era anche un uomo intelligente, moderato, laborioso, che si era temprato al comando ubbidendo negli uffici inferiori e attendendo a compiti oscuri: onde seppe assolvere bene il suo difficile compito. Imitò Augusto, associandosi come collega all’impero il figlio Tito. Il 1º luglio del 71 il vincitore della Giudea ricevette la potestà tribunizia e il consolato, che da quell’anno gli furono periodicamente rinnovati nel tempo stesso che a Vespasiano. Tito viene dunque a trovarsi, dal 1º luglio 71, nella [20] stessa condizione in cui si era trovato Tiberio nell’ultimo decennio dei governo di Augusto; cosicchè meglio che il governo di Vespasiano dovrebbe dirsi il governo di Vespasiano e di Tito, essendo impossibile distinguere quello che appartiene al padre e quello che appartiene al figlio. Gli scopi e i vantaggi di questa nomina, che i servigi resi da Tito in Giudea giustificavano, erano parecchi. Tito, essendo giovane, dopo essere stato il collega, sarebbe il successore di Vespasiano, come Tiberio era stato il collega e il successore di Augusto. Vespasiano poteva quindi sperare di aver tolto via con quella nomina quelle incertezze sulla scelta del successore, che erano state così funeste alla morte di Nerone; e di lasciare la carica al figlio, senza inserire nella costituzione il principio orientale e dinastico della eredità. Si aggiunga poi, per un vecchio imperatore quale egli era, il vantaggio di procurarsi un collaboratore giovane ed alacre per riformare lo stato e nello stato le tre istituzioni, che più avevano bisogno di rinnovarsi: l’esercito, le finanze, il senato.


8. Le riforme militari di Vespasiano e di Tito. — Vespasiano ridusse le legioni o a 29 o a 30. Precisare tra questi due numeri non si può. Molti veterani furono congedati ed ebbero terre; alcune legioni, compromesse troppo nelle rivolte delle province, come, tra le legioni germaniche, la 8ª e la 16ª, furono disciolte e surrogate con legioni nuove. La guerra civile aveva mostrato che era pericoloso aver legioni, nelle quali troppo [21] numerosi fossero i provinciali fatti cittadini o peggio ancora aver numerosi corpi ausiliari, tutti tratti dai sudditi. Ma a questo male Vespasiano non potè porre rimedio, perchè l’Italia, arricchendo e incivilendosi, non somministrava più soldati che bastassero. Ormai anche i figli dei piccoli possidenti non volevano essere soldati se non per diventare centurioni[4]. Ma soltanto in Italia arrolò invece Vespasiano la guardia imperiale, affidandone il comando al proprio figliuolo. Per tal guisa il pericolo di un nuovo Seiano o di un nuovo Ninfidio Sabino era scongiurato; ma quel raccogliere tanti poteri in un’unica famiglia incominciava a saper di dinastico[5].


9. Le finanze. — Di gran lunga più importanti furono le riforme finanziarie. Vespasiano fu il primo imperatore che osasse aumentare e moltiplicare in tutto l’impero le imposte. Da Augusto in poi tutti gli imperatori si erano studiati di toccare il meno possibile le imposte vigenti, così in Italia come nelle province; sforzandosi di non accrescerle mai e, potendo, di diminuirle. Questa prudenza era stata la ragione delle continue strettezze, in cui il governo imperiale si era trovato; e degli espedienti buoni e cattivi con cui aveva cercato di rimediare. Sotto Nerone, per esempio, molti ricchi erano stati perseguitati e spenti da processi iniqui per il solo scopo di confiscarne i beni ed accrescere, senza gravare le imposte, i redditi troppo scarsi della finanza. Cosicchè l’erario era continuamente in [22] dissesto; e i pubblici servizi, trascurati. La guerra civile aveva anche peggiorato le condizioni della finanza. Entrato in carica e fatti i conti, Vespasiano aveva dichiarato occorrere all’impero almeno 4 miliardi di sesterzi per riassettarsi[6]. Non volendo procurarseli con spoliazioni e violenze, ridusse a condizione di provincia, per poter imporre loro un tributo, talune popolazioni, che la generosità dei suoi predecessori aveva restituite a libertà, nonchè alcuni staterelli fino ad allora autonomi; l’Acaia, che Nerone aveva liberata, la Licia, Rodi, Bisanzio, il regno della Commagene e quanto ancora rimaneva di libero in Tracia e in Cilicia (73); provvide a compilare uno scrupoloso e generale catasto dell’impero, che lo aiutò a scoprire numerose terre e persone le quali erano via via sfuggite al tributo o non vi erano mai state assoggettate; pare anche si ingegnasse di assicurare allo Stato una parte dei lucri abusivi, che molti magistrati traevano dalle funzioni pubbliche: infine — e fu la riforma capitale — ristabilì tutte le imposte che erano state abrogate, aumentò tutte quelle che esistevano, accrebbe, qualche volta raddoppiò addirittura, i tributi delle province[7].

Che l’impero abbia sopportato senza troppo lamentarsi il peso di queste nuove imposte, si intende facilmente. Un secolo di pace aveva molto arricchito l’Italia e le province. In tutti i paesi l’agricoltura, l’industria, le miniere, il commercio avevano progredito; la popolazione era cresciuta. L’Oriente rifioriva, e l’Occidente incominciava a fiorire. Vespasiano capì che l’impero [23] arricchito poteva e doveva sostenere un peso maggiore di imposte. Accrescendo queste, egli rese un grande servigio all’impero, perchè gli diede i mezzi per fare le grandi cose che illustreranno in pace e in guerra il secolo degli Antonini; ma die’ principio a quel governare magnifico e prodigo che, accrescendo di generazione in generazione spese e imposte, rovinerà alla fine l’impero.


10. La riforma del senato (73). — Più importante ancora fu la riforma del senato. La debolezza del senato era stata una delle cause profonde della convulsione scoppiata nell’impero alla morte di Nerone. Vespasiano, che era un italico nobilitato di fresco, non poteva nemmeno pensare che si curerebbe il male, sostituendo al senato un’autorità nuova. Roma si immedesimava agli occhi suoi, come agli occhi di Augusto, di Tiberio, di Claudio, con il senato. Senonchè egli era anche un uomo intelligente; e quindi non poteva illudersi che i soliti procedimenti, applicati da Augusto in poi, basterebbero ancora a ringiovanire l’invecchiata assemblea, specialmente dopo tanta distruzione di famiglie senatorie ed equestri nella recente guerra civile. Perciò, approfittando della tremenda convulsione, che, scotendo gli spiriti, aveva indebolito tanti pregiudizi, tante repugnanze, tanti egoismi ancora forti negli ordini sociali dominanti, egli ardì fare quel che tanti riconoscevano da un pezzo esser necessario, ma nessuno osava, per paura delle ombrose gelosie del vecchio romanesimo. Nel 73 egli si fece elegger censore; e non solo espulse i senatori indegni, [24] ma rinsanguò finalmente l’ordine senatorio e l’ordine equestre con una ricca infusione di nuove famiglie. Facendo in grande e con audacia quel che Claudio aveva tentato in piccolo e timidamente, egli introdusse nei due ordini circa mille nuove famiglie, scegliendole non in Italia soltanto, ma anche nelle province, tra le famiglie più ricche, più rispettate e più influenti, che già godevano della cittadinanza romana[8]. Dai nomi di queste famiglie a noi noti, noi possiamo argomentare che il maggior numero apparteneva all’Italia del Nord, alla Spagna e alla Gallia; alcune anche erano africane; mentre è da credere che l’Oriente ne somministrasse poche. Nè è difficile arguire la ragione di questa differenza. Nelle province dell’Occidente, che Roma aveva conquistate ancora barbare, molte famiglie si erano arricchite in quel secolo; e arricchitesi avevano copiato le idee e i costumi di Roma, come un modello di perfezione che nobilitava il fortunato imitatore, a paragone della rozzezza indigena. In Oriente invece le famiglie arricchite di fresco da Augusto in poi si ellenizzavano piuttosto che romanizzarsi. Cosicchè in Spagna ed in Gallia s’era formata in quel secolo, e si era esercitata nel maneggio degli affari pubblici, una aristocrazia provinciale, la quale non solo aveva imparato a parlar bene il latino, ad ammirare Roma nell’opera immortale di Tito Livio, ma che nelle scuole, sui libri di Virgilio, di Orazio, di Cicerone, di Varrone, aveva fatte sue le vecchie virtù che l’aristocrazia romana aveva quasi del tutto perdute: la [25] parsimonia, la semplicità, l’austerità, il rispetto della tradizione, lo zelo civico, la dignità; aggiungendo una certa moderazione e umanità e larghezza di vedute, derivate dai tempi. A queste famiglie Vespasiano confidò l’impero, chiamandole a Roma e al governo.

Questo rinnovamento del senato è un avvenimento di importanza capitale, che la storia non ha ancora illustrato quanto meritava; è il maggiore effetto della grande guerra civile scoppiata dopo la morte di Nerone. Dopo questa prova, il gretto egoismo con cui le antiche famiglie senatorie oppugnavano ogni proposito di ringiovanire l’assemblea con elementi nuovi, venne meno. Vespasiano potè fare quel che a Claudio era stato concesso solo di tentare timidamente. Ma l’aver saputo porre ad effetto la riforma a tempo opportuno è gloria immortale di Vespasiano; perchè da questa riforma procedè il rifiorire del romanesimo, la tranquillità e la prosperità di cui l’impero godè nel secolo così detto degli Antonini. Per questa riforma l’Occidente salvò una seconda volta Roma e il romanesimo. Come la conquista della Gallia aveva impedito che la sede dell’impero fosse tolta dall’Italia e portata in Oriente, così la nobiltà romanizzata delle province occidentali conserverà ancora per più di un secolo alle istituzioni dell’impero la loro antica anima repubblicana e latina. Vespasiano aveva così ben capito che Roma doveva ritemprarsi nelle province dell’Europa, che la sua censura termina con la concessione della cittadinanza latina (lo [26] ius Latii) alla Spagna, una tra le più antiche e meglio romanizzate province romane (74).


11. L’ellenismo e il romanesimo nel governo di Vespasiano. — Non si potrebbe però raffigurare in Vespasiano un imperatore tradizionalista, come Tiberio. Il governo di Vespasiano è una contradizione continua; anzi in questa sua contradizione continua, per cui gli vien fatto di equilibrare finalmente l’Occidente e l’Oriente, sta la sua fecondità. Vespasiano non fu nè un imperatore avaro al modo latino, come Tiberio e Galba; nè un imperatore prodigo, secondo il modello asiatico o come Nerone. Avaro con se medesimo e nell’esigere le imposte, come Tiberio, Vespasiano fu il primo degli imperatori savi che spese largamente. Spese a larga mano per i lavori pubblici: le vie dell’Italia e delle province furono rimesse in buono stato; gli acquedotti, riparati; gli archivi del Campidoglio, ricostituiti e il Campidoglio medesimo, ricostruito; le città, distrutte dai terremoti e dagli incendi in tutto l’impero, restaurate. Spese largamente per la difesa ai confini dell’impero, costruì strade militari, dirizzò potenti fortificazioni, specie sul Reno e sul Danubio, piantò grandi campi trincerati, come quelli di Vindobona (Vienna) e di Carnuntum (Petronell); rinforzò la flotta del Danubio; fondò numerose colonie militari. Spese anche largamente per feste, banchetti, spettacoli ed edifici di ornamento; riparò in Roma il teatro di Marcello e incominciò la costruzione di quello che ancor oggi rimane il più grandioso monumento [27] di Roma antica, l’Anfiteatro Flavio (il Colosseo). Fu, come Augusto e Tiberio, largo nel soccorrere le famiglie della nobiltà in bisogno, zelante nel riparare gli antichi templi e nel restaurare le forme più arcaiche della religione tradizionale[9]: ma concesse anche al gusto dei tempi; riconobbe che il popolo aveva diritto di divertirsi e prodigò lauti premi in denaro ad attori e a musicisti. Primo protesse le arti: assegnò uno stipendio di 1.000.000 di sesterzi a taluno dei più famosi retori greci e latini, che professavano in Roma — uno di costoro fu, pare, Quintiliano; diede ricompense di vario genere ai poeti, agli scultori, agli architetti; ma cacciò via dall’Italia non solo gli astrologhi ma anche i filosofi, che con le loro dottrine e discussioni gli parevano guastare il buon senso degli uomini; sembra anche aver voluto che in Grecia i maestri delle varie scuole filosofiche fossero cittadini romani[10]. Contemperò insomma armonicamente Nerone e Tiberio, e riconobbe, pur difendendo le parti vitali della tradizione romana, i diritti dell’ellenismo invadente. Così potè tranquillamente morire il 24 giugno dei 79, a sessantanove anni, dopo un governo, che poche congiure avevano minacciato e poche repressioni insanguinato; e senza esser sepolto in grembo a una leggenda infame ed assurda, come quella con cui l’odio insensato dei contemporanei aveva suggellato il sepolcro di Tiberio e di Claudio. Del che gli storici hanno attribuito il merito alla umanità del suo carattere, che certo fu grande ma che non fu la sola causa. Anche Tiberio e Claudio [28] avevan cercato di limitare le accuse e i processi per lesa maestà: eppure non c’erano riusciti. Perchè invece riuscì Vespasiano? Perchè i tempi e il senato erano mutati. Dopo la convulsione di quell’ultima guerra civile, in quel senato in cui l’elemento romano, orgoglioso, discorde, litigioso, era stato contemperato con i nuovi elementi, italici, spagnuoli e gallici, regnava un più alto spirito di concordia e una sollecitudine più nobile della dignità dell’assemblea. Onde quelle tempeste reciproche di accuse furono più rare e meno violente.


12. Il governo di Tito (79-81). — Spento appena Vespasiano, il figliuolo Tito assunse, e il senato confermò, il titolo di Augusto. Ma il suo governo termina, non comincia, a questo momento. Tito era stato, come abbiamo visto, collaboratore del padre sino dal 71. Allorchè Vespasiano morì, l’opera difficile era quasi compiuta. E Tito, sebbene appena quarantenne, era malaticcio. Così il suo governo fu come il breve e tranquillo epilogo di quello di Vespasiano. Tito spese come e più di suo padre, per feste, donativi, lavori pubblici; inaugurò con solennità grandiosa l’Anfiteatro Flavio; cercò di accontentar tutti e di non molestar nessuno; e dopo ventisei mesi di governo, si spense improvvisamente, passando ai posteri sotto il nome di amor ac deliciae generis humani (13 settembre 81). Sotto il suo breve governo non c’erano state congiure, e la lex de majestate aveva oziato.

[29]


13. L’avvento di Domiziano (14 settembre 81); la conquista della Britannia (77-84), e le prime guerre in Germania (83). — Tito aveva un fratello, T. Flavio Domiziano, allora trentenne. L’imperatore non era ancora spirato, che già Domiziano s’affrettava a cavallo dalla sua villa in quel di Reate al campo dei pretoriani in Roma, per ricevere la prima salutazione imperiale. Così il senato era invitato a subire quella rivoluzionaria designazione; e ancora una volta, sebbene con maggior ripugnanza, si piegò, per evitare il peggio. Il 14 settembre 81 Domiziano era princeps.

Il nuovo imperatore era un uomo intelligente, amico delle lettere e delle arti belle, poeta egli stesso, protettore degli studi e delle biblioteche: un ellenizzante, insomma. Ma non fu, almeno sul principio, un secondo Nerone. Assunse il potere con il proposito di imitare suo padre e di fare, anch’egli, buon viso all’ellenismo invadente, nel tempo stesso in cui lavorerebbe a rafforzare con tutti i mezzi possibili la tradizione latina. Inspirandosi all’esempio paterno, spese largamente per feste, per edifici, per proteggere arti ed artisti; ma nella religione e nella giustizia cercò di rinnovare la severità antica. Volle perfino rinnovare le severissime pene in uso un tempo contro le Vestali che mancavano ai loro doveri. L’imparzialità e la severità della sua giustizia sono riconosciute e lodate anche dagli scrittori a lui più avversi.

Senonchè mancavano a Domiziano la pazienza, la ponderazione, il solido buon senso del padre; [30] nè il senato era più quello di Claudio e di Galba. La riforma di Vespasiano incominciava a dare i suoi frutti. Le nuove famiglie, scelte in Italia e in tutte le province dell’Occidente, avevano infuso finalmente nella stanca assemblea il vigore che sembrava estinto per sempre. Il senato rialzava il capo; di nuovo conosceva i suoi diritti e i suoi doveri; voleva agire e farsi valere. Questo nuovo senato, riplasmato dalla mano di Vespasiano, non poteva perdonare a Domiziano il modo con cui si era fatto eleggere. Ciò non ostante, i primi anni furono tranquilli. Fatti di guerra primeggiano in quelli, come la conquista di quasi tutta la Britannia. Fin dal 77 era stato spedito in Britannia uno dei membri più illustri della nuova aristocrazia, Giulio Agricola, gallo d’origine. Già all’avvento di Domiziano, egli non solo aveva, proseguendo la lenta opera dei suoi predecessori, stabilmente occupato l’isoletta di Mona (Anglesey); ma era avanzato fino ai confini meridionali della Caledonia (Scozia), là dove l’isola si restringe fra i golfi di Bodotria e di Clota (Forth e Clyde). Agricola aveva fortificato i confini della nuova provincia, e si apparecchiava alla invasione della Hibernia (Irlanda) e della stessa Caledonia. Ma le difficoltà della impresa, alcune rivolte scoppiate nella parte già sottomessa, e grosse difficoltà sorte in Germania obbligarono Roma ad abbandonare l’impresa. Agricola fu richiamato: atto che fu vivamente biasimato nei circoli senatorii di Roma, sebbene sia difficile ammettere che Domiziano l’abbia fatto per gelosia di Agricola[11].

[31]

Alle cose di Germania attese invece Domiziano in persona. Prendendo occasione dai movimenti e dalle turbolenze dei Catti, una delle più bellicose popolazioni germaniche, l’imperatore condusse nell’83 una spedizione in Germania, alla quale non difettarono nè gli uomini nè i mezzi. Aiutato da buoni generali e consiglieri, Domiziano riportò ragguardevoli successi[12]. Ma l’impresa ebbe un epilogo ancora più notevole dell’impresa stessa; par che allora si cominciasse la costruzione di quella colossale fortificazione — il limes germanicus — che, compiuta nel secondo secolo, doveva congiungere il Reno col Danubio e, lunga 120 miglia romane, sbarrare il tratto della nuova frontiera, che i due fiumi non coprivano.


14. La censura a vita e la rottura tra Domiziano e il senato (85). — Senonchè già durante questi anni era accaduto qualche urto tra imperatore e senato. Il senato, per esempio, aveva tentato nell’82, senza riuscire, di fare i propri membri immuni dal giudizio del principe. Ma i rapporti incominciarono a guastarsi verso l’85, dopo l’impresa di Germania, quando Domiziano assunse come suo padre la censura, specialmente quando si fece nominare censore perpetuo. Per capire quel che successe in Roma e nel governo dopo questo atto, bisogna spiegarlo bene. Il censore, il più alto e il più temuto dei magistrati romani, poteva anche fare per eccezione dei nuovi senatori e deporre i senatori già investiti del grado. Era, in un certo senso, il giudice e l’arbitro del senato. Perciò c’erano stati tempi in cui i [32] partiti si erano intesi nella repubblica per non nominare più censori. Gli stessi imperatori, anche i più autorevoli, Augusto e Vespasiano, non avevano accettato la censura che per qualche tempo, di mala voglia, quasi a forza e per ragioni straordinarie: Vespasiano, per esempio, dopo una tremenda guerra civile e per ridare a Roma un senato. Tanto era grave l’impegno! Cosicchè il senato era un corpo che si rinnovava automaticamente; poichè tutti coloro che avevano esercitato la questura diventavano per diritto, alla fine della magistratura, senatori, e non potevano essere più spossessati se non in seguito ad un processo. Ma un imperatore che voleva essere censore perpetuo rivendicava invece il potere di espellere dal senato o di introdurci quanti senatori credesse, ossia toglieva al senato una delle garanzie maggiori della sua indipendenza. Il senato, che Vespasiano aveva rinvigorito di nuove energie, si rivoltò contro questa ambizione dell’imperatore, che era sembrata soverchia anche ad Augusto e a Vespasiano. Il duello implacabile tra la nuova aristocrazia e Domiziano incomincia.


15. La guerra Dacica (85-89). — Una grossa guerra sopraggiunse tra l’85 e l’86 in mezzo a queste discordie civili. I Daci, da gran tempo stanziati nella pianura, che oggi abitano Ungheresi e Rumeni, minacciavano già da qualche tempo la riva destra del Danubio, e più dopochè Antonio Primo aveva sguernito di milizie la Mesia. Ma, come sembra, poco prima di Domiziano, quelle sparse tribù erano state raccolte in un governo [33] unico, sotto un abile principe, Decebalo, il quale, mentre si studiava di dirozzare il suo popolo, l’armava potentemente e stringeva relazioni con tutti gli stati limitrofi. Improvvisamente, nell’85, Decebalo aveva varcato il Danubio, sorpreso e sconfitto il governatore della Mesia, invasa la provincia. Narrare la storia di questa guerra e giudicare quel che Domiziano fece, è impossibile, tanto i racconti degli storici antichi sono lacunosi. Noi vediamo Domiziano accorrere da Roma nella provincia invasa e raccogliere colà in grande fretta parecchie legioni; ma non partecipare ad operazioni militari, sibbene attendere ad un nuovo ordinamento della Mesia[13]; ritornar poi a Roma e presiedere alla inaugurazione dei Giochi Capitolini, i quali, come le Neronee, constavano di recitazioni musicali e poetiche, di gare di eloquenza, di corse e altri esercizi del genere, cui pigliavano parte anche le donne. Mentre l’imperatore rendeva con queste feste il più solenne omaggio, tributato sino ad allora, ufficialmente, in Roma, all’ellenismo, i suoi generali riuscivano a ributtare i Daci al di là del Danubio[14]: il che farebbe credere che non per leggerezza o neghittosità Domiziano era venuto a Roma, ma perchè la sua presenza non era necessaria. Ma quando, nella primavera dell’87, il sub prefetto del pretorio, Cornelio Fusco, tentò di passare il Danubio e di invadere il territorio dei Daci, fu a sua volta sconfitto ed ucciso: il che farebbe pensare che questa spedizione fosse stata preparata un po’ alla leggera. Comunque sia Domiziano cercò di riparare; e si accinse a una [34] terza campagna, la cui direzione sarebbe stata affidata a Tezzio (?) Giuliano. Ma se è difficile giudicare Domiziano e le sue virtù militari in questa guerra, è certo che tutte queste vicissitudini e oscillazioni irritarono il malcontento del senato contro il Console perpetuo. Il senato incominciò ad accusarlo di fare strazio del prestigio dell’impero; e l’accusa presto diede i suoi frutti. Nell’autunno dell’87 si scopriva una prima congiura[15]; e, subito dopo, erano ordite le prime fila di una insurrezione, la quale doveva spingere alla rivolta addirittura le legioni della Germania superiore. La insurrezione scoppiò, a quanto pare, nell’88, e fallì, perchè i legionari non seguirono il generale, e gli altri governatori non lo secondarono. Non per questo l’aristocrazia senatoria cessò dal mormorare contro la guerra dacica e contro Domiziano, che la dirigeva. Invano l’imperatore cercò oltre il Danubio quella vittoria indiscutibile, che avrebbe imposto silenzio a tutti i nemici. Nella primavera dell’89 Giuliano aveva inflitto una grave disfatta all’esercito di Decebalo. La resa a discrezione dei Daci sembrava imminente: ma proprio allora Decebalo riusciva a muovere contro i Romani i Quadi, i Marcomanni e, pare, anche gli Svevi. Giuliano dovette fermarsi, e l’imperatore trattar la pace. Decebalo acconsentì a restituire tutto il bottino della guerra — armi ed uomini —; a riconoscersi cliente dell’impero, a difendere a vantaggio di Roma il confine del Danubio; al qual uopo riceveva dall’impero mezzi e uomini per riordinare l’esercito. Assoldare i barbari per difendere le [35] frontiere che altrimenti le assalirebbero è un procedimento, che in tutti i tempi i grandi stati hanno adoperato. Ma quei procedimenti furono invece rimproverati a Domiziano, dall’aristocrazia senatoria, come un tradimento. Si disse persino che Domiziano aveva fatto l’impero romano tributario di Decebalo! Come che sia, svincolato dall’impegno della campagna dacica, l’imperatore potè volgere tutte le sue forze contro i Quadi e i Marcomanni, che furono alla fine costretti alla pace[16].


16. La caduta di Domiziano (89-96). — Ma ormai la discordia tra il senato e l’imperatore era insanabile. L’ostilità permanente e le critiche implacabili del senato non potevano non irritare un uomo sospettoso, orgoglioso, violento, come Domiziano, e spingerlo a procedimenti sempre più autoritari. Questi a loro volta non potevano non esasperare un corpo, come il senato, che aveva nelle vene il sangue nuovo trasfusogli da Vespasiano. Le strettezze delle finanze peggiorarono ancora uno stato di cose già cattive. La prodigalità di Vespasiano e di Tito, che Domiziano aveva continuata, le numerose guerre, il soldo delle legioni aumentato di tre aurei, avevano dissestato le finanze dell’impero. Occorrevano denari. Il governo di Domiziano diventò anche rapace[17]. I tempi dovettero lamentare di nuovo la caccia ai testamenti, che tanto Domiziano avea nei suoi primi anni biasimata; la lex de majestate, adoperata di nuovo come espediente fiscale; l’asprezza crescente nella percezione delle imposte. [36] I senatori in particolar modo rammaricarono il continuo aumento delle fonti del fisco imperiale a scapito dell’aerarium della repubblica, che il senato amministrava. Di nuovo infierirono a Roma le delazioni, i processi, gli scandali, le congiure che, esasperando il carattere sospettoso e violento di Domiziano, sembrano veramente averne alla fine alterato la mente. Una specie di delirio dispotico pare essersi impadronito di lui, e averlo spinto a imitare Caligola, proclamandosi Dio, alla foggia degli antichi sovrani d’Egitto. Ma Roma non era Alessandria; e non c’era tra le sue mura posto ancora per un despota, che volesse essere adorato. Il governo di Domiziano si trascinò sino al 96, sempre più cupo, sospettoso, violento: sinchè, nel 96, una vasta macchinazione, della quale facevano parte parecchi dei suoi familiari, la moglie, e tutti e due i prefetti del pretorio, ebbe ragione del suo dispotismo. Il 18 settembre il principe periva pugnalato in età di appena 45 anni, dopo 15 anni e 5 giorni d’impero.

Note al Capitolo Secondo.

3.  La lex de imperio — o meglio il brano che è giunto a noi — si trova in C. I. L. VI, 930.

4.  Sulle riforme militari di Vespasiano, cfr. Pfitzner, Die Römischen Kaiserlegionen, Leipzig, 1881, pp. 68-73.

5.  Cfr. Svet. Vesp. 25.

6.  Svet. Vesp. 16: «professus quadragies millies opus esse, ut respublica stare posset». — Altri legge: quadringenties millies: ma 4 miliardi di sesterzi sembrano una somma più verosimile che 40 miliardi. Non bisogna dimenticare che, come massa totale di ricchezze, il mondo antico era assai più povero del nostro tempo.

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7.  Svet. Vesp. 16: «Non enim contentus omissa sub Galba vectigalia revocasse, nova et gravia addidisse, auxisse tributa provinciis, nonnullis et duplicasse....». È questo un testo di capitale importanza per la storia dell’impero, perchè ci prova che con Vespasiano incominciò quel fiscalismo, da cui l’impero fu tratto a rovina.

8.  Svet. Vesp. 9: «amplissimos ordines.... purgavit; supplevitque recensito senatu et equite, submotis indignissimis, et honestissimo quoque Italicorum ac provincialium allecto». Aurel. Vict. Caes. 9: «lectis undique optimis viris mille gentes compositae». Qui gentes significa puramente e semplicemente famiglie. Questi due passi hanno, essi pure, una importanza capitale per la storia dell’impero.

9.  Cfr. C. I. L. VI, 934, nella quale epigrafe Vespasiano si definisce conservatore dei riti antichi.

10.  Cfr. Barbagallo, Lo Stato e l’istruzione pubblica nell’impero romano, Catania, 1911, pp. 108-109.

11.  Risulta dalla stessa biografia di Agricola, dettata da Tacito. Cfr. Tac. Agr. 39 sg.

12.  Front. Strat. 1, 1, 8.

13.  C. I. L. III, 4013; XI, 571; G. Corradi, Domitianus, in De Ruggiero, Dizionario epigrafico, p. 2010.

14.  Euseb.-Hieron. Chron. ed. Schoene, pp. 160 e 161; F. H. Gr. IV, pp. 185; Dio Cass. 67, 7.

15.  Acta Arv. p. CXX, ed. Hensen; C. I. L. VI, 2068.

16.  Euseb.-Hieron. Chron., loc. cit.; Aurel. Vict. Epit. 11, 2.

17.  Cfr. Svet. Domit. 12.

[39]

CAPITOLO TERZO LA REPUBBLICA DI TRAIANO E GLI ULTIMI SPLENDORI DEL ROMANESIMO

17. Nerva (18 settembre 96-27 gennaio 98). — Questa volta non si era pensato solo a uccider Domiziano, ma anche a prevenire i soldati, facendo subito eleggere dal senato il successore. I congiurati avevano pronto un candidato, e il senato non esitò e tergiversò, come altre volte. Appena Domiziano era spirato, elesse a imperatore, senza discussione, M. Cocceio Nerva, un vecchio senatore, che era anche un reputato giurista.

La concordia del senato, la sua risolutezza, forse anche il suo rinnovato prestigio si imposero alla soldatesca. I pretoriani a Roma, le legioni nelle province mormorarono un po’, e accennarono anche a protestare. Sul Danubio e in Siria scoppiò qualche torbido. Ma la pace pubblica non fu violata, e, per la prima volta, l’impero ebbe un capo che non era stato imposto nè dagli avvenimenti, come Augusto e Tiberio, nè dai soldati come Claudio, Nerone, Vespasiano: un principe, che era stato liberamente scelto dal senato [40] e che poteva considerarsi come il suo fiduciario. Nerva infatti governò come tale. Si impegnò a non condannare a morte nessun senatore; riserbò ai senatori tutte le alte magistrature; vietò ai liberti e agli schiavi di testimoniare contro i padroni; proibì i processi di lesa maestà; perseguitò i delatori, richiamò gli esuli; non punì i tentativi di congiura fatti contro di lui; abbozzò le istituzioni alimentari di soccorso per la popolazione povera dell’Italia. Inoltre si sforzò di restaurar le finanze; distribuì terre ai cittadini poveri di Roma; si occupò molto delle opere pubbliche. Insomma cercò di governare con senno ed onestà. Ma era vecchio e debole; onde non sempre sapeva agguagliare gli atti alla intenzione: voleva far più che non potesse, onde spesso scontentava anche quelli a cui voleva giovare: inoltre era uomo di legge, non di spada, e perciò piaceva poco ai soldati. La rivolta delle legioni era la spada di Damocle sospesa su questo governo, così saggio, onesto e debole. Il pericolo era così grande, che nell’ottobre del 97 l’imperatore, seguendo l’esempio di Augusto, di Galba e di Vespasiano, prendeva, d’accordo con il senato, un collega, adottando M. Ulpio Traiano, governatore di una delle due Germanie — non è chiaro se dell’inferiore o della superiore. Traiano era uno dei più illustri soldati del tempo. Di nuovo dunque l’impero, come nei tempi in cui Augusto e Agrippa erano stati colleghi nella magistratura, era retto da un capo civile e da un capo militare. Ma per poco tempo: tre mesi dopo, al principio del 98, Traiano [41] riceveva a Colonia la notizia che l’imperatore era morto, e che il senato aveva ricostituito nella sua persona l’unità della suprema magistratura, affidandogli tutto l’impero.


18. I primi anni di Traiano (98-100): la nuova aristocrazia e la rinascenza repubblicana. — Alla lettera del senato, che lo riconosceva unico imperatore, Traiano rispose nobilmente e semplicemente, ringraziando e rinnovando l’impegno di Nerva, di non farsi mai arbitro di sentenze capitali a carico di alcun senatore; indi lasciò che senato e consoli governassero la repubblica, attendendo per due anni ancora, sul Reno prima, poi sul Danubio, alla missione militare che gli era stata affidata da Nerva. Solo nel 99 tornò a Roma, dove rinnovò l’esempio dell’antica semplicità repubblicana con ogni suo atto e gesto. Entrò nella metropoli a piedi, senza pompa, tra il popolo festante; visse in un palazzo modesto, schivo di cerimonie, ricevendo chiunque e parlando con tutti familiarmente; non fu e non volle esser considerato che come il più autorevole dei senatori. Il suo modo di governare andò d’accordo con il suo modo di vivere. Il senato fu spesso consultato anche sulle faccende esterne dell’impero; i processi di lesa maestà, obliati; i delatori, puniti; tutte le alte magistrature riserbate ad senatori; la nobiltà accarezzata e protetta. A sua volta il senato rispettò e ammirò l’imperatore sinceramente come il più cospicuo dei suoi membri e come il modello di tutte le antiche [42] virtù repubblicane. Per la prima volta senato e imperatore andarono d’accordo; per la prima volta l’inconciliabile — il principato e la libertà — fu conciliato; per la prima volta Roma ebbe un imperatore che la nobiltà ammirava unanime. Dopo la repubblica di Augusto, la repubblica di Traiano; questa volta per davvero!

La meraviglia sognata e aspettata da tante generazioni era realtà, finalmente! Ma non era un miracolo. La grande riforma del senato, compiuta da Vespasiano, dava i suoi frutti. La nuova nobiltà provinciale ravvivava per un’ultima volta le tradizioni e le istituzioni della antica repubblica. In queste famiglie dell’Italia del Nord, della Gallia, della Spagna, dell’Africa, educate nello spirito della romanità dai grandi scrittori dell’età di Cesare e di Augusto, ferventi di ammirazione e di gratitudine per Roma che dalle province le aveva chiamate a governare l’impero, l’antico spirito latino riviveva con una forza e una sincerità nuove, e temperato da una umanità, che era il frutto della coltura filosofica, dei tempi, della grandezza e della varietà dell’impero. Roma era governata da una aristocrazia, non meno ricca ma più semplice e austera che ai tempi dei Giulio-Claudi[18]; orgogliosa dei suoi privilegi e diritti, ma consapevole dei suoi doveri verso l’impero; colta e preparata al comando dalle tradizioni del romanesimo rimesse nell’antico onore dallo studio della letteratura latina e della filosofia greca fatto con spirito civico e sollecitudine morale profonda; aliena dal feroce spirito di discordia e dalle atroci gelosie, [43] che avevano lacerato la nobiltà romana negli ultimi secoli della repubblica: migliore di quella più antica aristocrazia che le guerre civili, gli intrighi politici, i dissesti economici, le conquiste troppo facili, il subito dilagare dell’ellenismo avevano guastata, tra la seconda guerra punica e l’avvento di Augusto. Tacito è lo scrittore che rappresenta questa nuova aristocrazia e ne esprime le aspirazioni. E l’opera di Quintiliano, il primo professore pubblico di retorica, istituito da Vespasiano, ci fa conoscere l’educazione che formava questa aristocrazia.

Traiano è il grande imperatore di questa nuova nobiltà. Era nato da una di quelle famiglie di provinciali romanizzati, propriamente spagnola, con cui Vespasiano aveva rinsanguato il senato. Suo padre, dopo aver servito con onore nell’esercito, era stato fatto senatore dal primo dei Flavii. Ma dell’antico romanesimo la parte che più forte riviveva in lui era lo spirito militare. Traiano fu un soldato tagliato sul modello di Scipione o di Paolo Emilio. Perciò, dopo aver data soddisfazione alle aspirazioni civili dell’ordine senatorio, si accinse a soddisfare un altro desiderio, che lo studio del passato e le rinnovate tradizioni avevano ravvivato nella nuova aristocrazia: il desiderio che la gloria militare di Roma rinverdisse. A questa aristocrazia, che lamentava il secolo corso da Augusto a Domiziano come una lunga decadenza e corruzione, pareva che anche la gloria delle armi romane si fosse oscurata in quel tempo; la pace con Decebalo conchiusa da Domiziano era considerata come una [44] vergogna; si invocava un grande guerriero, che ritemprasse la spada di Roma.


19. La guerra contro la Dacia (101-102; 105-106). — Traiano fu questo grande guerriero. Il suo primo soggiorno a Roma fu breve, e durò poco oltre il 101: il tempo necessario per preparare, d’accordo con il senato, una grande spedizione nella Dacia; otto legioni, che con gli ausiliari e le dieci coorti pretorie, dovevano formare un esercito di almeno 100.000 uomini. Quando i preparativi furono terminati, nella primavera del 101, Traiano dichiarò la guerra a Decebalo. Purtroppo la storia di questa grande guerra è poco chiara. Noi sappiamo che la Dacia fu invasa da tre eserciti; che i Daci si difesero con abilità ed energia; che Traiano riportò una segnalata ma sanguinosissima vittoria alla Porta di Ferro (Tapae), ma che neppur questa vittoria bastò a piegare il nemico. L’imperatore dovè inoltrarsi nel paese nemico, e minacciare il cuore e la capitale del regno. Solo allora Decebalo accettò le condizioni imposte da Traiano: si dichiarò vassallo di Roma, abbandonò le terre conquistate a danno dei popoli limitrofi, consegnò il materiale di guerra e demolì le fortezze (102).

L’imperatore tornò l’anno seguente a Roma e celebrò un solenne trionfo. Senonchè la pace non era che una tregua. Novello Mitridate, il re dei Daci rialzava le sue fortezze; approntava nuove armi, accoglieva i disertori romani, stringeva nuove alleanze, perfino, si diceva, con la lontana Parzia. Alla fine del 104 il senato dovè deliberare [45] una più grande spedizione; e la guerra tra Roma e la Dacia scoppiò di nuovo nel 105. La seconda campagna non fu meno aspra della precedente. Abbandonato dagli alleati e da una parte del suo popolo, Decebalo si ritirò lentamente nell’interno, resistendo nelle gole delle montagne, incendiando i campi e le città, infliggendo ai Romani aspre fatiche e perdite crudeli. Alla fine, egli e i nobili del paese, dopo essersi strenuamente difesi, si uccisero, chi col ferro chi con il veleno, o furono trucidati, o riuscirono a passare le frontiere; e la Dacia fu proclamata provincia romana. Ma ormai il paese devastato dalla lunga guerra era semideserto. Non volendo ai confini dell’impero una provincia spopolata, Traiano colonizzò in grande la nuova conquista. Da ogni parte dell’impero furono sollecitati coloni; compagnie di imprenditori accorsero a scavare le miniere dei Carpazi; la coltivazione del grano nelle feconde pianure e la navigazione del Danubio si svilupparono prosperose; lo Stato aiutò in tutti i modi, costruendo vie e città, non badando a spese, la colonizzazione privata. In breve l’antico regno germanico di Decebalo si convertì in una provincia romana, popolata di mediterranei dalla statura media, dagli occhi scuri e ardenti, dalla capigliatura bruna; a cui facevano contrasto gli indigeni superstiti dall’alta statura, dall’occhio glauco e dai capelli biondi. In breve colà sonò la lingua di Roma, che vive tutt’oggi nella contrada; e l’impero di Roma si era ampliato in Occidente di una vasta provincia, che per parecchie generazioni fu quel che oggi noi chiameremmo [46] un «paese nuovo», aperto agli audaci, ricco di pericoli e di fortune.


20. L’amministrazione civile di Traiano (106-114). — Nell’anno stesso in cui Traiano compieva la conquista della Dacia, uno dei suoi luogotenenti, A. Cornelio Palma, donava all’impero un’altra provincia: l’Arabia Petrea, il paese che si stende dal Mar Rosso ad oriente della Palestina sino a Damasco, incluso quasi tutto il Sinai, con le ricche città di Petra e di Bostra. La nuova conquista fu senz’altro denominata la provincia dell’Arabia (106).

Incominciò allora una pace, durata nove anni, durante i quali la nuova nobiltà ebbe ragione di compiacersi che i tempi più belli della repubblica fossero ritornati. «Finalmente la nobiltà — dice Plinio il giovane, nel suo famoso Panegirico — anzichè essere oscurata dal Principe, riceve ogni giorno da lui un rinnovato splendore. Finalmente il principe non teme gli illustri discendenti degli eroi, gli ultimi eredi della libertà. Egli invece affretta per loro l’età degli onori, rialza la loro dignità, li restituisce ai loro antenati.... Ovunque è un ramo di un’antica stirpe, un resto di una vecchia gloria, egli lo raccoglie, lo ravviva, e lo adopera a vantaggio della repubblica. I grandi nomi tornano in onore, presso gli uomini, presso la fama, strappati alle tenebre dell’oblio dalla generosità del principe, il cui merito è — egualmente — nel conservare la nobiltà, come nel crearla»[19]. Non più processi, scandali, delazioni, sospetti! Le tradizioni repubblicane ritornano [47] in onore. Un segretario dell’imperatore, Titinio Capitone, mette nella sua casa, al posto di onore, le immagini di Bruto, di Cassio, di Catone, e compone poesie in lode di questi illustri cittadini, le legge in pubblico a tutta la nobiltà romana. Lo stesso imperatore conia nelle monete l’effigie di Silla, di Bruto, di Cicerone, di Catone l’Uticense, e perfino quella del Genio medesimo della Libertà. Il senato e i magistrati della repubblica sono trattati dal principe spagnolo con quel rispetto, di cui la vecchia nobiltà romana non era più capace da un pezzo. Traiano, anzi, istituisce nel senato lo scrutinio segreto per liberare i senatori dal fastidioso controllo del principe. Molteplice è l’attività del governo di Traiano in tutti i rami della pubblica amministrazione. Grandiosi lavori pubblici sono ordinati in tutte le parti dell’impero, per utilità o per fasto. Sono migliorati i porti adriatici e tirreni della penisola, Ancona, Ostia, Centumcellae (Civitavecchia); sono aperte in Roma pubbliche biblioteche; è costruito quel Foro Traiano, opera di Apollodoro di Damasco, nel cui bel mezzo sorge ancora la colonna, che racconta nel bronzo istoriato le guerre daciche.

L’Italia è invasa dalle famiglie arricchite e romanizzate delle province, che vogliono servire l’impero ed essere assunte nella nobiltà che lo governa. Traiano rinnova il disposto di Tiberio, che ogni provinciale, il quale concorreva alle magistrature di Roma, dovesse investire un terzo del suo avere nella penisola ed in beni immobili: chiara intimazione dello imperatore spagnuolo a [48] tutti i provinciali, che a chi voleva prender parte al governo dell’impero l’Italia doveva essere, non un albergo passeggero, ma la patria definitiva. Come Augusto, Traiano non vuole che la popolazione italica diminuisca; s’industria di frenare l’emigrazione; e dà incremento alle istituzioni alimentari, a cui Nerva aveva appena avuto il tempo di dar forma[20]. Si assegnavano per conto del fisco determinate somme ai municipî, i quali le prestavano a modico interesse e sulla garanzia dei fondi ai privati; gli interessi dovevano servire ad allevare ed educare fanciulli poveri, legittimi o naturali, e, in piccola parte, anche fanciulle, purchè aventi la cittadinanza romana, fino ad una certa età. L’istituzione mirava a un doppio scopo: accrescere la popolazione minuta, che forniva i soldati alle legioni; e giovare all’agricoltura italica, con prestiti di favore a modico interesse. Ed era — o parve — così benefica, che molte famiglie della nobiltà si affrettarono a imitarla, ciascuna nella misura delle sue forze. L’aristocrazia intendeva di nuovo che i suoi privilegi erano bilanciati da molti doveri verso le classi povere e lo Stato; che, come Plinio diceva, «l’uomo veramente liberale deve donare alla sua patria, ai suoi vicini, ai suoi amici poveri.... Egli deve andare in cerca di coloro che conosce in bisogno; soccorrerli, sorreggerli e farsi di loro come una seconda famiglia»[21].

La restaurazione della repubblica, l’aspra ed in gran parte vana fatica di Augusto e di Tiberio, pareva dunque finalmente compiuta, per merito di uno spagnolo. Roma aveva finalmente un [49] imperatore, che vigilava tutta la pubblica amministrazione, come Cicerone aveva voluto, rispettando i diritti del senato e dei magistrati; un senato che, senza gelosie e senza invidie, riconosceva per necessario questo unico magistrato supremo, lo secondava e lo obbediva lealmente. Senonchè, se Traiano poteva considerarsi sotto ogni aspetto come un restauratore dell’antica Roma, in una cosa invece si staccava dal passato come innovatore con i tempi nuovi: nella finanza. Gli storici antichi lo lodano di aver provveduto alle spese pubbliche senza aggravare le imposte, avendone, anzi, alleviato alcune. Ma se questo è vero, è anche vero che egli non amministrò le finanze all’antica e al modo di Augusto e di Tiberio, con parsimonia avversa alle nuove spese; ma al modo di Vespasiano, reclamato dai nuovi tempi, largo cioè nello spendere. Il governo di Traiano spese senza contare per la guerra, per le opere e per l’assistenza pubblica, per la colonizzazione e la cultura intellettuale. Che egli abbia potuto spendere così largamente, senza accrescere i balzelli, si può spiegare ammettendo che il bottino delle guerre, le terre e le miniere della Dacia, e l’incremento spontaneo dei redditi, frutto della popolazione e della ricchezza accresciute, gli abbiano fornito tutti i mezzi di cui aveva bisogno. Se questa supposizione è vera, il nuovo sistema fiscale di Vespasiano avrebbe dato il suo maggior rendimento, grazie al favore dei tempi, sotto Traiano. Sembra poi che per la parte a cui i redditi accresciuti dell’impero non bastavano, Traiano abbia provvisto con l’espediente pericoloso [50] di coniar monete d’argento d’egual peso di quelle di Nerone, ma con lega peggiore. In altre parole Traiano, invece di misurare le spese alla ricchezza vera, fece godere i contemporanei di una prosperità fittizia, consumando non solo la ricchezza presente, ma impegnando l’avvenire e dilapidando in parte le sue riserve. Senonchè queste spese, se prepararono dal suo principio la rovina che dovremo narrare, procurarono a Traiano e al suo governo la immensa ammirazione di cui godè. Spendendo largamente senza scarnificare con le imposte l’impero, Traiano potè apparire come la provvidenza universale, essere chiamato, come una iscrizione ci dice, locupletator civium[22]. L’impero da un pezzo chiedeva un governo che desse molto pigliando poco. Non aveva ammirato la moderazione di Augusto e di Tiberio nell’esigere le imposte, per il rancore della loro avarizia nello spendere; non aveva ammirato neppure la generosità di Nerone e di Domiziano, per le violenze ed estorsioni con cui costoro avevano dovuto alla fine procurarsi il prodigato denaro. Traiano potè, per la felicità e prosperità dei tempi, spendere come Nerone e Domiziano, risparmiando i sudditi come Augusto e Tiberio: onde parve a tutti far dello Stato la fontana della prosperità universale; e di questa spensierata finanza ebbe la gloria, mentre ad altri toccherà più tardi di pagarne il fio. Ingiustizia frequente nella storia!


21. Traiano e il Cristianesimo. — Traiano fu il primo imperatore che, a quanto sappiamo, ebbe [51] ad occuparsi ufficialmente del Cristianesimo. Il fatto è di troppa importanza, perchè non si debba almeno accennarlo.

Il Cristianesimo s’era molto diffuso, massime in Oriente e nelle moltitudini: onde un perturbamento profondo. Il Cristianesimo non veniva per imbrancarsi con le altre numerose religioni già venerate in Oriente; ma per soppiantarle tutte. Plinio il giovane, governatore della Bitinia, scrive in questo tempo a Traiano, che, propagandosi il Cristianesimo, i templi incominciavano a diventar deserti[23]. Immaginarsi la collera di questi culti rivali, dei fedeli che ad essi credevano, dei sacerdoti, dei mercanti, degli artigiani che ne vivevano! Là dove i cristiani incominciavano a diventare numerosi, i governatori erano di continuo sollecitati ad infierire contro di loro da denunziatori che li accusavano di ogni sorta di delitti immaginarî. Plinio sapeva che queste accuse erano fantastiche; e che, se i Cristiani professavano quella che a lui pareva una superstitio prava et immodica, non facevan nulla di male nelle loro adunanze. Ma c’era un punto sul quale i Cristiani erano alla mercè dei loro nemici. Il culto dell’imperatore si era ormai diffuso in tutte le province, sovrapponendosi alla molteplicità dei culti nazionali e locali come un vincolo politico e religioso di tutto l’impero. In ogni città c’era un’ara dell’imperatore, innanzi alla quale si facevano sacrifici nelle occasioni solenni. Quando qualcuno accusava i Cristiani di non sacrificare all’imperatore, il governatore doveva pure verificare l’accusa; e allora ai Cristiani era necessario scegliere [52] tra il sacrilegio e il crimenlese. Che pur rifiutando di adorarne le imagini i Cristiani fossero fedeli e obbedienti all’imperatore, era cosa che l’autorità romana non poteva nè capire nè ammettere, lo spirito greco-latino non riuscendo neppure a immaginare una religione esclusiva. Ma insomma il caso dei Cristiani era ancora molto confuso ed incerto, in politica ed in diritto: onde un bel giorno dal fondo della sua provincia, Plinio chiese istruzioni a Traiano. E Traiano rispose dando una regola, un po’ grossolana ma abbastanza mite per i tempi: i Cristiani non doversi ricercare, nè doversi ammettere a loro danno le denunzie anonime; ma se denunciati rifiutassero di venerare le imagini imperiali e con ciò si confessassero cristiani, doversi punire[24].

Tale fu la cosiddetta persecuzione di Traiano. In verità Traiano si restrinse a dare ai nemici dei cristiani, che reclamavano spietati rigori, una piccola soddisfazione, che era nel tempo stesso una persecuzione e una difesa dei cristiani, se si paragona quel che l’imperatore concede con quel che i nemici dei cristiani chiedevano. Processandoli e perseguitandoli blandamente, l’autorità imperiale salvava i cristiani dallo sterminio a cui i loro nemici li avrebbero condannati, se l’autorità imperiale non li avesse frenati.


22. Le guerre d’Oriente (114-116). — Sulla fine del 113 o sui primi del 114, il senato fregiava il principe del solenne titolo, con cui il paganesimo onorava Giove: il titolo di Optimus[25]. Senonchè quei nove anni di pace non erano stati fine [53] a se stessi, ma preparazione ad una grande impresa di guerra in Oriente, simile alla conquista della Dacia in Occidente. Traiano voleva ripigliare e ingrandire ancora il disegno di Cesare e di Antonio; muovere, come Alessandro Magno, alla conquista di tutto l’Oriente, dall’Eufrate alle sponde del Golfo Persico. Le cose di Oriente, sempre in bilico, sollecitavano di nuovo, intorno al 114, un intervento romano, perchè il re dei Parti, Cosroe, aveva insediato in Armenia un suo nipote, Partomasiri. In quel momento però la Parzia era lacerata da una grossa guerra civile; Cosroe era uno dei tre re che si contendevano il trono; era dunque facile, in quelle circostanze, combattere i Parti coi Parti stessi, adoperando le arti politiche di un Augusto e di un Tiberio. Ma Traiano era un soldato, un grande soldato e voleva anche, come la nuova aristocrazia che ammirava in lui il suo eroe, far rilucere di nuovo prestigio le armi romane a tutte le frontiere dell’impero. Egli pensò quindi essere giunto il tempo di tagliar con la spada il nodo della questione orientale, invece che ingarbugliarlo ancora più con nuove trattative e combinazioni. Il disordine in cui giaceva l’impero partico parve offrire un’occasione propizia. Perciò nella primavera del 114, Traiano mosse da Antiochia alla testa di grandi forze alla conquista dell’Armenia. Invano Partomasiri si presentò inerme al campo romano, chiedendo l’investitura del regno. L’Armenia fu dichiarata provincia romana (114); la Mesopotamia invasa l’anno seguente e, nella sua porzione superiore, dichiarata provincia romana (115). Ma [54] il vero assalto all’impero Partico fu cominciato solo nella primavera del 116. In questo anno, valicato il Tigri, Traiano occupava l’Adiabene e l’Assiria, che riduceva anch’esse a province: indi, ripassato il fiume, si impadroniva di Babilonia; poi marciando di nuovo sul Tigri, entrava in Ctesifonte; donde proseguiva la sua marcia trionfale sino alle sponde del Golfo Persico (116). Così almeno sembra risultare dai confusi racconti degli antichi scrittori.

Traiano era veramente giunto al sommo della gloria. Par proprio che a questo punto egli si sia illuso di esser riuscito nell’impresa fallita a Cesare e ad Antonio, e di aver fatto di Roma un immenso impero, mezzo asiatico e mezzo europeo. A credere, anzi, agli storici antichi egli già sognava una spedizione in India e una gloria maggiore di quella di Alessandro. Ma se l’ebbe, l’illusione fu di corta durata. Alle sue spalle, mentre egli avanzava nell’Asia, il fanatismo nazionale dei paesi da lui conquistati di sorpresa si risvegliava. Nel 117 la Mesopotamia e l’Assiria insorgevano; e la repressione fu così difficile e sanguinosa, che Traiano dovè risolversi a dare, in Ctesifonte, la corona partica a uno dei pretendenti in conflitto, un Partamaspate, sperando così di impedire che i Parti si unissero alla rivolta. Ma la rivolta dilagò invece al di qua dell’Eufrate. Implacabili nel loro odio, i Giudei coglievano l’occasione ed insorgevano in Palestina, a Cipro, in Egitto, in Cirenaica. Intanto i Mauri ripigliavano le loro scorrerie contro la provincia di Africa; i Bretoni si agitavano; i Sarmati minacciavano [55] di rompere di nuovo la linea del Danubio. L’impero aveva bisogno di tutta l’intelligenza di Traiano. Quando, ad un tratto, ammalatosi, Traiano spirava a Selinunte, lasciando, tragica fine di un impero luminoso, mezzo l’impero in fiamme (agosto 117).

Note al Capitolo Terzo.

18.  Cfr. Tac. Ann. 3, 55: Questo capitolo dà in iscorscio una storia del lusso in Roma, ed è un documento di importanza capitale. Che la aristocrazia introdotta da Vespasiano in senato portasse dei costumi più semplici, è detto con grande precisione: novi homines e municipiis et coloniis, atque etiam provinciis, in senatum crebro adsumpti, domesticam parcimoniam intulerunt: et quamquam fortuna, vel industria, plerique pecuniosam ad senectam pervenirent, mansit tamen prior animus. Sed praecipuus adstricti moris auctor Vespasianus fuit, antiquo ipse cultu victuque.

19.  Plin. Paneg. 69.

20.  Plin. Paneg. 27-28. Cfr. C. I. L. IX, 1455; XI, 1127.

21.  Plin. Epist. IX, 30. Il miglior commento a queste parole di Plinio è dato dalle numerose fondazioni alimentari di origine privata, che si spargono su tutto l’impero. Cfr. C. I. L. II, 174; V, 5262; VIII, 1641; X, 6328; XI, 1602; XIV, 350.

22.  C. I. L. VI, 958.

23.  Plin. Epist. X, 96 [97], 10. La autenticità di questa lettera è stata lungamente e oziosamente discussa, perchè non c’è alcuna seria ragione di metterla in dubbio. Cfr. G. Boissier, La lettre de Pline au sujet des premiers Chrétiens, in Revue d’archeologie, 1876; Ramsay, The Church in the Roman Empire before a. 170, London, 1893, p. 196 sgg.; V. Allard, Histoire des persecutions pendant les deux premiers siècles, p. 145 sgg.; A. Manaresi, L’impero romano e il Cristianesimo. Torino, 1914, p. 105 sgg.

[56]

24.  Plin. Epist. X, 97 [98].

25.  C. I. L. III, 7086, l. 33 e annotazioni relative.

[57]

CAPITOLO QUARTO ADRIANO E GLI ULTIMI SPLENDORI DELL’ELLENISMO

(117-138)

23. L’adozione di Adriano: ragioni e significato. — Sotto Traiano — e dopo la prova fatta con lui — la nobiltà senatoria — o almeno la sua parte più savia — aveva riconosciuto come principio legittimo di successione nel potere imperiale l’adozione, quale Nerva l’aveva praticata: l’adozione, fatta dall’imperatore, con il consenso del senato e al di fuori di ogni considerazione di parentela, di un collega che sembrasse degno e che diventerebbe poi il successore. Plinio il giovane ce lo dice in un passo importantissimo del suo Panegirico[26]. Questo procedimento, pur escludendo l’aborrito principio dell’eredità, sembrava salvare la elezione dell’imperatore dai due pericoli che tante elezioni avevano viziato: la violenza dei soldati, le incertezze e le discordie del senato. Senonchè Traiano, attivo, intelligente com’era, non aveva mai sentito il bisogno di scegliersi un collega. Solo quando all’improvviso capì che la morte era vicina, si ricordò che egli aveva ancora questo dovere da compiere verso il senato e l’impero. [58] Ma il tempo e il modo di mettersi d’accordo con il senato, non c’erano. Egli perciò diede senz’altro esecuzione ad un suo antico disegno, e sul letto di morte adottò un suo ufficiale: un suo cugino e nipote per matrimonio, P. Elio Adriano.


24. La rinuncia alle conquiste orientali di Traiano. — P. Elio Adriano era, come Traiano, di origine spagnola; apparteneva dunque alla nobiltà provinciale; e non era meno di Traiano imbevuto di romanesimo. Generale valente, il suo merito era stato riconosciuto da Traiano, che gli aveva affidato incarichi importanti in tutte le guerre, e poco prima di morire, al momento di tornare in Italia, il comando di tutto l’esercito d’Oriente. Ed era, come Traiano, un seguace zelante della grande tradizione aristocratica e repubblicana. Il suo primo pensiero, appena ricevuta, a distanza di pochi giorni, in Antiochia, la notizia dell’adozione e della morte di Traiano, fu di riconoscere senza riserve i diritti del senato. Ai soldati che subito l’acclamarono, ricordò che solo al senato spettava di eleggere gli imperatori; indi si affrettò a scrivere all’assemblea chiedendo la conferma dell’autorità imperiale, e scusandosi di aver frattanto esercitato il potere, per la necessità di non lasciare in quei gravi frangenti l’impero senza capo. E di lì a poco egli ripeteva la promessa già fatta da Traiano, di non condannare nessun senatore, nè mai tralasciò occasione di affermare che lo Stato non era cosa sua, ma del popolo[27]. Ciò non ostante egli iniziò il suo governo, abbandonando tutte le conquiste orientali [59] fatte da Traiano, fuori che l’Arabia Petrea, e riconducendo il confine dell’impero all’Eufrate. Restituì l’Assiria e la Mesopotamia ai Parti; riconobbe Cosroe; ridonò all’Armenia l’antica indipendenza.

Adriano giustificò questo ripiegamento con le tradizioni della politica repubblicana, citando Catone e gli altri grandi politici della vecchia Roma, che non avevano mai voluto allargare troppo l’impero[28]. Nè si potrebbe oggi contestare che la deliberazione fosse savia. Ma non è dubbio che essa spiacque molto alle classi alte di Roma, inebriate dalle imprese di Traiano. Ciò è così vero che, approfittando del malcontento pubblico, alcuni vecchi generali di Traiano, tra i quali Cornelio Palma, il conquistatore dell’Arabia, tentarono una congiura per rovesciare il nuovo imperatore; congiura che, scoperta e punita dal senato durante l’assenza di Adriano, macchiò di sangue il principio del suo governo. Ma i malcontenti avevano in una certa misura ragione di considerare questo atto del nuovo imperatore come il segno di un indirizzo nuovo, diverso e in parte anche opposto a quello di Traiano. Adriano non era solo un generale valente e un senatore romano, imbevuto dall’antico spirito aristocratico: era anche un appassionato cultore della letteratura, della filosofia, delle arti belle, di tutte le scienze allora conosciute; e un ellenista così ardente, da parlare il greco meglio del latino. Perciò molti nemici gli avevano appiccicato il nomignolo di «greculo», prima che diventasse imperatore. Egli voleva imitare Augusto e Tiberio e mettersi sulla [60] difesa, non solo perchè l’impero vivesse più sicuro entro confini più ristretti, ma perchè potesse spendere una parte del denaro, prodigato da Traiano in guerre e conquiste, ad abbellire le città, ad accrescere la istruzione, a far più efficace, più regolare e più giusta l’amministrazione, più dolci ed umane le leggi, più razionale ed agile il diritto; in una parola a conciliare l’ellenismo, maestro di ogni arte e scienza, e il romanesimo, maestro della guerra e del governo, in un impero mezzo orientale e mezzo occidentale, forte per armi, savio nelle leggi, splendido nelle arti della pace. Questa conciliazione è lo scopo a cui mira questo spagnuolo romanizzato nel suo lungo governo, di cui siamo costretti a riassumere i principali atti per gruppi, la loro successione cronologica essendo incertissima.


25. Le riforme amministrative di Adriano. — Adriano fu detto il fondatore della monarchia assoluta. Più esatto sarebbe dire che fu il creatore della burocrazia civile, la quale doveva poi diventare uno strumento della monarchia assoluta. Un uomo di guerra, come Traiano, non aveva ragione di mutare nelle sue linee essenziali l’amministrazione, perchè nelle cose militari Roma era maestra. Non così un imperatore che voleva sviluppare quelli che oggi si chiamano i servizi civili, rudimentali nella costituzione repubblicana, che aveva in vista la guerra. Difatti fino ad allora gli imperatori, per supplire alla meglio alle manchevolezze di molti tra questi servizi, si erano serviti spesso, da Claudio in poi, di liberti, i [61] quali non avevano veste di funzionari pubblici, dipendevano dal padrone e quindi rispondevano dei loro atti a lui solo: il che troppo spesso li faceva irresponsabili. Adriano fece di tutti questi collaboratori dell’imperatore altrettanti pubblici funzionari, scegliendoli soltanto tra i membri dell’ordine equestre, assegnando loro uno stipendio ed un curricolo. Cavalieri furono dunque gli impiegati più importanti; quelli a libellis, che si potrebbero definire il segretariato generale dell’imperatore; quelli ab epistulis[29], ossia l’ufficio della corrispondenza imperiale; quelli a rationibus, i più importanti di tutti, la amministrazione delle finanze[30]. Nè si limitò a rinforzare in questo modo l’azione degli agenti che dipendevano dall’imperatore: per supplire alle deficienze dell’amministrazione repubblicana, creò nuove cariche, non più elettive e gratuite, ma di nomina imperiale e remunerate. Ad Adriano pare sia da attribuire anche la nomina dei curatores rerum publicarum, incaricati di assestare l’amministrazione delle città dell’Italia, che le autorità locali avessero mal governate. E certamente Adriano, perchè la giustizia fosse amministrata meglio in Italia, sovrappose ai molti tribunali locali quattro juridici o giudici supremi, ciascuno per una parte distinta del territorio: e tutti scelti tra i consolari[31]. Già i suoi predecessori erano stati assistiti da un consilium composto di amici, consultato quando l’imperatore lo credeva opportuno, e senza autorità o competenza ufficiale. Sotto Adriano il consilium si muta in un corpo pubblico, con funzioni ufficiali. I suoi componenti [62] sono scelti dall’imperatore, ma con il consenso del senato; ricevono uno stipendio e sono tenuti a possedere certi requisiti: la scienza giuridica, tra gli altri[32]. Infine pare che sotto Adriano i prefetti del pretorio incominciassero ad assumere uffici giudiziari, giudicando i processi civili in appello dalle sentenze dei proconsoli delle province.


26. Le riforme giuridiche. — Adriano cerca dunque di innestare uffici retribuiti, permanenti e dipendenti dall’imperatore sul principio aristocratico della repubblica, che solo i senatori e i cavalieri avevano diritto di partecipare al governo dell’impero: crea una burocrazia che dipende da lui e da lui è pagata, ma riserbandone i posti ai due ordini privilegiati dello Stato. La riforma, in sostanza, limitava più che non allargasse i poteri dell’imperatore. Difatti tutti gli storici ammettono che, regnando Adriano, la potenza occulta dei favoriti, dei liberti, delle donne fu cosa ignota. Nè questo è tutto: massime nel nuovo consilium principis si vede far capolino il principio della capacità, sotto forma di scienza giuridica. Adriano è un imperatore giurista: con lui incomincia nell’impero l’êra dei giuristi, e il grande sforzo per sostituire al diritto casualistico e tradizionale, il diritto razionale e sistematico. Molte sono le novità che Adriano introdusse nel duro diritto vigente[33]. Ma l’opera di maggiore importanza da lui compiuta in questo campo è l’edictum perpetuum. Adriano fu il primo imperatore che tentò di codificare il diritto romano [63] con l’Edictum perpetuum. Sino ad allora le fonti di quello che noi chiamiamo il diritto civile erano a Roma diverse: le leggi del popolo, i senatus-consulta, gli editti dei magistrati, che potevano supplire alle deficienze della legge valendo come legge per tutto il tempo in cui il magistrato restava in carica. Tra questi, gli editti dei pretori avevano integrato le leggi e i senatus-consulta massime nel diritto civile. Molti dei principî e delle regole enunciate dai singoli pretori perchè valessero durante l’anno della loro magistratura, erano state accettate anche dai pretori successivi e avevano acquistato forza di leggi: ma crescendone con i secoli il numero, spesso era difficile ritrovare e applicare questi editti. Adriano incaricò uno dei migliori giuristi del tempo, un africano, Salvio Giuliano, di raccogliere e di ordinare tutti gli editti che potessero ancora servire come regola di legge, nell’Edictum perpetuum; e nel 131 il senato fu invitato a dare a questa raccolta sanzione e valore di legge.


27. I viaggi di Adriano; la prima serie: le province d’Occidente e l’Africa (119-122). — Noi possiamo ora spiegare per quale ragione Adriano sia stato il primo imperatore che abbia passato la maggior parte del suo tempo nelle province. Una curiosità insaziabile e una certa irrequietezza possono averlo spinto alla incessante peregrinazione, ma insieme con un’alta ragione di Stato: la sollecitudine dalle province, che non erano più, come nel primo secolo, l’appendice dell’Italia, ma il corpo stesso dell’impero, poichè somministravano [64] la maggior parte dei denari, dei soldati e delle nuove famiglie dell’aristocrazia senatoria e dell’ordine equestre. I viaggi continui di Adriano provano che le province pesavano ormai quanto e più che l’Italia nella sollecitudine del governo imperiale. I suoi viaggi furono, per dir così, viaggi di ispezione, fatti per sorvegliare in ogni parte dell’impero l’amministrazione civile e militare, e per promuovere dappertutto l’ampliamento e l’abbellimento delle città; Adriano non è solo il creatore della burocrazia civile, l’imperatore giurista, il protettore delle province: è anche il più grande costruttore, ampliatore, abbellitore di città tra quanti hanno governato l’impero, perchè solo nella città si poteva attuare quella conciliazione del romanesimo e dell’ellenismo che era il suo sogno. Egli viaggiava infatti sempre accompagnato da una schiera di operai, di ingegneri, di architetti. E poichè i tempi di questi viaggi si possono almeno congetturare con una certa verosimiglianza, noi li racconteremo succintamente uno dopo l’altro, nell’ordine che ci sembra più probabile, prendendo l’occasione per dipingere un quadro sommario delle province, in questo che fu il momento più prospero dell’impero[34].

Adriano si mosse ai suoi viaggi nel 119, incominciando, prima tappa, dalla Gallia. La Gallia si era ormai tutta e profondamente romanizzata. Essa forniva all’Italia non solo minerali, derrate e materie gregge — legno, pelli, bestiame, cacio, prosciutto, pesce salato, ferro, rame, piombo —; non solo forniva all’Italia ed ai Germani manufatti, i più imitazione un po’ rozza di oggetti [65] orientali — vetrerie, ceramiche, stoffe di lino e di lana, vestiti per le classi popolari: essa forniva anche legioni fedeli, generali e uomini di Stato. La terra, che Cesare aveva conquistata, vanta ora numerose e prosperose città — Lione, Vienna, Marsiglia, Narbona, Tolosa, Burdigala (Bordeaux) — ricche di palazzi, di monumenti, di teatri, di bagni, di ville, di biblioteche, di fiorenti scuole pubbliche. In queste città fervono attivi i commerci e le industrie; e tra le industrie, massime il vetro, la ceramica, la tessitura, le costruzioni navali, la fabbrica delle armi, la porpora, la metallurgia. In queste città, come in Italia, irrompono le più diverse influenze greche e orientali. A Lione incominciava a prender piede il cristianesimo. Quel che Adriano facesse per la Gallia durante quel suo primo viaggio, non sappiamo e a mala pena riusciamo a distinguere i suoi primi atti da quelli, che sono da riferire ad età posteriore. Comunque, un suo biografo ci attesta che in questo viaggio «egli soccorse tutti con la sua liberalità»; e talune monete appositamente coniate confermano il biografo, celebrando Adriano come il Restauratore della Gallia[35].

Dalla Gallia Adriano passò in Germania. Anche nelle due province della Germania superiore e inferiore il romanesimo progrediva. Le fortezze, erette per la difesa dei confini, si ingrandivano a piccole città, mediatrici di un alacre commercio fra la Germania e l’impero. È fuori di dubbio che in questa provincia il principe badò soprattutto a rafforzare la difesa: ristabilì la disciplina negli [66] eserciti; migliorò l’istruzione militare e i servizi; forse anche diede nuovo impulso alla costruzione del limes.

Dalla Germania Adriano passò in Britannia. Anche questa recente conquista si romanizzava a poco a poco. In Britannia si cominciava a parlare latino, a chiamare maestri di retorica, perfino a studiare il greco. Notevole l’incremento del commercio: la Britannia esportava frumento, bestiame, pelli, cuoi, schiavi, pesce; incominciava a sfruttare le miniere di stagno, di rame e di argento, già conosciute dai Fenici. Tuttavia la conquista era ancora troppo recente, e la Britannia considerata a Roma come una provincia passiva[36]. Perciò dopo aver fatto un po’ di paura, con qualche combattimento, ai montanari del nord, Adriano deliberò di arretrare anche qui, come in Oriente, il confine a una linea che dallo stretto di Solway andava alla foce dei Tyne; e su questa linea costruì il famoso vallum Hadriani, di cui ancor oggi rimangono superbi avanzi.

Nell’inverno del 121-122, l’imperatore è in Spagna. La Spagna non era più la provincia barbara e indomabile che aveva resistito per tanti secoli alle armi romane. Gli antichi dialetti e costumi celtici ed iberici quasi scomparsi; il latino universalmente parlato; il culto imperiale fiorente; la vita municipale fervida; floride le città: Tarragona, Cordova, Cartagena, Italica (vecchia Siviglia), Salmantica (Salamanca), Cesaraugusta (Saragozza), Augusta Emerida (Merida), tutte ricche di templi, di anfiteatri, di belle strade, [67] tutte simili alle città d’Italia; fiorentissima la agricoltura e celebrati tra i suoi prodotti i cereali, l’olio, il vino, che si vendeva fino nei paesi del Reno; fiorentissimo il commercio; fiorentissima l’industria mineraria — argento, oro, rame: tale si offriva la Spagna all’occhio soddisfatto del capo dell’impero.

Poco sappiamo di quel che Adriano fece in Spagna. Anche qui ebbe il titolo di Restauratore delle Spagne[37]; e pare che non si fermasse a lungo, perchè un’insurrezione dei Mauri lo costrinse a recarsi, nella primavera del 122, in Africa.

L’Africa era in pieno fiore. Fuorchè la Mauritania, l’antico regno di Bocco, rimasta barbara e ribelle, il rimanente arricchiva, con l’agricoltura, le miniere e le industrie. Forniva a Roma, all’Italia e all’impero bestie feroci per le arene, avorio, marmi preziosi, grano, olio, profumi, tessuti artistici. Cartagine era di nuovo grande e fiorente. Molte città minori ricordavano al visitatore, per l’architettura e per i Costumi, le città dell’Italia. Ma i Numidi, i Libî, i Libo-Fenici, il popolo minuto delle città, i ceti rustici della campagna avevano continuato a parlare i dialetti locali e conservato i confusi e crudeli culti indigeni. I grandi invece parlavano, scrivevano e studiavano il latino, come in Gallia e in Spagna, e già contavano qualche famiglia nell’aristocrazia senatoria. Ma l’Africa era meno puramente o pienamente romanizzata che la Gallia e la Spagna; chè certi elementi locali troppo forti resistevano tenaci.

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Anche in Africa Adriano dovette ricordarsi che era il capo dell’esercito. Sembra che, oltre a fare una vigorosa offensiva nell’Atlante, egli abbia dato mano ad un vallum, che ricordava il britannico, ma questa volta incastrando la muraglia nella montagna ed appoggiandovela. Anche qui egli colmò di beneficî le città delle varie province, e per questo si ebbe di nuovo il titolo di Restauratore dell’Africa.


28. Il primo viaggio nelle province orientali. — Dall’Africa, attraverso l’Egitto, Adriano passò in Oriente, dove pare lo chiamasse la minaccia di una nuova guerra col re dei Parti. Un abboccamento con Cosroe valse ad allontanare il nuovo pericolo. La pace coi Parti fu ristabilita.

Adriano potè allora visitare tranquillamente l’Asia e la Grecia. Egli conosceva l’Oriente, dove aveva combattuto sotto gli ordini di Traiano. Ci ritornava ora in tempi più tranquilli; e non solo, come in Occidente, per provvedere alle necessità pubbliche, ma per soddisfare la sua insaziabile curiosità. L’Asia minore era forse nel suo insieme la parte dell’impero più ricca, più industriosa, più colta e più popolata. Certamente il romanesimo non aveva fatto in quella grandi passi; la lingua greca imperava dovunque, salvo forse nei paesi dell’interno e in alcune città colonizzate da Occidentali; gli editti imperiali erano pubblicati in greco; greca era la lingua dei tribunali. Tuttavia anche in queste province i mercanti italici erano numerosi[38]; il diritto romano si faceva strada in mezzo alla varietà dei diritti [69] locali; numerosi asiatici acquistavano la cittadinanza romana; e l’architettura si romanizzava parzialmente, costruendo bagni, acquedotti, ponti, anfiteatri sul modello romano.

Pochi paesi potevano competere con l’Asia Minore per ricchezza. Nell’interno splendide foreste, feraci campi di biade, immensi armenti: il legname e le lane, frigie e galate, erano oggetto di un largo commercio di esportazione. Sulla costa meridionale e occidentale, dalla Cilicia all’Ellesponto, numerose e prosperose le città e le industrie, massime le tessiture: chè nel vasto impero ormai tutto aperto al commercio queste industrie avevano trovato nuovi e ricchi clienti, cosicchè si erano sviluppate anche in alcuni paesi dell’interno, ad esempio nella Cappadocia, precipuamente per opera dell’elemento semitico. Strano paese insomma, in cui l’ellenismo si era incrostato sulla varietà delle tradizioni e dei costumi nazionali, e ove il romanesimo veniva ad aggiungersi all’ellenismo. Nell’insieme però l’Asia Minore, sotto la vernice della grecità, era rimasta orientale. La sua letteratura era improntata alla fantasiosità, alla mollezza, alla verbosità, alla leggerezza asiatica; la religione era una caotica mescolanza di mitologia ellenica, di culti egizio-fenici, giudaici, cristiani, nonchè di culti prettamente asiatici, come quello di Mitra, di Cibele, di Attis.

In queste province Adriano soggiornò parecchi mesi, ma vi sarebbe tornato altre volte per un più lungo soggiorno; ed ogni luogo avrebbe serbato la traccia del suo passaggio: città demolite [70] dai terremoti, resuscitate dalle ruine; città bisognose o modeste, soccorse o abbellite; grandi porti, strade, monumenti di pubblica utilità costruiti con il suo aiuto o per suo consiglio e incitamento.

Dall’Asia Minore, nella primavera del 123, attraverso l’Egeo, costellato dalle Cicladi, ormai per la massima parte desolate e abbandonate, Adriano toccò la Grecia, ove egli pensava trattenersi a lungo.

La Grecia, ahimè!, non era più quella di Pericle o di Demostene. Anche la pace dell’impero le aveva giovato meno che ad altre province più fortunate. La popolazione era scarsa; molte campagne erano o abbandonate o infestate dal brigantaggio; soltanto le città marittime e alcune città interne, poste su vie commerciali molto frequentate, avevano rifiorito e fiorito: Tessalonica, Filippi, Nicopoli, Mantinea, e massime la nuova Corinto, la capitale della Grecia romana. Quanto ad Atene, era adesso una fiorente sede di studi a cui da tutte le parti dell’impero venivano i giovani ricchi. Ma era pur sempre una gran decadenza essersi ridotta a città di professori, per la città che aveva visto tra le sue mura, Eschilo, Sofocle, Pericle, Socrate, Fidia, Platone e Demostene!

Adriano rimase a lungo in Grecia (123-126), non risparmiò spese e fatiche per beneficare il paese. A Corinto costrusse dei bagni in più quartieri della città, e un acquedotto che vi trasportò l’acqua del lago Stymphalos, nascente alla radice del monte Cyllene; a Nemea, un ippodromo; [71] a Mantinea, un tempio a Nettuno. Ad Argo offerse al tempio di Giunone l’uccello favorito della Dea, un pavone d’oro, dalla coda splendente di pietre preziose, e incoraggiò la restaurazione delle corse equestri ai giochi Nemei; tra Corinto e Megara sull’Istmo rese carreggiabile l’angusta e pericolosa Via Scironia. Ma le sue cure maggiori furono per Atene, ove egli parve voler rivivere l’antica età di Milziade e di Isocrate. Vi soggiornò in abito greco; assunse la cittadinanza e rivestì la carica di arconte e di agonoteta; discusse con architetti e con scultori circa gli edifizi, di cui avrebbe ornato la città; coi filosofi, le cui scuole aveva qualche anno prima liberate dalle pastoie di Vespasiano[39], intorno alle loro dottrine; con gli eruditi, dei ricordi del passato. A poco a poco gli Ateniesi del secondo secolo videro, nella pianura dell’Ilisso, sorgere, per volontà di Adriano, le prime fondamenta di una «nuova città» accanto a quella antica di Teseo: una Adrianopoli, decorata di monumenti numerosi, in cui si accoglievano tutte le bellezze di un’arte meno severa, ma più grandiosa. Qui i Greci avrebbero eretto un tempio a Giove e ad Adriano — il Panhellenion — presso cui, già dal 129, si sarebbero celebrati giochi periodici al cospetto dei convenuti di tutta la Grecia.


29. Adriano e il Cristianesimo. — In Atene pare fosse scritta da Adriano la famosa lettera a Minucio Fundanio, che riguarda i Cristiani. Più generica che la lettera di Traiano a Plinio, essa non precisa che i cristiani siano condannati se [72] rifiutano il culto alle immagini dell’imperatore, ma solo se sono convinti di aver fatto cosa contraria alle leggi; e raccomanda calorosamente di non credere alle accuse infondate e alle calunnie appassionate. Più mite che la lettera di Traiano, quella di Adriano è anche più risoluta nel riconoscere ai cristiani il diritto di essere protetti dall’autorità imperiale contro il fanatismo dei loro nemici[40].


30. Il ritorno a Roma (126-128) e le grandi costruzioni di Adriano. — Sulla fine del 126 Adriano tornava a Roma, ove si soffermò per qualche anno; e pur curando con la consueta sollecitudine ogni parte dell’amministrazione, attese a ornare la capitale di monumenti e di istituzioni nuove. Attese a costruire il grandioso «Tempio di Venere e di Roma» presso il Grande Anfiteatro Flavio. Die’ mano al gigantesco mausoleo per sè e per i suoi successori, i cui avanzi si chiamano oggi il Castel S. Angelo. A Tivoli volle edificare una villa grandiosa, in cui ricostruire i monumenti più belli dell’impero, ammirati nei suoi viaggi. Non è inverosimile che sin da questi anni egli fondasse in Roma, sul Campidoglio, l’Ateneo: edificio ed istituto per l’insegnamento pubblico della filosofia, della retorica, della giurisprudenza. Sotto la sua influenza i collegi giovanili ritornano ad ellenizzare, come al tempo di Nerone e di Domiziano; le compagnie liriche e drammatiche (i così detti sinodi dionisiaci) i concorsi pitici e olimpici, protetti dall’imperatore, ottengono il favore universale; sono istituite apposite [73] scuole di musica; e i musici e gli artisti ottengono ricompense e incoraggiamenti sino ad allora inusitati[41].


31. Il secondo viaggio (128-131). — Ma anche questo soggiorno fu breve; durò due anni. Al primo luglio del 128, Adriano era di nuovo in Africa, nell’accampamento di Lambaesis; ove pronunziava un’arringa ai soldati di cui noi possediamo lunghi frammenti[42]; indi tornava nella sua Grecia, e di là ripigliava la via dell’Asia per recarsi in Siria e in Egitto.

Se nella Siria occidentale l’ellenismo era entrato da gran tempo, il popolo era rimasto siriaco e parlava i dialetti locali; le industrie per cui la Siria prosperava ed andava famosa erano ancora le antiche industrie fenicie: quella della lana, della seta, della porpora, del vetro. Mercanti abilissimi, i Sirii erano gli intermediari del commercio tra la Cina, l’India e le province dell’impero. In Siria la vita era facile, opulenta, attiva, sensuale, raffinata, ricca di piaceri. Par che Antiochia fosse la città antica che prima provvedesse a illuminare le strade di notte; tutte le città siriache del resto erano famose per i comodi e i piaceri della esistenza. Il paese era pieno di Ebrei, emigrati dopo la caduta di Gerusalemme e che vivevano a parte, come accampati in terra nemica.

Dalla Siria occidentale Adriano passò nella parte orientale. Qui non più città industriose o terre coltivate con arte, ma regioni aspre, quasi selvagge, ove il brigantaggio infieriva. Pure con [74] la conquista romana erano entrati nel paese molti semiti, che avevano incominciato a coltivare il suolo e portato i primi elementi di una civiltà urbana. Già il deserto incominciava a esser solcato da vie maestre, da acquedotti e da città sorte come per incanto dal nulla. L’estrema città che Adriano ebbe a visitare, fu Palmira. Anche Palmira ricevette il dono di magnifiche costruzioni e fu elevata al grado di colonia.

Indi l’imperatore passò nella nuova provincia dell’Arabia. Anche qui le classi alte potevano dirsi grecizzate. Anche qui la immigrazione, l’agricoltura, il commercio dimostravano i beneficî dell’impero. Adriano dovette occuparsi specialmente delle strade. Ed anche qui il solerte imperatore ebbe la meritata ricompensa. La provincia coniò medaglie in onore del «Restauratore dell’Arabia»; e la capitale Petra assunse il suo nome[43].

Dall’Arabia Adriano passò in Egitto. La terra delle Piramidi e dei geroglifici da secoli non era più il paese dei templi solitari scavati nelle rupi, sorretti da pilastri colossali e adorni di volti mostruosi di bestie sacre. Dopochè Alessandro l’aveva conquistato, l’Egitto era diventato una cosmopoli operosa, ricca, sempre irrequieta, dove tutti gli elementi del mondo mediterraneo si incontravano. E tale era rimasto sotto l’impero. S’incontravano colà egiziani, greci, ebrei, asiatici d’ogni lingua e razza, romani. Irreconciliabili, la campagna ed i borghi restavano egiziani, le grandi città erano greche, le classi governanti greche con infiltrazioni romane; [75] onde mille discordie e lotte. La alacrità era grande, la popolazione densissima, la proprietà suddivisa, la burocrazia complicata, gli spiriti della popolazione inquieti, facili allo scherno, alla satira, alla sedizione, ingordi di guadagni.

Adriano, il sereno principe greco, non amò quella seconda Antiochia. Egli si occupò degli istituti locali d’istruzione, specie del Mouseion, discusse coi suoi dotti; ma qualche anno dopo scriveva ad un amico: «Io conosco bene l’Egitto, che tu mi lodi, questo popolo incostante e leggero, che s’agita al minimo rumore. È una razza sediziosissima, vanissima, insolente. La capitale è ricca, tutto vi abbonda e tutti essa alimenta. Nessuno vi rimane ozioso: gli uni lavorano il vetro, altri fabbricano la carta o tessono il lino; tutti hanno un mestiere; lavorano anche i gottosi, i ciechi, i podagrosi.... Ma il Dio di tutti, è il danaro.... Resta veramente a desiderare che questa grande città abbia costumi più consoni al suo nobile ufficio di capitale dell’Egitto»[44].


32. La nuova insurrezione giudaica (132-135). — Sulla fine del 131, Adriano era di nuovo in Roma, ove consacrava il Tempio di Venere e Roma. Nello stesso anno promulgava, dopo averlo fatto approvare dal senato, l’Edictum perpetuum. Ma l’anno seguente, il 132, fu turbato dagli avvenimenti d’Oriente. Durante l’ultimo viaggio Adriano aveva ordinato di ricostruire Gerusalemme, le cui rovine dovevano sembrare a lui, amico della pace e delle arti, come una mostruosa cicatrice [76] sul corpo dell’impero: ma sotto forma di una splendida città greco-romana, simboleggiante anche in Palestina la fusione del romanesimo e dell’ellenismo. Agli Ebrei invece questo dono dell’imperatore parve un’ingiuria suprema. La città santa del giudaismo sconciata a metropoli greco-romana, con edifizi grandiosi, santuari pagani, bagni, teatri, e ribattezzata con il sacrilego nome di Aelia Capitolina! Il fanatismo religioso divampò; i giudei insorsero sotto un capo, un Messia popolare, un Simone Barkokeba o Barcosiba (Figlio della Stella) (132).

Adriano non dette sulle prime grande peso a quel movimento. Ma mentre egli, nel 132, ricominciava dalla Grecia le peregrinazioni per le province orientali dell’Impero, Roma perdeva la provincia di Giudea. Gli eserciti romani, mandati a reprimere la rivolta, subivano, uno dopo l’altro, gravi e replicati rovesci. Occorse alla fine delegare a quell’impresa uno dei migliori generali, Sesto Giulio Severo, che condusse la guerra con severità implacabile. Si disse ch’egli avesse fatto perire fra i tormenti i capi della rivolta; che distruggesse cinquanta fortezze e circa mille villaggi e che perissero nella guerra non meno di 600.000 giudei combattenti! (134). Solo dopo questa carneficina, Adriano potè recarsi a Gerusalemme e riprendere i lavori della colonia.


33. Gli ultimi anni di Adriano (135-138). — Doveva essere quello l’ultimo viaggio del grande principe. Tornato in Roma egli divise le cure degli ultimi anni tra le arti e gli affari. Terminò la [77] Villa tiburtina: meravigliosa città improvvisata, che oltre ai giardini, alle fonti, ai boschetti ombrosi, ai portici, alle gallerie, alle rotonde, ai bagni, alle basiliche, alle biblioteche, ai teatri, ai circhi, ai templi splendenti di metalli e di marmi, doveva contenere un piccolo esemplare di tutte le cose più belle, che il principe aveva ammirate nell’impero; e che ogni tanto dovevano animarsi di cori, di gente, di luci, tal quale egli le aveva vedute nella realtà[45]. Ma quell’uomo che, come Ulisse, tanto aveva peregrinato, era ormai preso dal tedio della vita, che forse un male nascente aggravava. Sentendo venir meno le forze, come Nerva e come Traiano, dovè pensare al successore, e di nuovo applicare quel procedimento dell’adozione, con cui l’aristocrazia senatoria pensava di aver provveduto alla successione, combinando ingegnosamente il principio della scelta con quello della parentela. Scelse prima L. Ceionio Commodo Vero, per quali ragioni non sappiamo, il personaggio non essendoci noto per nessun rispetto. Ma Vero moriva il 1º gennaio 138: l’imperatore adottò allora T. Aurelio Fulvo Antonino, che assunse il nome di T. Elio Adriano Antonino, e lo fece suo collega nell’impero, facendogli dare la potestà tribunizia e l’impero proconsolare. Gli impose però di adottare L. Vero, il figlio cioè di colui sul quale per primo aveva posto gli occhi come successore; e M. Annio Vero, il futuro Marco Aurelio, che era nipote di Antonino, un giovinetto di 17 anni, molto caro ad Adriano. Per qual ragione egli obbligasse il suo successore a queste adozioni, che in un certo [78] modo indicavano anche il successore del successore, noi non sappiamo. Sei mesi dopo, il 10 luglio del 138, egli moriva a Baia.


34. Il governo di Adriano. — Noi sappiamo che, morto Adriano, il senato si mostrò per un momento avverso alla proposta, fatta dal suo successore, di onorare la memoria; che minacciò perfino di non ratificare i suoi atti, e che solo a fatica potè essere indotto a desistere dalla sua opposizione. Questo fatto, e la congiura che era stata tramata subito dopo la adozione di Vero, provano che c’era nella aristocrazia una forte corrente avversa alla persona e alla politica dell’imperatore, sebbene questa avversione non fosse così forte come quella di cui furono oggetto quasi tutti gli imperatori della casa Giulio-Claudia. Quale fu la ragione di questa opposizione? Forse il suo tentativo di conciliare l’ellenismo e il romanesimo. La antica Roma, orgogliosa della sua potenza, gelosa della sua supremazia, ritrovava nel rinnovato spirito tradizionalista della nuova nobiltà, un’ultima forza di resistenza contro questo imperatore ellenista, giurista, protettore delle province, dalle arti, dalle lettere, della filosofia. Le lunghe assenze da Roma, le riforme amministrative, la protezione accordata alle arti, alla lettere e alla filosofia, i lavori largamente prodigati alle città, le gigantesche costruzioni, la smania di abbellire l’impero di tutti gli splendori dell’ellenismo, la sua politica estera prudente e aliena dalle conquista, urtavano i pregiudizi superstiti del romanesimo. Si aggiunga che, per [79] avere il denaro necessario a tante spese, egli dovette inasprire i rigori del fisco; e che se aveva cominciato il suo governo condonando le imposte arretrate, creò poi l’advocatus fisci per difendere contro le arti dei privati i diritti del tesoro imperiale. Si aggiunga da ultimo che un’opera così vasta, e che tentava di conciliare elementi così contrastanti, non poteva svolgersi senza contradizioni, scosse, lacune, imperfezioni, di cui i contemporanei dovevano, come sempre, menar grande scalpore. Queste considerazioni possono aiutare a comprendere per qual ragione il governo di Adriano ebbe tanti nemici, non ostante — e forse in ragione — dei suoi meriti. Ma siccome la politica di Adriano era richiesta dai tempi, che ne avevano bisogno, e non giunse nè troppo presto nè troppo tardi, si spiega che questa opposizione sia stata impotente, e, se angustiò l’imperatore, non riuscì a guastarne l’opera.

Adriano condusse alla perfezione la politica di Vespasiano e di Traiano. Il romanesimo doveva essere il nesso politico e militare, l’ellenismo il nesso intellettuale e morale di tutte le genti soggette all’impero. Perciò egli cerca di rafforzare l’esercito con molte riforme, promuove l’incremento e l’abbellimento delle città. Le città, i piaceri e le magnificenze che esse offrivano, gli interessi che ad esse mettevano capo, le occasioni di fortuna che nascevano dal loro crescere, erano ormai il principale vincolo che legava le successive generazioni all’unità dell’impero. Una immensa popolazione che, al riparo di frontiere ben munite, voleva godere ed accrescere [80] gli agi e le bellezze di una fiorente civiltà urbana: tale era l’impero romano ai tempi di Adriano. Come sotto Traiano il romanesimo, sotto Adriano l’ellenismo gettò nel mondo antico gli ultimi suoi splendori. La prosperità dell’impero durerebbe sinchè durerebbe l’equilibrio tra i due elementi: il romanesimo, ossia la forza militare e politica; l’ellenismo, ossia il prosperare della vita cittadina.

Note al Capitolo Quarto.

26.  Cfr. Plin. Paneg. 7: «Nulla adoptati cum eo qui adoptabat cognatio....» ecc. — Si confronti Tac. Hist., I, 15-16, che intorno allo stesso tempo espone gli stessi concetti, ponendoli in bocca ad uno dei suoi personaggi.

27.  [Hist. Aug.], Hadr. 8, 3.

28.  [Hist. Aug.], Hadr. 5, 3.

29.  [Hist. Aug.], Hadr. 22, 8.

30.  Cfr. Hirschfeld, Untersuchungen auf dem Gebiete der römischen Verwaltung, Berlin, 1876, pag. 32; Friedländer, Darstellung aus der Sittengeschichte Roms, Leipzig, 1888, I, pag. 171 sg.

31.  [Hist. Aug.], Hadr. 22, 13. Se già si chiamassero, sotto Adriano, iuridici, o se questo nome prendessero quando M. Aurelio li ristabilì, non è chiaro.

32.  [Hist. Aug.], Hadr. 18, 1. Sul Consilium principis si può consultare E. Cuq, Mémoire sur le Consilium principis d’Auguste à Dioclétien, in Mémoires présentées par divers savants à l’Académie des inscriptions et belles lettres de l’Institut de France, Paris, 1884, vol. IX.

33.  Una enumerazione di queste riforme si trova in Duruy, Histoire des Romains, Paris, 1883, vol. V, pag. 113 sgg.

34.  La cronologia dei viaggi di Adriano è molto incerta. Sull’argomento, uno studio speciale, ma le cui conclusioni non sono sempre accettabili, è quello di Dürr, Die Reisen des Kaisers Hadrian, Wien, 1881. Cfr. anche Weber, Untersuchungen zur Geschichte d. Kaisers Hadrianus, Leipzig, 1907.

[81]

35.  Cohen, Monnaies, Hadrian, nn. 1247-1257.

36.  App. Proem. 5.

37.  [Hist. Aug.], Hadr. 12, 3-4; Cohen, op. cit., 1258-1273.

38.  Cfr. Hatzfeld, Les trafiquants italiens dans l’Orient héllènique, Paris, 1919, pag. 164 sgg.; 171-72; 188.

39.  C. I. L. III, 2; Suppl. 12.283, ll. 7-8.

40.  Justin. Apol. I, 68; Euseb. Hist. Eccl. 4, 9.

41.  Cfr. C. Barbagallo, Lo Stato e l’istruzione pubblica, pag. 167 sgg. e fonti ivi citate.

42.  C. I. L. VIII, Suppl. 18.042.

43.  Cohen, op. cit., nn. 1233-34.

44.  [Hist. Aug.], Saturn. 8. Un papiro alquanto posteriore (192 d. C.) ci enumera con molta minuzia i mestieri degli Egiziani abitanti presso Tebtunis; Preisigke, Sammelbuch griech. Urkunden aus Aegypten, Strassburg, 1911, n. 5124.

45.  Sulla villa di Adriano a Tivoli, cfr. Boissier, Promenades archéologiques, Paris, 1887, pag. 202 sg.

[83]

CAPITOLO QUINTO I PRIMI SEGNI DEL DECADIMENTO

(138-193)

35. Antonino Pio (138-161). — Antonino Pio apparteneva a una famiglia originaria della Gallia, aveva 52 anni, ed era stato console, proconsole dell’Asia, iuridicus per l’Italia e membro del Consilium imperiale. Egli aveva compiuto con onesta fermezza il suo dovere verso la memoria del padre adottivo, impedendo al senato di sfogare l’odio postumo contro la memoria di Adriano. Ma l’atteggiamento del senato era un ammonimento. Un altro ammonimento erano le nuove ambizioni di ingrandimento che richiamavano la politica di Traiano. Si vogliono ora considerare come province romane la Parzia e perfino la Scizia[46]. Antonino intese questi ammonimenti. Era un’anima eletta più che un potente ingegno; e perciò si propose di conservare quel che Adriano aveva fatto più che di continuarne l’opera, cercando insieme di placare con concessioni il risentimento del senato.

Tale è il doppio scopo del suo governo. Egli rispetta l’opera di Adriano: il Consilium principis, [84] la cancelleria imperiale, l’avvocatura del fisco, le riforme militari, l’indirizzo della legislazione civile e della politica estera. Abolisce soltanto gli iuridici per l’Italia. Ma prodiga al senato i compensi. Non si stanca di ripetere ch’egli intende trattare il senato, come, da senatore, aveva desiderato gli imperatori trattassero lui. Amnistia i condannati politici degli ultimi anni di Adriano, e fa a sè una legge della più ampia indulgenza verso coloro che cospireranno contro di lui. Frena l’avidità del fisco, riduce le imposte; anzi, nel 147 o 148, condona ai contribuenti gli arretrati di tre lustri. Rimette in onore le tradizioni e i simboli repubblicani di Roma; restaura gli antichi culti ufficiali romani; è onorato dai senatori, come Vespasiano, ob insignem erga caerimonias publicas curam ac religionem[47].

Con lui, al principe girovago succede il principe sedentario. Sembra che Antonino non abbandonasse mai Roma, checchè avvenisse ai confini dell’impero. Costruì meno e con minore prodigalità di Adriano. In tutti i rami dell’amministrazione cercò di diminuire la spesa; ridusse gli stipendi largiti da Adriano agli artisti, ai musici, per esempio; largheggiò invece con i retori e i filosofi. Schivò la guerra con la Parzia; ma non ostante il suo amore per la pace e il suo rispetto filiale per Adriano, in Britannia accontentò i fautori di conquiste e ritornò ai confini fissati da Agricola. Cosicchè, quando morì, dopo circa 23 anni di governo, i repubblicani e i tradizionalisti di Roma furono veramente in lutto. Con Traiano [85] e con lui il romanesimo aveva irradiato sul vasto impero gli ultimi e magnifici splendori.

Ma tra questi splendori già si vedevano apparire nubi foriere di tempesta. Pare che Antonino lasciasse la moneta romana più deteriorata che non Traiano, avendo egli accresciuto fino ad un terzo la lega del denarius; e certo è che, non avendo mai ispezionato nè un campo nè una frontiera, moriva ignorando che cosa facessero i barbari al di là del Reno, del Danubio, dell’Eufrate, in Africa e nella Gran Bretagna; lasciando l’esercito infiacchito dalla lunga pace, dalla sua noncuranza, dai frettolosi e troppo numerosi arruolamenti di barbari: indebolite insomma su tutte le frontiere le difese e più audaci i nemici.


36. L’imperatore filosofo: Marco Aurelio (161-180). — Come abbiamo visto, all’elezione del nuovo principe aveva già provveduto Adriano. Questi aveva voluto che Antonino adottasse, come figlio, il nipote suo, Marco Annio Vero, che assunse poi il nome del nonno paterno, Aurelio, e il figlio dell’altro Vero, ch’egli per primo aveva scelto come suo successore. Nel 146 M. Aurelio aveva ricevuto la potestà tribunicia e proconsolare; era divenuto dunque collega e successore presuntivo per volontà di Antonino Pio, che morente lo designò infine esplicitamente: ma insomma la sua scelta all’impero risale in prima origine ad Adriano. Morto Antonino, ricordandosi delle intenzioni di Adriano, Marco Aurelio assunse al suo fianco, nell’impero, il suo fratello [86] adottivo, L. Elio Vero, e i due principi si presentarono insieme al senato, ai pretoriani, al popolo.

Marco era un appassionato cultore della filosofia, un fervente seguace della setta stoica, al modo con cui a quei tempi si intendeva da molti la filosofia: non cioè come puro studio, ma come norma di vita e perfetta coerenza tra il pensiero e l’azione. Per la prima volta l’impero di Roma, fondato e sino allora governato da una aristocrazia di soldati, statisti e diplomatici, aveva a capo un filosofo, che ambiva attuare l’ideale etico della scuola stoica. L’ellenismo non aveva ancora riportato un trionfo più grande. Con Marco Aurelio la filosofia, di cui Roma aveva per tanti secoli, più o meno, diffidato, che Vespasiano aveva bandita d’Italia, saliva al governo e non di un piccolo Stato, ma del più vasto e potente impero, innanzi a cui gli uomini si fossero sino allora inchinati. Platone aveva detto che gli uomini e gli Stati sarebbero felici il giorno in cui i filosofi avessero assunto il governo. Avrebbe Marco Aurelio giustificato o sbugiardato il grande pensatore?


37. La guerra orientale (161-166). — L’esperienza doveva essere seria. I tempi diventavano procellosi. Antonino era appena morto, che già si scorgevano gli effetti del suo governo, più destro nel rinviare le difficoltà che forte nell’affrontarle. In Britannia, i Picti irrompevano contro il nuovo vallo, mentre le milizie romane, stanziate nel paese, minacciavano di proclamare un nuovo imperatore. [87] In Germania, sul Danubio superiore e sul Reno, Catti e Cauci si agitavano inquieti, facevano scorrerie nel territorio romano. In Oriente, il re dei Parti, Vologese III, invadeva l’Armenia, scacciava il re, postovi dai Romani; irrompeva nella Siria, mentre i principi vassalli e le stesse città siriache insorgevano contro il dominio romano (161).

Il pericolo più grave era in Oriente. Marco Aurelio ordinò leve, spedì in Siria rinforzi e generali, tra cui lo stesso suo collega L. Vero, e incominciò una guerra lunga e vasta, che poteva ricordare Traiano. Nel 162-163, il generale Stazio Prisco era riuscito a riconquistare l’Armenia e restituire il principe deposto: ma in Siria il generale Avidio Cassio non aveva potuto pigliar subito l’offensiva. Troppo le legioni erano effeminate e indisciplinate. Fu necessario prima istruirle, allenarle, e vincerne lo spirito sedizioso. Alla fine Cassio potè muoversi; e, dopo le prime vittorie, avanzare, se non rapidamente, con vigore; sicchè, come pare, nel 165, giungeva nel cuore dell’impero partico e dava alle fiamme Seleucia e la stessa capitale del regno, Ctesifonte. Entrava a questo punto in campo L. Vero che, fino ad allora pare si fosse occupato in Antiochia del vettovagliamento; e marciando, probabilmente attraverso l’Armenia, invadeva la Media. Si rinnovava la trionfale spedizione di Traiano. Solo allora il re Partico si indusse alla pace; ma questa volta dovette accordare condizioni più onerose del solito, cedere la Mesopotamia superiore: la prima nuova conquista che [88] dall’età di Pompeo, i Romani riuscissero a fare e a mantenere nella regione del Tigri e dell’Eufrate (166).


38. La prima invasione germanica (167-175). — Così, dopo cinque anni, l’imperatore filosofo terminava felicemente una delle più difficili guerre orientali. Ma le legioni vittoriose riportavano in Europa la peste bubbonica, che avrebbe desolato per anni la penisola balcanica e l’Italia. Come se tutte le disgrazie concorressero a un tempo, un nuovo pericolo, sedato quello d’oriente, minacciò a settentrione.

Nel 166 il confine danubiano era rotto, e le province al di qua e al di là del fiume — Dacia, Pannonia, Norico, Rezia — erano invase da una coalizione di varie popolazioni germaniche, che di slancio giunsero sino in Italia: assediarono Aquileia, incendiarono Opitergium (Oderzo), e si spinsero fino al Piave, vera avanguardia delle invasioni, che dovevano nei secoli seguenti sommergere l’impero. Chi o che cosa aveva dato quella prima spinta al grande moto delle genti germaniche? In mancanza di notizie positive, noi siamo ridotti ad ipotesi. È possibile che un grande movimento di popoli slavi e germanici dall’oriente verso occidente abbia spinto i barbari verso le frontiere dell’impero. Ma la spinta maggiore deve essere stata data dalle nuove condizioni della Germania stessa. Confinando e commerciando e combattendo non più con piccoli stati celtici poco meno che barbari, ma con un grande impero civile, come l’impero romano, anche [89] le popolazioni germaniche si venivano a poco a poco incivilendo in una certa misura. Esse imparavano molte cose — buone e cattive — dall’impero, che era nello stesso tempo il loro modello e il loro spavento: anche ad adoperare le sue stesse armi. Non è quindi difficile di spiegare come l’indomabile indisciplina e il continuo guerreggiare scemassero un poco tra i Germani, al contatto dell’impero; e che a poco a poco in questa nebulosa di tribù disgregate si formassero anche in Germania grossi Stati monarchici, rozze imitazioni dell’impero romano, che cercavano di costituire dei governi e degli eserciti. Ma a questo scopo occorrevano denari. D’altra parte non è inverosimile che quel principio di ordine civile introdotto nelle barbare tribù germaniche, facesse crescere la popolazione. Onde una crisi, demografica ed economica, che spingeva le popolazioni germaniche a invadere terre più fertili e a saccheggiare territori più ricchi, e cioè l’Europa del sud e del sud-ovest, incivilita e arricchita dal governo romano. Sinchè l’esercito romano era stato numeroso e agguerrito alle frontiere, i Germani non si erano mossi; ma da parecchi anni la maggior parte delle legioni d’Occidente combatteva in Oriente e contro i Parti una dura guerra, le cui notizie probabilmente giungevano ingrossate e deformate oltre il Reno e il Danubio. Così si può forse spiegare che, in questo tempo, un gran numero di popolazioni barbare, in maggior parte germaniche, tra le quali i Marcomanni, gli Ermonduri, i Quadi, gli Jazigj, i Sarmati, gli Sciti, i Victuali, [90] i Rossolani, gli Alani, si precipitassero, secondo un piano concertato, sulle frontiere dell’Impero, sapendole mal guardate.

A che mirassero gli invasori o se ad altro fine oltre il saccheggio, non sappiamo. Certo è che la sùbita invasione atterrì l’Italia. La grandezza del pericolo è dimostrata dal fatto che questa volta Marco Aurelio, messi da parte i suoi libri, andò in persona a difendere i confini dell’impero. La storia di questa guerra è così frammentaria, che non sarebbe possibile ricostruirla cronologicamente. Noi sappiamo che durò sino al 175 e che fu asprissima; che si dovettero reclutare nuove legioni, e non fu cosa facile, poichè occorse ricorrere a differenti e quasi disperati espedienti; che non si adoperarono solo le armi ma anche gli intrighi e i trattati; che la guerra ebbe varie vicende, ora tristi ora liete; che a un certo momento un’orda di Custoboci si spinse dalla Dacia sin nel cuore della Grecia, e cioè sin ad Elatea nella Focide. Comunque sia, nel 175 l’incendio sembrò domato. Par che i nemici dovettero cedere una striscia di territorio sulla riva sinistra del Danubio, tollerare fortificazioni e guarnigioni romane, impegnarsi a frequentare solo taluni dei mercati provinciali, ed in tempi determinati, obbligarsi infine a fornire milizie all’esercito romano. Ma sembra pure che i nemici ricevettero dei compensi per queste concessioni e che per la prima volta dei barbari fossero accolti entro i confini dell’impero, persino in Italia, ove pare fossero distribuiti come coloni o coltivatori sulle terre dei proprietari: primo [91] principio di una condiscendenza che doveva generare gravi conseguenze[48]. La pace insomma sembra essere stata una transazione abilmente velata.


39. La rivolta di Avidio Cassio (175). — Le ripercussioni di questa guerra sanguinosa, costosa e vittoriosa solo in parte, furono molte e gravi in Italia come nelle province. La Spagna meridionale fu turbata da un’invasione di Mauri: l’Egitto da una insurrezione dei cosiddetti Bucolici, intorno alla quale nulla di preciso si sa. Le finanze furono gravemente dissestate; e pare che per riassestarle alla meglio si deteriorassero ancora più le monete. Segno più minaccioso, nello stesso anno in cui fu conchiusa la pace coi barbari, l’impero fu minacciato da una grossa guerra civile, non per colpa, questa volta, del senato. Il senato era soddisfatto dell’imperatore. Non solo, come i suoi predecessori, il principe aveva rinunziato a giudicare i senatori, ma aveva stabilito che i processi capitali contro i membri del senato fossero discussi a porte chiuse. M. Aurelio continuava la utile consuetudine dei curatores rerum publicarum, ma facendosi scrupolo di sceglierli tutti nell’ordine senatorio; rimetteva al senato le finanze e la politica estera, gli sottoponeva i trattati di pace, e gli abbandonava il diritto di appello. «Nulla, egli soleva ripetere, è dell’Imperatore, la casa stessa in cui noi abitiamo è proprietà vostra». Il senato non avrebbe potuto chiedere di più. Questa volta il segno della ribellione viene, come al principio del governo di [92] Adriano, dall’elemento militare. Autore e capo fu, nel 175, Avidio Cassio, il vincitore dei Parti, il più valente generale del tempo, a cui M. Aurelio, durante le guerre germaniche, aveva affidato l’alto comando di tutto l’Oriente. Quel che questo uomo di guerra pensasse dell’imperatore filosofo, ce lo dice una sua lettera, della cui autenticità, naturalmente, la critica moderna ha dubitato: «.... Povera repubblica, che subisce codesta gente, avida di ricchezze e che riesce ad arricchirsi!! Povera repubblica! Marco è certo un uomo eccellente; ma, desiderando farsi lodare per la sua clemenza, lascia vivere tanta gente, che egli riprova. Dov’è quel L. Cassio, di cui io porto inutilmente il nome? Dove Catone il censore? Dove gli antichi costumi? Le cose perite da gran tempo neanche si desiderano più. Marco fa della filosofia e indaga sugli elementi naturali, sull’anima, su ciò che è onesto e giusto; ma egli non ha la nozione precisa dei bisogni dello Stato. Tu costà vedi bene che sorta d’energia e di azione occorra per rendere allo Stato l’antica natura; io lo vedo qui, osservando i governatori delle province. Ma posso io chiamare proconsoli e presidi codesti uomini, che pel solo fatto di aver ricevuto dal senato o da M. Aurelio delle province, si dànno a una vita sregolata ed ammassano ricchezze? Tu conosci il prefetto del pretorio del nostro filosofo: tre giorni prima era povero e mendico; poi, improvvisamente, è divenuto ricco.... In che modo, io domando, se non a prezzo delle viscere della repubblica, e delle fortune dei provinciali?...»[49].

[93]

Questa lettera ci mostra come e per quali ragioni un soldato, un valente soldato, nutrito di vecchio spirito romano, amasse poco l’indirizzo intellettuale e civile che il governo dell’impero aveva preso, da Adriano in poi. Tenacemente l’elemento militare cercava di opporsi a quel nuovo spirito, che sembrava fare Roma straniera a se stessa. Come questo sordo malcontento prorompesse in aperta rivolta, sarebbe difficile dire: pare che Cassio pensasse di dover essere il successore; e che nel 175, sparsasi in Oriente la falsa notizia della morte di Marco Aurelio, egli si affrettasse troppo a proclamarsi imperatore, contando sulle legioni e sui governatori dell’Oriente. Ma quando si seppe che la notizia della morte non era vera e che Marco Aurelio veniva in Oriente, il rispetto dell’autorità e dell’ordine poterono più che l’inclinazione per il pretendente. Cassio fu ucciso, tre mesi dopo il pronunciamento, da due ufficiali. Quando Marco giunse in Antiochia e in Alessandria, l’incendio era già spento (fine 175).


40. La persecuzione dei Cristiani e la fine di Marco Aurelio (175-180). — Ma tutte queste guerre, epidemie, rivolte, avevano sgomentato le popolazioni dell’impero, esaltando la superstizione popolare. Le moltitudini, dopo avere invano chiesto salvezza a tutti gli Dei delle vecchie religioni, si rivoltarono furiose contro i Cristiani. Marco Aurelio, da buon filosofo stoico, non poteva esser molto incline alla nuova «superstizione»[50]; ma la sua naturale e costante mitezza l’avrebbe certamente trattenuto dall’infierire, [94] se il sentimento pubblico, sempre più invelenito contro la minoranza cristiana che ingrossava, non gli avesse fatto violenza. Già tra il 163 e il 167, aveva subito il martirio in Roma S. Giustino, che pure avea fatto liberamente l’apologia del Cristianesimo al tempo di Antonino. Ma la persecuzione era andata facendosi più fiera in seguito; ed era stata come autorizzata da un decreto dell’imperatore, nel quale la tortura e la morte sono comminate ai Cristiani, in quanto Cristiani[51].

Di ritorno dall’Oriente M. Aurelio celebrò in Roma uno splendido trionfo per le vittorie sui Germani e sui Sarmati (23 dicembre 176). Il senato gli decretò allora la bella statua equestre, che ancora si ammira sul Campidoglio, e al Campo Marzio la colonna, che sorge in Roma nella piazza che ne porta il nome, e i cui bassorilievi rappresentano le guerre con i popoli del Danubio. La colonna e la statua erano meritate, perchè il filosofo aveva saputo mutarsi in generale e fare il suo dovere, non risparmiando fatiche per difendere l’impero. Senonchè a questo punto M. Aurelio prese una deliberazione, che nessuno si sarebbe aspettata da lui: L. Vero, il suo collega, essendo morto già da parecchi anni, dopo la guerra partica, egli assunse all’impero, come collega, il figliuolo, L. Aurelio Commodo, facendogli concedere nel 177 la potestà tribunicia, dopochè già alla fine del 176 aveva ricevuto il titolo di imperatore. Commodo aveva allora 15 anni: non si riesce dunque a spiegare come questo filosofo stoico abbandonasse ad un tratto il procedimento [95] dell’adozione, a cui egli stesso doveva l’impero è che aveva fatto così buona prova, e si appigliasse invece ad un tratto, e così temerariamente, al principio dinastico dell’eredità, applicandolo alla cieca ad un ragazzo di 15 anni e ritentando l’esperimento già calamitosamente fallito con Nerone! Questa scelta di Marco Aurelio indurrebbe a credere che Avidio Cassio non avesse tutti i torti, giudicandolo nel modo che abbiamo visto. Comunque sia, quell’atto doveva aver funeste conseguenze, perchè Marco Aurelio non visse a lungo, dopo l’assunzione di Commodo. Nel 178 dovè ripartire di nuovo per la frontiera danubiana, dove l’agitazione germanica ricominciava. Da circa due anni combatteva e trattava con i barbari, allorquando, il 17 marzo 180, morì a Vindobona (Vienna).

Nella amministrazione civile Marco Aurelio, sempre occupato da guerre, non potè pareggiare Adriano; ma lo imitò quanto i tempi consentivano ancora. Costruì poco, perchè i denari mancavano. Ristabilì gli iuridici per l’Italia, aboliti da Antonino. Protesse retori, giuristi e filosofi: par che assegnasse uno stipendio di 100.000 sesterzi ai membri del Consilium imperiale, e di 60.000 ai consulenti giuridici del consiglio. Diede nuovo incremento alle istruzioni alimentarie, creando un prefectus alimentorum, di rango consolare. Continuò ad addolcire e far più agile e umano così il diritto civile come il penale. Insomma, se il mondo non fu sotto di lui felice, non si può negare che l’imperatore filosofo facesse il suo dovere in mezzo a difficoltà poco conformi alla sua indole. Il solo [96] errore che — sembra — avrebbe potuto e dovuto evitare, è la scelta di Commodo. Gli scrittori antichi ci dicono che l’opinione universale indicava in Pompeiano il successore. Perchè non lo scelse? E se l’avesse scelto, sarebbe stato risparmiato il grosso disordine che tra poco narreremo? Terribili questioni, a cui la storia non può rispondere.


41. L’impero alla morte di M. Aurelio: splendori e debolezze. — Con la morte di M. Aurelio si chiude la bella epoca dell’impero. Il secondo secolo dopo C. è l’êra più prospera e felice che i paesi governati da Roma ebbero mai a godere. Le cause di questa prosperità e felicità furono diverse, vicine e remote: la pace profonda che, ad eccezione di pochi e corti disordini locali, regnò nell’interno; il fiorire delle province nella pace e nella sicurezza, incominciato nel secolo precedente; la savia amministrazione dei principi. La grandiosa rete stradale, la diminuita varietà delle lingue, dei pesi, delle misure, delle monete, il ravvicinamento dei costumi, il regolato corso delle acque, la buona polizia marittima, i rapporti con Roma, l’esercito stesso favorivano gli scambi delle lingue, delle merci, delle idee, delle credenze religiose, dei costumi e quindi l’universale arricchimento, la pace e la unificazione spirituale dell’impero. Ovunque si aprono opifici, lanerie, tintorie, fabbriche di armi e di tessuti. Le industrie dell’Oriente, la porpora, la lana, il vetro, l’oreficeria, fioriscono rigogliose, avendo trovato nuove clientele nelle province incivilite dell’Occidente. Anche le parti dell’Europa [97] incivilite più di recente, l’Italia settentrionale, la Gallia, la Spagna, riescono a imitare, sia pure con minor perfezione, le industrie orientali. Numerose navi solcano il Mediterraneo; spedizioni mercantili valicano i fiumi e le terre, si spingono fin nella remota India e nella Cina, a cercare la seta, le perle, il riso, adoperato come una medicina o come una ghiottoneria, le spezie, portando, per pagare gli acquisti, oltre oro e argento, anche derrate e oggetti del Mediterraneo di cui quei lontani paesi facevano uso: vino, per esempio. Come il commercio e l’industria, l’agricoltura è in pieno fiore.

La ricchezza, la cultura, il lusso, l’industria, il commercio si accentrano in poche metropoli, che rigurgitano, si ingrossano, si abbelliscono ed arricchiscono: Cartagine, Alessandria, Antiochia, Efeso, Tessalonica, Milano, Verona, Lione, per non parlare di Roma. A poco a poco le città minori languiscono. Di questo differente destino che in tante altre civiltà ha colpito le grandi e le piccole città, ci sono tracce nelle fonti antiche; ma una prova indiretta è fornita dalla crescente sollecitudine degli imperatori per le città minori: usurpazione dell’assolutismo, fu detto, mentre è forse da considerarsi come un effetto del loro decadere a vantaggio delle grandi. A mano a mano che le famiglie ricche e le persone istruite si raccoglievano in poche grandi città, nelle minori il ceto governante, le piccole aristocrazie locali, a cui l’amministrazione urbana era affidata, si assottigliavano. L’amministrazione pericolava per difetto di uomini capaci; [98] e l’autorità imperiale doveva in qualche modo supplire.

Con il crescere della ricchezza e l’ingrandirsi delle città si diffonde per tutto l’impero una universale passione dei giochi. I famosi giochi della Grecia — Olimpici, Istmici, Nemei e Pitici — rifioriscono per il favore di un pubblico cosmopolita, che accorre da ogni parte dell’impero, e sono riprodotti, più o meno fedelmente, in molte città dell’impero. Roma, a sua volta, insegna a tutto l’impero i suoi giochi e spettacoli, massime quegli spettacoli gladiatorî, per cui il popolo dell’Urbe aveva tanta passione. Teatri e anfiteatri si costruiscono in ogni città dell’impero; l’Oriente e l’Occidente si mescolano anche nei divertimenti, comunicandosi a vicenda le proprie passioni e i propri giochi; la professione di atleta diventa una delle più proficue e onorifiche. Colui che è stato coronato nei giochi di Grecia o che ha riportato numerose vittorie nelle innumerevoli feste celebrate in tutte le città, diventa nella città sua un personaggio ragguardevole, a cui la legge concede la esenzione da molti carichi pubblici. I corpi pubblici e i privati gareggiano per fare onore a queste «glorie» della città.

Nè la prosperità materiale soffocava lo spirito. «L’impero è tutto pieno di scuole e di discenti», esclamano, concordi, il poeta romano Giovenale e il retore greco Aristide. La letteratura, la filosofia, la scienza cessano di essere il privilegio di piccoli cenacoli, si divulgano come patrimonio comune del genere umano. La cultura non sarà più così profonda e originale come nei [99] secoli precedenti, ma è più universale. L’amore dalla filosofia pervade tutte le classi e il buon gusto si diffonde dalla capitale ai più remoti municipî. In ogni parte dell’impero i privati e le autorità gareggiano nell’abbellire le città e nell’imitare Roma. Il mondo s’era fatto così ricco, così bello, così sapiente, così ordinato, che per un momento il pensiero antico fu sul punto di abbandonare la sua dottrina pessimista della corruzione e di concepire questo grande mutamento del mondo al modo nostro, come progresso. «Il mondo è ogni giorno — scrive uno scrittore cristiano, Tertulliano — più conosciuto, meglio coltivato e più civile di prima. Dappertutto si sono tracciate strade, ogni regione ci è nota, ogni paese è aperto al commercio. Poderi amenissimi hanno invaso le foreste; gli armenti hanno fugato le fiere; si semina nell’arena; si spezzano i macigni. Le paludi scompaiono. Ora ci sono tante città quante capanne un tempo. Non si ha più paura delle isole e degli scogli. Dovunque ci sono case, dovunque abitazioni umane, dovunque governi ben ordinati; dovunque tracce di vita....»[52].

Fugace splendore, invece; attimo fuggente di una prosperità caduca! Da questo tempo incomincia un tragico rivolgimento. Ma il male non viene dal di fuori; nè la colpa delle calamità che incominciano deve essere tutta apposta agli uomini che ora salgono al governo. Il male era interno, e nasceva da uno squilibrio tra le forze che reggevano l’impero. L’impero è governato da un senato, nel quale si raccoglie veramente il [100] fiore delle famiglie ricche e colte delle province, dalla Gallia all’Africa e alla Siria: un’aristocrazia di cui il mondo antico non aveva ancor visto l’eguale, per numero, per coltura, per ricchezza, per raffinatezza di gusti, per nobiltà d’aspirazioni, per varietà di attitudini. In questa aristocrazia le virtù austere del romanesimo sono fecondate dalla cultura greca nella più splendida varietà di attitudini: onde abbondano i generali, gli amministratori, i giuristi, i letterati, i filosofi, i protettori delle arti e delle lettere, che tutti insieme vogliono conservare intatta la forza dell’impero, raffinandola con le arti più elette della pace; e con quanto studio ed impegno, lo attestano Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio. Senonchè mentre la aristocrazia che governava l’impero si raffinava, si faceva più colta, più splendida, più umana, l’esercito si imbarbariva. Con Claudio e con Nerone i provinciali erano entrati nelle legioni, e cresciuti di numero sotto i Flavi. Ma con gli Antonini, specie con i due ultimi, le legioni accolgono gli stranieri, i veri e propri barbari[53]. Certo a questi barbari si conferisce la cittadinanza romana; ma un titolo non bastava neppure allora a mutare l’animo. Allo stesso modo, sebbene più lentamente, era deteriorato il corpo dei pretoriani, esempio e modello di tutte le milizie romane. Troppo ricca ormai la vecchia Italia non basta più a riempire i vuoti delle famose coorti[54]. Tra queste due forze, l’aristocrazia e l’esercito, si interponeva quella che noi chiameremo l’amministrazione, [101] il corpo dei magistrati che esercitavano i differenti uffici civili e militari, e che, almeno nelle cariche maggiori, era reclutato ancora secondo il principio della coltura e del rango senatorio od equestre. Al di sopra di tutti stava l’imperatore, il più autorevole dei senatori, il capo dell’esercito, della nobiltà e dell’amministrazione, il simbolo dell’impero e dello Stato, investito di poteri che non erano mai stati ben definiti, come non era mai stato ben definito il principio politico e giuridico da cui i suoi poteri scaturivano. Era chiaro che, sinchè l’imperatore, l’amministrazione e l’aristocrazia fossero stati d’accordo, avrebbero avuto autorità bastevole per imporre rispetto alle legioni. I governi di Traiano, di Adriano, di Antonino e di Marco Aurelio lo avevano provato. Ma che sarebbe accaduto il giorno, in cui questo accordo si rompesse?


42. Il governo di Commodo (180-192). — Quanto fosse fragile l’accordo tra il senato e l’imperatore, bastò a dimostrarlo, dopo un secolo di concordia, la scelta di Commodo. Commodo, dopo Tito e Domiziano, era il solo figlio che succedeva al padre nella suprema carica; e per maggior disgrazia, a diciannove anni. Il senato, che non aveva mai ammesso l’eredità come titolo del potere imperiale, e che avrebbe voluto imperatore Claudio Pompeiano, subì l’avvento di Commodo come una usurpazione. La rottura tra il senato e l’imperatore non tardò dunque; e fu quanto mai calamitosa, perchè Commodo era un giovane [102] che ricordava assai più Nerone che non Domiziano, a cui più spesso i contemporanei lo paragonarono. Dopo un breve tirocinio, abbandonò il governo al prefetto del pretorio; e si diede a godersi l’impero, esasperando ancor più il malcontento e l’odio del senato. Ma di questa sua noncuranza, del sospetto in cui aveva il senato approfittarono molti avventurieri di origine oscura, per impadronirsi di molti uffici sino ad allora riserbati all’ordine senatorio ed equestre. Sotto Commodo si tenta e si ritenta di togliere ai senatori il privilegio di occupare le alte cariche; uomini oscuri o indegni si insinuano dappertutto, e talora passano innanzi ai personaggi più cospicui dell’impero; i segni esterni della potenza sovrana dell’imperatore sono moltiplicati e risuscitati i titoli più adulatorî, che il senato aveva aborriti nella persona di Nerone e di Domiziano. L’opposizione senatoria, come è naturale, rinasce; le congiure spesseggiano; e l’aspra discordia tra imperatore e Senato guasta e precipita nel disordine in pochi anni tutta l’amministrazione. Intorno alla politica di Commodo poco sappiamo. Ci è difficile quindi giudicarla e decidere, per esempio, se la pace da lui conchiusa con le popolazioni germaniche, che tanto filo da torcere avevano dato al padre suo, fosse buona o cattiva. Ma certo è che durante gli anni del suo governo, che furon dodici, numerose rivolte scoppiarono nelle province: che l’esercito si decompose; che i disertori in Gallia poterono tentare quasi un principio di rivolta, tanto erano numerosi: e che le finanze andarono a precipizio.

[103]

La fine di questo governo fu quale si poteva imaginare. Come Nerone e Domiziano, anche Commodo si fece via via più sospettoso e violento; e seminò attorno a sè tanti odî e tante paure, che i suoi stessi familiari si convinsero, alla fine, che occorreva toglierlo di mezzo. Il 31 dicembre del 192, un gruppo di cortigiani, pavidi della propria incolumità personale e sicuri di trovare dietro a sè largo séguito di plauso e di favore, riescivano a uccidere l’imperatore.


43. Pertinace (1º gennaio-28 marzo 193). — La fine di Commodo ricordava Domiziano, come il suo governo aveva ricordato Nerone. Ma che cosa accadrebbe, dopo la sua morte? Quale dei due imperatori ricorderebbe la successione: Domiziano con un nuovo Nerva o Nerone con una nuova rivoluzione? Un grande sforzo fu fatto per risparmiare una seconda rivoluzione all’impero. Il senato scelse a imperatore un uomo che poteva veramente definirsi un nuovo Nerva: Publio Elvio Pertinace, e lo scelse con tanta prestezza e risolutezza, che i pretoriani lo accettarono. Era costui un homo novus, perchè primo della sua famiglia era entrato in senato: un uomo semplice, serio, austero, che aveva guadagnato il laticlavio servendo nell’esercito; un soldato, che impersonava tutte le tradizioni del militarismo romano, come Traiano. Egli si affrettò a riconoscere di nuovo i diritti del senato e a tributargli gli onori dovuti; scacciò dalle cariche gli avventurieri introdotti sotto Commodo, richiamò gli esiliati; e subito pose mano, sempre agendo d’accordo [104] con il senato, a restaurare le finanze, e a ristabilire la disciplina negli eserciti e nella guardia pretoriana. Ma nel voler ricondurre i pretoriani all’antica disciplina, egli presunse troppo della autorità sua e del senato. Anche quel corpo era ormai troppo inquinato di provinciali. Il 28 marzo del 193, tre mesi dopo la sua assunzione all’impero, i pretoriani si rivoltarono e uccisero nel suo palazzo l’imperatore. Alla morte di Pertinace seguì in Roma un gran panico, del quale approfittarono due senatori, Sulpiciano, che era il suocero di Pertinace, e Didio Giuliano, uno dei più ricchi tra i membri dell’assemblea, per persuadere i pretoriani ad acclamarli imperatori. Sulpiciano, che Pertinace aveva mandato a calmare i pretoriani in rivolta, riuscì ad entrare nel campo, mentre Didio Giuliano restava fuori. Ma i pretoriani seppero sfruttare la rivalità; e per mezzo di ambascerie mandate a Sulpiciano e a Giuliano misero l’impero all’asta, chiedendo all’uno e all’altro che donativo darebbero in cambio dell’elezione. Didio Giuliano offerse la somma maggiore e fu imperatore.

Ma l’impero non era ancora un bene che potesse mettersi all’asta. Quando, nelle province, le legioni seppero quel che era successo a Roma, si rivoltarono contro questo mercato e contro l’imperatore dei pretoriani. Le legioni di Britannia proclamarono imperatore il loro comandante D. Clodio Albino; quelle di Pannonia, L. Settimio Severo; quelle di Siria e d’Egitto, C. Pescennio Nigro. Dopo 124 anni si ripeteva il disordine scoppiato alla morte di Nerone. Di nuovo l’incertezza [105] del principio legale della successione nella suprema autorità dell’impero scatenava le legioni.

Note al Capitolo Quinto.

46.  Cfr. Cohen, Monnaies rom., II, Anton., nn. 572, 777, 778. La Scizia è qui forse una nuova provincia sul Danubio.

47.  C. I. L. VI, 1001.

48.  Sulle deduzioni dei barbari sul territorio romano si può consultare Huschke, Ueber den Census und die Steuerverfassung der früheren Römischen Kaiserzeit, Berlin, 1847, pag. 149 sg.

49.  [Hist. Aug.], Av. Cass., 14.

50.  È questo un giudizio dello stesso Marco Aurelio, Pensieri, II, 3.

51.  Studi e testi, VIII (Roma, 1902): Atti di S. Giustino, 4, 8; cfr. Euseb. H. E., 5, 1, 47; Athenag. Legatio pro Christian., 1 sg.

52.  Tertull. De anima, 30.

53.  Cfr. O. Seeck, in Rh. Museum, 43, 611-13.

54.  Cfr. [Hist. A.] Pertin., II, 9; C. I, L. V, 5050, l. 31; VI, 2375 a sg.; Dion. Cass. 74, 2; R. Cagnat, Praetoriae Cohortes in Daremberg et Saglio, Dict. Antiq. Graecques et romaines, IV, pag. 635.

[107]

CAPITOLO SESTO I PRINCIPII DELLA MONARCHIA ASSOLUTA
SETTIMIO SEVERO

(193-211)

44. La guerra civile e la vittoria di Settimio Severo (193-197). — Dei tre pretendenti il più accetto al senato era Pescennio: un italico, a quanto pare, di illustre famiglia. Non sembra che fosse un discepolo delle Muse, ma era un buon soldato; le sue maniere affabili lo rendevano accetto a tutti, persino ai soldati, a cui pure imponeva la più rigida disciplina. Clodio Albino, invece, era africano di nascita, come Severo; era nato in Adrumeto, da una famiglia antica e nobile; aveva molte amicizie a Roma e simpatie nel senato. Settimio Severo, infine, che nasceva da una ricca e cospicua famiglia di Leptis, era il più colto dei tre, perchè era stato educato nelle due lingue, greca e latina, aveva studiato ad Atene, ed in gioventù si era dato alle lettere. Ma primo della famiglia era entrato in senato e aveva esercitato le magistrature; era quindi un homo novus. Fosse questa la ragione o altra che non conosciamo, egli aveva meno amici in senato che i suoi rivali.

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Ma se Settimio Severo era il candidato meno grato al senato, era anche quello che, governando la Pannonia, si trovava più vicino all’Italia. Risoluto e intelligente, egli seppe approfittare di questo vantaggio. Senza perdere tempo scese con il suo esercito nella valle del Po. Didio Giuliano, il quale disponeva soltanto della guardia pretoriana, e non aveva potuto neppur chiudergli i passi delle Alpi, cercò di difendersi alla meglio. Ma le forze erano troppo ineguali. I soldati lo abbandonarono; lo abbandonò la flotta e, all’avvicinarsi di Settimio Severo, il senato lo depose e condannò a morte, eleggendo il governatore della Pannonia.

Il nuovo imperatore non poteva illudersi sui sentimenti che il senato, costretto a convalidarlo con la spada alla gola, nutrirebbe sul suo conto. Ma Settimio Severo sapeva di dover combattere contro due rivali potenti, e quindi cercò di ingraziarselo. Punì i complici di Didio Giuliano; fece decretare l’apoteosi di Pertinace; promise che non avrebbe condannato a morte nessun senatore, anzi fece approvare dal senato una legge, la quale dichiarava nemico pubblico l’imperatore che ciò facesse; promise di governare, prendendo a modello Pertinace e Marco Aurelio: non esitò nemmeno a sciogliere la guardia pretoriana che aveva ucciso Pertinace e messo all’incanto l’impero, ricostituendola con i migliori soldati scelti da qualsiasi legione. Infine, per legar le mani a Clodio Albino, e per compiacere al Senato, lo dichiarò suo collega nell’impero e suo erede presuntivo, dandogli l’alto comando delle [109] province occidentali. Ma presa questa precauzione e dati questi pegni delle sue intenzioni al senato, si volse ad attaccare in Oriente Pescennio, che si era già assicurato l’Asia e l’Egitto, la neutralità dell’Armenia e l’alleanza di parecchi principi orientali, tra i quali il re dei Parti. Severo non volle che Pescennio avesse, come Vespasiano, il tempo di assalir lui; e sapendo che la velocità era il partito migliore, non indugiò più di un mese nella capitale e subito partì alla testa di grandi forze, per l’Oriente. Respinta e bloccata una buona parte dell’esercito nemico in Bisanzio, Severo, o, piuttosto, i suoi generali sconfissero il nemico prima a Cizico, poi a Nicea e, finalmente, presso Isso. La giornata fu assai cruenta, ma il rivale fu alla fine vinto, e, nella tragica fuga, arrestato e decapitato (194). Sembra che i partigiani di Pescennio fossero duramente trattati, ma dei senatori nessuno fu condannato a morte: i più compromessi subirono la confisca di tutto o di parte del patrimonio.

Ma se Pescennio era morto, la guerra non era ancora finita, chè Bisanzio resisteva accanitamente. D’altra parte Settimio Severo non poteva illudersi che la sua vittoria gli concilierebbe il favore del riluttante senato. Perciò egli pensò di dare al suo governo un carattere di legittimità più sicuro; e nel 195 celebrò la adozione di sè medesimo per parte di M. Aurelio. Il farsi adottare di autorità da un morto, era un procedimento, alla stregua delle leggi, molto ardito, per non dire stravagante; ma facendo questa violenza allo spirito della legge ed al buon senso, egli poteva [110] presentarsi come il continuatore degli Antonini, venerati con tanto zelo in tutto l’impero. Pare inoltre che Settimio si servisse dell’adozione per impadronirsi dell’ingente eredità di Commodo[55]. Nel tempo stesso, mentre stringeva d’assedio Bisanzio, provvedeva a domare l’Oriente; e faceva una spedizione nella Adiabene e nell’Osroene, i cui sovrani avevano favorito Pescennio. Tutto il 195 fu speso in questa spedizione e nell’assedio di Bisanzio, che capitolò finalmente nella primavera del 196. L’Oriente poteva dirsi domato. Settimio Severo si affrettò a ritornare in Italia.

Nel senato l’opposizione era forte; e poichè Pescennio era stato vinto, poneva la sua speranza in Clodio Albino. Questi a sua volta non aveva accettato di esser collega di Settimio che per aver tempo a preparar milizie contro di lui, in Gallia e in Britannia. Ormai, anzi, aveva apertamente proclamata la rivolta; aveva convocato un contro-senato; e minacciava, nuovo Vitellio, di ridiscendere dalle Alpi[56]. Come al solito, Severo non perdè tempo. Appena giunto in Italia, fece dichiarare Clodio Albino nemico pubblico dall’esercito e dal senato; persuase il senato a proclamare il figlio suo, Settimio Bassano (il futuro Caracalla), Cesare, designandolo così, quale erede dell’impero; gli fece assumere il nome venerato di Marco Aurelio, forse per compensare la violenza con cui faceva trionfare il principio ereditario, e poi partì per la guerra. L’impresa non era di piccola mole. Se vogliamo credere a Dione, Albino aveva raccolto non meno di 150.000 uomini, e altrettanti dovette opporgliene Severo; dunque, [111] senza contare gli ausiliari, una quindicina di legioni, quante non erano mai state impiegate nelle campagne contro il Gran Re: un esercito smisurato per i tempi antichi. Anche su questa guerra poco si sa: par che il principio fosse favorevole ad Albino, e che il senato esultasse a Roma di questi prosperi successi. Ma nella battaglia decisiva a Tivurtium (Trévoux) non lungi da Lione, il nuovo pretendente fu definitivamente sconfitto (19 febbraio 197).

Questa volta la repressione fu più fiera che cinque anni prima. Settimio dichiarò al senato che la severità di Silla, di Mario, di Augusto era preferibile alla dolcezza che aveva perduto Cesare e Pompeo[57]. Ventinove senatori furono condannati a morte; un grande numero di ricchi galli e spagnuoli, che avevano aiutato Albino, furono pure giustiziati, i loro beni confiscati, e in parte divisi tra i soldati, in parte versati nell’erario, in parte presi da Severo. Con queste confische Severo incominciò a creare quella sua fortuna, che doveva essere la più grande di quante gli imperatori avevano sino allora possedute[58].


45. Il governo di Severo: suo carattere. — Il Dio della guerra aveva pronunciato il suo giudizio definitivo. Come Vespasiano, Severo era ormai, alla testa delle legioni vittoriose, l’arbitro dell’impero. Che cosa poteva fare il senato se non inchinarsi? Ma Severo non era, come Vespasiano, un italiano; era un figlio dell’Africa; di quell’Africa, dove il romanesimo era piuttosto una leggera vernice appena aderente, che copriva le [112] passioni e le idee ataviche della razza. Severo non aveva per il senato e per le istituzioni della repubblica aristocratica, come Traiano, il rispetto di un figlio, l’ammirazione di un discepolo, la gratitudine di un beneficato. Non era nemico del senato e non voleva, di proposito, umiliarlo o avvilirlo. In tempi tranquilli, sarebbe stato uno dei tanti senatori, non meno geloso che gli altri dei privilegi dell’ordine. Ma aveva conquistato l’impero a prezzo di tremendi pericoli, contro la volontà del senato, che gli avrebbe preferito Pescennio Nigro o Clodio Albino; e conquistatolo, lo voleva tenere e godere — e qui appariva l’africano — come cosa sua e della sua famiglia. Già prima di vincere Albino, egli aveva, come abbiamo visto, fatto nominar collega il figlio e tributare grandissimi onori a sua moglie Giulia Domna, che era una siriaca di illustre famiglia e una donna molto intelligente; inoltre aveva mostrato apertamente che l’autorità imperiale doveva servire ad arricchirlo. Primo tra gli imperatori costituì un’amministrazione del patrimonio privato, nominando i procuratores privatarum rerum. Senonchè, se il senato aveva poco gradito il suo trionfo, meno ancora avrebbe gradito un governo animato da questo spirito. Non poteva quindi che diffidare del senato; e, senza combatterlo metodicamente, cercò i sostegni e gli appoggi del suo governo, non nel prestigio, nella ammirazione sincera e nella collaborazione volenterosa del grande consesso, come gli Antonini, ma nella intelligenza e nell’energia di un piccolo gruppo di servitori fidati e devoti, di ogni origine [113] e rango; e massime nei soldati e nei cavalieri. Cresce dunque con lui l’autorità e il potere di tutti i funzionari imperiali, specialmente degli advocati fisci, del capo del fiscus, che prende il titolo di rationalis e del prefetto del pretorio. Per la prima volta il prefetto del pretorio è ammesso in senato, e per la prima volta, dopo tanti anni, non ostante la presenza del principe in Roma, riappare un nuovo Seiano, C. Fulvio Plauziano, che per un certo tempo, e sinchè non precipitò egli pure, fu più potente dello stesso imperatore. Il prefetto del pretorio diviene ora non solo il capo di tutte le truppe pretoriane, ma anche il dirigente di tutto il personale dei funzionari imperiali. I suoi poteri giudiziari si allargano: sembra che a lui competesse, oltre l’appello dalle autorità provinciali, anche la giurisdizione penale per tutto il territorio a cento miglia da Roma. Nelle province è tolto ai governatori il diritto di levare imposte; al senato, il compito di eseguire il censo, che è affidato in sua vece a funzionari imperiali tratti dall’ordine equestre. Ad accrescere il prestigio dell’ordine equestre Severo non solo concede ai cavalieri cariche prima riserbate ai senatori; ma ai cavalieri, che si sono segnalati nel pubblico servizio, accorda nuovi titoli di onore: quello di vir egregius o quello anche più alto di vir perfectissimus: onorificenze che ponevano un cavaliere alla pari di un senatore, senza farlo entrare nell’ordine; e che quindi abbassavano il prestigio del senato.

Ma di null’altra cosa Settimio Severo fu più sollecito che di far contento l’esercito. Egli è veramente [114] l’imperatore dei soldati, che, eletto dai soldati, governa con essi e per essi. L’esercito è accresciuto di tre nuove legioni; il soldo è aumentato; ai soldati è accordato il diritto di contrarre matrimoni legittimi o qualcosa di simile[59], nonchè di passare per merito nel corpo dei pretoriani, ormai riserbato ad essi come una promozione. Ai veterani è concessa in privilegio la dispensa di ogni pubblico carico (vacatio a muneribus); agli ex-ufficiali, nuovi titoli onorifici; ai generali, donativi sontuosi. Riforma più importante: al grado di centurione — il più elevato dei gradi a cui il soldato comune potesse giungere e che corrisponde ai grado di capitano degli eserciti moderni — è annesso il rango di cavaliere. Infine agli ufficiali in congedo sono riserbati molti impieghi civili. È chiaro che Settimio Severo cercò di rinforzare l’ordine dei cavalieri e l’amministrazione con elementi presi dall’esercito, opponendo così alla nobiltà senatoria un altro ordine sociale a lui fedele e devoto; e cercando in questo i funzionari, che considerassero l’imperatore come loro capo e benefattore.


46. Severo in Oriente: la guerra con i Parti (197-198). — Un imperatore che si reggeva per il potere dell’esercito doveva essere gelosissimo della gloria e del prestigio delle armi romane. Mentre Severo combatteva in Gallia Clodio Albino, il re dei Parti aveva invaso la Mesopotamia e posto l’assedio a Nisibis; la Mesopotamia, la recente conquista di M. Aurelio, e forse la Siria, l’Armenia, la Cappadocia parevan di nuovo in pericolo. [115] Severo non poteva tollerare l’affronto. Appena pacificata l’Europa, si accinse, nel 197, alla guerra con la Parzia. I preparativi furono grandi, ma adeguati. Vologese fu sconfitto e la via di Ctesifonte, per la terza volta, aperta alle legioni romane, che vi entrarono, e la saccheggiarono, facendo 100.000 prigionieri, tra soldati e civili. Pur troppo però, come sempre, il ritorno fu più difficile: chè il deserto, la fame, la sete inflissero all’esercito sofferenze inaudite. D’altra parte, se neppure Traiano aveva potuto sottomettere l’impero dei Parti, tanto meno poteva riuscirvi Severo, perchè da Traiano a lui l’impero si era indebolito. Inflitta una umiliazione profonda al re dei Parti, Severo fece pace, nel 198 o 199, accontentandosi dello statu quo, e forse di qualche ampliamento dei confini mesopotamici.

Ma Severo non tornò subito in Occidente. Sia che l’Oriente gli sembrasse richiedere la sua presenza, sia che preferisse star lontano da Roma e dal senato, per meglio mostrare che egli era l’imperatore delle province, sollecito degli interessi di tutti, e non il capo di una oligarchia angusta, Severo si trattenne nelle province orientali sino al 202, rinforzando la difesa, distribuendo corone ai principi vassalli, rimettendo la disciplina nelle legioni, l’ordine nel paese, e stabilendo ovunque colonie romane. Visitò anche la Palestina e l’Egitto; e dalla Palestina emanò un editto relativo ai Cristiani, che riconferma all’incirca quelli di Traiano e di M. Aurelio[60]. Ma i tempi erano inquieti, pieni di paure e di superstizione: bastò quell’editto per scatenare in tutto [116] l’Oriente le collere ribollenti contro la minoranza cristiana, che non cessava dal crescere e che si insinuava dappertutto. Di nuovo in molte province i governatori dovettero cedere alla opinione popolare; e di nuovo piovvero le denunzie, i processi, le condanne!


47. La fine di Severo (202-208). — Nel 202 Severo ritornò a Roma, accolto da grandi feste e con grandi onori. Il senato gli decretò anche quell’arco trionfale, che sarebbe sorto sulla Via Sacra, di faccia al Campidoglio, dove ancora oggi si può ammirare. Severo ricusò la maggior parte degli onori offertigli, e perfino il trionfo; ringraziò i senatori, chiedendo loro di avere soltanto nel cuore, per lui, l’affetto che gli avevano prodigato nei solenni decreti consiliari; e si accinse a governar l’impero nella pace.

Un contemporaneo, non certo benevolo, ci descrive la giornata del nuovo Augusto. «Sin dall’alba egli era al lavoro; poscia, passeggiando a piedi, si intratteneva degli affari relativi allo Stato. Venuta l’ora delle sedute nel suo tribunale, egli vi si recava, salvo che non fosse una solenne giornata festiva, e attendeva al suo ufficio con scrupolo grandissimo. Infatti accordava alle parti tutto il tempo che esse domandavano, e a noi senatori, che giudicavamo con lui, una grande libertà di opinione. Restava in tribunale fino a mezzogiorno. Dopo egli montava a cavallo, quanto tempo poteva, o si dedicava a qualche esercizio fisico, per entrar poi nel bagno. Faceva colazione — abbondantemente — solo o coi suoi [117] figliuoli. Per solito, dopo il pasto, dormiva, e destatosi, si tratteneva, sempre passeggiando, con dei letterati greci o latini. La sera prendeva un secondo bagno e desinava ma soltanto con i familiari e con gli intimi, giacchè egli non invitava mai alcuno e riservava i pranzi sontuosi pei giorni, in cui non poteva assolutamente farne a meno»[61].

In Roma Settimio Severo continuò e rafforzò quel suo governo, che spostava l’autorità dal senato all’imperatore e all’esercito. Ormai le resistenze venivano meno dappertutto; anche il senato si rassegnava, impotente. A che avrebbe servito una nuova congiura, anche se riuscisse, se non a scatenare di nuovo le legioni? I soldati ormai si sentivano da più del senato. Così, Settimio Severo fu, primo degli imperatori, chiamato dominus: titolo che per secoli aveva fatto orrore ai Romani. Primo degli imperatori rese giustizia non più nel Foro ma nel suo palazzo. Primo osò eguagliare l’Italia alle province, assumendo il titolo di proconsole anche per l’Italia e stanziando, oltre i pretoriani, una legione nelle vicinanze di Roma. Il provvedimento era savio; perchè la rovina di Didio Giuliano mostrava che l’Italia, non avendo altre forze militari fuorchè la guardia, era alla mercè delle legioni delle province, se queste si ribellavano. Ma un altro dei principî su cui Augusto aveva posato il governo dell’impero era tolto di mezzo.

Sei anni restò Severo in Roma, amministrando alacremente l’impero, e senza essere minacciato da congiure. La sua fortuna, la sua alacrità, [118] la sua energia scoraggivano tutti gli odî. Nel 208 partì per la Britannia; se vogliamo credere a uno storico antico, perchè malcontento dei suoi figliuoli, Bassiano e Geta, e delle inclinazioni che ambedue rivelavano. Adottando risolutamente il principio dinastico, Settimio aveva fatto il primo con il titolo di Augusto e collega all’impero durante la guerra contro la Persia; nel 209 aveva fatto Augusto e collega il secondo. Ma novelli Commodi, i due figli non amavano che la compagnia dei gladiatori e dei cocchieri del Circo e per di più si odiavano. Per distrarli da questi piaceri, il padre avrebbe, a dire degli antichi scrittori, deliberato di fare una spedizione in Caledonia (Scozia), e forse la conquista di quel difficile paese. Per altro, da gran tempo, la Britannia era irrequieta, e il tentativo di Albino non aveva certo aiutato a calmarla.

La guerra fu lunga e difficile. Tra selve, monti e paludi, gl’indigeni si difesero con una feroce guerriglia. Solo a prezzo di gravi perdite l’esercito romano toccò l’estremità della grande isola; ma il 4 febbraio del 211 Severo moriva in Eburaco (York). Poco prima di morire non solo aveva richiamato le legioni della Scozia, ma ordinato anche l’abbandono della linea fortificata di Agricola e di Antonino Pio per tornare alle forti difese di Adriano. La spedizione quindi non aveva servito a nulla.


48. Il governo di Severo; come giudicarlo. — Settimio Severo fu un insigne soldato, ma non solamente un soldato: fu anche un uomo di grande e fine coltura. Intorno a lui, all’imperatrice [119] Giulia Domna, alla sorella dell’imperatrice, Giulia Mesa, alle nipoti Giulia Soemia e Giulia Mammea, si raccolse una corte letterata, nella quale brillarono non pochi tra gli spiriti eletti dell’epoca. Tra questi basterà ricordare nientemeno che i giureconsulti più grandi dell’impero, Ulpiano e Paolo, che fecero parte del Consilium principis, Papiniano, che fu prefetto del pretorio. Egli quindi, in mezzo alle molte guerre dell’impero, continuò, come i suoi predecessori, il grande svolgimento del diritto razionale ed umano, che è una delle glorie maggiori di Roma. Non si può negar neppure che egli ricostruì saldamente l’autorità dello Stato, ponendo prontamente fine, come Vespasiano, alla anarchia delle legioni in rivolta; che di nuovo illustrò le armi romane, che riassestò abbastanza bene le finanze, sebbene anch’egli abbia ricorso largamente all’espediente d’adulterar la moneta. Nei suoi denarii la lega sale al 50 e talora sino al 60%. Ma egli esautorò quasi del tutto il senato, che Vespasiano aveva ringiovanito e che era stato la fonte della legalità per un secolo. Sorpreso della catastrofe di Commodo, il senato aveva sperato, prima in Pertinace, poi in Pescennio, poi in Clodio Albino: deluse tutte queste speranze, si era a poco a poco, sotto il governo di Settimio Severo, avvilito e rimpicciolito, lasciando libero il posto al crescente assolutismo militare, rinunziando a quasi tutti i diritti e i privilegi, che per tanti secoli aveva reclamati. Molto si è scritto dagli storici moderni contro il servilismo del senato sotto Settimio Severo: ma chi sappia come, in pochi anni, sotto la pressione degli avvenimenti, possa [120] mutare la composizione, lo spirito, l’anima di una assemblea e di un ordine sociale, non si meraviglierà punto di vedere il senato romano rimpicciolirsi a questo modo, innanzi a Settimio Severo, capo vittorioso delle legioni, ossia innanzi ad una forza che, per quanto scaturita improvvisamente dalla convulsione degli eventi, esso sentì che era invincibile. Del resto, a giudicarne gli effetti immediati, questa diminuzione del senato fu un fatto benefico. Il governo di Settimio Severo fu più operoso di quello degli ultimi Antonini, perchè non fu più obbligato a tener conto, quanto costoro, della volontà, dei diritti, dei pregiudizi, dei privilegi del senato. Senonchè questo beneficio era bilanciato da un pericolo grave. Esautorato il senato, quale sarebbe, lui morto, la fonte della legalità, per il suo successore? Il principio ereditario, da solo, non bastava; sia perchè non era ancora universalmente riconosciuto, sia perchè il potere di Severo era troppo recente. Il principio ereditario doveva dunque appoggiarsi sopra un altro elemento: la volontà degli eserciti. Messo in disparte il senato, gli eserciti diventano ormai, come regola, quel che sinora erano stati solo ogni tanto e quasi accidentalmente, il potere che sceglie o riconosce gli imperatori, che ne legittima l’autorità. Ma che cosa erano ormai gli eserciti, se non un’accozzaglia di tutte le razze dell’impero, nella quale abbondavano i barbari appena dirozzati? Le terribili conseguenze di questo rivolgimento non tarderanno molto a mostrarsi.

Da Settimio Severo si può sicuramente datare [121] il principio della monarchia assoluta. Egli è il primo degli imperatori che, appoggiandosi sull’esercito, sostituisce apertamente, senza esitazioni, l’autorità sua e quella dei funzionari dipendenti da lui all’autorità del senato. Sarebbe impossibile dire se egli invece avrebbe, volendo, potuto essere un secondo Vespasiano; e se questo mutamento dipese dalla sua ambizione o dalla forza invincibile degli eventi. Ma da questo mutamento, volontario o necessario che fosse, procedè la immane catastrofe che ora ci accingiamo a narrare e della quale quindi Settimio Severo è per la sua parte responsabile innanzi alla storia[62].

Note al Capitolo Sesto.

55.  Dion. Cass., 76, 9; Cohen, Monnaies, IV, Sept. Severus, nn. 123-126, 128 (a. 195); 129-132 (a. 196).

56.  [Hist. Aug.], Clod. Alb., 8, attribuisce invece l’iniziativa di questa guerra a Settimio Severo, ma con un racconto di insidie così romanzesco che non inspira nessuna fiducia. La concatenazione degli eventi mostra invece che l’iniziativa partì da Clodio Albino, dietro il quale si nascondeva un partito, forte in senato.

57.  Dion. Cass., 75, 8.

58.  Herod., 3, 15, 3.

59.  Herod., 3, 8, 5: ma il passo è poco chiaro. L’argomento del resto è ancora pieno di oscurità e di lacune.

60.  [Hist. Aug.], Sever., 17.

61.  Dion. Cass., 76, 17.

62.  Una delle cose migliori, scritte su Settimio Severo, sono i due capitoli del Duruy, Histoire des Romains, Paris, 1883, VI, pagg. 1-143.

[123]

CAPITOLO SETTIMO IL CAOS DEL TERZO SECOLO

(211-284)

49. Da Settimio Severo a Severo Alessandro: Caracalla, Macrino, Eliogabalo. — Morto Severo, il senato riconobbe imperatori i figli, già colleghi del padre nell’impero: M. Aurelio Antonino e Publio Settimio Geta. Il principio ereditario era ormai così audace e forte da osar di dividere l’impero come un patrimonio privato tra i due figli dell’imperatore. Ma questa prima spartizione ereditaria riuscì poco felice. Il figlio maggiore a cui, dalla foggia preferita del mantello, la tradizione darà il nome di Caracalla, era un soldato prepotente, sospettoso, autoritario. Presto venne in discordia con il fratello; e senza perdere tempo in lunghe contese, lo fece uccidere. Indi, per cancellare questo assassinio — il primo, da Nerone in poi, che avesse insanguinato una famiglia imperiale — si buttò nelle braccia della soldatesca, esagerando il padre.

Umiliò il senato, più che non avesse fatto Settimio Severo, e par che escludesse quasi interamente i senatori dai comandi militari. Aggravò [124] le imposte[63], e continuò a peggiorare la moneta. Accrebbe alle legioni il soldo raddoppiando quasi di un balzo il bilancio militare[64]. Fece nell’esercito parecchie riforme, di cui alcune sembrano buone; fece guerre in Germania, che gli valsero il nome di Germanicus, e intorno alle quali troppo poco sappiamo per poter pronunciare un giudizio; si volse anche all’Oriente, dove pare sognasse di cogliere di nuovo gli allori di Alessandro Magno, che era la sua maggiore ammirazione. Incominciò annettendo l’Osroene e l’Armenia; sembra che chiedesse al nuovo re dei Parti, Artabano, la figlia in isposa, forse illudendosi di unire con quel mezzo l’impero romano e il partico; respinto con un rifiuto, preparò una grande campagna contro la Parzia; ma in mezzo ai preparativi, l’8 aprile del 217, cadde pugnalato da un veterano, vittima non si sa se del malcontento di un soldato o di quello del suo prefetto del pretorio o di una congiura di generali, non lasciando altra eredità fuorchè la memoria di un governo duro e violento. A questo governo però, in mezzo a molti eccessi, si deve la costituzione, che donava la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi delle province[65]. Si vuole, ma non è certo, che la riforma mirasse principalmente ad accrescere il gettito delle imposte; come è probabile che volesse spianare le ultime differenze tra l’Italia e le province, invise al dispotismo Severiano. Certo è invece, e qui sta la forza vera della riforma, che affrettò quell’imbarbarirsi del ceto governante, già incominciato da più di un secolo.

Morto Caracalla, le legioni acclamavano imperatore [125] il suo prefetto del pretorio, Marco Opellio Macrino, africano anch’egli e semplice cavaliere. Macrino è il primo personaggio dell’ordine equestre, che giunga all’impero. Ma per un oscuro cavaliere, che non aveva per sè nè la nobiltà dei natali nè la gloria di grandi gesta compiute, l’acclamazione dei soldati non era titolo sufficiente. Perciò, per quanto il senato fosse avvilito dagli eventi degli ultimi anni, Macrino cercò di ingraziarselo, per trovare nel suo favore una sembianza almeno di legittimità: amnistiò tutti i senatori condannati da Caracalla; annullò molti atti del suo predecessore, e tra questo le sue misure fiscali. Ma non pare riuscisse ad ottenere la convalidazione senatoria. Non riuscì neppure a supplire alla difettosa legalità del suo potere con la grandezza dei trionfi militari: vinto dai Parti, dovette per la prima volta acconsentire a pagare una indennità di guerra. Questa doppia debolezza precipitò la sua fortuna.

Alla morte di Caracalla, la madre Giulia Domna si era lasciata morir di fame, mentre la sorella Giulia Mesa e le nipoti, Soemia e Mamea, andavano a vivere, relegate da Macrino, in Emesa, nel tempio del Dio del Sole Eliogabalo. Il padre di Giulia Domna era stato sacerdote del Dio. Ciascuna delle due giovani donne aveva un figliuolo; Soemia, un Vario Avito Bassiano, giovinetto quattordicenne e sacerdote del Dio come il suo bisnonno; Mamea, un Alessiano. Approfittando della debolezza e delle sconfitte di Macrino e profondendo le ricchezze del tempio di Emesa, Giulia Mesa ottenne che una legione stanziata [126] nelle vicinanze di Edessa proclamasse imperatore Bassiano, persuadendola che era figlio di Caracalla (16 maggio 218). La rivolta si propagò rapidamente nelle legioni malcontente e affezionate alla progenie di Settimio Severo; Macrino fu abbandonato dai soldati ed ucciso; e in ventitrè giorni il giovine sacerdote di Eliogabalo era riconosciuto unico imperatore (8 giugno 218).

Il principe che, salendo all’impero, assunse il nome di M. Aurelio Antonino ma che passò alla storia con quello di Eliogabalo, regnò quasi quattro anni, sino all’11 marzo 222. Con lui le religioni orientali debellano la secolare opposizione di Roma: il che basta a spiegare le leggende certamente esagerate e in parte fantastiche, che corsero sul suo governo. Il nuovo imperatore mette in disparte la religione ufficiale di Roma; pone innanzi al titolo di Pontefice massimo quello di Sacerdos amplissimus Dei invicti Solis Elagabali, celebra una specie di mistico matrimonio tra il Dio Siriaco del Sole e la Dea Cartaginese Astarte, introducendo ambedue questi Dei nel culto ufficiale. Il sacerdote di un culto siriaco, guidato da donne, governa l’impero di Roma! Pericolo ancora maggiore, Eliogabalo non era uomo da conservarsi il favore delle legioni, che l’avevano innalzato alla carica suprema. Sotto il suo governo debole, inetto, tutto feste e cerimonie religiose, l’impero si indebolì ancor di più; crebbe nell’esercito l’indisciplina; le finanze precipitarono alla quasi totale rovina per le inconsiderate spese; un sordo malcontento minacciò sotto sotto il governo di questo sacerdote del Sole. Per rinforzarlo [127] un po’, la madre, la zia, e i soldati imposero al principe che si associasse il cugino, il giovane Alessiano, che, infatti, in età di appena dodici anni, fu assunto come collega, col nome di M. Aurelio Severo Alessandro. Ma Eliogabalo non era molto contento di dover temere in un collega un rivale possibile; e in varii modi e a più riprese cercò di toglierlo di mezzo. Sinchè alla fine, l’11 marzo 222, i soldati infuriati lo trucidarono, quando toccava appena i diciotto anni, insieme con la madre e gli amici.


50. Severo Alessandro (222-235). — Gli storici moderni possono pure, traviati dalla storiografia tedesca e dai suoi spiriti monarchici, ripetere che il senato romano era ormai un inutile rudere. Ma che il senato fosse la sola fonte della legalità, a cui potessero attingere autorità gli imperatori, si vide chiaro alla morte di Eliogabalo. Spaventata dalla crescente prepotenza dell’esercito, la famiglia di Settimio Severo si volge al senato, perchè l’aiuti a costituire un governo, la cui legittimità non sia dubbia e che perciò possa durare. Severo Alessandro non aveva ancora 14 anni. Egli sembra perciò essere stato guidato nei primi anni dalla madre, Giulia Mamea, che fu l’Agrippina di questo secondo Nerone. E come Agrippina, Giulia Mamea incominciò, e per le stesse ragioni, da una restaurazione della repubblica. Inspirato dalla madre, il giovine imperatore, che pure era nato in Fenicia, imita, esagerandolo, il governo di Traiano, di Antonino Pio, di Marco Aurelio. Rifiuta il titolo di dominus, abolisce il cerimoniale, [128] tratta i senatori come pari, affida al senato la scelta dei principali funzionari, compresi il prefetto del pretorio e i governatori delle province. Il consilium principis si riempie di senatori; l’aerarium è ricostituito accanto al fiscus; perfino nelle province imperiali i governatori sono assistiti da assessori, giuristi i più, che appartengono all’ordine senatorio; i consoli son designati dal senato; l’autorità dei procuratori imperiali è ridotta. Il senato è perfino purificato! L’ordine senatorio, insomma, riconquista il perduto, e l’ordine equestre perde l’acquistato, da Settimio Severo in poi. Il principe e il senato si alleano per tener testa all’esercito, come sotto Settimio Severo il principe e l’esercito avevano stretto lega per spossessare il senato.

Senonchè a questa ultima restaurazione senatoria i tempi e gli eventi non furono favorevoli. Verso il 224 o il 227 l’equilibrio, faticosamente mantenuto da Roma in Oriente, era sconvolto da un improvviso rivolgimento. Dalla caduta della monarchia medica erano passati otto secoli, pieni di eventi grandiosi: la unificazione di tutta l’Asia occidentale sotto lo scettro dei re persiani della dinastia dei Sassanidi; il duello tra la Persia e la Grecia; l’invasione quasi favolosa di Alessandro Magno; le guerre secolari dei Diadochi; la maturazione e consolidazione dell’impero ellenistico dei Seleucidi e la nascente fortuna della monarchia degli Arsacidi; il sorgere inopinato dell’astro di Roma e l’eclissi dei Seleucidi; infine l’interminabile duello ancora indeciso, dopo quasi tre secoli, tra Parti e Romani. A questo punto la [129] monarchia partica, che troppo aveva civettato con la cultura greca e troppo debolmente s’era opposta alle ambizioni di Roma e dell’Occidente, era rovesciata da una insurrezione persiana e nazionale che sostituiva un Ardeschir (Artaserse), un Sassanide anche esso, come Ciro il grande, all’ultimo Arsacide, all’Artabano, con cui Caracalla e Macrino avevano combattuto. Ma questo non era più uno dei tanti mutamenti di sovrani, che i Romani avevano sino ad allora sfruttati. Il nuovo impero persiano sorgeva nemico dell’Occidente e di Roma: non solo per rimettere in onore il vecchio culto iranico del Mazdeismo, che aveva avuto per profeta Zaratustra; non solo per combattere la coltura greca, ma per ricostituire l’antico impero persiano fino all’Asia Minore, alle Cicladi, alla Grecia, all’Egitto.

L’impero romano doveva fronteggiare inaspettatamente un nuovo nemico. E questo non perse tempo. Nel 231 il nuovo sovrano si gettava sulla Mesopotamia romana, con l’intenzione di conquistare addirittura l’Asia Minore e lanciava arditamente le sue avanguardie in Cappadocia e nella Siria. Da parte romana si tentarono le trattative, ma il re persiano dichiarò di considerare come appartenenti a lui tutti i territori che erano stati di Ciro, e chiese lo sgombero di tutta l’Asia. Alessandro dovè richiamare molte legioni del confine del Danubio, ordinare nuove leve, armarle rapidamente; e alla testa di un poderoso esercito si recò in persona in Oriente. Il piano di guerra, che i suoi generali avevano imaginato, era ottimo. Una colonna doveva invadere la Media attraverso [130] l’Armenia, anch’essa in guerra con il re di Persia; un’altra, procedendo attraverso la Mesopotamia inferiore, minacciare il cuore della Persia; una terza, disposta fra le due prime, procedere più lentamente attraverso l’alta Mesopotamia, per rincalzare quello degli altri due eserciti, che avesse avuto bisogno di aiuto. Innanzi a un così vasto spiegamento di forze Artaserse si ritirò, e si raccolse per attaccare all’improvviso l’esercito del sud, prima che potesse esser soccorso dall’esercito del centro. Riuscì infatti a sconfiggere e a costringere alla ritirata l’esercito romano che avanzava a sud, prima che l’esercito del centro arrivasse a sostenerlo, e indirettamente respinse anche l’esercito del nord, che invece aveva invaso la Persia, saccheggiando e catturando prigionieri; ma che non potè reggersi solo in paese nemico, quando gli altri due eserciti ripiegarono. La spedizione romana era dunque fallita, come invasione; ma era riuscita invece a liberare il territorio dell’impero, perchè non solo il Re di Persia si ritirò, ma riconobbe che non era ancora giunto il tempo di marciare verso il Mediterraneo come erede di Ciro.

Senonchè per arginare l’invasione persiana Severo Alessandro era stato costretto a richiamare molte legioni dal Reno e dal Danubio. I Germani ne approfittarono. Mentre la guerra infuriava in Oriente una coalizione di popoli germanici, a cui gli antichi dànno il nome di Alamanni, riuscivano ad entrare in Gallia; e i Marcomanni varcavano il Danubio. Alessandro dovè trasportare l’esercito in Occidente, far nuovi arruolamenti, [131] prepararsi a una seconda e più aspra guerra. Non volendo spossare l’impero già stanco, egli volle saviamente debellare i barbari dell’Occidente non con le armi soltanto, ma con i trattati e i sussidi. Senonchè i soldati erano da un pezzo malcontenti di Alessandro, che non li trattava e non li pagava come Caracalla e Settimio; e al loro malcontento riuscì comodo, per soddisfarsi in una rivolta, il pretesto dell’onore dell’impero. Alessandro fu trucidato insieme con la madre (gennaio, febbraio o marzo 235) da una sedizione militare, a capo della quale stava C. Giulio Vero Massimino, un valoroso Trace di origine oscura, molto devoto alla famiglia di Settimio Severo, ma che parlava malamente il latino. Le legioni lo proclamarono imperatore in Magonza.


51. Da Massimino a Gallieno: trent’anni di anarchia (235-268). — La famiglia dei Severi cadeva così, distrutta da quello stesso esercito che era stato lo strumento della sua fortuna. Ma la sua caduta segna il principio di un disordine terribile, perchè questa volta non si leva più un Vespasiano o un Settimio Severo a ricondurre prontamente nell’ordine le legioni, che si arrogano il diritto di scegliere l’imperatore e di imporlo con le armi. Con la morte di Severo Alessandro incomincia una guerra civile che, complicata da guerre esterne, sembra non terminar più, e che dura trentatrè anni: i più calamitosi che l’impero avesse mai attraversati, e la cui storia è impossibile narrare minutamente tanto è confusa ed oscura. Cercheremo di darne un’idea quanto più [132] chiara e concisa si possa. Massimino (235-238), innalzato al potere dalle legioni, non si curò che d’aver per sè i soldati; non chiese la convalidazione del senato; governò come se il senato non ci fosse. Il senato però c’era ancora; e non era punto disposto a lasciarsi trattare come un’anticaglia inutile da un Trace salito all’impero sulle spalle di una sedizione. Essendo stato, in Africa, proclamato imperatore il proconsole M. Antonio Gordiano, un ricchissimo senatore che a Roma aveva molti amici, il senato si affrettò a riconoscerlo. Gordiano prese come collega il figliolo dello stesso nome: Gordiano II. Ma Gordiano essendo stato vinto e ucciso dal governatore della Numidia, il senato nominò due imperatori M. Clodio Pupieno e Decio Celio Calvino Balbino: il primo, un valente uomo di guerra salito agli alti gradi da umili origini; il secondo, un senatore di grande lignaggio, molto stimato se pur mediocre. A questi fu aggiunto di lì a poco un terzo imperatore, un nipote di Gordiano, che portava lo stesso nome, e che il senato riconobbe, pare, perchè gli fu imposto da una specie di sommossa popolare. La capacità di Pupieno, il prestigio di Balbino e l’autorità del senato concorsero in un governo di una certa forza, il quale alacremente si diede ad apprestare armi e soldati contro Massimino, intento a combattere i barbari: quando s’accorse che il nuovo governo si rafforzava e che la fedeltà di parecchi governatori vacillava, Massimino venne in Italia; ma sotto le mura di Aquileia, che egli dovette assediare, un po’ la resistenza della città, un po’ la debolezza [133] della sua autorità, che non posava su nessun titolo, un po’ il prestigio del senato e la unanime rivolta dell’Italia, scossero la fedeltà delle legioni. Massimino fu ucciso dai suoi soldati nella primavera del 238.

Il senato aveva vinto; ma la sua vittoria fu breve. Pupieno e Balbino vennero in discordia; sorsero difficoltà con le legioni, a cui il senato voleva far sentire la sua autorità. Alla fine i due imperatori furono trucidati da una rivolta militare (238), e Gordiano III (238-244) acclamato dai soldati. Le legioni avevan preso la loro rivincita sul senato: ma quale autorità avrebbe il nuovo imperatore, che era giovane e non pare possedesse molta saggezza? Sopraggiungevano intanto tempi calamitosissimi. In questo stesso anno, nel 238, i Carpi e i Goti passano il Danubio; nel 241, i Persiani sotto Sapor, successo a Ardeschir, invadono la Mesopotamia e minacciano la stessa Siria. Fortunatamente Gordiano trovò nel suo suocero e prefetto del pretorio, C. Furio Sabinio Aquila Timesiteo, un uomo capace e fedele. Furio Sabinio riassettò l’esercito, e seppe ricacciare dall’impero così i Persiani come i Carpi e i Goti. Disgraziatamente Furio morì nel 243; e Gordiano lo sostituì con M. Giulio Filippo. Arabo di nazione e valente soldato, Filippo non intendeva di servire l’imperatore, come il suo predecessore; sobillò i soldati a chiedere che Gordiano lo nominasse collega nell’impero; e Gordiano riluttando ad acconsentire, lo fece trucidare da una rivolta.

Acclamato imperatore dai soldati, Filippo [134] l’Arabo (244-249) cercò di far legittimare dal senato la sua autorità; e ci riuscì. Ma l’autorità del senato era a sua volta troppo scossa, perchè da sola bastasse a legittimare un governo di origini così sospette e che sembra fosse inetto e fiacco. Filippo si trovò presto alle prese con vari pretendenti, improvvisati dal malcontento di questa o di quella provincia; finchè il malcontento delle legioni lo rovesciò. I Goti, respinti sotto Gordiano, erano tornati a rompere il confine dell’impero, e con tanta forza, che le legioni del Danubio, sfiduciate di Filippo, il quale si curava più di consolidarsi in Roma che di difendere le frontiere, acclamarono il governatore della Dacia e della Mesia, C. Messio Quinto Traiano Decio. Decio venne con l’esercito in Italia; e a Verona vinse e uccise Filippo (249).

Eletto per combattere i Goti, Decio (249-251) si affrettò a ripassar le Alpi, lasciando in Italia P. Licinio Valeriano con la carica di censore. Mentre egli combatterebbe i Goti, che avevano invaso la Tracia, Valeriano riordinerebbe l’amministrazione e rinvigorirebbe il senato. Ma non ebbe fortuna, perchè dopo diversi combattimenti, egli stesso era ucciso in un’ultima battaglia (251). Per la prima volta un imperatore romano cadeva combattendo contro i barbari.

Le legioni si affrettarono a proclamare il governatore della Mesia, C. Vibio Treboniano Gallo (251-253). Ma sebbene fosse un guerriero di grande reputazione, Gallo si affrettò a comprare la pace dai Goti a prezzo d’oro; e poi si recò in Italia. Senonchè i Goti non mantennero i patti e di nuovo [135] invasero la Mesia. Furono questa volta sconfitti dal governatore M. Emilio Emiliano; onde le legioni, a cui Emiliano aveva promesso i denari versati ai Goti, lo acclamarono imperatore (253). Gallo lo fece proscrivere, ordinò al governatore della Germania, quel P. Licinio Valeriano che era stato censore sotto Decio, di muovere contro il nuovo pretendente, ed egli stesso cercò di disputargli l’Italia, alla cui volta il rivale marciava. Prima che l’esercito di Germania arrivasse, i due pretendenti vennero a battaglia, e Gallo fu ucciso (253). Il senato riconobbe Emiliano. Ma le legioni di Germania avevano già proclamato imperatore il loro generale; e una nuova guerra certo sarebbe scoppiata, se Emiliano non si fosse guastato con i suoi soldati, e questi non lo avessero ucciso, riconoscendo Valeriano (253).

Erano tempi spaventosi. Una peste micidiale desolava l’impero, sul quale i nemici, ormai incoraggiati dal disordine interno, si precipitavano da tutte le parti. Tra il 254 e il 260 i Goti ritornano a invadere la Dacia, la Macedonia, l’Asia minore; una nuova gente germanica, i Sassoni, apparisce sul mare, corseggiando le coste della Gallia e della Britannia; gravi torbidi scoppiano in Africa e nuovi pericoli minacciano in Oriente, dove l’Armenia cade di nuovo sotto l’influenza persiana e la Siria è invasa dai Persiani. Valeriano non si sentì la forza di fermar da solo questo universale scoscendimento, e prese un provvedimento, dal quale incomincia la frantumazione dell’impero e l’irreparabile decadenza della civiltà antica. Nominò Augusto il figlio P. Licinio [136] Egnazio Gallieno (253-268) e gli assegnò le province occidentali, mentre egli serbava per sè le orientali. La grande opera di Roma, l’unità dell’Occidente e dell’Oriente, incominciava a vacillare. Ma neppur questo provvedimento giovò. Mentre Gallieno cercava, come poteva, di arrestare le incursioni dei popoli germanici nelle province d’Occidente, Valeriano tentava una grande spedizione contro la Persia, ma con poca fortuna; chè nel 259 o nel 260 era fatto prigioniero dai Persiani e andava a morire, non si sa come, nè quando, in cattività. Alla sparizione di Valeriano, che dei due Augusti era il più autorevole, seguì una dislocazione generale dell’impero. Già nel 258 in Gallia le legioni, spinte forse dalle popolazioni malcontente del governo di Gallieno, avevano proclamato imperatore M. Cassiano Latinio Postumo, mentre le legioni di Pannonia e di Mesia acclamavano imperatore Ingenuo. Postumo, che era un uomo energico, riescì a farsi riconoscere dalla Spagna e dalla Britannia, e a fondare un vero impero gallico-iberico che durò sino al 267, difese con vigore i confini e ridiede alle province da lui governate una certa sicurezza. Invece Ingenuo non riuscì a sostenersi nella Mesia e nella Pannonia; fu vinto da Gallieno e si uccise. Mentre l’Occidente si smembrava, l’Oriente, abbandonato a se stesso dopo la cattura di Valeriano, si difendeva come poteva contro i Persiani. Un generale di Valeriano, M. Fulvio Macriano, aiutato dalla ricca e potente città di Palmira e dal suo più potente e autorevole cittadino, Odenato, operando [137] di propria iniziativa con gli avanzi dell’esercito di Valeriano, era riuscito a cacciare i Persiani e a salvare le province più ricche. Ma incoraggiato da questo successo, pensò di impadronirsi dell’impero per i suoi due figli, che fece proclamare imperatori. Odenato invece, che Gallieno aveva nominato dux Orientis, restò fedele all’imperatore: onde, mentre in Occidente Gallieno era in guerra con Postumo, scoppiava un’altra guerra civile in Oriente che terminò con la disfatta e la morte di Macriano e dei suoi figli. Ma mentre le forze dell’impero si logorano in guerre civili, cresce la baldanza dei barbari. Nel 261 gli Alamanni riescono a invadere l’Italia, e Gallieno non li sconfigge che sotto Milano; poco dopo i Franchi invadono la Gallia e la Spagna, valicando il mare e spingendosi, pare, fino in Africa; i barbari dell’Europa orientale, i Borani, i Goti, gli Eruli, i Sarmati, saccheggiano tutte le coste del mar Nero, forzano i Dardanelli, e giungono anch’essi in Asia Minore ed in Grecia. Nel 267 gli Eruli bivaccano ad Atene, a Corinto, ad Argo, a Sparta. È facile capire quale disperazione dovette impadronirsi delle infelici popolazioni; e non è difficile spiegare, come, sentendosi abbandonata dal potere centrale, ogni regione, ogni provincia si ribellasse, illudendosi di poter difendersi da sè, nominando un proprio imperatore. Negli ultimi anni del governo di Gallieno i pretendenti, che la storia denominerà i Trenta tiranni[66], pullulano in tutte le province, così numerosi e così caduchi, che non se ne può raccontar la storia: finchè [138] nel 268 una congiura di generali uccide Gallieno, mentre assediava in Milano il pretendente, proclamato dalle legioni della Rezia: Aureolo.


52. Claudio II il Gotico (268-270) ed Aureliano (270-275). — Dei tre generali che cospirarono contro Gallieno, due — M. Aurelio Claudio e L. Domizio Aureliano — erano uomini di alto merito. Un grave motivo di pubblico interesse doveva dunque aver spinto questi uomini eminenti a toglier di mezzo con la violenza l’imperatore legittimo. Questo motivo deve esser cercato nel nuovo pericolo che minacciava l’impero: i Goti. Incoraggiati dalla crescente debolezza dell’impero e ammaestrati dall’esperienza, molti popoli germanici avevano fatto una potente coalizione sotto il nome comune di Goti e di Alamanni, e approntato grandi mezzi, per invadere e conquistare una parte dell’impero. Nella primavera del 268, un esercito, si diceva, di 320.000 uomini validi, dietro cui sciamava un numero doppio di donne, di vecchi e di fanciulli[67], passava sulla riva destra del Danubio, spingendosi verso Marcianopoli (a ovest di Varna); inondava la Macedonia orientale, la Grecia, le Cicladi, Rodi, Cipro, rimbalzando sulle coste dell’Asia Minore. Contemporaneamente, un altro esercito, in cui egualmente prevalevano i Goti, entrava in Mesia, e di qui per la valle della Morava invadeva la Macedonia. Il piano era chiaro: interporsi tra le province di Oriente e quelle di Occidente, e spezzare in due l’impero romano, conquistando la penisola balcanica. Non erano tempi in cui un imperatore debole [139] e inetto potesse reggersi. Roma aveva bisogno di una spada. Claudio, il generale più reputato e popolare, fu riconosciuto senza discussioni dagli altri generali, dalle legioni e dal senato.

Questa volta la scelta era stata felice. Non lungi dall’antica Naissus (Nisch), Claudio aggirò il grosso del nemico e lo distrusse (269); indi intraprese una guerra sterminatrice contro gli avanzi dell’esercito vinto. Dopo un anno i pochi superstiti furono installati in territorio romano, per coltivare le terre dei vincitori, o per militare a difesa dell’impero, inquadrati nelle coorti ausiliarie. Disgraziatamente Claudio sopravvisse poco alla vittoria, essendo morto a Sirmio verso il marzo 270, vittima della peste, che ormai da quindici anni devastava l’impero. Il generale che gli successe, acclamato dalle legioni della Pannonia, e che egli stesso aveva designato, L. Domizio Aureliano, era però, come Claudio, un grande uomo di guerra; e la sua scelta fu una vera fortuna per l’impero, perchè i Goti sconfitti da Claudio non erano che una avanguardia. Aureliano era appena eletto imperatore, che Jutungi, Vandali, Alamanni invadevano addirittura l’Italia; e al principio del 271 sconfiggevano un esercito romano presso Piacenza. Aureliano riusciva di lì a poco a distruggerli, ma solo a Pavia e a Fano; e l’impressione del pericolo corso dall’Italia fu tale, che Aureliano si risolvè a fare il primo grande sacrificio territoriale, che Roma consentisse dopo la disfatta di Varo: ad abbandonare il pericoloso saliente della Dacia, trasportando il [140] nome della provincia abbandonata a quella parte della Mesia, che si stende lungo la destra del Danubio (271); creando una Dacia Ripensis (capoluogo Sardica, Sofia), così come duecentocinquantacinque anni prima, perduta la Germania vera, erano state ritagliate in Gallia una Germania superiore ed una Germania inferiore. Raccogliendo le forze in un territorio più ristretto, Aureliano sperava di poter meglio difendere l’Italia. Ma il provvedimento non gli parve sufficiente; chè in questo medesimo anno comincia a costruire in Roma quella gigantesca cerchia di mura, lunga intorno alle 11 o 12 miglia, che avrebbe trasformato la Città eterna in una fortezza, e che gli uomini del secolo XX ammirano ancora.

L’impero, che Roma aveva conquistato in Occidente e che aveva salvato per due secoli le sorti del romanesimo, incominciava a sfasciarsi. Aureliano cercò dei compensi in Oriente. Qui Odenato, il dux Orientis che aveva conservato a Roma il suo impero Orientale, era morto nel 266 o 267; ma lui morto, del potere che egli aveva esercitato, si erano impadroniti la consorte, Zenobia, e il figlio Atenodoro (Wahaballath). I poteri di un dux Orientis non erano ereditari; e tanto meno poi trasmissibili ad una donna. Ma Gallieno aveva dovuto fare di necessità virtù, riconoscere a Zenobia l’autorità del marito, lasciar che essa le attribuisse un carattere orientale e monarchico, assumendo il titolo di regina. Senonchè Zenobia aveva preso ardire a cose maggiori, procedendo a costituire un grande Stato siriaco, come l’antica Cleopatra, che essa aveva presa a [141] modello; anzi a ricostituire addirittura l’impero dei Tolomei. Nel 269, si era impadronita dell’Egitto, senza che Claudio, occupato a combattere i Goti, potesse opporsi; e ora si studiava di estendere il suo dominio a occidente su tutta l’Asia Minore. Aureliano, quando ebbe assestato alla meglio le faccende di Occidente, si risolvè a liberar l’impero di questo pericolo. Nel 272 egli penetrava nell’Asia Minore e quindi nella Siria, espugnando successivamente Ancira, Tiana e Antiochia, e raggiungendo sotto le mura di Emesa l’esercito della regina che si ritirava. Qui fu combattuta la battaglia campale. L’esercito siriaco fa vinto, ma non distrutto; e potè chiudersi in Palmira, che Aureliano non prese se non dopo un lungo assedio. Poco dopo Aureliano riconquistava anche l’Egitto (273); e tutto l’Oriente tornava sotto lo scettro di Roma.

Le vittorie della Siria si sentirono anche in Europa. I pochi imperatori che ancora conservavano qua e là qualche lembo di territorio, come Tetrico in Gallia, sparirono; l’unità dell’impero — almeno quella formale — fu ricomposta, e Aureliano potè assumere il titolo di Restitutor Orbis. Cercò allora di curare le ferite dell’impero. Ma pur troppo doveva cadere vittima del suo zelo. Sullo scorcio del 275, era ucciso da una congiura di generali, le cui ragioni sono oscurissime.


53. L’ultima restaurazione dell’autorità del senato (276-282) e gli ultimi imperatori del III secolo, Caro, Carino, Numeriano e l’elezione di Diocleziano (282-284). — Ucciso [142] Aureliano, le legioni ricusarono di scegliere un imperatore e si rivolsero al senato perchè lo eleggesse. La sorpresa era singolare; ma non inesplicabile. Anche i soldati avevan capito alla fine che gli imperatori acclamati dalle legioni non potevano governare, perchè mancava loro un titolo legale indiscutibile della autorità; che neppure il genio e i più insigni servigi potevano interamente supplire a questa mancanza; che, mancando di legittimità, gli imperatori capaci e gli incapaci, Gallieno come Aureliano, erano egualmente esposti al pericolo di esser rovesciati da quella stessa forza illegale che li aveva inalzati. Disperato, tutto l’impero, le legioni comprese, si volgeva invocando l’ordine, la pace, la salvezza, verso il senato, che per tanti secoli era stato insieme con i comizi la sacra fonte della legalità in Roma. Ma un principio di autorità quasi disseccato non rinverdisce solo perchè gli uomini, stanchi del disordine, lo supplicano di aiutarli. Il senato era vecchio e stanco; dapprima, quasi insospettito, cercò di schermirsi; poi, costretto, s’indusse ad eleggere imperatore il più anziano dei suoi membri, il princeps senatus Marco Claudio Tacito (275-276), che a sua volta, in sulle prime, cercò ogni mezzo per schivare la porpora. Tacito cercò di governare come aveva governato Traiano: ma dopo pochi mesi era ucciso da una rivolta di soldati, malcontenti per la debolezza del suo governo; e di nuovo l’anarchia infuriò nell’impero, sprovvisto ormai di un principio di autorità. Alla morte di Tacito alcune legioni proclamarono il fratello suo M. Annio Floriano [143] (276); altre M. Aurelio Probo (276-282), uno dei più valenti generali di Aureliano. Probo ebbe il sopravvento, e cercò di governare al modo di Tacito, invocò e riconobbe l’autorità del senato, gli restituì il diritto di giudicare in appello nei processi penali, di nominare governatori e persino di ratificare le costituzioni imperiali; nel tempo stesso in cui con mano vigorosa provvedeva a difendere le frontiere. Ben forte doveva essere negli animi il terrore dell’anarchia, che la politica di Settimio Severo aveva scatenato nell’impero, se anche un soldato come Probo cercava di ricostituire pezzo a pezzo l’infranto edificio della potenza del senato!

Ma era troppo tardi. Probo non fu più fortunato di Tacito. Dopo aver dovuto lottare con parecchi pretendenti eletti nelle province, anche questo valoroso imperatore cadde vittima della non placata violenza delle legioni, nel 282. Le legioni gli diedero come successore M. Aurelio Caro (282-283) che si affrettò ad associarsi i due figli, Carino e Numeriano, e si accinse subito a far guerra alla Persia. L’impresa gli era riuscita felicemente; egli aveva già occupato Seleucia e Ctesifonte, allorquando, sulla fine del 283, dopo un anno di regno, chi disse un fulmine, e chi una congiura di militari, lo tolse di mezzo. L’esercito era stanco, come sempre, per le difficoltà della guerra persiana; Numeriano, che aveva accompagnato il padre e che gli successe, era, più che un soldato, un poeta. Fu quindi deciso il ritorno. Ma per via perì anche Numeriano. Questa volta si accusò apertamente il prefetto del [144] pretorio, il suo suocero Apro, di averlo ucciso. Venne subito ordinata un’inchiesta e composto un tribunale di generali; il quale scelse ad imperatore il comandante della guardia del corpo: C. Valerio Aurelio Diocleziano (17 settembre del 284)[68].


54. La crisi economica del III secolo. — Anche l’ultimo tentativo di ristabilir l’ordine nell’impero per mezzo dell’autorità del senato, questo sforzo supremo di trovare la via dell’avvenire ritornando al passato, era fallito. L’anarchia durava ormai da mezzo secolo, ogni anno più violenta, e così vasta e profonda quale il mondo antico non aveva ancor vista. Le guerre civili della repubblica erano state disordini piccoli e circoscritti a paragone, perchè gli elementi essenziali della civiltà antica non erano stati distrutti. Questa volta, invece, no; la crisi politica dell’impero era diventata una crisi storica, perchè così l’ellenismo come il romanesimo, le due forme più alte della civiltà antica, furono ambedue colpite a morte in quel mezzo secolo, e non si riebbero più. Le guerre, le invasioni, l’insicurezza generale, l’universale impoverimento, le epidemie incessanti avevano assottigliato la popolazione. L’ostinazione con cui anche i più savi tra gli imperatori continuarono a trapiantare barbari nei territori dell’impero, è la prova più manifesta del bisogno di uomini in cui versava l’impero. La diminuzione della popolazione travagliava, com’è naturale, la agricoltura e l’industria, e accresceva ancor più il generale impoverimento, che era una delle sue [145] cause. Gli agricoltori — coloni liberi, lavoranti, schiavi e piccoli possidenti — spariscono in gran numero; la piccola proprietà si assottiglia, il latifondo si dilata, le terre incolte si estendono. A sua volta, l’industria, così fiorente sotto gli Antonini e perfino sotto i Severi, soffrì profondamente; un po’ perchè molti artigiani erano periti, portando seco il segreto faticoso di arti perfezionate dal lavoro di molte generazioni, un po’ perchè la crescente povertà diminuì il consumo, un po’ perchè gli scambi fra Oriente e Occidente, tra province e province, così floridi e facili nei primi due secoli dell’impero, furono gravemente interrotti. Spariscono anche — e fu minore rammarico — giochi ed atleti, teatri e spettacoli. I teatri delle città minori cadono in rovina; quel furore di giochi e spettacoli molteplici, che diffondendosi da un capo all’altro dell’impero, l’aveva, per dir così, unificato nel piacere, illanguidisce, e si raccoglie in poche grandi città e in alcuni giochi e spettacoli superstiti, non i più fini ed eletti. Molte miniere si chiudono, massime le miniere d’oro, o per mancanza di braccia, o perchè i paesi sono invasi dai barbari. Alla rovina dell’agricoltura e dell’industria si accompagna, come è naturale, il dissesto del traffico. La poca sicurezza generale dell’impero, la difficoltà dei viaggi e dei trasporti, la cattiva moneta, la crescente povertà arenano il commercio. Ma mentre la ricchezza dell’impero scema, crescono i carichi. Un fiscalismo implacabile spolpa e scarnifica l’impero, per pagare le spese delle guerre civili ed esterne, per mantenere gli eserciti cresciuti [146] di numero e più esigenti, per lenire la miseria delle plebi urbane con lavori pubblici e con donativi. A tanti flagelli si aggiunge infine la cattiva moneta. Un po’ per rimediare alla scarsezza dell’oro, un po’ per far fronte alle spese pubbliche senza aumentare troppo le imposte, gl’imperatori alterano il peso e la composizione delle monete. Sotto Caracalla il peso dell’aureus era disceso a gr. 6,55; ma, dopo Severo Alessandro esso diviene tanto irregolare, che i pagamenti in oro si fanno a peso. Peggio accade per la moneta d’argento. Già le proporzioni della lega nel denarius e nell’antonianus argenteus, emesso per la prima volta da Caracalla, erano cresciute a dismisura negli anni successivi alla morte di Settimio Severo. Ma l’antonianus non ha più, sotto Claudio il Gotico, che il 4 o 5% di argento, e non si distingue dalla moneta di rame se non per il colore ottenuto mediante un lavaggio in un bagno di argento o di stagno[69]. Anche le monete di bronzo sono emesse con peso ridotto. Onde un salire e oscillare vertiginoso dei prezzi; una disperata scarsezza di capitale che si esaspera quanto più la falsa moneta abbondi; un impoverimento universale, aggravato dalla ingiunzione con cui parecchi imperatori costringono gli infelici sudditi a pagare le imposte in oro. Lo Stato rifiutava la cattiva moneta, di cui inondava l’impero!


55. La catastrofe dell’ellenismo e del romanesimo. — L’anarchia, le guerre civili, la rovina del commercio, dell’agricoltura, dell’industria, il [147] fiscalismo, intrecciandosi e sommandosi, avevano generato una delle crisi più memorande nella storia della civiltà umana. Sparisce in quella crisi, perchè è sterminata o impoverita o dispersa, quella aristocrazia, che durante il primo e secondo secolo, aveva retto, abbellito e incivilito l’impero, fondendo insieme l’ellenismo e il romanesimo; e con quella aristocrazia, l’ultima, la più numerosa e vasta tra quelle che si erano succedute nel mondo latino ed ellenico, cade lo stesso principio ereditario aristocratico, che della civiltà greca e latina era stato la colonna maestra. La parte delle ricchezze di questa aristocrazia che non andò distrutta, e il potere che essa aveva esercitato, trapassano ora a una nuova oligarchia di ricchi e di alti funzionari, civili e militari, che quel tremendo disordine ha portato su dalle classi più basse e dalle popolazioni più barbare dell’impero, ma che non riesciranno più a costituirsi in una aristocrazia ereditaria, disciplinata, ligia ad una tradizione secolare e ad una dottrina della vita, alta ma fissa, simile a quella che aveva fondato e retto l’impero romano. La civiltà antica ricevè quindi un colpo mortale, da cui non si riebbe più. Dopo cinquant’anni di anarchia, non solo tutte le industrie e tutte le arti, nelle quali la civiltà greco-romana aveva raggiunto tanta perfezione — la scultura come l’orificeria e come l’architettura, — si sono fatte più grossolane; non solo la cultura intellettuale in tutte le sue forme — filosofia, diritto, letteratura — si accascia illanguidita; ma la religione che era stata per tanti secoli in Grecia e in Roma [148] il fondamento dello Stato e del consorzio sociale, il paganesimo, è moribonda. I culti orientali, lungo tempo trattenuti dall’accorta e tenace resistenza dello Stato, irrompono da tutte le parti.

Questo rivolgimento spirituale ha generato così immensi effetti nella storia del mondo, che è necessario soffermarsi a indagare le ragioni per cui in questo secolo le popolazioni dell’impero abbandonano per le religioni dell’Oriente il politeismo greco-latino. Queste ragioni sono diverse: ma due paiono prevalere per importanza. Il mondo greco-latino era giunto a tale grado di maturità spirituale, da poter separare la filosofia e la morale dalla religione. Il paganesimo era quindi un corpo di favole e di riti, fuori del quale il pensiero aveva creato filosofie e dottrine etiche viventi per forza propria. Le religioni orientali invece non solo agivano sui sensi e commovevano il sentimento più fortemente che il paganesimo, con la pompa delle loro feste, con lo splendore delle processioni, con i canti, con lo spavento, le speranze, l’estasi, e il misticismo che scaturiva dai loro misteri. Ma supplivano alle scuole filosofiche, che i popoli orientali non erano giunti a creare; contenevano delle metafisiche; affrontavano il problema del destino dell’uomo, della vita, del mondo, dichiarando di averlo già sciolto[70]. In tempi in cui la cultura filosofica era tanto decaduta, queste religioni, che contenevano una metafisica e una etica, ambedue affermative, semplici, senza troppe discussioni, esenti da dubbi, dovevano sembrare — ed erano — superiori al paganesimo formalistico e un po’ vuoto, [149] che aveva bisogno di essere integrato da un’alta cultura filosofica.

L’altra ragione è politica. I culti orientali, essendo nati in paesi di assolutismo, contenevano quasi tutti una giustificazione mistica dell’autorità suprema, che nella anarchia del III secolo attrasse l’attenzione dei gruppi governanti l’impero. Questi, man mano che l’autorità del senato e la forza della tradizione romana vengono meno, cercano nella religione un principio mistico di legittimità, sul quale l’autorità imperiale posi più salda, che sul mobile favore delle legioni o sul capriccio della fortuna delle armi. La storia del mitraismo lo prova. Il mitraismo è l’antico mazdeismo dell’Iran, combinato con la teologia semitica e con altri elementi delle religioni indigene dell’Asia Minore: una religione, dunque, che veniva da un paese contro cui Roma lottava tenacemente da secoli. Eppure, nel terzo secolo, noi lo troviamo diffuso per tutto l’Impero, massime nelle province di confine, nella Gallia orientale e nella Germania occidentale, in tutte le province danubiane, in Dacia, in Numidia e nella sede stessa dell’impero, l’Italia settentrionale e centrale. Anzi a partire da Commodo, che primo tra gli Augusti romani si era fatto iniziare ai misteri di Mitra, e durante tutto il terzo secolo, il favore degli imperatori per il mitraismo cresce continuamente, finchè Aureliano, vendicando Eliogabalo, istituisce ufficialmente il culto del Sol Invictus, una specie, sembra, di mitraismo latinizzato. Si può dire che da Aureliano in poi, per parecchie generazioni, l’alta burocrazia dell’impero, civile [150] e militare, sia stata seguace del mitraismo, latinizzato alla meglio nella nuova religione di Stato. Come spiegare questo favore della nuova monarchia assoluta per una religione, che le sue origini avrebbero invece dovuto fare sospetta? Il mitraismo affermava che i monarchi regnano per grazia divina e, come tali, ricevono da Mitra i superiori attributi della divinità; che anzi, per la sua influenza onnipresente, ne divengono consubstanziali[71]. Il principio della legittimità è così trasportato dal senato alla Divinità.


56. Il Cristianesimo. — Ma la dottrina che in questo mezzo secolo si impadronì del corpo e dell’anima dell’impero fu il Cristianesimo. In questi cinquanta anni si diffuse in tutto l’impero e penetrò negli eserciti, in senato, a Corte, in tutti gli ordini sociali; conquistò poveri e ricchi, ignoranti e colti; e costituì una gerarchia semplice ma salda su principî rigorosamente autoritarî. In ogni Chiesa c’era un clero numeroso, composto di diaconi, che formavano il personale servente, degli anziani (πρεσβύτεροι) che componevano un consiglio dirigente, e del vescovo (ἐπίσκοπος) che era il capo della chiesa con poteri quasi assoluti. Il vescovo era eletto dal clero, consenziente l’assemblea dei fedeli ed a vita; eleggeva gli anziani ed i diaconi; ed era già ormai, all’epoca di cui parliamo, un personaggio autorevole della città. Il Cristianesimo può ormai lottare da pari a pari con l’impero.

Al principio del terzo secolo il Cristianesimo si confondeva con molte altre religioni [151] orientali, tenute d’occhio, ma più sprezzate che temute, dalla aristocrazia governante. Come si spiega questo suo rapido diffondersi in quel mezzo secolo? Con quella sua radicale negazione dei principî su cui il mondo greco-latino posava, che per più di due secoli l’aveva fatto odioso o spregevole agli occhi di tanti. La civiltà antica, in Grecia e in Roma, era stata aristocratica e politica. Essa aveva cercato di creare lo Stato perfetto, splendido, giusto, sapiente, che fosse l’organo delle virtù più alte dello spirito umano nelle mani di piccole oligarchie di «ottimi», a cui l’eccellenza sopra la comune natura umana imponeva obblighi più alti e più gravi. Non l’eguaglianza, ma la diseguaglianza morale degli uomini era il principio su cui lo stato antico posava. Il Cristianesimo affermando la eguaglianza morale tra gli uomini, tutti figli del medesimo Dio, distruggeva dalla radice ogni forma aristocratica della società e del governo; e ponendo lo scopo della vita in un ideale di perfezione personale, dichiarava di nessuna importanza quella perfezione e quella potenza dello Stato, in cui gli antichi avevano raffigurato il massimo dei beni. Che importava se le città o l’impero erano bene o mal governate, quando un uomo, obbedendo a Dio e vivendo virtuosamente, poteva raggiungere la perfezione? Il male fatto dai potenti noceva soltanto a chi lo faceva, poichè essi dovrebbero renderne conto a chi era più potente di tutti i grandi della terra. Finchè l’impero fu forte e prospero; finchè il potere fu tranquillo e pieno di dolcezze; finchè l’aristocrazia [152] che lo governava godè di un grande prestigio, queste dottrine non si diffusero molto. Ma quando, nel terzo secolo, l’aristocrazia è distrutta e lo sforzo di tanti secoli per creare lo Stato perfetto, giusto, sapiente mette capo alle più orrende dittature della violenza, al più spietato fiscalismo, alle continue guerre civili, alla anarchia permanente, all’universale insicurezza, le dottrine cristiane sembrano le sole, che sciolgano tutti gli insolubili enigmi del tempo. Disperando di poter curare i mali orrendi dell’impero, gli uomini fanno buona accoglienza ad una dottrina che insegnava loro questi mali esser di poca importanza; e che ognuno poteva trovare in se stesso la perfezione, la felicità, la salvezza.

Le numerose istituzioni d’assistenza e di beneficenza, che il Cristianesimo aveva fondate, ne aiutarono molto le fortune. Ovunque le comunità cristiane provvedono alle vedove, agli orfani, ai malati, ai vecchi, agli impotenti, ai condannati per la causa di Dio, al riscatto dei prigionieri, alla cura degli schiavi, alla sepoltura dei poveri, all’ospitalità dei correligionari forestieri, ai soccorsi in favore delle comunità povere o in pericolo. I beni che le comunità cristiane possedevano erano stati in gran parte donati dai ricchi, molti dei quali, in vita o in morte, trasferivano alla Chiesa parte o tutta la loro fortuna. La Chiesa veniva quindi raccogliendo una gigantesca manomorta, i cui frutti essa spendeva, parte a beneficio proprio, parte a pro dei derelitti e dei poveri. Non è difficile imaginare quale formidabile strumento di potenza fosse questo patrimonio [153] e le istituzioni di assistenza e di beneficenza che su quello posavano, in mezzo alla crisi, alla miseria, alla generale insicurezza del terzo secolo. Le chiese cristiane apparvero allora a molti come un porto sicuro nella tempesta. Mentre gli spiriti eletti giungevano al Cristianesimo attraverso la prova del dolore proprio, o la visione del dolore altrui, attraverso il disgusto del mondo sconvolto e contaminato, in uno sforzo affannoso verso la pace e la beatitudine, molti erano attratti alla nuova fede dal bisogno dell’assistenza, di cui la Chiesa era larga con i derelitti. Il Cristianesimo era dunque ormai una potenza spirituale e terrena. Senonchè, a differenza del mitraismo, esso non godè punto il favore degli imperatori. Se sarebbe esagerazione il dire, come si fa da alcuni, che tutti gli imperatori del terzo secolo furon avversi ai cristiani, certo è che il Cristianesimo ebbe a soffrire sotto alcuni di questi — come Decio e Valeriano — fierissime persecuzioni, e che fu sempre considerato dai poteri pubblici con una diffidenza ostile, a cui contrasta il favore accordato al mitraismo. Lo spirito stesso del Cristianesimo spiega questa diffidenza. Non è dubbio che il Cristianesimo fu per l’impero una forza dissolvente. A mano a mano che i tempi si facevano torbidi, il Cristianesimo prendeva coraggio a sostenere, con maggiore o minor fervore secondo le diverse sètte, che il cristiano deve fuggire le pubbliche cariche, gli onori, gli uffici, che mettono a repentaglio la sua fede. Egli non può curare i templi, disporre i giuochi del Circo, giudicare e processare i suoi concittadini; egli non può quindi — salvo [154] a scontarlo con la perdizione dell’anima — divenire magistrato. Il mondo, in cui gli altri vivono e tripudiano, è l’albergo di una religione e di una civiltà, che Cristo ha maledette, e nessuna sua gioia e nessun suo dolore può indurre a parteciparvi il perfetto cristiano, il quale, anzi, non anela che a uscire il più presto possibile da questa valle di colpe e di lagrime. A fil di logica, il dovere del cristiano sarebbe dunque quello di distruggere l’Impero. Se egli non lo fa, gli è perchè — afferma Tertulliano — il cristiano possiede a fondo la dottrina e la consuetudine della mitezza.

Come operassero simili dottrine, in un tempo in cui le cariche pubbliche diventavano così pericolose, si imagina facilmente. Il Cristianesimo distruggeva l’impero con l’astensione; togliendo al governo un grande numero di uomini intelligenti, colti, onesti, zelanti delle classi superiori. Molti cittadini, che avrebbero potuto e, secondo le antiche dottrine, dovuto assumersi le pubbliche cariche, preferiscono donare il loro patrimonio alla Chiesa e rifugiarsi nella religione; altri sfuggono alla responsabilità del potere per vie diverse, di cui taluna sarà anche deplorata dagli imperatori cristiani[72]; il celibato cresce più che sullo scorcio della repubblica. Ma anche più dei servizi civili soffriva l’esercito. Già nel secondo secolo, il Cristianesimo aveva affermato che «non è lecito essere uomo di spada, dopo che il Signore ha dichiarato che chi ferisce di spada ne perirà, e che il Figlio della pace, cui non conviene neanche impegnarsi [155] in un litigio, può ancor meno impegnarsi in battaglia»; che «il Signore, disarmando Pietro, manifestò chiaramente il suo volere che ogni soldato dovesse deporre la spada»; onde al militare cristiano nessun’altra via rimane, fuorchè quella di «abbandonare subito l’esercito» o «risolversi a soffrire per Cristo la stessa sorte di ogni altro Cristiano»[73]. I Canoni della Chiesa di Alessandria sconsigliano l’arruolamento volontario, fondamento dell’esercito romano; ed affermano autorevolmente «non convenire ai cristiani di portare le armi». Lo stesso Lattanzio ragguaglia e vieta l’ufficio del carnefice e la guerra, chè al precetto divino, che proibisce di uccidere, «non può farsi veruna eccezione». Sant’Agostino infine dice che al cristiano è indifferente vivere sotto questo o quel regime, purchè lo Stato non lo obblighi a commettere azioni empie ed inique[74].

Quando Diocleziano è assunto all’Impero, gli elementi più vitali dell’ellenismo e del romanesimo sono ormai morenti. Tutta la cultura antica, il paganesimo, le dottrine politiche e morali del mondo antico agonizzano, l’impero è in parte già distrutto, in parte pericolante. L’opera della Grecia e di Roma sta cadendo, distrutta dai nemici esterni, dalla sfrenata violenza delle legioni, dal Cristianesimo, che per far largo alla sua morale più alta e alla sua più nobile concezione della vita, doveva sconvolgere dalle fondamenta l’ordine di cose costituito. A questa dissoluzione, effetto nel tempo stesso di forze distruggitrici e di [156] forze rigeneratrici, l’impero cerca di reagire spingendo innanzi e incalzando al governo le popolazioni più rozze dell’impero e rinnovando i vecchi culti orientali, mistici e pieni di spirito assolutista. Quando Diocleziano vestì la porpora, l’impero greco-romano di Traiano e di Adriano si è già quasi interamente convertito in un impero barbarico-asiatico. Lo strano destino che era riserbato a questo impero barbaro-asiatico, che stava cercando la via della salvezza e dell’avvenire in un lontano passato — nei culti e nelle istituzioni monarchiche dell’Asia, quali avevano fiorito prima del meraviglioso splendore della Grecia e di Roma — sarà raccontato nell’ultima parte di questa opera.

Note al Capitolo Settimo.

63.  Dion. Cass., 77, 9.

64.  Dion. Cass., 77, 10; 77, 24; 78, 36.

65.  Dion. Cass., 77, 9; Dig., 1, 5, 17; Aug. De Civit. Dei, 5, 17.

66.  I nomi, con una breve storia di ciascuno, si trovano nel libro apposito della Historia Augusta, che si intitola Tyranni triginta e che è opera di Trebellio Pollione.

67.  [Hist. Aug.], Claud., 6 e 7.

68.  È la data riferita dal Chron. Pasc. I, pag. 510, ed. Bonn.

69.  Cfr. Lenormant, Aureus, in Daremberg et Saglio, Dictionnaire des antiquités, I, 533 e 566; Macchioro, in Rivista di storia antica, 1906, pag. 293.

70.  Cfr. Boissier, La réligion romaine d’Auguste aux Antonins, Paris, 1902, I, 354 sg.; Cumont, Les réligions orientales dans le paganisme romain, Paris, 1906.

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71.  Cumont, Les mystères de Mithra, Bruxelles, 1902, pag. 84.

72.  Cod. Theod., XII, 1. 104 e 115.

73.  Tertull. De Corona, 11; de idol., 19.

74.  Aug. De Civit. Dei, 5, 17. Sui rapporti tra Il servizio militare e i primitivi cristiani, cfr. G. Adami, in Bilychnis, rivista di studi religiosi, 1913, pg. 196 sgg. Sui rapporti tra Cristianesimo e Stato romano cfr. L. Salvatorelli, Il pensiero del Cristianesimo antico intorno allo Stato, dagli Apologeti ad Origene, in Bilychnis, 1920.

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CAPITOLO OTTAVO DIOCLEZIANO

(284-305)

57. Diocleziano e Massimiano: la spartizione dell’Impero (284-293). — Anche il successore di Caro era un Dalmata, come Claudio e Aureliano, sebbene di natali ancora più oscuri. Chi lo diceva persino figlio di un liberto. Era stato nell’esercito fin dai più giovani anni, e s’era allenato alla scuola di tre grandi generali, Claudio, Aureliano, Probo. Ma quel barbaro era un grande uomo.

Appena eletto, ebbe a sostenere una guerra civile con Carino, che frattanto aveva combattuto contro gli Jazigi. Le due parti si prepararono per parecchi mesi e si affrontarono nella primavera del 285 sulla Morava. Par che Diocleziano avrebbe avuto la peggio, se Carino non fosse stato ucciso da uno dei suoi ufficiali. Ma la nuova guerra civile aveva scatenato i soliti disordini. Le province, abbandonate per parecchi mesi a loro stesse, avevano incominciato a proclamare nuovi pretendenti. Nella Gallia era scoppiata una insurrezione di contadini rovinati e di debitori insolvibili, la così detta insurrezione dei Bagaudi. [160] I barbari ricominciavano ad agitarsi alle frontiere, a corseggiare le coste della Gallia e della Britannia. Diocleziano capì che un solo imperatore non poteva bastare a tutto; e poco dopo, a quanto sembra nella seconda metà del 285, chiamò a dividere le sue fatiche uno dei suoi compagni d’arme, Massimiano, figliuolo di un colono pannonico dei dintorni di Sirmio. Massimiano era un valente soldato, ma null’altro che un soldato, di scarsa coltura; onde è da credere che Diocleziano da principio volesse far di lui non un collega, ma un luogotenente fido e sicuro. Infatti Massimiano ricevè, non il titolo di Augusto, bensì quello di Cesare; e mentre, per dare una consacrazione religiosa alla loro autorità, Diocleziano prendeva il titolo di Jovius, Massimiano prese quello di Herculius. Anche tra i due Dei, sotto la cui protezione i due capi dell’impero erano posti, correva un rapporto di superiore a inferiore. Ma in poche settimane Massimiano soffocò la insurrezione dei Bagaudi; e questo felice successo fece mutare idea a Diocleziano. Nel 286 egli conferì il titolo di Augusto a Massimiano, e quindi equiparò, almeno in teoria, i poteri dei due principi, senza però rompere l’unità politica e legislativa dell’impero. Se ciascuno dei due Augusti aveva un suo esercito, un suo prefetto del pretorio, un suo bilancio speciale (non però forse uno speciale Consilium principis), le leggi e la moneta rimanevano comuni, gli atti pubblici portavano entrambi i loro nomi. Quello di Diocleziano era primo, come prevalente ovunque era la sua volontà, per la maggiore autorità e capacità, [161] non per un potere più grande. Divise erano l’amministrazione e la difesa militare, ma anche queste senza limiti invalicabili; giacchè nessuno dei due Augusti non esiterà mai ad entrare, per qualsiasi ragione, nei territori all’altro affidati.

Insomma a capo dell’impero stava non più un imperatore, ma due, di egual potere, come per tanti secoli a capo della repubblica due consoli. La riforma era necessaria. Novamente, approfittando della insurrezione dei Bagaudi, Eruli, Burgundi, Alamanni passavano il Reno, e, quel ch’era peggio, il comandante della flotta, incaricato di dar la caccia ai pirati Sassoni e Franchi, — un tal Carausio — si intendeva segretamente con costoro, e, condannato a morte da Massimiano, insorgeva; prendeva il titolo di Augusto in Britannia, si impadroniva dell’isola e di qualche città costiera della Gallia, e creava una flotta poderosa, al riparo della quale sfidava l’autorità dei due Augusti legittimi. Nè le cose andavano meglio in Oriente, dove l’impero continuava ad essere minacciato, come era da circa trent’anni, ossia da quando Roma aveva perduto il suo maggior baluardo orientale contro il nuovo impero dei Sassanidi: l’Armenia. Due imperatori, uno in Oriente ed uno in Occidente, non erano di troppo. Difatti, mentre Massimiano respingeva con successo sul Reno la nuova invasione germanica, Diocleziano cercava di rimetter piede in Armenia, più con gli intrighi che con le armi. Il momento era favorevole; l’impero persiano era indebolito da una guerra civile, al punto che il Re Bahram aveva mandato ambasciatori a Diocleziano a sollecitarne [162] l’amicizia; l’Armenia era stanca e malcontenta del dominio persiano; l’erede legittimo della corona armena, Tiridate, viveva in non volontario esilio, a Roma. Aiutato da Diocleziano Tiridate, con una sorpresa ben preparata, e approfittando degli imbarazzi del Re di Persia e del malcontento dell’Armenia, potè senza resistenza riprender possesso del reame dei suoi padri. L’Armenia era di nuovo sotto l’influenza romana. Il re dei Persiani, non essendo in grado di far guerra, s’acconciò a riconoscere il fatto compiuto.


58. La tetrarchia e la nomina di Galerio e di Costanzo a «Cesari». — Questa vittoria rassicurava alquanto l’Oriente, dove però compariva un nuovo nemico — e cioè i Saraceni, che dal deserto siro-arabico piombavano, rapinando, sul territorio romano; e dove l’Egitto si agitava, per ragioni poco chiare. Ma le difficoltà non diminuivano invece in Occidente. Qui Massimiano non era riuscito ad aver ragione di Carausio, che aveva arruolato un forte esercito di Franchi e di Sassoni; nuove agitazioni e migrazioni tornavano a minacciare dalla Germania, dove Goti, Vandali, Gepidi, Borgognoni si facevano guerra. Nell’Europa orientale si moveva anche la Sarmazia, l’antica Slavia; in Numidia, in Mauretania, ricominciava il fermento tra gli indigeni. Si sforzavano i due Augusti di tener testa a tutte queste difficoltà, volando dall’uno all’altro capo dell’impero, conferendo a questo o a quel generale poteri militari e civili amplissimi, facendo talora [163] di necessità virtù e riconoscendo Carausio, poichè non potevano vincerlo, come terzo Augusto. Ma qualche anno di prova bastò a convincere Diocleziano e Massimiano, che neppur due Augusti erano sufficienti al compito: onde nel 293[75] Diocleziano si risolvè a spartire ancora l’amministrazione dell’impero, attribuendo ai due Augusti due nuovi collaboratori ufficiali, di un grado inferiore: due Cesari. Con questa riforma egli sperava di difendere meglio le frontiere, di rinvigorire l’amministrazione, di prevenire le ambizioni pericolose e di risolvere anticipatamente la questione della successione, che tanto aveva tormentato l’impero. Alla morte di un Augusto, il suo Cesare ne avrebbe preso il posto, nominando a sua volta un altro Cesare. I due ufficiali, chiamati a così alto onore, furono, il Cesare di Diocleziano, Galerio, un Dace, tempra rude, ma energica di soldato; l’altro, invece, il Cesare di Massimiano — Costanzo — soprannominato, dal suo pallore, Cloro, discendeva per parte di madre da Claudio il Gotico; era quindi il discendente di una famiglia cospicua, uno spirito colto, mite e un aristocratico, in mezzo alla torma dei parvenus, che governava l’impero. Le province furono distribuite tra i quattro imperatori. Diocleziano tenne per sè la parte più orientale dell’impero: la Bitinia, l’Arabia, la Libia, l’Egitto, la Siria; Galerio ebbe la Dalmazia, la Pannonia, la Mesia, la Tracia, la Grecia e l’Asia Minore; a Massimiano toccarono Roma, l’Italia, la Rezia, la Sicilia, la Sardegna, la Spagna e tutta la restante Africa; Costanzo ricevè la Britannia e la Gallia. [164] I quattro capi dell’impero avrebbero dovuto risiedere non in Roma, ma sulle principali linee di confine: Diocleziano in Nicomedia (in Bitinia), Galerio a Sirmio (in Pannonia), Massimiano a Milano, Costanzo a Treveri (in Gallia).


59. La nuova monarchia assoluta e il suo carattere religioso. — L’impero però non era diviso. La unità politica e legislativa rimaneva, come prima, intatta. I due Cesari erano subordinati ai due Augusti; e tra i due Augusti, se Diocleziano era il più autorevole, la concordia era perfetta. Cosicchè, se la legislazione è fatta in nome dei quattro sovrani, la mente ispiratrice e coordinatrice è sempre Diocleziano. Ma la riforma assume un carattere religioso, a cui gli storici non hanno sempre badato a dovere. Come già un tempo Massimiano era stato adottato, quale figliuolo, da Diocleziano, così ora i due Cesari ricevono il nome e l’adozione dei due Augusti. Inoltre i due Cesari repudiano le loro consorti e sposano le figlie dei due Augusti, che li hanno adottati come figli; e come, al principio della loro rispettiva assunzione all’impero, Diocleziano e Massimiano avevano preso, l’uno, il titolo di Jovius, l’altro, quello, subordinato, di Herculius, così ora la famiglia del Cesare dell’uno e quella del Cesare dell’altro vengono rispettivamente, ad appartenere alla stirpe dei Jovii e degli Herculii. Non è dubbio che nell’imaginare questo ordinamento del supremo potere Diocleziano si è inspirato al grande esempio degli Antonini e dell’adozione, quale fu praticata nel secondo secolo, [165] sperando di poter ridare all’autorità imperiale la stabilità di cui in quel secolo godè. Ma il principio antico fu da lui adattato ai tempi. Così, risolutamente, una volta per sempre, è fissato il principio della divinità degli imperatori. Essi sono a Diis geniti et deorum creatores; i sudditi e l’esercito giurano nel loro nome, come un tempo giuravano per Giove o per Ercole; e la divinità, dalla quale essi e l’impero traggono forza e favore, è precisamente il Dio del Sole, che sui sovrani esercita la sua soprannaturale influenza: il persiano Mitra, dispensatore dei troni e degli imperi[76]. Inoltre questa nuova maestà divina dell’impero è inculcata nella coscienza dei sudditi per il veicolo dei sensi. Il sovrano porterà in capo il diadema come i grandi monarchi orientali; un diadema radiato come il Sole, che l’illumina del proprio favore. Le sue vesti e i suoi calzari saranno cosparsi di pietre preziose. Nè egli sarà più, come Augusto, Traiano o Vespasiano, un semplice mortale, che sia lecito accostare in ogni giorno e ad ogni ora. Per rivolgere a lui la parola, occorrerà osservare le norme di un apposito protocollo, e, allorchè si sarà venuti alla sua presenza, sarà mestieri inchinarlo in una specie di adorazione. L’assolutismo orientale trionfa finalmente sulle rovine dell’ellenismo e del romanesimo per tanta parte distrutto dal grande rivolgimento del terzo secolo, nell’impero ormai in gran parte popolato e governato dai barbari.


60. La riforma dell’ordinamento provinciale. — L’impero romano è ora veramente governato dall’assolutismo [166] asiatico. Forse Diocleziano non trascurò di notificare al senato la propria e le successive elezioni imperiali, o di rispettare molte forme, rese auguste dalla tradizione. Ma il senato, come corpo politico, è escluso dal governo, e trattato come un corpo consultivo, di cui si può ascoltare il consiglio senza essere obbligati a seguirlo. Il senato non ha più province da amministrare, è escluso dal governo effettivo e sostituito dal Consistorium principis; un corpo nuovo, di cui fanno parte i grandi ufficiali dello Stato, il quale esamina, come l’antico senato, questioni di carattere legislativo.

Riforma più importante, Diocleziano divide definitivamente il potere civile dal potere militare, assegnando a ogni provincia un praeses o governatore civile e affidando il comando delle forze militari ad un certo numero di duces. Questa riforma può sembrare in contradizione con le strettezze pecuniarie dell’impero. Mentre queste imponevano l’economia, il bipartire la amministrazione richiedeva un aumento notevole di spesa. Ma le necessità politiche che spinsero Diocleziano su questa via erano troppo forti, perchè egli potesse spaventarsi per la spesa. Da una parte, dividendo i poteri civili dai militari, egli mirava a far più deboli così il praeses come il dux e a render quindi più difficili quelle proclamazioni di imperatori nelle province che erano state il flagello del terzo secolo. Dall’altra cercava di riparare alle deficienze dell’elemento militare che, reclutato nelle popolazioni [167] più rozze, non sempre possedeva le qualità necessarie per governare le province, in un impero che, per quanto decaduto, era l’erede di un’antica tradizione di coltura. La separazione del potere militare e del potere civile, che noi annoveriamo tra i grandi progressi civili, apparisce nella storia della nostra civiltà come un espediente di tempi calamitosi; e dovette sembrare ai contemporanei piuttosto un segno di decadenza, perchè l’unità dei due poteri era stato uno dei principî cardinali delle antiche aristocrazie e una delle ragioni della forza romana. Nè Diocleziano si contentò di dividere il potere; frantumò anche le province, dividendole e suddividendole come nessuno dei suoi predecessori aveva fatto: sicchè per l’anno 297 noi conosciamo 96 comandi civili per le province in luogo di 57 quanti egli ne aveva trovati alla sua assunzione. Nel tempo stesso, per impedire che questo spezzettamento delle province indebolisse l’impero e la forza dell’autorità centrale, egli creò le Diocesi. Le Diocesi erano state fino ad allora delle suddivisioni, finanziarie e giudiziarie, delle province. La diocesi Dioclezianea raggruppa parecchie province in una superiore circoscrizione, agli ordini di un magistrato nuovo, il vicarius. Erano dodici di numero: 5 in Oriente e si chiamavano Oriens, Pontica, Asiana, Thracia, Moesia; 7 in Occidente, con il nome di Pannonia, Britannia, Gallia, Viennensis, Italia, Hispania, Africa. Cosicchè d’ora innanzi a capo dello Stato ci saranno due Augusti con due Cesari a loro subordinati. Immediatamente al di [168] sotto degli uni e degli altri ci sono i dodici vicarii, e al loro fianco, alla pari, i proconsoli, governatori di talune province privilegiate; finalmente al di sotto dei vicarii i praesides, o talora, dei consulares o correctores, secondo variamente sono denominati i governatori delle nuove province ridotte. Accanto a questa gerarchia civile stanno poi i duces, con competenze territoriali, determinate da esigenze militari e non necessariamente corrispondenti all’ambito delle province o delle diocesi.

L’impero così diviso e ordinato aveva bisogno di un personale adeguato. Diocleziano è nell’impero il primo organizzatore di quella che si potrebbe chiamare la burocrazia egualitaria, che sostituisce l’antica aristocrazia. L’impero è ormai governato non più da una aristocrazia ereditaria, le cui famiglie hanno nel tempo stesso il diritto e il dovere di esercitare le cariche più alte dello Stato senza ricevere un adeguato compenso; ma da una burocrazia, reclutata in tutte le classi e in tutte le popolazioni dell’impero, nella quale il merito e il favore dei capi sono il solo titolo per riuscire, e che vive dei suoi stipendi come della propria sostanza o professione. L’imperatore è il capo e l’arbitro di quella burocrazia.

L’Italia non è più nell’impero che un territorio provinciale, di nuovo soggetto, come prima della guerra di Perseo, all’imposta fondiaria, salvo — estremo angolo privilegiato — la Campagna romana fino a 100 miglia dalle mura della città. L’eguaglianza diventa il principio del nuovo governo, sulle rovine dell’antica aristocrazia.

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61. La riforma militare e la riforma delle finanze. — Ingegno organico e costruttivo, Diocleziano non attuava una riforma senza prevedere le necessarie concatenazioni e senza provvedere. L’aumento dei capi dello Stato e la loro dislocazione in quattro centri strategici, la separazione del potere militare dal civile non potevano bastare alla difesa dell’impero. Diocleziano quadruplicò la guardia del corpo degli imperatori, aggiungendo agli antichi i nuovi pretoriani che si diranno i milites Palatini o Comitatenses; aumentò gli effettivi militari accrescendo l’esercito di circa un terzo, da 350.000 a 500.000 uomini[77]. Insieme con i soldati, crebbero gli officiali, e in misura ancora maggiore; perchè, per meglio dominare ciascuna legione e per bilanciare la potenza dei duces, l’effettivo delle legioni fu diminuito e moltiplicato il numero dei tribuni militari.

Ma l’aumento delle Corti, della burocrazia e dell’esercito richiedeva maggiori spese. Anche a questo Diocleziano provvide con molta sagacia. Incominciò a decretare quello che noi oggi chiameremmo un nuovo catasto; introducendo poi un ordinamento fiscale, uniforme per tutte le province, ma che teneva conto delle qualità del terreno, creando una nuova unità fiscale, denominata secondo i luoghi, iugum, caput, millena, centuria, la quale comprendeva terre di natura diversa e di diversa estensione, ma doveva avere un identico valore fiscale e quindi fornire l’identica contribuzione. Così, ad esempio, 5 iugeri di vigneto o 20 iugeri di terre coltivabili di prima qualità facevano un iugum, mentre a farlo occorrevano [170] 40 iugera di seconda qualità e 60 di terza; e per ogni coltura ce ne voleva di più, se si trattava di terreno montuoso, di meno, se di terreno pianeggiante[78]. Il modo della esazione fu regolato con grande cura. La somma imposta dallo Stato a una circoscrizione fiscale, comprendente perciò un certo numero di iuga, era notificata ai decurioni (i membri del piccolo senato di ciascuna città), i quali ne ripartivano l’ammontare tra i proprietari e i locatari del suolo pubblico (possessores), esclusi i detentori di piccolissime terre, e ne curavano direttamente l’esazione, essendo responsabili dei versamenti. Il sistema tributario era ottimo e garantiva pienamente lo Stato. Ma col sopraggiungere dei giorni tristi, avrebbe rovinato alla fine un intero ordine sociale, il più agiato, e con questo l’amministrazione delle singole città, che non avrebbero più trovato uomini, pronti ad assumerla.


62. L’Editto sui prezzi. — Diocleziano, dopo tanto falsificare di monete a cui si erano abbandonati i suoi predecessori, coniò di nuovo delle monete buone: un aureus di 1⁄50 di libbra (=gr. 5,45), un argenteus minutulus (un sostituto del vecchio denarius) di 1⁄96 di libbra (=gr. 3,40); ma non potè risanare la circolazione, inquinata da masse enormi di denarii di bassa lega, argentati invece che d’argento; cosicchè la moneta cattiva scacciando la buona, la misura dei valori economici continuò ad essere incerta o falsata, con infinita iattura della buona fede e dell’onesto lavoro. Le oscillazioni dei prezzi, in tanta incertezza [171] del vero valore della moneta, continuarono ad essere tali e così tormentose per tutti, a cominciare per lo Stato il quale non poteva più calcolare, come Diocleziano stesso ci fa sapere, le sue spese con sicurezza, che Diocleziano tentò di rimediare con un Edictum de pretiis rerum venalium[79], pubblicato nel 301, nel quale erano fissati i prezzi massimi, oltre i quali era proibito di vendere e di comperare, sotto pena di morte. Noi possediamo quasi intero il testo di questo editto, con la sua minuziosa enumerazione di derrate, di manufatti e dei loro prezzi, e con una lunga prefazione dell’imperatore. In un latino un po’ strano e involuto, l’imperatore lamenta il crescer continuo, quasi di giorno in giorno e di ora in ora, dei prezzi, che rovina i privati e lo stesso erario, ma non accenna in nessuna maniera alle cause, cosicchè la sola esperienza dei non lieti casi presenti in tanta parte di Europa ci induce ad attribuirla, — ma l’attribuzione è sicura, — al rinvilio della moneta. Il quale a quei tempi era giunto a tal punto che dall’Editto di Diocleziano risulta come il denarius, che ai tempi belli dell’impero valeva un po’ meno della nostra lira di metallo, scendesse al disotto di 2 centesimi; cosicchè l’Editto minaccia la mannaia appunto a chi pagasse una libbra d’oro più di 50.000 denari.


63. La grande guerra persiana (296-298). — Ma non nella pace soltanto i due Augusti e i due Cesari fecero cose insigni. A Diocleziano e al suo governo riuscì pure di ricostituire l’unità dell’impero [172] recuperando la Britannia. Carausio era stato ucciso da un suo ufficiale, un certo Allectus, che si era illuso di prendere il posto; ma per poco tempo, chè fu disfatto ed ucciso (296). Prontamente e rapidamente fu anche repressa una insurrezione di Alessandria, ove, pare, si era tentato di contrapporre ai sovrani legittimi un pretendente (296). Grandi difficoltà parvero invece incominciare per un momento con la Persia. Nel 294 era salito al trono Narsete o Narseo (Narsehi), il quale, per vendicare la remissiva politica del predecessore, nel 296, approfittando che Galerio era in Pannonia e Diocleziano impegnato in Egitto, si gettò sull’Armenia, minacciando nel tempo stesso la Siria.

Diocleziano richiamò subito Galerio e lo spedì contro i Persiani. Ma quell’impetuoso soldato commise un grave errore: attaccò il nemico nella stessa regione, in cui, tre secoli e mezzo prima, avevano trovato sepoltura le legioni di Crasso, e con fortuna non migliore. Il grande imperatore dovette rifare l’esercito distrutto, arruolandovi in massima parte i barbari dell’Occidente, specie Goti e Daci, e ritentare l’impresa per un’altra via, invadendo il paese nemico per la montuosa Armenia. Il nuovo esercito fu affidato a Galerio, il quale volle vendicare la disfatta precedente e ci riuscì. In un impetuoso attacco notturno, non solo disfece il campo persiano, ma catturò tutta la famiglia reale. Solo Narsete, ferito, potè a stento salvarsi con la fuga. Imbaldanzito, Galerio sognava già, nuovo Alessandro, la conquista della Persia. Ma i barbari ricominciarono a minacciare [173] i confini; in quello stesso 297 Costanzo doveva partire per la Britannia; e mentre i Germani, rincorati da quest’assenza, minacciavano la Gallia, Massimiano era costretto a partire per l’Africa ove scoppiava un’altra rivolta. Diocleziano era dunque disposto a far pace; e la faceva ai primi del 298 a condizioni molto vantaggiose. Tutta la Mesopotamia, un tempo conquistata da Settimio Severo, era novamente restituita all’impero; inoltre il re persiano cedeva cinque province armene dell’alta valle del Tigri, che Sapore I aveva conquistate: quali fossero, le fonti non sono concordi[80]. L’Armenia fino a Zinta nella Media Atropatene era riconosciuta a Tiridate, l’Iberia (l’attuale Georgia) diveniva Stato vassallo non più della Persia, ma di Roma. Finalmente Diocleziano otteneva che tutto il commercio persiano con Roma passasse esclusivamente per Nisibis, allo scopo di semplificare il servizio delle dogane dell’impero. Per tal guisa l’impero acquistava una forte frontiera strategica, e delle alleanze molto utili nella Caucasia: raggiungeva insomma, quasi senza colpo ferire, una pace, che durerà circa quarant’anni.


64. La persecuzione dei Cristiani (303). — Alla grande guerra persiana seguono finalmente parecchi anni di pace profonda. Non è dubbio che l’impero si riebbe, respirò, si rinsanguò sotto il forte governo di Diocleziano. Per quanto le spese e le imposte fossero cresciute, venti anni di ordine bastarono a rimarginare molte ferite, a risuscitare in molte province, parzialmente, l’antica [174] prosperità. Anche lo Stato sembra aver superato il travaglio mortale del distrutto principio di autorità. Annientata la parte più alta del pensiero e della tradizione greco-romana e lo spirito repubblicano, l’impero sembrava aver trovato un certo equilibrio nell’assolutismo orientale, nei sentimenti, nelle idee, nelle istituzioni che avevano governato la Persia, l’Assiria, l’Egitto, tutti i grandi imperi dell’Asia. L’impero barbarico-asiatico, retto da generali divinizzati, pareva trionfare, e chi sa quale sarebbe stato l’avvenire del mondo e dell’Europa se in luogo della tradizione greco-romana ormai spenta o quasi, non si fosse levato a combattere l’assolutismo teocratico il Cristianesimo. Se tutto l’impero si inclinava ad adorare la persona degli imperatori come divina, e accettava le nuove religioni in cui lo Stato cadente cercava il sostegno dell’autorità, i Cristiani no. Essi non potevano adorare nè Mitra nè il Sole nè gli imperatori che rappresentavano in terra queste divinità; ma solo il Dio, il cui Figlio si era fatto uomo per riscattare le colpe degli uomini. E il Cristianesimo era ormai così diffuso e così potente, che l’impero barbarico-asiatico fu costretto alla fine a trattarlo come un nemico mortale. La persecuzione del Cristianesimo è la foce in cui sbocca tutta l’opera di Diocleziano, poichè chi era cristiano non poteva riconoscere che a mezzo, e con molte riserve, il nuovo regime.

Il primo editto anticristiano fu pubblicato il 24 febbraio 303. Imponeva la distruzione dei templi e dei libri cristiani; scioglieva le comunità [175] e incamerava i loro beni; vietava ai fedeli di riunirsi e li escludeva da qualunque carica pubblica. L’editto era relativamente mite, poichè non minacciava la morte. Ma i Cristiani erano ormai troppo numerosi per esser tutti degli zelanti osservatori della morale, che impone di offrir la guancia sinistra a chi vi ha percosso sulla destra. Si vuole che questa volta abbiano risposto alla violenza con la violenza, appiccando il fuoco al palazzo imperiale di Nicomedia e ordendo una vasta congiura contro gli imperatori. Almeno così fu detto. Inoltre in Siria scoppiarono, nell’esercito e tra le autorità civili, una sedizione e un movimento antidinastico, che pure furono attribuiti ai cristiani[81]. Diocleziano replicò con un secondo editto, che imprigionava i vescovi, i preti, i diaconi, se rifiutavano di consegnare i libri sacri. A questo editto seguì il terzo, che era, in un certo senso, un addolcimento dei due precedenti. Pigliando occasione della grande pubblica solennità dei Vicennalia che avrebbe segnato il primo ventennio del governo dei due Augusti, era promulgata una amnistia generale; dei prigionieri cristiani dovevano esser messi in libertà tutti coloro i quali manifestamente tornassero alla vecchia religione; gli altri sarebbero stati esclusi dal benefizio, anzi, di fronte a tanta insana pervicacia, il loro trattamento sarebbe stato rincrudito.

Questi editti sono il più manifesto documento della potenza del Cristianesimo. Evidente apparisce la riluttanza di Diocleziano a infierire contro un nemico, che egli sa ormai troppo numeroso [176] e troppo forte. Come tutti gli Stati che si trovano alle prese con un pericolo che non hanno la forza di sradicare, anche il governo di Diocleziano ricorre a mezze misure, le quali, allora come sempre, non ebbero altro effetto che di aggravare il male. La resistenza dei cristiani si esasperò, e l’impero fu costretto a procedere a quelle misure di rigore, da cui in principio si era astenuto. Sulla fine del 303 e del 304 Diocleziano si ammalava gravemente, e la reggenza in Oriente veniva assunta da Galerio. Allora un indirizzo più risoluto prevalse al governo, e, tra Galerio e l’altro Augusto[82], venne concordato l’ultimo draconiano editto di persecuzione che Diocleziano s’indusse a sottoscrivere. Con questi editti l’obbligo di sacrificare agli Dei era fatto universale e imposto con la minaccia delle pene più gravi.

Questa persecuzione durò otto anni; ma se fu vasta e vigorosa nel suo insieme, sebbene non tanto quanto la tradizione ecclesiastica ha detto, fu ineguale. La applicazione variò, a seconda delle contrade, dei Cesari e degli Augusti. Costanzo Cloro, per esempio, non applicò gli editti di persecuzione, certo perchè alla sua Corte l’elemento cristiano era troppo in favore e potente.


65. L’abdicazione (305). — Col 304 Diocleziano toccava il suo ventesimo anno di governo. Era stanco, sebbene non fosse ancora sessantenne. Già da anni meditava il ritiro dopo il lungo governo; un ritiro, da cui potesse, come spettatore sereno, assistere alla varia attuazione delle sue riforme, senza che egli fosse ovunque presente a [177] dirigerla. E da gran tempo egli si andava costruendo in Salona, nella sua Dalmazia, un romitaggio per il suo riposo senile. Aveva anzi voluto qualcosa di più: che la sua dipartita dagli affari non fosse sola, che con lui venisse via anche il fedele compagno delle sue fatiche, Massimiano, e pare si fosse fatto prometter questo con giuramento. La grande ora era finalmente venuta. Il 1º maggio 305, a tre miglia da Nicomedia, su di un colle che si leva dolcemente sulla pianura, a pie’ di una colonna recante la statua di Giove, là dove egli stesso aveva donato la porpora a Galerio, circondato dai grandi funzionari dell’impero e dagli alti ufficiali dell’esercito, Diocleziano si spogliava del suo diadema, del suo scettro, del suo manto di Augusto, e chiamava al suo posto Galerio, donandogli a sua volta, come Cesare, un ufficiale dei protectores, Massimino Daio. La stessa cerimonia si ripeteva nello stesso giorno, forse nella stessa ora, a Milano, dove Massimiano cedeva il suo seggio a Costanzo e deponeva la porpora di Cesare sulle spalle di un altro ufficiale, Flavio Valerio Severo. Poi Diocleziano partì per la sua solitaria villa di Salona.

Note al Capitolo Ottavo.

75.  Per la questione cronologica, cfr. G. Costa, Diocletianus, in De Ruggiero, Dizionario epigrafico, II, pag. 1805.

76.  C. I. L. III, 4413.

77.  Cfr. G. Costa, in De Ruggiero, Dizionario epigrafico, II, pag. 1848.

[178]

78.  È ciò che risulta da una raccolta di leggi che ci è pervenuta in siriaco, del 501, ma che si riferisce alla riforma di Diocleziano. Cfr. Bruns-Sachau, Syrisch-Römisches Rechtsbuch aus dem fünften Jahrhundert, Leipzig, 1880. G. e C. Ferrini, Leges saeculares ex lingua syriaca etc., in Fontes juris romani anteiust., di Riccobono, Baviera, Ferrini, Florentiae, 1905, l. II, 637 sgg. Sulle riforme finanziarie di Diocleziano, cfr. E. Ciccotti, Lineamenti dell’evoluzione tributaria del mondo antico, Milano, 1921.

79.  Pubblicato in C. I. L., III, pagg. 1928-53; 2208-11; 2238, 57-60.

80.  Cfr. Amm. Marc., 25, 7, 9; F. H. G., IV, pag. 189.

81.  Eus. Hist. Eccl., 8, 6, 8 naturalmente scarica i cristiani delle responsabilità: ma accenna al fatto.

82.  La tradizione cristiana (Lact. de mort. pers., 15, 4-5) getta tutta la responsabilità sui due principi dell’Oriente, i quali non avrebbero interpellato i loro colleghi. La tradizione apparisce poco verosimile. Gli atti del Martirio di S. Savino (in Baluze, Miscellanea, Parisiis, 1679, II, pag. 47) fanno risalire la responsabilità a Massimiano.

[179]

CAPITOLO NONO COSTANTINO IL GRANDE

(306-337)

66. La nuova guerra civile (305-314). — Meno di un anno dopo l’abdicazione di Diocleziano e di Massimiano, Costanzo Cloro moriva in Britannia. La sua morte bastò a rovinare la tetrarchia e tutto l’ordinamento dioclezianeo. Non avendo voluto accettare l’eredità come principio di successione, Diocleziano aveva escluso dalla ripartizione dell’impero così il figlio di Costanzo, Costantino, come il figlio di Massimiano, Massenzio. Ma Costantino, appena morto il padre, si fece proclamare Cesare dai soldati ad Eboracum (25 luglio 306)[83]; e Galerio, il più autorevole e più anziano dei due Augusti, per risparmiare all’impero una guerra civile, riconobbe il fatto compiuto nominando Costantino Cesare e promovendo Severo al rango di Augusto. Ma la guerra civile che Galerio aveva sperato di evitare in Gallia, scoppiò di lì a poco in Italia, dove Roma non si rassegnava ad essere una città di provincia. Spinti da questo malcontento, in occasione di un nuovo censimento indetto da Galerio, il popolo e il corpo dei pretoriani si sollevarono, e proclamarono Augusto [180] il figliuolo di Massimiano, Massenzio, che voleva anche egli esser nominato Cesare, dopochè Costantino era stato assunto all’impero (27 ottobre 306). Massenzio, per rinforzare la propria autorità, chiamò il padre che era poco contento del suo ritiro, e investì anche lui del titolo imperiale. La tetrarchia dioclezianea era spezzata; l’impero contava sei imperatori, quattro Augusti e due Cesari!

Galerio incaricò Severo di reprimere la sedizione dell’Italia. Ma le milizie di Severo non vollero combattere contro Massimiano, il cui nome era ancora venerato; e Severo, abbandonato dai suoi soldati, dovè consegnare a Massimiano in Ravenna la porpora, di cui questi poco prima l’aveva rivestito (307). Un secondo tentativo, fatto da Galerio in persona, non ebbe migliore fortuna. L’Italia si dichiarò tutta solidale con Roma e con Massenzio. Le singole città chiusero le porte in faccia a Galerio, che, giudicando poco prudente assediare Roma, uscì dalla penisola, e invitò a Carnuntum (in Pannonia) lo stesso Diocleziano, perchè con il consiglio e la autorità aiutasse lui e i suoi colleghi a trovare uno scampo: prova manifesta dell’ammirazione di cui il solitario di Salona godeva ancora nella vita privata! Alla conferenza di Carnuntum intervenne anche Massimiano, già in discordia col figliuolo che, dopo il successo, intendeva esercitare su di lui come una mal tollerata preminenza. Ma nè Galerio nè Massimiano poterono indurre di nuovo Diocleziano alla porpora. La conferenza mise capo ad un’unica deliberazione: sostituire a Severo un [181] nuovo Augusto, un vecchio, antico camerata di Galerio, Liciniano Licinio, con il governo dell’Illirio (novembre 307). Massimiano doveva ritornare a vita privata; e Massenzio era escluso dall’impero.

Il rimedio era peggiore del male. Massenzio si mantenne in Italia. Massimiano non depose la porpora, cercò di far causa comune con Costantino, a cui diede in moglie la figlia Fausta. La nomina di Licinio generò nuove difficoltà. Licinio saliva al primo posto nell’impero senza avere attraversato il grado di Cesare, scavalcando Massimino Daio e Costantino. Il primo dei due si fece allora proclamare Augusto dalle sue legioni, e il secondo reclamò per sè da Galerio lo stesso titolo. Ai primi del 308 l’impero ebbe così, oltre Massenzio e Massimiano, quattro Augusti tutti eguali tra di loro. La tetrarchia di Diocleziano era caduta; e il troppo incerto principio di successione nella carica suprema — questa malattia mortale che da Augusto in poi non aveva dato pace all’impero — partoriva un nuovo disordine. La prima vittima fu Massimiano. Si disse che aveva cospirato contro il genero; certo è che Costantino lo fece imprigionare a Marsiglia, e poi, due anni dopo, togliere di mezzo per sempre (310). Ma in mezzo a questi disordini e a questi intrighi, a un tratto, nel 311, tre dei quattro imperatori legittimi, Galerio, Costantino e Licinio, promulgano un editto che sospende le persecuzioni del Cristianesimo[84]. Come si spiega questo improvviso voltafaccia? Più che una resipiscenza, sarà prudente vedere in esso una mossa politica, suggerita dalle [182] pericolanti condizioni del potere supremo. Che la concordia tra i cinque Augusti, tra i quali nessuno predominava più per autorità come Diocleziano, fosse precaria; che un giorno o l’altro dovesse nascere una guerra civile, era chiaro. Ma Massenzio e Massimino Daio erano ligi all’antico culto pagano e avversi ai cristiani. È quindi verosimile che gli altri Augusti pensassero di procurarsi con quel decreto il favore dei cristiani, i quali venivano ad approfittare dell’indebolimento dell’autorità suprema.

Il decreto del 311 è dunque un segno di prossima guerra civile. La quale parve scoppiar subito dopo la proclamazione dell’editto, alla morte di Galerio. Licinio e Massimino sembrarono voler disputarsi la successione con le armi: ma poco dopo si accordarono, prendendosi il secondo l’Asia minore, la Siria, l’Egitto, ed il primo il resto delle province orientali dal Bosforo all’Adriatico. Non in Oriente, ma in Europa, doveva scoppiare di lì a poco l’incendio. Da un paio di anni Costantino, che già si era segnalato in guerre fortunate contro Franchi ed Alamanni, osservava attento gli affari d’Italia. Massenzio si rafforzava, approntava milizie, destinate — si diceva — a strappare la Gallia a Costantino e l’Illiria a Licinio; e si intendeva con Massimino, il quale continuava a perseguitare i Cristiani in Siria, in Egitto e altrove. Costantino a sua volta si accostò a Licinio, cui diede in moglie sua sorella Costanza; preparò un forte esercito; allacciò in Italia secrete intelligenze. Quando si ritenne pronto, sui primi del 312, valicò le Alpi per il Cenisio, con 50.000 [183] uomini, di cui la metà legionari scelti e provati; ruppe facilmente le prime resistenze; si impadronì della valle del Po, indi marciò contro Roma. Massenzio non si era mosso di qui, confidando nella forte posizione della città, nelle sue numerose milizie e in tutti quegli ostacoli che avevano fatto fallire la spedizione di Severo e di Galerio. Ma quando seppe che Costantino si avvicinava a Roma alla testa di un forte esercito, dopo una marcia vittoriosa, che le popolazioni, stanche del suo governo, avevano favorita, anzichè rimanere chiuso fra le mura aureliane, uscì dalla città ad affrontare in campo aperto il nemico, nei pressi del Ponte Milvio. Sconfitto pienamente, egli stesso perì con gran parte del suo esercito, affogato nel fiume (28 ottobre 312)[85]. Il giorno dopo, il vincitore si rivolgeva in Roma con parole rispettose al senato, quasi promettendogli una restaurazione delle antiche prerogative; scioglieva il corpo dei pretoriani e ne smantellava il campo. N’ebbe dal senato in ricompensa il titolo di primo Augusto, e un arco trionfale, che si leva ancor oggi e che fu ornato con le spoglie dell’arco di Traiano.

La conquista dell’Italia alterava i vecchi rapporti fra i tre imperatori, ma ancor più peggiorava la condizione di Massimino. Appunto per esaminare il nuovo stato di cose Licinio e Costantino convenivano poco dopo, sui primi del 313, a Milano.


67. L’Editto di Milano (primi del 313) e la catastrofe di Massimino (313). — Noi non sappiamo di quali argomenti s’intrattenesse la nuova conferenza. [184] Non è difficile supporre che, mentre Licinio consentiva al nuovo ingrandimento di Costantino, otteneva da questo mano libera contro Massimino. Probabile è pure che, per scuotere ancora più la potenza di Massimino, fu emanato un nuovo editto di tolleranza a favore dei Cristiani, che nella storia del mondo suole segnare il trionfo definitivo del Cristianesimo[86]. In verità il Cristianesimo non trionfava ancora, perchè non era riconosciuto come la sola religione, e quindi come la religione ufficiale. Lo Stato romano non ripudia ancora la sua religione ufficiale, e l’imperatore conserva in questa la carica suprema, il pontificato massimo. L’editto, anzi, non fa che confermare quello precedente del 311, ossia sancisce di nuovo la libertà di culto (τὴν ἐλευθερίαν τῆς θρησκείας) accordata due anni prima, togliendo alcune restrizioni superstiti e ordinando la restituzione alle Chiese cristiane dei luoghi e dei beni, sequestrati durante la grande persecuzione. Ma se esso mirava a mostrare che Licinio e Costantino volevano seguire un indirizzo opposto a quello di Massimino, il quale nelle province orientali, massime dopo la morte di Galerio, aveva inasprito la persecuzione contro i Cristiani, quelle concessioni bastavano. Insomma il Cristianesimo e il Paganesimo diventano nelle mani degli imperatori armi per le guerre civili: Costantino e Licinio mirano a sollevare l’Oriente cristiano contro Massimino, e Massimino a sollevare contro Licinio e Costantino i Pagani dell’Occidente. Massimino lesse chiaro nel gioco degli avversari; e non perdè tempo. Licinio era ancora in Italia; [185] ed egli già invadeva la penisola balcanica, pigliava d’assalto prima Bisanzio, poi Perinto, e si spingeva verso Adrianopoli. Licinio dovette accorrere e porsi sulla difensiva; ma, non lungi da Perinto, a circa diciotto miglia da Eraclea, fu combattuta una grande battaglia (30 aprile 313), che annullò tutti i vantaggi precedenti. Sconfitto, Massimino fuggì in Cilicia, ove morì.


68. Nuova guerra tra Licinio e Costantino (314). — Poco prima Diocleziano era morto a Salona, dopo avere assistito alla rovina della sua costituzione. Ma egli era almeno morto al tempo, per non veder la repressione fatta da Licinio vincitore, nella quale perirono la moglie di Galerio, sua figliuola, e un figlioletto di lei, i quali non avevano altro torto, salvo forse di soggiornare in Oriente. Anima del nuovo impero barbaro-asiatico erano due passioni: la ferocia e la diffidenza. Di fatti dalla caduta di Massimino non tardò a nascere una nuova guerra civile tra i due Augusti superstiti, perchè la vittoria aveva troppo ingrandito la potenza e i dominî di Licinio, il quale ora dava ombra a Costantino. Un pretesto qualunque — il rifiuto di Licinio di consegnare a Costantino un tal Senecione, il quale avrebbe congiurato contro di lui — bastò a far scoppiare la guerra. Licinio fu vinto una prima volta a Cibalae in Pannonia sulla Sava l’8 ottobre 314, e poi di nuovo in Tracia, nella pianura detta Mardiensis o Jarbiensis. Ma nè l’una nè l’altra furono vittorie decisive. Costantino comprese che, per sconfiggere definitivamente il rivale, sarebbe stato d’uopo portare la [186] guerra fino nel cuore dell’Oriente, sguarnendo le frontiere pericolanti del suo impero. Preferì quindi venire a patti. Ebbe la Grecia, parte della Mesia, la Macedonia, l’Epiro, la Dacia, la Dardania, la Dalmazia, la Pannonia, il Norico. Ma la clausola più importante degli accordi fu questa: che Licinio, che non aveva figliuoli, rinunziava a nominare un successore; mentre Costantino, il cui figliuolo Crispo s’avvicinava alla maggiore età, rimaneva libero d’indicare questo, fra non molto, quale suo legittimo successore.


69. Gli anni della pace (314-323). — La nuova riforma monetaria — La questione Donatista. — Come che sia, la pace del 314 o 315 permise alla fine all’impero di respirare. Per circa nove anni le armi avrebbero taciuto; e si potrebbe provvedere anche alle cose civili, troppo trascurate sino allora. A qualche riforma civile, anzi, Costantino aveva posto mano prima del 314. Nel 312 s’era già occupato della moneta, emettendo con il nuovo nome di solidi degli aurei di un peso ridotto, ma fisso, non più di 1⁄60 di libbra, come Diocleziano, ma di 1⁄72. Quanto all’argento, mantenne l’argenteus dioclezianeo di 1⁄96 di libbra; ma gli pose a fianco due nuove monete, che avrebbero reso più facile lo scambio con la nuova valuta d’oro: il miliarense pari a 1⁄1000 di libbra d’oro, del peso cioè di 1⁄72 di libbra d’argento, e la siliqua (o κεράτιον), pari alla metà della precedente. Ma se coniò delle buone monete, non potè neppure egli risanare la circolazione, togliendo di mezzo l’infinito numero di false monete d’argento apparente [187] che l’infestavano; cosicchè il male, a cui Diocleziano aveva cercato di provvedere con il suo editto dei prezzi, non cessa di tormentare l’impero.

A questo stesso anno risale un’importante innovazione nell’amministrazione finanziaria: la cosiddetta indictio o l’obbligo di rifare, ogni 15 anni, il censimento e il catasto di tutto l’impero. L’anno finanziario sarebbe così cominciato il 1º settembre e terminato il 31 agosto della chiusura del quindicennio; e l’anno primo della nuova êra fu il 312. L’indictio servirà più tardi al conto degli anni, nell’impero bizantino.

Ma di maggior momento che la moneta e la finanza, era allora la religione. L’editto di Milano aveva stabilito la libertà dei vari culti, ma la vecchia dottrina pagana, che la società civile e la religiosa non possono essere separate; che, anzi, la religione è ancella della società civile e la serve, non era stata e non poteva essere cancellata d’un colpo. Se il Cristianesimo era forte, lo Stato era ancora più forte, e non voleva rinunciare al suo alto diritto sulle religioni, così necessario nella varietà dei culti innumerevoli, professati in tutto l’impero. Ma il Cristianesimo era una religione esclusiva che affermava di essere la sola vera; e che voleva imporre alla società civile la sua legge, non riceverla. Era inevitabile che da questa contradizione nascessero ogni sorta di difficoltà; e le prime vennero dalle eresie. La società cristiana cominciava a pullulare di eresie, che si combattevano con un furore esasperato dagli interessi con cui molto spesso le dottrine facevano corpo. Lo [188] Stato non poteva disinteressarsi di queste contese, che turbavano tutta la vita civile e spesso addirittura l’ordine pubblico. Ma come poteva esso sciogliere delle questioni religiose, in una Chiesa che, per le questioni religiose, riconosceva solo l’autorità dei capi spirituali?

Costantino fece la prima esperienza di tante difficoltà in Africa. In questi anni era nata in Africa una setta intransigente, che escludeva dalla comunione ecclesiastica tutti coloro i quali, durante la persecuzione dioclezianea, avevano ceduto: i così detti traditores o lapsi. E poichè, ad esempio, il vescovo di Cartagine Ceciliano era stato ordinato da uno dei così detti traditores dell’epoca, questa setta gli contrappose prima un Maggiorino e poi, nel 313, un Donato. Dal nome di quest’ultimo l’eresia si sarebbe appunto denominata con l’appellativo di Donatismo. In un paese ardente di fanatismo e di contrasti sociali come l’Africa e la Numidia del tempo, lo scisma non poteva astenersi da violenze e da rappresaglie. Costantino dovè intervenire, sollecitato dalle due parti, i Ceciliani e i Donatisti; ma come poteva egli, pagano, giudicare un litigio di questo genere? Costantino rimandò la questione ad una commissione di vescovi italiani e gallici, che giudicò contro i Donatisti. Ma questi non se ne diedero per inteso; non riconobbero la sentenza; e l’imperatore allora, il Pontefice Massimo del paganesimo, convocò per la prima volta un concilio cristiano ad Arles, il 1º agosto del 314. La maggioranza del concilio dette nuovamente torto ai Donatisti. Ma neppure la decisione del concilio di [189] Arles valse a domare il Donatismo. Allora un ordine imperiale impose l’esclusione dei Donatisti dalle chiese di Africa. Per quanto l’impero avesse, con l’editto di Milano, affermato la libertà dei culti, esso era tratto, dalla necessità di mantenere l’ordine e la pace, a intervenire nelle faccende del culto cristiano, come interveniva in quelle di tutti gli altri culti. Ma i Donatisti, che erano maggioranza, resisterono; e nonostante persecuzioni, torbidi e lotte, l’eresia donatista rimase predominante in Africa. L’impero non aveva, di fronte a una religione come la cristiana, nessuna autorità nelle questioni di fede, ma solo la forza; e la forza non basta a sciogliere questioni di fede.


70. La fine di Licinio (319-324). — Sino al 319 i rapporti fra Licinio e Costantino non furono turbati. Ma da quest’anno incominciarono a guastarsi. Per quale ragione, è poco chiaro. Le ragioni, anzi, possono essere state numerose: il rancore di Licinio per la pace del 314, la diffidenza reciproca inerente ormai alla stessa molteplicità degli imperatori, l’ambizione di Costantino di fondare una vera dinastia, introducendo l’eredità, in luogo della scelta dioclezianea, come principio di successione. La guerra era inevitabile. Ambedue gli imperatori cominciarono in tempo a prepararsi. Costantino apprestò armi; cercò di conciliarsi l’amicizia dei Persiani, nemici naturali dell’Augusto dell’Oriente; emanò nuove leggi a pro dei debitori verso il fisco; largheggiò nella generosità e nelle spese; si studiò di procurarsi il favore e l’appoggio dell’elemento [190] cristiano[87]. A sua volta Licinio preparava ingenti forze militari; pur non perseguitandoli, osteggiò i Cristiani, li escluse dall’esercito e dall’amministrazione; pare anche aver cercato di appoggiarsi a quel partito che Costantino in Africa combatteva, ai Donatisti[88].

La guerra scoppiò nel 323 in modo singolare. Poichè in quell’anno una irruzione di Goti era penetrata in Tracia e in Mesia, ossia nelle province europee rimaste a Licinio, Costantino vi accorse per primo a respingerla (323). Licinio considerò questo, che poteva essere un aiuto, come una violazione di territorio. Le armi, da lungo tempo affilate, luccicarono al sole; e, nella seconda metà del 323, il 3 luglio, i due eserciti si scontrarono nella pianura di Adrianopoli. Licinio fu disfatto e, dopo aver combattuto valorosamente, si chiuse in quella Bisanzio, che sbarrava la via terrestre dell’Asia, come la sua possente flotta sbarrava quella del mare. Ma l’armata di Costantino era comandata dal figlio maggiore dell’imperatore, Crispo, che, quantunque giovanissimo, già si era segnalato in precedenti operazioni contro i Franchi e aveva ricevuto il titolo di Cesare. Crispo sconfisse l’armata di Licinio all’ingresso dell’Ellesponto. Licinio allora abbandonò Bisanzio e tentò di impedire a Costantino l’invasione dell’Asia minore. Ma aggirato dal nemico, dovette dar battaglia presso Crysopolis (l’odierna Scutari), dove fu novamente sconfitto (18 settembre 324). Allora si arrese al vincitore, che, pur avendogli promesso salva la vita, lo fece uccidere nell’anno successivo. Costantino restava unico [191] imperatore; poteva nel tempo stesso ricostituire l’unità dell’impero, e dargli una vera costituzione monarchica sul modello asiatico, iniziando la dinastia che lo reggerebbe.


71. Le difficoltà religiose; il concilio di Nicea (325). — Gli apologisti cristiani celebrano questa vittoria come il supremo duello fra il Cristianesimo e il Paganesimo. E la loro opinione è più vicina a verità che i moderni critici non pensino. Con Costantino avevano vinto i cristiani, che in tutto l’impero avevano parteggiato per lui contro Licinio. Rimasto solo imperatore, nell’atto stesso in cui si accinge a fondare un pretto regime dinastico, Costantino si affretta ad emanare due editti, con i quali il pontefice del Paganesimo non solo annullava i decreti di Licinio, ma designava la religione, di cui egli era a capo, come «un deplorevole errore», anzi come una «opinione empia», una «potenza delle tenebre», e i suoi fedeli seguaci, come degli «aberranti della verità», sia pur liberi per sovrana benignità di conservare i loro «templi della menzogna»[89].

L’imperatore, che era riuscito a ricostituire nella sua persona e nella sua famiglia l’unità dell’impero, cedeva ormai innanzi allo spirito esclusivo del Cristianesimo, di quella religione che si proponeva di toglier di mezzo tutte le altre, anche quelle che potevano considerarsi come basi e sostegni del potere imperiale: il culto dell’imperatore e il mitraismo. Per conquistare tutto l’impero e per fondare una dinastia, Costantino aveva, appoggiandosi al Cristianesimo, indebolito il potere assoluto, [192] che Aureliano e Diocleziano avevan cercato di consolidare con i culti orientali: così può riassumersi l’opera politica e religiosa di Costantino. Senonchè egli non sembra essersene reso chiaro conto. Ne è prova l’atteggiamento da lui assunto di fronte all’eresia ariana, che egli trovava in pieno rigoglio in Oriente. Un prete di Alessandria, Ario, aveva da qualche tempo preso a sostenere che Cristo era stato creato da Dio, il quale gli preesisteva, ma non già dalla sostanza divina, sibbene dal nulla; onde la supposta perfetta identità delle tre persone della Trinità non era possibile. La eresia era pericolosissima per la stabilità della dottrina; perchè, fatto di Cristo soltanto un essere privilegiato tra gli uomini, non c’era ragione perchè Dio non creasse altri Cristi, dopo il primo; il Vangelo non era quindi la rivelazione definitiva della verità, perchè altre rivelazioni potevano seguire; anche per il Cristianesimo la verità diventava, non un testo rivelato, eterno e immutabile, ma un divenire continuo; e il Cristianesimo si accostava a quelle scuole del Paganesimo, numerose nel terzo secolo, che ammettevano un Dio unico, uno Spirito superiore, considerando le altre divinità come incarnazioni dei suoi attributi particolari. In Oriente, dove la cultura filosofica non era ancora del tutto spenta e l’amore della discussione vivo, questa dottrina aveva suscitato una bufera. Il vescovo di Alessandria, Alessandro, suffragato dal voto di un Sinodo di cento vescovi, aveva espulso Ario dalla comunità cristiana (321).

Ma Ario non era solo: la sua dottrina, semplice e chiara, era comprensibile dalla moltitudine, [193] e quindi popolare; le simpatie che egli ritrovava fra il neoplatonismo pagano, tanto diffuso in Oriente, gli odî, i rancori, l’amore delle rappresaglie, che le precedenti eresie, discussioni e repressioni avevano seminati, gli procacciarono subito un partito numeroso. Alle discussioni seguirono le zuffe nelle strade e le violenze. Costantino decise di intervenire. La lettera, che a tale proposito ebbe a rivolgere ai contendenti, merita d’esser letta. «Io m’ero proposto, egli scrive, di ricondurre a un’unica forma l’opinione che tutti i popoli si fanno della divinità, perchè sentivo bene che, se avessi potuto raggiungere l’accordo su questo punto, come era nei miei desideri, la cosa pubblica ne avrebbe ricevuto beneficio.... Ma oh, bontà divina, quale notizia ha ferito acerbamente le mie orecchie, anzi il mio cuore? Io apprendo che vi sono tra voi più dissensioni che non ce ne fossero testè in Africa.... Pure, a me sembra, la causa è ben piccola e affatto indegna di tanta contesa.... Tu, Alessandro, hai voluto sapere ciò che i tuoi sacerdoti pensavano su un punto della legge, anzi su una parte sola di una questione di nessuna importanza, e tu, Ario, se lo pensavi, dovevi tacere.... Non dovevate nè interrogare nè rispondere, giacchè queste sono discussioni che non servono a nulla, sono suggerimenti dell’ozio e del vizio, buoni solo ad aguzzare gl’ingegni.... È giusto che vi laceriate voi, fratelli contro fratelli, per vane parole?... Sono queste trivialità e fanciullaggini, indegne di sacerdoti o di uomini saggi.... Restituitemi dunque, vi prego, giorni tranquilli e notti senza inquietudini, in modo che [194] anch’io possa nell’avvenire godere della pura gioia di vivere....»[90].

Questa lettera prova che Costantino intendeva il Cristianesimo alla romana: ossia come uno strumento politico per mantener l’ordine nello Stato. Difatti prese l’iniziativa di un grande concilio, che componesse questa discordia. A Nicea, nella primavera del 325, convennero oltre 250 vescovi, in massima parte orientali. Costantino inaugurò il concilio con un modesto discorso. Ristabilendo, egli disse, la concordia nella Chiesa, i convenuti avrebbero fatto cosa grata a Dio «e reso un grande servigio» al principe[91]. Presiedeva il concilio un suo segretario, il vescovo Osio, avversario dell’arianesimo. Ario fu un’altra volta sconfessato. Cristo — decretò il concilio — non è stato tratto dal nulla, nè è punto diverso dal padre, fu anzi generato da lui «dall’essenza del padre», «vero Dio da vero Dio» ed è a lui perfettamente consustanziale (ὁμοούσιος). La questione, che a Costantino pareva così oziosa, poteva considerarsi come sciolta. Ma il Cristianesimo non era una religione politica, come le altre religioni dell’Oriente e dell’Occidente; era il germe di un mondo nuovo ed immenso, che si proponeva, non già di puntellare il cadente impero di Roma, ma di redimere gli uomini insegnando loro una morale più alta. E il concilio di Nicea, che Costantino aveva convocato per ristabilire la pace e l’unità degli spiriti, doveva essere il principio di una formidabile lotta, che indebolirebbe ancora più lo stanco impero. Era ormai destino che tutto quel che la sapienza umana credeva [195] di dover fare per la salvezza dell’impero, lo spingesse alla rovina.


72. Il nuovo ordinamento dell’impero. — Anche la nuova unificazione dell’impero, compiuta da Costantino, indebolisce lo Stato a paragone del regime di Diocleziano. Solo padrone dell’impero, dopo tante guerre civili, Costantino è meno saldo e sicuro che Diocleziano partecipe del supremo potere con un altro Augusto e due Cesari. Egli diventò sospettoso al punto che, nel 326, per ragioni a noi ignote, e sulle quali non possono farsi che ipotesi assai vaghe, fece trucidare il vincitore dei Franchi e di Licinio, il figliuolo Crispo, insieme con un suo nipote ancor giovanissimo, un Liciniano; e poco dopo, la seconda moglie Fausta, la figliuola di Massimiano, la madre dei suoi tre più giovani figliuoli. La corte è ancor più orientalizzata; la pompa del cerimoniale, le complicazioni dell’etichetta, il lusso dei cortigiani, il mistero, entro cui si asconde l’imperatore, sono notevolmente cresciuti. I grandi dignitari, dal quali dipende un numeroso personale, minuziosamente gerarchizzato e titolato, sono: i prefetti del pretorio, a cui Costantino, completando le riforme di Diocleziano, tolse i poteri militari; i magistri militum, o generalissimi, comandanti supremi della fanteria e della cavalleria; il quaestor sacri Palatii, che riceve le istanze e prepara e controfirma le leggi che il Consistorium discuterà e l’imperatore avrà ad emanare; il magister officiorum, una specie di ministro della Casa reale, che dirige il personale di [196] polizia, le guardie del palazzo, gli impiegati dell’amministrazione centrale; i due ministri delle finanze (il comes sacrarum largitionum e il comes rerum privatarum). Il nuovo Consiglio del principe, il Consistorium, assume anch’esso maggiore regolarità che non sotto Diocleziano. I suoi membri ordinari sono i titolari delle grandi cariche dello Stato, eccezione fatta, pare, dei prefetti del pretorio e dei magistri militum, che partecipavano alle sedute solo in via straordinaria. Ai quattro grandi dignitari si aggiungevano, come membri permanenti del Consistorium, i comites consistoriani, scelti dall’imperatore, e che in epoca più tarda sappiamo con certezza essere stati in numero di venti.

Al di sotto dei ministri della casa imperiale e del Consistorium, si ramifica la sempre più numerosa burocrazia dell’impero. I tre uffici di cancelleria imperiale, esistenti nell’alto impero, l’ab epistulis, l’a libellis, l’a memoria, hanno mutato nome, si chiamano ciascuno scrinium; e a questi tre si aggiunge un quarto, lo scrinium dispositionum, incaricato di preparare e provvedere quanto occorreva all’attività dell’imperatore: come viaggi, ispezioni ecc. ecc. Ma il mutamento del nome rivela la novità del sistema. Invece di un funzionario, noi abbiamo un intero ufficio, con una vasta gerarchia di impiegati. Nè gli scrinia sono soli quelli enumerati. Tutti i funzionari dell’impero hanno un ufficio (uno scrinium) a loro disposizione; ed ogni scrinium una copiosa e gerarchizzata burocrazia, che sarà modello alle monarchie assolute della prima storia moderna.

[197]

L’ordinamento provinciale è ancora quello di Diocleziano. Non ci sono più i quattro tetrarchi; l’imperatore è uno solo; ma la divisione amministrativa di Diocleziano sussiste integra. L’impero si considera diviso in due o tre, o forse anche quattro, sezioni; a capo delle quali stanno appunto i prefetti del pretorio, che, disperso ormai il corpo dei pretoriani, sono solo grandi funzionari, civili e giudiziarî. Da essi dipendono i vicari; da questi, alla loro volta, i praesides o i consulares o i correctores.

Che cosa è avvenuto delle vecchie magistrature e del senato? Roma conserva ancora il suo senato, i suoi consoli, i suoi pretori, i suoi edili e tribuni. Ma queste non sono quasi più che cariche municipali.

A capo dell’esercito stanno ancora i magistri militum, che hanno sotto i loro ordini i duces, comandanti di una o più province e delle guarnigioni di frontiera. Ma l’ordinamento dioclezianeo è ritoccato in alcuni punti e con innovazioni, che tramutano le cautele del suo predecessore in pericoli. Gli effettivi delle legioni sono ancora più scemati; non solo il comando militare è distinto da quello civile, ma quello della cavalleria da quello della fanteria, come la direzione del servizio dei viveri e degli stipendi dal movimento degli eserciti. Il comando degli eserciti è ormai una macchina farraginosa, pesante e lenta, che non può muoversi senza che l’imperatore faccia agire di concerto tutte queste autorità. Questi difetti sono accresciuti dalla nuova dislocazione delle milizie. L’esercito è diviso in tre generi di milizie: 1) milizia [198] palatina (domestici, protectores, scolares), un quinto od un sesto di tutti gli effettivi, che può essere paragonato all’antica guardia pretoriana, ma che segue ora, come esercito di riserva, l’imperatore nelle spedizioni di maggior momento; 2) l’esercito di linea o comitatenses, formato di sudditi e di barbari, agli ordini di magistrati militari provinciali (comites o duces), sparso in piccole guarnigioni nelle città dell’interno; 3) finalmente, le truppe di frontiera (i riparienses o castriciani o limitanei), reclutate in genere tra i barbari e nella feccia dell’impero, con obblighi di servizio più lunghi e con stipendi minori, le quali dovevano restare acquartierate in certe zone delle frontiere, o in castelli, fortezze, campi trincerati e di cui la maggior parte erano coloni del luogo. Il nerbo dell’esercito (i comitatenses) è polverizzato in piccoli nuclei, che vivono in cittadine dell’interno perdendo lo spirito militare; e tutto l’esercito, nei suoi tre ordini di milizie, è inquinato dai barbari, sempre più numerosi.

Queste riforme sono i segni più manifesti dell’indebolimento dell’impero. Costantino non avrebbe frantumato l’esercito, distribuendone tanta parte per le città dell’interno, lontano dalle frontiere, se l’esercito non avesse ormai dovuto servire a conservare l’ordine interno più che a difendere l’impero contro i barbari. Come sono lontani i tempi felici del secondo secolo, in cui un esercito di poco più che 200.000 uomini bastava a mantenere tranquillo e sicuro l’impero! Ma allora l’impero era governato da un’aristocrazia ricca, numerosa, rispettata, appoggiata al senato di [199] Roma e all’imperatore, il cui prestigio e la cui legittimità erano universalmente riconosciuti. Oggi l’impero è governato da una burocrazia raccogliticcia, detestata e temuta più che rispettata, e da un imperatore, i cui titoli sono dubbi, che non si sa se è uomo o Dio, se è il capo legittimo dell’impero o un avventuriero favorito dalla forza. Non c’è più un vero governo legittimo; e lo Stato si regge anche all’interno solo per forza di armi. Nè si potrebbe spiegare che Costantino abbia aperto così facilmente i ranghi delle legioni ai barbari, se non ammettendo che disperava di vincere la crescente ripugnanza della nuova società cristiana alle armi e tutto il movimento degli spiriti che allontanava i sudditi dalla milizia. Un’altra prova, e anche più palese, di questo indebolimento dell’impero fu la fondazione di Costantinopoli, come nuova capitale. Le ragioni del grande mutamento furono certamente numerose. Ragioni militari, anzitutto. La capitale di un impero, che doveva combattere in Oriente contro i Persiani, e difendere in Occidente il Reno e il Danubio contro i barbari; di un impero, alla cui testa un imperatore unico doveva sorvegliare da vicino così le province dell’Oriente come quelle dell’Occidente, era meglio posta sul Bosforo che nell’Italia meridionale. Poi ragioni politiche. Capitale della nuova monarchia, assoluta ed asiatica, la quale usava tanta benevolenza verso il Cristianesimo, non poteva essere Roma, la città dell’impero pagana e repubblicana per eccellenza. Perciò Costantino scelse la vecchia Bisanzio; e scelse bene, come i fatti provarono. Ma che altro [200] era trasportar la capitale dell’impero sul Bosforo, se non dichiarare che il compito di Roma in Occidente era terminato?


73. L’organizzazione coattiva del lavoro. — È probabile che a Costantino risalgano i primi tentativi di quella organizzazione coercitiva del lavoro, che doveva poi allargarsi nei secoli seguenti a tante arti ed industrie. Ci induce a supporlo il fatto che nel Codice teodosiano le leggi più importanti che riguardano i navicularii sono di Costantino. I navicularii erano gli armatori che eseguivano i trasporti dello Stato per mare. Sembra che Costantino li raccogliesse in una vasta corporazione, reclutata d’ufficio, imperativamente, quando non si trovava un numero bastevole di armatori volontari. Il governatore della provincia compilava la lista di questi armatori obbligati, scegliendoli tra le persone indicate dalla legge. Ogni armatore riceveva dallo Stato il legno e le altre materie necessarie per costruire la nave, e dei sussidi per la navigazione: doveva provvedere a sue spese alla costruzione della nave, alle necessarie riparazioni e al trasporto del grano, dei marmi e delle altre merci di cui lo Stato aveva bisogno. Siccome molti di questi armatori obbligati cercavano di trar profitto da questi viaggi fatti per conto dello Stato, commerciando per conto proprio, fu necessario far delle leggi per frenare questo abuso, per impedire che i viaggi durassero un’eternità per le soste nei porti intermedi, o che gli armatori speculassero sulle derrate che trasportavano per conto dello Stato, massime sul grano. Così noi sappiamo dal Codice [201] Teodosiano che Costantino concesse per ogni viaggio di andata e ritorno due anni, il che vuol dire che molti armatori impiegavano anche di più per andare da un punto all’altro del Mediterraneo; e che a rincalzo di questa legge Costantino ne fece un’altra per imporre, pur concedendo due anni al viaggio di andata e di ritorno, che il carico dovesse esser consegnato entro il primo anno.

Queste poche notizie bastano a farci capire quanto difficili, lenti, costosi, intralciati erano, al principio del quarto secolo, i trasporti marittimi in un impero, come il romano, di cui il mare era la grande via di comunicazione tra le diverse province. Costantino non può aver emanate tutte queste leggi coercitive, se non perchè gli armatori liberi, di cui gli imperatori del primo e secondo secolo si erano serviti, erano spariti. E non si trovavano più perchè il fiscalismo, l’insicurezza, il disordine, la guerra, la moneta cattiva e di incerto valore, la diminuzione della popolazione, il misticismo cristiano avevano colpito a morte l’industria e il commercio. Rara e cara la mano d’opera, massime nei lavori pericolosi e faticosi; rare e care le materie gregge, anche i trasporti marittimi costavano più, che i tempi non potessero e non volessero pagare; onde la circolazione delle persone e dei beni si rallentava e con esso la civiltà dell’impero, alimentata da questa circolazione, agonizzava. Per impedire questa agonia, lo Stato, come al solito, tentava un supremo espediente della forza.


74. Gli ultimi anni (330-337). — L’11 maggio 330, Costantino inaugurava solennemente la nuova capitale [202] dell’impero — la Νέα Ῥώμη — Costantinopoli. Due anni dopo (332) lo troviamo a combattere felicemente i Goti; e più tardi (334) i Sarmati, i quali diventano, dopo la disfatta, coloni e soldati dell’impero.

Nel 335, il vecchio monarca compie un altro atto, che dimostra novamente, e in modo anche più evidente, la debolezza di tutta la sua faticosa costruzione. Egli distribuiva l’impero fra i tre suoi figliuoli, tutti e tre ormai nominati Cesari, ed un suo nipote, un Dalmazio. Assegnava al maggiore, Costantino, la Spagna, la Gallia, la Britannia; a Costanzo, l’Asia, la Siria, l’Egitto; a Costante, l’Italia, l’Illirico, l’Africa, e a tutti e tre il titolo di Augusto; al nipote Dalmazio poi, col titolo di Cesare, la Tracia, la Macedonia, e la Acaia; infine, a un fratello di Dalmazio, Annibaliano, col titolo di Re dei Re, il trono vacante dell’Armenia e le limitrofe regioni del Ponto. A che valeva aver tanto lottato per rovesciare la tetrarchia di Diocleziano, se egli poi la ricostruiva più debole e in forma più pericolosa, introducendovi il principio debilitante dell’eredità, ancora così poco radicato nell’impero? Ma neppure Costantino poteva venire a capo di quella tremenda difficoltà che era per Roma, da tre secoli, il principio legale della suprema autorità; e messo alle strette, al termine della lunga vita operosa, immolava l’unità dell’impero al principio ereditario, che era sterile perchè le popolazioni dell’impero non ne sentivano la legittimità. Spezzava l’impero, nella illusione che potesse più facilmente restare alla sua famiglia.

[203]

Infine — e fu un avvenimento di grandissima importanza — Costantino, che aveva cercato di ristabilire, per mezzo del Cristianesimo l’unità morale dell’impero, si lasciò, negli ultimi anni, trascinare nel fitto delle discordie cristiane, diventando un campione di quella eresia ariana, che aveva fatto condannare nel concilio di Nicea. Condannato dal concilio di Nicea, Ario era andato in esilio; ma l’arianesimo era diffuso e potente, aveva amici devoti, anche alla Corte, tra i quali Costanza, la sorella di Costantino; onde non rinunciò alla lotta. Approfittando degli errori degli avversari, addolcendo e temperando la propria dottrina, Ario e i suoi seguaci riuscirono a riguadagnare il favore di Costantino, persuadendolo che una riconciliazione era possibile. Gli sforzi che l’imperatore fece per effettuare questa riconciliazione, e l’opposizione che trovò specialmente nel nuovo vescovo di Alessandria, Atanasio, spinsero Costantino interamente alla parte di Ario. Il favore imperiale ridiede coraggio alla setta, che nel 335 riuscì a far condannare Atanasio nel concilio di Tiro. Atanasio fu esiliato in Gallia e tutti i suoi partigiani più in vista perseguitati e dispersi; Ario ritornò a Costantinopoli; la Corte fu invasa da Ariani, che diventarono in ogni parte dell’Oriente il partito dominante nella Chiesa. Ma il partito avverso non disarmò, per quanto perseguitato; e da questo momento una lotta implacabile agita tutto l’impero, nuovo fermento di dissoluzione aggiunto agli altri. Il Cristianesimo rinnoverebbe il mondo, ma non poteva puntellare l’impero.

[204]

L’ultima impresa, a cui l’infaticabile imperatore pose mano, fu una grande campagna contro la Persia, dove regnava Sapore II. La eterna rivalità dei due imperi era stata gravemente acuita negli ultimi anni da una questione, al tempo stesso politica e religiosa. Il Cristianesimo era penetrato in Iberia (Georgia), in Persia ed in Armenia, ove, nel 302, prima ancora di Costantino, il re Tiridate si era fatto battezzare, dando così all’impero romano, già mezzo cristianizzato, dei punti di appoggio. Sapore aveva ripreso in modo più acceso la propaganda del mitraismo; Costantino aveva replicato, chiedendo protezione per i sudditi cristiani in Persia, e favorendo alla sua Corte un fratello di Sapore, un Armisda. A sua volta Sapore aveva sbalzato dal trono il re di Armenia; e Costantino aveva risposto, assegnando l’Armenia, come abbiamo visto, ad uno dei suoi nipoti, Annibaliano. Sapore allora aveva reclamato le cinque province transtigritane, che Diocleziano aveva strappate alla Persia. L’imperatore dei Romani si apparecchiava a valicare il Tigri, e a recare direttamente la sua risposta a Ctesifonte, quando morì d’improvviso, il 22 maggio del 337, dopo avere poco prima ricevuto il battesimo da un ariano, Eusebio di Nicomedia.

Costantino fu certo un monarca di grande merito. Ma apparso nei tempi in cui si compieva il più decisivo rivolgimento della storia del mondo, egli non è più un pagano e un uomo del mondo antico, e non è ancora un cristiano e un uomo del mondo nuovo. Perciò tutta la sua azione è oscillante, violenta, incoerente, arruffata, e in [205] parte almeno sterile. Fonda una dinastia e la distrugge; ristabilisce l’unità dell’impero e la spezza; vuol ricostituire con il Cristianesimo la concordia spirituale dell’impero ed esaspera invece le stesse lotte che si combattono nel seno della Chiesa. A suo paragone Diocleziano è ben più forte, coerente, vigoroso, semplice e chiaro, nella sua fedeltà piena ed intera allo spirito della civiltà pagana. Diocleziano è l’ultimo grande uomo del mondo antico; Costantino l’inquieto personaggio figurativo di un’epoca di transizione[92].

Note al Capitolo Nono.

83.  Pare che già, prima dell’abdicazione dei due Augusti, Costantino avesse ricevuto l’assicurazione di essere elevato al posto che uno dei due Cesari avrebbe lasciato vacante. Questa promessa giustificherebbe in parte la proclamazione del 306. Cfr. Lact., De mort. persec., 18-19. Le monete hanno confermato questo punto: cfr. Westphalen, in Revue Numismatique, 1887, pag. 26 sgg.

84.  Euseb., H. Eccl., 8, 17, 1 sgg.; Lact., De mort. persec., 34.

85.  Sul piano strategico di Massenzio, che è stato giudicato un po’ troppo alla leggera dagli storici, è curioso leggere quel che scrisse Moltke, Handschriftliche Aufzeichnung aus dem Reisetagebuch, Berlin, 1879 (3ª ediz.), pag. 117 sgg.

86.  Euseb., H. Eccl., 10, 5; Lact., De mort. persec., 48. La critica moderna, come al solito, ha cercato di mettere in dubbio anche l’esistenza di un vero e proprio editto di Milano. Ma il testo di Lattanzio (De mort. persec., 48) è troppo esplicito e formale, perchè a storici che per amor della critica non abbiano perduto il buon senso, sia lecito avanzare dubbi. Su tutta questa questione, cfr. T. De Bacci Venuti, Dalla grande persecuzione alla vittoria del Cristianesimo, Milano, 1913, Appendice, pag. 303 sg.

[206]

87.  Cfr. Eus., H. Eccl., 10, 8; Vita Const., 1, 56.

88.  Theod., H. Eccl., 1, 19b.

89.  Eus., Vita Const., 2, 24; 56; 60.

90.  Eus., Vita Const., 2, 65-72; Socr., Hist. Eccl., 1, 7.

91.  Eus., Vita Const., 3, 11-12.

92.  Cfr. il curioso giudizio dell’imperatore Giuliano su Costantino (Amm. Marc., 21, 10, 8) che lo accusa di essere stato novator... turbatorque priscarum legum et moris antiquitus recepti...

[207]

CAPITOLO DECIMO LE GRANDI LOTTE RELIGIOSE

(337-363)

75. La famiglia di Costantino (337-340). — Alla morte di Costantino seguirono alcuni mesi tranquilli. Ma improvvisamente, a quanto pare, tra il luglio e il settembre 337, scoppiò in Costantinopoli, nel palazzo imperiale e nella città, una grande sedizione militare. I soldati, gridando di non volere altri sovrani che i figli di Costantino, ossia Costantino II, che aveva 21 anni, Costanzo II, che ne aveva 20, e Costante, che ne aveva 17, trucidarono Dalmazio, Annibaliano e tutta la discendenza maschile di Costanzo Cloro, i più remoti congiunti e i loro fautori. Non scamparono che due fanciulli, figliuoli di un fratello di Costantino, Gallo e Giuliano, di cui l’uno contava 12 anni, e l’altro appena 6.

È difficile ricusare interamente le testimonianze positive dei contemporanei, che accusano di questo eccidio i figli di Costantino, massime Costanzo. La sommossa appare macchinata da un loro partito ed a loro vantaggio; ed è certo che poco dopo la strage, il 9 settembre, i tre fratelli ricevevano dal senato il titolo di Augusti; e l’anno [208] dopo si riunivano a Sirmio, per spartirsi di nuovo l’impero. Costanzo ebbe in più il Ponto, la Tracia con Costantinopoli, la Macedonia, l’Acaia; Costantino II la Mauretania; solo Costante pare non abbia aumentato i propri territori.

L’assolutismo asiatico non aveva tardato molto a insanguinare con le sue congiure di palazzo la nuova capitale. Questo eccidio fu seguito da un’amnistia a favore degli Atanasiani, i quali ritornarono dall’esilio. A spiegare questo voltafaccia, che sconfessava, quasi appena morto, Costantino, è necessario sapere che fu voluto da Costante e da Costantino II. Mentre l’Oriente era in prevalenza ariano, le province dell’Occidente propendevano invece per l’atanasianesimo. La rivalità, che da secoli divideva le due parti dell’Impero, rinasceva ora nella chiesa cristiana e specialmente nei due episcopati di Roma e di Alessandria. Il primo aspirava a imporre con il simbolo di Nicea la sua supremazia; intorno al secondo e nell’arianesimo ardevano tutte le ambizioni di indipendenza o di primato delle grandi chiese orientali, le più antiche e le più attive, come Cesarea, Antiochia, Tiro, alle quali ora si univa Costantinopoli. Si intende dunque, ora che l’impero non era più governato da un solo sovrano, che i due Augusti d’Occidente volessero far cessare la persecuzione degli Atanasiani, malvista nei loro Stati, mentre a Costanzo conveniva piuttosto continuarla. La discordia era, aperta o latente, in tutto l’impero: nella Chiesa come nella Corte. E nella Corte non tardò a scoppiare in [209] una guerra civile, quando Costantino II e Costante (secondo si può supporre) vollero spartirsi l’Africa settentrionale. Il primo, approfittando di un’assenza di Costante, si gettò sull’Italia, sperando scacciarne il collega e ripetere così le gesta del padre contro Massenzio del 312; ma fu vinto ed ucciso non lungi da Aquileia (340).


76. Il primo scisma cristiano. I concilii di Sardica e di Filippopoli (344). — Costanzo non si oppose alla usurpazione che raddoppiava la potenza di Costante; e la ragione fu che con le province aveva ereditato dal padre anche la guerra persiana, ch’era appunto cominciata nel 338. Ogni anno, a primavera, il re di Persia, Sapore II, scendeva a devastare la pianura tra il Tigri e l’Eufrate, ad incendiare le messi, ad assediare le piazzeforti, a saccheggiare le città aperte, a trucidare gli abitanti, a turbare i commerci e le industrie, schivando sempre ogni battaglia decisiva. Attanagliato da questa guerra esauriente, Costanzo non poteva intervenire negli affari interni dell’impero. Alla guerra persiana si aggiungevano le turbolenze religiose e civili. Costanzo non resiste più allo spirito esclusivo del Cristianesimo; e incomincia a perseguitare il Paganesimo. Nel 341 proibisce i sacrifici[93]. Ma mentre si impegna in questa lotta suprema contro il culto millenare della Grecia e di Roma, le eresie della religione trionfante non gli dànno tregua. Atanasio, appena ritornato ad Alessandria, aveva ripreso la guerra contro l’arianesimo, chiamando in aiuto non solo i due imperatori, ma anche i [210] vescovi dell’Occidente, tra i quali il Papa di Roma; condannando la politica religiosa degli ultimi anni di Costantino e del suo successore. Molti altri seguaci suoi, amnistiati, avevano imitato l’esempio; l’agitazione religiosa aveva divampato in tutto l’impero; sollecitato da varie parti, il papa Giulio aveva convocato un concilio a Roma nel 340, invitando anche i vescovi dell’Oriente. Ma un gruppo di vescovi dell’Oriente, quelli di Cesarea, di Antiochia e di Costantinopoli tra gli altri, risposero con una lettera da Antiochia, ponendo i principî di quello che sarà lo scisma d’Oriente, che dura tutto oggi: i diritti di tutte le chiese essere uguali, nessuna preminenza spettare a quella di Roma. Il concilio si tenne egualmente e assolse Atanasio; ma nel 341 un altro concilio, tutto composto di vescovi orientali, si teneva in Antiochia; e questo riconfermava, sia pure attenuandola, la formula dell’arianesimo.

La lotta tra l’arianesimo e l’atanasianismo prendeva forma di un conflitto tra l’Oriente e l’Occidente, che involgeva i due imperatori, ciascuno dei due partiti cercando di adoperare a proprio vantaggio l’autorità dell’Augusto a cui obbediva. Disgraziatamente per l’arianesimo, in quel momento Costante, che aveva preso le province di Costantino II, era più potente di Costanzo, impegnato nella lunga guerra contro i Persiani. Così, quando sulla fine del 342 o nel 343, come sembra, Costante propose al fratello un concilio ecumenico a Sardica (Sofia), ai confini dei due [211] imperi, per comporre il dissidio, Costanzo non potè rifiutare, per quanto sia probabile che Costante mirasse, più che a confermare il simbolo di Nicea, a far riconoscere dal concilio la supremazia della Chiesa di Roma, vantaggiosa a lui anche per ragioni politiche. I vescovi orientali badarono infatti soprattutto a eludere questa questione e ci riuscirono. Approfittando dell’intervento di Atanasio e di altri religiosi, che essi giudicavano eretici, si ritirarono, si radunarono in un concilio separato a Philippopolis (344), protestando contro la invadenza degli Occidentali che volevano riformare le deliberazioni dei concilî orientali e scomunicando non solo Atanasio, ma lo stesso papa Giulio. A questa scomunica i vescovi ortodossi dell’Oriente e dell’Occidente risposero con una lettera al Papa, nella quale dichiaravano solennemente il loro rispetto per l’episcopato romano, e «in onore della memoria di Pietro» gli riconoscevano il diritto di giudicare in appello tutte le condanne, che i vescovi avessero subito altrimenti. La Chiesa di Roma era proclamata capo della cristianità ortodossa. Ma i vescovi radunati a Philippopolis dichiararono a lor volta, con una lettera circolare, di non riconoscere la supremazia della Chiesa di Roma, e di riconoscere ai concilî soltanto il potere di governare spiritualmente la Chiesa. Così nasceva la Chiesa scismatica orientale[94]. Intorno allo stesso tempo è ordinata la chiusura di tutti i templi pagani; il culto antico è dichiarato reato e punito[95].

[212]


77. Costanzo unico imperatore (353): il concilio di Milano (355). — Tuttavia i deliberati del concilio di Sardica furono applicati anche in Oriente. Costante, approfittando delle difficoltà in cui la guerra persiana metteva Costanzo, riuscì ad ottenere che Atanasio fosse restituito al seggio episcopale di Alessandria e che in tutto l’Oriente cessasse la persecuzione contro i seguaci del simbolo di Nicea. La unità della Chiesa parve ricostituita, ma per una pressione politica dell’Occidente sull’Oriente: procedimento pericoloso, che portava in sè una guerra civile tra i due imperatori. La sorte sola impedì che il mondo vedesse i figli di Costantino in guerra per una questione teologica: un giorno, mentre Costante era a caccia, il suo magister militum, un barbaro d’origine germanica, un Magnenzio, d’accordo con il comes largitionum, fu acclamato Augusto, e l’imperatore legittimo ucciso (18 gennaio 350). Poco dopo nell’Illirico, la provincia che ancora non dimenticava di avere dato all’impero i grandi capi del terzo secolo, un altro usurpatore, un Vetranione, seguiva l’esempio di Magnenzio (1º marzo 350).

Costanzo questa volta si risolvè a conchiudere con la Persia un armistizio; e alla fine del 350 o ai primi del 351 mosse con grandi forze verso la Macedonia. Con gli intrighi, il denaro e i ricordi del padre riuscì a sobillare le legioni di Vetranione e a persuader costui a rinunziare per sempre alla porpora; poi si accinse a far guerra a Magnenzio. Magnenzio, che sembra aver cercato appoggiarsi sui pagani perseguitati, fu un nemico [213] più difficile di Vetranione, e per debellarlo fu necessaria una guerra di due anni. Dopo la battaglia di Mursa (in Pannonia) — 28 settembre 351 — Magnenzio fu costretto a ritirarsi in Aquileia dove svernò, sperando di poter chiudere le Alpi ai suoi nemici: ma questi le sforzarono nell’anno seguente, ributtandolo sulle Alpi Cozie e di là nella Gallia, a Lione, dove, abbandonato dai suoi soldati, si uccise. Tutta la sua famiglia fu trucidata e con essa un gran numero di partigiani, veri o supposti.

L’unità dell’impero era ricostituita. Pagani e cristiani ne sentirono subito l’effetto. Caduto Magnenzio, la persecuzione del Paganesimo fu inasprita; e la decapitazione fu minacciata a chi praticasse l’antico culto[96]. La morte di Costante invece era stata una grande fortuna per gli ariani. Non passò molto tempo, che i loro intrighi contro Atanasio e contro i vescovi seguaci del concilio di Nicea, incoraggiati dal favore dell’imperatore, gettarono un tal disordine in tutto il mondo cristiano, che il papa Liberio chiese all’imperatore di convocare un concilio. Costanzo acconsentì e convocò il concilio a Milano, ma con intenzione diversa da quella del Papa: per annullare le deliberazioni del concilio di Nicea e stabilire la supremazia del Cristianesimo orientale sull’occidentale. Nel principio del 355 convennero infatti a Milano ben 350 vescovi, quasi tutti occidentali però, e quindi seguaci del simbolo di Nicea. Ma Costante gettò sulle bilance del concilio tutto il peso della sua autorità di solo imperatore. Intervenuto in persona, apertamente, egli pronunziò [214] le famose parole, che contenevano la prima aperta sfida dell’impero alla autorità della Chiesa: «La mia volontà deve essere considerata come la regola. I miei vescovi di Siria approvano che io parli così. O voi obbedite, o quelli di voi che non obbediranno saranno condannati all’esilio....»[97]. E non furono vane minacce. Chi non volle condannare Atanasio, lo stesso papa Liberio, fu costretto a prendere la via dell’esilio; Atanasio, condannato dal concilio, si rifugiò nei monasteri della Tebaide; in Occidente e in Oriente tutti i vescovi fedeli al simbolo di Nicea furono deposti, perseguitati, minacciati; il terrore regnò in tutta la Cristianità. Ma a Costantinopoli, ad Alessandria, a Roma, a Napoli, in Gallia scoppiarono insurrezioni popolari contro i vescovi che vennero a sostituire gli esiliati, e una nuova guerra, nel tempo stesso religiosa e politica, incominciava tra l’Occidente e l’Oriente.


78. Gallo e Giuliano Cesari (351-355). — L’impero riunificato abbisognava di luogotenenti. Costanzo non era uomo da regger solo tutto l’impero di Diocleziano e del padre suo. Senonchè non era cosa facile trovare, in quella Corte, un collaboratore capace e sicuro. In mancanza di meglio Costanzo, che non aveva figli, ricorse al maggiore dei due cugini, scampati per miracolo all’eccidio del 337: Gallo. Gallo e il fratello suo, Giuliano, erano sino ad allora vissuti in un esilio, poco dissimile da una prigionia: prima, l’uno a Efeso, l’altro a Nicomedia, poi ambedue insieme [215] nella solitaria Macellum, in Cappadocia. Gallo, che contava ora 25 o 26 anni, fu nominato Cesare (351) e incaricato del governo dell’Oriente. Diffidentissimo, Costanzo, non si era accontentato di fargli giurare sugli Evangeli la fedeltà; gli aveva posto a fianco dei ministri, i quali dovevano sorvegliarlo; gli aveva dato in isposa la sorella sua Costantina, e si era riserbato la nomina di tutti i principali ufficiali e funzionari del suo esercito e della sua Corte. Ciò non ostante, e forse a cagione di queste precauzioni, l’odio e i sospetti fra Gallo, uomo poco capace, e l’imperatore, si invelenirono, sinchè, dopo tre anni il Cesare era richiamato e in viaggio, a Pola, imprigionato e giustiziato, insieme con molti amici e fedeli (fine del 354).

Intanto gravi difficoltà nascevano in Occidente, dove nel 354, mentre Gallo era giustiziato a Pola, e Costanzo preparava il concilio di Milano, i Germani occupavano le due Germanie — la Gallia orientale dal lago di Costanza fino al mar del Nord — penetrando nell’interno, devastandolo, smantellando le fortezze. Costretto a mandare un generale in Occidente, Costanzo, non ostante la mala prova fatta da Gallo, sia perchè non aveva altri, sia per le istanze della imperatrice, la mite Eusebia, pensò al fratello di Gallo: Giuliano. Gallo era stato un incapace, più che un ribelle; e Giuliano, un innocuo, un letterato, avrebbe dovuto rappresentare nominalmente l’autorità imperiale. Il potere sarebbe stato nelle mani dei personaggi, che Costanzo gli avrebbe messi al fianco. Così il relegato di Macellum era [216] creato Cesare, con l’incarico di governare la Gallia, la Spagna, la Britannia (fine del 355).


79. Il primo quadriennio di Giuliano in Gallia (355-359). — Giuliano aveva appena 25 anni e nessuna pratica del governo e delle armi. La sua giovinezza era trascorsa nell’esilio, tra i libri, nei lunghi dialoghi silenziosi con Omero, Esiodo, Platone, nell’umiliazione delle pratiche cristiane e nella memoria del sangue, che aveva spruzzato la sua fanciullezza, sotto il geloso spionaggio di mille occhi. Eppure in quel cervello di retore filosofo, in quel cuore umiliato dalla persecuzione, in quel corpo gracile e malaticcio, si nascondevano una volontà, una passione, una energia straordinarie.

In Gallia apparve subito che nel filosofo c’era la stoffa di un grande soldato. In pochi mesi egli imparò l’arte della guerra vera. Per non arrischiarsi se non in imprese che fossero sicure per la preponderanza del numero, troppo spesso i generali di Costanzo lasciavano i barbari saccheggiare il paese sotto i loro occhi. Giuliano capì subito che bisognava osare e operare. Nel 356, udendo che Autun era minacciata dai barbari, accorre e la libera; poi con rapida marcia raggiunge la valle del Reno, libera Colonia e la fortifica, come fortifica Treveri; sostiene con vigore e fortuna in pieno inverno un assedio entro le mura di Sens, sebbene il generale che Costanzo gli ha messo a fianco, Marcello, non lo aiuti. L’anno dopo (357), sebbene anche questa volta mal secondato dai suoi generali, riesce a catturare [217] un gran numero di barbari reduci da un mancato assalto a Lione. Poi caccia innanzi a sè altri barbari al di là del Reno; li insegue a guado tra gli isolotti del fiume; e ne mena una strage inaudita; sinchè ad Argentoratum (Strasburgo) nell’estate del 357, affronta, con soli 13.000 soldati, un esercito alemanno triplo di numero, che pochi giorni prima aveva disfatto 25.000 uomini condotti da uno dei più provetti generali di Costanzo. Ma le sue legioni, ormai temprate, sconfiggono a sera il nemico.

Nè attese solo a far guerre. Nel 358 e nel 359 Giuliano risuscita l’antica flotta del Reno, i cui navigli superstiti marcivano oziosi nei greti del fiume; ne fa costruire quattrocento nuovi, purga le due rive del fiume dai barbari superstiti, rialza le antiche fortezze distrutte, obbliga gli stessi barbari a fornire le materie e gli uomini occorrenti, ripopola coi prigionieri le campagne galliche deserte, riduce a un quarto l’imposta personale (la capitatio) che la Gallia pagava, assume l’amministrazione delle contrade più rovinate, allontanando tutti gli agenti del fisco e curandosi egli in persona della riscossione delle imposte. Nella seconda metà del 359, fa una punta in pieno paese nemico, nell’alta Germania, e qui, novello Cesare, ribadisce nel cuore delle popolazioni, il convincimento che Roma aveva ancora una spada.

Alla fine dell’anno, egli avrebbe potuto dire, come scriverà più tardi: «Ho passato tre volte il Reno, ho strappato ai barbari 20.000 prigionieri. Due battaglie e un assedio mi hanno fatto padrone di 1000 nemici nel fiore dell’età.... Ho riconquistato [218] non meno di quaranta città, e, col favore degli Dei, tutte le Gallie giacciono sotto la mia signoria....»[98].


80. La fine di Costanzo (359-361). — Ma nel 359 rinasceva il pericolo persiano. Sapore II di nuovo minacciava l’Armenia e la Mesopotamia; e questa volta, pare, con maggiori forze e con maggiore fortuna; poichè riusciva a prendere la fortezza di Amida, e, ritornando all’attacco nell’inverno successivo, Bezabda e Singara, che distrusse.

Costanzo era sempre in grandi travagli per l’unità religiosa dell’impero. Nel 359, i due Concilî di Rimini e di Seleucia Isaurica approvavano, in luogo del simbolo di Nicea, una formula vaga e imprecisa con la quale, sotto apparenza di conciliazione, gli ariani speravano impadronirsi definitivamente del governo della Chiesa. Senonchè per le moltitudini, le formule teologiche erano anche bandiere, intorno a cui si raccoglievano le passioni o gli interessi mondani; onde, allorchè Costanzo volle imporre all’universo la concordata formula ariana, tutto l’impero riarse di mille insurrezioni popolari. Costretto dal nuovo attacco persiano a trascurare le dispute religiose, Costanzo lasciò Milano, spedì a Giuliano l’ordine di inviargli una parte delle sue forze, e partì per l’Oriente. Ma questo ordine doveva esser scintilla di nuova guerra civile. Sia che le legioni di Gallia fossero molto affezionate al loro generale, sia che si componessero per buona parte di Galli, i quali si erano arruolati per difendere il loro paese contro i Germani e non [219] per andare in Asia, all’annuncio dell’ordine di Costanzo scoppiò una sedizione militare, che proclamò Giuliano Augusto. Per un momento il giovane Cesare esitò, e tentò di resistere alle voci acclamanti dei soldati. Ma il suo buon genio non lo fece perversare in quell’impresa impossibile e pericolosa; e alla fine, si presentò ai soldati, dichiarandosi pronto a dividere il loro destino.

Tuttavia non solo volle che i partigiani e gli emissari di Costanzo non patissero offesa alcuna, ma egli stesso lealmente informò Costanzo dell’accaduto e richiese che fossero le legioni a domandare per lui il titolo di Augusto. Costanzo rispose facendo grandi preparativi contro il nuovo Magnenzio. Ma Giuliano non era nè Magnenzio nè Gallo; nè la sua arrendevolezza era inerzia o inettitudine. Allorchè s’accorse che l’imperatore era irremovibile, decise di prevenirlo e di muover contro l’Augusto dell’Oriente non solo le sue forti legioni, ma i silenziosi risentimenti del paganesimo umiliato. Dalla Gallia, per la prima volta, egli fece precedere la sua offensiva da un manifesto, la così detta Epistula ad S. P. Q. Atheniensem, che doveva raccozzare sotto le sue bandiere i pagani di tutto l’impero. Indi, lasciato in Gallia il suo amico Sallustio, quale prefetto del pretorio, con rapidità fulminea iniziò l’offensiva dividendo l’esercito in tre corpi, e dando loro come luogo di convegno Sirmio, in Pannonia. In gran fretta Costanzo, stipulato un armistizio coi Persiani, ripigliò la via dell’Europa. Ma a Tarso l’assalì una febbre violenta, e poco dopo moriva a Mopsucrena, il 5 ottobre 361.

[220]


81. La reazione pagana: Giuliano l’Apostata (361-363). — Allorquando Giuliano giunse a Costantinopoli, fu accolto con entusiasmo. Il popolo, i ministri di Costanzo, la Corte uscirono tutti ad incontrarlo e a prestargli il solenne giuramento di fedeltà. Lo stesso senato di Roma, che dapprima aveva esitato, si affrettò ora a rimettergli quel senatus consultum, che conferiva i consueti e pieni onori imperiali. Il giubilo non fu minore tra i pagani che tra i cristiani. Gli ortodossi gioivano della morte dell’uomo che per tanto tempo li aveva conculcati; e gli ariani assistevano tranquilli al mutamento, ritenendosi ormai abbastanza forti.

In verità Giuliano ascendeva all’impero, dopo un governo che per circa trent’anni aveva ferito molti interessi, e lasciato aggrovigliare numerose difficoltà. In quei trenta anni il pericolo persiano era diventato cronico in Oriente: in Occidente i barbari della Germania avevano potuto correre liberamente le più fiorenti contrade della Gallia. Le province incominciavano a piegare spossate sotto il peso di un sistema tributario, che oramai non risparmiava più nulla, nè l’agricoltura, nè l’industria, nè il commercio, nè le professioni, che tutte continuavano a deperire, non ostante le coercizioni sempre più numerose o violente con cui lo Stato si sforzava di rianimarle. La religione era un caos. I cristiani perseguitavano i pagani, e si perseguitavano tra di loro con furore anche più violento.

Giuliano giungeva al momento opportuno. Ma l’immenso disordine dell’impero si sarebbe lasciato [221] dominare da un solo uomo? I propositi dell’imperatore erano di un’altezza e nobiltà quasi sublime. Come Marco Aurelio, Giuliano era un filosofo, che si era fatto del dovere un culto mistico. «Noi dobbiamo», egli scriverà, «trarre in tutto ispirazione dall’essere immortale che vive in noi, a questo affidare il governo delle cose private e delle città, e considerare la legge come l’applicazione della ragione universale.... Un principe, che è pure un uomo, ha bisogno di spiritualizzarsi nei suoi sentimenti e di bandire interamente dalla sua anima ciò che essa reca di mortale e di comune coi bruti.... Egli deve perciò emanare non norme d’occasione, opera di gente, che non è vissuta secondo ragione; ma leggi degne di uomini dal cuore e dallo spirito puri, che non si sono ristretti a considerare i mali di oggi e le sole circostanze presenti. Egli deve legiferare, non per i contemporanei, ma per i posteri, per gli stranieri, per gli uomini con i quali non ha, nè potrà sperare di aver mai rapporto alcuno».

In nessun principe la pratica seguì così da vicino la teoria. Appena giunto a Costantinopoli, Giuliano ripulisce di tutti gli innumerevoli parassiti — barbieri, coppieri, cuochi, eunuchi, delatori, uscieri, segretari, domestici, paggi, guardarobieri, medici — la Corte; riduce il personale allo stretto necessario; piglia in mano, così come aveva fatto in Gallia, l’amministrazione finanziaria e giudiziaria. Un contemporaneo, non uso all’iperbole, avrebbe poco dopo scritto di lui: «Si sarebbe in verità pensato che l’antica Giustizia, che un poeta descrive risalita per le colpe degli [222] uomini in cielo, fosse novamente ridiscesa sulla terra». Il suo governo prende di nuovo un carattere repubblicano. Giuliano respinge il titolo di dominus; osserva di nuovo le cerimonie, che un tempo solevano compiersi all’assunzione delle magistrature repubblicane; onora il senato costantinopolitano così come Traiano aveva onorato quello di Roma.

Ma la pietra di paragone, non del suo valore, ma della possibilità di dominare il disordine crescente dei tempi, doveva essere la religione. Giuliano non considerava il Paganesimo e il Cristianesimo come un filosofo, ma da soldato e da magistrato. Non potendo indovinare che il Cristianesimo era il seme di un mondo nuovo, doveva considerarlo come un dissolvente, aggiunto ai molti che già disfacevano l’impero. Per quanto la Chiesa avesse cercato di addolcire la contradizione, lo spirito del Cristianesimo era in contrasto con quello, da cui, per secoli, lo Stato romano era stato sorretto. La conquista, la guerra e il dominio, la opposizione della barbarie e della romanità, la missione di Roma nel mondo, il dovere del matrimonio e della paternità, la subordinazione del singolo allo Stato, lo spirito civico e politico, repugnavano al Cristianesimo che o li combatteva apertamente o li screditava tacitamente. Nè basta: lo Stato antico aveva fatto suo quel tanto di religione, che bastava a dare un carattere sacro al suo compito civile e politico. Per il resto, esso stava al di sopra di tutte le religioni; era quasi uno Stato laico, che esercitava su tutte, imparzialmente, una missione civile. La Chiesa cristiana [223] invece pensava che il mondo è governato dalla Provvidenza, non in vista dei suoi interessi civili, ma per superiori disegni divini; che perciò, se i cittadini dell’impero servono l’Imperatore, costui serve Iddio, ed è subordinato alla Chiesa, che rappresenta Dio in terra. Per quanto la debolezza obbligasse la nuova religione a riconoscere la supremazia dello Stato, era insita nella sua dottrina l’aspirazione a far dello Stato uno strumento proprio.

Non è dunque da stupire che un imperatore romano, il quale aveva ricevuto un’alta coltura filosofica, si convincesse esser suo dovere risollevare il Paganesimo, riformare i rapporti tra l’Impero e la Chiesa. Giuliano però non rinnova le persecuzioni; ripiglia la vecchia dottrina dello Stato pagano, conservata ancora da Costantino: il Paganesimo essere la religione dello Stato, tutti gli altri culti essere consentiti; ma intendendo questa formula nella sua pienezza. Egli pensa che lo Stato pagano non può disinteressarsi della sua religione; che esso deve avere una fede religiosa al riparo dei colpi di qualunque critica filosofica; non dogmi e leggende mitologiche, ma una forte coscienza morale comune a tutti i consociati. Non erano concetti nuovi. Augusto, Vespasiano, Traiano non avevano pensato e operato diversamente. Solo, dinanzi a un nemico fatto ormai più minaccioso, l’opera di Giuliano dovrà essere più vigorosa.

Anzi tutto, perchè l’eguaglianza tornasse a regnare tra tutte le religioni viventi all’ombra dell’impero, occorreva abolire i privilegi che la [224] Chiesa aveva conquistati e porre termine a tutte le persecuzioni, quelle di cui eran vittime i pagani come quelle di cui eran vittime i cristiani. Giuliano ordina che i beni, attribuiti alla Chiesa, siano restituiti agli antichi enti morali, che n’erano stati spogliati; che gli ecclesiastici, banditi quali eretici, siano richiamati dall’esilio; che i privilegi del clero siano aboliti.

Ma non era che l’esordio. A risuscitare l’anima della romanità pagana, occorreva l’azione degli scrittori, della scuola, del clero, di tutta la società[99]. Giuliano vuole che la cultura e la scuola pagana riprendano l’antico ufficio; e che il sacerdozio pagano adotti tutte le virtù e tutti i procedimenti che al Cristianesimo erano riusciti così bene. Giuliano cerca di dare al Paganesimo una organizzazione ufficiale e un corredo di istituzioni di beneficenza, simili a quelle del Cristianesimo. Contro una dottrina esclusiva, l’esclusione è una ritorsione, a cui è fatale che chi lotta ricorra, prima o poi. Se la scuola doveva essere come un tempio della romanità pagana, occorreva escludere da questa i maestri cristiani, e rimandarli alle scuole cristiane[100]. Se ogni ufficio di Stato, e primo fra tutti la milizia, doveva essere esercitato con piena coerenza, bisognava, come Diocleziano, espellere dalle magistrature e dall’esercito i cristiani.

Ma poteva la nuova religione tollerare tutto ciò? Mentre pochissimi puri e intransigenti cristiani applaudivano ai divieti imperiali, che assicuravano il Cristianesimo da ogni immondo contatto [225] con la società degli infedeli[101], la moltitudine, scettica e stanca, dei pagani disapprovava lo spirito battagliero del suo principe, quella dei cristiani si rivoltava. Sedizioni, risse, conflitti tra pagani e cristiani, tra cristiani e cristiani furono l’effetto di queste prime misure, massime in Oriente. Per quanto Giuliano fosse animato da un alto spirito di concordia e di pacificazione, le sue riforme avrebbero acceso nell’impero una discordia terribile, se l’opera sua avesse potuto continuare lungamente.


82. La grande spedizione persiana (marzo-giugno 363). — Ma Giuliano non era uomo da pensar solo alla religione. Fin dal 362, apparecchiava una gigantesca impresa militare che avrebbe dovuto toglier di mezzo per sempre il pericolo persiano: una spedizione in Persia, con lo scopo di ridurre quell’impero a Stato cliente, quale l’Armenia, e di rinnovare all’incirca il fallito tentativo di Traiano. Giuliano aveva preparato una armata fluviale potente, un’artiglieria perfetta e un esercito numeroso ed agguerrito: 1000 navi da carico, 50 galere da combattimento, 50 bastimenti pontieri, 100.000 uomini, oltre gli aiuti, che sarebbero venuti dall’Armenia. Anche il suo piano strategico doveva essere modellato su quello, antico e fortunato, di Traiano: invadere la Persia da due parti e con due eserciti, che si sarebbero poi congiunti sulla sinistra del Tigri, per muovere insieme alla conquista dell’interno.

La campagna incominciò bene. Tutte le fortezze [226] dell’Eufrate furono o conquistate con la forza o costrette alla resa, e l’esercito felicemente trasportato dall’Eufrate al Tigri, e dalla destra alla sinistra di questo fiume. In due soli mesi, sempre combattendo e vincendo, Giuliano era quasi arrivato alle porte di Ctesifonte. Pur troppo l’altra porzione del suo esercito, che con i contingenti armeni aveva marciato nell’alta Mesopotamia e discendeva a sud lungo la riva sinistra del Tigri era ancora troppo lontana. Giuliano non si lanciò all’assalto di Ctesifonte, la maggior fortezza persiana, ma ripiegò verso il nord-est per andare incontro all’altro corpo di spedizione e per cercar di trarsi dietro l’esercito persiano, trovando, durante la marcia, l’occasione di una battaglia campale. A tale scopo occorreva sbarazzarsi della flotta, che avrebbe immobilizzato nel rimorchio ben un terzo dei 60.000 uomini, di cui Giuliano disponeva, ed egli non esitò. L’esercito, bruciata la flotta, si avviò verso il nord seguito dai Persiani, che ripigliavano l’antica tattica usata dagli Sciti con Dario I: incendiare i borghi e le campagne, molestando e insieme fuggendo il nemico, invisibili e inafferrabili. Quand’ecco il 26 giugno, in un nuovo assalto persiano, mentre i soldati romani respingevano il nemico, un dardo, scagliato da mano ignota, colpiva al fianco mortalmente l’imperatore, che combatteva tra gli altri come un semplice soldato e per giunta senza corazza[102].

[227]

Note al Capitolo Decimo.

93.  Cod. Theod., 16, 10, 2.

94.  Su tutta questa parte della storia del Cristianesimo si può consultare Duchesne, Histoire de l’Eglise, Paris, 1911, vol. II, cap. VI.

95.  Cod. Theod., 16, 10, 4.

96.  Cod. Theod., 16, 10, 6.

97.  Athan., H. Arianor., 33.

98.  Julian., Epist. ad S. P. Q. Athen., pag. 280 c-d. Cfr. C. I, L. XI, 4781.

99.  Cfr. Liban., Orat., 18, pag. 574; Greg. Naz., Orat., 4, 111-112; Sozom., H. Eccl., 5, 16; e le Ep. 49, 62, 63 dello stesso Giuliano.

100.  Il famoso editto di Giuliano sull’insegnamento non è contenuto, come è naturale del resto, nei codici ufficiali, ma nella raccolta privata delle sue lettere (Jul., Ep. 42); cfr. anche Amm. Marc., 22, 10, 7; 25, 4, 20.

101.   Cfr. Socrat., H. Eccl., 3, 16.

102.  Sulla figura e sull’opera di Giuliano, cfr. R. D’Alfonso, I Retori del IV secolo: Giuliano, Imola, 1900; G. Boissier, La fin du paganisme, Paris, 1907, pagg. 85-147; G. Negri, Giuliano l’Apostata, Milano, 1902; C. Barbagallo, Giuliano l’Apostata, Roma, 1912; e in Nuova Rivista Storica, 1920, pp. 593 sgg. Lo Stato e l’Istruzione pubblica nell’impero romano, 239-80; A. Rostagni, Giuliano l’Apostata, Torino, 1920. Intorno alla spedizione persiana si raccontarono, dopo la morte di Giuliano, molte favole, che hanno finito per darle un colorito tragico. Dalle fonti risulta chiaro che l’esercito romano era in ottime condizioni, quando Giuliano morì; e che solo la morte dell’imperatore fece fallire l’impresa.

[229]

CAPITOLO UNDICESIMO L’INVASIONE

(363-393)

83. Gioviano, Valentiniano e Valente (363-375). — Giuliano morto, fu necessario trovargli un successore. La discendenza di Costantino era spenta. Anche quel faticoso sforzo per fondare l’autorità dell’impero sul principio dinastico falliva, dopo poco più di trent’anni, perchè la dinastia era già stata logorata e distrutta. Dove trovare il nuovo capo? Secondo quale criterio sceglierlo? La terribile difficoltà, che non dava pace all’impero da tre secoli e mezzo, si ripresentava tale e quale, come se tutti gli sforzi per vincerla fossero stati vani. I generali si radunarono a consiglio, ma discussero a lungo senza conchiudere. Quando, improvvisamente, un gruppo di soldati cristiani si diede ad acclamare uno dei comandanti della guardia imperiale: Gioviano. Nella discordia e nella incertezza generale, la proposta fu accettata. Ma il nuovo principe non possedeva nessuna delle qualità che i tempi chiedevano. Per maggior disgrazia la morte di Giuliano aveva sparso il panico tra i legionari. A quell’esercito disanimato e a quel principe improvvisato Sapore potè imporre [230] una pace per lui molto vantaggiosa, ottenendo l’abbandono delle conquiste di Diocleziano, ossia la perdita delle cinque province transtigritane, non escluse le fortezze della Mesopotamia e l’Armenia, cioè i baluardi avanzati della potenza romana in Oriente.

La pace veniva così a liberare la Persia dal pericolo della prossima congiunzione dell’esercito del Tigri con l’esercito dell’Armenia. Questa congiunzione avvenne infatti a Tilsafata (nella Mesopotamia inferiore); ma Procopio, il generale così tardivamente sopraggiunto, ricevette subito l’incarico di trasportare a Tarso le ceneri di Giuliano. Qualche mese dopo, a Dadastana (in Bitinia), prima ancora di avere potuto ricondurre in patria l’esercito, Gioviano moriva, non lasciando di sè, oltre alla lugubre onta della pace persiana, che la memoria di un nuovo editto religioso, il quale restituiva ai cristiani i loro privilegi.

Il nuovo consiglio di generali, che fu tenuto a Nicea, scelse un altro dei maggiori ufficiali della guardia, anch’esso originario della Pannonia (26 febbraio 364): Valentiniano. A richiesta dei soldati Valentiniano nominò a secondo Augusto il fratello suo Valente (28 marzo 364) e divise con lui l’impero: a sè l’Occidente, al fratello l’Oriente. Si affrettò poi a emanare leggi di tolleranza religiosa, che per la loro imparzialità possono paragonarsi all’editto di Milano del 313, ma in favore del Paganesimo, e non del Cristianesimo, e che in una certa misura giustificano la politica di Giuliano; volle rimanere al di sopra di qualunque controversia teologica, cercando solo impedire che [231] l’una parte soverchiasse quella avversaria con la forza[103]; creò un magistrato nuovo, il defensor civitatis, con il compito precipuo di proteggere il popolo minuto contro le prepotenze dei ricchi, confessione esplicita della crescente impotenza delle leggi e dello Stato; provvide infine a difendere contro i barbari le province occidentali sempre più minacciate. Nel 365 l’impero fu l’oggetto di un attacco germanico bene concertato; chè nel tempo stesso la Gallia e la Rezia furono assalite dagli Alamanni, le due Pannonie, dai Quadi e dai Sarmati, la Britannia dai Sassoni, Pitti e Scoti, le province africane, dai Getuli e Mauri, la Tracia dai Goti. Valentiniano riuscì nel 367 a infliggere agli Alamanni una seria sconfitta sui campi Catalaunici (a Chalons-sur-Marne); nel 368 invase il loro territorio; intrigò per seminare zizzania tra gli Alamanni e i Burgundi, e tanto fece che riuscì a concluder la pace, concedendo loro il titolo di alleati. Per domare nella Britannia i Sassoni, i Pitti e gli Scoti dell’Irlanda, fu necessario mandare un apposito generale, lo spagnolo Flavio Teodosio. Teodosio, in tre anni di guerra (368-370), riuscì a ristabilire quelli che erano stati i confini di Adriano; indi passò nell’Africa, dove represse le incursioni dei barbari e una rivolta tentata da uno dei maggiori latifondisti del paese, che era riuscito a farsi proclamare imperatore. I Quadi e i Sarmati penetrarono nella Pannonia e trucidarono le legioni romane; ma la provincia fu salvata dal figlio del vincitore della Britannia e dell’Africa, allora dux della Mesia, che portava anch’egli il nome di Teodosio. [232] Sopraggiunse l’imperatore, ma per poco; perchè nel novembre del 375 Valentiniano moriva improvvisamente nel campo di Bregitio nell’Illirico.


84. Graziano e Valentiniano II: la nuova guerra contro i Goti (375-378). — Meno difficili erano state sino ad allora le condizioni delle province orientali. Valente aveva dovuto reprimere parecchi tentativi di guerra civile; aveva avuto difficoltà, con gli Isauri e i Persiani, e fatta, dal 367 al 369, una piccola guerra vittoriosa, contro i Goti: ma insomma aveva avuto tempo e modo di sostenere l’arianesimo contro l’ortodossia occidentale, gettando legna sul fuoco delle discordie religiose. Quando, nel 375, un grosso pericolo si avventa sull’Oriente. Da Claudio il Gotico in poi, i Goti avevano lasciato in pace l’impero, salvo la breve guerra del 367-369. Essi occupavano ancora all’incirca il dominio che era stato loro nel terzo secolo, dal Don alla Transilvania, ed erano dalla linea del Dniester divisi in Grutungi (i futuri Ostrogoti) e Thervingi (i futuri Visigoti). Ma si erano convertiti al Cristianesimo ariano, e inciviliti in una certa misura; erano cresciuti di numero, di ricchezze, di potenza, conquistando altre popolazioni barbariche; avevano avviato commercio con l’impero, a cui avevano fornito milizie. Nel 375 anche su questi barbari si rovesciò il flagello di una nazione più barbara: gli Unni. Era una gente di razza gialla, congiunta perciò dei futuri Mongoli, che scorreranno e devasteranno l’Europa nel Medio Evo, nonchè dei più [233] tardi Turchi Ottomani. Gli Unni, dei quali si raccontavano cose orribili, erano un popolo numeroso e bellicosissimo; e movendo da Oriente a Occidente, prima avevano sottomesso gli Alani del Caucaso, poi, insieme con costoro, si erano gettati sui Goti. Gli Ostrogoti finirono per sottomettersi; e i Visigoti, disperando di resistere, chiesero all’impero d’Oriente il permesso di ripiegare al di qua delle fortezze della riva destra del Danubio (376). Valente non credette di respingere la domanda; ma impose che deponessero le armi e s’impegnassero, senza più il diritto all’annuo stipendio, a servire e difendere l’impero. Senonchè il governo imperiale si era addossato il carico di fornire di viveri una popolazione molto numerosa. Nell’esecuzione di questo compito sorsero controversie e litigi, finchè un giorno i Goti, esasperati, insorsero e si dettero a devastare tutta la Tracia, sin oltre i Balcani (377).

In Occidente frattanto gli ufficiali dell’esercito avevano elevato all’impero Graziano e Valentiniano II, ambedue figlioli di Valentiniano I, sebbene di madre diversa e il secondo, fanciullo di quattro anni. Le legioni provvedevano al principio di autorità, facendo uno strano miscuglio di sedizione militare e di principî dinastici. Valente s’affrettò a chiedere aiuti a Graziano. Ma Graziano non potè rispondere al suo appello, perchè appena le prime coorti si erano mosse alla volta dell’Oriente, gli Alamanni erano piombati sulla Germania superiore. Graziano dovè difendere le sue province; e le difese bene, infliggendo agli Alamanni una grave disfatta. Ma intanto la porzione [234] superiore della penisola balcanica cadeva nelle mani dei Goti e, quel ch’era più grave, la loro vittoria invitava altri barbari alla preda; gli Ostrogoti, gli Alani, gli stessi Unni. Qualche giorno prima del 9 agosto 378, in un grande consiglio di guerra fu deciso di impegnare col nemico, da lungo tempo ormai campeggiante in territorio romano, una battaglia decisiva, senza aspettare Graziano che, vinti gli Alamanni, si disponeva a venire in soccorso. Doveva esser questa la tremenda battaglia di Adrianopoli. I Romani toccarono una sconfitta sanguinosissima, nella quale perì lo stesso imperatore.


85. Teodosio e la pacificazione della penisola balcanica (378-382). — Gli effetti della disfatta furono grandi. Mentre i vincitori si spargevano per tutta la Tracia, osando assalire persino Adrianopoli e Costantinopoli, e di là ripassavano nell’Illiria, Sarmati e Quadi rivalicavano il Danubio, gli Alamanni si preparavano a ripetere il tentativo di qualche anno innanzi. Furono momenti terribili. «La terra è coperta di cadaveri e di sangue» esclama S. Gregorio Nazianzeno, e S. Girolamo nel 398 rincalzerà ricordando: «Sono venti anni e più che da Costantinopoli alle Alpi Giulie il sangue dei Romani è sparso tutti i giorni. La Scizia, la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia, la Dardania, la Dacia, la Dalmazia, le due Pannonie, tutto è devastato dai Goti, Sarmati, Quadi, Alani, Unni, Vandali, Marcomanni. Ovunque si saccheggia e si uccide.... Sui Corinzii, sugli Ateniesi, [235] sui Lacedemoni, sugli Arcadi, su tutta la Grecia comandano i barbari.... Quante acque di fiumi sono diventate rosse di sangue umano! Antiochia e le restanti città, bagnate dall’Halys, dal Cydno, dall’Oronte, dall’Eufrate, hanno sofferto le durezze dell’assedio; i prigionieri son trascinati via a branchi; l’Arabia, la Fenicia, la Palestina, l’Egitto sono in preda al panico, il mondo romano precipita....»[104]. In quel terribile flagello Graziano ebbe un’idea felice: incaricò Teodosio, figlio del valoroso difensore della Britannia e dell’Africa, di salvare l’Oriente. E Teodosio, che era un giovane di 33 anni, fu pari al difficile compito. Ricostituito in fretta l’esercito, senza impegnare alcun grande combattimento, con piccoli attacchi, cominciò a sterminare, una dopo l’altra, le bande gotiche, che, sparse qua e là, infestavano la Tracia e la penisola balcanica. Il primo resultato fu che, il 19 gennaio 379 Graziano elevava all’impero il suo generale, inaugurando così un’altra dinastia. Ma la conclusione di quella diuturna e difficile guerriglia fu la solita di tutti i precedenti conflitti tra Romani e barbari: parte dei Goti fu installata nella Pannonia, nella Tracia, nella Macedonia, nella Mesia, in veste di alleati, ossia con l’obbligo del servizio militare a difesa dell’impero (382).


86. La grande reazione cattolica (380-383). — Con Graziano, Valentiniano II e Teodosio, l’Occidente governa l’impero. Tutti e tre questi imperatori appartengono alle province Occidentali: [236] il che vuol dire che l’ortodossia torna a prevalere sull’arianesimo, la Chiesa di Roma sulla Chiesa d’Oriente. Graziano fu un fervente cattolico, un grande persecutore dell’arianesimo. Allorchè invitava Teodosio ad assumere la porpora, aveva già, nel 377, esonerato da una gran parte dei carichi pubblici tutti i sacerdoti e tutti gli addetti al culto cristiano[105]; l’anno successivo aveva espropriato tutti i luoghi destinati al culto dei non cattolici[106], e poco dopo, appena morto Valente, destituito numerosi vescovi ariani, sostituendoli con cattolici. Ma la grande azione religiosa ha principio col governo collegiale dei due Augusti. Il 3 agosto 379, Graziano e Teodosio proibiscono con un violentissimo rescritto tutte le eresie[107]. E, sei mesi dopo, il 27 febbraio 380, i due imperatori affermano in un altro editto la volontà di unificare la fede religiosa dell’impero, che doveva appunto essere quella del Concilio di Nicea, e chiamarsi ufficialmente cattolica; definiscono inoltre le restanti confessioni cristiane, più che chiese «conciliaboli di dementi e di cervelli insani», annunziando loro non solo la vendetta divina, ma altresì le persecuzioni del governo[108]. Nè la minaccia dovea rimanere lettera morta. Infine il 10 gennaio 381, il simbolo di Nicea era imposto per tutto l’impero come il fondamento del solo culto permesso, il «cattolico»[109].

Ma leggi dello Stato non bastavano. Occorreva rinforzarle con l’autorità spirituale. Nel maggio del 381, Teodosio convocava a Costantinopoli un concilio ecumenico e quivi il simbolo di Nicea fu [237] solennemente confermato; alla sede episcopale di Roma fu assegnato il primo posto tra le grandi sedi episcopali dell’impero, e a quella di Costantinopoli, elevata a rango di patriarcato, il secondo, al di sopra di quelle di Alessandria e di Antiochia, che pure si dicevano fondate dagli apostoli. Nello stesso anno, il vescovo di Milano, Ambrogio, e Graziano convocarono un altro concilio ad Aquileia. E questo, mentre da una parte segnò un nuovo trionfo del cattolicesimo, dall’altro stabilì l’obbligo del clero cattolico di pregare quotidianamente per gli imperatori.

I due concilî dovevano dare un nuovo impulso allo sterminio del Paganesimo. Teodosio e Graziano sullo scorcio del 381 minacciano gravi pene a chi continuasse a praticare atti del culto pagano[110]. Nel 382, ordinano la rimozione dalla Curia romana dell’altare della Vittoria, che, simbolo della potenza romana, Augusto vi aveva collocato dopo Azio; che Costanzo aveva tolto, e Giuliano ricollocato al suo posto. Ordinano che tutti i privilegi del sacerdozio pagano siano annullati; le rendite, fino ad ora corrisposte ai templi, soppresse; i beni, confiscati; impediti i lasciti a loro favore. Finalmente, in quello stesso anno o nell’anno successivo, Graziano, e di conseguenza Teodosio, primi tra gli imperatori, depongono l’antica carica di pontifex maximus.

Ma, nell’agosto del 383, d’improvviso, la Gallia era invasa da un nuovo pretendente, Magno Clemente Massimo, governatore, pare, della Britannia: uno spagnolo come Teodosio. Graziano, [238] che non era stato mai popolare, fu abbandonato dalle sue milizie e dai suoi generali, e assassinato, il 25 agosto.


87. La riscossa ariana in Occidente (383-387). — Massimo aveva preteso di rovesciare il solo Graziano, il più impopolare dei tre Augusti. Al fratello di costui, infatti, Valentiniano II, egli mandò per mezzo di S. Ambrogio parole di pace, insieme con la promessa di non oltrepassare le Alpi; e a Teodosio fece sapere che intendeva soltanto restare a capo delle province che erano state di Graziano: la Gallia, la Spagna, la Britannia. Teodosio non fece alcuna opposizione e riconobbe Massimo come Augusto, sia che non credesse opportuno impegnarsi in nuova guerra civile, sia che sperasse servirsi di Massimo. Valentiniano era ancor giovanissimo; governava perciò in sua vece la madre Giustina, seconda consorte di Valentiniano, la quale era aliena dall’intransigenza cattolica di Teodosio e di Graziano. Può essere quindi che Teodosio abbia sperato di bilanciare per mezzo di Massimo l’influenza di Giustina. Ma se questi erano i suoi disegni, Massimo lo servì anche al di là del suo desiderio. Così i pagani come gli ariani cercarono di approfittare della morte di Graziano; e Giustina, che era uno spirito tollerante, pensò di dare una soddisfazione agli ariani, imponendo al vescovo di Milano, S. Ambrogio[111], di cedere agli ariani, anch’essi cittadini e soldati dell’impero, la Basilica Porzia fuori le mura (S. Vittore ad Corpus), per l’esercizio del loro culto. Era un atto di conciliazione e di tolleranza [239] a profitto di una minoranza. Ma gli ortodossi si ribellarono; e S. Ambrogio potè minacciare e quasi scatenare, in Milano, una rivolta (Pasqua 385)[112]. L’autorità imperiale dovè per il momento cedere alla sommossa, ma cercò di rifarsi: l’anno dopo Valentiniano II autorizzò gli ariani ad esercitare il loro culto (25 gennaio 386). Massimo credette giunto il momento di ripetere contro Valentiniano II l’impresa che gli era riuscita contro Graziano. Sicuro di Teodosio per il comune zelo cattolico, e, insieme, dell’Italia, in grande maggioranza cattolica, nel 387, calava inopinatamente nella pianura padana, come rappresentante dell’ortodossia contro le tendenze ariane di Valentiniano. Valentiniano, la madre e la sorella ebbero appena il tempo di imbarcarsi e fuggire alla volta dell’Oriente. Una volta ancora le dispute teologiche avevano servito di arma alle ambizioni.


88. Il primo conflitto tra Chiesa e Stato (387-390). — Ma Massimo era andato troppo oltre. Teodosio non poteva lasciar trucidare sotto i suoi occhi due imperatori, e consentire che la potenza dell’Augusto dell’Occidente s’accrescesse in tal misura. La bellezza della sorella di Valentiniano, Galla, fece il resto: l’imperatore cattolico, rimasto vedovo da poco, se ne invaghì e volle sposarla. Poco dopo moriva Giustina. Sparita la madre, Valentiniano s’affrettò a convertirsi al cattolicismo. L’impresa d’Occidente, dunque, non costituiva più un pericolo, e Teodosio, a capo di un esercito formato di Goti, Alani, Unni, nel quale militavano, [240] tra i generali, i franchi Ricimero e Arbogaste, si volse contro Massimo. Vinto a Sciscia (Sisech, nella valle della Sava) e poco dopo a Petovium (Petau, in Pannonia), egli non potè difendere, come sperava, i passi delle Alpi Giulie, e fu consegnato dai suoi stessi soldati al vincitore, che già arrivava alle porte di Aquileia, e poi decapitato (estate 388). Valentiniano era così ristabilito nella pienezza dei suoi poteri. Ma non si trattava che di una lustra; egli non contava che 17 anni; il vero Augusto dell’Occidente sarebbe dunque, d’ora innanzi, stato Teodosio.

Con la vittoria di Teodosio il cattolicesimo trionfa; trionfa a tal punto che si libera dalla tutela, a cui l’impero aveva sino allora sottomesso la Chiesa. Il grande arcivescovo di Milano formula in questi anni, apertamente, la dottrina che tanto l’imperatore Giuliano aveva paventata: essere lo Stato subordinato alla Chiesa, scopo della società terrena essendo la salute celeste. In questi anni egli stesso reclama una più diretta ingerenza nel Concistoro, nel controllo degli atti dello Stato, lasciando intravedere che una rivolta contro lo Stato medesimo è altrimenti possibile. Una piccola avvisaglia si ebbe a proposito della distruzione di una sinagoga in una minuscola cittadina asiatica sull’Eufrate, a Callinicum, per opera di quel vescovo. Teodosio, poichè nessuna legge vietava il culto ebraico, avrebbe voluto che quel tempio israelitico fosse ricostruito a spese del vescovo, e che gl’incendiari fossero puniti. S. Ambrogio si oppose. «Io ti scrivo, egli disse rivolgendosi all’imperatore, perchè tu mi [241] ascolti nel tuo palazzo, affinchè io non sia forse costretto a farmi ascoltare nella Chiesa....»[113]. E poichè l’imperatore non cedeva, il vescovo sospese per lui le funzioni religiose.

Teodosio cedette; ma successe di peggio. Nel 390 scoppiava a Tessalonica una grande rivolta, nella quale perirono il governatore, alcuni magistrati e taluni degli ufficiali colà di presidio. Teodosio, irritato, fece eseguire come rappresaglia un massacro nel Circo, in cui innocenti e colpevoli furono insieme uccisi in quantità. Per la prima volta allora la voce di un vescovo — era ancora Ambrogio — si levò a rinfacciare all’imperatore la sua crudeltà, e come castigo gl’interdisse l’ingresso della Chiesa. L’imperatore dovette cedere una seconda volta, e, poichè i morti di Tessalonica non potevano essere resuscitati, egli espiò la sua colpa astenendosi fino al prossimo Natale da qualunque partecipazione a qualunque cerimonia della Chiesa. La logica delle cose seguiva il suo corso: più l’impero si indeboliva, e più ardita la nuova religione si faceva innanzi, per prendere il governo del mondo.


89. La nuova guerra civile (391-395). — Ma una simile capitolazione dell’autorità imperiale non poteva non provocare la reazione del mondo pagano. E questa si manifestò in Oriente, in Egitto, ad Alessandria, dove nel 391 si ebbero vere e proprie battaglie per le vie tra pagani e cristiani. Ma dall’Egitto non tardò a passare in Italia dove il partito pagano era ancora numeroso. Un generale, che Teodosio aveva condotto seco dall’Oriente [242] contro Massimo e che, poco di poi, aveva respinto una invasione di Franchi al di qua del Reno con una fulminea controffensiva, un franco romanizzato, Arbogaste, venuto a conflitto con Valentiniano II, lo fece uccidere (15 maggio 392) e gli sostituì come Augusto un nobile romano, Eugenio, un uomo di gran conto e che aveva raggiunto uno degli uffici più alti nella cancelleria imperiale. Riconosciuto dall’Italia e dall’Occidente e sostenuto da Arbogaste, Eugenio tentava una vera restaurazione pagana. I sussidî ai templi furono ripristinati, l’altare della Vittoria ricollocato nella Curia, l’immagine di Ercole, sostituita alla croce sulle bandiere, decretata una generale sospensione di tutti i pubblici affari durante tre mesi (iustitium) allo scopo di procedere alla purificazione religiosa della città, ricelebrate solennemente tutte le feste inscritte nel calendario pagano.

La sfida era palese, e Teodosio non potè non raccoglierla. Perciò nel 394 marciò dall’Oriente, a capo di un esercito pieno di Goti, Alani, Unni, Iberi, Saracini. La battaglia decisiva avvenne il 5 settembre al di qua delle Alpi Giulie, sulle rive del Frigidus (il Vippacco, ad est di Gorizia). La prima giornata fu assai incerta per le armi di Teodosio; ma, nella notte successiva, l’oro valse più del ferro, e una parte dell’esercito di Arbogaste, fu indotta a disertare. La seconda giornata (6 settembre) sortì dunque vittoriosa per Teodosio. Arbogaste si uccise, Eugenio fu decapitato. Subito dopo il culto pagano fu di nuovo interdetto, i templi richiusi e distrutti. Molti capolavori [243] dell’arte antica perirono in questa, come molti erano periti nelle precedenti persecuzioni.


90. La crisi interna dell’impero alla fine del quarto secolo. — Cinque mesi dopo Teodosio moriva a Milano in età di soli cinquant’anni (17 gennaio 395). Egli fu l’ultimo, dopo Costantino e Diocleziano, di quella terna di insigni imperatori che cercarono di riorganizzare l’impero dopo la rovina e il caos del terzo secolo. Meno grande di Costantino, come Costantino era stato meno grande di Diocleziano, egli si adoperò quanto potè per curare i mali del tempo; ma se la fatica fu grande, l’effetto fu piccolo. Il mondo antico agonizzava; e nessuna forza umana poteva risanarlo. Le continue guerre civili ed esterne, le frequenti invasioni, le imposte, il duro fiscalismo dello Stato rovinavano ormai troppo facilmente quella che noi oggi chiamiamo la «ricchezza acquisita», le fortune antiche e consolidate. La riforma di Diocleziano, per cui i curiales, i membri delle curiae o dei piccoli senati municipali che reggevano le città, erano responsabili verso lo Stato dell’imposta di tutta la circoscrizione, era stata una calamità per le fortune medie. Come in tutti i tempi agitati, la ricchezza era diventata molto mobile e facilmente trapassava dall’uno all’altro; facilmente i ricchi cadevano in miseria, e dei poveri arricchivano; ma questa mobilità delle fortune distruggeva rapidamente i pochi avanzi superstiti di quella brillante civiltà cittadina, che era stata la gloria dell’impero al suo apogeo. Questa civiltà cittadina aveva posato, come vedemmo, [244] sopra un largo numero di solide fortune. Si aggiunga il grande rivolgimento di idee e di sentimenti generato dal cristianesimo, il rimescolamento delle razze, l’ascensione al potere delle popolazioni più rozze dell’impero, il crescente inquinamento dei barbari che si stabiliscono sui territori di Roma: e si capirà come la grande opera degli Antonini precipiti da ogni parte. Molte città si spopolano; i loro monumenti cadono in rovina; le arti e gli artisti che le abbellivano, le arricchivano, le divertivano, spariscono; le curie si vuotano; l’industria, il commercio, l’agricoltura, i servizi pubblici si sfasciano[114]. Il più savio consiglio sarebbe stato, forse, di lasciar compiere il destino e di ritornare a una vita più semplice. Il Cristianesimo avrebbe potuto aiutar l’impero in questo mutamento. Ma l’autorità imperiale aveva avuto troppa parte nel creare questa civiltà urbana; troppo prestigio e potenza aveva derivata dai suoi splendori; troppi interessi politici, economici, intellettuali la spingevano a continuare la sua tradizione secolare, perchè gli imperatori non cercassero di arrestare questa decadenza.

E lo tentarono con due mezzi, ambedue pericolosi: i privilegi e la coazione. Ai militari, ai veterani, agli artisti, la cui opera era necessaria alla bellezza, ai comodi e ai piaceri delle città — agli architetti, agli scultori, ai pittori — si accordano numerosi privilegi di ogni genere, tra gli altri la esenzione da molti carichi pubblici[115]. Ma i privilegi concessi a questi aggravavano ancora più il carico che pesava sugli altri; onde la vita del maggior [245] numero — oppresso dalle imposte e dall’obbligo di numerose prestazioni pubbliche — diventava molto penosa. Grande doveva esser dunque la tentazione per costoro di abbandonare lai loro professione, di cercar di entrare nelle professioni privilegiate, o — i più disperati — di acconciarsi a vivere della beneficenza dello Stato o di quella, molto più larga, della Chiesa, o di fuggire gli infiniti fastidi della vita civile entrando nel sacerdozio cristiano. Il monachismo si sviluppava, accogliendo tutti questi disperati. Per rimediare a questo male, per impedire che la società si trovasse ad abbondare di scultori e pittori, mancando invece di contadini e di fornai, l’impero sempre più si impegna in quella politica coercitiva del lavoro, di cui abbiamo visto i primi tentativi ai tempi di Costantino. Parecchie condizioni sociali e non pochi lavori diventano obbligatorî ed ereditari. Così il far parte delle curie si muta in un obbligo di quanti possiedono una certa fortuna fondiaria, e dei loro discendenti, sinchè non sono rovinati: nessun curiale può esercitare un altro ufficio, diventare, per esempio, militare. Molti mestieri e commerci sono costituiti in associazioni coattive come i navicularii di Costantino; chi ne fa parte non può uscirne, e i suoi figli ne faranno essi pure parte. Così, nel quarto secolo, a poco a poco, e per lo stesso procedimento, in molte parti dell’impero i coloni, che sino ad allora erano stati contadini liberi, e coltivavano secondo un certo contratto le terre dei padroni, sono asserviti alla gleba, incatenati dalla legge di padre in figlio al fondo che coltivano. Il codice Giustinianeo ci ha conservato [246] il decreto con cui la servitù della gleba fu introdotta in Palestina[116]. Questo decreto ci mostra sul vivo il processo della malattia. Nei luoghi, nei quali i contadini scarseggiavano troppo, perchè attirati da mestieri meno duri o più lucrosi, i proprietari si rivolgevano allo Stato; e l’imperatore faceva del coltivare il fondo un obbligo ereditario, così come era stato imposto come obbligo il lavoro ai pistores o fornai a Roma.

Ma un ordinamento coercitivo di questa natura non poteva reggersi se non per un infinito numero di leggi, imposte alla meglio, con infinito dispendio e con una atroce crudeltà, da una burocrazia sempre più numerosa. Il malcontento, il risentimento, lo spirito di rivolta crescente nelle vittime sempre più numerose non potevano non essere il naturale effetto di un sistema così violento, il quale aggravava poi il male, che intendeva curare esigendo nuove spese e nuove imposte. Inoltre il corpo sociale s’irrigidiva, e irrigidendosi si indeboliva. Obbligando tante persone, di padre in figlio, a esercitare lo stesso mestiere, si condannavano molti a far cose per cui non erano nati. È probabile, per esempio, che il divieto ai curiales di entrar nell’esercito sia stata una delle ragioni della crescente scarsità degli ufficiali, per la quale l’impero deve sempre più — anche per questi, e non più solo per i semplici soldati — ricorrere ai barbari: il che fu una delle piaghe più pericolose del quinto secolo. I curiales erano il ceto medio agiato dell’impero: quello che avrebbe potuto e dovuto essere il semenzaio degli ufficiali. Onde il male interno, aggravato dagli sforzi fatti [247] per curarlo, sarà una delle cause maggiori della suprema rovina, che dobbiamo ancora narrare[117].

Note al Capitolo Undicesimo.

103.  Cod. Theod., 9, 16, 9; Amm. Marc., 30, 9, 5.

104.  Hieron., Ep., 60; (Epitaph. Nepotiani), 16, 2-5.

105.  Cod. Theod., 16, 2, 24.

106.  Cod. Theod., 16, 5, 4. Intorno alla data, vedi il Commento del Gotofredo.

107.  Cod. Theod., 16, 5, 5.

108.  Sozom., H. Eccl., 7, 4; Cod. Theod., 16, 1, 2.

109.  Cod. Theod., 16, 5, 6.

110.  Cod. Theod., 16, 10, 7.

111.  Cfr. l’importantissima Epistola 20 di S. Ambrogio.

112.  Sozom., H. Eccl., 7, 13; Ambros., Epistola 21, 13 sg.

113.  Ambros., Epist. 40.

114.  Di questo fatto sono numerose le testimonianze degli scrittori. Ci contenteremo di citare un documento ufficiale, un rescritto imperiale dell’anno 400: «destitutae ministeriis civitates splendorem quo quidem nituerant amiserunt. Plurimi siquidem collegiati cultum urbium deferentes agrestem vitam secuti in secreta sese et devia contulerunt». Cod. Theod., 12, 19, 1.

115.  Cod. Theod., 13, 4, 2 contiene la lista, molto interessante, degli artisti privilegiati. Ci figurano tutti i mestieri di lusso.

116.  Cod. Just., 11, 50, 1.

117.  Sui terribili effetti di tutte queste coazioni cfr. Salviano, De gubernatione Dei, V, 8, 34 sg., ed. Pauly.

[249]

CAPITOLO DODICESIMO LA CATASTROFE

(395-476)

91. Il primo conflitto tra l’Oriente e l’Occidente (395-397). — Teodosio, morendo, ripartiva l’impero tra i due figlioli, Onorio e Arcadio. Di nuovo il principio dinastico prevaleva. Il territorio, in cui le due parti si toccavano, era la prefettura dell’Illirico, del quale l’orlo costiero, la Pannonia e il Norico rimanevano all’Occidente; la Dacia e la Macedonia all’Oriente. Ma anche questa volta solo l’amministrazione era ripartita, come al tempo della tetrarchia: l’impero rimaneva unico ed integro; e la legislazione, comune. Senonchè ormai gli eventi saranno più forti della volontà degli uomini; e faranno incominciare dalla morte di Teodosio la definitiva scissione dell’antico impero romano in due parti: occidentale e orientale.

I due principi erano giovanissimi. Teodosio, morendo, aveva affidato Arcadio, che aveva 18 anni, alle cure del prefetto del pretorio, Rufino; l’altro, Onorio, che ne aveva 11, a quelle del magister militum o generalissimo degli eserciti di Oriente e di Occidente, Stilicone. Era questi un vandalo, un [250] barbaro, ma, come Arbogaste, assai più romano per spirito di molti suoi contemporanei nati in Italia. Senonchè dopo la fondazione di Costantinopoli, lo spirito di rivalità tra l’Oriente e l’Occidente si era riacceso. In Italia non si voleva ammettere che la nuova capitale fosse eguale o da più di Roma; in tutto l’Oriente invece si considerava Costantinopoli come la città che aveva oscurato e sostituito Roma, o che almeno non doveva più essere a Roma sottoposta. Da questa rivalità se non nacque proprio, prese forza una aspra discordia tra Rufino e Stilicone. Il dissidio scoppiò, quando i Goti, stanziati in Oriente, si ribellarono, adducendo come ragione o come pretesto che Rufino aveva violato taluni loro diritti. Dopo avere acclamato re Alarico, essi precipitarono, devastandola, nella Tracia e invasero la Grecia (395). Stilicone accorse con l’esercito fino a Tessalonica. Ma a questo punto un messaggio di Arcadio intimò a Stilicone di consegnare le milizie orientali che erano ai suoi ordini sin dal tempo della guerra di Teodosio contro Arbogaste; di ricondurre indietro le proprie, e di non valicare più i confini dell’impero di Oriente.

Per la prima volta Costantinopoli affermava che i suoi diritti sovrani erano eguali a quelli di Roma; e in faccia al nemico! Se Stilicone si sottometteva, l’impero romano si rompeva in due imperi indipendenti, perchè di eguali diritti; se non si sottometteva, incominciava una guerra civile tra le due parti dell’impero. Stilicone, che era uomo avveduto e scaltro, pensò di sfuggire a questo tragico dilemma con un espediente: finse di [251] cedere, ma pose a capo delle milizie da ricondurre in Oriente un ufficiale goto di sua fiducia, Gaina. Costui seppe così bene eccitare contro Rufino e contro le mire della Corte di Costantinopoli la collera dei soldati, che, giunti a Costantinopoli, i soldati trucidarono Rufino (27 novembre 395)[118]. Questo assassinio doveva ammonire la Corte di Costantinopoli che una politica separatista non era senza pericolo.

E da principio parve che l’ammonimento fosse inteso. Ci fu a Costantinopoli una resipiscenza. Stilicone potè condurre le sue milizie dalla Dalmazia nella Grecia meridionale, sbarrare l’istmo di Corinto, e iniziare la caccia alle forze di Alarico attraverso le valli e le montagne del Peloponneso. Ma non appena l’impero d’Oriente tornò a respirare, l’avversione all’Occidente e a Stilicone riprese il sopravvento a Costantinopoli, incoraggiata dall’eunuco Eutropio, che era succeduto a Rufino nel favore dell’imperatore. Approfittando delle difficoltà, che impedivano a Stilicone di annientare interamente i Goti[119], i suoi nemici riuscirono a far dichiarare Stilicone nemico pubblico dell’impero orientale, a confiscarne i beni, e a concludere con Alarico un trattato di pace, col quale si cedevano al re dei Goti l’Epiro e la costa dell’Illirico orientale fino a Durazzo, e gli si conferiva la carica di dux della contrada (397).

Questa volta Stilicone, non volendo o non potendo impegnarsi in una guerra civile, si rassegnò a ritirarsi nelle province di Occidente e a governar solo queste. La rottura fra l’Oriente e l’Occidente [252] era per la prima volta dichiarata ufficialmente. La grande opera di Roma era infranta.


92. Le nuove invasioni in Occidente e la fine di Stilicone (397-408). — In compenso, Stilicone si dedicò con rinnovata energia al governo dell’impero rimpiccolito. E furono anni di governo, a paragone dei tempi, non cattivo: le asprezze religiose di Teodosio mitigate; le finanze, l’amministrazione, la sicurezza pubblica curate; l’Africa riconquistata all’impero e la insurrezione del governatore Gildone repressa; il Donatismo, che l’aveva appoggiata, quasi schiantato dalle radici; il Cristianesimo, non ostante le personali inclinazioni di Stilicone, sempre più favorito a danno del Paganesimo. Un editto del 20 agosto 399 decretò l’abolizione delle feste pagane. Ma tutti questi sforzi non servirono a nulla, perchè la scissione delle due parti dell’impero aveva indebolito troppo l’Occidente. L’impero aveva potuto sino ad allora resistere a tutti gli attacchi di cui era segno, perchè le legioni d’Oriente erano accorse in Occidente e quelle di Occidente in Oriente, quando ce n’era stato bisogno. Separate le province e gli eserciti, l’Occidente si trovò ridotto a difendersi contro gli stessi nemici, con forze dimezzate; e quindi con crescente difficoltà. Il pericolo di questa situazione non tardò ad apparire, quando, nel 400, Alarico, incoraggiato dalla debolezza dell’impero di Occidente e forse anche dai segreti consigli dalla Corte di Costantinopoli, invase, con il suo esercito di Goti rinforzato da altre popolazioni barbariche, l’Italia, e superate le Alpi, [253] giunse a minacciar la stessa Milano, ove risiedeva la Corte di Onorio (fine del 401). Fu un momento terribile, in cui la debolezza dell’impero d’Occidente apparve a chiara luce. Per salvare l’Italia, Stilicone dovè ricorrere al disgraziato rimedio di richiamar in gran fretta milizie dalla Britannia, dal Reno, dalla Rezia, abbandonando quelle province al loro destino. L’Italia fu infatti salva: sbloccata Milano, Stilicone si tirò dietro il nemico fin verso Pollenzo sul Tanaro, e quivi gl’inflisse una disfatta memorabile (6 aprile 402); e una seconda poi, un anno dopo, presso Verona (estate del 403). Stilicone però non potè sterminare l’esercito; e il principe gotico riuscì ad evacuare il Veneto, con il resto delle sue forze.

Ma appena domato il pericolo gotico, se ne addensò un nuovo. Precipitava in Italia dal settentrione dell’Europa una nuova torma di Germani, agli ordini di un Ostrogoto pagano, un tal Radagaiso: 200.000 uomini e più, si disse[120], a cui fu impossibile opporsi sollecitamente (404). Onorio e la Corte ripararono a Ravenna, egregiamente difesa dalla natura, mentre il nemico penetrava sino in Etruria; Stilicone di nuovo si dette a rinforzare lo scarso esercito d’Italia, che la guerra gotica aveva gravemente provato, sguarnendo le province; e soltanto nel corso del 405 potè sterminare presso Fiesole gli invasori, uccidendo lo stesso Radagaiso.

Ma mentre Stilicone trionfava a Pollenzo, a Verona e a Fiesole, la Britannia diveniva teatro di nuove usurpazioni, insurrezioni e invasioni barbariche; la Gallia, sguernita di milizie romane, [254] era invasa e saccheggiata, tutt’insieme, da Vandali, Alani, Svevi, Franchi, Burgundii, mentre Alarico, all’estremo confine orientale, attendeva a rifare l’esercito. Stilicone imaginò allora un espediente disperato: proporre ad Alarico di abbandonare il servizio della Corte di Costantinopoli, per passare a quella di Ravenna; nominarlo prefetto dell’Illirico con i confini, che l’Impero di Occidente pretendeva di assegnare a questa provincia e che la Corte di Costantinopoli contestava. Alarico era disposto ad accettare; ma occorreva il consenso della Corte di Costantinopoli, che riluttava e tirava in lungo. Irritato dagli indugi, Stilicone ricorse alla fine alla rappresaglia di chiudere alle navi orientali i porti dell’Occidente[121]. Intanto dalla Britannia un usurpatore — un Flavio Claudio Costantino — calava in Gallia, e tornava a minacciare l’Italia; Alarico, malcontento dell’indugio, reclamava una indennità per le spese dei suoi vani armamenti. Stilicone non poteva più far fronte a tante contrarietà, che incoraggiavano nella Corte i suoi nemici, ogni giorno più numerosi. La sua tolleranza in religione, la sua inclinazione a trattare con i barbari, la sua politica che sacrificava per l’Italia le province, gli avevano procurato odî accaniti e implacabili. A lui si apponeva perfino la scissione dell’impero. Essendo, nel maggio del 408, morto Arcadio e a lui successo il figliuolo Teodosio II, fanciullo ancora di sette anni, sembrò che veramente, alla fine, la Corte di Ravenna potesse conquistare quella tutela sull’Oriente, a cui fin allora tutta l’autorità di Stilicone non era riuscita. Ma [255] l’improvvisa fortuna tradì il grande generale. Gli avversari, temendo che l’autorità sua crescesse troppo, precipitarono agli estremi consigli. Mentre Onorio si trovava a Pavia, scoppiò tra le milizie stanziate colà, preparata con sopraffina astuzia, una sedizione, che chiese al debole sovrano la testa di Stilicone. Stilicone avrebbe potuto resistere, chè l’esercito parteggiava per il suo generale; ma non volle provocare una guerra civile, e si lasciò uccidere dagli emissari del principe (23 agosto 408).


93. Alarico (408-410). — Mai delitto più insano fu più prontamente espiato. La morte di Stilicone fu il segnale della rivolta e della defezione di molti dei barbari alleati dell’impero, che egli aveva chiamati alla difesa della cadente romanità. Peggio ancora, provocò la rottura con Alarico. Morto Stilicone, la Corte di Ravenna trattò il Goto, per ripicco, come un nemico, respingendo tutte le sue domande, giuste o no. Alarico rispose irrompendo all’improvviso, nello stesso anno 408, dall’Illirico in Italia, dove Stilicone non era più. Mentre Onorio si rifugiava a Ravenna, il barbaro prendeva e saccheggiava Aquileia, Altino, Concordia e Cremona; girava sul fianco di Ravenna; costeggiava l’Adriatico; e per la via Flaminia marciava su Roma senza incontrare resistenza. Roma, che dall’assedio dei Galli in poi non aveva visto più un esercito nemico avvicinarsi alle sue mura, si chiuse nella cerchia aureliana. Ma Alarico bloccò la città, e con la fame la costrinse a trattare. Chiese ed ottenne un [256] tributo, in luogo delle indennità negategli dal governo ufficiale; inoltre impegnò il senato a raccomandare alla Corte un trattato di pace, per cui Alarico avrebbe dovuto ricevere il Norico con il titolo di magister militum dell’impero. Le condizioni non erano troppo dure; ma la corte di Ravenna, che pure abbandonava l’Italia al suo destino, le respinse. Alarico ritornò di nuovo nel Lazio, occupò il porto di Ostia, s’impadronì dei magazzini di grano, minacciando di affamare Roma; e con questa minaccia costrinse il senato a deporre Onorio e a sostituirgli il prefetto della città, un certo Attalo, che, appena nominato, non solo si dichiarò pronto a sodisfare Alarico, ma cominciò la guerra contro Onorio, mandando ufficiali e truppe ad attaccar l’Africa. L’impresa però non riuscì: onde Alarico, destituito Attalo e presolo nel suo campo in ostaggio, insieme con una figliola di Teodosio I, la bellissima Galla Placidia, ricominciò a trattare. Ma la Corte imperiale fu irremovibile. Allora Alarico, perduta la pazienza, nella notte del 21 agosto 410, superate con un assalto improvviso le mura aureliane, entrò in quella Roma, ch’egli aveva rispettato fino ad allora e che Annibale non aveva osato affrontare. La città eterna fu saccheggiata per tre giorni. Ma Alarico che era un uomo astuto, non aveva l’intenzione di conquistare l’Italia, dove si sarebbe trovato, come si dice nel linguaggio militare, in aria, minacciato da nord, da sud, da est, da ovest, nel cuore dell’impero e quindi esposto a fuochi incrociati. Voleva stabilirsi, con il consenso o senza dell’impero, in un angolo del mondo romano dove [257] vivere tranquillo. Non riuscendo ad ottenere quel consenso, egli cercò in quale parte dell’impero potrebbe stabilirsi con la forza; e pare aver gettato gli occhi sull’Africa: non senza ragione, chè l’Africa, se difficile ad attaccare perchè posta all’estremità dell’impero, era facile a difendere. Ed era paese, nel tempo stesso, pieno di atroci discordie interne e ricchissimo, il granaio dell’Italia; buon pegno od ostaggio, per costringere l’impero a far patti. Alarico non maltrattò troppo Roma, e, partito, si diresse verso l’Italia meridionale, con l’intenzione, pare, di conquistare la Sicilia, come il ponte per passare in Africa, rifacendo insomma il cammino già fatto da Roma nelle guerre puniche. Ma in via morì improvvisamente, ancor giovanissimo. La legenda narra che i Goti lo seppellirono in una tomba d’oro, sotto il corso deviato del Busento (presso Cosenza) (410).


94. La perdita dell’Europa Occidentale (410-416). — Il comando fu preso dal cognato di Alarico, Ataulfo. Egli smise l’idea della Sicilia e dell’Africa, e di nuovo trattò con l’impero. Le disposizioni della Corte erano mutate, in parte per effetto dei casi gravissimi seguiti nella Gallia meridionale. Quivi, mentre in Italia Onorio lottava con Alarico, si erano trovati di fronte l’usurpatore, Costantino, e le numerose popolazioni barbariche, entrate dal 406. Costantino aveva pensato di liberarsene, avviandole verso la Spagna; e infatti, nel 409, Vandali, Alani, Svevi si erano diretti alla volta della penisola iberica, e l’avevano devastata e occupata per buona parte, stanziandosi [258] gli Svevi e una parte dei Vandali nella Galizia, gli Alani nella Lusitania e nel territorio dei Cartageni, un’altra parte dei Vandali nella Betica, a cui diedero il nome di Vandalusia, mutatosi poi in Andalusia. Ma non per questo la Gallia aveva respirato: dopo le invasioni barbariche, le guerre civili si erano riaccese. Contro l’usurpatore era sorto un altro usurpatore: Giovino. Nel 411 Onorio aveva già inviato un grande generale, il suo nuovo magister militum, un illirico, Costanzio, il quale era riuscito a toglier di mezzo Costantino. Ma la Gallia era perduta, se l’impero non faceva un grande sforzo. Perciò nel 412 Onorio offrì ad Ataulfo di andare in Gallia con i suoi Goti a combattere per l’Impero. Ataulfo accettò, ma al suo arrivo incominciarono nuovi intrighi e lotte tra barbari, pretendenti e generali romani. Tuttavia dopo circa un anno e mezzo, e con l’aiuto del re gotico, Giovino era vinto, e la Gallia meridionale liberata sino a Bordeaux. Ma non per questo i rapporti tra i Goti e Onorio si erano fatti più chiari. Onorio non si decideva ad assegnare a lui, come ad Alarico, il territorio bramato entro i confini dell’Impero; e a concedergli in isposa Placidia, ancora ostaggio nel campo gotico. Alla fine Ataulfo, come Alarico, tentò di sforzare le titubanze imperiali; e sulla fine del 413 assalì inutilmente Marsiglia, prese Narbona e forse Tolosa; a Narbona, celebrò nel 414 le sue nozze con Placidia, rivestendo novamente della porpora imperiale Attalo, e da lui facendosi donare l’Aquitania. Il generale Costanzio mosse allora contro Ataulfo. Questi fu ben presto costretto a riparare [259] nella Spagna, ove trovò la morte per mano e tradimento di un barbaro (415). Senonchè con la sua morte il dissidio, ormai vecchio di venti anni tra i Goti e l’impero, terminava. Il re Vallia, successo ad Ataulfo dopo un brevissimo regno di Sigerico, concluse quell’accordo, per cui invano si erano tanto affaticati Alarico e Ataulfo. Galla Placidia era restituita ad Onorio, e Vallia era incaricato di combattere i barbari delle Spagne con la promessa di ricevere, dopo il successo, la Gallia meridionale, quale regno germanico vassallo dell’impero.

Vallia fornì la sua difficile opera dal 416 al 418, ricacciando insieme con Costanzio i barbari nell’estremo nord-ovest della penisola; e in quest’anno o nel successivo otteneva, quale principe indipendente, per sè e per i suoi Goti, sede stabile nell’Aquitania, e in qualche altra città delle province limitrofe.

Quattro anni dopo, il 15, secondo certe fonti, il 27 agosto 423 secondo certe altre, l’imperatore dell’Occidente moriva dopo circa trent’anni di regno. Ma in quali terribili condizioni lasciava i paesi che il padre suo aveva affidati al suo governo! La Britannia e parte della Gallia erano perdute, le terre sulla sinistra del Reno, presso Magonza, erano state cedute ai Burgundii, nell’anno stesso in cui Ataulfo combatteva nella Gallia meridionale; questa, sin dal 418, era ormai regno visigotico, mentre la Spagna meridionale era tenuta da popolazioni barbariche, tra cui preponderavano i Vandali. L’impero occidentale, la grande opera di Roma, era per metà distrutto. Il [260] distacco delle due parti, seguito alla morte di Teodosio, era stato una delle cause maggiori di questa catastrofe.


95. I Vandali (423-445). — Onorio non aveva figli: ma un nipote, figlio di sua sorella Placidia, che, liberata dai Goti, era stata sposata al generale Costanzio: Flavio Placido Valentiniano. Costui aveva cinque anni. L’impero fu dunque di nuovo unificato sotto lo scettro dell’imperatore d’Occidente, il figlio di Arcadio, Teodosio II, che frattanto era cresciuto, e aveva governato l’Oriente senza soverchie turbolenze. L’Oriente era stato travagliato, come nel passato, dalle lotte religiose; e nel 422, da una guerra persiana, terminata però con una tregua che per circa 80 anni avrebbe regolato i rapporti tra le due monarchie: ma insomma aveva goduto di un ordine e di una pace, che l’Occidente poteva invidiare. L’unione del perturbato Occidente con il tranquillo e più prospero Oriente poteva dunque giovare a tutte e due le parti dell’Impero. Teodosio infatti si proclamò imperatore dell’Oriente e dell’Occidente. Ma subito spuntò in Occidente un pretendente: il primicerius notariorum o capo dei notai imperiali, Giovanni, che mandò presso gli Unni il generale Flavio Ezio a reclutare milizie ausiliarie, per la guerra civile imminente. Questa rivolta sembra aver distolto Teodosio II dal pensiero di governare da solo tutto l’Impero, perchè si affrettò a proclamare Augusto il piccolo Valentiniano, a porlo sotto la tutela della madre e a fidanzarlo con sua figlia Eudossia; indi preparò un grosso [261] esercito, e nel 425 iniziò le ostilità. Giovanni fu vinto e ucciso, perchè Ezio giunse troppo tardi con i suoi Unni: il figlio di Placidia fu investito del potere con il nome di Valentiniano III; e come premio dell’intervento, l’Oriente ottenne l’Illirico, occupando così i passi orientali di accesso all’Italia, sboccando per via diretta sull’Adriatico e terminando a proprio favore una lunga e aspra controversia, iniziata sin dalla morte di Teodosio I.

Ma il governo di Valentiniano III incominciò con una catastrofe. I due maggiori personaggi dell’impero d’Occidente erano il governatore dell’Africa, Bonifazio, che, nel 413, aveva diretta la difesa di Marsiglia contro Ataulfo, e che non aveva riconosciuto l’usurpazione di Giovanni; ed Ezio, che aveva fatto pace con il nuovo governo, dopo il suo ritorno dal campo degli Unni. Ambedue ambivano la carica di magister militum. Pare che Ezio riuscisse a persuadere la reggente Placidia che Bonifazio meditava un’insurrezione, suggerendo a Placidia di mettere alla prova la fedeltà di Bonifazio chiamandolo in Italia, e nel tempo stesso avvertendo sotto mano Bonifazio di non venire, perchè alla Corte si tramava contro di lui. Comunque sia, la reggente destituì Bonifazio; e Bonifazio ricorse a un rimedio disperato: invitò i Vandali di Spagna a venire in Africa e a effettuare il piano di Alarico[122].

I Vandali avevano approfittato della guerra civile scoppiata alla morte di Onorio per saccheggiare gran parte della Spagna, che Vallia e Costanzio avevano riconquistata all’impero; e in [262] quel momento mettevano alla loro testa un re, che era un uomo intelligente, astuto e ardito: Geiserico o Genserico[123]. L’occasione era troppo promettente. Nella primavera del 429, insieme con schiere di Alani, Genserico sbarcò in Africa, pare con circa 50.000 uomini. I fatti provarono subito che, se era stato difficile ai barbari metter piede in Africa, difficilissimo sarebbe lo scacciarli quando ci si fossero insediati. Inutilmente fu chiarito il tragico equivoco tra la reggente e il conte dell’Africa, e questi fece quanto potè per cacciare i barbari che aveva chiamati. I Vandali ormai erano nel territorio dell’Africa e vi avevano trovato un alleato prezioso nei Donatisti, perseguitati dall’impero. Nel 431 grande parte della costa settentrionale dell’Africa, ossia le tre Mauritanie e la Numidia, erano perdute per Roma. Il pericolo di Cartagine rinasceva dopo tanti secoli, e insieme con una guerra civile. L’anno dopo, nel 432, Bonifacio tornava in Italia, e Placidia lo nominava magister militum dell’impero occidentale, in luogo del suo rivale Ezio, che fu destituito, sebbene fin dal 428 guerreggiasse con successo in Gallia, nella Rezia, nel Norico. Ma Ezio ricorse alle armi e ne seguì un’atroce guerra civile, combattuta in Italia, nella quale cozzarono insieme Unni contro Goti. Bonifacio fu vittorioso, ma morì poco dopo la vittoria; Ezio che, sconfitto, era riuscito a rifugiarsi presso gli Unni, tornò in Italia con un esercito, e riebbe l’antica carica (433). Era tempo, del resto, chè questa guerra civile aveva incoraggiato il disordine in tutto l’impero: la Gallia andava novamente [263] in fiamme; gli Armoricani erano insorti; i Burgundii si allargavano; ovunque scoppiavano insurrezioni di contadini, fra i quali ricompare ora il vecchio nome di Bagaudi; i Visigoti, tornavano ad agitarsi. Con energia infaticata Ezio cercò di riparare a tutto. Dal 435 al 437 furono domati Armoricani e Bagaudi; i Burgundii, aspramente guerreggiati dal 437 al 443, furono trapiantati nella Sabaudia (Savoia), con obblighi analoghi a quelli dei Visigoti della Aquitania; questi ultimi furono ricondotti all’osservanza dei patti del 418. Ma tutte queste guerre obbligarono a transigere con Genserico. Valentiniano III concluse nel 435 un trattato con il quale riconosceva a Genserico, con l’obbligo però di pagare un tributo, le terre in suo potere, ossia tutta la Mauritania e una parte della Numidia. Ma con un barbaro avido e astuto come Genserico questo trattato non poteva essere che una tregua. Difatti nel 439 Genserico s’impadroniva per sorpresa di Cartagine.

Grande fu lo spavento, non solo in Italia ma anche in Oriente; e crebbe, quando l’anno seguente Genserico attaccò la Sicilia. Come sette secoli innanzi i Cartaginesi, i Vandali minacciavano ora la Sicilia e l’Italia meridionale dalle coste dell’Africa; se la loro potenza si allargasse, anche l’Egitto, la Siria, la Grecia sarebbero in pericolo. I Vandali divennero lo spavento comune di Costantinopoli e di Roma; cosicchè nel 440 e 441 i due imperi fecero insieme grandissimi preparativi per una spedizione contro l’Africa. Questi preparativi spaventarono Genserico, che ricorse ai trattati, si fece modesto, si mostrò arrendevole, [264] promise di non ricominciare. E riuscì infatti a far recedere dai suoi propositi di guerra a oltranza lo stanco impero. Nel 442 era firmato un trattato con cui si rimaneggiava la carta dell’Africa; sembra che la Mauritania e parte della Numidia fossero da Genserico restituite a Roma, e che questa in cambio cedesse a Genserico la provincia proconsolare e la Bizacene.


96. Attila e l’invasione degli Unni (444-457). — Le ragioni e il senso di questo rimaneggiamento non sono chiari. È difficile decidere chi guadagnasse e chi perdesse. Certo è che dopo questa pace Genserico si accinse a stringere una vasta coalizione barbara contro Roma; e che egli non fu estraneo al nascere di un nuovo pericolo per l’impero: gli Unni.

Nel 433 era salito al trono unno Attila, principe vigoroso e ardito, che aveva subito raccolto sotto il suo scettro un gran numero di popolazioni unne, slave e finniche del nord e dell’est, nonchè molte popolazioni germaniche dell’Europa centrale, creando un vastissimo impero di barbari. Rimasto, nel 444 o 445, unico re dopo l’uccisione del fratello Bleda, Attila assalì con grandi forze l’impero d’Oriente. Nel 447 devastò l’Illiria e la Tracia, le due Dacie, la Mesia e la Scizia, giunse sino alla Propontide e all’Egeo, attraverso la Macedonia e la Tessaglia. Fu una specie di valanga. Dopo aver cercato invano di resistere, Teodosio II dovè acconsentire a comperar la pace, impegnandosi a pagare un tributo annuo al barbaro. Questa pace vergognosa durò poco: nel 450 Teodosio [265] II moriva, e il suo successore, Marciano, rifiutava di continuare il tributo. Ma Attila, imbaldanzito dal successo riportato in Oriente, si accingeva ora a invadere le provincie dell’Occidente, dove intanto, pochi mesi dopo la morte di Teodosio, e pure nel 450, moriva Galla Placidia ed era seppellita a Ravenna, nella tomba che esiste ancora. Raccolto un grande esercito di Unni e di Germani, — Gepidi, Ostrogoti, Turcilingi, Marcomanni, Quadi, Eruli, Franchi Ripuarii — nel 451 Attila invade le Gallie, dal Belgio a Metz. Metz fu presa d’assalto e distrutta; indi l’esercito invasore si gettò su Orléans. Ad arrestare questa orda fu mandato Ezio. Abile e infaticabile, Ezio riuscì ad opporre a questa coalizione un’altra coalizione. Raccolse un esercito di Romano-Galli, di Alani e di Germani federati — Burgundii, Visigoti, Franchi Salii, e anche Franchi Ripuari — nel quale apparivano come sperdute e sommerse le poche legioni romane. Fu per le vie di Orléans che, ad estate inoltrata, si scontrarono le avanguardie dei due eserciti. Dopo una mischia furibonda, Attila fu respinto e dovette ritirarsi nei pressi di Troyes, là dove si apriva la pianura, che d’ora innanzi sarebbe divenuta famosa, dei Campi Catalauni. Qui si impegnò la battaglia decisiva. Fu terribile e durò due giorni; perì il valoroso principe dei Visigoti, Teodorico, ma la furia dei suoi e l’abilità del figlio Torrismondo decisero del combattimento. Attila fu costretto a retrocedere (451).

Ma l’esercito di Attila era stato vinto, non distrutto. Ritirato in Pannonia, Attila riassettò le [266] sue forze; e nella primavera del 452 attaccò l’Italia. La coalizione fatta da Ezio si era disciolta. Per fortuna Attila fu trattenuto a lungo dalle fortezze che incontrò per via, massime da Aquileia, ch’egli prese e distrusse alla fine. Il ritardo portò i suoi frutti. Mentre l’esercito di Attila era, nella pianura veneta, disfatto dal sole, dalla febbre e dalla fame, moveva al soccorso della penisola l’imperatore Marciano, minacciando le spalle dell’audace nemico. Fu allora che la Corte d’Occidente spedì un’ambasceria di senatori ad Attila, diretta da papa Leone I, che persuase facilmente l’invasore a ritirarsi; ma che, per salvare l’Occidente dalla tutela orientale, salvò il peggiore nemico dell’impero (453). Per fortuna, nello stesso anno Attila moriva improvvisamente e il suo multiforme Stato si disfaceva in un giorno solo.

Poco dopo, lo seguiva nella tomba il suo vincitore, vittima di un intrigo, simile a quello che aveva tratto a rovina Stilicone. Un giorno, mentre a Roma Ezio discuteva con Valentiniano di affari di Stato, l’imperatore, che da tempo i suoi cortigiani invelenivano contro il grande generale, suscitato un diverbio, lo trafisse con la sua stessa spada (454).


97. La catastrofe (454-476). — La morte di Ezio non fu meno funesta di quella di Stilicone. Valentiniano III non sopravvisse lungo tempo al suo generale; chè il 16 marzo 455 moriva, vittima anch’egli di una congiura di Palazzo. Anche la dinastia di Teodosio era spenta. La precarietà delle dinastie rendeva sterile nel vecchio impero anche [267] il principio dinastico. Gli succedeva il patrizio e senatore romano, che era stato il capo del complotto: Petronio Massimo. Ma ormai una mano ferma di soldato mancava all’impero. Pochi mesi dopo i Vandali comparivano sopra una numerosa flotta alle foci del Tevere, sbarcavano e marciavano su Roma. Petronio cercò di fuggire e venne fatto a pezzi dai Romani. Genserico prese Roma, e per quattordici giorni la saccheggiò più ferocemente che Alarico, ritornando in Africa carico di bottino. Spariti gli Unni, ricomparivano, e più minacciosi di prima, i Vandali; chè questo colpo di mano su Roma era il principio di una nuova guerra con cui Genserico tentava impadronirsi di tutta l’Africa romana e delle grandi isole del Mediterraneo; di rifare, in somma, la potenza di Cartagine. Sarebbe stato necessario che tutto l’impero — Oriente ed Occidente — facesse un grande sforzo per distruggere Genserico. L’imperatore Marciano sembra averci pensato. Ma ecco scoppiare in Occidente una nuova guerra civile per la successione imperiale. Morto Massimo, i Visigoti di Gallia indussero un generale, M. Eparchio (o M. Mecilio) Avito, a vestire la porpora imperiale, non è chiaro se nel luglio o nell’agosto del 455. Poco dopo Avito nominava generalissimo delle milizie in Italia l’ultimo dei grandi barbari dell’Occidente, uno dei protetti di Ezio, Ricimero, nipote di Vallia e figlio di un principe svevo, che combatteva allora vittoriosamente contro i Vandali in Sicilia e in Corsica. Ma Avito, l’eletto dei Goti, non poteva non essere impopolare in Italia ed in Roma. L’opposizione trovò uno strumento [268] pericolosissimo, sì, ma efficace, nel nuovo magister militum. Ricimero si intese con il senato, depose e sconfisse Avito. Il senato e Ricimero non avendo potuto accordarsi per creare un nuovo imperatore, solo capo di tutto l’impero rimase, a Costantinopoli, Marciano. Ma Marciano morì il 27 gennaio 457 e gli successe Leone I, che si affrettò a togliere nei primi mesi del 457 al troppo invadente Ricimero la carica di magister militum dell’Occidente, dandola a un generale di grande valore, a un insigne allievo di Ezio, Flavio Giuliano Maioriano. Ricimero, a cui era stato conferito, a guisa di compenso, il titolo di patrizio, dovè per il momento inclinarsi. Qualche mese dopo i soldati e le legioni acclamavano Maioriano imperatore. L’imperatore di Costantinopoli ratificò la scelta.

A capo dell’impero di Occidente era di nuovo un uomo capace. Egli si propose di rimettere un po’ d’ordine nell’amministrazione e di abbattere la potenza vandala in Africa. E si mise all’opera con grande energia. Sebbene molte difficoltà e una guerra con i Visigoti di Gallia il cui re Teodorico aveva innalzato Avito, intralciassero i suoi piani, egli riuscì a preparare una grande spedizione contro l’Africa. Ma Genserico lo prevenne; e distrusse, innanzi che avesse preso il mare, gran parte del naviglio romano, ancorato nei porti spagnoli. Fu un forte colpo, che indebolì assai l’autorità di Maioriano. All’interno fra tanto si agitavano i funzionari civili, ch’egli intendeva costringere a governare con giustizia e correttezza; le milizie barbare erano malcontente della sua forte [269] disciplina; e Ricimero spiava l’occasione di rifarsi. Ricimero si pose di bel nuovo a capo dei malcontenti e riuscì a uccidere Maioriano (7 agosto 461)[124].

Ricimero che, essendo un barbaro, non poteva aspirare alla porpora, impose come imperatore un italico, un Libio Severo, che doveva essere un’ombra. Ma la morte di Maioriano sollevò contro il nuovo governo parecchi generali, come Marcellino in Dalmazia, e Egidio in Gallia. Il nuovo imperatore si trovò dunque impegnato in gravi difficoltà interne, di cui i barbari approfittarono: i Goti, allargandosi nella Gallia settentrionale, e Genserico, conquistando la Sardegna. Quattro anni funesti furono quelli di Severo, e quando egli morì (465), si ebbe un interregno di quasi due anni che fu, per la sua cagione, manifesta misura della debolezza a cui era giunto l’impero. Genserico era trasceso a tanta audacia da avere un candidato suo all’impero, un certo Olibrio; e così l’imperatore di Oriente come il senato di Roma, che non volevano questo candidato, non osavano neppure rifiutarlo, temendo la guerra con i Vandali. Ma questa pusillanimità accrebbe l’audacia di Genserico, il quale nel 467 attaccò addirittura l’impero d’Oriente, devastando la Grecia e le isole, per costringerlo ad accettare il suo imperatore. L’imperatore si risolvè allora a uscire dalla sua inerzia; e designò al trono dell’Italia un discendente dell’antico generale Procopio e un genero di Marciano: Procopio Antemio (12 aprile 467). Il potere di Ricimero vacillava di nuovo.

[270]

Procopio, eletto contro Genserico, ripigliò il disegno di una grande guerra vandalica. I due imperi dovevano combatterlo a forze unite. Immensi preparativi furono fatti, ma per l’incapacità, lo scarso accordo e il tradimento di alcuni generali, l’impresa, cominciata sotto buoni auspici, fallì di nuovo (468). Questo insuccesso permise a Ricimero di ricominciare gli intrighi. Egli si intese con Genserico e con Eurico re dei Visigoti: e tanto fece che riuscì a suscitare in Gallia una guerra tra i Visigoti e Roma. Allora, approfittando di questa guerra, marciò con un esercito su Roma; prese la città, uccise Antemio (11 luglio 472) e fece proclamare imperatore il candidato di Genserico, Olibrio (472). I barbari trionfavano! Ma nè Ricimero nè Olibrio dovevano godere a lungo il trionfo. L’uno e l’altro morirono nell’anno 472 di peste. L’imperatore Leone elesse imperatore dell’Occidente Giulio Nepote, nipote di un grande generale, il conte Marcellino. Nepote fece presto a togliere di mezzo, deponendolo, un avversario, che le milizie barbariche gli avevano contrapposto, un Glicerio, e, nel giugno 474, rimaneva unico signore dell’estremo angolo di quello ch’era stato l’Occidente romano. Ma ormai a tutti gli altri mali che affliggevano l’impero se ne era aggiunto un altro. I trionfi di Genserico, la crescente potenza dei Visigoti in Gallia, il lungo dominio di Ricimero, le innumerevoli disfatte subite dall’impero, avevano accresciuto a dismisura anche l’orgoglio e le pretese dei barbari, che servivano l’impero. C’era adesso un partito dei barbari opposto ad un partito dei vecchi Romani, ciascuno [271] dei quali faceva appello a sentimenti ed interessi differenti. Nepote raffigurava la reazione contro il partito dei barbari. Ma egli si guastò presto con il partito nazionale, cedendo in Gallia ai Visigoti, che l’avevano conquistata, l’Alvernia. Nell’Italia del nord le legioni composte di cittadini romani insorsero sotto la guida del loro generale Oreste, un antico funzionario di Attila passato al servizio dell’impero, un barbaro romanizzato, quindi. Oreste costrinse il legittimo imperatore a fuggire da Ravenna a Salona in Dalmazia (agosto 475); ed elevò all’impero il figlio Romolo Augustolo. Ma il partito dei barbari non tardò a volere la sua rivincita; chè le milizie barbariche chiesero, come prezzo della loro acquiescenza, la cessione di un terzo delle grandi proprietà dell’Italia. Oreste, che non poteva compiere una così tremenda rivoluzione, rifiutò. Ma allora uno degli ufficiali barbari della guardia imperiale, Odoacre, fu eletto re dai suoi commilitoni e chiamate altre schiere di Rugi e di Eruli d’oltre Alpe, assalì Oreste che con le milizie a lui rimaste fedeli si era chiuso in Pavia; prese la città; sconfisse ed uccise Oreste (27-28 agosto 476). Romolo venne deposto e confinato in Campania presso Napoli, là dove oggi sorge l’attuale Castel dell’Uovo. Il barbaro mandò all’imperatore d’Oriente, Zenone, le inutili insegne imperiali e dichiarò che egli avrebbe continuato a governare l’Italia, quale suo luogotenente.

Così terminava di fatto, se non legalmente, la storia della parte occidentale dell’impero romano, nonchè, secondo si suole calcolare, quella dell’evo [272] antico, e qui deve perciò arrestarsi il nostro racconto. In realtà l’Occidente ha ancora un imperatore legittimo, sebbene spodestato, Giulio Nepote, e, dopo la morte di costui, l’Italia non sarà un regno barbarico indipendente, ma una provincia dell’antico impero romano, le cui sorti sono rette dal suo capo supremo, residente a Costantinopoli. Solo dopo l’invasione longobardica nella penisola — invasione nè autorizzata nè approvata dall’Oriente, anzi in contrasto col governo ufficiale, istituito dalla Corte bizantina a Ravenna, e dopo l’insediamento degli Slavi nel nord-ovest della penisola balcanica, che separeranno l’Oriente e l’Occidente, — l’unità dell’impero sarà rotta, e l’Italia potrà veramente dirsi dominio barbarico. Ma ormai l’impero occidentale non è più che un nome. La grande opera storica di Roma è distrutta. Un’èra nuova della storia incomincia. L’impero orientale o bizantino durerà invece ancora per un millennio, serbando nelle sue linee capitali l’organizzazione ricevuta da Diocleziano e da Costantino, ed esso cadrà solo sotto i colpi dei Turchi. L’assolutismo vi prospererà più rigoglioso che in Occidente, salvando della civiltà antica quanto basterà per poter ridiventare il maestro dell’Occidente rimbarbarito, perchè aveva ritrovato in Oriente la sua patria; e si era allacciato ad un’antica tradizione, che il dominio romano aveva interrotta soltanto per qualche secolo.

[273]

Note al Capitolo Dodicesimo.

118.  Cfr. Claudian., In Ruf., 2, 400 sg.

119.  Le cause dell’insuccesso della campagna di Stilicone sono molto oscure: gli amici di Stilicone ne accusarono la Corte orientale (Claud., De bello poll., 516-17); gli avversari, lo stesso Stilicone (Oros., 7, 37, 1). È più prudente pensare a difficoltà di ordine militare.

120.  Cfr. August., De civit. Dei, 5, 23; Oros., 7, 37, 4; Jordan., H. Rom., c. 321, pag. 41; Zosim., 5, 26. Sulle invasioni di Alarico e Radagaiso cfr. il pregevole studio di F. Gabotto, Storia dell’Italia occidentale (395-1313), Pinerolo, 1911, I, 82 sgg., 112 sgg.

121.  Cfr. Cod. Theod., 7, 16, 1.

122.  Questo invito di Bonifacio ai Vandali è stato negato dalla critica moderna. Cfr. invece Gabotto, op. cit., II, pag. 639 sgg.

123.  Su Genserico e i Vandali, cfr. il recente lavoro: F. Martroye, Genséric, la conquête Vandale en Afrique et la destruction de l’empire d’Occident, Paris, 1907.

124.  Sulle lotte politiche sotto il governo di Maioriano si può consultare: R. Cessi, Marcellino e l’opposizione imperiale romana sotto il governo di Maioriano, negli Atti del R. Istituto veneto di scienze e lettere, 1915-16.

[275]

INDICE ALFABETICO-ANALITICO

A libellis, 61, 196.

A memoria, 196.

A rationibus, 61.

Ab epistulis, 61, 196.

Acaia, affrancata da Nerone, 22; rifatta provincia da Vespasiano, 22; alla metà del II sec. d. C., 70-71; Adriano in A., 70 sgg., 73; invasa da Germani, 90; da Goti, Eruli, Sarmati, 137, 138; nella tetrarchia dioclezianea, 163; assegnata a Costantino I (314 d. C.), 186; a Dalmazio (335), 202; a Costanzo (337), 208; stato dell’A. alla metà del IV sec., 234-35; invasa da Alarico (395), 250; attaccata da Genserico, 267.

Adiabene, 54, 110.

Adriano (P. Elio), origine, 58; carattere e coltura, 59; adottato da Traiano, 58; e il Senato, 53; abbandona le conquiste orientali di Traiano, 58-59; indirizzo e carattere del governo, 60 sgg., 78 sgg.; riforme amministrative, 60 sgg.; giuridiche, 62; viaggi, 63 sgg., 73 sgg.; e il Cristianesimo, 71-72; grandi costituzioni, 70-71, 72; guerra di Giudea, 75-76; adotta un collega all’impero, 77; sua fine (10 luglio 138), 76 sgg.

Adrianopoli in Attica, 71.

Adrianopoli (in Tracia), 185; battaglia fra Costantino e Licinio (323), 190; sconfitta di Valente (9 agosto 378), 234; assalita dai Barbari, 234.

Adrumeto, 107.

Advocatus fisci (Rationalis), 79, 113.

Aelia Capitolina, 76.

Aerarium, 36, 128.

Africa, insurrezioni in A. (69-70), 18; alla metà del II sec. d. C., 67; il Vallum di Adriano, 68; Adriano in A., 67, 73; invasa dai Franchi, 137; nella tetrarchia dioclezianea, 163; rivolta (297), 173; eresia donatista, 188, 189; assegnata a Costante (335), 202; invasa da Getuli e Mauri (365), 231; rivolta di Gildone, 252; invasa da Vandali (429), 261 sgg.; l’Africa proconsolare e la Bizacena ai Vandali (442), 264.

Agostino (S.), 155.

Agricola. V. Giulio.

Agricoltura, nell’Impero, fiorente nel II sec., 99; decade nel III e nel IV sec., 144-45, 244; piccola proprietà e latifondo, 145.

Alamanni, 130, 138; invadono la Gallia, 130; l’Italia (261), [276] 137; (271), 139; sconfitti da Gallieno, 137; invadono la Gallia, 161; combattuti da Costantino I, 182; invadono Gallia e Rezia (365), 231; sconfitti da Valentiniano I (367), 231; alleati dei Romani (368), 231; invadono la Germania Superiore, 233; sconfitti da Graziano, 233, 234.

Alani, 90, 233, 234, 254, 257-258.

Alarico, re dei Visigoti, 250; invade Tracia e Grecia (395), 250; combattuto da Stilicone, 250, 251; accordi con l’Oriente (397), 251; dux, 251; invade l’Italia (400), 252 sgg.; minaccia Milano, 253; sconfitto a Pollenzo (6 aprile 402) e a Verona (403), 253; si ritira, 253; trattative con Stilicone, 254; nuova invasione in Italia (408), 255 sgg.; assedia Roma (256); attacca l’Africa, 256; saccheggia Roma (410), 256; muore in Calabria (410), 257.

Alessandria, 13, 93, 97, 172, 192, 241; Chiesa di A., 208, 212, 214, 237.

Alessandro, vescovo di Alessandria, 192, 193.

Alessandro. V. Severo Alessandro.

Alieno (Cecina), generale Vitelliano, invade l’Italia, 7; attacca Piacenza ed è respinto, 8; battuto a Locus Castorum, si congiunge con Valente, 8; suo tradimento, 14.

Allectus, 172.

Altare della Vittoria, 237, 242.

Altino, 255.

Alvernia, 271.

Ambrogio (S.) vescovo, 237, 238, 239, 240-41.

Amida, 218.

Ancira, 141.

Andalusia, 258.

Ancona, 47.

Anfiteatro Flavio (Colosseo), 27.

Annibaliano, nipote di Costantino, 202; re dell’Armenia e del Ponto (335), 202; ucciso (337), 207.

Antemio. V. Procopio Antemio.

Antiochia, 53, 58, 73, 87, 93, 97, 141, 208, 210, 237.

Antonianus argenteus, 146.

Antonino Pio (T. Aurelio Fulvo), adottato da Adriano, 77; origine, 83; e il senato, 83-84; e la religione, 84; governo, 83-85.

Antonio Primo, uno degli ufficiali delle legioni di Pannonia, 14; invade l’Italia, 14-15; vince i Vitelliani presso Bedriaco, 15; invade il Lazio, 15.

Apollodoro di Damasco, 47.

Apro, prefetto del pretorio e suocero di Numeriano, indiziato della sua morte, 143-44.

Aquileia, 88, 209, 255, 266.

Aquitania, 258; ceduta da Onorio ai Visigoti (418 o 419), 259.

Arabia (Arabia Petrea), prov. romana (106), 46, 59, 74; Adriano in A., 74; nella tetrarchia dioclezianea, 163; condizione nel IV sec., 235.

Arbogaste, un Franco, generale di Teodosio I, 240; guerreggia i Franchi, 242; fa uccidere Valentiniano II, 242; proclama imperatore Eugenio, 242; vinto, si uccide (394), 242.

Arcadio, imperatore d’Oriente (395), 249; muore (maggio 408), 254.

[277]

Ardeschi. V. Artaserse.

Argenteus minutulus, 170, 186.

Argentoratum (Strasburgo), battaglia (337), 217.

Argo, 137.

Arianesimo, 192 sgg., 203, 208, 210, 212, 213, 214, 218, 220, 232, 236, 238, 239.

Ario, prete di Alessandria, 192; scomunicato (321), 192, 203.

Arles, 188.

Aristide (il retore), 98.

Armenia, provincia romana, 53; di nuovo indipendente, 59; invasa dai Parti, 87; liberata dai Romani (162-63), 87; rifatta provincia romana, 124; rioccupata dai Persiani, 161-62; la questione dell’A. e Diocleziano, 161-62; invasa dai Persiani (296), 172; province armene conquistate da Sapore I, 173; cedute ai Romani (298), 173; regno di Tiridate (298), 173; assegnata ad Annibaliano (335), 202; il Cristianesimo in A., 204; invasa da Sapore II (359), 218; le fortezze cedute ai Persiani (363), 230.

Armoricani, 262, 263.

Arsacidi, 128.

Artabano, re dei Parti e Caracalla, 124; sconfigge Macrino, 125; detronizzato, 129.

Artaserse (Ardeschi), 129; invade le province romane orientali, 129; guerra con Severo Alessandro, 129-30.

Arti, distruzione dei capolavori antichi, 242-243; privilegi agli artisti, 244-245.

Asia (Minore), alla metà del II sec. d. C., 68-70; invasa dai Goti, 135, 137; dagli Eruli e dai Sarmati, 137; dai Goti (268), 138; nella tetrarchia dioclezianea, 163; assegnata a Massimino Daio (311), 182; a Costanzo (335), 202.

Assiria, 54, 59.

Atanasiani, 208, 212, 214, 218, 220, 236. V. Cattolicismo.

Atanasio, vescovo di Alessandria, 203; condannato dal Concilio di Tiro (335), 203; ed esiliato, 203; torna ad Alessandria, 208, 209; combatte gli Ariani, 209-10; assolto dal Concilio di Roma (340), 210; al Concilio di Sardica, 211; scomunicato dal Concilio di Philippopolis (344), 211; torna ad Alessandria, 212; condannato dal Concilio di Milano (355), 214-15; nella Tebaide, 214.

Ataulfo, cognato di Alarico e re dei Visigoti, 257; combatte in Gallia, 258; assale Marsiglia, Narbona e Tolosa (413), 258; sposa Galla Placidia, 258; sconfitto da Costanzo, muore in Spagna (415).

Atene, 70, 71, 107; scuole, 71. V. Adrianopoli (in Attica); invasa dagli Eruli (267), 137.

Ateneo, 72.

Atenodoro (Wahaballath), figliuolo di Odenato e Zenobia, 140.

Attalo, prefetto della città di Roma, proclamato imperatore da Alarico, 256; deposto e prigioniero, 256; rimesso sul trono da Ataulfo, 258.

Attila, re degli Unni (433), 264; suo impero, 264; uccide il fratello Bleda, 264; assale l’impero d’Oriente (447), 264; fa pace con Teodosio II, 264; invade [278] le Gallie (451), 265; sconfitto ai Campi Catalauni (451), 265; si ritira in Pannonia, 265; invade l’Italia (452), 265-66; muore (453), 266.

Attis, 69.

Augusta Emerida (Merida), 66.

Augusto, titolo imperiale, 118, 160.

Aureliano (L. Domizio), congiura contro Gallieno, 138; imperatore, sconfigge i barbari che invadono l’Italia (271), 139; abbandona la Dacia (271), 139-40; combatte Zenobia e riconquista l’Oriente (272-73), 141; ucciso (275), 141.

Aureolo, proclamato imperatore dalle legioni della Rezia, 138.

Aureus, 35, 146, 170, 186.

Avidio Cassio, generale di M. Aurelio in Oriente, 87; sua rivolta, 91 sgg.; sua morte (175), 93.

Autun (in Gallia), 216.

Avito (M. Eparchio o Mecilio), imperatore (455), 267.


Bagaudi, 159; vinti da Massimiano, 160; nuova insurrezione (435-37), 263.

Bahram, re persiano, e Diocleziano, 161-62.

Baia, 78.

Balbino (Decio Celio Calvino), imperatore, 132; combatte Massimino, 132-33; ucciso, 133.

Barkokeba (o Barcosiba), 76.

Basilica Porzia (a Milano: San Vittore ad Corpus), 238.

Batavi, insurrezione, 18.

Bedriaco (battaglie di), 9, 15.

Betica, 258.

Bezabda, 218.

Bizacene, 264.

Bleda, 264.

Borgognoni. V. Burgundi.

Bisanzio, 22, 109, 110, 185, 190, 200.

Bitinia, 163.

Bodotria (G.), 30.

Bonifazio, governatore dell’Africa, 261; difende Marsiglia contro Ataulfo (413), 261; rivalità con Ezio, 261; destituito da Galla Placidia, 261; invita i Vandali in Africa, 261; si riconcilia con Placidia, 262; combatte i Vandali, 262; magister militum (432), 262; guerra civile contro Ezio (432), 262; muore, 262.

Borani, 137.

Brigetium (nell’Illirico), 232.

Bostra, 46.

Britannia, estranea alla guerra civile del 69-70, 6; conquistata quasi interamente sotto Domiziano, 30; agitazioni sotto Traiano, 54; alla metà del II sec. a. C., 66; suoi confini sotto Traiano, 66; sotto Antonino Pio, 84; invasione dei Pitti, 86; governata da Clodio Albino, 104, 109, 110; Settimio Severo in Br., 117; in potere di Carausio, 161; nella tetrarchia dioclezianea, 163; riconquistata da Diocleziano (296), 172; agitazioni nel 297, 173; assegnata a Costantino II (335), 202; invasa da Sassoni, Pitti, Scoti (365), 231; abbandonata da Stilicone, 253; invasa dai Barbari, 253; perduta per l’Impero, 258.

Bucolici, 91.

Burdigala (Bordeaux), 65.

[279]

Burgundi, 161, 162, 231, 254, 259, 263, 265.


Caledonia (Scozia), 30; Settimio Severo tenta conquistarla, 118.

Callinicum (presso l’Eufrate), 240.

Campi Catalaunici (Chalons sur Marne), battaglie (367), 231; (451), 265.

Campania, esente da imposta, 168.

Campidoglio, incendiato (69), 15; ricostruito, 26.

Capitatio, 217.

Cappadocia, invasa dai Persiani (231), 129.

Caput, 169.

Caracalla (Settimio Bassano), figlio di Settimio Severo, 110; Cesare, 110; Augusto, 118; tendenze, 118, 123; imperatore, 123; fa uccidere Geta, 123; e il senato, 123; e l’esercito, 123; guerre in Germania, 124; concede la cittadinanza ai provinciali, 124; ucciso (8 aprile 217).

Carausio, generale di Diocleziano, 161; condannato a morte, 161; s’impadronisce della Britannia e di qualche città gallica, 161; assolda Franchi e Sassoni, 162; riconosciuto Augusto, 163; ucciso, 172.

Carino, figliuolo di Caro e suo collega all’impero, 143; combatte i Jazigi, 159; e Diocleziano, 159; ucciso, 159.

Carnuntum (Petronell), 26; conferenza di C. (307), 180.

Caro (M. Aurelio Caro), imperatore (282-83), 143; si associa i figli Caro e Numeriano, 143; sua impresa di Persia, 143; morte, 143.

Carpi, 133.

Cartagena, 66.

Cartagine, 97, 263.

Castriciani, 198.

Catti, 31, 87.

Cattolicismo, trionfo del C., 236, 240-41; fedeltà agli imperatori cattolici, 237; privilegi del clero cattolico, 236; lotte contro l’Arianesimo, 238-39; contro lo Stato, 239, 240-41; sua dottrina politica, 240-41.

Cauci, 87.

Cavalieri (I), e Vitellio, 11; e la guerra civile del 69-70, 23; e Vespasiano, 24, 61, 62; nuova importanza sotto Settimio Severo, 113, 114.

Ceciliano, vescovo di Cartagine, 188.

Ceionio (L. Commodo Vero), adottato da Adriano, 77; sua morte, 77.

Centumcellae (Civitavecchia), 47.

Centuria, 169.

Cesaraugusta (Saragozza), 66.

Cesare, titolo imperiale, 110, 160, 163.

Cesarea, 208, 210.

Chiesa (cristiana). V. Cristianesimo.

Cibalae (in Pannonia), battaglia (8 ottobre 314), 185.

Cibele, 69.

Cicladi, 70.

Cilicia, 22, 69.

Cina, 73.

Cipro, 54, 138.

Cirenaica, 54.

Città. V. Impero.

Claudio (Flavio Costantino), un usurpatore, 254; invade la [280] Gallia, 254, 257; combatte i barbari, 257; sconfitto dal generale Costanzo, 258.

Claudio II il Gotico (M. Aurelio), cospira contro Gallieno, 138; imperatore (268-70), 139; sconfigge i Goti, 139; li ammette nell’esercito, e come coloni, 139; sua morte, 139.

Claudio (Pompeiano), 76.

Clodio (D. Albino), acclamato imperatore dalle legioni di Britannia, 104; origine e carattere, 107; imperatore con Settimio Severo, 108-9; insurrezione contro Severo, 110; sconfitto (197), 111.

Collegi giovanili, 72.

Clota (G.), 30.

Colonato, 91, 139, 145, 202, 245-246.

Colonia (città), 41, 216.

Colonie militari, 26; romane in Oriente, 115.

Comes rerum privatarum, 196.

Comes sacrarum largitionum, 196.

Comitatenses, 169, 198.

Comites consistoriani, 196.

Commagene (Regno della), riconosce Vespasiano, 13; provincia romana, 22.

Commercio, nelle province romane, 64 sgg., 73 sgg.; nell’Impero alla fine del II sec., 96-97; decade nel III e nel IV sec., 145, 201, 202, 244; persiano-romano, 173.

Commodo (L. Aurelio), figlio di M. Aurelio e suo collega all’impero, 94; carattere, 101-102; rottura col Senato, 101-102; congiure e rivolte, 102; uccisione (dicembre 192), 143; iniziato al Mitraismo, 149.

Concilii: di Arles (314), 188; di Nicea (325), 194-95; di Tiro (335), 203; di Roma (340), 210; di Antiochia (341), 210; di Sardica (342 o 343), 210-211; di Philippopolis (344), 211; poteri dei C., 211; di Milano (355), 213-14; di Rimini (359), 218; di Seleucia Isaurica (359), 218; di Costantinopoli (381), 236-37; di Aquileia (381), 237. V. Sinodo.

Concordia, 255.

Consilium principis, prima di Adriano, 61; con Adriano, 61-62, 63; i suoi membri sono stipendiati, 95; con Settimio Severo, 119; con Severo Alessandro, 128, 160. V. Consistorium.

Consistorium principis. V. Consilium principis, istituito da Diocleziano, 166; sua composizione, 195-96.

Consularis, 168, 197.

Cordova, 66.

Corinto (la nuova), 70, 71, 137.

Cornelio Fusco, prefetto del pretorio, e generale contro i Daci (87), sconfitto e ucciso, 33.

Cornelio (A. Palma), generale romano, conquista l’Arabia Petrea (106), 46; congiura contro Adriano, 59.

Corrector, 168, 197.

Corsica, attaccata da Genserico, 267.

Cosroe, re dei Parti, e l’Armenia, 53; guerra con Traiano (114-16), 53 sgg.; riconosciuto da Adriano, 59, 68.

Costante, figliuolo di Costantino I, 207; sue province, 202; Cesare, 202; Augusto, 202, [281] 207; sua responsabilità nell’eccidio del 337, 207-08; favorevole agli Atanasiani, 208; sconfigge Costantino II (340), 209; ampliamento dei suoi dominii, 209; ucciso (18 gennaio 350), 212.

Costantina, sorella di Costanzo e moglie di Gallo, 215.

Costantino, un usurpatore. Vedi Claudio.

Costantino I, il Grande, figlio di Costanzo Cloro, 179; Cesare (25 luglio 306), 179; sposa Fausta, 181; Augusto (308), 181; fa uccidere Massimiano (310), 181; suo editto che sospende le persecuzioni dei Cristiani (311), 181-82; combatte Franchi e Alemanni, 182; si accorda con Massimino Daio, 182; dà in sposa la sorella a Licinio, 182; combatte Massenzio, 182-83 e conquista l’Italia, 183; editto di Milano (313), 183 sgg.; guerreggia contro Licinio (314), 185; accordi con Licinio (314), 186; riforma monetaria, 186-187; finanziaria, 187; guerra con Licinio (323-24), 189 sgg.; combatte il Donatismo, 189; e l’Arianesimo, 193 sgg., 203; riforme politiche, 195; militari, 197 sgg.; prima organizzazione coattiva del lavoro, 200 sgg.; divide l’Impero, 202; si apparecchia a guerreggiare la Persia, 204; battezzato, 204; sua morte (22 maggio 337), 204; giudizio su C., 204-5, 206, n. 10.

Costantino II, figliuolo di Costantino I, 207; sue province, 202; Cesare, 202; sua responsabilità negli eccidii del 337, 207-8; Augusto, 202, 207; accrescimento del suo dominio, 208; favorevole agli Atanasiani, 208; guerreggia Costante (340), 209; disfatto e ucciso, 209.

Costantinopoli, motivi della fondazione, 199-200; inaugurazione (11 maggio 330), 202; assegnata a Costanzo (337), 208; Chiesa di C., 208, 210, 237; insurrezione contro gli Ariani, 214; minacciata dai Barbari, 234; rivalità con Roma, 250.

Costanza, sorella di Costantino il grande e sposa di Licinio, 182.

Costanzio, magister militum di Onorio, 258; sconfigge Costantino e Giovino, 258; e Ataulfo, 258-59; sposa Galla Placidia, 260.

Costanzo, figliuolo di Costantino I, 207; sue province, 202; Cesare, 202; sua responsabilità negli eccidii del 337, 207-208; Augusto, 202, 207; accrescimento del suo dominio, 208; guerra persiana (338-350), 209, 212; perseguita il paganesimo, 209; al Concilio di Milano (355), 213-14; incarica Gallo del governo dell’Oriente (351), 215; e Giuliano, di quello delle Gallie etc., 215-216; nuova guerra persiana (359-61), 218-219; conflitto con Giuliano, 208-9; sua morte (5 ottobre 361), 219.

Costanzo Cloro, Cesare di Massimiano, 163; non perseguita i Cristiani, 176; Augusto (305), 177; muore (306), 179.

Cremona, 255.

[282]

Crispo, figlio di Costantino, 186; Cesare, 190; combatte i Franchi, 195; sconfigge Licinio, 190; fatto uccidere dal padre (326), 195.

Cristianesimo, sua diffusione alla fine del I sec. di C., 51; suo carattere, 51, 222-23; e i pagani, 51; e l’Impero, 51-52, 153-54; e il servizio militare, 154-55; e Traiano, 52; e Adriano, 71-72; e M. Aurelio, 93 sgg.; e Settimio Severo, 115; reazione pagana in Oriente, 115-16; nel III sec., 150 sgg.; nel IV sec., 174, 212, 222 sgg.; nel V sec., 242; ordinamento della Chiesa, 150; cause del successo, 151 sgg.; istituzioni di beneficenza, 152-53; persecuzioni, 153, 174 sgg.; e l’Editto di Milano (313), 183 sgg.; e la politica di Costantino, 187 sgg.; eresie, 187-88; V. Donatismo, Arianesimo; in Iberia, Armenia, Persia, 204; e Giuliano l’Apostata, 222 sgg.; tra i Goti, 232. V. Concilii, Cattolicismo.

Crysopolis (Scutari), battaglia (18 settembre 324), 190.

Ctesifonte, capitale della Parzia, 54; incendiata, 87; occupata da Caro (283), 143; minacciata da Giuliano l’Apostata, 226.

Curatores rerum publicarum, 61, 91.

Curiales, 243, 246.

Curie, 244, 245.

Custoboci, 90.

Cyllene (M.), 70.


Daci. V. Dacia.

Dacia, 32; i Daci invadono la Mesia (69-70), 18; unificati da Decebalo, 32-33; V. Decebalo. la D. prov. romana (107) e colonizzata, 45-46; miniere, 49; invasa dai Goti 134, 135; abbandonata da Aureliano (271), 140, V. Dacia Ripensis; i Daci nell’esercito romano, 172; la D. assegnata all’Impero d’Oriente, 249; le due Dacie, 264; invase da Attila (447), 264.

Dacia Ripensis, provincia romana (271), 140; assegnata a Costantino (314), 186.

Dadastana (in Bitinia), 230.

Dalmazia, nella tetrarchia dioclezianea, 163; assegnata a Licinio (307), 181; a Costantino (314), 186; a Costante (339), 202; invasa da Goti ecc., 234; divisa tra l’Impero di Oriente e l’Occidente, 249; ceduta in parte ad Alarico (397), 251; controversia sull’Illirico, 261; assegnata all’Impero di Oriente (425), 261; invasa da Attila (447), 264.

Dalmazio, nipote di Costantino, 202; Cesare, 202; sue province, 202; ucciso (337), 207.

Dardania, 186.

Decebalo, re dei Daci, 33; invade la Mesia, 33; battuto, 33; sconfigge i Romani (87), 33; battuto da Tezzio Giuliano (89), 34; accordi con Domiziano, 34-35; vassallo di Roma (102), 44; tentativi di riscossa, 44; disfatto, 45.

Decio (C. Messio Quinto Traiano), governatore della Dacia e Mesia, 134; sconfigge Filippo l’Arabo (249), 134; [283] imperatore (249-51), 134; perseguita i Cristiani, 153; vinto e ucciso dai Goti, 134.

Decurioni, 170.

Defensor civitatis, 231.

Denarius, 85, 170, 171. V. Monete.

Didio Giuliano, eletto imperatore dai pretoriani, 104; disfatto e ucciso, 108.

Diocesi, 167. V. Vicarii.

Diocleziano (C. Valerio Aurelio), origini, 159; prefetto del pretorio, 144; imperatore (17 settembre 284), 144; guerra con Carino (285), 159; si associa Massimiano, 160-61; istituisce la tetrarchia, 163 sgg.; riforma provinciale, 166 sgg.; riforma militare, 169; e finanziaria, 169 sgg.; L’Editto sui prezzi, 170-71; guerra persiana (296-98), 172 sgg.; e la persecuzione dei Cristiani, (303), 173 sgg.; abdicazione (305), 176-77; alla conferenza di Carnuntum (307), 180; sua morte (313), 185.

Domestici, 198.

Dominus, titolo imperiale, 117, 128.

Domiziano (T. Flavio), nella battaglia a Roma tra Vitelliani e Flaviani, 15-16; imperatore, 29; coltura e carattere, 29-30; e la conquista della Britannia, 30; sua spedizione in Germania (83), 31; inizia il limes germanicus, 31; e il Senato, 31, 32; censore perpetuo (85), 31-32; guerra dacica (85-89), 32 sgg., 44; congiura e insurrezione delle legioni germaniche (88), 34; carattere della fine del suo governo, 35-36; suo dispotismo, 36; ultima congiura e morte (18 settembre 96), 36.

Donatismo, 188, 189, 190, 262.

Donato, vescovo di Cartagine (313), 188.

Dux, 166, 197.


Eboracum, 179.

Ebrei. V. Giudea; in Siria, 73.

Economia sociale. V. Agricoltura, Commercio, Industria, Lavoro, Finanze, Monete, Prezzi, ecc.

Edictum perpetuum, 62-63.

Editto di Milano (313), 183 sgg., 205-06, n. 4.

Efeso, 97.

Egidio, generale romano in Gallia, 269.

Egitto, 54; alla metà del II sec. a. C., 74-75; Adriano in E., 75; i Bucolici, 91; visitato da Settimio Severo, 115; invaso da Zenobia (269), 141; riconquistato da Aureliano (273), 141; nella tetrarchia dioclezianea, 163; assegnato a Massimino Daio (311), 182; a Costanzo (335), 202; conflitti tra Pagani e Cristiani, 241.

Elatea, 90.

Eliogabalo (dio del Sole), 125.

Eliogabalo (Vario Avito Bassiano), sacerdote del dio del Sole, figliuolo di Soemia, 125; imperatore (8 giugno 218), 126; sua politica religiosa, 126; ucciso (11 marzo 222), 127.

Emesa, 125.

Emiliano (M. Emilio), governatore della Mesia, sconfigge i Goti, 135; imperatore (253), 135; guerreggia e sconfigge Gallo (253), 135.

Epidemie, 88, 135, 270.

[284]

Epiro, assegnato ad Alarico (397), 251.

Eraclea (in Asia Minore), 185.

Eresie. V. Cristianesimo.

Ermonduri, 89.

Eruli, invadono la Grecia, 137; la Gallia, 161; nell’esercito di Attila, 265; di Odoacre, 271.

Esercito. V. Legioni.

Etruria, 253.

Eudossia, figlia di Teodosio II, 260.

Eugenio, un funzionario imperiale, 242; proclamato Augusto, 242; restaurazione pagana, 242; sconfitto e decapitato (394), 292.

Eurico, re dei Visigoti, accordi con Ricimero, 270; guerra con l’Impero, 270.

Eusebia, imperatrice, moglie di Costanzo, 215.

Eusebio (vescovo) di Nicomedia, 204.

Ezio (Flavio), proclama imperatore Giovanni, 260; e gli Unni, 260, 261, 262; si riconcilia con Valentiniano III, 261; rivalità con Bonifazio, 261, 262; magister militum, 262; combatte in Gallia, Rezia, Norico, 262; destituito (432), 262; combatte Armoricani, Bagaudi, Visigoti, Burgundii, 263; sconfigge Attila ai Campi Catalauni (451), 265; ucciso da Valentiniano III (454), 266.


Fabio (Valente), generale vitelliano, invade la Narbonese, 7; invade la valle del Po, 8; a Pavia, 8; fugge in Gallia, 15.

Fano, 139.

Fausta, figliuola di Massimiano e moglie di Costantino, 181, 195; uccisa, 195.

Fenicia, 235.

Fiesole, battaglia (405), 253.

Filippi. V. Philippopolis.

Filippo l’Arabo (M. Giulio), origine, 133; generale di Gordiano III, 133; gli si ribella, 133; imperatore (244-49), 133-34; ucciso, 134.

Finanze, politica finanziaria fino a Vespasiano, 21; politica finanziaria di Vespasiano, 22; di Domiziano, 35-36; accrescimento delle spese e dei redditi sotto Traiano, 49-50; politica fin. di Antonino Pio, 84; di M. Aurelio, 91; di Commodo, 102; di Pertinace, 104; di Settimio Severo, 119, 124; di Eliogabalo, 126; fiscalismo del III sec., 145-46; catasto, 169; riforme di Diocleziano, 169-70; di Costantino, 187; conseguenze, 220, 244-45.

Fisco, 36.

Flavi (Gl’Imperatori), 17 sgg.

Flavio (T. Sabino), prefetto di Roma, 15; ucciso, 15.

Flavio Teodosio, generale di Valentiniano I, 231; combatte in Britannia (368-70), 231; in Africa, 231.

Floriano (M. Annio), imperatore (276), 142-43.

Flotta, di Miseno, 15; di Ravenna, 14; del Danubio, 26.

Focide, 90.

Foro Traiano, 47.

Franchi, invadono Gallia, Spagna, Africa, 137; al soldo di Caranzio, 162; combattuti da Costantino, 182; invadono la Gallia, 242; disfatti da Arbogaste, [285] 242; invadono la Gallia, 254; Salii e Ripuari, 265; nell’esercito di Attila e di Ezio, 265.

Frigidus (Fl. = Vippacco), battaglia (5 settembre 394), 242.

Fulvio (M. Macriano), generale di Valeriano in Oriente, scaccia i Persiani dalle province orientali, 136-37; fa proclamare imperatori i due figli, 137; disfatto da Odenato, 137; muore, 137.

Fulvio (C. Plauziano), prefetto del pretorio, 113.

Furio (C. Sabinio Aquila Timesiteo), suocero di Gordiano III, 133; prefetto del pretorio, 133; guerreggia Persiani e Germani, 133; muore (243), 133.


Gaina, 251.

Galba (S. Sulpicio), suo governo (68-69), 1 sgg.; e il Senato, 1-2; e Vindice, 1; e Virginio Rufo, 1; e Ninfidio Sabino, 1; e i pretoriani, 1-2; ucciso (15 gennaio 69), 5.

Galerio (C. Valerio Massimiano), Cesare di Diocleziano, 163; disfatto dai Persiani, 172; sconfigge i Persiani, 172; persecuzione dei Cristiani, 176; Augusto (305), 177; riconosce Costantino, 179; promuove Severo Augusto, 179; indice un censimento, 179; tenta combattere Massimiano, 180; alla conferenza di Carnuntum, 180; sospende le persecuzioni dei Cristiani (311), 181-82; morte (311), 182.

Galizia (in Spagna), 258.

Galla Placidia, sorella di Valentiniano II, 239; moglie di Teodosio I, 239; prigioniera di Alarico, 256; sposa Ataulfo (414), 258; restituita a Onorio, 259; sposa Costanzio, 260; madre di Valentiniano III, 260; reggente, 260; destituisce Bonifazio, 261; muore (450), 265; mausoleo a Ravenna, 265.

Gallia, si dichiara per Vitellio, 6; insurrezione, 18; latinizzazione, 24; famiglie galliche negli ordini senatorio ed equestre, alla metà del II sec. d. C., 64-65; città principali, 65, 67; invasa dai Franchi, 137; la rivolta dei Bagaudi, 159, 160; nella tetrarchia dioclezianea, 163; minacciata dai Germani (297), 173; assegnata a Costantino II (335), 202; invasa dai Germani (354), 215; Giuliano in Gallia (355-359), 216 sgg.; invasa da Alamanni (365), 231; da Vandali, Svevi, ecc., 254, 257; nuove guerre, 258; i Visigoti in G., 258, 259. V. Narbonese, Aquitania, Batavi, Lingoni, Treveri.

Gallieno (P. Licinio Egnazio), figliuolo e collega di Valeriano, 135-36; imperatore (253-268), 136 sgg.; guerreggia i barbari dell’Occidente, 136; vince Ingenuo, 136; combatte Postumo, 137; sconfigge gli Alamanni a Milano, 137; combatte Aureolo, 138; ucciso (268), 138.

Gallo (C. Vibio Treboniano), governatore della Mesia, imperatore (251-53), 134; fa pace coi Goti, 134; vinto e ucciso da Emiliano, 135.

[286]

Gallo, nipote di Costantino I, 207; adolescenza, 214-15; Cesare (351), 215; capo del governo dell’Oriente, 215; ucciso (354), 215; difetti, 215.

Geiserico. V. Genserico.

Genserico (o Geiserico), re dei Vandali, invade l’Africa (429), 262; combattuto da Bonifazio, 262; occupa le Mauretanie e la Numidia (431), 262, 263; s’impadronisce di Cartagine (439), 263; attacca la Sicilia, 263; accordi con Valentiniano III (435), 263, (442), 264; invade e saccheggia Roma (455), 267; assale Sicilia e Corsica, 267; distrugge l’armata di Maioriano, 268; conquista la Sardegna, 269; attacca la Grecia e le isole, 269.

Gepidi, 162, 265.

Germani, progressi dei G., 89; cause delle invasioni, 89; invadono le province danubiane e l’Italia (167), 88 sgg.; coloni, 90; invadono le due Germanie e la Gallia (354), 215; nell’esercito di Attila, 265. V. Alamanni, Marcomanni, Ermonduri, Quadi, ecc.

Germania, Giuliano penetra in G. (359), 217. V. Germani.

Germanie (le due), rivolta delle legioni (69 d. C.), 4; alla metà del II sec. a. C., 65-66; insurrezione, 18; Adriano nelle due G., 65-66; invase dai Germani (354), 215; abbandonate da Stilicone 253; perdute, 259.

Gerusalemme, assediata e incendiata, 11, 13, 19, 73; Aelia Capitolina, 75-76.

Geta (P. Settimio), Augusto, 118; tendenze, 118; imperatore, 123; ucciso dal fratello, 123.

Getuli, 231.

Gildone, 252.

Giovanni, primicerius notariorum, un usurpatore, 260; vinto e ucciso (425), 261.

Gioviano, imperatore (363), 229; pace coi Persiani (363), 230; muore (363), 230.

Giovino, un usurpatore, 258; sconfitto (414 ca.), 258.

Girolamo (S.), 234.

Giudea (Palestina), 3; guerra di Giudea (69-70), 11, 13, 18, 19; insurrezione sotto Traiano, 54; insurrezione sotto Adriano (132-34), 75-76; visitata da Settimio Severo, 115; nel IV secolo, 235; servitù della gleba in G., 246. V. Ebrei.

Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, 112, 119; si lascia morir di fame, 125.

Giulia Mamea, nipote di Giulia Mesa, 125; madre di Severo Alessandro, 125; sua influenza sul governo di Severo Alessandro, 127 sgg.

Giulia Mesa, sorella di Giulia Domna, 119; relegata in Emesa, 125; fa proclamare imperatore Eliogabalo, 125-26.

Giuliano, nipote di Costantino I, 207; adolescenza, 214-15; Cesare (355) e governatore della Gallia, Spagna, Britannia, 216; qualità morali, 216, 221; governo delle Gallie (355-359), 216 sgg.; proclamato Augusto, 218-19; Epistula ad S. P. Q. Atheniensium, 219; marcia verso Costantinopoli, 219; a Costantinopoli, [287] riforme, 220-22; suo repubblicanesimo, 222; e il Cristianesimo, 222 sgg.; e il Paganesimo, 219, 223 sgg.; la guerra coi Persiani (363), 225 sgg.; sua morte (26 giugno 363), 226, 227, n. 10.

Giulio (papa), 210, 211.

Giulio (C. Vindice) e Galba, 1.

Giulio (Cn. Agricola), generale romano in Britannia sotto Domiziano, 30; richiamato, 30.

Giulio Civile, capo dei Batavi, 18.

Giulio Classico, capo dei Treviri, 18.

Giulio Nepote, imperatore di Occidente (472), 270; sconfitto da Oreste, fugge in Dalmazia (475), 271; sopravvive alla catastrofe dell’Impero di Occidente, 272.

Giulio Sabino, capo dei Lingoni, 18.

Giulio (Sesto Severo), generale romano in Giudea, 76.

Giulio Tutore, capo dei Treveri, 18.

Giustina, moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II, 238; reggente per Valentiniano II, e sua politica religiosa, 238-39; fugge in Oriente, 239; morte, 239.

Giustino (S.), 94.

Giuochi, Nemei, 71; G. ad Adrianopoli, 71; Pitici e Olimpici, 72; rifiorimento degli antichi giuochi dell’Ellade, 98; decadenza, 145.

Glicerio, un pretendente, ucciso da Giulio Nepote, 270.

Gordiano I (M. Antonio), imperatore, 132.

Gordiano II, figlio di Gordiano I e suo collega nell’Impero, 132.

Gordiano III, nipote di Gordiano I, imperatore (238-44), 132, 133; guerre persiane e germaniche, 133; trucidato, 133.

Goti, invadono le province danubiane (238), 133; vinti da Gordiano III, 133; invadono di nuovo le province danubiane, 134; sconfiggono Decio, 134; fan pace con Gallo, 134; invadono la Mesia, 135; sconfitti da Emiliano, 135; invadono Dacia, Macedonia, Asia Minore (254-260), 135; Asia Minore e Grecia, 137; nuova invasione (268), 138; in Germania, 162; nell’esercito romano, 172; invadono Tracia e Mesia (323), 190; disfatti da Costantino I (332), 202; coloni, 202, 235; invadono la Tracia (365), 231; sconfitti da Valente (367-69), 231; loro dominio e divisioni nei secc. III-IV, 232; civiltà, 232; nelle guerre civili romane, 262. V. Ostrogoti, Visigoti.

Graziano, figlio di Valentiniano I, imperatore, 233; sconfigge gli Alamanni, 233, 234; invia Teodosio in Oriente, 235; lo nomina Augusto (19 gennaio 379), 235; cattolico; sua politica, 236; ucciso (agosto 383), 238.

Grecia. V. Acaia.

Gregorio Nazianzeno (S.), 234.

Grutungi, 232.

Guerre, quarta Gu. civile (69-70), 1 sgg., 13 sgg.; di Giudea (70), 18-19, (132), 75-76; [288] contro i Batavi (70), 18; in Britannia (77....), 30; contro i Catti (83), 31; contro i Daci (85-89), 32 sgg.; (101-102, 105-106), 44 sgg.; contro i Parti (114-16), 53 sgg.; (161-66), 86 sgg.; di M. Aurelio contro i Germani (167-175), 88 sgg., (178-80), 95; Gu. civile del 193-97, 107 sgg.; Guerra partica (197-98), 114 sgg.; Guerra germanica di Caracalla, 124; persiana di Severo Alessandro, 129-30; guerre persiane e germaniche di Gordiano III, 133; di Gallieno contro i barbari dell’Occidente, 136; di Valeriano contro i Persiani, 136; Gu. civili del III sec., 131 sgg.; contro i Goti (268-70), 138 sgg.; contro Jutungi, Vandali, ccc., 139; di Aureliano in Oriente (272-73), 141; di Caro contro i Persiani, 143; Gu. civile tra Diocleziano e Carino, 159; Gu. persiana (296-298), 172 sgg,; Gu. civili dopo l’abdicazione di Diocleziano, 179 sgg.; tra Costantino e Massenzio (312), 182-83; tra Licinio e Massimino (313), 184-85; tra Costantino e Licinio (314), 185-86; (323), 190-191; Gu. civile tra Costantino II e Costante (340), 209; Gu. contro i Persiani (363), 225 sgg.; di Valentiniano I coi barbari dell’Occidente, 231-32; di Valente in Oriente, 232-33, 234; di Graziano con gli Alamanni, 233; di Teodosio contro i Goti, 235; contro l’usurpatore Massimo, 239-40; contro l’usurpatore Eugenio, 241-243; di Stilicone contro Alarico (397), 251; (402-403), 253; contro Radagaiso (404-5), 253; in Gallia (intorno al 411), 258; Gu. persiana (422), 260; contro i Vandali d’Africa (429-431), 262; (468) 270; Gu. civile fra Ezio e Bonifazio (432), 262; contro gli Unni (444-57), 264 sgg.; contro i Visigoti di Gallia, 268, 230; ultime Gu. civili (472-76), 270-71.


Herculius, 160, 164.

Hibernia (Irlanda), 30.


Iberi, 247.

Iberia (Georgia), 173, 204.

Iberica (Penisola). V. Spagna.

Illirico (prefettura), 249. V. Dalmazia.

Illirio (o Illirico). V. Dalmazia.

Impero, incertezza del suo fondamento legale, 2-3; tentativi assolutisti di Domiziano, 36; carattere repubblicano, con Traiano, 46 sgg.; e il principio dell’adozione, 57-58, 110; il principio ereditario, 94-95; 118, 120; l’Imp. alla morte di M. Aurelio, 196 sgg.; disparizione delle minori città, 97; principio della decadenza, 99 sgg.; l’assolutismo imperiale, 120, 121, 165; prima divisione (253), 135-136; crisi economica del III sec., 144 sgg.; sociale, 146 sgg.; religiosa, 148 sgg.; nuovo principio di legittimità, 150; divinità degli imperatori, 165; l’Imp. risorge con Diocleziano, 173-74; dualismo fra Occidente e Oriente, 210, 211, 212, 214, 250, 251-52, 254; alla morte di [289] Costanzo (361), 220: alla morte di Teodosio I (395), 243-244; divisione (395), 249; l’Imp occidentale alla morte di Onorio (423), 259-60; l’Imp. orientale durante il governo di Teodosio II, 260; unificazione (423), 260; fine dell’Imp. d’Occidente (476), 271-72.

Imposte. V. Finanze.

India, 73.

Indictio, 187.

Industria, nelle province romane, 64 sgg., 73 sgg.; nell’Impero alla fine del II sec., 96-97; decade nel III sec., 144-145; nel IV sec., 244.

Ingenuo, proclamato imperatore dalle legioni di Pannonia e Mesia (258), 136; vinto da Gallieno, si uccide, 136.

Iovius, 160, 164.

Ippodromo (a Nemea), 70.

Isauri, 232.

Istituzioni alimentari, 40, 48.

Istruzione, nelle province romane, 64 sgg., 73 sgg.; scuole in Atene, 71; l’Ateneo, 72; scuole di musica, 73; il Mouseion di Alessandria, 75; alla fine del II sec., 97, 98-99; decadenza nel III sec., 147; le scuole e Giuliano l’Apostata, 224.

Italia, nel I sec. dell’e. v., 6; riconosce Ottone, 6; invasa dalle legioni di Vitellio, 7-8, 10; mercanti italici in Oriente, 68; invasa dai Germani, 88, 90; fatta provincia da Settimio Severo, 117, 168; invasa dagli Alamanni (261), 137, 139; da Jutungi e Vandali, 139; nella tetrarchia dioclezianea, 163; invasa da Costantino I (312), 182-83; assegnata a Costante (335), 202; invasa da Costantino II (340), 209; da Alarico (400), 252 sgg., 255 sgg.; da Radagaiso (404), 253; da Attila (452), 265-66; l’Italia dopo il 476, 272.

Italica (vecchia Siviglia), 66.

Iugum, 169.

Iuridici, istituiti da Adriano 61; aboliti da Antonino Pio, 84; ristabiliti da M. Aurelio, 95.

Iustitium, 242.


Jarbiensis (pianura), battaglia, 185.

Jazigi, 89, 159.

Jutungi, 139.


Κεράτιον (siliqua), 186.


Lambaesis, 73.

Lattanzio, 155.

Lavoro, organizzazione coattiva, 200 sgg.; mano d’opera, 201, 245 sgg.

Legioni (Le), e la elezione imperiale, 4; insurrezione delle L. di Germania contro Galba (69 d. C.), 4; le L. d’Oriente riconoscono Ottone, 6, 12; le L. della Germania e la guerra civile tra Ottone e Vitellio, 7; le L. d’Oriente neutrali nella guerra civile fra Ottone e Vitellio, 12; le L. del Danubio e Ottone, 6, 8, 13; accordi tra le L. orientali e quelle del Danubio contro Vitellio, 13; acclamano imperatore Vespasiano (69), 13; le L. della Pannonia e [290] il consiglio di guerra di Petovio, 14; invadono l’Italia, 14; riforme di Vespasiano, 20-21; i provinciali nelle L., 21; le L. di Germania insorgono contro Domiziano (88), 34; infiacchimento dell’esercito sotto Antonino Pio, 85, 87; le L. di Britannia insorgono, 86-87; difficoltà del reclutamento sotto M. Aurelio, 90; imbarbarimento dell’esercito, 100, 120, 139, 172, 198, 199, 239, 240, 242; decomposizione sotto Commodo, 102; le L. insorgono contro Didio Giuliano, 104 sgg.; Settimio Severo e l’esercito, 113-14, 117; stanziamento di una legione presso Roma, 117; e Caracalla, 123; il soldo militare raddoppiato, 124; indisciplina sotto Eliogabalo, 126; e Severo Alessandro, 131; dopo la morte di Alessandro, 131 sgg.; accrescimento dell’esercito sotto Diocleziano, 169; diminuzione dell’effettivo delle L., 169, 197; ordinamento dell’esercito sotto Costantino, 197 sgg.; importanza dei barbari nell’esercito alla metà del V. sec., 268 sgg., 270, 271; insurrezione delle L. romane sotto Oreste (475), 271.

Leone I (papa), 266.

Leone I, imperatore d’Oriente, 268; destituisce Ricimero, 268; preparativi e insuccesso contro i Vandali (468), 270; nomina per l’Occidente Giulio Nepote (472), 270.

Leptis, 107.

Lex de imperio, 17-18.

Lex de majestate, 28, 35.

Liberio (papa), 213, 214.

Libia, i Libi, 67; nella tetrarchia dioclezianea, 163.

Libio Severo, imperatore (461-465), 269.

Libo-Fenici, 67.

Liciniano, nipote di Costantino, 195.

Licinio (Liciniano), Augusto (novembre 307), 180-81; editto che sospende le persecuzioni dei Cristiani (311), 181-82; accordo con Massimino Decio circa l’Oriente, 182; sposa Costanza sorella di Costantino, 182; editto di Milano (313), 183 sgg.; sconfigge Massimino (313), 185; guerreggia contro Costantino (314), 185-86; accordi con Costantino (314), 186; osteggia i Cristiani, 190; favorisce i Donatisti, 190; nuova guerra a Costantino (323-24), 185 sgg.; sua uccisione (325), 190-91.

Licinio (Muciano), governatore della Siria, 13; e Vespasiano, 13; in Italia, 15; invade l’Italia centrale, 15; spedisce Q. Petilio Ceriale contro i Gallo-Germani ribelli, 18.

Limes Germanicus, 31, 66.

Limitanei, 198.

Lione, 65, 97, 213, 217.

Locus Castorum (battaglia di), 8.

Lusitania, 258.


Macedonia, invasa dai Goti, 135, 138; assegnata a Costantino (314), 186; a Dalmazio (335), 202; a Costanzo (337), 208; all’Impero di Oriente (395), 249; invasa da Attila (447), 264.

Macellum (in Cappadocia), 215.

[291]

Macrino (M. Opellio), un cavaliere, 175; prefetto del pretorio di Caracalla, 125; imperatore, 125; vinto dai Parti, 125; ucciso, 126.

Maggiorino, vescovo di Cartagine, 188.

Magister officiorum, 195.

Magistrature romane, decadenza, 197

Magistri militum, 195, 197.

Magnenzio, magister militum di Costante, 212; acclamato Augusto, fa uccidere l’imperatore (18 gennaio 350), 212; favorisce i Pagani, 212; disfatto e ucciso (352), 212-13.

Magonza, 131, 259.

Maioriano, magister militum, 268; imperatore (457), 268; guerra coi Visigoti, 268; disfatto da Genserico, 268; ucciso (7 agosto 461), 269.

Mantinea, 70.

Marcellino, generale romano in Dalmazia, 269.

Marcello, generale di Costanzo, 216.

Marciano, imperatore d’Oriente (450), rottura con Attila, 264-265; muove contro Attila (453), 266; disegni contro Genserico, 268; muore (27 gennaio 457), 268.

Marcianopoli, 138.

Marco Aurelio (M. Annio Vero), nipote di Antonino Pio e da lui adottato, 77, 85; riceve la potestà tribunicia e proconsolare (146), 85; imperatore con L. Vero, l’imperatore filosofo, 86; guerra orientale (161-66), 86 sgg.; guerre germaniche (167 sgg.), 90 sgg., 95; e il Senato, 91; e il Cristianesimo, 93 sgg.; trionfo (23 dicembre 176), 94; fa suo collega Commodo, 94; sua morte (17 marzo 180), 95; suo governo, 95-96.

Marcomanni, 34; vinti da Domiziano, 35; invadono l’Impero (167), 89 sgg.; invadono la Spagna, 91; invadono le province danubiane, 130; nell’esercito di Attila, 265.

Mardiensis (pianura), battaglia, 185.

Marsiglia, 65, 258, 261.

Massenzio, figlio di Massimiano, 179; Augusto (306), 180; favorevole ai Pagani, 182; guerra con Costantino (312), 182-83.

Massimiano (M. Aurelio Valerio), origini, 160; Cesare, 160; Augusto (286), 160; persecuzione dei Cristiani, 176; abdicazione (305), 177; di nuovo imperatore (306), 180; alla conferenza di Carnuntum, 180; in discordia col figliuolo, 180; s’imparenta con Costantino, 181; congiura contro Costantino?, 181; imprigionato e ucciso (310), 181.

Massimino (C. Valerio), origine, 131; imperatore (235-38), 131, 132; combatte gl’imperatori senatori, 132; ucciso, 133.

Massimino Daio, Cesare (305), 177; Augusto (308), 181; favorevole ai Pagani, 182; perseguita i Cristiani, 182, 184; accordi con Licinio circa l’Oriente, 182; con Costantino, 182; invade la penisola balcanica (313), 185; vinto e fuggiasco, sua morte (313), 185.

[292]

Massimo (Magno Clemente), un usurpatore (383), 237-38; fa uccidere Graziano, 238; riconosciuto da Teodosio, 238; combatte Valentiniano II, (387), 239; disfatto e decapitato (388), 240.

Mauri, scorrerie nella prov. di Africa, 94, 231; insurrezioni, 67, 162.

Mauritania, alla metà del II soc. di C., 67; assegnata a Costanzo, 208; le tre Mauritanie, 262; occupata dai Vandali (431), 262; restituita a Roma (442), 264. V. Mauri.

Mazdeismo, 129.

Media, 87; M. Atropatene, 173.

Megara, 71.

Mesia (provincia di), invasa dai barbari, 18; dai Daci, 33; dai Goti, 134, 135; (268), 138; nella tetrarchia dioclezianea, 63; assegnata a Licinio, 190; invasa dai Goti (323), 190; invasa da Attila (447), 264.

Mesopotamia, invasa da Traiano e in parte dichiarata prov. romana (515), 13; insorge, 54; restituita ai Parti, 59; M. Superiore prov. romana (166), 87-88; invasa dai Parti, 114; liberata (198 o 199), 115; invasa dai Persiani (231), 129, (241), 133; restituita all’Impero (298), 173; invasa da Sapore II (359), 218; le fortezze cedute ai Persiani (363), 230.

Milano, 137, 164, 183, 253.

Milites Palatini, 169.

Millena, 169.

Miseno, 15.

Mitra, culto di M. in Asia Minore, 69; e la tetrarchia dioclezianea, 165.

Mitraismo, 149; diffuso nell’Impero, 149-50; adottato ufficialmente da Aureliano, 149.

Mona (Anglesey) (I.), 30.

Monachismo, 245.

Monete, peggioramento sotto Traiano, 50; sotto Antonino Pio, 85; sotto M. Aurelio, 91; sotto Settimio Severo, 119; nel III sec., 146; riforma di Diocleziano, 170; di Costantino, 186-87.

Mouseion, 75.

Muciano. V. Licinio.

Mura aureliane, 140.

Mursa (in Pannonia), battaglia (28 settembre 351), 213.

Musica (Scuole di), 73.


Naissus (Nisch), battaglia (269), 139.

Napoli, 214, 271.

Narbona, 65, 258.

Narbonese, occupata dai Vitelliani, 7; invasa dagli Ottoniani, 8; si dichiara per Vespasiano, 15; attaccata da Ataulfo (413), 258.

Narsete o Narseo (Narsehi), re persiano (294), 172; invade l’Armenia, 172; ferito in battaglia e disfatto, 172; fa pace con Diocleziano (298), 173.

Navicularii, 200-201.

Nemea, 70.

Nerva (M. Cocceio), carattere della sua elezione, 39-40; suo governo, 39-41; riforme giudiziarie, 40; sceglie a collega Traiano, 40; fonda le istituzioni alimentari, 40.

Nicea, 194, 230. V. Concilii.

Nicomedia, 164, 175, 177.

Nicopoli, 70.

Ninfidio Sabino, tenta farsi acclamare [293] imperatore, 1; sua fine, 1.

Nisibis, 173.

Norico, 186, 249.

Numeriano, figliuolo di Caro e suo collega, 143; sua morte (283), 143.

Numidi, 67, 162.

Numidia, occupata dai Vandali (431), 262; restituita a Roma (442), 264.


Odenato, 136; dux Orientis, 137; combatte l’usurpazione di Macriano, 137; muore (266 o 267), 140.

Odoacre, nell’esercito romano, 271; acclamato re degli Eruli, 271; sconfigge Oreste (agosto 476), 271; depone Romolo Augustolo, 271; si proclama governatore dell’Italia (476), 271.

Olibrio, candidato di Genserico all’Impero, 270; fatto proclamare da Ricimero (472), 270; muore (472), 270.

Onorio, imperatore d’Occidente (395), 249; ripara a Ravenna (404), 250; fa uccidere Stilicone, 225; sua politica rispetto ai Visigoti, 255 sgg., 258, 259; dona l’Aquitania ai Visigoti (418 o 419), 259; sua morte (27 agosto 423), 259; dona terre ai Burgundi, 259.

Opitergium (Oderzo), 88.

Oreste, sconfigge Giulio Nepote (475), 271; proclama imperatore Romolo Augustolo (agosto 475), 271; sconfitto e ucciso da Odoacre (27-28 agosto 476), 271.

Orléans, 265.

Osroene, 110, 124.

Ostia, 47, 256.

Ostrogoti (Grutungi), 232; assoggettati dagli Unni (232); alla battaglia dei Campi Catalauni (451), 265.

Ottone (M. Salvio), e Galba, 4; congiura contro Galba, 4-5; acclamato col nome di Nerone, suo governo (69), 5 sgg.; e i pretoriani, 5-6; trattative con Vitellio, 6; guerra contro Vitellio, 7 sgg.; disfatto a Bedriaco, si uccide (69), 9.


Paganesimo, e l’editto di Milano (313), 184; e Costantino, 191; perseguitato da Costanzo, 209; nuove persecuzioni, 211, 213; favorito da Massenzio, 182; da Magnenzio, 212; da Giuliano l’Apostata, 219, 220, 223 sgg.; e Valentiniano I, 230; reazione antipagana di Graziano e Teodosio I, 237; insurrezioni in Oriente, 241; riscossa sotto Eugenio, 242; nuova reazione antipagana, 242-43; durante il governo di Stilicone, 252.

Palmira, 74, 136.

Panhellenion, 71.

Pannonia, nella tetrarchia dioclezianea, 163; assegnata a Costantino (314), 186; le due Pannonie, 231; invasa da Quadi e Sarmati (365), 231; liberata da Teodosio, 231; assegnata all’Impero d’Occidente (395), 249.

Paolo (giureconsulto), 119.

Papato, discussione sui suoi poteri, 211.

Papiniano, prefetto del pretorio sotto Settimio Severo, 119.

Partamaspate, 54.

[294]

Parti, il re dei Parti e Vespasiano, 13; guerre civili, 53; la Parzia invasa da Traiano, 54; provincia romana?, 83; i P. si alleano con Pescennio Nigro, 109; invadono la Mesopotamia, 114; vinti da Settimio Severo, 115; pace (198 o 199), 115; dinastia persiana, 128-29. V. Cosroe, Vologese III, Artabano.

Partomasiri, 53.

Parzia. V. Parti.

Patriarcati, 237.

Pavia, 139, 255; battaglia (27-28 agosto 476), 271.

Perinto, 185.

Persiani, origine del nuovo Impero dei P., 129; invadono la Mesopotamia, la Cappadocia, la Siria, 129, 135; fanno prigioniero Valeriano (259?), 136; vinti da Caro (283), 143; decadenza al tempo di Diocleziano, 161; cedono l’Armenia, 162; e Costantino il Grande, 189; e il Cristianesimo, 204; guerre con Valente, 232; con Teodosio II (422), 260; V. Artaserse; Sapore I; Sapore II, Bahram; Narsete.

Pertinace (P. Elvio), carattere e origine, 103; governo restauratore, 103-4; ucciso dai pretoriani (28 marzo 193), 104; apoteosi, 108.

Pescennio Nigro (C.), acclamato imperatore dalle legioni di Siria e d’Egitto, 104; origine e carattere, 107; si afferma in Oriente, 109; sconfitto da Settimio Severo, 109; ucciso (194), 109.

Petilio (Q. Ceriale), combatte i Gallo-Germani ribelli, 18.

Petovium (Petau), 14; battaglia (388), 240.

Petra, 46, 74.

Petronio Massimo, senatore e capo della congiura contro Valentiniano III, 267; imperatore (455), 267; ucciso, 267.

Philippopolis, 70, 211.

Piacenza, 139.

Picti, 86, 231.

Pisone (L. Calpurnio Liciniano), collega di Galba, 4; suo carattere, 4; ucciso (15 gennaio 69), 5.

Plinio il Giovane, suo Panegirico di Traiano, 46, 48, 57; governatore della Bitinia, 51; e i Cristiani, 51-52.

Pola, 215.

Pollenzo (sul Tanaro), battaglia (6 aprile 402), 253.

Pontifex Maximus, 188, 237.

Ponto, 202, 208.

Popolazione (dell’Impero), diminuisce nel III sec., 144; nel IV sec., 244.

Postumo (M. Cassiano Latinio), proclamato imperatore dalle legioni della Gallia (258), 136; suo impero gallo-iberico (258-267), 136; combattuto da Gallieno, 137.

Potestà tribunicia, 85, 94.

Praefectus alimentorum, 95.

Praefectus praetorio. V. Pretoriani: sotto Adriano, 62; sotto Settimio Severo, 113; Costantino gli toglie i poteri militari, 195, 197.

Praeses, 166.

Pretoriani (I), e la elezione imperiale, 3; e Galba, 1-2, 4-5; uccidono Galba e Pisone (15 gennaio 69), 5; durante il governo di Ottone, 5-6; disciolti [295] da Vitellio, 11; ricostituiti da Vespasiano, 21; acclamano Domiziano imperatore, 29; i prefetti del pretorio congiurano contro Domiziano, 36; i provinciali tra i pr., 100; insorgono contro Pertinace, 104; offrono l’Impero a Didio Giuliano, 104; ricostituiti da Settimio Severo, 108; il praefectus praetorio, ammesso in Senato, 113; suoi poteri civili 113; accresciuti da Diocleziano, 169; insurrezione (306), 180.

Prezzi (I), nel III sec., 146; editto di Diocleziano (303), 170-71.

Probo (M. Aurelio), generale di Aureliano, imperatore (272-282), 142; ucciso, 142.

Procopio, generale di Giuliano l’Apostata, 230.

Procopio Antemio, imperatore (12 aprile 467), preparativi e insuccesso contro i Vandali (468), 269-70; ucciso (11 luglio 472), 270.

Procuratores privatarum rerum, 112.

Protectores, 177, 198.

Province, tributi raddoppiati da Vespasiano, 22; nel III sec., 132 sgg.; distribuzione nella tetrarchia di Diocleziano, 163-164; riforma di Diocleziano, 166 sgg., 197. V. Provinciali, Acaia, Britannia, Gallia ecc.

Provinciali (I), nella riforma senatoria di Vespasiano, 24-25; romanizzazione, 47; devono investire un terzo dei loro averi in beni immobili in Italia, 47; nell’esercito, 100; ricevono da Caracalla la cittadinanza romana, 124.

Pupieno (M. Clodio), imperatore, 132; combatte Massimino, 132-33; ucciso, 133.


Quadi, 34; vinti da Domiziano, 35; invadono l’Impero (167), 89 sgg.; invadono la Pannonia (365), 231; nell’esercito di Attila, 265.

Quaestor Sacri Palatii, 195.

Quintiliano, 27, 43.


Radagaiso, ostrogoto, invade l’Italia (404), 253; disfatto e ucciso (405), 253.

Rationalis, V. Advocatus fisci, 113.

Ravenna, 253, 255, 265.

Religione, e Vespasiano, 84; e Antonino Pio, 84; irrompere dei culti orientali, 126, 148 sgg. V. Cristianesimo, Mazdeismo, Mitraismo, Paganesimo.

Rezia, nella tetrarchia dioclezianea, 163; invasa dagli Alamanni (365), 231; abbandonata da Stilicone, 253.

Ricimero, un Franco generale di Teodosio I, 240.

Ricimero, nipote di Vallia, 267; magister militum, 267; combatte i Vandali, 267; depone Avito, 268; deposto, 268; patrizio, 267; fa uccidere Maioriano (461), 269; proclama imperatore Libio Severo (461), 269; depone e uccide Procopio Antemio (11 luglio 472), 270; muore (472), 270.

Riparienses, 198.

Rodi, 22; invasa dai Goti (268), 138.

[296]

Roma, battaglia tra Vitelliani e Flaviani (70); fortificata da Aureliano, 140; nella tetrarchia dioclezianea, 163; insurrezione contro Galerio, 179-80; proclama Massenzio, 180; nella guerra tra Massenzio e Costantino, 183; Chiesa di R., 210, 211, 237; insurrezioni contro gli Ariani, 214; rivalità con Costantinopoli, 250; R. assediata da Alarico (408-409), 255-56; invasa e saccheggiata da Alarico (410), 256.

Rossolani, 90.

Rufino, prefetto del pretorio e tutore di Arcadio, 249; trucidato (27 novembre 395), 251.

Rugi, 271.


Sabaudia, 263.

Sallustio, prefetto del pretorio di Giuliano, 219.

Salmantica (Salamanca), 66.

Salona, 177, 185, 271.

Salvio Giuliano, 63.

Sapore I, re persiano, invade la Mesopotamia (241), 133; conquista cinque province armene dell’alta valle del Tigri, 173.

Sapore II, re persiano, 204; e il mitraismo, 204; scaccia il re d’Armenia, 204; perseguita i Cristiani, 204; controversia con Costantino I, 204; guerre con Costanzo (338-350), 209, 212; (359-61), 218, 219; con Giuliano l’Apostata (363), 225 sgg.; impone la pace a Gioviano, 230.

Saraceni, 162, 242.

Sardegna, nella tetrarchia dioclezianea, 163; conquistata dai Vandali, 269.

Sardica (Sofia), 140, 210.

Sarmati, invadono la Mesia (69-70), insorgono sotto Traiano, 54-55; invadono l’Impero (167), 89 sgg.; l’Asia Minore e la Grecia, 137; migrazioni, 162; disfatti da Costantino (332), 202; coloni, 202; invadono la Pannonia (365), 231; disfatti da Mario Teodosio, 231; rivalicano il Danubio, 234.

Sassanidi, 128.

Sassoni, 135, 161, 162, 231.

Scisma d’Oriente, 210, 211.

Sciti, 89.

Scizia, 83, 264.

Scolares, 198.

Scoti, 231.

Scrinia, 196-97.

Seleucia, 87, 143.

Selinunte, 55.

Senato (Il), composizione, 31-32; e la elezione imperiale, 3; e Galba, 1; e Ottone, 6; e Vitellio, 10; nella guerra civile del 69-70 e Vespasiano, 17; riforma di Vespasiano, 23 sgg.; conseguenze, 25, 30; e Domiziano, 30, 34; e l’elezione di Nerva, 39-40; e Traiano, 41-42, 46-47; e Adriano 58-59, 62; e Antonino Pio, 84; e M. Aurelio, 91; sua importanza nell’Impero, 99-100; menomazione dei suoi poteri sotto Commodo, 102; restaurazione dei suoi privilegi con Pertinace, 103; e Settimio Severo, 108, 110, 111, 113-114, 117, 119-120; e Caracalla, 123; e Macrino, 125; restaurazione senatoria sotto Severo Alessandro, 127 [297] sgg.; dopo la morte di Alessandro, 132 sgg.; dopo la morte di Aureliano, 142; e Tacito, 142; e Probo, 143; dopo Diocleziano, 166, 197; il S. costantinopolitano e Giuliano l’Apostata, 222; il S. romano e Ricimero, 268.

Senecione, congiura contro Costantino, 185.

Sens (in Gallia), 216.

Servitù della gleba, 245-46.

Settimio Severo (L.), origini e carattere, 107; acclamato imperatore dalle legioni di Pannonia, 104; sconfigge Didio Giuliano, 108; e il Senato, 108, 110, 111; scioglie la Guardia del Pretorio, 108; fa suo collega Clodio Albino, 108-9; sconfigge Pescennio Nigro, 109; si fa adottare da M. Aurelio, 109; sconfigge Clodio Albino, 111; carattere del suo governo, 111 sgg., 118 sgg.; e l’ordine equestre, 113, 114; e l’esercito, 113, 114; guerra coi Parti (197-98), 114 sgg.; in Oriente, 115; editto sui Cristiani, 115; fa colleghi all’impero i figliuoli, 118; in Britannia (208), 118; guerreggia in Caledonia, 118; muore (4 febbraio 211), 118; sua Corte, 118-119.

Severo Alessandro (M. Aurelio), figliuolo di Mamea, 125; collega di Eliogabalo, 127; imperatore unico, 127; carattere del suo governo, 127 sgg.; guerra persiana, 129-30; guerra germanica, 130-31; ucciso (235), 131.

Severo (Fl. Valerio), Cesare (305), 177; Augusto (306), 179; costretto ad abdicare (307), 180; deposto, 180-81.

Sicilia, nella tetrarchia dioclezianea, 163; attaccata da Genserico, 263, 267.

Sigerico, re dei Visigoti, 259.

Siliqua (κέρατιον), 186.

Singara, 218.

Sinodi dionisiaci, 72.

Sinodo di Alessandria, 192.

Siria, nella seconda metà del II sec. d. C., 73-74; insorge (161), 87; invasa dai Persiani (231), 129; (254-60), 135; nella tetrarchia dioclezianea, 163; sedizione contro Diocleziano, 175; assegnata a Massimino Daio (311), 182; a Costanzo (335), 202.

Sirmio, 164, 208, 219.

Siscia (Sisech), battaglia, 240.

Soemia, nipote di Giulia Mesa, 125; madre di Eliogabalo, 125.

Sofene, 13.

Solidus, 186.

Spagna, si dichiara per Vitellio, 6; latinizzazione, 24; famiglie spagnole nell’ordine senatorio ed equestre, 24; riceve il ius Latii (74), 26; nella metà del II sec. d. C., 66-67; città principali, 66-67; invasa dai Mauri, 91; dai Franchi, 137; nella tetrarchia dioclezianea, 163; assegnata a Costantino II (335), 202; invasa da Alani, Svevi e Vandali, 257-58, 259.

Sparta, 137.

Stazio Prisco, generale romano in Oriente, 87.

Stilicone, origine, 249-50; magister militum e tutore di Onorio, 249; dissidio con Rufino, [298] 250; combatte Alarico in Grecia, 250, 251; conflitto con l’Impero d’Oriente, 251, 254; suo governo in Occidente, 252 sgg.; sconfigge Alarico (402-403), 253; e Radagaiso (405), 253; trattative con Alarico, 254; congiura contro St., 255; morte (23 agosto 408), 255.

Stymphalos (L.), 70.

Sulpiciano, suocero di Pertinace, 104.

Svetonio (Paulino), generale Ottoniano, padre dello storico, 8; batte a Locus Castorum le milizie vitelliane, 8; nell’ultimo Consiglio di guerra di Ottone, 8.

Svevi, 34, 254, 257.


Tacito (lo storico), 43.

Tacito (M. Claudio), imperatore eletto dal senato (275-76), 142; ucciso, 142.

Tarragona, 66.

Teatro di Marcello, 26.

Tempio di Nettuno (a Mantinea), 71; di Giunone (ad Argo), 71. V. Panhellenion; di Venere e di Roma (a Roma), 72, 75.

Teodorico, re dei Visigoti, muore nella battaglia dei Campi Catalauni (451), 265.

Teodorico, re dei Visigoti, fa proclamare imperatore Avito, 267, 268; guerreggiato da Maioriano, 268.

Teodosio I il Grande, figliuolo di Flavio Teodosio, 231; combatte in Pannonia, 231; in Oriente, 235; imperatore (19 gennaio 379), 235; politica religiosa, 236, 237; sconfigge l’usurpatore Massimo (388), 239-40; e S. Ambrogio, 240-241; sconfigge l’usurpatore Eugenio (394), 242; sua morte (17 gennaio 395), 243; divisione dell’impero, 249; giudizio sull’opera sua, 243.

Teodosio II, figliuolo di Arcadio e imperatore d’Oriente (408), 254; suo governo, 260-61; guerra persiana (422), 260; unifica l’Impero (423), 260; pace con Attila, 264; muore (450), 264.

Tertulliano, 99, 154.

Tessaglia, 264.

Tessalonica, 70, 97, 241, 250.

Tetrarchia (La), 163 sgg.; suo carattere politico e religioso, 164 sgg.

Tetrico, un usurpatore, 141.

Tezzio Giuliano, generale di Domiziano contro i Daci, 34.

Thervingi, 232.

Tiana, 141.

Tilsafata (in Mesopotamia), 230.

Tiranni (I Trenta), 137.

Tiridate, re d’Armenia, 162, 173.

Tiro, 208.

Titinio Capitone, segretario di Traiano, 47.

Tito figliuolo di Vespasiano, 13; collega di Vespasiano all’Impero (riceve la potestà tribunizia), 19; console (71), 19; sua importanza nel governo di Vespasiano, 20; comandante dei pretoriani, 21; eletto imperatore dal Senato, 28; suo governo (79-81), 28.

Tolosa, 65, 258.

Torrismondo, 265.

Tracia, 22; nella tetrarchia dioclezianea, 163; assegnata a Licinio, 190; a Dalmazio (335), 202, 208; invasa dai Goti (323), [299] 190; (365), 231; (377), 233, 234; da Alarico (395), 250; da Attila (447), 264.

Traiano (M. Ulpio), origini, 43; governatore in Germania e collega di Nerva (97), 40; rimane in Germania (97-99), 41; e il senato, 41-42; guerre daciche (101-2, 105-6), 44 sgg.; conquista e colonizza la Dacia (45-46), sua amministrazione civile, 46 sgg.; lavori pubblici, 47; e i provinciali, 47-48; e le Istituzioni alimentari, 48; e i Cristiani, 50 sgg.; guerre in Oriente (114-16), 52 sgg.; adotta Adriano, 58; sua morte (agosto 117), 55; carattere del suo governo, 41, 46 sgg.

Treviri (città), 164, 216.

Treviri, popoli della Gallia, insurrezione, 18.

Turcilingi, 265.


Ulpiano (giureconsulto), 119.

Unni, stirpe e origine, 232; si gettano sui Goti, 233; sconfiggono Valente ad Adrianopoli (9 agosto 378), 234; nelle guerre civili romane, 260, 262; disfacimento dell’Impero unno, 266. V. Attila.


Valente, fratello di Valentiniano I, assume il governo dell’Oriente, 230; accoglie i Visigoti al di qua del Danubio (377), 233; sua disfatta e sua morte (9 agosto 378), 234.

Valentiniano I, imperatore (28 marzo 364), 230; divide l’Impero con Valente, 230; leggi di tolleranza religiosa, 230; muore (novembre 375), 232.

Valentiniano II, figlio di Valentiniano I, imperatore, 233; e Massimo, 238; sua politica religiosa, 238-39; fugge in Oriente (387), 239; conversione al cattolicismo, 239; ristabilito sul trono (388), 240; ucciso (15 maggio 392), 242.

Valentiniano III, figliuolo di Galla Placidia e di Costanzio, 260; Augusto, 260, 261; accordi coi Vandali (435), 263; (442), 264; uccide Ezio (454), 266; sua morte (16 marzo 455), 266.

Valeriano (P. Licinio), censore, 134; governatore della Germania, 135; imperatore (253), 135; divide l’Impero, 135-136; perseguita i Cristiani, 135; guerra persiana, 136; sua prigionia (259?) e morte, 136.

Vallia, re dei Visigoti, riceve la Gallia Meridionale, 259.

Vallum Hadriani, in Britannia, 66; in Africa, 68.

Vandali, invadono l’Italia, 139; sconfitti da Aureliano (271), 139; invadono la Gallia, 254; la Spagna, 257-58, 259, 261; in Africa. V. Genserico.

Vandalusia, 258.

Vero (L. Elio), figliuolo di L. Ceionio Commodo Vero, 77; adottato da Antonino Pio, 77; imperatore con M. Aurelio, 85; contro i Parti, 87; invade la Media, 87; muore, 94.

Verona, battaglia (403), 253.

Vespasiano (T. Flavio), sua origine, 19; all’assedio di Gerusalemme, 11-12; eletto imperatore (69), 14; suo piano [300] contro Vitellio, 13-14; riconosciuto dal senato e lex de imperio, 17; si associa il figlio Tito, 19; riforme militari, 20-21; finanziarie, 21 sgg.; censore (73), 23; riforma del senato, 23 sgg.; opere militari, 26; colonie militari, 26; e la religione, 27; e la coltura, 27; muore (24 giugno 79), 27; carattere del suo governo, 26 sgg.

Vetranione, 212.

Via Scironia, 71.

Vicarii, 168.

Vicennalia (I), 175.

Victuali, 89.

Vienna (in Gallia), 65.

Villa Tiburtina, 72, 77.

Vindice. V. Giulio.

Vindobona (Vienna), 26, 95.

Virginio (Rufo), destituito da Gallia, 1; i soldati di Ottone gli offrono l’impero, 10.

Visigoti (Thervingi), 232; attaccati dagli Unni, riparano al di qua del Danubio (376), 233; insorgono (377), 233; sconfiggono Valente (9 agosto 378), 234; insorgono contro Arcadio, 250; acclamano re Alarico, 250; regno visigotico in Gallia, 259; guerreggiati da Ezio, 263; nell’esercito di Ezio, 265; alla battaglia dei Campi Catalauni (451), 265; fanno proclamare imperatore Avito, 267, 268; ricevono l’Alvernia, 271. V. Alarico, Ataulfo, Vallia, Teodorico, Torrismondo, Eurico.

Vitellio (A.), governatore della Germania inferiore, 4; acclamato imperatore, 4; guerra con Ottone, 6 sgg.; in Italia, 10; suo governo (69-70), 11 sgg.; e i cavalieri, 11; e la memoria di Nerone, 11; sua fine, 15-16.

Vologese III, invade l’Armenia e la Siria, 87.


Zaratustra, 129.

Zenobia, moglie di Odenato, 140; e madre di Atenodoro, 140; regina, 140; suoi disegni, 140-141; si impadronisce dell’Egitto, 141; disfatta da Aureliano (272), 141.

Zenone, imperatore d’Oriente, 271.

Zinta, 173.

[301]

INDICE DEI CAPITOLI.

La quarta guerra civile Pag. 1
I Flavi (69-96) 17
La repubblica di Traiano e gli ultimi splendori del Romanesimo 39
Adriano e gli ultimi splendori dell’Ellenismo (117-138) 57
I primi segni del decadimento (138-193) 83
I principii della monarchia assoluta — Settimio Severo (193-211) 107
Il caos del terzo secolo (211-284) 123
Diocleziano (284-305) 159
Costantino il Grande (306-337) 179
Le grandi lotte religiose (337-363) 207
L’invasione (363-393) 229
La catastrofe (395-476) 249
 
Indice alfabetico analitico 275

[303]

FINITO DI STAMPARE A FIRENZE
NELLA TIPOGRAFIA ENRICO ARIANI
IL XX FEBBRAIO MCMXXII

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.