The Project Gutenberg eBook of Fra i due mondi This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Fra i due mondi Author: Guglielmo Ferrero Release date: March 1, 2024 [eBook #73083] Language: Italian Original publication: Milano: Treves, 1913 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by Università degli Studi di Torino - Sistema Bibliotecario d'Ateneo, Scienza dell'antichità, filologico letterarie storico artistiche) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK FRA I DUE MONDI *** GUGLIELMO FERRERO FRA I DUE MONDI MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1913 Secondo migliaio. PROPRIETÀ LETTERARIA. _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._ Copyright by Fratelli Treves, 1913. Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest’opera che non porti il timbro della Società Italiana degli Autori. Milano — Tip. Fratelli Treves. PREFAZIONE. Emilio Mitre, il Barone di Rio Branco, Teodoro Roosevelt: questi tre nomi ho il dovere di scrivere sulla prima pagina del volume. E su tre ricordi indelebili il memore pensiero indugia con una dolcezza non scevra di melanconia, nel momento in cui anche questo libro sta per affrontare il destino. Il primo, Parigi e la vigilia del giorno in cui dovevo terminare al Collège de France il Corso della Fondazione Michonnis — la sera del 29 novembre 1906: quando Emilio Mitre d’improvviso venne a trovarmi, e con amabile semplicità m’invitò a fare il lungo viaggio dell’Argentina, a nome suo e della «Nación», il grande giornale di Buenos-Aires. Poi la sera del 24 giugno 1907: quando il Barone di Rio Branco, ministro degli Esteri della Confederazione del Brasile, spedì incontro alla mia signora ed a me, nella meravigliosa baia di Rio de Janeiro, ove il «Cordova» faceva scalo, una eletta rappresentanza della Accademia brasiliana, guidata da Giuseppe Graça Aranha, a farci gli onori della città e ad invitarci a visitare il Brasile al ritorno. Infine il giorno del febbraio 1908 in cui — terza sorpresa del nuovo mondo, non meno gradita delle prime due — mi giunse, trasmesso con nobili parole dal barone Mayor des Planches, l’invito di Teodoro Roosevelt. Molto dovrei a queste tre persone — a Emilio Mitre sopra tutti, perchè fu il primo — anche se essi mi avessero procurata soltanto la facilità di due lunghi viaggi, confortati da tutte le cortesie di una magnifica ospitalità. Ma essi mi hanno reso un ben maggiore servigio. Mi hanno strappato con gentile violenza a quell’antico mondo, in cui mi ero chiuso da dieci anni; e mi hanno buttato all’improvviso in mezzo all’immane tumulto delle due Americhe. Se la vita è la scuola che non chiude mai le sue porte e non sospende mai i suoi corsi, per chi sente l’ambizione di imparare senza tregua e di sempre far meglio, questa gran lezione capitò per me al buon momento, e fu forse la più proficua di tutte. Non mi raccapezzai da prima. Poi, a poco a poco, volgendomi indietro, dal fondo della Pampa argentina, dal montuoso altipiano di San Paolo, dalle immani città industriali dell’America del Nord, a riguardare la Roma di Cesare e di Augusto, misurai l’immenso cammino percorso dall’uomo in mezzo a questa gran valle di venti secoli. Quanto è vasta oggi la terra a paragone di quel piccolo bacino mediterraneo, intorno alle cui sponde per tanto tempo la civiltà si raccolse! Come deboli e pavidi appariscono gli uomini, anche nelle più gloriose età del passato, a petto della formidabile potenza di cui noi disponiamo! Eppure.... Eppure.... Per quale ragione, al sommo della potenza, l’uomo non è contento; non trova pace; spesso quasi fa mostra di voler sprezzare le prodigiose ricchezze, di cui è pur così avido e fiero; ed ogni tanto è preso dalla smania di ammirare e invidiare quelle antiche civiltà, che pur quasi più nemmeno capisce? Perchè ogni oggetto, sul quale si sia posata la polvere di un secolo o due, è venerato ormai come una reliquia? Perchè mentre gli Europei, affamati di oro, voltano le spalle al vecchio mondo maledicendolo, gli Americani, sazi d’oro, volgono verso quello la prua, come a cercare qualche cosa, che manca in mezzo alle loro immense ricchezze? Che è questo strano e incessante via vai dell’Oceano; questo inquieto cercarsi dei due continenti, nessun dei quali sembra più poter vivere da solo nè trasfondersi interamente nell’altro? Quante volte, viaggiando le due Americhe, il mio pensiero ritornò a quell’antica civiltà, che era stata tanti anni l’oggetto delle mie ricerche e dei miei studi! Sinchè alla fine, viaggiando con la mente tra un mondo e l’altro, mi parve di capire: di capire quale grandioso perturbamento l’America ha arrecato nella vecchia storia del mondo, comparendo ad un tratto nell’Oceano innanzi agli occhi dell’inquieto genovese, che l’andava cercando. Turbamento piccolo da principio e che crebbe poi, a poco a poco, nei secoli, con le scoperte delle scienze, con le invenzioni, con il trionfo della libertà e con le accumulate ricchezze: fervida lotta tra la quantità e la qualità, tra la forza che spinge gli uomini a rovesciare tutti i limiti per dilagare sul mondo e conquistarne i tesori, e il natural bisogno dell’uomo di appoggiarsi a dei limiti per riconoscere sicuramente il Bene, la Verità e la Bellezza: vertiginoso accumular di tesori, nel tempo stesso in cui si confondono e annebbiano nella mente le credenze, i gusti, i sentimenti, che gli antichi avevano cercato, con diuturna opera, di chiarire, affinare e precisare: rapido grandeggiare di un mondo senza limiti e quindi senza appoggi, nel quale l’uomo procede come un gigante che vacilla ad ogni passo! E così finalmente venni nell’idea di raffigurare questo conflitto dei due mondi — non dell’America e dell’Europa soltanto, ma delle antiche civiltà limitate ancora vive in tante tradizioni con le aspirazioni le ambizioni e passioni di questa civiltà nuova, che tutti i limiti vuol rovesciare — rinnovando una antica forma letteraria. Che cosa è questo libro? Un romanzo? Un racconto di viaggio? Un dramma? Un trattato di filosofia o di sociologia? No: è un dialogo. Cara agli antichi, strumento prediletto di Platone e di Galileo, questa forma letteraria, ha detto Ernesto Renan, è fatta apposta per trattare le questioni che la mente umana, ripiglia sempre a discutere, perchè non può scioglierle mai definitivamente. Ma anche il dialogo, insieme con tante altre cose belle, è oggi come una pianta assiderata dal crudo inverno. Fu temerario il pensare che potesse ridar qualche fiore? Mi conforterà in tal caso il pensiero di aver potuto almeno dipingere in questo quadro antico la figura di uno degli uomini che ho più amato e ammirato. Tra i personaggi fantastici di questo dialogo, Emilio Rosetti è vero. Veri ne sono il nome e il cognome: vera la storia che di lui è raccontata: veri storicamente una parte dei discorsi, idealmente tutti. Uomo raro per ingegno, per dottrina, per disinteressata brama di sapere e nobiltà di sensi, egli avrebbe potuto oscurare molti i cui nomi risplendono di maggior lustro, se non avesse incessantemente praticata quella gran regola del senno antico, che ogni uomo deve desiderare e tentare meno di quanto può fare ed avere. Onde nessun altri avrebbe potuto intendere ed esporre meglio di lui quella filosofia dei limiti, a cui la lunga disputa mette capo. E così si chiude nella mia vita e nei miei studi la lunga parentesi aperta da Emilio Mitre, con il suo invito, la sera del 29 novembre 1906. Pur troppo la gioia di aver terminata una lunga ed aspra fatica mi è ora amareggiata dal pensiero che nè ad Emilio Mitre nè al Barone di Rio Branco io potrò mandare — piccolo omaggio della mia, gratitudine — questo volume. Grazie al cielo però Teodoro Roosevelt è vivo e vegeto non solo, ma ammirabile esempio di quella alacrità infaticabile, di quella fiducia in sè e nelle cose che sono tra le più belle virtù dell’America. A lui almeno giunga questo libro e gli dica la imperitura riconoscenza che sento per lui; per le Due Americhe generose e ospitali; per le molte cose che vi ho imparate; per gli aiuti e le cortesie senza numero che ne ho ricevuti. Marzo 1913. GUGLIELMO FERRERO. PARTE PRIMA. I. Ad uno ad uno, i vaporetti che da due ore ronzavano intorno al «Cordova» si allontanarono; e il «Cordova» restò per qualche tempo solo, fermo sulle àncore, in mezzo alla baia di Rio de Janeiro. Rivolto il viso verso la poppa, sul ponte di comando, dove il capitano della nave, il cavaliere Federico Mombello, aveva invitati la Gina e me a dar l’estremo addio alla città, io guardavo ancora una volta, aspettando che la nave salpasse, la azzurra e luminosa catena dei monti Tinguà, della Stella, degli Organi, che chiude a settentrione la baia; la erta corona di punte, di cuspidi, di obelischi, di denti, di creste che la sormontano; il fulgido e turgido festone di grandi nuvole bianche che in quel meraviglioso pomeriggio di primavera era appeso ai suoi fianchi: guardavo e pensavo che tra pochi minuti si chiuderebbe per sempre, nel volume della mia vita, uno di quegli episodi che non si ripetono.... Addio, addio per sempre, America, due volte visitata nei due emisferi: immenso mondo in cui ero entrato con così ardente curiosità; che avevo corso con tanta foga; dove avevo viste e intraviste tante cose ignote, sfiorita la primizia di un trionfo non ancora goduto da altri, asceso un gradino sulla scala della fortuna! Nell’ora della partenza quelle cento montagne, quelle mille vette parevano spogliarsi della materia e del peso, evaporare in fulgide nuvole azzurre al contatto delle rilucenti nuvole bianche; e le nuvole bianche inghirlandavano le azzurre; e le azzurre reggevano disteso al sole il luminoso festone delle bianche; e le bianche e le azzurre si confondevano in un immenso splendore che empiva il cielo; come se dopo tante magnificenze della natura e degli uomini, l’America volesse rifulgere ancora una volta ai miei occhi — ultima magnificenza — in quella celeste muraglia di vapore e di luce. Onde me pungeva, in quel momento, non so se una tristezza soave o una melanconica gioia, soffusa di un vago sgomento. Sentivo che stava per trapassare sul mio capo un istante irrevocabile; che avrei potuto rifar quante volte volessi il viaggio d’America, ma non rifare mai più quel primo viaggio che allora finiva. Una campana, dei segnali squillarono. Lenta lenta, a sinistra, sul fianco destro della nave, la costa su cui sorge Rio si mosse. Erano le cinque in punto. Addio, addio per sempre, ancora una volta addio, o prima o unica America, che non potrei rivedere mai più! E mi voltai verso prua. Una immensa conca verde, quasi tutta ancora soleggiata, si apriva dinanzi. Attraversavamo l’ultima parte della baia, il suo vestibolo verso l’Oceano, un lago azzurro, chiuso a levante e a ponente entro due montagne cupamente verdi e ricoperte di un fitto vello di folte foreste. Sospinti dall’irrevocabile precipitare dell’ultimo istante, spaziammo con la vista nella gran conca, vaghi di ricapitolarne ancora una volta le bellezze molteplici: a levante, a piè della verde parete dei monti, le estreme case di Niteroy nascosta in un seno e la divina spiaggia di Icarahy, sulla quale avevamo passato un così delizioso pomeriggio con Graça Aranha sotto il nembo dei profumi che il vento scuoteva su noi dalle vicine foreste; gli isolini e gli isolotti boscosi che si vedevano far capolino e rimpiattarsi da ogni parte, uno dietro l’altro, quasi immensi cespugli natanti o cime di una gigantesca foresta sommersa; la verde parete montuosa di ponente e il Corcovado nel mezzo, che appuntava al sole la cuspide aguzza, ripido e scosceso come un precipizio: Rio infine, ai suoi piedi! Rio, la città, inghirlandata di palme e di avanzi della foresta millenaria; la città che tuffa i piedi nel mare e posa il capo sulla montagna, tra le selve; l’ultima delle grandi metropoli americane da me visitate, sulle sponde dell’Atlantico, nei due emisferi. Dovunque, in basso come in alto, dalla spiaggia a sommo della collina, a destra e a sinistra, singole case e branchi di case spuntavano, scomparivano, rifacevano capolino, si appiattavano di nuovo, tra cupi boschetti di grandi alberi o sotto altissime palme, i cui ciuffi sormontavano da ogni parte. Ripensai in quel momento a New-York; alla folle furia della città diabolica che, esasperata dalla ferrea cintura dell’indilatabile spazio, accatasta frenetica le moli per scalare le nubi. Ripensai alla opulenta Buenos-Aires, comoda e come discinta nell’immensa pianura, e che in quella si dilata, radente al suolo, con le contigue innumeri case romane di un piano solo, con le strade diritte e interminabili, simile ad una Pompei viva e infinita. Quanto diversa dall’una e dall’altra la metropoli che vedevo dal «Cordova» sbandarsi in riva al mare o sulla collina! La città che si adagia nella foresta della baia, antica come un’avola e bella come una giovane amante; e dei suoi pezzi più magnifici fa ventaglio contro il sole troppo ardente; e le fondamenta dei propri edifici intreccia con le sue radici secolari; e con lei respira i venti della montagna e dell’Oceano che quella fecondano; e la foresta si lascia vivere e crescere sul giovane corpo, facendosi da lei avviluppare quasi come da un’edera gigantesca: unica forse tra le città della terra che non fugga, inorridita come da una tentazione d’incesto, le carezze della madre natura! Il «Cordova» intanto accelerava l’elica verso la porta della baia, che sta di fronte alle eccelse montagne del fondo; queste, il fulgore del giorno incominciando a velarsi, ripigliavano a poco a poco corpo e peso, incupendo; apparve a un tratto a sinistra, bianco in riva al mare azzurro e a piè della verde collina, il bel palazzo di Monroe, sotto la cui cupola avevo discorso di Roma antica; si avvicinò; lo vedemmo di fronte; si allontanò a destra: rivedemmo per l’ultima volta la bella passeggiata del Botafogo e il grande squarcio pietroso, grigio nella verde montagna, che la sovrasta. Poi montagne di orrenda stranezza si accostarono: il Pan di Zucchero, il monolito posto a guardia della baia, che ha verde il corpo e nero e calvo il capo: al di là del Pan di Zucchero il dorso di un gigantesco dromedario, le cime gibbose del Gran Gabbiano. Già per metà sotto l’ombra, Rio scompariva come in uno scorcio.... Addio, addio per sempre, unica città della terra nelle cui vie si sente e si gode la foresta: le sue smanie d’amore effuse nei soavissimi olezzi che invadono al mattino le case; le ombre meditabonde che essa offre invano ad ogni ora del giorno al frettoloso passante; la torbida arsura e la collera minacciosa degli imminenti cicloni; la sua saziata freschezza e la giovinezza rinata, dopo i torrenziali diluvi: le lunghe estasi immote dei silenzi silvani, sospesi nel meriggio sulle vie deserte: i sommessi e arcani sussurri, che le cime degli alberi mormorano tra di loro al tramonto all’altezza dei tetti: il tumulto dei venti, che investono e scuotono e fanno fremere con lo stesso soffio tronchi e rami, vetri e finestre! E di nuovo, in quel momento, e per l’ultima volta, mi parve di sentire o presentire, che lì in quel frammento della meravigliosa America apparsa ai primi esploratori, in quell’avanzo quasi intatto della più antica natura non ancora rifatta dall’uomo, qualcuno — non so chi — doveva non saprei, se godere o imaginare o musicare o descrivere in verso e in prosa, un inebriante idillio della natura e dell’uomo, dei sensi e dell’immaginazione, dell’amore e del pensiero; idea, o aspirazione, o fantasia germinante a fatica, che da parecchie settimane irritava il mio spirito e non riusciva a sbocciare! Ma il «Cordova» era ormai in mezzo alla porta della baia, a piè dell’orrida e smisurata muraglia del Pan di Zucchero, piccolo come un insetto. Mi volsi a prua: già si vedeva l’Oceano, pronto a caricarci sulle spalle possenti per portarci al nostro destino: ma tra l’Oceano e noi si interponevano in orrenda mischianza nuovi mostri: le isole, gli isolotti, gli scogli, accovacciati come bestie, a guardia della porta. Passammo tra gli uni e gli altri; mi voltai verso poppa, per veder l’America sino all’ultimo istante: ed ecco a poco a poco — a mano a mano che la nave si allontanava — emergere dalle acque delle groppe, delle criniere, dei musi, dei corni, dei corpi dì animali, abbozzi informi di una confusa creazione, appena abborracciata nella rude materia dei monti, delle isole e delle scogliere. Il Pan di Zucchero si era voltato, ci guardava ora con la faccia deforme del «Gran Gigante di Pietra» intravisto dai primi navigatori; alla sua destra e alla sua sinistra si distendeva una parete di roccie, nera nel nimbo d’oro entro cui il sole l’avvolgea, scoscesa, precipitosa, irta di punte aguzze, scabra di orride sporgenze, spaccata ogni tanto da capo a fondo da enormi anfratti in cui si vedeva spumeggiare l’Oceano: una muraglia di granito formicolante di animali antidiluviani, di bestie fantastiche, di mostri, ora accoppiati insieme a due, a tre, a quattro, ora separati dal mare. Ma la nave affrettava sempre più il passo e il sole declinava all’occaso; a poco a poco le roccie, le isole, i mostri si confondevano e appiattivano in una muraglia nera, nella quale non si discerneva più che a fatica la porta della baia.... L’istante irrevocabile tra tutti stava per trapassare! Mi volsi ancora una volta, per guardare a prua. L’orizzonte era soffuso di un rosso chiaror vespertino; e verso quel chiarore traeva la nave, con tutta la forza delle eliche, ma senza fretta, con passo eguale e cadenzato, alzando ogni tanto la prua, come un cavallo che scuota il capo al fastidio del morso. La nave ancora una volta aveva ritrovata la via nel vasto piano delle acque e risolutamente drizzata la prua verso il lontano destino; l’istante irrevocabile tra tutti — l’ultimissimo — era passato; di tante cose vedute, godute, vissute, dell’America insomma, non ci restava più che — pallido fantasma — il ricordo! II. — È la più bella città del mondo. Il modello delle città future. L’urbs del ventesimo secolo.... Così diceva un’ora dopo, a pranzo, a mezzo di una animata conversazione, l’avvocato Arnaldo Alverighi: e non parlando, come il lettore potrebbe forse supporre, di Parigi o di Roma, ma di New-York. La sala da pranzo del «Cordova» aveva tre ordini di mense: una tavola lunga nel mezzo, a capo della quale sedeva il capitano; cinque tavole piccole a destra e cinque a sinistra, ciascuna capace di cinque persone. Alla tavola di mezzo, dove il comandante mi aveva assegnato il secondo posto alla sua sinistra — il primo era riserbato alla Gina, che era rimasta sul ponte — io mi ero, quella sera, ritrovato con parecchi amici del Brasile e dell’Argentina: a destra del capitano, al primo posto, l’ammiraglio José Maria Guimaraês, un vecchio asciutto e arzillo, sui sessantacinque anni, che il governo brasiliano mandava in Europa a comprar navi e cannoni; al terzo posto — il secondo era vuoto — un diplomatico e letterato pur esso brasiliano, il quale però portava un bel nome fiorentino di conio antico, molto diffuso nel Brasile, Cavalcanti: accanto a lui l’ingegnere Emilio Rosetti, e infine, dalla mia stessa parte, al quarto posto (il terzo era riservato al nostro figlio che allora già era a letto) l’avvocato Arnaldo Alverighi. Il Rosetti, che tornava da Buenos-Aires, era un mio vecchio e carissimo amico di Milano: l’Alverighi, l’avevo conosciuto a Rosario: il Guimaraês e il Cavalcanti a Rio. Avevo quindi presentato, dopo i primi convenevoli, il Rosetti e l’Alverighi, che venivano da Buenos-Aires, ai due brasiliani che si erano imbarcati con me, poche ore prima, a Rio: ovvia cortesia, ma il cui effetto fu che ben presto tutti e quattro — anzi tutti e cinque, il capitano compreso — mi furono addosso per farmi ricominciare a ritroso con i discorsi il lungo viaggio allora allora finito. Me lo aspettavo, del resto! Avevamo dunque ragionato un po’ del Brasile, dell’Uruguay, dell’Argentina; poi eravamo trapassati nell’altro emisfero; e tutti allora a interrogarmi ancora più curiosi. Avevo io vedute quelle favolose ricchezze del Settentrione? Quelle città smisurate? Quella indescrivibile vertigine di opere? Quei Titani, quei Semidei, quei Demoni del commercio, della banca, dell’industria? Sinchè eravamo venuti con il discorso alla metropoli americana che l’Alverighi, il Cavalcanti, l’ammiraglio e il Rosetti avevano tutti visitata. Ma qui presto una fierissima disputa si era accesa tra l’Alverighi che l’ammirava o gli altri tre che ne ridevano; avevamo discusso per un po’ in tumulto se New-York era una città bella o brutta; quando l’Alverighi, alla fine, aveva a un tratto, perentoriamente, quasi a sfida, proclamata New-York bellissima tra le città moderne! — Ci siamo! — pensai. — Chi sa quale indiavolata baruffa mi scatena ora, quel benedetto avvocato! Io solo quindi, che lo conoscevo, non mossi ciglio e non dubitai che dicesse sul serio: degli altri invece, il Rosetti si volse a me sorridendo: l’ammiraglio squadrò lo strano interlocutore come per leggergli sulla faccia se intendeva scherzare: il capitano, piegandosi verso di me, mormorò a mezza voce: «Non le pare un po’ troppo?»: ma incerti tutti se l’avvocato dicesse o no sul serio, nessuno rispose. L’Alverighi però non li lasciò a lungo nel dubbio. — Un europeo — egli disse, — non può capire New-York. New-York è l’intestino dell’America che digerisce le immondizie di tutta la terra, i rifiuti dell’universo: e di quelli fa un sangue purissimo, che nutre un continente.... Ed entrato in questo intestino per la bocca della metafora, chi sa per qual via ne sarebbe uscito, se le braccia nude, le spalle ravvolte in un velo celeste, i cui lembi le svolazzavano ai fianchi, sfolgorante in una sfarzosa veste azzurra di gala, come venisse a un pranzo di cerimonia, non fosse comparsa a questo punto sulla porta una signora. Il capo dei camerieri accorse a lei e le fu guida fino al posto che tra l’ammiraglio e il Cavalcanti era vuoto: l’ammiraglio e il Cavalcanti si levarono in piedi, per ossequiarla, e la fecero sedere: ma la sala, una modesta sala dove poche signore pranzavano indossando le vesti della giornata, e che non si aspettava nè quel lusso nè quelle braccia nude, sbalordita smise tutta di pranzare e di discorrere, per rimirarla. Era giovane ancora — trentacinque anni le avrei dati, così a occhio — e in un piccolo viso ovale aveva degli occhi dorati e ridenti, una bella fronte candida, delle sopraciglia nere e sottili, un piccolo naso profilato e una piccola bocca rossa e fresca. Intanto essa, in cospetto della sala ammutolita e senza sentire il silenzio in cui l’aveva piombata, buttava a tergo il velo mostrando dopo le braccia le spalle nude e un magnifico vezzo di perle: poi il busto e la testa erette, appoggiata ai bracciuoli della poltrona, aspettando di esser servita, fece un cenno del capo e un sorrisetto a ognuno di noi a mano a mano che l’ammiraglio la presentava, mormorando un nome che non intesi: infine, questa cerimonia compiuta, prese a sorbire il brodo servitole dal cameriere, con la fretta di chi giunge affamato a mezzo del pranzo. Il pranzo era stato sospeso per un istante. Ma ecco i camerieri accorsero con la terza portata: coltelli e forchette a poco a poco tinnirono di nuovo sui piatti; occhi e discorsi, per un istante sviati, ripigliarono la via dei loro oggetti consueti. Al nostro tavolo non l’Alverighi, messo un po’ in soggezione dalla bella sconosciuta, ma l’ammiraglio, che certamente la conosceva, ricominciò la conversazione. Parlando per la prima volta in francese (avevamo fin allora adoperato l’italiano, che i due brasiliani parlavano benissimo) con un certo fare malizioso e un accorto sorriso: — Sa di che cosa stavamo ragionando, signora? — le disse. — Indovini! Di New-York. E il signore, — accennò l’Alverighi, ciò dicendo, — ci dimostrava che New-York è la più bella città del mondo! Sicuro: del mondo! — New-York? — esclamò, riavuta dal primo stupore, la signora, — New-York? E scoppiò in una risata squillante. Sbirciai l’Alverighi con la coda dell’occhio: si rannuvolava! Ma l’ammiraglio continuò a far l’ingenuo. — Dunque, lei, che ci vive da tanti anni, non è di questo parere? — Ma ammiraglio, — protestò allora la signora tirandosi il velo sul collo, — lei sa che io ho orrore di tutte le cose che mancano d’armonia e di proporzione. Ma l’Alverighi afferrò al volo queste parole e: — Sicuro, — ripose. — A New-York voi trovate la Babele dell’architettura. L’Asia e l’Europa, il paganesimo e il cristianesimo, trenta secoli scomposti nei loro elementi e ricomposti a capriccio da un genio bislacco, ironico, folle, sublime. E proprio per questa ragione io adoro New-York. L’armonia e la proporzione sono l’estetica delle civiltà decrepite. La vita è scabra, ruvida, ineguale, violenta, come New-York. L’europeo non ci si raccapezza, in quella nebulosa incandescente; è naturale, perchè arriva da un pianeta spento; e si domanda, sgomento: ma dove sono? In Grecia? a Parigi? a Norimberga, a Bagdad, al principio del ventesimo secolo, al tempo dei Normanni, sotto lo scettro dei Faraoni? In una città vera o in una città astrale, edificata nel pianeta Marte o in un altro pianeta, da esseri conformati diversamente, più intelligenti e possenti? Forse troppo occupata in quel momento a sorvegliare la scollatura dell’abito, la signora non rispose. Sottentrò il Cavalcanti. Che l’avvocato dicesse sul serio nessuno poteva più dubitare: ma non era questa ragione bastevole perchè nessuno dei suoi ascoltatori non sentisse la voglia di volgere la sua tesi in ischerzo. Mi parve infatti che il Cavalcanti volesse stuzzicare un po’ l’estro paradossale del suo interlocutore con insidiose domande. — Dunque — egli disse — l’armonia e la proporzione sono l’estetica dei popoli decrepiti. Che cosa pensa lei, allora, della tragedia greca? — Buona per il teatro dei burattini — rispose pronto, senza esitare un attimo, l’Alverighi. — Ah! — esclamò il Cavalcanti come chi è percosso in pieno petto: nè disse altro. Poi, dopo un istante, soggiunse: — E la scultura greca? — E la scultura greca? — gridò l’Alverighi riscaldandosi all’improvviso. — Quello sì che è un bel caso, per Dio! Basta visitare un museo e non essere un professore di archeologia, per capire che la scultura greca è un’arte sensuale, fiorita in un tempo in cui una bella donna o un bell’uomo erano rari come le mosche bianche. — Ma io credevo — obbiettò la signora — che i Greci non avessero sotto occhio che corpi bellissimi... Che così educarono il gusto! — Se ci fosse stata abbondanza di belle donne in carne ed ossa, — replicò l’avvocato — i Greci non ne avrebbero fabbricate tante di marmo. No: quella è un’arte sensuale. E non so se per riguardo alla signora o per poter esprimere il suo pensiero con minore fatica, continuò in italiano: — Ma nossignori: a un certo momento, dei professori, degli archeologi, dei filosofi tedeschi si sentono presi anch’essi da una matta voglia di ammirar quelle appetitose nudità: ma come si fa, essendo regi impiegati di una devotissima maestà luterana? Ed ecco allora scoprono che quelle belle gambe, quelle belle anche e tutta quella altra grazia di Dio che sapete, sono l’incarnazione dell’idea. Ed ora anche nei paesi, dove pure una volta la gente sapeva distinguere anche al buio una donna nuda dall’assoluto, tutti vanno innanzi a quelle statue per adergere con l’anima all’ideale, quando invece.... E all’improvviso ammutolì, scrollando le spalle. Tutti sorrisero, anche la signora, quando l’ammiraglio le ebbe riassunto sottovoce, all’orecchio, in francese, questo bizzarro discorso. Ma era facile capire che in tutti la meraviglia generata dai primi discorsi dell’avvocato cresceva, e con la meraviglia una specie di incertezza irritata: se conveniva discuter seriamente con quell’originale, prendersene gioco o voltargli le spalle arrabbiati. Io solo, che lo conoscevo, non ero nè stupito nè offeso; e quindi pur tendendo l’orecchio ai suoi discorsi, aguzzavo il cervello a sciogliere un quesito diverso: chi potesse essere la ignota signora che di rimpetto a me continuava ogni tanto a scoprire o a velare le belle spalle, ad ascoltare i nostri discorsi, pur saziando un vigoroso appetito con perfetta eleganza di movenze e volgendo intorno gli occhi di continuo ridenti. Vestiva, certo, riccamente: viaggiava sola, così almeno pareva: ma no, una attrice non era, di sicuro. Pareva conoscere da un pezzo l’ammiraglio, che la trattava con un fare quasi paterno ed esente da sospetti, perchè aperto, schietto e non disdicevole alla età di ambedue; era dunque probabile si fosse imbarcata a Rio. Ma aveva abitato a lungo a New-York, come aveva detto l’ammiraglio. Inoltre all’accento ed ai modi l’avrei giudicata francese. Le perle infine potevano essere argomento a supporre che fosse ricca molto; e la veste di gala, che praticasse di solito compagnie più eleganti della nostra. Chi era essa dunque? Ma invano ruminavo queste domande, mentre il Cavalcanti ricominciava a stuzzicar l’avvocato. — Per passare allora ai tempi moderni, che pensa di Parigi _l’estetica_ dei popoli non decrepiti? Aspettavamo tutti una nuova eresia. Invece.... Intuì l’Alverighi che il Cavalcanti lo punzecchiava maliziosamente agli estremi paradossi? O si sgomentò egli stesso dell’impegno di sostenere il già detto, dicendo di più? Certo è che lì, a quella domanda, si fermò di botto: e con una mossa improvvisa sfuggì traversalmente. — Per carità! — disse mutando a un tratto faccia e tono, tra scherzoso e sarcastico. — Vogliamo dunque fare una discussione di estetica? — E perchè no? — domandò il Cavalcanti. — Ma io non sono un professore europeo.... — rispose l’Alverighi, assumendo un’aria compunta e desolata. — Sono un povero proprietario argentino: che tante cose ha da fare! Due _estancias_ nella provincia di Buenos-Aires e tre _chacras_ nella provincia di Santa Fé da completare. Centomila ettari nella provincia di Mendoza da irrigare. Un territorio nel Paraguay, grande come una provincia italiana, di cui debbo far qualche cosa, alla disperata rivenderlo per il doppio di quel che l’ho pagato.... Nonchè, purtroppo, tre milioni di debiti da pagare. Sissignori: tre milioni, non uno scudo di meno. Niente paura, però: a un americano, tre milioni di debiti mettono l’allegria in corpo. È bello per un uomo poter dire: io, io solo ho fatti in tanti anni tre milioni di debiti, e li ho pagati: li ho fatti e pagati accrescendo la ricchezza del mondo.... Questa, signori miei, è la vera estetica dei tempi in cui viviamo! — Questa è l’arte di far quattrini — obiettò asciutto asciutto il Cavalcanti. — Non è la scienza del bello.... A questo punto l’Alverighi tacque un istante, guardando l’interlocutore e sorridendo. Poi lentamente, sempre sorridendo e guardandolo, con un modo ambiguo tra il senno e lo scherzo: — Lei ci crede, dunque, alla scienza del bello e del brutto? — Ma certamente. La filosofia tedesca.... — E anche io, — interruppe l’altro, come chi si decide e precipita. — Ci credo anch’io: ma ad una estetica che ho inventata io, brevettata, infallibile, che si riassume in una regola sola: bello è quel che mi piace, brutto è quello che mi dispiace. Sissignori: New-York mi piace; perciò affermo che è la più bella città del mondo; e vi sfido tutti a provarmi il contrario. In nome di quale autorità? Da che cattedra o pulpito? In forza di qual principio? Ogni uomo ha conquistato oggi perfin la libertà di vilipendere i re e di rifare i conti a Domeneddio: vorrei vedere che qualcuno mi contendesse, a me, la libertà di proclamar bello quel che mi piace, senza il permesso della Facoltà! _Allons donc!_ Anche io, in quel momento, come tutti gli altri, tenevo gli occhi sull’Alverighi: su quel piccolo viso taurino dalla fronte scendente a piombo sotto i neri capelli ritti e fitti, dagli occhi vivi e grossi a fior della fronte, dalle guancie rosse sulla fascia nerissima della barbetta a due punte, ben ravviata, che risaliva per quelle a ricongiungersi con i capelli. E su quel viso rubizzo, aguzzo, acceso, deciso, beffardo, che mi ricordava i personaggi delle pitture etrusche, io leggevo che egli diceva sul serio, mosso da una convinzione profonda anche se strana. Ma leggevo pure in faccia ai miei compagni, che essi si andavano confermando che l’Alverighi o vaneggiava o si burlava di loro, sebbene proprio sicuro sicuro non ne fosse nessuno, nemmeno il Cavalcanti. Tanto è vero che, invece di rispondere a tono, il Cavalcanti ribattè di fianco e non senza una certa titubanza: — Certo.... se si ammette che il gusto dell’armonia e della proporzione sono un segno di vecchiaia.... Allora è difficile dimostrare che New-York è brutta. Ma questa affermazione sua mi pare alquanto ardita.... Sarò forse decrepito anch’io.... Io credo che non solamente lei, signora, ma che tutti gli uomini sono naturalmente attratti ad ammirare quel che è armonico, leggero, proporzionato, ad odiare quel che è pesante, asimmetrico, scomposto.... — Lo crede lei? Davvero? Davvero? — esclamò con aria di sfida, l’Alverighi. — Ma certo. In molti questo istinto può essere offuscato o pervertito: ma c’è. In tutti c’è.... L’Alverighi stava per rispondere; quando la signora che, intenta a rimettere in centro con la mano sinistra, gli anelli della destra, non aveva forse ascoltato le ultime frasi, li interruppe ambedue. — Io desidererei sapere di Parigi, quello che lei ne pensa. Il signor Cavalcanti glielo aveva chiesto. — È una città archeologica, il cimitero della decrepita civiltà dell’Europa. — Parigi? — esclamò la signora, — Parigi? Perchè a Parigi non hanno ancora pensato a collocare i caffè nelle moschee arabe e le sale da pranzo nelle cattedrali gotiche? — Hanno torto, a Parigi. — Se Parigi è un cimitero, la sua New-York è una bestemmia. Solo dei barbari potevano fare un così orrendo scempio delle nostre architetture religiose. — Ma signora, — ribattè l’Alverighi, — si è lei mai sentita offesa, pranzando in Europa sotto il tetto di una qualche posticcia pagoda cinese: per esempio al «Pavillon chinois» del Bois de Boulogne? Eppure anche questa è una profanazione. Lei mi dirà che l’architettura cinese ci è straniera: noi non sentiamo che la pagoda è un tempio. Ebbene: per la stessa ragione il vero americano può secolarizzare certe architetture religiose dell’Europa. — Ma la Cina non ha scoperta, popolata e incivilita l’Europa come l’Europa l’America, — disse una voce nuova ed aspra: il dottor Montanari, il Commissario governativo per l’emigrazione, che era venuto a sedersi accanto al Rosetti a mezzo il pranzo. L’Alverighi si voltò verso di lui, e pronto e sicuro come al solito: — Ricordi storici! — disse. — Moneta fuori corso, oggi! — Per voi, — ribattè l’altro duro, — non per noi. Agli Americani fa comodo di buttare in mare il fardello di gratitudine che devono all’Europa. La discussione si riscaldava: si sentiva minacciar vicino il diverbio, come il temporale d’estate. Ma il pranzo era finito, e il capitano ne approfittò per levarsi. Anche la signora e l’ammiraglio, scambiata un’occhiata, si levarono. La discussione era dunque troncata. Uno dopo l’altro ci levammo tutti ed uscimmo. III. Andai a vedere i miei, feci un giro per il ponte, poi entrai nel fumoir, con il deliberato proposito di ragguagliarmi intorno alla misteriosa signora. A un tavolo sedevano il dottor Montanari, il Cavalcanti e il Rosetti che, con un sigaro cavour in bocca e un mazzo di carte in mano, si accingeva a far dei solitari. Ma l’Alverighi quella sera aveva offuscata anche la signora. Discorrevano infatti dell’Alverighi. — Sono quattro giorni che sputa sentenze — borbottava il dottore. — Non ha fatto altro, da quando siamo partiti. E sempre i suoi milioni in bocca. Cose da pazzi! Se continua così, pranzerò nella cabina. — Perchè? — rispondeva dolcemente e sorridendo il Cavalcanti. — Io lo trovo curioso, invece. Lei lo conosce, non è vero, Ferrero? Che il Cavalcanti sorridesse e il Montanari smaniasse a quel modo, non fu per me, che li conoscevo ambedue, meraviglia. Non ostante il suo bel nome toscano, il Cavalcanti era nato in quella che si potrebbe chiamare l’India del Brasile, in una provincia settentrionale, quasi sotto l’equatore, da una famiglia antica e cospicua ma impoverita; e nato a contemplare la natura e la vita assai più che ad operare nel mondo: perchè una dolce e quasi mistica indolenza ed un intimo orrore della farraginosa e insaziabile attività che ha creata nei climi temperati la civiltà moderna si univano in lui ad una finissima sensibilità e ad una intuizione meravigliosa, dando forma ad uno spirito tra poetico e filosofico, scevro di invidia e di orgoglio, semplice e benevolo, infinitamente vago di curiosare in tutte le cose, poco pugnace, e che pendeva assai al misticismo. E tale era rimasto, intatto e puro, pur scendendo in Rio, in mezzo all’affannoso via vai della civiltà moderna: dove, discepolo in letteratura del grande Machado de Assis e in diplomazia del barone di Rio Branco, egli aveva sfogate nella letteratura le sue mistiche inclinazioni e imparato ad operare in mezzo alle faccende del mondo, riuscendo rapidamente e facilmente a farsi largo in mezzo alla sua generazione, come il fratello suo più che amico Graça Aranha. A trentotto anni infatti, dopo aver varcato più volte l’Oceano per diverse missioni, se ne veniva ora in Italia, primo segretario della legazione del Brasile presso il Quirinale; ed era tra i giovani autori del Brasile il più celebre, per il suo famoso romanzo «La terra promessa». Ma il suo spirito, naturalmente benevolo, era stato ancor più addolcito da quella eclettica equanimità che è propria della cultura americana; parte perchè i paesi d’America, non possedendo una cultura antica, ricevono facilmente i frutti più diversi della cultura europea; parte forse anche perchè, come gli esplosivi, quando scoppiano all’aperto, fan più romore che danno, così tutte le idee, anche quelle che compresse in Europa da interessi, istituzioni e tradizioni debbono squarciarsi una via fra le rovine scoppiando, svampano invece, innocue fiammate, nei vasti e semivuoti paesi d’America. Quante volte a Rio, in quella gran foce per cui sbocca nel Brasile con i suoi bracci maestri e i piccoli rigagnoli il fiume della cultura mondiale, nella gigantesca libreria Garnier, all’angolo della Rua Ouvidor e dell’Avenida Centrale, quante volte avevo ammirato il ricco eclettismo della cultura brasiliana, chiacchierando tra le quattro e le cinque del pomeriggio, con José Verissimo, con Joâo Ribeiro, con Araripe, con Oliveira da Lima, con Machado de Assis, con Graça Aranha, con Souza Bandeira, con tutta l’Accademia brasiliana, nella immensa sala a piè degli scaffali che salgono, alti quattro piani, a toccare con il capo il tetto, fra le immani cataste dei libri scaricati dagli ultimi vapori d’Europa, in mezzo ai panieri che scendono, colmi di volumi, dai balconi disposti di piano in piano lungo le pareti! Romanzieri, poeti, critici, storici, essi ammiravano i classici e il romanticismo, la letteratura greca e la letteratura russa, Platone e Federico Nietzsche, Sofocle e Ibsen. Eclettico ed equanime anch’esso, il Cavalcanti non era uomo che le eresie dell’Alverighi e quegli eccessi di forma e di pensiero potessero, fuorchè per qualche istante, irritare a battaglia: lo incuriosivano invece a studiar quel fenomeno, per capirlo ed anche per sorriderne un poco, come aveva fatto a più riprese: ma leggermente, con dolcezza e carità umane, con sfiorante e non amara ironia. Altro uomo, invece, il Montanari. L’avevo conosciuto nell’andata. Era romagnolo, di Faenza se ben rammento; e medico nell’armata; e patriota e monarchico, come i vecchi — poichè la Romagna essa pure si rammoderna — erano monarchici o repubblicani, patrioti o internazionalisti una volta, in Romagna: con furore di ghibellini e di guelfi rinati. Ma perciò appunto era anche disgustato dell’universo tutto quanto. Egli soffriva, come di una sventura propria, del progressivo decadimento della monarchia nei nostri tempi; egli fremeva ancora di orrore, dopo tanti anni, solo a ricordare che un anarchico arrivato d’America aveva osato levar la mano contro il Re d’Italia; egli non vedeva che un immane traviamento degli spiriti e quasi un alto tradimento del popolo intero, in quella formidabile spinta, che ogni anno muove tanti uomini della vecchia Europa a varcare l’Oceano. E dei vizi, della ignoranza, delle sventure, dell’incessante via vai di questa moltitudine, egli parlava con una asprezza che a molti pareva spietata: come non pochi in quel suo portamento eretto, rigido, soldatesco, in quel suo guardar dritto negli occhi a tutti, in quel sorriso sardonico che increspava le guancie magre, rasate, incavate, in quel suo frequente rispondere agli argomenti altrui con sdegnoso silenzio, sentivano la provocazione di un’insolente alterigia. Ma a torto: chè quell’anima non era nè dura nè superba, ma esacerbata; esacerbata dalla cinica indifferenza con cui i tempi lasciano impolverarsi e tarlare quelle che erano state per le vecchie generazioni le sacre imagini dell’autorità sulla terra e nel cielo. Egli quindi odiava l’America; e brontolava contro tutto il resto del mondo sopratutto per disacerbarsi l’odio in cui ne aveva la parte nuova; contro l’Italia che pure amava sopra ogni altra cosa; contro l’Europa cui pure, almeno per dispetto dell’America, tributava un certo rispetto; contro quella moltitudine che accompagnava nei suoi erramenti dall’uno all’altro continente, imprecando, gridando, brontolando ogni minuto le sue tre parole favorite, l’intercalare imparato a Napoli e la suprema sintesi di tutta la sua filosofia della vita «cose da pazzi!»: ma a prò della quale pur faceva con zelo quel po’ che poteva. Che costui avesse preso in tanta uggia l’Alverighi era naturale. Ma io conoscevo un po’ il facondo avvocato, e volentieri, seguendo l’invito del Cavalcanti, entrai nel discorso di lui. — Sì, l’ho conosciuto a Rosario — risposi. — Fu il nostro Cicerone per tre giorni. È un italiano, un mantovano anzi, che ha fatto in pochi anni una grande fortuna in Argentina.... — Alla larga! — interruppe il dottore. — Adagio, dottore, non precipiti così il suo giudizio — continuai. — Lei conosce la storia di quell’uomo? No? Ebbene, indovini un po’, se le riesce, a quale carriera l’avevano avviato i suoi in Italia.... Ne volevano fare un filosofo! Sicuro, un filosofo! Suo padre era un provveditore agli studi, intelligente, coltissimo, autore di parecchi pregiati lavori storici ma povero e carico di famiglia. E il figliolo infatti a ventidue anni si laureò, non ricordo più in quale Università, con una tesi su Descartes e Spinoza; ma per imbarcarsi tre mesi dopo alla volta di Buenos-Aires. — Strana idea per un filosofo — osservò il Cavalcanti. — Stando a quello che egli mi ha raccontato, — proseguii — chi lo persuase fu uno dei suoi maestri, un vecchio filosofo, il quale ammirava molto l’America, sebbene la avesse conosciuta solo sulle carte geografiche. Batti oggi, batti domani, a furia di ripetergli che egli aveva troppo ingegno per fare il professore in Italia, che c’era troppa filosofia e troppo latino in Europa e troppo poco in America, quel sapiente non troppo savio — ce ne son tanti, tra i dotti! — riuscì a persuaderlo al gran passo. Un bel giorno il nostro giovinotto salpò da Genova, per andare a seminare la vecchia cultura dell’Europa nelle vergini terre d’America. Quel che fu nei primi tempi di questo filosofo, sbarcato a Buenos-Aires venti o venticinque anni fa, con poche migliaia di lire in tasca, non sto a raccontarlo a loro. — Pur troppo — sospirò il Rosetti, — una cultura di lusso non è un capitale, con cui si possa tentar la fortuna in America. Gli Europei non la vogliono capire.... — L’Alverighi però — continuai — era un uomo. Nel pericolo egli capì qual’è l’àncora di salvezza nelle grandi tempeste della vita ai tempi nostri.... Il vestito! Neppur Dante o Galileo troverebbero oggi chi li aiutasse, se si riducessero senza un colletto di bucato e con un solo paio di scarpe rattoppate. Fece quindi tutti i mestieri per salvare le fondamenta fisiche e metafisiche della sua personalità morale: abito, soprabito e scarpe; mangiò pane asciutto e bevve limpida acqua di fonte; ma uscì sempre in pubblico vestito con eleganza. Riuscì insomma a nascondere a tutti la sua penuria, e quindi tutti lo aiutarono volontieri. A poco a poco si procacciò amicizie e protezioni: l’argentino è generoso: ottenne di insegnar l’italiano in un fiorente collegio della capitale: prese a scrivere nei ricchi giornali spagnuoli: si rifece studente di legge, strinse amicizia, nell’Università, con giovani di famiglie cospicue: si addottorò con brillantissimi esami; e rapidamente venne in fama di valente avvocato. È di fatti un grande oratore davvero. Infine si stabilì a Rosario, fece un ricco matrimonio, e come tutti in Argentina, appena ebbe del denaro, si buttò nelle speculazioni fondiarie.... — Abbandonando le filosofiche — punzecchiò il Cavalcanti. — Benissimo! — Sì e no — risposi. Ma proprio in quel momento l’Alverighi entrò nel _fumoir_ e senza guardarci andò a sedersi al tavolo accanto, dove due signori — due mercanti astigiani di vino, seppi poi — giocavano alle carte: troppo vicino perchè si potesse continuare a parlare di lui. — Vogliamo uscire un po’? — propose il Cavalcanti. Uscimmo tutti e quattro sul ponte di passeggiata, il più basso dei due ponti della nave, riserbati ai passeggeri di prima classe. La sera — una di quelle dolcissime sere, senza luna, senza vento, non calde, non fresche, che scendono talora in primavera, silenziose, ad addormentare per qualche ora in un sopore profondo i mari dei tropici — aveva tratti fuori molti passeggeri. — Le nostre sedie sono dall’altra parte, a tribordo — disse il Cavalcanti. E ci avviammo verso la passerella di prua, dopo che il dottore ebbe preso congedo da noi, per recarsi al suo servizio. Ma al momento in cui, giunti in fondo al ponte di babordo, stavamo per svoltare nella passerella, ci scontrammo con una giovane coppia che ne usciva. Ci traemmo in disparte; li vedemmo passare in silenzio, guardando diritti innanzi a loro; egli, basso e grassoccio, con grosse sopraciglia nerissime, camminava con un’andatura molle, restando un po’ indietro; lei alta, magra, ossuta, spigolosa si faceva innanzi impettita, rigida, con un portamento risoluto, quasi traendo a forza lui. — Passeggeri di ronda! — mormorò il Cavalcanti. — Fanno dell’esercizio. Passammo, percorrendo la passerella oscura, sul fianco destro della nave. Ma le sedie nostre erano illegalmente occupate. Per non disturbare gli usurpatori salimmo sul ponte delle imbarcazioni, deserto, silenzioso, male illuminato da poche lampade elettriche troppo distanti; e ci sedemmo sopra una panca bianca, nel fioco chiarore, di fronte al camino oscuro come la notte, da cui esalava in densi turbini negri, a confondersi con le tenebre, il silenzioso respiro della nave; a piè delle grandi barche bianche issate sui parapetti, che parevano dormire; tra le bocche da vento che, rigide e taciturne, aspiravano la fresca e vivida notte; sotto le grosse funi che, tese per ogni verso, tremolavano sommessamente nelle pesanti fibbie di ferro, sfiorate da un soffio invisibile. Tutte le cose tacevano, quasi sollecite di non turbare il sonno primaverile del mare; anche il grave ansar delle macchine esalava lassù dal profondo come un murmure vago e lontano; sopra di noi silenzioso anch’esso e oscurissimo, il cielo turbinava di miriadi di astri, simile a uno sterminato velo nero fiammante di gemme.... Per un momento tacemmo anche noi, come soggiogati dal silenzio improvviso in cui eravamo saliti. Primo riprese a parlare il Cavalcanti. — Lei diceva, dunque.... — Pur troppo sì — continuai. — Il demonio dell’America è entrato anche in questo figlio di un povero provveditore italiano.... Ha già parecchi milioni e li vuol raddoppiare; poi vorrà triplicarli, quadruplicarli, sinchè avrà fiato; dormirà, sì e no, quattro o cinque ore sulle ventiquattro; fa tante cause, lui solo, quante quattro avvocati; compra, vende, ricompera, ipoteca terre in ogni parte dell’Argentina, nel Paraguay; non ha famiglia sebbene abbia moglie e due bambini; potrebbe costruirsi un palazzo e non ha focolare; è il nomade moderno, attendato nei «vagons-lits» e negli alberghi.... In quel mese che viaggiai nell’interno dell’Argentina, me lo sarò visto passare innanzi tre o quattro volte, come il treno o come il lampo, in città distanti migliaia di chilometri: arrivava la mattina da sud e via la sera a settentrione; ricompariva da levante per sparire dopo qualche ora verso ponente.... Eppure... Eppure.... Vada nella sua cabina; la troverà piena di libri; italiani, inglesi, francesi, gli ultimi pubblicati; letteratura, storia, politica, filosofia. Appena conseguita una certa agiatezza si sforzò di riallacciare il filo dei suoi studi interrotti, come poteva, naturalmente. Ma non ha mai smesso di leggere, in ferrovia, nei ritagli di tempo, a precipizio, spesse volte sfogliando e divinando più che leggendo.... — All’americana — osservò scherzosamente il Cavalcanti. — All’americana, se vuole — io risposi. — Sebbene ormai, anche in Europa.... E non soltanto legge, ma pensa, come un bastimento va, quando c’è tempesta: a ondate, a sbalzi, a sussulti. Quella sua testa è come un gran tino; e dentro ci ribollono le reminiscenze degli studi fatti in Italia, gli stralci delle letture precipitose, i frammenti di quel che intravede, incontra, urta correndo all’impazzata attraverso il mondo, le speranze, le aspirazioni e gli interessi suoi. Ci ribollono in una curiosa filosofia, piena di idee assurde, stravaganti, puerili, originali, stupende, che è come del mosto in fermentazione: gonfia e sgonfia, ma si agita sempre. Bisogna vederlo a casa sua, tra un viaggio e l’altro, tra un processo penale e uno civile, tra una compra e una vendita di terreni, quando va nei clubs di Rosario, e lì tiene cattedra, espone, disserta, vorrebbe discutere e non può; chè quei bravi mercanti di grano lo ascoltano, sì, con pazienza, ma si arrendono prima ancora di combattere, e non l’hanno in conto di matto soltanto perchè.... Buon per lui che i suoi milioni fanno il contrappeso alla sua filosofia! No, no: mi sbaglierò; ma quell’uomo è un genio, a modo suo, ma un genio: un genio, come dire? — rinselvatichito nella Pampa.... Tacqui. Il Rosetti continuava a fumare, in silenzio. Solo dopo qualche istante il Cavalcanti a mezza voce, come parlando a sè stesso: — In nome di quale autorità? — disse. — Da che cattedra? In forza di qual principio potremmo noi dimostrare che New-York è brutta a chi dice che è bella? Non c’è che dire: l’estetica è messa con le spalle al muro. «Hic Rodus, hic salta». Una idea improvvisa mi balenò; e interrompendolo: — Provi dunque a rispondere, domani, — dissi. — Ne nascerà una discussione sull’arte; e anche questo sarà un passatempo. Vedrà se non è pieno di idee ingegnose, questo speculatore in terreni.... Ma il Cavalcanti fece un gesto di spavento. Volevo io dunque convertir il «Cordova» in un’accademia di filosofia? — E perchè no? — risposi. — Del resto se non ci pensa lei, ci penserà lui. Ne deve avere una voglia! Perchè a Rosario, poveretto, è una specie di Socrate disoccupato, ridotto a far dei monologhi. Ragionammo un po’ del discutere in genere, e del discutere di filosofia, sinchè il Rosetti, che non aveva aperto bocca, si levò sorridendo. — In fin dei conti, — disse — che cosa abbiamo da fare a bordo? Nulla. Dunque possiamo anche fare un po’ di filosofia. Era tardi, e ci separammo. Anch’io, in quel lungo discorrere dell’Alverighi, mi ero scordato della signora. Me ne andai a letto, senza aver saputo nulla intorno a lei: nè chi fosse, nè onde venisse. La cabina era a due letti: uno per me, l’altro per il bambino: e mi coricai senza indugio, perchè ero stanco: stanco della lunga conversazione della serata: stanco delle ore passate sul ponte di comando a scambiar gli ultimi addii con l’America: stanco degli innumerevoli abbracciamenti e ringraziamenti barattati con gli amici, a bordo e alla banchina Pharoux; stanco della veglia protratta sino a tardissima ora la sera innanzi, dopo il banchetto offerto dall’Accademia brasiliana all’Hôtel Alexandra; stanco delle due rapide gite fatte nelle tre settimane precedenti a San Paolo e a Bell’Horizzonte; stanco infine della lunga via percorsa di festa in festa, di discorso in discorso, per tanto mare e per tante terre, da Genova a Buenos-Aires, da Buenos-Aires a La Plata, a Rosario, a Mendoza, a Cordova, a Tucuman, a Santiago dell’Estero, a Santa Fé, a Paranà, a Montevideo, a Rio, nell’interno del Brasile.... Spegnendo la luce, in quel momento, più voluttuosamente ancora che sui guanciali del lettuccio, io mi adagiavo nell’idea di potere alfine, dopo il trambusto di quei cinque mesi, riposare per quindici giorni in mezzo all’Oceano. Non ricevimenti più, non discorsi, non lettere, non telegrammi, non faccie nuove! Addormentarsi la sera senza pensare agli impegni del domani, e svegliarsi tra cielo e mare, fuori delle brighe del mondo e delle proprie faccende! Cogliere finalmente sull’albero della vita quel frutto ormai così raro che appena matura una volta ogni tanti anni: l’ozio senza rimorsi! IV. Il dì seguente, quando uscii sul ponte, riposato dal buon sonno della prima notte di mare, tra le otto e le nove, il Sole e l’Oceano, i due solitari compagni dell’immensità, scherzavano insieme da vecchi amici. Ancora una volta, quella mattina, come ogni mattina dal principio del tempo, essi si erano incontrati al ritrovo dell’alba; e ancora una volta di essersi ritrovati gioivano insieme, essi, gli eterni giovani, che sui volti radiosi non portano le rughe dei secoli e dei millennii, come nel primo giorno della creazione; il Sole profondendo l’Oceano di liquido oro e zaffiro; l’Oceano scintillando a perdita di vista, vivo e fermo. Pochi però quella mattina gioirono sul «Cordova» della gioia innocente del Sole e del Mare. Una straordinaria notizia correva per la nave, dal ponte di comando alle stive tenebrose, elettrizzandola. Me l’annunciò, verso le dieci, l’Alverighi che, interrompendo di leggere un libro — vidi poi che era uno Shakespeare — si levò e mi venne incontro sul ponte delle imbarcazioni, domandandomi con una certa concitazione: — Ma è vero che quella bella signora di ieri sera è la moglie di un ricchissimo banchiere di New-York? Risposi che non lo sapevo e che al fare e al parlare l’avevo piuttosto per francese: aggiunsi che l’abito indossato la sera prima faceva supporre praticasse di solito la società elegante; esser però singolare che una milionaria viaggiasse nel piccolo «Cordova»; e non, come vuole l’etichetta che vige anche in mezzo all’Oceano, in un vapore del suo rango: il «Mafalda» per esempio, se voleva un piroscafo del Lloyd italiano. L’Alverighi aggiunse che un negoziante di gioie, il quale era a bordo, un certo Levi di Venezia, aveva stimato che la collana della signora potesse valere un cinquantamila franchi! Poco dopo, il capo dei camerieri mi fermava nel vestibolo della sala da pranzo, e con un sorriso radioso di legittimo orgoglio, mi disse: — Ma sa, che quella signora è la moglie di uno dei più ricchi americani del Nord? — Ho capito — pensai. — Prima di sera sarà miliardaria. Tutti gli Americani del Nord lo sono! Questa singolare diceria risvegliò in me la curiosità, che i discorsi della sera prima e il sonno della notte avevano un po’ illanguidita. Ma invano cercai le due sole persone che probabilmente avrebbero potuto ragguagliarmi: il Cavalcanti e l’ammiraglio. Nè l’uno nè l’altro era ancora uscito dalla cabina. Un incontro inaspettato mi distrasse di lì a poco di nuovo. Mi ero fermato, verso le dieci, a prua, vicino alla scaletta che scende alle terze classi, a osservare gli emigranti che, nel ponte inferiore, si affollavano, per l’ora del desinare, di faccia alla dispensa, aspettando. Quando ad un tratto uno degli emigranti, che stava solo in disparte, mi salutò. Risposi, supponendo fosse uno degli innumerevoli lavoranti italiani a cui avevo stretta la mano nel lungo viaggio: ma l’uomo si mosse, venne sino a piè della scaletta a capo della quale io mi trovavo, e mi domandò: — E come sta l’ingegnere.... — pronunciando il nome di un mio zio. Questo nome risvegliò di subito un ricordo lontano: fissai l’uomo, e: — Ma tu sei Antonio! — esclamai scendendo la scaletta. — E che cosa fai qui? Ed era proprio Antonio!, il più grande stolido e fannullone che avessi mai conosciuto; la disperazione di quel mio zio, che aveva dovuto impiegarlo come fattorino nel suo studio, collocarlo come portinaio nella sua casa dove noi abitavamo, perchè gli era stato raccomandato con la più viva istanza da uno dei suoi più ricchi clienti, nelle cui terre era nato, figlio di contadini. Quando mio zio aveva dovuto assumerlo nell’ufficio, Antonio ritornava da un primo viaggio in America; ma nessuno di noi si stupì che non avesse fatto fortuna, chè non era buono proprio a nulla; e qualunque incarico ricevesse come fattorino o portinaio, lo fraintendeva o sbagliava, quando non lo dimenticava tutto: e la maggior parte possibile del giorno e della notte passava dormendo; e solo per schivar fatiche o trovar ragioni di sdraiarsi sopra o sotto le dolci coltri del letto, mostrava un certo ingegno. Cosicchè il giorno in cui aveva annunciato all’improvviso che ritornava in America, nessuno di noi si era sforzato a dissuaderlo; anzi.... Che l’America se lo pigliasse e per sempre! Mi ricompariva invece a un tratto innanzi, poco mutato dopo sei o sette anni, magro, con la fronte sfuggente e quell’incerto e insulso sorriso che mi spiaceva tanto, abbastanza ben vestito però e certo in migliore arnese che non gli avessi, al suo partire, predetto il ritorno. — L’America è così ricca! — pensai. Ma mi parve incauto di interrogarlo con domande troppo stringenti sulla sua sorte, e gli chiesi solo se ripatriava per sempre. Mi rispose che sperava di poter stabilirsi in Italia, dove aveva lasciato i figli: «i miei figli», egli disse. Quel possessivo mi rammentò che, partito la prima volta dall’America, dopo tre anni, lasciando in casa un figlio, Antonio ce ne aveva trovati, tornando, due; il secondo nato due anni dopo la sua partenza: e placidamente, senza far parola, aveva accettato come suo il figlio altrui! Mi trattenni dal sorridere, e ricordando che nel secondo viaggio egli aveva tratta seco la moglie, lasciando i bambini a una nonna, gli chiesi notizie di lei. — Sta bene, — mi rispose tranquillamente; — è qui, con me: la vedrà: ma non la riconoscerà più; l’aria dell’America le ha fatto tanto bene! E dopo qualche altro discorso lo lasciai, pensando che ritornava dall’America un po’ meglio in arnese, ma non già più in cervello. A colazione parlammo soltanto della signora che, rimanendo nella sua cabina, ci lasciò liberi di ragionare a nostro piacere di lei. Dall’ammiraglio sapemmo finalmente che la ricchissima americana era invece proprio francese: figlia di un banchiere di Parigi, di nome Blum; che aveva sposato Federico Feldmann della banca Loeventhal e C. di New-York; e che da tre anni dimorava a Rio, dove suo marito dirigeva il «South American Syndicate», grossa impresa di ferrovie, banche e miniere, organizzata a New-York. Capii subito allora chi fosse, almeno per approssimazione: perchè avevo conosciuto il marito a New-York. Del resto della signora non si ragionò solo alla tavola di mezzo, ma anche alle altre, in tutta la sala; chè ogni tanto qualche faccia si voltava verso la poltrona ove essa avrebbe dovuto sedere. Cosicchè tra questi discorsi, anche a me era uscita di mente la discussione della sera precedente: quando a un tratto, poco prima del levar delle mense, l’Alverighi a bruciapelo chiese al Cavalcanti se ammirava «Amleto». E quando il Cavalcanti gli ebbe risposto che l’ammirava moltissimo: — Ebbene, — disse, — vuol che le dimostri come due e due fanno quattro, che «Amleto» è un drammaccio da arena diurna? Ci guardammo in faccia, dicendoci senza parole «ricomincia». Il Cavalcanti rispose con un gesto rassegnato, che voleva dire: «Se ciò fa piacere a lei, si figuri!» Io indovinai subito che l’Alverighi voleva, come avevo supposto, riattaccar briga: ma perchè aveva scelto quel modo, quando ad «Amleto» nessuno aveva neppure alluso la sera prima? Non ci fu verso di saperlo. — Ebbene, stasera, dopo pranzo, adempirò la mia promessa — concluse breve e asciutto l’Alverighi. — Ho portato con me uno Shakespeare. Lo volevo rileggere nella traversata. Ma lei, Cavalcanti, mi deve promettere di ribattere ogni argomento mio. E non disse altro. Del resto anche il discuter intorno ad «Amleto» non era forse un passatempo? Le giornate son così lunghe e così vuote, in mezzo all’Oceano! Restammo dunque intesi che la discussione su «Amleto» sarebbe fatta la sera, nel salone superiore. La colazione era terminata, e la siesta, necessario ristoro a chi naviga i mari dei tropici — quel giorno a mezzodì eravamo giunti a 23 gradi e 53 minuti di latitudine meridionale, a 39 gradi e 49 minuti di longitudine occidentale — ci disperse poi tutti nelle cabine. Non uscii sul ponte di passeggiata, che tra le quattro e le cinque; e uscendo, a sinistra della porta, tra questa e la scaletta per cui si saliva al ponte superiore, vidi seduti in cerchio, su sedie, seggioloni e seggioline, sette od otto passeggeri: i due mercanti astigiani; un dottore italiano di San Paolo con la signora, che ripatriavano; una bella genovese, alta e bruna, con due occhi neri, fulgidi, ombreggiati da folte sopraciglia, che andava a Genova per mostrare ai suoi genitori due sue creature natele a Buenos-Aires; parecchie altre signore. Tacevano, guardando tutti verso la scaletta, come aspettassero qualcuno: a un tratto, difatti, una signora scese rapida, sorridendo, fece col capo cenno di sì; e subito la genovese si levò e svelta anch’essa salì a sua volta in punta di piedi là donde l’altra era discesa. Ridiscese anch’essa dopo un minuto o due, e subito un’altra infilò la scala. — Che vanno a far lassù, queste curiose? — mi chiesi. Salii, e subito capii: verso prua, oltre le quattro barche issate sui parapetti, la signora Feldmann leggeva, distesa sopra un seggiolone a sdraio; e una dopo l’altra le signore salivano a vederla, le passavano accanto con quel fare impacciato proprio di chi si sforza di parere disinvolto, sbirciandola; e ritornavano poi alla scala girando intorno alle cabine sull’altro fianco della nave. Appoggiato al parapetto, tra due barche, guardai due o tre curiose passare; poi andai a salutare la signora, che non avevo ancora veduta in quel giorno. Al mio avvicinarsi, essa depose il libro sulle ginocchia, posandoci sopra la mano coperta di grosse gemme; alzò il capo e sorrise.... Ma io credetti, lì per lì, di non riconoscerla! Era pallida, invecchiata e quasi appassita. Seguendo storditamente il primo moto del pensiero, le domandai se fosse stata indisposta. — «J’ai donc une mine affreuse, aujourd’hui?» — mi domandò pronta, con un sorriso malizioso. Capii che essa si era di nuovo specchiata nel mio pensiero: tentai di riparar lo sbaglio con qualche complimento: aggiunsi che di solito il mare era poco amico delle signore. — Io? — mi rispose. — Ma io non sto mai così bene come a bordo di un transatlantico. Ero fatta per correre i mari, io.... Mi sedei sulla panca vicina; incominciammo a discorrere, come si suole, un po’ a caso, del tempo, della navigazione, del vapore. — È la prima volta che viaggio in un vapore così piccolo e lento, — essa mi disse, con disinvoltura e con garbo, come era necessario per avvertirmi subito che essa, nel mondo, di solito, stava più su dei suoi compagni di viaggio, ma senza parer di essere troppo infastidita da quella discesa, momentanea del resto. — Non si sta male, però — soggiunse. — I servitori sono educati e zelanti, la cucina è buona.... Passammo così a ragionare del mio viaggio nell’America meridionale; poi venimmo alla conversazione della sera precedente. — Quante sciocchezze ha dette quel signore.... come si chiama? — essa disse con tono risoluto. — Sono proprio le stesse cose che ho sentite ripetere per ventidue anni da mio marito! Che quella giovane signora — o che tale pareva — denunciasse spensieratamente ventidue anni di matrimonio, era cosa da meravigliarsene chi si sia: questa volta però non battei ciglio: osservai solo che simili discorsi si udivano di solito in bocca ad Europei arricchiti e non ad Americani. — Ma mio marito — rispose — è europeo come me. È nato a Varsavia. E mi domandò anzi se non l’avevo conosciuto a New-York. Le risposi che sì; che l’avevo conosciuto ad un pranzo, come tanti altri grandi finanzieri di New-York: come lo Schiff che aveva preso parte alla colazione del City Club; come Isacco Seligmann e Giacomo Speyer che avevano assistito al pranzo della Columbia University. La signora mi guardò in faccia con occhi più ridenti del consueto, quasi illuminati da una improvvisa vampa di interna allegria; e: — «Ils sont drôles, n’est ce pas, les Américains? Quels barbares!» — mi disse. — Fanno a un pranzo una insalata di scienziati e banchieri, con una disinvoltura.... E si mise a ridere. Protestai non esser partigiano del divorzio tra il denaro e la cultura; e che perciò non ci vedevo alcun male: anzi.... Ma fece le boccuccie e con una mossa di grazioso disdegno protestò che banchieri e finanzieri eran la più tediosa gente da lei conosciuta. Non battei ciglio neppur questa volta, ma cresceva in me la sorpresa. Spregiar così, figlia e moglie di banchieri, la propria gente! — Ho capito: — dissi — lei appartiene a quella scuola di Europei che considerano gli Americani come dei barbari, suo marito a quell’altra, che li ammira come il superpopolo. E risolutamente difesi l’America. Dissi che a New-York, a Washington, a Filadelfia, a Boston avevo conosciuto una aristocrazia che tale poteva dirsi non per i titoli ma per le virtù: per l’educazione, per la signorile semplicità, per l’amore della cultura e il fervore delle aspirazioni disinteressate. Aggiunsi che a quella aristocrazia avrei piuttosto apposto a difetto il soverchio e talvolta chimerico fervore di queste aspirazioni, una certa timidezza e quel suo troppo grande rispetto della cultura e dell’Europa, per cui tra le idee che vengono dal vecchio mondo, l’America non si decide e quasi non osa di scegliere; se le piglia tutte, e quindi ne piglia troppe.... Conchiusi che, fosse effetto del protestantesimo radicale o della filosofia del secolo XVIII o di qualche altra ignota causa, l’America mi era parsa piuttosto, per certi rispetti, un paese mistico: ad ogni modo più mistico dell’Europa, di sicuro. Mi aspettavo chi sa quante obiezioni e proteste; invece: — È vero — rispose tranquillamente, come udisse cosa da lei sempre pensata e come le fosse uscito per intero di mente quel che aveva detto pochi minuti prima. — In America ci sono degli uomini deliziosi. Le donne mi piacciono meno.... Ho alcuni amici laggiù, di cui non saprei trovare il paragone tra i miei amici di Europa. — E allora, — risposi, — di che si lagna? E perchè mi bistratta a quel modo gli Americani? Che le hanno fatto? — Ma non mi hanno fatto nessun male: anzi!... — rispose. — Gli anni più felici della mia vita li ho passati in America.... — A che età è andata in America? — interruppi insidiosamente. — Quando mi sono sposata, — rispose pronta, preferendo, come gli antichi, misurare il tempo con gli eventi anzichè dall’anno della salute di Nostro Signore. E continuò: — Sarei proprio un’ingrata se mi lagnassi dell’America e degli Americani. E non mi lagno.... — Un pochino, direi, però, — obiettai. — Perchè osservo negli Americani certi difetti? Ma ne abbiamo tutti. Non pretenderà mica anche lei che gli Americani siano perfetti. — Mi par però che me li tratti di barbari o quasi. Non le pare un difettaccio, dirò così, piuttosto grave?... — «Pour des barbares, il est bien sûr qu’ils le sont....», — rispose ergendo il busto, guardandomi in faccia e piegando ad anfora le belle braccia sul capo, per riassettare con le svelte dita i pettini sopra la corona dei capelli, con il tono sicuro e naturale di chi dice cosa evidente di per sè. — Ma non ha visto lei come guastano le cose più belle? E tacque, intenta a domare l’ultimo dei pettini, che resisteva alla pressione delle piccole dita. — Per esempio? — dissi io. — Per esempio, il Metropolitan; — rispose, ripigliando in mano il lavoro. — È un bel teatro; gli spettacoli sono magnifici.... Ma ecco, ad un tratto, bisogna infilare in fretta gli ermellini e le pelliccie, ravvolgersi la testa nella sciarpa, impugnare gli strascichi; e giù di corsa, per gli anditi angusti e le scalette ripide, sin nella trivialità di Broadway; a cercare affannosamente sui marciapiedi sudici, tra i cocchieri e gli chauffeurs che vociano, la propria vettura.... L’interruppi, osservando che il non aver edificato in New-York un teatro monumentale, non era ragione sufficiente a definir barbaro un popolo che aveva fatte tante grandi cose, sopra un così vasto continente. — Ma tutta l’America — replicò — rassomiglia a una rappresentazione del Metropolitan, e all’architettura di New-York. Disordine babelico dappertutto; non una sfumatura, mai; trapassi sempre bruschi, repentini, violenti che rimescolerebbero il sangue anche ad un elefante. Ma non sentono dunque che cosa sia una stonatura, questi Americani? L’osservazione, anche se espressa con forma un po’ bizzarra, non era sciocca. Non volendo però darle ragione, rammentai scherzando alla signora i discorsi fatti la sera precedente. — Ma ieri sera anche lei ha udita, signora, la nuova parola dei tempi. L’America è lo specchio della giovinezza del mondo.... Tacque un momento, poi con forza, quasi con ira: — Ho incontrati nella vita pochi uomini che mi siano più antipatici di quel.... Come si chiama? Chi è? E antipatico anche a lei, spero. Che villano rifatto! Ha osservato come veste? E scoppiò in una fragorosa risata! Confessai che non ci avevo badato: parermi però che l’Alverighi di solito vestisse con eleganza. — Ma non ha visto, ieri sera? — incalzò subito. — Aveva un tait nero e un gilet grigio incensurabili; e poi e poi.... un paio di calzoni turchino scuri.... E rise di nuovo. Mi strinsi nelle spalle e un po’ sarcasticamente: — Badi, signora, che un giorno non le chieda in nome di quale autorità lei vuole impedirgli di appaiare il nero, il grigio e il turchino. Se però le dà fastidio il sentirlo, ho il dispiacere di dirle che parlerà ancora, e molto. Ieri sera ci ha demolito Parigi, la tragedia e la scultura greca; questa sera tocca a Shakespeare.... — Un americano difenderà dunque l’arte della vecchia Europa contro un europeo? — conchiuse, quando le ebbi raccontato quel che si era combinato a colazione. — Ma non importa: voglio assistere alla discussione; mi servirà, se non altro, come esercizio di italiano. Ragionammo ancora un poco; poi la salutai. Sull’altro fianco della nave, quasi interamente sdraiato sopra un seggiolone, come sopra un letto, stava l’Alverighi, anche egli intento a leggere un libro. Per terra, a destra e a sinistra, parecchi libri giacevano alla rinfusa. Mi trattenni un poco con lui, e vedendo che leggeva «Amleto» in una edizione inglese; ed aveva per terra a portata di mano la traduzione del Rusconi: — Si prepara per questa sera? — gli dissi. Raccattai da terra un dopo l’altro i libri che giacevano intorno a lui: erano la «Patria lontana» di Enrico Corradini, il «Libro di Versi» di Olindo Malagodi, l’«Evolution creatrice» del Bergson, le «Vues d’Amerique» di Paul Adam, il «Volonté et Liberté» del Lutoslawski. Osservai pure che questi libri erano gualciti, come se fossero stati molto maneggiati; ma che nel tempo stesso di nessuno tutte le carte erano state tagliate. Chiacchierai un poco con lui; poi gingillai sino all’ora del pranzo, scherzando ironicamente con gli altri amici sull’imminente macello di «Amleto» e pensando ogni tanto alla signora, alla vivacità e alle contradizioni dei suoi discorsi, a quella sua maniera di trattare cordiale e graziosa, a quel tono spigliato e sicuro, serio e frivolo nel tempo stesso, con cui parlava. E quando finalmente la sera, in ritardo come al solito, la signora Feldmann venne alla mensa, indossando un altro abito di gala non meno sfarzoso ma questa volta tutto nero — cosicchè sul nero del tronco le spalle e il collo nudi abbagliavan più candidi — tutta la sala si volse a guardarla, ma con un movimento di occhi e di spirito diverso. Non si chiese già, stupita, come la sera precedente: «Chi è costei?» ma giuliva e ammirante sussurrò: «Eccola, finalmente!» I camerieri le stavan d’attorno in tre o quattro, non perdendola mai d’occhio un istante; tutti, anche l’Alverighi, le parlavano con un tono di ossequiosa premura: ed essa ascoltava, rispondeva, sorrideva, volgeva dall’uno all’altro dei convitati i begli occhi dorati, allegra e vivace come la sera precedente. Di nuovo era ringiovanita! Parlammo, come è naturale, della discussione imminente. — È pronto lei? — avevamo chiesto, la signora ed io, al Cavalcanti, raccomandandogli di difendere bene Shakespeare contro i «barbari» dell’America. Scherzammo un po’ intorno all’imminente discussione; si ragionò poi di cose di poco momento; sinchè, un po’ repentinamente, la signora Feldmann mi domandò se davvero negli Stati Uniti il marito possa fare divorzio all’insaputa della moglie, senza neppure avvertirla. Durante il mio soggiorno in America, il signor Gilder, allora direttore del «Putnam’s Magazine», mi aveva ragionato a lungo di questo argomento: ero quindi in grado di rispondere seriamente a questa domanda: ma siccome l’argomento si prestava, mi venne l’idea di sbizzarrirmi un po’ in paradossi ed esagerazioni. — Altro che, se è possibile! — dissi. — L’America del Nord è la terra promessa dei mariti scapati. Mi ricordo, a bordo del «Savoie», un giorno, ho sentito dal mio lettuccio due emigranti che parlavano fuori, sul ponte, proprio sotto il finestrino della mia cabina. Uno era croato l’altro veneto; parlavano italiano, dunque, e il croato, un emigrante incallito, diceva all’altro che era un novizio: «Gran paese l’America! Ci si piglian tante mogli quante uno vuole!» La signora sorrise e non disse nulla: invece l’ammiraglio: — Ma non è possibile, — esclamò risentito. — In un paese civile.... — È invece una cosa semplicissima, — risposi con l’aria più candida. — Molti Stati permettono di chiedere il divorzio, se l’altro coniuge dimora in un altro Stato, con quello che nel diritto americano si chiama il «constructive service», cioè senza citazione personale, come si trattasse di un processo «in rem o quasi in rem» e non «in personam»: basta, per esempio, pubblicare la citazione nei giornali del luogo. Orbene: se la moglie risiede in un altro Stato o all’estero, il marito cita la moglie per via dei giornali; la moglie naturalmente non li legge; al giorno stabilito il marito comparisce solo soletto innanzi al Tribunale, ottiene la sentenza, e.... — Ma c’è una cosa al mondo più personale dello stato civile? — protestò l’ammiraglio. — Lei dimentica — risposi — che l’America del Nord è una federazione di Stati. Imposta la citazione personale, il coniuge offeso dovrebbe citare il coniuge colpevole innanzi alla corte dello Stato dove costui risiede; il che vuol dire che il coniuge colpevole, mutando residenza, potrebbe scegliersi lo Stato e la legge sui divorzio più favorevole. Per evitare questo scoglio.... — Sono andati a dar di cozzo in quell’altro! Un bel guadagno! — interruppe brusco l’ammiraglio. — Ammiraglio, — risposi — le leggi si possono paragonare ad automobili, che vanno per strade tortuosissime; guai se a certe voltate corressero difilate! Rovescerebbero! Del resto, si consoli. La suprema corte di Washington a riconoscere esplicitamente il divorzio come una procedura «in rem», non ci si è decisa mai. Anzi una volta, credo, ha affermato di non riconoscerla per tale. Ma poi, posto il principio, non ha osato trarne le conseguenze logiche; e allora c’è chi dice che, in forza di quella sentenza, i divorzi fatti con il «constructive service» non sono validi in tutta l’unione, ma solo nello Stato in cui la sentenza fu pronunciata. Cosicchè accadrebbe questo: che divorziati quando sono nello Stato, lui e lei ridiventano marito e moglie quando ne escono. Nello Stato ambedue possono sposarsi di nuovo; ma se escono dolio Stato ciascuno con il nuovo legittimo coniuge, commettono adulterio con lui, appena varcato il confine, se vanno per esempio da New-York a Filadelfia, che son distanti, come lei sa, due ore di ferrovia. Se uno dei coniugi, poniamo la moglie, abbandona lo Stato, il marito rimanendo nello Stato continua ad essere scapolo, ma viceversa ha una moglie; e la moglie, ridiventata tale, non ha marito, perchè lui è sempre divorziato. Insomma c’è una moglie senza marito e uno scapolo con moglie.... — Ma questo è un manicomio! — protestò l’ammiraglio. — È il diritto! — risposi. La signora aveva ascoltato questo discorso in silenzio, sorridendo come al solito, non però nel solito modo, tutta lampi vivi e scoppi schietti di allegria, ma con una insistenza immobile delle labbra che mi parve quasi sforzata ed assente. Ma i servi incominciavano a sparecchiare: l’Alverighi e il Cavalcanti uscirono, per fumare un sigaro sul ponte, prima di incominciare la discussione: uscirono anche l’ammiraglio e la signora, parlando sottovoce tra loro. Eravamo intesi che ci troveremmo nel salone superiore alle nove. Alle nove infatti, scherzando e sorridendo sulla sorte del sempre sventurato «Amleto», salivamo tutti, anche la Gina, che, sentendosi bene, voleva ascoltare la discussione, al salone superiore, piccolo, basso, roseo, elegante, scricchiolante e tremolante con la gran mole su cui posava. Non so chi aveva disposto intorno ad un tavolo, a semicerchio, parecchie sedie, e nel mezzo, di fronte proprio al tavolo, una poltrona: questa fu assegnata, senza discussione, alla signora Feldmann: — «Συνἐδριον κατασκευἀσωμεν», come dice Platone, — mormorò il Rosetti: ci sedemmo tutti a caso, con un sussiego di serietà non scevro di qualche ironia; e quando ebbe ottenuto il necessario silenzio, il barbaro, l’Alverighi, al tavolo, con dinanzi aperto il volume, incominciò a parlare. V. — Tanto per cominciare, la prima scena è inutile. Provatevi a leggere la tragedia saltandola, e vedrete! Ma che bisogno c’era di far apparire nella prima scena lo spettro a Orazio, a Marcello e a Bernardo, se questi subito dopo, nella seconda, raccontano la apparizione ad Amleto? La prima scena è inutile, non solo; ma indebolisce la scena capitale dell’atto, quella in cui lo spettro del padre apparisce ad Amleto: perchè lo spettatore lo ha già visto, il terribile fantasma.... E si fermò un istante, guardando il Cavalcanti, come per aspettare se obiettasse. Ma il Cavalcanti tacque. — La seconda scena, invece, mi piace — proseguì l’Alverighi. — Il re fa una bella parlata agli ambasciatori che spedisce in Norvegia; poi Laerte domanda licenza di ripartire per Parigi: indi il re e la regina si rivolgono ad Amleto che assiste all’udienza vestito a lutto, taciturno e cupo. Amleto entra in iscena bene, con un pezzo di vigorosa poesia: _Seems, madame! Nay, it is: I know not seems...._ e poi nel monologo: _O! that this too too solid flesh would melt._ Sebbene le imagini con cui Amleto esprime il suo dolore siano tutte strambe, contorte, barocche, di pessimo gusto, appestate dal più brutto secentismo.... E ascese questa progressione retorica di aggettivi, alzando la voce ad ogni scalino e guardando di nuovo il Cavalcanti, che neppur questa volta si mosse. — Orazio, Marcello, Bernardo, — continuò, — raccontano l’apparizione ad Amleto; e Amleto vuol parlare allo spettro. Arriviamo senza inciampi alla terza scena; è una scena secondaria che dovrebbe preparare i futuri episodi d’amore: Laerte prima e Polonio poi parlano ad Ofelia dell’amore di Amleto avvertendola di stare all’erta. Possiamo sorvolare. Ma eccoci alla scena quarta e qui ricominciano i guai. Amleto, Orazio, Marcello arrivano sugli spalti per aspettare lo spettro: nel vicino castello squillano trombe e tuonano cannoni: il re gozzoviglia.... E Amleto allora che fa? Fa una lunga tirata sull’intemperanza e sui vizi degli uomini.... Ben collocata, davvero. Me lo spieghi lei, di grazia, signor Cavalcanti, se Shakespeare è un insuperabile pittore di anime: per qual ragione Amleto fa proprio in questo momento questa predica al colto e all’inclita? Non aveva altro di meglio da fare? Ma anche interrogato per nome, il Cavalcanti tacque. — Le par che fosse il momento quello, per il poeta, — insistè l’altro — di voltare il suo loquace burattino verso il pubblico e di mettergli in bocca questa cicalata proprio nel momento in cui Amleto dovrebbe aspettare, con l’anima carica di dubbii angosciosi, l’ombra del padre ucciso? L’avrebbe fatto parlar così, lei, in un suo dramma? Mi risponda di grazia: sì o no? Se il Cavalcanti amava meglio, anzichè discutere, assistere allo spettacolo interessante delle altrui discussioni, sapeva tuttavia, quando occorreva, — era un diplomatico, non dimentichiamolo — argomentare sottilmente in contrasto. E allora incominciò, non potendo più senza scortesia opporre il silenzio a quelle aperte domande forse anche sentendo, come tutti l’avevamo sentito ai primi colpi risoluti di quella critica violenta ma non sciocca, che la discussione era seria quanto bastava perchè non si potesse volgerla in burla, come avevamo fatto sino allora, almeno nel nostro pensiero. Ma parlò da principio come chi è sforzato mal suo grado. — Amleto — egli disse — non è un uomo come lei e come me.... È uno spirito vagabondo e fantastico.... Si abbandona ai suoi pensieri e questi lo sospingono qua e là.... Dice quel che pensa così.... come gli viene in mente; ma non ragiona mai a filo di logica.... — Ma ragiona o sragiona? — ribattè pronto l’Alverighi. — Lei esita? Perchè di qui non si scappa; o ragiona.... — Ragiona, sragionando — interruppe, brusco, il Cavalcanti, come chi si decide a saltare un fosso che gli attraversa la via. — Sembra, che divaghi, eppure un nesso in tutto quello che dice, c’è; nascosto, ma c’è; solamente non è facile scoprirlo.... L’Alverighi sorrise ironico. — Un nesso che c’è e non si vede! Sarà: ma non capisco. A ogni modo ritorneremo sulla questione tra poco.... a proposito della pazzia. Sulla fine dell’atto non ho niente da ridire; la scena dello spettro è potente. Atto secondo: Amleto incomincia a simular la follia. Poichè Amleto si finge pazzo: su questo punto almeno saremo d’accordo, spero? — Sì e no — rispose con una certa esitanza il Cavalcanti. — Come? sì e no? — interruppe impetuoso l’Alverighi. — Ma se Amleto stesso dice a più riprese agli amici e lo ripete alla madre, che finge? E poi come va che questo personaggio tanto vivo e tanto vero non si sa poi nemmeno con sicurezza se sia pazzo o no.... — Il carattere di Amleto — rispose il Cavalcanti un po’ impacciato — è complesso e profondo, e perciò anche involuto ed oscuro. Chi ne intende una parte e chi un’altra; e quindi ognuno può farsene un suo concetto. Per questa ragione appunto piace, interessa, attira tanti.... E poi i simulatori della follia sono sempre un po’ pazzi davvero. È cosa dimostrata, ormai. Il genio di Shakespeare ha divinato.... Ma l’Alverighi, che già mentre il Cavalcanti parlava, aveva incominciato a far dei segni di diniego impazienti: — Ma che dice, ma che dice! — interruppe alla fine. — Shakespeare sarebbe allora anche un precursore di Cesare Lombroso? E perchè no, del telegrafo e dell’areoplano? Anche questo ci aspettiamo un giorno o l’altro, da lor signori, ammiratori di Shakespeare. Vuol sapere che cosa è questo profondo carattere di Amleto e la sua pazzia? Glielo dirò io. Il carattere di Amleto è un pasticcio fatto di cose diverse e incompatibili l’una con l’altra; e la pazzia un rottame dimenticato in mezzo al dramma per negligenza. Lei sa che Shakespeare ha tratto il suo dramma da Saxo Gramaticus. Ha letto mai, lei, Saxo Gramaticus? Ebbene lo legga: vedrà che Amleto è bambino, quando suo padre è ucciso: e quindi il suo racconto si capisce, è chiaro, è logico, è umano. Lo zio usurpa al fanciullo il potere; Amleto è trasportato da amici del padre in un lontano castello; cresce, sa che lo zio lo tien d’occhio, e per ciò si finge scemo: scemo, non pazzo: per rassicurare l’usurpatore, che non rivendicherà un giorno il trono; per salvare la pelle sua e vendicar quella del padre.... La successione al trono insomma è la ragione per cui Amleto fa le viste di essere idiota.... e sfido chiunque a dimostrare che questa ragione non sia ragionevole. Ma ecco sopraggiunge un genio sovrano, il principe dei poeti, uno spirito universale e caccia le mani nel vecchio racconto.... Gesummaria, che disastro! Mi fa ammazzare il padre, quando Amleto è già un uomo; e tutto il dramma, così semplice e umano del cronista, diventa un rebus indecifrabile. Perchè il re non è Amleto invece dello zio? Tolta di mezzo la lotta per la successione, a cui il poeta non accenna mai, anche la simulata follia doveva sparire; invece è rimasta: perchè? Probabilmente perchè si prestava a scene bizzarre che facessero smascellar dalle risa il popolaccio della platea, come lo spettro gli faceva venire la pelle d’oca. E per questo Shakespeare l’ha fatto comparire e ricomparir sulla scena.... L’Alverighi parlava ad ascoltatori ancora mal disposti, sebbene meno che da principio. Ma quando egli disse queste cose, sentimmo tutti che nessuno avrebbe saputo rispondergli. E nessuno infatti — nemmeno il Cavalcanti — rispose. L’Alverighi si godè un momento, roteando lo sguardo, la sua prima vittoria; poi continuò: — Quanto al secondo atto io noterò solo che esso è composto di parecchie lunghe scene: la chiacchierata con Polonio, in cui Amleto fa il matto, la conversazione con Rosencrantz e Guildenstern, la lunga discorsa con i comici. Ma di tutte queste scene la ragione non si capisce che all’ultimo momento, nel monologo finale, quando Amleto accusa sè stesso di non saper agire; e dichiara di voler finalmente far qualche cosa per scoprire il vero. Insomma la situazione è questa: Amleto è perplesso: non sa se lo spettro gli abbia raccontato il vero: come accertarsi che quella apparizione non sia una insidia del demonio? E ricorre all’astuzia degli attori. Benissimo! Questa è materia tragica davvero. Che atto meraviglioso poteva darci un poeta grande davvero, che avesse annunciata prima, e poi, a poco a poco, colorita e svolta questa situazione! Il divino Shakespeare invece ha trovato il modo di guastar tutto: la situazione non apparisce agli occhi del lettore che alla fine dell’atto: e appena apparisce è già subito risoluta in pochi versi, che cascano insieme con il sipario sul capo del lettore e dello spettatore, come una mazzata! Dagliela come viene, dicono a Roma! Ed eccoci al terzo atto — proseguì sfogliando rapidamente molte pagine del libro. Ma a questo punto mi parve di sentire oscillar leggermente la sedia. Guardai le tende delle finestre; ondeggiavano come il vento le movesse, sebbene tutte le finestre fossero chiuse. Il vapore entrava in mare mosso. — Il re, la regina, Polonio, Ofelia, Rosencrantz, Guildenstern — proseguiva intanto l’avvocato, — confabulano intorno alla follia di Amleto. Si decide di tentar la prova di Ofelia. Tutti escono, fuori che Ofelia. Amleto entra, pronunciando il famoso monologo: «To be or not to be». Bellissima disquisizione filosofica intorno al suicidio, non c’è che dire: ma io sarei molto curioso di sapere per qual ragione il poeta l’ha messa in bocca al suo personaggio proprio in questo punto. Per dipingerne la diuturna malinconia? Concedo che questa tesi si potrebbe sostenere. Al suicidio Amleto allude nel suo primo monologo (e l’Alverighi sfogliò a ritroso il libro): _Or that the Everlasting had not fix’d_ _His canon ’gainst self-slaughter...._ Ma allora questo tremendo pensiero dovrebbe ritornare ogni tanto, nei discorsi, se è sempre lì, presente allo spirito. Invece, dopo il primo accenno e dopo questa dissertazione, silenzio completo.... Dunque anche questo è un lampo che illumina all’improvviso, per un momento, la tragedia; e poi, buona notte! Insomma Amleto si ricorda di esser lui ogni tanto; e qualche volta anche, smemorato come è, si sbaglia: ed è un altro. Del resto, se saltiamo per un momento la famosa scena della rappresentazione, un altro esempio curioso della mania che hanno tutti i personaggi di Shakespeare di filosofare a vanvera, ce lo somministra il re. Dopo la rappresentazione questa perla di re delibera di far la festa a Amleto e ne dà l’ordine: dopo la qual bellissima pensata, si sente preso a un tratto dalla tenerezza e vuol pregare: ma non può, poverino, chè si sente sullo stomaco quel peccataccio del fratricidio, e rammarica di averlo commesso, e si dispera di non sentirsene pentito: poi per consolarsi trangugia anche lui una buona pozione di filosofia; e disserta sulla preghiera, sul rimorso, sulla incorruttibile giustizia di Dio: sinchè si decide a pregare, sperando consolazione e conforto. Intanto i suoi sgherri si preparano a uccidere Amleto: a questo altro peccatuccio, il re non ci pensa neppure, nei suoi pentimenti, perchè se lui si pentiva anche di questo, come faceva a terminare il suo dramma il divino William? Ma questo ultimo strazio di una opera d’arte a lui cara ebbe la virtù di risvegliare finalmente nel Cavalcanti il sonnecchiante dialettico. — Ma no, ma no, — disse con un accento insolitamente concitato — non è così che si fa la critica di un capolavoro. Lei applica ad Amleto le regole della poetica di Aristotele, i canoni della tragedia greca. Secondo Aristotele, lo so, le tragedie di Shakespeare apparterrebbero al genere peggiore, l’episodico, come Aristotele lo chiama: ma io protesto che è arbitrario e prepotente applicare i canoni fatti per un’arte ad un’altra, posteriore, diversa, maturata in altro tempo. No: l’arte non è una sola, mai: prende forme diverse: muta di continuo: è antichissima e sempre nuova. Ci fu il dramma greco; ebbe le sue regole; voleva unità d’azione, semplicità di intrecci, rapidità di svolgimenti, graduazione di effetti, proporzione di parti.... E dei caratteri semplici, evidenti, perspicui, da vederci attraverso come a un cristallo. Ma perchè abbiamo la fortuna di possedere dei capolavori immortali in questo genere d’arte, non ci sarà arte fuori di quei capolavori? Shakespeare descrive le passioni violente, i caratteri squilibrati, le anime barcollanti nella sublime vertigine dell’infinito. Tutti quelli che lei chiama difetti, bisogna considerarli da questo punto di vista, e allora son pregi, e che pregi! Sicuro: le sue imagini sono spesso contorte e strane, ma perchè egli vuol dipingere stati d’animo convulsi e tempestosi. Lei dice che nel secondo atto la situazione è risoluta ad un tratto, in pochi versi, alla fine, senza preparazione adeguata; ma certo, perchè tale per l’appunto è l’arte di Shakespeare: non ha sfumature: scoppia ogni tanto in un gran lampo improvviso che sfolgora in grembo all’infinito e si spegne; è pieno di sorprese e sussulti.... — Come l’America, — pensai, ricordando i discorsi della signora. — Il poeta che vuol dipingere le grandi bufere dell’anima — continuava il Cavalcanti — non può scrivere come Virgilio o come Racine. La prima scena del primo atto è inutile, dice lei; anzi all’opposto: il lettore ha già visto lo spettro, ha già tremato e quindi aspetta con ansia maggiore che lo spettro ricomparisca, non più a degli estranei ma al figlio. In un dramma greco questa scena sarebbe ridondante, siam d’accordo: ma in un’arte come quella di Shakespeare la ridondanza è necessaria; non è un difetto, è un pregio. Lei dice che i personaggi ragionano a vanvera.... E quante volte non ragioniamo noi a vanvera nella vita? Nella vita c’è forse solo l’ordine, la simmetria, la pace, la misura? No: c’è anche il turbine, la guerra, il caos, la montagna, il ghiacciaio.... Non lo dimentichi; l’ammirazione di Shakespeare si è diffusa insieme con la passione dell’alpinismo e non per caso! Non avevo mai sentito il dolce Cavalcanti parlar con tanta foga. L’ultima parte però del suo discorso non era stata ascoltata con attenzione così piena come la prima; perchè il pubblico incominciava a sentir le oscillazioni della nave, a agitarsi e a distrarsi. Mi domandai un momento se le ondate del mare non spazzerebbero via, dal salone, tra poco, filosofia e filosofanti. L’Alverighi intanto che, strano a dirsi, aveva ascoltato questo discorso sorridendo con palese compiacimento, chiuse il libro che aveva innanzi, lo gettò in disparte, e: — Alla fine! — esclamò. — Ce n’è voluto: ma ci siamo. Benissimo! Lei ha ripetuto a proposito di Shakespeare proprio quello che io avevo detto di New-York. Se ne ricorda? Che la natura non è fatta a squadra: e che perciò lo sproporzionato, l’ineguale, il violento possono e debbono essere ragione di bellezza, come sono forza della vita.... New-York è a petto delle architetture classiche proprio ciò che Shakespeare è a petto di Sofocle. Non si potrebbe ammirar l’uno e spregiar l’altra senza peccare di incoerenza. Quindi quando lei mi obiettò che l’armonia, la proporzione.... Ma il Cavalcanti non lo lasciò continuare. — Adagio! Lei corre troppo! — interruppe reciso. — Chi nega che ci sia un’anima di nuova bellezza anche nel disordine selvaggio di New-York? Io no. Ma io non voglio per questo negare, come fa lei, la bellezza delle vecchie città dell’Europa. Per questa via non la seguo. La bellezza non è una sola; è multiforme; anzi è una cosa infinita. Io penso che lo spirito umano è capace di creare infinite bellezze; e perciò non bisogna imporgli condizioni, barriere, restrizioni o regole arbitrarie; ma sforzarsi invece di acquistare una infinita capacità di capire e ammirare, come infinita è la capacità di creare. Io ammiro Sofocle e Shakespeare, Shakespeare e Molière, Rossini e Wagner, senza sforzo, anzi raddoppiandomi dall’uno all’altro il piacere. Lei sorride? Lo so: noi Americani saremmo i provinciali della cultura moderna, perchè restiamo così, a bocca aperta, dinanzi a ogni cosa bella. Ebbene vi dirò allora che in questo almeno gli Europei avrebbero molto, ma molto da imparare da noi. Io venero l’Europa come madre e maestra: ma non capisco perchè essa si ostini a voler empire di discordie e di guerra anche le regioni dei cieli, anche l’eterna serenità dell’Olimpo.... Per qual ragione non può essa affermare o ammirare una verità o una bellezza senza negarne o spregiarne un’altra? Come accade che ogni scienziato, filosofo, letterato o artista che sia, nel vecchio mondo, appena gusta i frutti dell’albero sacro, si crede l’unico; e smania di fare il deserto intorno a sè; e vuol dondolarsi nell’infinito, da solo, a cavalcioni del piccolo frammento del tutto che è suo; e diventa un dio iroso e crudele, che cerca di annientare e nega tutto ciò che è fuori di lui: il potere, di cui non fa parte; la ricchezza, se non la possiede; la tradizione, se è un uomo nuovo; la scienza, se è un artista o un filosofo; la filosofia e l’arte, se è uno scienziato; la giovinezza, quando è vecchio: il futuro, poichè egli vive nel presente? Perchè laggiù ogni ingegno, appena è fatto adulto, vuol provare a sè e agli altri la sua forza nascente, facendo una strage? Precipitarsi su quanti accanto a lui lavorano lo stesso campo, come su nemici mortali? Assalire le dottrine tutte che divergono dalle proprie, le scuole a cui non è ascritto, le tendenze da cui dissente, come se la varietà fosse un pericolo mortale nel regno del pensiero e della bellezza? No: noi Americani pensiamo che la verità è un tesoro nascosto, come l’oro della Vecchia Montagna che abbiamo visitata con l’amico Ferrero, nella dura roccia della ignoranza; che ogni uomo non può raccoglierne se non qualche pagliuzza con fatica infinita: perchè dunque rischiare di perdere l’oro, per rissare intorno al miglior modo di estrarlo, come voi fate? Noi vogliamo che lo spirito umano adorni il mondo con quanta maggiore bellezza può; e troppo della bellezza rispettiamo ogni forma — diteci pur barbari per questo, o orgogliosi Europei — per non sentirci tenuti a lasciar tutte le arti e tutte le opere del genio umano esser belle a modo loro; per osar di sforzarle a una bellezza impossibile e di nostro capriccio. Se questa è barbarie, d’esser barbari noi siamo fieri, o uomini del vecchio mondo! La filosofia aveva per un istante sedati i moti del mare. E tutti prorompemmo, Europei e Americani, in applausi e grida di bravo! Questo soffio di profondo, sincero, universale amore del vero e del bello, che spirava dall’America, dal Brasile, dalla città adagiata in grembo alla foresta vergine, ci aveva tutti commossi. Ma gli applausi e le grida avevano interrotta la conversazione; e due camerieri, che da qualche tempo aspettavano in disparte, ne approfittarono, per entrar nel circolo, posare sul tavolo dell’oratore due vassoi carichi di bicchieri e accingersi a cavare i turaccioli di parecchie bottiglie di Champagne. Chi offriva era il signor Vazquez, un amico dell’Alverighi che viaggiava con lui. Era costui un uomo di cinquanta anni, piccolo e grassoccio; e apparteneva a quel ceto di ricchi possidenti argentini, intelligenti, industriosi, intraprendenti, che l’Europa così poco conosce e che da mezzo secolo, prevalendosi abilmente della copiosa immigrazione e del rincaro delle terre, vanno gettando un mantello di floride coltivazioni sull’immenso corpo della repubblica, ancor quasi ignudo mezzo secolo fa. Il Vazquez nella provincia di Mendoza possedeva terre accanto a quelle dell’Alverighi: e andava con lui in Europa per trovar mezzi a irrigarle e nel tempo stesso per tentare di aprire spacci di carne agghiacciata nei paesi dell’Europa continentale, che ancora si cibano di sola carne paesana. All’irrompere dei camerieri entro il nostro circolo parecchi si levarono in piedi; si alzò pure l’Alverighi e venne in mezzo a noi, mentre i camerieri incominciavano a mescere; ma lì fu subito aggredito di fronte, saettato da destra, bersagliato a sinistra.... La signora Feldmann gli dichiarò che aveva capito abbastanza bene, ma che la scena dello spettro, recitata da Mounet Sully alla Comédie Française, era meravigliosa; l’ammiraglio diceva che, a posto o fuori di posto, il famoso monologo era uno dei più bei squarci di poesia; la Gina difese Ofelia; il Cavalcanti cercò di spiegare con nuovi argomenti le contradizioni di Amleto.... E tutti parlavano con veemenza, quasi come chi ritorce un’offesa personale. — L’ammirazione di Shakespeare è proprio ormai una religione universale — pensai. Invano infatti il bersagliato critico cercava di rispondere a tutti, chè tutti parlavano ad una volta, l’uno troncando spesso con una nuova obiezione la risposta fatta all’altro. Stanco alla fine l’Alverighi si svincolò da quella ressa e voltosi al Vazquez alzò un poco il bicchiere che teneva in mano: — È proprio squisito — dicendo in spagnuolo — questo vino. Sorridendo il Vazquez mostrò di gradire il complimento: ma uno dei mercanti astigiani che, forse attratto dall’odore del vino, era comparso allora allora in mezzo a noi insieme con il dottore, rivolgendo il discorso in italiano all’Alverighi: — È eccellente — concesse. — Non lo nego: io conosco però del Canelli che non ha nulla da invidiare a questo.... Lei non ci crede? Già, perchè è un vino italiano! Ma glielo vorrei servire con una fiammante etichetta francese.... — Tutti i popoli — disse con fare sprezzante l’Alverighi — vogliono ora fabbricar dello Champagne: anche gli Argentini! È il solo prodotto cattivo dell’agricoltura argentina. — Insieme con la carne in gelo — aggiunse imprudentemente il dottore. Non l’avesse mai detto! Chè subito il Vazquez e l’Alverighi protestarono la carne agghiacciata essere la migliore del mondo; e se ne accese una discussione, che in pochi minuti divampò furiosa. Anche Shakespeare fu messo in disparte! E chi sa quanto tempo la nuova discussione avrebbe durato, se per fortuna ed in buon momento, inflettendosi d’improvviso a babordo, la nave non avesse fatto barcollare i disputanti e ruzzolar dal tavolo sul pavimento due bicchieri. Al rumore che fecero i cristalli infrangendosi ci voltammo tutti; l’ammiraglio uscì per dare un’occhiata al tempo; il mercante astigiano e qualcun altro lo seguì; la signora Feldmann ritornò a sedersi; gli altri a poco a poco la imitarono, tranne l’Alverighi che rimase in piedi, appoggiato e mezzo seduto sul tavolo, con le braccia conserte; e dopochè l’ammiraglio ritornando ci ebbe annunciato che ne avremmo sino all’alba, la discussione ricominciò per iniziativa del Rosetti, che sino ad allora non aveva aperto bocca. — Io desidererei sapere — egli disse — una cosa: se lei ammira, sì o no, «Amleto». Perchè questa è la sola cosa che non ho capita. Ieri lei ha sostenuto che New-York è la più bella città del mondo; questa sera ci dice che la sua architettura può essere raffrontata a un dramma shakespeariano; ma dopo aver fatto una critica spietata di questo dramma. Se «Amleto» è un brutto dramma, anche New-York dovrebbe essere una brutta città, mi pare.... Il Rosetti, che aveva davvero capita l’argomentazione dell’Alverighi, la colpiva in una congiuntura vitale. Ma l’Alverighi sorrise con un fare sicuro, come chi ha pronta la risposta: — Benissimo, ci siamo — egli disse, incrociando le braccia. — Lei ha ragione: questo è il punto capitale. Il signor Cavalcanti cita come esempio l’americano che ammira le due forme opposte dell’arte, quando ci sono, mentre l’europeo ne ammira una e disprezza l’altra; io penso invece che ciascuno deve esser libero di far quel che gli piace: ammirarne una sola, tutte e due, nessuna. Ieri sera ho sostenuto che New-York è la più bella città del mondo, così, per spirito di contradizione: ma riconosco che chi voglia può sostener l’opposto con argomenti egualmente buoni. E qui si volse al Cavalcanti. — Io le chiesi ieri sera in nome di qual principio o criterio lei poteva affermare che New-York è brutta. Orbene: ci vuol poco a vedere che questo principio o criterio non c’è: che di un’opera d’arte si può dimostrare quel che si vuole, che è bella e che è brutta, che è un capolavoro ed un orrore. Per esempio: uno scrittore è limpido e chiaro? Se lo voglio vilipendere, lo accuserò di essere superficiale, dozzinale e giornalista. Uno scrittore è oscuro? Dirò che è profondo, trascendente, pieno di sensi arcani, se lo voglio ammirare. Viceversa: se un poeta, se un romanziere, se un musico profondo quanto l’Oceano che traversiamo, mi è a noia, chi mi potrà impedire di accusarlo di esser pesante, oscuro, involuto? Il carattere di Amleto è oscuro e contradditorio, dico io. Ma che!, mi risponde lei. È profondo. La prima scena di «Amleto» è superflua, io dicevo, anzi dannosa, perchè smorza l’effetto della scena seguente, in cui lo spettro del padre apparisce al figlio. Lei mi ha risposto: anzi l’accresce, preparandola: è quindi necessaria. L’ultima scena del secondo atto è difettosa, perchè, aggiungevo io, non è preparata. Anzi, mi ha replicato lei, perchè non preparata, sorprende e quindi commuove maggiormente il lettore. Nel ragionamento mio la preparazione una volta era un difetto e una volta un pregio: nel suo invece inversamente era un difetto e un pregio l’impreparazione. Ieri sera ci accapigliammo per New-York e Parigi, come stasera per «Amleto»: ma è chiaro che in tutte le arti, l’armonia della composizione, la studiata proporzione delle parti può esser tacciata di compassata freddezza: viceversa, un’arte impetuosa, traboccante, ineguale può esser giudicata barbarica, lutulenta, grossolana. Petrarca e Victor Hugo: Racine e Shakespeare: Parigi e New-York. Insomma chiunque abbia un po’ di cervello non è mai a corto di buone ragioni per dimostrare che quel che gli piace è bello e quel che gli dispiace è brutto. Ne vuole una ultima prova? Ho qui la traduzione dello Shakespeare fatta dal Rusconi; alla fine di ogni tragedia c’è il giudizio degli Schlegel: stia a sentir che cosa dicono di «Amleto». — Roba vecchia, gli Schlegel! — interruppe il Cavalcanti. — Se lei cerca il vero Shakespeare negli Schlegel! — Poco importa — replicò l’Alverighi. — Ogni critico che sopraggiunge crede di esser lui il primo a capire e a scoprire il suo autore; per me valgon tutti egualmente, cioè zero; ma in questo caso c’è un fatto che non è una opinione: ed è che gli Schlegel sono stati i grandi impresari della gloria di Shakespeare in Europa, un secolo fa. Stia dunque a sentire quel che dicono cotesti signori. «L’Amleto è unico nella sua specie: è la tragedia del pensiero. Ispirata da meditazioni profonde e non mai compiute» (cioè, direi io, senza capo nè coda) «sul destino umano e sulla buia confusione degli avvenimenti terrestri, essa eccita le medesime meditazioni nell’animo dello spettatore. Un’opera tanto difficile somiglia a quelle equazioni irrazionali che non si possono mai sciogliere, e in cui resta sempre una frazione di grandezza sconosciuta». Non esprimerebbe lo stesso pensiero, ma nella forma inversa, chi dicesse che la tragedia è spropositata, incomprensibile e assurda? Continuiamo. «Nessun pensatore che lo esamini potrà concordare interamente con quelli che lo precedettero nella sua maniera di considerare il senso di ciascuna parte e la loro congiuntura». In altre parole: oscurità e imprecisione. «Ciò che sopratutto deve recar meraviglia è, come un’opera, ove son tanti disegni nascosti e la cui base giace in tanta profondità, sembri fatta, a prima giunta, per piacere alle moltitudini». Un nemico direbbe che «Amleto» è un drammaccio da arena diurna, lardellato a caso di tirate filosofiche. E lo dice anche il nostro critico, sul finire del giudizio, ma a modo di elogio, perchè a lui questo pasticcio indigesto di fattacci sanguinari e di filosofia fuori di posto, gli piace! «Il poeta si perde con il suo eroe in un labirinto di pensieri che non hanno nè capo nè fine, e il cielo medesimo sdegna di rispondere, per mezzo degli avvenimenti, alle domande che gli vengono rivolte.... I colpevoli è vero, sono alla fine puniti, ma solo per una specie di caso....» Cioè le azioni e i discorsi sono nel dramma egualmente incoerenti ed assurdi. Chi si contenta, gode! E chiuse il libro di colpo. Il Cavalcanti tacque un istante, quasi per accertarsi che l’Alverighi aveva finito; e quindi: — Ebbene? E ne conchiude?.... — interrogò, breve e tranquillo. — Che cosa conchiudo? — replicò un po’ impazientito l’Alverighi. — Ma quante volte lo devo ripetere? Ne conchiudo che quella che noi chiamiamo la bellezza delle cose non è una loro qualità intrinseca ma una nostra opinione; e che quindi non c’è autorità al mondo che possa decidere se New-York è bella o è brutta.... Il Cavalcanti si strinse nelle spalle e: — Perchè i nostri ragionamenti sul bello — disse — sono fallaci? Ma lei dimentica, mi pare, che l’arte è un sentimento, non una idea o una teoria. Volgendo a caso in quel momento gli occhi, vidi la signora Feldmann che, appoggiato il gomito destro sul ginocchio, reclinata la fronte sulla palma della mano, le aveva fatta del braccio colonna; e l’ammiraglio la guardava. Intanto il Cavalcanti continuava. — Non le è mai capitato, vedendo un quadro, ascoltando una musica, leggendo una poesia, osservando un paesaggio, impreparato, non prevenuto, sgombro da ogni preconcetto, di sentirsi prorompere dal fondo dell’anima il grido: quanto è bello! Non ha anche lei provata, davanti al camposanto di Pisa, al colonnato di San Pietro, guardando l’«Amor sacro e profano», leggendo una lirica di Victor Hugo, una gioia, una delizia, un rapimento, quasi un breve delirio di piacere, pronto, impensato, intimo, spontaneo, liberissimo? Ma la bellezza, è quella; è quel non so che, che nelle opere d’arte, in certi oggetti della natura, ha la virtù di suscitare in noi, immediatamente, questo fremito di piacere. Lei stesso del resto dicendo che bello è quel che piace, non ha forse ammesso che la piacevolezza è l’essenza dell’arte? Lei mi chiederà perchè questi oggetti e queste opere hanno questa virtù. Mistero! In che consiste propriamente questo piacere? Mistero! Ma il piacere che noi proviamo non è una illusione; chiunque ne può far fede: è una delle poche cose di cui noi possiamo esser sicuri, appunto perchè è un sentimento: perchè noi non conosciamo la vita se non in quanto la sentiamo.... Il ragionamento può chiarire o annebbiare il sentimento del bello, come ogni altro sentimento; non può nè generarlo nè spegnerlo. Ragionate quanto volete; il piacere che io sento davanti alla Venere di Milo, lo sentirò sempre. E sinchè lo sentirò se altri ragiona, argomenta, sofistica il pro ed il contro intorno alla bellezza di Venere, pazienza! La autorità, io la porto dentro di me, infallibile! Lei è un filosofo; e non occorre che queste cose gliele spieghi a lungo.... — Io non sono un filosofo, sono un uomo che non ha tempo da perdere, neppure a bordo del «Cordova» — replicò un po’ brusco l’Alverighi. — E perciò, senza tante circonlocuzioni, le dico: siamo d’accordo: il bello è un quid che ci dà un piacere, quasi direi per immediato contatto.... Ma che piacere è questo piacere? «That is the question», come dice proprio Amleto; e io non mi contento di rispondere, come fa lei: mistero! Io mi domando: è forse quel piacere che nasce dal bisogno? No. Un bisogno innato o acquistato per abitudine è anch’esso un quid che genera piacere e dolore: piacere quando è soddisfatto; dolore quando non è soddisfatto. Ora l’arte ci dà piacere quando la possiamo godere, ma non soffriamo invece, quando ci manca: quindi non è un bisogno; e per questo anzi gli uomini la amano tanto, perchè può esser fonte di piacere sempre, di dolore mai. Non le pare? Il Cavalcanti mi parve esitare. — Se però — osservò con una certa titubanza — lei leva di mano a un grande scultore il suo scalpello, o chiude in carcere un poeta senza penna e carta.... — No, non intendo questo.... All’artista che crea, l’arte è lo strumento della propria bravura: ne ha dunque bisogno, come il banchiere ha bisogno di denaro e il maestro di equitazione di cavalli.... Io parlo di chi gode l’arte. Supponga un uomo che sia ammiratore fervidissimo di Dante e nello stesso tempo arrabbiato fumatore come è, mi pare, il signor Rosetti; e che sia condannato al carcere per sei mesi con l’alternativa: o senza sigari o senza Dante.... Che cosa sceglierà? Ridemmo tutti; e il Rosetti osservò scherzosamente che il fumare era più che un bisogno, era un vizio! — Altra prova — continuò l’Alverighi. — Che cosa si giudica in arte: la qualità o la quantità? Il giudizio estetico è il giudizio qualitativo per eccellenza: non tiene conto mai della quantità: sempre, dovunque, in ogni arte una cosa bella avrà più pregio che cento brutte. Ma chi non sa che l’uomo discerne e gusta meglio le qualità delle cose, a mano a mano che glie ne scema il bisogno? Più ho fame, e meno fo differenza tra un rozzo pan di soldato e il più prelibato pasticcino: anzi vorrò piuttosto un grosso pane di soldato che uno squisito ma minuscolo pasticcino. Se nell’arte noi giudichiamo solo la qualità, se non teniamo mai conto della quantità è chiaro che non ne abbiamo bisogno. L’arte è dunque un piacere senza bisogno: ne gioisco, quando posso goderne, non soffro se ne son privo. Siamo d’accordo? Infervorato nel suo discorso, l’Alverighi non si accorgeva che oltre il Cavalcanti, solo il Rosetti, impassibile come sempre, stava attento: gli altri non più, parte perchè un poco affaticati dalla sottigliezza di queste ultime controversie, parte perchè distratti dai movimenti della nave e dalla signora Feldmann, che si era di nuovo ridrizzata e sulla cui faccia si leggeva la stanchezza che precede il sonno. Non appena quindi il Cavalcanti ebbe assentito, senza badare agli altri, parlando a lui, subito l’Alverighi continuò: — Appunto perchè l’arte è un piacere senza bisogno, un piacere disinteressato e libero, il piacere dell’arte è incerto, vago, nebuloso. Quando ho fame e mangio, sono sicuro che il mio pane è squisito. Il piacere che provo quando appago un bisogno è così intenso, che non dubito di quel che sento. Quanti dubbi invece, quando cerco di accertare che sorta e qualità di piacere certi oggetti e certe opere dell’uomo suscitano in me, perchè sarebbero «belle»! A certi momenti lo sento, quel piacere, a certi altri no, e questo mutamento non riesco a capire da che dipenda; qualche volta invece dubito se lo sento o non lo sento; mi par di sì, mi par di no; faccio uno sforzo per chiarire me a me medesimo e non ci riesco. Non di rado m’accorgo che non sono d’accordo con i miei simili: talora lo sento io e i miei amici, no; o viceversa. Lei mi dirà che occorre chiudersi in sè; intrinsecarsi, come diceva un mio vecchio professore di filosofia; ma quanti sono gli uomini capaci di ammirar soli una opera d’arte, disprezzata da tutti gli altri? Urtata dall’altrui disparere, l’opinione mia vacilla; ho bisogno di puntellarla; e come posso puntellarla, poichè il sentimento è oscuro, se non ragiono? Ed ecco che l’incertezza del sentimento mi spinge a cercar di ammirare per ragionamento. Inquieto e scontento, afferro la lampada della ragione e con quella scendo nel fondo tenebroso della mia coscienza, per illuminare me stesso, a sapere se veramente quel che sento è bello! Disgraziatamente la ragione si burla di me; la sua lampada gira di continuo e mi confonde gli occhi con un barbaglio saltellante di ombre e di luci; le sue risposte sono ambigue come quelle della Sibilla; io non capisco più nulla.... — Mi pare che l’onda si faccia più grossa, — disse a questo punto, sottovoce, la signora Feldmann all’ammiraglio, aprendo a fatica gli occhi ormai quasi socchiusi dal sonno. L’ammiraglio la guardò: le mormorò qualche parola all’orecchio; si volse a guardare il Cavalcanti.... Avrei detto che stava per levarsi e interrompere la discussione; quando il Rosetta mosse una breve domanda: — Ma quale sarebbe allora, secondo lei, l’ufficio della critica? — Critica ed estetica? — rispose l’Alverighi. — Ma sono mestieri buoni per i ciarlatani, i quali hanno la faccia tosta di dare ad intendere che essi sanno ciò che è bello e ciò che è brutto.... Ma a questo punto l’ammiraglio ruppe gli indugi, perchè la signora Feldmann cascava dal sonno. Trasse l’orologio e: — Signori, — disse, — sono le undici e mezzo. Non abusiamo della pazienza di queste signore. Abbiamo due settimane di tempo per terminar questa discussione. Ci levammo tutti; ma l’Alverighi raggiante di gioia. Gli si leggeva in faccia l’esultanza di aver potuto finalmente sfogarsi, e vittoriosamente sfogarsi: perchè egli era rimasto, sino all’ultimo, padrone del terreno. Scendendo infatti la scala dietro l’ammiraglio, che dava il braccio alla signora Feldmann, lo udii dirle: — Eppure, pur troppo, è così, signora: in Brasile lei incontra già qualche giovane che giudica New-York più bella di Parigi. Non sono molti, no, ancora, ma.... E non aggiunse parola. La signora sbadigliò. VI. — Ma perchè doveva nascer proprio in quella testa e a Rosario, sulle sponde del Paranà, questa idea? — mi chiedevo, poco dopo, spogliandomi. E nella piccola cabina rivedevo con gli occhi della mente il magno fiume fluir lento e giallo, sotto il grande arco azzurro del cielo, nella pianura solitaria, tra le sponde lontane e basse, verdi e deserte, a destra e a sinistra. Che l’Alverighi avesse ragionato meco a lungo, sulle rive del Paranà, delle ricchezze dell’America e del progresso del mondo, non mi meravigliava: strano invece mi pareva che avesse ragionato, e non male e originalmente, dell’arte e della bellezza a bordo del «Cordova». Poichè tra le molte e bizzarre cose dette da lui quella sera, una verità, risplendeva allora, a ripensarci, così semplice e così luminosa ai miei occhi, che non potevo capacitarmi come a nessuno fosse venuta in mente prima che a lui. Invano infatti frugavo nei ripostigli della memoria, se per caso qualche gran luminare della filosofia paesana o straniera non l’avesse già scoperta da un pezzo: no, in nessun libro antico o moderno mi era accaduto mai di leggere un simile pensiero: eppure era vero, verissimo, che l’arte è un piacere senza bisogno, di solito incerto, vago, malsicuro, oscillante: che oggi lo sento, domani no: che all’uno pare, all’altro non pare: che va e viene misteriosamente: e gli uomini invano si sforzano di precisarlo, di chiarirlo, di metterlo in comune con il ragionamento, spiegando e giustificando altrui quel che sentono e perchè lo sentono. E vero era anche che di ogni opera d’arte la ragione può dimostrar quel che essa vuole: che non ci è mezzo alcuno di definire tra due contendenti ostinati nessun litigio intorno al bello ed al brutto.... Spensi il lume e ripensai a lungo a queste cose: e a poco a poco, la gloria di tanti capolavori ammirati, il ricordo del piacere ricevuto da tante opere del genio umano, i canoni e i principii d’arte professati di solito con prepotente alterigia parvero sciogliersi in una ondeggiante incertezza, che si distendeva come una nebbia sulla faccia del mondo, confondendo ogni cosa. Effetto forse, non dei soli discorsi dell’Alverighi, ma anche, dell’ozio senza rimorsi che mi ammolliva, e del vino offerto copiosamente dal Vazquez; chè il vino sembra aver su me lo strano potere di affievolire la certezza dei pensieri più saldi, di distaccarmi quasi direi dalla realtà delle cose, di incalzare la mente all’infinito di perchè in perchè verso l’introvabile ultimo appoggio e sostegno di tutte le cose! — No, — conchiusi anch’io — noi non possediamo nessun metro per giudicare la bellezza delle cose: tutte le misure che crediamo di avere fabbricate sono fallaci, soggettive, illusorie. Bello è quel che piace. L’arte non contiene altra verità che questo vago, mutevole e soggettivo piacere senza bisogno.... La formola è ingegnosa, anche se viene da Rosario.... Il mattino dopo, quando, verso le otto e mezzo, uscii dalla cabina il mare era calmo e il tempo sereno. L’ammiraglio aveva indovinato. Ma il ponte era ancora deserto. Il «Cordova» era un vapore piccolo a paragone dei moderni colossi oceanici: stazzava meno di cinquemila tonnellate e non poteva ricevere più che settanta passeggeri di classe, come si dice nel gergo marinaresco; anzi in quel viaggio ne ospitava soltanto una trentina. Poca brigata, quindi, e vita, se non beata, tranquilla: scarso il giuoco e poco rumoroso: raramente protratte oltre le due del mattino le veglie: innocente e languido il corteggiare. Passeggiai un po’ di tempo, solo, ripensando alle discussioni del giorno prima, alle mie farneticazioni della sera: poi entrai nel refettorio dove l’Alverighi faceva colazione, mentre i camerieri, in giacca di tela bianca, ordinavano la sala. — L’America si è fatta onore, ieri sera — dissi scherzando. E non senza una punta di ironia, gli chiesi come, in mezzo alle sua faccende, a Rosario sul Paranà, nei suoi vagabondaggi attraverso l’Argentina avesse ancora avuto il tempo e la voglia di meditare sul bello assoluto, sui bisogni che generano piacere e sui piaceri senza bisogno.... Sorrise furbescamente; e: — Io? — disse. — Ma queste cose le ho imaginate tra venerdì sera e sabato mattina.... Laggiù, non ho tempo.... Ma venerdì sera mi stizzì di sentirvi tutti a dire che New-York è brutta, brutta, brutta! Sarebbe poi la fine del mondo, anche se fosse brutta? La mangiamo noi forse, la bellezza? E ho voluto mettervi tutti nell’impaccio.... Ora a voi saltarne fuori. Ma quanto è facile fare una teoria filosofica! Se fosse così facile far dei milioni! In terra ferma non avrei lasciata passar senza protesta questa uscita. Ma l’ozio senza rimorsi mi ammolliva: feci vista di non sentire; e continuai a scherzare: quando a un tratto deviando il discorso: — A proposito, — disse — sa che quel signor Rosetti è un uomo intelligente? Abbiamo ragionato ancora un po’ prima di andare a letto; e mi pare che siamo d’accordo.... Lei lo conosce, credo.... Gli raccontai allora in succinto la vita del Rosetti. Nato a Forlimpopoli in Romagna, nel 1840, era stato preso nel 1860 dalla prima leva militare che il governo italiano aveva indetta negli Stati pontifici, e mandato a servire a Torino, nell’arma del genio, nella vecchia caserma di via dell’Arcivescovado, dove aveva conosciuto mio padre, che anch’esso allora serviva. Aveva potuto, pur servendo, iscriversi nella scuola di applicazione, e, nel 1865, poco dopo essere stato congedato dall’esercito, si era laureato ingegnere; ma subito era stato chiamato dal governo argentino che allora cercava in Italia professori per la sua nuova Scuola Politecnica; e a Buenos-Aires, per venti anni, dal 1865 al 1885, aveva insegnate le scienze fisico-matematiche nel Politecnico e la fisica nel Collegio Nazionale; avendo a scolari quasi tutti gli uomini che oggi governano l’Argentina, e compiendo importanti lavori di ingegneria. Aveva dunque potuto accumulare un ragguardevole patrimonio, e a quarantacinque anni ritornare in Europa, riccamente pensionato dalla gratitudine del governo argentino; disporre la sua vita con decorosa e signorile semplicità — una casa a Milano, una bella villetta a Bellaria, presso Rimini; — e poi darsi liberamente agli studi, aggiungendo alle matematiche e alle scienze fisiche, la storia, l’archeologia e la filosofia; leggendo libai di ogni qualità e sopratutto meditando per conto suo, fuori degli interessi mondani e delle dotte congreghe, sugli uomini e sulle cose del mondo. Io l’avevo conosciuto a Milano, nel 1897, — il Rosetti era cognato di Ernesto Teodoro Moneta: egli mi aveva voluto bene ed io lo avevo ricambiato di pari affetto, ammirandone la profonda bontà, la dolcezza e serenità imperturbabili, la incomparabile semplicità e saggezza, e quel sapere egualmente schivo di fare sfoggio o commercio di sè.... — È uno degli italiani — conchiusi — che hanno fatto maggiormente amare e rispettare l’Italia laggiù. Ed è un filosofo, ma a modo suo e d’altra specie che tutti noi uomini di pensiero e di penna. Noi viviamo ormai sulle nostre idee come il pastore sul suo gregge e dobbiamo mungerle ogni mattina e tosarle ogni tanti mesi. Egli invece è libero e disinteressato.... — Quanto è grande la virtù dell’America! — esclamò subito, pettoruto, l’Alverighi. — Lo vede? Perchè se fosse rimasto in Europa, sarebbe anche lui, oggi, un animale da soma o da tiro, in qualche pubblica amministrazione. E poi dicono in Europa.... — Tacque un momento, e quindi: — Abbiamo ragionato un po’ anche della discussione di ieri sera, prima di andare a letto. E mi ha dato ragione.... Anzi sa come mi ha proposto di chiamare i giudizi estetici? Rovesciabili. Mi ha detto che di ogni opera d’arte si può dimostrare quel che si vuole, perchè i giudizi estetici sono tutti rovesciabili. Sicuro. La formola mi piace. Il bello e il brutto si possono capovolgere l’uno nell’altro come si vuole: ogni pregio può diventare un vizio ed ogni vizio un pregio, purchè il ragionamento lo rovesci. Ben trovata, per Bacco! Mi domandò infine come mai il Rosetti si trovasse sul «Cordova». Gli spiegai che ritornava in Argentina ogni due o tre anni per certi suoi interessi; e che questa volta aveva aspettato il «Cordova» per far da Rio a Genova il viaggio con me. Lasciato che l’ebbi, e non avendo trovato nessun conoscente, oziai sino all’ora di colazione per i due ponti, leggicchiando, guardando il mare, rimuginando questi pensieri, chiacchierando con i passeggeri, che a poco a poco uscivano dalle cabine, tutti ormai in abiti estivi. Mi fu dato così di udire il Levi, il mercante di gioie, dir nel vestibolo della sala da pranzo a tre signore: — Sicuro, pare che sia proprio la moglie di un miliardario. L’avevo detto io del resto.... se ne ricorda lei?... venerdì sera. Già noi gioiellieri.... Dateci le perle o i diamanti di una donna e vi diciamo subito chi è! Parlavano della signora Feldmann, naturalmente, e sognavano: perchè il Feldmann era, sì, un abilissimo finanziere e direttore di una potentissima, banca di New-York, un uomo denaroso, quindi; ma non avevo inteso nessuno a New-York assegnargli uno di quei patrimoni giganteschi del nuovo mondo, che gli uomini del vecchio si compiacciono di ingrandire ancora in imaginazione, forse per consolarsi della piccolezza dei propri averi! Ma non mi stupii che la mia tacita predizione del giorno prima si avverasse. Altre storielle incominciavano a girare per il vapore; poco prima di colazione, la moglie del dottore e la bella genovese mi dissero, serie serie, che le calze che la signora Feldmann portava costavano mille lire il paio! A colazione così il Cavalcanti come il Rosetti mancavano; e ci perdemmo in discorsi frivoli. Dopo colazione e prima della siesta, mentre fumavamo, trassi in disparte l’ammiraglio e gli raccontai quel che si diceva sul conto della signora Feldmann. Si mise a ridere, e: — Non le sembrano, tutta questa gente, dei bambini con tanto di barba che giocano: questa pantofola è un cannone, questa granata una principessa, questa seggiola un palazzo? Tacque un istante, poi repentinamente: — Signor Ferrero, — disse — da venti anni il mondo non gira più sul suo asse antico; noi non ci raccapezziamo più.... Le ricchezze dell’America hanno fatto dar di volta ai cervelli.... Turbato tutto nel mondo: l’equilibrio delle fortune, come l’equilibrio delle idee.... Ha veduto, ieri sera? Piuttosto di ammettere che New-York è una brutta città, quell’avvocato è pronto a dar fuoco al mondo intero! Perchè l’America è ricca, New-York non può essere brutta. Ma io mi guardo intorno trasecolato. Nessuno dunque si ricorda più che gli uomini sentono di appartenere a una nazione, perchè parlano la stessa lingua, leggono nelle scuole gli stessi classici e ammirano gli stessi grandi uomini? Dove andremo a finire se il primo venuto può dire che la scultura greca è brutta e New-York bella? C’è forse nazione senza storia e senza letteratura? I grandi uomini sono i nostri santi, oggi: chi vuol dare a ogni uomo la libertà di giudicare come gli piace i capolavori dell’arte e della letteratura, semina l’anarchia! Mi volsi a guardare il mio interlocutore non senza meraviglia. Come mai un ammiraglio — e americano e così taciturno di solito, per giunta — pensava e diceva con tanta semplicità delle cose così inaspettate e profonde? Erano tutti filosofi, a bordo del «Cordova», anche gli ammiragli? Non dissi nulla; ma ripensai a queste gravi parole cascate come dal cielo, durante la siesta.... E subito caddi in un dubbio grande e forte.... Come imporre a tutti il giudizio medesimo, quando manca un criterio universale del bello? Dubbio così forte che, non potendo scioglierlo, lo esposi verso le cinque al Cavalcanti sul ponte di passeggiata a babordo. Fremente a perdita di vista di piccole onde bianche, l’Oceano già deponeva, all’avvicinarsi della sera, il fulgente velo del pomeriggio, incupendo; lo splendore del giorno pareva salire in alto, raccogliersi negli spazi celesti, ripieni di una gioconda serenità, sfolgoranti in ogni parte di nuvole chiare, rosse, dorate: appoggiati alla ringhiera noi discorrevamo, a voce bassa, sotto il vento che a intervalli soffiava vigoroso sui nostri capi, tacendo ogni tanto per guardare, tra quella luce che s’incielava e quell’ombra che affondava nel mare, la solitudine delle acque, che defluiva come un fiume alla nostra sinistra. Il Cavalcanti ascoltò i miei detti; poi: — Certo — disse — ammirar la bellezza di un’opera d’arte vuol dire sentirla; e chi la vuol sentire davvero, non deve ragionare troppo. L’ammiraglio dice bene; e l’avevo detto anche io, ieri sera, con parole diverse. Tuttavia non posso non riconoscere — per quanto ieri sera l’abbia combattuto — che anche l’avvocato ha ragione, in una certa misura. L’uomo è naturalmente trascinato dai suoi infiniti dispareri intorno al bello a cercare le ragioni di quel che sente: e allora incominciano i guai. A furia di voler scavare e frugare sotto le fondamenta della casa in cui viviamo, per vedere se posano sul solido, noi rischiamo di far cascare la casa: lo so. Ma come si fa? L’uomo ha bisogno di sapere. E poi frugando e scavando scopre tanti tesori nascosti.... Il Cavalcanti tranquillava le sue inquietudini con il comodo aforisma di cui tanto usa ed abusa l’ottimismo moderno: l’universo si controbilancia! Ma non rassicurò me. Pensai che ci sarebbe stato tanto ma tanto da ridire su questo argomento! Ma impegnare una discussione ripugnava alla mia crescente pigrizia: e ci rinunciai! Un soffio di vento si precipitò tra di noi sibilando, ci assordò, disperse le nostre parole, sembrò quasi strapparci l’uno dal fianco dell’altro; sinchè mugolando si perdè sul mare inquieto. Parve allora a noi come se ci accostassimo di nuovo l’uno all’altro, ma un po’ storditi dalla raffica non ripigliammo subito il discorso. Il Cavalcanti contemplava silenzioso il mare; poi facendo con il discorso un salto repentino: — Acqua, nuvole, vento! oggi come ieri, come domani, come sempre — disse accennando l’orizzonte. — Sempre quel circolo chiuso, eguale a sè medesimo in ogni parte, tutto instabile e mobile! Non pare anche a lei che l’Oceano impicciolisca in quel circolo? Curioso fenomeno, però! L’acqua anima tutti i paesaggi terrestri, perchè è il principio mobile in mezzo alle forme immutabili delle montagne e delle pianure. Ma nell’Oceano, quando le forme immote della terra sono uscite dalla vista, questo muoversi incessante delle onde rassomiglia all’eterna immobilità di un deserto. No: l’Oceano non è una immensità viva, ma una solitudine morta, perchè muta sempre e non v’è nulla in esso che resti immutato. Tacemmo di nuovo: piccoli soffi di vento svolazzavano intorno a noi; le nuvole si accendevano nell’alto dei cieli di fiamma più viva e il deserto del mare maggiormente incupiva; dalle terze classi giungevano dei canti, che il vento poi disperdeva. Mi voltai. Il ponte era vuoto; un ufficiale lo attraversava frettoloso; poco lungi da noi, un marinaio lento e senza rumore spennellava di bianco il tetto. Raccontai allora al Cavalcanti che meraviglia avessi provata a sentir l’ammiraglio filosofare a quel modo. — Ma non ne indovina la ragione? — mi chiese, sorridendo, il Cavalcanti. — Su via, rifletta un poco, lei che è stato a Rio.... L’ammiraglio è un comtista! Osservammo allora che c’erano a bordo parecchi passeggeri provvisti di studi e cultura; il che trasse me a parlar del Rosetti e a ripetere al Cavalcanti ciò che avevo già raccontato la mattina all’Alverighi. Indi il discorso trapassò agli altri compagni di viaggio. Il Cavalcanti li teneva tutti d’occhio: nè me ne meravigliai, perchè l’osservar mosse e figure era per lui che scriveva romanzi un passatempo gradevole e un buon esercizio. Parlammo dunque dei mercanti astigiani prima e poi di quella giovane coppia che avevamo incontrata sul ponte la prima sera, lui grassoccio, piccolo e bruno, lei magra, alta e bionda. Il Cavalcanti mi raccontò che il giovane era un argentino di Tucuman, recatosi tre anni prima a studiare ingegneria nell’Università d’Ithaca.... — Nello Stato di New-York? — interruppi. — E che bisogno aveva di correre fin lassù per imparare a fabbricar delle case? — Glielo ho chiesto anche io, ieri. Abbiamo conversato insieme una mezz’ora, in inglese. E sa che cosa mi ha risposto? Gli Stati Uniti sono il paese che negli ultimi trenta anni ha trionfato nelle industrie e negli affari.... Ripensai alla frase dell’ammiraglio: «il mondo da venti anni non gira più sull’asse antico....», mentre il Cavalcanti continuava a raccontarmi che il giovane, andato in America a cercare il sapere, ci aveva intanto trovata una moglie: una giovane, che essa pure studiava ad Ithaca. Ritornavano allora a Ithaca, dopo aver fatto visita alla famiglia di lui. Trapassammo infine alla signora Feldmann. Io gli riassumetti ciò che essa mi aveva raccontato di New-York; e gli dissi di non poter capacitarmi che fosse maritata da ventidue anni. Egli mi rispose che, avendola vista solo qualche volta, lei e suo marito, a Rio, a ricevimenti, poteva dirmi solo che aveva una figlia maritata e doveva esser più vicina ai quarantacinque che ai quaranta. Quando ad un tratto: — Che gatta ci covi, come dite voi Italiani? — esclamò. — Suo marito è sparito da Rio all’improvviso, tre mesi sono; lei è partita da un giorno all’altro, come chi scappa.... Se no, non viaggerebbe sul «Cordova». E poi, per qual ragione ieri la signora le ha fatto tante domande intorno ai divorzi americani? Non vorrei che lei, senza saperlo, le avesse suggerito il modo di sciogliere alla chetichella le catene coniugali.... — Per questo non c’è pericolo — risposi. — Ho esagerato, ieri sera.... Dei divorzi a quel modo se ne fanno in America, tra gli immigrati, randagi e mezzo anonimi. Ma una signora appartenente alle alte classi.... Non credo che potrebbe evadere dalla prigione del matrimonio per quella via.... — Davvero? — chiese il Cavalcanti. — A ogni modo interrogherò il Guimarâes. L’ammiraglio deve sapere: è amico intimo della famiglia.... Così favellavamo sul ponte deserto, chini sul fiume Oceano, tra i soffi intermittenti del vento che ogni tanto pareva strapparci di bocca le frasi e i pensieri, per disperderli in furia, simili a foglie, sulle mobili onde del mare. Ma a questo punto il Cavalcanti si ricordò che a quell’ora ignorava ancora quanto cammino la nave avesse percorso il dì precedente. Andammo dunque a tribordo, dove cinque o sei passeggeri giuocavano, strillando e ridendo, alle piastrelle: leggemmo sull’apposita carta geografica che in quel giorno, a mezzo del giorno, eravamo giunti a 16 gradi e 4 minuti di latitudine, cioè all’altezza di Sant’Elena e a 37 gradi e 22 minuti di longitudine: facemmo alcuni giri intorno al ponte; e già stavamo per lasciarci, quando alzando gli occhi verso ponente: — Guardi, guardi, Cavalcanti, — gridai, — laggiù all’orizzonte! Le Alpi! Il vento in quel momento taceva; e a ponente, dolcemente grigia sotto l’immenso rosseggiare del vespro, sorgeva dalle acque simile alle Alpi tante volte osservate — unica bellezza! — in Torino al tramonto dalla piazza d’Armi, una lunga catena di monti, dentata di punte, di picchi, di cuspidi senza numero, sormontata a sinistra dalla grande piramide aguzza di una montagna più alta: monti di nebbia e di fiamma, oscuri e lucenti, levatisi al soffio leggero del vento, per un’ora, sul confine del dì e della notte; catena sconosciuta, che nessuno dei piccoli uomini randagi sull’Oceano aveva salutata prima o saluterebbe dopo di noi; ultima frontiera della solitudine oceanica ed ultima tappa del sole nel suo viaggio solitario verso i regni della notte. Sorpresi, abbagliati, quasi commossi da quella sfolgorante illusione, apparsa all’improvviso sul mare e sul cielo, a ricordarci la terra, sostammo ammirando. Ed ecco, di nuovo, il vento soffiò sulla solitudine oceanica, lungo e tristo, e a quel soffio le prime stelle della sera, picciolette e timidette, palpitarono quasi accendendosi sull’estremo chiarore del giorno; e nell’ombra che da ogni parte avanzava, le lontane montagne e gli ultimi splendori del tramonto sfolgorarono più vivi; e per un momento l’anima mia rabbrividì di un fremito oscuro come se il vento spirasse, come se le stelle scintillassero, come se i fuochi del tramonto riverberassero dalle profondità dell’infinito. Poi il vento di nuovo tacque, di nuovo soffiò: di nuovo il giorno morente parve riaccendersi al suo soffio per oscurarsi poi al suo tacere; la catena delle misteriose montagne avanzarsi nella luce verso di noi e allontanarsi verso la notte, in cui doveva sparire. Contemplato a sazietà quel meraviglioso capriccio della luce e del vento, ci separammo per prepararci al pranzo. Ma uscendo dalla cabina, dopo essermi ripulito, incontrai finalmente il Rosetti, che non avevo ancora veduto nella giornata. Discorremmo un po’ della discussione della sera precedente: e mi confessò che dava ragione all’Alverighi, perchè tutti i giudizi estetici, il bello e il brutto sono rovesciabili; si possono capovolgere a piacere. Il che trasse me a mia volta a ripetere a lui quel che l’ammiraglio mi aveva detto: chi concede agli uomini la libertà di giudicare i capolavori della letteratura e dell’arte, semina l’anarchia. Ma il Rosetti mi guardò sorridendo; e: — Alla grazia, — disse — che paura! L’anarchia, addirittura! E perchè no la strage e il saccheggio? Già questi benedetti soldati! Appena mettono i piedi fuori dall’uscio della caserma.... — Se però i giudizi estetici si possono capovolgere — interruppi — ogni uomo dotato di intelletto potrà, mi pare, spregiare l’opera che altri considera un capolavoro, senza che si possa dimostrare chi ha ragione e chi ha torto. E allora ha ragione l’Alverighi: non vedo come si possa imporre nemmeno l’ammirazione di Dante o di Raffaello, in un’epoca che discute tutto liberamente, anche Dio.... — Ma Dio, poveretto, — mi rispose, sempre sorridendo, il Rosetti, — non dispone più nel mondo moderno nè di baionette nè di una cassa ben fornita. E senza oro e senza ferro, neppur Dio riesce a mantenersi in credito in mezzo a questa nostra perversa razza umana. L’arte invece.... — Ha delle baionette e dell’oro — di nuovo interruppi sorpreso — per mantenersi in credito? E quali? E dove? E quante? Ma in quella suonò la prima campana del pranzo. — Frattanto, — proseguì il Rosetti, — occorre andare a desinare. E tu sai che a tavola non mi piace di ragionare. Dopo pranzo, vedremo! Il pranzo fu queto e tranquillo. Il dottor Montanari si lagnò degli emigranti: consigliando quanti credono nella bontà del popolo a fare un viaggio transatlantico in terza classe.... Ci disse, tra altre cose, che tra quelle povere vittime della iniqua borghesia commesse alle sue cure «molti ce ne sono che hanno il portafoglio meglio fornito del mio, che sarei un grasso borghese!» Terminato il pranzo ci disperdemmo. Una mezz’ora dopo, l’Alverighi ed io passeggiavamo sul ponte fumando e godendo la notte; ed io gli riferivo le oscure cose che il Rosetti mi aveva dette prima del pranzo, quando ecco il Rosetti ci venne incontro. Si mise in mezzo a noi, passeggiando sul ponte; e fatti pochi passi si volse all’Alverighi. — Io vorrei — disse — porle un quesito a proposito delle cose dette da lei ieri sera, se lei me lo permette.... Lei ha dimostrato, ieri sera, che nè il sentimento nè la ragione non riescono a somministrarci una misura del bello che valga per tutti, che sia obbligatoria e universale....; e che quindi — questa conclusione non è sua, è mia ma spero che lei la approverà — è una prepotenza volere imporre agli altri il giudizio nostro su questa o quella opera d’arte. E la sua dimostrazione anche a me è parsa inoppugnabile, pur essendo semplicissima. Senonchè se, come lei dice giustamente, l’arte è un piacere senza bisogno, quindi non solo subiettivo, ma vago, poco sicuro, che va e viene, che si può sentire e non sentire, a seconda del temperamento, dell’educazione, del secolo, della generazione, del giorno, dell’ora, e perfino del minuto e dell’accidente, del caffè bevuto o del pranzo bene o mal digerito, se perciò è una prepotenza volere imporre agli altri la propria opinione: come spiega lei allora che ognuno pretenda che quel che sembra bello a lui debba parer bello a tutti gli altri, e voglia imporre altrui il giudizio che è così poco sicuro in lui stesso? Perchè, badi, io non voglio dire che così debba essere, come qualche filosofo dice e sostiene.... Io dico solo che così è: che, a torto o a ragione, gli uomini hanno anche questa ubbia. Si guardi dattorno, e se ne convincerà. Quante volte due persone che discutono intorno ad un’opera d’arte non finiscono di andar sulle furie? E invece di star ciascuno contento al suo parere, come sarebbe ragionevole, ognuno vuol che l’altro gli dia ragione, e lo compiange, lo canzona, lo maltratta, lo ingiuria; e qualche volta anche si sente pizzicare le mani; e una maledetta voglia di rompergli il capo, per versarci dentro la sua ammirazione. Della quale poi, se richiesto, non saprebbe render conto in modo soddisfacente.... L’Alverighi pensò un momento e poi: — Ma è naturale. I critici e gli esteti hanno tante volte detto o gridato che chi non ammira e non odia quel che ad essi piace e non piace, è un imbecille, che il pubblico, poveretto, si è inferocito. — La spiegazione è ingegnosa, — rispose il Rosetti: — ma un po’ vaga e semplice. Io vorrei, se mi permette, proporgliene un’altra. — E io son tutte orecchie. — Ieri sera — riprese il Rosetti — la discussione intorno ad «Amleto» fu per un momento interrotta da una discussione intorno alle carni agghiacciate dell’Argentina. Non rammento più chi disse che queste carni sarebbero cattive; e lei e il signor Vazquez protestarono. Dunque la stessa persona sosteneva che delle opere di Dante, di Sofocle o di Shakespeare si può pensare che sono brutte e belle; ma non voleva poi ammettere che si possano professare le due opinioni opposte intorno alle braciuole e ai filetti argentini. Il che, a parlare schietto, mi pare un poco strano. Perchè io riconosco, sì, che il sentimento del bello è incerto ed oscuro; ma non per ammettere che siano sicure e chiare le sensazioni del palato. Le ossa di Emanuele Kant fremerebbero nel sepolcro! Ora per qual ragione lei mi permette di giudicare a mio talento Shakespeare, e vuole invece poi impormi la sua opinione sulle braciuole argentine? L’Alverighi si mise a ridere. — La ragione mi par semplice e chiara.... Io ho delle _estancias_, e molte azioni di un grande _saladero_ di Buenos-Aires, in minor numero è vero del Vazquez.... Se tutti nel mondo saranno ghiotti delle carni dell’Argentina, noi guadagneremo molti quattrini.... Anche per questo, andiamo in Europa! — L’interesse dunque — rispose il Rosetti. — E non potrebbe succedere alcunchè di simile nell’arte? — Nell’arte! — esclamò stupefatto l’Alverighi. — Quello a cui io alludo non è forse un interesse solo — rispose il Rosetti: — ma sono molti e diversi interessi. Vediamo un po’. Innanzi tutto non c’è forse l’interesse nazionale? Ogni popolo mi sembra avere bisogno di ammirare un certo numero di scrittori e di artisti, per inorgoglirsi della propria grandezza. Non sarebbe forse questa la ragione per cui ogni Stato impone, con le scuole, l’ammirazione di certi classici? L’ammiraglio ha ragione: non c’è nazione nè patria senza una letteratura; e non esiste letteratura, senza glorie canonizzate ufficialmente. Ma non si ammirano, voi mi direte, soltanto opere d’arte paesane. È vero: ma perchè altri interessi ci muovono. Ammiriamo gli scrittori e gli artisti dei popoli amici, che ci possono aiutare; dei più forti, che si fanno temere: oppure ammiriamo scrittori e artisti forestieri pur di screditare scuole ed arti nostre più antiche, avversate per una qualche ragione, specialmente in tempi di guerre civili. La lotta tra il romanticismo e il classicismo, in Francia e in Italia, ne sarebbe forse una prova... Vi dirò di più: io credo che nel mondo dell’arte, possono molto anche gli interessi materiali. Ogni arte nutre molte persone; e queste devono sforzarsi di mantenere o di far venire in credito, come capolavori, certo opere, sotto pena di perdere il pane. Per esempio: oggi in tutte le lingue si traducono opere di tutte le lingue; pare a voi che questo gusto cosmopolita sia una pianta cresciuta da sè? Io direi che l’hanno coltivata gli editori, i traduttori e i critici che ne divorano i frutti non sempre saporiti. Il medesimo si potrebbe dire della musica e della pittura. I mercanti di quadri, per esempio.... Il Rosetti parlava lucido, semplice, pacato, con quel tono leggermente ironico che amava usare sopratutto quando parlava sul serio. E l’Alverighi ascoltava attento e in silenzio. — Tuttavia — obiettò egli a questo punto — mi par difficile di negare che noi ammiriamo disinteressatamente almeno certe opere d’arte. Non si vedono forse dovunque uomini e donne spendere denaro, tempo, fatica per accreditare uno scultore, un pittore, un musico ancora oscuro, forestiero, lontano, che non hanno neppure veduto; per far conoscere autori morti da anni e da secoli? Quale interesse li moverebbe? — Un interesse politico o pecuniario, no di certo — rispose il Rosetti. — Ma tra gli interessi io non sarei alieno dall’annoverare anche i capricci della vanità. L’arte, la letteratura e in una certa misura anche la scienza servono oggi ai pochi, come il lusso, le decorazioni e i titoli di nobiltà, per distinguersi in mezzo alla folla comune degli umani. Riuscendo a far ammirare uno scrittore o un artista misconosciuto dagli altri, costoro vogliono proprio che vinca il punto e la prova l’artista? O non vogliono piuttosto vincerlo essi; per aver la gioia di credersi e sentirsi più intelligenti dei propri simili? Questa opinione di solito sembra esser tanto più piacevole, quanto meno è fondata.... — È certo, per esempio, — osservai io, — che molti applaudiscono Shakespeare in teatro per rispetto umano e non per convinzione. Parecchi me l’hanno confessato, specialmente in Francia. — Sicuro — proseguì il Rosetti. — C’è forse dell’amor proprio in quantità, in tutte le nostre predilezioni artistiche. Come è, per esempio, che un’opera d’arte riesce anche oggi ad essere largamente ammirata? Quando un piccolo numero di ammiratori influenti se ne innamora; vale a dire impegna il suo amor proprio nel puntiglio di farla ammirare dagli altri, di sopraffare le eterne esitanze e incertezze dei più che non sanno giudicare, gridando loro nelle orecchie che quell’opera è un capolavoro. Naturalmente questo capriccio della vanità di solito è passeggero: ma gli interessi che impongono uno scrittore o un artista all’ammirazione del mondo non sono tutti così precari: anzi in generale io direi che la fama di un artista o di uno scrittore sarà tanto più duratura quanto più l’interesse che lo impone è stabile e forte. I grandi uomini fortunati sono quelli alla cui gloria provvede addirittura lo Stato! L’Alverighi ascoltava meditabondo; e a questo punto interruppe come parlando a sè più che all’interlocutore: — Ammireremmo noi ancora Virgilio e Pindaro, nell’anno di grazia in cui viviamo, se i professori di greco e di latino, da un capo all’altro dell’Europa, non fossero stretti in un formidabile sindacato per la conservazione degli studi classici e del proprio stipendio! — Insomma, — conchiuse il Rosetti, assentendo con il capo — chiunque frughi un po’ nelle pieghe della sua coscienza, si accorgerà che noi ammiriamo le opere d’arte, quasi sempre, per preconcetto; perchè vogliamo ammirarle; e vogliamo ammirarle perchè siamo spinti da un interesse, o politico o nazionale o religioso o intellettuale o professionale o di amor proprio. E allora ci suggestioniamo, ci arrovelliamo, ci cantaridizziamo quasi direi! Gli interessi però non possono imporre l’ammirazione, se non dispongono di una forza sufficiente. Quindi nessuna bellezza artistica o letteraria può reggersi a lungo sulle altezze della gloria, se non è sostenuta da una delle grandi forze o autorità che governano il mondo. O da una religione, che la consacri con la sua santità. O da uno Stato, che la imponga con le scuole. O da una _coterie_, da una classe, da un partito, che con la influenza, il denaro, i sofismi dei critici e degli esteti obblighi la gente che vorrebbe badare ai fatti suoi ad ammirare. O da un popolo che abbia persuasi gli altri di essere da più di loro. O da una ondata di entusiasmo, da un contagio di suggestione che travolga le menti.... Ma guai all’arte o alla fama, sostenute da un interesse impotente! Cadrà, perirà, sparirà! Da un pezzo io mi chiedevo se il Rosetti parlava sul serio o ironicamente, tanto questi ragionamenti mi parevano strani, pur non potendo negare che fossero ingegnosi e ben legati. L’Alverighi invece ascoltava raccolto, attentissimo, impassibile, senza fare un gesto o un cenno. E a questo punto interruppe: — Mi persuado, mi persuado: siamo interamente d’accordo: non occorre che continui. Lei completa, non contradice le cose che ho dette ieri sera. Perchè lei non vorrà, spero, ammettere che sia eterno e assoluto quel che è imposto da interessi mondani! Questi sono tutti momentanei e caduchi. E quindi non ripeterà che l’America è brutta e perciò barbara, perchè non piace agli esteti e ai critici dell’Europa. — No, non lo ripeterò io — rispose il Rosetti. — Io sono un mezzo americano e ho vissuto venti anni in America; e all’America debbo questi ozi che tanto mi godo.... Io dunque ho interesse a difendere l’America. Ma quelli che vivono in Europa e non sono pensionati da uno Stato americano? Se tutti gli uomini sono spinti dall’interesse a imporre agli altri come bello quello che tale pare — ad essi, allora è chiaro: bello sarà per tutti quel che vorrà che sia bello il più forte: o il popolo, o la classe, o la fazione o la cricca mondana o la cabala di critici o l’interesse commerciale e via dicendo. Il bello ed il brutto insomma dipenderanno dalla forza. Orbene: se l’Europa e l’America vengono a disputare intorno al bello ed al brutto, è chiaro dunque che bello sarà ciò che è proclamato tale tra i due continenti da quello che può imporre all’altro la sua opinione.... Ora è possibile dubitare che l’Europa sia oggi armata meglio dell’America, in questo duello? Vorrei poter affermare l’opposto io, che tanto debbo all’America, ma.... ma.... Ma l’Europa ha tradizioni, scuole, musei, monumenti, filosofie.... Lei lo vede del resto: qui a bordo io e lei, che siamo nati e cresciuti in Europa, siamo quasi d’accordo; ma il Cavalcanti e l’ammiraglio, che pure sono americani, si scandalizzano addirittura a sentirci ragionare a questo modo. L’America dunque non si reputa neppur capace di imporre al mondo un suo qualunque criterio del bello: si sente obbligata ad accettar quello o quei criteri che l’Europa si degna somministrarle e di solito piuttosto sgarbatamente. E allora? Lei ha dimostrato che tutti gli argomenti con cui si vuol giustificare questa sopraffazione sono dei sofismi: e lei ha ragione: ma che può questa sua critica, acuta sì e profonda, ma solitaria, contro il fascio di tanti interessi? Pensi che a mantenere in credito nei due mondi le diverse arti dell’Europa e i canoni che le informano, collaborano laggiù gli Stati, — ecco le baionette, Ferrero — le religioni, le scuole, i musei, la filosofia, i giornali, le riviste, la critica, un infinito esercito di artisti e di scrittori famelici, un altro esercito non meno sterminato di pubblici funzionari, nonchè non pochi industriali e mercanti, dagli editori ai fabbricanti di strumenti musicali e ai mercanti di quadri. Ed ecco, Ferrero, l’oro!... Presume lei, avvocato, ragionando a bordo del «Cordova» di poter distruggere questo formidabile potentato? Dunque zitto e creda a me: bisognerebbe che a sua volta l’America si muovesse un po’, prendesse animo, cercasse di imporre al mondo una nuova dottrina del bello: l’obbligasse a riconoscere che i «gratta-nuvole» sono più belli di Palazzo Vecchio.... — Questo poi! — esclamai io. Ma il Rosetti si rivolse subito verso di me; e tranquillo, sorridendo: — Tu credi dunque che gli uomini non potranno mai, proprio mai, ammirare i gratta-nuvole? Tu presumi allora assai del tuo gusto. Mio caro, non c’è cosa che gli uomini non siano capaci d’ammirare, quando vogliono, purchè vo-glia-no! (e scandì le sillabe). Il vecchio e il nuovo, la curva e la retta, l’arabesco e il geometrico, il grande e il piccolo, la regola e il mostro, la proporzione e la sproporzione, il flebile e l’enfatico, l’equilibrio e lo squilibrio, il classico e il rococò, l’attico e il barocco, la rosa e l’orchidea, il semplice ed il maestoso, la maiolica italiana e la ceramica cinese, la montagna selvatica e i giardini artifiziosi, la tradizione e il futurismo: tutto, tutto può sfiorar di piacere i nostri nervi, e questo piacevole soffio, se degli interessi se ne immischiano, essere per qualche tempo almeno imposto come misura assoluta del bello.... Senonchè rassicurati, tu che alla gloria del vecchio mondo ci tieni tanto; e rassicura l’ammiraglio, che ha paura dell’anarchia: ce ne vorrà del tempo, prima che New-York apparisca agli occhi degli uomini come una bella città! L’opinione che le arti dell’Europa sono i modelli della bellezza è imposta da una così forte alleanza di potentati diversi, che l’America sarà impari al cimento per secoli. L’Europa detta e per un pezzo detterà le leggi del bello; e l’America dovrà aspettarne, di là dall’Oceano, trepidante e un po’ vergognosa, l’arcigno e non sempre sincero giudizio! Lei, avvocato, ha torto di invocare, e l’ammiraglio di temere, la libertà. Sì, l’uomo moderno rivede i conti anche al Creatore, come lei dice: ma in arte, no; serve con voluttà; non vuol essere liberato, cerca un’autorità a cui piegare: i classici, le glorie canonizzate ufficialmente, i principii indiscussi; e se lei lo libera da questo giogo, lo vedrà correre a buttarsi ai piedi e tendere per un nuovo giogo il collo agli sfacciati e ai ciarlatani, ai critici e agli esteti, come dice lei, che gli dànno ad intendere di saper essi quel che è bello e quel che è brutto.... Ma un’autorità ed un padrone, li vuole a tutti i costi! Il Rosetti tacque; l’Alverighi non rispose: e in silenzio, tutti e tre, percorremmo due volte innanzi e indietro il ponte di passeggiata. Si capiva che l’Alverighi era perplesso e impacciato. In quella suonò la campana che annunciava esser pronto il gelato offerto ai passeggeri ogni domenica sera. — Andiamo a rinfrescarci? — proposi. Ma il Rosetti disse di no e l’Alverighi dichiarò che voleva ritirarsi: li lasciai dunque, e mi recai nella sala da pranzo. Ne uscii mezz’ora dopo per andare a letto; ma ero appena uscito sul ponte, che mi sentii chiamare dal Cavalcanti. — Senta, senta quel che succede — mi disse. — Che cantonata avevo presa!... L’ammiraglio gli aveva raccontato, poco prima, come il marito della signora Feldmann fosse partito tre mesi prima per gli Stati Uniti chiamato — aveva detto — da urgenti faccende e con il proposito di restar assente circa quattro mesi; ed essa stava aspettandolo tranquilla in Rio di ritorno, quando ad un tratto, tre giorni prima della partenza del «Cordova», aveva ricevuto un telegramma del signor Löventhal, lo zio del marito, che la pregava di partire senza indugio per l’Europa e gli Stati Uniti, correndo a New-York la voce che suo marito intendesse avviare una procedura di divorzio. Fuori di sè, la signora era corsa a chieder consiglio a lui, l’ammiraglio, e l’ammiraglio, poichè fra tre giorni egli si imbarcava sul «Cordova», l’aveva persuasa a partire con lui, che potrebbe assisterla nel viaggio. Questa era la ragione per cui si trovava a bordo del «Cordova». Ma prima di partire essa aveva telegrafato allo zio, al suo avvocato e a parecchi amici di New-York di raccogliere e telegrafarle notizie, a Rio se potevano prima che essa partisse, se no alle Canarie, dove il vapore faceva scalo. Nessun dispaccio essendo giunto prima della partenza, essa non potrebbe ricevere notizie precise che alle Canarie, tra dieci giorni; il primo giorno era stata abbastanza tranquilla; ma il mio imprudente discorso sulla facilità dei divorzi in America l’avevano di nuovo sconvolta. Quella stanchezza che l’aveva vinta il sabato sera, non era, come noi avevamo creduto, noia della filosofia, ma prostrazione dell’ansia protratta. Ne fui molto dolente; e pregai il Cavalcanti di dire all’ammiraglio che avevo esagerato. Mi rispose che già lo aveva fatto e che l’ammiraglio ne era stato contento. Gli feci allora un breve sunto della conversazione poco prima finita. Ci guardammo in faccia perplessi; e: — L’arte, interessata? — esclamò dopo un momento. — Ma se la bellezza è il più disinteressato dei piaceri! — A questo modo, però, — osservai, — New-York ridiventa brutta e le città dell’Europa belle. E l’Alverighi deve star zitto. È sempre un guadagno. Pensò un momento; poi, scuotendo il capo: — Purchè il prezzo non sia troppo caro.... Il seguente lunedì noi incominciammo ad accorgerci che in mezzo all’Oceano il sole mette i suoi cavalli al passo. A mano a mano che una nave si allontana dalla terra, allorchè la novità della compagnia e del luogo ha cessato di distrarre piacevolmente gli spiriti, come nei primi giorni, le ore si allungano, e alla lentezza dei giorni e delle notti i naviganti incominciano a misurare quell’immensità dell’Oceano, che il Cavalcanti non riusciva a vedere con gli occhi. Passano i giorni e le settimane; e il cammino percorso non si vede, ma si immagina appena, con una tal confusa idea, ripensando all’infaticato andare della piccola nave per l’acqua infinita; come se la nave si muova senza far cammino in una solitudine invalicabile, fuori del tempo e di ogni vista tranne che delle stelle. Poichè esse sole, le piccole stelle, tacite e vigili, seguono e segnano dall’alto ogni sera, sul quadrante dell’infinito, nel registro dell’eternità, anche l’impercettibile andare dell’arca minuscola per le vie dell’Immensità! Il lunedì fu dunque il primo giorno in cui incominciammo a misurare con il tedio l’immensità dell’Oceano. Nella mattina non vidi l’Alverighi: e non potei nemmeno saziare di qualche nuova notizia intorno ai casi della signora Feldmann la curiosità solleticata dal racconto del Cavalcanti; perchè non reputai conveniente di muover io primo questo discorso con l’ammiraglio ed egli non ne parlò. Il «Cordova» parve giungere a fatica, a mezzogiorno, a 11 gradi e 6 minuti di latitudine, a 33 gradi e 6 minuti di longitudine; e il pomeriggio fu, nel calore tropicale che prendeva forza, sonnolento, accidioso e «pieno di vuoto». La frase è strana; ma dipinge bene il tedio e l’ozio delle lunghe traversate. L’avremmo quindi dimenticato — anche nel pomeriggio l’Alverighi non si fece vedere — se in quel pomeriggio la moglie di Antonio, quell’antico portinaio che avevo riconosciuto il sabato, non avesse mandato un marinaio a dire alla Gina che desiderava di vederla; e la pregava, poichè essa non poteva salire alla prima classe, di voler scendere essa nella terza. La Gina era scesa; e non era ritornata che due ore dopo, perchè Maddalena — così si chiamava la donna — aveva voluto narrarle la loro storia. Arrivati in Argentina, avevano affittato per tre anni nella provincia di Santa Fè cento ettari di terreno, per coltivare il grano turco.... — Cento ettari! — interruppi trasecolato. — Quel poltrone ha affittato cento ettari? E come li ha coltivati? — Avrà lavorato Maddalena — osservò la Gina. E continuò a raccontare che, scaduto il contratto, Maddalena e Antonio erano accorsi tra i primi a popolare un nuovo pueblo o villaggio che gli eredi di Alessandro Roca, il fratello dell’ex-Presidente, fondavano sulla ferrovia che da Rio Quarto va a Villa Carlota, in una grande estancia di cui volevano dare all’aratro una parte. Dalla loro storia Maddalena era trapassata ai suoi malanni. Non stava bene; pregava la mia signora di visitarla, come altra volta aveva fatto a Torino; il dottor Montanari le aveva ordinato di stare seduta, il giorno, in una certa parte del ponte sola e senza muoversi. La Gina aveva subito capito che era ammalata di tubercolosi; e di fatti, dopo averla visitata, le aveva detto che le prescrizioni del commissario erano savie e promesso di raccomandarla al dottore. Ciò che di fatti di lì a poco facemmo insieme. Ma: — Un bel tomo — ci disse subito — quel marito! Assolutamente non vuole che io curi sua moglie. E ci raccontò che egli cercava di isolare i tubercolotici, assegnando loro un posto della coperta, sotto vento, durante il giorno e facendoli dormire nell’infermeria delle malattie infettive; che ordinava loro di sputare sempre in una pezzuola e di buttarla in mare; e prescriveva infine un nutrimento speciale: uova, latte, carne.... Ma Maddalena non obbediva, sebbene l’avesse minacciata di chiuderla anche il giorno nell’infermeria; e il marito — glielo avevano raccontato i marinai e parecchi emigranti — la sobillava a non dargli retta, strapazzandola se lo faceva. — Ieri gli ho lavata la testa come si meritava — conchiuse. — Ma a che serve, con questa gente? Bisognerebbe star sempre lì, con il fucile spianato. Tacque un momento, sopra di sè: poi, a un tratto, sbuffando e come chi si sfoga: — Signor Ferrero, signor Ferrero — disse — vorrei che lei facesse per sei mesi il mio mestiere.... Allora, sì, che la conoscerebbe per davvero l’America! Altro che viaggi e conferenze! Quando sento parlare di emigranti e di emigrazione, mi vien voglia di ridere. Sa che cosa ci vorrebbe per quella gente? Non un semplice medico, come sono io; ma un alienista. Su cento emigranti, creda a me, non ce ne è uno che abbia il cervello a posto. Tutti pazzi sono, o sulla buona strada per ammattire.... Protestai, ridendo, che il dottore esagerava. Sì, certo: questa grande orda che ogni anno varcava l’Oceano, seminava di vittime il suo lungo cammino. Eppure.... Ma non mi lasciò finire. — Se gli va bene, sono i denari — interruppe. — Se gli va male, i patimenti: in un caso e nell’altro l’emigrante perde quel po’ di giudizio — molto poco — che Dio gli aveva dato. Ma le pare che un uomo possa vivere con un piede in America e un piede in Europa, a cavalcioni dell’Atlantico, e non perdere l’equilibrio? Conclusione: tutti isterici e mezzo matti, diventano. Il che sarebbe poco male: il peggio è che mi cascano qui tutti sulle braccia a me; ed io li dovrei curare.... Non insistei nel proposito di confutarlo; ricondussi il discorso ad Antonio, sinchè il dottore conchiuse: — Lei che lo conosce, gli parli un po’ e gli dica di non far lo stupido a quel modo. Insomma, si tratta della pelle di sua moglie. Per poco che valga!... — Proverò, — risposi, — ma son sicuro di fare un buco nell’acqua. Antonio è un balordo insolente. Bisognava sentire come rispondeva quando era al nostro servizio. Imaginarsi adesso! Per il pranzo la signora Feldmann indossò il terzo abito della giornata; e pranzando ragionammo ancora un poco degli interessi nell’arte. Ma l’Alverighi — incredibile a dirsi — ascoltò senza parlare; il Rosetti chiarì con qualche nuovo esempio il suo pensiero; noi non movemmo obiezioni: cosicchè non ci fu disputa nè battaglia. La sera trascorse tranquilla, ma senza illuminarmi in alcun modo intorno ai casi della signora. Il Cavalcanti o non aveva voluto o non aveva potuto far parlare l’ammiraglio. Di nuovo, dopo il pranzo, l’Alverighi era sparito. Ragionai invece a lungo, quella sera, di Antonio e di Maddalena con la Gina, e concordi conchiudemmo che, a compenso della infingardaggine di lui, lei doveva aver lavorato troppo; non altrimenti poteva spiegarsi che ripatriassero, lei malata e lui rimpannucciato. A ogni modo per mantener la promessa scesi la mattina di poi — martedì — nella terza classe e fattomi sedere accanto Antonio sopra un mucchio di grosse corde, davanti alla dispensa della terza classe, poco distante dalla scala che saliva al ponte di passeggiata; tra il via vai degli emigranti e dei marinai, in vista dei cuochi biancovestiti che si affaccendavano in fondo alla dispensa per allestire il desinare alla plebe numerosa di quel piccolo mondo, incominciai a ragionare della moglie. Ma non appena gli ebbi detto: — Sai, Antonio, la signora Gina ha visitato ieri Maddalena, è seriamente malata.... Egli uscì subito in una delle sue sciocchissime risposte, sebbene con un fare insolitamente cortese. — Lo so, lo so. E il signor commissario non me la vuole curare.... Ha sempre fretta, è sempre sulle furie, non gli si può mai parlare.... Sono stato io che ho detto a Maddalena di farsi visitare dalla signora Gina. Un po’ sorpreso, così dalla strana uscita, come dal tono insolitamente gentile, con cui mi parlava, gli risposi che mi pareva che il commissario l’avesse visitata.... — Sì, un momento. Il giorno dopo l’imbarco e ci fece anche una sfuriata, non so perchè. Ma poi non l’ha più vista: le ha ordinato di star sola, sul ponte, laggiù seduta.... Tutta la sua medicina è quella. Come vuol che mi guarisca, una donna come Maddalena; lei la conosce; avvezza a non star mai un minuto senza far niente? — No: l’America non l’ha fatto più intelligente, — pensai tra me. E un po’ per non perder tempo in inutili ragionamenti, un po’ per fare impressione su lui, gli dissi con tono alquanto risentito di badar a non prender troppo le cose in ischerzo: Maddalena aveva bisogno di molte cure e sopratutto di riposo. — Perchè — aggiunsi sorridendo, ma con intenzione — qualcuno mi ha detto in gran segreto all’orecchio che in America ha lavorato lei molto più di te.... Antonio non si scompose; e guardandomi in faccia, senza sorridere questa volta, serio, con fermezza e quasi con dignità, mi rispose: — Ha lavorato lei, ed ho lavorato io, in America. Abbiamo lavorato tutti e due, come negri. — Come un negro, tu? — risposi. — Perfino di notte ho arato il campo, quando c’era la luna. Non è mica l’Italia, l’America. — Lo so, lo so — dissi ironicamente. — In America tutto è più bello, più grande; laggiù vi degnate di lavorare! — In America — rispose — val la pena di faticare. Ci si rischia la pelle: ma almeno in otto o dieci anni uno può mettere qualche cosa da parte. — E perchè allora non sei rimasto in America la prima volta che c’eri andato? — Perchè c’ero andato senza una donna. Maddalena aveva paura del mare. Un uomo solo, in America, guadagna molto, ma il denaro se ne va.... — Cosicchè eri solamente tornato a ripigliar Maddalena? — gli domandai. Mi rispose senza parola, con un sorriso tra furbesco e soddisfatto. — Noi dunque — incalzai, fermo ancora nel pensiero che Antonio fosse un balordo — ci siamo arrovellati tre anni per insegnarti il mestiere di fattorino e di portinaio, e tu intanto non pensavi che a persuader tua moglie a ritornare in America? Di nuovo sorrise con quella sua ingenua malizia. E allora per la prima volta un dubbio mi balenò nella mente: se «Sua Eccellenza lo Zuccone» — come noi lo chiamavamo — non avesse invece fatto lo stolto per vivere tre anni a nostre spese con poca fatica. Ma no; il dubbio era assurdo; Antonio non era da tanto da gabbarci tutti. Spinto tuttavia da una nuova curiosità e poichè eravamo già nel discorso, lo interrogai intorno alle sue vicende. Mi raccontò che arrivato in America con un piccolo gruzzolo, aveva affittato nella provincia di Santa Fé cento ettari di terreno, in un sito che aveva già adocchiato durante il primo viaggio: aveva seminato il grano turco, era stato favorito da due annate straordinariamente buone su tre e aveva guadagnato circa trentamila lire; ma non aveva voluto tentare più la fortuna. — La raccolta — diceva — dipende troppo in Argentina dalla pioggia e dalle cavallette: e ormai i peones pretendono troppo per la mietitura. — Sono seguaci delle tue teorie — interruppi. Ma Antonio non capì l’ironia. E continuò a raccontarmi che era andato al pueblo Alessandro a farsi, con quel capitale, albergatore e mercante: aveva comperato una mezza quadra, circa cinquemila metri quadrati: aveva costruito uno di quegli edifici rossi, a un solo piano, che chi viaggia la verde Argentina vede ogni tanto allinearsi contigui, otto o dieci, presso le stazioni della ferrovia; aveva aperto in quello un piccolo albergo e un almacen. Albergo e negozio avevano prosperato: ma qui pure non aveva voluto trattenersi più di cinque anni, perchè «i primi sono i più buoni» mi disse e i pueblos talora, dopo sette od otto anni, decadono, se i padroni riconducono sulle terre gli armenti. Non potei non ammirare in questo racconto una certa quale inconsapevole mischianza di accorgimento italiano e di ardimento americano; e: — Hai fatto dunque fortuna? — chiesi a mo’ di conclusione. La risposta fu che qualche cosa al sole ormai ce l’avrebbe: risposta abbastanza chiara in sè e chiarita ancor più dal sorriso che la sottolineò.... E allora, in un attimo, finalmente, dopo tanti anni, capii.... Capii che lo «zuccone» era un cervello fino e astuto, che aveva saputo seguir tenacemente per anni ed anni un suo secreto pensiero. Capii che ci aveva ingannati tutti, prevalendosi astutamente dell’obbligo in cui sapeva mio zio verso il suo protettore, che qualcuno diceva fosse suo padre: delle debolezze in cui così spesso incorrono le classi alte nel trattare il popolo: la bontà capricciosa, le collere bisbetiche, i rimorsi delle sfuriate, la noia dell’insistere, la leggerezza con cui esse così spesso giudicando il popolo scambiano l’ignoranza per stupidità; onde al popolo riesce facile di rinvoltare e nascondere nella sua ignoranza le armi più insidiose dell’astuzia. Capii che ora, venuto meno il bisogno di ingannarmi, ripigliava forza il naturale rispetto del popolo per chi sa, può e possiede più di lui; che sentendosi libero dalla mia autorità smetteva la antica insolenza di servo insofferente e confessava di averci ingannati, senza reticenze e vergogna, ma non per sfacciata protervia, bonariamente e rispettosamente, per mettere in bella mostra quel po’ di intelletto che la natura gli aveva largito e per farmi ammirare la sua bella riuscita: affetti ambedue troppo umani, perchè non debbano agitare altri cuori che quelli degli scrittori e degli artisti. Un’ultima curiosità mi punse: sapere come avesse persuasa la moglie al gran viaggio. Rise di nuovo con intelligente malizia. — L’ho minacciata, se non veniva, di pigliarmi un’altra donna in America e di non tornar più. Nè disse altro: ma lo guardai in faccia: e un nuovo lampo mi traversò la mente. Non era questa la ragione ultima per cui egli aveva perdonato alla moglie il suo fallo? Per poter vincere in lei la paura dell’Oceano, che si interponeva tra il vivere antico e la fortuna sperata? Non le aveva detto: «Io perdono, ma tu verrai laggiù»? Il caso era curioso e non potei a meno di parlarne con i miei compagni di viaggio. A colazione infatti raccontai al dottor Montanari la parte della nostra conversazione che lo riguardava.... — Benone! — disse. — La colpa è mia, se sua moglie se ne muore.. Tutti così, del resto; per sospettare, per incriminare, per calunniare l’autorità, che talento hanno tutti! O santo austriaco bastone!... Ma la Gina spiegò altrimenti i lagni di Antonio: la cura ordinata dal dottore probabilmente contrariava qualche idea che Antonio già aveva nella mente e perciò egli arzigogolava delle ragioni per convincersi che era inutile. Il popolo è fatto così! Si discusse un po’, e alla fine io narrai tutta la storia di Antonio. Ma il dottore che m’aveva ascoltato attento attento: — Capisco adesso — esclamò premendosi con l’indice della destra la fronte — perchè non vuole che io curi sua moglie. È la sua vendetta, questa. Prima si è servito del fallo della moglie per ricattarla, trascinarla a forza in America e lì farla sgobbare come una schiava: adesso che ha fatti i denari le dà il ben servito: la fa morire a fuoco lento! Protestai che il dottore era troppo severo. Antonio era, come tanti uomini del popolo, un miscuglio di intelligenza greggia, di egoismo nativo, di astuzia e di ingenuità: aveva solamente messo a frutto il suo perdono.... — E le sembrerebbe poco, — ribattè il dottore, — anche se non avesse fatto altro? — E che cosa doveva fare secondo lei? Scannarla? — intervenne a questo punto l’Alverighi, che era finalmente comparso, ma — cosa per lui insolitissima — solo all’ora della colazione. Nella mattinata nessuno lo aveva visto, e uno dei mercanti astigiani aveva raccontato di averlo veduto, la notte precedente, alle due e mezzo, passeggiar per il ponte superiore solo. — Un galantuomo non batte mai moneta con la colpa altrui — rispose il dottore. — Il popolano che uccide la moglie adultera è certo meno corrotto di quello che ne fa mercato. — Ma lei — interruppi io — mette Antonio a pari di un marito che venda la moglie: non mi par giusto, una differenza c’è, mi sembra.... — L’uomo — incalzò l’Alverighi — che sa cavare un bene da una disgrazia è un savio. Non mi meraviglio che Antonio abbia fatta fortuna in America.... — E neppur io! — rispose il dottore. — La disinvoltura con cui truffava i suoi padroni in Europa.... — Truffava! — interruppe brusco l’Alverighi. — Perchè pagato poco lavorava di mala voglia.... — Se a lei pare — replicò il dottore — che chi prende un impegno abbia poi il diritto di non mantenerlo, perchè giudica che i patti non sono equi.... — No, non ha il diritto, — rispose pronto l’Alverighi, — quando le due parti contraenti hanno eguale forza. Ma la truffa, come lei la chiama, è il supremo scampo, in Europa, del povero, quando il ricco lo incalza spietato. E per lui l’altare, che il supplice antico abbracciava disperato, invocando gli Dei.... — E quindi — ribattè sardonico il dottore — al povero proletario sono permessi il furto, la frode, la bugia, il «sabotage».... — Niente affatto — rispose l’altro. — Ma la ragione, il sentimento, il buon senso e in caso disperato un lodevole spirito di rivolta riconosceranno sempre al povero il diritto di interpretare con una certa larghezza i patti impostigli con la forza dal ricco prepotente. Ai ricchi di Europa piacerebbe, lo so, di chiudere anche le porte di questo supremo asilo.... In odio all’Europa l’avvocato trascendeva sino ad anarchicheggiare. — E perchè allora — domandò il dottore — quel galantuomo non venderebbe addirittura sua moglie, se si presenterà, una occasione? Ha fatto bene, lei dice, a passar la spugna sulla colpa della moglie, perchè ne ha ricavato un vantaggio. Perchè non la passerebbe, la spugna, una seconda, una terza, una quarta volta, se ci trova un vantaggio adeguato? Questione di misura e di compenso.... Questa incisiva risposta sconcertò alquanto l’Alverighi, il quale, dopo un momento di silenzio e di esitazione, invece di replicare, prese il largo. — Ma crede lei proprio che in questioni di questo genere sia sempre facile o addirittura possibile giudicar così, alla spiccia come fa lei: tu hai torto e tu hai ragione? L’imperativo categorico di Kant è una bella cosa: ma è come i tartufi; non è una ghiottoneria da mangiar tutti i giorni. I casi spiccioli della vita sono tanti e così diversi! — Io so — interruppe aspro il Montanari — che sono sempre capace di distinguere un briccone da un galantuomo.... — Lo crede lei? Proprio davvero? — domandò l’avvocato. — Beato lei, allora! Ma mi permetta di dubitarne.... Sinchè si tratta di azioni semplici, la coscienza parla chiaro: va per questa strada, lascia quell’altra. Nessuno esiterà a maledire chi uccide sua madre per rubarle gli averi. Ma quando le cose si complicano, per esempio se, quando, come, in che misura sia lecito mentire, corrompere, frodare in politica, violare le leggi scritte e i principii dell’onore per il bene pubblico, allora non abbiamo più nè guida nè filo.... Buone ragioni non mancano mai ad uno spirito sottile, e, quando si tratta di difendere il proprio interesse, anche gli spiriti massicci come una colonna del Pantheon diventano sottili come un ago, per giustificare il male e per incriminare il bene. I Gesuiti lo hanno provato e la vita lo prova ancora meglio che i reverendi padri. Dove è la lampada che ci illumini per discernere sicuramente il bene dal male? Io non la vedo. — Io la vedo invece, — rispose tranquillo tranquillo il dottore. — Anzi è una lucerna: la lucerna del carabiniere. Quando questa lucerna spunta in fondo alla strada, gli uomini lo sanno distinguere, il bene dal male, non dubiti.... Ridemmo tutti, e il capitano ne approfittò per levarsi. Tronca su questa risata, la discussione terminava con svantaggio dell’Alverighi. Ci recammo allora a tribordo; e sulla carta leggemmo che a mezzogiorno eravamo giunti al sesto grado e diciassettesimo minuto di latitudine, al trentaduesimo grado e trentacinquesimo minuto di longitudine. Il giorno dopo saremmo dunque giunti all’equatore. Ma la giornata era ardente, il cielo e il mare intensamente turchini, l’aria abbagliante di immense nubi bianche solitarie nell’azzurro: onde ci disperdemmo presto nelle cabine per la siesta. Nel pomeriggio nuove favole intorno alla signora Feldmann giunsero alle orecchie del Cavalcanti: che a Newport essa possedeva un castello incantato, ove sulle mense brillavano piatti d’oro, e si profondevano tanti fiori e così rari da spendere duemila lire ogni giorno. Di nuovo l’ammiraglio, interrogato da noi, scrollò le spalle, ridendo: e ci descrisse la villa di Newport quale era: piccola, elegante, ospitale; ma insomma a petto di tante antiche e sontuose ville di Europa, modesta! Donde scaturivano dunque tutte quelle favole? Del resto ormai i mercanti astigiani, il dottore di San Paolo e sua moglie, la bella genovese, il Levi e gli altri passeggeri della stessa qualità consideravano come un giusto privilegio della parte più colta e più ricca dei passeggeri — dell’ammiraglio, del Cavalcanti, dell’Alverighi, di noi — avvicinare la miliardaria: sebbene essa non praticasse che noi, per la sola ragione che noi soli conoscevamo le due lingue da essa parlate, il francese e l’inglese. Ma quelli invece erano contenti di poterla salutare con un timido cenno del capo e un sorriso ossequioso, e di aver per amica Lisetta, la sua cameriera: una nizzarda, che parlava l’italiano: una bella giovane bruna e alta, svelta e furba, che aveva acconsentito non senza sussiego a rappresentare la sua padrona e l’alta finanza dell’America presso i viaggiatori di minor conto.... Verso le cinque assistemmo alla «manovra del fuoco»: una commediola immaginata, pare, dai tedeschi per distrarre e rassicurare i viaggiatori. A un tratto la campana annunciò suonando a distesa un immaginario incendio a prua: e perfino i cuochi abbandonarono fuochi e forni, per correre alle pompe ed all’acqua. A pranzo; il dottor Montanari non comparve e quindi non ci fu combattimento: ma una nuova discussione, sì; a cui ci sospinse per caso la conversazione. L’ammiraglio aveva fatto un giro nel pomeriggio per le terze classi e parlato con parecchi emigranti; uno di costoro, un calabrese, gli aveva detto: «Noi dovremmo portare tutti al collo delle medaglie con l’immagine di San Cristoforo Colombo». A udir questa storiella, subito l’Alverighi: — Ha ragione, ha ragione! — aveva esclamato. — Impari dal popolo, impari, la Chiesa!.... E spiegò poi l’oscura frase raccontandoci come circa mezzo secolo fa la Chiesa fosse stata in forse di santificare Cristoforo Colombo, e come favorita da Pio IX già la procedura fosse avviata.... Allorchè un certo abate Sanguinetti aveva provato, in un dotto libro, documenti alla mano, con il rigoroso metodo scientifico della critica moderna, che a Colombo negli ultimi anni era nato dalla signorina Beatrice Enriquez di Cordova un figlio illegittimo, Ferdinando; e allora il grande navigatore era stato abbandonato da tutti a mezza via sulla strada del paradiso, la procedura della canonizzazione sospesa.... D’accordo tutti biasimammo la piccola mente degli ecclesiastici; la signora Feldmann, che quella sera era molto pallida e portava al collo una nuova collana di perle, si dolse che gli uomini incrudelissero ancora contro la memoria di un grande uomo, già così sventurato da vivo; il Cavalcanti domandò se la scoperta dell’America non fosse di tal peso da bilanciare un concubinato anche sulle bilancie della giustizia divina; l’ammiraglio disse che insomma, e a dispetto di Beatrice, Colombo non avrebbe screditato il Paradiso. Solo il Rosetti non disse nulla. A consolazione di tutti, l’Alverighi raccontò che nell’America del Nord si era formata l’associazione dei «Cavalieri di Colombo», la quale si proponeva di persuader Roma a collocare definitivamente in cielo lo scopritore dell’America. Il discorso divagò su Colombo: io riassunsi, dicendo quanto li ammiravo, i bellissimi studi di Henry Vignaud sulla scoperta dell’America: come cioè Colombo non mettesse la piccola vela al gran viaggio, da cui tanta alterazione doveva procedere nella storia del mondo, per trovare una nuova via alle Indie dalla parte di occidente, ma per rintracciare nello sterminato Oceano la ignota terra che un amico suo, trasportato dal caso sulle coste dell’America e ritornatone morente, gli aveva indicata nell’agonia. Si discusse un po’ se questa nuova versione — tanto più verisimile e umana dell’altra — oscurava o schiariva la gloria di Colombo: poi si parlò del grande monumento che gli Italiani erigono a lui in Buenos-Aires e chi lo trovò bello e chi no: dal monumento di Buenos-Aires si passò a parlar degli altri monumenti con cui l’America ha onorato il padre suo, convenendo però tutti che sono di regola piuttosto brutti.... Quando il Cavalcanti pronunciò una frase imprudente. — Eppure oggi c’è lo scultore che potrebbe fare non «un» monumento, ma «il» monumento di Cristoforo Colombo. È Rodin! Non l’avesse mai detto! L’Alverighi proruppe come se avesse ricevuto uno schiaffo: — Rodin? Rodin? — gridò. — Quel troglodita? Lo scultore delle caverne preistoriche? — Non le piace dunque, a lei, Rodin? — domandò il Cavalcanti. — E vuol che mi piacciano quei mostri? — Perché — rispose tranquillamente il Cavalcanti — i suoi occhi sono troppo avvezzi alle forme greche. Ma bisogna aver dei _nervi differenti_ per i diversi artisti e scrittori.... Rodin è lo scultore del trasformismo, che ha rivelato all’uomo l’animalità della sua natura. Dopo Lamarck, Darwin, Haeckel non si poteva più scolpire il corpo umano nella sua bellezza ideale al modo dei Greci; bisognava scolpirlo nella sua animalità truculenta e brutale, come ha fatto Rodin. — Ecco un bel caso di rovesciamento! — dissi fra me. Difatti: — E perciò scolpisce degli antropoidi, dei trogloditi, dei mostri! — rispose subito l’Alverighi. — Come il «Penseur»! Raffigurare l’intelletto, la facoltà più alta dell’anima in un corpaccio di facchino delle Halles! Ma vada al Louvre a vedere il busto di Omero, se vuol vedere il pensiero risplendere in un pezzo di marmo.... — Ma nel «Penseur» — replicò il Cavalcanti — Rodin ha appunto voluto scolpire il Pensiero imprigionato nella materia, che vive e lotta di continuo con essa. La bellezza della statua nasce appunto dal contrasto tra l’espressione del volto e la greve materia del corpo. A questo punto intervenne la signora Feldmann, che aveva seguiti tutti questi discorsi — fatti in italiano — ricorrendo ogni tanto all’ammiraglio per farsi tradurre qualche frase. — Rodin — essa disse, in francese — è uno scultore interessante, perchè nelle sue opere c’è sempre una idea. E l’idea spiega quel che lì per lì appare strano o disarmonico nella statua.... — Le idee, io le cerco nei libri — replicò in francese l’Alverighi. — Nel marmo voglio forme belle o sentimenti espressi con forza. — Capisco allora — rispose la signora — che certe statue di Rodin non le piacciano. Ma certe altre, le devono piacere. Ha veduto, per esempio, il Victor Hugo che è nel giardino del Palais Royal? Che solennità spira dal volto meditabondo! E che bell’atteggiamento! Il braccio, ricorda il braccio teso (e fece il gesto, distendendo con energia il suo bel braccio nudo) come a tranquillare e a dominare? Quando guardo quel braccio, io vedo una folla immensa e agitata che a quel gesto si placa, fa silenzio, si appresta ad ascoltare il poeta. Ma l’Alverighi non vide nemmeno quel meraviglioso braccio che si offriva bianco e vivo ai suoi sguardi: immaginarsi se si persuase di ammirare quello di marmo e lontano! — Quel braccio enorme? — replicò. — Ma un braccio a quel modo lo tende chi vuol dare un pugno: non chi è immerso in profondi pensieri. La statua mi pare un braccio mostruoso, a cui è attaccato un corpo di uomo.... E non si sa perchè.... Si rovesciavano così l’un l’altro i propri ragionamenti, ma con impegno e sul serio, non per gioco, come l’Alverighi aveva fatto il sabato precedente, dissertando intorno ad «Amleto»: e chi sa quanto avrebbero durato al gioco, se il Cavalcanti non fosse intervenuto. — Questa discussione — dicendo all’Alverighi — è una prova viva che i giudizi estetici sono rovesciabili. Ma a completare la dimostrazione lei mi dovrebbe spiegare ancora per quale interesse la signora, lei, ed io ci arrabbiamo tanto a disputare intorno alla scultura del Rodin. Lei e il signor Rosetti non pensano forse che in arte non ci sia odio o ammirazione che si voglia imporre altrui, senza un interesse? L’Alverighi pensò un momento come esitando. — Per la signora — rispose poi con un po’ di incertezza — è chiaro.... La signora è francese. Il patriotismo, dunque.... — E da che interesse sarei mosso, io? — chiese allora il Cavalcanti. — Lei.... — rispose l’Alverighi. — Il suo caso è meno chiaro.... Probabilmente lei è mosso da quella specie di orgoglio che tutti proviamo nell’ammirare i tentativi nuovi e arditi.... O che paiono tali.... — E che interesse muove lei — chiese infine il Cavalcanti — a vilipendere l’arte del Rodin? L’Alverighi tacque di nuovo un istante; e poi semplicemente e asciuttamente: — Il Rodin mi è antipatico — disse. Ma il Cavalcanti e la signora protestarono. — E le par questo un motivo sufficiente? — interruppe il primo. — «Mais c’est l’homme le plus charmant du monde! Je le connais très bien», — aggiunse l’altra, quasi nel tempo stesso. Ma l’Alverighi non vacillò. — Mi è antipatico, — disse con forza, — perchè ha avuto il coraggio di scrivere in una rivista francese, la «Revue», mi pare, che la bellezza è l’interesse supremo. Sicuro, l’interesse supremo, perfino nel costruire le città! Rodin sarebbe capace di mettere al bando dalla civiltà l’America del Nord, perchè New-York non gli piace! — Non è inverisimile — rispose il Cavalcanti. — E sarebbe poi, in bocca ad un artista, un’eresia e una bestemmia? Una esagerazione, sì: ma una esagerazione che non mi offende nè sorprende, come non mi sorprende nè offende che lei, che è venuto in America per arricchire.... — Per arricchire? — fu la risposta brusca e inaspettata. — E chi glielo ha detto? Di tutte le bizzarre cose che da parecchi giorni l’Alverighi ci veniva dicendo e raccontando, nessuna ci meravigliò più di questa: il Cavalcanti restò addirittura di sasso; tacque per un momento, poi quasi balbettando: — E allora.... per qual ragione è andato in America, lei? — chiese. Ma come godendosi la nostra sorpresa, l’Alverighi volle accrescerla divagando. — Sono andato in America, per arricchire, io? Ma lo sanno loro, che a diciotto anni io avevo fatto voto di povertà, come un monaco antico? Ero spiritato dall’idea di diventare, non sapevo precisamente che cosa — andava a giornate — un grande poeta, un grande filosofo, un gran romanziere, una di queste cose, tutte queste cose insieme: un uomo unico insomma, come diceva lei, Cavalcanti, l’altra sera. Ero pazzo da legare, d’accordo: ma un posticino di professore in un ginnasio di Sicilia era tutto il mio regno terreno e mi bastava; ma un cento lirette al mese, nette di ricchezza mobile, mi parevano l’appannaggio sufficiente di un uomo di genio, gestante di capolavori immortali. Sono nato in una famiglia di asceti; io.... — Ma allora, perchè è andato in America? — chiese di nuovo il Cavalcanti. — Perchè? Perchè ero pronto, sì, a faro voto perpetuo di povertà ma volevo diventare un gran savio.... E poichè tra i diciotto e i ventidue anni mi accorsi che l’Europa non voleva darmi la sapienza.... — Lei è andato a cercarla in America? — esclamò il Cavalcanti, alzando le braccia, trasecolato. Ma l’Alverighi a sua volta incrociò le braccia senza fretta, si appoggiò al tavolo e piantandogli gli occhi in faccia, pacatamente, quasi scandendo le parole: — Sicuro! — disse. — Sono andato in America a cercare la verità e non l’ho soltanto cercata.... L’ho anche trovata. Non mi crede? Le sembra strano? Anche lei dunque pensa che l’America non sia altro che terra da oro? Vergogna! Il Cavalcanti restò un istante immoto e silenzioso, certo perchè non sapeva più, come tutti noi del resto, che giudizio fare di questi strani discorsi; poi: — Ma sa che mi interesserebbe molto — disse scherzosamente e sorridendo — di saper come questo miracolo è avvenuto? Perchè proprio che l’America sapesse far di questi miracoli, non lo credevo! — La storia però — rispose l’Alverighi seriamente — sarebbe un po’ lunga a raccontare.... — Il tempo non ci manca — replicò il Cavalcanti. L’Alverighi parve riflettere un istante: poi serrando le spalle: — Se lei vuole.... Quando vuole! — Questa sera stessa! L’Alverighi si volse allora al Rosetti; e: — Venga anche lei, ingegnere — gli disse. — Spero di poterle annunciare che anche quest’ultima tirannide della vecchia Europa — l’arte — che lei crede imperitura o quasi, sta per cadere. È già quasi caduta, anzi: tempi nuovi sorgono; il mondo troverà finalmente la felicità nella ricchezza e nella libertà: l’ho scoperto stanotte! Appunto perchè l’interesse è il motivo delle nostre ammirazioni estetiche, il dominio intellettuale dell’Europa non può più durare! VII. Un’ora dopo, infatti, il Cavalcanti, il Rosetti ed io sedevamo a cerchio, sdraiati sui seggioloni, intorno a un piccolo tavolo, a due bottiglie di Champagne e a parecchie scatole di sigari, sul ponte di passeggiata, nel vano che a mezzo della nave faceva la parete di ferro, ripiegandosi dopo la porta delle cabine, per ascoltare le confidenza dell’Alverighi. La notte era senza luna e calda: sotto i nostri piedi la ferrea mole del «Cordova» fremeva sordamente: l’Oceano squarciato dalla nave scrosciava continuo nelle tenebre, come una cascata vicina e invisibile. L’Alverighi tracannò in fretta un bicchiere di vino; accese un grosso avana; appoggiò gli avambracci sui bracciuoli; si curvò un po’ come per avvicinarsi a noi; e senza badare ai passeggeri che, soli o a coppie, passeggiavano sul ponte: — Già l’ho detto — incominciò. — Sono nato in una famiglia di asceti. Mio padre e mia madre — non ci posso pensare senza sentirmi una fitta al cuore, che essi sono morti ed io sono ricco — avevano ricevuti da Dio tutti i doni: la bellezza, la bontà, l’intelligenza: eppure che profitto ne ricavarono, nella vecchia Europa? Vissero nell’indigenza e nella servitù, lui insegnando _rosa rosae_ ai ragazzi, lei educando con mille stenti parecchi figliuoli, senza lagnarsi mai, ma senza vantaggio di nessuno; perchè se almeno ci fosse, tra le migliaia di scolari che gli passarono per le mani, uno che sapesse ancora il latino! E io avrei dovuto continuare la tradizione!... A diciotto anni entravo studente in una facoltà di lettere e filosofia. Ero matto allora, l’ho già confessato: volevo imparare qualche cosa, studiando in una scuola dell’Europa: e quindi trovai subito gli infermieri pubblici che mi somministrarono la doccia, per guarirmi di questa follia. «Studi l’aoristo nei frammenti di Xenofane, se vuole un argomento serio», mi disse un giorno uno di questi professori, a cui avevo confidato di voler tentare per l’appunto uno studio sulla storia dell’idea del progresso. Che io mi fossi votato alla povertà no, non bastava: volevano anche a ogni costo ammazzare la mia intelligenza, ridurmi imbecille, quei miei dotti maestri: e perciò mi chiusero in una cantina; e lì si divertirono a sbriciolarmi davanti in minuzzoli i capolavori della letteratura e le grandi idee filosofiche; e mi obbligarono a raccattare da mattina a sera, ginocchioni, con il naso a terra, queste briciole impercettibili, oggi di qua, domani di là. Naturalmente sciupai quattro anni. Non che sia stato con le mani in mano: tutt’altro: in quei quattro anni abborracciai un romanzo, due drammi, un sistema di filosofia e non so quante altre corbellerie di questo genere; ma il bell’effetto di tutto questo scribacchiare e almanaccare fu che a diciotto anni mi credevo un genio e avevo torto; ma a ventidue, dopo quattro anni di studi, temevo di non essere buon’a nulla, e di nuovo pure avevo torto, perchè insomma, un certo ingegnaccio Domeneddio me l’aveva dato. Che ero capace di far qualche cosa, l’ho provato, mi sembra. Per fortuna, alla fine, mi ribellai e scappai in America. Si ricorda, Ferrero? A Rosario le raccontai di un certo mio professore.... Era il solo che mi volesse bene. Ma poveretto! era un po’ rimbambito: parlava dell’America come se ci stesse di casa e la conosceva quanto il pianeta Marte. Come mai s’era fitto in capo che l’America avesse proprio un così gran bisogno della filosofia dell’Europa? Fatto sta che mi ripeteva sempre che c’era troppa filosofia in Europa e troppo poca in America; che bisognava avviare una emigrazione di pensatori e di filosofi dal vecchio mondo verso il nuovo! Pazzie! Ma quanto le dovrei benedire, adesso, quelle pazzie! Perchè mi diedero la spinta di cui avevo bisogno.... E un bel giorno mi decisi e partii — non ridete — per l’America, con l’intenzione di insegnare, là, filosofia; sventatamente, così, sulla parola di quel mio maestro che mi ripeteva: «Va, va; un giovane d’ingegno come tu sei, troverà subito. Nei paesi giovani, sono i giovani che fanno fortuna....» Tacque un istante, pensoso, come chi guarda a ritroso fatti e cose lontane. Noi pure tacemmo.... Indi ripigliò: — Dunque quel che mi cacciò dall’Europa non fu la povertà: fu l’insufficienza di quella sua tanto vantata cultura, l’impotenza del suo sapere ufficiale.... Vi meravigliate? Eppure è così. Non vi meraviglierete, invece, credo, se io vi dirò che sulle porte dell’America trovai, ad accogliermi, la Fame! Per settimane intere ho pranzato e cenato con una tazza di latte. Ma insomma anche di pane solo si vive: e nei primi tempi l’appetito non fu il tormento peggiore.... Ricorda, Ferrero, la storia di quei tempi terribili? Gliela ho raccontata per disteso a Rosario! Me ne ricordavo; non solo, ma aggiunsi che l’avevo già raccontata, in succinto, al Cavalcanti e al Rosetti. — Benissimo! — continuò l’Alverighi. — Voi sapete quindi che dovetti a ventiquattro anni imparare una professione più seria che quella di filosofo; rifarmi da capo con gli studi, e che studi! E studiare la giurisprudenza non bastava: bisognava anche vivere. Ho fatto il contabile; ho scritto dei sonetti per nozze, ho compilato una guida di Buenos-Aires! Ma che strazio, ma che disperazione, ma che furori: io, io che laggiù avevo aspirato ad essere un uomo unico! Ora che la speranza era perduta, mi pareva che se fossi rimasto in Europa sarei diventato in pochi anni un grande scrittore: mi sentivo istupidire: per tre anni, si figurino, non osai tirar fuori dalla cassa i libri che erano stati la delizia della mia gioventù. Quante volte ho maledetta l’America! Un giorno pensavo di suicidarmi, un altro di imbarcarmi per l’Europa. Non potevo più guardare gli avvisi dei vapori che partivano, senza sentirmi bruciare gli occhi. Non ritornai, per orgoglio! Fece una pausa; versò dello Champagne nei bicchieri; bevemmo tutti; mentre il Rosetti osservava che molti hanno trionfato in America, perchè al momento della disperazione non hanno potuto scappare. Il Cavalcanti aggiunse che in tutte le imprese la necessità fa più eroi che la natura. Mentre così parlavamo, vidi uscire dalla porta della cabina e passare innanzi a noi, quasi correndo, Lisetta, la cameriera della signora Feldmann. — Alla fine — ripigliava intanto l’Alverighi — presi quella benedetta laurea di avvocato, entrai in uno studio di Rosario; e mi misi a questo ingrato mestiere. Ma chi me lo avesse detto, in Italia! E che tristezze ho provate! L’Europa mi stava proprio nel cuore; mi pareva di esser decaduto. Fu allora che incominciai a desiderare la ricchezza, ma per stordirmi, come un compenso, tanto per non camminare per il mondo senza una meta.... In Argentina, chi lavora, guadagna molto: io lavorai senza riposo: dopo due anni il mio avvocato si ritirò e mi cedette lo studio a buone condizioni: nel 1894 avevo risparmiato già trentamila piastre: e come fanno tutti, comprai un terreno, nella provincia di Buenos-Aires, che ne costava cinquantamila. Una banca mi prestò il denaro, che mi mancava. E allora, alla fine, un bel giorno, la Fortuna mi saltò improvvisamente al collo, quando meno me l’aspettavo. Fa sempre di questi scherzetti, in America, la Fortuna: la credete lontana mille miglia; e vi è alle spalle, che si avvicina in punta di piedi per non farsi sentire.... Proprio allora una pianticella dalle foglie d’oro invadeva le pianure argentine. Se li ricorda, Ferrero, quei campi sterminati di erba medica, i più belli del mondo, che abbiamo attraversati insieme in ferrovia? I Campi Elisi del mondo moderno, dove la vita rigermoglia dalla ferita stessa che l’ha troncata? dove seminata una volta l’alfalfa rivegeta indefinitamente dopo il taglio, sin tre volte all’anno e ad ogni anno nuovo? La pianta che cresce da sè, senza bisogno delle cure degli uomini, perchè da sè cerca con le lunghe radici l’acqua della terra sino a due metri sotto il suolo?... Seminato che sia una volta, non c’è più che da falciare.... In questo momento vidi ripassare frettolosi Lisetta e l’ammiraglio: ed ambedue entrare nella porta che conduce alle cabine. — Una pianta che a coltivarla richiede così poche braccia, — continuava l’Alverighi — era un dono degli Dei all’Argentina: eppure l’Argentina per lunghi anni non se ne era accorta.... — Don Bernardo de Irigoyen però — interruppe il Rosetti — mi ha parecchie volte raccontato che tanti anni fa, sin dal 1860 se ricordo bene, aveva provato a seminare l’alfalfa, ma ci aveva rimesso non poco denaro. — È vero, è vero — rispose l’Alverighi. — Ma allora l’erba non si esportava ancora in Europa e neppure la carne; l’Argentina non aveva stalle, i pascoli naturali bastavano. Il buon momento non era ancora venuto, insomma. Ma quando venne.... Vi racconterò solo il caso mio.... Uno dei tantissimi.... Perchè queste sono cose che in America capitano tutti i giorni e nessuno ci bada più.... Solo agli Europei, poveracci, sembrano miracolose. Dunque tre mesi dopo che avevo comperata la mia terra, scoprivo l’acqua a un metro di profondità, e un anno dopo la vendevo per duecentomila piastre. Ripagata la banca mi restavano più di centosettantamila piastre, quasi quattrocentomila lire, guadagnate in un anno: quanto bastava per ritornare in Italia a vivacchiare di rendita.... Confesso che, a sentirmi quel mezzo milioncino in tasca, un momento tentennai anche io, ma un momento solo! Fece una pausa; tracannò un bicchiere di Champagne, e continuò con foga crescente: — Sicuro, sono rimasto: e per diventare un savio! L’America e l’alfalfa e non l’Europa e le sue Università mi hanno fatto filosofo. Si ricorda, Ferrero, tutti quei banchieri, estancieri, chacareri, mercanti di grano, francesi, inglesi, tedeschi, italiani, argentini, che lei ha intravisti a Rosario nei clubs, nei ricevimenti, nei banchetti, in quei tre giorni che è stato tra di noi? Lei li ha visti di volo: io invece, mi buttai a capo fitto negli affari, e dovetti viverci in mezzo: ma che meraviglia, a mano a mano che li conoscevo! Non potevo credere ai miei occhi; mi pareva di sognare; ero sbalordito. Ma come? Erano dunque venuti da ogni parte del mondo; si erano ritrovati per caso sulle sponde del Paranà; non tutti erano uomini di gran sapere e levatura; tutti vivevano nel basso mondo della materia, come si dice in Europa; per arricchire.... Eppure.... Lei se ne è persuaso, non è vero, Ferrero? Quelli, come gli uomini di affari delle due Americhe, sono uomini, non bestie feroci: si mordono, ma non si sbranano: ciascuno vuole il vantaggio suo e non il danno, l’umiliazione, la disperazione, la morte del rivale; non c’è sconfitta definitiva laggiù, per chi non si perde d’animo; sono tutti ottimisti e si vergognerebbero di non sperar bene dell’avvenire. L’ottimismo americano! Ma è una meravigliosa aurora boreale nella grigia storia del mondo, l’ottimismo americano! e l’Europa qualche volta osa perfino sorriderne, come di una fanciullaggine! Del resto ne abbiamo qui a bordo un campione: il Vazquez. C’è uomo più calmo, sereno, composto, misurato, preciso, sicuro di sè, ottimista? Ora supporreste voi che quell’omino così semplice e gentile, a misurar tutte le terre che ha, possiede qualche cosuccia grande come la Lombardia? Possedere la Lombardia! Sono cose che fanno venire le vertigini, in Europa.... In America invece chi se ne stupisce? Può capitare a tutti, un giorno o l’altro.... Dunque io mi vidi trasportato, come in sogno, in mezzo a persone alacri, svelte, destre, vigorose alla difesa del proprio interesse; ma non inacidite, nè maligne e perverse; esenti da quell’orribile gelosia per cui ogni bene altrui tormenta come un male proprio; consapevoli che i loro piccoli conflitti quotidiani si riconciliano nel progresso universale, da cui il paese è travolto; gente solida, insomma; uomini veri e non ombre; _nice fellows_, come dicono nel Nord, che valgono tanto oro quanto pesano! E profondamente stupefatto mi volsi allora verso l’Europa: e vidi gli uomini che vivono al di sopra dei sordidi interessi della ricchezza, nell’atmosfera olimpica delle idee e delle forme pure.... Fece una pausa. — Li vidi rabbiosi, invidiosi, maligni, bugiardi, intolleranti, perversi, immondi! — esplose poi. Sorridemmo: ma in quel momento un cameriere che passava, vedendo vuoti i nostri bicchieri, si avvicinò, riuscì, con il vino residuo, a ricolmarli ancora una volta. Interrompemmo la conversazione per bevere; e allora il Rosetti ci propose di levarci e di continuare il discorso passeggiando sul ponte. Il Rosetti e l’Alverighi nel mezzo, il Cavalcanti ed io ai loro fianchi, il Cavalcanti dalla parte della parete e dell’Alverighi, io a lato del Rosetti e dalla parte della ringhiera, incominciammo tutti e quattro a passeggiare su quello stretto margine illuminato della infinità tenebrosa, lunghesso lo scrosciar di cascata dell’Oceano squarciato dalla nave, voltando ora le spalle alla prua ora alla poppa, e ciascuno girando su sè medesimo, ogni volta che giungevamo all’uno dei due capi. Intanto l’Alverighi continuava: — Lei, signor Cavalcanti, mi chiedeva l’altro giorno nel suo bellissimo discorso.... A proposito: c’erano delle idee in quel discorso: ah se lei non europeizzasse tanto!... Dicevo, dunque? Sì: lei mi chiedeva perchè in Europa ogni filosofo, ogni scrittore, ogni artista voglia essere solo; e se potesse sterminerebbe tutti i suoi rivali; e poichè non può nè avvelenarli, nè farli uccidere da dei sicari, nè deportarli con una _lettre de cachet_ in qualche nuova Bastiglia o in lontane terre malariche.... — Ma io non ho accusato di tanti misfatti — interruppe ridendo il Cavalcanti — l’alta cultura dell’Europa. Ho lamentato solamente che sia così intollerante! — Insomma, — ripigliò l’Alverighi — non potendo toglier di mezzo i propri rivali, cerca di screditarli con ogni mezzo. Perchè il maestro scomunica il discepolo se fa un passo solo fuori dei confini del suo sapere; e il discepolo si affretta a rinnegare il maestro appena si accorge che l’ha spremuto fino alla buccia? Perchè i vecchi fanno finta di non vedere i giovani, e i giovani gridano loro alle spalle: crepate al più presto? Perchè giovani e vecchi, grandi e mediocri, sono tutti cannibali? Fece una pausa. Il Cavalcanti non mosse parola. — Non se lo spiega, non è vero? — riprese. — Perchè lei è un americano. Ma io sono stato, pur troppo, europeo: e io, sì, me lo spiego. Quando ebbi finalmente la felice idea di voltar le spalle al vecchio mondo e di salpare per l’America, lo crederebbe lei? eppure io avevo già contratte tutte le febbri palustri del mondo mediterraneo. Tutte, a ventidue anni! La febbre filosofica, la febbre letteraria, la febbre politica, tutte le febbri malariche che fermentano nella vecchia palude greco-latina: la smania di eccellere, di gioire, di farsi grande, ricco, potente, celebre, unico per opposizione, in mezzo alle discordie, alle guerre, alle rovine, al disordine. A quella tenera età ero già stato verista e romantico, mistico e materialista, bacchettone ed ateo, monarchico e socialista; così, come si fa in Europa, non per amor di un principio ma per puntiglio, per vanità, per odio del principio opposto e delle persone che lo professano, per la smania di far carriera o di arraffare qualche impiego o di far parlare di sè.... La guerra è il principio di tutte le cose, come diceva Eraclito. Ma l’Argentina mi risanò. Quando, piccolo e inesperto, mi trovai di fronte quell’infinito e placido oceano di pianure che distendono da un orizzonte all’altro la divina loro tranquillità verde; e lì — altro che libri e chiacchiere! — dovetti seminare, mietere, vendemmiare, falciare, incominciai finalmente a ragionare. Rodersi, mentire, infliggere a sè ogni sorta di privazioni, commettere ogni sorta di perfidie, dilaniarsi, per contendersi il dominio di nomi, la proprietà di soffi di voce, il regno di parole che non hanno senso e di opinioni che mutano come le nuvole, quando c’erano ancora tante pianure intatte in cui affondare l’aratro? C’è forse nella vita impresa più nobile, più alta, più bella che il produrre ricchezza: dei beni, cioè cose che sono buone per definizione, che giovano a tutti, che a tutti dànno felicità, appagamento, comodo, piacere, sicurezza? Ma ditemi dunque: che cosa ha sognato l’uomo sin dalle origini del tempo se non il Paradiso Terrestre, la Terra Promessa, il Giardino delle Esperidi, l’Età dell’oro, l’Arabia Felice: una unica cosa, sotto nomi diversi, l’Impero della natura e l’Abbondanza? E il gran mito fantasticato per tanti secoli rabbiosamente, non si avvera forse alla fine, di là dall’Oceano, in quei paesi miracolosi dove una pianta sola, l’alfalfa, il grano, il lino, il cotone, il caffè, possono fare, in pochi anni come nella favola, di un pezzente come ero io un milionario, di un deserto e di un villaggio, uno Stato fiorente e una splendida città, come San Paolo del Brasile? E come è possibile che l’Europa non se ne dia per intesa; e continui a infuriare, odiare, scomunicare, maledire; e macchini tormenti e violenze; e storpi migliaia di giovinezze fiorenti, come storpiò la mia, per decidere se il mondo deve esser governato in nome di Dio o in nome del popolo, se l’arte classica è più bella della romantica, se una persona intelligente ha il diritto o non lo ha di mandare una buona volta a quel paese Omero e Cicerone; e qual paese valga più, o la Francia, o l’Inghilterra, o la Germania: tre pezzetti di terra che ci vuol la lente a scoprirli sul mappamondo a paragone dei nostri Stati! E da quel giorno, lentamente ma ininterrottamente, sino a questa mattina, ho ricuperata a poco a poco la vista, da cieco che ero; e ho incominciato a vedere, prima come in un barlume poi più chiaramente, il mondo in una parte gioire e risplendere come un’aurora; intristirsi e abbuiarsi nell’altra come un tramonto; quella profondere cantando le sue libere energie nella conquista dell’Abbondanza, l’altra giacer torpida e dolente sotto la tirannide di una oligarchia di giuristi, di filosofi, di letterati, di artisti, di teologi; e finalmente dopo infiniti sforzi, fatiche, esitazioni, questa notte, riflettendo ai suoi discorsi dell’altro giorno, ingegnere, ho capito.... sì ho capito.... Ho capito che la storia per un pezzo si era sbagliata.... Ma a questo punto mi sentii chiamare per nome: mi voltai e vidi pochi passi distante, l’ammiraglio che mi faceva cenno di andare a lui. — Scusi se la disturbo, — mi disse, quando gli fui vicino — ma ho bisogno, proprio bisogno di lei. Cavalcanti l’ha informato, credo, delle peripezie della signora Feldmann.... Ebbene.... Lei non ne ha colpa; lei non sapeva; ma quelle benedette cose che lei ha dette sul divorzio negli Stati Uniti sono da due giorni una spina al cuore della povera signora. Anche adesso smania, piange, grida che il divorzio è già fatto, che essa non arriverà a tempo, che vuol suicidarsi. Io ho tentato di calmarla; ma non mi crede; dice che sono bugie pietose, le mie.... Mi faccia il favore, venga anche lei; e le ripeta quel che ha detto al Cavalcanti. Sebbene mi spiacesse di lasciare la conversazione sul più bello, seguii l’ammiraglio, al ponte superiore, dove erano le cabine di lusso. Ancora vestita dello sfarzoso abito scollato di velo azzurro indossato per il pranzo, la signora giaceva prona sul letto, il braccio sinistro appoggiato ad arco sul cuscino, la fronte appoggiata sul braccio, e il volto nascosto in pieno, singhiozzando sommessamente; mentre accanto a lei Lisetta, la cameriera, stava in piedi, reggendo in mano un bicchiere ed un cucchiaino, con l’aria compunta di chi offre inutilmente a un malato una medicina già rifiutata. Dalla magnifica capigliatura che copriva mezzo il cuscino ai due piedini calzati nelle scarpette di raso che uscivano di sotto la veste in fondo al letto, il bel corpo giaceva in un atteggiamento di disperato abbandono; e sole le spalle nude sussultavan ogni tanto allo scoppiar dei singhiozzi, quasi balzando fuori dal busto. Non si mosse quando entrammo: noi pure tacemmo un istante sinchè l’ammiraglio disse: — «Madame, voici monsieur Ferrero....» A udire il nome, la signora subito si mosse; si levò rapida sul fianco; si mise a sedere, raccogliendosi intorno alle gambe la veste; e mentre cercava di riassettare alla meglio i suoi pettini e i suoi capelli e si asciugava gli occhi, mi domandò scusa di ricevermi a quel modo. Io risposi come si conveniva; e poi, mentre Lisetta si rincantucciava, incominciai un discorso di circostanza, par confutare quello che avevo detto sabato sera; cercando di persuaderla che una persona in vista non poteva far divorzio a quel modo: troppo grave scandalo ne sarebbe nato! Essa mi ascoltò per un certo tempo guardandomi immobile; poi a un tratto scosse la testa, e con aria sconfortata: — Lo scandalo, lo scandalo! — disse. — E perchè dovrebbe averne paura mio marito? Gli altri hanno tutti bisogno di lui, e lui non ha bisogno di nessuno. È la forza della Banca, questa.... Tentai dimostrarle che nessuno, nemmeno il più potente dei banchieri, può oggi sfidare il pubblico e i suoi pregiudizi, oltre una certa misura: ma pronta essa ribatteva tutte le argomentazioni, obbligandomi a cercare nuove sottigliezze. Mentre discutevo così, con il disagio di chi sente che i propri argomenti scivolano invece di entrar nello spirito dell’interlocutore, i miei occhi si fermarono sopra un oggetto bianco, che stava in terra, vicino al letto, poco distante dai piedi della signora e che sino allora non avevo veduto.... Riconobbi il magnifico vezzo di perle, di cui la signora si era ornata quella sera, e che probabilmente era caduto nella prima confusione dei pianti e dei singhiozzi. — Stai a vedere che qualcuno lo pesta — fu il pensiero che mi balenò nella mente. E al disagio dell’argomentare inefficace si aggiunse un nuovo malessere: chè pure parlando non potevo staccare gli occhi dalle perle; mi sentivo spinto ad alzarmi e a raccoglierle: guardavo ogni tanto Lisetta, come per domandarle se era cieca. Distratto da questa nuova preoccupazione risposi anche più debolmente alle argomentazioni avversarie; e a mano a mano che la signora trionfava, più si affannava... — Una nuova crisi avvicina — pensai. E difatti, a un tratto: — Ma chi l’avrebbe detto, ancora una settimana fa! Io che l’aspettavo così tranquilla e contenta. E lui che mi scriveva delle lettere così affettuose! Mio Dio, mio Dio, che sorpresa! Mi par di sognare! Dopo ventidue anni di concordia e di amore senza un’ombra, senza un sospetto! Ma sono possibili, simili cose.... Si cacciò il fazzoletto in bocca, scoppiò in pianto, di nuovo nascose nel cuscino la faccia, singhiozzando, gridando che la sua vita era spezzata, che le avevano tirata via di sotto i piedi la tavola in mezzo al torrente, che i suoi amici, se ne aveva, avrebbero dovuto procurarle della stricnina. L’ammiraglio corse a lei, si avvicinò pure la cameriera coprendo con le sue gonne sul pavimento la collana; la scena era pietosa: ma debbo confessare che non ero tanto commosso dalle lagrime della signora, quanto oppresso dalla paura di sentir da un momento all’altro stridere le perle stritolate. Lisetta intanto di nuovo instava perchè la signora bevesse la medicina, e la signora rifiutava: tirandosi indietro un passo finalmente Lisetta vide le perle: e con la punta del piede le spinse sotto il letto. Respirai; ma non potei non pensare tra me che le cameriere delle miliardarie — o di chi passa per tale — trattano i gioielli con una singolare disinvoltura. Intanto, a poco a poco, la signora si tranquillò; e a mano a mano che si calmava, l’ammiraglio prese a confortarla con discorsi più efficaci dei miei. Le rammentò con dolcezza e con autorità quasi paterna la lunga concordia in cui avevano vissuto per tanti anni, la esortò a non disperarsi come se il divorzio fosse già fatto, quando non era neppur sicuro che il marito avesse proprio l’intenzione di ripudiarla: perchè il dispaccio parlava di una voce; e tante sono le dicerie false, ai nostri giorni! Anche se i ragionamenti non convinsero, i ricordi intenerirono la signora: si levò di nuovo a sedere: convenne con certe affermazioni dell’ammiraglio; e alla fine: — Certo — disse — se ha fatto una cosa simile vuol dire che è impazzito. Bisognerebbe — aggiunse volgendosi a me — che fosse qui suo suocero. Potrebbe darmi un parere o un consiglio.... Libero dall’ansietà per le perle, io dissertai un poco, come potevo, intorno alla follia e alle sue forme. — Se ne intende lei di queste cose? — mi domandò allora. — Io no — risposi. — Ma mia moglie è medichessa: ne parli con lei.... E continuammo così a discorrere per un pezzo di varie cose, sempre più pacatamente; mentre io chiedevo a me stesso perchè quella donna che, come l’ammiraglio aveva provato ragionando a fil di logica, aveva così pochi motivi di temere, fosse invece così agitata ed inquieta; e se essa poi diceva il vero affermando che il divorzio interromperebbe all’improvviso una convivenza durata così a lungo, senza discordia o nuvola alcuna. Il caso sarebbe stato ben singolare, allora! Alla fine, quando la signora ci parve interamente tranquillata, ci ritirammo. Era quasi il tocco. Scesi sul ponte, per vedere se l’Alverighi, il Cavalcanti e il Rosetti c’erano ancora. Il ponte era deserto. Quasi due ore erano passate in quella conversazione e consolazione della signora Feldmann: e in due ore la discussione, o meglio la dissertazione dell’Alverighi, doveva essere terminata. Mi appoggiai un istante alla ringhiera e alzai lo sguardo alla volta stellata... Quando ad un tratto, per la prima volta, in fondo alla tenebra notturna, lucida e quasi silenziosamente sorridente come un vecchio amico che comparisce innanzi di sorpresa, vidi l’Orsa maggiore. Una improvvisa tenerezza mi vinse: quella grande costellazione dell’emisfero settentrionale, mi parve si mostrasse ad annunciare i parenti, gli amici, la patria che ormai avvicinavano; quel mare mediterraneo su cui essa brilla dall’eternità, e che il facondo Alverighi aveva paragonata a una antica palude, densa di miasmi e di febbri. PARTE SECONDA. I. Come e quando la storia si fosse sbagliata, me lo riferì, la mattina dopo, il Rosetti, verso le nove. Mi ero destato tardi, quella mattina, e dopo essermi recato a raccontare alla mia signora i discorsi e i pianti della sera precedente, ero uscito sul ponte, a contemplare l’oriente abbagliante di vapori diffusi; il sole che, sebbene già alto e cocente, non aveva ancora lacerato totalmente il velo di argentea caligine in cui si ravvolge sovente all’uscire dai mari caldi; il fiume di fuoco che dall’orizzonte avanzava, corruscando, verso il «Cordova», per mezzo all’Oceano azzurro. Sul ponte avevo barattata qualche domanda con parecchi passeggeri, intorno all’equatore, che in quel giorno dovevamo passare. — Passeremo? A che ora? A mezzogiorno? Nel pomeriggio? — E infine sul ponte di sopra, a tribordo, avevo trovato il Rosetti. — Dove sei scappato, ieri sera? — mi domandò, appena mi vide. Conoscevo la sua discrezione; e glielo dissi senza reticenze. — Peccato — esclamò, quando ebbi finito — che tu non abbia sentito l’elogio di Colombo! Poichè la storia si era sbagliata sino alla scoperta dell’America, e chi l’aveva rimessa in carreggiata era stato proprio Cristoforo Colombo. Il Rosetti mi raccontò che, me partito, l’Alverighi si era maestosamente librato, per un quarto d’ora, sopra l’abisso dei secoli; affermando niente di meno che fino alla Rivoluzione Francese gli uomini avevano messo il carro innanzi ai buoi, ostinandosi a voler far bello e buono il mondo prima ancora di conoscerlo e possederlo tutto: ad assettare e adornare la casa, prima di averla costruita. Dalla Grecia che insegna al mondo a trattar lo scalpello e la penna, al Medio Evo, che edifica le cattedrali e i palazzi della più fantastica e multiforme architettura di tutti i tempi: dall’Egitto dei Tolomei, onde la bellezza ellenica illuminò degli ultimi sprazzi le case opulente del mondo mediterraneo; alla Roma dei Papi e a Venezia, che vestono di marmi, sete e velluti la loro potenza e fortuna; alla Francia del secolo decimottavo che eterna tre sovrani negli stili di quella sua arte decorativa impostasi al mondo: da Augusto, che protegge Orazio e Virgilio e rifabbrica di marmo l’antica città di mattoni; a Luigi XIV che protegge Racine e Molière; alla marchesa di Pompadour che si sforza di far Parigi capitale delle Eleganze: eternare una forma della bellezza non fu forse la maggiore ambizione e aspirazione di tutti i potentati del passato, non indegni della propria fortuna? E quanti sforzi per stabilire nel mondo il regno o della santità o della giustizia o di ambedue: dall’Impero romano che crea il diritto, al Cristianesimo che vuol mondarci dal peccato, alla Rivoluzione Francese che promette al mondo la libertà, la fratellanza e l’eguaglianza! Così gli uomini per tanti secoli cercarono in ogni parte uno specchio di perfezione che in nessuna esisteva: finchè sullo scorcio del quindicesimo secolo, finalmente! era apparso l’uomo «più che divino!» Di tale epiteto l’Alverighi aveva incorniciato Cristoforo Colombo. Cristoforo Colombo non scoprì solo l’America, ma ridonò all’uomo una seconda volta il globo terrestre già dato a lui da Dio, perchè glielo fece alla fine conoscere. «A ogni passo che Egli faceva nell’Oceano, la terra si ingrandiva di un miglio, sotto i piedi dell’uomo» par che avesse detto, con linguaggio alquanto biblico, l’Alverighi. L’impresa di Cristoforo Colombo fa insomma alla fine intendere all’uomo il dovere di esplorare e di conquistare tutto il pianeta: ma a mano a mano che vide ingrandirsi da ogni parte la terra, l’uomo si sentì piccolo; onde nacque in lui timido da prima e prese poi vigore e ardimento strada facendo, il proposito di pareggiare le sue forze alla ampliata grandezza del mondo. Null’altro che questo proposito ardito e bello è quel che noi chiamiamo comunemente il progresso: e l’uomo lo aveva recato ad effetto, creando la scienza e la macchina. La conquista della terra per via della scienza e della macchina era dunque la grande gesta iniziata sotto nome di progresso nella storia del mondo, dopo la scoperta dell’America: e un lento ma inevitabile effetto di questo rinsavire della storia era il progressivo «disinteressarsi» dell’arte. Un tempo, prima che l’America fosse scoperta in mezzo all’Oceano e le macchine inventate, quando i popoli e le città e i sovrani gareggiavano tra loro a far ciascuno più bello il piccolo territorio in cui vivevano, anche un’arte sola, la pittura o la scultura o l’architettura, per esempio, potevano essere per un popolo fonte di guadagni copiosi, ragione importante di prestigio. Lo Stato, la Chiesa, i sovrani, le famiglie cospicue, gli uomini autorevoli si sforzavano perciò di imporre questa o quell’arte all’ammirazione di tutti. Oggi non più: noi vogliamo e dobbiamo conquistare la terra, con i capitali e le macchine; e nessuna autorità umana si cura dunque più di imporre agli uomini nessun modello di bellezza; e ogni uomo è fatto libero di crearsi da sè il modello suo, la sua misura, il suo criterio; e qui udì anche di giudicare che New-York è la più bella città del mondo. Molti uomini non si sono accorti ancora che le catene di questa antica servitù spirituale sono cadute dalle loro braccia; e continuano a servire docilmente un tiranno che non esiste più; per questa ragione il Rosetti aveva potuto credere che gli uomini anche oggi domandino un padrone e un tiranno nelle cose dell’arte: ma chi non sa che tutte le autorità del mondo sempre sopravvivono un certo tempo a sè medesime nella paura degli uomini? E l’Alverighi aveva conchiuso che anche la bellezza, alla stessa guisa di tutti gli altri potentati umani e divini, si era per secoli imposta al mondo, come il Rosetti diceva, con le baionette e con l’oro: ma il suo tirannico impero era destinato a cader sotto l’invasione delle macchine e delle ricchezze dell’America, che libererebbero il mondo dall’ultima tirannide della vecchia Europa! — Potrebbe aspirare a una cattedra di filosofia della storia, il nostro avvocato! — dissi ridendo. — Ma tutte queste belle teorie se le è forse fabbricate per rispondere a lei e a quel che lei aveva detto l’altra sera? — Sì — rispose sorridendo. — E par che a preparare questa risposta abbia pensato questi due giorni, che si è tenuto in disparte.... — E che cosa hanno risposto, lei e il Cavalcanti? — aggiunsi. — A questo punto ci siamo lasciati. Era tardi; e non avevamo passata la sera, come tu, a consolare delle belle signore. In quella sopraggiunse Gina e mi disse che aveva allora allora, fatta una visita alla signora Feldmann, la quale poco prima l’aveva fatta pregare di salire nella sua cabina: chè essa era indisposta e desiderava vederla.... Poi esitò come incerta se parlare presente il Rosetti: ma quando le ebbi detto che il Rosetti era informato di ogni cosa, ci raccontò come la signora le avesse chiesto innanzi tutto se con la suggestione si poteva convertire l’amore in odio: e poi l’aveva interrogata intorno alla pazzia, al rammollimento cerebrale, alla vecchiaia e agli effetti suoi: confessandole di aver sempre dubitato che interamente sano di cervello il marito non fosse, sebbene essa non sapesse dire perchè. Forse essa non aveva mai capita l’indole e il temperamento del marito, che era un uomo singolare e curioso: soltanto una volta, e proprio ascoltando tanti anni fa, a Parigi, la mia lettura su Nerone, alla «Société de Géographie», le era parso di intravedere suo marito, e proprio in quell’imperatore debole, capriccioso, squilibrato, viziato dall’adulazione, dal potere, dalla ricchezza, dalla facilità di tutte le cose. Mi misi a ridere. Una donna gelosa non esita dunque neppure a paragonare un banchiere americano a Nerone! Ragionammo un po’ di queste confidenze, che mi parevano contradire alquanto le affermazioni fatte la sera precedente sulla immutata concordia della loro convivenza. Ma mentre eravamo in questi discorsi ecco comparire, di corsa come al solito, e con un libro sotto il braccio, l’Alverighi: bianco vestito a nuovo, dalle scarpe alla cravatta, pettinato, fresco e arzillo.... — Ferrero, Ferrero! — gridò, appena mi vide, mentre si avvicinava a noi. — Perchè ieri sera se ne è andato proprio sul più bello? Ha tempo adesso? Le voglio ripetere quello che ho detto. Ma ebbi appena il tempo di avvertirlo che era già fatto: chè la prima campana della colazione, squillando, ci disperse a precipizio nelle nostre cabine. Ci ritrovammo un quarto d’ora dopo nella sala da pranzo, presenti il Cavalcanti e l’ammiraglio che non avevo ancora visti nella mattina, ma non la signora Feldmann che non comparve: e divagammo da prima con i discorsi, un po’ a caso, sull’imminente passaggio dell’equatore. — Quando entreremo nell’emisfero boreale? — Nel pomeriggio, — ci aveva detto, incalzato dalle nostre domande, il capitano. E tutti speravamo — non so perchè — che sarebbe tra poco, verso il mezzodì. Evocammo intanto dei ricordi. Il Cavalcanti era melanconico, e pieno di _saudade_, come sempre, quando si avvicinava all’equatore; perchè nel momento di uscire dall’emisfero nativo, rivedeva a un tratto, come in un miraggio, per vederli poi subito dileguare, i meravigliosi paesaggi equatoriali della sua terra nativa. Ma l’ammiraglio lo canzonò: — Non abbia paura — disse a me. — Dimenticherà le foreste dell’Amazzonia e gli splendori dei tropici, appena passeggerà nel Bois de Boulogne. Come tutti i Brasiliani del resto! Il Cavalcanti sorrise: ma continuò a divagare. — Amo questo azzurro fulgore dei mari equatoriali. Mi ricorda il più bel mare della terra; il Mediterraneo di estate. Questo è un mare greco-latino..... Di qui dovevano passare i figli della Grecia e di Roma alla conquista del Brasile e dell’Argentina! Si ricorda invece, Ferrero, l’Atlantico del settentrione? Sempre piovoso, ventoso, grigio, torbido, gonfio.... Mare da Vikinghi: strada per le dure razze, che hanno popolati gli Stati Uniti: troppo aspra per noi, vecchie razze. Irruppe allora l’Alverighi: — Ed io invece passerò oggi sull’ombelico della terra, come direbbe un Omero moderno, per la dodicesima volta! E ogni volta più, qui sul confine dei due emisferi, nella vampa dei tropici, mi sento invaso da un tripudio, da una esaltazione, da un’ebbrezza indicibile, orgiastica, divina: sento di essere come un re potentissimo, un gigante di forza smisurata; un semidio.... Sì, un semidio! Quando penso a quegli uomini piccini piccini, in mezzo a cui vissero Giulio Cesare e Dante, che per tanti secoli si rimpiattarono come talpe nella buca del Mediterraneo, che non sapevano neppur quanto fosse grande il mondo! E quando invece contemplo me stesso in atto di banchettare tranquillamente, in questo natante castello di ferro, tra l’America, l’Africa, l’Europa, in mezzo a questa infinita pianura di acque, che nessun occhio umano aveva vista dal principio dei secoli, che era stata il selvaggio regno del vento e del sole sino a quattrocento anni fa.... No: noi che siamo nati dopo la scoperta dell’America, nel secolo delle macchine, noi non apparteniamo più alla stessa razza, che popolava prima la terra; noi siamo una superumanità.... — Ma noi non scriveremo più una seconda «Divina Commedia».... — sospirò il Cavalcanti. — Pazienza! — rispose tranquillo tranquillo l’Alverighi. — Sarà poi un gran male, se progrediamo e conquistiamo la terra? Ci guardammo in faccia; e: — Tocca a Dante, quest’oggi — fu il pensiero di tutti. Ma l’Alverighi sorrise, con compiacenza. — Vi scandalizzo, non è vero? Ma insomma: siamo sinceri: c’è uno solo di voi che sarebbe pronto a far getto o rinuncia di una sola delle comodità odierne — del solo servizio delle poste, per esempio, — purchè un nuovo Dante nascesse a comporre un’altra Commedia, umana o divina? Credete proprio sul serio che giovi oggi ancora lamentarsi e rammaricare, se a qualche rarissimo genio non riesce più di partorire il suo capolavoro immortale nella solitudine del suo orgoglio? Quando l’uomo inventa macchine più potenti e conquista la terra, il mare, l’aria; e con in mano questi ordigni miracolosi si accorge di diventare il mago sognato per tanti secoli nelle leggende; e la moltitudine chiede pane, companatico, istruzione, agiatezza, sicurezza, piaceri, aria, luce, libertà: tutti i beni di Dio, tutti gli anni di più? bastano forse a soddisfarla versi e quadri: o non occorrono capitali, e terre, e miniere, e macchine: macchine ogni anno più veloci, più possenti, più portentose.... — Per rimbarbarirla e farla insaziabile, — interruppe Gina a questo punto, improvvisa e recisa. Tutti si volsero verso di lei, un po’ sorpresi sopratutto dal suo tono, aspro e quasi violento: anche l’Alverighi, sebbene egli non paresse lì per lì scorgere il pericolo che lo minacciava di fianco. — Per edificare una civiltà più sapiente, più potente, più ricca, — rispose poi, dopo un istante, pacatamente. — Più prodiga e pazza. Proprio quando la Rivoluzione Francese lo aveva liberato dalla tirannide dello Stato e della Chiesa, l’uomo si è dato schiavo in balia delle macchine. — Schiavo delle macchine, l’uomo? — chiese l’Alverighi sorpreso, come chi non capisce. — Sicuro. Quando le abbiamo fabbricate, non c’è scampo: dobbiamo farle muovere a qualunque costo, perchè se no irrugginiscono; e se non abbiamo bisogno di quel che esse fabbricano, tanto peggio per noi! Non son le macchine che servono i nostri bisogni: ma i nostri bisogni che devono servire le macchine! — Ma, signora, — rispose l’Alverighi — vuol lei forse rimproverare ai nostri tempi il maggiore ben essere della moltitudine? Che il popolo finalmente si sfami; e non vada ignudo; e abiti in case più ariose; e prenda una certa dimestichezza con il sapone? — Il dito mignolo di Leo! — rispose seccamente e un po’ ironica la Gina, alzando lo spalle: e aggiunse rivolta a me: — Ti ricordi la storia? Assentii sorridendo: ma gli altri non capivano e chiesero spiegazioni. — Ai bagni, un anno, — disse essa sorridendo, — nostro figlio vide certi sandali ai piedi di alcuni suoi amici che gli piacquero assai e li volle anche lui. Ma dovette aspettare alcuni giorni che fossero pronti: giorni d’attesa: li sognava persino! Finalmente arrivano: io vidi subito che al piede destro il puntale era un po’ corto e che il dito mignolo usciva fuori. «Ma che! Vanno benissimo!» gridò, e via di corsa saltando e gridando, come un matto, per mostrarli agli amici. Un po’ gridò, saltò e si pavoneggiò; ma poi, passata la prima gioia, incominciò a sentire il dito che gli doleva. Per un certo tempo resistè ma finalmente, il giorno dopo, non reggendo più, venne da me e serio serio: «Sai, mamma, i sandali vanno benissimo: ma il mio dito mignolo è troppo corto». Noi siamo oggi innamorati delle macchine, come Leo dei suoi sandali: e tutti i giorni imputiamo a noi i loro difetti: accusiamo il dito di essere troppo corto, perchè il puntale non è abbastanza lungo. Producono troppo? non è colpa loro: è colpa nostra che ci contentiamo di poco! Ci incalzano a lavorare e a vivere con tanta furia, che ci piglia l’affanno e perdiamo il respiro? Ma che: non sono esse che corrono all’impazzata: siamo noi, degli animali tardigradi e torpidi. Distruggono tradizioni, propagano vizi, dissolvono la famiglia? Ma nemmeno per sogno: siamo noi che siamo gente anti-diluviana, misoneista, nemica del progresso! Il dito mignolo è troppo corto! Dante e l’equatore erano ormai dimenticati da tutti, anche dall’Alverighi. Ma nessuno capiva per qual ragione fosse apparso ad un tratto nella discussione e con tanto impeto un nuovo campione e a difesa di una così ardita teoria. Sentii che occorreva spiegare un po’ questi discorsi e queste allusioni di mia moglie; ed entrato di mezzo raccontai difatti come essa avesse alcuni anni prima fatti studi e ricerche intorno alle macchine, le quali però avevano quasi spaventato così suo padre come me, pendendo a conchiudere che la macchina lavorerebbe con maggiore dispendio sociale che la mano e che i progressi della grande industria meccanica sarebbero una calamità, specialmente per i paesi poveri. Avevamo — suo padre ed io — discusso a lungo con lei intorno a queste tesi e ai fatti che dovevano provarle: ma nè lei aveva persuaso noi, nè noi lei; finchè queste discussioni, e forse anche certe gravi difficoltà incontrate in alcuni punti più oscuri della questione l’avevano indotta a chiudere in un cassetto i suoi voluminosi quaderni di note. — Se però sente parlar di macchine, — conchiusi — piglia subito fuoco anche adesso. Stia attento, avvocato, lei non sa a che cimento si mette. Incuriositi da questo racconto, meravigliati dall’arditezza della tesi, e ormai dimentichi del precedente discorso, si volsero tutti verso la nuova interlocutrice invitandola a svolgere la sua teoria. — Avanti, signora, — incoraggiò sorridendo il Rosetti. — Vediamo se convince anche me, che ho spesa metà della vita a insegnare la meccanica. Ed ella, che aveva già finito di far colazione, stava appoggiata alla spalliera della sedia, con le mani in grembo, sorridendo, un po’ incerta e impacciata, come chi, slanciatosi troppo in principio, tituba poi quando se ne avvede. Sinchè si risolvè e si avviò con una certa esitanza da prima e rinfrancandosi poi, a mano a mano che procedeva nel discorso. — Quello che io penso della macchina.... Dirlo non è facile, così, in poche parole.... Intendo sopratutto le macchine moderne, l’orgoglio dei nostri tempi, quelle mosse dal vapore o dall’elettricità. Orbene: perchè dopo averle fabbricate, dimentichiamo che sono fattura delle nostre mani e ci inginocchiamo davanti a loro! Perchè esse producono la ricchezza più velocemente e in maggiore abbondanza che le mani. Non è così? Ma allora è facile argomentare quel che occorre, perchè le macchine possano renderci servigio per davvero. Occorre innanzi tutto che abbondino le materie greggie: se no, che cosa trasformeranno? Secondo: che abbondi il capitale; perchè si richiede molto capitale per fabbricarle e metterle in opera. Terzo: che dell’oggetto fabbricato ci sia grande e urgente richiesta: vera carestia o quasi: se no, non ci sarebbe ragione di fabbricarne tanti, con tanta fretta, spesa e fatica. Mi sono spiegata chiaro? Carestia, dunque, ho detto. Ma può la carestia essere permanente, eterna, continua? Io direi di no: perchè in una maniera o nell’altra, presto o tardi, per necessità, qualunque sia l’oggetto desiderato, consumo e bisogno si devono adeguare.... O crescono i mezzi per soddisfare il bisogno o il bisogno scema: di qui non si scappa, parrebbe. Quindi la macchina non dovrebbe poter servire, a giudicare a lume di buon senso, che in tempi di straordinaria carestia, per soddisfare in poco tempo una richiesta grande e urgentissima. Per servire di continuo occorrerebbe che esistesse anche la carestia permanente.... Le premesse del breve discorso erano riuscite lucidissime a tutti: ma non così le conclusioni. — La carestia permanente?... — disse l’Alverighi. — Ma neppur ora capisco. Lo ha detto anche lei che la carestia non può essere eterna! — La macchina fa l’abbondanza, non la carestia — osservò l’ammiraglio. — Anche questo — rispose la Gina — è un punto oscuro assai: chiarirlo non è facile.... Bisognerebbe forse che raccontassi la storia della macchina.... Fece una pausa, e poi risolutamente, sempre rivolgendosi all’ammiraglio: — Per qual ragione — disse — crede lei, ammiraglio, che la grande industria a macchina sia nata proprio in Inghilterra e proprio alla fine del secolo XVIII? — Perchè sino allora — rispose invece dell’ammiraglio l’Alverighi — nessun popolo era stato così intelligente e ardimentoso da iniziare un tanto rivolgimento. L’America riconoscerà sempre all’Inghilterra questa gloria, anche quando l’avrà spogliata del suo impero industriale. — E come spiega, allora — chiese la Gina — che nessun popolo d’Europa sia stato sino alla seconda metà del settecento più avverso alle macchine dell’Inghilterra? Il governo le proibiva, e gli operai le rompevano.... Perchè l’Inghilterra aspetta a convertirsi tra il 1770 e il 1790; e quando si converte si mette a filare e a tessere con le macchine non, per esempio, la lana, che in Inghilterra era un’arte antichissima, secolare, paesana, ma il cotone che era ancora un’arte dell’India? «Indiennes, bengalines, calicot», che è Calcutta: i nomi dicono chiaro donde venivano, nel seicento e nel settecento, i panni di cotone che si consumavano in Europa e nelle colonie d’America. La Francia e l’Olanda erano le nazioni che ne facevano il maggior commercio con l’India: non l’Inghilterra, che anzi, a certi momenti aveva perfino tentato di proibire ai suoi sudditi i panni di cotone, per proteggere i panni paesani.... Ma ecco in quel ventennio l’Inghilterra vince invece l’Olanda e la Rivoluzione lega le mani alla Francia: l’Inghilterra resta dunque padrona dei mari e allora la vediamo fare ad un tratto il suo repentino voltafaccia. Perchè? L’Inghilterra non è mai stata molto originale; lascia di solito gli altri provar le cose nuove; ma in compenso sa agguantare con risolutezza quando il momento è giunto. E l’Inghilterra capì allora che quelle macchine tanto odiate sino allora, che parevano dei sogni di menti bislacche, potevano servirle in quel momento unico e passeggero, se lo sapeva cogliere, a spogliar l’India di quella sua antica arte; a conquistare in pochi anni i mercati dell’America e dell’Europa, che erano stati sino allora clienti dell’India. E difatti subito, con diritti enormi, proibì l’esportazione dei tessuti dall’India: obbligò gli Indiani a venderle il cotone greggio; abolì tutti i divieti emanati prima contro il cotone; vuotò con questa violenza e fece la carestia nei mercati d’Europa e di America; monopolizzò la materia greggia. Nel tempo stesso portò alle stelle gli spregiati inventori di macchine e li incoraggiò con ogni sorta di premi; vide infatti apparire tra gli altri Watt e Arkwright; moltiplicò le filature meccaniche, inchiodò al telaio di giorno e di notte, nelle città e in campagna, nelle case loro e in laboratori, uomini, donne, vecchi, fanciulli: si scervellò per inventar ogni sorta di macchine; e in pochi anni l’importazione del cotone greggio e l’esportazione delle stoffe quadruplicò, se ben ricordo. Nel 1815, quando l’uragano della rivoluzione dileguò, il mondo si ritrovò in grembo questa specie di nuovo mostro inaspettato — la grande industria a macchina — che era nato in mezzo a quella tempesta. Una delle più spaventose convulsioni della storia lo aveva vomitato all’improvviso sulla terra.... E avrebbe dovuto sparire, quando il mondo si ripacificò. Poichè insomma questo grande sforzo era stato fatto per sfrattare una situazione momentanea, insolita, quasi unica, che non poteva nè durare nè ripetersi.... Invece il mostro visse, anzi prolificò.... Ma in quel momento la macchina del «Cordova» fischiò, roca, bassa, rabbiosa. — L’equatore, l’equatore! — gridammo, balzando in piedi, tutti, fuorchè il capitano che, deponendo pacatamente il tovagliolo, sorrideva e faceva cenno di no con il capo, mentre i camerieri si avvicinavano sussurrando ossequiosamente: — È mezzogiorno! Ma ormai la conversazione era stata scompigliata da quel fischio improvviso; chi si era levato non si sedette più: uno dopo l’altro si avviarono tutti verso l’uscio. Andammo quasi tutti a tribordo, ad aspettar che l’ufficiale venisse a segnare sulla carta il percorso, discutendo intanto animatamente intorno alle macchine. Ma — oh delusione — non eravamo giunti che a un grado e 29 minuti di latitudine, a 30 gradi e 11 minuti di longitudine! Non c’era quindi speranza di trapassare nell’altro emisfero prima di sera: ci disse l’ufficiale. L’ora era caldissima: sul sole si era disteso un velo di vapori sottile ed ardente: nell’immensa cerchia dell’orizzonte, le nuvole si accavallavano, facevano montagne, grigie alle basi, abbaglianti le vette: il mare e il cielo si scolorivano, nell’afa velata e annuvolata che pesava sull’Oceano. Ad uno ad uno, ci disperdemmo al riposo, nelle cabine, dopo aver convenuto che a pranzo, la sera, avremmo continuato il discorso intorno alle macchine. La mia signora spesso mi aveva ripetuto che in questo secolo si può negar Dio, la patria, la famiglia, ma la macchina no; chè il dubitar della macchina sembra un folle ardimento non meno che l’oppugnare ancora la rotazione della terra o l’immoto stare del sole. Mi coricai per la siesta, pensando che essa aveva proprio ragione. Quella sua non premeditata interruzione era stata bastevole a suscitare di improvviso una nuova discussione, più animata ancora e più ardente delle precedenti. II. Non ebbero difatti neppure la pazienza di aspettar la sera, come era stato inteso, per ripigliare la disputa. Quando, dopo essermi trattenuto un po’ nella cabina a riordinare le mie carte, uscii verso le quattro e mezzo sul ponte di passeggiata, vidi la mia signora, il Cavalcanti, il Rosetti e l’Alverighi, seduti a cerchio e già infervorati ad accapigliarsi pur sotto gli strali ardenti di cui l’Apollo equatoriale li saettava. Chè il sole aveva voltate le spalle al mondo; ed allontanatosi entro una grande nuvola cupa ed orlata di luce, lo illuminava invisibile di tra le nere fenditure e i bianchi spiragli di quella, lanciando a piombo sull’Oceano, di fianco e di sbieco nell’atmosfera, in alto verso il cielo, una immensa raggiera di colonne di luce: sotto le quali l’Oceano fremeva grigio e denso, e l’aria pesava anche più afosa che a mezzogiorno. Ma nessuno pareva accorgersene: nemmeno il Cavalcanti, il quale pur soleva lamentarsi che l’Oceano lo intorpidisse; chè con un certo tono risentito diceva all’Alverighi, il quale lo ascoltava arcigno: — Le stoffe, i pizzi, i mobili, i libri, i ninnoli dei nostri nonni, li rivedremo noi mai più? Quando io osservo i nostri mobili, i nostri ori ed argenti, i panni che noi vestiamo; se capito in un sontuoso albergo o in una banca o in un grande transatlantico e lì guardo quei falsi marmi o quegli ori dozzinali che lo adornano; quando mi gingillo nel salone di sopra e rimiro gli stucchi grossolani e posticci che pretendono di abbellirlo o nel _fumoir_ i fiorami d’oro su fondo rosso che ne fregiano le pareti: ebbene allora mi vien voglia di sorridere; mi par di rivedere i marmi, le statue, i gioielli del basso impero. Se li ricorda, lei, Ferrero, a paragone delle squisite eleganze del primo e secondo secolo? No, no: la macchina ci trasporta a braccia attraverso gli oceani tempestosi: è il portento, la meraviglia, la gloria dei nostri tempi; non sarò io che lo nego, di certo: ma la macchina ha anche fatto scempio delle eleganze che abbellivano ogni ora dalla vita ai nostri vecchi.... Stringi, stringi: a che si riduce la storia del cotone narrata dalla signora Ferrero? L’India è stata spogliata, depredata, derubata per mezzo delle macchine, in pochi anni, dai barbari dell’Europa, di una sua antica e nobilissima arte.... L’India l’aveva creata; e i barbari gliela hanno presa, armata mano! Se a lei par progresso, questo! No: in altre cose i nostri tempi progrediscono: ma decadono invece, quando imbruttiscono. Ma a questo punto intervenne il Rosetti. — E se discutessimo con un po’ d’ordine? La signora Ferrero aveva incominciato a spiegarci come la macchina si è imposta al mondo dopo esser nata per una specie di combinazione gigantesca, se si pensa che tra gli accidenti di questa combinazione c’era nientemeno che la Rivoluzione Francese. E voi l’avete interrotta, per discutere se la macchina è stata benefica o malefica.... Non sarebbe meglio prima di tutto sapere perchè l’espediente di un momento ha presa tanta radice? Poi si discuterà degli effetti della macchina; e del progresso anche, se volete.... Gli altri si tacquero, e: — Perchè? — disse la Gina dopo un momento di esitanza. — Già l’ho detto poco fa. Perchè il mondo fu abbagliato dalla riuscita dell’Inghilterra nel cotone. Perchè in ogni paese ci fu chi sperò di arricchire inventando o fabbricando macchine. Perchè in Europa e in America, la forza delle tradizioni era stata indebolita dalla Rivoluzione e dalle Guerre dell’impero. Perchè c’era l’America, immensa e semideserta. Perchè infine dappertutto gli uomini avevano voglia, sotto pretesto di progredire, di fare un po’ di più il proprio comodo. — Di non vivere più nella miseria e nell’ignoranza, lei vuol dire — interruppe l’Alverighi. — Intendo dire che da poi che il mondo è mondo, si era sempre detto che fosse virtù il saper moderare i propri desideri, non stravolere.... Ci fu un tempo che la semplicità era la virtù dei santi e degli eroi. Ma da cento anni in qua, nossignori: la macchina vuol fare a tutti i costi dell’uomo un animale insaziabile. Perchè non scarseggi mai il lavoro alle macchine, tutti cercano oggi di persuadere il popolo che il suo primo e più santo dovere è il mangiare, bevere, fumare, muoversi, gozzovigliare, sprecare quanto più può e scimmiottar tutti i vizi dei ricchi. Poichè questo vuole, raccomanda, impone il progresso! — La corruzione degli antichi è diventata il progresso dei moderni, come ci ha mostrato suo marito nel primo dei suoi discorsi di Rio — osservò l’ammiraglio. — Sì. Ma Guglielmo non ha osato dire che la causa di questo capovolgimento.... Dirò come lei, avvocato, di questo rovesciamento, è la macchina: la macchina che ha bisogno di effettuare la impossibile contraddizione di una carestia permanente. Eppure mi pare evidente. Noi crediamo di essere più intelligenti dei nostri vecchi, perchè noi fabbrichiamo delle macchine e quelli no. Ma crede lei, avvocato, che a inventare delle macchine occorra poi un gran sapere e un genio sovrumano? Ma se il fondatore della grande industria a macchina è stato Arkwright, che era un barbiere! Gli antichi conoscevano la meccanica meglio di quel che si crede: eppure non fabbricarono molte macchine, e quelle poche quasi tutte per la guerra: perchè con le mani riuscivano a soddisfare i loro desideri ancora moderati; e quindi non venne a nessuno in mente la strana idea di fabbricare con tanta spesa e fatica delle rozze mani di legno e di ferro.... — Ma — obiettò l’ammiraglio — la macchina non sarebbe piuttosto l’effetto anzichè la cagione di questo incremento universale dei desideri? — In parte, effetto, in parte causa. Succede sempre così.... Ci fu del resto un concorso di cause diverse.... L’ho detto e lo ripeto: la Rivoluzione Francese e le sue guerre avevano rallentati, in Europa e in America, tutti i freni: la religione, la tradizione, il buon senso. Senza la Rivoluzione Francese non ci sarebbe neppure la grande industria a macchina, probabilmente. Ma la macchina è nata dal disordine e lo partorisce. Guardi per esempio: tutti sanno che la grande industria arricchisce certuni e rovina molti altri, che oscilla sempre tra annate grasse e annate di rovina.... Perchè? Le buone, quelle in cui fa fortuna chi capita, sono le annate di carestia, quando le cose si vendono a caro prezzo: le annate invece in cui rinviliscono, perchè la macchina ha fatta, per un momento, l’abbondanza, sono mediocri o cattive e chi capita in queste peggio per lui! Quindi la macchina contradice continuamente a sè medesima, perchè, fabbricando molto e presto, fa l’abbondanza: viceversa non prospera che nella carestia. Questa è la ragione per cui la grande industria moderna è sempre occupata a scacciare via dal mondo l’abbondanza che essa ha partorita, a far la carestia permanente, moltiplicando le ricchezze; un paradosso impossibile, come lei intende; e per effettuarlo deve ricorrere agli espedienti più assurdi, impastoiarsi nelle contradizioni più strane: i _trusts_, i sindacati, i monopoli, le tariffe protettive, i premi di esportazione, la conquista delle colonie, lo spreco, la gozzoviglia, il lusso, il movimento perpetuo imposto come un dovere, prima del rispetto del padre e della madre, a tutti gli uomini, anche a quelli che non desidererebbero che di vivere in pace, come i Turchi. Insomma la smania del lusso cresce nel mondo a ondate; a ogni ondata nuova corrispondono alcuni anni di carestia passeggera; che sono poi i tempi in cui le cose si vendono care e molti fanno fortuna: e così tutti a lavorare di lima sui vecchi freni dei nostri desideri; e lima lima, sono tutti rotti, non ce ne è più o quasi: la ragione è scappata dal mondo, appena la macchina è entrata.... — In compagnia della bellezza.... — aggiunse il Cavalcanti. — Ma ha condotto seco la ricchezza, la cultura, la libertà — disse l’Alverighi, con un tono sicuro e fermo. — Se gli uomini di oggi spendono assai, essi lavorano pure molto.... producono quel che consumano. Ma la risposta fu facile. — Producono e depredano. Non bisogna dimenticare che noi siamo così ricchi, in parte perchè invece di sfruttare ragionevolmente l’America la mettiamo a sacco: miniere, boschi, terre.... Sciupiamo pazzamente i capitali edonistici, come li chiamano gli economisti; le ricchezze naturali che non si rinnovano.... — Sciupiamo, saccheggiamo! Si fa presto a dirle, queste parole, signora.... — rispose l’Alverighi. — Ma e poi? e anche fosse vero? non a tutti è lecito andare a Corinto; _pardon_, saccheggiare un continente. Noi saccheggiamo le due Americhe, sia pure! Aggiunga, chè non mi fa paura di confessarlo, che saccheggiamo gli immensi territori della Russia; e non dimentichi neppure che, se Dio vuole, incominciamo a saccheggiare l’Africa e più la saccheggeremo in avvenire! Tanto meglio: perchè saccheggiando noi arricchiamo e progrediamo.... Ma insomma è vero sì o no, che noi siamo oggi padroni, all’ingrosso se vuole, ma padroni di tutta la terra, mentre tre o quattro secoli fa ne conoscevamo appena una piccola parte? È vero sì o no, che cogli occhi, con il pensiero, con il calcolo noi spaziamo nell’infinito, entriamo nelle molecole della materia e nelle viscere della natura? È vero, sì o no, che noi abbiamo con le macchine scorciato lo spazio e allungato il tempo, a dispetto della natura invidiosa e gelosa, che ci aveva date delle gambe troppo corte, un corpo troppo pesante e delle braccia troppo deboli? È vero, sì o no, che noi abbiamo scoperte le insidie più nascoste delle malattie? È vero, sì o no, che noi voliamo come gli uccelli e camminiamo sott’acqua come i pesci? Tutto ciò può o non può definirsi progresso? E avremmo in così poco tempo conquistata la terra, l’infinito, il mondo degli invisibili, se quella furia di ambizioni e di voglie, e l’impeto divino delle macchine, non ci avessero trascinati in capo al mondo? Il ragionamento mi parve facesse vacillare per un istante l’avversario che con un fare un po’ impacciato rispose: — Ma per giudicare un’epoca non basta guardarne le opere.... Bisogna anche dimandarsi se le idee e i sentimenti che lo muovono.... sono nobili, alti, ragionevoli.... — E che cosa rimprovera lei al nostro secolo? — chiese subito l’Alverighi. La Gina titubò un attimo: poi risolutamente: — Che è un secolo _parvenu_, — rispose. — Un secolo _parvenu_? — chiese l’Alverighi. — E perchè? perchè crede nel progresso? — Sicuro. Questa famosa fisima del progresso è proprio lo specchio innanzi cui si pavoneggiano tutti i _parvenus_: uomini, popoli, civiltà. Quel che mi offende nel mondo moderno sono proprio i popoli, i paesi, le civiltà che si dicono giovani, progressive, nuove. Una volta, quando eran gli uomini che lavoravano e non le macchine, una civiltà era opera e gloria di secoli: secoli di educazione, lunghissimi sforzi, e che lavoro! In compenso; però, ogni civiltà maturava davvero, allora.... Oggi invece.... Grazie alla macchina e all’America e al progresso e a tante altre belle novità si improvvisano anche le civiltà, oggi. Basta scoprire delle miniere di carbone e di ferro, possedere un vasto territorio e un po’ di capitale: se la popolazione manca, si racimola nei paesi troppo popolati; si fabbrica prima il ferro, poi con il ferro ogni sorta di macchine, a cominciare dalle ferrovie; e poi con le macchine ogni sorta di roba e robaccia, in fretta e furia, a profusione; pochi inventori e capitalisti basteranno; dalla moltitudine che muoverà le macchine non si richiede nè educazione, nè cultura, e nemmeno che conosca la lingua del paese.... In pochi decenni quel paese rigurgiterà di ricchezze: e poichè oggi gli uomini hanno tanti bisogni e per soddisfarli, in questo lei, pur troppo, ha ragione, occorrono metalli, grano, panni, carne, macchine e non arte, letteratura, religione, giustizia, disciplina, morale, tutti ammireranno quel paese dell’abbondanza come il modello del progresso, l’esemplare della civiltà, al bel modo che la si intende adesso. E così un’accozzaglia rimescolata a casaccio dalla furia di far quattrini, si accorge un bel giorno di essere un gran popolo. C’è proprio da meravigliare allora se s’inebria, se si illude di poter rifare da capo l’universo, e insomma se si persuade che il mondo incomincia da lei? Ma il mondo invece è vecchio, molto vecchio, più vecchio, che non credano i popoli giovani: e non ha bisogno di esser rammodernato ogni trenta anni.... Lei ride? È vero che l’America del Nord è una creatura della macchina, e quindi.... Ma qui tacque, interdetta dal sorriso di trionfo che sfolgorava in volto all’Alverighi. — Ecco! Finalmente! La verità ha parlato! — esclamò. — Ce n’è voluto, ma ha parlato: chiara ed ingenua per bocca sua, signora! Sicuro: perchè i tempi moderni favoriscono l’America più che l’Europa, l’Europa vorrebbe rimontare a ritroso la corrente dei tempi! Perchè l’America ripete all’Europa con le sue macchine più potenti quel tiro birbone che l’Europa già fece all’Oriente con le sue prime macchine, abbasso dunque le macchine! Perchè nella civiltà della macchina, la potenza di quella oligarchia intellettuale che dall’Europa inganna mezzo il globo decade, il mondo rimbarbarisce! Sicuro: sono le macchine, e tra queste, precipua, la ferrovia che han fatta l’America contemporanea. L’Argentina, il Brasile, gli Stati Uniti sarebbero oggi ancora deserti, senza le ferrovie e l’infinito numero delle macchine agricole e industriali, inventate negli ultimi cento anni! Proprio per questo noi Americani adoriamo la macchina, perchè per essa noi sfruttiamo in largo, in lungo e nel profondo i nostri sterminati territori: e possiamo trarne fuori ricchezze, ricchezze, ricchezze; un fiume, una piena, un Oceano che coprirà il mondo e seppellirà tutti i monumenti delle civiltà passate.... — Non ne dubitiamo — interruppe sospirando il Cavalcanti. — Ma intanto nel chiuso Mediterraneo, Atene, Costantinopoli, Efeso, Alessandria, Roma, Venezia, Firenze, le città madri e maestre, chinano il capo, invecchiano, cadono in rovina, si vuotano, si tramutano in bordelli ed osterie.... Al di là dell’Atlantico le città officine, i mostri enormi, Filadelfia, New-York, Chicago, ergono al cielo trionfando i grattanuvole e i camini fumanti.... — Aggiunga pure — rispose pronto e con ironico ossequio l’Alverighi — che l’Europa tutta si accinge a mettere all’incanto e in liquidazione quella sua vecchia civiltà di cui è tanto fiera, la parte almeno che vale ancora un po’... E per avere in cambio dall’America ferro, grano, cotone, petrolio, lana.... Ma la frase scatenò una piccola tempesta. — Vede, vede dunque che ho ragione io, che la macchina rovina i paesi poveri, — disse la Gina. — Gli uomini non abbisognano solo di balle di cotone e di carni agghiacciate — protestò il Cavalcanti. — La gente crede — incalzò la Gina — che le macchine creino la ricchezza: ma le macchine invece la cavano da dove c’è: e con profitto solo da dove ce n’è molta, che la possano cavare rapidamente. Per questa ragione i paesi naturalmente poveri non possono più sfruttare le piccole loro risorse nè con la macchina, chè costerebbe troppo, nè a mano, perchè nessuno vuole o sa più lavorare colle mani, oggi, grazie al progresso; e tutti preferiscono andare a porre in opera le macchine dell’America. Un bel risultato! — La cultura sarà un’illusione, — osservò il Cavalcanti — ma potrebbe l’uomo vivere disilluso eternamente? Non di solo pane vive una civiltà.... — Bella civiltà, — interruppe la Gina — in cui val più per un popolo possedere delle miniere di carbone, che una tradizione antica di cultura. Una volta almeno, quando l’intelligenza governava il mondo, delle splendide civiltà fiorirono anche in paesi poveri e sterili. Si rincorrevano le obiezioni e si accavallavano, come le onde sul mare; e l’Alverighi non poteva rispondere ad alcuna.... Ma a questo punto di nuovo intervenne il Rosetti. — Scusatemi se vi interrompo un’altra volta: ma a me pare che in tutta questa vostra disputa, come del resto in quasi tutte le dispute, sia sottinteso un malinteso. Voi credete di discutere delle macchine, ma in realtà discutete di nuovo del progresso. Già una volta eravate cascati, senza accorgervene, in questo argomento piuttosto spinoso.... E ci siete ricascati adesso, perchè ciascuno di voi parla delle macchine e degli effetti che fanno nel mondo, muovendo da una diversa definizione sottintesa del progresso. La signora Ferrero accusa la macchina di peggiorare invece di migliorare il mondo, perchè estirpa da quello certe virtù e coltiva in loro vece certi vizi come la prodigalità, l’intemperanza, l’egoismo: in altre parole essa giudica il progresso secondo un criterio morale. Il Cavalcanti pensa invece che il mondo, progredendo, dovrebbe diventare anche più bello: giudica dunque il progresso anche secondo un criterio estetico; quindi la macchina in parte almeno rimbarbarisce il mondo.... Lei invece, avvocato, mi pare ammettere che l’accrescimento della potenza e della ricchezza è da solo progresso: quindi le macchine sono la provvidenza degli uomini. Come volete intendervi se ciascuno parla una lingua diversa? Voi fate un duello alla spada, a venti passi di distanza. Se crediamo venire a una conclusione, bisogna che discutiamo questa altra questione: che cosa è il progresso? — Ma è chiaro, — rispose pronto l’Alverighi. — Il progresso è la conquista della terra. — La conquista della terra? come fine a sè medesima? Ma no: io non accetto questa definizione.... — disse il Cavalcanti. — Se la bellezza è un bene, il progresso deve accrescerlo, anche questo come gli altri beni; e non si potrà dire che progrediscano in ogni parte dei tempi da cui la bellezza è scacciata come una vergogna.... — Ma chi le permette di dire — chiese di nuovo pronto l’Alverighi tagliando la parola alla Gina che accennava a parlare — che il mondo d’oggi sia più brutto del mondo di ieri?... Il Cavalcanti tacque un istante, come sorpreso; poi scrollando le spalle, tra stupito e sardonico: — Lei si sentirebbe allora l’animo di sostenere, per esempio, che questi nostri abiti fatti a macchina, non sono più brutti di quelli che portavan gli uomini del settecento? Come sarebbe terminata questa strana discussione, non so: ma ecco in quel momento sopraggiungere, placido, attillato, dignitoso, fumando un avana grosso come le dita grassoccie tra cui lo stringeva, il signor Vazquez. Ci salutò, si sedè in un seggiolone che era rimasto vuoto tra noi e: — Sempre filosofia — disse ridendo. — Il «Cordova» sarà chiamato «el buque de los savios». Il guaio è che quel signore — e minacciò l’avvocato con il dito — si è dato all’ozio. Aveva promesso di scrivere, qui sul battello, il rapporto che io debbo presentare ai banchieri di Parigi per un certo nostro affare della provincia di Mendoza.... Ma sì! Non fa che leggere, pensare, discorrere.... Scherzosamente, il Cavalcanti gli disse che l’Alverighi ci stava rivelando proprio allora cose più gravi e più grandi, che i più grandi e gravi affari della terra. Ma il Vazquez non si commosse. — Gli do vacanza — disse — sino a Gibilterra. Ma da Gibilterra in poi lo richiamerò alle cose serie. Avrà tempo, del resto, per discorrere. Con questa tartaruga! Venti giorni per andare da Buenos-Aires a Genova! «Es una enormidad». Gli obiettammo che sulle vie del Sud il carbone è più caro che su quelle del Settentrione. Ma non vacillò. — No, no: io andrò in dieci giorni da Buenos-Aires a Genova, ne sono sicuro: se non sarà il carbone, sarà il petrolio, o l’elettricità, o l’idro-aereoplano: o qualche altro portento. Ma qualche cosa sarà. Io credo nel progresso. — Come tutti gli Americani — osservai. Assentì con il capo; trasse due lunghe boccate di fumo, facendo rosseggiare la brace del sigaro; e poi: — Dieci anni fa, andando in Europa facemmo scalo a Bahia, e lì vidi il primo tranvai elettrico. Come rimasi, loro se lo figurano! Pensino che a Buenos-Aires tutti i tranvai erano a cavalli, ancora! Adesso hanno visto, in dieci anni, che cosa siamo stati capaci di fare! Abbiamo la prima rete elettrica del mondo; anche Parigi ce la invidia, con quei suoi vecchi omnibus a cavalli. Tacque un momento, come pensando; poi volgendosi a guardare me e sorridendo: — Non è una cosa curiosa? — mi disse. — Aver fatta la Rivoluzione Francese e aver ancora dei tranvai a cavalli? Alquanto sorpreso da questa osservazione, gli chiesi se Parigi, ingombra di fili e di pali, sarebbe stata più bella agli occhi suoi: ma invece di rispondermi, seguì il filo del suo pensiero. — L’Argentina è così prospera, perchè noi, tutto quello che si fa di nuovo nel mondo, subito l’adottiamo. Siamo un popolo _adelantado_, noi! Poi trasse l’orologio. — Sono le cinque e mezzo — disse. — Abbiamo tempo, avvocato, di fare una partita, prima di pranzo. Se ne ha voglia, venga. Se no, questo passaggio dell’equatore sarà davvero troppo noioso. L’Alverighi non seppe rifiutare questo piccolo piacere al suo cortese e ricco amico: e così la compagnia si disperse. Io me ne andai pensando che senza tanto discutere il Vazquez aveva giudicata in ultima istanza la questione del progresso. Come tanti altri americani, del resto! Ma l’equatore era cagione in tutta la nave di una insolita agitazione. I passeggieri ritornavano assiduamente ogni tanto a studiare la carta; si richiedevano a vicenda a quale ora si passerebbe; interrogavano gli ufficiali, i camerieri, i cuochi, gli sguatteri, sebbene tutti costoro avessero già ripetuto dieci volte all’uno o all’altro «verso sera»; osservavano il cielo e il mare, come aspettando in quello un qualche annuncio o mutamento improvviso. Ma inutilmente: chè il «Cordova» traeva per l’Oceano deserto con quella sua posata e sempre eguale andatura.... Per ingannare il tempo, intanto, uno dei mercanti astigiani tendeva insidie alla moglie del dottore di San Paolo, cercando di persuaderla che, se guardasse attentamente il mare con certo cannocchiale, avrebbe veduta la «linea»; tutti si recavano ogni tanto a dare una occhiata, nella sala da pranzo, ai preparativi per la festa della sera, confidandosi a vicenda le dicerie che correvano. Tra le quali che la signora Feldmann si sarebbe alla sera ornata di un famoso diadema che costava due milioni! Avendo incontrato l’ammiraglio solo, gli chiesi — poichè egli conosceva i Feldmann da tempo — se credeva proprio che quel divorzio capitasse tra capo e collo alla signora, così di sorpresa, come essa diceva. Mi rispose che, a sua saputa, marito e moglie vivevano in buon accordo; tutti consideravano e non pochi invidiavano la famiglia come felice: egli inclinava perciò a giudicare falsa la diceria del divorzio, sebbene non sapesse spiegare come fosse nata. Ma non so perchè — forse perchè ero in sospetto — mi parve di osservare nei discorsi dell’ammiraglio una dissimulata reticenza. A poco a poco il giorno discolorato e caldo si spense sul mare deserto: ma l’ora del pranzo giunse prima dell’equatore: e ci recammo tutti, in abiti da festa, alle mense, un po’ delusi e quasi irritati contro l’irraggiungibile linea. In compenso la sala era piena, tutti avendo fatto uno sforzo per assistere al pranzo dell’equatore. Ultima arrivò la signora Feldmann, che non avevo ancor veduta nella giornata, fresca e allegra come al solito, ornata non del famoso diadema, ma del vezzo di perle miracolosamente scampato la sera prima al piede imprudente di Lisetta. E mi guardò, mi salutò, parlò meco e con gli altri con tanta disinvoltura e allegria che, sebbene al primo incrociarsi dei nostri sguardi io mi fossi sentito un poco impacciato, pochi minuti dopo non pensavo più neppure io ai pianti e ai lamenti della sera precedente. Restammo tutti un po’ male quando il capitano ci annunciò sorridendo che prima delle dieci non si passerebbe l’equatore: ma presto dimenticammo la linea, non appena, dopo la seconda portata, il Cavalcanti pregò l’Alverighi di continuare il discorso interrotto poco prima e di dimostrargli come non si potesse affermare che la macchina abbia imbruttito il mondo. — Ma è l’uovo di Colombo, — rispose pronto e allegro l’Alverighi. — Osserviamo gli abiti, poichè lei ha scelto questo esempio.... Negherebbe lei che l’arte della seta fabbrica oggi delle stoffe che sono una gioia degli occhi, dei portenti di bellezza, opere d’arte vere e proprie? Oppure che tutte le altre stoffe di lana o di lino o di cotone e via dicendo, di cui si vestono le signore, siano prive di bellezza? Che non sia un’arte bella quella che veste le signore, con quanta disperazione e rovina di noi sventurati mariti, lo sappiamo tutti? Accetto sino da ora la signora Feldmann come arbitra, se delle contestazioni nasceranno. Ma su questo punto non possono nascerne: piuttosto lei potrebbe dire che nell’abito mascolino la ragione della comodità è sempre anteposta alla ragione del bello. Ma non è vero: anche nei panni che noi vestiamo l’industria moderna cerca di infondere una favilla di bellezza, per attirare i compratori: disegni e colori piacenti; tagli eleganti; forme che convengono alla persona che li indossa: effetti di bellezza, insomma, come nell’abito del settecento tutto sbuffi, pizzi, risvolti.... — Ma — interruppe il Cavalcanti scrollando le spalle — le stoffe d’oggi sono robaccia dozzinale; e quelle altre erano monumenti d’arte quasi eterni. — Robaccia dozzinale! Monumenti d’arte! — rispose l’Alverighi. — Parole sonore, non c’è che dire. Ma di grazia; e la discussione dell’altra sera, non se ne ricorda già più, lei? Le è uscita tutta di mente? Ho sprecato con un bel profitto il mio fiato, allora! Ma già le discussioni sono inutili: discutiamo, litighiamo, andiamo sulle furie, uno sembra vincere e convincere, l’altro sembra vinto e convinto, pare che le idee si siano mosse, schiarite, scambiate da una testa all’altra.... E mezz’ora dopo, ciascuno ricasca nelle sue vecchie opinioni, come uno che si è mezzo svegliato a mezza notte e si riaddormenta dopo pochi minuti. Ma questo è il momento di trarre partito, per un caso pratico, delle nostre discussioni precedenti.... E perciò le chiedo: con quale metro o bilancia mi vuol lei pesare e misurare la bellezza delle mode presenti e quella delle antiche, per scoprire che nelle presenti ce ne è meno che nelle antiche! Come farebbe lei a dimostrarmi che le mode antiche erano più belle, se io le dicessi — come le dico — che a me piacciono più le nuove e presenti? No, lei, come tanti altri, scambia per decadenza dell’arte quella che è invece la sua purificazione dagli interessi, effettuata appunto dalle macchine. Sinchè gli uomini e le donne si vestivano di stoffe che, per fabbricarne con le mani un metro, occorrevano dei mesi, era naturale che la Chiesa, lo Stato, la Monarchia, l’Aristocrazia, tutti i potentati del tempo si sforzassero di imporre quei pochi modelli, di impedire mutamenti troppo frequenti nel gusto e invasioni di modelli forestieri. Non c’era altro modo per assicurar pane e lavoro alle corporazioni d’arte e ai conventi: e come potevano imporli, quei modelli, se non persuadendo gli uomini che erano belli, arcibelli, bellissimi? Ma anche questa non era che una opinione rovesciabile, come dice lei, ingegnere. E difatti nessuno la professa più ora che la macchina fabbrica rapidamente e varia con facilità; quindi a mano a mano che la macchina trionfò, tutti i potentati del mondo si _disinteressarono_ (e calcò sulla parola) delle arti tessili: il pubblico non ha più sul collo tutte le autorità della terra e del cielo, quando si veste: oggi a chi piace una stoffa e a chi un’altra; i giudizi dissentono, ma noi non litighiamo e non fondiamo delle cattedre di estetica, per saper chi ha ragione e chi ha torto: ciascuno compra e si gode quella stoffa che più gli piace: la adopera, la logora, la smette e dimentica.... Tacque un istante aspettando. E il Cavalcanti: — Tuttavia — osservò — il patriottismo qualche volta fa ammirar a certuni le stoffe del paese: e lo snobismo ad altri quelle inglesi o francesi.... — Sì — rispose l’Alverighi. — Ma i mercanti di solito ci pongono rimedio, imbrogliando gli uni e gli altri. Vendono ai patriotti come paesane le stoffe forestiere: e agli _snobs_ come forestiere le stoffe del paese.... — Vada per le stoffe gli abiti e i mobili, — disse il Cavalcanti, dopo un attimo di esitazione. — Ma le grandi arti, l’Aristocrazia del bello.... L’Alverighi non gli diè tempo di continuare. — Anche nelle grandi arti — lo interruppe a volo, — quella che gli sciocchi chiamano la decadenza dell’arte, non è che la sua liberazione dagli interessi mondani, opera del progresso. Vuol convincersene? Volga gli occhi verso l’America, per un minuto. Gli Europei amano ripetere che gli Americani sono degli asini con il basto d’oro: sarà, ma intanto lei, signor Cavalcanti, l’altra sera, disputando con me, quando io conciavo a quel modo l’«Amleto», lei disse che gli Americani sanno ammirare il bello più degli Europei. Quella volta, Cavalcanti, lei ha parlato da vero americano. Il Cavalcanti fece un saluto ironico di ringraziamento: e l’ammiraglio: — Meno male — disse volgendosi verso di lui — che questo capiti qualche volta anche a chi nasce da una famiglia stabilita da due secoli in America. — Da troppo tempo! — ribattè subito l’Alverighi. Il Cavalcanti e l’ammiraglio sgranarono gli occhi: ma l’altro proseguì lesto: — Due o tre generazioni dopo che si sono arricchite, le famiglie americane ricominciano a europeizzare, smarriscono quello che io chiamerei il senso del continente.... — Ho capito — conchiuse il Cavalcanti. — In America, di veri Americani non ci sono che gli Europei! Ridemmo tutti: anche l’Alverighi che di lì a un momento riprese: — A ogni modo l’America, come lei diceva, è aperta a tutte le arti, a tutte le scuole, a tutte le idee, senza preferenza, equamente. Non è forse vero che noi rimpinziamo di fogli da mille i conferenzieri, i musicisti, gli autori ed attori, i cantanti, i pittori e scultori di ogni paese e scuola? Quale è la città d’Europa che rappresenta tante opere di tutto il repertorio e così bene come Buenos-Aires e New-York? È vero sì o no, che chi voglia riudire i dolci concenti dell’antica opera italiana, deve andare non a Roma o a Milano, ma in Argentina o negli Stati Uniti? E a lei, Ferrero, chi ha somministrati i mezzi di continuare l’opera sua: l’Europa o l’America? E come si spiega questo fenomeno, se l’America fosse la Tebaide dell’Intelligenza, il Sahara della coltura? Ma che Tebaide; ma che Sahara! l’America è disinteressata dell’arte: perchè grazie al cielo e grazie al progresso, ha del grano, del ferro, del carbone, del petrolio e ogni altro ben di Dio da vendere in quantità e non delle arti da imporre a nessuno, nè dentro nè fuori. Depurate l’arte da ogni interesse: che resta? Quel piacere incerto e vago se si vuole, ma delizioso e inebriante che dà la bellezza, quando e a chi lo dà, come diceva lei, Cavalcanti, l’altro giorno. Non beviamo, noi Americani, gli Champagne più famosi: non fumiamo gli Avana più cari: non ci facciamo vestire dai sarti in voga di Londra e di Parigi? E per qual ragione non godremmo anche, quando ci piacciono, i bei quadri, i bei libri, la bella musica, i bei giardini? Ma intendiamoci bene: senza credere che il piacere nostro sia universale, e senza volere o permettere che diventi obbligatorio.... Di tutte le cose che mi danno fastidio, la più fastidiosa per me è la boria estetica degli Europei. Ci trattano di barbari, noi Americani, perchè essi soli saprebbero fare e giudicare le cose belle. Ma queste fanfaluche le vadano a raccontare ai gonzi, i signori critici ed esteti di Europa. L’estetica è l’ultima tirannide che l’Europa vuol imporre al mondo: ma, creda a me, ingegnere, l’America la manderà in frantumi anche questa, ha già incominciata anzi questa gloriosa fatica — e con quanto successo! Noi daremo a ogni uomo il diritto di ammirare a dispetto di tutti quel che egli sente bello: la scultura greca, la pittura giapponese, l’architettura gotica, i gratta-nuvole di New-York o la musica futuristica degli amici di Marinetti, se gli garba. Non più critica dunque, non più teorie estetiche, non più tradizioni, scuole, pregiudizi o partiti presi: ma libertà, libertà, libertà.... Questo è il solo modo sicuro di sciogliere le interminabili dispute intorno al bello che hanno agitato gli uomini per tutti i secoli.... Libertà! A queste parole un lampo mi attraversò lo spirito. La ragione per cui quel mercante di Rosario, evaso dalle scuole europee, aveva scoperto che l’arte è un piacere senza bisogno, vago e incerto; quella ragione invano cercata per parecchi giorni era chiara adesso; era quella! Scuoter l’autorità dell’Europa, che al Rosetti pareva così salda. Mi ricordai quanto facilmente in America trovan favore, sotto pretesto di modernità, le novità più rivoluzionarie dell’arte, della letteratura e dell’estetica, che l’Europa inventa; e anche in questo favore, di cui non avevo mai capita la ragione, mi parve di scoprire, alla luce di quelle parole, un’oscura e inconsapevole aspirazione del nuovo mondo a quell’indipendenza spirituale dal vecchio, che l’Alverighi, andando per le spiccie come al solito, annunciava imminente. Ma intanto il Cavalcanti aveva preso a rispondere: — Che in questo che lei dice ci sia del vero — dicendo — per l’America almeno, lo ammetto. Ma in Europa.... — Anche in Europa — interruppe l’Alverighi. — Anche in Europa la moltitudine si è fatta smaniosa di progresso e cioè di lusso, di comodi, di agiatezza, di istruzione. Quanto pane e quanto companatico possono ancora largire sulla moltitudine del vecchio mondo le arti, le lettere e le scienze che non servono all’industria, a paragone delle terre, delle miniere, delle macchine? La pittura, per esempio, o la scultura o la musica: quanti milioni di operai potrebbero nutrire queste arti in Europa, anche se un popolo riuscisse a monopolizzarle, supponendo pure che riunisse le nove Muse in un sindacato? Sogni, chimere, fantasie d’altri tempi, credano a me: macchine e non penne, miei signori, vuole oggi il mondo, per sfamare i suoi popoli: l’arte sarà la magra risorsa dei popoli poveri, che non hanno vasti territori, e miniere di carbone.... E senza badare alla meraviglia che traspariva a queste parole dalle nostre faccie: — A una condizione però, intendiamoci bene, — soggiunse riscaldandosi ancora: — che gli artisti sian contenti di essere quali sono e non altri o di più: artigiani del piacere, eletti, ben pagati, ma artigiani: non semidei! Libertà nel pubblico, modestia negli artisti: ecco i due principî dell’arte futura. Saprebbe lei, signora — e si volse alla signora Feldmann, — dirmi il nome dell’artista che ha disegnata codesta bellissima stoffa? No. Si è mai curata di conoscerlo? Neppure. Ha pagata e ammirata l’opera; e basta. Così saranno nell’avvenire trattati tutti gli artisti: e saranno più seri e felici. Mutano i tempi, signori miei: guai ai popoli che non se ne avvedono: per secoli gli uomini invece di dilagare come una piena sull’universo, si son raggomitolati su pochi punti del globo e non volevano uscirne; in poche forze d’arte e non avevano occhi e nervi e orecchi che per quelle: in una sola dottrina filosofica, e in una sola credenza religiosa, e guai a chi osasse varcarne il confine! Oggi, non più, non più, non più.... L’uomo ha spalancate le porte dell’universo: il progresso ha vinto: l’America è maestra. Noi vogliamo tutta la terra, tutta la bellezza, tutti i piaceri, tutte le verità.... — Insomma — disse a questo punto il Rosetti — l’arte sarebbe, secondo lei, un puro e semplice divertimento, posto fuori di quel gran movimento delle cose umane, che si chiama il progresso. — Naturalmente — rispose l’Alverighi. — E del resto è chiaro: progredire significa imparare a far meglio o a far di più. Ora chi non sa che in arte molti pensano che noi siamo da meno dei nostri antenati e quindi avremmo disimparato invece di imparare? Altri — è vero — pensa l’opposto: ma chi abbia torto e chi ragione, non c’è verso di saperlo: dunque la verità è che l’arte non progredisce: muta e varia, solamente.... — E lo stesso — soggiunse il Rosetti — ho paura potrebbe dirsi della morale, allora. Come si fa a sapere se una generazione è più buona o cattiva di un’altra? Ma non potè continuare. Già i camerieri avevano incominciato a mescere lo Champagne offerto dalla nave per festeggiare il passaggio dell’equatore: onde i nostri discorsi furono a questo punto interrotti dai brindisi e dalla cerimonia del battesimo. Il capitano versò alcune goccie di Champagne sul capo di quanti varcavano per la prima volta il confine ideale dei due emisferi. Ma il rito era appena terminato che i camerieri ricomparvero, reggendo altre bottiglie in grande numero; e incominciarono a propinare a tutti, a profusione, il vino prezioso. Il signor Vazquez offriva. Nella sala riscaldata dall’equatore e dai fumi del vino già bevuto, l’entusiasmo divampò: tutti si alzarono brindando al signor Vazquez e all’Argentina: anche la signora Feldmann gli fece un sorrisetto, prima di tuffare le piccole labbra rosse nell’oro liquido: il signor Vazquez, composto, tranquillo, dignitoso, ma soddisfatto rispondeva a tutti, sorridendo cortese. Osservai però che il dottor Montanari, il quale quella sera pareva anche più imbronciato e stizzoso del solito, aveva rifiutato il vino. Pure in quel momento, volgendo gli occhi intorno, mi accorsi che non erano presenti nè il giovane di Tucuman nè sua moglie. — Non ameranno le feste — pensai. Ci furono poi dei discorsi e molto chiasso; e insomma non potemmo ripigliare il nostro ragionamento: cosicchè il pranzo terminò allegramente, ma con frivoli discorsi, e ancora nell’emisfero australe. Uno dopo l’altro ci stancammo tutti di aspettare seduti a mensa questo equatore, che «faceva un po’ troppo il suo comodo» come disse l’Alverighi: e ci disperdemmo per la nave. Io uscii con la Gina e il Cavalcanti, dietro la signora Feldmann che se ne andava al braccio dell’ammiraglio: onde nel vestibolo, mentre il Cavalcanti mi mormorava all’orecchio alludendo all’Alverighi: «Lei ha ragione, Ferrero: è proprio un genio rinselvatichito nella Pampa» potei vedere la bella genovese, la moglie del dottore di San Paolo, due o tre altre signore, il gioielliere che stavano lì in piedi, come aspettando qualcuno: la miliardaria, era chiaro. Fecero infatti silenzio e un piccolo inchino quando essa comparve dal refettorio nel vestibolo: poi le misero gli occhi addosso, mentre si avviava verso la porta che dava sul ponte, quasi direi avidamente, come volessero stamparsi nella memoria tutte quelle meraviglie, vive e morte, della natura e dell’arte. Curioso di sentire che cosa direbbero, lei uscita, rimasi nel vestibolo, facendo vista di nulla. — Quanto è bella! — sospirò prima la genovese, non so se alludendo alla persona o alla veste, forse a tutte e due: perchè la signora Feldmann era posta dalle sue ricchezze, come una regina, al di sopra della naturale gelosia femminina. Un’altra signora incominciò un elogio dell’acconciamento, diffondendosi in minuti particolari, forse per mostrare quanto essa si intendesse di vesti di pregio e di prezzo. Ma il gioielliere intervenne: — L’abito è niente! le perle invece.... Quelle perle, quelle perle! Appartenevano a qualche rayah indiano: ci scommetterei! Delle perle come quelle, non le avevano una volta che i sovrani dell’India! III. Uscii sul ponte. Di rimpetto alla porta, appoggiato alla balaustra, le spalle al mare, solo e immoto, stava il dottore. Mi fermai e lo salutai. — Buona sera, dottore, come va? — Si campa — mi rispose asciutto asciutto, come chi vuol far intendere di non gradir compagnia. Per non usargli lo sgarbo di accontentarlo subito, gli chiesi, un po’ scherzosamente, se i suoi «matti» gli davano molto da fare. — Abbastanza — rispose. — Ma non è la quantità del lavoro che mi pesa! È la qualità. A proposito, — aggiunse, — con quel suo Antonio si va di male in peggio.... Aveva detto «quel suo Antonio» come intendesse farmi responsabile della sua cattiva condotta: non ci badai: gli domandai che cosa aveva fatto. — Vuole ammazzarla, sua moglie, vuole.... — mi disse. — Adesso si è messo a far la corte a una vedova, una veneta, certa Maria che ritorna dal Brasile, pare, con dei quattrini! Cose da pazzi! Intanto oggi, dopo colazione, hanno fatto una festicciuola ballando e suonando, giù, nelle terze classi: e lui l’ha costretta a ballare. In quello stato, che quasi non si regge in piedi! È caduta in deliquio: ho dovuto correre: ho fatta una scenata terribile: ma sì, con quella gente! Se ne scuopre una nuova, tutti i giorni! E raccontò di aver quel giorno conosciuta la storia di una famiglia di siciliani — marito, moglie, due figli — che ritornavano dallo Stato di San Paolo. Avevano lavorato per tre anni in una delle più lontane fazende del signor X...., un ricco brasiliano che io avevo conosciuto. Ma l’intendente della fazenda era un prepotentaccio, che aveva tentato sedurre lei, donna piuttosto piacente: respinto, per vendicarsi e per far capitolare la virtù della bella restìa, non li aveva più pagati: aveva posto delle guardie intorno alla fazenda e aveva minacciato di farli prendere a schioppettate se tentassero di fuggire.... Imaginarsi le loro tribolazioni! Avevano venduti e impegnati i quattro cenci che possedevano per non morire di fame: e alla fine solo per un caso erano riusciti una notte a sfuggire alle amorose furie dell’intendente, facendo a piedi non so quante miglia per raggiungere una stazione di ferrovia, che fosse per essi sicura. — Non hanno più che gli occhi per piangere, quegli sciagurati. Ben gli sta, del resto: impareranno a lasciare il loro paese — conchiuse il dottore. Questo racconto però aveva fatto nascere in me qualche dubbio, che con molta prudenza esposi al dottore. Gli dissi che il signor X.... era una persona ricca, colta, rispettata, dabbene: sembrarmi poco probabile che in una delle sue fazende potesse essere intendente un simile manigoldo: del resto non credevo, dopo aver visitato lo Stato di San Paolo, che simili soperchierie fossero facili e frequenti neppure in fazende lontane e possedute da cattivi padroni. Esserci padroni di ogni qualità, buoni, mediocri e cattivi: ma neppure i cattivi poter poi oltrepassare nelle loro nequizie un certo segno, tracciato dalla civiltà moderna, tra gli avanzi della foresta primigenia non ancora arsa e le piantagioni del caffè, anche sull’altipiano montuoso di San Paolo. Lo Stato di San Paolo era stato messo dal rinvilio del caffè, per alcuni anni, a una prova dura assai: non era però giusto — come troppo spesso si faceva in Italia — imputare tutti i guai di questa crisi ai padroni, accusandoli d’essere dei barbari schiavisti, quando tanti erano tra essi i gentiluomini e dopochè tanto oro gli italiani d’Italia e d’America avevano raccolto tra gli arbusti del caffè. Gli dissi infine che occorreva esser guardinghi con gli emigranti. Non aveva egli stesso detto che diventavano tutti isterici e mezzo matti? Questo era il momento di ricordarsene, anche se aveva esagerato, dicendolo: perchè, inaspriti dalla solitudine, dalla lontananza, dal clima e dal vivere così diversi, dalle difficoltà delle crisi, molti emigranti imputavano ai padroni anche quelli tra i loro guai, che erano invece da attribuirsi alla fortuna e alle contingenze. Ma parlavo ad un soldo. Non rispose; mi guardò invece con occhi diffidenti, quasi ostili, come avesse dinanzi un agente di emigrazione. — Del resto — aggiunsi per rompere quel fastidioso silenzio — se lei crede possa giovare, io sono pronto a scrivere al signor X.... Se le cose raccontate sono vere, stia sicuro che indennizzerà la famiglia. Solo vorrei prima poter parlare con quell’uomo.... Si rasserenò alquanto, e: — Il marito — mi disse — è una bestia. La farò parlar con la moglie. Proprio se può fare qualche cosa sarà una carità. E poi mi faccia un altro piacere: preghi la sua signora di ripetere a Maddalena di dare un po’ più retta a me e un po’ meno a suo marito. Se vuol suicidarsi, padrona: ma aspetti di essere arrivata. Vorrei almeno che non mi morisse a bordo e che non mi infettasse qualche altro! Sopraggiunse in quel momento la bella genovese: e mi pregò di pregare la signora Feldmann che volesse suonare qualche ballo. — Volentieri, — risposi — ma dov’è? — Su, nel salone, che suona. Non sente? Dal salone giungeva infatti a piccole ondate intermittenti una melodia. Lasciai il dottore: salii con la genovese: e comunicai all’augusta dama l’umile richiesta delle sue ammiratrici e dei suoi ammiratori. Subito parecchie coppie incominciarono alla cadenza di un valzer i loro giri; mentre io raggiungevo in un cantuccio l’ammiraglio. — Come è fresca, tranquilla, allegra! — gli mormorai dopo un poco, all’orecchio, guardando la signora. — Chi direbbe che ieri sera... — Queste signore del bel mondo! — rispose l’ammiraglio, senza distogliere gli occhi dalle coppie. — Un bell’abito fa su loro l’effetto di una fanfara su noi soldati. Quando se lo sentono addosso dimenticano tutto. I dispiaceri, le malattie, gli anni.... Gli raccontai allora in succinto il colloquio che la signora aveva avuto con mia moglie alla mattina: ma quando gli dissi che la signora dubitava che suo marito fosse un po’ matto, un sorriso spuntò sulle sue labbra. — Perchè sorride? — chiesi. — Per nulla. Così! — rispose. E ammutolì di nuovo, guardando le danze, mentre io avviavo un discorso sull’argomento discusso durante il pranzo. Quando, a un tratto, la macchina, fischiando roca, sorda, lungamente, annunciò a tutti noi, ormai quasi dimentichi, che il confine ideale tra le due metà della terra era superato! Le coppie si sciolsero: la signora si levò: tutti corremmo a precipizio sul ponte: dalle viscere profonde, dai ripostigli reconditi della nave, uomini e donne sbucarono, nella terza classe, sui due ponti della prima, per vedere il «Cordova» navigare nell’emisfero boreale: delle grida di gioia risuonarono nella notte.... Ma la notte era, come al solito, oscura; in cima ad essa le stelle brillavano con il consueto silenzioso splendore: nè più lento nè più veloce il «Cordova» fendeva con un fragor di cascata l’immensità delle acque, di cui appena si intravedeva qualche lembo. Noi avevamo mutato emisfero, ma nulla era mutato nel mondo: gridavamo all’Universo la nostra esultanza dal fondo della notte, in mezzo all’Oceano, entro la minuscola conchiglia di ferro che ci portava: ma la faccia dell’oscura immensità non si corrugò neppure di un impercettibile fremito! A poco a poco, uno per volta, dopo aver guardato in alto, in basso, a destra, a sinistra più volte; dopo esserci convinti che se noi avevamo mutato emisfero, nulla era mutato intorno a noi, incominciammo tutti a disperderci per il vapore, ai tripudi della sera. E dopo qualche tempo la mia signora ed io ragionavamo in un cantuccio del ponte di passeggiata ed io le ripetevo quel che il dottore mi aveva detto di Maddalena e le trasmettevo la sua preghiera, quando sopraggiunse la signora Feldmann. Si sedè accanto a noi: incominciò vari discorsi banali — necessari preamboli — sul tempo, sul mare, sulla serata: poi a un tratto, e improvvisamente, mi chiese se a New-York non fosse venuta alle mie orecchie, intorno a suo marito, nessuna notizia o voce o diceria, che potesse illuminarla. Risposi la verità, di no, cioè: e poi le chiesi, scherzosamente, se suo marito rassomigliava davvero a Nerone. — Lasciamo in disparte — dissi — la crudeltà: ma Nerone era un uomo debole, incerto, pauroso. Un banchiere sarà quel che lei vuole: un avvoltoio o un predone: ma dell’energia deve averne.... La signora era intenta, in quel momento, a distendere con le due mani un lembo del suo bianco velo sul ginocchio sinistro. — Lo crede, lei, davvero? — disse lentamente, alzando gli occhi e guardandomi con un fine sorriso. — Per Bacco! se lo credo! — risposi, con un fare un po’ dottrinario. — I banchieri sono i condottieri del mondo moderno! — Per loro scienziati, che vedono lo cose dall’alto, in grande.... Ma per le mogli che debbono viverci insieme, giorno e notte.... non so. — Ma vuol negare che siano uomini di polso i Morgan, i Rockefeller, gli Underhill.... — Quanto a Underhill, — interruppe essa subito con impeto — quello, sì, era un grande uomo. — Lo ha conosciuto lei? — chiese la Gina. — Noi dovevamo far colazione con lui, a New-York, tre mesi prima che morisse. Poi non ricordo più che cosa successe, che ce lo impedì. — Underhill — rispose la signora — era un amico di casa. — Una delle banche — dissi allora io, rivolgendomi a mia moglie — che hanno aiutato Underhill a riorganizzare il «Great Continental», è la banca Loeventhal. Quella di cui il signor Feldmann è uno dei direttori. — E che uomo era? — chiese allora la Gina. — Il signor Otto Kahn ci ha raccontato che era un uomo così interessante! — Un uomo straordinario! — rispose risolutamente la signora. — Intendiamoci però: «il n’était pas homme du monde pour un centime». Non avrebbe saputo distinguere questa toilette dagli abiti di quella signora americana, moglie di quel giovane.... Ma quante volte l’ho detto a mio marito: quello, sì, è un uomo. — Quello, sì, è un uomo, — pensai tra me. — E il marito allora che cosa era? Le chiesi quando avesse conosciuto l’Underhill. — Quindici anni fa — rispose. — Un giorno mio marito viene da me e mi dice di mandare un invito a pranzo al signor Riccardo Underhill. Non avevo mai sentito questo nome; e gli chiesi chi era. «Uno stock-brocker, mezzo morto di fame», mi rispose. «Lo zio vuole a tutti i costi che lo inviti». Stock-brocker, era, sì: ma morto di fame, no, lo seppi poi: aveva già un patrimonio, piccolo a paragone di quello di mio marito e piccolissimo a paragone di quello che ha lasciato ai figlioli: ma insomma l’aveva messo assieme da sè, perchè era di famiglia modestissima.... Ma mio marito ha sempre spregiato molto gli uomini più poveri di lui, quando non sono disposti ad essere i suoi servitori: questo è uno dei difetti che mi sono sempre più spiaciuti in lui. — Ne ha parecchi, suo marito, di difetti; e lei non è una moglie indulgente, «tant s’en faut!» — dissi scherzosamente. — Lei vuol dir sincera, — mi rispose con un fare veramente candido. — Sincera e severa, mi pare. — Me lo diceva sempre anche mia madre, — rispose. — Ma io sono fatta così. — Nè mi stupisce. Questa specie di sincerità severa si ritrova spesso nei santi, nei sovrani, nei principi, nei grandi signori, nelle donne troppo belle e troppo adulate.... — E per qual titolo sarei io ammessa nel numero delle persone provviste di questo temperamento? — mi chiese con un sorriso malizioso. — Proceda per esclusione. È lei una santa? una regina? una principessa? No. Dunque.... — Ma spero che riconoscerà che è una virtù. — Conforme. — Conforme che cosa? — Queste persone — risposi — amano con ardore la giustizia e la rettitudine, di solito. Il che è bene: il male è che qualche volta in questo amore del giusto c’è un tantinello di orgoglio e di prepotenza. Perchè non le pare che un po’ di orgoglio e di prepotenza sia necessaria, per credersi capace di giudicare in ogni occasione e senza appello i propri simili? — Grazie del complimento — rispose. — Lei mi dice che sono una donna vana, sciocca e prepotente. — Vana e sciocca, no. Orgogliosetta e un po’ prepotente.... Non so.... Mi riserbo.... Vedremo. Torniamo intanto a Underhill. Suppongo che ebbe l’onore di essere invitato a pranzo da lei, dopo che fu eletto presidente del «Great Continental». — Per l’appunto. Lei sa che Underhill, a quel tempo, nessuno dei magnati della finanza americana avrebbe acconsentito a trattarlo come un pari. — Non aveva — dissi — mai amministrato che piccole ferrovie, sebbene le avesse amministrate assai bene.... — Sicuro. E nessuno da principio ce lo voleva a quel posto. Mio marito naturalmente era uno dei più accaniti. Ma lui tanto disse e tanto fece, che la spuntò. Allora i principali interessati nella ferrovia diedero ciascuno un pranzo per festeggiare la pace. Io però non mi sono mai occupata degli affari di mio marito, e quindi non avevo dato gran peso alle sue parole.... Ma due giorni prima del pranzo, incontrai per l’appunto Otto Kahn. Lei lo conosce, credo. La banca Kuhn Loeb era anche essa impegnata nell’impresa del «Great Continental» e parlando gli dissi che avrebbe pranzato da me tra gli altri un certo Underhill. «Un certo Underhill!» mi rispose ridendo. «Ma tra pochi anni quell’uomo sarà il Napoleone della finanza americana!» Sa che cosa disse mio marito, quando gli ripetei questo discorso? «Kahn è matto!» Ma questo è niente: il più buffo fu poi.... Quando ci ripenso.... E scoppiò in una allegra risata. — Lei che vede in ogni banchiere un eroe.... Stia a sentire. Poco dopo il pranzo, un giorno, mio marito ritorna a casa con una faccia.... Era fuori di sè. Avevo appena avuto il tempo di domandargli se si sentiva male, che si mette a gridare: «Lo dicevo io che era pazzo, pazzo, pazzo!» E dava dei pugni sul tavolo, saltava da una poltrona all’altra, rovesciava i libri: pazzo era lui, non Underhill. Perchè alludeva a lui. E sa che cosa era successo? Si figuri: Underhill era partito zitto zitto per fare un giro sulla «Continentale» e vedere un po’ quel che si poteva fare per assestare quella ferrovia fallita da tanti anni: per due settimane silenzio, non aveva data notizia di sè: quando alla fine, dopo due settimane, ecco arriva un telegramma così concepito: «Mi occorrono trenta milioni di dollari». E per trenta milioni di dollari mio marito vaneggiava a quel modo! — Andava però per le spiccie, quell’Underhill — non potei a meno di osservare. — E aveva ragione, — mi rispose essa, subito, con forza. — Se i banchieri non sanno arrischiare il loro denaro, a che servono? — Ma pretenderebbe lei forse che gli dovessero spedire i centocinquanta milioni come erano stati chiesti, a volta di telegrafo? — Non dico questo — rispose ridendo. — Ma un po’ di slancio, di ardire, di fiducia ci vorrebbe. Invece! Io non conosco invece gente più paurosa. E il più pauroso di tutti era proprio mio marito! Bisognava vedere, quella volta.... Underhill dovette venire a New-York, parlare, persuadere, spiegare.... Mio marito era addirittura esterrefatto: per quindici giorni non dormì, non mangiò, tanto era agitato: anche gli altri, bisogna dire, titubavano tutti: persino lo zio, che pure, quello è un uomo serio. Avevano tutti una tremarella.... che la ferrovia fallirebbe di nuovo tra due o tre anni. E tre anni dopo si spartivano parecchie centinaia di milioni.... — E Underhill era diventato un grande uomo, — aggiunsi io. — Se lo meritava, perchè il merito era suo e soltanto suo. — Non dimentichiamo però che la fortuna ci ha messo anche lei il suo zampino.... Proprio allora incominciò il rincaro dei cereali. La prosperità tornò in quelle regioni, che la crisi del’93 aveva devastate. Anche la guerra delle Filippine lo ha aiutato. Se si fosse sbagliato.... — Ma non s’è sbagliato: il suo genio aveva indovinato che i tempi mutavano. — L’aveva proprio indovinato? O s’è buttato avanti, un po’ alla cieca, tentando l’ignoto, come si fa di solito? — Non ne dubiterebbe se l’avesse sentito a discutere con mio marito. È una cosa curiosa — aggiunse poi dopo un momento di riflessione. — Mio marito è un pozzo di scienza. Bisognava sentire, quando dimostrava che i territori del «Continental» dovevano restare per secoli deserti! Quando parlava, anche a me, che sono una povera donna ignorante, pareva impossibile che non avesse ragione. E invece.... Come lo spiega, lei, questo fatto? Invece di spiegarlo, le rivolsi una domanda intorno agli studi del marito. Poichè la signora mi pareva in vena di confidarsi, volli avventurare una prima domanda intorno alle cose di famiglia. Rispose infatti, e con pronta e quasi ingenua franchezza. — Ha studiato — disse — in Germania, a Bonn, non so per quanto tempo: e poi a Parigi all’«Ecole des sciences politiques et morales».... Pare che fosse bravissimo negli studi: e non ne dubito, perchè in fondo è nato, credo, più professore che banchiere. Suo padre glielo diceva sempre. Anche adesso non è felice che in mezzo ai libri o quando può scrivere qualche articolo per una rivista di economia politica. — Anche adesso? — Se sapesse! — rispose alzando le mani con un gesto di sbigottimento. — Quanto legge e quanto scrive! Nemmeno addormentarsi può, sè non ha un libro o una rivista. Quando ripenso ai primi anni di matrimonio e quanto mi hanno fatto piangere quei maledetti libri! Perfino in viaggio portava con sè una cassa di libri. E nel transatlantico, a Parigi, negli alberghi, nelle «villes d’eau», appena insediato anche per otto giorni, subito apriva la sua cassa e giù a leggere e a scrivere.... A quanti teatri, musei e divertimenti ho rinunciato, perchè proprio per lui era un sacrificio troppo grande di togliersi dal suo tavolo! «Ce n’était pas folichon, je vous assure....» Poi, a poco a poco, mi ci sono abituata! E sospirò. Mi parve allora, di poter ormai avventare una domanda addirittura indiscreta e: — Non era allora un marito molto tenero, mi pare, — dissi. Ma a questa domanda subito sentii la signora farsi a un tratto ritrosa e quasi sgusciarmi di mano. — Ma no, ma no — disse lievemente arrossendo. — Federico è il modello dei mariti. E poi subito ritornò al discorso primitivo. — Underhill invece era un uomo semplice; poco colto, quasi direi.... un gran bambino! Eppure egli indovinava, e mio marito no, non ostante tutti i suoi studi e non ostante tutti i suoi libri. Io non ho mai capito il perchè.... Eppure mio marito è intelligente. — L’intuizione, signora, è un dono di Dio: l’erudizione è uno sforzo dell’uomo. Tacque un momento, sopra pensiero, poi, a un tratto: — Sa che cosa dissi un giorno a mio marito? Indovini. E si mise a ridere. — Underhill era più vecchio di mio marito, non so di quanti anni.... Ebbene gli dissi che Underhill mi sembrava un giovane di venti anni, e lui un venerando vegliardo di novanta. — Un bel complimento, per Bacco! — dissi non senza una certa meraviglia. — Difatti mi tenne il broncio per tre giorni. Eppure anche questa volta avevo ragione. — Come sempre! — Non mi canzoni. Avevo ragione, perchè mio marito è così pessimista e diffidente sempre! E l’altro invece era tanto ottimista, fiducioso, allegro.... — Americano, cioè, mentre suo marito è europeo. Ma lei ora mi ammira nella persona dell’Underhill quell’America che l’altro giorno mi trattava di barbara. Quel coraggio, quell’impeto, quell’energia sono appunto le qualità.... — Degli Americani? — interruppe pronta, scrollando le spalle, con un atto di spregio. — Lo crede anche lei, come tanti Europei? Perchè gli Americani fanno tanti quattrini? Come se fosse una cosa difficile far dei denari! — Un pochino, direi, signora. Pur troppo, anzi! — risposi ironicamente. — Ma se ne ha fatti tanti perfino mio marito, in America! — ribattè. Quest’accanirsi spietato mi irritò e: — Almeno, — protestai a difesa dello sconosciuto marito — se non gli cascano in casa dal cielo i milioni a suo marito! — Ma no, ma no — rispose pronta e come un po’ impazientita. — Sa scegliere gli uomini: ecco il suo segreto. Gli uomini dotati di quelle qualità che a lui mancano. Li odia: ma li sa sfruttare; e sopratutto sa nascondere le sue debolezze dietro le loro spalle. In questo è intelligente.... Come in tutto il resto, del resto. E così ha fatto credere a molti di essere una specie di Napoleone della finanza, e quel che è più curioso alla fine se ne è persuaso anche lui.... Proprio come Nerone credeva di essere un grande artista! Vede dunque che rassomiglia proprio a Nerone! Se sapesse come dimentica presto, quando una impresa è riuscita, che egli ha sconsigliata.... Un giorno, dopo il trionfo di Underhill, gli ricordai le sue disperazioni per il famoso telegramma dei trenta milioni. Che furia mi fece, sapesse!... — Altro che ininterrotta concordia! — pensai tra me. Ma alle ultime frasi così chiara la meraviglia trasparì dai miei occhi, che la signora ammutolì a un tratto, e: — E che? — disse. — Avrei forse dovuto tacere? — No, non dico questo — risposi un po’ impacciato. Poi soggiunsi: — Ma perchè lei gli ricordava queste cose? — Perchè? Oh bella! Perchè era giusto.... Le par giusto che un uomo si attribuisca il merito che spetta ad altri? — Non dico che sia giusto; ma.... E tacqui guardandola. — Ma che ma! — rispose con un sorriso tra fiero e scherzoso, levando con energia la piccola e bella testa. — Pensa lei forse che io sia una persona accomodante? Transazioni, ipocrisie, menzogne? Mai. E forse per questo avevo ragione di non volerlo sposare: e feci male a cedere ai miei genitori.... Ma ero così giovane! — Ah! — dissi questa volta senza recondita intenzione. — Lei non voleva dunque sposarlo.... Di nuovo la signora arrossì un poco: ma invece di rispondermi si levò e raccogliendo il suo velo intorno alle spalle: — Domando scusa, — disse — ma bisogna che me ne vada. Incomincio a sentire l’umido della notte.... Ci alzammo anche noi, mentre io dicevo a me stesso: — Ho bell’e capito adesso, perchè tuo marito vuol fare divorzio! Non è un quesito difficile, no! E mentre in piedi ci salutavamo vidi più da vicino il suo vezzo. Allora, così per dire, tanto per prendere commiato: — Signora, — dissi — devo dirle che queste sue perle, non meno della persona che le porta, sono l’oggetto dell’ammirazione di tutti. Un gioielliere che è a bordo dice che dovevano appartenere a qualche principe indiano.... Non dimenticherò, sinchè campo, la scrosciante e sconcertante risata che rispose al ben tornito complimento. — Non lo indovina, perchè rido? Ma queste perle sono false! Ho una collana come questa, vera quella; ma è a Parigi, al «Crédit Lyonnais». Sei mesi fa sono tornata in Brasile sola: e non ho voluto portare con me i miei gioielli. — Capisco ora! — esclamai, rammentandomi in quel momento di Lisetta e del suo piede imprudente. Ma mi ripresi e ammutolii a tempo. — Che cosa capisce? — chiese incuriosita la signora. — Capisco.... Capisco che questo vezzo imita il vero meravigliosamente. Ma la signora fece una osservazione più profonda. — Che cosa vuol dire l’idea! Non bisognerebbe portare che perle false. Se il mondo vi fa credito di una ricchezza sufficiente a comperarle vere, le crede vere anche quando sono false: se non vi fa credito, le crede false anche quando sono vere.... E se ne andò. — Io direi — dissi volgendomi alla Gina — che essa detesta suo marito. Ma in quel momento sopraggiunse il Cavalcanti. — Venga, venga — disse, — Ferrero! Il Rosetti ha ripresa con l’Alverighi la discussione sul progresso che avevamo appena incominciata questa sera. Mi pare che questa volta l’avvocato abbia trovato pane per i suoi denti! Passammo sull’altro fianco della nave. A mezzo del ponte di passeggiata, non molto lungi dalle scale che salgono al ponte superiore, sotto la pioggia melodiosa di suoni e concenti che cadeva dal salone di sopra, dove avevano ricominciato a danzare, il Rosetti, l’ammiraglio, l’Alverighi sedevano a cerchio. — No, no, no! — fu la prima frase che udii avvicinandomi, e parlava piuttosto concitato l’Alverighi, mentre la Gina si sedeva nella sedia che levandosi per venire a noi il Cavalcanti aveva lasciata vuota ed io ed il Cavalcanti avvicinavamo due sedie. — Non si possono paragonare popoli e civiltà, e quindi misurare il progresso nè con dei criteri morali — è questo l’errore della signora Ferrero — nè con dei criteri estetici, è questo l’errore del signor Cavalcanti; perchè un mistico giudicherà progresso la distruzione dell’impero romano operata dal Cristianesimo, mentre un nemico del nome cristiano la giudicherà una catastrofe: e a Chicago o a Pittsburg c’è chi pensa che son più belle le maniere, le vesti, i gusti americani che tutte le vantate eleganze parigine: e sfido lei o chiunque a trovare il mezzo di convincere questi galantuomini di errore.... Tutte queste cose, l’ha detto lei e non io, ciascuno le giudica seconda il suo interesse. Dirò di più, anzi: giacchè a proposito della Francia siamo venuti a discorrere di civiltà raffinata. Io penso che l’idea di una civiltà che sia raffinata deve essere sradicata dai cervelli con il ferro e con il fuoco. Una civiltà raffinata, se non è vizio, è menzogna, illusione, ciarlataneria. Uscivan di corsa in quel momento e in tumulto, dalla porticina che si apriva sul vestibolo del refettorio, vociando e ridendo clamorosamente, i due mercanti astigiani, la bella genovese, la moglie del dottore di San Paolo, altri passeggieri: le signore trascinate riluttanti e ridenti, sotto braccio, dagli uomini. La festa equatoriale tripudiava fervida nella nave che a passo lento ed eguale attraversava, infaticabile, la notte infinita. Tacemmo per lasciarli passare. — Si divertono! — mormorò l’ammiraglio. E il Rosetti: — Allora — disse — non ci sarebbe, secondo lei, nessuna differenza che si potesse vantare come miglioramento e progresso, per esempio, tra la pittura di un baraccone da fiera e la Trasfigurazione; tra Gasparone e San Francesco; tra Nerone e un filosofo stoico; tra le vesti della cameriera di bordo e quelle della signora Feldmann; tra il vino che bevono gli emigranti e lo Champagne che abbiamo bevuto questa sera, tra la carne delle razze che l’Argentina ha selezionate con tanta cura negli ultimi anni, e le mandre che una volta essa affidava nella pampa alla grazia di Dio? Eppure l’altra sera lei diceva l’opposto, a proposito delle carni argentine. Questa obiezione colse di sorpresa l’Alverighi, che rispose un po’ impacciato: — Non dico questo, non dico... Non esageri... Ogni affermazione va presa con un certo discernimento.... Non così proprio alla lettera.... Con un certo buon senso. Se no, dove si va a finire?... Sì, anche nelle arti e nella morale un certo progresso è possibile: ma, come ho a dire? È più lento e meno continuo. Le differenze si percepiscono a grandi distanze, dopo molto tempo.... Non so se mi spiego chiaramente. — Lei vuol dire, se ho inteso bene, che non si è ancora trovato un calcolo infinitesimale che misuri le differenze minime del bello e del buono? Che quindi non è possibile distinguere che le differenze vistose; che al di là di una certa perfezione nè il più nè il meno non si discernono più; i gradi delle qualità si confondono; ogni cosa può essere giudicata egualmente bella o buona. Che la Trasfigurazione sia più bella del baraccone da fiera o lo Champagne migliore del vino comune, nessuno lo nega: ma non è possibile decidere invece se è più bella la Trasfigurazione o l’Amore sacro e profano, se è più buono lo Champagne o il Bordeaux.... — Benissimo, benissimo, proprio così! — interruppe con vivacità l’Alverighi. — Il che può forse anche spiegarci perchè gli uomini abbiano consumati tanti secoli a perfezionare le arti, le religioni, le leggi nei loro covi antichi prima di uscir fuori alla conquista della terra. Urgeva, in principio e sopratutto, dirozzarsi un po’... Forse la storia non si è sbagliata, quanto io credevo, in principio. Ma ora? Ma ora? io mi domando ogni mattina e ogni sera, se per caso noi dormiamo o sogniamo o vaneggiamo tutti quanti. Nessuno dunque si accorge che la nuovissima storia del mondo è incominciata il giorno in cui in America l’uomo ha imparato a sfruttare gli spazi immensi, a coltivare le pianure sterminate, a camminare alla volta degli orizzonti infiniti? L’ho detto, ma vedo che giova ripeterlo: sino a un secolo fa, prima che si inventasse la macchina a vapore, la ferrovia e tutte le altre macchine mosse dal vapore e dall’elettricità; sinchè l’uomo aveva dovuto lavorare con le sue braccia e camminar con le sue gambe o con quelle di alcuni animali poco più veloci, l’umanità scompariva nelle grandi pianure; si addensava per necessità sulle estremità esili e sui margini filiformi della terra. Ecco, signora Ferrero, la ragione per cui le civiltà antiche fiorirono su territori piccoli e sterili; mentre le parti più fertili della terra, proprio quelle su cui la razza umana avrebbe potuto pullulare e moltiplicare all’infinito le ricchezze del mondo, erano quasi deserte. Ora il miracolo è avvenuto: e lei, ingegnere, non mi stia a ripetere che non è vero che i grandi Stati dell’Europa non si curano più di proteggere le arti, poichè la Francia raffina le eleganze di una civiltà squisitissima.... Di queste eleganze il mondo non sa che farsene: in America l’uomo ha imparato a misurarsi con i continenti: l’uomo deve ora conquistare l’Asia, l’Africa, l’Australia.... Devii il Niger e lo getti nel Sahara, la Francia, piuttosto che conservare le tradizioni della buona cucina o della cultura classica! Questo è il vero progresso; e può essere misurato: superfici coltivate, cavalli vapore, popolazione, numero e potenza di macchine, velocità di treni, statistiche mercantili: importazione ed esportazione.... Che quattro è il doppio di due, nessuno lo metterà in dubbio, per Bacco! Il Rosetti ascoltava serio e attento, pizzicandosi la rada barbetta tra il pollice e l’indice: tacque un istante, quando l’altro ebbe finito, guardandolo: poi placido e a voce bassa: — Dunque, se ho bene inteso, noi non avremmo del progresso altro che un concetto quantitativo, che vada per numeri. Traduco le sue idee, se le ho ben capite, nel linguaggio dei filosofi. Le qualità delle cose, come la bellezza e la bontà, non sono capaci di misura precisa e quindi neppure di confronti sicuri. Ma il progresso suppone sempre un più od un meno, quindi.... — Proprio così — disse l’Alverighi vivacemente. — Siamo d’accordo. — E quindi, — proseguì il Rosetti — sinchè gli uomini si erano proposti di raffinare la civiltà, cioè di migliorare la qualità delle cose: la squisitezza dei piaceri, la bellezza delle arti, la santità della religione, la giustizia delle leggi; l’idea del progresso fu vaga; il mondo procedè lento ed incerto, perchè le differenze infinitesime del bello e del buono non si percepiscono più, e al di là di una certa perfezione i gradi si confondono? — Benissimo, — interruppe l’Alverighi — benissimo. E invece l’idea del progresso divenne norma sicura di azione il giorno in cui l’uomo si è accinto a conquistare la terra. L’ho detto e lo ripeto: che due e due fanno quattro, e che quattro sia il doppio di due, nessuno lo metterà in dubbio. — È vero — riprese il Rosetti. — Il segno più vistoso del progresso sarà allora l’incremento delle ricchezze, perchè le ricchezze si possono misurare facilmente e con molta esattezza. Progresso è dunque il produrre di più. E definiremo progresso anche il consumare di più? L’Alverighi dovette presentire, in questa domanda, una insidia: perchè invece di rispondere diritto, divagò chiedendo: — Non capisco.... Che cosa intende di dire? — Che il saper produrre di più sia progresso, mi è chiaro. Ma il consumare maggiormente? C’è qui la signora Ferrero che dice di no; e quel che la signora ripete adesso, lo avevano già detto anche gli antichi. Per gli antichi, non è vero, Ferrero? ogni incremento del lusso e dei bisogni sapeva di corruzione: la parsimonia, la semplicità, l’austerità erano virtù universali ed eterne. Tutta la argomentazione della signora Ferrero contro le macchine prende le mosse, mi pare, da questo principio antico: l’incremento dei bisogni è male. E il principio potrà esser discusso: ma è lei pronto a sostenere l’opposto, che il consumare di più sia sempre segno di progresso? Che, per esempio, chi beve un fiasco di vino a colazione ed uno a pranzo è uomo più perfetto di colui che ne beve solo mezzo bicchiere? O che l’ozioso il quale spreca mezzo milione all’anno val più del laborioso artigiano, il quale non può spendere ogni anno che le poche migliaia di lire guadagnate faticando? O che noi siamo da più dei romani, solo perchè noi fumiamo il tabacco, beviamo il thè, il caffè, il cognac, la Benedectine, la Chartreuse, la Strega e tanti altri liquori ignoti ai personaggi di Ferrero? — No, non lo penso — rispose l’Alverighi. — È chiaro dunque — rispose il Rosetti — che solo il crescere di certi bisogni è progresso. E questi bisogni, li vogliamo noi chiamare legittimi? Progresso è dunque accrescere la ricchezza, e quindi conquistare la terra, nella misura in cui ricchezza e conquista servono a soddisfare dei bisogni legittimi. Se noi volessimo conquistare la terra per abbandonarci su di essa ad un’orgia sfrenata, la conquista non sarebbe progresso, non è vero? Quindi mi dica quale è il criterio per distinguere i bisogni legittimi dagli illegittimi, i progressivi da quelli che non sono tali.... Solo dopo un momento di silenzio l’Alverighi rispose, di nuovo impacciato: — Rispondere.... così.... «stans pede in uno» non è facile. Una formola generale.... Forse sarebbe più facile rispondere caso per caso. — Ma come fa lei a giudicare ogni singolo caso, se non ha chiara in mente una norma? — chiese il Rosetti. L’Alverighi tacque un istante, perplesso; poi a un tratto e un po’ brusco: — Ma insomma, — chiese, — dove vuol andare a parare con tutto questo armeggio? — Voglio conchiudere — rispose — che la signora Ferrero aveva ragione, quando affermava che le macchine non sarebbero state inventate se i nostri bisogni non fossero cresciuti a tal segno che le mani non bastano più a soddisfarli. Ma lei immedesima le macchine con il progresso. Io faccio allora un passo avanti, e dico che l’inventar macchine non è un progresso che nella misura in cui quelle macchine servono a soddisfare bisogni, come abbiamo detto? legittimi — mi pare. Occorre dunque sapere distinguere i bisogni legittimi dai vizi. Ma come si può fare? È evidente che succedo per i bisogni lo stesso che per le bellezze. Bello è quel che mi piace; o che io ho interesse a considerare come tale. Allo stesso modo a ciascuno sembra legittimo, nobile, degnissimo di esser soddisfatto ogni bisogno che sia forte in lui o che egli abbia interesse a diffondere. Ho quindi paura che anche l’idea di progresso sia una idea rovesciabile o una illusione, come la bellezza, che dipende dall’interesse. Ciascuno se la foggia a modo suo, come gli piace. Per un filosofo il mondo progredisce quando cresce il numero delle teste che si interessano ad problemi della metafisica; per un calzolaio, quando diminuisce il numero dei piedi che vanno scalzi. Lei ha detto che noi non siamo da più dei Romani solo perchè fumiamo e beviamo del thè: ma non so se un mercante di tabacco o di thè sarebbero dello stesso parere. Lei ha dimostrato che la nostra epoca è la più progressiva della storia: si potrebbe rovesciare il suo ragionamento e dimostrare che noi decadiamo. Lei diceva poco fa che la Francia è vecchia e gli Stati Uniti sono giovani. E se, capovolgendo la tesi, io dimostrassi che è meglio esser vecchi che giovani, se la Francia è vecchia? — Sarei proprio curioso di assistere a un simigliante spettacolo — disse tra incredulo, sarcastico e impazientito l’Alverighi. — Se non fosse troppo tedioso per tutti.... — rispose il Rosetti. Protestammo tutti che no: il Rosetti si schermì un po’ mentre l’Alverighi aspettava tacendo. Alla fine il Rosetti si decise e incominciò: — Gli Stati Uniti sono giovani, dunque: difatti crescono a vista di occhi: in cinquanta anni si sono impadroniti di un continente vasto come l’Europa; e non riposano ancora: infiltrano il Messico e il Canadà; hanno ghermito in un baleno, di là dal Pacifico, le Filippine, sorvegliano il Giappone e adocchiano la Cina. La Francia invece! Vive sul suo piccolo territorio come il rigattiere nella sua piccola bottega, fabbricando che cosa? dei busti, dei cappellini, dei profumi, dei pettini, dei gioielli e altre simili frivolezze femminili, per non parlare di altre risorse che.... Basta: ci intendiamo. Coltiva le arti, è vero: e ammettiamolo, pure, in modo mirabile: ma insomma da un popolo di quaranta milioni il mondo ha diritto di esigere qualcosa di più che statue, quadri e mobili eleganti, specialmente quando questo popolo possiede un così vasto impero. Ma che fa la Francia delle sue colonie? Le cova amorosamente con gli occhi: ma non osa di toccarle come un amante timido; fa mille progetti, li abbandona, li ripiglia, poi alla fine si risolve a eseguirne uno: ma con quanta prudenza, santo Iddio! Di qui a mill’anni forse quell’impero sarà un impero. Se ci fossero gli Americani, invece! La Francia si spopola, e gli Stati Uniti sino un milione di uomini hanno ricevuto in un anno dall’Europa e dall’Asia e hanno dato lavoro a tutti! Sorvoliamo, se vi piace, sull’indisciplina che si infiltra in tutti gli ordini sociali, sul vizio dell’ubriachezza, sull’incremento di delitti: ma e i conflitti religiosi e filosofici? In America religioni, sette e dottrine vivono accanto in pace; Chicago, la città del grano e dei porci, ha persino convocato a congresso, nel cuore delle immense e pingui pianure dell’ovest, le religioni del mondo. Nella nuova Bisanzio, invece, i cattolici, i protestanti, gli ebrei, i frammassoni, i liberi pensatori, i socialisti, gli anarchici rissano furiosamente dalla mattina alla sera intorno a Dio, alla giustizia, allo stato, alla morale, ai principii dell’educazione: segno che la Francia non ha più nè religione, nè giustizia, nè stato, nè morale, nè educazione; e non l’ha perchè invecchia; perchè invece di uscire arditamente nel mondo alla gran gesta nuova degli uomini che è la conquista della terra, si rincantuccia ad ascoltare una infinita turba discorde di intellettuali gelosi, orgogliosi e fanatici, che disputano rabbiosamente intorno a questi problemi insolubili! L’America no: l’America conquista il mondo: opera e tollera, non discute e perseguita! — Tutte cose che mi paion vere, anzi verissime! — disse l’Alverighi. Il Rosetti riaccese il sigaro spentosi nel discorrere; e mentre agitava nell’aria il fiammifero per smorzarlo: — Verissime? — rispose. — Aspetti un momento: e gliele rovescio tutte. Non negherò che gli Stati Uniti abbiano fatte grandi cose: ma con quali mezzi, se non vi dispiace! Quegli ottanta o novanta milioni di uomini, quanti sono? hanno bisogno di stare al largo. Nove milioni di chilometri quadrati, un territorio grande più che l’Europa, anzi neppur questo basta: rosicchiano il Messico e il Canadà, hanno prese le Filippine e adocchiano l’America del Sud. Alla grazia, che appetito! Un po’ di discrezione, signori, vien voglia di dire: non ci siete voi soli, nel mondo, se non vi dispiace; guardate la Francia, quante cose essa sa fare sopra un territorio di poco più che cinquecentomila chilometri quadrati: vasto appena quanto uno dei vostri Stati. Intanto nutre quaranta milioni di uomini: senza prodigalità americane, certamente: ma quando mai lo spreco fu da lodare? E non li nutre soltanto: ma mantiene viva e vigorosa la più completa tra le culture del mondo, perchè non le manca nessuna delle parti che insieme compongono una civiltà: nè la letteratura, nè l’arte, nè la scienza, nè la filosofia, nè il diritto, nè la gentilezza del costume e dei modi, nè le armi, nè l’agricoltura, nè l’industria, nè il commercio, nè il denaro e la banca. Procede a incivilire i nuovi territori troppo lentamente, si dice: ma non c’è motivo di farne meraviglia o rimprovero; perchè essa non sfrutta solo terre, miniere e mercati, ma cerca di incivilire davvero, mutar cioè idee e sentimenti. Ma che dico sulla terra? Anche nel cielo la Francia apre nuove vie all’uomo. Chi ci ha insegnato a conquistare il firmamento e non con il volo degli areoplani soltanto, ma anche con la volontà ed il pensiero? Sicuro. Giudicate come volete la separazione delle Chiese dallo Stato: ma nessuno negherà che tutti gli ardimenti e le novità del passato scolorano a petto di questo, buono o cattivo che sia, lo dirà l’avvenire.... Poichè con quella legge, per la prima volta nella storia del mondo, un popolo si è tolto di sotto al protettorato di Dio e ha osato incoronarsi sovrano di sè medesimo! No, la Francia non conosce la tolleranza americana, e va lodata per questo: biasimata invece per la sua tolleranza deve essere l’America dove nessuno si cura delle altrui credenze e tutti vivono in pace, perchè tutti prepongono i beni materiali ai beni ideali. La tolleranza americana è figlia del materialismo. L’indisciplina — si dice — l’alcoolismo, il numero dei delitti e dei divorzi.... Ma la vita è una cascata turbinosa e non una elegante fontana di giardino: il disordine, come voi lo chiamate, non è che l’impeto stesso con cui essa si muove dal passato al futuro. Del resto vorremmo noi piuttosto ritrovare nel gran territorio dell’America settentrionale otto o dieci Francie e ciascuna con la sua Parigi: o preferiremmo che in tutta l’Europa stesse al largo da sola un’altra America popolata di ottanta o novanta milioni di uomini? È vero che gli Americani hanno conquistato in mezzo secolo un continente grande come l’Europa: ma l’hanno conquistato, lasciandosi alle spalle degli immensi deserti. Quanto più sicura, anche se più lenta, di questa frettolosa e sommaria conquista, la conquista dell’Europa, fatta a passo a passo, senza lasciare vuoto o incoltivato, alle spalle, neppure un palmo di terra! No: l’americano abbozza e non può che abbozzare. Per finire alla perfezione una civiltà ci vogliono dei popoli preparati diversamente! Naturalmente la popolazione non cresce molto e non può crescere, in Francia, come non cresce e non può crescere in nessun paese di alta civiltà, come non cresce, ad esempio, nella nuova Inghilterra. Non basta contarli gli uomini: occorre anche pesarli.... A questo punto irruppero di nuovo sul ponte, gridando e schiamazzando anche più di prima, ma precipitando dalla scaletta del ponte superiore, i due mercanti astigiani e il codazzo che li seguiva, ingrossato. Di nuovo fummo costretti a tacere. — Mi pare che abbiano alzato tutti il gomito — disse il Cavalcanti. E solo quando furono dileguati il Rosetti, sorridendo, riprese: — E su questo metro, a volere, si potrebbe continuare per un pezzo! Insomma dubito assai che si possa definire il progresso; perchè ogni progresso guardato a rovescio è regresso. Chi non vuole ammettere che il sandalo è mal fatto, può sempre dire, come Leo, che è sbagliato il suo piede. Leo ci ha dato, senza saperlo, un piccolo saggio di filosofia del progresso.... L’Alverighi non rispose: e per la prima volta prese la parola l’ammiraglio che sino ad allora aveva ascoltato attentissimo, ma in silenzio. — A me pare tuttavia — disse — che un criterio sicuro per misurare il progresso ci sia.... — E quale? — chiese il Rosetti. Ma il condurre a termine una disputa di tanta ampiezza, in mezzo ai tripudi della festa equatoriale, era impresa troppo difficile. In quel momento sopraggiunse il Vazquez: e ci disse che erano le undici e mezzo; che egli desiderava finire la giornata del passaggio bevendo «una copa» in compagnia «de los savios del Cordova»; ci invitava perciò a sospendere i dotti ragionamenti che avevano durato un bel pezzo e ad andare con lui nella sala da pranzo. Dopo qualche esitanza e vari complimenti cedemmo all’invito, seguendolo. Alla mensa di mezzo riccamente imbandita il Vazquez fece sedere alla sua destra la Gina: poi disse che il posto di sinistra era riserbato alla signora Feldmann, se l’ammiraglio volesse esser così cortese da cercarla per la nave e invitarla: l’ammiraglio acconsentì, pur dichiarando di ignorare se fosse ancora in piedi ed uscì: noi ci sedemmo a piacere. Nel mezzo della tavola infiorata si ergevano parecchie bottiglie di Champagne, circondate da molte vivande fredde: tra le quali carni e frutta della terra argentina che l’accorto ospite aveva per amore della patria lontana disposte con arte tra le altre vivande: quelle lingue di bue in scatola, che sono una delle ghiottonerie più prelibate dell’Argentina: parecchie scatole della deliziosa marmellata di mele cotogne che gli Argentini chiamano «membrillo»: delle magnifiche e grossissime pesche sciroppate, che venivano da Mendoza. Chiacchierammo aspettando la signora Feldmann, che venne di lì a un momento, a braccio dell’ammiraglio — invece di coricarsi, come aveva divisato, spaventata dal caldo e dal chiasso si era rifugiata in un cantuccio del ponte superiore a leggere — e appena essa si fu seduta, le bottiglie detonarono e incominciò la cena. Il gustarne che facemmo ci trasse a discorrere delle vivande argentine: tutti le lodammo e non per cortesia, ma sinceramente; lieto e inorgoglito il Vazquez ci ringraziò, come fanno spesso gli Americani quando sono contenti degli elogi tributati alla loro patria, mostrandoci i tesori dell’Argentina: quegli infiniti tesori che essa abbandona così volentieri a quanti osino venire da lungi a farle una dolce violenza soltanto. — Sono le più belle pesche del mondo, non è vero? — diceva in spagnuolo. — Ebbene vogliono sapere quanto guadagna il mio amico che coltiva queste pesche? Il conto è presto fatto.... Ogni albero di sei anni produce circa seicento pesche: dieci pesche per scatola fanno, per ogni albero, sessanta scatole. Ogni scatola, quel mio amico, la vende mezza piastra. Il che fa trenta pesos di reddito lordo per albero. Piantando trecento peschi per ettaro, e ci stanno al largo, abbiamo un reddito di novemila pesos: un po’ meno di ventimila franchi. La spesa necessaria a coltivarle e prepararle ammonta a circa la metà: il profitto dunque, per ogni ettaro, è di diecimila franchi. Diecimila franchi! Non c’è coltivazione al mondo più lucrosa: nè l’alfalfa, nè il grano, nè il lino.... Questo discorso elettrizzò l’Alverighi, che: — Tranne l’uliveto, però, tranne l’uliveto — corresse: e ci raccontò come nella provincia di Mendoza un ettaro di uliveto poteva fruttare perfino tredicimila franchi. Il Vazquez confermò, aggiunse: chi mosse domande e chi fece delle osservazioni: i nuovi discorsi furono appiglio all’Alverighi a rinvigorire di più vistose pennellate il quadro della prodigiosa opulenza argentina, che il suo amico aveva incominciato a tracciare sobriamente: e così a poco a poco, in mezzo a un cinguettare francese, italiano, spagnuolo, noi vedemmo il filosofo italiano voltato in agricoltore e l’agricoltore argentino rimasto quel che era nato, deporre ai nostri piedi, come in una visione, i tesori della vasta repubblica. Con prolissità imaginosa e ineguale il primo, con l’enfasi succinta e dignitosa propria dei signori di lingua spagnuola il secondo, ci descrissero ambedue la nuova terra promessa: ci trasportarono a volo sulla pampa infinita, cui è limite l’irraggiungibile linea dell’orizzonte sempre eguale; tra i campi di alfalfa, sui quali la falce taglia e ritaglia ogni anno, sin dove l’occhio giunge, l’erba dalle foglioline d’oro; in mezzo al fervore delle mietiture, nelle estati ardenti, quando la Cerere transatlantica vuota il grembo ricolmo di spiche sulle provincie di Buenos-Aires, di Santa Fè e di Cordova; e da villaggio a villaggio, mentre le trebbiatrici rombano, i mietitori cantano e i convogli carichi di grano si avviano lenti verso il mare, corre come un tripudio di vittoria: ci mostraron da lungi i floridi vigneti di Mendoza, le verdi boscaglie tucumanesi della canna da zucchero, i secolari boschi di quebracho così duri alla dura bipenne: ci introdussero nella melanconica solitudine verde delle vaste _estancias_, dove sugli alti e cupi boschetti di eucaliptus, sulle ruote dei solitari mulini a vento giranti lontane, sui bassi tetti dispersi delle stalle e sull’azzurro tremolare delle lagune passa alto, lento e nero sul grande cielo turchino, il volo silenzioso dei grandi stormi di uccelli. E sfilarono pure innanzi a noi, condotti quasi a mano e chiamati per nome, gli orgogli dell’Argentina: quel tal _shorthorn_ del signor Alfredo Martinez de Hoz, quel tale Holmer II, razza di Hereford, del signor Perreyra Iraola che, non so più in quale esposizione, avevano debellati tutti i concorrenti inglesi: i progenitori delle nuove razze che l’Argentina alleva per il mondo, famosi per la eccellenza ed il prezzo: quel tal celeberrimo toro che fu pagato da un argentino centodiecimila franchi, quarantamila franchi più che non sia mai stato pagato dall’origine del mondo e in tutto il mondo nessun animale cornuto: il famoso cavallo «Diamond Jubilee» pagato a re Edoardo VII da Ignazio Correas un milione di lire: la cabaña di quei milledugento montoni Lincoln di purissimo sangue, tra i quali il signor Covo voleva, nelle stalle del signor Wright, scegliere i campioni più belli; ma eran tutti così belli che li comprò tutti, scrivendo sull’atto uno chèque di cinquantamila lire sterline. A poco a poco fummo tutti arraffati da questo vortice pulverulento di milioni: presto la conversazione trapassò al rincaro — o come si dice in America — alla _valorizzazione_ delle terre, alle fortune fatte dormendo tranquillamente dai savi che seppero posare a tempo il capo sopra una zolla della madre terra: e non in Argentina soltanto, ma in Brasile e nell’America del Nord: e chi citò un fatto e chi un altro e chi un altro ancora. Io solo tacevo: e pensavo.... Era l’effetto dei discorsi fatti in tutta quella lunga giornata? Era l’effetto dell’avere spensieratamente bevuto e il solito fenomeno che un primo principio di ebbrezza suol far nascere in me, disponendo l’anima a un melanconico senso della nullità di tutte le cose? Era effetto insieme della filosofia rimestata in quel giorno e del troppo Champagne bevuto? Non so: ma mi pareva che, volgendomi a guardare dalla fine di quella lunga giornata equatoriale, alla luce dei discorsi che avevamo tenuti in quei dì e nei precedenti, il mondo intero si allontanasse come nel crepuscolo di un sogno.... Che cosa era quell’equatore che noi avevamo tutto il giorno desiderato? Una linea immaginaria. Tracciare con la mente una linea immaginaria, desiderarla, sforzarsi di raggiungerla, tripudiare per averla oltrepassata, quando nessun mutamento è stato operato nell’universo.... Ma che altro sono la gloria, la potenza, la felicità, il sapere? Che è la vita, se non un eterno passaggio dell’equatore, un continuo sforzarsi per raggiungere qualche linea immaginaria; immaginaria la bellezza, immaginaria la verità: immaginario il progresso, immaginario tutto, anche.... In quel momento, per caso, la signora Feldmann mi guardò, proprio mentre con la mano toccava sul petto nudo le perle; e sorrise. Gesto usato come il sorriso: ma non so perchè, il gesto e il sorriso mi parvero in quel momento alludere discretamente, e per me solo che solo potevo capire, alla falsità delle perle. Sì: anche la bellezza era dunque illusione.... E perciò pure illusione l’amore? Mi sentivo l’anima tra oppressa e beata, triste e gioiosa: ascoltavo distrattamente i discorsi e non ristavo dal bere: mentre il mondo continuava ad avvilupparsi in una mistica nebbia.... Quando a un tratto, l’Alverighi, come spesso accade agli Europei arricchiti in America, fu preso dalla smania di incitare alla ricchezza i neghittosi rimasti in Europa, raccontando e quasi gridando in piazza le proprie fortune. — Ma questo è nulla, a confronto di quel che abbiamo fatto e faremo, il signor Vazquez ed io, nella provincia di Mendoza. Lo dica lei, signor Vazquez. E il signor Vazquez, composto e dignitoso, raccontò che quattro anni prima egli e l’Alverighi avevano comprato nel territorio di San Rafaele, da un inglese, centoventimila ettari ancora incolti tranne mille ettari, sui quali passavano però tre ferrovie e che li avevano comprati per cinque milioni: un milione all’acquisto: il rimanente in quattro anni. Avevano poi domandato e ottenuto il diritto di acqua, a condizione di scavare un certo numero di canali e di mettere le terre a coltivazione, in dodici anni. Ma a questo punto l’Alverighi, impaziente forse perchè il Vazquez parlava troppo lento e pacato, lo interruppe, continuando egli: — Ci siamo addirittura dissanguati, signori miei: sì, dissanguati: lui cioè no, perchè è più ricco molto di me, ma io sì: mi son cacciato nei debiti sino agli occhi; ma non importa! Abbiamo scavati i canali e abbiamo incominciato a spezzettare ventimila ettari in piccoli lotti.... A quest’ora li abbiamo già venduti: duecentocinquanta lire l’ettaro: abbiamo dunque pagata tutta la terra e ci restano centomila ettari.... Un bell’affaruccio, non è vero? Ma non siamo che al principio del principio: il bello verrà tra qualche anno: andiamo appunto a Parigi a cercare i capitali per fare altri canali e le strade, per iniziare alcuni pueblos: faremo una società: e poi spezzeremo la proprietà in piccoli campi per venderli a chi vuol coltivare la frutta.... Cinquanta milioni, vogliamo cavarne: e creeremo la California dell’Argentina! Ma perchè, ma perchè gli uomini si scervellano tanto in Europa per guadagnar poche migliaia di franchi, arzigogolando tanti espedienti? Perchè si contentano di raccogliere le briciole del banchetto sotto la tavola, quando tanti posti sono ancora vuoti alla mensa di onore? Vengano in Argentina, vengano tutti; per tutti c’è posto, laggiù; comprino terre; son milioni sicuri, come è sicuro che domani il sole si leverà! Non c’è rischio: il mondo avrà pur sempre bisogno di grano, di carne, di lana: l’Argentina non teme nulla: succeda quel che vuol succedere, le terre continueranno a crescere di valore, sinchè noi che le abbiamo comperate o i nostri figli diventeranno per lo meno miliardari.... Che paese! Che paese! E lei ingegnere, lei che è stato ed ha fatto fortuna in America, pensa che il progresso è una illusione? Una illusione quando si vedono di queste cose? di questi portenti? di questi miracoli? Neghi il progresso, se le piace, quanto vuole: ma oggi io, l’ultimo e il più oscuro degli uomini, perchè sono emigrato in Argentina, io posso aver la gloria dei sovrani antichi. Io farò quel che fecero Alessandro, Cesare, Augusto, Costantino; io fonderò una città, sì una città nel mezzo di quel terreno; e le darò il mio nome! Sarà da principio un pueblo: poi ingrandirà a città; e poi, chi sa? un giorno sarà una capitale. E si chiamerà Alveriga! Non so perchè, ma questo discorso, pieno di tanti particolari concreti, mise in fuga quella dolce illusione e quel soave stordimento che il mondo fosse tutto un bel sogno. Una realtà massiccia, solida, greve e quasi brutale apparve a un tratto, in mezzo ai mistici fumi dello Champagne, simile ad un iceberg nella nebbia: la ricchezza. E mi sentii inquieto e come a disagio in faccia a me stesso. IV. Il giorno seguente, uscendo dalla cabina verso le dieci — nessuno fu mattiniero quel giovedì — incontrai sul ponte di passeggiata l’ammiraglio. Gli raccontai in succinto i discorsi fatti con la signora Feldmann, e gli esposi, un po’ cautamente da prima, le riflessioni maturate nella notte e durante la mattina. Come cioè quel pronto e spietato sparlar del marito con il primo venuto non mi piacesse e mi facesse un po’ diffidare delle smanie di cui ero stato testimone il martedì sera. L’ammiraglio sorrise; e poi: — Sa perchè — disse — ieri sera ho riso, a sentire che la signora Feldmann dubita del cervello di suo marito? Perchè parecchie volte, a Rio, il signor Feldmann mi ha detto che sua moglie era un po’ pazza! E non aggiunse altro: ma le parole e più il tono con cui furono dette mi confermarono, come supponevo da un pezzo, che l’ammiraglio fosse meglio informato delle scissure della famiglia che non dicesse: cercai quindi di farlo parlare. — Ma lei è dunque amico della famiglia Feldmann? — chiesi. Mi rispose che aveva conosciuto il marito, quando aveva condotta a New-York l’armata brasiliana — i Loeventhal erano i banchieri del Brasile — e che quando era venuto a Rio il Feldmann aveva cercato di praticarlo molto, forse perchè era uomo che le grandi dignità e posizioni abbagliavano assai. Mi raccontò pure che il padre del Feldmann era un banchiere di Varsavia originario di Francoforte; e che cugino del Loeventhal, già stabilito a New-York, era stato da questo indotto, ai tempi della guerra di secessione, a concorrere ai prestiti dell’Unione; che questi prestiti erano stati il principio di altri e maggiori affari; che il giovane Federico, mandato presso i Loeventhal a impratichirsi delle cose americane, era poi rimasto in America. Mi disse infine che il Feldmann aveva accettato da un consorzio di banche e dal governo l’incarico di studiare quel che l’America settentrionale potrebbe tentare nella America meridionale, per prepararsi ad entrar nella diplomazia della repubblica: «un altro capriccio di mia moglie» diceva il marito: «una delle tante fantasie di mio marito» diceva la moglie. Quando però tentai di farlo parlare intorno alle intime cose della famiglia, ripetendogli la domanda già fatta alcuni giorni prima, chiedendogli se marito e moglie andavano, sì o no, d’accordo, mi rispose che lo pensava: ma con la stessa imprecisione che mi sapeva di reticenza. Mentre indugiavamo, passeggiando, in questi discorsi, sopraggiunsero il Cavalcanti e l’Alverighi. — Ammiraglio, — gridò l’Alverighi appena lo vide, — mi dica, mi dica quale sarebbe secondo lei il criterio sicuro del progresso? Il mio buon amico Vazquez capitò, ieri sera, cinque minuti troppo presto! L’ammiraglio, che mi parve da principio un po’ impacciato da questa irruente curiosità, si schermì alquanto; poi alla fine, arrossendo come uno scolaro timido che deve subire un esame: — Ma il mondo — disse — è un ordine.... Tutto vi obbedisce a leggi immutabili; i pianeti che girano nello spazio! la palla che esce dalla bocca del cannone! la pianta che cresce! l’elica che girando spinge questa nave! l’uomo, il suo pensiero, i popoli, le civiltà!... A leggi immutabili ma oscure, nascoste, difficili a scoprire: quindi l’uomo da principio si imaginò che l’universo fosse un caos di forze capricciose; e perciò ebbe paura, sragionò, inferocì, commise ogni sorta di follie e di violenze. Fu ignorante, egoista e crudele. Ma i pianeti non hanno aspettato che Newton e Keplero nascessero, per girare secondo le leggi di Newton e di Keplero. E così l’uomo obbedisce alle leggi della sua natura, anche quando le ignora: male e con molti falli finchè le ignora, meglio e con maggiore precisione a mano a mano che le conosce: quindi anche alla legge del progresso, che lo spinge a passare dall’egoismo all’altruismo, dal disordine all’ordine, scoprendo le leggi che regolano il meraviglioso ordine dell’Universo. Prima crea le scienze matematiche, poi le scienze fisiche e chimiche, poi le scienze biologiche; scopre le leggi del numero e dello spazio, del movimento, della materia e della vita. Ora si accinge a far l’ultimo passo.... Sta cioè investigando le leggi della natura umana, e della vita sociale, per ridurre ad ordine anche il caos delle passioni e degli egoismi, la famiglia come lo Stato.... «Ordine e progresso» sta scritto sulla bandiera gialla e verde del Brasile. — Augusto Comte, Augusto Comte! — dissi sorridendo. Avevo riconosciuto il semplice e ingenuo spirito d’ordine dell’America latina, nel fervore con cui l’ammiraglio annunciava al mondo il governo universale della scienza. — Lei immedesima dunque scienza e progresso — osservò il Cavalcanti. L’ammiraglio assentì: aggiunse che le conoscenze scientifiche si potevano sommare, cosicchè c’era anche un criterio quantitativo del progresso: tanto è vero che oggi uno studente di liceo è un fisico più dotto di Galileo e un chimico più sapiente di Lavoisier. L’Alverighi non consentì nè fece osservazioni; osservò solo che le ricchezze dell’America sono state e sono il più possente motore del progresso scientifico. Ragionammo poi di Augusto Comte. — A proposito, — interruppe l’Alverighi — il signor Cavalcanti mi ha detto che a Rio de Janeiro si pratica il Culto dell’Umanità fondato dal Comte. Ci sarebbe perfino un tempio, costruito ad imitazione del Pantheon di Parigi.... L’ammiraglio accennò di sì: il Cavalcanti disse che la repubblica è stata fondata in Brasile dai comtisti: io raccontai che a Rio avevo visitato in Rua Benjamin Constant il piccolo tempio dell’Umanità, ragionando piacevolmente di molte cose con il gran sacerdote, il signor Texeira Mendes. La campana ci chiamò alla colazione; alla quale il Rosetti non era presente: ragionammo quindi di cose frivole, prima; e poi di Maddalena e di Antonio. La mia signora era scesa nella terza classe, la mattina, per vedere Maddalena e raccomandarle di badare al medico più che al marito: ma con scarso effetto. Essa ci raccontò che Maddalena si era a sua volta lagnata del dottor Montanari, ripetendo parola per parola le accuse già mosse da Antonio: come cioè il medico non le desse nessuna medicina, si divertisse per farle dispetto a isolarla dai suoi compagni di viaggio. «Sono forse una carcerata?» aveva detto. Si ragionò un po’ degli stolidi errori in cui il popolo si incaponisce nelle cose della medicina, della pervicacia con cui diffida dei dottori.... Ma il dottore insistè a sostenere che Antonio voleva far morire sua moglie: il Cavalcanti chiese per qual ragione Maddalena fosse così docile e sottomessa al marito: la mia signora raccontò che anche prima di andare in America Antonio comandava a bacchetta; e Maddalena, o per debolezza, o perchè avvilita dalla sua colpa, ne subiva la volontà prepotente. Ma qui tutti furono d’accordo nel dichiarare che Maddalena era una sciocca, perchè insomma, sì, aveva commesso un errore: ma non per questo era giusto cadesse, vita natural durante, nella schiavitù del marito, il quale abusava veramente troppo della sua ipocrita magnanimità. L’opinione si fece più avversa ad Antonio: cosicchè neppure l’Alverighi aprì bocca per difenderlo. Solo la mia signora osservò che Antonio aveva sempre trattato benissimo, senza parzialità, come il suo, il figlio altrui; e infine pregò il dottore di somministrare qualche droga, anche inutile, a Maddalena, tanto per accontentare in lei l’ubbia popolare dei farmaci. Finita la colazione, e dopo aver saputo che a mezzogiorno eravamo arrivati al terzo grado e ventiduesimo minuto di latitudine settentrionale, al ventisettesimo grado e trentottesimo minuto di longitudine, ci ritirammo alla siesta. Quando uscii verso le quattro mi parve che il «Cordova» rullasse un poco: non ci badai: e incontrato il dottore, scesi con lui nella terza classe per parlare con quella siciliana, vittima delle amorose smanie dell’intendente paulistano. Era una donna di forse trenta anni — si chiamava Orsola — bruna, alta, piuttosto bella, poveramente vestita; ma aveva una faccia dura e in quella degli occhi mobili e inquieti, che non mi piacquero. Invitata dal dottore mi raccontò prolissamente e con innumerevoli divagazioni, parentesi e ripetizioni, in un italiano infarcito di dialetto e di portoghese, la sua storia. Le chiesi perchè non avesse ricorso al console italiano, e mi rispose che non potevano uscire dalla fazenda, perchè erano sorvegliati; che non avevano potuto scrivere perchè erano ambedue analfabeti; che non avevano potuto far scrivere da qualche loro compagno di fazenda perchè tutti avevano paura. Le chiesi perchè non si fossero fermati a San Paolo, a far valere le proprie ragioni, invece di imbarcarsi precipitosamente: mi rispose che se non fossero scappati sarebbero stati accusati di furto e di truffa per i debiti che l’intendente ingiustamente imputava loro. Tentai di dimostrarle che anzi, almeno se le cose erano proprio andate come essa diceva, l’intendente avrebbe potuto passare egli un brutto quarto d’ora! Ma non ci fu verso: a lei lo aveva detto l’oste del villaggio vicino alla fazenda, che stava in Brasile da trenta anni: e i miei argomenti si spuntarono contro tanta autorità. Risalii sul ponte di sopra, perplesso. Le risposte erano state pronte, i particolari precisi, le diverse parti del racconto legate a dovere: eppure.... Il racconto, non so perchè, mi metteva in sospetto. Ma mentre, pensando a queste cose, salivo la scalette di prua, mi accorsi che il vapore rullava e beccheggiava con forza. Guardai l’Oceano: non era in furia, nè schiumante di marosi, ma dondolava pacato, molle, gonfio, in valloncelli e montagnole, che non avevan forza di rompersi. Eppure il vapore si moveva come in tempesta: onde non fui punto sorpreso, quando la cameriera, passando, mi avvertì che la mia signora si era sentita male. Corsi alla sua cabina; le feci sorbire un certo farmaco contro il mal di mare che le aveva prescritto nella traversate dall’Havre a New-York il medico della «Savoie», efficacissimo; stetti presso di lei sinchè si assopì. Uscii quindi sul ponte di passeggiata, che era deserto; salii sul ponte delle imbarcazioni, sperando trovarci qualcuno: e difatti, dalla parte di babordo, sotto vento, vidi seduti a cerchio l’ammiraglio, il Cavalcanti, l’Alverighi: una quarta sedia stava vuota tra di loro. Al primo sguardo, di lontano, dai gesti e dai volti, capii subito che discutevano animatamente; e di fatti: — Ma che la scienza sia falsa, poi, falsa per sua natura! — diceva l’ammiraglio con impeto, quasi con sdegno, mentre io occupavo la sedia vuota. — Le pare a lei, signor Ferrero, che il mondo sia un gran disordine e che la scienza sia falsa? — aggiunse, scorgendomi, e a modo di saluto. — Alla grazia, che rovesciamento! — pensai tra me. Il Cavalcanti mi raccontò come un’ora prima incontratisi tutti tre con il signor Rosetti erano ritornati sul discorso fatto alla mattina intorno alla scienza; e che allora il signor Rosetti aveva chiesto all’ammiraglio se egli credeva, come il popolano, che la scienza fosse vera, incominciando poi un discorso, per dimostrare che egli era di questa opinione perchè seguace di Augusto Comte: e che Augusto Comte aveva avuto il torto di non calcare la via aperta dal sommo Kant e di non studiare le facoltà dello spirito prima di adoperarle a scrutare il grande mistero; e quindi aveva commesso l’errore di accettare il mondo quale glielo presentavano i sensi: proprio come fa il contadino e l’operaio. Ma poi non aveva potuto terminare la sua dimostrazione, perchè si era sentito indisposto e si era ritirato. — Ed io ne seguirò il nobile esempio — disse all’improvviso l’Alverighi, che era stato (oh meraviglia!) sino allora zitto zitto. — Questo è un mare impossibile. E salutatici, se ne partì in fretta. — Ci voleva il mal di mare — disse sorridendo l’ammiraglio — per farlo star zitto! Si alzò, si avvicinò al parapetto: guardò l’Oceano, scosse la testa. — È quello che i marinai del suo paese chiamano il mare a giardinetto.... Il mare morto, l’avanzo di una tempesta. Guardi l’onda come batte di traverso, sul fianco, nella parte posteriore, dove negli antichi velieri mettevano dei fiori, il giardinetto. Soltanto gli stomaci forti resistono.... Mi rallegro con il suo. Ma la sala da pranzo sarà deserta, questa sera. Esplorò un istante l’Oceano e il cielo, con l’occhio indifferente e sicuro del marinaio avvezzo a coteste vicende. Poi volgendosi verso di me, d’improvviso: — Ma dica, signor Ferrero: delle idee di quella fatta sono discusse sul serio, oggi, dai filosofi? Pago della dottrina del Comte, l’ammiraglio non aveva cercata altra filosofia. E come ebbi fatto cenno di sì con il capo, mi guardò un istante tacendo, scosse la testa, alzò le braccia, e poi: — Ferrero, Ferrero! — disse. — Da venti anni il mondo non gira più sul suo asse antico: noi non ci raccapezziamo più! All’ora del pranzo anche il Cavalcanti era scomparso; e l’ammiraglio ed io desinammo soli con il capitano. Mi coricai presto: mi alzai tardi al mattino del venerdì e sino all’ora di colazione oziai tra il ponte deserto e la cabina della mia signora, chiacchierando con lei, leggicchiando, osservando il mare: il «mare morto» come l’aveva definito l’ammiraglio. Aggettivo felice, perchè quel fluttuar senza rompersi e spumeggiare rendeva proprio l’imagine di un mare senza vita. Feci anche una visita al Rosetti, cui raccontai lo sbigottimento dell’ammiraglio; e gli chiesi se veramente egli avesse affermato che la scienza era falsa: ma scherzò intorno alle cose dette da lui, senza spiegare il suo vero pensiero. A mezzogiorno, dopo una colazione solitaria, giungemmo all’ottavo grado e dodicesimo minuto di latitudine, al venticinquesimo grado e trentottesimo minuto di longitudine. Mi ritirai per la siesta; e solo verso le quattro e mezzo uscii, annoiato e rassegnato ad aspettare che il mare si tranquillasse per ripigliar gli interessanti ragionamenti; quando verso le cinque, salendo tanto per far qualche cosa sul ponte superiore, ebbi la sorpresa di vedere, tranquillamente seduta sopra un seggiolone e intenta a scrivere in un quinterno, la signora Feldmann. — Ma bravissima! — esclamai. — Tutti malati, e lei no! — Non le ho detto — mi disse sorridendo e tendendomi la mano — che io ero nata per correre i mari? Barattammo poche frasi banali; poi improvvisamente deponendo la matita sulla carta: — «Monsieur Ferrero, vous qui savez tant de choses», — mi disse, sottolineando le parole con un grazioso sorriso. — Mi vuol domandare un piacere — pensai, mentre mi sedevo e respingevo con la modestia obbligatoria il complimento. Difatti essa riprese: — «Vous devriez me rendre un service».... L’ammiraglio la sa lunga intorno a mio marito, ne sono sicura: ma a me non vuol dire niente. Lo faccia cantare lei. Voi, uomini, sapete come si fa, tra di voi.... — L’ha indovinato — dissi tra me. Ma avendo già invano scandagliato l’ammiraglio finsi di dubitare: aggiunsi che vedrei, proverei, tenterei: finchè incoraggiato dalla sua, avventurai finalmente a mia volta una domanda indiscreta ma necessaria. — Ma insomma — chiesi risolutamente — andava lei d’accordo con suo marito, sì o no? Perchè non mi è riuscito ancora di capirlo: e questo è, mi pare, il punto capitale. E chi può scioglierlo meglio di lei? Temevo di metterla in qualche impaccio; invece mi guardò attonita. — Ma se glielo ho già detto — mi rispose. — Federico è stato sempre il modello dei mariti o io non credo di essere stata una cattiva moglie.... Assunsi dunque un fare un po’ dottrinale. — Signora, lei parla con uno storico e la storia sa leggere perfino nei pensiero dei morti. Si imagini, poi, dei vivi! Questo che lei mi dice adesso non lega con troppe altre cose che lei ha raccontate a me o a mia moglie.... E le rammentai tutto quel che essa aveva detto di suo marito a me o alla mia signora, dicendole che uno storico da quegli acerbi rimproveri argomentava profonde scissure nella famiglia, come l’alpinista indovina nella montagna i crepacci dal colore della neve. Mi ascoltò, attentissima e guardandomi fissa, come volesse ricevere il mio pensiero per il doppio canale delle orecchie e degli occhi: poi, come chi dopo alquanto stento e travaglio a un tratto capisce: — Ma i guai — di subito esclamò — sono incominciati soltanto dopo che andammo ad abitare in Madison Avenue! La risposta era di tanta semplicità, che a mia volta non seppi replicare se non chiedendole un po’ ironicamente dove abitava prima. — Nella 56ª strada, all’est, vicino al Parco. — E dalla 56ª strada a Madison Avenue suo marito ha mutato pelle allora? — Altrochè! — mi rispose. — Si figuri, per esempio.... Io adoro due arti, la pittura e la musica: e di queste, modestia a parte, un po’ m’intendo. Per esempio: quando entro in una esposizione o in un museo, un’occhiata in giro e basta: il quadro bello della sala, lo scopro subito. Ebbene: sinchè abitammo nella 56ª strada, mio marito non vedeva i quadri che per gli occhi miei. «Non voglio visitar musei ed esposizioni che in compagnia di Isabella», diceva sempre. E con quanto piacere io facevo la sua educazione: e insieme facevamo delle economie: e quando avevamo messo in disparte un gruzzolo, via insieme in Europa a comprare! Dopo Madison Avenue, ahimè, l’incanto fu rotto perfino nell’arte: lo scolaro si ribellò. — Con infinita jattura del bello! — Non rida, depravatissimo scettico! — protestò rabbiosetta. — Se sapesse quanto ho pianto io, invece! — Soggiunse poi sospirosa: — Fu in Madison Avenue che mio marito incominciò a sragionare come quel signore che parla sempre lui.... Ogni settimana mi usciva in una nuova pensata, bislacca e impossibile, che non legava con le precedenti. Un giorno andava matto per le vecchie _boiseries_ inglesi: un altro giorno spasimava per le ceramiche giapponesi; un altro non c’erano più al mondo che gli avori francesi, poi veniva la volta delle maioliche di Faenza e della pittura francese del ’30. E comperava a casaccio, roba bella e brutta, vera e falsa. Quanta ne ha comperata, di falsa! Spesso poi, dopo averla comperata si accorgeva di non saper dove collocarla; o era preso da una subita avarizia; non voleva pagare la dogana americana, e me li lasciava in un deposito in Europa. Ne abbiamo tanta di roba, sparsa qua e là, ai quattro venti! «Quando so che è mia, mi basta: che bisogno ho di vederla tutti i giorni?» ripete spesso, quando me ne lagno. Le dico solo questo, perchè lei capisca le mie pene. — Le sue pene, poi! Non esageriamo.... — Le mie pene, le dico. Vuole che non mi sanguinasse il cuore, a vedere mio marito zimbello e preda degli antiquari e dei mercanti? A me non dava più retta; perchè io non faccio mai complimenti, e gli dicevo schietta schietta, in faccia, come era dovere di una buona moglie, che facesse il suo mestiere, dei milioni cioè, ma che non si mettesse a comperare delle cose belle, chè non ne capisce un’acca. Lui invece, diventando ricco, si era messo in capo di essere un grande conoscitore, come Nerone; e quella gente, che è furba come il diavolo, ne hanno capito subito il debole. Quando non ci sono io, gli appiccicano tutti gli scarti e gli orrori, a furia di dirgli che solo gli Americani sanno scuotere il giogo dei pregiudizi accademici dell’Europa; o di dargli ad intendere che quei tali oggetti si venderanno tra qualche anno venti volte più cari. Proprio così: me ne dispiace per lei che ha ancora delle illusioni; ma se lo tenga a mente: un banchiere è sempre un banchiere. O non mi comperò un giorno perfino un quadro di Van Gogh? Cubista addirittura mi diventava! Il quadro però non varcò la soglia di casa mia: questa volta mi ribellai: lo minacciai di.... E scoppiò in un’allegra risata, guardandomi con gli occhi scintillanti di gaia malizia. — Di che cosa lo minacciò, signora? Non ci fu verso di saperlo. Sviò, sempre allegra, il discorso. — Di solito però cedevo io, perchè questo è il destino di noi povere donne. Ma disgraziata casa mia! Me ne ha fatto un bazar! Quando penso che proprio allora dei denari ne avevamo a palate e avremmo potuto comprar tanta bella roba! «Dei denari ne avevamo a palate!» Incuriosito le chiesi allora quando fossero andati ad abitare in Madison Avenue. — Nel 1902 — rispose. Poi ripigliando il filo del suo discorso e parlando veloce: — Per molti anni abbiamo vissuto alla buona. Mio marito non ha ereditato da suo padre che sette milioni. Feci un gesto di meraviglia, che essa intese. — Sette milioni sono molti in Europa. Ma in America.... Alla banca guadagnava assai, è vero: ma si figuri che alla morte di suo padre stette per un momento in pensiero di lasciar la banca e diventar professore di economia politica alla Columbia University! E magari l’avesse fatto! Vivevamo in disparte, da buoni borghesi agiati, senza far lusso e con pochi amici.... Quasi tutti professori di Università: di Columbia, di Harward, di Princeton, di Jale. Io poi, a New-York ci stavo solamente sei mesi: da novembre ad aprile. In principio di aprile venivo in Francia con mia figlia: Federico mi raggiungeva a luglio e passava con me, in Europa, tre mesi!... — New-York dunque non le piaceva? Ma la risposta fu inaspettata. — Non saprei — disse, dopo aver esitato un istante. — Che mi piacesse, proprio, proprio non lo direi. Ma neppure.... che mi spiacesse. Ogni novembre, ci ritornavo volentieri e dicevo addio alle colline dell’Havre con piacere. — Perchè tanto era sicura di rivederle di lì a sei mesi. — Forse. Ma insomma con le prime nebbie e i primi freddi dell’autunno mi ripigliava la voglia di New-York. Mi pareva di partire per un viaggio fantastico, alla volta di una città sconosciuta, posta fuori del mondo e del tempo. Quel signore che parla sempre, la prima sera, disse che New-York gli era sembrata una città astrale! Ebbene, per una volta tanto aveva ragione: anche a me pareva di trasmigrare in un altro pianeta, o in una di quelle fiabe in cui ero stata da bambina; e lì ci ritrovavo tutte le cose della Terra, ma fuori di posto, in un altro ordine bizzarro, vicine vicine quelle lontane, lontane lontane quelle vicine, piccole piccole le grandi e grandi grandi le piccole. Non so se mi spiego bene. E questo viaggio dalla terra a quel pianeta fantastico e dal pianeta alla terra vera, due volte all’anno, era uno dei maggiori miei svaghi! Un piacere andarci e un piacere ritornare. Perchè, voglio esser sincera, New-York mi stancava. Dopo un po’ sentivo il bisogno di ritornare nella terra e rivedere le cose a posto. — Tacque un istante; poi: — Non è curiosa! A New-York non ci sono due edifici eguali, quasi direi. Eppure, dopo due mesi che ci ritorno, New-York mi pesa come una città monotona. A Parigi invece c’è una grande uniformità; interi quartieri sono costruiti con una architettura simigliante. Perchè allora Parigi non mi stanca mai, mi pare sempre diversa? L’osservazione zampillava dal vivo: ma al quesito non risposi, perchè volevo continuare le mie contestazioni. — Insomma lei fu felice, almeno sinchè non andò ad abitare in quella maledetta casa di Madison Avenue. Ma allora perchè non lo voleva sposare? Lo ha confessato l’altro giorno, lei.... Arrossì leggermente, alquanto impacciata. — Sa.... ero giovanissima allora.... Quasi una bambina, ancora.... E poi tante cose, le ragazze non le sanno.... Io non lo conoscevo. Fu condotto in casa da amici, che volevano farmelo sposare, d’accordo con mia madre. A me la prima impressione che mi fece... Le sembrerà strano, forse. Mi fece ridere.... Era così timido! — Timido! — Sicuro — rispose. Poi incominciò a ridere a scatti, come chi vuol frenarsi e non può. — Era tondo, grassoccio, miope, goffo.... E impacciato, impacciato! Arrossiva quando una signorina lo guardava o gli parlava. Ma mia madre mi disse che Federico era un partito straordinario, che sarebbe uno dei futuri Cresi dell’America. Mio padre me lo ripetè: mi cantarono la stessa canzone mio fratello, mio zio, le mie zie, la mia governante, la mia cameriera. Come poteva una giovinetta resistere a questa coalizione? Un soffio di vento ci investì in quel momento, agitò nelle pesanti fibbie di ferro le corde tese dintorno a noi, sibilò sugli spigoli di ferro della nave, ci fece tacere per un istante. Mi volsi a guardare l’Oceano: sulla grigia pianura delle acque, sotto il cielo senza sole, il mare morto incominciava a rivivere, increspandosi e biancheggiando: ma il «Cordova» continuava a rullare e a beccheggiare, quasi soffermandosi un istante ogni tanto e sollevando di improvviso la prua, per poi lento e solenne ricadere quanto era lungo sull’acque e continuare il cammino nella solitudine oceanica, che dal «Cordova» ormai vuoto di uomini pareva anche più deserta e selvaggia del solito. Ma la solitudine stessa pareva incitare alle confidenze: non sentivo più nessuno scrupolo di far domande indiscrete come se ci conoscessimo da anni ed anni; la diffidenza scemava, cresceva la curiosità, perchè tra le continue contradizioni di queste confidenze, non mi raccapezzavo. Amava, detestava od era indifferente al marito? Apertamente interrogai: — Ma insomma lei rammarica o no di averlo sposato? L’altra sera e or ora ha detto di sì: poco fa invece attribuiva le sue ripugnanze all’inesperienza. Ma non rispose a tono. — Io credo — disse — che i miei avrebbero dovuto impedire il matrimonio. E mio padre infatti a un certo momento ci pensò. Un paio di quei suoi accessi di collera, durante il fidanzamento, lo avevano spaventato.... — Ma se era così timido.... — Di solito sì, ma quando andava in furia!... E si infuriava per dei nonnulla! Ma mia madre tranquillò mio padre. Mia madre era un angelo, ma credeva che quando uno ha molto denaro, è felice. — E allora, come andarono i primi anni di matrimonio? Maluccio, suppongo! — Ma no. È un uomo fortunato, Federico: e gli capitò subito una fortuna.... Che durante il viaggio di nozze io ammalai di tifo a Venezia. Bisogna dire che fu mirabile, in quella brutta circostanza. Mi assistè con uno zelo!... Proprio non avrei creduto che ne fosse capace.... — Si trattenne a tempo; e: — Che vuole? — continuò. — Quella prova di affetto mi intenerì, mi vinse: incominciai a scoprire in lui tutte le buone qualità che aveva.... e ne aveva: l’ingegno, lo spirito, la cultura, anche la gentilezza.... a intervalli. E poi era veramente innamorato di me, questo non è dubbio, — aggiunse con un fine sorriso. — Le ripeto: come marito è stato sempre un modello. Che lo eguaglino, al mondo ce ne saranno; che lo superino, no. A poco a poco divenni indulgente; dei difetti, tutti ne hanno, mio Dio; siamo al mondo per compatirci, non è vero?... Poi incominciò la vita comune, mezzo anno a New-York e mezzo in Francia; quei due mondi, gli amici, la figlia.... — Insomma anche lei si innamorò di lui — conchiusi, per provocar una risposta precisa. — Sento in coscienza di non essere stata una cattiva moglie, e di aver fatto quanto potevo per rendere felice mio marito — rispose. E tacque guardandomi. In quel momento le lampade elettriche si accesero sul ponte, fioche nel crepuscolo: imbruniva: i soffi del vento si seguivano a intervalli più corti e più fragorosi: il «Cordova» continuava a beccheggiare e a rullare tra onde schiumeggianti e in un mare rifatto vivo. Ci avanzavamo verso la notte. — In conclusione dunque, — dissi, per rompere il silenzio — in questi primi anni lei non è stata infelice.... — Ma no, ma no. E poi lui migliorò, non lo posso negare. Si lasciò ammansare e ingentilire da me. Ne feci quasi un uomo civile di quel barbaro! — soggiunse con un tono tra superbo e acrimonioso che fece di nuovo vacillare la mia opinione: dunque lo detestava! — I guai — dissi, per scandagliare di nuovo — sono incominciati quando andarono ad abitare in Madison Avenue, allora? — Pur troppo! — rispose. — Quella casa mi ha portato sfortuna. E pensare, che stavamo così bene nella vecchia casa della 56ª strada! Io non volevo sgomberare; ho pianto; lo presentivo! Ma dopo avere guadagnati tanti milioni nell’affare del Great Continental, mio marito volle una casa molto più vasta, dove ricevere e scialare. «Siamo tanto ricchi ora» diceva sempre «ci possiamo permettere questo ed altro!» Questo ragionamento, io non lo capisco: sarò una sciocca: spendere del denaro perchè fa piacere, sì: ma perchè se ne ha, no! — Ma qui si interruppe e improvvisamente: — Ma io l’annoio con le mie faccenduole private: mi perdoni: parliamo di cose che l’interessino di più.... Protestai di no: mentre incoraggito dalla facilità con cui la signora mi aveva rivelato l’ammontare della eredità paterna del marito, mi chiedevo se potessi arrischiare una domanda, la cui indiscrezione oltrepassava i termini della buona creanza. E mi decisi: — Perdoni la mia curiosità; ma ha guadagnato molto nel «Continental», suo marito? — Molto, molto; e non in quell’affare solo: dal 1902 al 1906 furono proprio anni d’oro. Una nuova esitanza, a cui seguì il passo decisivo. — E a quanto potrà ammontare, ora, la fortuna di suo marito? Credevo che avrebbe elusa la domanda: ma no, rispose: — Di preciso non lo so; coteste fortune, lei lo sa, sono sempre fluttuanti. Ma ho sentito mio fratello dire che Federico ora dovrebbe possedere più di un centinaio di milioni. — Nespole! — gridai, sinceramente sbalordito. — Non han poi tutti i torti, le signore di bordo, se.... E le raccontai che essa era in gran riverenza presso i suoi compagni di viaggio come «miliardaria». Il racconto la divertì assai; e: — Adesso capisco — disse — perchè quel signor Levi viene a offrirmi ogni giorno o delle perle o dei diamanti o degli smeraldi o degli zaffiri, chiedendomi sempre per lo meno il doppio del vero prezzo! Mi crede una sciocca o che non me ne intenda. Ma gioie, tappeti e quadri.... Chi mi imbroglia è bravo! — Scienza ereditaria! — pensai, mentre essa incominciava a raccontarmi certi suoi sagacissimi acquisti. Un po’ le diedi retta, per cortesia; poi, per richiamarla all’argomento: — Dunque, dunque, — dissi — lei diceva che come andarono ad abitare in Madison Avenue.... — Sicuro! — essa sospirò. — Smettemmo la semplice vita di prima, incominciammo a ricevere, a fare grande sfoggio. Diventai anche io, non fo per dire, un personaggio nel mio piccolo; ebbi la mia corte. E addio felicità! — Ho capito — interruppi pronto e malizioso. — Incominciarono per suo marito, come per tutti gli uomini ricchi che fanno vita mondana, le tentazioni.... E la carne è debole.... Ma non avevo invece capito affatto. — No, no — rispose essa risolutamente. — Non gli ho fatta mai, fino ad oggi, neppure una scena di gelosia, una sola, perchè non ne ebbi mai, debbo riconoscerlo, motivo o ragione.... — Non capisco allora che guai abbiano potuto nascere. Per le famiglie tanto ricche questo è il solo scoglio pericoloso nel mare infido della vita sociale.... Non saranno stati i debiti, m’imagino.... — Avrebbe ragione se mio marito non fosse un uomo senza criterio, senza giudizio, senza un briciolo di buon senso.... Avremmo dovuto essere felici, non è vero? Se al mondo c’era una persona nata per essere felice con poco, anche nella miseria, ero io; un fiore, un paesaggio, un raggio di luce, un bambino bastano per inebriarmi di gioia; posso godere tutte le cose belle, intensamente; non capisco neppure come si possa pensare che i poveri debbono essere infelici, solo perchè sono poveri. E tutti mi invidiano infatti.... Invece.... Più fui ricca e meno godei; da quando andammo a star di casa in Madison Avenue il destino mi ha perseguitata; tutto m’è andato a rovescio; la vita è stata una lotta continua e inutile. Davvero mi han servito molto, a me, le ricchezze dell’America. La più miserabile erbivendola di New-York è stata più felice di me! — Perchè suo marito e lei non andavano d’accordo nel giudicare dei quadri o dei mobili? Le ultime parole, prorompendo dal fondo dell’anima, nella notte nella solitudine nel vento, affannose e rotte come singhiozzi, avevano vinta la mia diffidenza: tuttavia il lamento, se mi suonò sincero non mi parve adeguato al malanno. Ma la signora non mi diè tempo di dilungarmi. — Sicuro, anche per questo! — ribattè, con forza, quasi aspra. — Io non so vivere in mezzo a cose brutte, a persone antipatiche, ad obblighi fastidiosi. Mio marito voleva una _social position_ a New-York: va bene: la volevo anche io; non ho mica, neppur io, i gusti di un eremita: ma che bisogno c’era di lasciare le vecchie e buone compagnie, per cercarne delle nuove, insopportabili? Io ero stata felice nei primi anni: sei mesi a New-York, sei mesi in Francia: e con tanti amici d’oro laggiù, gente modesta, se vuole, quasi tutti, ma istruita, fine, piacevole: professori di Università, scrittori, artisti. Ma non so perchè, quando fummo in Madison Avenue mio marito li prese tutti in uggia; e a poco a poco quelli dimenticarono l’indirizzo della nostra casa. Ebbero ragione: ma a me, il dispiacere non mi è ancor passato. Quando penso a quelli che ne presero il posto! Ricconi tutti, si intende: ho avuto l’onore di avere a pranzo, in una sera, non so quanti miliardi: ma così noiosi, noiosi.... quanto solo dei finanzieri sanno esserlo! Mio marito invece era beato: e se io mostravo un po’ di noia, furie e scenate! Che gusto ci provasse in quelle compagnie, proprio non lo so.... — Il piacere di trattar da pari a pari persone che, se non avesse guadagnato tanti milioni, non lo avrebbero guardato in faccia! Fece le boccuccie e: — Che piacere, non è vero? Divino, soprannaturale, paradisiaco! — Ma, signora, anche il passar l’equatore non è poi una gioia divina: eppure, ha visto! L’uomo è fatto così.... — L’uomo è un solennissimo imbecille! — rispose, pronta. — E lei — scherzai io — una anarchica pericolosa.... — Perchè non voglio annoiarmi quando voglio divertirmi? Perchè voglio che i divertimenti divertano, come i fastidi infastidiscono? Sono una donna stravagante, prepotente, lunatica, impossibile, non è vero? Lo ripeta anche lei, come mio marito! Per vendicarmi, le augurerò di annoiarsi quanto mi sono annoiata dopochè tornammo di casa in Madison Avenue.... Non sapevo mai quando avrei potuto andare in Europa: sin due anni sono stata senza rivedere Parigi e i miei: e sempre pranzi, ricevimenti, vendite di beneficenza, teatri, corse, quadri viventi, visite in campagna, che ne avessi voglia o no, mi piacesse o non mi piacesse, perchè se no la società di New-York si sarebbe dimenticata di noi. Che disgrazia, capisce! Perchè laggiù, non si scherza: anche la vita mondana è una mischia: chi lascia per un momento il suo posto, subito qualcun altro glielo occupa: bisogna essere sempre presenti e pagare di persona.... Ai pranzi, ai ricevimenti, in tutti i divertimenti gli Americani mi hanno sempre fatto l’effetto di soldati al fuoco, di gente comandata a divertirsi in quel tal modo, anche se si annoiava, per dovere, per non lasciare il suo posto, come in una battaglia.... — Signora, — osservai — anche la vita mondana, come tutta la vita, è una grande illusione.... Ma non mi diè retta; e continuando il suo pensiero: — Se l’avessi saputo! Avrei spinto mio marito a ritornare in Europa dopo la morte di suo padre. Perchè per un momento pencolò. Piuttosto che guadagnar tanti milioni per vedermi poi spossessata dalla contessa.... — Dalla contessa? — chiesi allora sorridendo. — E quale contessa? — No, no — rispose vivacemente, decifrando a volo il mio sorriso. — Non si tratta di quello che lei suppone: ma di peggio. La contessa.... — e pronunciò un nome tedesco. — Non la conosce? È la dama di onore di.... — e nominò una principessa reale del vecchio mondo, morta da qualche tempo. — È una orribile vecchia, brutta come il peccato! Suonò in quel momento la prima campana del pranzo: la signora si interruppe: mi disse che non voleva trattenermi di più con quei suoi inutili discorsi. Ma le confidenze sgorgavano ormai con vena troppo copiosa: protestai quindi di no; e le chiesi come avesse conosciuta la contessa. Mi rispose che la contessa aveva conosciuta e presentato in Parigi, alla principessa reale presso cui serviva, una delle famiglie americane, il cui nome è più conosciuto in Europa: che questa famiglia, gratissima di tanto onore, aveva invitata la contessa in America, dove dopo la morte della principessa essa andava tutti gli anni, restandoci cinque o sei mesi. I Feldmann l’avevano conosciuta a New-York; e suo marito aveva concepita una sconfinata ammirazione per lei. — Quella, perchè apparteneva al servidorame di una corte europea, era un oracolo! Dettava legge in casa mia: di maniere e di eleganze. Io, quando l’illustrissima signora contessa parlava, dovevo ascoltare, tacere e imparare! E sa che cosa mi fece un bel giorno? Da un pezzo cercavo di persuadere mio marito a comperare in Francia qualche antico castello storico. Mi sarebbe piaciuto tanto di restaurarlo splendidamente! Io sono nata architetto: se fossi stata un uomo sarei diventata un grande architetto: ma anche essendo donna, l’avrei restaurato bene, creda pure. Mio marito un po’ tentennò, spaventato dalla spesa: poi pareva convincersi: quando un bel giorno, lì per lì, muta parere e vuol comperare un grande _yacht_ a vapore. Si imagini! Proprio lui che perfino in barca soffre il mal di mare! Quando si mise in mente di avere una scuderia di cavalli da corsa, gli potei almeno insegnare a tenersi in sella, che ci si reggeva a stento, tanto aveva paura: perchè io sono invece un’amazzone gagliarda, le assicuro: ma non gli potevo mica prestar il mio stomaco! Glielo dissi e ridissi: ma non ci fu verso. E sa perchè? Perchè l’esecranda contessa aveva sentenziato che non si può essere un perfetto uomo di mondo, in America, senza avere uno _yacht_ a vapore. Voleva correre i mari a nostre spese, quella vecchiaccia: come a nostre spese giocava in Borsa. Essa perdeva e lui pagava! Lei non crederà forse che un finanziere possa essere così stupido.... Di nuovo si rifece aspra contro il marito: troppo aspra a mio giudizio. E lo dissi. — Lei prende, signora, le cose troppo sul tragico. Una _social position_, uno straniero, anche ricchissimo, non se la può fare, a New-York come dappertutto, che spiando le occasioni, conformandosi alle abitudini, sopportando con pazienza qualche delusione e anche qualche umiliazioncella; e sopratutto poi spendendo e spandendo. Il mondo è così fatto.... — Ma pagarla, no! — mi interruppe essa quasi con violenza. — Pagarla! La parola è un po’ brutale. Ma anche lei sia ragionevole.... Qualche sacrificio.... — Ma lei sa quel che la contessa faceva, quando la sua principessa era viva? La principessa spendeva il doppio dei suoi appannaggi e non poteva darle un soldo di stipendio. E allora acconsentiva a ricevere tutte le persone che la contessa le presenterebbe, senza guardare troppo per il sottile. E la brava contessa naturalmente aveva avviato un piccolo commercio di presentazioni, secondo una regolare tariffa. Mi misi a ridere. — Che sia una bella cosa, non dico.... Ma oggi l’Europa è afflitta anche da un proletariato di duchi, arciduchi e principi del sangue. Si ingegnano, poveracci! E lei, che è cento volte milionaria, ne abbia un po’ compassione. — No, no — rispose spietata. — Ci sono delle cose che non si possono pagare. Anche io desideravo di avere una _social position_ a New-York, ma comprarla a contanti, no.... — Chi è ricco, deve oggi pagare tutto; anche ciò che secondo ragione dovrebbe esser gratuito e che per i più è gratuito: la amicizia, l’ammirazione, la gloria.... l’amore. — Ma le par giusto? — È uno dei tanti compensi che i nostri tempi offrono ai poveri. Se no, i ricchi avrebbero tutto: ciò che non si può avere che a peso d’oro e ciò che si deve avere gratuitamente. — Ma allora, è meglio esser poveri. — Se sia meglio non so, — risposi, stringendomi nelle spalle. — So che è molto ma molto più facile. — E soggiunsi: — È un sentimento assai nobile, il suo. Solamente.... solamente.... Farlo in generale, sa, non se l’abbia a male: ma in molte persone questo sentimento fa alleanza e un po’ anche si confonde con un altro sentimento meno nobile, questo: l’avarizia. Gli uomini, per esempio, i quali protestano di non voler pagare l’amore, perchè quando è pagato sfiorisce, qualche volta sono dei poeti, ma qualche volta sono semplicemente degli avari. Mi guardò, sorrise di sottecchi, e: — Un po’ avara lo sono, lo confesso — disse. Poi, con un salto improvviso, il suo pensiero ritornò allo yacht. — Ma quello yacht — disse ridendo, — fece le mie vendette. La prima volta che uscimmo, che tempesta! Rischiammo di andare a fondo; lui soffrì atrocemente; si credè perduto; implorò aiuto da tutti i santi!... Quando ci penso! Rido ancora oggi. Ritornati a New-York, non lo volle più vedere: irrugginì sei mesi nel porto; poi un bel giorno la vendè in ventiquattro ore per la metà di quel che l’aveva pagato. Ci costò caruccio, quel viaggio! Brillava in quegli occhi a questo racconto una così spietata allegria, che di nuovo mi domandai se proprio non detestasse il marito e mi sentii spinto a difenderlo. — Ma infine, — dissi — quel che lei mi racconta non è poi una tragedia. Lei si lagna di essere stata condannata a morire di fame; perchè il destino l’ha nutrita con biscottini troppo dolci. Infine, mi permetta di parlar franco, con un po’ di pazienza.... — Se crede che non ne ho avuta! Perchè alla fine ho sempre ceduto io. — Ma dopo aver resistito, protestato, combattuto.... — È naturale: perchè avevo sempre ragione! — E le pare un piccolo torto aver sempre ragione? — le chiesi sorridendo. Poi aggiunsi: — In questo mondo, un po’ di filosofia è necessaria, signora: bisogna o vincere o cedere di buona grazia. — Anche quando si tratta dell’educazione e dell’avvenire della propria figlia? — mi chiese a un tratto, risolutamente, guardandomi in faccia. — Ma lei vuole andare a pranzo: l’ora è tarda: questi discorsi non l’interessano — aggiunse poi. Di nuovo protestai; e dopo qualche esitanza e un lungo sospiro, essa riprese: — Lei che sa tante cose, crede che una malattia possa alterare l’indole di una persona? Mia figlia era un angelo. A dodici anni ammalò di tifo; stette due mesi tra la vita e la morte.... Che mesi! Quante volte ho pregato Dio di far il cambio delle nostre esistenze! L’ho supplicato di prendere me, che avevo già vissuto e di salvar lei... Dio la risparmiò e risparmiò me pure, pur troppo! Dopo quella malattia Giuditta diventò un diavolo. Aveva bisogno sempre e in ogni occasiono di far l’opposto di quanto le si diceva. Si figuri quel che successe quando andammo a stare in Madison Avenue; ed io ebbi tanto da fare; ed essa fu relegata al secondo piano, nelle mani delle istitutrici; e io la vedevo, sì e no, una volta al giorno! Suo padre poi, invece di aiutarmi, la incoraggiava, per debolezza, per non aver noie. «Lascia correre; le nuove generazioni sono fatte così; l’America è il paese della libertà; lasciami godere in pace la casa: ho tante preoccupazioni, io, fuori!» Vede che padre era quell’uomo? E i frutti di questa educazione.... — Tacque un istante, come cercando un esempio; poi a un tratto: — Noi siamo una famiglia di banchieri, è vero: ma ignoranti, no. L’istruzione, l’abbiamo sempre curata. Tanto mio marito come io abbiamo tutti e due dei parenti che sono professori di Università. Ora crederebbe lei che, non dico che mi sia riuscito di infondere in Giuditta un po’ di gusto per la letteratura o per l’arte; ma che.... mi vergogno a dirglielo.... — e abbassò la voce. — Non ho letta ancora una lettera sua in inglese o in francese.... che non fosse zeppa di errori di ortografia. Sorrisi a vedere la faccia nel tempo stesso costernata e confusa con cui la signora mi confidò questo orrendo segreto della sua misera stirpe; e per consolarla le dissi che non in America solo ma anche in Europa non sono rare le famiglie colte da parecchie generazioni, in cui le generazioni nuove sembrano prese da un misterioso ribrezzo per l’inchiostro, la penna ed i libri. — Si direbbe — conchiusi — che oggi le famiglie ignoranti vogliono istruirsi e le istruite ricascare nell’ignoranza. E naturalmente quel che interessava la sua figliola erano vestiti, balli, cavalli, «lawn tennis», sport. Accennò di sì; e aggiunse sorridendo: — Nonchè i bei giovinotti. Anche in questo proprio non era mia figlia. Aveva appena diciassette anni, e già protestava che essa non voleva invecchiare ragazza, ed accusava me di impedirle il matrimonio, per cattiveria. Si figuri! Un giorno sdegnata le dissi che ai miei tempi una ragazza della sua età simili cose non le avrebbe neppure pensate. Sa che cosa mi ha risposto? «Que vous êtes vieux jeu, maman!» Quasi quasi.... — fece una pausa; negli occhi le brillò un vago riso di compiacenza; abbassò la voce: — Quasi non sono aliena dal pensare che fosse un po’ gelosa. Una volta mi disse, stizzosa, che quando eravamo insieme gli uomini non badavano che a me! Alla fine l’abbiamo maritata, che non aveva ancora diciannove anni, non troppo male: speravo di aver un po’ di pace, dopo: ma non so che stella maligna mi perseguita: e Giuditta era appena partita per l’Europa, che scoppiò lo scandalo del Great Continental. Che mesi furon quelli! Quando ci ripenso. Se ne ricorda lei, di quello scandalo? Ne parlarono molto anche in Europa! Le risposi di sì. Essa allora mi chiese se sapevo spiegarle chiaramente la ragione di quello scandalo, che essa non aveva mai capita, pur essendosi trovata nel mezzo del vortice. Le raccontai che Underhill a un certo momento aveva vendute in gran numero obbligazioni del Great Continental; e con quel denaro aveva fatta incetta delle azioni di una ferrovia concorrente del Nord, per toglierla di tra le mani del Morgan o di altri potentissimi finanzieri che allora la governavano: questi si erano a loro volta precipitati nella Borsa strappando di mano al gruppo concorrente le azioni: sinchè, spartitisi a mezzo le azioni, i due gruppi rivali avevano inteso che conveniva venire ad accordi e si erano infatti accordati, stringendo tra loro quel che gli Americani chiamano un «pool». Ma la suprema Corte, giudicando che quelle due ferrovie erano concorrenti, aveva dichiarato illegale il «pool»: Underhill allora aveva vendute le azioni della ferrovia concorrente: e con tanta destrezza, in un momento così favorevole, che aveva incassati sessanta milioni di dollari — trecento milioni di franchi — più della somma spesa per comperarle. Trovandosi a disporre di poco meno di un miliardo, lo aveva speso comperando azioni di molte altre ferrovie, che non fossero «competing», bensì «connected», con la sua, a guisa di affluenti. Ma un giorno i nemici di Underhill riuscirono a indurre la «Interstate Commerce Commission» a fare una inchiesta sul Great Continental: la commissione svelò queste compere; e allora senza distinguere troppo sottilmente le ferrovie «connected» dalle «competing» l’America si infuriò in modo indicibile. Underhill fu accusato di voler costituire nel cuore dell’America una nuova e orrenda tirannide; fu minacciato di processi e di persecuzioni; fu coperto di ingiurie e di calunnie. Ma poi la collera pubblica sbollì: perchè insomma la legge distingueva proprio le ferrovie «competing» e le «connected». La signora mi ascoltò attentamente; poi: — Mi pare — disse — di aver capito questa volta. Cosicchè il punto dubbio era se le ferrovie comprate da Underhill fossero parallele o perpendicolari al Great Continental.... Accennai di sì. — Ed ora capisco anche — continuò — le discussioni che avvenivano tra mio marito e Underhill. Una sera, mi ricordo, Underhill era venuto a pranzo da noi; un pranzo intimo: non c’eravamo che noi. Lo vedo ancora, magro e pallido; vedo quella sua faccia di «clergyman»; vedo quegli occhi dolci e vivi dietro gli occhiali. «Quel che io voglio fare è utile, è giusto, è necessario» — diceva. «Le ferrovie sono le arterie dell’America: e l’America sarà tanto più ricca, potente, felice, quanto più le sue ferrovie saranno veloci, a buon mercato, bene organizzate. Dicono che ci sono delle leggi che sembrano proibirmelo, perchè gli uomini non sono perfetti nè quando fanno le leggi nè quando fanno le ferrovie: ma io voglio essere persuaso da ragioni inconfutabili che la legge mi impedisce di fare il bene: se c’è un dubbio.... Ebbene, se c’è un dubbio assumo il rischio di violare la legge, per provare al popolo che la legge è ingiusta ed improvvida». E vedo pure mio marito, grasso, molle, elegantissimo.... Lo ascoltava perplesso e pensoso: e sa che cosa gli rispose? «Underhill, Underhill: rispettar le leggi non basta e forse non è la cosa che più importa: importa invece e quanto! che il pubblico creda che noi le rispettiamo. Le leggi sono fatte per dare alla moltitudine l’illusione che lo Stato le difende contro i potenti e i prepotenti, veri o immaginari. Oggi le masse si sono fitte in capo che noi, i ricchi, siamo i loro tiranni e nemici; e dubito assai, anche se quel che lei vuol fare è legale, che il pubblico lo crederà. Che ci gioverà allora aver rispettate le leggi, se la plebe griderà che le abbiamo violate? I giornali e i tribunali avranno paura della plebe. Meglio sarebbe violarle davvero e far credere che le abbiamo rispettate....» Perchè così ragionava mio marito, capisce? Non potei trattenermi dal dirle che suo marito aveva ragionato, almeno quella volta, con profonda saggezza ed acume. Ma l’osservazione le spiacque. — Gli uomini — disse un po’ stizzita — si sostengono sempre fra di loro.... Ma avesse visto, quando lo scandalo scoppiò! Mio marito, come al solito, perdè la testa. Non dormiva, non mangiava più: ogni giornale, ogni telegramma, ogni lettera che arrivava, quasi sveniva; era proprio buffo! — Buffo, poi, signora! — non potei trattenermi dal dire, con accento di rimprovero. — Sì, buffo. E se la pigliava con Underhill, quando non c’era; diceva che era uno scellerato, un colosso dai piedi di creta, e perfino Nabuccodonosor. Del resto in quel momento avevano perduta la testa tutti: tutti, fuori che Underhill naturalmente: quello era un uomo, un grande uomo, un eroe! Vorrei che lo avesse visto, per scriverne la storia. Sarebbe un soggetto degno di lei. Lo mandavano a chiamare, lo andavano a trovare, gli scrivevano, gli telefonavano: lo supplicavano di pigliare un congedo, di partire per l’Europa, di dare le dimissioni; gli offrivano dei grandi compensi: gridavano che si difendesse, parlasse, scrivesse. Non ci fu verso. Non partì, non disse una parola, continuò ad attendere alle sue faccende, come se non succedesse nulla. «Se ho violato le leggi, mi processino: alla giustizia risponderò: ai giornali non rispondo: il pubblico si occupi degli affari suoi e non dei miei». Gli dimostravano che avrebbe potuto confutare vittoriosamente tante calunnie: e lui rispondeva che il pubblico era una grande bestia. «Gridi: quando si sarà, sfiatato, si cheterà». Fu un eroe, le dico: e salvò tutti, perchè difatti dopo essersi sfiatati si chetarono: e non successe nulla. Ma noi.... Non so quel che sarebbe successo di noi, povera gente, se non c’era miss Robbins. Fu la nostra provvidenza! E mi raccontò allora che questa miss Robbins era una giovane inglese, appartenente ad una buona famiglia, rovinata dalle prodigalità della madre e che era entrata in una specie di ordine protestante di infermiere. — Se vedesse che bella creatura! Alta, con dei capelli biondi e degli occhi azzurri meravigliosi, un corpo stupendo, una pelle.... E poi così svelta, intelligente, fina.... Fu l’infermiera di Giuditta nella sua malattia: e si seppe affezionare tanto lei e tutti noi, che quando fu guarita, le proponemmo di restare come sua istitutrice. Ma diventò come una mia dama di compagnia e segretaria: e la provvidenza della casa. Non c’era che lei che tenesse a freno Giuditta! E anche, devo dirlo, incuteva una certa soggezione a mio marito.... Quando proprio le cose si guastavano troppo, interveniva lei, e con il suo tatto, con la sua dolcezza sapeva rimediare. È stata proprio una disgrazia — conchiuse sospirando — che non si sia decisa a venir con noi a Rio de Janeiro. Le chiesi allora perchè avessero abbandonato New-York. Mi disse che dopo lo scandalo del Continental il marito si era sentito un po’ a disagio a New-York: onde aveva accettata quella missione nell’America meridionale, per assentarsi un po’ di tempo e non inutilmente. Le chiesi come fossero passati i tre anni di Rio. — Abbastanza bene — rispose. — Lui era molto nervoso, triste, irritabile, preoccupato.... Ma non è stato mai allegro: e questo esilio volontario doveva infastidirlo. A ogni modo, a paragone di New-York, era il paradiso. Tacqui un istante riflettendo. — Insomma, — dissi — lei è sicura che in tutti questi dissidi una donna non c’entra? — Sicurissima. — Ebbene, allora — conchiusi e conchiusi sinceramente, — il caso non mi pare grave, signora. Lo definirei così, se permette: una famiglia già ricca diventa in pochi anni ricchissima: il marito è preso da un accesso di snobismo, malattia epidemica; vuol mutar vita con più fretta e meno ordine che non piaccia alla signora, donna più fina, più aristocratica e più orgogliosa del marito, in cui più che l’orgoglio può la vanità del _parvenu_. Di qui continui litigi. Ma con un po’ di pazienza reciproca tutto dovrebbe aggiustarsi, specialmente ora che non c’è più l’inciampo della figliola. Una sola cosa rimprovererei alla signora: di ammirare tanto Underhill che è stato la cagione di tutti i suoi guai. Se Underhill non avesse fatto guadagnare tanti milioni al signor Federico Feldmann, il signor Federico Feldmann non sarebbe tornato di casa in Madison Avenue; avrebbe continuato, come era suo dovere, ad ascoltare l’oracolo della bellezza parlar per bocca della sua signora; non avrebbe conosciuta la contessa, nè comprato lo _yacht_, nè mutati gli amici.... La signora sorrise: non rispose nulla: ma mi chiese, come a confermarsi nella sua idea: — Dunque lei non crede che voglia fare divorzio? — Ne sono quasi sicuro. — Ma come spiega allora il telegramma dello zio? La obiezione era alquanto spinosa, per un critico desideroso di spianare tutte le difficoltà. Tuttavia risposi: che a New-York come in tutte le città del mondo si fanno molti pettegolezzi. Mi guardò; sospirò con un fare tranquillo; e: — Speriamo! — disse. — Del resto che giorno è oggi? — Venerdì. — Il capitano mi ha detto che alle Canarie arriveremo martedì mattina. Tre giorni ancora, e saprò. — Trasse l’orologio, gettò un grido di terrore: — Ma sono le otto e mezzo.... — esclamò. — Io la faccio morir di fame. Vado a vestirmi e in un momento sono pronta. Avevo fame e tentai persuaderla a scendere nel refettorio così come era. — Non ci perde nulla, signora. E non ci sarò che io.... Ma invano: il rito del mutar veste era sacro: e dovetti aspettare che le nove fossero suonate da un quarto d’ora prima di pranzare nella sala deserta, nella solitaria compagnia della bella confidente, però, e a mo’ di compenso. V. Ruminai a lungo, quella sera, nella mia cabina, e la mattina del sabato, svegliandomi, le confidenze della signora. No: una delle tante mogli che detestano e tormentano il marito pur volendo far credere al mondo di svisceratamente amarlo, essa non era: era stata sincera, non dubitavo più: ma la sincerità sua non mi ingarbugliava meno che la sospettata dissimulazione di prima. Strana indole e curioso ingegno, davvero! Non era sciocca, tutt’altro: ragionava spesso con acume superiore al suo sesso: e se non adorava il marito, desiderava almeno di vivere d’accordo con lui. Eppure aveva perseverato deliberatamente, di proposito, a ragione veduta — e candidamente lo confessava — per ventidue anni, in errori che una ragazza di venti anni avrebbe saputo schivare sin da principio ad occhi chiusi, per virtù d’istinto! Quante sono al mondo le donne così stolte e così buone, alle quali una breve esperienza non insegni che a far che un uomo stia soggetto alla propria volontà occorre lusingarne la vanità, non voler correggerne i vizi inveterati e profondi, e nel resto tiranneggiarlo? Tre regole eterne e sicure: ma la signora Feldmann aveva invece tenuti proprio i tre modi opposti, offendendo di continuo la vanità e disturbando l’egoismo del marito, senza imporgli mai la sua volontà, neppur quando essa aveva ragione, come nell’educazione della figlia. Eppure non mi pareva donna di debole volontà.... Come spiegare la contradizione? Nasceva essa in parte almeno da un particolare difetto dell’intelligenza? Allegra, schietta, buona, ma provvista di un intelletto alquanto rigido ed atto più a ragionar bene sulle cose che a capirle penetrandoci, tale mi appariva la signora, dopo la nostra lunga conversazione. — Se fosse stata un uomo — pensai — diventava un teologo, un matematico o un giurista.... Sorrisi un istante, pensando che un’arida intelligenza di matematico potesse albergare in quel grazioso corpo di donna: ma riflettendoci mi parve di poter spiegare a questo modo che invece di prevalersi abilmente delle debolezze del marito, le avesse giudicate con sincerità e a fil di logica, credendo far bene, quando invece tormentava il marito senza profitto nè suo nè di lui. Senonchè dopo un po’, a ripensarci meglio, questa sola causa mi parve inadeguata a spiegare l’acerbità della discordia, poichè acerba era e assai. Poi una nuova difficoltà mi nacque nella mente: per qual ragione essa ripetesse con tanta ostinazione che suo marito era un modello di tenerezza. Al modo con cui l’aveva dipinto, nessuno proprio l’avrebbe detto. E alla fine mi chiesi se tutte quelle contradizioni e discordie non fossero anche effetto di quel misterioso turbamento e disquilibrio, di quella specie di anima doppia e discorde che tormenta tanti europei passati a vivere di là dell’Oceano. «L’europeo arricchito in America non può più vivere nè in Europa nè in America: quando è in America, smania di andare in Europa; in Europa si trova a disagio e vuol ritornare in America», mi aveva detto un ricco italiano che ci aveva cortesemente ospitati a Paranà. E mi rammentai della frase del dottor Montanari: che l’uomo non può vivere tra i due mondi, con un piede in America e l’altro in Europa. Ripensai a tanti altri europei d’America nella cui anima agitata avevo potuto guardare per qualche spiraglio: ad Antonio.... Quell’egoismo feroce e quella astuzia calcolatrice non erano forse risaliti dal fondo di un’anima non più trista di tante altre, ma rimescolata dallo scuotimento delle ripetute emigrazioni? Per la prima volta mi parve di intravedere, adombrata in quelle strane parole del dottore, una verità; e di vedermela vicina e viva dattorno, non lontana e confusa nella folla indistinta della terza classe. Anime tutte con sè stesse in discordia, questi Europei d’America: e l’Alverighi, che nell’ardente ammirazione del nuovo mondo sfogava forse il rammarico di non poter rientrare più, se non come un lontano, sconosciuto e straniero viandante carico d’oro, in quella vecchia Europa onde era partito in un’ora di sconforto: e la signora Feldmann, che rimproverava così acerbamente all’America le sue troppo greggie ricchezze, e poi ammirava sino a offuscarne il marito il più americano degli americani, Riccardo Underhill, anima ardita, pronta, ma semplice e ignara di raffinamenti, volta solo alla conquista di quelle ricchezze greggie che le incutevano orrore. Contradizione non rara negli Europei, del resto, che spesso odiano l’America e poi ammirano i Cresi americani assai più degli Americani: ma singolarissima nella signora, la quale insomma voleva che il marito fosse nel tempo stesso il più vecchio degli Europei e il più giovane degli Americani. La mattina del sabato ragionai a lungo di questa storia con la mia signora. Ma essa vide il caso da un’altra specola, alla luce delle idee che aveva svolte in un suo bel discorso tenuto a Buenos-Aires sulla concorrenza tra uomini e donne. — La signora — disse — soffre del male che affligge oggi tutte le signore ricche: la noia. Una volta, prima che si inventassero le macchine, la donna, anche la più ricca, doveva accudire a molte faccende nella casa. Oggi, grazie alle macchine, gli uomini fanno quasi tutto quel che una volta la donna faceva, o faceva fare nella casa: e allora che cosa è successo? Nella condizione media e nel popolo, le donne, per vivere, cercano di imparar qualche mestiere degli uomini, anche a rischio di sciuparsi la salute.... Come è capitato a Maddalena. Nelle classi alte, non sapendo che fare si annoiano; e quindi spesso litigano con il marito, tanto per aver una distrazione. Intanto gli uomini che hanno rubato alla donna quasi tutti i suoi antichi mestieri, a cominciare dalla tessitura, si lagnano che le donne fanno loro una concorrenza rovinosa! A mezzogiorno giungemmo a 13 gradi e 34 minuti di latitudine, a 23 gradi precisi di longitudine; e nel pomeriggio il mare incominciò finalmente a tranquillarsi e i passeggeri a ricomparire. La sera, a pranzo, l’Alverighi e il Cavalcanti furono tra i commensali: non il Rosetti. Nella notte l’Oceano si placò e la domenica a colazione eravamo presenti tutti: ma non si ragionò che di cose frivole e con poco ardore. Si risentivano tutti ancora della prova subìta. Giungemmo a mezzodì a 18 gradi e 43 minuti di latitudine e a 20 gradi e 4 minuti di longitudine. Nel pomeriggio, chiaro e fresco — camminavamo rapidi verso l’autunno — oziammo in vari discorsi, sopratutto delle Canarie, distanti ormai non più che un giorno e mezzo, e incominciando pure a ragionar dell’arrivo. Eravamo giunti a mezzo del viaggio; tra una settimana, la domenica prossima, se nulla succedeva, noi passeggeremmo nelle vie di Genova. E una settimana è un così breve volger di tempo, che neppure si avverte! Dolci pensieri questi, davvero; che ci sembrava a momenti, indugiando in quelli, di essere quasi arrivati. Ma poi voltandoci a guardare indietro, come pareva lontano il giorno in cui avevamo, in un bel tramonto primaverile, levata l’àncora nella baia di Rio! Eppure non erano passati che otto giorni: uno solo di più di quanti dovevano ancora trascorrere prima di giungere in vista della desiderata lanterna di San Benigno. Quanto è lunga, dunque, una settimana! Nè ad affrettare il trotto degli stanchi cavalli del Sole in mezzo al mare, intervenne la dialettica. Due giorni di tempesta e di sofferenze erano passati, ondata immane, sugli animati discorsi dell’equatore; e tutti avevano dimenticato il progresso, la scienza e gli altri argomenti. Meditai alquanto, in quel giorno, sulla impotenza dialettica dei nostri tempi. Sì; per un momento, in mezzo al mare, l’ozio ci aveva incuriositi a verificare il significato di alcune parole — quali scienza e progresso — che tutti adoperano e nessuno sa che vogliano dire.... Ma con qualche suo piccolo movimento il mare aveva disturbato e interrotto questo gioco: chè non è che un passatempo di oziosi, oramai, il cercar di conoscere con precisione gli oggetti di cui tuttodì si discorre. Si arrivò insomma quetamente all’ora di pranzo. Durante il quale accadde un incidente bizzarro davvero. Tra la seconda e la terza portata il dottor Montanari sopraggiunse, si sedè, spiegò il tovagliolo con mosse e faccia anche più stizzose del consueto: e subito, senza badare all’ammiraglio e al Cavalcanti: — Stiano a sentire! — disse. — Proprio con questi Americani non si sa mai quel che vi capita! Cose da pazzi! La novella pazzia che aveva da raccontarci era questa. Già da due giorni i servitori lo avevano avvisato che il giovane di Tucuman era in letto ammalato. Meravigliandosi di non essere chiamato al suo capezzale, aveva voluto recarsi quella sera spontaneamente a visitarlo: ma la signora gli aveva impedito di entrar nella cabina, facendogli sulla porta un lungo discorso di cui egli non aveva capita sillaba. — Ha abbaiato in inglese un quarto d’ora: m’è parso di capire che essa dicesse di non aver bisogno di medici! C’è qualcuno di loro che sappia l’inglese e che potrebbe andarle a dire di smetterla con cotesti grilli? Se non apre la porta, la sfonderò. Ma io debbo sapere che malattia ha il suo signor marito.... E difatti, terminato il pranzo, il Cavalcanti ed io, che tra tutti parlavamo meno peggio l’inglese, scendemmo, preceduti da una cameriera, sotto il ponte di passeggiata, alle cabine di prima classe più basse: infilammo, sopra il tappeto cupo, soffice e silenzioso, lo stretto andito delle cabine, tra il luccicar delle bianche pareti di ferro, delle porte rossiccie, delle lucide maniglie di bronzo, percosse dalla luce elettrica che pioveva dall’alto. La cameriera battè ad una porta; la signora Yriondo — così si chiamava l’americana — ne uscì, con un libro nella sinistra; la cameriera aprì una cabina vicina, che era vuota, ed entrati tutti e tre ci sedemmo su due lettucci, io e il Cavalcanti accanto, la signora di rimpetto a noi.... In mezzo e in alto stava il finestrino tondo, per il quale entrava l’aria della notte e il romore del mare vicino. Dritta e succinta la alta persona, le braccia conserte, il libro in grembo, la faccia volta alquanto a sinistra verso di me, la signora Yriondo aspettava impassibile. Il Cavalcanti incominciò il suo discorso con un esordio cerimoniale, rammaricando di dover disturbarla, quando essa era angustiata dalla malattia di suo marito; e già si accingeva a trapassare dall’esordio alla trattazione, quando: — Ma mio marito non è malato! — interruppe la signora, con alquanto ritardo, ma recisa. Io temetti di aver capito male: sconcertato il Cavalcanti sospese il discorso, per balbettare che il dottore ci aveva assicurati.... — Credere nelle malattie e farci credere è il mestiere dei medici — rispose la signora.. — Ma le malattie non esistono. — Non esistono! — esclamammo quasi a un tempo. Tacemmo tutti e tre per un istante, noi guardando lei e lei guardando noi, diritta e impassibile. — Eppure chi vada in giro per il mondo.... — disse dopo un momento il Cavalcanti, con un sorriso incerto. — Oh! — rispose la signora, anche questa volta con un certo ritardo, come se le occorresse un po’ di tempo prima di afferrare il pensiero dell’interlocutore. — Sinchè gli uomini crederanno che il freddo può generare il reumatismo o la tisi, si ammaleranno al freddo. Ma per quella opinione. Non per il freddo.... Di nuovo tacemmo tutti; noi tra impacciati e vogliosi di ridere: essa, ritta e ferma. — Eppure la scienza.... — dissi io, alla fine, tanto per dir qualche cosa. — Nell’Eden — mi rispose essa risoluta — cresceva l’albero della vita e l’albero della conoscenza. Per quale ragione il serpente incitò l’uomo a gustare i frutti dell’albero della conoscenza e non quelli dell’albero della vita? Perchè la scienza che pretende classificare le malattie, è una rozza scolastica della materia. La materia non esiste. — E che cosa è, che esiste, allora? — si affrettò questa volta a chiedere, semi-serio, il Cavalcanti. — Lo spirito, simboleggiato dall’albero della vita. Che cosa è una malattia? Una sofferenza che il presunto malato crede di sentire in un organo del corpo. Ma quando lo spirito è uscito dal corpo, dopo la morte, si sente forse il dolore? C’è droga, empiastro o scienza che curi un cadavere? E pure, vivo o morto, quello che voi chiamate il corpo è sempre il corpo. Dunque quel che vive, soffre, e si crede malato, è lo spirito. — Ma il corpo, che cosa è allora? — chiese, seriamente questa volta, il Cavalcanti. — Una illusione dello spirito mortale, che presta l’intelligenza alla materia. Questa illusione genera il dolore, le malattie, il peccato, la morte. È il serpente della Genesi; il gran dragone dell’Apocalisse.... Anche il dragone dell’Apocalisse! Era pazza, dunque. Perdetti la pazienza; e poichè il Cavalcanti, vago di curiosare anche in quella follia, non lo faceva, ricondussi io, un po’ bruscamente, il discorso alla nostra ambasciata, dicendo che il medico doveva visitar suo marito, per giudicare se la malattia fosse infettiva o no. Essa ascoltò: esclamò: «Oh bad, bad»; poi tacque, come pensando, senza rispondere, rigida e immota. — Non capisci o fai lo gnorri? — dissi tra me. Stavo per rincalzare, quando il Cavalcanti intervenne, ma con maggiore dolcezza: — Lo lasci venire, il dottore — disse. — Suo marito non è mica obbligato a seguire le sue prescrizioni. Ma il dottore ha il dovere di visitarlo, signora. Se fosse una malattia infettiva.... Che vuole? Gli altri passeggeri ci credono, alle malattie! Ma l’americana non vacillò. — Se il dottore viene — essa disse — gli domanderà dove si sente male, se è stato altre volte malato. E dopo, mi sarà più difficile di curarlo. — Lo cura dunque! — esclamò il Cavalcanti. — Le malattie che non esistono? — chiesi io. — E con che mezzi? — soggiunse il Cavalcanti. — Con la scienza cristiana, — rispose la signora. A queste parole un raggio di luce brillò alla fine, in quella metafisica confusione. La signora Yriondo apparteneva dunque a quella setta che la signora Eddy ha fondata negli Stati Uniti sotto il nome di «Cristian Science» e che proibisce di credere nella medicina e di servirsi di medici. Ne avevo inteso a parlare molto in America; ma non ne avevo conosciuto nessun proselito. Ed ecco il caso mi faceva incontrare una «scienziata cristiana» a bordo del «Cordova»! Non risi più, quando il Cavalcanti chiese che cosa fosse la scienza cristiana, sperando di approfittare anche io delle sue spiegazioni. — È Cristo — rispose la signora — che ritorna nel mondo a scacciare il dragone: cioè il peccato, la malattia, la morte, l’odio. Cristo, cioè la Verità, l’Idea spirituale! Si cominciava male: con parole di senso non facile e piano. Il Cavalcanti chiese chiaro e tondo come essa curava una polmonite. — La malattia — disse allora la signora, schivando il caso particolare — non è che un sogno. È necessario quindi svegliare il paziente. E noi lo svegliamo, persuadendolo a poco a poco, con dolcezza, che la materia non sente, non soffre, non gode, perchè non esiste. Persuadendolo che lo spirito immortale è la sola causa efficiente nell’universo. Che la malattia non può essere nè causa nè effetto. Che chi non crede che il piacere e il dolore abbiano esistenza reale e intende che lo spirito è onnipotente, debella la malattia. Sviando l’attenzione dell’imaginario malato dal suo corpo e drizzandola a Dio. Sgombrando la mente dall’alito del serpente: dall’odio, dalla sensualità, dalla vanità, da tutte le passionaccie.... Perchè da questo alito nascono quegli orribili fantasmi dello spirito mortale, che noi chiamiamo poi febbri, cancri, ulceri, deformità.... — Fece una pausa; poi alzando il libro che teneva in grembo aggiunse: — Ecco, per me, la migliore delle medicine. Sono le conferenze che Svamo Vivekananda, il missionario vedantista, fece nell’America pochi anni fa. Quando uno dei miei cade nella illusione mortale della malattia, gliene leggo qualche pagina. È potente quasi quanto la Bibbia e il libro della signora Eddy.... — E anche una gamba rotta potrebbe aggiustarla, la filosofia del Vedanta? — non potei trattenermi dal domandare, brutalmente. Ma un puritano anglo-sassone non capisce nonchè l’ironia neppure lo scherno: dopo essersi accertata, con precisa domanda, che le chiedevo se la scienza, cristiana fosse capace di fare operazioni chirurgiche: — Sì — rispose tranquilla, tranquilla. — La fondatrice della Scienza Cristiana è riuscita anche nella chirurgia mentale. Ma occorre una straordinaria forza di pensiero, una incomparabile purezza di anima; e pochi ne sono forniti. Perciò la nostra santa fondatrice ha permesso ai suoi fedeli di servirsi di chirurghi per questi malanni.... — Tacque un istante; poi: — Vogliono conoscere a fondo la nostra dottrina?... Io potrei prestare loro il libro annunciato dall’angelo dell’Apocalisse, il libro della signora Eddy, il più grande libro, che sia stato scritto dopo la Bibbia. Si levò ed uscì. — È pazza da legare, — dissi beffardo, appena fu uscita. Ma il Cavalcanti tacque un istante, pensoso; poi: — Eppure — disse — una certa grandezza e nobiltà di pensiero.... — Cavalcanti, Cavalcanti! — gridai interrompendolo. — A furia di voler gustare, toccare, curiosare dappertutto, io non so che cosa lei non finirà di ammirare.... In quella la signora entrò con il libro annunciato dall’angelo: lo porse al Cavalcanti: gli diede anche una copia di Vivekananda, dicendogli che ne aveva due: e mentre il Cavalcanti sfogliava i due volumi, feci io in vece sua ufficio di diplomatico, per venire con la signora a conclusione. Incominciò tra noi una discussione, alla fine della quale la signora si dichiarò disposta ad ammettere il dottore nella cabina, a patto che non muovesse nessuna domanda al malato intorno al suo male; perchè questi discorsi avrebbero ravvivata nel cosidetto malato la falsa idea della malattia. Se aveva domande da fare, le facesse a lei, fuori della cabina. Dissi che avrei trasmesso al dottore questa proposta e speravo che l’avrebbe accettata. Risalimmo nella sala da pranzo. Intorno alle tavole sparecchiate, il Rosetti, il dottore, l’ammiraglio, la Gina ci aspettavano chiacchierando e bevendo il gelato domenicale. Immaginarsi il dottore! — Cose da pazzissimi! — sbuffò, adoperando per la prima volta, da quando lo conoscevo, il superlativo. — Non abbia paura, quella signora: visiterò il suo malato senza aprir bocca, come fossi un veterinario. Perchè proprio in questo momento mi sento veterinario. Il Cavalcanti lo accompagnò come interprete: noi ridemmo un po’ di questa esplosione: scherzammo alquanto intorno alla scienza cristiana e alla «chirurgia mentale» della signora Eddy; sinchè, volgendomi all’Alverighi che non aveva detto parola sino ad allora: — In America però — dissi con tono un po’ pungente — se ne vedono delle belle: non c’è che dire! — Pochi pazzi ignoranti! — borbottò l’Alverighi, scrollando le spalle. — Chi li piglia sul serio? — Quanto a questo, adagio! — risposi. — La «Cristian Science» ha moltissimi proseliti, e nelle classi alte e ricche. A Boston l’ho visitata anche io: hanno costruita una chiesa grande, direi ad occhio, poco meno di San Pietro; e una immensa sala; e degli scaloni; e pareti di marmo istoriate con i detti della signora Eddy e i detti di Gesù Cristo: accanto! L’Alverighi si strinse nelle spalle. — Il paese è così grande! C’è tanta gente! E tutti vogliono pensare con la propria testa, anche quelli che non l’hanno! — Effetto della libertà — sentenziò l’ammiraglio. — Inconveniente inevitabile — corresse l’Alverighi. Tacque un momento come esitando; poi: — Si fa presto, del resto, a ridere! — soggiunse. — E che cosa dovremmo fare? — chiesi io sarcasticamente. — Convertirci alla scienza cristiana? Ricorrere all’Apocalisse come rimedio? — Non dico questo, non dico — rispose un po’ infastidito e brusco l’Alverighi. — Dico che quando un uomo ammala, oggi, come ieri, come ai tempi dei Romani, se non muore guarisce: e allora la medicina dice che è merito suo. Ma anche i seguaci della signora Eddy sono persuasi, quelli che stanno bene, di dover ringraziare la dottrina che professano; quelli che sono malati, non dubitano che la scienza cristiana li risanerà; e quelli che sono morti, non sono più a tempo di provare la medicina scientifica, se avrebbe avuto miglior fortuna. Ma allora tutti, tranne il Rosetti che tacque, insorgemmo vivacemente. Per giustificare anche le più pazze pazzie dell’America, l’Alverighi trascendeva sino a difendere la medicina sacra dei selvaggi e degli antichi, rifiorita per una incredibile aberrazione nel nuovo mondo. Ma a queste proteste l’Alverighi si stizzì. — Ma non dimentichiamo — gridò — che l’America è il paese della libertà.... Se ci sono delle persone che preferiscono affidare a Dio la loro salute, piuttosto che alla medicina.... facciano il comodo loro. Cascherà il mondo, per questo? Che cosa ne dice lei, ingegnere? L’Alverighi cercava l’aiuto del Rosetti, che dal silenzio egli poteva presumere pendesse più alla sua parte che alla nostra. Ma il Rosetti non rispose subito: lo guardò un momento, con un fare tra scherzoso e canzonatorio, e strappandosi la rada barbetta dal mento; poi: — Io penso — disse — che l’uomo è un curioso animale.... Tutti i giorni una nuova, ha bisogno di almanaccarne! E tacque. Tacemmo noi pure, un istante, guardandolo. Nessuno aveva capita questa vaga allusione. E il Cavalcanti lo sospinse a spiegarla, con un conciso: E cioè? — L’uomo pretendeva una volta — ripigliò il Rosetti — che Dio non avesse di meglio da fare, che l’infermiere del genere umano. Adesso si è messo in capo che i suoi malanni li debba curare la scienza. Perchè poi e come, proprio non lo capisco.... Di nuovo tacemmo tutti, alquanto sorpresi. Parlò l’ammiraglio, ma solo dopochè si fu accorto che nessun altro parlava. — Ma il perchè non mi pare che sia poi tanto difficile a trovarlo. La scienza studia il corpo umano, scopre le leggi che ne governano la vita, e quindi i mezzi per combattere la malattia e allontanare la morte.... Il Rosetti lo guardò e pizzicandosi la barbetta: — Lei crede dunque — disse — che la natura obbedisca a quelle che noi chiamiamo le sue leggi e che le leggi della natura esistano? Ma è vero: me ne dimenticavo. Ne abbiamo già parlato. Lei è un comtista. Lei crede che la scienza sia vera.... — Confesso che ho sempre avuto questo volgare pregiudizio. Poichè tale sembra che sia.... — Precisamente — replicò il Rosetti. — E glielo dimostro. Che fa uno scienziato quando cerca la così detta legge o spiegazione di un fenomeno naturale? Semplifica ed ordina quanto più può. «Caeteris paribus», sceglierà la spiegazione e la legge più semplici. Ma perchè la spiegazione e la legge più semplici dovrebbero essere le vere? La realtà, si guardi attorno, le par forse che sia semplice, e che abbia sempre voglia di semplificarsi per farci piacere? La legge vuole che i fenomeni della natura siano costanti e uniformi: e la natura invece non è mai nè costante nè uniforme. Si potrebbe anzi dire, ed è stato detto, che a quelle che noi chiamiamo le sue leggi la natura non obbedisce mai, che anzi le viola sempre. C’è forse un solo fenomeno a cui una legge calzi a pennello? Gli scienziati stessi riconoscono di no. Dunque.... — Ma questo è il mondo alla rovescia! — gridò un po’ impazientito l’ammiraglio: mentre io pensavo tra me che il Rosetti passava davvero di rovesciamento in rovesciamento. — Ma no — rispose il Rosetti tranquillamente. — Sono le ultime verità scoperte dalla filosofia moderna. Non ha letto lei un articolo pubblicato tanti anni fa, dal Le Roy nella «Revue de metaphysique et de morale»? Lo legga, e vedrà che la natura non è, come lei diceva, un grande ordine; questo è il suo errore: la natura è un caos eternamente mobile di imagini che vanno, vengono, ritornano, si sovrappongono, trapassano per gradi e sfumature dall’una all’altra, si mescolano, scompaiono, riappaiono, senza interrompere mai la loro infinita continuità che riempie l’eternità. Ed ecco sopraggiunge la scienza armata di un gran paio di forbici, e le caccia in questa continuità mobile e densa, e la ritaglia in pezzetti, la fissa, la assottiglia: discrimina, isola, semplifica, sopratutto ordina i fenomeni che nella natura tumultuano scapigliatamente in un meraviglioso disordine. È chiaro dunque che la scienza non solo non ci svela la realtà, ma ce la nasconde, dipingendola semplice ed ordinata: perchè quell’ordine meraviglioso che lei ammira nell’universo, non è nell’universo ma nel nostro spirito, come la semplicità: ce ne dipinge dunque una imagine falsa.... Quindi la scienza è falsa non solo, ma non esiste e non opera, se non quando e nella misura in cui la natura gentilmente si presta a lasciarsi semplificare, falsificare e imbrigliare dalle nostre leggi e spiegazioni e teorie. Lo so: gli uomini hanno fatto della scienza il factotum dei tempi nostri, come una volta Domeneddio; e le affidano tutti i còmpiti: come sarebbe curare le malattie, educare i giovani, vincere le guerre, arricchire i popoli, scrivere la storia, provare che Romolo non ha esistito, governare gli Stati, volare e nuotare sott’acqua, fotografare quello che non si vede, spiegare, domare e falsificare la natura, coltivare i campi, e perfino far le rivoluzioni.... Non c’è forse anche un socialismo scientifico? Ma son tutte fisime e storie dei nostri tempi. La natura non si presta mica sempre e con eguale condiscendenza a tutti i nostri capricci. Il Bergson ha ragione: la scienza ha per suo vero e proprio dominio la natura inanimata; non la natura vivente, che non si lascia nè semplificare nè mettere la museruola delle nostre leggi senza rivoltarsi.... L’ammiraglio disorientato esitò un momento; poi: — Ma allora — disse — perchè, se la semplicità e l’ordine non esistono nella natura, noi vogliamo a tutti i costi introdurceli? — Perchè ci fa comodo — rispose il Rosetti. — Semplificandola noi risparmiamo fatica al nostro cervello che è piuttosto pigro: uniformandone la varietà e fissandone la mobilità, noi ci mettiamo quasi direi degli occhiali che ci impediscono di vederne il gran disordine. Quel disordine che ci scoraggirebbe, se lo vedessimo quale è, dal proposito di dominarlo.... — Ma allora — replicò l’ammiraglio con una certa concitazione — la verità non sarebbe più che un’illusione. Noi chiameremmo vero quel che ci fa comodo; e mutando il nostro interesse anche la verità muterebbe.... — Sicuro. — Ma non è possibile — esclamò con veemenza l’ammiraglio. — È assurdo. È.... — Si bisticciano? — mi chiesi. Ma il Rosetti a questo punto, mutando tono d’improvviso, rise e con fare scherzoso: — Su via, — disse — ammiraglio; non si inquieti! Queste cose che le vo dicendo hanno soltanto la faccia del paradosso. Ci pensi un momento: ma le par ragionevole che la natura abbia inventate le sue eterne e immutabili leggi e poi le abbia nascoste ben bene, perchè l’uomo e la scienza giuochino a rimpiattello con lei? Ricordi che l’altro giorno — cioè non può ricordarlo perchè lei non era presente, glielo abbiamo raccontato poi — il signor Alverighi, il signor Ferrero e il sottoscritto conchiusero dopo una lunga discussione che l’interesse è il motore segreto di tutte le nostre ammirazioni artistiche. Noi giudichiamo bello quel che ci è utile di giudicare tale. Orbene: l’interesse è anche la ragione del vero. Le leggi scientifiche, non son io che le dico queste cose, ma una autorità più alta, il pragmatismo, che è la vera filosofia americana, le leggi scientifiche sono nel nostro pensiero, e non nella natura; non esistono mica fuori o prima di noi, ma noi stessi le inventiamo per sfruttare la natura: e non per capirla e spiegarla, che non ce ne importa nulla: sono insomma strumenti per operare; macchine ideali, quasi direi, e servono infatti a fabbricare quelle macchine di legno e di ferro che sono in tanto odio alla signora Ferrero. Non mi venga dunque a dire che una legge scientifica è vera, perchè in sè è piuttosto falsa: è vera quando è utile perchè ci serve: è dunque l’interesse che ci fa vera la scienza, proprio come l’interesse ci fa bella l’opera d’arte. La scienza è istrumentale, dice il Bergson e dice bene: quindi una scienza è tanto più vera quanto più fedelmente ci serve. E quindi la medicina non si può dire scienza che per cortesia o per tolleranza: ma in verità è una mezza scienza. Ci sono nella natura delle sostanze che posseggono la strana e misteriosa virtù di alterare in qualche modo lo stato dell’uno o dell’altro dei nostri organi. L’alcool inebria. La cicuta e la stricnina uccidono. Il cloroformio e la morfina addormentano. La china spegne la febbre. La digitale eccita il cuore. Il mercurio.... Sapete tutti quel che può il mercurio. Benissimo. Delle sostanze con cui noi possiamo aiutarci nei nostri malanni, dunque ce n’è. Ma quanti sono i casi e le volte che il medico possa dire al malato, senza esitare, e senza forse: ingoia questa droga e sanai sano? Ma l’ammiraglio non voleva cedere le armi. — Ma no, ma no: — replicò ostinato — non c’è nessuna proporzione tra i servigi che una scienza può renderci e la somma di verità sicure che contiene. La medicina ci rende grandi servigi; eppure è una scienza incerta e malsicura, perchè deve studiare dei fenomeni troppo oscuri e complessi. La astronomia è una scienza inutile o quasi, praticamente: eppure quanto è più sicura nelle sue affermazioni della medicina! Non negherà che sia una scienza, e una scienza vera, anche se essa non ci serve a far quattrini.... — Lei crede dunque che la terra giri proprio intorno al sole? — chiese all’improvviso il Rosetti. Trasecolammo tutti, per davvero, a questa uscita. — Ma come! — gridò addirittura questa volta l’ammiraglio. — Il sistema copernicano non è dunque più vero, adesso? E da quando in qua, se le piace? — Il sistema copernicano non è stato mai vero, — rispose il Rosetti con un fare così candido che anch’io, se non l’avessi conosciuto da un pezzo, avrei creduto parlasse sul serio. — Quando noi diciamo «la terra gira».... Ma anche questa volta non voglio essere io a parlare; voglio che parli in vece mia un grande matematico, il Poincaré.... Dunque, quando noi diciamo: la terra gira, intendiamo di dire solamente che per noi è più comodo di supporre che la terra gira e il sole sta: perchè se gira davvero, l’una o l’altro, non lo possiamo sapere: e non lo possiamo sapere perchè non possiamo conoscere lo spazio assoluto. Ci pensi un momento e se ne persuade subito.... Quando dall’alto di un campanile io guardo un uomo che attraversa una piazza, io posso dire che l’uomo si muove, perchè so di sicuro che il campanile e su quello il soggetto vedente stanno fermi. Ma l’universo, quando lo contemplo dalla specola del mio pensiero, è una piazza troppo ampia; e dove lo trovo in quella il campanile assolutamente immobile su cui salire? un punto a cui riferire il moto della terra, del quale io non possa supporre che esso invece si muova intorno alla terra? E allora? Allora ecco dopo il Poincaré, la Sorbona annunciare, per bocca del Tannery, a questi fanciulloni di contemporanei, che il sistema copernicano e il tolemaico non sono nè veri nè falsi, nessuno dei due, perchè noi possiamo riferire il movimento degli astri così alla terra come al sole, far girare il sole intorno alla terra o viceversa, senza che le loro posizioni rispettive mutino e quel che noi possiamo conoscere sono le posizioni rispettive. I due sistemi si possono dunque capovolgere a piacere l’uno nell’altro.... Capovolgere, rovesciare: sa, avvocato, quando lei incominciò a capovolgere il giudizio universale su «Amleto», perchè io capii subito? Perchè avevo già meditato sulla facilità di capovolgere l’universo di Aristotele in quello di Copernico. Come il sistema del mondo! pensai. E tacque. L’ammiraglio era tanto disorientato che per un momento non pronunziò parola. — Sono intontito — disse poi. — Ma allora, se i due sistemi sono rovesciabili, perchè per tanti secoli gli uomini hanno tutti creduto che uno fosse vero e falso l’altro? Perchè ci volle tanta fatica per operare il rovesciamento? Perchè non ci sono oggi degli astronomi tolemaici e degli astronomi copernicani, come ci sono, non saprei, dei materialisti e degli spiritualisti, dei classici e dei romantici? Il Rosetti si alzò. — Venga meco — disse — sul ponte. Glielo spiegherò. Così potrò anche fumare un sigaro; chè qui è proibito.... Ci alzammo tutti, per seguirlo: ma mentre stavamo per uscire comparvero il Cavalcanti e il dottore. — Ho fatto il veterinario a dovere — disse il dottore. — Ha una polmonite, ma non grave. Il cuore è buono. Se la caverà. — E la scienza cristiana scriverà nel suo libro d’oro un nuovo trionfo — rispose sorridendo il Rosetti. VI. L’umida soavità dell’autunno rinfrescava la notte. Incominciammo a passeggiare per il ponte, con il Rosetti nel mezzo: tutti zitti in principio, chè il Rosetti, acceso il sigaro, pareva abbandonarsi, in silenzio e pensando, alla prima voluttà del fumare. Da molti anni non l’avevo visto mai in tanto brio, sebbene non mi riuscisse di capire dove mirava la nascosta ironia di quel lungo discorso. — Lei sa di certo, ammiraglio, — riprese dopo un poco — che parecchi filosofi e astronomi antichi avevano già affermato e cercato di dimostrare che la terra gira intorno al sole. Anche Copernico ebbe precursori e non pochi.... I Pitagorici, Aristarco di Samo, Seleuco di Seleucia.... Come mai allora gli antichi furono quasi tutti ciechi a questa verità luminosa, e tra i ciechi ci furono nientemeno che Aristotele ed Ipparco: proprio Ipparco, il più grande astronomo dell’antichità?... Per interesse. Proprio così. Per ammettere che la terra si muova nello spazio, occorre ammettere pure che le stelle fisse, tutte quelle innumerevoli fiammelle lassù, siano poste a una distanza così grande da potersi praticamente dire infinita: perchè se no, come spiegare che non abbiano parallasse annua, o per parlare più alla buona, che non si veda nessuno spostamento nella loro posizione apparente? In altre parole: per smuovere la terra, bisogna lanciarla alla perdizione, granello impercettibile in mezzo a una ridda frenetica di milioni di mondi consimili; ingrandirle intorno lo spazio sino ai confini dell’infinito. Ma i filosofi e gli astronomi antichi non se ne sentirono l’animo, perchè nell’infinito si sarebbe volatilizzata anche la religione, e quindi l’arte, la morale, lo Stato antico, che posavan tutti sulla religione. Gli Dei dell’Olimpo potevano, sì, sorvegliare dall’alto la terra; ma ad una condizione: purchè la stesse ferma sotto ai loro occhi, nel centro di un universo chiuso e delimitato; e non scappasse nell’infinito, a smarrirsi tra gli sciami degli astri senza numero. Il politeismo antico insomma richiedeva un sistema geocentrico dell’universo. E perciò gli antichi preferirono il sistema tolemaico: per un interesse; perchè gli Dei ci potessero fare più facilmente i gendarmi dei nostri vizi: e lo preferirono, sebbene fosse tanto arruffato, e la povera umanità dovesse scervellarsi per capirlo alla meglio. Chi ha letto Aristotele, Tolomeo o anche Dante, ne sa qualche cosa. Ma a poco a poco, il mondo si accorse di poter congedare la sua celeste gendarmeria: il monoteismo cristiano del resto — è un profondo pensiero proprio di Augusto Comte, ammiraglio — aveva incominciato già a volatilizzare la divinità: si cominciò dunque a desiderare una spiegazione dell’universo più facile, più comoda, meno faticosa: e apparve Copernico a riformare l’architettura dell’universo. Che fece il buon Copernico? Allontanò le stelle; ingrandì un bel po’ l’universo, e in questo universo ingrandito inchiodò il sole e fece girare in tondo la terra: raffigurò insomma, i movimenti degli astri e i loro rapporti, in una maniera molto grossolana sì, anche completata dalle leggi di Keplero: grossolanissima anzi, ma semplice, semplice, semplice. Molto più semplice che non quella tolemaica: più semplice però, non più vera, badi bene: e per questo trionfò: perchè l’uomo è l’eterno scansafatiche della creazione.... — Ma la semplicità è nel fenomeno, e non nella nostra testa, tanto meno in quella del grande Copernico — ribattè ostinato l’ammiraglio. — Noi lo comprendiamo, il fenomeno, perchè è semplice. — No — rispose il Rosetti. — Lo comprendiamo facilmente, perchè l’abbiamo semplificato noi: tanto è vero che possiamo darne, volendo, una spiegazione più complicata, quella di Tolomeo. — Ma la teoria di Tolomeo è falsa — disse l’ammiraglio. — Se si suppone il mondo infinito.... forse — ribattè l’altro. — Ma è la sola possibile e quindi vera, perchè la sola che spiega l’apparente immobilità delle stelle, se si vuole, come gli antichi, limitare e chiudere l’universo! — Ma il mondo è infinito, per Bacco! — affermò ancora più reciso, quasi aspro, l’ammiraglio. — E chi glielo ha detto, a lei? L’infinito non che provare che c’è, noi non riusciamo nemmeno a imaginarlo.... Si fermò, si accostò alla ringhiera, volgendo la faccia verso la notte e levò il braccio verso il cielo scintillante di miriadi di astri. — Che cosa c’è lassù, in quegli spazi? Quale distanza ci separa da quelle misteriose fiammelle? Chi le ha accese a quella distanza e come ardono sul fondo della eterna notte? Soli i nostri occhi frugano la notte inseguendo per ogni verso nella loro lontananza incalcolabile gli astri; o ci sono occhi appostati in ogni parte dell’universo, che incrociano gli sguardi attraverso gli spazi senza vedersi? Quanti miliardi di generazioni sarebbero necessarie, supposto che si potesse camminare a quella volta per un mare tranquillo e in una nave simile a questa, per giungere ad uno di quegli astri? E quando fossimo giunti a porre il piede sopra un pianeta che girasse intorno ad uno di quei soli, in quali mondi, così lontani da quelli come quelli da noi, che ora non vediamo, potremmo affisare gli sguardi? Ognuno di questi infiniti punti è dunque il centro di una sfera infinita? Tacque un momento: ripigliò a camminare, seguito da noi, e proseguì: — La mente si perde in questi pensieri sbigottita.... Invano tentiamo di misurare con il nostro corto pensiero questi immensi spazi dell’universo che ci circondano.... Se è impossibile concepire un universo chiuso e limitato, come quello d’Aristotele, perchè vien fatto di domandare: e al di là che cosa c’è?, impossibile è pure di concepire un universo infinito, un al di là che non si esaurisce mai. Noi siamo come attaccati a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, e supponiamo che l’infinito esista, senza che possiamo nè immaginarlo, nè capirlo, nè dimostrarlo, solo perchè ci serve a spiegare più semplicemente i movimenti dei pianeti e l’immobilità delle stelle. — Ho capito — interruppe con un fare infastidito l’ammiraglio. — Dopo l’arte tocca alla scienza: la scienza è falsa e quindi il progresso una mistificazione. Perchè di qui non si scappa. Augusto Comte ha ragione: l’idea del progresso è nata, tra la fine del seicento e il principio del settecento, dai primi trionfi della scienza. Quindi o il progresso è incremento del sapere, o è illusione. — Difatti — rispose il Rosetti — è illusione: una illusione rovesciabile, come già avevo accennato l’altra sera. Se la scienza è istrumentale, come dice il Bergson, e ci serve a sfruttare la natura, e ci aiuta a fabbricare delle macchine, è chiaro allora: gli uomini e i popoli che non hanno bisogno di macchine, perchè non desiderano di far quattrini alla svelta, si disinteressano dalla scienza o non si interessano; e per costoro, per i Mussulmani ad esempio, anzichè la gloria e la forza del mondo, sarà un vano delirio del nostro piccolo orgoglio.... Per il labirinto di questa nuova disputa, eravamo ritornati, discorrendo, alla questione del progresso, incominciata quattro giorni prima e poi interrotta dalla tempesta. Difatti l’Alverighi, a sentir riparlare del progresso, balzò di nuovo in mezzo alla disputa: — Noi però non siamo Mussulmani, grazie al cielo! — esclamando. — È vero — rispose il Rosetti. — Ma e se lo diventassimo? Non mi faccia quegli occhiacci!... Intendo dire: se considerassimo un giorno la semplicità e la rassegnazione come i sommi beni della vita? — Ma questo non accadrà mai! — esclamò reciso l’Alverighi. — E perchè? — rispose il Rosetti. — Non abbiamo noi visto l’altro giorno che l’uomo può aver bisogno di tutto e che nulla gli è necessario? Che non c’è nessun criterio per decidere tra i bisogni umani quali sono legittimi e quali viziosi, quali obbligatori e quali facoltativi? Che perciò ha ragione tanto il mussulmano che odia le macchine, quanto l’americano che le adora? La furia di arricchire, di correre e di vivere a precipizio; la vita intensa, per parlare come Roosevelt, è più bella della vita semplice per lei, Alverighi, e per tutti gli uomini indemoniati come lei.... Ma per un filosofo epicureo? Per un pastore di Virgilio? Per un monaco del Medio Evo?... — Ma i filosofi epicurei e i monaci del Medio Evo sono morti; e i pastori di Virgilio non sono mai esistiti.... — interruppe l’Alverighi. — Le pare che l’uomo possa smarrire un giorno lungo il cammino dei secoli il tesoro della scienza o dimenticare l’arte di costruire le sue macchine meravigliose? Che della tragedia dell’impero romano si faccia il bis, e non più nel piccolo Mediterraneo, ma sopra le due sponde dell’Atlantico addirittura? Il mondo dovrebbe rimbarbarire, allora.... — Come se il mondo potesse mai rimbarbarire! — replicò sorridendo il Rosetti. — Credi tu, Ferrero, per esempio, che anche nei tempi che sembrano a noi più calamitosi dell’impero romano, tutti si accorgessero che l’impero decadeva? No: non è vero? E per quale ragione? Perchè quella che a noi pare una grande catastrofe, se nuoceva agli uni, ad altri giovava: perchè all’antico ordine di cose seguiva un ordine nuovo, che a molti dava o prometteva o il pane o uno stato onorifico o il potere o la pace o il perdono dei peccati o il paradiso. Chiamiamoli pure secoli di ferro, se vogliamo: ma per conto nostro, non per conto dei contemporanei. Per esempio: io non so sino a qual punto gli artisti del basso impero, a cui l’altro giorno accennò il signor Cavalcanti, sentivano di essere da meno dei loro confratelli del I e II secolo. A ogni modo stia sicuro, avvocato: essi non si disperavano che non ci fossero più rivali così valenti a gareggiare con loro; e non erano a corto di buoni argomenti per dimostrare che ciò era bene. Del resto, quando discutete del progresso, ricordatevi sempre del dito mignolo di Leo! Leo ci ha mostrato come si fa per provare che il mondo va sempre bene, anche quando va a precipizio. Con un semplice rovesciamento si dimostra che i sandali sono perfetti e che il piede invece è sbagliato: che tutto quel che vediamo perire — anche se vediamo perire i principii più alti e più antichi di una civiltà — ha meritato il suo destino ed è bene perisca. Per esempio: la coltura letteraria è decaduta parecchio nell’ultimo secolo: ma chiedetene notizia a un giornalista che, in questa decadenza può spacciare a peso d’oro gli strafalcioni del suo foglio. Ma che decadenza d’Egitto: vi dimostrerà che è progresso — schietto, genuino, di zecca! Ma per l’appunto, o che cosa succede adesso con le macchine? La macchina non ha spente tutte le industrie della mano, a cominciare dal cotone e dall’India, come la signora Ferrero ci ha raccontato? Calamità immane per tutti quelli che ne vivevano: meraviglioso progresso per i fondatori delle industrie nuove. L’altra sera lei ha detto che una civiltà raffinata è una impostura: ma per un orefice o per un sarto di Rue de la Paix, stia sicuro, non c’è vera civiltà fuori di questa impostura. Noi contempliamo con orgoglio questi possenti transatlantici. Ma l’altro giorno un vecchio marinaio con cui parlavo sul cassero, mi diceva, scrollando le spalle: «Bella fatica navigare nel mare grande con queste carcasse di ferro! Navigare nel mare chiuso, con le vele, come facevamo noi, a vent’anni: allora sì che si conosceva e si faceva l’uomo di mare!» Più lo strumento è perfetto e meno cervello occorre a colui che lo adopera: il progresso dunque istupidisce gli uomini: tutto decade nel mondo, grazie al progresso, e tutto progredisce decadendo. La signora Ferrero ce lo ha dimostrato in quel suo bel libro sui «Vantaggi della degenerazione». Lei del resto, avvocato, ha già ammesso implicitamente tutte queste cose, l’altro giorno, quando ha detto che non ci può essere un criterio qualitativo del progresso, ma solo un criterio quantitativo. Noi abbiamo visto però che anche a voler scegliere il criterio quantitativo, presto o tardi ricaschiamo in un giudizio di qualità: quali bisogni sono legittimi e quali no. E questo nessuno lo può decidere. E allora? E allora, siccome lei aveva ragione di dire che un criterio qualitativo del progresso non c’è, bisogna conchiudere che non c’è nessun criterio del progresso — nè qualitativo nè quantitativo: che affermando il progresso o la decadenza di una certa cosa noi intendiamo dire che certi mutamenti operati in quella sono buoni o sono cattivi: ma un criterio sicuro, universale, imperativo con cui distinguere nel mondo, tutti d’accordo, lo zolfo dell’inferno dalla rugiada del paradiso, non sussiste: ognuno dunque definisce bene quel che gli giova, male quel che gli nuoce: tutti i nostri giudizi sulla bontà delle cose umane sono rovesciabili; quindi il progresso e la decadenza a cui crediamo sottoposte le cose, non hanno essere proprio e reale; sono, come il bello e il brutto, opinioni nostre; e ciascuno volge la sua alla parte del proprio vantaggio.... — Ma quel che lei dice, ingegnere, — replicò l’Alverighi — dimostrerebbe piuttosto che solo il progresso esiste, che il regresso e la decadenza non sono che apparenti. Dove ho letto questo pensiero, in questi ultimi tempi? In un libro recente, di sicuro.... Quel che è vitale veramente non può perire, perisce solo quello che è apparente, accidentale, caduco.... Della civiltà antica perirono le parti caduche, non quelle veramente vitali: queste si trasmisero come pensiero, istituzioni e attitudini acquisite: anzi vanno ricomparendo nei secoli. — Lei avrebbe ragione — disse il Rosetti — se per distinguere le parti vitali dalle caduche, noi avessimo un altro criterio che il fatto: se perisce o resiste. Ma noi diciamo prima che solo quel che è vitale davvero si conserva: aspettiamo poi a giudicare che cosa era davvero vitale, di veder quel che si è conservato. Il giochetto è troppo semplice! — Proprio come diceva un certo manuale di tattica, — interruppi io, — che una volta facevano studiare in Italia ai soldati: in battaglia vince il più forte; ma chi è il più forte si conosce dopochè ha vinto! Il Rosetti sorrise; e riprese: — Insomma il Bene e il Male sono una strana coppia, come il Bello ed il Brutto. Sono nemici; eppure stanno sempre insieme: sono opposti, eppure scambiano di continuo le maschere e invertono tra loro le parti: cosicchè come si fa a distinguerli? La vita è la commedia degli equivoci, per questo. L’uomo insegue il Bene: lo abbranca alla fine o crede averlo abbrancato: ahimè, la maschera lo aveva ingannato: era il Male! Fugge disperatamente il Male, corre, corre, perde il respiro, spossato si abbandona.... E guarda combinazione: è cascato nelle braccia del Bene! Osservate tutti gli opposti: l’Autorità e la Libertà, la Guerra e la Pace, la Ricchezza e la Povertà, la Vittoria e la Sconfitta, il Sapere e l’Ignoranza, il Lusso e la Semplicità, la Forza e la Debolezza, la Vita intensa e la Vita riposata; e poi decidete d’accordo, se vi riesce, quale è il Bene e quale è il Male. Chi giudica bene, o progresso, o civiltà — nomi tutti che sono sinonimi — l’uno di questi opposti e chi l’altro, argomentando come lo sospinge quale forza? Frugate bene: l’interesse! Ancora l’interesse, l’interesse sempre e dovunque, proprio come nell’arte e nella scienza: l’interesse, nome vasto che abbraccia cose diverse: l’inclinazione dell’indole, i bisogni innati e quelli acquisiti, la religione, i beni privati, la patria, lo Stato, l’ordine sociale a cui l’uomo appartiene, i puntigli dell’amor proprio, le stesse illusioni dell’ambizione, del desiderio e della speranza. Ma nessuno ha potuto ancora trovare un argomento definitivo che tronchi questa eterna disputa degli interessi, disputata dalle origini del mondo e nessuno ci riuscirà mai: e perciò l’uomo rassomiglia al cavallo che fa muovere la ruota del molino camminandoci dentro: a seconda che questo interesse o quello prevale, che questa o quella illusione o ambizione o aspirazione ha più forza, egli giudica Bene Progresso Civiltà, Male Decadenza, Barbarie, ora la Libertà ora l’Autorità, ora la Ricchezza ora la Povertà, ora il Sapere ora l’Ignoranza, ora il Lusso ora la Semplicità, ora la Vita intensa ora la Vita riposata. Lei non crede, avvocato, che noi potremmo farci Mussulmani: ma perchè? ai tempi in cui vince l’ardimento, l’audacia, l’operosità, perchè piccole ed energiche oligarchie dominano, seguono sempre i tempi in cui la moltitudine mediocre, detta legge e impone le sue virtù o i suoi difetti — li chiami come vuole: la semplicità, la rassegnazione, la moderazione dei desideri, la mediocrità degli averi. Come presso i Mussulmani. La vita oscilla, come un pendolo, da un opposto all’altro perchè i giudizi sulle qualità delle cose sono rovesciabili; e il Bene diventa Male, il Male Bene, se appena gli interessi fanno un piccolo sforzo per capovolgerli. Per qual ragione questo ritmo dovrebbe da questo momento essere sospeso «sine die» a profitto di chi? Se lo rammenti, Cavalcanti: l’uomo è simile al cavallo chiuso nella ruota girante: cammina, suda, sbuffa, si travaglia, crede di salire e di scendere, e invece è sempre nel luogo dove mosse il primo passo: e la lunga via percorsa, e le difficili ascese, e le discese precipitose, furon tutte solamente sogno e illusione.... — Ma allora — interruppe brusco l’ammiraglio — la vita non sarebbe che una immensa allucinazione dei nostri interessi, cioè delle nostre passioni.... — Degli interessi — rispose il Rosetti — che sono momentanei e si credono eterni; che sono diversi ed opposti e ciascuno si crede unico. Questa è del resto la conclusione comune di quasi tutte le filosofie più recenti. Di qui nasce che la vita è un divenire continuo, che si crede un eterno stare. Tutto è interesse e perciò illusione: dalla idea dello Spazio e del Tempo.... Ma la stupefazione dell’ammiraglio fu tanta, che gridò addirittura: — Anche lo Spazio ed il Tempo! Inventati dagli interessi! Questa poi! Il Rosetti pensò un momento, poi trasse l’orologio di tasca; e: — Mancano pochi minuti a mezzanotte — disse. — Se continuassimo domani? — È matto, — sentenziò asciutto e conciso, appena il Rosetti fu partito, l’Alverighi. L’ammiraglio e il Cavalcanti non dissero nulla; e io pure, lì per lì, tacqui. Il Rosetti era un libero pensatore, piuttosto incline al positivismo, come tanti scienziati della vecchia generazione: quindi doveva ragionare per ironia, come spesso soleva. Ma aveva ragionato così serio, serrato e quasi veemente! Eran sei mesi che non lo vedevo: si sarebbe anche egli convertito, come tanti altri, in quel tempo, alla filosofia oggi in voga? Passeggiammo un poco in silenzio. Alla fine io dissi che scherzava. — Ma dica da senno o per burla — troncò l’Alverighi — io non ammetterò mai che gli uomini consentiranno ad essere più poveri quando potrebbero essere più ricchi. Ve lo imaginate voi un san Francesco redivivo, e che non finisse a domicilio coatto?... O in manicomio? — Io penso invece — obiettò il Cavalcanti — che non farebbe male alla Ragione umiliarsi ogni tanto un po’ e fare penitenza, insieme con tutte le Cupidigie e le Vanità del mondo moderno. C’è del buono, in queste idee.... Quel che mi turba però è la teoria dell’interesse.... Interessata la bellezza! Interessata la verità! Sempre ci ripenso, a questa idea; non riesco a capacitarmene interamente, e non so confutarla. È un enigma che non riesco a decifrare! — E curioso è poi, — aggiunsi io — che queste teorie sian formulate dal più disinteressato degli uomini! VII. Dei tonfi sordi e lo scrosciare di una cascata mi svegliarono per tempo, il lunedì mattina. — Piove a dirotto? — mi chiesi nella penombra del primo destarmi. Poi capii che i marinai stavano lavando la nave. Era l’alba, dunque. Aprii il finestrino. Laggiù, ad Oriente, già si vedevano entro poche nuvole oscure rigate di fiamma le porte dell’aurora rosseggiare socchiuse ad un primo spiraglio, sull’Oceano ancora grigio di sonno. Richiusi il finestrino; cercai di riassopirmi, ma invano: sinchè mi risolvei a levarmi, quella mattina, con l’eterno risvegliatore del mondo. Quando uscii sul ponte, deserto e madido dei torrenti che i marinai versavano a piene secchie, le porte dell’Aurora erano ormai spalancate; il Sole era già uscito, ravvolto di fiamma purpurea, nel sereno firmamento; percosso da quella fiamma, l’Oceano rosseggiava nel mezzo, simile a un vasto lago di zaffiro attraversato da un fiume di fuoco. Una purezza incontaminata di luce novella, soave ed ardente, empiva l’aria, gli occhi, l’anima; e in quella il «Cordova» pareva gittare allegramente il suo fumo negro e andar più veloce, come in un mondo rinato; gioioso di essere finalmente uscito da tanta tenebra notturna in quella celeste beatitudine mattutina. Una sùbita voglia di poesia mi prese: ritornai nella cabina a cercare «Un libro di versi» di Olindo Malagodi che anch’io, come l’Alverighi, avevo portato tra i miei libri di viaggio; e sul ponte superiore deserto, in faccia al mare e sotto il cielo di zaffiro, in riva al gran fiume di fuoco che rosseggiava nell’Oceano, tra i marinai che svelti e scalzi finivano di lavare la nave, di nuovo mi smarrii in compagnia del poeta in quella strana natura, fantasticata a sentire umanamente con tanta originalità da una delle più vive immaginazioni e delle più squisite sensibilità di panteista che io conosca tra i poeti contemporanei: dipinta nel tempo stesso con così vivi colori e con così netto disegno a parer vera e viva. Fremetti agli arcani sussurri di ignote foreste: .... E de la vita nuovo pellegrino, io per la selva ancor sognando entrai antica, e sotto le sue frondi errai fresche di primavera e di mattino. Dietro ad un canto errai misterioso che dal profondo ad ora ad or chiamava.... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . O come dietro a te co’ sogni miei, dedaleo canto, mi traesti avvinto! Un dolce canto selvaggio coll’immortale messaggio entro la selva si desta; e nota a nota risponde, eco con eco si fonde nel cuore de la foresta, nel verde cuore del maggio.... Riudii la voce eterna della vita nel lene ed incessante mormorio delle fonti sparse per il creato: Tutto è silenzio: sol la fonte s’ode che non s’arresta.... Nel cuore, o vita, la tua fonte s’ode che mai s’arresta. Tutto tace e riposa: sol la fonte segreta a la notte obliosa mormora, e cheta con l’eterne fluenti sue sorti, inavvertita, nei muti cuor dormenti passa la vita. Da quegli splendori mattutini la poesia ebbe forza a trarmi, sotto il gelido sguardo della luna, tra i pallidi fantasmi delle notti invernali: Morta del cielo antica, quale malia nemica qui sulla terra piovi? La vita t’ha sentita tremando, e impaurita ne gli ultimi suoi covi s’è rattrappita, e informe un cupo sogno dorme.... . . . . . . . . . . . . S’è nascosta nei semi sepolti, e con gli estremi sogni ne’ chiusi cuori, al soffio che l’attizza gelido, coi bagliori ultimi guizza.... Non nel mio cuore! Ed io dietro di te m’avvio per le perdute strade: anima, cuor, pensiero a sfida del mistero che lugubre c’invade: fra la spettral tua bruma dove la vita sfuma, ultima, incerta, lieve, ne l’ombra che la beve con alito di gelo; io, spirto della vita, fra la morte infinita, tra il pallido sfacelo; pur con mia breve sorte vengo a negar la morte, vengo portando in cuore sotto il tuo scialbo scherno, il rosso ardente fiore, il fiore eterno!... Mi tuffai e mi rituffai nel circolo della vita universale: Roccia che ne’ millenni sfidando stai! Tu le immote perenni forze mi dai! Tu che scendi, o sorgente, l’antica via! L’assidua tua fluente anima è mia! Albero che sprofondi le tue radici, e spandi alte le frondi nel sol felici; per me ne le latèbre cupe lavori, mutando le tenèbre in foglie e fiori! O acque! o nubi! o venti! o lembi azzurri; o aneliti fuggenti, ombre, sussurri; voi pur per me traete dal suol natio le forme che mescete a l’esser mio. Rilessi «La canzone del fiume» e lo «Gioie Titanie»: O terra, o dolce terra, e ancor non senti sovra il tuo lungo sonno alto passare un giubilo di nuove ali, squillare un riso di tornanti ali sui venti? Giungon dal mar, dal mar che si ridesta ne le caverne sue rimormoranti.... Singolare ed originale poesia, nella quale il fantastico e il reale si mescolano e si sovrappongono di continuo; e le meditazioni sulla Vita si esprimono in coloriti paesaggi; e una melodia di metri insoliti, dolce e come velata, accompagna il fantasticare profondo, tra lirico e filosofico, di uno spirito isolatosi in compagnia di sè stesso nella vasta natura! Ritornavo a godermela, nelle sue più sottili sfumature, ogni volta che sentivo il desiderio di raccogliermi e fantasticare un poco fuori della realtà: ma quella mattina il godimento era più intenso e più puro.... In quel momento sentii quanto aveva ragione il Rosetti di dire che di solito l’anima nostra, quando ammira o crede di ammirare una opera d’arte, è carica e ingombra di partiti presi, di preconcetti di scuola, di preoccupazioni interessate, di puntigli d’amor proprio, che ne chiudono gli aditi al libero irrompere della pura bellezza. Ma sentii pure che nel verbo un po’ confuso e grossolano di Rosario si nascondeva una profonda verità: l’uomo poteva svuotare l’anima dì questi tormentosi ingombri; disinteressarsi dall’arte — come egli aveva detto; sentire non ragionare, come aveva detto anche il Cavalcanti: lasciarsi trascinare a occhi chiusi dal godimento vivo e spontaneo, non fermarsi a giustificarlo con un giudizio preciso ed esser poi tentato di rovesciarlo, questo giudizio: goder liberamente e lasciar godere gli altri come loro piace. Non era questo lo stato d’animo in cui mi trovavo? E mi sentivo così bene — forse anche perchè mi ero levato di buon’ora, invece di poltrire a lungo nell’angusta cabina — che mi pareva proprio di esser nello stato di grazia. E inebriato da quella luce e da quella poesia fantasticai: gli interessi non intorbidavano solo la bellezza, ma la verità, la giustizia, il bene: era questa la conclusione che già si vedeva comparire sul lontano orizzonte, nei discorsi del Rosetti: l’uomo doveva dunque cercar di purificarsi dagli interessi mondani e sociali, non nell’arte soltanto, ma anche nella scienza e nella morale; sforzarsi di entrar dappertutto in contatto immediato con la Vita, risalire ad abbeverarsi alle sue prime e più pure sorgenti. Questa doveva essere, la conclusione a cui il Rosetti mirava: non poteva essercene altra: ed era la conclusione a cui del resto tende da tante parti il pensiero contemporaneo. Ma come e per quale via? Quale tra le tante strade che sembrano condurre alle fonti schiette e pure della Vita sceglierebbe la nostra guida? Ma lassù, sul ponte superiore, fui scorto a mezzo di questa fantasticheria da Orsola, quella siciliana che si diceva vittima delle amorose furie dell’intendente paulistano. Essa mi spedì un marinaio a dirmi che desiderava parlarmi: e sceso che fui mi raccontò come suo marito, uomo di poco cervello, consumasse i pochi spiccioli che ancora gli restavano giuocando e bevendo tutto il giorno in compagnia di Antonio e di quella «donnaccia». Quella donnaccia era Maddalena. Protestai che Maddalena era una povera malata, ridotta a mal partito. — Ma lei non sa, signore.... E guardandosi intorno circospetta, mi raccontò sottovoce, come chi svela un segreto, che Maddalena aveva avuto un figlio, da un amante, mentre il marito era in America. — E come lo sapete? Chi ve lo ha detto? — chiesi un po’ sorpreso. — Tutti lo sanno, sul bastimento. E tutti si burlano di Antonio, per questo.... Mi pregò poi di intervenire presso Antonio, dicendogli di non tentar più suo marito a giocare con lui. Poi mi chiese se era vero, come si diceva, che quella signora che era con noi, e che era la più ricca dell’America, regalerebbe una grossa somma ai passeggeri più poveri. Smentii un po’ stizzosamente la stupida diceria; e risalii, chiedendomi per che canale la terza classe fosse stata informata della scappatella di Maddalena e dei miliardi della signora. Poco dopo trovai il dottor Montanari che mi diede una singolare notizia: da ventiquattro ore Maddalena si era fatta un agnello, seguiva docile docile tutte le sue prescrizioni, non era uscita dall’infermeria e di letto: Antonio non solo si era finalmente persuaso che sua moglie fosse gravemente malata, ma ora andava ripetendo dappertutto che Maddalena — poveretta! — era spacciata; che, sì e no, arriverebbe viva a Genova. — Dice che glielo ha detto la sua signora! Cose da pazzi! Chi capisce che cosa mulina, macchina, intruglia di continuo, in quella sua durissima zucca, il signor popolo sovrano, è bravo! Anche a me questo improvviso voltafaccia di Antonio parve strano. Comunicai la notizia alla mia signora, insieme con le confidenze di Orsola. E la mia signora scese subito all’infermeria, per veder Maddalena.... Ripresi a leggere il «Libro dei versi»; poi feci un giro per i due ponti; e sul ponte di sopra, a tribordo, trovai l’ammiraglio, il Cavalcanti, l’Alverighi, seduti a cerchio su dei seggioloni, e intenti a confabulare, intorno alla discussione della sera precedente, alla quale quella mattina, distratto dalla poesia, dalla bellezza dell’aurora, dalle chiacchiere di Orsola e del dottore non avevo più pensato. Aveva invece agitato profondamente i miei compagni; chè, dopo una notte di sonno, ne ragionavano quasi inquieti. — Ma che un giorno, di nuovo, gli uomini si acconcino a viaggiare a piedi, in diligenza, a dorso di cavallo, alla vela — diceva l’Alverighi. — A vivere semplicemente!... Via: son cose che non si possono nemmeno pensarle. — E perchè? — replicava meditabondo il Cavalcanti, il gomito del braccio destro appoggiato al bracciuolo del seggiolone e il pugno chiuso sotto la mascella. — Perchè l’uomo non avrebbe diritto di scegliere tra la ricchezza e la povertà, tra il lusso e l’austerità, tra il moto perenne e la quiete.... come ha diritto di scegliere tra il romanticismo e il classicismo, tra lo spiritualismo e il materialismo?... — Ma sa lei — replicava l’Alverighi — quel che succederebbe il giorno in cui gli uomini non volessero più correre, lavorare, godere, senza ripigliar fiato, come fanno oggi? Lo sa? Le officine si chiuderebbero. Le città si vuoterebbero. Le terre chi le coltiverebbe più e a che prezzo si potrebbero vendere ancora? Le navi arrugginirebbero nei porti. Le banche.... Il Cavalcanti strinse le spalle. — Se gli uomini — interruppe — si persuaderanno un giorno che sarebbero più felici.... — Dopo il fallimento universale? — replicò come fuori di sè l’Alverighi. Ma il Cavalcanti non ebbe tempo di rispondere, che di mezzo entrò l’ammiraglio: — Lasciamo da parte una ipotesi così catastrofica — disse — tuttavia che oggi gli uomini spendano e sprechino troppo, lo direi anche io. Che bisogno c’è, per esempio, di correre all’impazzata intorno al nostro pianeta, come facciamo? Chi corre per correre, non vedo in che sia più savio di chi sta fermo per non muoversi.... Ma è quel che il Rosetti dice della scienza, che non m’entra. Come? La legge sublime del progresso sarebbe una nostra fisima? Noi che tre o quattro mila anni fa vivevamo tremando, schiavi ignari, in balìa dei geni e degli Dei, di cui la nostra imaginazione aveva popolata la natura? Il cielo allora è un gran teatro dei burattini, per noi fanciulloni che siamo, dove i pianeti si possono far ballare a piacere? E che vuol dire quest’altra faccenda intorno al Tempo e allo Spazio? — Il Tempo e lo Spazio sono i lembi del velo di Maya — disse con una certa solennità il Cavalcanti. Ma la prima campana della colazione ci interruppe e disperse; e prima che la seconda suonasse, la Gina tornò dall’infermeria. Mi raccontò che Maddalena era a letto, ma contenta perchè il medico le aveva finalmente somministrato delle medicine; che queste le avevano fatto un gran bene; e che sperava di guarire prima di giungere a Genova! Aveva di certo obbedito, docilmente come sempre, agli ordini non del medico ma di Antonio, il quale poi chi sa per quale ragione aveva mutato parere.... Avevano chiacchierato insieme a lungo: anche Maddalena aveva chiesto se davvero la signora Feldmann intendeva di fare un regalo a tutti gli emigranti; e poi le aveva parlato di Orsola. Orsola, secondo Maddalena, era una donna pigra, buon’a nulla, maligna e intrigante, che si divertiva tutto il giorno a metter male con infiniti pettegolezzi tra i suoi compagni di viaggio: era scappata d’America per i debiti; a tutti a bordo era in uggia. Delle persecuzioni dell’intendente paulistano invece Maddalena non sapeva nulla; segno che con i suoi compagni di viaggio Orsola non ne parlava. Maddalena aveva invece aggiunto che civettava e assai con un giovane operaio abruzzese. Questo racconto fece, come era naturale, una viva impressione su me. Ma la seconda campana ci chiamò a colazione. Ritrovammo il Rosetti, che nella mattina era rimasto nella cabina, a scrivere le sue consuete note di viaggio; e l’ammiraglio subito gli chiese di spiegargli quale interesse muoverebbe gli uomini a inventare lo spazio e il tempo. — Lei ha studiata — gli disse il Rosetti — la geometria nella Scuola Navale: ma l’ha studiata per imparare a compiere certe operazioni dell’arte sua; e quindi non l’ha studiata disinteressatamente. Così fanno tutti, del resto! E così feci pure io, sinchè insegnai la matematica e la fisica nel Politecnico di Buenos-Aires ed esercitai laggiù la professione di ingegnere. Ma a quarantacinque anni tornai in Europa, e mi misi a studiare, non più per procacciarmi ricchezze, onori, fama e potere, ma così, per passare il tempo, e quindi disinteressatamente. E sa che cosa mi capitò allora? Che un bel giorno scoprii che oltre quella di Euclide c’erano parecchie altre geometrie, inventate in Germania, naturalmente; una geometria, per esempio, che si permetteva di tirare da un punto, non una, ma parecchie parallele ad una retta data; e un’altra, che tra due punti tirava non una sola, ma un infinito numero di rette! Qual’è la vera? mi chiesi allora, rabbrividendo all’idea di aver insegnata all’Argentina una falsa geometria. Anche questa volta però fu il Poincaré che mi trasse dall’impiccio e mi aprì gli occhi. Il Poincaré ha dimostrato che la geometria è un tempio della necessità logica, architettato stupendamente, ma destinato a restar vuoto in eterno. Per parlar più alla buona: gli assiomi della geometria non sono nè veri nè falsi; sono convenzioni arbitrarie; e ogni geometria può sceglierli a piacere, come vuole, senza altro obbligo che di cercar quel che segue, se quel tale assioma è ammesso per vero: in conclusione dunque non ci sono nè geometrie vere nè geometrie false: ma geometrie più o meno comode a certi scopi. La geometria di Euclide serve a misurare la terra e a costruire le macchine: quindi avevo fatto bene ad insegnarla a Buenos-Aires, in una scuola di ingegneri: quelle tali altre geometrie, servono invece a diventar professore di Università, membro delle più famose Accademie di Europa e magari senatore del Segno d’Italia: non avendo ambizioni di questa fatta, non ero obbligato a professarne nessuna. Quindi grazie alla pensione largitami dal governo argentino e ai pochi miei desideri, io potevo ormai vivere al disopra di tutte le geometrie; al disopra cioè dello spazio: il che è un privilegio degli Dei, mi pare.... — Ma allora — rispose l’ammiraglio, con un tono alquanto ironico — la geometria farebbe il paio con la filosofia della guerra. Lei sa che cosa è la filosofia della guerra? Quando una guerra è finita tutti si fanno avanti per spiegare ai vinti perchè furono vinti. I preti dicono che furono vinti, perchè in paese scarseggiava il santo timor di Dio; i maestri, perchè c’eran troppi analfabeti; i meccanici, perchè gli ordigni di guerra non erano abbastanza perfetti; gli scienziati, i poeti, gli artisti, perchè lo Stato tributava poco onore alle lettere, alle scienze e alle arti.... Ciascuno scopre una ragione; cioè tira l’acqua al suo mulino. — Su per giù — rispose il Rosetti. — Almeno sinchè non riusciamo a considerare disinteressatamente lo Spazio ed il Tempo. Perchè anche il Tempo — non si faccia illusioni — è stato inventato dall’interesse. L’uomo si è illuso di poterlo misurare, traducendolo in movimento; ma come? Supponendo che il pendolo compia sempre in un tempo eguale eguali oscillazioni, o un egual numero di oscillazioni. Ma questo noi lo supponiamo perchè ci fa comodo; perchè, se no, non potremmo darci degli appuntamenti: senza nessuna prova però. Per verificare questa supposizione bisognerebbe accertare che le oscillazioni del pendolo sono sempre eguali: ma dove è la misura, con cui accertarlo? La rotazione della terra, mi direte.... Se durante due intervalli di tempo la terra ha girato intorno al suo asse di un angolo eguale, che possiamo misurare con l’astronomia, noi diciamo che quei due intervalli sono eguali. Ma supponendo di nuovo che il movimento di rotazione della terra non si affretti e non si rallenti mai: supposizione gratuita anche questa, che non possiamo verificare se non misurando il movimento della terra coi nostri orologi in mano, che viceversa poi son quelli il cui movimento devo essere misurato alla stregua della rotazione terrestre! Insomma noi vogliamo controllare gli orologi sul movimento della terra e il movimento della terra sugli orologi: un circolo vizioso da bambini; quali noi siamo! No, non ci sono orologi che vanno bene ed orologi che vanno male, se non per gli orologiai che pretendono di saperli aggiustare e che campano su questo pregiudizio della moltitudine. Ma chi si innalza al disopra del Tempo volgare diventa un semidio, eternamente giovane; perchè sa che non invecchia più, che la vecchiaia come il tempo è una illusione.... Il Rosetti conchiuse così, sorridendo. E tutti ridemmo, anche l’ammiraglio, che: — Ahimè! — disse. — Alla mia età vorrei poter convincermi di questa bella verità. Ma non ci riesco. — Perchè — rispose il Rosetti — lei è interessato.... — E che interesse avrei, io, a credere la geometria vera piuttosto che falsa? Non ci guadagno nulla. Non sono mica un professore di matematica.... — Tra gli interessi — rispose il Rosetti — occorre annoverare anche la affezione nostra alle opinioni radicate in noi dalla prima educazione.... E lei è un comtista. L’ammiraglio non rispose; e il Cavalcanti ripetè sotto voce: — Il Tempo e lo Spazio sono i lembi del velo di Maya.... Era la seconda volta che il Cavalcanti ricordava la Maya. — Lei ha letto il libro di Vivekananda, questa mattina — dissi. Sorrise e confessò che la sera prima, pieno ancora la mente dei discorsi del Rosetti, si era ritirato nella cabina e aveva, prima di addormentarsi, sfogliato il libro della signora Eddy ma lo aveva trovato noiosissimo e gittatolo dopo poco; poi il libro del filosofo indiano, prestatogli dalla signora Yriondo. Ma su questo di pagina in pagina aveva vegliato sino all’alba, parendogli di sentir una voce soave e invisibile continuare nella notte, alta sovra il suo capo, i discorsi del signor Rosetti sino alla conclusione definitiva; guidarlo spedito per i laberinti della realtà alle porte dell’ultimo e mistico e fulgido Vero, a cui tanti spiriti capitano per caso, dopo mille erramenti. Quale era la conclusione di tutti i discorsi che avevamo fatti intorno alla bellezza, alla verità, al progresso, alla civiltà, alla barbarie, senza riuscir mai a metterci d’accordo per definire una sola di queste cose? Che ogni singolo io è la misura dell’Universo; quindi il mondo non è quale lo vediamo e non lo vediamo quale è: ciascun uomo lo vede come gli piace vederlo. E questo è il principio da cui muove il vedantismo, il quale però dal principio cava tutte le conseguenze: e quindi afferma che tutti hanno ragione e tutti hanno torto. Ogni cosa è grande ed è piccola, è buona e cattiva, è bella ed è brutta: ogni verità è falsa ed ogni menzogna vera; il vizio e la virtù, la colpa e l’innocenza, l’onore e l’infamia, la luce e le tenebre, la ricchezza e la povertà, la vita e la morte, la infinita varietà del mondo sulla quale i nostri occhi credono di posarsi, non sono che apparenza, illusione, miraggio. E l’uomo sbugiarda alla fine l’amaro inganno ed elude le sottili insidie della varietà, dopo mille fatiche e pericoli, quando capisce che, come le onde ricadono sempre nell’unità dell’Oceano, così l’infinita varietà del mondo si riconfonde nella eterna immobilità dell’Universo, eguale a sè stesso in ogni sua parte e membro; e perciò immortale, e perciò sereno, e perciò senza dolore, esente da morte, senza passione; lago di eterna felicità, mare di calma infinita, unità pura senza forma e mutamento, e perciò perfettissima. Tutte queste cose furon dette con bella forma e gran fervore. Ma l’Alverighi: — Morale! — sghignazzò beffardo, anzi impertinente. — Un soldo e un milione valgon lo stesso: la differenza è una illusione. — Valgon lo stesso, secondo Vivekananda, — rispose il Cavalcanti senza scomporsi — per il savio che possiede la saggezza suprema. — Io preferisco possedere una lega di buon campo nella Pampa — ribattè l’altro. Intervenni a questo punto; e dissi che il Vedanta era una dottrina grandiosa e sublime ma sterile, come l’Oceano o come il deserto. Essa avrebbe annientata l’energia delle nostre razze, che hanno conquistata, a prezzo di tanto sangue, la libertà, per poter variare all’infinito le forme del mondo, non già per sprofondarsi nella eterna immobilità del Tutto. Esposi poi i pensieri che avevo ruminati alla mattina: certo poichè gli interessi mondani e sociali intorbidano la Bellezza, la Verità ed il Bene, bisognava purificare dagli interessi il mondo, ma non distruggendolo, come con troppo disperato eroismo proponeva il vedantismo. E conchiusi, volgendomi al Rosetti, che egli non ci aveva ancora detto quale fosse per lui il procedimento migliore di purificazione; ma che certo non poteva essere quello suggerito dal filosofo indiano. Ma con gran sorpresa mia e di tutti, il Rosetti rispose che il Cavalcanti aveva ragione; e che la nostra civiltà scivolava senza accorgersene sulla china del vedantismo. — Sarei dunque vedantista anche io? — chiese ridendo l’Alverighi. — Lei più degli altri — fu la risposta. Ma fischiando il mezzogiorno, la macchina interruppe il discorso. Ci levammo da tavola e ci disperdemmo. Io mi recai a leggere sulla carta, che avevamo toccato il 23º grado e 36º minuto di latitudine, il 17º grado e il 30º minuto di longitudine: poi mi ritirai per la siesta pensando al Cavalcanti e a Vivekananda, ma punto maravigliato che questo diplomatico, nato nella India nuova, nel Brasile equatoriale, si fosse acceso di così subito fervore mistico innanzi all’Eterna Immobilità del Tutto, contemplata sotto i tropici dell’India antica dai savi. Il Cavalcanti era un mistico inconsapevole, nutrito di idee occidentali disformi dalla sua natura: ma non potei a meno nel tempo stesso di pensare quanto arruffato e confuso è il mondo ormai, con tante idee e popoli in giro per la terra senza riposo! Dopo la siesta, nel pomeriggio, scesi nella terza classe per parlare con Antonio. Desideravo scandagliare per mezzo suo l’opinione della terza classe intorno ad Orsola. Lo trovai di fatti nel refettorio della terza classe, intento a giocare con un giovane bruno. Interruppe la partita e uscì meco fuori all’aperto; ma quando tanto per avviare il discorso gli ebbi esposti i lagni di Orsola, con un fare risentito: — Io? — disse. — Io, invito a giocare suo marito? Ma se è lui che viene sempre a cercarmi per passare un’ora lontano da quella vipera di sua moglie.... — Vipera? — dissi io. — E perchè? Tacque un momento e poi invece di rispondermi con aria tra irritata e sprezzante: — Ma vuol sapere, perchè quella donna sparla di me così? Perchè io dico sempre il fatto suo a quell’imbecille di suo marito.... Tutto deve far lui, perfino il balio e il bambinaio; lei non fa un passo, non un gesto; tutto il giorno sta seduta a sparlare dell’uno e dell’altro.... Si chiama essere un uomo questo? Quando la donna porta i calzoni, la casa va in rovina. L’uomo deve essere un uomo. Non avevo alcun argomento da opporre a così maschio aforisma: lo secondai anzi: e così a poco a poco gli feci ripetere e amplificare di nuovi particolari quel che Maddalena aveva già raccontato alla mia signora. Mi affermò senza alcuna esitazione che Orsola e suo marito erano due fannulloni; che lei era ancora più inetta e pigra di lui; e che perciò avevano meritata la loro sorte. Allusi vagamente alla storia dell’intendente: neppure Antonio ne aveva sentito parlare; e quando gliela ebbi raccontata in succinto: — Ma che intendente! — disse. — Piuttosto è lei, qui, sul vapore, che cerca di far girare la testa a quel giovane abruzzese, con cui stavo ragionando. È un buon giovane; ma non ha fatto fortuna e ho paura che non la farà. Non hanno giudizio, questi giovani. Io cerco di dargli qualche buon consiglio.... — Dai anche dei consigli adesso, don Antonio? Gli chiesi infine di Maddalena. Ma tranquillo, impassibile, come se avesse dimenticato quel che mi aveva detto nei giorni precedenti e parlasse di una persona qualunque: — Sta male, molto male. Non c’è più nessuna speranza, mi ha detto il dottore. L’ho fatta mettere a letto, tanto perchè soffra meno.... Risalii sul ponte, dove incontrai la signora Feldmann. Era tranquilla; e spontaneamente riprese a ragionar del marito. Mi disse che era sempre stato molto geloso: e non solo per amore, ma anche per una specie di istinto violento di proprietà. — Ha l’istinto dell’accaparratore: vuol tutto lui, quando vuole. Io ero una cosa sua. Mi disse che l’ammiraglio le aveva riferito che anche a lui avevo detto di non ritenere per vera la diceria del divorzio. Confermai che così pensavo, e ripetei: — Almeno se non c’è di mezzo un’altra donna! — Oh di questo sono sicura, sicurissima, — mi rispose con un sorriso malizioso, che lì per lì mi parve strano. Frattanto, eravamo arrivati in fondo al ponte, alla ringhiera che guarda sulle terze classi: e ci fermammo, guardando il mare. Un stormo di pesci volanti frullò bianco da onda ad onda, e disparve: la signora fece un piccolo grido di gioia; poi volgendo intorno gli sguardi per la vastità dell’Oceano: — Come è tranquillo e possente! — disse. — Io non so perchè i poeti dicano il mare infido. A me, mi rassicura, invece. Mi sembra un gran vecchio sicuro e leale, che ci porta sulle sue spalle possenti verso la terra e la casa. Tacque un momento, sopra di sè; poi: — Domani però saremo alle Canarie! Frattanto con la coda dell’occhio io avevo visto, nelle terze classi, un emigrante, poi due, poi tre, fermarsi a pochi passi, la faccia in aria, a guardare la signora; sussurrar qualche parola tra di loro; far cenno a destra e a sinistra: uomini e donne accorrere. — Guardi! Quanti ammiratori! — mormorai alla signora. — Son qui per lei, ma non estatici davanti alla sua bellezza, sa, non si illuda; a bocca aperta innanzi ai suoi milioni! — E che cosa ne sa lei? — mi disse facendomi le boccuccie, come offesa. — Lo so, lo so. Ci vuol pazienza, signora. La moltitudine una volta ammirava i cardinali, i principi, i re, il papa: oggi tocca a loro, gran signori dell’America Una volta per uno.... Lei fa qui la figura di un cardinale! Il paragone la fece ridere: abbassò sorridendo gli occhi sul piccolo assembramento che li levava verso lei contemplando; si lasciò guardare e ammirare con tranquilla disinvoltura e non senza una certa compiacenza; scorse due bambini; cercò dei cioccolattini nella borsa e li gettò; poi volse le spalle per ripigliar la passeggiata sul ponte. — E a noi butta qualche marengo, almeno! — gridò una rozza voce, in rozzo piemontese. Qualcuno sghignazzò, altri protestarono: non potei veder quel che successe, perchè dovetti seguire la signora che si era mossa. A metà del ponte ci incontrammo con il Vazquez, che salutò la signora e sospirando: — Se fosse il «Mafalda», domani arriveremmo a Genova e non alle Canarie! L’ho fatta grossa a pigliar questo battello! Ma l’avvocato l’ha voluto. Ragionammo un po’; poi ci separammo. Di lì a poco il Cavalcanti mi lesse dei brani di Vivekananda; ragionammo a lungo della singolare uscita del Rosetti. Egli l’approvava: io dissi che il Rosetti parlava per ironia, mirando altrove: ma dove? Passò in fretta l’Alverighi; e: — Contemplate l’immobilità del Tutto? — disse ridendo. — Son proprio curioso di sapere come mai io sarei diventato vedantista! Il Cavalcanti mi raccontò di aver finalmente scoperto che tutte le dicerie intorno alla signora Feldmann e alle sue ricchezze erano messe in giro da Lisetta, la cameriera. L’aveva sorpresa, poco prima, a raccontare in gran segreto alla bella genovese e alla moglie del dottore di San Paolo come la signora avesse un bagno d’oro massiccio, dove ogni giorno essa tuffava il suo bel corpo in un’acqua in cui erano state profuse cinquecento lire di non so più quali preziosissimi aromi e che a ogni viaggio essa soleva dare alla fine una festa e fare un regalo prezioso a tutti i passeggeri. Ma la discussione, interrotta alla mattina, ridivampò verso la fine del pranzo, dopochè avemmo ragionato a sazietà della salute del signor Yriondo e dell’imminente arrivo alle Canarie. Al caffè l’Alverighi pregò in tono di scherzo il Rosetti di spiegargli come mai egli fosse vedantista senza saperlo. E il Rosetti subito lo soddisfece. — Ma non ci ha persuasi, proprio lei, che ogni singolo uomo è la misura infallibile e insindacabile del Bello e del Brutto? che deve difendere con tutte le forze questo suo quasi divino diritto? Senonchè quale ragione ci sarebbe di non andare più oltre e di non chiederci: e perchè solo del Bello e del Brutto, e non anche del Vero e del Falso, del Bene e del Male? E noi difatti abbiamo, seguendo le sue orme, illuminati tutti i criteri che ci servono a giudicare le qualità delle cose: non solamente se sono belle o se sono brutte, ma anche se son vere o se son false, se sono buone o cattive, e quindi anche a giudicare il progresso e la decadenza, la civiltà e la barbarie, altrettanti nomi diversi per dire che certi mutamenti sono buoni o cattivi. E abbiamo scoperto che tutti questi criteri sono personali, rovesciabili, mutevoli, perchè dipendono dai nostri desideri e dai nostri interessi; che non uno solo è eterno, universale, imperativo. Ogni uomo è quindi la misura dell’universo, come ha detto lei, Cavalcanti. Ma di qui nasce, mi pare, che tutte le differenze che noi vediamo nelle cose, e per cui lodiamo come belle certe cose e spregiamo come brutte certe altre, definiamo queste buone e quelle cattive, affermiamo che le une sono vere e le altre false, sono apparenti; poichè dipendono da noi e dai nostri stati di coscienza, che semplici o compositi, primigeni o derivati, mutano di continuo, di ora in ora, come muta di colore un fiume che va: e se le differenze delle cose sono apparenti, il mondo è sempre identico a sè medesimo. A che scopo dunque ci sforzeremo di smuoverlo dalla sua sublime impassibilità, di alterarne la invulnerabile identità? E che cosa è l’energia delle nostre razze, che credono di rifar l’universo in forme sempre nuove; che cosa sono le nostre macchine, la nostra scienza, il tanto vantato progresso, e perfino le bramate ricchezze, se non l’illusione del cavallo che volgendo con i suoi piedi la ruota crede di correre per il vasto mondo e non fa un passo avanti? Certo al mugnaio importa assai che il cavallo cammini anche se non fa strada, e gli macini il grano: ma esso, il povero cavallo, se potesse togliersi alla tirannia del mugnaio, uscirebbe dalla ruota e si adagerebbe per terra in dolce quiete. Così l’uomo moderno gira nella ruota del progresso, dove lo hanno chiuso la cupidigia, la smania del lusso, l’orgoglio della ragione imbaldanzito da qualche piccolo successo, una oligarchia potente e cupida: e li si illude di camminare verso una meta lontana mentre è sempre nel luogo medesimo. Chè non altro è il progresso moderno! Ha letto l’acuto libro di Giorgio Sorel su le «Illusions du progrès»? Io non capisco dunque per qual ragione l’uomo non dovrebbe un giorno uscire anche da questa rota infernale. Non sono giunti, come lei ci ha detto, i tempi della libertà? Non ha lei denunciate con ardente eloquenza le oligarchie intellettuali della vecchia Europa, che vorrebbero asservire gli uomini alla loro ambizione e cupidigia, dando ad intendere che esse conoscono il modello unico della perfetta bellezza e posseggono il tesoro della assoluta verità? Non ha lei magnificata la bella rivolta dell’uomo moderno, che rivendica a sè stesso il diritto di crearsi il proprio criterio e modello della bellezza, seguendo l’intima voce della coscienza, libero da imposizioni, immune da violenze? Ma a che ci servirebbe esserci sottratti al giogo di quelle antiche oligarchie di filosofi, di critici, di esteti, di giuristi, di professori, di teologi, se caschiamo in balia di una oligarchia di banchieri, di fabbricanti di macchine, di scienziati e inventori insaziabili, che mirano a conquistare l’impero del mondo, dando a credere agli uomini che essi conoscono quale è il vero progresso, che posseggono nientedimeno che la nuova pietra filosofale: la introvabile definizione del Bene assoluto? Libertà, libertà! L’uomo non deve conquistare solamente il diritto di godersi liberamente, a quattr’occhi con sè medesimo, la bellezza: ma anche il diritto, non meno divino, di scegliersi il giusto e savio modo di vivere, libero da imposizioni di interessi e di oligarchie tiranniche, all’aria aperta, fuori della ruota del progresso.... E il giorno in cui l’uomo sia scappato da quella infernale, macchinosa e sgangheratissima ruota del progresso capirà che è vana e mortale illusione correre per non stare, affaccendarsi per non oziare, bramar la ricchezza per non essere poveri: cercherà di disinteressarsi non solo dall’arte, come ella diceva, ma dalla scienza, dalla ricchezza, da tutto: perchè non c’è ragione di disinteressarsi da una illusione, per invischiarsi in un’altra: si rifugierà nel Nirvana, nell’Atarassia, nell’Estasi.... La civiltà delle macchine svaporerà dal mondo, signora Ferrero, in una grande estasi.... Se nel tono del discorso pareva infuso un soffio leggero di ironia, il ragionamento filava diritto e rigoroso. Anche l’Alverighi ristette un istante come interdetto, e poi non seppe rispondere se non: — Ma pensi, ingegnere; ma pensi! Che rivoluzione sarebbe! Altro che la Rivoluzione Francese! — Senza dubbio, — replicò senza titubare il Rosetti. — Anzi la sola vera rivoluzione. Io rido quando sento i socialisti dire che vogliono rovesciare la potenza del capitale con le dottrine di Carlo Marx! Essi, che proclamano primo dovere del popolo moltiplicare i suoi guadagni e i suoi bisogni! L’impero del capitale non rovinerà che il giorno in cui il popolo prenderà in orrore i lussi e gli sprechi e i piaceri e i vizi, che le classi alte gli inoculano, per rinfacciarglieli poi, dopo che hanno battuto moneta con quelli. — Ma non è possibile, non è possibile — ripetè più vivacemente ancora l’Alverighi. — Può lei neanche per un momento supporre che un uomo voglia restare povero quando potrebbe esser ricco? Guadagnar la metà piuttosto che il doppio? — E perchè no? — rispose il Rosetti. — La povertà fu giudicata buona e salutare da infinite generazioni. Il cristianesimo l’ha santificata addirittura.... — La volpe e l’uva acerba! — disse l’Alverighi. — Era troppo difficile allora arricchire! Ma dopo l’America e le macchine.... — Anche oggi però — osservò il Rosetti — chi vuol guadagnar molto, deve lavorare assai. E non a tutti gli uomini questa fatica incessante della mente è piacevole: ce ne son molti che, se potessero, amerebbero meglio di lavorar meno, pur essendo più poveri. — Se potessero! — colse al volo l’Alverighi. — Ma non possono. — Perchè gli altri comandano.... — Come è giusto! — Giusto? Ma e la libertà? Perchè protesta allora contro le oligarchie intellettuali dell’Europa, se poi.... — Ma — interruppe l’Alverighi — le oligarchie che impongono il progresso alla moltitudine, giovano anche a questa, poichè la arricchiscono, contro sua voglia, a suo marcio dispetto. Gli operai volevano pur rompere le macchine, in principio; e quanto le maledirono! E le macchine hanno fatto dell’operaio il re, anzi il tiranno del mondo. — Gioverebbero, — rispose il Rosetti — se l’arricchire fosse un bene in sè. Ma può essere una cosa buona o può essere una cosa cattiva.... Così.... Conforme.... — Ma non le par ragionevole, giusto, naturale, che gli arditi e i forti comandino ai deboli e ai timidi? — Se vogliamo conquistare in poco tempo molte ricchezze, sì. No: se vogliamo contemplare l’eterna immobilità dell’universo.... — Ma se l’uomo avesse perso tutto il suo tempo a guardarsi l’ombelico o a contemplare l’immobilità dell’universo, che è la stessa cosa, il mondo sarebbe ancora come mille anni fa.... — Il progresso è una illusione: si ricordi del dito mignolo di Leo! — disse il Cavalcanti sorridendo. — Ma la forza, il sapere, la potenza, la ricchezza.... — Illusioni, illusioni — ripetè il Cavalcanti — Perfino il nostro corpo è una illusione.... Dello spirito mortale, come dice la signora Yriondo! — Ho capito, — disse sarcasticamente l’Alverighi. — Anche i milioni, anche le case, le terre, le ferrovie, questo vapore, l’oro e l’argento, sono illusione; il velo di Maya.... — Sono illusioni — interruppe il Rosetti — poichè non hanno nessun valore per chi non ne ha bisogno. — Lo ha detto anche lei: — aggiunse il Cavalcanti — se un movimento mistico si divulgasse nella moltitudine, quasi tutte le nostre ricchezze anderebbero in fumo.... L’Alverighi tacque un istante, la faccia risentita, l’occhio acceso: poi incrociò le braccia, si protese avanti sulla tavola sparecchiata; e guardando insieme il Cavalcanti e il Rosetti: — Ma sapete che cosa ho da dirvi, tanto per conchiudere? — disse. — Perchè abbiamo chiacchierato abbastanza, mi pare. Debbo dirvi questo: che voi e tutti i filosofi del mondo potrete scervellarvi sinchè volete, per dimostrare che la ricchezza è un sogno, un’illusione, un delirio: ma gli uomini continueranno ad andare dall’Europa, dove c’è miseria, in America dove c’è ricchezza; e in Europa e in America continueranno ad arrovellarsi da mattina a sera per inseguirla e abbrancarla, questa vana illusione della ricchezza; e quando la possederanno saranno felici, quando non l’avranno si dispereranno; e a tutti i predicatori di semplicità volteranno le spalle, domani, come oggi, come dopo domani. La ricchezza sarà un’illusione o sarà una realtà: ma illusione o realtà, l’uomo moderno è così fatto, che se ne infischia dell’arte, della giustizia, della morale, delle tradizioni, del nirvana, dell’atarassia e di tutta le altre vostre favole: e invece i quattrini, — li quattrini, come dicono a Roma — l’oro, la ricchezza, li vuole, li vuole, li vuole. Li vuole, e basta. Diede un pugno sui tavolo, e si alzò. Il Rosetti fece un gesto come per trattenerlo; ma: — Non ascolto più ragioni — disse l’altro brusco. — Per mio conto ho finito. Ci avviciniamo all’Europa e debbo lavorare al mio rapporto per i banchieri di Parigi. E rapido se ne andò.... Uscimmo anche noi dopo qualche minuto, commentando questa imprevista conclusione della lunga disputa. — S’è proprio stizzito sul serio, questa volta! — disse il Cavalcanti un po’ angustiato. — Non ha poi tutti i torti — dissi io. — Il mondo addirittura, gli ha fatto sparire sotto gli occhi, come in un giuoco di bussolotti, il signor Rosetti. Che lei si sia convertito al vedantismo, non me lo farà credere, ingegnere. Sorrise e non disse nulla. A poco a poco tutti si dispersero, i più a scrivere delle lettere che dovevano essere impostate alla volta dell’America il giorno dopo, a Las Palmas. Io passeggiai di nuovo colla signora Feldmann alla quale raccontai le nuove dicerie che correvano su lei nella terza e nella prima classe, senza però dirle che Lisetta ne era la fonte. Rise: poi mi parlò ancora una volta dei telegrammi che aspettava il giorno seguente, ma con serenità. — Anche se farai divorzio, — pensai, nel salutarla, quando essa si ritirò, — troverai un altro marito e ti consolerai presto. Ma dopo averla lasciata, sorpresi nell’anticamera del refettorio la bella genovese, la moglie del dottore di San Paolo, il gioielliere, i due mercanti astigiani, intenti a parlare di lei. Erano inebbriati addirittura dei racconti di Lisetta; e sfogavano la commozione profondendosi in elogi. — E quanto è gentile! — diceva la bella genovese. — Così alla mano, alla buona, senza superbia! L’altro giorno mi ha incontrata con la mia bambina: l’ha accarezzata: ha perfino cercato di parlare in italiano. Lo parla un po’ stentato, con pronuncia poco chiara: io ho provato a rispondere in francese: ma non me la cavo meglio: cosicchè credo che lei non capiva me, ed io non capivo lei. Ma è stata ben gentile egualmente, non è vero? Mi parve che la moglie del dottore fosse un po’ spiacente di non poter raccontare che anche ad essa la augusta dama aveva rivolta la parola; perchè: — Tutti i bambini che incontra, essa li ferma, — osservò un po’ maliziosamente. — Anche quelli delle terze classi. E distribuisce dei dolci. — Chi sa che mancia darà ai camerieri! Ci faremo una bella figura, noi altri! — soggiunse la genovese. — Mille lire: di sicuro! — sentenziò il gioielliere. — Soltanto? — chiese incredula la bella genovese. — E che cosa vuol che dia? Un milione? — ribattè il gioielliere, un po’ stizzito di non essere stato abbastanza grandioso con i denari della signora Feldmann. — E lascierà anche una somma per i poveri delle terze classi, non è vero? Si dice.... — osservò la moglie del dottore di San Paolo. — E a me, che regalo mi toccherà, nella festa di addio? — chiese la genovese. Poi aggiunse, sospirando: — Deve essere però una bella cosa, essere miliardaria! Potersi cavare tutti i capricci! Che cosa farebbe lei, signora, se avesse tanti denari?... Li lasciai, ripensando che la vita è proprio un continuo passaggio dell’equatore. Ma al momento di entrare nella cabina incontrai il Rosetti, che anche egli andava a letto. — Ma insomma, ingegnere, — gli dissi ridendo — lei si è burlato terribilmente dell’avvocato, stasera! Un po’ troppo, quasi direi.... Mi guardò, sorrise, e: — Ferrero, ricordati — disse: — l’ironia è un dono di Dio.... — Sì — risposi io. — Ma intanto con quest’arma divina che strage mi ha fatto! Mi ha distrutto tutto. Incomincio a chiedermi se il mondo esiste.... — Distrutto? L’ironia non distrugge mai, sinchè è adoperata contro le contradizioni del pensiero. Diventa un’arma avvelenata, diabolica e si dice cinismo, quando è adoperata contro le contradizioni dell’azione. Ricordatene sempre: l’uomo _deve_ esser coerente nel pensiero; non _può_ quasi mai essere coerente nell’azione. Quindi non ti spaventare quando vedi l’ironia adoperata contro le contradizioni del pensiero: e non servirtene mai, tu che sei uomo di pensiero e perciò ti godi la parte comoda e le rose della vita, contro coloro cui toccano i rovi e le spine dell’esistenza: operare. PARTE TERZA. I. Il martedì mattina, appena desto, udii squillare sul ponte delle voci singolarmente chiare e distinte, come se l’aria fosse più sonora, ed il luogo diverso! Guardai intorno.... Il vapore non tremava, non brontolava, era immoto! Eravamo dunque già arrivati alle Canarie. Aprii il finestrino: e sopra i dorsi di due marinai, che curvi sulla ringhiera parlavano non so con chi e facevano non so che cosa, vidi delle case, degli alberi, un pezzo di montagna. Svegliai mio figlio, mi vestii in fretta, e uscii pochi minuti prima delle otto. Ancorati nel piccolo porto di Las Palmas, aspettavamo la visita medica. L’Oceano per tanti giorni illimitato, vuoto ed inquieto giaceva innanzi a noi chiuso, stagnante, popolato: e in quello il «Cordova» pareva come ingrandito e più alto sul piano del mare, in mezzo alle barche che già gli ronzavano intorno offrendo sigari e aranci ai passeggeri della terza, affacciatisi in gran numero ai parapetti. La giornata era cupa: il cielo grigio e minaccioso: le colline che circondano Las Palmas, nere: eppure con quale insolito piacere le guardavamo! Finalmente, dopo aver contemplato per undici giorni dall’instabile ponte l’eterna e sempre sfuggente mobilità delle onde e delle nuvole, che sono e non sono, poter posare e riposare la vista finalmente sulle immote forme della terra madre, che è: sentirsi sotto i piedi un pavimento saldo e fermo! Prima delle otto e mezzo comparvero l’ammiraglio, il Rosetti, l’Alverighi, il Cavalcanti, il Vazquez; tutti — fuorchè l’ammiraglio — in abito da terra, con il cappello e armati d’ombrello. — Non scende, ammiraglio? — gli chiesi. — Più tardi. Vi raggiungerò all’Hôtel de France per l’ora di colazione. La signora vuol leggere con me i dispacci che aspetta: poi scenderemo insieme a terra. Discorremmo del più e del meno: il Rosetti ci predisse acqua; ma non spaventò nessuno: infastidiva invece l’attesa. Quando, quando verrebbe quella benedetta Sanità? Intanto i marinai preparavano la nave a ricevere il carbone: chiudevano porte e finestre: tendevano grosse tele da ogni parte: apprestavano scale, funi, argani. Un vaporetto finalmente mosse di lontano, dirizzandosi difilato verso il «Cordova», seguito da altri due o tre: un signore in divisa salì a bordo: altre persone gli tennero dietro ed altre ancora: funzionari, agenti di navigazione, mercanti di carbone, suppongo: su per le scale del «Cordova» e sul ponte incominciò un via vai romoroso, un ciarlar polilingue, un incrociarsi di richiami, in mezzo ai quali udii gridare e rispondere: «La posta? El correo! La posta!».... Ad un tratto mi arrivò addosso l’Alverighi. — Presto, presto.... Il capitano ci offre il vaporino dell’agente del Lloyd.... Ma bisogna spicciarsi: parte subito. Correndo tra la gente vociante e affaccendata rintracciai la mia signora e mio figlio, ma non il Rosetti: continuavo a cercarlo, quando il Cavalcanti mi raggiunse: — Venga, venga. Il signor Rosetti è già nel vaporino. Stavamo per discendere, quando passò l’ammiraglio portando un voluminoso pacco di carte. — Sono i dispacci per la signora — disse sorridendo. — Arrivederci all’Hôtel de France. E scesi, preceduto dal Cavalcanti, la scala traballante, lungo il ventre nero del «Cordova». Subito il vaporino si staccò e trasse rapido verso la riva. Che gioia sentirsi di nuovo la terra immota e salda sotto i piedi e intorno lo spazio non misurato! Giulivi come prigionieri liberati, quasi di corsa, infilammo la via fangosa che conduceva alla graziosa cittadina, seguiti da un Cicerone che ci offrì i suoi servizi, finchè il signor Vazquez lo assoldò: e chiacchierando allegramente, mostrandoci a vicenda le cose curiose, scherzando intorno alla conversazione della sera precedente, domandando al Cavalcanti notizie del signor Vivekananda e all’Alverighi se voleva convertirsi al vedantismo o farsi frate, ridendo forte e gridando, invademmo — romorosa brigata — le vie deserte e silenziose della cittadina dalle piccole case e dai giardini interiori, che verdeggiano folti nel fondo attraverso le porte socchiuse. Solo l’Alverighi era taciturno e imbronciato: non c’era dubbio, perchè l’angustiava la disfatta subita la sera innanzi. Non aver potuto oppugnare che le macchine conducono all’estasi e che la ricchezza non è migliore della povertà! Visitammo la cattedrale. Qui, innanzi all’altar maggiore, mentre insieme lo guardavamo e gli altri erano dispersi per la chiesa, il Cavalcanti mi disse ad un tratto: — Eppure era comodo, quando gli uomini credevano in Dio! Sapevano allora quel che dovevano ammirare, odiare, amare, spregiare. Adesso invece! No: la vita non può essere soltanto un sistema di interessi come sostiene il Rosetti, se lo sostiene sul serio: e il vedantismo, il disinteressamento universale, non può essere che uno espediente transitorio per vincere la nausea di vivere solamente per il proprio tornaconto, come gli uomini fanno oggi. Dio deve rinascere; o meglio non è morto mai: dovrà solo pigliare il suo schietto nome, che è: la Vita! Lei aveva ragione, ieri sera: gli interessi si interpongono tra noi e la Vita come una nebbia; e in quella nebbia, la Bellezza, la Verità, la Virtù ci sembrano delle illusioni. Ma non lasciamoci ingannare dalla nebbia; slanciamoci, come Faust, nella Vita; viviamola nelle sue mille forme con fervore, con sincerità, liberamente: e capiremo l’Assoluto, palperemo il Reale, troveremo Dio dappertutto.... In un fiore.... In un fremito d’amore.... In una statua greca.... In una scena d’Amleto.... Sopraggiunse il Cicerone e volle a ogni costo condurci al palazzo di giustizia e mostrarci il gentile strumento con cui la giustizia spagnuola strozza i condannati alla pena capitale, narrandoci vita, morte e delitti degli ultimi giustiziati. All’uscita, un acquazzone, anzi un diluvio addirittura, ci fermò per mezz’ora: poi visitammo altre chiese; girovagammo ancora; e verso mezzogiorno ci trovammo all’Hôtel de France. Ma l’ammiraglio non c’era. Aspettammo un po’; suonarono le dodici e mezzo. — La pioggia avrà spaventata la signora — disse il Rosetti. E risolvemmo di metterci a tavola. Durante il pranzo ragionammo di varie cose: scherzammo di nuovo un poco intorno a Vivekananda: poi approfittammo del tempo rischiaratosi per fare un lungo giro nei dintorni di Las Palmas e nelle botteghe della città. Verso le quattro e mezzo ritornammo a bordo. Povero «Cordova»! In che modo era conciato! Polveroso e nero come una carbonaia. Per fortuna già le stive rigurgitavano; e i marinai incominciavano a ripulire il ponte alla meglio. Lasciai la Gina alle prese con i venditori di merletti che insieme con i venditori di sigari avevano invasa la parte pulita della nave: e difilato andai nella cabina, per le scale interne, perchè le porte che davano sul ponte erano chiuse. Ma nell’andito incontrai Lisetta, che rapida, quasi di corsa, mi passò accanto, con una faccia seria come chi va per cosa spiacevole e di premura. Nel momento in cui stavo per aprire la porta della mia cabina, vidi il dottore salire rapido al piano superiore; entrai nella cabina: ma mentre mutavo panni, sentii più volte il campanello suonare nell’andito lungamente, come impazientito, e la cameriera di bordo gridare, tra affannata e irritata: — Vengo, vengo! — Che cosa succede? — mi chiesi. Uscendo, incontrai la cameriera di bordo che scendeva: e le chiesi se qualcuno si sentiva male. — Sì, ha preso male alla signora americana — mi rispose. — Ecco perchè l’ammiraglio non è sceso a terra — pensai. Sospettai che qualche cosa fosse successo: raggiunsi la mia signora sul ponte, dove i mercanti facevano i fagotti per partire, chè l’ora di salpare giungeva. Ma strane e confuse notizie giravano tra i passeggeri attoniti e perplessi: chi diceva che il marito della signora Feldmann era morto e chi che la sua banca era fallita. Cercai l’ammiraglio. La cameriera mi disse che era nella cabina della signora. Intanto eran scoccate le sei. I mercanti erano partiti; parecchie centinaia di casse di banane, caricate a destino di Genova, coprivano ormai la prua; la baia si costellava di lumi. Fischi e campane suonarono; e lento lento il «Cordova» si mosse, dirizzando di nuovo la prora verso la meta lontana. A poco a poco i lumi di Las Palmas si allontanarono, impicciolirono, si spensero, mentre passeggiavo sul ponte aspettando l’ammiraglio, impaziente.... Comparve finalmente quando suonò la prima campana del pranzo: ma con una faccia così rannuvolata! — Fa divorzio — mi disse — e sposa una loro antica o cameriera o istitutrice o infermiera. Non saprei dirlo precisamente.... Non ho capito bene.... — Miss Robbins? — gridai. — Per l’appunto. Ma come lo indovina? Gli raccontai allora quel che la signora mi aveva confidato a proposito di miss Robbins. Non gliene avevo fatto cenno, quando gli avevo riassunti i nostri colloqui, di così poco rilievo mi parevano quelle confidenze! Poi alla svelta e conciso mi raccontò che difatti diversi telegrammi erano giunti, tra i quali due lunghissimi dell’avvocato; e dicevano che il marito aveva già iniziata la procedura del divorzio; che era già da parecchi anni amante di miss Robbins, alla quale negli ultimi anni aveva perfino regalata una casa e che si accingeva a sposarla; che non si sapeva ove fosse; che lo zio, il quale voleva intervenire a favore della signora, non era riuscito ancora a scovarlo. A leggere queste tremende notizie la signora era stramazzata: rinvenuta, aveva delirato, gridato, pianto disperatamente più ore; solo poco prima, alla fine, per virtù di discorsi e di calmanti, si era un po’ tranquillata e assopita. Sbalordito, chiesi all’ammiraglio che ne pensasse, come spiegasse, che gli paresse! Si strinse nelle spalle; e: — Non mi ci raccapezzo — rispose. La seconda campana ci invitò al pranzo; al principio del quale il discorso cadde subito sulle sinistre notizie che correvano: l’ammiraglio fu dalla falsità delle notizie tratto a raccontare la verità, per rettificarle: ma come spiegare un caso tanto bizzarro? Incominciai io dunque a raccontar alcuni degli episodi che la signora mi aveva narrati nel giorno della tempesta: incalzato dalla curiosità degli ascoltatori, sospinto dal mio stesso parlare, raccontai alla fine in succinto tutta la storia della famiglia, incominciando dal Great Continental e dalle sue vicende. Pensavo di sbalordire i miei ascoltatori annunciando loro che i Feldmann possedevano più di cento milioni; ma: — Di dollari? — mi domandò invece, con disinvoltura, l’Alverighi. Risposi che credevo fossero franchi e non dollari; e: — Allora non è un gran che! — rispose scrollando le spalle. Ci mettemmo tutti a ridere: ma quello, serio serio: — Cento milioni? Uno che è andato in America che già ne aveva sette e che per di più ha sposato una donna ricca? Ma io spero bene di lasciare cento milioni ai miei figli! E sono sbarcato in America con duemila lire. Per meno, tanto vale restare nella vecchia Europa! Non mi impegnai a discutere; e ripresi a raccontare le discordie di giorno in giorno inacerbitesi, lo scandalo del Great Continental, il matrimonio della figlia, la fiducia posta dalla signora in miss Robbins, il nero tradimento di costei, che il telegrafo le aveva rivelato alla mattina. Fui ascoltato in silenzio; e quando ebbi finito tutti tacquero, perplessi e un po’ impacciati, come chi non sa giudicare. Tacque, per un istante, anche l’Alverighi: poi a un tratto e con una delle sue solite mosse repentine: — Vedete? — esclamò, guardandoci tutti in faccia e in tono risentito. — Vedete? A furia di predicar che l’arte, la bellezza, l’eleganza, i raffinamenti son la ragione suprema della vita, quel che succede? E poi mi gridate tutti la croce addosso, quando prédico che bisogna distruggere quella nefasta oligarchia intellettuale, che dall’Europa semina per il mondo queste menzogne.... L’osservazione parve a tutti cascar di sghembo nel discorso; e il Cavalcanti lo disse. — Ma che c’entrano l’arte e la oligarchia intellettuale dell’Europa in questi litigi di famiglia? — C’entrano, c’entrano — rispose vivacemente l’Alverighi. — Perchè, arricchiti un po’, quei due signori si sono accapigliati in quel modo e faranno divorzio? Per decidere se lo stile impero vince in bellezza il Luigi XV o il giapponese, se è più _chic_ comprare un antico castello o un _yacht_... In New-York! In America dove anche i miliardari.... Ma chi è che mi ha detto di non credere una parola di quel che i giornali raccontano intorno al lusso dei miliardari? Lei, Ferrero, mi pare? Accennai di sì. Ma a questo punto il Cavalcanti ci interruppe: — Si fa divorzio a quel modo, per delle dispute di estetica? Io direi invece che il marito a un certo momento si è innamorato di un’altra donna, e.... — Si fa divorzio, si fa, sissignori — ribattè l’Alverighi. — Perchè l’Europa è pazza di orgoglio. Quando un europeo ha fatto un po’ di quattrini, subito si inebria, si mette in capo di aver diritto di vivere in un Olimpo, dove non vedrà e non toccherà più che cose di una bellezza o di una bontà uniche: e allora la è finita! Non può più intendersi con i suoi simili. Si crede infallibile e Dio. Caligoleggia. — Su via, — disse ridendo il Cavalcanti: — non tutti i milionari che amano l’eleganza sono dei Caligola.... — Sono allora — ribattè pronto l’Alverighi — degli snobs e degli sciocchi, che pagano il doppio tutte le cose, per avere un fondato motivo di crederle più belle. Ma qui il Cavalcanti gli obiettò che lo snob giudica le cose dal prezzo, ma l’uomo di vero gusto misura il prezzo secondo le cose. A mo’ di risposta l’Alverighi raccontò ridendo di aver letto un giorno, a Parigi, in piazza Vendôme un sesquipedale richiamo di bottega innalzato per tirare gli Americani del Sud, che poi sparì, e che suonava così: «El Zapatero le plus cher du monde». Il più caro, dunque il migliore! Io raccontai allora — l’aneddoto mi ritornò nella memoria in quel momento — come la signora mi avesse detto che le perle, di cui si ornava sul «Cordova», erano false, perchè aveva lasciate le vere a Parigi; e come avesse filosofato sulla vanità delle opinioni umane intorno alle perle false e alle vere: perchè il mondo le giudica vere o false secondo crede o no ricco abbastanza chi le porta o chi le dona! L’aneddoto piacque all’Alverighi, che si rivolse di nuovo al Cavalcanti: — Vede, vede? — dicendo. — Anche una signora elegante, qualche volta, ragiona.... — Conclusione? allora? — replicò sorridendo il Cavalcanti. — Vivekananda ha ragione, almeno in parte: se i raffinamenti della civiltà sono illusione e la ricchezza perde, crescendo, il potere di procurare nuovi e più intensi piaceri, il savio non la desidererà, almeno oltre questa misura.... A che serve la ricchezza, se non procura che illusioni e nessuna gioia verace? — Serve ad aver crucci, fastidi, fatiche, ansie, malattie, insonnie — rispose risoluto l’Alverighi. — Obbligatissimo! Non so che farmene allora.... — Perchè lei è un sibarita. I veri e soli asceti dei tempi nostri siamo noi, accaparratori insaziabili di milioni. Dico sul serio: non sorrida: noi che fatichiamo di giorno e di notte; e ci priviamo della casa e del sonno; e viviamo nomadi sulle ferrovie e sul mare; e per quale scopo o speranza? La godiamo noi forse, la nostra ricchezza? Che cosa ci regala, questa ricchezza, oltre l’ebbrezza mistica di averla creata, se non tormenti e fatiche e malattie? Sì: io voglio accumulare cento milioni: cento, non uno di meno, ad uno ad uno, infaticatamente: ma sarò io più felice quando sarò l’invidiato signore di cento milioni? La mia vita sarà più bella o migliore? Sarò spossato, infermo, triste; avrò infiniti crucci ed ansie e pensieri.... Ma il Cavalcanti qui lo interruppe. — Ma questo appunto è il grande errore dei nostri tempi e dell’America. Arricchire per arricchire, glielo disse l’ingegnere Rosetti, è una vana illusione: la ricchezza è e non può essere che un mezzo.... — La ricchezza non è divina che se è fine a sè stessa — gridò veemente l’Alverighi. — Lo so, i facili filosofi dell’oggi deridono questo ideale: accusano gli Americani di averlo imposto al mondo: dimostrano che è assurdo. Bella fatica! Ma o che forse non sono assurdi tutti gli ideali che trascendono l’interesse del singolo, quando si giudicano alla stregua di questo interesse? Non sono tutti delle vane illusioni? Alla stregua dell’interesse suo personale, il soldato che si fa uccidere per salvare la patria, non è forse un imbecille? Che cosa importa la salute della patria a colui che non sarà più? Non sarebbe meglio per lui sopravvivere alla sconfitta, che non vivere dopo la vittoria? Sicuro: noi fatichiamo e non godiamo: del torrente immane di ricchezze che noi, giganti del denaro, versiamo nel mondo, non approfittiamo noi, ma la moltitudine neghittosa, ignorante, meschina, invidiosa, stolta che ci odia e perseguita; e che ora, per merito nostro, ha quel che le generazioni precedenti non ebbero: ha pane, ha letto, ha vestiti, salute, un po’ di luce per l’intelletto ottenebrato, la sicurezza dell’avvenire. Ferrero ha ragione: chi fa lusso, chi spreca, chi sciala in America non sono i miliardari, ma le classi medie e gli operai, che accusano poi ad ogni momento i miliardari di essere dei Sardanapali. Sciocchezze! Ma io, ma noi perchè ci uccidiamo al lavoro? Non lo so; non m’importa; non lo voglio sapere. L’opera che ci smunge, che ci macera, che ci scarnisce, la conquista della terra, trascende la nostra mente, come le guerre, come le rivoluzioni, come tutti gli avvenimenti storici. E soffriamo, deperiamo, moriamo felici in questa frenesia, di cui non comprendiamo la ragione, perchè un demonio arcano ci investe: e quindi abbiamo diritto di dire che la ricchezza è divina in sè stessa e che noi viviamo non per noi, ma per gli altri, per il mondo, per l’avvenire, consumati e purificati da un fuoco divino, che deterge le inevitabili scorie delle nostre intenzioni. Lei, ingegnere, disse ieri sera che l’uomo dovrà alla fine disinteressarsi della ricchezza; è vero; lei ha ragione; Vivekananda ha ragione: ma il vero mezzo di disinteressarsene, è non lo spregiarla, il desiderarla per sè e non per i vani piaceri che essa promette agli sciocchi. Underhill era il vero asceta moderno, l’uomo più puro e disinteressato del mondo: ma non i Feldmann invece; che volevano goderla la ricchezza! Darsi l’aria di raffinati e di esteti! Farsene uno strumento con cui umiliare i loro simili! Essi hanno meritata la loro sorte, perciò.... II. L’Alverighi si era rifatto. A questo veemente discorso nessuno, nemmeno il Cavalcanti, replicò. Tacemmo tutti; sinchè, visto che nessuno parlava, il Rosetti, il quale aveva finito allora allora di sorbire il caffè: — E la signora Feldmann? — chiese. — Lei me l’ha dimenticata, avvocato! Che cosa doveva fare la signora, se la ricchezza non serve che a fare cumulo? Calare anch’essa in Wall Street a fianco del marito? Brigare la presidenza di qualche società petrolifera? L’Alverighi tacque un momento: poi brusco: — Ma quella è una donna — disse. — E le par poco? — rispose, ridendo, il Rosetti. — Le donne sono su per giù la metà del genere umano e il grande impiccio di tutte le filosofie dell’azione. Se fare — la guerra, gli affari, il governo — è la ragione unica della vita, quale è il còmpito della donna nel mondo, oltre il mettere al mondo dei figli e divertire gli uomini a tempo perso, sinchè sono giovani e belle? — È quel che vo dicendo da un pezzo — interruppe la mia signora. — Tutti parlano del trionfo della donna oggi; e invece noi assistiamo alla sua forzata abdicazione. Prima dell’invenzione delle macchine, le donne filavano, tessevano, cucivano, facevano il pane, le conserve, il bucato, curavano i malati, allevavano i figlioli.... Avevano un còmpito nel mondo, che era loro. Adesso le macchine — cioè quasi sempre degli uomini — fanno tutte queste cose, e poi gli uomini dicono che le donne invadono le professioni maschili, se tentano di pigliar una laurea quasi sempre inutile.... — Se l’immagina lei, avvocato, — proseguì il Rosetti — la signora Feldmann, novella Penelope, intenta a farsi le calze; quelle tali calze.... che costano.... non ricordo più quanto? L’Alverighi tacque un momento, perplesso; poi: — Ma vuole lei forse — disse — riconoscere alla donna il diritto di spendere come le piace il denaro del marito? — No — rispose il Rosetti: — ma penso che lei in questo momento dimentica, come l’altro giorno, quando ragionava del progresso, che produrre le ricchezze non basta, bisogna anche consumarle: se no, a che giova produrle? Che ci siano e ci debbano essere degli uomini che di ricchezza fanno ricchezza e non vogliono altro, siamo d’accordo: ma è pur naturale che altri — le donne, per esempio, e non soltanto le donne, ma molti uomini pure, anzi non solamente molti ma i più — bramino le ricchezze per convertirle in godimento: se no anche gli altri, gli indemoniati giganti del denaro, come li chiama lei, sarebbero condannati a stare tutto il santo giorno con le mani in mano e non potrebbero, poveretti, sacrificarsi a pro del genere umano. Quindi i più vorranno accrescere le loro ricchezze per accrescere i godimenti: e per accrescere i godimenti non ci sono che due mezzi: o aumentare la quantità o variare la qualità delle cose che ce li procurano. Amo il vino e cerco di guadagnar di più per soddisfare meglio questa voglia? Potrò o beverne dello stesso in maggiore quantità o beverne del migliore. Ma è chiaro che la quantità, presto o tardi, sazia.... Dunque, oltre una certa quantità, o il desiderio riesce a trovare soddisfazioni più elette, a tradurre la qualità in quantità, o la ricchezza è inutile. Lo snobismo! Lo so: è un bersaglio facile, oggi! Ma ci pensi un po’: non sarebbe esso uno sforzo per tradurre la quantità in qualità, a cui tutti gli uomini sono spinti dall’incremento stesso della ricchezza? Lei non perdona ai Feldmann che, fatti di ricchi straricchi, hanno cercata affannosamente la strada dell’Olimpo: ma badi.... Una villana si inurba, va alla fabbrica, viene in possesso di qualche spicciolo. Quale uso ne fa? Compra forse un numero maggiore di vestiti contadineschi? No: ne compra che le paian più belli: imita la città e le sue foggie: si orna di sciarpe, di nastri, di fronzoli.... Tenta insomma di tradurre la quantità in qualità. Tutti si sbracciano oggi — i socialisti come i sovrani — a magnificare il proletariato che sale; che cioè si sforza di scimmiottare i signori, di tradurre la quantità, i maggiori salari, in qualità. L’innalzamento del proletariato è lo snobismo degli artigiani. Noi abbiamo discusso a lungo, in questi giorni, intorno al progresso: orbene per quale ragione questa parola così vuota suona così piena all’orecchio dei moderni? Perchè il progresso è lo snobismo dei popoli.... Gli statistici allineano e incolonnano i numeri; provano come nei nostri tempi tutto cresce o decresce rapidamente, quasi di anno in anno si potrebbe dire: la popolazione, la ricchezza, i traffici, i depositi delle banche, le ferrovie, i viaggiatori, le scuole, i telefoni, i delitti, le nascite, le morti, i matrimoni, i fallimenti, gli analfabeti.... Ma i popoli non si accontentano di leggere quei numeri: li vogliono far cantare: cantare la dolce canzone che essi si fanno più forti, più savi, più gloriosi, più grandi: migliori, in una parola. Le teorie del progresso, buone o cattive, che ogni nuovo giorno inventa, non sono che tentativi di tradurre la quantità in qualità, dei numeri in virtù, per conto dei popoli.... Il ragionamento era lucido e saldo. Ma non disarmò l’Alverighi. — E la plebe ha ragione — disse — perchè la plebe può, grazie alla macchina, tradurre la quantità in qualità, come dice lei. I ricchi invece non possono. Ricorda, signor Cavalcanti, la nostra discussione intorno alle eleganze del vestire? Non si tessono più quei broccati e damaschi, da vestire vescovi, principi e re, che ammiriamo nei musei!, gemeva lei, sconsolato. È vero, le ho risposto io, ma in compenso oggi anche l’artigiano e il contadino si possono vestire con una certa eleganza, ignota ai loro nonni. Io, lei, Rockefeller: che differenza c’è quanto al vestito? Sono passati i tempi in cui si poteva dire di un ufficiale dei moschettieri, quale d’Artagnan, che andava in giro carico di pizzi come un altare! Le macchine hanno profusi gli oggetti di qualità media, togliendo via i pochi esemplari reputati straordinariamente perfetti, di cui si gloriavano i nostri antenati; e perciò hanno fatte inutili le grandi ricchezze tra le mani di coloro che le posseggono.... Questa osservazione parve a tutti d’improvviso così vera, che ognuno di noi si sentì invogliato a confermarla. Io osservai che la «linotype» e la rotativa guastano il gusto del pubblico e l’ingegno degli autori, incalzando quello a leggere e questi a scrivere a precipizio. Gli studi classici declinano, perchè nessuno vuol più perder tempo ad imparare le difficili regole del bello scrivere, quando la penna deve volare. Il Cavalcanti osservò che i tempi passati dipingevano poco e bene; i nostri scarabocchiano dalla mattina alla sera libri, giornali, riviste, caricature, copertine, cartelloni. Il Rosetti, un po’ scherzosamente, trattò invece della decadenza del formaggio, che pur essendone egli ghiotto assai, aveva quasi smesso di mangiare, perchè non ne trovava più del buono: interrogati, parecchi mercanti avevano ad una voce accusate le macchine di fabbricare molto formaggio e in fretta, ma più scadente. L’ammiraglio invece osservò che le macchine insieme con il bello stile la grande pittura e il prelibato cacio di cui erano ghiotti i pastori di Teocrito, avevano quasi rimosso dal mondo anche il galateo. Il codice delle belle maniere non può essere scrupolosamente osservato tra gente che tutto il dì corre all’impazzata: perciò gli era spesso capitato, nei suoi viaggi, di udire gli Orientali rimproverare gli Europei di rozzezza e rammaricare, a Parigi, che perfino lì, in quella antica sede della cortesia, si vedano ormai nella ferrovia sotterranea le signore in piedi e i signori seduti, uomini e donne far ressa a spintoni alle porte. Cavalcanti riprese infine la parola per parlare delle arti decorative: così affaccendate oggi a servire un pubblico volubile e frettoloso, che non hanno tempo di elaborare e maturare uno stile vitale. Sebbene parecchie di queste osservazioni fossero mosse da uno spirito avverso alle macchine, l’Alverighi finse di non avvedersene; e prese lo slancio a concludere: — Vedete dunque? Il piacere è una pianticella che cresce in piccoli vasi. Colui che sogna i miliardi o i milioni per godere chiede la Pampa intera per piantarci un rosaio. L’Europa non fa che esporre in vetrina per la ennesima volta la sua stoltezza, quando si beve così scioccamente tutte quelle favole sul lusso dei miliardari americani! Del resto, ingegnere, non ammise anche lei l’altra sera, che al di là di un certo grado di perfezione non è più possibile distinguere delle differenze nella bellezza o nella bontà delle cose — dir se è più buona una bottiglia di Champagne o una di Bordeaux, se è più bello un quadro di Tiziano o un quadro di Raffaello? Che non c’è un calcolo infinitesimale delle qualità? O dunque? Chi possiede dieci milioni potrà forse godere dieci volte meglio di chi ne abbia uno solo: ma chi possiede cento milioni non potrà godere dieci volto meglio di colui che ne ha dieci e cento di colui che ne ha uno: gustare bocconi dieci volte più ghiotti; abitar casa o vestir panni dieci volte più sontuosi; o se volete anche, esser amato da un numero dieci volte maggiore di donne dieci volte più belle! Quindi non potrà scampare dal dar di cozzo in uno dei corni di questo trilemma: o spendere le sue ricchezze per gli altri, come fanno i miliardari dell’America del Nord: o lasciarsi ingannare dai ciurmatori che spacciano per eccellentissimo quel che è solamente più dispendioso, come fanno un po’ troppo spesso — devo riconoscerlo — i ricchi americani del Sud: o rodersi per una smania di eleganze impossibili, cercando quel che non esiste, come hanno fatto i Feldmann.... La ricchezza moderna non serve, non deve, non può servire a coloro che la posseggono: ma a tutti. Appartiene al popolo, al progresso, alla civiltà, all’avvenire. Il proprietario apparente ne è il depositario, dice Carnegie.... Anzi: non il depositario, ma la vittima, il martire. Noi dovremmo essere venerati come i santi nel Medio Evo... Un clamore di risa e di allegre proteste lo interruppe. Tacque, ridendo anch’egli: e il Rosetti: — Lei avrebbe ragione — disse — se.... se.... se.... — Fece una pausa: poi: — Quel che lei dice, mi rammenta una favola mitologica, che mi fu narrata tanti anni fa, durante un viaggio alla volta degli Stati Uniti, non ricordo più da chi.... Non si vergognerebbero loro di starla ad ascoltare? La mitologia è ormai un trastullo da bambini: ma imaginiamo per un momento di esser ridiventati bambini, dopo aver tanto filosofato! Del resto è una favola rammodernata: la favola di Prometeo e di Vulcano, che scappano in America.... Ma a questo punto si volse a guardare intorno la sala: era vuota, chè il pranzo era terminato da un pezzo; e i servitori aspettavano che noi pure ci levassimo, per sparecchiare. — Se si andasse sul ponte? — disse. — L’ora di fumare è giunta. Ma l’ammiraglio voleva prima andare a veder la signora e la mia signora il bambino; così si convenne, poichè erano già le otto e mezzo, che ci ritroveremmo alle nove sul ponte di passeggiata. Alle nove eravamo infatti tutti seduti a cerchio, a babordo, tranne l’ammiraglio che tardò venti minuti e si scusò, raccontando che a rivederlo la signora aveva rotto di nuovo in pianto. — È disperata! — disse. — Proprio deve amar suo marito anche più che non credessi. Discutemmo un po’ su questo punto: il Cavalcanti avventurò la supposizione che l’animo della signora avesse ceduto alla prima sorpresa, ma che si riavrebbe presto: poi tutti insieme invitammo il Rosetti a narrarci la favola promessa. Il Rosetti accese un sigaro; e sorridendo incominciò: — Dovete dunque sapere che da un pezzo Prometeo, legato sul Caucaso, si rodeva il fegato da sè più ancora che non glielo rodesse l’avvoltoio. Imaginarsi! Aver plasmato l’uomo dal fango, avergli dato il fuoco e insegnate le arti: e poi, per ricompensa, essere incatenato sopra una vetta nevosa del Caucaso dall’invidia degli Dei; ed essere dimenticato lassù dagli uomini che, quando l’avevan visto in catene, si erano affrettati a conchiudere che il torto era suo, tutto suo, di averli creati e istruiti! Glielo avevano forse chiesto, essi, di esser creati? Prometeo voleva vendicarsi e ruminava nella solitudine del Caucaso strani pensieri: fuggire in qualche grande deserto e in quello creare con il fuoco una nuova generazione di Titani, straordinaria, meravigliosa, unica addirittura, che non fosse solo cento volte più robusta della prima, ma che fosse senza paura e incorruttibile, che Giove non potesse nè atterrirla con i suoi fulmini nè corromperla. Un’impresa, che a ogni altro sarebbe apparsa impossibile! Difatti quando se ne aprì con Vulcano, che ogni tanto Giove mandava a saggiargli i ferri se erano saldi, e gli chiese perchè si ostinasse a restar nell’Olimpo, egli, il paria degli Dei, lo zimbello di Giove, di Giunone, di Venere e di Marte, e lo invitò a fuggir con lui, e gli promise, se l’aiutasse, di farlo unico Dio dell’Olimpo, Vulcano quel giorno credè che Prometeo fosse ammattito per i patimenti. Ma finalmente un bel giorno Cristoforo Colombo scoprì l’America. Bisogna sapere che, dopo la scoperta dell’America, ci fu un gran subbuglio, non solo sulla terra ma anche in cielo. I vecchi Dei, abituati da un pezzo a governare il piccolo Mediterraneo, non se l’aspettavano una seccatura di quella forza: come i governi e la diplomazia moderna, non volevano fastidi: erano ligi, per quel che riguardava il mondo e la geografia, al principio dello _statu quo_. Ci furono dunque discussioni e litigi in quantità, tra i vecchi Dei del Mediterraneo, per decidere quel che fare del nuovo mondo, se colonizzarlo dì ninfe, di fauni, di driadi, di eroi e via dicendo; e del subbuglio approfittarono Prometeo e Vulcano, che alla fine si decise, per volgere le spalle al Mediterraneo. Scapparono in America con i famosi pellegrini. Imaginatevi quel che successe nell’Olimpo quando si seppe che il rapitore del fuoco non era più su la vetta del Caucaso, ma in America e con Vulcano! Giove radunò subito il consiglio dei ministri — cioè mi sbagliavo — degli Dei; all’unanimità fu deliberato di destituire l’avvoltoio: poi si disputò a lungo se mandare o no in America una spedizione a catturarlo. Ma era così lontana, l’America! Alla fine Minerva fece una proposta degna della più giudiziosa fra le Dee. «L’America — essa disse — è un immenso deserto; perciò noi non sappiamo a che uso destinarla: ebbene, facciamone la prigione di Prometeo e di Vulcano che è fuggito con lui.... Abbandoniamola a loro. Che cosa potranno fare i due sciagurati, soli con il loro fuoco, in quel deserto, dove non ci sono uomini e dove non ce ne anderanno mai, se noi non ci porteremo, oltre il fuoco, gli altri beni delle vita che dipendono da noi?» E così parve. Soli tra gli Dei dell’antico Olimpo mediterraneo Prometeo e Vulcano si stabilirono in America esiliati; e da principio errarono solinghi e miseri per le pianure e le montagne selvaggie del nuovo mondo, in compagnia della propria ombra; perchè Vulcano, avvilito della lunga umiliazione subita sotto gli Dei mediterranei, non credeva da principio che si potessero crear dei Titani, come li voleva Prometeo, fedeli, incorruttibili e senza paure. Incorruttibile e senza paura, fu mai nessun animale, uomo o semidio? Ma Prometeo era ostinato.... Scoprì le miniere di carbone, i laghi sotterranei di petrolio; e con questi combustibili e con l’elettricità che aveva scoperta nel vecchio mondo incominciò a creare nel deserto la nuova generazione dei Titani.... Voglio dire le macchine! Che cosa sono le macchine mosse dal vapore e dall’elettricità, la ferrovia, il telefono, il telegrafo, la dinamo, il forno Bessemer, le macchine agricole e tutte le altre, se non il secondo furto del fuoco, principio di tutte le arti o, come si dice adesso, di ogni progresso?... E allora si vide quel prodigio che lei, avvocato, ha magnificato tante volte a ragione: i deserti delle due Americhe, condannati anch’essi dagli antichi Dei mediterranei alla sterilità eterna, incominciarono invece a fruttificare con abbondanza incredibile.... Più forti dello spazio, del tempo, del deserto, della montagna, dell’Oceano, della terra, i Titani frugavano veloci, impassibili, infaticabili tutti i ripostigli della natura. Imaginarsi lo stupore e la gioia dei pochi disperati, che avevano cercato in quei deserti la libertà, a prezzo di stenti! In ginocchio addirittura caddero davanti a quei Titani e incominciarono a gridare: «Li abbiamo trovati, finalmente, gli Dei davvero amici degli uomini! Gli Dei che stiamo cercando dal principio del tempo! Gli Dei non sospettosi, non duri alle preghiere, non interessati e avari come gli Dei mediterranei, dai quali per tanti secoli abbiamo supplicato invano l’abbondanza, la salute, la ricchezza, la pace, e non ce ne hanno largita mai che qualche minuzzolo; e a stento, con mille rabbuffi, facendo tanto di occhiacci». La più giudiziosa delle Dee, Minerva, che stava all’erta, si impensierì: vi ricorderete che essa aveva consigliato di imprigionar Prometeo e Vulcano in America: e corse da Giove.... Ma Giove, seduto sul suo trono d’oro, ascoltò; volse lento e solenne lo sguardo verso il mondo nuovo; rimirò un istante quegli immensi deserti, gli uni coperti di neve, gli altri arsi dal sole, in cui a stento perfino i suoi occhi discernevano qua e là qualche villaggio o cittaduzza, accampamento più che città; e scrollando le spalle: «Non te ne dar pensiero, figlia» rispose. Ma intanto la notizia che nel nuovo mondo si erano finalmente scoperti questi nuovi e portentosi Dei, amici davvero degli uomini e non tiranni e gendarmi, si divulgava nel vecchio: i più arditi salparono, altri tennero loro dietro; a poco a poco il passaggio dall’uno all’altro mondo per cercare i nuovi Dei ingrossò, diventò ressa, e quasi fuga precipitosa. Alla fine anche gli Dei dell’Olimpo si spaventarono: la clientela si disperdeva; e quindi da Giove ogni dì, ora l’uno ora l’altro: perfino le Muse ci andarono, mi pare.... Anzi sì, ci andarono dopochè Prometeo ebbe inventata la pianola elettrica! Sicuro: condotte da Apollo, in processione, con le chiome disciolte, le Muse andarono a strillare furiosamente presso il trono di Giove che Prometeo aveva voluto far loro un atroce dispetto. Giove — sia detto in confidenza — era un po’ rimbecillito. Come tutti i potenti invecchiati nel governare, del resto. Ed anche era un po’ troppo distratto da Leda e da Danae e non ricordo più da quale altra donnina del mezzo cielo. A quell’età, capirete!... Era quindi diventato un Giove parlamentare, e diceva: «Farò, vedrò, provvederò; lasciate fare a me». Ma non faceva nulla. Un giorno però gli Americani ebbero addirittura la sfacciataggine di convocare gli Dei dell’universo e quindi anche i vecchi Dei mediterranei a congresso, in Cicago: e quel giorno anche Giove si risvegliò, anzi andò su tutte le furie: tempestò con un terremoto l’Italia meridionale; scacciò infuriato Danae e Leda; convocò il consiglio degli Dei; rimproverò acerbamente agli altri Dei gli errori proprii; gridò che era tempo di agire; e incominciò a tempestare con la sua folgore i nuovi Titani. Ma ahimè: l’astuto Prometeo l’aveva scoperto il modo di creare dei Titani fedeli, incorruttibili e senza paura! Li aveva creati senza cervello. Quando, nell’Olimpo, si accorsero dell’infernale stratagemma di Prometeo, successe il finimondo. E se gli uomini si smaliziassero alla fine per davvero, aprissero gli occhi e capissero che per vivere beati non avevano che da adorare degli Dei ciechi, sordi, muti e senza cervello? Presto, presto occorreva negoziare: far delle offerte a Vulcano, perchè in cambio imponesse ai suoi innumerevoli fedeli anche il culto degli altri antichi Dei mediterranei. Marte, Pluto, Cerere e Bacco si dichiararono pronti a mettersi alla scuola di Prometeo; a far la guerra, il vino, la mietitura e l’oro a macchina. Minerva disse che acconsentiva a fare un corso di perfezionamento in una università della Germania e a studiare il calcolo infinitesimale, la fisica e la chimica. Venere, che era pronta a ricongiungersi con Vulcano sotto il medesimo tetto e a promettergli la fedeltà, ma questa volta sul seriissimo. Giove e Giunone, infine, di trattarlo come un figlio, che ha fatto molto onore nel mondo ai suoi genitori. Apollo solo, che aveva assistito imbronciato alla seduta, non disse nulla. Fu dunque spedito Mercurio.... E Mercurio ritornò con questa risposta: Vulcano e Prometeo accettavano il patto, aggiungendo però una condizione: che gli Dei si impegnassero a non porre mai, per nessun motivo o ragione o pretesto, nessun freno, condizione o limite alla velocità e alla forza dei Titani, perchè questi altrimenti, pur docili e senza cervello come erano, si sarebbero ribellati anche a Vulcano e a Prometeo. «Corrano sinchè creperanno», grugnì rabbioso Giove. E gli Dei stavano già per approvare il trattato, quando Apollo balzò in piedi: e alto, agile, bello, coronato di luce: «Non mai, non mai! — gridò. — Se la vecchiaia, o Zeus, ti fa pesante nelle mani quello scettro del mondo che hai retto per tanti secoli con tanto vigore; se la mollezza e la viltà che accompagnano sempre le lunghe e sicure dominazioni vi fanno pronti voi, colleghi di Olimpo, ad accettare come un savio patto una così torbida insidia, non io che sono il calore e la luce del mondo, la vita iniziale di ogni seme, la prima spinta di ogni moto, l’impeto primordiale di ogni forza, il faro universale della verità, della bellezza e della virtù; non io che illumino, riscaldo, rinnovo, vivifico e guido per le sue vie il mondo; non io mi acconcierò a ricevere da pari, qui sull’Olimpo, i due impostori che ingannano laggiù la miserabile specie umana, mascherandosi per i trivi da Apollo; e appendendo ogni sera lungo le vie della città, sulle teste degli uomini, dei ridicoli soli da tasca, li hanno persuasi a infrangere la santissima legge del giorno e della notte che io diedi all’uomo, come principio di saggezza e di salute; e accendendo qua e là per il mondo dei piccoli fuochi ed inventando dei piccoli ordigni voglion far credere agli uomini che essi possono quel che neppur io non potrei. Onta sarebbe: e non onta solo, ma stoltezza, riceverli qui e accettare il chiesto impegno. Ascoltate infatti quel che io vi dico.... Io vi dico che il giorno in cui nessun limite più, nessun freno o misura sarà posta alla velocità e alla forza del nuovi Titani senza cervello, noi, Dei dell’antico Olimpo mediterraneo, precipiteremo tutti dai nostri troni dorati: e unico Dio impererà sui due mondi, adorato dalla moltitudine con la faccia prona al suolo, come nei primi tempi della storia, il Fuoco! Ciò detto, il Rosetti tacque d’improvviso. Ma se tutti noi avevamo ascoltata sorridendo questa bizzarra satira delle macchine, nessuno ne aveva capita la inaspettata conclusione; e l’Alverighi espresse il pensiero comune, dicendo, dopo una pausa: — Ebbene? E poi? — E poi, che cosa? — rispose il Rosetti, sempre sorridendo. — E poi, — replicò l’Alverighi, — desidererei saper come lei risponde a quel che ho detto. Perchè ancora non ha risposto.... E penso, che gli altri.... — Lei non ha capito? — chiese il Rosetti, fingendo una leggera meraviglia. — Eppure Apollo è il Dio della Luce.... Ma è vero: non ci pensavo: le luci artificiali hanno ormai guasti tutti gli occhi. Occorre dunque che io mi provi a chiosare Apollo, per illuminare la luce? — Ma a questo punto trasse l’orologio, e: — Mancan pochi minuti alle undici, — disse. — E il discorso sarebbe lungo. Io sono stanco; ho girato parecchie ore quest’oggi a Las Palmas e alla mia età.... Se mi permettete, vi spiegherò domani il discorso di Apollo. E ci salutò. Noi restammo alquanto a ragionar di questa bizzarra favola. — Mi sembra una brillante satira delle macchine — disse l’ammiraglio. — Piacerà alla signora Ferrero. Ma non vedo il filo che la dovrebbe legare ai nostri discorsi di questa sera. — Incomincia di nuovo a pazziare — sentenziò l’Alverighi. Il Cavalcanti invece lasciò libero il corso all’ammirazione sua per la festosa ironia della favola, senza chiedersi quale ne fosse il fine ultimo. Ma io dissi che un fine c’era, senza dubbio, e raccontai quel che il Rosetti mi avesse detto la sera prima dell’ironia. — Aspettiamo adunque e vedremo — conchiusi. III. Ma una ospite inaspettata si sedè quella sera al mio capezzale, nella cabina oscura: l’insonnia. Appena spento il lume, il pensiero della signora e del suo acerbo caso, un po’ impallidito tra i discorsi della sera, mi ritornò in mezzo alla mente, risvegliando diversi sentimenti: un principio di pietà; quel certo sgomento che un evento improvviso suscita in ogni anima; ed anche un vago fastidio di dovermi ripresentare a lei in atto di profeta sbugiardato dai fatti. Ma come avevo potuto fallar la mira a quel modo? Perchè non avevo subito, fin dal principio, indovinato che di mezzo c’era, doveva esserci, non poteva non esserci una donna, anche se la signora, per inesperienza e amor proprio e bisogno di illudersi, mi assicurava di no? Perchè del vero, che pure avevo intravisto sotto il primo baleno dell’intuizione, mi ero poi così facilmente ricreduto, cedendo al suo primo diniego? Ma tra questi pensieri nacque un dubbio: che la signora non fosse stata sincera nelle sue confidenze; e da questo dubbio spuntò presto un sospetto. Era da supporre che un uomo, il quale non fosse pazzo, ripudiasse una donna, dopo ventidue anni, da un giorno all’altro, solo perchè aveva gusti estetici differenti e un’altra gli piaceva di più? Altre ragioni dovevano esserci, più gravi. Cercai di scacciare questo pensiero, ma invano: e a poco a poco il sicuro giudizio che avevo fatto della signora vacillò. Era essa una vittima o una commediante? Ce ne son tante in giro per il mondo! E mi smarrii in un mare di congetture; sinchè in mezzo a queste incertezze di nuovo, come la sera in cui avevamo discusso di «Amleto» e la sera dell’equatore, mi parve di cadere a un tratto nel gran vuoto del Tutto ridotto a Nulla, ma questa volta con tristezza e sgomento. A che pensare, studiare, indagare, viaggiare? Mi illudevo di scoprire quel che avevano voluto o pensato generazioni, Stati e popoli del mondo antico; mi ero mosso a due lunghi viaggi per conoscere la immensa America; e poi, ecco, mi smarrivo a quel modo nel giudicare una donna e i suoi casi. Che cosa possiamo noi sapere? Nemmeno se la terra gira intorno al sole! Mi ritornarono nella mente i discorsi dei giorni precedenti: pensai con invidia agli uomini d’azione — esploratori, guerrieri, banchieri — e allo stesso Alverighi.... Poi, a un tratto, mi ribellai! Due settimane di ozio «senza rimorsi» mi avevano troppo illanguidito: incominciai ad almanaccar argomenti per dimostrare che il sole sta e la terra gira; in questa meditazione mi infervorai: la beata ottusità in cui avevo vegetato fin allora, testimone passivo e se non muto fioco, di tanti discorsi, dileguò: per un momento mi parve di dominare, con la mente, l’universo aperto ai miei sguardi.... Tra questi pensieri mi accorsi che il lettuccio dondolava, sentii la compagine della nave scricchiolare internamente, quasi fosse in procinto di schiantare. Moto e romori consueti, la notte: ma quella notte mi parvero ricordare a un tratto la perenne instabilità di tutte le cose: e di nuovo l’universo riprese a oscillare insieme con le incertezze dei miei pensieri. La signora Feldmann era una vittima o una commediante? La terra girava davvero intorno al sole? Non so quanto durò questa smaniosa farneticazione nel buio. Certo è che mi addormentai tardissimo, in grembo agli spazi celesti, a mezza strada tra il sole e la terra. E la mattina seguente, svegliandomi, ripensai alla signora Feldmann con un po’ di disagio, non scevro di diffidenza! Certo in tutta quella oscura faccenda si nascondeva qualche mistero non bello! E l’idea che potevo incontrarla mi infastidì. Ma appena uscito dalla cabina afferrai al volo, sul ponte, alcune frasi barattate tra la bella genovese e la moglie del dottore di San Paolo. — Questa è una vendetta del marito — diceva la bella genovese. — Lei gli ha fatto un torto, lui ha fatto le viste di non accorgersene; ma alla prima occasione.... Ma la moglie del dottore pareva dubitarne. — Mi pare una signora seria, per bene.... L’altra tentennò il capo e sorridendo maliziosamente: — Ci metterebbe lei una mano sul fuoco? Io no. Vuol che suo marito la pianti da un giorno all’altro, per sposare la sua governante, se lei non gliene avesse dato un motivo serio? Sposa la sua governante per farle dispetto, scommetterei! — Ma le pare — rispondeva la moglie del dottore — una bella azione, questa? — Eh, gli uomini, lo sa anche lei.... — replicò la genovese. — Sono fatti così. Certi torti non li perdonano.... Guai a chi ci casca. A ogni modo — aggiunse con un nuovo sorrisetto non esente di compiacenza — non farà più il bagno nell’acqua profumata da cinquecento lire. — Poveretta! — sospirò invece più cristianamente l’altra. — Ecco una, che va per le spiccie, — pensai. — Le donne sono proprio maligne fino alla crudeltà, fra di loro. E protestai dentro di me contro questa accusa così precisa, enumerandomi tutte le ragioni che mi sembravano buone a sbugiardarla: eppure, eppure.... Sentivo che anch’io, quasi mal mio grado, non volendo, incominciavo a sospettar male. In certe cose, non si sa mai.... Durante la mattina, non vidi nè l’ammiraglio, nè il Rosetti, nè l’Alverighi: il Cavalcanti invece sì, e parlammo prima del discorso di Apollo. Io gli raccontai che la notte m’ero sforzato di inchiodare di nuovo il sole al centro del sistema solare: ragionammo a lungo della scienza moderna, che sta volatilizzandosi nel pensiero stesso degli scienziati, della voga che ha ripigliata la filosofia critica; e il Cavalcanti la spiegò, dicendo che la scienza doveva essere, come l’arte, una delle tante vie che conducono l’uomo attraverso le foreste del mondo verso la Vita; ma che le fitte liane degl’interessi, come succede tanto spesso nelle foreste del Brasile, l’aveva intercettata. Non potei a meno di parlargli anche della signora e di raccontare quel che la bella genovese aveva supposto. Sorrise; si strinse nelle spalle; e: — Perchè no? — disse. Anche il Cavalcanti dunque non era alieno dal sospettare! A colazione comparvero il Rosetti e l’ammiraglio: ma nè alcuno chiese a questi, nè egli ci diede notizie della signora, quasi che tutti fossero stati presi da un subito scrupolo di toccare l’argomento. E questo silenzio — non so perchè — mi disanimò ancor più dal credere senza riserve nella sua innocenza. Io tentai di indurre il Rosetti ad aprire subito i riposti segreti della sapienza apollinea: ma il Rosetti si schermì, rimandò le chiose alla sera, dopo il pranzo; perchè nel pomeriggio doveva scrivere le sue note di viaggio. Si ragionò dunque di altre cose: del signor Yriondo, per esempio, che ormai era entrato in convalescenza. La scienza cristiana vinceva! Terminata la colazione, dopo aver letto sulla carta che a mezzodì eravamo giunti a 31 gradi e 12 minuti di latitudine, a 11 gradi e 12 minuti di longitudine, trassi in disparte l’ammiraglio prima che ci disperdessimo per la siesta, e gli chiesi notizie della signora. Aveva passata una notte torbida; nella mattina lo aveva fatto chiamare; e tra pianti e sospiri gli aveva detto e ripetuto che non poteva ancora capacitarsi; che tra lei e suo marito non c’era mai stato nessun sospetto o serio litigio: che miss Robbins era sempre stata la più buona, leale, sincera tra le donne; che essa credeva di sognare, non capiva, si chiedeva se il mondo non si era da un giorno all’altro rovesciato.... — Rovesciare e rovesciabile sono le parole che avremo adoperate di più, in questo viaggio — pensai tra di me. E con quanta maggior discrezione seppi usare, gli chiesi se la signora gli pareva sincera. Non rispose chiaro nè sì nè no: gli dissi allora che insomma una ragione doveva esserci ad un così strano divorzio; forse egli, avendo conosciuto il marito, poteva indovinarla. Mi guardò, sorrise; e: — Non posso credere che il Feldmann sia matto, — rispose, girando di largo. — Un uomo.... che ha fatta una così grande fortuna! Esitò alquanto; poi, a poco a poco, si aprì e alla fine mi raccontò che il Feldmann accusava la moglie di essere una donna insopportabile, testarda, puntigliosa, dispettosa. «A voi che la vedete — ripeteva spesso — tutta fronzoli e sorrisi, in un salotto, sembra un angelo. Ma dovreste viverci insieme!» Si lagnava che fosse gelosa e sospettosa: che lo spiasse senza ragione, gli aprisse le lettere, ne facesse sorvegliare ogni passo e scritto e parola. — E questa è davvero bizzarra, — soggiunse: — perchè anche poco fa la signora mi ripeteva per la millesima volta che lei non ha mai sospettato di nulla. Chi ci si raccapezza è bravo.... Gli chiesi allora se il marito, a suo credere, potesse rimproverare alla moglie qualche infedeltà. Ma su questo punto fu reciso: — No, no. In questo, la signora è stata sempre al di sopra di ogni sospetto. Non ho mai udito nè il marito nè altri esprimere il più leggero dubbio.... E poi, direi quasi che si sente, avvicinandola, che è una donna virtuosa. I rimproveri del marito erano di altro ordine.... E, dopo una nuova esitanza e dopo avermi raccomandata la discrezione: — Vuol che le racconti la più strana? — disse. — Un giorno mi confidò che sospettava sua moglie.... di volerlo avvelenare! — Avvelenare! — esclamai — Questa poi! E mi raccontò che gli aveva detto di essersi sentito più volte dei misteriosi malesseri, che sua moglie a più riprese si era stranamente ostinata a voler preparare con le sue mani il thè e il caffè.... Ci lasciammo per la siesta. Durante tutto il pomeriggio meditai queste confidenze; perchè anche questa volta, dopo averle scacciate con un movimento istintivo d’incredulità, queste strane accuse mi ritornarono nella mente ostinate, empiendomi di nuovo incertezze e di dubbi. Può un uomo che non sia pazzo inventare simili cose, senza nessun appiglio di vero? E sentivo crescere in me il disagio, la diffidenza e l’avversione. — Certo il marito avrà esagerato, — pensavo quasi a mio dispetto: — ma se lei si è tirata addosso una disgrazia di quel genere, devo avere anch’essa i suoi difetti. Anche se non l’ha tradito.... A una donna davvero virtuosa, buona, gentile simili cose non capitano! Anche il discorso sulle perle false, da me ripetuto la sera prima a tavola, aveva fatto il giro del vapore; e intorno a quello udii il gioielliere dire alla bella genovese e alla moglie del dottore di San Paolo cose alquanto inaspettate. — Non mi meraviglio, non mi meraviglio! — diceva — L’avevo sospettato, per quanto a distanza, senza pigliarle in mano, sia difficile giudicare se delle perle sono vere o false.... Ma un paio di volte mi ha pregato di mostrarle se avevo qualche bell’oggetto con me.... Di solito in viaggio non mi occupo di affari: ma per farle piacere, questa volta.... Ho però visto subito che non si combinava nulla: non se ne intende, di gioie e di gemme! — Io del resto — rispose la genovese — non ho mai creduto che fosse così ricca come dicevano.... In fin dei conti, viaggia con una cameriera, e ha qualche bell’abito, non è vero? Ci vogliono poi tanti milioni, per questo? — Ma e il regalo ce lo farà ancora? — disse, metà scherzando, metà sul serio, la moglie del dottore. Il vento contrario pigliava forza e il prestigio della signora pericolava. La giornata torbida, grigia, piovosa terminò presto; l’autunno scorciava i giorni; pranzammo quetamente — assente la signora, per fortuna, chè l’idea di rivederla mi infastidiva sempre di più — e scherzammo un po’ sull’imminente discorso di Apollo: a udire il quale il Rosetti ci trasse, dopo il pranzo, nel _fumoir_ dalle rosse pareti a fiorami d’oro, perchè fuori la notte era già troppo fresca. Ci sedemmo intorno a un tavolo; l’Alverighi offrì dello Champagne; e il Rosetti, acceso un sigaro, finalmente parlò. — Apollo dunque intendeva di dire.... — Fece una pausa, come chi titubasse innanzi ad un inciampo: poi facendo con il discorso un balzo, e volgendosi all’Alverighi: — Siamo dunque d’accordo, avvocato, — disse. — La macchina ha privato i re, i principi, i miliardari che hanno preso il posto dei re, di quel piccolo numero di cose eccellenti e bellissime, o reputate tali, che la mano dell’uomo fabbricava una volta, e ha profuso nel mondo oggetti di qualità meno rara e difficile. Ha fatto insomma trionfare la quantità a scapito della qualità: come è legge eterna, del resto: perchè io posso voler fabbricare in un certo tempo cose di una certa qualità, vale a dire simiglianti a un certo modello di perfezione che ho innanzi agli occhi o nella mente: ma allora non posso più fabbricarne la quantità che mi talenta: debbo star contento di quella quantità di cui potrò venire a capo, lavorando con il massimo ardore. Posso dire invece: voglio tante cose di tal qualità. Ma allora non posso più prescrivere a capriccio il tempo necessario a finirle. Oppure: voglio, in tanto tempo, tanta quantità: sta bene, ma mi toccherà allora di accontentarmi del possibile rispetto alla qualità. Cosicchè chi vuole accrescere la quantità e scorciare il tempo, gli occorre rimetterci sulla qualità. E questo è proprio quello che la macchina ha fatto, come lei disse ieri: e ha fatto bene a farlo, — aggiunse poi. — Pianga pure la signora Feldmann di non poter comperare le sognate meraviglie con i suoi cento milioni: infiniti altri godono del suo pianto. Senonchè se le macchine che noi mettiamo in opera oggi hanno vinte le antiche arti manuali, e questo è bene, meglio sarà se saranno vinte alla loro volta, come del resto già accade, da macchine due, tre, cinque volte più veloci; che fabbricheranno cose più scadenti ma in maggiore abbondanza e in un tempo minore. Perchè la macchina, dopo aver vinto, non dovrebbe stravincere? Per qual ragione il progresso dovrebbe sostare a mezzo corso? Ed ecco la ragione per cui Apollo ammonì gli Dei dell’Olimpo a non consentire a Vulcano e a Prometeo quella tal condizione, che sapete. Perchè o la civiltà nostra riuscirà a trattenere la furia delle macchine; o quel che oggi si suole chiamare il progresso opprimerà il mondo sotto una abbondanza sempre più grande di cose maggiormente scadenti, sinchè ci saranno ruote e ordigni resistenti all’esercizio a cui sono destinati; corpi e spiriti che non pieghino al gravame dei più grossolani piaceri. La macchina annullerà insomma tutte le differenze e le qualità delle cose, come vuol fare, per forza di meditazione, la filosofia vedantista; e allora non solamente i disgraziati che, come i Feldmann, possederanno cento milioni, ma i milionari prima e poi, via via, anche gli agiati, non potranno più tradurre la quantità in qualità, e la ricchezza diventerà inutile a tutti, a mano a mano che ne crescerà la somma totale. In altre parole: una civiltà la quale non si sforzi che di accrescere la quantità deve terminare in un’orgia immane ed irosa: perchè togliete al popolo ogni amore e ammirazione della bellezza, della gloria e della virtù, ogni aspirazione a migliorare sè e le cose del mondo: ed eccovi la moltitudine moderna: che non vuol che quantità, la casa più larga, l’acqua, il pane, il vino, la luce, il salario più abbondante, il treno più rapido.... Quantità, quantità, quantità: e quindi malcontenti tutti alla fine: i pochi ricchi, perchè questi esauriscono presto la quantità e al di là di questa non possono più tradurre la quantità in qualità; la moltitudine povera, perchè i più sono troppi.... Fatene quanto più potete comoda e agiata la condizione, non potrà mai toccare a tutti tutto quello che ognuno può desiderare. Questo rapido e inaspettato discorso ci colse tutti alla sprovvista. Tacemmo tutti per un momento, mentre il Rosetti ci guardava come aspettando le nostre obiezioni: poi, quando si accorse che nessuno rispondeva, si volse alla Gina: — Signora, — dicendo, — lei ci ha fatto l’altro giorno un bellissimo discorso contro le macchine. Lei ha accusata la macchina di far l’uomo insaziabile, di creare la carestia permanente, di sperperare le ricchezze naturali che non si rinnovano. Alludeva, suppongo, alla fecondità della terra, alle foreste, alle miniere; sopratutto al calore latente, all’energia potenziale, accumulata nelle miniere di carbone, nei pozzi di petrolio e nelle cascate d’acqua; che è poi il primo principio di quasi tutto il gran subbuglio e frastuono e andirivieni e giramento in cui, sotto nome di progresso, vive oggi il mondo e se la gode, a quanto pare. Ma se noi fossimo assediati in una città e avessimo grano per tre mesi, proporrebbe lei, signora, di non distribuirne più nemmeno un sacco perchè, se no, dopo tre mesi non ce ne sarebbe più: di morir tutti, subito, di fame, per non morire, eventualmente, di qui a tre mesi? Lei ha ragione, signora, di dire che la macchina fa insaziabile l’uomo, ma non già perchè noi consumiamo molto più dei nostri vecchi; per un’altra ragione invece, che a me pare, come direi?, più intrinseca e che è poi, almeno secondo me, il vizio occulto e mortale della civiltà moderna: perchè avvilendo e avvilendo ancora la qualità delle cose per accrescerne la quantità, essa toglie al desiderio il suo freno naturale, alla quantità la sola misura intrinseca: che è appunto la qualità. La misura è la sintesi della qualità e della quantità, ha detto, se ben ricordo, Hegel. Farsi beffe della smania che in tutti c’è, ricchi e poveri, di tradurre la quantità in qualità, è facile. Ma è giusto? Lo Champagne — e accennò le due bottiglie che erano sul tavolo — è un rito sacro della ospitalità americana. Perchè lei, e perchè il signor Vazquez ce ne han fatto bevere tanto? Perchè tutti gli Argentini si sentono in dovere di offrirne una «copa», quando vogliono usare cortesia ad un amico o ad un ospite? Perchè lo Champagne è considerato come il nettare, l’ambrosia, l’idromele dei tempi nostri.... Sarà una illusione, ammettiamolo pure: ma supponga che i vini fossero una repubblica di eguali, senza plebe e nobiltà.... Allora la cortesia, non potendo offrirne del migliore, ne offrirebbe di più.... Lei avrebbe fatto portar qui, come usano i barbari, una grossa botte di vino. Noi ci saremmo ubriacati.... E avremmo noi forse goduto di più? In questo piccolo esempio lei vede in iscorcio quale è l’ufficio delle qualità o dei valori nel mondo, per parlare come i filosofi moderni. A lei, avvocato, pare che la storia abbia messo il carro avanti ai buoi, perchè prima di scoprire l’America e di avere, nonchè conquistato, neppur conosciuto il mondo, gli uomini si sono tanto sforzati di creare arti, filosofie, religioni, diritti. Ma per qual ragione crede lei che le grandi civiltà del passato — sino alla Rivoluzione Francese — abbiano considerato l’incremento delle ricchezze o come cosa pericolosa o come cosa di seconda importanza, da lasciarne il pensiero alla gente oscura ed ignobile, come fanno del resto i Mussulmani anche ora? Gli uomini erano forse tutti pazzi o stolti allora? Tutti oggi considerano l’arte come un lusso, distaccato e posto al disopra delle necessità della vita. Ma come si spiega allora che l’arte abbia fiorito tanto più rigogliosa di adesso in tempi e civiltà poverissime, a paragone della nostra? Io ho viaggiata la Grecia, le isole dell’Egeo, l’Asia Minore: la culla della poesia, della letteratura, della scultura, dell’architettura.... Che magrezza di terre: e non per colpa dei Turchi soltanto! Come ci vivessero, e dovendole far fruttare con strumenti così deboli, i Greci, non si riesce quasi più a imaginarlo. Ma Platone disprezzava i meccanici; e i Greci pensavano a migliorare la qualità del mondo, abbellendolo, perchè l’arte è qualità pura: lo disse anche lei, avvocato, l’altro giorno,... Erano anche essi pazzi? No: erano nel vero: sapevano che la qualità — si chiami bellezza, giustizia, bontà, gloria, santità, nobiltà, grandezza o come volete — è il sale e il condimento della vita: quel non so che, che varia il sapore delle cose, screzia l’aspetto dell’universo, risveglia ed appaga sempre nuovi desideri, fuga dal vivere il tedio e la sazietà; la forza che nella monotonia matematica della quantità introduce la varietà, che è il primo principio del progresso e della civiltà, la radice della felicità, la ragione del vivere e dell’operare, il divino e inebriante sorriso del mondo.... — E queste cose — interruppe l’Alverighi — me le dice lei, proprio lei, che da tre giorni mi fa sudare tre camicie per contrastarle che la varietà del mondo non è una illusione? E il suo vedantismo, se ne è scordato adesso? Insomma lei pensa sì o no che la varietà del mondo sia una illusione.... — È una illusione, se ciascuno ha il diritto di farsi il suo criterio del bello, di affermare che New-York è bella, solamente perchè gli piace. Questo concesso, la catastrofe del mondo a cui abbiamo assistito, non è più che questione di tempo.... — Noi tutti saremmo allora obbligati, secondo lei, a affermare — tutti in coro, ad una voce — che New-York è bella o brutta? E allora mi permetto di ripeterle quel che già le dissi la prima sera; poichè abbiamo fatto in verità un bel cammino e ci ritroviamo proprio ancora lì, al punto di partenza: in forza di qual principio? In base a quale criterio? Dove è la misura per giudicare? Ci dovrebbe essere una autorità, una legge, una forza, un qualche cosa, che mi obbligasse a dir nero, anche quando sento bianco. E noi lo stiamo cercando invano da tanti giorni, questo qualcosa; come del resto tutti i filosofi, da poi che il mondo è mondo, l’hanno cercato; e non l’hanno trovato ancora. Il Rosetti lo guardò in faccia, sorridendo fino fino. — I filosofi non l’hanno trovato — disse. — È vero. E non l’abbiamo trovato neppur noi discutendo.... E non l’hanno trovato i Feldmann litigando. Ma lo ha trovato lei, ieri sera.... — Io? — gridò l’Alverighi. — Sì, lei! — rispose il Rosetti, cercando nelle tasche i fiammiferi. L’altro tacque un momento; poi ridendo: — Sarà, — disse — poichè lo dice lei. Ma io non me ne sono accorto. Il Rosetti riaccese il sigaro, e poi: — Da dieci giorni noi andiamo dissertando intorno a quel che è bello, buono, o vero, se questa arte o quella, se questa o quella filosofia, se il progresso, la scienza, la ricchezza. Ma invano abbiamo cercato di parallelo in parallelo e di meridiano in meridiano, mutando cielo ogni giorno, l’argomento decisivo; la lama che tagliasse il nodo; il bandolo con cui sciogliere la matassa. Ogni ragionamento, o suo o nostro, era sempre rovesciabile o confutabile in qualche modo: e di sofisma in sofisma la disputa si prolungava. Quando alla fine siamo venuti nel discorso, se la ricchezza è buona o cattiva; e allora lei ha detto: ragioni quanto vuole, ma gli uomini oggi la ricchezza la vogliono: la vogliono e basta! E se ne è andato. Se invece di voltar le spalle, lei si tratteneva ancora un momento, le avrei detto che quel tale argomento decisivo, la lama e il bandolo, erano alla fine trovati: perchè lei mi aveva tappata la bocca. Che cosa avrei io potuto replicare? È possibile dimostrare che la ricchezza è vana o cattiva a un uomo ardente di cupidigia? O ad un innamorato che la sua bella è brutta? Se io ammiro profondamente la scultura greca o la musica italiana del secolo XIX o il teatro di Shakespeare, se bramo di godere e di rigodere queste opere d’arte, i critici e gli esteti potranno argomentare a loro talento: io starò fermo come torre: voglio goder quella bellezza e basta. Se sono invasato dal furore patriottico, nessuna filosofia sarà da tanto che mi cancelli dal numero degli eroi Pietro Micca. Se lo spirito di san Francesco è disceso in me, i precetti del «bushido» giapponese mi incuteranno ribrezzo. Ed eccola la soluzione di tutte le difficoltà che abbiamo così lungamente discusse: eccola, semplice e piana! Per saper quel che è bello o buono o vero, bisogna _volere_ una definizione iniziale della Bellezza, della Bontà, della Verità.... Un criterio sicuro del bello, del buono e del vero può affermarlo ed imporlo non il pensiero, bensì la volontà. La volontà è la sorgente dei valori: non la filosofia.... Tacque un momento guardandoci; poi, come leggesse nel nostro silenzio che la formola era ardua ed oscura, continuò: — Io non me ne intendo, sapete; parlo di queste cose a orecchio, come il semplice buon senso mi suggerisce. Ma io non riesco a capire come e perchè gli uomini moderni abbiano perduta di vista, correndo per il mondo, questa piana e semplice e ingenua verità: questo unico faro che nel gran mare della vita non si spegne mai, a salvezza di noi poveri naviganti.... Quando ritornai dall’America, e tanto per passare il tempo incominciai a studiare un po’ per conto mio, da principio non mi raccapezzavo: tante filosofie, tante estetiche, tante morali, tanti partiti politici, tante scuole di diritto; e tutte armate l’una contro l’altra sino ai denti, e un gran frecciare da tutte le parti terribile e vano; perchè — strano a dirsi — tutti tiravano e nessuno era mai colpito a morte! Ma che succedeva nel mondo? Chi aveva ragione e chi aveva torto? Perchè questa battaglia, piena di grida e senza morti? Per un po’ mi chiesi se il mondo, mentre io stavo in America, era ammattito o se invece ero ingrullito io, nella Pampa.... E non mi raccapezzai che il giorno in cui riuscii a capire quel che non avrei dovuto ignorare mai: che la ragione, il pensiero, la filosofia possono svolgere, ma non possono affermare ed imporre i primi principii di un’arte e di una morale, le definizioni elementari della bellezza e della virtù da cui ogni arte ed ogni morale prende le mosse. Queste definizioni la volontà sola le può porre ed imporre. Non la volontà di un singolo uomo — intendiamoci bene, però: perchè allora si ricasca in quel disordine che ci conduce difilati al vedantismo. La volontà di ogni singolo uomo, abbandonata a sè medesima, è così debole e incerta, che non riesce nemmeno ad imporre a sè stessa un criterio fermo e sicuro del buono, del bello e del vero: imaginarsi poi agli altri! La volontà dunque che pone le fondamenta di una morale, di un’arte, di una dottrina deve essere una volontà per dir così «grande»; una volontà superiore a quella di ogni singolo e che tutte le volontà singole abbracci e forzi: la volontà di una scuola, di una setta, di una chiesa, di un ordine sociale, di un popolo, di un’epoca, di più generazioni, di una civiltà, di molti secoli; e più grande è, meglio è: emanare per una particella infinitesima dallo spirito di ognuno; ma raccogliersi in alto e di là ridiscendere sul capo di tutti, come la pioggia che cade sulla terra a torrenti a guisa di dono del cielo, è salita, invisibile evaporazione, a goccia a goccia, dai pori della terra.... E tacque di nuova. Noi pure tacemmo un po’ perplessi, sinchè io parlai — credo — a nome di tutti, dicendo che il suo pensiero era oscuro e pregandolo di dirci come la volontà potesse porre questi primi principii del bello, del vero e del buono. — Limitandosi — rispose immediatamente e laconicamente, senza esitare. Poi tacque di nuovo. — Limitandosi? — chiese il Cavalcanti, aggrottando la fronte. — Non capisco.... Che intende? Il Rosetti pensò un momento come cercasse la risposta più semplice e chiara; poi: — Consideriamo — disse — l’arte, poichè di questa abbiamo ragionato più spesso. Quella sera in cui discutevamo di «Amleto», lei disse, signor Cavalcanti, che l’arte è una cosa infinita. Ha ragione. Già lo dissi a lei, avvocato, l’altra sera, l’uomo può trovare un principio di bellezza in tutti gli opposti, nell’ordine e nel disordine, nel semplice e nel fastoso, nel classico e nel rococò, nel sole e nella nebbia, nella luce e nella tenebra, nella leggerezza e nel peso, nella rosa e nell’orchidea, nel Partenone e in un ghetto cadente, in Parigi ed in New-York, nella retta e nella curva, nella violenza e nella dolcezza, nella grazia del fanciullo e nel terrore di una catastrofe.... Può trovarlo, l’uomo, un principio di bellezza in tutte queste cose: ma non è obbligato a cercarlo in una piuttosto che in un’altra. E allora che cosa succederà se ogni artista nel creare, e ogni amatore nel giudicare, sceglierà quel principio che più gli garba, liberamente, seguendo la sua inclinazione, il suo estro o capriccio, come lei vuole, Alverighi? Il mondo diventerà una Torre di Babele, quale il «Cordova» è stato in questi giorni: Caio giudicherà bello quel che a Tizio sembrerà brutto e viceversa, perchè ciascuno muoverà da una prima definizione del bello differente; e se Tizio e Caio dovranno vivere insieme, per forza litigheranno sempre senza intendersi mai, come i signori Feldmann hanno fatto.... Perchè, per esempio, noi abbiamo tanto e così inutilmente discusso, senza intenderci, intorno ad «Amleto», a Rodin e ad altri artisti? Perchè nel ragionamento di ognuno di noi era sottintesa una diversa definizione del bello. Ognuno di noi _voleva_ una cosa diversa. Dunque per non esser costretti a litigar sempre senza intendersi mai e a far divorzio, come i Feldmann, occorre limitarsi insieme. Insieme, ho detto. Che cosa è una scuola d’arte? Un genere letterario? Lo stile di un’epoca? È una delle infinite forme della bellezza, isolata dalla volontà di una scuola, di una generazione, di una città, di un popolo, di una civiltà: posta come principio e modello e criterio unico della bellezza universale e attuata con uno sforzo perseverante. Insomma che una generazione, che una città, che un popolo, che una scuola affermino che il bello è o la semplicità, la proporzione, la snellezza, la grazia, la linea retta; oppure il fastoso, il manierato, il massiccio, il gigantesco, la linea curva: dicano: è bello, lo voglio e basta, con quanta forza ci vuole per far tacere i critici e i sofisti contrari; e allora avranno un criterio del bello, limitato sì ma sicuro, e da quello potranno dedurre, con il ragionamento, delle regole d’arte precise e certe, almeno per quanti abbiano riconosciuto il principio; regole acconcie così all’artista che si accinge a creare come al pubblico che deve giudicarlo: potranno educare il gusto del pubblico ed ottener che pubblico e artista si intendano.... Ma il Cavalcanti a questo punto interruppe improvvisamente e con un impeto insolito in lui: — Ma allora lei vuole ridar vita, essere, corpo ai generi letterari, alle scuole artistiche, alla precettistica convenzionale delle varie arti, che i nostri vecchi dovettero studiare e subire. — E perchè no? — chiese sorridendo il Rosetti. — Perchè? Ma perchè la bellezza è una cosa infinita, come lei stesso riconosceva. Perchè la bellezza ha infinite forme ed espressioni, quindi regole e leggi senza numero, che non si possono nè formulare nè insegnare nè codificare; o si sentono o non esistono. Queste limitazioni e i principii che ne nascono e le regole che si possono cavare da questi principii sono tutte arbitrarie.... — Naturalmente — rispose il Rosetti. — Ogni arte deve sempre svolgere con logica rigorosa i principii da cui muove; ma questi principii non sono e non possono essere mai necessari. Se no, come si spiegherebbe che tutte le scuole d’arte e tutti i generi letterari fioriscono un po’ e muoiono tutti, prima o poi? Se una scuola o un genere posasse sopra principii assolutamente necessari, sarebbe eterna, imperitura, immortale. — Ma se la scelta è arbitraria, — ribattè il Cavalcanti, — perchè dovremmo noi farla? perchè dovremmo affermare che è il bello, quel che del bello è solo una forma? Perchè dovremmo formulare delle regole e leggi là dove deve imperare libera l’ispirazione? Ogni regola d’arte è per sua natura convenzionale.... — Naturalmente, — rispose di nuovo il Rosetti. — Ma come? Ma come? Lei dice naturalmente? Ma chi dice convenzionale dice l’opposto del bello, la morte dell’arte. Il bello è la verità, è la sincerità, è la libertà.... È la più comoda e fiorita delle vie per cui l’uomo cammina verso la Vita! L’interesse — ora lo capisco finalmente e sciolgo il nodo che mi aveva così a lungo infastidito — è ciò che spinge una scuola, una epoca, un popolo, la «volontà grande», come lei dice, a isolare tra i molti che si offrono un principio di bellezza, a limitarlo; cioè a proclamarlo il primo, anzi l’unico. Agli architetti del barocco faceva comodo che i contemporanei giudicassero bello solo lo stile loro, come ogni popolo ama credere che la sua letteratura è la prima del mondo.... Gli interessi sono come le liane delle foreste del Brasile, che attorcigliano il Tronco della Vita e tentano di strozzarlo! — E quindi — interruppe l’Alverighi — ho ragione io di dire che la macchina e l’America rendono un gran servigio al mondo, purificando l’arte dagli interessi che l’inquinavano. — Senza dubbio — riprese il Cavalcanti. — E quindi mi par chiaro, appunto perchè la bellezza è infinita, che noi dobbiamo non già limitarci; ma proprio all’opposto, cercare di scappar fuori dalle limitazioni entro cui gli interessi cercano di chiuderci; quindi dalle regole arbitrarie delle scuole, dai pregiudizi convenzionali delle chiesuole, dalle voghe effimere dei tempi.... — Libertà quindi! — rincalzò l’Alverighi. — Sono contento, signor Cavalcanti, di averla persuasa. — Ma certamente! — rispose il Cavalcanti. — L’arte è una specie di unica lingua, eterna e universale, che ciascun popolo e tempo scrive con i suoi caratteri. Da paese a paese, di mezzo in mezzo secolo, mutano quelli che Sainte-Beuve chiamava «les modes de sensibilité»: le voglie, i gusti, le forme, l’alfabeto insomma con cui gli artisti trascrivono la bellezza; ma l’arte è unica, come la bellezza: e quindi tutti cercano e tutti trovano in siti diversi lo stesso tesoro; e quindi non ci sono più arti, molte scuole, differenti stili, ma un’arte sola, una sola scuola, un unico stile dal Giappone alla Francia, dai tempi antichi ad oggi, chi sappia intenderli; e perciò noi dobbiamo cercare di capire tutte le arti, tutte le scuole, spogliandole ad una ad una delle differenze apparenti di cui i tempi ed i luoghi e gli interessi le vestono: levandoci quanto è possibile al di sopra del tempo e dello spazio, per intendere la lingua comune dell’umanità, la eterna e assoluta bellezza! Si ricorda quel che dissi, quando discutevamo di «Amleto»? Mi dispiace di dovermi ripetere e gliene chiedo scusa: ma questo mi pare il solo vanto di cui gli Americani possono gloriarsi a petto degli Europei, in arte.... Noi non siamo esclusivi come gli Europei, noi cerchiamo di aver nervi per tutte le arti, di capire e di ammirare tutto.... Mi vien quasi voglia di gridare «terra terra», come Colombo, o «thalatta, thalatta», come i Greci di Senofonte. Non avendo null’altro da fare, noi ci siamo messi a discutere a casaccio, intorno al bello. Ciascuno di noi ci aveva, sì o no, pensato qualche volta, in un momento di distrazione. E ciascuno ha detto quel che gli passava per il capo, lì per lì.... Ne abbiamo dette delle grosse, quindi! Che le nostre ammirazioni estetiche erano tutte interessate.... Che la macchina purificava l’arte dagli interessi e dava all’uomo la libertà del gusto! Pareva non ci fosse modo di intendersi: quando ecco, lei pronuncia, ingegnere, una parola, una parola sola: «limitandosi»; e attraverso questa parola brilla sui nostri paradossi il raggio della verità, che ci mette tutti d’accordo. Sì: l’uomo cerca la bellezza infinita: perchè nella breve ora che gli è concessa egli aspira a vivere la maggior somma di Vita che può. Ci aspira, anche a costo di litigar di continuo: non siamo forse al mondo per litigare? Ma gli interessi lo trattengono alle forme momentanee e caduche in cui ogni artista si esprime, come queste fossero la bellezza totale e assoluta. E quindi egli si divincola; tenta di rompere e di tagliare intorno al tronco dell’arte le attorciglianti liane degli interessi; rovescia i limiti che impediscono allo spirito di soffiar libero come il vento sull’Oceano; cerca la libertà, che è il cammino più sgombro e spedito alla meta ultima del suo lungo viaggio: la Vita! Queste cose furon dette con eloquenza: piacquero a me come a tutti, ma non sorpresero me, che subito ci riconobbi quella singolare mischianza di filosofia tedesca un po’ brumosa, di misticismo orientale, e di latino amore del bello, del lucido e del preciso, che empiva la mente del mio amico. E quando il Cavalcanti ebbe finito ci volgemmo tutti verso il Rosetti, come invitandolo a rispondere. E lentamente, dopo un istante, il Rosetti rispose: — Forse ha ragione — dicendo. — Ma vorrei saper da tutti voi una cosa.... Mi sapreste dire se Omero ha esistito o no? IV. Se Omero era esistito! Ma per quale ragione quella ombra veneranda ed antica compariva a quel modo, di sorpresa, su quel vapore che navigava nella notte l’Oceano, a domandarci conto dei dotti dubbi di un secolo sofistico proprio lì, in quella stanzetta fumosa di tabacco, tra il tavolo a cui i mercanti astigiani e il dottore di San Paolo giuocavano a tarocchi, bisticciandosi ogni tanto; e il tavolo in cui il Vazquez, silenzioso e raccolto, teneva banco di macao con diversi passeggeri? Quale insidia preparava il Rosetti all’avversario? E nessuno, naturalmente, rispose. Il Rosetti guardò per un momento in faccia il nostro silenzio: poi chiese se alcuno di noi avesse letto il libro di Michele Bréal «Pour mieux connaître Homère». Nessuno l’aveva letto. E allora ci disse come il Bréal affermi in quel libro che Omero favoleggia di un mondo eroico, cavalleresco e avventuroso di convenzione, come l’Ariosto o, se volevamo un esempio più recente, come il Cyrano de Bergerac: che gli Eroi e gli Dei omerici sono personaggi di maniera o tipi letterari, alla pari dei paladini del Bojardo e dell’Ariosto o come i pastori di Teocrito e di Virgilio; che il secolo che compose i due poemi possedeva già una civiltà raffinata ed una cultura antica, se prendeva diletto di storie composte con artificio così squisito, come il Cinquecento si dilettava del Bojardo e dell’Ariosto. — Tuttavia — obiettai io a questo punto — il mondo che Omero descrive è rude, selvaggio, primitivo. Non conosce la scrittura; il ferro è raro.... — Ma per quanto io mi ricordo, — rispose il Rosetti — nemmeno l’Ariosto parla mai della moneta. I suoi paladini corrono per il mondo, senza un soldo in saccoccia. Conchiuderesti tu per caso, che ai tempi dell’Ariosto la moneta non esisteva in Italia? Ti serviresti tu, storico, del «Furioso» come di documento, per descrivere le condizioni dell’Italia al principio del Cinquecento? L’«Iliade» e l’«Odissea», come il «Furioso», ci trasportano nel gran paese delle fiabe.... — Ma come e da chi e stato allora creato questo mondo imaginario? — insistei io. — Io non me ne intendo, sai — rispose. — Ragiono così, con il buon senso.... Ma al lume del buon senso direi che dovrebbe esser stato creato da letterati e poeti.... Poichè è un mondo letterario e poetico.... Non ti pare? Come i nostri poemi cavallereschi. Insomma dei poeti raccattarono nella via le rozze canzoni popolari, che tramandavano forse, sfigurato, il ricordo di antichi avvenimenti, come nel Medio Evo le canzoni del ciclo carolingio: le trasportarono nelle case dei ricchi mercanti greci dell’Egeo e dell’Asia Minore, che anche quelli smaniavano di tradurre la quantità in qualità: e così a poco a poco da un poeta all’altro si formò il «genere» o la «maniera», ed una scuola o corporazione di poeti che ne conservavano e tramandavano le regole, i tipi e perfino la lingua convenzionale. Perchè io non me ne intendo: ma a me pare che il Bréal abbia ragione: il cosidetto dialetto omerico non fu mai parlato; era una lingua convenzionale, letteraria, forse in parte arcaica, come quella dei trovatori, fabbricata apposta dai poeti per far parlare degnamente gli Dei e gli Eroi. Che Dei e che Eroi sarebbero stati, se avessero parlato come noi parliamo in questo _fumoir_? Si formò dunque il genere; e ad un certo momento un atto della «volontà grande», che aveva preso corpo in una scuola, lo impose a tutti — pubblico e poeti — come un modello. Sinchè di poeta in poeta un bel giorno apparve un genio; e si chiamò proprio — chi lo crederebbe? — Omero; e guarda che curiosa combinazione!, nacque, visse, morì, scrisse i suoi libri proprio come tutti gli altri autori, con la penna, l’inchiostro e la carta, cominciando dal primo verso e facendo punto all’ultimo; ma infondendo in quel genere convenzionale una vita portentosa. Perchè il convenzionale non è per necessità, sempre falso, vuoto, morto, come molti pensano e anche lei, Cavalcanti, diceva poco fa. No: è una linea interna isolata a far contorno. Limita, non soffoca; e quindi può essere verissimo e vivissimo! Ne volete un esempio più chiaro? Lei, avvocato, l’altra sera rovesciò a proposito della scultura greca il giudizio corrente. Questo dice che la scultura greca sarebbe un’arte ideale; lei disse che è un’arte sensuale. Io direi che non è nè ideale nè sensuale: è convenzionale. Delle forme del corpo che siano belle, ce n’è un numero stragrande, grazie al cielo: i Greci ne scelsero alcune per raffigurare gli Dei dell’Olimpo; si limitarono quindi, ma scegliendo nel vivo, tanto è vero che è facile anche oggi rintracciare nella strada, vivi e ambulanti e vestiti di panno, gli esemplari sui quali sono state imaginate le Veneri, le Giunoni, gli Apolli e via dicendo.... Non ammiriamo ogni momento le forme giunoniche di una donna, o il tipo apollineo di un uomo? Un atto della «volontà grande» impose poi ai Greci di scolpire e e riscolpire sempre quei tipi, quasi direi depurandoli e concentrandoli. Quei tipi dunque sono convenzionali, sì, ma vivi; anzi più vivi degli esemplari ambulanti che possiamo incontrare, almeno sotto lo scalpello dei grandi scultori. Del resto se c’è qualcuno che dubiti che il genio di Omero fu il frutto maturo di una matura civiltà, ebbene: legga i poemi Indiani, Firdusi, i Nibelunghi, la Chanson de Roland; e poi paragoni.... Questa interessante digressione ci aveva sviati dal primo oggetto. Io rammaricavo dentro di me che queste considerazioni fossero fatte da un dilettante e non da uno scienziato, perchè se no non sarebbero state scevre di buon senso. L’Alverighi ascoltava senza aprir bocca ma con manifesto interessamento, come gli piacesse volgere un istante il capo dal fondo della Pampa ove si era smarrito, agli studi degli anni lontani. Il Cavalcanti approvò: disse che a quella luce il mistero dei due solitari poemi si chiariva mirabilmente; e dichiarò Omero il primo maestro dell’arte del comporre: arte che i Greci hanno insegnata ai Latini, i Latini quasi soltanto agli Italiani e ai Francesi; perchè i Tedeschi e gli Anglosassoni sono in quella ancora novizi. Ma quando il Cavalcanti ebbe finito di dar corso al suo entusiasmo: — Dunque — disse all’improvviso il Rosetti — l’«Iliade» e l’«Odissea» sono il primo grande monumento letterario della nostra civiltà. Ma come spiega lei allora che davanti a questo monumento gli uomini siano stati colpiti da una specie di subita cecità? Questa opera, sulla quale anche i miopi possono vedere, tanto è largo e profondo, il marchio del genio, di un genio potente, che ha vivificata una «maniera» antica: come mai si è potuto credere che questa opera non avesse nessun autore, fosse nata senza padre, misteriosamente, da sè, sulle labbra del volgo? Se degli archeologi affermassero che la Venere di Milo non è stata scolpita da nessuno, ma che l’ha fatta l’anima popolare accozzando insieme frammenti di differenti statue; e pretendessero di farla a pezzi per ritrovare questi rottami, non li chiuderemmo in un manicomio? Eppure non hanno forse tentata la stessa operazione sui poemi omerici i valentuomini che hanno osato lacerare e sfilacciare questa meravigliosa tela, tessuta dal genio, per ritrovare i brandelli sdruciti della misteriosa «Ur-Ilias»? Cose da pazzi, come dice il nostro dottore. Ma questi pazzi non sono stati messi nel manicomio: anzi sono stati stipendiati dagli Stati, incaricati di insegnare nelle Università, coronati ed accolti dalle Accademie, venerati dal pubblico come pozzi di dottrina.... E passino ancora i popoli che non hanno imparata, come dice lei, l’arte del comporre! Ma l’Italia, come me lo spiega lei? L’Italia che aveva raccolta la grande tradizione di questa sublime «maniera»; dove son nati Virgilio e Ludovico Ariosto? Che l’Italia abbia salariati dei filologi per insegnare nelle pubbliche scuole queste pazzie? Ma l’Italia, forse, per caso, da mezzo secolo in qua, è stata di nuovo dominata dai barbari? Ridemmo tutti e il Rosetti con noi: bevve un sorso di Champagne, riaccese il sigaro e continuò: — Dunque, dell’«Iliade» e dell’«Odissea» noi non possiamo affermare categoricamente nulla: se son favole o storie vere; rabberciamenti o capolavori; prime furie di una giovane barbarie o ultimo frutto di una civiltà matura; se siano stati scritti in una lingua parlata o in una lingua letteraria; e neppure — il che è più bizzarro — se siano stati o no scritti! Perchè a me pare che il Bréal abbia ragione: anzi.... Io credo addirittura che anche il radioso specchio di queste due splendide fiabe, come il poema dell’Ariosto, si increspa ogni tanto al lieve sorriso dell’ironia. I contemporanei dovevano capirle al volo, tutte le allusioni di cui sono piene! Per esempio: quelle concioni popolari che son descritte nell’«Iliade», non sarebbero per caso una satira delle _ecclesie_ delle città greche, della democrazia o per parlare alla moderna del parlamentarismo antico? Sarà una idea bislacca, la mia: ma nessuno mi cava dal capo, che Tersite è la prima caricatura del demagogo, fatto da un poeta che parteggiava per i signori: se potessi usare la parola, direi che è il socialista del tempo, maltrattato da un poeta con tanto di coda. Così almeno pare a me. Ma i sapientoni continuano, e continueranno per un pezzo a ripetere che Omero non è esistito mai e ha scritto il suo poema in un tempo in cui la scrittura non era conosciuta! E come decidere chi ha torto o chi ha ragione? Speri tu, Ferrero, che un giorno o l’altro qualche papirologo ritrovi la fede di nascita di Omero? E il litigare non serve a nulla, signor Cavalcanti, sebbene noi siamo al mondo per questo. Un argomento decisivo non c’è. Congetture sono quelle come queste, di più o meno verosimiglianza; e ciascuno può pensarla come crede.... Quindi l’«Iliade» e l’«Odissea» sono due indovinelli oscuri, che ciascuno può sciogliere a modo suo: e sì che sono state lette, ammirate, tradotte, chiosate, emendate, imparate a memoria, adorate per tante generazioni.... Come spiega lei, signor Cavalcanti, questo singolare fenomeno? Fece una pausa: il Cavalcanti non rispose, e allora: — Forse perchè — continuò il Rosetti — lo spirito può soffiar libero attraverso i poemi omerici, come il vento sul mare, ora forte ora tenue, ora da ponente ora da levante, ora a mulinello?... Lei ha detto che per capire e godere davvero un’opera d’arte necessita liberarci da quei criteri convenzionali del bello che i contemporanei devono sempre, più o meno, subire, perchè imposti da interessi potenti. Non c’è quindi poeta al mondo che noi dovremmo godere meglio e più di Omero: nelle cui pagine fosse più facile decifrare, sotto i caratteri del tempo, l’unica lingua, eterna e universale, del bello, come la chiama lei, signor Cavalcanti. Perchè l’«Iliade» e l’«Odissea», noi non sappiamo con certezza nemmeno se e quando e come furono composte: imaginarsi se potremo giudicarle con i «nervi» dei contemporanei, secondo le loro idee convenzionali del bello, ammesso pure che ne avessero! Ed ecco che, potendo giudicare e godere disinteressatamente e con pienissima libertà, avendo quindi innanzi a noi sgombro e piano quel che lei, Cavalcanti, chiama il Cammino della Vita, noi non ci raccapezziamo più: non sappiamo più nemmeno affermare con sicurezza se quei poemi che noi leggiamo stampati furono scritti. Ma allora un’opera d’arte diventerebbe forse un indovinello ambiguo dalle mille soluzioni; e non riusciremmo più a distinguere se è un capolavoro o un rabberciamento; e potremmo affermare di quella le cose più opposte e più strane, perchè ci smarriremmo nel labirinto dei ragionamenti rovesciabili, quando noi non abbiamo nessuna misura, sia pur convenzionale, ma obbligatoria e sicura per giudicarla? L’unica lingua, eterna e universale, della bellezza, che noi vogliamo decifrare, sarebbe un geroglifico inintelligibile? Considerata a questa stregua la questione omerica non sarebbe più soltanto un passatempo di eruditi disoccupati: sarebbe un fenomeno terribile di cecità mentale. Noi non comprendiamo più il primo capolavoro della nostra letteratura: e non lo comprendiamo più perchè abbiamo voluto farcene giudici senza legge alcuna, regola o criterio comune. Sarebbero dunque questi i mirabili effetti della libertà, nella quale voi vedete il principio animatore dell’arte futura: dell’arte che vuol solamente dilettare, lei, avvocato; dell’arte che aspira alla bellezza totale e assoluta, lei, signor Cavalcanti? Nella libertà non si moltiplicherebbero dunque solo i germi delle discordie, il che non sarebbe un male irreparabile, poichè se i signori Feldmann non vanno d’accordo possono fare divorzio? Perderemmo noi per caso, diventando liberi, anche il lume degli occhi, la facoltà di discernere il bello dal brutto? Sarebbe questo un male maggiore: perchè come posso godere un’opera d’arte, se non sento fortemente che è bella? L’obiezione era forte. Il Cavalcanti esitò: tentò dapprima una risposta un po’ confusa: disse poi che nei due poemi non si capiva più per l’appunto la parte convenzionale. — Ma l’episodio di Andromaca o il ritorno di Ulisse — conchiuse — no: di quelli nessuno uomo di giusto e di cultura dubiterà, che siano due raggi dell’eterna bellezza. Le convenzioni sono momentanee e caduche: ma in ogni opera d’arte c’è — ci deve essere — una favilla della bellezza assoluta, universale ed eterna: se no — lo dissi l’altro giorno e chiedo scusa di ripeterlo — come si spiegherebbe che innanzi a tante opere d’arte, impreparati, ignoranti, senza preconcetti, spinti da un bisogno prepotente, noi gridiamo che sono belle, sentiamo un brivido di piacere immediato, libero, spontaneo!... — Quindi — rispose pronto il Rosetti — abbandoniamoci a occhi chiusi alla corrente del sentimento.... Ma che cosa le rispose l’Alverighi, l’altra sera? Che il bello è un piacere senza bisogno, e perciò incerto e oscillante. Una opera piace a me e agli altri no: oggi mi piace, domani non mi piace più: spesso non so dire se mi piaccia o mi spiaccia: mi volgo allora alla ragione per chiarire il dubbio e la ragione si burla di me: ogni opera d’arte è un enigma insolubile, come l’«Iliade» e l’«Odissea». Queste sono verità parlanti. No: noi non possiamo godere un’opera d’arte, se non siamo in grado di sentire che è bella: e sentir che è bella, sentirlo davvero, sicuramente, fortemente, in permanenza, senza esitazioni, non lo possiamo, se non possediamo un modello indiscutibile a cui paragonarla. Un modello, sicuro. La definizione prima della bellezza, da cui ogni arte deve prendere le mosse; le regole che il ragionamento può cavare da quella definizione, si materiano sempre, o in un singolo modello, come furono l’«Iliade» e l’«Odissea» per Virgilio e per gli antichi quando ragionavano del poema epico: o in diversi esemplari di scuole non troppo diverse, come la pittura italiana fu per lungo tempo: ma il modello ci vuole, ed è convenzionale e limitato come la definizione del bello e le regole d’arte che esemplifica; non necessario quindi e mutabile; ma finchè c’è deve esser accettato come la misura indiscutibile. Ma che cosa ci racconta tutta la storia dell’arte se non lo sforzo e la lotta incessante per creare, imporre e rovesciar dei modelli? Molti si chiedono oggi stupefatti perchè gli scrittori romani imitarono con tanta pedanteria i greci.... Perchè tutte le letterature moderne abbiano perduti tanti secoli a ricopiare i latini, che avevano copiati i greci.... Ma per un popolo o per un’epoca che si accingono a creare una letteratura od un’arte, la difficoltà maggiore, il travaglio più aspro che spesso rende vani i più lunghi sforzi, non è il generare degli uomini di genio. Di questi la natura dovrebbe essere su per giù egualmente feconda dappertutto e in ogni tempo, almeno per quel poco che possiamo giudicare. Riuscire a creare o trovare il modello, al quale riconoscere i capolavori: ossia riuscire a sapere quel che si vuole come bello: questo sì che è difficile e qui sta la vera bravura. E il trovare un modello, bell’e pronto in parte almeno, visibile e tangibile è davvero una grande comodità. Perchè la antica Grecia è così famosa? Perchè ha creati — nella letteratura, nella scultura e nell’architettura — alcuni modelli e misure, che hanno servito a molte epoche e a molti popoli.... Frughiamo un po’ nella nostra coscienza: e non sarà difficile renderci conto che in ogni nostro giudizio d’arte è sottinteso un confronto. Quando noi diciamo che una opera d’arte è bellissima, o bella, o mediocre, o scadente; e lo diciamo non per sfogliare il piacere o la noia momentanea che un’opera d’arte può averci arrecata, ma per esprimere una convinzione maturata, ferma, sicura, noi intendiamo di dire che quell’opera d’arte è più o meno bella di un’altra o di altre, che in quel momento adempiono per noi l’ufficio di modelli. E difatti come si affina il gusto delle singole persone, dei popoli, delle generazioni? Conoscendo molte opere d’arte, appartenenti alla stessa famiglia; e cioè confrontandole tra di loro. Come le opere d’arte degradano o ascendono nella opinione degli uomini? Per modelli: secondo muta cioè il modello. Prima di Giotto, c’erano dei pittori che parevano perfetti ed erano i modelli; dopo, fu modello Giotto e quelli arrozzirono; ma ai tempi di Tiziano e di Raffaello neppur Giotto era più un modello. Virgilio ci pare un po’ freddo: perchè? Perchè lo paragoniamo ad Omero. So l’«Iliade» e l’«Odissea» si fossero perdute, l’«Eneide» sarebbe giudicata perfetta. E questa infine è pure la ragione per cui mi par dubbio, signor Cavalcanti, che noi possiamo aver nervi differenti per tutte le arti, e distendere all’infinito la nostra facoltà di comprendere, così da riceverci dentro la infinita bellezza. Se noi non possiamo godere fortemente una opera d’arte senza paragonarla ad un modello, noi potremo godere e capire tante forme d’arte quanti modelli potremo conoscere e possedere con la mente. E un uomo, di sicuro, potrà, con lo studio ed il tempo, rendersi padrone di molti modelli; ma di tutti quelli che esistono e possono esistere.... Non so: mi par difficile. Insomma, per conchiudere: io non credo che lei sia nel vero, signor Cavalcanti, quando paragona le tradizioni, le regole, le convenzioni o anche gli interessi mondani che limitano il genio degli artisti e il gusto del pubblico alle liane delle sue foreste, che avvinghiano e strozzano gli alberi robusti. No: alla mente come al corpo ogni resistenza e quindi ogni limite è un appoggio ed ogni appoggio è una resistenza e quindi un limite: il pesce nuota contro corrente e l’uccello come l’areoplano volano contro vento; il vento e l’acqua si oppongono, sì, ma sostengono: l’uomo non crea il nuovo che vincendo l’attrito di una tradizione, non conquista la libertà che schiantando i legacci di una regola. Togliete di mezzo regole o tradizioni: non c’è più nè libertà nè novità: la libertà assoluta è per la mente quel che il vuoto per l’uccello: non può volare.... Tante prove se ne potrebbero citare.... La moda, per esempio.... Che cosa è la moda, se non una limitazione convenzionale? Innumerevoli foggie del vestire possono piacere a ognuno di noi: ma per sei mesi noi conveniamo di riconoscere il primato a quel piccolo numero: ci limitiamo quindi a sceglier solo fra quelle, perchè se no, disgraziati i fabbricanti e i mercanti! La moda dunque dimostra che persino in tempi pieni d’anarchia come i nostri, una regola convenzionale del bello, una legge del gusto e della scelta, sia pur mutevole due volte all’anno, è necessaria, se si vuole che un’arte possa servire il pubblico.... — Ma la moda — interruppe il Cavalcanti — è un’arte secondaria, alla quale occorrono macchine e capitali ingenti. Le grandi arti spirituali non hanno bisogno di muovere tanti interessi e tanto denaro. — È vero — rispose il Rosetti: — ma esse pure abbisognano di un certo pubblico fedele che le sostenga, con l’ammirazione e con il denaro. E questo pubblico non può sostenerle, se non accetta senza discutere i principii da cui quelle muovono.... Ma volgete gli occhi intorno: e poi ditemi se il male di cui soffrono nei nostri tempi le arti non è uno, uno solo: la mancanza di regole, principii, e limiti? Arte e pubblico non debbono più oggi fare i conti nè con la Corte, nè con l’Aristocrazia, nè con la Chiesa, nè con la Censura, nè con una critica, che pretenda di imporre regole di scuola: perfino dalle leggi del pudore e della decenza ci siamo affrancati, dopo esserci ribellati a Dio, al Re, alla sintassi, alla prosodia e al buon senso! Viva la libertà, dunque. E così il pubblico come gli artisti dovrebbero usarne, per osare i supremi ardimenti! Invece si intimidiscono a vicenda, inquieti di sentirsi in un vuoto senza appoggio. Il pubblico aspetta, pronto a piegarsi, come uno stelo al vento, se lo spirito spira: ma ahimè lo spirito non sa più decidersi a soffiare nè da oriente nè da ponente: invano il pittore, lo scultore, il musico, il decoratore, il fabbricante di mobili, il poeta, il romanziere spiano quel che il pubblico che non vuol nulla, vuole; e si chiedono smarriti: che soggetto, che stile, che genere, che scuola — in una parola, che modello — scegliere? I tempi li indicano tutti: cioè nessuno. E allora? E allora gli abili imparano l’arte di procacciarsi onori e ricchezze, gabbando il mondo. I matti e i ciarlatani cercano di intimidire il pubblico osando sfrontatamente, imponendogli come bello in nome del progresso, il nuovo, quel che non rassomiglia a nessun modello conosciuto, come se anche l’arte avesse l’obbligo di far sempre delle cose nuove e non solamente delle cose belle. Gli artisti sinceri e d’ingegno non sono rari: ma ciascuno vuole aver la sua formola d’arte, e la grida al mondo sola vera e perfetta: e non difettano mai a nessuno gli argomenti per sostenerla che paion buoni, sinchè egli solo parla e il vicino non glieli rovescia, per dimostrare che la formola vera e perfetta è l’opposta, cioè la sua. Qualche gran genio apparisce ogni tanto in questa Babele, e se riesce ad imporsi, a capirsi esso stesso e a farsi capire da un pubblico che basti a sostenerlo almeno per un certo tempo, può far cose grandi davvero, in questa libertà illimitata; ornare, libero come è, dei capolavori. Ma capolavori vaganti nel vuoto, come quegli iceberg che navigano solitari sull’Oceano, che l’acqua li sostiene e nel tempo stesso ne rode le fondamenta: e possono capovolgersi da un momento all’altro; e qualche volta sono pericolosi a chi li incontra navigando. Lei aveva ragione, avvocato, di lamentare l’orgoglio smodato degli artisti e dei letterati moderni, a confronto della modestia di un tempo: ma donde nasce questo orgoglio se non dalla solitudine senza legge in cui creano? Ogni artista e letterato omai crea l’opera sua liberamente, sulle formole che egli ha scelte, quasi senza maestro, senza modelli, senza regole; e quindi se riesce, si illude facilmente di essere un Dio che crea dal nulla un mondo ideale. Quando invece spesso ha solo raffazzonati alla meglio vecchi modelli, guastandoli! Insomma nessuna epoca ha risvegliate tante formule antiche e tentate tante formule nuove di bellezza, per riuscire a imbruttir di più questo povero nostro mondo. Poichè i tempi in cui i modelli si perdono o si confondono perchè ce ne son troppi, e con i modelli le misure fini e precise del tragico, del comico, dell’epico, del grandioso, dell’elegante, della grazia, del fasto e via dicendo; quei tempi non gustan più che il violento, il difficile, il vistoso, il massiccio, il raro, lo strano, l’enorme, lo strabiliante: i drammi che fanno venir la pelle d’oca, le farse che fanno smascellar dalle risa, la letteratura oscura e carica di erudizione, la lirica che bisogna leggere con l’enciclopedia alla mano; le decorazioni luccicanti o addirittura abbaglianti; gli edifici che sbalordiscono per la mole e per la ricchezza dei marmi. Abbiamo riso, sentendo annunziare i tempi in cui New-York sarà più bella di Parigi agli occhi di tutti. Badate, però! L’America è più ricca dell’Europa; può profondere, se vuole, maggiori tesori per costruir moli macchinose e sontuose, quale è la nuova stazione della Pensilvania Railroad a New-York! E se gli edifici di questa fatta diventassero per i nostri tempi orbi di modelli il sommo vertice della bellezza? Se gli Americani facessero nel mondo moderno quel che già fecero i Romani nell’antico: che alla fine offuscarono i monumenti dell’architettura greca con la mole, il peso e la ricchezza? Avrò torto: ma a me una bella rosa par più bella della più bella orchidea. Ma le orchidee sono strane e rare e durano a lungo, mentre le rose sono comuni e vivono poche ore: e perciò le orchidee sono più pregiate delle rose. La rarità, che è un concetto quantitativo, si insinua nel giudizio della bellezza, quindi lo inquina, e lo falsa, poichè la bellezza è qualità pura, come disse lei, l’altra sera, avvocato. Anzi io credo che il solo criterio che può servire a paragonare alla meglio tra loro le forme della bellezza sia questo. Un’arte o una scuola o uno stile son tanto più perfetti quanto più si avvicinano allo stato di qualità pura: quanto meno ricorrono, per suscitare l’ammirazione e dar piacere, ad elementi quantitativi. Ma queste sono sottigliezze; e il pubblico, oggi specialmente, ha troppe altre brighe per il capo! E quindi, poveretto, fa quel che può: ma quando non gli capita di ammirare per terremoto, a furore di popolo, per contagio frenetico, non si raccapezza in questa Babele: è diffidente e indifferente; paventa di scambiare una mistificazione per un capolavoro o un capolavoro per una mistificazione: di solito segue il romore, ma poi, per non sbagliarsi troppo, dimentica volentieri quel che ha ammirato; e quando può, cerca di trarsi d’impaccio dicendo che una opera d’arte è «interessante». Avete mai posto mente all’abuso che noi facciamo di questo aggettivo? Interessante è una parola neutra; è un piccolo rifugio a mezza strada tra il bello e il brutto; è una scappatoia comoda per una epoca che non osa e non sa più giudicare, perchè non ha più nessun «étalon de mesure», come dicono in Francia: questo è bello, questo è brutto.... Sorrisi a sentir queste parole, e interruppi il Rosetti per raccontare che la parola «interessante» era stata anche per me, in America, una comoda scappatoia, ogni qual volta ero stato richiesto di un parere su cose, che non mi sentivo in grado di giudicare conoscendole troppo poco; o che alla prima occhiata almeno non mi parevano così stupende come ai miei gentilissimi ospiti. Sempre mi ero cavato d’impaccio, dicendo che quella tal cosa era «very interesting» o «muy interesante». Ma raccontando questa storiella presi lo slancio a irrompere in un campo più vasto, verso il quale mi spingevano le meditazioni della sera precedente e la conversazione filosofica della mattina con il Cavalcanti; ed esposi una obiezione che ruminavo da qualche tempo, e con la quale ripigliavo ed amplificavo il pensiero del brasiliano. — Ingegnere, — dissi, — che le definizioni elementari del bello, da cui ogni arte prende le mosse, debbano esser poste ed imposte da un atto di volontà mi par vero. Ma non mi pare invece che noi possiamo fermarci come fa lei, all’atto di volontà, come all’ultima Thule o alle colonne d’Ercole del Pensiero umano.... Bisogna fare un passo avanti e decidere quest’altro punto: se le cose diventano belle perchè e dal momento in cui noi le vogliamo per tali; o se le vogliamo, perchè sono belle. È chiaro — mi sembra — che in questo sta il tutto; e da questo dipende se aveva ragione lei, prima, quando pezzo per pezzo ci ha demolito sotto gli occhi il mondo intero; o se ha ragione adesso che tenta di legarne insieme i rottami, con la volontà. Se le cose diventano belle solo perchè noi le vogliamo, aveva ragione lei di dire che lo spettacolo del mondo non è che la lanterna magica degli interessi; e ha ragione quel tale calzolaio di Piazza Vendôme di cui ci parlò l’Alverighi; nonchè il vedantismo. La varietà del mondo allora è una illusione: quindi spegniamo i lumi e andiamo a letto, perchè l’operare e il lottare sono vane cose. Ma se la varietà del mondo è il sale della vita, il principio del progresso, la fonte della felicità, lei deve ammettere che i nostri giudizi estetici non possono essere solo l’effetto di forze estrinseche, che operano sulle nostre passioni, come su della cera: quali gli interessi che lei enumerò l’altro giorno; quali le regole convenzionali, le limitazioni arbitrarie, i pregiudizi che noi imponiamo con tutti i mezzi che ci son buoni per far fare agli altri quel che vogliamo noi; quali la moda, la suggestione, quel bisogno così umano di urlar con i lupi e di belar con gli agnelli.... No: di fronte a queste forze estrinseche, deve stare una forza intrinseca, incoercibile, che ora resiste ora seconda le forze esterne come l’àncora e la corda i moti violenti del mare; che ora accetta come bello quel che gli interessi o le convenzioni o la moda dichiarano tale, ora resiste, freme, si ribella.... Se no, perchè Apollo ci avrebbe incitato a trattenere i Titani di ferro? Noi stiamo discutendo da qualche giorno in qual misura noi dobbiamo resistere alle macchine, a che punto rifiutare l’abbondanza che esse ci vogliono prodigare: ma potremmo noi resistere e rifiutare, se per fare l’abbondanza, le macchine non si sforzassero di farci ammirare come belle delle cose che sono brutte e come buone delle azioni che sono cattive: e se il sentimento nostro non si ribellasse, sia pure con troppa foga qualche volta, come quando è mia moglie che parla? Dunque è chiaro: giunti con la nostra indagine all’atto di volontà, non possiamo fermarci: bisogna che discendiamo più giù, fino alla profonda forza intrinseca che muove l’atto di volontà, se vogliamo lacerare il gran velo, conoscere l’anima eterna dell’arte! Questo mio primo discorso filosofico non dispiacque al Cavalcanti che, sempre gentile quanto amante delle sottigliezze, mi aveva incoraggiato, mentre parlavo, con cenni del capo e sorrisi. L’Alverighi invece dichiarò francamente alla fine di non aver capito una parola di quanto avevo detto. Il Rosetti mi guardò un poco; poi: — A te dunque — ripetè lentamente — non basta di sentirti dentro spinto a volere: tu vuoi voltarti indietro a veder il braccio e la forza che ti spingono.... — Fece una pausa; e poi: — Ma e se ciò non fosse possibile? Se l’uomo fosse così costituito dalla natura o da Dio, come ti piace, che non potesse nel tempo stesso sentir la spinta e voltarsi indietro a vedere il misterioso braccio che lo muove? sentir la voce che lo incita alle spalle, e volger la faccia verso il volto che parla? Se il braccio si fermasse e la voce tacesse nel momento preciso in cui l’uomo si volge? Se l’uomo fosse Orfeo e non potesse trarre dall’Inferno la sua Euridice, trovare il cammino che conduce alla verità, alla bellezza, alla virtù, se non a condizione di non voltarsi mai indietro? Tacque guardandomi: ed io stavo per rispondere, quando trasse l’orologio di tasca; e: — Ma è mezzanotte, — disse. — Il tempo passa. Se andassimo a letto: e continuassimo domani? Almeno se questi discorsi non vi annoiano troppo. Perchè ci sarebbero tante cose da dire.... E così decidemmo. Ma nel levarci: — Dai casi della signora Feldmann, siamo arrivati ben lontano e saliti ben in alto, — disse l’ammiraglio. — Tutto è in tutto — rispose sorridendo o stringendosi nelle spalle il Rosetti. V. Il seguente giovedì doveva condurci sino alle porte del mondo antico. Entreremmo nel Mediterraneo verso sera. Si compiva dunque in quel giorno una tappa solenne del lungo viaggio: solenne e gradita, perchè l’ultima. Dallo stretto di Gibilterra, il «Cordova» navigherebbe spedito alla meta in tre giorni. Ma il Cavalcanti ed io non alludemmo neppure, quella mattina, nei nostri discorsi, al prossimo passaggio di Gibilterra: chè quasi tutta la mattina grigia e piovosa ragionammo, sul ponte di passeggiata, intorno ai discorsi della sera precedente.... Sul vivo e sensitivo ingegno del Cavalcanti, i ragionamenti del Rosetti avevano fatta profonda impressione. Egli mi diceva di non aver più replicato nella seconda parte della discussione, a tal segno quei discorsi l’avevano soggiogato parendogli quasi di udire, per la prima volta e chiare, cose che egli avesse sempre confusamente pensate. L’imparare sarebbe dunque proprio, come diceva Platone, un risvegliarsi di reminiscenze lontane? Trapassammo poi a ragionare dell’obiezione che io avevo mossa: il Cavalcanti di nuovo l’approvò: io la chiarii e precisai — avevo su quella meditato a lungo — dicendo che il Rosetti mi pareva in procinto di impigliarsi in una contradizione mortale. Aveva affermato che la Bellezza sarebbe alcunchè di convenzionale: una opinione umana dunque, momentanea e caduca, come per molti filosofi del secolo XVIII le istituzioni e i costumi, senza fondamento assoluto ed eterno. Ma poi imponendo all’uomo con quella sua mistica frase di camminare come Orfeo, intendeva senza dubbio dire che i principii dell’arte non devono essere troppo discussi, quasi fossero cosa divina. Contradizione sulla quale intendevo di appoggiarmi e far leva, per costringere il Rosetti a disdirsi. Ma il Rosetti non uscì dalla cabina, durante la mattina; e quindi ci fu forza pazientare. Barattai invece qualche parola, poco prima della colazione, con l’ammiraglio. Mi raccontò che la signora si era alquanto rimessa; ma aveva incominciato a farneticare supposizioni e piani fantastici; e per esporglieli già quattro volte l’aveva fatto chiamare, dalla sera precedente! A colazione ricomparve per la prima volta la signora Yriondo: conferma definitiva che il marito, a poco a poco, riconosceva il suo errore e guariva. Ragionammo di Gibilterra e del passaggio, e il Rosetti ci disse che avrebbe continuato il discorso dopo la siesta.... Verso le quattro e mezzo infatti, il Cavalcanti ed io già passeggiavamo sul ponte basso, ragionando e soffermandoci ogni tanto a guardare il mare e la terra. Poichè eravamo in vista della terra. Avevamo a mezzodì raggiunto il 35º grado e il 7º minuto di latitudine e il 6º grado e 53º minuto di longitudine: e navigavamo ormai a tutto vapore verso le colonne d’Ercole, scorgendo a destra, lontane, nella nebbia rada e fulgente, le basse coste collinose del conteso Marocco; di fronte, nere e più vicine, le montagne entro cui stavano nascoste le porte varcate un giorno da Prometeo e Vulcano fuggenti l’antica storia del mondo. E in vicinanza della terra l’Oceano, per tanti giorni sonnacchioso deserto e monotono, pareva a un tratto come animarsi e schiarirsi, sotto il soffio di un gagliardissimo vento che investiva il vapore, sommoveva il piano del mare e aveva aperti immensi squarci azzurri nel grigio velo di pioggia, che la mattina copriva il volto del mondo. Cosicchè sull’Oceano infuriava, spettacolo nuovo, una meravigliosa tempesta in pieno sole: chè fitti fitti, tutti eguali, sin dove l’occhio giungeva, sino al Marocco, sino alle montagne dello stretto, sino alla nebbia cupa che a sinistra chiudeva l’Oceano, balzavano dal fondo azzurro e cupo del mare i marosi enormi, alti e lunghi, verdi e simili a liquide muraglie di smeraldo e d’oro; sostavano un momento scintillando; poi si ritorcevano su sè medesimi per sciogliersi in cento cascate d’argento nel mare azzurro, dal quale ribalzavan poi verdi e d’oro: ressa infinita che ci assediava da ogni parte, ma non nemica. Perchè la nave rompeva di prua quelle onde, e attraversava quel mare in convulsione, dritta e salda come fondesse un placido lago, senza beccheggiare o rullar neppure poco. Anche i più delicati tra i passeggeri potevano quindi contemplare la tempesta al sicuro: difatti erano tutti usciti in mezzo al vento, fuorchè — almeno sino a quell’ora — il Vazquez, l’Alverighi, il Rosetti e la signora Feldmann. Finalmente, verso le cinque, mentre in mezzo ad altri passeggeri guardavamo con i binoccoli la terra vicina e il capo Spartel, il Rosetti comparve sorridente, fumando, incappottato. Io subito mossi il discorso, deliberato a cercar che il Rosetti più si impigliasse nella sua contradizione: — A me dunque — dicendo — non basta di ammirare un’opera d’arte: voglio sapere anche perchè è bella. Ma in capo al ponte, a prua, una raffica di vento ci investì, ci fece alzar le mani ai berretti, mi imbavagliò. Solo quando avemmo voltate le spalle alla prua e al vento potei continuare. — Lei mi dice: quest’opera d’arte è bella, perchè rassomiglia a quel tale modello. Ma da questa risposta spunta subito un’altra dimanda: il modello è poi bello davvero e perchè? Lei mi dirà: perchè la tradizione, la scuola, l’opinione pubblica, la volontà grande della mia epoca me lo impongono come tale. Ma la risposta non mi acqueta: la tradizione, la scuola, l’opinione pubblica, la volontà della mia epoca possono sbagliarsi; tanto è vero che ora giudicano bella ora brutta la stessa opera d’arte: e una volta o l’altra debbono cadere in errore. Dunque se voglio essere sicuro di non sbagliarmi, io debbo poter giudicare i modelli, sapere onde scaturisce e in che consiste questa bellezza misteriosa, che nel modello c’è e ci deve essere, se il modello deve avere forza imperativa su me, su lei, su tutti. — Da Dio — interruppe reciso e improvviso il Rosetti. — Da Dio? — esclamai, — chè questa risposta, in bocca al signor Rosetti, proprio non me l’aspettavo. — Sì! — aggiunsi poi sorridendo — Dio è stato per molti secoli la mistica fontana dei valori; ma.... E tacqui, credendo di essermi spiegato. — Ma? — interrogò invece il Rosetti, come se non avesse capito. — Ma, signor Rosetti.... Lei sa meglio di me in che secolo noi viviamo.... Dopo Kant e la Critica della Ragion Pura.... Dopo la Rivoluzione Francese.... In quel momento tre onde strisciarono e si fransero, una dopo l’altra, con immane fragore, lungo i fianchi del «Cordova». Ci fermammo alcuni istanti a guardare quella fragorosa tempesta di smeraldo e di oro, di zaffiro e d’argento. Il via vai, il gridio, il gesticolare crescevano intorno a noi, a mano a mano che la porta del mondo antico avvicinava e se ne vedevan più nitidi gli stipiti; ma l’orizzonte a ponente incupiva; i grandi squarci azzurri nel cielo si restringevano e il chiarore del giorno incominciava a velarsi. Quando prendemmo a passeggiare, il Rosetti si volse a me, e con una smorfia sardonica: — Critica! — disse. — È una parola che mi piace poco! Parola greca germanizzata! Incrocio di levantino e di tedesco! La mia meraviglia cresceva. E chiamando a raccolta le disperse reminiscenze dei miei studi filosofici, avevo incominciata una difesa della critica filosofica: ma il Rosetti non mi lasciò continuare a lungo; chè afferrandomi per il braccio: — Lo so, lo so, — vivamente interruppe — quel che vuoi dire. L’incredulità moderna sarà un bene, sarà un male: ma se noi non avessimo esercitato il nostro pensiero in mille prodezze, perfino a distruggere Dio pretendendo di dimostrarlo, la nostra mente sarebbe ancora bambina, e noi saremmo oggi al punto dei Mussulmani; non avremmo scoperta l’America e non ci troveremmo qui a ragionare tranquillamente di queste cose, in questo castello natante, a guisa di semidei, come disse all’equatore il nostro avvocato. A proposito oggi non lo si vede: dove si è rintanato? Ragion per cui qualunque sia l’autorità che decide: questo è bello, noi ringraziamo cortesemente: ma subito rispondiamo di voler sapere perchè è bello.... Mi parve fosse giunto il momento di scoprire le mie batterie. — Per l’appunto — risposi. — Perchè se lei afferma che i principii del bello son tutti arbitrari e convenzionali, fattura umana quindi, momentanea e caduca, come può poi pretendere che l’uomo li adori come principii divini e rimproverargli di volerne scoprire la ragione ultima e il significato profondo? Ma se sono fattura sua e se gli appartengono! Perchè dunque non potrebbe l’Estetica.... Ma il Rosetti, interrompendomi di nuovo: — L’Estetica! Altro incrocio di levantino e di tedesco! Mi piace poco. Un po’ risentito: — Ma insomma — dissi — oggi non le piace nulla. Non la Critica, non l’Estetica. Si può sapere che cosa le piace, allora? In quel momento, arrivando alla passerella di prua, scorgemmo a destra il capo Spartel ormai così vicino che ai suoi piedi si vedevano i marosi rincorrersi sulla riva lunghi, sottili e bianchi. Il Rosetti si fermò: guardò: e come distraendosi: — Gli antichi — mormorò — favoleggiarono che Anteo fu seppellito ai piedi del capo Spartel, in quelle grotte là.... Anteo che simboleggia l’indomabile energia dell’uomo. Ma perchè farlo morire sulle sponde dell’Atlantico? — Poi rivolgendosi a me, invece di rispondermi: — Per secoli e secoli dunque — disse — Dio fu il sostegno eterno e inconcusso delle cose contingenti: la necessità incondizionata a cui la mente umana ascendeva per la scala infinita delle cause; la guida, la regola, la misura suprema. Non era lecito però di voltarsi a guardarne il volto! Egli stesso lo aveva proibito. «Videbis posteriora men, faciem autem meam videre non poteris». Ma l’uomo è curioso e ribelle: incominciò a sbirciar con la coda dell’occhio; a speculare e a ragionare sulla essenza e sugli attributi di Dio: si ingarbugliò, gli parve e non gli parve di discernere qualche cosa; tentò di veder meglio e volse un po’ di più il capo: si ingarbugliò ancora di più in un ginepraio di ragionamenti sottili; finchè un giorno, non sapendo più se quel che vedeva e non vedeva era la faccia di Dio, se quella che sentiva e non sentiva era la voce di Dio, si voltò in pieno.... Comparve Kant. Ma il volto divino era sparito. L’uomo non vide più neppure, come Mosè, le spalle di Dio: gli spazi infiniti, in cui risuonava la voce, ammutolirono.... Questo biblico discorsetto era tanto inaspettato sulla bocca del Rosetti, che non potetti trattenermi dall’interrompere: — Ma vuol lei forse imputare a Kant l’incredulità moderna? Questa ha ben altre cause: lo ha detto anche lei poco fa.... In quel momento le lampadine elettriche si accesero sul nostro capo, fioche nell’ultimo chiarore del giorno: avevamo ormai imboccato lo stretto e andavamo nell’imbrunire, per acque cupe e mosse, sotto torbido e basso cielo, costeggiando le coste europee che intravedevamo nel crepuscolo oscure e confuse, senza discernere dall’altra parte il Marocco. Il Rosetti tacque un istante guardando le luci: poi d’improvviso, rivolgendosi a me e con un rapido trapasso: — Dunque — disse — siamo d’accordo. La Rivoluzione Francese, altro che la caduta di una antica dinastia o un rivolgimento di istituzioni! Fu il nuovo assalto dei Titani all’Olimpo. Fu il più formidabile atto di volontà che la storia racconti. Fu l’atto di volontà che rovesciò quasi tutti gli antichi «étalons de mesure», le tavole dei valori che l’uomo adorava da secoli e ne impose delle nuove. Fu la battaglia campale data dall’uomo a Dio, per rovesciarlo dal trono. Da secoli l’uomo molestava con la guerriglia dei filosofi e degli scienziati le comunicazioni tra la terra ed il cielo; ed ecco a un tratto i battaglioni si levarono e via, difilati, all’assalto! E Dio fu ridotto a forma di fantasma filosofico: sui gradini del suo trono si sedette il pensiero dell’uomo, ma come nel Giappone di un secolo fa, lo _shogun_ ai piedi del trono del Mikado, in apparenza ministro, in verità sovrano e sommo motore della vita tutta quanta: dell’arte, della morale, del diritto, della educazione, della politica, e perfin di sè stesso. Perchè a poco a poco, sentendo di muovere tutte le cose e non sentendosi più mosso da nessuna spinta superiore, uno strano, tormentoso e sublime delirio invase il pensiero dell’uomo: volle anche vedersi a muovere sè stesso e quasi direi guardare la propria faccia senza specchio. E l’effetto ultimo di questo delirante impero dello _shogun_, noi lo abbiamo veduto in questa lunga navigazione. Non avendo niente altro da fare, abbiamo discusso un po’ di cose serie; e volevamo sapere se New-York è bella od è brutta, ma l’Estetica non ce l’ha saputo dire: volevamo sapere che cosa è il progresso, e non ne siamo venuti a capo; se le macchine sono utili o dannose, se la scienza è vera o falsa, se la ricchezza è buona o cattiva, se l’America è da più o da meno dell’Europa; e non ci siamo raccapezzati. Chi diceva di sì, e chi di no. Ragionamenti rovesciabili dappertutto. Lo spirito gira su sè medesimo per vedere la propria faccia: e gira, gira, gli piglia il capogiro.... Il ragionamento del Rosetti serpeggiava tra gli scherzi di una sottile ironia, come una biscia tra l’erba, che si vede e non si vede.... Disperando di colpirla, tentai di nuovo di tagliarle la strada: — Ma insomma non divaghiamo. Torniamo al punto. Pensa lei, sì o no, che quel che noi chiamiamo il Bello sia una opinione umana, mutevole da luogo a luogo, di tempo in tempo? Accennò di sì, soggiungendo prontamente: — E non la Bellezza solo; ma anche la Verità e la Morale. L’avversario si allargava sul campo, invece di serrare le fila contro l’attacco: esitai un momento innanzi a questa mossa inaspettata: poi decisi di colpire là dove già prima miravo. — E allora, ripeto: come può lei rimproverare all’uomo di cercare la ragione di tutte queste diverse e mutevoli opinioni? Perchè una ragione ci sarà pure.... Se lei ammettesse che l’arte è una emanazione di Dio, capirei.... Del resto lei stesso l’altro giorno ci ha dimostrato che ammiriamo le opere d’arte per interesse. Che cosa ha fatto allora se non voltarsi indietro, e cercar di scoprire la ragione per cui quel che par bello a me sembra brutto a lei o viceversa? E se lei si è voltato, perchè vuol poi che gli altri guardino fissi innanzi a loro, come dei soldati alla rivista? Il Rosetti mi guardò sorridendo e: — Tu non capisci, allora? — mi chiese. — No, non capisco. — E neppur lei, Cavalcanti? Mi prese per il braccio, fece cenno al Cavalcanti di seguirlo: ci trasse ambedue al parapetto. Nelle acque sconvolte dello stretto, intorno alla nave, saltellava un grosso branco di delfini: apparivano con il muso in alto, come guardandoci: si tuffavano e riapparivano saltando, torcendosi, guizzando argentei nelle onde cupe, a guisa di piccoli e graziosi saltimbanchi del mare che seguissero correndo il «Cordova» per fare i loro agili e sveltissimi giochi sotto i nostri occhi. I parapetti della terza classe erano infatti gremiti al gratuito spettacolo, pieni di grida e risate. Anche il Rosetti parve un momento prendere diletto di quelle graziosissime bestie; poi: — Osservate — disse — l’Atlantico, che si vuota per questo canale nel Mediterraneo! Come ribollono le acque dello smisurato Oceano, nella stretta delle montagne! Eppure, questo fiume che noi fendiamo tra due monti, non è forse quello stesso infinito Oceano che abbiamo valicato per due settimane, senza raggiungerne il termine? Ma si rimpicciolisce, freme e ribolle perchè non può d’un colpo vuotarsi nel Mediterraneo attraverso l’angusto canale. Ebbene: questo canale è l’imagine dello spirito umano: angusto canale anch’esso di un Oceano infinito. La bellezza è una cosa infinita, come ha detto lei, Cavalcanti; e non la bellezza solo, ma anche la verità, anche il bene. E lo spirito umano è limitato. Ogni uomo, ogni scuola, ogni epoca, non possono capire che una particella del vero: non possono creare e capire che alcune tra le infinite forme del bello; non possono praticare che alcune delle innumerevoli virtù umane, come in ogni istante del tempo solo una onda dell’Oceano può versarsi per questo canale nel Mediterraneo. Io non riesco a raffigurarmi l’Universo, se non quando me lo imagino come una realtà che chiamo infinita, per dir che ci soverchia da tutte le parti; e noi minuscole creature umane, perdute in quella non possiamo sfiorarne, alterarne, vederne e capirne a volta a volta che delle particelle piccole piccole.... Certamente tra tutte queste infinite forme della Vita l’uomo non ha nessun motivo intrinseco di scegliere l’una piuttosto che l’altra.... L’ha detto lei, Cavalcanti; e credo avesse ragione.... Ma abbracciarle tutte non può, perchè il suo spirito non è capace abbastanza: e quindi deve scegliere anche senza motivo, limitarsi cioè. Necessità contradittoria, non è vero?, lei diceva, Cavalcanti. Come si può scegliere senza motivo? Eppure bisogna. E in questa contradizione, a cui non si sfugge, giace forse la segreta ragione di quella lotta eterna tra il divino e l’umano, tra il finito e l’infinito, tra il contingente l’assoluto, tra il caduco e l’eterno, tra il convenzionale e l’imperativo, che travaglia e travaglierà il mondo. La bellezza, la verità e la virtù sono assoluti, eterni, divini, infiniti, imperituri; non c’è nessun dubbio su questo punto; è inutile sofisticare; son verità necessarie. Il Vero è vero, e non può essere falso: il Bello è bello, e non può essere brutto; il Bene è bene e non può essere male: questi sono quasi direi gli assiomi della vita, che se non si ammettono non si può vivere, come non si può studiare la geometria senza quegli altri assiomi che sapete! Ma i limiti che per la piccolezza della sua mente, del canale per cui trapassa, l’uomo deve porre a sè medesimo per intendere qualche parte di questa infinità, sono contingenti, momentanei, umani, arbitrarî, convenzionali: dipendono dalle circostanze: sono posti e tolti anche dagli interessi mondani, di cui tanto abbiamo parlato; si possono spostare, rimuovere, allontanare, avvicinare, allargare, restringere. Ma aboliti non possono essere mai — questo fu il suo errore, Cavalcanti — perchè se no la mente umana, priva di appoggio, vacilla, si smarrisce nell’illimitato, fraintende e confonde. Salite su questa specola; e come chiaro discernerete di lassù sotto di voi tutto l’immenso travaglio del mondo e della storia, che non è se non il travaglio tragico ed eterno di questa limitazione, arbitraria e pur necessaria! Per quale ragione infuria nel mondo sin dai suoi lontani cominciamenti e non potrà finire mai la guerra delle dottrine, delle religioni, delle sette, dei principii, delle idee, delle civiltà, delle leggi, delle classi, degli Stati? Per quale ragione in ognuna delle infinite contese che infiammano il mondo, gli uni si precipitano sugli altri o con le armi in pugno, o con l’ingiuria sulle labbra, o con l’odio nel cuore, tutti egualmente certi di aver ragione, di esser nel vero, di difendere la buona causa? Dove cova quella antica febbre mediterranea, dalla quale l’Alverighi si è illuso di mettersi in salvo emigrando, e cioè lo spirito di discordia eterno tra gli uomini, i quali pur vogliono tutti e dovunque le medesime cose? Onde nasce l’immenso malinteso della storia, che non potrà chiarirsi mai? Come si spiega che un essere provvisto di ragione come è l’uomo, pure in tante questioni non riconosca altro giudizio che quello della spada? Perchè la guerra è la suprema ordalia dei diritti e dei principii in lotta e non s’è trovato ancora nessun areopago o tribunale o corte di giustizia — neppure la Corte dell’Aja — innanzi alla quale interporre appello dai suoi ciechi e sanguinosi giudizi? Come accade che mutando luogo e tempo la bellezza imbruttisca, la verità si falsi e la virtù si corrompa; eppure non si possa mai sapere in quali di questi luoghi e tempi l’uomo aveva ragione, quando e dove invece errava? Per qual ragione l’opera dell’uomo è un’immensa fatica di Sisifo, che ogni generazione ricomincia, sognando ogni volta di trovar finalmente la verità, la bellezza, la virtù imperitura? Da quella specola voi vedete e capite!... Ogni uomo, ogni tempo, ogni popolo è prigioniero nei principii limitati e convenzionali della Verità, della Morale, della Bellezza, in cui gli fu forza di chiudersi: e chiuso in quelli, non vede, perchè gli manca il modello a cui riconoscerli, nei principii in cui gli altri uomini si chiudono, forme diverse della bellezza, della verità e della virtù; scambia per bruttezza, menzogna e colpa le altre particelle di quello stesso infinito bene che egli si gode: compiange, odia o disprezza come barbari, diversi, da meno di sè, tutti gli uomini che stanno fuori del suo carcere: anzi si sforza di ghermirli e trascinarli nel suo carcere, come il ciclope nella sua caverna, nel tempo stesso in cui è spinto ad evaderne egli stesso. Ogni principio umano — non dimentichiamolo mai — è limitato e perciò esauribile: quindi tutti devono essere periodicamente rinnovati. L’infinito pesa sull’angusto canale della nostra mente, come i flutti dell’Atlantico fanno ressa in questo stretto che noi attraversiamo; e ci sforza a trapassare da una verità, da una bellezza, da una virtù ad un’altra, senza mai ripigliar fiato, senza tregua mai o riposo. Ma il trapasso è smarrimento, dolore, delirio, perchè intorno al carcere di un principio esausto, ronzano angeli e diavoli; e gli angeli cantano che fuori si distendono i mistici campi dell’assoluto, dove l’uomo può vagar libero, addormentarsi, risvegliarsi per prati che non hanno nè sentieri nè confini, ma fiori senza numero e di tutte le bellezze e sboccianti nell’ora che non declina mai di una eterna primavera.... Ma i diavoli sussurrano invece al prigioniero che quel carcere fu edificato dalla iniquità, dalla stoltezza e dalla tirannia dei suoi simili: osi evadere e potrà rifare il mondo senza limitazioni, principii e convenzioni; sedersi, Minosse di un nuovo giudizio universale in mezzo alla storia, chiamando innanzi al suo tribunale tutti gli Stati, le Arti, le Religioni, le Dottrine, le Leggi e i Costumi del mondo. E il prigioniero, a sentir queste canzoni degli angeli e questi sussurri dei diavoli, si esalta, infuria, delira, scuote le inferriate delle prigioni.... E allora costruisce New-York. E allora inventa le macchine. E allora crea la Critica e l’Estetica.... Ma il Cavalcanti lo interruppe a questo punto sorridendo: — Insomma, l’Estetica non trova grazia innanzi a lei. Eppure.... — E come potrebbe trovarla? — rispose scherzosamente il Rosetti. — Anche questo oltraggio, dopo tanti altri, dovevano dunque fare all’Italia i barbari? Non scherzo: ragiono sul serio. Ma ditemi dunque: abbiamo sì o no prodigata al mondo tanta bellezza in tante forme, da San Marco a Palazzo Vecchio, da Giotto a Tiepolo, da Donatello al Vela, dal Palestrina al Verdi, da Virgilio ed Orazio al Manzoni, che dopo tanti secoli e tante rapine e distruzioni e dilapidazioni, quel che si è conservato basta ancora a sbalordire anche il secolo delle macchine? Sono o non sono venti secoli che ci affatichiamo a vuotare sulla terra l’infinito della bellezza, tentandolo da tutte le parti; e non siamo che al principio?... Ed ecco un bel giorno, comparisce in mezzo a noi il professore Giorgio Federico Hegel dell’Università di Berlino; e cavando dalla sua testa un suo criterio, indice il giudizio universale dell’arte passata presente e futura: e ci cita innanzi alla sua cattedra.... E questo popolo, invecchiato nell’arte, non si è messo a ridere? E non ha detto all’illustre professore che anche un filosofo è matto se vuol giudicare alla stregua di una misura sua l’arte del mondo, come sarebbe matto chi volesse vuotare l’Atlantico nel Mediterraneo, attraverso lo stretto, in un minuto; perchè il criterio di questo illustrissimo signor filosofo sarà acuto, ampio, ingegnoso, profondo, portentoso, trascendente, sublime, iperbolico, come vi piace, ma è e resterà personale? Che un filosofo serio dovrebbe tutt’al più, in queste materie, imitare Aristotele e non osar di più? Aristotele aveva dato fondo a mezzo l’universo: ma quando nel suo gran viaggio venne alla letteratura stette contento, con esemplare modestia, di ricevere dai suoi tempi, e non pretese dettarglieli, i criteri convenzionali, limitati, momentanei di perfezione, che la «volontà grande» della Grecia aveva scelti nell’infinito della Bellezza per giudicar la tragedia, per esempio: e da quelli dedusse un codicetto di regole. Come Gian Battista Alberti, quando compose il suo libro sull’Architettura.... — Allora l’Estetica — interruppe il Cavalcanti — dovrebbe, secondo lei, solamente raccogliere e formulare regole d’arte. E per insegnarle, suppongo: quindi all’arte occorrono anche scuole. — E nelle quali — soggiunse pronto il Rosetti — non si insegni solo, come si fa ora nei Conservatori e nelle scuole di Belle Arti, timidamente, quasi vergognandosene, la tecnica manuale di questa o di quell’arte. Ma scuole che insegnino il bello, inculchino certi principii di arte. — Ma di questo passo si va difilati alla Bellezza di Stato — rispose sorridendo il Cavalcanti. — Se occorrono scuole del bello, anche lo Stato ne deve fondare: quindi dovrà esserci una scultura, una letteratura, un teatro di Stato, come la «Comédie Française»! — Sicuro — rispose il Rosetti con un fare un po’ malizioso. — Ogni modello, appunto perchè è arbitrario, deve essere imposto da una autorità: da un ordine sociale, da una scuola, da una religione, da uno Stato: se no, ciascun uomo cercherà di farsi da sè il suo modello, e allora abbiamo visto quel che succede. O meglio: non si sa più quel che può succedere: può succedere perfino che New-York diventi la più bella città del mondo e il «Mercante di Venezia» un capolavoro. Nessuno si raccapezzerà più. L’uomo ha sempre bisogno di un buon Cicerone, che lo accompagni nel mondo e gli comandi: ammira, questo è bello; questo è brutto, chiudi gli occhi e volta le spalle. Non la accettiamo anche adesso, nel secolo della libertà, questa autorità imperiosa nella moda? Perchè non è punto vero che ognuno oggi si veste secondo gli garba, come dice l’avvocato. Una potenza invisibile — i grandi fabbricanti di panno e i grandi sarti — governa dispoticamente il regno della moda, fa e modifica il gusto ogni anno, impera agli uomini e alle signore, ci impone dei criteri di eleganza, convenzionali sì ma indiscutibili, almeno per sei mesi: come quello — me l’hai raccontato tu, Ferrero, mi pare — per cui la signora Feldmann escludeva dai beati regni dell’eleganza il nostro avvocato, perchè ha osato portare una giacca nera e dei calzoni turchini. Non domandare il perchè, caro mio: non si discute con la moda: si obbedisce! E quando noi la accettiamo nel vestire, la rifiuteremo, questa autorità, nelle altre arti? No, l’autorità è necessaria: e non vedo per qual ragione non debba esercitarla anche lo Stato con le scuole. Almeno se non si vuole che a dar regola e norma al gusto non restino più che i mercanti di quadri, i direttori dei teatri, gli editori e — Dio ci scampi — i professori di Estetica e i critici dei giornali. Perchè son proprio queste le nuove autorità che nascono nei regni della Bellezza in mezzo alle rovine delle antiche: Corti, Governi, Accademie. L’Alverighi ha potuto gridarci nelle orecchie: libertà, libertà! Libertà sia pure: ma e poi? La pittura — per esempio — fu per secoli ancella della Chiesa e dello Stato. Dopo la Rivoluzione, si cacciò anch’essa in capo il berretto frigio e scese in piazza a rivendicare i sacrosanti diritti dell’Ispirazione e del Genio.... E che cosa le è capitato? Che ora è in pericolo di passare nel servidorame dell’Oro. I mercanti di quadri, oggi, sono la potenza segreta e insindacabile che, per mezzo delle Esposizioni, dei giornali, dei critici, del denaro speso con arte, fanno la reputazione degli artisti, creano la voga delle scuole; come le Accademie una volta: per guadagnarci, naturalmente. Vi meravigliate? Ma una forza che governi il gusto del pubblico è necessaria; e poichè le antiche autorità sono cadute.... — Ma lei — interruppe il Cavalcanti — mi risuscita a poco a poco tutto il vecchio mondo, che credevamo di aver distrutto!... Il Rosetti non parve udirlo; e come continuando il suo pensiero: — Noi abbiamo — disse — derisa New-York: ma che cosa facciamo noi, Italiani, che abbiamo edificati i più bei palazzi e le più belle chiese del mondo, per insegnare all’America a costruire delle belle città?... Io mi domando spesso quando l’Italia sentirà vergogna dell’incuria in cui languirono le sue scuole di architettura o dell’incoscienza con cui ha lasciati escludere per definizione i letterati dalle scuole di letteratura, sotto pretesto di scienza! Che dei barbari poco letterati abbiano inventate le scienze filologiche, tanto per dar qualche cosa da fare alle Facoltà di lettere, si capisce. Ma l’Italia! L’Italia, che possiede la più antica e ricca letteratura di Europa! Le Facoltà di lettere dovrebbero essere focolari di cultura letteraria: organi per conservar vivo il gusto e le tradizioni della grande prosa, della grande poesia, della grande storia, dei generi letterari più celebri! E Dio sa se ce ne sarebbe bisogno, nel secolo delle macchine e dei giornali da un soldo! — Dei professori di poesia, però! — ripetei io, scherzosamente. — Ti fanno ridere? Eppure, eppure.... Ma è vero: dimenticavo: l’uomo non si rassegna più a star prigioniero entro principii convenzionali e limitati; misura di continuo la piccolezza del suo carcere alla stregua delle sue voglie, dei suoi sogni, dell’infinito: farnetica continuamente di evadere per la breccia di formole universali. Ma ahimè! le formole universali sono — o personali, — come quelle di Hegel; o vuote, come quelle di Kant. E allora si inquieta, fruga, investiga: invece di abbandonarsi alla forza che lo spinge a volere il bene, la bellezza e la verità, si volta indietro a veder chi sospinge e chi parla, a rischio di fermarsi ogni momento. E alla fine gli vien fatto di scoprire in molteplici interessi mondani, nella imposizione di una autorità, nella forza di una tradizione la ragione della limitazione; e allora scambia questo limite momentaneo e caduco con l’essenza stessa dell’Arte, della Verità e della Morale. L’interesse è la trave fradicia con cui la filosofia moderna tenta di puntellare la sconquassata struttura delle nostre certezze: ma invano! Ridotto il mondo a un sistema di interessi, l’uomo si ribella contro tutte le autorità, le tradizioni, le regole.... Cerca al di là di queste la Verità, la Giustizia, la Bellezza e non trova che una vasta e grigia nebbia; smania dunque e si agita tormentosamente, senza più dar retta alla invisibile voce che gli grida dal fondo dei secoli: «Crea opere d’arte e non far dell’Estetica; scopri nuovi veri e non confonderti troppo con la gnoseologia; opera fortemente e non voler verificare se la storia si è sbagliata o ha avuto ragione».... Ma a questo punto e in malo punto, un improvviso scoppio di urla, di fischi, di grida, un vociare confuso, l’accorrere frettoloso di parecchi marinai interruppero questo strano e malioso discorso. Il Rosetti si tacque: il Cavalcanti fece una smorfia annoiata; io, un gesto d’ira. «Che succede?» ci chiedemmo, avviandoci verso la passerella. Dalla quale guardando in giù subito riconobbi Orsola, dimenantesi e urlante in mezzo a uomini e a donne che la trattenevano e un’altra donna a me sconosciuta, la quale a pochi passi da lei piangeva in mezzo a un gruppo di emigranti: poi lì vicino, due uomini, avvinghiati così che non se ne discernevano le faccie e che si picchiavano, o meglio uno d’essi picchiava l’altro che si difendeva male; e intorno una calca di emigranti, nella quale chi gridava, chi urlava, chi sghignazzava, chi si dava l’aria di voler separare i due contendenti. Mentre discendevamo, due muscolosi marinai si fecero largo, e abbrancati i due litiganti, li separarono: vidi allora che il percotitore era il giovane abruzzese, e il percosso il suo amico Antonio: ma scesi che fummo ci trovammo in un pandemonio. Orsola era una furia, e vomitava ingiurie in siciliano, in italiano e in portoghese contro la donna che piangeva — una donna piacente di forse quarant’anni, vestita con molta pulizia e non senza una certa eleganza — mentre l’abruzzese, non meno infuriato di lei, chiamava Antonio con il nome proprio di un animale provvisto di corna; e gli gridava: «Ti voglio almeno strangolare!» e Antonio, pallido, rabbiosamente freddo rispondeva: «Fannullone, pezzente, straccione, morto di fame». In quella sentii squillare lontano, sul ponte superiore, la campana del pranzo. Tentai di chieder a qualcuno che cosa fosse successo: ma due non mi risposero. «Si sono picchiati», disse laconicamente un terzo, come chi non vuol essere seccato da altre domande. Erano tutti troppo intenti — e ostilmente — in Antonio e non mi badavano.... «È un pezzente, perchè non ha venduta sua moglie», gridò a un tratto una voce. Un tumulto di risa, di grida, di fischi salutò questa risposta. «Bravo! — Vergogna! — Non è mica un postribolo questo! — Va a far altrove il tuo mestiere! — Fuori, fuori!» si gridò a destra e a sinistra. Io mi chiedevo perchè tutte quelle persone fossero così inviperite contro Antonio, che la fronte escoriata e il naso sanguinante cercava di stagnare il sangue con la pezzuola; e stavo per accostarmi ad Antonio e parlargli, quando sopraggiunsero due ufficiali: uno strapazzò energicamente Orsola e l’altra donna e le fece trascinar via da due marinai, con molte grida, stento e fatica: un altro mandò Antonio all’infermeria e l’abruzzese nel dormitorio: poi con parole imperiose disperse la folla. Ci ricordammo allora di aver udito la campana del pranzo suonare, e risalimmo senza aver saputo nulla. — Ma che cosa è successo? — chiesi all’ufficiale, che saliva con noi. Alzò le spalle. — Uno dei soliti litigi.... Per ragioni di femmine. VI. A pranzo, da principio, non ragionammo che della zuffa. Ma il capitano non pranzò con noi, quella sera, non volendo lasciare il ponte del comando sinchè la nave era nello stretto: cosicchè le prime notizie precise intorno alle ragioni di quel subbuglio ci furon portate dal dottore, che giunse un po’ tardi, dopo aver medicato Antonio. Ci raccontò che la mischia era cominciata da un alterco tra Orsola e quell’altra donna che noi avevamo vista piangente; che era poi quella certa Maria cui Antonio, secondo il dottore, faceva la corte. Le due donne si erano bisticciate e alla fine accapigliate, perchè Orsola andava raccontando a destra e a sinistra che Maria era l’amante di Antonio; e Maria che Orsola era una fannullona in fuga per i debiti! Maria aveva lavorato in una fazenda vicina a quella di Orsola; e che apparteneva allo stesso padrone. — Questi sono i teneri affetti — conchiuse — del popolo sovrano, come dicono i socialisti. Cose da pazzi! È inutile; dite quel che volete, ma il popolo è cattivo e l’emigrazione lo peggiora. Non si può vivere a cavalcioni dell’Atlantico: bisogna decidersi! O di qua o di là, una, buona volta! Io chiesi allora per qual ragione si fossero picchiati anche Antonio e l’abruzzese, che martedì erano ancora amici, e per qual ragione il pubblico fosse così ostile ad Antonio. Mi rispose che Antonio aveva difesa Maria e l’abruzzese Orsola; e quanto all’impopolarità di Antonio: — Lo tengono — disse — in quel conto che merita.... Quella storia della moglie non piace. Per quanto l’America li abbia tutti guasti e corrotti.... — Ma come l’hanno saputa? — chiesi io. Si strinse nelle spalle: — Tutto si sa, alla fine! Ma l’argomento di quelle baruffe pareva al Cavalcanti e a me sbiadito, a petto dei ragionamenti della giornata. Lo lasciammo presto per ritornare a questi. — Avvocato, avvocato, — disse il Cavalcanti all’Alverighi, — ma dove è stato lei, oggi? Che bella occasione ha perduto! — Siamo alle porte dell’Europa, — rispose l’altro ridendo. — E devo pensare ai casi miei.... Tutto il giorno abbiamo lavorato, con il signor Vazquez, al rapporto per i banchieri di Parigi! E di fatti, durante il pranzo, confabulò quasi solamente e sottovoce con il signor Vazquez, in spagnuolo, ogni tanto tirando fuori da una tasca o dall’altra delle carte, mostrandole al suo amico o scrivendoci sopra con la matita. Cosicchè prestò scarsa attenzione al discorso che il Cavalcanti avviò allora di nuovo. — Dunque siamo d’accordo, ingegnere. L’arte muove sempre da un principio limitato, e in questo senso convenzionale. Forse qualche grande artista privilegiato, ogni tanto, crea dei principii che gli sono propri, ed ha tanta forza da imporli, solo o quasi, ai contemporanei ed ai posteri.... Dante, Michelangelo, Victor Hugo, Rodin.... Ma sono pochi.... E non l’arte sola, del resto. Anche il diritto, per esempio. Ferrero l’altra sera ha un po’ canzonato il diritto. Ma ci pensavo questa mattina: il diritto, la legalità, l’ordine non sono forse convenzioni limitate? Intorno al giusto e all’ingiusto non finirebbero più le dispute e i dubbi: se un atto della «volontà grande» come lei dice — Dio o lo Stato — non ponesse e imponesse dei principii limitati e convenzionali del giusto, che sinchè sono in vigore valgono come misura indiscutibile della ragione e del torto. A noi pare strano che le monarchie assolute riconoscessero al re il diritto di governare per la sola ragione che si supponeva fosse figlio di suo padre. Ma e i principii su cui posa il regime parlamentare? sono forse più ragionati? Un uomo o un partito diventano capaci di governare uno Stato, solo perchè la maggioranza del Parlamento dice di sì? Ma ogni uomo e partito si reputa in buona fede il più degno di governare: e bisogna pur stabilire una regola per scegliere, se non si vuol decidere a pistolettate. E la diplomazia che cosa fa? Che cosa facciamo noi se non stiracchiare e sofisticare certi principii convenzionali — diritto internazionale, si chiama, tanto per dargli un bel nome — sinchè un atto di volontà, una guerra cioè, non ce ne impone di nuovi? Così pure il Galateo, il Cerimoniale, il Codice Cavalleresco, le decorazioni, i titoli, le Accademie.... Siamo dunque d’accordo. Senonchè, ingegnere, mi permetta di ricordarle che tutti questi principii, essendo limitati, si esauriscono e quindi devono essere ogni tanto rinnovati. Non fo che ripetere le sue parole.... Ogni popolo dunque deve ogni tanto risvegliare le sue formule: estetiche, morali, giuridiche. Orbene: non sarebbe questa la ragione per cui ogni tanto noi cediamo alla tentazione, come diceva lei, di voltarci indietro a vedere la forza che ci muove? I nostri tempi sono più plastici degli antichi: perchè? Paragonate le civiltà, indiavolate come la nostra, che abusano, se volete, di filosofia e di critica, con la stagnazione delle società mussulmane, in cui lo spirito critico e filosofico non ha potuto nascere. Lo spirito critico, e la filosofia che ne è l’organo, sarebbero insomma la prima fonte del progresso.... — Sì, se il progresso esistesse. Ma si ricorda quanto abbiamo disputato invano, per sapere che cosa è? — disse il Rosetti, levandosi. Il pranzo era terminato. Prendemmo cappotti e berretti, ed uscimmo a fumare sul ponte. I marinai ci dissero che eravamo in pieno Mediterraneo: ma invano guardammo per rendercene conto nella notte oscura e impenetrabile. Non faceva però troppo freddo; e incappottati potemmo piacevolmente passeggiare conversando, il Rosetti, il Cavalcanti ed io: chè l’Alverighi era partito con il Vazquez. E il Cavalcanti riprese il suo discorso, osservando che senza dubbio non era facile definire il progresso; ma non gli pareva potesse mettersi in dubbio che la plasticità dei nostri tempi fosse una virtù a paragone delle rigide civiltà antiche. Quindi noi abbiamo ragione di definire progresso la facilità in cui siamo venuti di creare e accogliere nuove verità e forme di bellezza, idee e principii nuovi di morale; accrescendo la varietà del mondo, che il Rosetti aveva detto essere la ragione stessa del progresso. — Sì e no — rispose lentamente il Rosetti. — Sì, se le forme e i principii nuovi prendono posto accanto agli antichi: no, se li cacciano via, come vecchi servitori fatti inabili dall’età.... La frase non era chiara e chiedemmo dilucidazioni. Il Rosetti continuò: — Se il progresso non è una illusione, dovrebbe esser qualche cosa, una forza o una legge, per cui il mondo sarebbe come il vino: migliorerebbe con il tempo. Ora io non riesco a imaginare come il tempo possa migliorare il mondo, se non quando penso che l’uomo scopre o crea senza riposo, di generazione in generazione, nuove Bellezze, nuove Verità e nuove Virtù: cosicchè le generazioni seguenti possono possedere e conoscere un numero maggiore di modelli, se sanno conservare tutti o in parte quelli che le generazioni precedenti crearono. Solo così, mi pare, noi riusciamo a saldare insieme, nel principio del progresso, la quantità e la qualità. Perchè «multa renascentur quae jam cecidere», come dico Orazio: idee, sentimenti e forme d’arte? Perchè, per non citar che un esempio, Teocrito ha potuto rinascere in Virgilio; Teocrito e Virgilio nel Tasso e nel Guarino; e tutti e quattro nei poeti pastorali francesi del secolo XVIII? O per qual ragione tanta parte dell’antica morale ebraica rivisse nelle prime sette protestanti? Perchè un principio esaurito è come una terra spossata; può ripigliare vita e vigore, dormendo qualche secolo; purchè se ne conservi il ricordo. Quindi più tardi uno nasce e meglio capiterà in questo basso mondo; perchè troverà nella tradizione un maggior numero di modelli e principii addormentati aspettanti il risveglio. Lei mi dirà che non tutti i principii d’arte e di morale possono rimetter foglie e frutti tali e quali. È vero. Noi non potremmo riedificare nè il Partenone nè il Pantheon nè il Duomo di Siena, nè il Camposanto di Pisa, nè il Palazzo Vecchio, nè il Colonnato di San Pietro. E tanto meno poi potremmo rifare la città antica o l’impero romano o il Cristianesimo o la Rivoluzione Francese. Ma noi possiamo capire, ammirare, studiare, inspirarci a tutti questi monumenti, come comprendiamo e godiamo la ceramica greca e la cinese, anche se non sappiamo più rifarle: ma noi abbiamo trasfuso nelle nazioni moderne il patriottismo, l’amore civico, l’eroismo della città antica; quel rispetto della legge e quell’odio della prepotenza che i giuristi hanno infiltrato a poco a poco nel sangue turbulento dei barbari; la misericordia, la dolcezza, l’orrore dei diletti crudeli, insegnato da Cristo; il sentimento dei diritti dell’uomo, creato dalla filosofia del settecento e dalla Rivoluzione Francese. Dunque il progresso non sta solo nel crear nuove verità, nuove arti o nuove virtù, ma anche nel conservarle di generazione in generazione, — e il conservarle dovrebbe essere (e si volse a me) il principale vostro ufficio, signori storici — nella misura del possibile almeno. Il conservare dunque, e non, come oggi si crede dai più, il distruggere sarebbe condizione necessaria del progredire. Perchè se gli antichi principii sono tolti di mezzo, c’è trapasso, ma non guadagno o progresso, non essendoci modo di dimostrare che i nuovi sono da più degli antichi.... — Ma allora — obiettò il Cavalcanti — per progredire occorre non già limitarsi, ma allargare i limiti, lo stretto, il canale quanto più si può.... — Naturalmente: perchè l’infinito preme sull’angusto canale della nostra mente e lo sforza. Allargare i limiti, sì: distruggere le sponde del canale, no, però.... — Sia pure — replicò il Cavalcanti. — Ma lei viene ora a darmi ragione: noi dobbiamo sforzarci, perchè l’arte progredisca, di aver nervi per tutte le arti e tutte le scuole; di distendere quanto più possiamo.... la nostra, facoltà di capire e di godere, con tutti i mezzi, anche con l’Estetica quindi. — Con discrezione e discernimento, le dissi l’altro giorno e le ripeto oggi.... Conservare e conoscere quanti più modelli è possibile, sì. Ma non crearne troppi e troppo in fretta; nè mutarli troppo spesso; nè farsene un bersaglio, per divertirsi a rovesciarli e a raddrizzarli; nè scoprire ogni sei mesi il modello impareggiabile che rinnoverà il gusto del mondo; e non figurarsi neppure che un’opera d’arte possa e debba diventare un modello solo perchè oggi ci arreca piacere o magari ci manda in visibilio; sopratutto non confondere i modelli: non paragonare un dramma a un modello lirico, una scultura a un modello musicale. Il bello nasce da una limitazione; _ergo_, ogni modello non vale e i confronti non son possibili che per opere e fra opere le quali prendano le mosse dalla medesima definizione prima e limitata del bello. Paragonate tra di loro le architetture classiche, le gotiche, le barocche; non le barocche con le gotiche o con le classiche. Occhio all’Estetica dunque: e non diamo retta all’Alverighi che vuol che l’arte sia solo un godimento dispendioso, come lo Champagne e i sigari d’Avana. Anche nell’arte c’è la plebe e ci sono i grandi.... C’è un’arte spicciola, caduca, il cui ufficio è dilettare e servir di passatempo; la commedia divertente, il romanzo che si legge in treno o in campagna, il concerto, il disegno del mio vestito.... Ha il còmpito suo anche quest’arte; e per questa riconosciamo pure agli uomini quel diritto che l’Alverighi rivendicava per il nostro secolo in tutte le arti: il diritto di godersi il bello ciascuno come gli piace; e l’uomo distenda quanto vuole la sua capacità di capire e godere; e l’Estetica abbia diritto di vita e di morte! Ma ci sono pure i modelli: i capolavori nei quali si sono fatti luce, suono, marmo, parola i differenti principii del bello, creati di secolo in secolo; che servono come termini di paragone e misure per giudicare; e quindi mantengono viva la bellezza raffinando il senso del più bello e del meno. In questi — ricordiamocelo sempre — l’arte non è più un passatempo: è un limite come la morale; uno dei tanti limiti che fanno il mondo infinitamente diverso e vario, e che sono quindi la ragione del vivere e del progredire. E innanzi a questi, adagio! Innanzi a questi chiederei ai nostri tempi di non ricapirli per la prima volta e rivelarli finalmente al mondo di nuovo ogni sei mesi; di non servirsene come specchio della propria vanità, ciascuno per credersi ammirandoli a modo suo più intelligente dei propri simili. No: i modelli devono essere ammirati con modestia, con disinteresse e con illuminato spirito di disciplina nazionale: e i nuovi aggiunti agli antichi con una certa discreta ponderazione, sopratutto se stranieri, perchè non capiti insomma di raccogliere un Pantheon farraginoso di Dei disparati o incoerenti. Non dimentichiamo che una cosa è godere un’opera d’arte, e un’altra canonizzarla come modello; perchè il piacere che un’opera d’arte ci arreca spesso è mutevole, incerto, personale, impuro; e l’ufficio del modello invece è stabile. Per dare un esempio: noi abbiamo discusso l’altro giorno intorno a Shakespeare: non voglio decidere chi ha ragione e chi ha torto, tanto più che di deciderlo il mezzo non c’è: io dubito però che i paesi latini siano stati un po’ troppi corrivi ad aprirgli le porte del Pantheon dove stanno i modelli e a collocarlo accanto a Sofocle, Dante, all’Ariosto o al Molière. Perchè insomma ha degli squarci mirabili sì: ma, ma.... Tanti ma ci sarebbero! Lasciamo andare.... Insomma, è un po’ greggio. Che il «Mercante di Venezia» per esempio o «Re Lear» siano due capolavori, da mettere accanto alla «Divina Commedia» o al «Furioso».... Come italiano, questo non mi sentirei di affermarlo.... Per conchiudere: vediamo di non smarrirci nell’illimitato, per la troppa smania di progredire! Perchè — l’ho già detto, mi pare, ma _repetita juvant_ — se si affastellano troppi modelli diversi o se si mutano troppo spesso o se si confondono, nessuno ci serve più; perdiamo la misura con cui giudicare e quindi il criterio per scegliere: ci riduciamo a dover accettar tutto, senza saper distinguere — come qualche volta, ho paura, capita all’America.... Molti principii, sì; ma non troppi: mi pare la regola del progresso artistico.... Da un pezzo ruminavo una obiezione. Onde, appena il Rosetti ebbe finito: — Ma anche la morale — dissi — progredirebbe, quando diversi principii e modelli si mescolano, sia pure con discrezione? Ne dubito. Le epoche, le civiltà, i popoli moralmente più forti non sono quelli che sanno limitarsi? che pongono con un atto vigoroso di volontà una sola virtù, come la suprema misura, del merito: l’eroismo cavalleresco, i Giapponesi d’una volta; la carità e l’umiltà, i Cristiani dei primi secoli; l’abnegazione civica, i Romani, e via dicendo: e da quella deducono le regole della condotta — limitate ma imperative: buone o cattive, giuste od ingiuste, poco importa: si applicano e nessuno osa aprir bocca? Nelle epoche invece in cui molti principii morali si mescolano, gli uomini sono spinti dalla diversità loro a volgere il capo, a cercar la ragione degli uni e degli altri.... Come nell’arte, dalla diversità degli stili e delle scuole: ma nell’arte sono con lei: questo sforzo, almeno in una certa misura, giova, perchè allarga il gusto e la facoltà di godere: ma nella morale invece non confonde le idee e non snerva la volontà, come si vede oggi? Molte virtù sono opposte: ed una epoca come la nostra, che vuol essere severa e misericordiosa, eroica ed umana, non saprà più essere nulla! Più il canale si allarga, e più la corrente indebolisce, langue, ristagna.... — Leggi allora — replicò il Rosetti — il Protagora. L’hai già letto? Ebbene ti ricordi la pagina in cui Socrate dimostra a Protagora che la virtù è una sola? Socrate è qui un po’ sofistico, come gli capita spesso nei dialoghi di Platone.... Ma insomma quel che dice mi par vero in parte almeno: perchè mi sembra proprio vero che tutte le virtù siano parti e organi di una virtù sola, che perciò può dirsi la virtù unica ed infinita: la Giustizia. Per parlare più alla buona: un uomo, per essere giusto davvero, dovrebbe raccogliere in sè tutte le virtù, limitando quelle che sono opposte le une con le altre: esser coraggioso e prudente, riflessivo e appassionato, severo e misericordioso, parsimonioso e generoso, duro e indulgente, eroico ed umano; dovrebbe inoltre essere e temperato e savio e intelligente e leale e fedele e verace e laborioso e onesto e istruito.... Direi anzi che il progresso si sforza di confondere e quasi di annullare tutte queste disperse virtù nella Giustizia, come i mezzi nel fine: perchè più si allarga l’impero della Giustizia nel mondo, e minor bisogno c’è di ogni singola virtù da sola. Scema la prepotenza, e quindi c’è meno bisogno di coraggio per combatterla; ci son meno colpe da punire o da perdonare, e quindi occorre meno severità e meno misericordia.... E via dicendo.... Non è forse vero che, per esempio, la tua Roma potè fare la prima grande codificazione del diritto dopochè una lunga pace ebbe mescolati insieme molti e diversi principii morali, sviluppando il sentimento della Giustizia a scapito delle virtù parziali? E così direi pure si spieghi come accade che gli uomini lamentano tanto la decadenza morale del mondo e il mondo invece sta sempre zitto.... Si lamentano, perchè vedono decadere questa o quella singola virtù parziale; e non si accorgono che mentre queste, mescolandosi, si stemperano quasi e si assottigliano, la Giustizia ingrandisce.... Insomma: la Giustizia è la virtù finale; e le altre virtù sono virtù strumentali: quindi le epoche e le civiltà che possono sacrificare le virtù strumentali alla finale, sono le più perfette e anche le più fortunate.... Dico: quelle che possono; perchè il mondo in cui viviamo è un turbulento pianeta, pieno di guerre, di rivoluzioni, di catastrofi, di torbide passionaccie, di interessi obliqui. E ogni tanto capitano dei tempacci oscuri, in cui altro che alla Giustizia! Popoli, stati, classi, partiti, uomini devono badare alla pelle!... In quei tempi si fa quel che si può: allora tu hai ragione: chi si sa limitare in una virtù parziale, buona arma alla offesa o alla difesa, serrar lo stretto e far violenta la corrente, quello ha ragione! Tacque: due volte percorremmo su e giù in silenzio il ponte deserto, lungo il muggito invisibile del mare squarciato, intravedendo dai vetri i passeggeri seduti nelle sale, gesticolanti muti nella luce. — «Tout cela se tient», — disse, dopo un poco, il Cavalcanti. — E il progresso intellettuale? — aggiunsi io. — Avrà pur esso la sua formola e regola.... — Sicuro. Questa: l’uomo impara sempre, anche sbagliando: perchè non c’è errore quando c’è sincerità. Ogni errore sincero è una verità.... — Ma che cosa dice, ingegnere? — esclamai, quasi sussultando. — Ma allora sarebbero vere tutte le opinioni che sembrano tali a una generazione. Non ci mancherebbe altro! Pensi alle conseguenze! Non c’è fola o pazzia di cui l’uomo non sia stato convintissimo e persuasissimo.... ad un certo momento. — E tutte furono vere — rispose sorridendo il Rosetti. Ma non mi lasciò il tempo di protestare, chè afferrandomi il braccio: — Parzialmente e limitatamente vere, però! — soggiunse. — La verità, come la bellezza, è un sentimento personale: che si estrinseca in un sentimento comune, obbligatorio, imperativo, per via di una limitazione.... La formola era oscurissima, e glielo dicemmo. Ma il Rosetti: — Vedrò di spiegarmi chiaro e spero di conchiudere — disse. Poi volgendosi a me: — Io non mi ricordo più che giorno è oggi: lo chiedo a te: tu mi rispondi: giovedì. Ma a rigor di logica io avrei il diritto di dubitare della tua risposta, perchè tu potresti sbagliarti: e quindi pure il diritto di verificare la tua risposta, consultando per esempio il calendario che è nel refettorio. Ma anche il calendario potrebbe ingannarmi, puta caso se il capo dei camerieri avesse dimenticato di levare il foglio questa mattina: io avrei dunque il diritto di accertare questo punto, interrogando il cameriere. Ma costui potrebbe ingannarmi o ingannarsi: e via dicendo.... Ammesso pure che io giungessi a stabilire con sicurezza che oggi è giovedì, avrei allora il diritto di domandarmi che cosa è un giovedì. Una divisione del tempo. Ma il tempo si può dividere? E che cosa è il tempo?... Tu vedi dunque che il solo quesito: «che giorno è oggi?» potrebbe condurmi in capo al mondo o nei più impervii e oscuri abissi della metafisica, se io volessi inseguire il dubbio che mi fugge innanzi sinchè mi regge il fiato. Ma io non lo inseguo.... Quando tu mi hai risposto «oggi è giovedì», io ho lasciato i dubbi fuggir per l’infinito a loro posta: e mi son persuaso. È giovedì! Il sentimento della verità, la persuasione, è nato dunque in me da una limitazione, perchè ho limitato il dubbio; limitazione non necessaria, provvisoria, perchè da un momento all’altro potrebbe sopravvenire un fatto — un altro discorso, un altro calendario — che mi obbligherà a ricredermi, cioè a trasportare più lontano il limite del dubbio. Per qual ragione l’atto di volontà che interrompe il mio dubitare scatta appena tu mi hai risposto: «è giovedì»? Se anche volessi, non saprei sciogliere questo quesito; e questa è già una buona ragione perchè non mi ci provi. Ma in questo mistero mi par di discernere chiaramente una cosa sola: che una specie di opinione pubblica — o volontà grande — mi obbliga, ad un certo punto, dal di fuori, sotto pena di passare per matto, a non dubitare più. Se a proposito del dubbio «che giorno è oggi?» io facessi una inchiesta infinita e mi mettessi a specular sul tempo, tutti mi consiglierebbero di consultare un psichiatra. Solo i malati di follia del dubbio e i bambini si divertono a smarrirsi nell’infinito saltando di «se» in «se» e di «perchè» in «perchè».... — E io, quando ho bevuto troppo — pensai. — Dunque — continuò il Rosetti — quel sentimento della verità che noi chiamiamo persuasione, è nato in me da una limitazione arbitraria, provvisoria e imposta a me in parte almeno anche da una volontà estrinseca. Quindi è una verità provvisoria e limitata. E tali sono — limitate e provvisorie — tutte le verità, anche le dottrine reputate più sicure delle scienze che sembrano più fondate sull’evidenza. No, la scienza non è falsa, è vera; ma non può scoprire che verità provvisorie: perchè sia che noi vogliamo sapere, che giorno è oggi o come è fatta la materia o come i pianeti si muovono o come lo stomaco digerisce o quel che successe venti secoli fa a Roma, non può nascere in noi persuasione se la mente ad un certo segno non cessa dal dubitare: e questo segno non è mai necessario, definitivo, immutabile, perchè in parte almeno è tracciato da forze estrinseche; dalla volontà di un’epoca o di una civiltà, talora; talvolta dalla stessa limitazione delle forze umane. Per quale ragione si vede ogni dotto ed ogni generazione di dotti fermarsi, cercando il vero, ad un certo punto? E giunti a quello non dubitano più, non vedono più i fatti che li contradicono, son sordi ai dubbi che qualche solitario mette innanzi troppo presto? Perchè soltanto quando una nuova generazione sorge, il dubbio ricomincia ad operare negli spiriti e l’ultimo limite del sapere può essere trasportato più lontano? Perchè l’intelligenza degli uomini e delle generazioni è limitata. Ed ecco per qual ragione le verità nascono le une dalle altre; ed ogni figlia nascendo uccide la madre che l’ha partorita e morirà a sua volta partorendone un’altra; ecco perchè noi possiamo affermare che ogni opinione la quale è stata sinceramente creduta vera per qualche tempo dal genere umano e lo ha fatto pensare, e ha figliato, era provvisoriamente e in parte vera; possiamo affermare che le idee di cui ci serviamo, ci servono e ci sono comode perchè sono vere, almeno parzialmente e nella parte in cui ci servono, e non già che sono vere perchè ci fanno comodo e servono. La geometria di Euclide serve a misurar la terra, perchè è vera: ed è vera sebbene non possa dimostrare gli assiomi da cui muove; e non li può dimostrare, questi assiomi, perchè anche la geometria deve a un certo punto cessar di dubitare e di frugare e di indagare e di chieder «perchè?» se vuole misurare la terra e non già diventare il venerato ma inutile piedestallo di glorie accademiche. Lo so: anche intorno a questo si può, volendo, sottilizzare, dubitare, inquisire, frugare, rimestare sino all’infinito; e gli spiriti inquieti e sottili che se ne dilettano abbondano oggi! La gnoseologia è alla moda! Io non me ne intendo; ma ragionando così all’ingrosso direi che il nostro pensiero è spinto dall’orgoglio, dalla curiosità, da un certo suo ardore generoso, come un pallone dal gas e dal vento, a vagabondare e sperdersi nell’infinito: ma la volontà è il robusto canape che lo trattiene in vista della terra.... Quindi se si suppone che fuori di noi una realtà esiste; che la verità è il sentimento mediante il quale a poco a poco noi quasi direi palpiamo e riconosciamo la realtà in cui viviamo, come un cieco le cose, via via nei singoli punti che la nostra mente tocca, uno dopo l’altro; se alla nostra smania di dubitare di ogni cosa o di voler tutto spiegare noi vorremo porre almeno il limite di questa ipotesi che non mi pare poi troppo irragionevole, mi sembra che noi possiamo collocarci da noi medesimi nell’Universo, in un posto abbastanza sicuro e comodo per volgere intorno, modestamente, gli sguardi, senza presumere della nostra ragione sino al punto di volerla perfino negare e annientare! Tacque. Io volli tentare ancora una obiezione. — Sia pure. Ma come si potrebbe dire che il sistema tolemaico è parzialmente vero? Del sistema copernicano, questo, lo capirei; ma del tolemaico no: è interamente falso. — Se tu lo paragoni al sistema di Copernico, sì, ma no, se lo paragoni ai miti cosmici dell’antico politeismo che esso ha confinato nel regno delle favole: al mito di Atlante che regge sulle spalle il mondo, per esempio. Paragonato a questo mito, il sistema tolemaico conteneva una verità parziale e provvisoria: e cioè che questa gran notte fiammante di astri, che si distende sul nostro capo, è un tutto legato insieme, e che in questo tutto ci sono dei corpi che si muovono, secondo una certa legge. I Greci impicciolirono troppo l’universo? Si sbagliarono di grosso nel descrivere le posizioni e i movimenti rispettivi di questi corpi celesti? Poco importa: pensate alle fole che gli uomini avevano collocate per migliaia di anni nel firmamento, e vedrete che smisurato passo nell’infinito, verso la verità, fece la nostra mente, escogitando quella teoria. Raffrontate l’idea che è provata falsa a quella che la precedette e che essa ha sbugiardata, non a quella che la seguì o da cui fu convinta di errore, se volete scoprire quel che essa ha insegnato alla nostra ignoranza; se volete persuadervi che gli uomini con il tempo e studiando imparan davvero e imparano sempre, anche quando si sbagliano. Poichè non imparerebbero nulla, se le verità non stratificassero; se ogni generazione non facesse un passo innanzi nella realtà che la circonda; se tutte fabbricassero dei castelli in aria o disegnassero degli arabeschi convenzionali sulla faccia dell’universo. Se il sole può girare intorno alla terra e la terra intorno al sole, a nostro capriccio, come ci fa più comodo, non c’è progresso ma semplice passaggio e oscillazione e altalena da Tolomeo a Copernico, sul pernio dell’interesse e per una spinta estrinseca. Ma se con Copernico la mente umana ha fatto invece un altro passo nelle vie dell’infinito verso la verità, allora essa non potrebbe retrocedere se non con uno strappo e laceramento di sè medesima; allora la verità conquistata impedisce all’uomo di cercare il suo comodo ed utile in credenze che oppugnano quella: allora la gendarmeria celeste del politeismo antico non potrà più ritornare a dominare gli spazi infiniti; e il firmamento — si avvicinò al parapetto, si fermò e guardò in alto il cielo — ridiventa il primo e sublime sillabario in cui i nostri occhi hanno imparato a decifrare l’oscuro alfabeto della natura; la prima palestra ove il pensiero umano si è esercitato alla conquista della terra; il primo _perchè_? scritto dalla natura a caratteri di fuoco sul tetto dell’universo affinchè tutti gli uomini lo leggessero e si sforzassero di scioglierlo; il primo degli enigmi con cui essa ci attira sulle vie dell’infinito verso quella meta che ogni sera crediamo di avere raggiunta e recliniamo al sonno il capo stanco, lieti che il viaggio sia terminato; ma risvegliandoci poi al mattino freschi e riposati, vediamo che si è allontanata di nuovo, e ripigliamo l’eterno viaggio.... La Verità! Non meno luminosa delle costellazioni che il Rosetti ci additava, rifulse ai nostri spiriti, nella notte oscurissima, questa risposta! Vinti ambedue tacemmo, camminando con in mezzo il Rosetti: io quasi lieto di averlo visto inchiodare di nuovo il sole — e con tanta scioltezza di braccio — al centro dell’Universo! Ma avevamo fatti pochi passi in silenzio che il Cavalcanti, fermandosi d’improvviso, verso il mezzo del ponte: — Ingegnere, ingegnere, — disse a un tratto e vivacemente — ma alla sua parola mi par di veder rinascere e rivivere, qui sulle soglie del mare antico, quel mondo mediterraneo che anche io avevo dubitato talora — e Ferrero lo sa! — fosse spento e sepolto! Ma questa austera disciplina del pensiero, che vuol limitarsi per generar nel finito, con forza sicura e precisa, a simiglianza di chiari e definiti modelli, una dopo l’altra, le arti, i veri, le leggi, i costumi; e che non presume di risalire alla ultima fontana di tutte le cose, di sconfinar nell’infinito, di toccar il vertice dell’assoluto, di dar fondo all’universo.... Ma non è questo il pensiero che ha generata l’antica civiltà della Grecia e di Roma, quella dell’Italia e dei paesi latini sino alla Rivoluzione Francese? Il seme onde è nata la epopea, la tragedia e la scultura greca, la estetica e la morale di Aristotele, la politica e il diritto di Roma, l’arte italiana del Medio Evo, la filosofia della Chiesa cattolica, la scienza di Galileo, la religione di Pascal e il teatro di Racine e di Molière? Limitazione, concentrazione e disciplina: tale non è la forza intima di quelle prodigiose civiltà antiche i cui venerabili avanzi riempiono di stupore anche noi, lontani nipoti, pur superbi come siamo delle nostre ricchezze? Ed ora capisco, capisco! Quale immane sconvolgimento arrecò nel mondo la scoperta dell’America, la Rivoluzione Francese, la macchina, l’irrompere dei barbari nel campo dell’antica cultura! Ma a questo punto il Rosetti si lagnò di sentirsi un po’ stanco, perchè avevamo camminato assai: ci pregò perciò di sederci. Ci sedemmo infatti a mezzo del ponte, su tre sedie, con la faccia alla notte ed al mare. — E il mito di Prometeo e di Vulcano? — disse poi, d’improvviso, il Rosetti, dopo un momento di silenzio, sorridendo maliziosamente. — Lo abbiamo noi dimenticato? Ahimè: io temo invece che il mare in cui le sembra di entrare, il mare sulle cui rive Omero cantò e Fidia scolpì e Aristotele meditò; il mare che Roma incorporò nella sua grandezza; il mare su cui veleggiarono gli Apostoli spargendo la parola di Cristo; il mare in cui Venezia remota specchiò i suoi marmi; il mare che fu insanguinato dalle guerre della Croce e della Mezzaluna; il Mediterraneo degli antichi e dei poeti, è ahimè!, ho paura, un museo devastato dai barbari.... Gli Dei non hanno dato ascolto ad Apollo; e il vaticinio si avvera: unico Dio, anche sulle rive dell’antico Mare dalle cui schiume è nata Afrodite, ormai impera il Fuoco. Sì, certo: arricchire per arricchire è roba da pazzi — come dice il nostro dottore. Non occorreva esser Salomone, per confutare i brillanti sofismi dell’Alverighi. Eppure i nostri tempi vogliono arricchire per arricchire, lo vogliono e basta, come disse l’avvocato: anzi non vogliono ardentemente altra cosa. «Qua grano, ferro, lana, cotone, oro, argento, non sonetti e quadri, per saziare i popoli e le genti!» ci ha gridato in faccia, un giorno, a noi tutti esterrefatti, l’avvocato Alverighi. Una bestemmia ci parve, ed è e sarà sempre, a chi ripensi le glorie dei tempi che furono: ma volgiamoci invece verso le fameliche moltitudini che corrono su e giù per le vie del mondo, che fanno ressa alle porte delle città, delle officine, dei cantieri, delle banche, degli uffici, e nei porti dell’Europa da cui si salpa verso l’America.... Non stancarti, Ferrero, di ripetere queste cose alla tua signora, che vuole scrivere un libro contro le macchine.... C’è oggi genio, filosofia, religione, partito, Stato — potentato umano o divino — che se la senta di affrontare questa fiumana di cupidigie e di ritorcerla verso le sorgenti? Che non sia sicuro, se lo tentasse, di essere travolto come un rottame di ghiaccio nei gorghi del Niagara invernale? Il mondo la vuole, questa vana abbondanza; e vuole che progresso sia l’accrescere la ricchezza; e quindi la potenza e la velocità di tutte le macchine a cominciar dai transatlantici, come dice il Vazquez: lo vuole e basta. A dimostrare che questa definizione del progresso è arbitraria, contradittoria, rovesciabile, come tutte le definizioni del resto: ci vorrebbe poco. Ma a che gioverebbe? Essa sta incrollabile nella mente dei moderni come la colonna Vendôme.... Persuadete il Vazquez, se vi riesce, che è in errore! — E quindi — sospirò di nuovo il Cavalcanti — l’America, la Rivoluzione Francese, la macchina hanno rimbarbarito il mondo.... — Hanno generato un secolo senza limiti e perciò senza appoggi, nel quale l’uomo procede come un gigante che vacilla a ogni passo — rispose il Rosetti. Poi tacque, per un istante pensoso, guardando la notte, mentre il mare squarciato ripigliava a muggire, invisibile. Riparlò poi lento, lento: — L’America, la Rivoluzione Francese, la macchina.... La signora Ferrero l’aveva già detto.... Vi ricordate invece lo strano discorso dell’avvocato, quella sera in cui ci raccontò la sua vita? La storia si è sbagliata sino alla scoperta dell’America! Ma che cosa è dunque successo nel mondo, dopochè abbiamo scoperta l’America, se delle persone intelligenti e istruite possono affermare, le une che abbiamo finalmente trovata la nostra via, le altre che l’abbiamo smarrita? Ma che cosa ha fatto Cristoforo Colombo; e dobbiamo, sì o no, collocarlo in paradiso? Sì, certo: Cristoforo Colombo fece un passo ardito.... Oltrepassò un limite! Il limite era piccolo, piccolo.... Ma la nostra civiltà l’aveva sempre rispettato: per secoli e secoli, come disse l’avvocato, essa si era rintanata in questa buca del Mediterraneo — termine invalicabile del mondo le Colonne d’Ercole che abbiamo attraversate poco fa.... Ed ecco, un giorno, l’«uomo più che divino», lo varcò, questo limite, e sconfinò nell’Atlantico con poche navi.... Il Caso o la Provvidenza o la Ragione della storia vollero che nell’anno in cui Cristoforo scopriva l’America, avesse diciannove anni Copernico, che di là a qualche tempo doveva, da una piccola città della Polonia, saltare i termini tracciati da Aristotele e da Tolomeo all’Universo e sconfinare anche lui, ma con la mente, nell’infinito..... Cosicchè nel corso di poche generazioni, l’Europa vide — tra stupefatta, pavida e esultante — pochi arditi oltrepassare i due termini che l’antichità aveva considerati inviolabili; e non soltanto non perire, ma ritornare con un ricco bottino di terre e di astri.... E allora molti si slanciarono — c’era da aspettarselo! — sulle traccie dei primi sconfinatori; e nuove terre emersero da ogni parte sull’Oceano; nuovi astri apparirono da ogni parte nell’infinito; nuove idee, nuove ambizioni, nuove cupidigie nacquero nelle menti dalle prime avventure e dalle prime vittorie. La terra era dunque più vasta e più ricca, l’ingegno dell’uomo più possente, che gli antichi non avevano pensato? Senonchè più gli uomini si facevano arditi o ambiziosi sconfinando sul globo e nell’Universo, e più si sentivano impacciati da altri limiti: tracciati questi non più sulla terra, e nello spazio, ma tra uomo e uomo e nella mente di ognuno; e che sorgevano fitti fitti da ogni parte, a indicare i confini del Vero e del Falso, del Bene e del Male, del Bello e del Brutto. Quanti erano e tutti inviolabili! La Famiglia, la Scuola, lo Stato, l’Accademia, gli Antichi, la Tradizione, il Costume, la Povertà, la Legge, il Patibolo, il Re, Aristotele e Dio: Dio soprattutto, il più antico augusto ed universale dei Limiti! Lei ha ragione, Cavalcanti: limitazione, concentrazione e disciplina: il mondo visse sino alla scoperta dell’America entro questo triangolo: e il mondo antico, che è stato l’oggetto dei tuoi studi, Ferrero, fu, a confronto del moderno, sopratutto un mondo chiuso, limitato cioè da tutte le parti. Il che potrebbe spiegare all’Alverighi, per qual ragione la storia si sarebbe sbagliata sino alla scoperta dell’America; e perchè gli antichi fecero morire Anteo, il vecchio mondo, sulle sponde dell’Atlantico. Ma come potevano gli antichi dilagare sulla terra tutta quanta, chiusi come erano da ogni parte in quei limiti? Approfondire, dovevano per necessità, non potendo allargarsi: creare arti, filosofie, religioni, non potendo conquistare la terra! Ma man mano che le navi salpavano a scoprire o a popolare nuovi paesi, e i cannocchiali frugavano gli spazi siderei, e le prime ricchezze dell’America giungevano in Europa, e le nuove ambizioni e cupidigie si rinfocolavano negli animi, la mente dell’uomo prendeva coraggio a osservare, ad uno ad uno, anche i limiti posti a segnare i confini del Bene e del Male, del Vero e del Falso, del Bello e del Brutto: se erano saldamente piantati, se non si potessero trasportare altrove e collocarli meglio: tutti e anche — anzi, sopratutto — quello che era il più universale, il più antico ed augusto dei limiti: Dio! L’uomo incominciò a bramare non più solo la Ricchezza, ma anche la Libertà; inventò le macchine, perfezionò le scienze; osò chiedersi se il nuovo, solo perchè nuovo, non fosse migliore dell’antico; farneticò di bellezze ancora non vedute che non rassomigliassero a nessun conosciuto modello, ordini sociali che si reggessero al di fuori di ogni limitazione convenzionale e in cui il dovere diventasse diritto; pretese di rendere a sè medesimo ragione di tutto, anche di sè e del suo pensiero; immaginò parecchie filosofie sottili, che sotto pretesto di collocarlo nel posto di onore, trasportassero ai confini dell’infinito rivelato da Copernico, là dove non potesse disturbare nessuno, il più universale antico ed augusto, ma anche il più incomodo dei Limiti.... Gli antichi non si erano sbagliati e la Chiesa sapeva quel che si faceva, condannando Giordano Bruno e Galileo: Dio doveva passare un brutto quarto d’ora, il giorno in cui il vortice dell’infinito travolgerebbe la terra come un granello di polvere! L’uomo insomma cominciò a diventar ricco e sapiente: e per ciò superbo, ambizioso, intrattabile e insaziabile, come ha detto la tua signora.... Sinchè un giorno.... Che terremoto! Al suono della «Marsigliese», sulle rovine della Bastiglia, sui campi di Marengo e di Austerlitz, l’opera iniziata da Colombo e da Copernico, continuata da Galileo, da Descartes, da Voltaire, da Rousseau, da Kant fu compiuta: l’uomo si levò, strappò e rovesciò tutti i limiti antichi, e i nuovi li piantò egli con le sue mani; a suo piacere, e non solo a sè medesimo, ma anche alle autorità del Cielo e della Terra, che sino allora glieli avevano imposti: li piantò radi radi e bassi bassi a sè medesimo, fitti fitti ed alti alti intorno allo Stato: limitò da tutte le parti l’autorità e liberò sè più che potè; quanto a Dio, seguì il consiglio dei suoi grandi filosofi. Lo traslocò ai confini dell’infinito! E allora incominciò la straordinaria avventura di cui noi siamo testimoni: ricca, sapiente e libera; armata di fuoco e di scienza; padrona di tanta parte della terra e in questa di un continente così vasto e ricco come l’America; non impacciata quasi più da alcun limite, non dallo spazio, non dal peso, non dalla materia e dalle sue leggi che essa ha vinte con le sue scoperte e le sue macchine, non da Dio che ha deportato nell’infinito per restar essa sola signora della piccola terra, la civiltà nostra sconfina da tutte le parti, travolta come da una ebbrezza dell’illimitato.... Sì, l’Alverighi ha ragione: ognuno di noi è un semidio a petto degli uomini che vissero al tempo di Dante e di Cesare. Noi abbiamo trasecolato a sentire la storia dell’Underhill e del Feldmann. Passi ancora per Underhill: quello lì, almeno, era un uomo indiavolato, un d’Artagnan degli affari. Ma l’altro! Che un uomo pauroso, incerto, sofistico — ultimo rampollo di una vecchia razza randagia — rincantucciato nel suo studiolo di New-York, arzigogolando, scrivendo, telefonando e telegrafando, abbia potuto raccogliere in pochi anni tante ricchezze! Neppur sua moglie riesce a capacitarsene; e quasi quasi protesta! Ma il miracolo è oggi la trama della esistenza quotidiana. Noi viviamo tutti nel mondo delle fiabe e dei miti. Io getto una lettera in una buca; e con quella piccola spinta la fo volare in capo al mondo. In una stazione un convoglio pesantissimo aspetta; e un uomo solo, muovendo con un dito una leva, se lo trae dietro, docile docile. L’uomo che sgolandosi non riesce a farsi sentire a cento passi, stacca un manubrio e parla e intende a mille miglia. Ognuno di noi compie oggi cento miracoli al giorno; e in che modo e per qual ragione? Perchè abbiamo osato oltrepassare tutti i termini, innanzi ai quali i nostri padri avevano indietreggiato. La terra oscura e fredda, in cui i nostri padri accendevano a fatica qua e là pochi focolari, divampa oggi tutta come un vulcano dai mille crateri; arde il fuoco in ogni parte, pronto a tutti i nostri bisogni e capricci, ad esuberanza, quasi senza limite; e i miracoli si moltiplicano; e l’abbondanza dei beni è così grande che alla ripartizione ne tocca a tutti più del meritato, anche se molti riscuotono meno del desiderio e perciò si credono derubati. Ma che cosa sono i cento milioni del signor Feldmann e i cinquecento di Underhill, se non particelle delle spoglie opime conquistate sfruttando illimitatamente, con il fuoco, l’America? Senza le ferrovie, non si potrebbero mettere a frutto paesi così immensi come l’Argentina, il Brasile, gli Stati Uniti; chi possiede le ferrovie è laggiù un sovrano, l’arbitro dei tesori, il depositario delle chiavi della prosperità. Le ricchezze del signor Feldmann confermerebbero dunque tutt’al più quel che ho sempre pensato: che gli Stati d’America — nel Nord e nel Sud — hanno commesso un grave errore abbandonando le ferrovie ai privati invece di farne la proprietà della nazione come in Europa sono le strade. Ma io divago.... Dicevo dunque.... Ah sì: oggi ognuno di noi è proprio un semidio, come vuole l’avvocato. E all’uomo, inebriato di questa potenza, chi oserebbe affermare che accrescerla ancora e con la potenza la ricchezza non sia bene, e quindi progresso? E che il pane abbondi, che il fuoco abbondi, che abbondino l’oro ed il ferro; che noi possiamo attraversare più veloci lo spazio con il pensiero e con il corpo? Senonchè, senonchè.... Ecco che un periodo nasce; una contradizione spunta; un tormento incomincia. L’uomo che ha oltrepassati tutti i limiti, non rischierebbe per caso di smarrirsi nell’illimitato? Se tutte queste cose sono un bene e progresso, e se noi le vogliamo, noi dobbiamo esser disposti a pagarle; a pagare le rapide fortune che alcuni di noi — il Feldmann e l’Alverighi, per esempio — stanno facendo; a pagare la velocità del treno, dell’automobile, dell’areoplano, del telegrafo; a pagare tutte le profusioni e tutte le comodità del mondo moderno — la luce, il calore, il fresco, la notizia pronta al nostro desiderio — a prezzo di quella mediocrità che invade tutte le cose.... Se gli uomini desiderassero ancora nelle case, negli arredi, nelle vesti, quella studiata bellezza che la lunga disciplina della mano aveva saputo infondere sino alla Rivoluzione Francese, come potrebbe diluviare sul mondo la abbondanza dozzinale e spicciativa della macchina? Le orde sbarcate da ogni parte di Europa, impazienti di conquistare il vello d’oro, avrebbero potuto ampliare così rapidamente alle foci dell’Hudson, in cinquanta anni, la città che noi non sappiamo decidere se sia bella o brutta, se avessero voluto osservare scrupolosamente le regole architettoniche formulate da Giovan Battista Alberti? Nel secolo del progresso tutti si lagnano che tutto decade: gli operai, gli insegnanti, i soldati, i pubblici funzionari: e perchè? Perchè ne cresce la quantità. Per soddisfare questo insaziabile secolo e per tener dietro alla corsa del progresso, occorrono oggi tanti operai, tanti maestri, tanti soldati, tanti funzionari che i padroni come gli Stati non possono più scegliere con rigore: devono accettare insieme buoni, mediocri e cattivi; e quindi i buoni, che sempre son pochi, si perdono in mezzo ai più, che sono sempre mediocri. La quantità vince la qualità. Deteriori dunque il mondo purchè progredisca.... Ma sino a qual punto? Sino a che punto dobbiamo noi pagare la quantità a prezzo di qualità? Sinchè ogni differenza di qualità tra le cose si riduca ad esser la più piccola che si possa imaginare? In altre parole: deve esserci un criterio qualitativo che sia la misura della quantità: o per parlar più alla buona, deve esserci un limite ai desideri degli uomini e alla quantità delle ricchezze: e se ci deve essere, quale è? Un limite estetico? Un limite morale? Quali sono i bisogni legittimi; o a che punto incomincia lo spreco? Apollo lo chiede in mezzo alle rovine dell’Olimpo cantato da Omero; e non ai congressi dei filosofi, ma alla volontà della nostra epoca. Noi dovremmo volere un criterio per distinguere il consumo legittimo dallo spreco e dall’orgia, volere un limite della quantità: volerlo e basta. Ma, ahimè, noi abbiamo oltrepassati tutti i termini; e là volontà dei nostri tempi vacilla nell’illimitato; non sa risolversi; vuole e disvuole: a volte rammarica addirittura che una melmosa abbondanza copra il mondo guastando le arti, le fedi, le virtù del passato e quasi bestemmia il progresso: ma poi non sa frenar le sue voglie e si ributta nell’orgia. Onde noi non possiamo godere le immense ricchezze accumulate; e queste van diventando la nostra croce. Ed eccolo il segreto e spietato tormento dei due mondi tra cui navighiamo e di tutta la civiltà delle macchine: è questa incertezza, il non saper come distinguere spreco e consumo, la lotta continua e sempre indecisa tra la quantità e la qualità. — Tacque un istante, pensando; poi ripigliò: — Vi ricordate come l’altra sera io confrontai, discutendo del progresso, gli Stati Uniti e la Francia? Voglio ora confrontarli di nuovo, ma questa volta sul serio, per opporre l’uno all’altro i due tormenti e i due mondi: quantità e qualità. Sfogliate le statistiche dell’ultimo cinquantennio: confrontate quanti erano e quante ferrovie possedevano gli Americani cinquanta anni fa ed ora; e quanto oro, rame, ferro, argento, cotone, cereali, petrolio cavavano dalla loro terra e quel che fabbricavano.... È storia contemporanea o non sono addirittura i Saturnali della quantità? Si è veduto mai un popolo salir di corsa, a quel modo, a quattro a quattro, i gradini della fortuna? Eppure, eppure.... Eppure l’America non è soddisfatta. Ma perchè tanti vanno ripetendo in Europa che gli Americani non pensano che a far quattrini? Ma se non passa giorno che non tentino di creare qualche nuova religione; se non c’è modello di arte o di eleganza che non si sforzino di appropriarsi, di capire, di imitare — dai quadri italiani alle ceramiche giapponesi, dalle scuderie inglesi alle foggie parigine, dall’opera italiana a tutte le architetture del mondo, dalla tua storia romana, Ferrero, alle Università dell’Europa, dal vedantismo dell’India al socialismo e all’imperialismo dell’Europa, dallo spiritismo al sionismo, dall’intellettualità allo snobismo! Ma c’è forse paese al mondo, che si inginocchi con più mistico fervore innanzi alle divinità dell’Arte, della Scienza? Che sia tormentato da un più inquieto bisogno di migliorare tutte le cose; e che per migliorarle più solleciti, brughi, disturbi il Cielo e la Terra? Dove le classi medie spendano tanto denaro, faccian tanti debiti e si angustino di più per imitare i modi e i lussi dei ricchi? Per guardare attraverso qualche spiraglio socchiuso nell’Olimpo della ricchezza? Gli Stati Uniti sono la terra classica dello snobismo, ammettiamolo pure: ma per quale ragione? Perchè in mezzo alle loro faccende un bel giorno gli Americani hanno dichiarata la guerra alla Spagna? Che cosa cerca l’America con tanto affanno nelle idee mistiche, nelle guerre, nelle dottrine filosofiche, nelle istituzioni, nei costumi, nelle eleganze dell’universo e perfino nella «Christian Science», che Dio le perdoni! Che cosa cerca nelle botteghe degli antiquari d’Europa il signor Feldmann e con lui la turba dei ricchi americani che hanno fatto tanto rincarare le anticaglie del vecchio mondo? Un criterio di qualità! Perchè la quantità sola non basta, e sazia, e non la signora Feldmann soltanto, ma tutti gli uomini e quindi anche gli Stati Uniti. Perchè una civiltà non è che un sistema di criteri di qualità, di «étalons de mesure» come dicono in Francia. Perchè gli Americani, dopo avere con tanta foga e prestezza, tratta dalle viscere della terra quella immensa ricchezza, la devono anch’essi tradurre in qualità: in Bellezza, in Virtù, in Eleganza, in Sapienza, in Gloria, in Grandezza! Se no, era inutile produrla! Ma manca il punto d’appoggio: manca il tempo e la calma; ci son troppi modelli, e manca la discrezione e il discernimento che abbiamo visto essere la regola del progresso artistico; mancano insomma i limiti e quindi i criteri per scegliere, e l’atto di volontà e la forza sovrana che li imponga; non c’è ancora e credo non ci potrà essere sinchè il Fuoco sarà il solo Dio, tradizione, disciplina, continuità sì nel fare che nel godere; ma in tutto, nell’arte come nella politica, nella scienza come nella religione, delle voghe passeggere e furiose, delle febbri violente ed efimere, come quelle del signor Feldmann che irritano tanto la sua signora! Invano la quantità smania di tradursi in qualità sinchè non sappia limitarsi! Gli Stati Uniti ricevono da tutti i tempi e da tutto il mondo filosofie, arti, religioni, dottrine, idee, perchè ancora non sanno scegliere: come il signor Feldmann, che si è americanizzato, direi, più della moglie. Scavalchiamo ora l’Oceano; e vedremo la qualità che resiste per non sciogliersi tutta in quantità. Facendo la Rivoluzione, la Francia ha ferita a morte quell’antica civiltà limitata che si sforzava di perfezionare la qualità più che di accrescere la quantità delle cose. L’ha ferita, è vero — non intenzionalmente, non dolosamente, direbbe un giurista — mirando e pensando ad altro, tanto è vero che essa ha sempre aspirato e aspira ancora — sola forse nel mondo — a valere e farsi valere più per la qualità che per la quantità.... Ma l’eccellente non si può moltiplicare così presto e facilmente e in così larga misura come il mediocre.... Ed ecco il popolo che non tremò innanzi all’Europa in anni, che osò sfidare Dio e insediare sul suo trono la Ragione, eccolo esitare, inquietarsi, quasi impaurirsi perchè i numeri ingrossano più rapidamente nelle statistiche dei suoi vicini che nelle sue; e non sa se decade o va innanzi agli altri; ora è fiero, ora si scoraggia; si sente solo a volte e si chiede: che fare? Resistere sino all’estremo contro l’universale trionfo della quantità? fare come gli altri, americanizzarsi? Quando nelle mie corse solitarie per il mondo capito a Parigi, spesso risalgo al tramonto la Avenue des Champs Elysées dal Louvre verso l’Arco del Trionfo.... Anche voi, credo, conservate indelebile nella memoria l’imagine di quell’ora.... Io mi ci sento come piccolo piccolo sopra una immensa via maestra della storia e del mondo; e mi pare che gli uomini che mi passano accanto su quella vengano da ogni parte della Terra, per recarsi a lontani ed arcani destini.... Ma sai tu qual pensiero spesso mi assale e mi inquieta, da qualche tempo, sui Campi Elisi, in mezzo a quel veloce e infaticabile trascorrere e balenare di moventi eleganze, sotto l’ultimo raggio del sole? Penso al ferro che Vulcano fucina in Germania! Un milione e mezzo di tonnellate nel 1870, due nel 75, tre nell’80, poco meno di cinque nel ’90, otto e mezzo nel ’900, undici nel ’905, poco meno di quindici nel 1910! Amici miei, tra Apollo e Vulcano, da quel giorno in cui Apollo pronunciò il suo discorso nell’Olimpo, è incominciata la guerra che infuria oggi nel mondo. Chi vincerà? È il ferro un metallo prezioso davvero! Se ne fanno ferrovie e macchine: se ne fanno cannoni, navi e fucili. Ma ingombrare il mondo di ferro fino a scacciarne la bellezza e tutte le prove della propria eccellenza che la mente umana può fare, che altro è se non rimbarbarirlo? Chi vincerà, Vulcano od Apollo? La quantità o la qualità? Tacque di nuovo. Soggiogati da questa luminosa concatenazione di profondi pensieri, noi pure tacemmo, quasi rispettando la sua meditazione. Sul ponte deserto, alla fioca luce delle lampade, passò, in punta di piedi, senza romore, un marinaio. L’Oceano riprese a scrosciare come una cascata nella notte. Quanto tempo passò? Alcuni minuti forse, lunghi e raccolti: sinchè il Cavalcanti a bassa voce, forse per sospingere di nuovo il discorso, quasi timidamente: — Vulcano.... ho paura, — disse. — Chi lo sa? — rispose lentamente il Rosetti. — L’avvenire è più oscuro di questa notte in cui navighiamo. Certo a giudicare da quel che si vede si direbbe che Vulcano sta per diventare il padrone del mondo.... Eppure.... Che di nuovo, come ai primi albori della storia, gli uomini ritornino ad adorare il Fuoco e soltanto il Fuoco.... no, non ci credo: non mi pare possibile. Solamente.... Solamente.... Apollo avrebbe bisogno di essere aiutato da un immenso atto di volontà di quelle moltitudini che oggi la spinta del progresso incalza a confondere il bello ed il brutto, il vero ed il falso, il bene ed il male, su tutta la faccia del globo, per arraffare i tesori della terra. — Fece una pausa, come esitando, poi: — Lo devo dire? Ed un atto di volontà che ponesse dei limiti.... dei limiti.... A che cosa? Prendo il mio coraggio a due mani: sinora ci ho alluso copertamente; non lapidatemi.... Che cosa è quella mancanza di convenzioni, di modelli, di regole, di principii, di tradizioni, di limiti intrinseci ed estrinseci a cui ho tante volte accennato — nell’arte, nella filosofia, nella azione, nello spendere e nel desiderare — se non la libertà, che da un secolo trionfa in Europa e in America? La libertà promessa dalla Riforma, dalla filosofia del ’700, dalla Rivoluzione? Parliamoci chiaro: Apollo si velò il volto divino per vergogna e dolore il giorno in cui vide la Libertà governare i due mondi con il braccio di dinastie scettiche, di aristocrazie infrollite, di democrazie doppie, di parlamenti ignoranti: e l’Europa e l’America rette da Stati che tremano in cospetto di coloro a cui dovrebbero incuter terrore; e non osano più spendere mille lire che facciano scandalo al bottegaio del canto: e si lasciano rimbrottare da qualunque meccanico o tessitore arricchito che non sanno amministrare la cosa pubblica così bene come essi i loro fondaci; e spogli di pompe e di cerimonie come di rispetto e prestigio, impigliati in mille interessacci e affaracci, assoldano i barbari che distruggono l’«Iliade» e l’«Odissea», e non si vergognano di dichiararsi incompetenti nell’arte, nella filosofia, nella religione: ignoranti cioè ed inutili! Ma il Fuoco e la Libertà avevano stretta da lungo tempo una segreta alleanza, signor Cavalcanti. Tutte le dottrine, tutte le filosofie, tutte le scuole, tutti i moti politici e religiosi e sociali, che negli ultimi secoli hanno o rovesciati o allontanati quanto bastava perchè non dessero impaccio tutti i limiti antichi.... Mio Dio, quanti sono! Vien la vertigine a pensarci: il protestantesimo, la Rivoluzione Francese, le filosofie critiche, il romanticismo, tutte le guerre e le rivoluzioni minori del secolo decimonono, le teorie democratiche, le istituzioni parlamentari, le libertà politiche, le ferrovie, i battelli a vapore, i libri di Rousseau, l’emigrazione, l’America, le scoperte della scienza, la diffusione dell’a, b, c.... Tutte queste diavolerie hanno diffuso negli spiriti, a poco a poco, quella mobilità, quell’orgoglio, quel desiderio di cose nuove, quelle cupidigie o ambizioni, in mezzo a cui e per cui il Fuoco ha potuto fare quel tale subbuglio nel mondo, che tanto sbigottisce la signora Ferrero. Ma il Fuoco trionfante ha ripagata la Libertà, dichiarando pubblicamente l’alleanza.... Poichè esso accresce ogni dì la mobilità degli spiriti, il loro orgoglio, il desiderio del nuovo, la cupidigia, l’ambizione, la fretta; e quindi la smania di libertà, il bisogno di rovesciare a destra e a sinistra i limiti.... Augusto Comte è oggi poco meno che obliato, tanto che ci siamo messi tutti quasi a ridere incontrando qui a bordo un suo superstite seguace: e perchè? Perchè voleva creare una filosofia limitata, che si astenesse dal porre in dubbio almeno la verità della scienza e la realtà del mondo; una filosofia che potesse essere, come la filosofia di Aristotele e di san Tommaso, uno strumento di disciplina. Trionfano le filosofie illimitate, che discutono perfino se la scienza è vera o se il mondo esiste; la stessa macchina che servì agli increduli per dare l’assalto a Dio, serve ora ai credenti per diroccare la scienza; da tutte le parti pullulano gli spiriti inquieti e sottili che insegnano agli uomini a ragionare illimitatamente di tutto, anche a rischio di rimaner senza più nessuna guida nel mondo: nè la religione nè la scienza. Ma che ci possiamo fare? La filosofia ormai, protetta da Vulcano, osa deporre la maschera, di cui si era coperta prudentemente in secoli più pericolosi; esce dall’incognito e mostra ufficialmente la sua qualità vera di grande maestra dell’arte di saltare i limiti, sotto colore di guardarli dal di fuori e dall’alto. Ma a questo punto non potei a meno di interrompere l’intenso ragionamento. — Ma ricercando quale è — dissi — il valore della scienza, oggi, la filosofia non si sforza forse di difenderci contro una nuova impostura che ci minaccia? Tutto vuol essere e dirsi scienza oggi: perfino le farneticazioni della signora Eddy. Scienza cristiana, ma scienza! E in nome della scienza i barbari hanno proceduto a distruggere l’«Iliade» e l’«Odissea»; hanno dette tante corbellerie sulla antica storia di Roma! Lo disse del resto lei stesso l’altra sera: la scienza è diventata il _factotum_ del mondo moderno. Bisogna quindi limitarla o, se preferisce, delimitarla un pò.... Obbligarla, come tenta di fare il Bergson, a riconoscere che essa può studiare a fondo solo la materia inanimata.... Ma non cerchi, come fa, di accaparrarsi la vita e gli esseri vivi! — È vero — rispose il Rosetti. — Ed è anche vero, in una certa misura almeno, quel che l’Alverighi ci ha ripetuto tante volte, a giustificazione della sua fuga in America, che l’oligarchia intellettuale dell’Europa non è scevra di prepotenza, di corruzione e di inganno: pur troppo! Ma credi tu che la filosofia di Bergson — che pure è un grande filosofo e ha riabilitata la filosofia come genere letterario, del che dopo Kant c’era bisogno — credi tu che sia un farmaco sufficiente? O che gioverebbe meglio, come propone l’Alverighi, americanizzare il mondo? Il male pur troppo ha una sede più profonda che non l’intelletto; e a curarla occorrerebbe non della filosofia, ma una virtù.... Tacque un istante: o cercasse la via di esprimere più largamente questo ultimo pensiero, o lo disturbassero i due mercanti astigiani che passavano frettolosi e incappottati, chiacchierando in quel loro consueto e triviale piemontese. Di nuovo l’Oceano scrosciò sotto di noi come una cascata.... — Una virtù? Quale virtù? — incalzò dolcemente, passato qualche istante di silenzio, il Cavalcanti. E il Rosetti riprese: — Non ostante la smodata cupidigia che congestiona le nostre anime, noi siamo migliori dei nostri antenati. Chi lo negasse, sarebbe ingiusto. L’ho detto poco fa: noi abbiamo mescolato non poche virtù pagane con parecchie virtù cristiane e con qualche virtù nuova; e quindi siamo più giusti, cioè più perfetti. I potenti abusano meno della propria forza, non solo perchè non possono, ma perchè non vogliono. Siamo forse un po’ più intemperanti, ma siamo anche molto più laboriosi. Insomma, a far le somme: non possiamo lagnarci.... Ma.... c’è un ma.... La lealtà. Nessuna civiltà ebbe mai maggior bisogno di porre un limite preciso alla libertà, di dir la bugia. Ricaschiamo sempre nella necessità di un limite. Poichè ho un bel predicare io, che l’uomo deve camminare verso l’avvenire senza voltarsi: non mi faccio illusioni, sapete: appunto perchè sono dei limiti e dei limiti convenzionali, sempre provvisori, l’uomo è di continuo in guerra con i principii su cui riposa l’ordine sociale e morale. Qualche volta apertamente: gli interessi e le passioni cercano allora di rovesciare i limiti con la violenza e passare — con le guerre, le rivoluzioni, le rivolte, le leggi marziali, le bombe, gli attentati, i delitti; più spesso, chè c’è meno pericolo, copertamente, con la sofistica. Perchè la sofistica non è mai morta delle ferite mortali che la logica le ha inferto in tanti memorandi duelli? Perchè tutte le epoche hanno patentato e coperto d’oro un corpo pubblico e ufficiale di sofisti, gli avvocati? Perchè Socrate potè pensar di fare una grande riforma morale insegnando agli uomini a ragionar bene? Perchè la sofistica è l’arsenale dove l’uomo cerca i mezzi per osservar i principii convenzionali quando gli riconoscono un diritto, di eluderli, fingendo di rispettarli, quando gli impongono un dovere. E se l’uomo si provvedeva largamente, in questo arsenale, quando i principii erano consacrati dalle religioni, immaginarsi adesso, che il mondo non è più bambino e ormai ha scoperto il segreto del giuoco! Lei ha ragione, Cavalcanti: noi siamo troppo vecchi e conosciamo troppe arti, troppe morali, troppe teorie diverse; la filosofia ci ha troppo smaliziati e ammaestrati tutti, anche quelli che non l’hanno studiata mai, a saltare i limiti sotto pretesto di guardarli dall’alto; lo spirito critico è troppo vivo; sopratutto noi siamo ormai troppo avvezzi a goderci la sfrenata libertà in cui viviamo! E lei aveva ragione, Cavalcanti, anche quando diceva che per questa ragione la nostra civiltà è così plastica, progressiva, vivace. Quindi più l’uomo invecchia, più ricco, sapiente, potente diventa, e più dovrebbe ruminare, ripetersi, inculcar ben bene nella mente questa regola suprema della saggezza: «Va, senza voltarti mai per guardare il braccio che ti spinge; credi nel principio che tu professi ed osservalo, come ti fosse imposto da Dio e fosse l’unico vero, l’unico bello, l’unico buono, la salute e la salvezza del mondo; non discutere, non sofisticare, non transigere; sii fedele sino all’estremo; a rischio della tua vita e della tua fortuna. Ma se il principio cade, rassegnati come se fosse una limitazione umana, convenzionale, arbitraria della infinita Verità, dell’infinita Bellezza, dell’infinito Bene, che continuano a fluir nella vita per il canale del principio che ha vinto! Legati da te stesso, così da non poterti sciogliere più, con la legge dell’osservanza interna, a non mentire e a tradire quando nessuno ti può imporre la verità e la fedeltà!» E invece sin dalla culla la quantità trionfante ci insegna a mentire. Sempre lì ricaschiamo, amici miei. Sì, la quantità trionfa oggi, grazie alle macchine, al fuoco, all’America: ma non può assumere apertamente, in proprio nome, il governo del mondo. Lo «zapatero le plus cher du monde», ha dovuto abbassare la sua insegna, perchè, neppure un tempo che confonde quanto il nostro, tutti gli «étalons de mesure» nella mediocrità, si acconcia a riconoscere per migliore una cosa perchè costa di più, a fare della quantità il criterio della qualità. «La pago più cara, perchè è migliore» — vuol convincer sè stesso, perchè se no crederebbe confessarsi sciocco! L’uomo ha bisogno, sempre e dovunque, in qualunque luogo e tempo, di tradurre la quantità in qualità, anche quando non possiede nessun criterio qualitativo sicuro: e allora si ingegna; e nei casi disperati squalifica in nome della libertà i modelli, per non esser costretto a giudicar brutti gli orrori di cui la macchina ci è così larga, proprio come Leo per salvare i sandali se l’è presa con il piede. Brutti, i nostri vestiti? Ma chi vi dice che quelli del secolo XVIII fossero belli? A me piacciono più quelli di questi e non mi seccate! A questo gioco di bussolotti si riduce l’Estetica dell’Alverighi, che vi è sembrata così curiosa; e che del resto è l’Estetica che i nostri tempi praticano senza tanto ragionare, perchè è la più comoda, tutti i giorni. E quindi la quantità deve pigliar la maschera della qualità, falsificarla quanto basta a ingannare gli uomini, che là dove essi non si procurano che l’abbondanza, si procacciano anche la bellezza e la bontà. Ma ditemi un po’: che cosa sono tutti questi tappeti di Smirne, fabbricati a Monza; questi arredi indiani, fabbricati in Baviera; questi falsi Champagne americani, tedeschi, italiani; queste «nouveautés de Paris» fabbricate dappertutto; questi conigli che, in barba a messer Darwin, si trasformano in lontre in poche settimane, se non menzogne della quantità che ruba gli ultimi stracci alla qualità rovinata e scacciata? Chi non sa quanti inganni la chimica ha forniti all’industria? La quantità trionfante ha fatta della civiltà moderna una immensa scuola di menzogna: e perciò noi non possediamo più nessuno di quei delicati strumenti di verità e di fede — come il giuramento e l’onore — con cui le religioni e le aristocrazie raffrenavano l’uomo in segreto, lo costringevano a esser sincero quando poteva impunemente mentire, fedele quando poteva esser fellone.... Ed ecco nascere e farsi gravi, nella società moderna, difficoltà per risolver le quali si studiano dottrine, e istituzioni, e provvedimenti ma inutilmente, perchè dipendono dalla lealtà; e il sentimento, se esistesse, le scioglierebbe in un attimo. La oligarchia intellettuale dell’Europa per esempio, che l’Alverighi ha accusata, esagerando ma non senza qualche fondamento di verità, di ingannare il mondo: ma la cagione di questo male non è forse morale? Tutte le professioni sono rette da una morale particolare: l’ufficiale può essere dissoluto o far dei debiti ma non può esser vile e aver paura della morte, sotto pena di esser squalificato: il mercante può esser codardo, ma deve pagare i debiti: il prete deve serbar una condotta decente, almeno in apparenza.... E via dicendo. Solo l’uomo che scrive e che pensa non ha morale professionale: può esser codardo, bugiardo, dissoluto, sprecone: gli è concesso di aver tutti i vizi. Chi conosce la natura umana, non si stupirà quindi che molti approfittino piuttosto largamente di questa comodità. Quale dovrebbe essere la virtù professionale dell’uomo che scrive e che pensa? La lealtà. Il critico, lo scienziato, il filosofo, di cui fosse provato che per un interesse qualunque hanno affermato esser brutto quel che giudicavano bello, falso quel che credevan vero o viceversa, dovrebbero essere infamati come l’ufficiale che scappa. Supponete che la civiltà nostra riuscisse a inculcare agli uomini che la lealtà è la virtù elementare di tutti, e agli intellettuali che essa è la virtù loro professionale; e allora la scienza rinuncerebbe a simulare sulla vita un impero che non ha; affermerebbe essa stessa di essere un principio di verità sicuro, ma limitato; avrebbe scrupolo di illudere gli uomini che essa può essere il loro _factotum_ e dar la salute, la giovinezza, la bontà, la vittoria, la ricchezza: o dimostrare che Romolo e Omero non sono esistiti! Nè gli uomini sarebbero costretti, per protesta, ad affiliarsi, come la signora Yriondo, alla «Christian Science»! I dotti verrebbero insomma tra gli uomini con anima pura, dicendo: «Molto abbiamo studiato e poco sappiamo: quel poco, eccovelo, è vostro, servitevene: ma non ci crediate dei maghi! Noi siamo degli uomini e la vita sfugge al nostro debole impero. Una pianta, un animale, un uomo, un popolo, una civiltà sono una sintesi di parti diverse; non si può distaccare una parte dalle altre, senza distruggere l’essere: il che vuol dire che la nostra scienza, per studiare la vita, la dovrebbe addirittura ammazzare, e che quindi non la può studiare che a volo, di sfuggita, per sorpresa. La vita è una grande caverna oscura, che noi possiamo guardarci dentro soltanto per un pertugio e spiraglio, da cui entrano insieme lo sguardo nostro ed il sole: se noi ci collochiamo troppo lontano dallo spiraglio non riusciamo a discerner quasi nulla nella caverna; ma se avviciniamo l’occhio di troppo, intercettiamo con il capo il raggio del sole e facciamo buio nella caverna, dove vogliamo guardare.... Bisogna dunque trovare il punto in cui, pur non intercettando il raggio del sole, noi riusciamo a vederci meglio: ma quel punto non è il medesimo per tutti gli uomini; ciascuno lo deve cercare da sè, e non può cercarlo che oltrepassandolo: quindi l’errore è continuo, la illusione incessante, il travaglio atroce: chè quando finalmente riesce ad un uomo di fermarsi in quel punto unico, che cosa vede? Delle ombre che si muovono in una penombra, e per un solo istante: chè subito il desiderio di veder meglio lo spinge ad avvicinarsi al pertugio sperando che quelle ombre si chiariranno, ma invano, perchè si annebbiano di più: allora egli subito si ritrae e retrocede ai di là del punto buono e non vede meglio: riprende ad avanzare e a retrocedere sinchè alla fine ritrova quel punto, per un solo istante però; chè il tormentoso travaglio di quella illusione e delusione eternamente rinascenti ricomincia....» Tacque, trasse l’orologio: — Per Bacco, — disse, — è mezzanotte. A letto, a letto. E se ne andò. Passeggiammo — il Cavalcanti ed io — per un poco in silenzio, sul ponte, ambedue meditabondi. Poi il Cavalcanti mi disse: — È un savio, per davvero. Che profondi pensieri! — Sì — risposi. — Ma se egli ha ragione, non abbiam torto noi? Dico noi, per dire i nostri tempi. Egli ci ha tenuti sospesi tra i due mondi: ma ora vorrei sapere da che parte dobbiamo buttarci.... A destra o a sinistra? Mi vien voglia di rubare al dottore il suo ritornello: non si può star a cavalcioni di due mondi! VII. Uscito dalla cabina, il venerdì mattina, e passeggiando per il ponte, vidi nella terza classe Orsola, che sola, rannuvolata e arcigna sedeva sopra un fascio di cordami facendo la calza. Mi rammentai della zuffa; e la curiosità mi spinse ad interrogarla. Ma quasi non mi diè il tempo di muoverle una domanda; chè subito aggredì: — Maria! Quella vipera! Va dicendo a tutti che sono una ladra, per quei pochi debitucci che ho lasciati in America, come se fosse colpa mia! Lei si dà tanta aria perchè quattrini ne ha: ma come ha fatto a farli lo sappiamo tutti. Se avessi voluto far come lei, crede che mi troverei in questi guai? Ma di quel pane io non ne mangio; io non ho il pelo sul cuore come quella gentaglia. Lo domandi a quelli che sono stati in fazenda con noi, se hanno mai aiutato un poveretto, neanche con un bicchier d’acqua! Ogni povero italiano che doveva ricorrere a loro, sin la camicia era sicuro che gli levavano. Bella fatica, a far denari a quel modo! Chiesi se prestavano denari: mi rispose di sì; ricominciò un lungo discorso: sinchè io le dissi che insomma da parecchie parti era giunta al mio orecchio la voce che la sua famiglia si era rovinata, perchè essa non aveva troppa voglia di lavorare. Mi guardò con occhi quasi spauriti. — Lavorare? Lo chiama lavorare lei, quello della fazenda? Alla grazia! Lo domandi alla gente del mio paese, se mi piace lavorare. Ma come un cristiano, non come una bestia! Le chiesi infine come era nata la zuffa; e chi aveva cominciato. Ma non rispose a tono: fece dei lunghi racconti confusi, divagando tutti i momenti. Cercai allora Maria: la trovai a poppa, che cuciva. Era una donna più che quarantenne, ancora piacente e fresca, vestita con semplicità non scevra di eleganza, e con quel fare dell’emigrante cui l’è andata bene; che è ancora popolo, ma popolo greggio e rude non più. Tanto per avviare il discorso le chiesi se veniva dal Brasile e in qual parte e fazenda aveva lavorato. — Dal signor X...? L’ho conosciuto, il suo padrone, — dissi. — Un gran galantuomo.... Si è trovata bene? Mi rispose di sì; mi disse — quando glielo chiesi — che si recava in Italia perchè suo marito era morto e perchè il primo dei due figli doveva fare il soldato; che non sapeva se sarebbe tornata in Brasile o no. Mi fu facile di condurre il discorso su Orsola. Ma a sentir questo nome ammutolì, abbassò gli occhi sul lavoro, riprese a cucire: poi lentamente, mentre tirava il filo: — Chi non ha voglia di lavorare farebbe meglio a non andare in America, — sentenziò genericamente con tono asciutto e severo. Ma l’allusione era chiara. La sollecitai a spiegarla con qualche domanda. Chiarì infatti questo punto, restato sino allora nel vago, dicendomi che nella fazenda si sta bene e si guadagna: ma bisogna che anche la donna e i figli lavorino. Se la donna passa la giornata sulla porta della casa, a ricamare, a cantare e a chiacchierare con le vicine, come faceva Orsola, e se i figli sono piccoli, la famiglia non può prendere in affitto molti piedi di caffè e si indebita. — E parecchie volte l’abbiamo aiutata anche noi: ma sì, era un pozzo senza fondo: sempre in bisogno.... Lei capisce, noi non siamo ricchi, per quanto qualche cosa l’abbiamo messa da parte. Chi si cava il pane di bocca per i propri figliuoli, non vuol mica spendere per mantenere gli oziosi. Condussi il discorso sull’intendente: era un italiano buonissimo e a modo — essa mi disse; e quando io allusi alle sue amorose persecuzioni, sorrise. — Le domandi — aggiunse — dove è adesso l’intendente.... È in Italia da sei mesi. Ci è andato a sposarsi. La rivelazione, se vera, era grave. Volli alla fine cercar di indagare se ci fosse del vero nelle cose dette da Orsola su Maria ed Antonio: e un po’ maliziosamente: — Perchè anche Antonio e l’abruzzese si sono picchiati? Arrossì leggermente; e poi: — Quel povero abruzzese, lei gli ha fatto girare la testa. Quando Orsola mi aggredì ingiustamente, perchè io non le avevo detto nulla, Antonio è corso in mio aiuto; e allora l’abruzzese gli si è buttato addosso.... Maria mi pareva donna assennata, ragionevole, dabbene, se pure interessata come è la plebe laboriosa e parsimoniosa. Pure aveva arrossito al nome di Antonio. Cercai Antonio e trovatolo nel refettorio che aveva ancora la faccia fasciata: — Bravo, — dissi, — te ne succedono delle belle! Sorrise freddo e amaro come al solito; e: — Quell’imbecille! — disse. — Mi raccontò che Orsola gli aveva fatto girar la testa; e quindi l’aveva messo su contro di lui.... — Ma tu perchè ti sei messo a difenderle Maria? — chiesi. — Perchè — mi rispose placido — è una buona e brava donna. — Sei diventato il difensore della vedova e dell’orfanello adesso? E insistei con domande insidiose e allusioni ironiche: ma invano. Mi rispose rispettosamente, ma come non capisse nè le insidie, nè le allusioni. Di nuovo faceva l’imbecille; e con tanta naturalezza, che mi pareva di vedermi dinanzi, un’altra volta, Sua Eccellenza lo Zuccone, in persona! Per non far nascere dei pettegolezzi non insistei troppo; e preferii fare discretamente una inchiesta tra i marinai e gli emigranti. E chiacchierando un po’ con l’uno e un po’ con l’altro venni a sapere che la voce del popolo o il giudizio pubblico o il coro della commedia — chi fungeva da popolo e da pubblico e da cero questa volta era la terza classe tutta quanta — diffidava di Orsola come di donna irrequieta e intrigante e l’accusava di aver messo male tra l’abruzzese ed Antonio, si pigliava gioco dell’abruzzese che aveva in conto di imbecille e detestava Antonio cui rinfacciava il figlio altrui accettato come proprio e che accusava di far la corte a Maria, per sposarla quando Maddalena sarebbe morta! L’accusa era così grave e odiosa, che ne diffidai; sebbene anche l’abruzzese la ribadisse. Questo abruzzese mi parve più che un imbecille, un esaltato: mi disse che era stato amico di Antonio: ma l’aveva preso in odio, quando gli aveva confidato le sue viste su Maria. — Sua moglie sta morendo, — mi disse — e lui già pensa a sposar Maria che ha dei denari, e a comprar con i denari suoi e quelli di lei delle terre e un negozio.... Perchè dice che vuol passare il resto dei suoi giorni fumando: e perciò ha bisogno di una moglie che lavori in vece sua. È avvezzo da un pezzo a vivere alle spalle delle donne, quel birbante! Tra questi discorsi venni a scoprire che chi aveva propalata la storiella del figlio, ero stato proprio io. L’avevo tanti giorni prima raccontata a pranzo e i camerieri l’avevano raccolta e trasportata dal primo piano, dove viaggiava comoda la borghesia, la aristocrazia e la finanza, nel piano terreno, dove si stipava la plebe. Ripensai a Lisetta e alle sue parole: e mi dissi che i camerieri sono proprio un veicolo di notizie e una fonte di informazioni — vere o false — più importante che molti storici non credano. Che cosa è la storia dei Cesari, quale ancora si racconta, se non una sdrucita trama di pettegolezzi di servi, raccolti o da nemici senza scrupoli o da dilettanti senza discernimento? Lasciato l’abruzzese andai di nuovo da Orsola; e guardandola in faccia: — Ditemi, Orsola — dissi. — Dove è ora l’intendente che vi avrebbe perseguitata? Mi guardò, fece una smorfia come di desolazione: — È in Italia, in Italia, — rispose. E con una prontezza singolare ribattè anticipatamente, prima che le contestassi, le mie obiezioni. — Ma aveva lasciate le guardie.... E poi deve tornare. E io ho voluto scappare perchè mi aveva scritto delle lettere e mi minacciava di farmi mettere in prigione, quando tornava.... — Delle lettere? Che storia è questa? Ma non siete analfabeta? — Una mia amica fidata me le leggeva. Del resto ce le ho, sa, quelle lettere — aggiunse, leggendo di nuovo nei miei occhi questa domanda. — Ah sì? Ebbene mostratemele. — Le ho nel baule, nascoste; perchè mio marito non le trovi. Le cercherò e gliele darò. Mi venne allora il pensiero di chiederle dell’abruzzese. — L’abruzzese vi fa la corte, però.... Me lo hanno detto parecchi. Mi guardò come sbigottita. — Ma che dice! Quel poverino! Buono come un angelo! Se sapesse quel che gli capita.... Un’altra donnaccia.... E mi raccontò che l’abruzzese era ammogliato, e aveva lasciata la moglie, come tanti emigranti fanno, nel suo villaggio nell’Abruzzo: ma in America qualcuno l’aveva avvertito che sua moglie se la intendeva con un altro.... — E ritorna per ammazzarla? — non potei a meno di dire. — Ma che! — rispose. — Lui le vuol bene, Antonio l’aveva già quasi persuaso a perdonarle, a far come lui. Per fortuna io l’ho persuaso a tempo a non far la figura del babbeo.... — Voi vi siete presa questa responsabilità? Ma vi riguardano forse le faccende di quell’abruzzese? Mi guardò impavida e ferma; e: — L’uomo innamorato — disse — non ragiona più. Ma una donnaccia è sempre una donnaccia. — Che pasticcio! — pensavo risalendo. — Non ha poi tutti i torti, il dottore, di dire che gli emigranti sono tutti un po’ matti. Questi per lo meno.... Ma riflettendo poi a quel che mi avevano detto Maria ed Orsola, sentii a un tratto come accendersi una grande luce nella mia mente. In quell’odio e in quella baruffa di due popolane non vedevo io, come dentro una lente, nitida e piccola, la ragione del grande conflitto intorno all’interesse del denaro, che divide oggi l’Islam dall’Europa, che ha per tanto tempo armata la Chiesa cattolica di folgori spirituali contro il mondo moderno? «Chi si cava il pane di bocca per risparmiare, ha pur diritto che il suo denaro gli frutti» — aveva lasciato intendere Maria. «Gente senza cuore e senza carità, — rispondeva Orsola — per nulla non avrebbero aiutato nessuno». Non son questi gli scheletri dei due argomenti rovesciabili con cui si può a piacere sostenere o oppugnare che l’interesse del denaro è legittimo? L’interesse fa l’uomo avido e spegne la carità; sì, è vero, ma lo fa anche parsimonioso, lo avvezza a frenare le voglie presenti in vista del futuro; incoraggia l’iniziativa e l’alacrità; solleva la dignità. L’uomo che paga le usure, non mendica: può chiedere e ricevere il denaro a fronte alta e a mano aperta, da pari. Tutte cose che sono vere: ma pur vero è che solo il non poter lucrare sulle usure fa il ricco veramente caritatevole, generoso e munifico. Avrebbero le ricche famiglie italiane del Medio Evo edificati tanti meravigliosi palazzi, se non fossero state costrette a spendere in opere d’arte quella parte delle loro ricchezze, che non trovavano impiego fruttifero per gli intoppi che inframmetteva la Chiesa? No, non è dubbio: ma è certo pure — i paesi mussulmani ne somministrano la prova — che le classi ricche si avvezzano alla prodigalità e all’ozio, il popolo all’ozio e alla mendicità. Erano dunque tutti nel vero — l’Islam e l’Europa, la Chiesa e il mondo moderno, Orsola e Maria; e tutti pure avevano torto: la ragione non poteva sciogliere il nodo e decidere se l’usuraio sia una provvidenza o un vampiro: occorreva dunque tagliarlo, ma con quale lama? Era chiaro: in questa parte del suo discorso il Rosetti aveva ragione: un atto di volontà doveva tagliare il nodo, imponendo l’uno o l’altro dei due principii, obbligando la ragione a limitarsi, a svolgere soltanto gli argomenti favorevoli a quello. La Chiesa cattolica era stata nel Medio Evo, l’Islam è anche oggi l’organo di quell’atto di volontà grande, che impose a milioni di uomini il principio di Orsola: «no, non presterai denaro ad interesse»; deducendone un codice preciso e coerente di regole. Lo Stato moderno, le Banche, le Borse, l’Industria, l’Economia politica sono nei nostri tempi gli organi di quell’altro atto di volontà grande, che dopo la scoperta dell’America impose a poco a poco ai due mondi il principio di Maria: «Tu hai diritto che il tuo denaro prolifichi e hai dovere di risparmiarlo per metterlo a frutto». Principii veri ambedue, benchè opposti, perchè l’uno e l’altro limitatamente veri: il che mi spiegava per quale ragione ambedue avessero potuto esser giudicati a volta a volta veri e falsi, valere e cadere; e come si fossero fatta guerra nei secoli, aizzando non solo alla baruffa Orsola e Maria, ma le classi, i popoli, le civiltà l’una contro l’altra, ognuna persuasa di esser nel vero; e come dopo la scoperta dell’America il principio di Maria avesse trionfato.... Perchè il divieto dell’usura era stato anche quello, come l’Atlantico, per lunghi secoli, un limite che aveva impedito all’uomo di uscire armato di fuoco alla conquista della terra e dei suoi tesori. Mi godei a lungo, passeggiando per il ponte, questa vasta visione di secoli e civiltà, in cui sopra due teste di povere popolane vedevo giganteggiare, in quella mattina di autunno, sul mare scintillante e celeste ma freddo, uno dei più tragici e grandiosi conflitti della storia. Quando, ad un tratto, l’idea che mi era balenata la sera prima, al partir del Rosetti, mi si ripresentò alla mente sotto altra forma. Sì: Orsola e Maria avevano ambedue ragione e torto, alla stregua dell’eterno, sul fondo dei secoli: ma nel minuto presente? Poichè esse erano nemiche, e noi volevamo giudicare la loro baruffa, a chi dovevo dare io torto e a chi ragione? A Maria? Ma il signor Rosetti non ci aveva mostrati tutti i pericoli e i guai di quella civiltà illimitata, che era germogliata dal seme del principio dietro cui quella donna, ignara si riparava? A Orsola? Ma non avevamo considerate a lungo tutte le grandezze e i meriti di quella civiltà che aveva potuto grandeggiare alla fine, rovesciando uno dopo l’altro tanti limiti e tra questi il principio caro ad Orsola? Il pensiero si allargò in considerazioni più vaste; sì: il signor Rosetti ci aveva mostrati accanto i due mondi — la civiltà limitata e l’illimitata — paragonando i loro beni e i loro mali: ma non ci aveva lasciati tra l’uno e l’altro in uno stato di indecisione, simile a quello del famoso asino di Buridano? In tutti i conflitti in cui i due mondi sono alle prese, per chi dobbiamo noi parteggiare? Questo dubbio generò con la riflessione un principio d’inquietudine.... Suonò l’ora della colazione; e a colazione esposi ai miei compagni di mensa, arruffato come era, tutto quell’imbroglio di accuse incrociate che non mi era riuscito di dipanare. Ma ci si buttarono tutti sopra, ciascuno cercando, per dipanarlo, un filo. Antonio fu spacciato in poche parole: tutti furon d’accordo, anche l’Alverighi, che dopo aver sfruttata la moglie voleva ora sbarazzarsene. Solo il Cavalcanti osservò titubando che tutte le dicerie intorno alle viste di Antonio su Maria partivano da Orsola o dall’abruzzese, che era uno zimbello di Orsola: ma Orsola odiava Maria: anzi l’odio di Orsola era stata la radice di tutto l’imbroglio.... Più vivi furono i dispareri intorno ad Orsola. Il Cavalcanti e l’ammiraglio dissero di credere a Maria, che essa era fuggita per debiti, che la storia dell’intendente doveva essere stata inventata o per lo meno molto esagerata a coprire la vera ragione della fuga. Ma il dottore protestò che una donna onesta non può nemmeno immaginare, non che raccontar per veri, simili romanzi; inveì poi contro Maria, e lamentò la durezza con cui gli italiani più svelti e fortunati sfruttano in America i loro connazionali più poveri. Al che io risposi, raccontando come alla mattina avessi visto l’Islam e l’Europa, il Medio Evo e l’Età moderna alle prese nella baruffa di Orsola e Maria. Aggiunsi poi che le donne un po’ isteriche sono facilmente portate dalla loro immaginazione a inventare di queste favole amorose: molte leggende essere nate intorno agli orrori del Brasile dalle favole che i giornalisti avevan raccolte senza discernimento sulle labbra degli emigranti e che tanti italiani avevano poi credute per quel bisogno che abbiamo un po’ tutti di veder nero nel mondo e di far la morale all’universo: occorre ricordarsi conversando con emigranti disgraziati che spesso essi sono un po’ fuori di sè, come egli stesso, il dottore, aveva detto. Ma il dottore non fu punto soddisfatto di questo piccolo trionfo della sua teoria; e sardonico mi disse che forse l’intendente era fuggito in Italia, perchè Orsola lo voleva sedurre: pronunciò poi una invettiva contro il Brasile senza badare al Cavalcanti e all’ammiraglio; io gli risposi e si accese fra di noi una disputa.... — Ma insomma — dissi alla fine — gli emigranti non diventano savi per lei che quando parlan male dell’America dove i più di loro trovan da campare? Io non so perchè tanti in Italia ce l’hanno a questo modo contro lo Stato di San Paolo.... In che cosa differisce dagli altri Stati dell’America — del Nord e del Sud? Ci son lì gli stessi vantaggi e gli stessi guai: annate buone e annate cattive; salari maggiori che in Europa, nelle annate buone specialmente; vita più solitaria, più rude, più esposta alle malattie; garanzie giuridiche meno precise che in Europa, ma in compenso una continua scarsità di braccia.... Farsi valere, a chi non ha che le braccia, è più facile che in Europa. Ma nello Stato di San Paolo in cambio c’è quel che forse non c’è in nessuna altra parte dell’America: c’è la possibilità di creare un centro di cultura, di lingua e di vita italiana: perchè gli Italiani ci sono più raccolti, meno dispersi che altrove; perchè ci si sono trovati già numerosi al momento buono, quando lo sviluppo incominciava.... È forse questa la ragione per cui San Paolo ha tanti nemici in Italia? Si informi da chi sa: quale è nell’America meridionale il mercato più facile e più largo per i nostri manufatti? Lo Stato di San Paolo. Quando il governo o la «Dante Alighieri» si decideranno a fondar nell’America qualche collegio italiano in cui i figli degli Italiani arricchiti possano essere educati, da dove dovranno cominciare? Da San Paolo! In qual punto dell’America le nostre banche hanno cercato di prender piede, tanto per cominciare? A San Paolo. Quale è lo Stato dell’America più aperto ai professionisti: medici, avvocati, professori, legisti? San Paolo: sempre San Paolo! Ma noi siamo un curioso popolo: ci lamentiamo sempre che tutto il mondo ci è chiuso; e poi, appena uno spiraglio si apre, voltiamo le spalle. Tutte queste cose, quanti le sanno in Italia? E tra quelli che le sanno quanti osano dirle? Tutti preferiscono di dar retta alle storie e alle storielle di Orsola, che ragiona come una donna del Medio Evo, perchè in America è capitata male. Ma il giorno in cui noi fossimo riusciti a rovinare lo Stato di San Paolo, anche l’Italia ci scapiterebbe — e parecchio! È questo che lei vuole? — Io voglio — mi rispose secco, secco — che gli Italiani non vadano a prendere nelle fazende il posto degli schiavi.... — Se le dicesse un socialista, queste cose, le capirei. Ma lei? E non lavoran in tutto il mondo gli uomini sotto dei padroni? Vuol dire per questo che siano degli schiavi? Se gli emigranti italiani trovano più conveniente di andar altrove, padronissimi: ma scrivere e ripetere in tutta Italia che lo Stato di San Paolo è un inferno, o un pezzo di Medio Evo, solo perchè lì come dappertutto il popolo è sottoposto ad una disciplina che ha le sue asprezze, mi par troppo. E credo si farebbe bene a riflettere un po’ più, su queste cose, in Italia.... Adesso che tutti dicono di voler far sul serio e badare al sodo.... La disputa si riscaldava; e con molto tatto e abilità la mia signora intervenne a sviarla. Ricordò che Orsola era meridionale: poteva perciò parere una donna strana ed esser sospettata peggiore che non fosse, da chi non conosceva l’Italia del sud e il profondo perturbamento arrecato in quella dalla macchina. E ci raccontò che nel mezzogiorno, per secoli, le donne avevano seduto al telaio, acquistando in certe regioni grande riputazione, specialmente per i pannilana. Ma quando le fabbriche meccaniche straniere o del settentrione offrirono i panni poco costosi e dozzinali, e l’Italia meridionale ebbe ceduto troppo facilmente alla tentazione delle nuove foggie forestiere e alla attrattiva del falso buon mercato, le donne smisero di far battere il telaio casalingo e non poterono passare, come nell’Italia del nord, nella grande fabbrica. Furono quindi, là dove una certa antica fierezza di costumi non consentiva loro — e si può muoverne rimprovero a quelle popolazioni? — di sobbarcarsi ai pesanti lavori dei campi, condannate ad un ozio, che non è ultima cagione della profonda crisi che travaglia l’Italia meridionale. — La donna del mezzogiorno — conchiuse — non è preparata all’emigrazione come quella del settentrione; in America spesso è di impiccio più che di aiuto al marito, perchè sa adattarsi meno al regime delle macchine, non è _débrouillarde_ abbastanza.... — Restino a casa, allora, e facciano partire i mariti: l’America non è fatta per gli oziosi — sentenziò asciutto l’Alverighi. — Sicuro: — replicò pronto il dottore — perchè in America i mariti si piglino una nuova moglie e le loro mogli nel frattempo si tengano in esercizio, nel villaggio, con dei rimpiazzi! E poi il marito accorra dall’America e la scanni, o la moglie, non potendo più vivere con il marito quando torna pieno di vizi, gli somministri l’arsenico! Perchè quella bella malattia che lei sa, l’hanno portata nei villaggi dell’Italia meridionale gli emigranti, insieme con i pesos e i dollari.... — Ma insomma, — disse l’Alverighi — bisognerà pure che le donne si decidano: o ad accompagnare il marito in America o a restare a casa. Se non vogliono restare a casa, imparino a lavorare. — Ma anche questo partito ha i suoi pericoli — intervenne la Gina. — Si rimprovera spesso alla donna del mezzogiorno la sua poca iniziativa e la sua inerzia. Ma la donna del settentrione che va nelle officine, che emigra, che sa adattarsi alla civiltà moderna, spesso ammala e muore. Come Maddalena e come le donne del mezzogiorno che seguono l’esempio del settentrione.... Quante ne ho viste, in Europa e in America! La donna è la principal vittima della civiltà meccanica! — Come di tutte le civiltà, — disse il Rosetti. — E non è la vittima soltanto, ma anche il maggiore grattacapo. Perchè uno dei più spinosi problemi che ogni civiltà ha dovuto sciogliere, è proprio questo. Che cosa far fare alle donne oltre i figlioli? Niente? È troppo poco. Le stesse cose che fanno gli uomini? Ci sono altri inconvenienti. — Sì, ma la macchina — osservò la mia signora — ha anche fatto più difficile il problema. — Senza dubbio — assentì il Rosetti. — Nella furia di far quattrini e di conquistar la terra, la nostra civiltà dimentica forse un po’ troppo che il mondo si compone di uomini e donne.... E un’altra cosa, anche: che uomini e donne, dopo aver vissuto, devono morire.... Un passo, qualche volta, un po’ scabroso.... Un po’ di preparazione non sarebbe forse sempre inutile! Ragionammo un po’ su questo punto; e un po’ scherzosamente si conchiuse che se non ci fossero le donne, gli uomini da soli potrebbero vivere tra i due mondi più comodamente e senza tanti guai! A mezzogiorno toccammo il 37º grado e il secondo minuto di latitudine, il primo grado e il 37º minuto di longitudine; e nel pomeriggio, mentre navigavamo in vista delle coste montuose e deserte della Spagna, la piccola società raccogliticcia, che si era formata in mezzo all’Oceano entro il «Cordova», incominciò a sciogliersi. Le amicizie strette in quelle due settimane si allentavano; i crocchi diradavano; ciascuno ricominciava a pensare ai bagagli, alla terra, alle sue faccende; al vasto mondo in cui ci disperderemmo tutti di nuovo tra due giorni per non ritrovarci forse mai più. L’ammiraglio non si fece vedere: incontrai solo per un momento l’Alverighi che con un fascio di carte in mano si recava dal Vazquez: il Rosetti stette nella cabina a scrivere: vidi invece il Cavalcanti, che solo non pensava alla terra e all’arrivo e ai bagagli, ma al discorso udito la sera prima. Ne parlammo a lungo, in faccia al mare azzurro e un po’ agitato: nella giornata piena di luce, ma velata all’orizzonte di freddi vapori; e ci confidammo, disordinatamente e vivacemente, i pensieri che erano nati in noi da quei ragionamenti. — Ho capito finalmente — diceva il Cavalcanti — perchè l’Olimpo è un inferno! Perchè gli artisti, i letterati, i sapienti dell’Europa sono così nemici tra di loro, e ciascuno vorrebbe essere solo, anzi l’unico. Sono cose che in America — dove si vive nell’illimitato, solo per sfruttare una terra che è ancora più vasta e ricca delle nostre cupidigie — non si capiscono. La Bellezza e la Verità sono, sì, cose infinite: ma il numero di Bellezze e di Verità che riescono a farsi ammirare da una generazione o a convincerla, è limitato. Ogni Verità che riluce ne oscura mille altre che avrebbero potuto risplendere: ogni Bellezza che trionfa ne esclude dalla scena mille altre, che altrimenti avrebbero forse trionfato. Quindi l’arte la scienza la filosofia non possono essere che il campo chiuso di una guerra continua e feroce, in cui uno vive della morte di mille.... L’Alverighi ha ragione: chi vuol vivere in pace, vada a Rosario tra quei mercanti di grano! La cultura di un popolo non trionfa che difendendosi ed attaccando quella degli altri popoli.... — Le dica queste cose, a Roma, quando ci sarà.... Se almeno riescisse lei a farle capire! — Pur troppo, non c’è gloria o grandezza che sia al sicuro da un assalto improvviso. Quanti secoli erano che gli uomini veneravano la letteratura greca e latina? Ora la cultura classica decade: e perchè? Perchè la letteratura greca e la latina non sono più i modelli ufficiali del gusto: perchè i tempi e gli Stati hanno riconosciuto a ciascuno il diritto di scegliersi il modello che gli piace — nella letteratura antica o nelle moderne — in Europa o in America — e magari anche nel futurismo.... E allora perchè dovremmo noi studiare la letteratura greca o latina più che la francese o l’inglese o la russa? Se domani scoprissero in Egitto le commedie di Menandro o tutte le tragedie di Sofocle, in nome di quale autorità potremmo impedire all’Alverighi di dire che a lui avrebbe fatto più piacere se Gorki avesse scritto un altro di quei suoi drammacci così brutti? La lotta è perenne.... Tacemmo, guardando il mare. I nostri pensieri vagabondavano per un mare anche più vasto di idee. Il Cavalcanti riprese, dopo un po’: — Però, però.... Quanto è straordinario, prodigioso, unico addirittura il tempo in cui ci è capitato di vivere, però! Pochi se ne accorgono ma non importa.... L’uomo che per la prima volta tenta di vivere fuori dei limiti, non tenta forse addirittura di acclimatarsi nell’infinito? E se riuscisse in questa temerità sublime, come è riuscito in tante cose? La pace potrebbe regnare sulla terra e anche nell’Olimpo della Verità e della Bellezza.... Le Bellezze e le Verità si escluderebbero meno ferocemente.... La terra diventerebbe un Eden; e anche l’Alverighi potrebbe amarla tutta, come ama la sua Rosario. Un Dio che guidasse senza comandare, si chiami Dio, Ragione, Scienza.... — Dio non è Dio, che se comanda — interruppi brusco. — E allora? L’anarchia ci aspetta, vortice inevitabile? — Resta però lo Stato — risposi. — Si ha un bel ripetere che i principii liberali, lo spirito critico, le idee sovversive minano da tutte le parti lo Stato, fondato dalla Rivoluzione.... Ma paragoni lo Stato europeo ai grandi Stati mussulmani — la Turchia, per esempio — che pure posano sulla idea religiosa dell’autorità, e poi mi dica quale è lo Stato che può comandare e che sa farsi obbedire.... E questa potenza — ci pensavo proprio stamane — è l’effetto di una limitazione. Il signor Rosetti ci ha detto — ed è vero — che i limiti che l’uomo si è tolti dattorno, li ha piantati intorno allo Stato — alla autorità dei sovrani, dei ministri, dei funzionari.... L’ha limitata, questa autorità, un po’ con le leggi e le istituzioni e i principii di diritto pubblico, inventati per impedire allo Stato di maltrattare i cittadini: un po’ anche specializzando, moltiplicando nelle mani dello Stato gli uffici cioè gli strumenti di cui può servirsi. Uno strumento è anche un limite, tanto più preciso, quanto più lo strumento è perfetto: perchè il martello e la sega mi servono, sì, ma solo a picchiare e a segare; e non potrei con una sega picchiare e con un martello segare.... Insomma la autorità dello Stato non fu mai così limitata come oggi, in Europa e in America: e l’effetto è che lo Stato non fu mai così potente. L’autorità è oggi spezzettata tra un grande numero di persone; ciascuno ha il suo briciolo di potere e il suo ufficio delimitato; e questi limiti gl’impediscono così di troppo mal fare come gli dànno un appoggio a fare con risolutezza il suo ristretto còmpito: cosicchè i governi che si servono di questi strumenti nei limiti del loro ufficio, possono generare effetti stupendi! Abbracciare, muovere, dirigere uomini e cose, in tal volume e con tale forza, come non si vide mai. Guardi invece la Turchia.... Poche persone dispongono in alto di un potere illimitato, non solo perchè non ci sono principii di diritto pubblico che lo limitano, ma anche perchè gli organi dello Stato sono poco specializzati e di moltissimi il governo può servirsi a piacere. E quelle poche persone si trovano in un vuoto senza appoggi, quando c’è qualche opera importante da compiere: proprio come in Europa, ora, quando giudichiamo le opere d’arte.... Ha letto gli «Elementi di scienza politica» di Gaetano Mosca? Li legga: vedrà queste cose spiegate con singolare chiarezza, acume e profondità.... — Sì ma da dove viene la spinta che muove lo Stato moderno? Dal popolo, dalla nazione. Quindi lo Stato non può che restituire alla nazione la forza che questa gli dà. E come potrebbe dominarla, se questa si vuol ribellare? Quando lo Stato posava sulla tradizione, poteva trasfondere in una generazione una forza, poca o molta, che non riceveva da quella, ma dai secoli precedenti. L’obiezione era decisiva. Essa accrebbe in me l’inquietudine che mi angustiava dalla sera precedente. Anche il Cavalcanti dunque esitava indeciso sul margine dei due mondi? Si poteva viver così? A chi si doveva dar ragione e a chi torto nei singoli casi? Oh poter sentire e volere, amare ed odiare ciecamente! Decidere senza dubbio! Tra questi discorsi, la zuffa, i ragionamenti del giorno prima avevo quasi dimenticata la signora Feldmann: quando la sera, pochi minuti prima del pranzo, me la vidi comparire all’improvviso nella sala di aspetto, elegante e ingemmata come di solito. Alla domanda che, un po’ impacciato, le feci: — Come sta? — alzò verso di me il volto affaticato; sorrise; e, tendendomi la mano carica di anelli: — «Aussi mal que possible, — rispose con la consueta vivacità ed energia: — mais il a bien fallu m’arracher à ma cabine et descendre; je dois moi aussi penser à mes bagages». Poi mi domandò quando arriveremmo. — Dopo domani, domenica, — risposi — prima di mezzogiorno, se il Golfo del Leone non ci fa qualche brutto scherzo. Ma non sapevo se parlarle dei suoi guai e come incominciare: per fortuna sopraggiunse l’ammiraglio; e ragionammo del tempo e del viaggio con l’impaccio proprio delle persone che parlano di cose a cui non pensano e pensano alla stessa cosa di cui non parlano. La campana suonò; entrammo insieme nella sala da pranzo: vidi di nuovo, in tutti i tavoli, delle gomitate, dei cenni, delle occhiate, un volger frettoloso d’occhi e di teste come quella sera, in cui la signora era entrata irraggiando nel modesto refettorio del «Cordova» la gloria della favolosa stirpe dell’oro onde usciva: ma con diversa intenzione, questa volta, mi parve. «Ne devi aver fatte delle belle, se ti è capitato quel che ti è capitato!» dicevano quei gesti e quelle occhiate. La nostra mensa fu quella sera piuttosto fredda e silenziosa, per la prima volta; perchè tutti pensavano a quella cosa medesima, di cui nessuno osava muover discorso. Terminato il pranzo, uscimmo insieme: come fummo nel vestibolo, la signora indossò un mantello che aveva lasciato sul divano, e volgendosi a me: — Vuol farmi compagnia — mi disse — fuori sul ponte? Ho bisogno di prendere aria. — Ci siamo! — pensai, seguendola di mala voglia e un po’ infastidito. Ma appena fuori, sentii che l’aria era fredda; e, lasciatala un istante, rientrai per prendere il cappotto nel vestibolo; dove la bella genovese, il dottore di San Paolo, sua moglie, il gioielliere, in crocchio, animatamente parlavano. — Ci vuole una bella sfacciataggine! — diceva inviperita la genovese. — Dopo quel che le è successo! Venir vestita a quel modo, come a una festa. Per me questo fatto mi basta.... Il marito ha ragione di piantarla. — E mettersi poi delle perle, che a un miglio di distanza si vede che sono false — aggiunse il gioielliere. — Ma per chi ci piglia dunque? Crede che siamo ciechi o imbecilli? Uscii di nuovo; la raggiunsi sul ponte, verso il mezzo della nave dove si era seduta; mi sedetti accanto a lei, molto impacciato, pensando al modo di incominciare il discorso.... Ma essa mi prevenne. — Ho scoperto, sa, — mi disse. — Sono ingenua e sciocca, sì: ma non come credono. Se mi ci metto! «J’ai creusé ma petite cervelle» per due giorni. Giudichi lei che è uno scienziato. Lui credeva che io lo sospettassi.... Così spiegava molti fatti di cui lì per lì non si era resa conto. Come, per esempio, un giorno il marito avesse fatta una sfuriata tremenda, perchè avendo visto nella sua valigia profumi, spazzole, pettini e simili oggetti a profusione, essa gli aveva chiesto ridendo se partiva in cerca di avventure. Che un altro giorno, che per errore essa aveva aperta una lettera diretta a lui, per poco non aveva minacciato di far divorzio, se il caso si ripetesse. E furie e smanie tremende, pure un’altra volta che essa, irritata da un breve litigio, gli aveva detto che non era fatto per aver moglie e famiglia: ma un’amante da cambiare ogni paio d’anni! — E pensare che io non ho mai sospettato niente. Il disgraziato non mi ha capita mai: lui diffida sempre, ed io invece mi fido. A occhi chiusi. Che ci vuol fare? Sono fatta così.... Avevo ascoltato questo lungo discorso impassibile, quasi severo, guardandola e scrutandola negli occhi. Alla fine, rammentando le confidenze dell’ammiraglio, le dissi che quel che lei raccontava non era inverosimile e poi maliziosamente, per indagare: — E per questo — dissi fissandola — non voleva prendere il caffè con lei, la mattina.... Mi guardò sorpresa. — Che cosa vuol dire? A che allude? Le raccontai allora quel che l’ammiraglio mi aveva detto. Ma prima che io giungessi a mezzo del discorso: — Mio Dio, mio Dio! — gemè dolorosamente, giungendo le mani. — A tal punto quel pazzo è arrivato! Ma questa infamia è la contessa che glie l’ha messa nella testa, ne sono sicura! La scellerata vecchia! Adesso capisco! Lo aveva ipnotizzato! Impazientito dal mio sbaglio, tanto per sviare il discorso, apersi le cateratte della saggezza, ma con poco garbo, anzi piuttosto brusco: le dissi che occorreva prender tutto sul serio, ma niente sul tragico: che le disgrazie si voltano spesso in fortune; che essa era ancora ricca, giovane, bella... — «Vous me flattez», — disse con modesta compiacenza. — Certo accanto a miss Bobbins faccio ancora la mia figura. Se vedesse che tipo volgare! Ma quando incominciai a dirle che la libertà non era poi la peggiore dello disgrazie che potesse capitarle; fosse dunque ragionevole, non si lagnasse più del giusto, chè nella disgrazia forse poteva esser capitata bene, la vidi raccogliersi, accigliarsi, rannuvolarsi; poi a un tratto: — Stabilirmi a Parigi — mi interruppe come spaventata — «en femme divorcée», io? Perchè tutta la gente creda che ho tradito mio marito? Mai! — Non esageri, signora, ce ne sono tante di donne divorziate oggi nel mondo; e i tempi non sono più quelli di una volta! — Una donna divorziata è sempre colpevole agli occhi della gente. E tutti gli uomini credono di poterle fare la corte.... — Quale disgrazia! Ma non mi diè tempo di dirle le barzellette un po’ volgari, che mi erano venute alle labbra; che: — Vivere sola, io! — continuò. — E come potrei? e che cosa farei? Non aver più nessun appoggio? Ma crede lei che alla mia età una donna possa, da un giorno all’altro, ricuperare quella che lei chiama la libertà.... — Si rimariti, allora, se non vuol la libertà! — ribattei senza tanti complimenti. Ma fu peggio. — Rimaritarmi io? Andare in giro con un altro uomo, quando mio marito è ancora vivo? Mai! Mi parrebbe di andar in giro con un amante. Sono una donna «vieux jeu», io, come dice mia figlia. La faretra dei consigli era vuota. — Ma che cosa vuol dunque allora, signora? — le chiesi duramente, un po’ impazientito e con un tono piuttosto canzonatorio. Alzò gli occhi nei miei, e sentitamente, con dignitosa sicurezza: — Voglio restare — disse — la moglie di mio marito, la signora Feldmann.... Come son stata per ventidue anni. Le pare eccessivo? Non ci avevo pensato. La risposta mi tappò la bocca. Tacqui un istante, confuso: poi, con un modo più gentile e un po’ titubante, le chiesi che cosa intendesse di fare. Prendere, appena sbarcata a Genova, il diretto per Parigi e Cherbourg o l’Havre; e imbarcarsi nel primo piroscafo che salpasse alla volta di New-York — mi rispose. — Quando mio marito mi rivedrà, si ravvederà; ne sono certa. Mio marito mi ama — conchiuse con fare sicuro e sottolineando la frase con quello stesso sorriso enigmatico che altra volta le avevo visto sulla faccia al ripetere quella medesima frase. — Lei ne dubita? Ne dubitavo così fortemente che essa aveva potuto leggermi il dubbio negli occhi: ma le risposi chiedendole solamente per qual ragione il marito volesse allora fare divorzio, mentre a me stesso chiedevo per qual ragione essa sorrideva a quel modo. — Ha dovuto — mi rispose — tornare a New-York per affari: non voleva partire: e a New-York miss Bobbins l’ha accalappiato di nuovo. Capisco adesso perchè abbiamo fatto questo lungo viaggio nell’America del Sud. Lo scandalo del «Great Continental» fu un pretesto. Voleva sfuggire a miss Robbins. Ne sono sicura. Anche Lisetta lo dice. Tacqui, intimidito dalla autorità di Lisetta e ripugnandomi così di deludere come di illudere la signora; di nuovo essa lesse chiaro nel mio silenzio: e con una certa ansia mi chiese: — Non le pare? Crede che mi inganni? Ma già sentivo nascere in me un principio di pietà; volli nascondere i miei dubbi; cercai di confortarla ma fui maldestro; perchè le ripetei che essa aveva cultura, intelligenza, amicizie, ricchezze.... — Anche lei, anche lei? — mi interruppe aspra e agitata. — La ricchezza, la ricchezza! Hai dei milioni: dunque che cosa chiedi ancora? Se mio marito mi inganna, mi abbandona, mi getta in mezzo alla via, quando il capriccio gli piglia, io non debbo lagnarmene: ho dei milioni e potrò sempre abitare in un bel palazzo, comperare un’automobile e portar delle perle come queste. Perchè queste sono le sole perle vere che ho portato nel viaggio. — Fece una pausa. — Non ho io forse mantenuto i miei impegni? — proseguì con voce affannosa. — Ho forse avuto degli amanti? Non sono stata fedele? docile? sottomessa? Non l’ho amato e non lo amo? Se io dicessi che adesso mi piace un altro uomo, non direbbero tutti che sono una sgualdrina? No: sarebbe infame se ci fosse un tribunale che concedesse questo divorzio. E non è possibile, non ci posso credere! E che cosa farei io dopo? Dove andrei? Sola, senza famiglia, senza casa, sospettata e infamata? Che cosa penserà il mondo di me? E poi quando uno ha vissuto una parte della sua vita in America, come ho fatto io, crede lei che possa di nuovo vivere solamente in Europa? È un mondo troppo chiuso, troppo piccolo, troppo pieno di angustie. No: la fortuna l’abbiamo fatta insieme; una parte è mia; mio marito non ha il diritto di rubarmela per darla a una cameriera: un posto me lo son fatto nella società, in Europa e in America, e non voglio perderlo, perchè lui ha dei capricci.... Ma sa che tra qualche anno io potrei diventar moglie di un ministro o di un ambasciatore? Perchè pare che lo nomineranno, se alle prossime elezioni.... Purchè arrivi a tempo, però. Mio Dio, mio Dio!... Ma perchè è così lontana l’America!... Singhiozzò, scoppiò in lagrime, senza badare ai passeggeri che giravano sul ponte e che si fermavano a guardarla. Tacqui un momento, molto turbato. — Le ricchezze dell’America e gli splendori della vita mondana, li disprezzavi sinchè eri sicura di possederli. Ora che temi di perderli, invece.... È dunque vero che i beni della terra sono insipidi quando si hanno; ma non si può fame senza? — pensai tra me, un po’ triste. Poi tentai altri conforti: le dissi che se suo marito venisse a morire, essa si troverebbe pure sola e senza famiglia nel mondo: supponesse dunque, se la peggiore delle ipotesi si verificasse, di rimaner vedova. — Ma morto non è, pur troppo! Chè almeno mi consolerei! — rispose essa tra le lagrime e i singhiozzi, vivacemente, tappandomi di nuovo la bocca. In quella sopraggiunse l’ammiraglio e prese a confortarla, con un tatto e una delicatezza che questa volta ammirai anche maggiormente al paragone della mia inettitudine. Quando si fu un po’ tranquillata, si ritirò accompagnata dall’ammiraglio. Io me ne andai, ripensando i discorsi del giorno prima sulla lealtà. Ma sempre incerto davanti al dilemma: vittima o commediante? Poichè quelle lagrime mi avevan conturbato ma non mi avevano ancora convinto! Mi avevano invece distratto un po’ dalle mie inquietudini filosofiche. Il giorno seguente — era sabato e la vigilia dell’arrivo — scesi verso le otto e mezzo nella terza classe, per saper se Orsola aveva trovate le famose lettere. Ma Orsola si scusò, borbottò, sospirò: non le aveva trovate, perchè — se lo era rammentato poi — le aveva nascoste in una valigia che era stata messa nella stiva. Il giorno dopo, allo sbarco, essa me le darebbe. Incontrai di lì a poco l’ammiraglio: gli raccontai quel che la signora mi aveva detto la sera prima, non nascondendogli che la sua ferma fiducia nel ravvedimento del marito mi pareva chimerica assai. Ma l’ammiraglio non disperava: disse che il cuore umano è pieno di misteri; divagò in altre frasi generiche, che mi insospettirono di nuovo egli sapesse più che non diceva: insistetti, si lasciò sfuggire qualche frase; feci leva su queste; e a poco a poco, cavai da lui quanto sapeva. Incoraggiata forse dalla lunga amicizia e dalla sua età quasi paterna, la signora gli aveva fatto il giorno precedente delle strane confidenze! Gli aveva detto di essere stata educata un po’ romanticamente «tra i fiori e la musica», in una ignoranza beata perchè scevra di curiosità, imaginandosi l’amore nella vita dai melodrammi uditi in teatro; anche perchè — non sapeva per qual ragione — tra signorine le sue amiche si erano sempre trattenute dal parlar di queste cose in sua presenza. Quante volte le sue amiche di giovinezza, quando si eran riviste maritate, le avevan detto: In tua presenza nessuna di noi osava dir niente! Ma maritatasi, essa aveva dovuto convincersi che gli uomini intendono l’amore in una maniera alquanto diversa dagli eroi dei drammi lirici. Da principio essa un po’ aveva avuto voglia di ridere di questa scoperta, un po’ ne era stata infastidita e un po’ inquietata: ma poi si era lasciata travolgere da questo torrente di passione, e insomma senza rammarico ed infelicità.... E doveva confessare che, ammesso che quel che piaceva agli uomini fosse il vero amore, essa era stata addirittura adorata, dalla mattina alla sera e sopratutto dalla sera alla mattina! Si ricordava però che tre o quattro volte il vulcano pareva essersi spento, anzi coperto di neve all’improvviso — l’ultima volta durante la crisi del Great Continental: e ogni volta il marito aveva mostrata una gran premura di scusarsene, sebbene essa non pensasse a fargliene una colpa, allegando le preoccupazioni, il lavoro. Essa ci aveva creduto — perchè era sciocca: ma ora incominciava a chiedersi se la causa di quel gelo improvviso non fosse miss Robbins invece del Great Continental; e se le volte precedenti non ci fosse stata di mezzo qualche altra donna! Il vulcano però si era sempre riacceso; anche dopo la crisi del Great Continental; e proprio a Rio, chè non era mai stato così ardente di passione come negli ultimi mesi prima di partire da Rio per New-York. Durante questi mesi era arrivato perfino.... perfino — la signora era diventata di bracia raccontandolo — a «demander des rendez-vous pendant la journée». E perciò essa faceva per convertirlo assegnamento sulla propria bellezza: apparirebbe a lui vestita e adorna in un certo modo che lo stuzzicava assai: scoppierebbero ambedue in lagrime, e.... — Ora capisco! — esclamai ridendo. Quel che avevo capito, in quel momento, era lo strano sorriso della signora, ogni qual volta essa aveva parlato del marito e dei suoi sentimenti. Ma a mezzo il riso, improvvisamente, uno scrupolo mi agghiacciò. Poteva dunque accadere perfino che una donna virtuosa, a quarantacinque anni, sforzasse l’inesperta fantasia a imaginar lascivie di cortigiana, per sedurre il marito? Gli orrori più tragici della vita sono, ahimè, proprio quelli che invogliano al riso gli uomini stolti e leggeri, il maggior numero cioè: e di che ridevo io, se non di uno di questi orrendi segreti di cui il mondo è zeppo? Non risi più allora: ma quando a colazione vidi per la prima volta sul volto di lei tante traccie di vecchiaia che forse il dolore aveva seminate in quei pochi giorni, o che prima non avevo avvertite; quando, e per la prima volta, mi accorsi che la donna che si aggrappava alla sua bellezza come un naufrago all’ultima tavola di salvezza, stava per diventare una vecchia, la pietà mi vinse: e mi strinse il cuore un rimorso! Anche io dunque avevo ceduto a quella viltà che tanto spesso, innanzi ad una sopraffazione, ci inferocisce contro la vittima? Anche io avevo cercato dì persuadermi che la vittima aveva meritata la sua disgrazia, come tanti uomini fanno, per risparmiarsi il dolore dell’ingiustizia impunita e la fatica di aiutare l’oppresso? E dichiaratomi in cuor mio a favore di lei, conchiusi risolutamente che il marito doveva essere un pazzo o un malvagio. Durante la colazione si ragionò confusamente: l’ammiraglio di cannoni e corazze; l’Alverighi di Parigi e dei banchieri; il Rosetti di certi lavori che intendeva far fare subito a Bellaria. Solo il Cavalcanti stette zitto, il solo tra tutti che non pensasse alle faccende terrene ma all’antico mondo mediterraneo semivivo o perito. A mezzodì giungemmo a 41 gradi e 22 minuti di latitudine e a 4 gradi e 2 minuti di longitudine orientale; e prima della siesta, trattolo in disparte, raccontai in confidenza al Rosetti, sospinto anche un po’ dall’intima pena, le strane cose che l’ammiraglio mi aveva confidato. Ascoltò il Rosetti; e: — Miserie della vita! — esclamò. Pensò un momento; e poi sorridendo e scuotendo il capo: — Limiti, termini, segni — soggiunse. — L’uomo può rovesciare tutti gli altri limiti, anche Dio: uno resterà sempre, indelebile: il sesso. Un uomo non può diventare una donna nè una donna un uomo; gli uomini non possono vivere senza le donne nè le donne senza gli uomini. E allora? Non è chiaro che all’obbligo almeno di delimitare il còmpito dell’uomo e il còmpito della donna, nonchè i rispettivi diritti e doveri, non potremo sfuggire? Chiedi un po’ all’Alverighi, se se la sente di dare a ciascuno, anche nell’amore, come nell’Estetica, il diritto di farsi da sè la sua legge e la sua misura di quel che si può e non si può.... Esposi allora al Rosetti i dubbi che andavo ruminando: ma insomma dovevamo o non dovevamo combattere i principii di questa civiltà illimitata? A chi occorreva dar ragione — a Orsola o a Maria? Ma non ricordo più qual pretesto prese il Rosetti per non rispondermi. Ci separammo. Uscii di nuovo dalla cabina verso le quattro, mentre navigavamo in pieno Golfo del Leone — un Leone ammansato in quel giorno — senza vedere le coste; e girando per il ponte di passeggiata, a babordo, vidi ad un tratto il Rosetti appoggiato alla ringhiera e impegnato in una discussione con il dottore e l’Alverighi, che gli stavano in piedi dinanzi. Il che non mi avrebbe sorpreso: quel che mi stupì fu di capire alla prima occhiata che tutti e tre, anche il Rosetti di solito così calmo, erano molto eccitati. Nessuno dei tre infatti rispose al mio saluto; e: — Sì, sì — diceva intanto concitato il Rosetti al dottore. — Ma l’uomo oggi lavora, lavora, lavora. Ha vinto perfino la sua invincibile pigrizia. E come vuole che il nostro tempo non sia poi indulgente per il resto? L’Alverighi faceva di gran cenni d’assenso: ma il dottore: — Benone! — diceva. — Quindi quando tua moglie invecchia o non ti piace più, il signor Feldmann ti insegna come devi fare. Evviva l’America! — Un uomo — replicò rapido e vivace il Rosetti — può essere un marito mediocre o anche un marito cattivo e rendere dei grandi servigi al suo paese. Toglierebbe lei, se fosse ministro, il comando di una guerra a un generale capace di vincere, solo perchè avesse tradito sua moglie? — Ho capito — replicò beffardo il dottore. — Qui non c’è che una colpevole: Orsola. Quella non è che una donna onesta. — È una donna pigra e poco destra — intervenne l’Alverighi. — La signora Ferrero ha ragione. — Orsola — aggiunse il Rosetti — è una donna onesta, lo credo anche io. Ma Dio mi scampi dalle donne oneste se tutte rassomigliano a quella. Perchè non ha tradito suo marito e sa di possedere una virtù piuttosto raruccia ai tempi che corrono, Orsola crede di aver diritto di rovinare la sua famiglia con la sua inettitudine e di non pagare i debiti. — Cioè probabilmente degli usurai esosi e rapaci.... — replicò il dottore. — Anche il più esoso usuraio — ribattè il Rosetti — è un benefattore a modo suo, se vuole. Perchè quando uno è in bisogno di denaro.... — Preferisco chi me lo presta al cinquanta per cento a chi non me lo presta al cinque — conchiuse pronto l’Alverighi. — Che diavolo succede? — mi domandavo frattanto, un po’ stupito dal vivo trasporto del Rosetti e più dalle cose che diceva, troppo aliene dalla austerità dei suoi principii. Ma a questo punto il diverbio fu interrotto da una mossa repentina del dottore che volgendosi verso di me: — Giusto lei — disse. — La cercavo.... E mi raccontò ch’era stato chiamato poco prima al capezzale di Maddalena e che Maddalena desiderava vedere la mia signora. Gli risposi che se voleva andavo a farle l’ambasciata: essa era nella cabina. — No, no, vado io — disse. E fatto un piccolo saluto, si partì con quella sua andatura impettita e soldatesca, troncando sdegnato quella discussione. Ma appena fu partito: — Ma che cosa è successo? — dissi sorridendo e guardandoli tutti e due. — Quel benedetto dottore ha fatto perdere la pazienza anche a lei, ingegnere? — È un brav’uomo, — disse il Rosetti scrollando le spalle e ricomponendosi. — Ma qualche volta anche i brav’uomini.... E l’Alverighi mi raccontò che il dottore incontratili poco prima li aveva fermati per chieder loro se sapevano dove io fossi perchè voleva farmi l’ambasciata di Maddalena; il discorso era così caduto sulle storie degli emigranti da me raccontate il giorno prima; di chiacchiera in chiacchiera avevan ragionato anche della signora Feldmann; una prima discussione era nata, e alla fine il dottore era scoppiato in una furibonda invettiva contro l’America, la Rivoluzione Francese, la democrazia, l’emigrazione e la civiltà moderna tutta quanta, che egli aveva definita nientemeno che l’immondezzaio dell’universo! Il Rosetti alla fine aveva persa la pazienza; e n’era nato il diverbio di cui avevo ascoltato le ultime battute. — Lei però — dissi io sorridendo al Rosetti — parlava un po’ per ironia, credo.... L’ironia è un dono di Dio.... Perchè se no, addio limite. Anche lei parteggia per la civiltà illimitata.... In quella sopraggiunse il Vazquez e condusse via, ai consueti affari, l’Alverighi; restammo soli io e il Rosetti che mi prese a braccetto e incominciò a passeggiar lentamente per il ponte, in silenzio, con un’andatura un po’ stanca, appoggiandosi a me. — No no — disse dopo qualche istante. — Non ho parlato per ironia. Parlavo sul serio. Ho esagerato forse: ma che vuoi? Non posso sentir brontolare a quel modo contro i vizi, la corruzione, la depravazione dei nostri tempi. — Eppure, ingegnere.... — gli dissi. — Quasi direi che capisco più lo sdegno del dottore che il suo. In questo momento, mi sento anche io nemico della civiltà moderna.... Pensi un po’: il caso ci ha aperto un piccolo spiraglio per il quale abbiam potuto guardare entro una grande famiglia. Un altro caso ci ha fatto conoscere la storia di alcuni emigranti. E in basso come in alto, nella terza classe come nella prima, che cosa abbiamo visto? Degli orrori!... — Se tu potessi scoperchiare le case di una città, tu non scopriresti forse quasi altro che orrori simili o peggiori di questi — rispose il Rosetti. — Scomponi la civiltà nostra nelle singole esistenze che la compongono e non troverai, tranne poche eccezioni, che invidia, odio, cupidigia, vanità, egoismo, brutalità, rozzezza, sfrenata avidità di godimenti sensuali, se non addirittura vizio e depravazione.... I nostri tempi sono grossolani: è vero; hai ragione; non te lo nego. Ma nell’insieme, no. Lo spirito che anima il mondo moderno all’aspra fatica quotidiana è nobile: è un gran soffio in cui si mescolano l’odio dell’ozio, un gran desiderio di far bene e di far meglio, un vivo sentimento di solidarietà e di giustizia, una umanità, una serietà, uno scrupolo del dovere, una dignità e fierezza che gli antichi non conoscevano. Aggiungi al conto che noi abbiamo quasi vinta quella fiera belva, che per tanti secoli il diritto, lo Stato, la religione avevano inutilmente minacciata, percossa, tentato di legare o di addomesticare: la prepotenza! Come la spieghi tu questa contraddizione? Io mi chiedo ogni tanto se la ragione non potrebbe esser questa: che una volta, ai tempi in cui la storia si stava sbagliando — e sorrise dicendo queste parole — la religione e un pochino anche certe filosofie cercavano di imporre alcuni modelli e regole di morale personale, d’insegnare ad ogni uomo e a ogni donna, in tutte le classi, sebbene com’è naturale in misura diversa, a confrontare ogni tanto sè stesso con quei modelli e ritratti di perfezione, a frugare nella propria coscienza, a riconoscere i propri vizi e difetti.... Oggi manca il tempo: l’uomo si butta con troppa furia sulla terra per depredarla o in mezzo agli altri uomini per divertirli o dominarli; e anche avesse il tempo di raccogliersi, quale è oggi l’autorità che potrebbe imporgli il modello? Quindi oggi ogni singola coscienza è sovrana, è autonoma, è regina di sè medesima: pone da sè il ritratto in cui specchiarsi; e quindi si vede bello e perfetto come un Adone. Se noi potessimo discendere in fondo all’anima di ogni uomo, noi vedremmo oggi uno spettacolo singolare; che ognuno si crede sinceramente un modello impareggiabile, un vero «vas electionis», un angelo a cui non mancano che le ali sulle spalle.... Ti ricordi come cominciano le «Confessioni» di Rousseau? Quando si rivolge a Dio, e gli dice di convocare intorno a lui tutto il genere umano, e che ciascuno vuoti ai suoi piedi il sacco delle proprie colpe e dei propri meriti; «et puis qu’un seul te dise, s’il l’ose: Je fus meilleur que cet homme-là»? Rousseau è proprio il maestro dei tempi moderni. Ognuno di noi sarebbe pronto a ripetere dinanzi all’Eterno questa poco modesta apostrofe, anche i tuoi amici della terza classe, anche il signor Feldmann. Già l’ho detto. Orsola, perchè non ha tradito suo marito, si crede una donna così perfetta da aver diritto di non pagare i debiti. Antonio cascherebbe dalle nuvole, se sapesse quel che noi pensiamo di lui. Sua moglie gli ha fatto un torto: è giusto dunque che lo risarcisca: e stai pur sicuro che sinceramente si reputerà in credito, sinchè Maddalena vivrà. Quanto al signor Feldmann, non dubitare: anche quello è sinceramente, profondamente, incrollabilmente persuaso che se si è presa un’amante, e vuol piantare in asso la moglie, la colpa è della moglie, tutta di lei, di lei soltanto che avrà fatte o non avrà fatte chissà quali cose. Per esempio: tentato di avvelenarlo! Ognuno si crede perfetto oggi: e quindi di tutto il male che gli capita o che fa, la colpa è sempre degli altri, mai sua: ognuno si sente vittima sempre, colpevole mai, e quindi non c’è orrore di cui non sia pronto ad accusare chi l’offende o molesta; e come potrebbe non essere, nonostante le migliori intenzioni, uno spietato tormentatore dei suoi simili prima e di sè medesimo poi, nella misura delle sue forze? Accoppia due esseri umani: un uomo debole, orgoglioso, avido, egoista, sgobbone, pedante e sensuale: una donna bella, intelligente, artista, buona, virtuosa ma ingenua, sincera, impetuosa, ostinata, poco paziente e poco abile a dissimulare. Aggiungi loro una di quelle grandi fortune moderne che fanno gli uomini così esigenti e prepotenti: e Dio solo sa quel che potrà succedere in tempi come i nostri. Si ameranno con trasporto, sì, sinchè la bellezza di lei solleticherà in lui quell’istinto oscuro e potente di cui la natura ha dotata la povera specie mortale: ma anche in mezzo a questi trasporti quanti mali pensieri, e sospetti, e litigi, e reciproche accuse — perfino di codardia e di veleno — nasceranno ogni giorno: per motivi futili, tu dici: a proposito di quadri, di mobili e di cerimoniale. Ma chi può misurare l’effetto che l’atto, il gesto, il detto più innocente e spontaneo possono fare sopra un uomo o una donna che abbia redatta da sè, per la propria sensibilità e vanità, una fantastica _Magna Charta_ di diritti inviolabili? Senza dubbio molto tempo potrà passare, prima che l’uno e l’altra si accorgano che essi si odiano assai più che non si amino; e ciascuno imputerà all’altro i dissapori e le discordie: sinchè un bel giorno o un brutto giorno un altro uomo o un’altra donna comparisce; e allora.... Catastrofe! La luce si fa nelle anime: il coniuge che vuole mutar compagnia scopre mille ragioni per le quali non può più amare e deve lasciare il marito o la moglie. Quanti matrimoni vanno male, per questa ragione, e non c’è mezzo di decidere chi ha ragione e chi ha torto, se il marito o la moglie: perchè nessuno saprebbe più oggi dire quali siano rispettivamente i diritti e i doveri dell’uno e dell’altra? — Ma, ingegnere, — interruppi, — lei dà ragione al dottore.... La terra è un immondezzaio e ci vorrebbe una granata michelangiolesca per ripulirla.... Limiti ci vogliono, dunque: anche a costo di distruggere le macchine.... Il Rosetti pensò un poco, continuando a passeggiare: poi a un tratto e vivacemente: — No, no — disse. — Sono vecchio ormai; e questo è l’ultimo viaggio che fo tra i due mondi.... Feci un gesto di protesta. Ma egli subito lo represse: — Sono vecchio; e questo è l’ultimo viaggio. Ma sono stato anch’io giovane.... E da due giorni, sul finire dell’ultimo viaggio, ora che ho detto il mio supremo addio al nuovo mondo dove feci fortuna tanti anni fa, penso sempre a quel mio primo viaggio del 1865. In un vapore a ruote, l’ho fatto — vera tartaruga del mare — che partiva dall’Havre, mi ricordo: se il signor Vazquez lo sapesse! E una vertigine mi piglia: mio Dio, quanto è mutato il mondo! È proprio passato solamente quanto tempo basta ad invecchiare una generazione? O non ho io vissuta la vita di due o tre generazioni? Ma no: ho vissuto tra i due mondi, anche io, senza diventar matto, lo spero almeno: e di viaggio in viaggio ho visto il mondo ingrandire, i deserti dell’America popolarsi, le città pullulare, e la smania eroica dell’illimitato invader le menti. Sì, la smania eroica di rovesciare e varcare i limiti: perchè dimmi un po’: se l’uomo non avesse osato varcar tutti i limiti in cui le antiche civiltà lo tenevano prigioniero; se non avesse avuto il coraggio d’imbruttire il mondo pur di ingrandirlo, di esporre la natura umana al pericolo di cento corruzioni antiche e nuove pur di infonderle questo slancio tenace e questa infaticata alacrità, viaggeremmo noi così speditamente, comodamente e sicuramente in questo vapore; avremmo noi conquistata la terra con le ferrovie e l’aria con gli areoplani; saremmo noi così potenti, così sapienti, così giusti e umani, così sicuri di noi e del nostro avvenire? Ci son gioie più profonde ed intense di quelle che noi proviamo varcando o rovesciando dei limiti? della gioia del ragazzo che diventa uomo? del collegiale che esce dalla sua prigione? dell’Amore che vince il Pudore? del mistico che s’illude di entrare in contatto diretto con Dio? del popolo tripudiante nei primi giorni che seguono una rivoluzione vittoriosa? E il Genio che noi adoriamo ormai sugli altari nelle nicchie dei santi; e la Guerra, l’arte che tra tutte l’uomo si è studiato di far la più perfetta; la Rivoluzione; e l’Eroismo: che cosa sono se non forze che rovesciano e spostano i limiti? E anche io ho preso parte a questa gran gesta nuova del mondo, come la chiama l’avvocato. Ho costruite ferrovie, ho dissodati terreni, ho educati ingegneri, laggiù. E quante volte anch’io, ultimo fantaccino dell’esercito immenso che assalta, rovescia, sorpassa tutti i limiti più antichi e rispettati per conquistare la terra, ho emesso anch’io il mio grido di trionfo sulle rovine dei limiti devastati e crollanti che ingombrano il mondo! Ma gli anni passarono; i capelli incanutirono; gli ardenti desideri della giovinezza si appagarono. E a poco a poco, invecchiando e meditando, ho veduta anche l’altra faccia delle cose.... La bellezza, la verità, la virtù non nascono forse da una limitazione? Che cosa è uno stato se non un sistema di leggi — una religione se non un sistema di precetti — cioè l’uno e l’altra di limiti? E Dio non è il più augusto e il più antico dei limiti? E non sono forse limiti anche il Dolore, il Pudore, l’Onore, la Metrica, la Grammatica? Il Genio, la Guerra, la Rivoluzione, l’Eroismo sono forze che rovesciano e oltrepassano i limiti: sta bene, ma tali sono anche la Pazzia, il Delitto, la Rivolta, la Ebbrezza: Lieo è il Dio che scioglie dai vincoli e dai limiti! E che altro è se non un limite la patria, un limite ideale e un limite tangibile tracciato da un confine? E l’amore, infine.... Ma mi sapresti tu dire se l’amore è la più tragica o la più frivola tra le passioni umane? Dipende dai limiti: perchè di nessuna passione umana è più facile rovesciare il giudizio. Stringilo in limiti rigidi e quasi sacri — il limite dell’onore, il limite del peccato, il limite del dovere — e si riempie di scrupoli, s’infiamma, talora si trasfigura e si inciela, si insospettisce e inferocisce. Rimuovi questi limiti: e che cosa è l’amore se non un piacere intenso ma breve, che bisogna affrettarsi a godere? E perchè, quando la natura ci ha largito questa fontana di voluttà, mutarla noi stessi in un tormento? Il peccato di un uomo e di una donna fa forse vacillare l’universo sulle sue fondamenta? L’uomo che oggi si dispera e vuol morire, perchè la donna amata non lo riama, non riderà di sè stesso e delle sue smanie, di qui a sei mesi, quando un’altra gli piacerà? E perciò abolite sulla terra tutti i limiti, e l’uomo non riesce più a capire se l’Amore è un dovere o un capriccio. Le disgrazie della signora Feldmann e l’imbroglio dei tuoi passeggieri di terza classe son capitati forse in buon punto, non per dimostrarci che il mondo è depravato e corrotto, ma per ricordarci — l’avevamo un po’ dimenticato in tutti i nostri discorsi — che ai tempi moderni non manca solo una legge di osservanza interna — come l’onore e il giuramento — manca pure una morale sessuale — perchè tutte le regole che governano ancora un po’ i nostri costumi ci furono trasmesse dai tempi della civiltà limitata, e perdono forza con il perdersi dello spirito di limitazione. La signora Feldmann protesta che il marito non ha diritto di scacciarla dalla casa perchè essa non l’ha tradito, e il pubblico che Antonio non ha il diritto di sfruttare a quel modo la colpa della moglie: ma quale è la sanzione, poichè l’uno e l’altro sono persuasi di averlo, e sacrosanto, questo diritto? Tutti ci aggiriamo, cercandoli, sul luogo dove ci pare ci dovrebbero essere dei limiti: ma invano! Il segno non c’è.... No: una epoca che non sa rispondere risolutamente alla questione se New-York è bella o brutta, perchè non riconosce nè autorità nè criterio per decidere, non capisco in nome di quale autorità potrebbe dire a un uomo e a una donna: «Andate d’accordo, non fatevi dei torti, sopportatevi a vicenda, e generate dei figli». Lo Stato con la forza può imporre istituzioni e leggi: ma la sua potenza vien meno sulle soglie di Citera.... Non mi riesce di imaginare come lo Stato potrebbe costringere gli uomini e le donne ad amarsi e a generare.... Questo è uno dei limiti insuperabili della sua potenza.... In quel momento comparve la mia signora con dipinta sul volto una viva commozione: aveva visitata Maddalena, che le era parsa quasi morente, eppure non si era in nessun modo lagnata del marito, ma aveva espressa la sua gioia di riveder le bambine e le aveva chiesto quando sarebbe guarita in modo da poter ripigliare il lavoro. — Maddalena — essa conchiuse — mi ha detto che Antonio non vuol più lavorare; e che fa assegnamento su lei per far fruttare il capitale che portano a casa. Ora capisco perchè Antonio non voleva saperne delle sue diagnosi e delle cure del dottore! Aveva paura di riconoscerle un pretesto o una ragione di non lavorare! Ora invece che spera di sostituire Maria a Maddalena.... L’accusa dell’abruzzese era dunque vera? Mi sentii commosso da pietà per la sventurata; e: — Ecco una donna — non potei a meno di osservare — che non rovescia sugli altri la propria colpa. Ha trasgredito un segno una volta e si riconosce colpevole. — Mentre avrebbe così facilmente potuto imputarne il marito... La sua lunga assenza... la sua cupidigia.... la sua brutalità. È dunque una donna virtuosa, davvero: più virtuosa di Orsola. Poichè la virtù consiste non già nel non peccare mai, il che è impossibile, ma nel pentirsi davvero quando si è trasgredito un segno. È la dottrina cristiana della contrizione; così profonda! Frattanto io avevo ripensato alle cose dette dal Rosetti. Era vero: lo Stato moderno, pur essendo così potente, non poteva imporre la fecondità. Dunque bisogna ottenerla, per mezzo di un’autorità spirituale; e quest’autorità come costituirla in una società insofferente di limiti, senza sconvolgerla? E glielo dissi, conchiudendo che la sterilità era la malattia mortale della nostra società.... Ma il Rosetti non ebbe tempo di rispondermi. Proprio allora un cameriere venne a chiamar la mia signora e me per certe faccende che concernevano i bagagli. — Per l’appunto — disse il Rosetti. — Bisogna che pensi anche io un po’ ai miei. Ci salutammo, ma al momento di lasciarci: — Vedi dunque — disse il Rosetti all’improvviso — che non ha poi tutti i torti la Chiesa se non vuol mettere in cielo Colombo, perchè ha commesso un adulterio. I nostri tempi son facili a annullare i vizi personali con i meriti estrinseci; ed hanno le loro buone ragioni. Ma anche chi sostiene il principio opposto ha le sue.... Cristoforo Colombo ha scoperto l’America, sì; ha oltrepassato un termine: ma ritornato, ne ha voluto oltrepassare un altro, con quella signorina.... come si chiamava.... — Beatrice Henriquez. — Dopo l’America, la signorina Henriquez.... Due limiti, andiamo, non è un po’ troppo: anche per Colombo? Da quel momento la dissoluzione della piccola società natante precipitò. Ritrovi, crocchi, relazioni, tutto fu messo sossopra dall’agitazione dell’arrivo: tutti andavano e venivano frettolosi ed inquieti; febbrile addirittura la signora Feldmann che, aiutata da Lisetta, preparava i suoi numerosi bagagli, in modo da poter correre senza indugio al treno di Parigi. Pranzammo in fretta, tutti distratti, con la testa al domani e alla terra: dopo il pranzo ricominciò l’agitazione ed il via vai.... Ci fu molto sussurro, tra i viaggiatori meno letterati, verso le nove, quando dal ponte, attraverso le finestre, la signora Feldmann fu vista nel refettorio confabulare con il capo dei camerieri e pagare il suo conto. — Quanto gli darà di mancia? — Mille lire? — Ora che i miliardi sono sfumati? — E il regalo, ce lo fa poi, sì o no? — aggiunse a un tratto la moglie del dottore di San Paolo. — Campa cavallo, che l’erba cresce — disse la bella genovese, ironica. — Eppure — replicò l’altra — Lisetta mi ha detto di sì: che ce lo farà.... — Lisetta è una bugiarda, che si burla di noi, d’accordo con la sua padrona. Ma quanto gli ha dato di mancia? sarei curiosa di saperlo — replicò l’altra. In quel momento il cameriere faceva un profondo inchino alla signora, che usciva: a guardarlo in faccia mi sembrò soddisfatto: ma non così alla genovese. — Guardi che faccia fa.... Ci si legge che è malcontento.... — Grandezza e Decadenza — mormorò il Cavalcanti, che osservava con me. Verso le dieci vedemmo lontano dei lumi. — È Marsiglia — dissero alcuni. — Le isole Hyères — altri. La Francia insomma. La grande Europa accennava e salutava di lontano i ritornanti con piccole luci! Scorsi anche la signora Feldmann, la faccia rivolta verso la notte, intenta a guardar quelle luci: mi avvicinai a lei: si volse: gli occhi erano rossi e lucenti di pianto! Ci coricammo tutti tardi: dormii poco: ci alzammo di buon’ora tutti come se così si arrivasse più presto, ed uscii sul ponte verso le sette. Era una mattina grigia e nebulosa: e già si vedevano in lontananza il Capo Mele, le colline della Liguria fitte di case, l’Italia.... Con che gioia pascemmo gli occhi di quella vista, tanto desiderata per due lunghe settimane! I bagagli essendo già quasi tutti pronti, non avevamo più nulla da fare, e potevamo star chiacchierando sul ponte, nella mattina fredda, oziosi e inquieti, impazienti e annoiati, spiando se si vedeva di lontano la lanterna di San Benigno; tutti fuorchè il Cavalcanti che, non avendo fatti i bagagli il giorno prima, per meditare sul mito di Apollo e di Prometeo, era condannato alla cabina in quel momento. Incontrai il Rosetti già pronto a sbarcare; e passeggiammo un po’ guardando la terra, ragionando dell’America, dell’Italia, di Bellaria e delle nostre faccende, dei propositi futuri e del viaggio allora allora terminato. Lo ringraziai, anche a nome del Cavalcanti, delle belle e profonde idee che ci aveva esposte; gli dissi che avremmo riflettuto su quello a lungo. Ma non mi lasciò terminare; mi guardò sorridendo; e: — Per chi mi pigli? — disse. — Per un filosofo? Non ci mancherebbe altro.... Tutto quel che ho detto si può stringere in una formoletta semplice semplice: che non bisogna volere tutto, non tutta la bellezza, non tutta la verità, non tutti i beni; ma occorre saper limitarsi perchè noi siamo degli esseri limitati. Ti par che occorra un nuovo Platone per scoprire e propagare una verità come questa? O per accorgersi che la felicità, il sommo bene come diceva Aristotele, il grande delimitatore, dipende da questa regola semplice come l’a, b, c? — Altrochè se ce n’è bisogno! — interruppi vivacemente. — Ma se gli uomini l’hanno dimenticata del tutto, oggi, questa verità, che a lei pare e che dovrebbe essere così semplice! — Perchè abbiamo scoperta l’America e inventate le macchine? Perchè siamo diventati ricchi, sapienti e potenti? Perchè spesso i filosofi ficcano il naso in molte cose che non li riguardano? Ma credi tu che così poco basti ad alterare l’equilibrio dell’Universo? La Vita è una cosa più semplice e chiara, che non paia a molti filosofi, oggi.... Guarda, per esempio: noi abbiamo discusso per due settimane, vivacemente, confusamente, cercando argomenti in cielo e in terra, se è meglio arricchire o studiare, coltivar campi o crear opere d’arte o inventar macchine; sino a qual punto si possa e si debba desiderare la ricchezza, cercar la verità, spasimare per la Bellezza; come si debba intendere il progresso: se noi siamo più virtuosi o più viziosi dei nostri antenati.... Ebbene? Abbiamo noi preso a discutere l’Universo tutto quanto o una questione semplice, semplice, che si scioglie con un po’ di buon senso in un batter d’occhio: questa: quali sono i rapporti tra l’Arte, la Morale, la Verità, e la Utilità o la Pratica che dir si voglia?... — Alla grazia! Sicuro: noi abbiamo discusso semplicemente questa questione. Ma in questa questione che a lei pare semplice semplice è implicato l’universo tutto quanto!... — Lo credi? Io direi invece di nuovo che è una questione semplice semplice, anche se a molti filosofi sembra assai oscura. La Vita non la risolve ogni giorno, senza esitare? Ma sono dei limiti vicendevoli, per Bacco! Per esempio: il senso del Bello può trattenere la Morale da certi eccessi punto estetici dell’Ascetismo; la Morale distogliere l’Arte da certi soggetti perniciosi, l’Utilità imbrigliare un po’ la Verità, ricordando all’uomo che «toute verité n’est pas bonne à dire», o impedir l’arte e la morale di divenir fine a sè stesse e disumanarsi; e via dicendo. — Sta bene: ma quando come e a che punto l’una di queste cose deve limitar l’altra? Qui, ce la voglio.... Chi porrà il limite? — La Volontà. La Volontà grande dei popoli e delle civiltà. Che cosa è la gloria se non lo sforzo perenne della Volontà per trarre nuovi e più perfetti equilibri e limitazioni, tra i diversi elementi della Vita universale? Dunque non ti inquietare: compi l’opera tua con fede e coscienza, senza presumerne troppo, senza offenderti troppo delle delusioni che ti procaccia, senza voltarti troppo spesso indietro: ed aspetta. Un giorno o l’altro l’atto di volontà aspettato proromperà. Da dove? Sappiamo forse noi donde è venuta la spinta che muove gli astri a cerchio delle loro orbite? — Sarà: ma intanto il mondo moderno precipita nell’anarchia; e se l’anarchia le sembrasse un male ancora sopportabile, è minacciato dalla sterilità. Lei ha trovato l’altro giorno l’argomento decisivo contro questa civiltà illimitata, a favore delle antiche civiltà limitate. È questo; è la sterilità — inevitabile effetto del cadere di ogni autorità morale.... Il Rosetti pensò un poco; poi con fare esitante e come parlasse con sè stesso: — E se la sterilità preparasse la rivincita della quantità e il rinascere dei limiti? In quelle antiche civiltà limitate, la popolazione non cresceva poco o spesso addirittura non scemava? Potremo noi pensare a raffinar questo gran blocco greggio che è la civiltà moderna, se gli uomini continueranno a pullulare da ogni parte? O non bisognerà allora continuare a inventar macchine, a saccheggiar territori in fretta e furia, a rovesciar tutti i limiti, a dire che è progresso il far più presto, anche facendo peggio? Delle grida interruppero il discorso. Dei passeggeri credevano di scorgere Genova. Un cameriere porse il suo conto al Rosetti che partì con lui. Vedendo nelle terze classi i bagagli degli emigranti accatastati nel mezzo, mi ricordai di Orsola e delle sue lettere: ma Orsola con mille discorsi, pianti e lai mi disse che le lettere dovevano avergliele rubate, perchè non c’erano più nella valigia. Le voltai indispettito le spalle, certo ormai che avevo avuto a fare con una isterica inquieta e piena di fole. — Purchè le sue storie non vadano ad arricchire la letteratura dell’emigrazione! — pensai. Tornato sul ponte, sentii la bella genovese che in un crocchio diceva con disprezzo: — Sapete quanto ha dato di mancia? Duecento lire! Il gioielliere era sdegnato; gli altri non si pronunciavano; solo la moglie del dottore di San Paolo: — Se però — diceva un po’ timidamente — avessimo dato tutti in proporzione! Ma la genovese inviperita: — E il bel regalo, lo ha ricevuto non è vero, anche lei? Bello come il mio! Ahimè! la leggenda della signora era stata ben caduca. Ma in quella sopraggiunse l’Alverighi, sbuffando: — Come si respira male, nel Mediterraneo. Appena si esce dall’Atlantico si sente il chiuso e lo stantio, non è vero? Poi ci additò in lontananza i monti della Liguria e le piccole case. — E pensare — disse — che ognuno di quei miserabili che stentano la vita su quei dirupi potrebbe diventar milionario, se emigrasse in Argentina! L’Europa è piena di imbecilli! Gli risposi ridendo che non sarebbe poi una così bella cosa se tutti diventassero milionari, perchè allora chi ci lustrerebbe ancora le scarpe? Ma non mi diè retta e: — Abbiamo discorso per due settimane di cose inutili, Ferrero; vuol che facciamo un piccolo discorso serio? Vuol che i suoi figli almeno un giorno siano milionari? Compri terre nella provincia di Mendoza, dove le abbiamo noi. O nella provincia di Cordova.... E mi spiegò diverse speculazioni, per conchiudere: — Compri, compri; questo è il momento; e poi non ci pensi più. Arricchirà dormendo. E avendogli io risposto che non me ne importava: — Si è convertito anche lei al Vedantismo? — disse ridendo. — Quanto a me io voglio farli, i miei cento milioni: se no che ci starei a fare al mondo? Intanto in lontananza un mucchio bianco era spuntato davvero — Genova; a poco a poco ingrandì, si chiarì sotto il sole che squarciava le nuvole. Incominciarono gli estremi saluti: cordiali e quasi intimi tra me, mia moglie, il bambino, il Cavalcanti, l’Alverighi, l’ammiraglio, la signora Feldmann, il signor Vazquez, il Rosetti: più contegnosi e sostenuti con gli altri passeggeri. Tra questi saluti comparvero a un tratto il signore e la signora Yriondo; lui pallido, magro, febbricitante ancora. — Cose da pazzissimi, un assassinio in regola — borbottò il dottore. Ma la signora era fiera di poterci mostrare i miracoli della «Christian Science», e ci disse che uscendo di letto suo marito compiva un atto di energia che fugherebbe ancora più lontano la mortale illusione della malattia. Ben presto fummo in vista del porto; il vapore rallentò la sua corsa; entrammo; da lungi apparve lo scalo, nero e gremito di persone. Ci avvicinammo a poco a poco; tra lo scalo e il vapore incominciarono i saluti, i cenni, l’agitare dei fazzoletti: la nave iniziò la manovra dell’attreccamento. Ormai dalle sponde gremite della nave parlavano tutti con gli aspettanti, chiedevamo e davamo notizie del viaggio, degli amici, dei parenti. Finalmente la nave si fermò e le scale furono poste; le autorità e i funzionari della compagnia vennero a bordo; gli ultimi saluti furono scambiati. Mi recai a salutare il capitano Mombello e a ringraziare lui e il rappresentante del Lloyd Italiano di tutte le cortesie ricevute. Poi scendemmo insieme: la mia signora, il bambino e il signor Rosetti. FINE. OPERE DI GUGLIELMO FERRERO: Grandezza e Decadenza di Roma. Vol. I: _La Conquista dell’Impero_ L. 5 — Vol. II: _Giulio Cesare_ 5 — Vol. III: _Da Cesare ad Augusto_ 5 — Vol. IV: _La repubblica di Augusto_ 3 50 Vol. V: _Augusto e il Grande Impero_ 3 50 _Roma nella cultura moderna._ Discorso tenuto in Campidoglio il 21 aprile 1910, commemorando il Municipio il «Natale di Roma» 2 — _In memoria di Cesare Lombroso_ (1910). Conferenza, con due ignorati scritti di Lombroso 2 — _Cronache criminali italiane_ [con SCIPIO SIGHELE] (1896). Con 12 ritratti 4 — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK FRA I DUE MONDI *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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