The Project Gutenberg eBook of Medaglioni

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Medaglioni

Author: Enrico Nencioni

Release date: September 14, 2024 [eBook #74414]

Language: Italian

Original publication: Roma: A. Sommaruga e C, 1883

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEDAGLIONI ***

MEDAGLIONI


ENRICO NENCIONI

MEDAGLIONI

La Pompadour
La Du Barry — Sofia Arnould
Julie-Marianne — Giulia Lespinasse
La baronessa Di Krüdener
La contessa Guiccioli
Elisabetta Barrett Browning
La signora Carlyle
Rachel

I.º MIGLIAIO

ROMA
CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C.
3, Via due Macelli, 3

1883


PROPRIETÀ LETTERARIA

405 — Firenze, Tipografia dell’Arte della Stampa — 1883



INDICE


[v]

PREFAZIONE

Occupato da varî anni a studiare e ritrarre il carattere e la fisonomia artistica dei più notevoli moderni scrittori stranieri, mi è stato, ogni tanto, grato riposo e sollievo, il fermarmi a disegnare un profilo o a colorire un ritratto di donna: dieci dei quali studi raccolgo oggi in questo volumetto.

[vi]

Dalla nobile e casta figura di sposa della signora Carlyle, alla grazia birichina di Sofia Arnould — dall’entusiasmo lirico di Elisabetta Barrett Browning, ai capricci galanti della Du Barry — dalla passione incurabile della Lespinasse, ai freddi calcoli della Pompadour — dall’atteggiamento tragico della Rachel alla schietta naturalezza della contessa Guiccioli — questa piccola collana di Medaglioni offre alcuni dei tipi femminili più caratteristici, e perciò più degni di attenzione e di studio.

Ma vedendo ora qui tutt’e dieci queste donne raccolte a domicilio coatto nello stesso volume, provo un sentimento curioso. Mi par che [vii] si lagnino di trovarsi riunite insieme, come in un medesimo salotto, da un padron di casa imprudente o malizioso....

La puritana Carlyle guarda d’alto in basso la povera Sofia Arnould, che però non si sconcerta nè si sgomenta, e sogghignando sventola con un enorme ventaglio di piume la sua coiffure à la circonstance. La Browning si avvicina, piena di simpatia e di ansietà, alla pallida Lespinasse, e ragionano insieme di amorose passioni e citano il nome della Lesbia fanciulla. Ma la Du Barry si allontana, seccata, dicendo col suo vezzoso zezaiement di monella parigina: ze ne sais pas ce que c’est; [viii] ze n’y entends rien.... La piccola e magra Rachel volge il suo nero e profondo sguardo ebraico con aria di superbo dispregio sulla Pompadour incipriata e voluttuosamente sdraiata in una chaise-longue. La bionda baronessa di Krüdener, dopo avere lungamente e inutilmente parlato di morale cristiana e di estasi mistiche alla contessa Guiccioli, che l’ascolta distratta ripensando a lord Byron, si ravvolge, mortificata, nella sua grande sciarpa di mussolina azzurra, e solleva al cielo i suoi occhi di sonnambula illuminati da un pallido raggio di sole polare.

Insomma, a eccezione di due, tutte queste amabili creature sarebbero disposte [ix] a odiarsi e a evitarsi. Ma ormai le ho messe qui insieme — e insieme staranno.

Se fanno un po’ di chiasso, non sarà male. Mostreranno così di esser donne vive e vere, e non fantocci ripieni di stoppa, e che si somigliano tutti.

Firenze, 15 aprile del 1883.

Enrico Nencioni.


[3]

LA POMPADOUR

Aveva appena nove anni quando le fu predetto che sarebbe stata la favorita del re di Francia. La madre, corrotta e galante, diceva di lei ancor giovinetta, ed in sua presenza: È un boccone da re. La natura le aveva dato l’istinto della seduzione, il gusto innato della toelette, il sentimento e l’amore dell’arte, una diabolica vivacità parigina, l’orrore della noia, una grazia ineffabile ed una rara bellezza: fisonomia espressiva, simpatica; occhi di un colore misterioso, indefinibile, cupo-azzurri, dagli sguardi lenti, irresistibili; magnifici [4] capelli castagni; denti ammirabili; un sorriso rallegrante su due labbra voluttuose di un roseo pallido. Jeliotte, il famoso Jeliotte, le aveva insegnato il canto ed il cembalo; Guidaubert, il re dei ballerini, la danza; Crébillon, la declamazione. Disegnava, dipingeva, incideva. Cantava con passione, recitava con brio. E quando da madamigella Poisson (ignobile nome che doveva avvelenare i trionfi della futura marchesa, e seppellire per anni ed anni nelle tenebre della Bastiglia quegli infelici che lo ripeterono in velenosi couplets) essa diventò madame d’Etioles, grazie alle savie precauzioni della previdente maman, tutte quelle armi d’Armida furono adoprate per attirare, arrestare, incatenare il cristianissimo e annoiatissimo re di Francia.

Nella foresta di Senart, ritrovo delle cacce reali, madame D’Etioles, vestita di raso azzurro, [5] mollemente sdraiata in un phaéton color di rosa, si offerse più volte agli sguardi di Luigi XV, passando e ripassando fra i cavalli e i cani da caccia del re come una Diana sorridente e affascinatrice.... Una sera di carnevale, al ballo per le nozze del Delfino, un grazioso domino, dopo aver lungamente intrigato il re, sollevò la maschera e lasciò cadere il fazzoletto. Il re, riconosciuta la misteriosa Diana, raccolse il fazzoletto e lo lanciò ridendo dietro a lei che fuggiva. Poche sere dopo, ella abitava al piccolo entre-sol sulla camera stessa del re, trepidando, simulando terrori per le gelosie del marito, giurando di aver sempre amato e amare in Luigi l’uomo e non il monarca, sorridente e piangente, insomma una vera salsa-piccante per l’ottuso palato del monarca libertino e annoiato. E che! dicevano i Condé, i Richelieu, questa borghese, questa robine qui n’est pas née sarà di fatto la regina di Francia? Pur troppo: egli, che a far [6] dispetti c’ingrassava, la fa nascere a modo suo, la mette pubblicamente sotto la sua protezione, la onora, le dà palazzi e titolo, vuole che sia da tutti rispettata la sua scelta sovrana, che tutti pieghino il ginocchio dinanzi alla favorita, da lui creata marchesa di Pompadour. E così fu fatto....

Fu come un risveglio generale, un destarsi da un lungo sonno in quella corte di annoiati. Tutti, dal re al maggiordomo, vivevano nell’aria mefitica del freddo libertinaggio, della stanchezza, della noia. «La improba invitta necessità di consumar la vita» era la tortura di quei languenti: la Pompadour aprì una corrente d’aria vivificante in quel limbo. Capì che per mantenersi arbitra del cuore di Luigi, bisognava distrarlo continuamente, tener sempre desta e sempre appagata la sua curiosità. La delicatezza [7] e la varietà nei piaceri, la seduzione delle sorprese, un rinnovamento continuo di toelette, di passatempi, resero il gusto della vita a quei moribondi. Il capriccio diventò la legge di corte, ed essa trasportava corte e re da Versailles a Crécy, da Crécy a Bellevue, da Bellevue a Fontainebleau, con rapidi viaggi e brevi soggiorni, inventando nuovi divertimenti in ogni nuova dimora. Il teatro dei piccoli appartamenti fu sua invenzione, e fu il vero teatro dei suoi primi trionfi. Il re assisteva a tutte le rappresentazioni. Il fiore della nobiltà componeva il parterre. La Vallière, De Nivernois, De Croissy recitavano con madama di Pompadour. Il re si divertiva, rideva, applaudiva; e una sera, incantato dalla magia della voce e del sorriso di lei, le disse con accento di sincera ammirazione: «Vous êtes la plus charmante femme qu’il y ait en France.» E poteva dirlo davvero, abbagliato dalle continue metamorfosi di quella [8] sirena. Cantando e recitando, essa sfoggiava nel suo vestiario le più graziose fantasie della moda, che spesso erano creazioni improvvisate dal suo gusto parigino. Ora appariva in costume di pastorella, con abito di taffetas bianco guarnito di nastri azzurri (l’azzurro era il colore preferito dalla marchesa) o colla veste procace color rosa di Colin; ora da sultana splendida di cachemires e di gemme, visione abbagliante; ora da bella giardiniera, con un largo cappello di paglia dai nastri celesti, con un vestito bianco ornato di roselline, e un canestro di giacinti al braccio....

Quale contrasto con la vita uniforme, regolare, monastica, della povera regina Maria Leczinska! Alle torture della gelosia, alle lacrime ardenti fattele versare dalla Nesle, dalla Châteauroux, era successa in quella [9] anima nobile e delicata, una cristiana rassegnazione, una immolazione completa. Quali agonie non le aveva inflitto quel codardissimo fra tutti i re! L’aveva ridotta a tale che essa scriveva alla duchessa di Luynes: «Non mi son concessi nemmeno i più innocenti piaceri della vita.» Quando Luigi si ammalò a Metz, e fu in pericolo, e licenziò la Châteauroux, essa era accorsa al suo letto, apportandogli intero il suo perdono e il suo amore. La conversione durò due settimane.... La regina dovè ripartire, la favorita tornò gloriosa e trionfante. Fu l’ultima mortificazione che trafiggesse quel nobile cuore. Essa lo elevò al cielo, e lo rese invulnerabile. Ma la sua vita ordinata ed ascetica era soggetto di scherni continui in quella corte corrotta. Fino le sue cameriere si prendevano con lei delle libertà che non avrebbero osato con una semplice dama. Quando la favorita Châteauroux morì improvvisamente, la buona regina che credeva [10] agli spiriti, chiamò di notte una sua cameriera, e le disse: «Dio mio, se quella povera Châteauroux mi apparisse! mi par sempre di vederla!» — «Eh, madama, rispose la cameriera stizzita d’essere stata svegliata, se quella signora tornasse stanotte in questo mondo, non sarebbe Vostra Maestà che riceverebbe la sua prima visita.» I cortigiani e le dame che dovevano per cerimonia esser presenti al suo pranzo, alle sue passeggiate, lo riguardavano come una vera corvée, e regnava un silenzio glaciale. Il Casanova ci ha descritto un pranzo della regina a cui fu presente; durante tutto il quale, la conversazione si ridusse a questo dialogo veramente spartano: «Monsieur de Lowendal!» — «Madame!» — «Je crois que ce ragoût est une fricassée de poulets.» — «Je suis de cet avis, madame.»

Uno dei pochi meriti (dico merito in senso puramente relativo) della nuova favorita fu [11] il suo delicato contegno in presenza della regina. Le parlò sempre in atto di suddita, in tono di ossequio, non permise mai che si facesse con lei la minima allusione irriverente alla povera tradita. E questo sentimento, in donna pervertita dalla propria madre, e corrotta fin dall’infanzia, fu pur qualche cosa; e dobbiamo tenergliene conto.

L’antica mademoiselle Poisson tornava ogni tanto a far capolino nella nuova marchesa: la borghese si lasciava scappare delle parole, delle espressioni, che erano malignamente sottolineate dalle vere dame. Un giorno dirà, per esempio, qu’on m’ôte cet engin de devant moi, a proposito di un cugino con cui era in collera; un altro, chiamerà madame di Amblimont mon torchon. Son noti i due versi che Voltaire le improvvisò all’orecchio [12] quando, pranzando con lei, le sentì chiamar grassouillette una quaglia:

Grassouillette, entre nous, me semble un peu caillette,

Je vous le dis tout bas, belle Pompadourette.

Adagio adagio, seppe imporsi a tutti e trionfare temuta. Ma quali terrori continui, quanti sospetti, quante cure, quante fatiche morali, quanti fisici strapazzi, per mantenersi trionfante! Altre celebri favorite ebbero da fare con reali amanti o spensierati, o generosi, o passionati: essa invece doveva lottare col più calcolato egoismo, col cuore più arido e morto, simulare e dissimulare, occuparsi, per propria difesa, della politica, per la quale non era fatta, lei nata artista, e illuminare spesso col suo buon senso borghese le ottuse intelligenze degli uomini di Stato che governavano allora la povera Francia.... Poi venivano le torture dei sospetti, delle gelosie; vedeva per tutto una rivale, sentiva già gli insulti che la fulminerebbero [13] se cadeva dal suo piedistallo. Come riderebbero le Coislin, le D’Argenson!... Poi si spaventava del suo freddo temperamento, temeva che il re libertino si disgustasse di lei, ricorreva a filtri micidiali, a erbe assassine, e si rovinava la salute irreparabilmente per vincere le sue froideurs de macreuse come lui le chiamava....

La vera gloria della Pompadour, — sua gloria e sua scusa — è il vivo e costante amore per l’arte e le lettere, la sua ammirazione, la sua intelligente e affettuosa protezione dei più insigni artisti e scrittori contemporanei. Voltaire, D’Alembert, Diderot, Montesquieu, Duclos, Crébillon, ebbero ripetute occasioni di esserle riconoscenti. Tentò ogni modo di beneficare Jean-Jacques: ma egli, il solo filosofo di buona fede tra quei [14] mondani filosofi, evitò i beneficii. Si studiava di eccitare nel re la nobile ambizione di protettore dei grandi contemporanei, gli rammentava gli esempi di Augusto, di Francesco I, di Luigi XIV.... Fiato sprecato. Egli la guardava col suo inerte vitreo occhio di pesce, e sorridendo col suo glaciale sorriso di vecchio libertino, le rispondeva: «Vorreste che gli invitassi tutti a pranzo con me?» E ne citava i nomi, e li contava e concludeva: «A dar retta a voi, tout cela cenerebbe ogni sera con me....» — «Ah, tout cela, Sire, non fu invitato a cena da voi,» ma essa era istintivamente con loro. «Dans le fond de son cœur, elle était des nôtres,» scriveva Voltaire a Duclos. Nell’entre-sol della marchesa a Versailles, si riunivano e discutevano colla massima libertà economisti ed enciclopedisti. Vi pranzavano spesso Diderot, Quesnay, Helvétius, Turgot; e tout cela analizzava i mali, prevedeva le tempeste e faceva dire alla Pompadour [15] le memorabili parole, a torto attribuite ad altri: Après moi, le déluge!

Le belle arti non solo furon protette da lei, ma riceverono l’impronta caratteristica del suo gusto elegante e decorativo. Ed era artista lei stessa. Le sue acque forti sono anche oggi pregiate e ammirate. I resti della sua famosa biblioteca sono ricercati avidamente dai bibliofili. Stampò, o aiutò a stampare, con le delicate sue mani, a Versailles, una tragedia del gran Corneille. La manifattura di Sèvres dovette a lei unicamente se le sue porcellane poterono gareggiare con le meraviglie del Giappone. In questi servizi di Sèvres, il genere Pompadour brilla di una grazia e di una eleganza uniche. Protesse Vanloo, protesse Cochin, beneficò costantemente Boucher. A lei si deve l’Amore di Bouchardon, insigne [16] capolavoro, a lei le pietre incise di Gai. E tutte le grazie, tutto il gusto dell’epoca sembran derivare da lei. Protesse le arti e gli artisti, non come orgogliosa protettrice, ma come compagna; con passione più che con ambizione. L’arte francese del suo tempo fu il suo rifugio e il suo conforto tra i disgusti della favorita, e le noie e le apprensioni della politica. Essa, la prima, combattè l’arte tradizionale e accademica, gli eterni modelli greco-romani, e invitò e spinse pittori e scultori a rappresentare la vita contemporanea. Essa, la prima, volle applicata l’arte all’industria, e mise, per dir così, la sua cifra a migliaia d’oggetti d’uso e di lusso, mobili, letti, carrozze, ventagli, astucci, orologi, babioles d’ogni genere; cifra riconoscibile a prima vista, di un rococo elegante e voluttuoso, in una parola il genere pompadour. Aveva dunque ragione Carlo Vanloo, quando durante l’ultima malattia della marchesa, dipinse le Arti inginocchiate [17] ai piedi del Destino, intercedenti per la vita di lei....

Ma il Destino fu sordo. Già fino dal 1759 la salute di lei era irreparabilmente perduta, e con la salute, la freschezza e la bellezza. Nella vecchia Histoire de madame de Pompadour pubblicata a Londra, lei vivente, nel 1759, essa è descritta così: «Le visage de madame de Pompadour n’est plus capable de fixer l’attention.... elle est d’une épouvantable maigreur....» Si sentì morire di una lenta agonia quotidiana per cinque lunghi anni. Moribonda, al sacerdote che stava per lasciare la camera, disse con un sorriso: «Un moment, monsieur le curé, nous nous en irons ensemble.»

Quando il re seppe della sua agonia, della sua morte, non versò una lacrima. E quando da una finestra del castello di Versailles, [18] vide passare il convoglio funebre, la bara con lei dentro, tra il vento e la pioggia, disse queste parole cinicamente crudeli: «La marquise n’aura pas beau temps pour son voyage.» Una settimana dopo, la povera regina Maria Leczinska, scrivendo al presidente Hénault, gli diceva: «Il n’est plus question ici de celle qui n’est plus, que si elle n’avait jamais existé. Voilà le monde; c’est bien la peine de l’aimer!»

Quel cadavere che si trasportava in fretta, tra l’acqua e il fango, da Versailles a Parigi, era quella stessa donna che vive ancora e vivrà nel pastello di La Tour al Louvre, vestita di raso bianco ricamato a rami d’oro e mazzettini di rose, mollemente assisa in una poltrona, voluttuosa, sorridente, bellissima, con un quaderno di musica in mano. Ai suoi piedi è una cartella [19] di incisioni; dietro a lei un vaso di porcellana di Sèvres; sulla tavola accanto, un volume della Enciclopedia e il Pastor Fido.... Povera favorita! Tutto considerato, le sue angoscie superarono di gran lunga le sue gioie in questa vita. E la derelitta regina rassegnata e credente, fu, senza dubbio, incomparabilmente meno infelice della trionfante rivale.

[23]

LA DU BARRY

Jeanne nacque l’agosto del 1743 a Vaucouleurs. La madre era designata col nome rabelesiano di la Becu. Suo padre.... Chi era suo padre? Non lo seppe mai neppur lei. Soldato? frate? cuoco? Son le tre varianti più discusse e più discutibili. Michelet sta per il cuoco: «Voyez son portrait: elle n’a rien d’obscène, mais la lèvre friande. Elle dut naître en quelque cuisine, un jour de mardi gras.»

Dalla prima infanzia è affidata alle cure di M.lle Frédérique, «grande et belle fille, [24] extrèmement rousse, renommée pour son libertinage.» Poi un parente devoto la mette in un convento che va sottosopra ai racconti e descrizioni che la Giovannina fa del precedente suo domicilio. Poi è gettata sul lastrico di Parigi, con una cassetta di gingilli al collo, e va di porta in porta vendendo la sua chincaglieria, giovinetta e bellissima, nella più corrotta delle capitali, e nel secolo più corrotto.... Più tardi, sotto il nome di mademoiselle Rançon, è modista nel famoso negozio Labille: ha un primo amoretto col parrucchiere Lamet, e frequenta la casa di gioco della infame Duquesnoy: e finalmente, già di matura bellezza, e ricercata e di moda, diventa la favorita del serraglio che teneva a Parigi il conte Du Barry di Tolosa. Era un cavaliere d’industria, fine ed audace, in relazione col vecchio libertino Richelieu. Questi, spaventato al pensiero che il ministro Choiseul suo nemico spingesse il re a rimaritarsi, e da una bella bionda di casa [25] d’Austria facesse consolidare la sua politica; spaventato egualmente all’idea che le orgie tiberiane a cui si abbandonava il sessagenario Luigi non lo uccidessero sul colpo, cercava una buona fille, un boccone da re, per mantenere in vedovanza il vecchio Luigi, e al tempo stesso curarne la salute mediante una igienica monogamia.

Il conte tolosano parlò al duca della sua bella Lange (così si faceva allora chiamare la Giovannina) e tornò più volte, e con insistenza, su questo tasto. La donna era bellissima. Di persona svelta, flessuosa, di forme perfette, di una carnagione che i contemporanei paragonarono a foglie di rosa bagnate nel latte. Aveva, grazioso contrasto, ciglia nerissime e occhi azzurri, abitualmente socchiusi, dagli sguardi lunghi, voluttuosi, dalle occhiate assassine, come le [26] chiama Musset: i capelli più belli, più morbidi, più lunghi che si potesser vedere, seta e oro, abbondanti, naturalmente ondati; un collo di statua antica, magnifiche spalle, mani da gran signora. In breve, il conte annunziò al duca che destinava la sua Lange al re. Richelieu sulle prime finse di non capire. Poi mostrò di capire, e suggerì a Du Barry d’intendersela con Lebel, il vile mezzano di piaceri di Luigi XV. E così ne fu parlato al re, eccitata con arte la sua curiosità di vecchio libertino, e la Lange gli fu fatta vedere la prima volta (senza che essa sapesse di esser vista dal re) a una cena in casa dello stesso Lebel. Rallegrata, eccitata dallo champagne, essa fu, come sempre, di una folle allegria, graziosa, espansiva, tutta riso, e spirito, e gioia. Aveva l’aria d’ignorare affatto l’abiettezza della sua situazione. Vera birichina di Parigi, faceva vedere nelle sue matte risate una doppia fila di magnifici denti al triste [27] Borbone che la guardava non visto. E questa sincera allegria fu l’incanto che lo tirò nella rete. Quel viso ridente, allegro, spiritoso, malizioso, che rivelava ingenuamente tutti i vizi degli enfants des rues di Parigi, non aveva traccia nè di ostentazione, nè di menzogna, nè di insolenza. Ciò piacque al re, che vedeva ridere tanto poco a casa sua.... Fu sorpreso, incantato da quella libertà, da quel riso, da quella gioia: e quella sera medesima la fece venire a palazzo. Jeanne restò la stessa, anche sapendo dove e con chi era. Nessuno imbarazzo, e sopratutto nessuna commedia!... Il re, in poche settimane, la fa dama, le dà un titolo e la marita.

Divenuta contessa Du Barry per volontà del re, che faceva così, senza avvedersene, la volontà di un libertino, di un avventuriero [28] e di una mantenuta; diventata senza sforzo e senza commedie, arbitra del cuore o, a meglio dire, dei sensi di un re vecchio e annoiato; trovandosi a suo agio a Versailles come alla Cour Neuve, o da Labille; naturalmente bonne enfant, senza orgoglio, senza pretensioni, senza provocazioni, essa fece stupire la corte colla intrepidità dei suoi spropositi, colle adorabili sue monellerie, ed eccitò, fin dai primi giorni, più il sorriso che l’odio. A ogni oggetto nuovo che vedeva, essa diceva col suo zezaiement di bambina parigina: «Ze ne sais pas ce que c’est; ze voudrais qu’on me le dit.»

Ma questa sua disinvoltura e ingenuità che tanto cattivò il vecchio Luigi, doveva esser l’arme di partiti politici fieramente avversi; e le carezze di questa modista dovean esser calcolate e usufruite «colà dove nel muto aere il destin dei popoli si cova.»

[29]

Il ministro Choiseul rappresentava i parlamentari, i liberali dell’epoca, i giansenisti, i filosofi, le riforme della Chiesa e dello Stato. Il partito del diritto assoluto, della disciplina sociale, del romanismo, dei gesuiti, era rappresentato da D’Aiguillon. Essi erano i campioni dei due opposti principî, e si combattevano a morte usando di tutte le armi.

E arme premeditata, e terribile, perchè inconsapevolmente onnipotente sull’animo del monarca, fu la nuova favorita. Arme offerta da Du Barry, e accettata da Richelieu, a benefizio di D’Aiguillon e di un partito politico. Una cosa sola mancava a consacrare i diritti della maîtresse del re, a farla istrumento veramente utile e inalienabile; la presentazione officiale, che le [30] dava il diritto di non poter essere rimandata, di viaggiare nelle carrozze del re, di abitare pubblicamente nel palazzo reale, di mostrarsi al Delfino, ai principi, a mesdames, di ricever visite di etichetta e di ambasciatori; diritti che soli rialzavano la maîtresse al grado di favorita.... Figuratevi con quale ansietà il partito D’Aiguillon aspettava il giorno di questa presentazione. Molti preti in Parigi, guardando più al fine che ai mezzi, affrettavano coi voti il gran giorno.... e si beveva «alla prossima presentazione della nuova Esther, che libererà Israello dall’oppressione di Aman-Choiseul!»

E il gran giorno arrivò. E siccome il re glielo aveva fatto tanto aspettare e sospirare, essa, la popolana e parigina, si vendicò facendo aspettar lui e tutta la corte all’ora indicata. Già Choiseul esultava.... Richelieu fremeva.... la corte rideva.... il re si impazientiva.... quand’ecco arrivano a Versailles le vetture e le livree della favorita. [31] Essa discende, sorridendo di un grazioso e ironico sorriso, scintillante di diamanti, vestita di un magnifico habit de combat, più che mai bella, ed è ufficialmente presentata al re e alla famiglia reale dalla contessa di Béarn, lautamente pagata ad hoc.

Una volta installata a corte, e accortisi tutti che questo del re non era un capriccio, ma un legame durevole — che il posto di M.me Pompadour non era più posto vacante, — cominciò intorno alla nuova favorita una gara di codarde adulazioni, tanto più basse quanto più venivan dall’alto. Principi del sangue, e duchi e cardinali e generali e ministri imploravano un suo sorriso d’approvazione. Il re le dà lo spettacolo di grandi riviste militari; e i reggimenti svizzeri di Sonnemberg, i veterani di Nassau, gli ussari di Esterhazy, l’artiglieria reale [32] sfilava dinanzi alla nuova regina del campo, che dal suo splendido phaéton riceveva gli stessi onori militari che si rendevano alle carrozze della famiglia reale. Indi i furori di Choiseul, attizzati dalla sorella duchessa di Grammont. Gli Choiseul organizzarono allora una guerra di canzonette, di vaudevilles, di ponts-neufs, che non ottenne altro effetto che di infervorare sempre più il re nel suo amore. La Bourbonnaise fu la canzone più in voga:

Quelle merveille

Une fille de rien (bis)

Donne au roi de l’amour,

Est à la cour!...

Elle est gentille,

Elle a les yeux fripons (bis)

Elle excite avec art

Un vieux paillard....

En bonne maison

Elle a pris des leçons....

e vi si rifà la storia dei suoi primi anni, e la si chiama la più brava trotteuse di [33] Parigi, perchè, in un salto solo, è andata dal Pont-Neuf a Versailles!...

A una canzone pungente succedevan altre ancor più pungenti.

Vous verrez le doyen des rois

Aux genoux d’une comtesse

Dont jadis un écu tournois

Eût fait votre maîtresse.

E questi versi, veramente terribili, all’indirizzo dei principi del sangue:

Les seuls honneurs que ce tripot s’arrache

C’est le matin de voir en cotillon

La Dubarri qui rit, et sur eux crache.

Au Champ de Mars donnez-moi le panache,

Lui dit le Borgne, en baisant son jupon.

Philippe dit: pour moi, j’aime cette vache.

Che più? Voltaire, a istigazione di casa Choiseul, scrisse l’atroce satira: L’apothéose du roi Pétaut, dove l’insulto colpisce, egualmente e giustamente, re e favorita:

Qui dans Paris ne connut ses appas?

Du laquais au marquis, chacun se souvient d’elle....

[34]

Eppure — o debolezza dei filosofi, o onnipotenza della bellezza! — pochi anni dopo, lo stesso Voltaire faceva la sua corte alla Du Barry, e componeva versi galanti per lei, e scriveva sotto un suo ritratto:

L’original était fait pour les Dieux.

D’altra parte, D’Aguillon e Richelieu e Maupeou e Terray le facevano lunghe prediche politiche che l’annoiavano mortalmente, esigendo da lei la recita di una commedia che ripugnava alla sua natura popolana e sincera. «Ma perchè, rispose una sera a D’Aguillon, volete che io odii tanto Choiseul e ne procuri la rovina, se ad onta delle sue infami canzonette, non mi è antepatico?» Ma tanto dissero e tanto fecero, che essa si accinse con impegno a ottenere dal re la dimissione e l’esilio del ministro. Ricorse a dei mezzi tutti femminini, a degli strattagemmi da scolare. Si faceva trovare dal re palleggiando due arance, e le faceva [35] passare da una mano all’altra, dicendo fra le risa: «Salta, Choiseul! Salta, Praslin!» E poi guardava il re in silenzio e pareva implorare una grazia, con quei suoi occhi semichiusi, «pietosi a riguardare, a muover parchi.» Un bel giorno fece appendere alla parete della sua camera il ritratto di Carlo I del Van Dyck. E al vecchio re, già impaurito da falsi rapporti, diceva e ripeteva: «La France, (così essa chiamava Luigi XV, con una familiarità che fa presentire l’89 e il 93) la France, guarda bene quel ritratto! Il Parlamento di Choiseul farà tagliare la testa anche a te!» Sciagurata, chi ti avrebbe allora detto che il successore del re a cui parlavi sarebbe stato decapitato davvero, e che la tua bella bionda testa sarebbe rotolata nello stesso paniere?

Essa ottenne la caduta e l’esilio di Choiseul, che fu compensato abbastanza dai [36] pubblici segni di stima che gli vennero da tutta la Francia. Il rinvio di Choiseul non bastava al partito dei santi, e la povera donna era tormentata per ore ed ore, onde piegasse il volere del re ad atti spesso funesti al paese e sempre impopolari. Ma appena essa si vide affatto sicura del suo dominio, cominciò a far capire che non voleva più seccature: e a chi le parlava di politica, rispondeva con questioni di mode. E quando dopo un’ora di catechismo su casa d’Austria, equilibrio, Parlamenti, Chiesa e Stato, essa sbadigliando si addormentava, la sola voce che potesse riscuoterla da quel profondo letargo, era quella di Normand o della Bertin, che veniva a provarle une belle robe, fond satin blanc, rayé lamé plissé d’or, formant des ondes avec guirlandes et bouquets de rubis; o une robe sur le panier, o une robe sur la considération, o une robe de toilette, o un grand habit en velours blanc, au corps rebrodé en paillons [37] et paillettes, le tout très-riche.... Allora non rideva e non sbadigliava più: le mode erano i suoi affari di stato, e un pouf o una polonaise, cosa per lei assai più seria dell’equilibrio europeo. E come la vita di M.me Pompadour fu una vita di affari, di negoziati, d’intrighi politici, una continua relazione con segretari di Stato e ambasciatori; insomma, un vero esercizio del regio potere; la vita della Du Barry, toltane la breve lotta con Choiseul, a cui repugnante la costrinsero, non è altro che l’esistenza di una favorita d’alto grado. La sua vita è un sogno insensato di stravaganze di lusso. I mercanti di stoffe erano i suoi ambasciatori: i gioiellieri erano i suoi ministri. Gli riceveva al suo petit lever prima dei duchi e dei principi. L’esame delle fanfioles alla moda era la sua preghiera del mattino....

[38]

Alla Biblioteca Nazionale di Parigi si conservano quattro grossi volumi di fatture e di conti di M.me Du Barry. Le cifre sono spaventose.... Abiti che costano dieci e dodicimila lire (equivalenti oggi a trentamila). I conti dei gioiellieri sommano a milioni. Un paio di buccole 500,000 franchi. Nella sua sfrenata fantasia di cortigiana, voleva persino una toelette tutta d’oro!... La fille di Vaucouleurs badava più al valore intrinseco della materia che al lavoro. La Pompadour era stata una intelligente protettrice di belle arti, e artista lei stessa: la Du Barry non seppe mai, o quasi mai, scegliere; e artisti di terzo e quarto ordine furono i preferiti a ritrarla in marmo e in tela, a fregiare di bronzi e ceselli i suoi boudoirs. A lei bastava di vedere oro e diamanti, [39] e che l’oggetto costasse molto. Costa tanto, diceva, dunque deve esser bello!... Essa restò sempre lontana dalla vera finezza aristocratica; ma compensò questo difetto con una sincerità e naturalezza popolana, che la rendon quasi simpatica in quella corte di ipocriti. Presente il re e le dame, essa fa rappresentare a Lucienne La vérité dans le vin, commedia più che grivoise di Collé; e la fa rappresentare dai suoi amici i commedianti del Boulevard du Temple. Essa balla, e fa ballare a vecchi duchi e a giovani marchese, la fricassée, sorella primogenita del cancan. Beve il punch e il grog, e rimette nel bol il cucchiaio di cui si è servita; e a una timida osservazione del re risponde: «Oui, la France, je veux que tout le monde boive mon crachat!» Ombre della Vallière, della Sévigné, della Montespan, se le ombre arrossiscono, dovete in quel momento aver fatto il viso di bragia!... La Du Barry ruppe tutte le leggi [40] dell’etichetta, e anche del decoro, nei palazzi reali. Vestiva sempre a modo suo (e troppo spesso non vestiva affatto), anche in ore di cerimonie solenni.... Fece sempre il suo comodo, come in casa della Duquesnoy. Essa portò a Versailles i modi e il linguaggio delle pescivendole, e la sua condotta giornaliera fu per sei anni un continuo schiaffo alla monarchia. Essa annunzia addirittura la Rivoluzione!

Da quando la Du Barry ebbe ricevuto l’ultimo addio e la carezza ultima dalla mano già purulenta del re che morìa di vaiuolo, da quando, esiliata da corte, fu tenuta a domicilio coatto in un convento, e resale poi la libertà e i beni, si ritirò nel suo delizioso casino di Lucienne, accade come una trasfigurazione in lei: tutti i suoi difetti scemano e si eclissano, e le sue buone [41] doti spiccano in più viva luce. Essa era naturalmente buona e compassionevole. Lo provò ora nei giorni della disgrazia, soccorrendo tutti i poveri che in quelle annate di freddi intensi e di carestia ricorrevano a lei. E gli soccorreva in persona, e vegliò e assistè con cure filiali due povere vecchie di Lucienne abbandonate da tutti, nell’ultimo squallore. Essa provò anche, la prima volta in vita sua, una vera passione: e le sue lettere a lord Seymour hanno tale delicatezza e gentilezza di affetto, che se non fosser accertate per sue dalla scrittura, dalla firma e dall’ortografia sempre sbagliata, non si crederebber davvero parole e sentimenti di una favorita. Forse la morte vicina, e qual morte! illuminava di un raggio anticipato questa già ridente figura, e le dava un carattere di presaga malinconia. Durante la Rivoluzione, essa non ebbe (e anche questo la rende simpatica e le fa onore) nessuna prudenza, e non [42] commise nessuna viltà. Non volle nasconder mai i ritratti di Luigi XV. E a Maria Antonietta che le si era sempre mostrata disprezzante, altera, e apertamente nemica, ora nei giorni della suprema sventura, indirizzò con suo sommo pericolo, questa lettera che basterebbe a farle perdonare ben più gravi colpe di quelle da lei commesse:

«Lucienne est à vous, madame.... Tout ce que je possède me vient de la famille royale: j’ai trop de reconnaissance pour l’oublier jamais. Le feu roi, par une sorte de pressentiment, me força d’accepter mille objets précieux, avant de m’éloigner de sa personne. J’ai eu l’honneur de vous adresser ce trésor du temps des Notables; je vous l’offre encore, madame, avec empressement.

«Permettez, je vous en conjure, que je rende à César ce qui est à César.»

Nei giorni del Terrore, essa trovavasi a Londra. Un furto enorme di diamanti che le fu fatto, e i pubblici annunzi e il rumore [43] che ne corse, rimisero in evidenza colei che Fouquier, mostrandosi cattivo critico quanto era crudele uomo, chiamò l’Aspasia del vecchio Sardanapalo. Essa ebbe l’imprudenza di tornare a Lucienne. Un miserabile negro regalatole nel 71 dal principe di Conti, che lo avea comprato a Costantinopoli, Zamore, che essa aveva trattato sempre anche troppo bene, fu la spia, l’accusatore principale di lei al Comitato di salute pubblica. La infelice donna fu arrestata, condotta a Santa Pelagia, poi alla Conciergerie, e processata il 16 frimaio 1793.

Ma in quei giorni sinistri, quando, morti i Girondini, morto Danton, Robespierre in parte esautorato, in parte complice di inaudite barbarie, il potere era caduto di fatto nelle codarde e sanguinose mani dei Fouquier, [44] dei Collot, dei Barère, dei Lebon, dei Carrier, in quegli orribili giorni in cui si ghigliottinavano senza processo, o si gettavano nelle ghiacciaie, o si tagliavano a pezzi, o si legavano nudi in cima agli alberi delle navi e vi si lasciavan morire, vecchi e fanciulle, malati e donne incinte, non rei d’altro che di essere parenti alla lontana di un conte o di un vescovo, o di avere espresso un dubbio sugli assignati, o di aver sentito parlare di un discorso di Burke, o di avere addosso una medaglia, quando le carrettate di vittime illustri e innocenti si succedevano senza interruzione per la tragica via della ghigliottina a Parigi; mentre i proconsoli del Comitato facevan di Lione un deserto, in quei lugubri giorni, era egli possibile che sfuggisse alla morte la druda di un re, di un Borbone, di un Luigi XV?

Disgraziata creatura! È già un miracolo se si fa precedere la tua morte da un simulacro [45] di legalità. Fra i tuoi giudici, fra i testimoni, fra i giurati, non vedo che dei carnefici. Vi è l’infame Zamore, vi è Salenave e Topino e Vilatte e Saubat.... La requisitoria è declamata da Fouquier-Tinville. Ma se qualche cosa, o disgraziata, potrà rialzare il tuo nome, è senza dubbio l’abiettezza di questo tuo giudice. Le mani che si bagnano ora nel tuo sangue, sono inzuppate del più generoso sangue di Francia. Tu hai l’alto onore di essere uccisa dal carnefice dei Girondini, dall’insultatore di madama Roland, dall’assassino di Danton.

Durante il processo, la Du Barry fu calma e nobile. Condannata a morte, tentò prima di salvare una sua amica egualmente condannata, la duchessa di Mortemart. Ma poi, tutto ad un tratto, fu assalita da una paura [46] di bambina, e come se allora per la prima volta avesse sentito parlar di morte e di ghigliottina, cominciò a urlar disperata.... Non voleva morire! Messa a forza sulla carretta fatale, essa implorava la folla insultatrice per via: «Mes amis.... sauvez-moi! je n’ai jamais fait de mal à personne.... La vie, la vie! qu’on me laisse la vie, et je donne tous mes biens à la nation....» E un sans-culotte le rispose: «Tes biens! mais tu ne donnes à la nation que ce qui lui appartient déjà....» Essa tacque un momento, e parve calmarsi. Ma salendo il palco, fu ripresa da nuove convulsioni di terrore. Urlava, supplicava, si dibatteva: «Encore une minute, monsieur le bourreau, encore une minute!» e sotto il ferro stesso della ghigliottina: «A moi, à moi!» come donna assassinata che chiede aiuto....

Corrotta dall’infanzia, vissuta poi sempre fra i velluti e i diamanti, senza aver mai sentito parlare di ciò che eleva e sostiene [47] l’anima umana, senza la forza di una idea, di un principio, di un dovere, è naturale che l’apparecchio di una morte violenta eccitasse in lei quel parossismo di fisico terrore.

Da questo straziante spettacolo di paura e di convulsioni, il pensiero si rivolge e si ferma volentieri a contemplare la morte intrepidamente affrontata in quel tempo stesso da donne egualmente delicate, ma sostenute da una grande idea o da un grande affetto. Madama Roland, serena, bianco-vestita, coi bei capelli disciolti che scendono in doppia lista sull’eroico suo petto, conforta i suoi compagni di supplizio, e infonde loro il suo virile coraggio, e chiede una penna (che le è negata) per scrivere «gli strani e grandi pensieri che le suggerisce la morte.» Madama Roland credeva ed amava.

Ma chi potrà fare colpa alla povera Du Barry della sua paura in faccia alla ghigliottina, [48] conoscendo il suo carattere e i suoi precedenti? Essa m’ispira in quel momento più pietà che disprezzo. Comunque sia, a me pare di non giudicarla con eccessiva indulgenza, chiamandola la più naturalmente buona e sincera tra le favorite dei re di Francia.

[51]

SOFIA ARNOULD

La madre era stata amica di Voltaire, di Diderot, del cardinal di Bernis. La figlia nata nel 1740 nella stessa casa dove due secoli innanzi era stato assassinato Coligny, fu allattata come Cloe da una capra; e a cinque anni ceduta alla principessa di Conti, che arrivata a una certa età, disoccupata, annoiata, prese la piccola Sofia come un balocco o come un cagnolino, e si divertiva a vestirla secondo le mode più capricciose, la teneva sulle ginocchia, [52] la portava in carrozza con sè, le insegnava a suonar la spinetta, a ballare, a cantare.

A dodici anni, ebbe a maestro di musica il celebre Jéliote, e un giorno che essa cantò il Miserere di Lalande nella chiesa di Panthémont, eccitò un vero entusiasmo. La fama della sua voce arrivò fino all’orecchio della regina Maria Leckzinska, che volle veder la giovinetta virtuosa, la fece cantare, ne fu intenerita fino alle lacrime, le battè sulla gota col suo gran ventaglio di piume, e le fece dare un gelato....

Ma dietro al gelato della regina di nome, venne un biglietto della regina di fatto, madame De Pompadour, che invitava le Arnould, madre e figlia, a presentarsi a lei. Nuovi canti, nuovi complimenti, regalo di una collana e di un rosignolo (sweet to sweet!) e inscrizione di Sofia tra le cantanti di camera di Sua Maestà la Regina. Un anno dopo, era attachée, per ordine [53] espresso del re, à la musique de Sa Majesté; e particolarmente al suo teatro dell’Opéra.

Aveva sedici anni: un corpo di fata, una voce di rosignolo. Gracile, ma ben fatta, il volto di un perfetto ovale; due grandi occhi neri chiedenti pietà o provocanti; magnifici capelli biondi; una bocca socchiusa abitualmente a un sorriso di voluttà, fresca come una rosa di maggio, dalla quale uscivano irresistibili le note languenti dell’amore, o le supplichevoli della preghiera, o le flebili del dolore. Il carattere e il prestigio della sua bellezza consisteva nella voluttuosa armonia, nella delicata sveltezza della persona. Nulla in lei di grossolano, di materiale; ma invece il vero carattere della bellezza moderna, la grazia, la spiritualità della fisonomia, l’incanto del sorriso, [54] dello sguardo, che uniti alla magia della voce la rendevano irresistibile....

E tutti i contemporanei sono d’accordo nel lodarne la bellezza e la voce, tutti i contemporanei, e quel che più vale, tutte le contemporanee. Per molti anni, la sua grazia seppe disarmare l’invidia. Non ci fu che un giornale, una Cronaca Bizantina del 1760, che ardì notare che «elle a souvent la bouche pleine de salive, ce qui fait qu’en vous parlant, elle vous envoie la crême de son discours....»

Oh, i Bizantini!...

Esordì il 15 dicembre 1757. Attirata dalla sua fama, la folla assediava il teatro. «Je doute, scrive un contemporaneo, que l’on se donne autant de peine pour entrer en Paradis.» Garrick dichiarava che la [55] sola attrice francese che gli parlasse agli occhi e al cuore, era una cantante, Sofia Arnould. Essa portò nella sua arte un elemento nuovo e che fu una vera rivoluzione; l’emozione sincera, l’azione drammatica naturale, il cuore nel canto. E quando modulava le divine note di Gluck

Je ne veux pas mourir encore,

una elettrica commozione percorreva tutto l’uditorio.... ed era un delirio di applausi.

La sua voce non era forte, ma dolcissima e simpatica. Era una voce che si prestava mirabilmente alle parti che rappresentava: Psiche, Lavinia, Ifigenia morente trascinata agli altari e implorante gli Dei.... Una voce palpitante, una voce-anima, e che i nemici del sentimento, i naturalisti di cento anni fa, tentarono di censurare con questa mordace definizione dell’abate Galiani: «C’est le plus bel asthme que j’ai entendu chanter.»

[56]

In casa della fortunata Sofia era venuto ad abitare in pensione un tale E. Dorval. Faceva vita da gran signore. Era bello, era giovine. Una sera, dopo aver giocato a tric-trac col padre di Sofia, dà la buona notte e si ritira in camera. Ma in camera sua, palpitante, incerta ancora, piangente, disperata e felice, lo aspettava Sofia. Un bacio lungo, ardente.... e poi, in punta di piedi, traversano un terribile andito, aprono, e non richiudono, l’uscio delle scale.... e via in una vettura che aspettava lì vicino da qualche ora....

Monsieur Dorval era il conte Louis De Brancas.... coniugato! Scoperta che fa svenire Sofia. Ma si riebbe presto. La moglie del conte era malata, egli promette di sposar Sofia appena rimanga vedovo.... e i signori [57] Arnould già pregustano la voluttà di esser i genitori della nuova comtesse De Brancas.

E Sofia?

Ah, Sofia era donna, ma era anche artista, fiera, capricciosa, passionata, intollerante di umiliazioni e di freno. E com’era scappata dalla casa paterna, riscappò dalla casa dell’amante. «Gli uomini non sono che dei mostri egoisti (scriveva a un’amica) non voglio amare d’ora innanzi che il teatro e la musica.» E a chi, molti anni dopo, le chiedeva notizie di quel suo primo amore, rispondeva così: «Non mi parlate più di quell’uomo: mi ha dato due milioni di baci, e mi ha fatto versare quattro milioni di lacrime.»

La Festa di Pafo, Proserpina, Polissena, Alina, Ifigenia in Aulide, son l’opere nelle [58] quali fece furore. Le stampe dell’epoca ce la raffigurano vestita di veli d’argento, col tragico fazzoletto in mano, con un enorme échafaudage in testa, con un manto tigrato sulla spalla destra, e con due grandi macchie di rossetto sulle gote. Eppure, e nonostante, essa ci appare sempre simpatica, e ci sorride come una soave figura contemporanea.

E badate, bisogna proprio che quelli occhi e quel sorriso sian magici, per farcela apparir bella e simpatica con quelle coiffures con quei paniers, con quei caraco, con quelle considérations.... O mode del 1770, o deliri del gusto, o epopee del capriccio! È l’epoca in cui la duchessa di Chartres nella colossale architettura dei suoi capelli, nel suo pouf au sentiment, portava un ritratto, un pappagallo, un mazzo di ciliegie, un negro, un cagnolino, e una nave a vele spiegate.... è l’epoca in cui nella coiffure à la circonstance le donne eleganti avevano [59] in testa un cipresso, un fascio di grano e un giardino; e in quella alla inoculation (ricordo dell’innesto del vaiolo), un serpente, un sole levante e due olivi. È l’epoca in cui la marchesa di Boufflers reggeva in capo un mappamondo che disegnava esattamente sui suoi capelli le cinque parti del mondo; e in cui la contessa di Lamballe scoteva lo Zodiaco fra le sue belle chiome, e portava in testa il sole, la luna e le stelle....

È l’epoca in cui le donne galanti somigliavano a delle acquaiole che abbian due secchie d’acqua sotto le sottane; in cui i paniers e le crinolines davano tali circonferenze alle signore, da render necessario che per ogni dama fosser destinate tre sedie....

Sofia Arnould, superba della sua voce e regina del palco, aveva degli alteri dispregi per la povera orchestra, la quale nel suo [60] antro pendeva dai cenni imperiosi e dai capricci della virtuosa.

«Che vuol dir ciò, signor mio? mi pare che vi sia una vera ribellione stasera nella vostra orchestra....»

«Ma come, madamigella?...»

«La vostra orchestra m’imbroglia e mi impedisce di cantare.»

«Tuttavia, madamigella, noi andiamo a tempo e in misura....»

«In misura? non so che roba sia.... Animo! via, tenete dietro a me, e sappiate che la vostra sinfonia è l’umilissima serva dell’attrice che canta e declama.»

E si rimise a cantare.

In questo dialogo che una sera ebbe luogo davvero fra Sofia e il direttore d’orchestra, non vi par di sentire una protesta profetica in favore del puro canto, contro le future rivoluzioni musicali? contro il predominio (e talvolta la tirannia) della strumentazione?

[61]

Trionfante, senza rivali per venti anni, ebbe ai suoi piedi adoratori di ogni ordine e di ogni qualità, dal duca al tenore, dall’ambasciatore al sottotenente. E i molti doni l’avrebbero arricchita, se la sua prodigalità non fosse stata eguale alla sua fortuna. Ho detto che l’avrebbero arricchita i regali, la paga no davvero; perchè questa Malibran del secolo XVIII guadagnò meno in dieci anni che la Patti in una settimana. Sofia Arnould era scritturata a lire tremila l’anno, e la più lauta gratificazione che ricevè dall’impresa dell’Opéra fu di un migliaio di lire. Oggi si dà più a una corista!

Conservar lo scettro della moda a Parigi per venti anni, fu un vero miracolo. E l’ostracismo era inevitabile, e venne. Sofia non ebbe nè la presenza di spirito, nè il coraggio, nè la filosofia di ritirarsi a tempo, [62] e farsi rammentare e desiderare. Prese il partito peggiore, quello cioè di lottare col pubblico, sempre crudele e spietato, e sempre vincitore. Ebbe l’umiliazione di vedersi preferita Rosalia Levasseur, una sua allieva; e di veder Gluck, il gran maestro, dichiararsi (ingrato!) per la sua rivale. Ahimè, la Moda è come la Rivoluzione e come Saturno; essa divora i propri figliuoli.... Una sera d’estate che Sofia prendeva il fresco nel giardino del Palais-Royal, dei giovinetti le canticchiaron dietro sul motivo dell’Alceste:

Caron t’appelle.... entends sa voix!

E la povera Sofia dovè cedere, e ritirarsi dalla scena: non perchè la sua voce si fosse molto alterata, ma perchè eran cresciuti i suoi anni, perchè in questo mondo, e specialmente in Francia, tout lasse, tout casse, tout passe, anche la voce più soave, la musica più dolce e la più bella poesia....

[63]

Desolata, ebbe una velleità di devozione, e frequentò le chiese e il confessionale. Ma fu una conversione passeggera, un capriccio; e poche settimane dopo scriveva a una sua amica, a proposito dei suoi confessori: «Ces directeurs! C’est pis que les directeurs de l’Opéra....»

Fondò allora un salon che fu uno dei più brillanti e piacevoli fra i tanti famosi che ne contò Parigi nel secolo scorso: e i martedì di mademoiselle Sophie Arnould riuscirono ciò che di più illustre e di più artisticamente elegante vantava la capitale. Rousseau, Voltaire, Beaumarchais, Diderot, Duclos, Garrick, Bernard, Dorat, venivano a complimentare la regina in ritiro dell’Opéra.

E quando scoppiò la rivoluzione, il suo salon diventò un club, e Ifigenia diventò giacobina! Aveva cinquant’anni!... e la Chronique scandaleuse così scrive di lei, nel 1790: «.... Elle vient de se faire démagogue [64] afin de recevoir chez elle la lie de l’espèce humaine.... elle envoie étudier aux Jacobins deux enfants qu’un galant homme lui fit jadis par mégarde....» e sèguita di questo tenore per mezzo giornale. Povera Sofia!

Gli ultimi suoi anni furono un seguito di amarezze, di malattie, di povertà. Si ridusse a scriver lettere, nelle quali, paragonandosi alla cicala di Lafontaine che non ha più

Un seul petit morceau

De mouche ou de vermisseau,

chiede l’obolo per la vedova di Castore, per Lavinia, per Didone, per Ifigenia che regnò venti anni sul teatro dell’arte. E la cantante famosa sul cui busto scrisse versi di lode Voltaire, colei di cui Gluck lasciò detto che «senza l’incanto della sua voce e della sua [65] declamazione, Ifigenia non sarebbe mai entrata in Francia,» quella di cui Beaumarchais e il principe di Ligne ammiraron lo spirito, nel 1802 mancava dello stretto necessario per vivere, e languiva sola, abbandonata e malata fino al ventidue di ottobre, giorno nel quale le sopraggiunse la morte come una vera liberatrice.

[69]

JULIE-MARIANNE

Esperaba, desperada.

La depravazione nella voluttà, una sensualità crudele, la lussuria del male, il Terrore nell’amore, trionfavano in Francia negli alti e nei bassi gradi sociali. Nelle putride viscere del secolo XVIII bisognava infondere un sangue nuovo, rialzare la donna e la famiglia, per poter rialzare la nazione. Rousseau fece questo triplice miracolo con tre libri immortali: la Nuova Eloisa, l’Emilio, il Contratto.

[70]

La Nuova Eloisa fu al tempo stesso una rivelazione e una rivoluzione. Fu la risurrezione del cuore, atrofizzato dai piaceri egoisti. Una scintilla elettrica percorse tutta l’Europa. Fin le galanti duchesse dal cuore inaridito, e dalla imaginazione pervertita, le eroine dei più scettici e cinici salons, ne restaron commosse, mutate.... La Luxembourg fu vista piangere; la Du Deffand entusiasmarsi. Dalla gomorra delle infami alcove, dai faticosi piaceri dei petits-soupers, Rousseau richiamò la donna alla natura, alla libertà, all’affetto, al dolore. La trovò arida, vuota, divorata dall’egoismo e dalla noia, e la fece rinascere all’estasi dell’amore, e alle dolcezze della maternità. Egli primo rese i bambini al latte e ai baci delle madri e ricostituì così la famiglia. Al capriccio, la fede; alla femmina, successe la donna: e una madama Roland fu possibile nella terra delle Liaisons dangèreuses. Nè Manon, nè Marianne, nè Paméla, nè Clarisse [71] avean trascinato il mondo così. La Julie eclissò ogni romanzo.

Madame de Blot, quando uscì l’ultimo volume, diceva al duca di Chartres in tono animato, e l’entusiasmo le accendeva il bellissimo volto: «Non vi è donna che non sia pronta a consacrar la sua vita a Rousseau.»

E tu dicevi lo stesso, e provavi anche più, cara donna che apristi il tuo cuore a quello del grande infelice; ma troppo tardi: e si vide una Julie pura, bella e passionata, tentare inutilmente di rievocare un Saint-Preux tra i terrori e i tumulti e le frenesie dell’anima devastata di Gian-Giacomo.

Era una bionda dai capelli di un oro luminoso e abbondante, dagli occhi cerulei, sereni e puri come una bell’alba di maggio, [72] bianca di un voluttuoso candore. Il marito aveva tentato di depravarla; non era riuscito che a torturarla: poi l’aveva abbandonata a sè stessa, ed essa viveva una vita malinconica e ritirata, in compagnia di sua cugina, una bruna giovine e vivace, che aveva per lei una devozione di sorella minore: una vera Claire d’Orbe.

Julie — amo chiamarla così perchè sotto questo nome essa offrì il proprio cuore a Jean-Jacques — Julie non era più giovane. Era di quelle donne, meno rare che non si pensi, le quali, piuttosto calme e fredde nella prima gioventù, passati i trent’anni provano il bisogno d’essere amate; e il desiderio si fa più intenso e doloroso quanto è meno appagato. Momento unico e commovente nella vita della donna! Se bella, la sua bellezza prende allora un carattere di bontà, di tenerezza autunnale; è la bellezza del cuore, del cuore profondo, dei sensi intelligenti, dell’anima passionata: bellezza spirituale [73] che illumina e armonizza le forme. È il frutto appena maturo punto dall’insetto alato d’agosto e divenuto più dolce: è la donna ferita dal desiderio intenso di amore.

Le bionde come Julie sentono e soffron più di questa crisi del cuore. La bruna dagli occhi neri e profondi, dallo sguardo che brucia, ha già consumata a trent’anni tutta la sua fiamma interiore. Dicevo dunque che questa Giulia era bionda....

Ognuno cerca sè stesso nei libri: e i grandi successi derivano dal gran numero di contemporanei che si riconoscono in uno stesso libro. Più la donna era sommersa nel fango, più anelava istintivamente ai puri orizzonti; e uscendo dalle sordide braccia di un Richelieu, di un De Frise, di un Pavanne, sognava e invocava un Saint-Preux.

[74]

Quando Julie e la sua cugina lessero il primo volume della Nuova Eloisa, la sorpresa, il piacere, la maraviglia, l’ammirazione, l’entusiasmo non ebbero limite. L’una si vide dipinta al vero nella figura di Julie, l’altra in quella di Claire. Ma la nuova Clara che aveva già letto nel cuore della amica e ambiva per lei ciò che quella non osava neppur confidare a sè stessa, osò scrivere al cittadino di Ginevra questo biglietto: «Vous saurez que Julie n’est point morte et qu’elle vit pour vous aimer; cette Julie n’est pas moi; vous le voyez bien à mon style: je ne suis tout au plus que sa cousine, ou plutôt son amie autant que l’était Claire.» E concludeva indicando a Gian-Giacomo un modo per rispondere.

Rispose; e senza farsi pregare, e a posta corrente.

Il mistero, una vaga speranza, sedusse l’orso, il selvaggio, come lo chiamavano, e rispose. E la corrispondenza cominciata per [75] devozione di amica, e per amore romanzesco da un lato; dall’altro per curiosità, e per invincibile attrattiva, si animò più e più quando la nuova Clara cedè la penna alla nuova Giulia.

Rousseau prima di domandare un colloquio le chiese il ritratto. Oggi essa sarebbe corsa subito da un rinomato fotografo: centoventi anni fa, era più difficile aver subito il proprio ritratto.... E Julie vi rimediò facendoselo da sè con la penna, con la parola. E lo fece scrupolosamente, non celando il minimo suo difetto. Deve essere stata un paio d’ore a guardarsi allo specchio, prima di scrivere quella lettera, come una devota a far l’esame di coscienza prima di confessarsi.... È un po’ lungo, ma come si fa a esser brevi e dir tutto? Gli confessa che [76] le è restato qualche leggerissimo, quasi impercettibile segno di vaiolo sul viso, che ha le braccia un po’ magre, e finisce con questa graziosa e fresca pittura della sua toelette: «Mes cheveux composent ordinairement toute ma coiffure: je les relève le plus négligemment qu’il m’est possible, et je les aime avec assez d’excès pour que cela dégénère en petitesse. Comme je suis modeste et frileuse, on voit moins de moi que d’aucune femme de mon âge. Rien dans mon habillement ne mérite le nom de parure. Aujourd’hui, par exemple, j’ai une robe de satin gris, parsemée de mouches couleur de rose....»

Rousseau, letto il ritratto volle vedere l’originale: e le raccomandò di vestirsi con quella stessa robe de satin gris.

E tale si presentò ai suoi sguardi, tremante di emozione, bella di pudore e di grazia, di innocente ardire e di nascente passione....

La contemplò in silenzio, e le strinse lungamente la mano. Le Charmettes, la prima [77] pervenche colta con madama di Warens, la villetta bianca con le persiane verdi, riapparvero agli occhi del poeta oratore, del romanziere filosofo. Gli ribruciò sulle labbra il bacio di madama D’Houdetot; ma la adorabil figura che egli aveva ora dinanzi non fece che rimescolare nel suo cuore le ceneri del passato, invece di crearvi l’ardore di un sentimento nuovo.

E lei se n’accorse.

Fu un lampo.... e si sentì reietta per sempre.

Seppe dissimulare; e sorridente nel suo bell’abito di raso grigio picchettato di roseo, si accostò al clavicembalo, e suonò un’aria del Devin du Village....

Conoscete nulla di più triste, di più ineffabilmente triste, dell’arie allegre di cento [78] anni fa? Non c’è gavotte, non c’è chansonnette francese, non c’è romanza o duettino italiano, che non abbia in sè un amari aliquid, una tinta di malinconia. Come potevan ballare e far all’amore a quell’arie che paion lamenti venuti dall’altro mondo? Ma chi sa? forse paion così a noi perchè son note vecchie e defunte, e il loro lamentevole eco ci raffigura volti spariti e gioie svanite per sempre. Forse allora eran arie allegre e rallegravano i cuori, e forse, chi sa? nel 1983 si faranno le meraviglie che i bisnonni si divertissero tanto alle opere di Wagner, e ballassero allegramente i waltzer di Chopin e di Strauss....

C’è un proverbio francese che dice: Dis-moi qui t’admire, et je te dirai qui tu es. Ogni gran poeta, ogni gran romanziere ha [79] avuto il suo speciale corteggio di ammiratrici, distinte d’indole, di sentimenti, di gusti, e che sono come il riflesso del carattere del loro idolo. Sarebbe curioso uno studio psicologico sulle dévouées di Chateaubriand, di Byron, di Schiller, di Lamartine, di Balzac, di Sue, di Dumas, di Tennyson, di Musset, fino alle dévouées (non avouées) di Emilio Zola.... Le ammiratrici di Rousseau gli fanno onore: dall’umile madame Verdelin, da questa ignorata Julie, alle illustri Roland, Staël, G. Sand, è un nobile e imponente corteggio; un po’ declamatore, un po’ paradossale, ma sempre generoso, e capace, all’occasione, di ogni sublime eroismo.

La povera Julie, l’ho già detto, arrivò troppo tardi.... nel peggior momento della vita di Rousseau; ed egli si decise, dopo il primo colloquio, a impedire ogni seguito di [80] questa romanzesca avventura, e a dire francamente, brutalmente, come pur troppo sapeva farlo in certi momenti, la verità alla misera donna.

Le tolse ogni illusione, ogni speranza, con una lettera glaciale, e dove si rivela già il parossismo tragico di quell’anima irrequieta.

Essa non si arrese subito. Ebbe la debolezza di tentare altre vie per elettrizzare quel cuore finito. Gli si presentò, senza prima avvertirlo, tre mesi dopo la terribile lettera, pallida, dimagrata, umiliata, portandogli della musica italiana che essa aveva copiata per lui. Si fece annunziare col nome di Julie. Egli l’accolse gentilmente ma freddamente, e quando essa si congedò le disse: «Adieu, Marianne, (era il suo vero nome di battesimo), adieu

Julie! Marianne! Nello scambio di questi due nomi è un epitome di mille romanzi, è tutta la ironia della vita, tutto l’ideale e tutta la realtà delle cose umane.

[81]

Non c’è donna che non cerchi di divenire, a un momento della sua vita, una Julie d’Etange, e che gli uomini o la sorte non ribattezzino col nome di registro della parrocchia....

Rousseau fu brutale, ma fu sincero, e non si divertì a illudere la sua vittima e a protrarre il suo sogno come qualche altro grand’uomo — lo Chateaubriand per esempio — avrebbe fatto molto probabilmente.

Il cuore di Rousseau, dopo i baci di madame d’Houdetot, era stato, per dir così, assorbito dal suo cervello. Mai non aveva scritto pagine più calde, passionate, colorite, eloquenti che in questi anni: è l’epoca dei primi libri delle Confessioni. Il suo stile si è fatto più molle, più voluttuoso: i suoi paesaggi sono di un colorito affatto nuovo, [82] e che darà norma, e lascerà inevitabile traccia, in tutti i grandi suoi successori nell’arte della parola. Certe sue espressioni si direbbe che brucian la pagina... eppure il suo cuore era morto! Questa contradizione fenomenale mi ricorda un doloroso verso di Browning:

And my heart feels ice, while my words breathe flame.

E il mio cuore è di gelo, mentre le mie parole spirano fiamma.

Uomo destinato a errare nella procella e crear del dolore, in lotta aperta col suo secolo, Rousseau portava nel suo fatidico seno tutte le tempeste della imminente Rivoluzione, insieme alle tempeste del suo proprio cuore. La sua influenza è durata fino a oggi, e forse è interrotta, ma non cessata. Tutti, o quasi tutti i grandi scrittori, chi più, chi meno, ne hanno subìto il magnetico [83] incanto. Bernardin, la Staël, Chateaubriand, Lamennais, Lamartine, G. Sand, Michelet, Renan, Goethe, Schiller, Gian-Paolo, Byron, Shelley, Carlyle, Castelar, Leopardi. Egli incarnò la Rivoluzione. Mirabeau e Robespierre, Vergniaud e madama Roland, la Montagna e la Gironda, giuravano egualmente sulla sua parola. Intelligenza sovrana, che quando negli ultimi anni della vita si disequilibrò e si scompose, parve la caduta di un impero. Grande nella sua miseria e nella sua forza, perchè dotato di una parola di fuoco, parola unica, che agita, sorprende e comanda. Solo, tra i filosofi gaudenti e scettici del suo tempo, egli sentì le miserie reali della vita; e gli passò sulla faccia l’alito sacro della natura e dall’umanità.

Nel novembre del 1789, nel quartiere appartato di un convento di monache Ospitaliere, [84] viveva una signora parigina di sessant’anni, vestita abitualmente di nero, e nei cui capelli bianchi restava un pallido riflesso dell’oro luminoso di un tempo; un profumo di eleganza aristocratica, che certe donne privilegiate conservano fino all’ultimo istante. Nella sua camera era un vecchio clavicembalo, con sopra della vecchia musica, l’Orfeo, le Devin du Village.... In uno scaffale nella parete opposta, erano schierati i volumi delle opere complete di Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève....

La riconoscete? È la povera, fedele Julie. E mentre assisa in una chaise-longue presso il camminetto, essa legge qualche volume della Nouvelle Héloïse o delle Promenades, si riscuote a un tratto, udendo salir dalla strada urli e grida di acclamazioni entusiastiche. È il popolo che risponde ai primi ruggiti del leone Mirabeau.... Cara Julie, cara Marianne, posa il prediletto volume, se vuoi capir quelle grida. Prendine invece [85] un altro, quello piccolo à tranches dorées, dov’è scritto Contrat social. Leggilo, e capirai quelle grida....

Oppure, no. Serba sui tuoi capelli bianchi e nel tuo cuore spento di vecchia, gli ultimi riflessi di un sole cadente, di un ideale che tramonta. Rileggi per la centesima volta i memori volumi della Julie.... e muori nella tua solitudine, fedele a una memoria immortale.

[89]

GIULIA LESPINASSE

Oh, laissez-moi, sans trève, écouter ma blessure,

Aimer mon mal, et ne vouloir que lui!

I

Non intendo parlare dell’amica di D’Alembert e di Condorcet, dell’emula di M.me Du Deffand, delle conversazioni o degli scritti di M.lle de Lespinasse. Ma vorrei in pochi tratti ritrarre la sua fisonomia di donna passionata, vederla e raffigurarla sotto la doppia aureola di amante e di vittima, notare sulle sue magre guance il solco delle lacrime divoranti, [90] nei suoi occhi il fuoco sacro di una passione fatale, che la rassomiglia a Saffo e a Didone, a Fedra e a Eloisa.

Giulia-Giovanna-Eleonora di Lespinasse nacque a Lione il 18 novembre del 1732. Figlia adulterina della contessa d’Albon, ebbe una infanzia e una adolescenza da romanzo. Morta la madre, rimase con la sorella e il cognato, e passò giorni d’inferno, provando tutte le umiliazioni della sua equivoca condizione.

Aveva appena ventidue anni, quando la marchesa Du Deffand, già avanzata d’età e quasi cieca, le propose di venire a Parigi con lei per tenerle compagnia e farle da lettrice e da segretaria. Giulia accettò, e visse con M.me Du Deffand per più di nove anni in perfetta armonia. Lì ebbe occasione di conoscere i più insigni scrittori contemporanei, che quasi tutti frequentavano il salon della marchesa, e si guadagnò la stima e la simpatia di molti fra loro.

[91]

Non era bella, ma piacente per lo spirito, la grazia, la squisitezza del gusto, la finezza dei modi; per la soave amabilità del sorriso, l’intelligenza e la profonda espressione degli occhi, che avea neri e bellissimi. Vestita con elegante semplicità, piaceva generalmente, e godeva di accorgersene.... «Ah! que je voudrais, diceva un giorno, connoître le foible de chacun!» Ingenua parola che le usciva dal cuore e che ci rivela in questa donna, che la passione dovea poi rendere così indifferente e romita, un fondo di naturale ed affettuosa bontà, mista a una perdonabile vanità femminile. Era delicata di sentimenti, di immaginazione, di gusti. Un oggetto, una parola triviale, la facevan soffrire come un insulto. Malinconica spesso, sentì fin dalla prima giovinezza la vanità e il disgusto della vita; e gracile di persona, ed emottoica fin dai diciotto anni, era di una sensibilità nervosa eccitabilissima; talchè può dirsi che essa [92] riuniva in sè, in modo più singolare che raro, tutto ciò che sulla terra procura o fa più intenso il dolore.

M.me Du Deffand, avvezza a dormir di giorno e a levarsi tardissimo, apriva il suo salon a sera inoltrata. I suoi illustri visitatori fino dal 1762 avevan presa l’abitudine di riunirsi ad aspettar l’ora officiale nelle stanze di M.lle de Lespinasse, e spesso anticipavano di un’ora o due, per avere il piacere di conversare fra loro e con lei, in più libera intimità. Quando la caustica e gelosa marchesa ebbe notizia di questa violazione dei suoi sacri diritti, com’essa la qualificava, gridò al tradimento, se ne lamentò con mezza Parigi, e la burrasca non potendo in verun modo acchetarsi, M.lle de Lespinasse dovè ritirarsi e aprir casa da sè. Ma aprì anche un salon, nella sua elegante casina di via Belle-Chasse, e molti e dei più notevoli e assidui frequentatori del salon della marchesa lo disertarono per quello della [93] loro giovine amica. Fra questi, D’Alembert, Turgot, Condorcet, Brienne, Chostelloux.

D’Alembert fece di più: andò ad abitare nella stessa casa della Lespinasse, spinto da un sentimento più forte dell’amicizia, (questo figlio dell’amore era magneticamente attratto verso la sventurata figliola dell’amore) sentimento disgraziatamente non corrisposto, e che doveva amareggiare tutta la vita dell’illustre filosofo, umiliarlo agli occhi degli amici ed ai propri occhi, paralizzargli negli ultimi anni l’attività dell’ingegno, ed affrettargli la morte.

Ma non anticipiamo.... Affrettiamoci invece a parlare dei due amori di Giulia, o meglio del suo amore, perchè la fiamma del primo benchè spontanea ed ardente, si fa impercettibile dinanzi al divorante incendio del secondo amore di lei. Per D’Alembert essa non ebbe che amicizia; per il signor De Mora, amore; per il signor De Guibert, passione.

[94]

E la passione per il signor De Guibert nacque prima che fosse spento nel cuore della infelice donna l’amore per il signor De Mora. Le lettere di lei ci fanno assistere al doloroso dramma della lotta di due amori, uno angosciosamente morente, l’altro audacemente invasore e sovrano. La ragione, il dovere, il rimorso, son dissipati ai primi soffi vulcanici della imminente tempesta, e la passione tiranna, regna, imperversa, devasta, e non si ritira neppur dinanzi alla morte!

II

Figlio del conte di Fuentes ambasciatore di Spagna alla corte di Francia, il signor De Mora era, secondo ciò che ne scrive il Galiani, acuto e credibile giudice, un uomo di merito straordinario e che pareva destinato al più glorioso avvenire. Era venuto [95] a Parigi nel 1766. Giovine, bello, famoso, nobile di sentimenti e di modi, cavalleresco come uno spagnuolo, amabile come un francese, s’innamorò della Lespinasse, e ne fu riamato con pari ardore. Malato di petto, dovè lasciar Parigi l’agosto del 1772 per andare a respirare l’aria nativa. La separazione dei due amanti fu dolorosa.... pareva che ambedue presentissero il tragico loro destino e che non si sarebbero mai più rivisti. In dieci giorni egli le scrisse venticinque lettere (cifre eloquenti, infallibile termometro), e Giulia non sapea darsi pace....

Essa soffriva molto per l’assenza dell’amante, e cercava talvolta qualche innocente distrazione al suo dolore, qualche svago per passare le ore intollerabilmente eterne della lontananza. Un giorno, il suo cattivo genio le suggerì di andar a far visita al pittore Watelet, alla sua villa di Moulin-Joli, sulle rive della Senna, presso Montmorency. Fu là che Giulia vide per la prima [96] volta il giovine colonnello De Guibert. Questo brillante ufficiale a cui era noto l’amore di Giulia per il signor De Mora e vedeva la sua malinconia, cercò di distrarla, di confortarla, e riuscì sventuratamente troppo al di là del suo intento. Bastò quel giorno (che essa invoca ed esecra, adora e maledice nelle sue lettere), per trasfonderle in tutte le vene il veleno che la dovea consumare.

O misteri, o contradizioni del cuore! Come potè questo signor De Guibert, in un sol giorno, contrabbilanciare nel cuore di una donna innamorata, e naturalmente buona e sincera come la Lespinasse, l’amore che essa provava per il signor De Mora, lontano, fedele e sofferente? Questo Guibert che non era altro che un fortunato ambizioso, di una immensa vanità e di un mediocre ingegno; autore di opuscoli militari che fecero un certo rumore; adulato adulatori delle celebrità contemporanee; uomo di [97] un carattere comune, e qualche volta anche volgare! Eppure il fortunato ufficiale fece dimenticare a una donna come la Lespinasse un uomo come il signor De Mora; le fece disprezzare i teneri sentimenti di un D’Alembert.... e dopo l’agonia della povera Giulia, morta d’amore per lui, egli seppe ispirare i primi sentimenti d’amore alla figlia di Necker, e fa parlare anche oggi di sè, grazie ai nomi famosi della Lespinasse e di madama di Staël.

Era passato appena un anno dal giorno della fatale visita a Moulin-Joli, e la passione di Giulia per il signor De Guibert aveva trionfato, dopo strazianti contrasti, di ogni dovere, d’ogni rimorso, d’ogni pietà. E il signor De Mora, fortunatamente ignaro della infedeltà di lei, moriva quasi improvvisamente a Bordeaux.

Qui comincia la storia straziante, il dramma interno continuo, che conduce alla inevitabile catastrofe. Notiamo le gradazioni [98] di questo fatale crescendo nelle Lettere che ci rimangono della infelicissima donna. Il gemito di Eloisa, il grido di Fedra, il delirio di Saffo si alternano in queste Lettere veramente uniche, e che sembrano bruciare la pagina....

Maraviglia, dolce commozione, dubbio, rimorsi, contrasto e lotta, debolezza e abbandono, trionfo dispotico della passione, estasi e spasimi, amari disinganni, sforzi inutili per guarire, gelosia, umiliazioni, abbattimento fisico e morale, delirio, agonia e morte — sono le fasi che percorre questa tragedia d’un’anima.

III

Nelle Lettere di M.lle de Lespinasse è una volta chiaramente indicato, e più volte indirettamente accennato, il giorno nel quale la passione, più forte d’ogni altro sentimento, [99] la gettò nelle braccia del nuovo amante. Il 10 febbraio 1774, così essa scrive al signor De Guibert: «Minuit sonne; mon ami, je viens d’être frappée d’un souvenir qui glace mon sang. C’est le 10 février de l’année dernière que je fus énivrée d’un poison dont l’effet dure encore. Dans cet instant même, il altère la circulation de mon sang: il le porte à mon cœur avec plus de violence. Hélas! Par quelle fatalité faut-il que le sentiment du plasir le plus vif et le plus doux soit lié au malheur le plus accablant?... Je me sens entraînée vers vous par un charme que j’abhorre, mais qui a le pouvoir de la malédiction et de la fatalité.» E segue dicendo che il fantasma vendicatore del signor De Mora la perseguita, e non le dà un’ora di pace.... per poi concludere: «Je vous attends, je vous aime, je voudrais être toute à vous, et mourir après.» Il giorno dopo gli scrive una lettera di fuoco in cui sembra domandargli [100] perdono dei suoi rimorsi, e gli parla con una sottomissione da bambina tremante, e finisce: «Je vous aime comme il faut aimer, avec excès, avec folie, transport et désespoir.» Negli ultimi giorni del 1774 gli scrive un biglietto di un rigo che si direbbe l’epilogo di tutte le sue lettere. È datato de tous les instants de ma vie, e dice così: «Mon ami; je souffre, je vous aime, et je vous attends.» Essa gli rivela giornalmente ogni suo sentimento, ogni suo pensiero, e gli confessa: «Je ne crois m’assurer la propriété de mes pensées, qu’en vous les communiant.» Chiude la porta alle visite, non vuol più ricevere ne D’Alembert, nè Diderot, quando il signor De Guibert è assente da Parigi, e passa le giornate intere a scrivergli, o a sognare, da desta, di lui: le sere d’estate, sola, senza aprire un libro, senza accendere il lume, assisa presso la finestra, passa delle ore felici a pensare a lui, a lui sempre, a lui solamente....

[101]

L’amore fu tutto per lei. E dall’altezza eroica a cui la esaltò la passione, misurava e giudicava con ironica pietà la vanità e la piccolezza di tutto quel che più agita il mondo: la gloria, la politica, le accademie, i teatri, le mode, i salons. Tutto le divenne a un tratto supremamente indifferente, e stupiva di essersi tanto preoccupata finora di simili nulla....

IV

Da quest’estasi la riscosse un colpo di fulmine. Il signor De Guibert prese moglie; una giovinetta di diciott’anni; un matrimonio di convenienza, dove il cuore non era compromesso.... (così tenta di farle credere). Essa sulle prime gli scrive lettere di nobile risentimento e di amaro rimprovero. In una lettera del 15 ottobre 1775 gli dice: «Le coup dont vous m’avez frappée a atteint [102] mon âme, et mon corps y succombe. Je le sens; je ne veux ni vous effrayer, ni vous intéresser; mais je sens que j’en meurs: (e non eran frasi!) même en supposant l’impossible, que vous redevinssiez libre, et que vous fussiez pour moi ce que j’avais désiré, il serait trop tard.... mais je vous pardonne; dans peu tout sera égal.» E quando egli ipocritamente osò darle consigli di saggezza e di prudenza, e parlarle di morale, gli rispose con queste parole, dove freme tutta l’indignazione della donna ingannata: «Ne prenez pas l’envie de me faire la victime de votre morale, après m’avoir fait celle de votre légèreté.» E quando egli mendicava pretesti, e voleva dare spiegazioni di impegni antecedenti ecc., essa gli rispondeva: «Sauvons les détails: quand une fois le fil de la vérité a été rompu, il ne faut pas le rajouter; cela va toujours mal.» Seppe poi che da un pezzo egli era fidanzato alla giovine che sposò: eppure non le riuscì di [103] troncare la corrispondenza e guarire. Egli crudelmente le manteneva aperta la ferita con lunghe lettere dove simulava l’accento dell’amore. E l’infelice era troppo interessata a crederlo vero!

Avea però dei rari momenti di riflessione, dei lucidi intervalli, nei quali le cadeva la benda dagli occhi, e allora provava una gran pietà di sè stessa e piangeva: piangeva per delle ore, con lacrime abbondanti, incessanti, che le facevan bene, la sollevavano, come un diluvio d’estate che alleggerisce e purifica l’aria diventata afosa e irrespirabile. In quei momenti vedeva a nudo la vanità artificiosa, la leggerezza, la nullità dell’uomo a cui avea consacrato inutilmente tesori di affetto, la pace, la riputazione, l’ingegno, la salute, la vita; e ripensava al signor De Mora, e si sentiva colpevole, e provava un’acre voluttà nel suo pianto, riguardandolo come espiazione del suo tradimento.

[104]

In uno di questi giorni, avendole il signor De Guibert scritta una lettera in cui la umiliava con crudeli parole, essa gli rispose così: «Quoi! j’ai été aimée de M^r De Mora, j’ai été l’objet de la passion de l’âme la plus noble, la plus grande, et vous voudriez m’humilier? Ah! laissez-moi à mes remords: ils m’anéantissent....»

Eppure, poche settimane dopo, è la prima a riscrivergli: a scusarsi, a mendicare una parola d’amore, a tentare di impietosirlo descrivendogli le sue orribili notti d’insonnia, di tosse, di febbre, di disperazione. Gli promette di non annoiarlo più coi rimproveri.... gli chiede (essa a lui!) compatimento e perdono.... «Ne m’aimez pas, mais souffrez que je vous aime toujours!» E con la mano ardente di quella febbre che la conduceva a passi precipitati alla tomba, aggiungeva: «Les battements de mon cœur, les pulsations de mon pouls, ma respiration, [105] tout cela n’est plus en moi que l’effet de la passion.»

Questo veleno, questo filtro di Medea, la consumava visibilmente. Era diventata uno spettro. E spesso si tratteneva davanti allo specchio, guardando come istupidita, con lunghi sguardi di compassione, le sue povere gote incavate, le sue magre braccia; e pensava a lui giovane, bello, pieno di salute, sorridente nella sua elegante uniforme di colonnello, al braccio della giovane sposa.... Allora dava in uno di quegli scoppi di risa che si odon soltanto quando si passa vicino ad un manicomio.

V

Quest’agonia della infelice Giulia fu spaventosa e lenta. Durò quasi tre anni. L’intensità [106] dell’angoscia era talvolta sì grande, che essa ricorreva all’oppio per ottenere qualche ora di tregua, per dormire un poco, per non pensare a lui. L’oppio e la musica furono i suoi unici sollievi. Quando andava a sentir l’Orfeo, le note elegìache di Gluck, l’aria famosa J’ai perdu mon Eurydice, le facevan versar dolci lagrime: le pareva allora di essere soavemente rassegnata al suo fato, le pareva possibile di morire in pace.

Ma bastava una lettera di lui, un ricordo, un nulla, per rimetterle l’inferno nell’anima, per farla delirare di nuovo. La gelosia la torturava con la fisica rappresentazione di voluttà coniugali che le parevan rubate, rubate a lei; e si sentiva agitata da smanie intollerabili. La gelosia le fulminava nel cuore, feroce e incessante, come le pulsazioni spasmodiche di un tumore o di un dente cariato; e allora, delirante, fuori di sè, raddoppiava le dosi dell’oppio; e alle smanie febbrili succedevano mortali letarghi.

[107]

Una sola volta in questi tre anni, quasi per miracolo, essa si destò calma, e come se fosse diventata a un tratto un’altra persona. Ripensò ai casi di Giulia Lespinasse come ai casi di un’altra donna, si sentì riconciliata alla vita, potè leggere, conversò con D’Alembert, andò a fare una passeggiata nel giardino delle Tuileries. Era un giorno di settembre del 1775. Ne parla in una sua lettera, la sola lettera tranquilla in tutto il volume: «C’était une belle matinée de soleil: j’ai été aux Tuileries: oh, qu’elles étaient belles! le divin temps qu’il faisait! l’air que je respirais me servait de calmant: j’aimais, je regrettais, je désirais; mais tous ces sentiments avaient l’empreinte de la douceur et de la mélancolie.... Oh, je ne veux plus aimer fort, mais j’aimerai doucement....»

Ecco finalmente, la prima volta, per la misera donna un giorno di pace, di rassegnazione, di autunnale poesia. Essa stessa [108] ne rimase sorpresa, trasognata; avvezza com’era a vivere vertiginosamente nel terribile cerchio d’un uragano, a respirar sempre l’aria elettrica della tempesta.

VI

La sera di una burrascosa giornata di novembre, a Roma, nell’ora del tramonto, io vidi dall’orto di Sant’Onofrio sul Gianicolo uno spettacolo che non potrò dimenticar mai. La città tra il barlume crepuscolare e la nebbia pareva un’enorme Pompei sotto la cenere. Il cielo era spaventoso. Blocchi giganteschi di nuvole color di rame si affollavano verso oriente: a occidente, una immensa tenda di fuoco, candescente come una fornace dove il mantice soffii continuo. Qua e là, immani forme di mostri apocalittici, tizzoni fumanti, striscie di sangue, [109] rovine babiloniche, confusi avanzi di enormi naufragi.... E tutto era immobile, peso, senza un alito di vento. Solo in fondo all’orizzonte, verso Albano, si vedeva un pezzo di cielo turchino, un piccolo triangolo d’un azzurro ineffabilmente tenero e profondo, un occhio di paradiso su quella babele di nuvoli minacciosi....

La storia della passione di Giulia Lespinasse a me pare che rassomigli a quel sinistro cielo crepuscolare. È una scena d’orrore, consolata solo da un lembo d’azzurro, da un breve sorriso di pace.

Fu il primo e l’ultimo. Un letargo di due giorni precedè la morte di lei. Quando riuscirono a farla tornare in sè, disse con accento di dolore e di spavento: «Dunque son sempre viva?...» Sperava che l’orribile palpito fosse finito: la vita le faceva terrore.

Ma la morte, la consolatrice, venne; e posò le sue fredde mani sulla fronte ardente, [110] sul petto in sussulto dell’infelice.... e il cuore e il cervello di Giulia Lespinasse si acquietarono — finalmente.

Il 23 di maggio del 1776, alle due dopo la mezzanotte, era guarita per sempre.

[113]

LA BARONESSA DI KRÜDENER

Ho riletto Valérie: e il libro mi ha tratto a fantasticare un po’ sul suo autore, su quell’adorabile madame De Krüdener. La pâle baronne mi distrae da due giorni da ogni occupazione; sono innamorato della sua penna, della sua danza, delle sue preghiere, e del suo famoso scialle di mussolina. Mi vien voglia di mettermi in ginocchioni come Benjamin Constant o come lo Czar Alessandro, per dir con lei le devozioni, aspettando «les inspirations [114] supérieures.» Io la vedo in tutti i momenti più notevoli della sua vita. La vedo quando, sotto il Direttorio, essa apparisce la prima volta nei salons di Parigi, bionda, pallida, fine ed eterea, circonfusa da una nuvola di bianchi veli, e gira attorno i suoi grandi occhi calmi, color verde-mare: bellezza scandinava, illuminata da un pallido raggio di sole polare, calma e fredda come la neve delle sue native Dofrine.... Ma ecco Bergasse e Saint-Pierre e Garat che la circondano e la invitano a danzare. Essa cede di buona grazia, chiede il suo scialle di mussolina azzurra, si alza, e comincia la danse tableau. La scandinava è diventata a un tratto una parigina! La vita, l’emozione, traboccano dai suoi gesti, dai suoi sguardi, da ogni suo movimento. Essa si trasforma in cento modi: ora è Niobe impietrita dal dolore, ora è Galatea che fugge inseguita.... Alla voluttuosa Odalisca che languidamente invita e resiste, succede la vivace ridente [115] napoletana che balla la tarantella, e batte il terreno a passi rapidi e fitti come la grandine....

Le armate alleate sono entrate in Parigi. La Santa Alleanza ha anch’essa i suoi poeti, i suoi angioli propiziatori; e la sua Sibilla, la sua Velleda, in Giuliana Krüdener. La casa di lei si trasforma in un tempio; essa vi aduna delle assemblee religiose dove si commentano Swedenborg e Saint-Martin, si prega, si canta, e si profetizza.... «Alessandro sarà l’Angelo bianco, il genio dei nuovi tempi!...» E Alessandro non tralascia di far qualche visita al tempio.... e alla sacerdotessa. Vi vengono anche dei Gustavi sentimentali, prima di ritirarsi alla grande-Chartreuse, e dei Volteriani che scoppiano dal riso interiore, quando la bella Giuliana [116] dall’ultima stanza della galleria, a una luce crepuscolare savamment ménagée, si avanza in un costume solenne, ma che fa risaltare anche i suoi doni.... non spirituali.

Ma, ecco, essa parla, perora, s’infiamma; e il fuoco che l’anima lo trasfonde in petto dei suoi devoti. V’immaginate quello scettico blasé di Benjamin Constant, commosso realmente alle ardenti prediche di questa bionda missionaria, recitare una specie di confiteor, e inginocchiarsele accanto e pregare con lei? — Eppure è storia. In altri giorni poi, quieta, serena, graziosa, fra un punto e l’altro del suo ricamo, essa parla agli amici, e più volentieri alle amiche, dei poveri giovani morenti d’amore per lei.... A sentirla, essa ha popolato le certose e i cimiteri d’Europa colle vittime dei suoi [117] sguardi affascinatori.... «Povero Gustavo! (diceva essa un giorno a madame Langer) ancora non è proprio morto, ma ci manca poco.... E dire che il cielo non mi assente di salvargli la vita!...» Pare bensì che il cielo non fosse sempre sì rigido, e madame de Krüdener profittava volentieri di quelle temporanee indulgenze. Ma attaccata sempre al suo cielo con un filo d’oro, o di argenteo vapore mistico, essa diceva sospirando nei momenti più decisivi: «O mio Dio, perdonatemi l’eccesso di questo piacere!»

Nel romanzo Valérie, essa ci ha lasciato il proprio ritratto; o per meglio dire una galleria dei suoi ritratti: essa vi si è dipinta in tutti i costumi, in tutte le attitudini, a ricevere il culto di latria di quel povero Gustavo, che trascina di chiesa in [118] chiesa, di certosa in certosa, di villa in villa, il suo amore e la sua tise. Ciò nonostante, Valérie è un libro bello, vero, ben composto, bene scritto, e si legge ancora con piacere, e durerà. Scritto dalla Krüdener in un momento critico della sua vita, quando per lei tramontavano la gioventù e la bellezza, e gli amori terreni cedevano il luogo nel suo cuore alle esaltazioni religiose, essa vi ha ritratto le delicate nuances di quel momento unico, di quel passaggio. Ciò dà al romanzo una grazia tutta femminina, un’attrattiva irresistibile: e forse la Valérie è il solo romanzo di forma epistolare che regga a una lettura continuata, e si possa gustare dalla prima all’ultima pagina.

E se anche oggi si pensa e si scrive di Giuliana Vietinghoff baronessa di Krüdener, [119] dei suoi trionfi di salon, del suo illuminismo, dei suoi catechismi ai filosofi e ai re; se ricordiamo che nel suo gabinetto fu da Alessandro e dagli altri angioli bianchi del nord tracciato il disegno della Santa Alleanza; se la seguiamo nei suoi viaggi di apostolato sul Caucaso ed in Crimea, o quando esule essa conduce con Kellner una vita di nomade e di fuggiasca, perseguitata dalla polizia, derisa dai filosofi, ma sempre serena, operosa, infaticabile, incorreggibile; insomma, se dopo la sua morte (1825) il mondo si occupa ancora di lei, essa lo deve unicamente a questo volumetto di Valérie. Annunziato abilmente dal Mercure, preconizzato da Bernardin de Saint-Pierre, fino da quando fu pubblicato nel 1802, destò un vero entusiasmo. La moda, grande ausiliatrice a Parigi, confermò quel successo. Cappelli, piume, sciarpe, scarpini, ghirlande, tutto fu à la Valérie per più mesi. Ma il libro sopravvisse alla moda: sopravvisse ai [120] bastoni a serpente, alle strette lunghissime falde e alle colossali cravatte degli incroyables, ai guanti ricamati, ai bonnets à plumage e alle sciarpe di mussolina delle merveilleuses.

[123]

LA CONTESSA GUICCIOLI

Le onde dei lunghi aurei capelli le scendevano fino ai piedi, come un torrente delle alpi che il sole colora coi suoi raggi mattutini.... Essa creava intorno a sè un’atmosfera di vita; l’aria stessa illuminata dai suoi sguardi pareva farsi più leggiera; tanto essi eran soavi e pieni di tutto quel che possiamo immaginare di più celeste.... Vi si insinuavan nell’anima, come l’alba di una bella giornata di maggio.»

Statura piuttosto piccola; gracile, ma perfetta di forme: bianchissima di carnagione: [124] sorriso etereo, Correggiesco: occhi veramente italiani, pieni di languori e di tempeste, di sorrisi e di lacrime.

Aveva diciassett’anni: era di nobile famiglia, i Gamba di Ravenna, ed usciva allora di convento. Il conte Guiccioli era vecchio, era vedovo, ma era anche ricchissimo.... e gliela dettero in moglie.

Lord Byron la vide per la prima volta in casa della contessa Albrizzi, nell’autunno del 1818. Ne fu colpito come da una visione celeste; ma evitò di rincontrarla,

Car le baril de poudre a peur de l’étincelle.

Egli era all’apogeo della sua gloria, ma in lotta col suo cuore, e in guerra aperta colla famiglia, colla patria e col mondo: i capolavori del suo genio poetico si succedevano; ma quelle pagine di alta poesia eloquente e patetica, tragica e satirica, uscivano da un harem veneziano dove egli consumava le forze e la vita, fra le braccia [125] di animali donne, com’egli stesso le chiamava, bevendo fino a tarda notte vino del Reno e cognac, fremendo, e ruggendo irrequieto come un leone in una gabbia, tanto che i suoi bei capelli si facevano grigi, e le digestioni difficili, e i sonni brevi e convulsi.

Aveva allora trentun anno, ed era sempre bellissimo, nonostante quel regime micidiale di vita: il più bell’uomo del suo tempo, a giudizio della Albrizzi, della Blessington, dello Shelley, del Trelawny, del Moore, dello Scott. La sua testa d’Antinoo era come un bel vaso di alabastro illuminato da interna luce. I suoi occhi grigio azzurri, cangianti come il colore del mare, esprimevano con rapida successione le passioni più opposte, dall’entusiasmo raggiante alla collera concentrata, dall’ardente simpatia del poeta al glaciale disprezzo e all’orgoglio del lord inglese. Il volto di un perfetto profilo era pallido abitualmente, ma di un [126] pallore marmoreo; e su la nobile fronte e sul bellissimo collo spiccavano bruni e folti e naturalmente inanellati i capelli.

Era destino che si ritrovassero, che si amassero. «Nell’aprile del 1819 — scrive nei suoi Ricordi la giovinetta contessa — io feci la conoscenza di lord Byron. Mi fu presentato a Venezia dalla contessa Benzoni nella di lei società. Questa presentazione, che ebbe tante conseguente per tutti e due, fu fatta contro la volontà d’entrambi, e solo per condiscendenza l’abbiamo permessa. Io stanca più che mai quella sera, per le ore tarde che si costuma fare in Venezia, andai con molta ripugnanza, e solo per obbedire al conte Guiccioli, in quella società. Lord Byron che scansava di fare nuove conoscenze, dicendo sempre che aveva interamente rinunziato alle passioni [127] e che non voleva esporsi più alle loro conseguenze, quando la contessa Benzoni lo pregò di volersi far presentare a me, si ricusò dapprima, e solo per compiacenza glielo permise. La nobile e bellissima sua fisonomia, il suono della sua voce, le sue maniere, i mille incanti che lo circondavano, lo rendevano un essere così differente, così superiore a tutti quelli che io avevo sino allora veduti, che non potei a meno di provarne la più profonda impressione.... Da quella sera in poi, in tutti i giorni che mi fermai in Venezia, ci siamo sempre veduti.»

Veduti ed amati! E la donna in questo amore aveva molto più da perder che l’uomo, socialmente parlando. È vero; ma io non farò su lei nè morali rimpianti nè ipocrite elegie. Essa fu amata sinceramente [128] e passionatamente dal più grande poeta del secolo, giovine e bello, nobile e generoso. Essa fu il solo vero amore di Byron, dopo le prime vaghe sue affezioni d’adolescente. Nel cuore di Aroldo essa non ebbe succeditrici o rivali; vi regnò unica, e non lo cedè che alla Grecia. Qual trionfo per una donna!

Ma, in compenso, essa fece a lui un bene anche più grande, infinitamente più grande. Essa brillò come un’iride su l’uragano di quell’anima, e vi portò la calma, la serenità, la giovanile freschezza. Essa ricompose e acquietò quel cuore esulcerato e agitato, quel cervello minacciato dalla pazzia. Essa rese a Byron il rispetto di sè medesimo, e per lungo tempo la pace e l’armonia della vita. Essa, essa sola, seppe farlo pianger d’amore.

Attratta come da una corrente magnetica irresistibile, si gettò nelle braccia di lui coll’entusiasmo dei suoi diciotto anni, [129] colla sincerità del suo cuore verginale. Non si arrese dopo le calcolate strategie delle adultere da romanzo, ma si abbandonò a lui, tremante d’amore vero, come Francesca. Egli si vide innanzi viva e reale la donna de’ suoi sogni, pura, ingenua, passionata. Il cuore di Zuleika e di Medora palpitò ardente negli amplessi del poeta. Essa lo amò non per la gloria del nome, non per lo ambito trionfo di vedere ai suoi piedi il più famoso poeta del tempo, non per la vanità di far parlar di sè tutta Europa, e sapersi invidiata dalle donne più belle; — ma lo amò per lui proprio, lui Giorgio Byron, giovine, bello e infelice. Essa era lontana mille miglia da quel sentimento misto di vanità che fece scriver lettere e intraprender viaggi e minacciare suicidi alle sedicenti innamorate di Goethe e di Rousseau, di Châteaubriand e di Lamartine. Essa fu veramente donna e italiana, cioè sincera e passionata. Ambedue erano infelici, benchè [130] di differente sventura. La vittima innocente consolò l’infelice colpevole; e, agli occhi del mondo, si perde per salvarlo.

Egli sentì, con fremiti di voluttà e di arcano terrore, che il suo cuore non era morto come credeva, ma che anzi non aveva mai amato così; e si abbandonò a tutto l’incanto di questa passione che presentiva esser l’ultima. Non potè più vivere lontano da lei. Ed essa aveva dovuto lasciare Venezia. «È vano lottare, lasciatemi amare e morire!» E confidava al Po, in versi immortali, il suo amore e i suoi desiderii, chè gli portasse alla sua donna, passando sotto le native sue mura. Andò a Bologna, e là inquieto e solitario, passava lunghe ore fra le tombe della Certosa, ammirando la bellezza delle rose sparse sui marmi, e il semplice affetto di alcune iscrizioni.... Ma la [131] seppe malata a Ravenna, e non potè più resistere, e a costo di comprometterla, vi andò subito. La pineta e la tomba di Dante erano scuse sufficienti al gran pellegrino. Come e quanto egli l’amasse si può ben intendere da queste parole dei Ricordi manoscritti della contessa medesima, citati da Moore, e che dicon tanto nella loro ingenua sincerità romagnola. «Egli giunse a Ravenna nel giorno della solennità del Corpus Domini, mentre io attaccata da una malattia di consunzione, che ebbe principio dalla mia partenza da Venezia, ero vicina a morire. L’arrivo in Ravenna di un forestiere distinto, in un paese così lontano dalle strade che ordinariamente tengono i viaggiatori, era un avvenimento del quale molto si parlava, indagandosene i motivi, che involontariamente poi egli stesso fece conoscere. Perchè avendo egli domandato di me per venire a vedermi, ed essendogli stato risposto che non potrebbe vedermi più, [132] perchè ero vicina a morire, egli rispose che in quel caso voleva morire egli pure; la qual cosa essendosi divulgata, si conobbe così l’oggetto del suo viaggio. Il conte Guiccioli visitò lord Byron, avendolo conosciuto in Venezia, e nella speranza che la di lui compagnia potesse distrarmi ed essermi di qualche giovamento nello stato in cui mi trovavo, lo invitò a venire a visitarmi. Il giorno appresso egli venne. Non si potrebbero descrivere le cure, i pensieri delicati, quanto egli fece per me. Per molto tempo egli non ebbe per le mani che dei libri di medicina, poco fidandosi nei miei medici. Ma la tranquillità, anzi la felicità inesprimibile che mi cagionava la sola presenza di lord Byron, migliorarono così rapidamente la mia salute, che entro lo spazio di due mesi ero in convalescenza.»

Fu in quel tempo che Byron le propose di fuggire con lui. Essa non volle: sperava invece ottener presto il divorzio.

[133]

«Quando passai allo stato di convalescenza, egli era sempre al mio fianco; e in società, e al teatro, e cavalcando, e passeggiando, egli non si allontanava mai da me. In quell’epoca, essendo egli privo dei suoi libri e dei suoi cavalli, e di tuttociò che lo occupava in Venezia, io lo pregai di volersi occupare per me, scrivendo qualche cosa su Dante; ed egli colla usata sua rapidità scrisse la Profezia di Dante

Poco dopo, essa dovè accompagnare in una gita di varii giorni il marito, e Byron tornò triste e solo a Bologna. Qui, col cuore ammollito ed esaltato dal nuovo sentimento che tutto lo possedeva, l’antica malinconia della sua prima gioventù lo riprese. Quella sorgente di naturale tenerezza che nè gli sforzi, le ingiurie e il veleno del mondo, nè [134] i suoi propri eccessi avevan potuto disseccare affatto, corse di nuovo più vivace che mai per le sue vene. Sentì che cosa vuol dire amar davvero ed essere amati; troppo tardi per la sua felicità, troppo intensamente per la sua pace — ma che importa? lo sentì e ne fu beato. Egli andava tutti i giorni a visitare il quartiere che essa soleva abitare in Bologna e dov’era stata pochi dì prima, e lì, in quella stanza solitaria, dove tutto gli parlava di lei, provava una ineffabile voluttà a scrivere nelle sue carte, a leggere e postillare i suoi libri.

Un giorno, nel giardino di quella casa, assiso presso una fontana, pensando a lei, in quella mesta ora del vespro che nessuno dopo Dante ha cantata meglio di lui, sentì così vivo ed acuto lo spasimo della lontananza, fu preso da così ardenti desiderii, da così strani terrori d’amante, che dette in un pianto dirotto. Egli pianse d’amore, come Dante e l’Alfieri, come il Burns ed [135] il Foscolo, che non hanno temuto di passare da vigliacchi sentimentali nel confessarcelo, e che pur non eran romantici....

In questo stesso giardino, in un volume della Corinna appartenente alla contessa, egli scrisse in inglese col lapis queste parole: «Teresa mia. Ho letto questo libro nel tuo giardino. Tu eri lontana, amor mio.... altrimenti non sarei stato a leggere. Questo è un libro prediletto da te e scritto da una mia amica. Mi è doppiamente caro. Tu non capirai queste parole inglesi (ma anche altri non le capirà, e perciò non le scrivo in italiano) ma tu riconoscerai lo scritto di chi passionatamente ti ama, e indovinerai che sopra un tuo libro egli non poteva pensar che all’amore. In questa parola, bella in tutte le lingue, ma più nella tua, o amor mio, è compresa tutta la mia esistenza presente e futura....»

Bisogna convenire che se Byron sapeva far dei bei versi, conosceva però l’arte [136] d’amare, per lo meno quanto l’arte poetica. E si capisce che la contessa doveva adorarlo.

Ma la situazione era equivoca e dolorosa per tutti e due, e non poteva a lungo durare. La contessa dovè tornare a Ravenna, e Byron aveva giurato di seguirla. Amici zelanti vollero dissuaderlo; anzi arrivarono a deciderlo di partire per l’Inghilterra «per il bene suo e per la pace della signora.» Ma la signora non la intendeva così. Gli scriveva lettere passionate, ed egli vi rispondeva con altre ardenti, in un italiano un po’ barocco, ma chiaro ed eloquentissimo.

A Venezia, un giorno ch’egli aveva più ascoltato la voce tanto autorevole e tanto poco obbedita del giudizio e della ragione, si fece un coraggio da leone, e decise lì per lì di partire per Londra. Era già in [137] abito da viaggio, aveva preso i guanti e il cappello e la mazza. I suoi bauli erano in gondola. I servi pronti a piè di scala. Non gli mancava che scendere.... quando riceve una lettera che gli annunzia che la contessa è malata e che desidera di vederlo. Disordina tutto, e rimane, e le scrive subito: «Cara! credevo che il miglior partito per la pace tua e la pace della tua famiglia fosse il mio partire, e andar ben lontano; poichè esserti vicino e non avvicinarti sarebbe per me impossibile. Ma tu hai deciso che io debba ritornare a Ravenna; tornerò e farò, e sarò, cara, ciò che tu vuoi!... Non posso dirti di più.»

E tornò davvero a Ravenna.

E l’influenza salutare di Teresa Guiccioli sul suo cuore e sul suo ingegno si fè più palese. La parte patetica del Don Giovanni, la divina chiusa del canto terzo sul tramonto e la pineta, sono ispirate dall’amore per lei. Una tenerezza femminile, ineffabile, [138] compenetra e modifica la selvaggia armonia del verso di Byron. Egli la obbedisce in tutto. Egli sposa la causa dei Carbonari italiani, prima per amore della libertà, ne convengo, ma anche per la viva amicizia che lo lega al fratello di lei conte Pietro Gamba, patriotta generoso, uomo culto ed amabilissimo, più tardi degno compagno di Byron in Grecia.

Egli che scrisse lettere fulminanti all’editore Murray e a Tommaso Moore perchè gli proposero di modificare due versi del Don Giovanni, ora dietro preghiera di lei sospende il poema, e non lo ripiglia finchè essa non ritira il suo veto e gli dà licenza di seguitarlo....

E quando l’innato senso eroico di Byron lo spinse ad andare a combattere e morire per la libertà della Grecia, essa che vedeva così a un tratto finir tutto per lei, seppe eroicamente sacrificarsi. Non fece nè elegie nè scene: ma si immolò in silenzio, e fu [139] grande; come solo le donne veramente amanti sanno esserlo. Felice in questo, che la immatura morte di Byron le lasciò intatta e pura la poesia della passione, nè fu costretta, come tante infelici, a edificare sulle ceneri dell’amore il tempio dell’amicizia!....

Noi viviamo tutti per invecchiare e morire: e i disinganni invadon via via il campo delle nostre gioie.... Molti cuori che più non credono non sanno rassegnarsi a non amar più. Altri furono di buon’ora e immedicabilmente feriti. Altri non possono amare, ed è loro negata la sola vera gioia della vita. Felici quei pochi che provarono le estasi e le torture, le trepide esultanze e le tacite voluttà della vera passione! Essi soli posson dire come la Tecla di Schiller: [140] «Ogni terrena gioia gustai. Vissi ed amai!»

La morte stessa non può affatto distruggere quell’incanto. Al superstite restano le sue memorie e le sue lacrime; e bastano a consacrare una vita!

Teresa Guiccioli restò fedele e in patria e nel volontario esilio a tanta memoria, a tanto amore. Le sue lettere, i suoi ricordi lo attestano. Bella malinconica, giunta all’età in cui molte donne cercano invano di prolungare una inutile gioventù, essa cedè con grazia alle leggi del tempo, e restò sorridente e serena, quando i suoi bei capelli, tanto cantati e tanto baciati da Byron, diventarono bianchi. Io me la figuro, a momenti, passeggiar solitaria nei luoghi pieni di tante memorie, e assidersi rassegnata e pensosa, e tòrsi di tasca il volume di Corinna, e rileggervi quella sua lettera.... e poi levarsi commossa e più pallida del consueto.... Oppure, nell’ora che [141] i raggi del sol cadente filtrano nella fosca pineta, mi par di vederla, e di sentirle modulare malinconicamente a sè stessa i memori versi:

Ave Maria! ’tis the hour of prayer,

Ave Maria! ’tis the hour of love!

[145]

ELISABETTA BARRETT BROWNING

I

Gli Inglesi e gli Americani più chiari nelle lettere o nelle arti che soggiornavano in Italia, solevano, molti anni addietro, riunirsi a passare i mesi del gran caldo sulle fresche colline di Siena: e nella villa Orr ove dimorava William Story insigne scultore, critico e poeta, si raccoglievano spesso ad amichevole convegno Savage Landor, Hawthorne, i coniugi Browning, e altri famosi scrittori. Onorato [146] dell’amicizia del signor Story, conobbi in casa sua personalmente l’illustre donna, di cui oggi mi studierò di ritrarre la poetica fisonomia. Quando la vidi la prima volta fu nell’agosto del 59, verso sera, nel giardino di villa Orr. Delicatissima, e già malata di petto, essa era in quell’ora vespertina, tutta avvolta in un ampio scialle di lana. Parlava poco, ed a bassa voce. Di tratti non regolari, e non bella; ma un volto esprimente, indimenticabile. Bellissimi, abbondanti i capelli che portava sciolti ed inanellati. Ma sopratutto mi colpì il suo sguardo; quei suoi grandi occhi non mi usciron più dalla mente. Ci vidi la passione e la malinconia, le prostrazioni e gli entusiasmi che spirano dalle pagine di Aurora Leigh. Dei molti ritratti della signora Browning, il solo che perfettamente la rassomiglia è la bella fotografia del Macaire (Havre 1858) incisa poi in un volume delle poesie, nella edizione del Chapman.

[147]

Elisabetta Barrett nacque nel 1809, ed ebbe un’infanzia felice, da lei ricordata con amoroso rimpianto per tutta la vita, e in molte delle sue più belle poesie (Hector in the Garden, The lost Bower). Amò immensamente il fratello Ralph, che le doveva essere così lunga cagione di pianto. Nutrita di serii e classici studi, vivendo gran parte dell’anno in campagna, ebbe agio di ascoltare per tempo le due grandi voci dell’arte e della natura: e la sua anima di poeta vi rispose fin dalla prima adolescenza. La fine tragica del fratello diletto fu il primo gran dolore della sua vita. N’ebbe a morire.... «dans sa première larme elle noya son cœur!» Sputò sangue, e visse inferma parecchi mesi: e da quell’epoca, la sua salute non si ristabilì mai compiutamente. Risalgono forse a quel tempo queste commoventi strofe al suo cane Flush:

················

«Di te si dirà: Questo cane vegliava [148] giorno e notte accanto a un letto, in una camera chiusa, dove mai raggio di sole non rompeva l’oscurità intorno alla malata, all’afflitta.

«Le rose colte per metter nei vasi, in quella camera morivano visibilmente, prive di luce e di brezza: questo cane solo aspettava e vegliava, sapendo che quando manca la luce, rimane a splender l’amore.

«Altri cani fra le rugiade ed il timo cacciavan le lepri, inseguendole per prati e per fratte, nell’aria libera al sole.... questo cane solo si distendeva, si strisciava presso una languida gota, convivendo nel buio.

«Altri cani, franchi e allegri animali, saltavano al suono acuto del fischio che gli raccoglie nel bosco.... questo cane solo vigilava in attenzione di una parola mormorata appena, o di un più forte sospiro.

«E se due mie lacrime scendevano improvvise sui suoi lisci orecchi, se il mio respiro si faceva a un tratto convulso, egli [149] saltava su in fretta e con ansia, facendomi le feste, carezzandomi, respirando affannoso nella sua tenera commozione.»

················

Nelle lunghe sue convalescenze approfondì lo studio del greco; del quale dette, negli ultimi anni, uno splendido saggio, nel bel libro su I poeti greci cristiani. I grandi tragici greci le divennero familiari e carissimi; Euripide sopra gli altri, che essa designò mirabilmente con questa strofa: «Il nostro Euripide, l’umano, dalle vive e calde lacrime, che se tratta di cose comuni, le inalza fino alle sfere!»

II

L’amore fu per lei il più grande avvenimento della vita, e inalzò il suo cuore, e col cuore l’ingegno, alle più elevate regioni poetiche. Il contrasto della volontà paterna, la lotta, il dramma che ne seguì, dettero [150] al suo amore per l’illustre poeta Roberto Browning, tutte le tempeste e l’estasi di una vera passione. Alla fine furono uniti in sacro legame questi due insigni e differentissimi ingegni. L’una passionata, ardente, subiettiva; l’altro calmo, impassibile, obiettivo, profondo e inesorabile scrutatore del cuore umano e della natura. Elisabetta Barrett resta sempre la stessa: Roberto Browning, o faccia parlare un contemporaneo di Gesù o una cantante del secolo decimonono, Saul o Andrea del Sarto, Calibano o San Giovanni, un frate spagnolo o Pacchiarotto, ti trasporta subito in quella data epoca, respiri l’atmosfera di quel tempo, e vedi quel luogo.

Fra le poesie della signora Browning, quelle che vanno sotto il titolo fittizio di Sonetti dal portoghese serbano traccia immortale di quegli anni di passione. Fra i molti bellissimi scelgo e traduco questi due sulle Lettere d’amore e sui Primi baci.

[151]

«Le mie lettere! fogli morti, muti e bianchi! eppure stasera esse sembran rivivere e palpitare fra le mie mani tremanti che sciolgono il laccio e le lasciano cader qui sulle mie ginocchia. Questa, diceva che egli desiderava vedermi una volta come un amico. In questa, egli fissava un giorno di primavera per venire solamente a toccar la mia mano, cosa tanto semplice e che pure mi fece piangere.... Questa, di carta sì fine, diceva: — Cara, io ti amo: — e però l’inchiostro è sbiadito dal tenerla sempre sul cuore, che battea troppo forte.... E questa.... o amore, le tue parole avrebbero mal profittato, se ciò che questa diceva io osassi sol di ripeterlo.»

«La prima volta ch’ei mi baciò, baciò solamente le dita di questa mano con cui [152] ora scrivo: e da quel giorno essa divenne più delicata e più bianca, restìa ai saluti mondani, pronta ai cenni delle cose celesti. Un anello di ametista non potrei portarlo al dito più visibile agli occhi miei di quel suo primo bacio. Il secondo, cercò la fronte, e mezzo si perse cadendo fra i miei capelli. O dono supremo! questo fu il crisma d’amore che con santificante dolcezza precedè la vera ghirlanda d’amore. Il terzo fu deposto, perfetto, sulla mia bocca, e fin d’allora, superba, potei dire: O amor mio, mio veramente!»

III

Alfredo Tennyson era nel pieno fulgore delle sue prime glorie, quando furono pubblicate le prime poesie della signora Browning. E l’influsso del Tennyson vi si sente talvolta, unito con quello di Wordsworth [153] e dello Shelley. Ma la signora Browning ha di suo tante rare e preziose qualità poetiche, da non potere essere accusata di imitazione. I soggetti delle sue poesie sono o leggendari (ballate), o esprimenti un dramma interiore, un grido dell’anima, un sentimento umano, vero, e reso sinceramente. Talvolta essa si abbandona ad una rêverie musicale, a variazioni alla Paganini, che son deliziose; ma in generale essa è precisa nel concetto e nella forma. Le poesie più notevoli dei due volumi sono The lost Bower, tanto ammirato da Edgardo Poe; Bertha in the lane, idillio patetico secondo solo alla May Queen del Tennyson; Geraldine, e The cry of the children. Quest’ultima, (il pianto dei fanciulli), può essere equamente giudicata anche dagli italiani che non sanno d’inglese, nella versione che ne fece il Chiarini.

Quali sono le caratteristiche della poesia della signora Browning? Tre, a mio avviso, [154] appaion preeminenti all’occhio del critico. Prima — la sincerità: mai un effetto troppo cercato e voluto, nulla da poeta dilettante, nulla di artificioso, nulla nemmeno di soverchiamente artistico, (che è il peccato generale della poesia contemporanea). La sua poesia è la sua vita: la sua vita palpita nei suoi versi. Essi sono la traduzione ritmica dei sentimenti di un cuore di donna delicato ed ardente.

Seconda — il patetico, l’emozione, il dono delle lacrime; dono potente, perchè vivifica e crea; dono oggi rarissimo, e che il solo Michelet ebbe in grado egualmente eminente.

Terza — la musica del verso. La signora Browning ha l’istinto musicale in così alto grado che spesso, in grazia dell’effetto melodico, essa sacrifica volentieri certe regole metriche ormai consacrate dall’uso; accusa che il Poe le ripetè con troppa insistenza. [155] Alcune delle sue brevi poesie sono tra le più belle. Eccone una di poche strofe a una Rosa morta.

«O rosa, chi oserà più chiamarti così? Non più rosea, non più morbida, non più soave; ma arida e secca come fili di stoppia. Tenuta sette anni rinchiusa, i tuoi stessi titoli ti fanno ora vergogna.

«La brezza che soleva alitare su te, e rapirti un odore che profumava la valle per tutto il giorno, se soffiasse ora, passerebbe senza raccorne un profumo....

«Il sole che su te splendeva, e mescolava la sua gloria nel tuo magnifico calice, talchè il raggio pareva fiorire, e il fiore sembrava ardere, se brillasse ora su te non potrebbe più colorirti...........

[156]

«Il cuore però ti riconosce; il cuore solo! Il cuore ti sente odorosa, ti vede bella, ti giudica perfetta.... Sì; e ama più te, o morta rosa, delle rose superbe che la freddo-sorridente Giulia porta nei balli. Oh, resta su questo cuore che pare si spezzi sotto di te!»

IV

Un vincolo di antica e viva simpatia letteraria lega la nobile Inghilterra all’Italia. La grande poesia britannica molto si giovò degli esempi dell’arte nostra, e spesso si ispirò alla divina bellezza della natura italiana.

Ma i poeti inglesi non si mostrarono ingrati come i più dei francesi e dei tedeschi.

E splendidi inni, e affettuosi saluti, e sincere elegie, e ardenti vaticinii ci vennero d’Inghilterra. Dal Milton al Byron, dal [157] Byron al Swinburne, è una tradizione non interrotta. E alcuni dei moderni poeti inglesi, come lo Shelley ed il Browning, potrebbero, dovrebbero avere insegnato a certi nostri poeti, che noi abbiamo in casa un tesoro di motivi poetici, nel carattere vario delle nostre grandi città e delle nostre campagne, nelle nostre leggende, nelle nostre arti, nei nostri costumi, senza che ci sia bisogno di volare negli spazii immaginarî, dipingendo una natura convenzionale, che non è nè italiana nè russa; senza studio, senza osservazione, senza coscienza; e facendo della lirica nostra una stonata musica da organini.

La signora Browning che amò l’Italia come una seconda patria, che qua passò gran parte della sua vita, che qua morì, partecipò con simpatia di poeta alle nostre patriottiche speranze, ai nostri dolori, ai nostri trionfi. Nel suo poema Le finestre di casa Guidi (Casa Guidi’s Windows) [158] vi è un accento così penetrante di entusiasmo e di sdegno, che ricorda le più ardenti strofe del Berchet. Dalle finestre di casa Guidi (via Maggio, in Firenze) essa vide sfilare la processione del popolo esultante per le riforme liberali, il 12 settembre 1847. Le grida, gl’inni, le bandiere, le coccarde, i fiori, i baci e le lacrime di quella memoranda giornata, durano immortali in quelle pagine. Dalla finestra medesima ella vide poi passare «col mirto al cimiero» gli invasori austriaci; e quel funebre giorno rivive nella sua lugubre luce in questo poema.

V

Nel 1856 la signora Browning pubblicò Aurora Leigh, il suo poema favorito, e che per importanza di concetto, per composizione, per varietà ed estensione, è l’opera [159] sua capitale. È la confessione d’un’anima generosa di donna, di straordinario intelletto e di compiuta coltura, poeta e filosofo, ideale e sensibile, pudica ed ardita, eminentemente moderna. La maggior parte del poema è il monologo di quest’anima. Si direbbe che la signora Browning ha tradotto in realtà il disegno di Giacomo Leopardi, di scrivere la Storia di un’anima. Gli avvenimenti esteriori qui non hanno importanza, se non in quanto servono all’analisi del dramma interiore. Ma Aurora Leigh incontra ed ama poi un uomo che ha eguali aspirazioni, pari entusiasmo ed orgoglio. Allora «il monologo diventa come un duo, in cui la voce femminea alterna sogni, palpiti e fremiti colla voce maschile, duo delizioso, doloroso, di un accento esaltato ed intenso.»

Nelle Ultime Poesie il gusto si è fatto anche più puro, la forma più severa e precisa. Vi è più semplicità antica che nei [160] precedenti volumi della signora Browning. Anche in questa raccolta si legge una poesia sui poveri bambini abbandonati di Londra, ove sono strofe strazianti e di una efficacia mirabile.

················

«Fanciulli cenciosi, dagli occhi affamati, sono ammucchiati dal freddo nei vostri andrioni.... fanciulli pazienti (pensate quanti dolori ci sono voluti a far paziente un fanciullo!...), ragazzi maligni con menti appuntati e fronti di vecchio; ve ne son tanti che non hanno altro piacere che nella colpa, e sgambettano con un soldo rubato!.... Bambini che piangono soli, e si lamentano con sè stessi, e non in collo alle madri; che gemono per mera abitudine, non perchè sperino simpatia o soccorso.»

L’ultima, credo, delle poesie della signora Browning fu scritta in Roma, e diretta all’Andersen. È intitolata: Il Nord ed il Sud.

[161]

«Orsù, dacci delle terre dove crescon gli olivi — gridò il Nord al Sud — dove il sole colla sua bocca d’oro gonfia i chicchi dell’uva nei vigneti — gridò il Nord al Sud.

«Oh, dateci, dalle vostre grigie pianure, degli uomini resi forti dal lavoro fra le piogge e le nevi, e dai domestici affanni! — gridò il Sud al Nord.

«Dacci più splendide colline, e mari più intensi — disse il Nord al Sud — poichè sempre per simboli e per lucidi gradi l’arte infantilmente si inalza fino alle ginocchia di Dio.

«Dateci delle anime intrepide nella fede e nella preghiera — disse il Sud al Nord — che stiano nel buio e nei più bassi scalini della vita, eppure affermin di Dio: certo Egli è là! — disse il Sud al Nord.

«Deh, chi mi dà cieli più molli e più profondi — sospirò il Nord al Sud — i fiori che risplendono, gli alberi che aspirano, gli insetti composti di canto e di fuoco! — sospirò il Nord al Sud.

[162]

«Oh, chi dà a me un’anima che vegga tali cose — sospirò il Sud al Nord — e la lingua di fiamma di un poeta che chiami l’albero e il fiore col vero suo nome! — sospirò il Sud al Nord.»

················

Ma una delle belle e tristi poesie del volume è quella intitolata: My heart and I. (Il mio cuore ed io). È di un accento così desolato, è così impregnata di lacrime, è segno di prostrazione così profonda, che si capisce che la donna che lo scrisse doveva dopo poco morire!

«Basta! noi siamo stanchi il mio cuore ed io. Seggo presso questa lapide sepolcrale, e vorrei che quel nome fosse inciso per me.... Si sono scritti dei libri, abbiam fidato negli uomini, e intinta la penna nel nostro sangue, come se un tal colore non potesse morire.... Camminammo troppo [163] diritti per arrivare alla fortuna, amammo troppo sinceramente per serbare un amico.... alla fine siamo stanchi, il mio cuore ed io! Come ci sentiamo stanchi, il mio cuore ed io!

«Il mondo è fatto indifferente alle nostre illanguidite fantasie; la nostra voce, un giorno sì penetrante, vi farebbe oggi dormire.... le nostre lacrime non son altro che acqua.... Oh che cosa ci facciamo più qui, il mio cuore ed io?»

VI

È ben doloroso a pensare che una donna come la Browning, con tali doti straordinarie, con tale anima; ricca, gloriosa, debba finire con un lamento così straziante! Essa ci è un esempio di più che questa terra, per i veri poeti, per le anime delicate, è una buia prigione, un luogo di torture quotidiane; e che il contatto del mondo le lacera, come farebbe un guanto di ferro alle [164] ali d’una farfalla. Anime divinamente gemebonde, di cui Tecla, la Généviève e la Amelia sono i tipi ideali, ed Elisabetta Barrett Browning il tipo reale sopra la terra. Ma non le compiangiamo troppo! Fra le loro lacrime, esse hanno avuto dei momenti di estasi ineffabile e di gioia suprema, ignoti affatto alla moltitudine che vegeta, calcola e passa.

In Firenze, in quella casa Guidi da cui s’intitola uno dei più mirabili suoi poemi, la signora Browning moriva nel 1861. Il municipio vi faceva porre questa iscrizione, dettata da Niccolò Tommaseo:

QUI SCRISSE E MORÌ
ELISABETTA BARRETT BROWNING
CHE IN CUORE DI DONNA CONCILIAVA
SCIENZA DI DOTTO E SPIRITO DI POETA
E FECE DEL SUO VERSO AUREO ANELLO
FRA ITALIA E INGHILTERRA.
PONE QUESTA LAPIDE
FIRENZE GRATA
1861

[165]

Dopo l’unica Saffo, Elisabetta Barrett Browning a me sembra incomparabilmente superiore ad ogni antica e moderna poetessa. Due sole donne a me pare la vincano in potenza di genio: la Sand e la Eliot; ma essa resta insuperata nel dono di toccar le corde dei soavi affetti, nella poesia della tenera commozione e dei nobili e santi entusiasmi. Essa è la donna-angelo nel coro dei moderni poeti: è il dolcissimo passionato violino della grande orchestra poetica inglese.

[169]

LA SIGNORA CARLYLE

Finisco ora di leggere le Reminescences of Thomas Carlyle. Più volte sono stato lì lì per gettar il libro dalla finestra, irritato o nauseato da tanti giudizi avventati, ingiusti, crudeli, sui più illustri contemporanei, da tanta intolleranza, dall’accento dispotico e dittatoriale, dal tono di infallibilità puritana di questo libro. Eppure sono arrivato in fondo, e sono sicuro che ne farò una seconda lettura, e riaprirò spesso questo volume. Perchè? Qual è il magico incanto che, mio malgrado, mi ha [170] trattenuto su queste pagine? — Sono i ricordi, sono gli affettuosi rimpianti dell’angelica moglie. La storia delle cure amorose di lei, dal giorno del matrimonio a quello dell’agonia, purifica, in certo modo, l’antipatico egoismo che ammorba il resto dell’opera. Dopo la lettura di questo libro, Carlyle resta più in ombra: e si distacca in luce d’aureola la bianca figura di una donna-angelo, la signora Carlyle.

Nelle varie opere del grande scrittore io non avevo trovato traccia di quella celeste figura e della sua efficacia benefica. La felicità e la gloria sono egoiste. E il prezzo infinito dell’amore di una donna non si comprende bene che quando è morta.

Nelle lettere di Carlyle, anche in quelle a Goethe, poche settimane dopo il suo matrimonio, [171] e datate da Craigenputtock, nuova residenza dei due sposi e proprietà della moglie, si cerca invano qualche calda parola che ci descriva la donna gentile la quale ornava e consacrava con la sua presenza quel tepido nido.

O letterati! anche se grandi, anche se buoni, anche se amanti, come sempre fa capolino in voi l’egoismo! Come tutto vi sembra dovuto! Con che olimpica imperturbabilità accogliete le lacrime e i baci, la devozione e il sacrifizio delle povere donne!

Il giovine Carlyle divorato dalla fiamma nascosta del proprio genio che non trovava la via per manifestarsi ed espandersi, nato di povera famiglia, selvatico e strano carattere, malaticcio ed ipocondriaco, non bello, notevole solo per due occhi pensosi [172] profondamente incassati sotto una fronte granitica, era costretto per campare la vita a lavoro ingrato e incessante: ora maestro d’aritmetica, ora precettore privato, ora collaboratore di Enciclopedie, ora traduttore dal tedesco o dal francese. Unico lavoro di quel tempo giovanile, che resti anche oggi degno del suo nome, è la Vita di Schiller.

A un tratto le ansie e gli scoraggiamenti cessarono: la tremenda questione del pane quotidiano fu risoluta: egli ebbe insieme l’amore, la pace, l’indipendenza, la salute e il necessario impulso al suo genio, da una donna, — da quella che fu sua moglie e suo angelo tutelare, confortatore ed ispiratore per quarant’anni. Donna mirabile per generosa abnegazione, per delicatezze ineffabili, per pazienza costante, per i suoi sorrisi e per le sue lacrime; sanctissima conjux come l’avrebbe chiamata Virgilio.

[173]

A chiunque conosce la vita e gli scritti di Tommaso Carlyle, si fa chiaramente palese che la sua natura irrequieta, la sua fantasia apocalittica, la sua eloquenza profetica tutta folgori e tuoni, il dommatismo puritano, il sarcastico humour e le sue bibliche imprecazioni alla scienza e allo spirito industriale e positivo del secolo, avean bisogno di esser quotidianamente temperate da qualche calmante, da qualche benefico influsso pacificatore: altrimenti, la cieca forza del suo genio, in perfetta antitesi con lo spirito dei suoi tempi, lo avrebbe disperatamente precipitato nel sepolcro o lo avrebbe condotto, miserando spettacolo, al manicomio. Aggiungete che egli era malato, e fu malato per tutta la vita: che concentrando ogni sua attenzione e ogni sua forza [174] in una vulcanica attività cerebrale, egli non badava, non poteva badare, a tutti quei nulla che pur son tanto, che talora son tutto, nella nostra prosaica esistenza.... Un giovine fantastico povero e malato, con un genio formidabile ed aggressivo, che cosa poteva sperare di buono nella vecchia positiva Inghilterra? — Una donna gli tende la mano, gli dice ti ammiro e t’amo, son tua.... e quell’uomo allora può vivere, spiegar tutta l’ala sfolgorante del proprio genio, campare più di ottant’anni, e lasciare un nome immortale....

Jane Welsh era bella, giovine, nobile, ricca, corteggiata da molti. Ma il suo cuore aveva bisogno di sacrifizio, di entusiasmo e di fede. Conobbe il povero giovine in lotta colla fortuna e col mondo, e nei suoi tristi [175] profondi occhi vide brillare una luce divina. Credè nell’avvenire e nella gloria del genio: credè alla felicità di aiutarlo col suo amore, e lo amò consacrandosi tutta a lui. Lo sottrasse alla miseria, allo sgomento, gli portò il pane materiale e il pane spirituale ad un tempo.

Furono sposi nel 1827: e fino al 1843 dimorarono a Craigenputtock. Là fu scritto Sartor Resartus, là i primi saggi storici e critici che oggi si leggon raccolti nelle Miscellanies.

La villa era in una perfetta solitudine: lontana sei miglia da ogni altro luogo abitato: fra colline granitiche e paludi grigie stendentisi fino al tristo mare del Nord. Ma la lieta Jane animò e rallegrò al suo fosco marito il deserto. Pensava a fargli venir da Edimburgo carrettate di libri e giornali francesi, tedeschi ed inglesi. Popolò di rose il giardinetto sotto le finestre della sua stanza di studio. Due piccoli ponies [176] eran sellati ogni mattina per la cavalcata prima dell’ore del lavoro, ed essa lo accompagnava sempre.

Robusto e delicato ad un tempo, Carlyle soffriva di indefinibili mali nervosi, e di ipocondria. Che cosa non fece Jane per distrarlo, per rinfrancarlo? Gli si mostrava sempre serena, di buon umore, avea sempre pronte delle storielle amene, degli adorabili enfantillages. Quando egli, verso sera, tornava dalla sua breve passeggiata solitaria, nella quale meditava e mentalmente correggeva il lavoro della giornata, essa gli preparava da sè e gli faceva trovare presso al caminetto acceso, il the fumante, la pipa di schiuma già empita dalla sua propria mano, e il sorriso dei suoi begli occhi di moglie amante. Carlyle era di vista debole: ed essa si adoperava assiduamente a temperare [177] con ingegnose invenzioni la luce troppo viva del giorno, senza intercettare l’aria, e lavorava sempre a ventole e abat-jour per la lampada notturna dell’infaticabile lavoratore.

Quando credè che la soverchia solitudine potesse nuocere agli interessi e alla fama del marito, fu la prima a consigliarlo di andare a stare a Londra o vicino a Londra, e con amorosa insistenza ve lo persuase, lei naturalmente nemica del bel mondo, amante della pace rurale e della poesia delle solitudini.

A Chelsea, presso Londra, andarono ad abitare una casa provveduta di ogni comfort inglese — casa divenuta ormai leggendaria, dove lo storico filosofo ha vissuto per quasi mezzo secolo, e dove è morto.

Là era una continua affluenza di visitatori, di ammiratori del savio di Chelsea. [178] Ma la prudenza della donna era in continuo moto per prevenire, temperare, o rimediare alle scappate di quel savio irritabile. In certi giorni, egli era un vero orso del nord, e bastava che uno gli dicesse bianco, perchè egli fosse irresistibilmente trascinato a dir nero, e a sostenere la sua contradizione con tutte le armi di una dialettica formidabile, aiutata dai lampi di una immaginazione unica, e dagli scoppi di risa di un humour grottesco e spietatamente selvaggio. A volte un povero diavolo che era andato là trepidante, pieno di devozione e di entusiasmo, era accolto come uno scolaro preso in fallo o come un nemico; e annientato con due parole. Lei spesso prevedeva il caso, e non riceveva quel giorno, o restava terza a scongiurare il pericolo.... e interveniva col suo sorriso, con le sue soavi parole, e deviava la folgore, o rianimava il fulminato, e gli procacciava il balsamo di una parola gentile [179] dal tremendo marito, che, quando voleva, sapeva trovarne delle squisite. Ma talvolta egli incontrava chi teneva fronte ai ruggiti della sua biblica eloquenza: il Mazzini per esempio. Allora la povera Jane era in una vera agonia.... ma tanto sapeva fare, che non accadde mai che uno solo dei maltrattati visitatori, anche dei più illustri, varcasse la soglia, senza esser prima pacificato, senza aver scambiato una cordiale stretta di mano col terribile autore dei Latterday-Pamphlets.

E tutto ciò è poco, è quasi nulla, paragonato al benefizio immenso, incalcolabile, della ispirazione, dell’impulso, della influenza incoraggiante e fortificante, che la signora Carlyle esercitò sul suo illustre marito. Egli era, l’ho detto, un atleta malato, un titano ipocondriaco. La lente d’ingrandimento [180] della sua straordinaria fantasia gli ingigantiva gli ostacoli, gli moltiplicava i dubbi, i terrori, gli abbattimenti morali. Essa accorreva allora, come una energica amica, come una madre che sa volere, e gli infondeva il sereno coraggio e la fede. A lei si deve la continuazione della Storia della Rivoluzione Francese che il Carlyle minacciava di lasciare a mezzo; fu lei che gli suggerì la prima idea delle Letture su gli Eroi, e seppe vincere la naturale repugnanza di Carlyle a fare pubbliche conferenze. Nè basta: per anni interi gli fece da segretario, stando a dettatura, copiando, leggendogli, facendo estratti per lui, come la moglie di quell’altro grande storico che nella facoltà imaginatrice ed evocatrice rassomiglia il Carlyle: la moglie di Michelet.

Aveva poi delle tenerezze infantili, delle ingenuità verginali, che ricordate dopo la morte dall’infelice superstite, lo facevano [181] piangere. Una volta, nei primi tempi che erano a Chelsea, per economia, facevano a meno della vettura, e armati di ombrello e galoches, andavano a piedi anche di sera, intrepidamente, a far visite ai loro amici. Alle soirées, ove talvolta andavano, essa appariva elegantissima, con piccolissima o quasi nessuna spesa. «La mia cara Jane avea voluto stasera esser bella, e siccome è una incomparabile artista, s’era fatta un abito di una grazia divina, con ghirlande e festoni d’ellera naturale, che non le era costato altro che lo staccarla dagli alberi con le sue mani.» Voleva esser bella, sempre bella per lui, per lui solo, e le bastava il suo sorriso, un ramicello d’ellera sul vestito, un semplice fiore nei suoi bei capelli.

E anche a quarant’anni e più, essa si mantenne bella ed amabile (che è lo stesso). L’innocenza della sposa ha una grazia particolare, che naturalmente tocca il cuore dell’uomo: essa ha la vera libertà della [182] parola, dello sguardo, del sorriso, del gesto. Le altre non son libere che nei momenti di ebbrezza: nel resto sempre artificiali e legate. Van Dyck, Rembrandt principalmente, lo intesero, e certi loro ritratti matronali sono adorabili. Più si guardano e più si capisce che si fanno amare, perchè hanno la bellezza della bontà. Oggi gli uomini fanno poco conto di questa bellezza, e però ne sono puniti, nel carattere, nell’arte, e nella poesia: e il soffio che crea non gli anima più a cose grandi e durevoli: sperdon le forze in gingilli: non son più poeti, ma gelidi decoratori, e dilettanti senza fede e senza allegro coraggio.

Quando la prima neve della vecchiezza cominciava a imbiancarle i bei capelli, la signora Carlyle ammalò. Parve dapprima un semplice reuma, ma si convertì presto in [183] una spaventosa nevrosi generale, alla quale la scienza non seppe trovare rimedio. Accorsero a Chelsea i più illustri medici, e furon tentate, e tutte vanamente, più cure. Anzi gli spasimi parvero farsi più atroci. Perdè il sonno e l’appetito: sembrava uno scheletro vivente.... ma non perdè la serenità, la calma, la dolcezza dello sguardo e della parola. Anche dal suo letto di dolori, si preoccupava del suo povero grand’uomo. Ed egli, l’infelice, agonizzava moralmente, ma dissimulava la propria agonia. Sentì che stava per perderla, e diventò costantemente taciturno. Egli che aveva nei suoi libri inneggiato al silenzio come indizio di forza, e contrassegno degli eroi, in pratica aveva sempre contradetta la sua teoria, e amato di parlare e essere ascoltato come tutti i grandi oratori. Il dolore gli insegna ora il silenzio: un silenzio commovente su quelle labbra tuonanti.... un silenzio di vecchio colpito dal fato, un silenzio tragico.

[184]

Povera Jane! agli spasimi fisici si aggiunse il terrore della pazzia. Le parve che neppure la sua potente volontà saprebbe salvar dal naufragio la sua intelligenza.

— Oh, amico mio — disse due volte al marito, — promettimi, qualunque cosa accada, che mi terrai in casa, che non mi manderai al manicomio. O caro, io sento che divento pazza, e ho tanta paura.... — E il vecchio Carlyle a calmarla, a prometterle solennemente di non staccarsi mai un giorno da lei....

Nei primi del 64, fu deciso di tentare un cambiamento d’aria. «Faceva freddo e pioveva quando partimmo, il due di marzo, per la casa sul mare, generosamente offertaci da un amico. Quale scena! non ne vedrò mai l’eguale! Il giorno in cui la portarono in sepoltura a Haddington, non fu più orribile. Quel giorno almeno essa non soffriva più. Essa era composta nel suo riposo, era vittoriosa per sempre.... Ma ora!... Accostarono [185] alla porta di casa un carro-letto da malati che somigliava a una bara. Mi par di vederla ancora la mia cara Jane, quando la portavan giù per le scale. Il dolore fisico e un ineffabile dolore morale eran dipinti sul cereo suo viso; ma essa si serbò anche in quel punto eguale a sè stessa, cioè energica, risoluta, e prudente. Con voce debole, ma sicura, dette i suoi ordini per il trasporto: e tutto fu fatto sotto la savia sua direzione. Io sapevo che cosa essa pensava in quel momento, e che credeva di uscire di casa sua per non tornarvi mai più: eppure i suoi occhi rimasero asciutti; e pochi minuti dopo eravamo partiti.»

Ma nemmeno il cambiamento d’aria giovò. Potè tornare (e fu il suo ultimo e insperato conforto) alla casa diletta. Vi agonizzò lentamente parecchi mesi. Ogni minimo incidente le era cagione di terrori mortali. Non era pazza, ma di una esaltata sensibilità. Un giorno la condussero a Hyde-Park in carrozza. [186] Un’amica le aveva dato a tenere per un momento un suo cagnolino. Non si sa come, questo ruzzolò sotto le ruote del legno, e lo crederono morto. Tremante, moribonda, prese in grembo l’animale ferito che lamentosamente guaiva, e ordinò al cocchiere di tornare indietro. Quando la carrozza si fermò alla porta di casa, la signora Carlyle era morta!...

Sparito il suo buon angelo, l’illustre vecchio non trovò conforto che nel lavoro, ma scarso, insufficiente conforto. La grande Storia di Federigo può dirsi bagnata dalle sue lacrime.

— Non voglion capire che io non posso più vivere — diceva ai suoi visitatori, e restava per ore intere taciturno ed immobile, in quella stanza dove spirava ancora il profumo di lei.

[187]

La morte tardò a prenderlo, ma da un pezzo egli aspettava e invocava il colpo finale. E quando venne il momento, la sua fronte granitica parve raggiare di nuova luce, e le sue caustiche labbra si ammollirono in un sorriso ineffabile.... Una bianca suprema visione lo aveva trasfigurato.

[191]

RACHEL

La Corrispondenza della illustre tragica è stata pubblicata ora a Parigi, in un magnifico volume, a cura del signor Giorgio d’Heylli. Le lettere son precedute da brevi notizie sulla famiglia della Rachel e intercalate alla narrazione delle sue trionfali escursioni di attrice. Da questo eccellente libro è apparsa ai miei occhi una nuova Rachel; non più nelle solenni attitudini della tragedia, nel costume di Fedra o di Atalia, ma una donna semplice, affettuosa, spiritosa, e soprattutto sincera [192] sempre; nelle gioie, nei dolori, nei trionfi, nelle umiliazioni (ne toccarono anche a lei), nelle malattie, e nella morte. Più che della stessa arte che era la sua passione, essa parla e si preoccupa in tutte le lettere, dei suoi bambini, della madre, delle sorelle, e ha spesso accenti di ineffabile tenerezza. I bei ritratti ond’è adorno questo volume ci aiutano a rievocare, a risuscitare quella simpatica figura. In una fotografia del 1851 che vi è riprodotta, ci si mostra in un elegante e semplice vestiario, coi capelli divisi sulla fronte, lisci e raccolti in una semplice treccia, assisa, appoggiando malinconicamente la sua bella testa ebraica sulla sua piccola mano di parigina.

Povera Rachel! Come ti hanno calunniata, anche i critici tuoi ammiratori! «La Rachel, diceva un d’essi, è una specie di Lamia, una donna serpente; e riesce grande nella rappresentazione delle passioni perverse e diaboliche. Essa ha un volto e un [193] portamento che paion fatti apposta per esprimere il veleno dei caratteri che rappresenta.» Perchè essa conservava una inalterabile nobiltà statuaria di gesto, anche nei momenti di violenta passione; perchè non ricorreva a contorsioni epilettiche o a isterici singhiozzi da melodramma, l’accusarono di insensibilità: e uno dei più famosi appendicisti di Francia la chiamò addirittura «artista incomparabile, ma senza cuore.»

Questo è un giudicare alla cieca come la fortuna. La sua corrispondenza ci prova invece che essa è morta della sua arte, come la Malibran; e che il suo calmo esteriore nascondeva un interno vulcano.

La verità è questa: essa era l’antica Melpomene, un anacronismo vivente in pieno secolo decimonono. Tutto in lei era fatto a raffigurare e interpretare l’antichità, la sana e forte e serena antichità di Fidia e di Sofocle, che essa traduceva dagli alessandrini [194] di Racine; i suoi grandi e profondi occhi neri, il suo sguardo da Nemesi, le chiome corvine, l’ovale perfetto del volto, e la fronte d’antica regina, fatta per il cerchio d’oro dei Greci, o per la fascia israelitica. Con un gesto, con una piega del manto, col levare del braccio, con l’inclinar della fronte, essa otteneva effetti più potenti e più sicuri che altre attrici con piangere e scalmanarsi; o col ricorrere a strani mezzi di raffinato artifizio, a delle chatteries di cocottes vestite da Andromaca o da Medea....

La Rachel era della gran famiglia tragica dei Talma, dei Salvini, delle Ristori; e forse, per doni naturali, per innato sentimento dell’antica semplicità, più grande di tutti. Quando si provò nelle parti febbrili, essenzialmente moderne, dei personaggi di Hugo e di Dumas, non riuscì. Nè poteva riuscire.

[195]

Allieva prediletta di Sanson, allorchè a diciannove anni esordì nelle parti di Ermione e di Roxane, il pubblico e la critica le si mostrarono piuttosto ostili. La sera del 30 novembre 1838, doveva recitare nel Bajazet di Racine. La folla era enorme: si battevano alla porta del teatro per entrare i primi.... Eppure, la tragedia finì tra un glaciale silenzio. Il 25, esce un articolo di Janin, il Minosse del teatro, con queste parole: «Mais que voulaient-ils donc que fît M.lle Rachel dans ce rôle de Roxane? Cette enfant pouvait-elle deviner cette passion des sens, non de l’âme? Cette enfant si frêle, cette poitrine naissante, ce souffle inquiet pouvaient-ils suffire à représenter la puissante lionne qui a nom Roxane?»

Ma l’indifferenza del pubblico e la crudeltà della critica non scoraggirono punto [196] la magra e pallida giovinetta. E Rachel-Roxane si ripresentò sulla scena, cinque giorni dopo. «Vous n’avez pas peur?» le domanda l’inquieto e trepido impresario, prima che s’alzi il telone. «Non, risponde Rachel, non; je suis furieuse de l’article de Janin, et c’est une raison de plus pour me monter....» E da quella sera, in cui il suo tragico genio si rivelò intiero, datarono i suoi crescenti trionfi. Fu una Roxane terribile. L’uditorio pietrificato non osava nemmeno applaudire.... Poi fu un urlo, un delirio, una valanga di fiori!

Ottenere grandi effetti con semplici mezzi fu il segreto della Rachel, ed è quello di tutti i grandi poeti ed artisti antichi. Le bastava di passarsi la mano fra i capelli, di avvolgersi in uno scialle di cachemire, per rappresentare in qualunque stanza la [197] parte di Medea e di Ermione. Talvolta, a un pranzo, alzatasi, e allontanata da sè la sedia, osava affrontare la grande scena della Fedra, e faceva fremere e agghiacciare i commensali, come se quella stanza tapissée e piena dei fumi dello champagne e dei cigaritos si fosse convertita a un tratto nell’atrio di Atride o nella reggia di Teseo.

Restando assolutamente immobile, pronunziando a voce bassa un verso, metteva i brividi nel suo uditorio. Certi versi, nella parte di Ermione, gli diceva con tale intensità e profondità di sentimento, che parevano rivelare nuovi abissi del cuore umano. Per esempio:

Je crains de me connaître en l’état où je suis.

. . . . . .

S’il ne meurt aujourd’hui, je puis l’aimer demain.

. . . . . .

Vi sono quattro versi ammirabili nella parte di Ermione che interpretati dalla Rachel ottennero sempre frenetici applausi, [198] tanto a Parigi che a Pietroburgo, ad Amsterdam come a New-York. Quando Oreste per comando della gelosa Ermione ha fatto assassinar Pirro, e si presenta a lei e le narra come fu eseguito l’atroce mandato, essa, in una terribile apostrofe, gli dice disperatamente pentita:

Ah! fallait-il en croire une amante insensée?

Ne devais-tu pas lire au fond de ma pensée?

Et ne voyais-tu pas, dans mes emportements,

Que mon cœur démentait ma bouche à tout moment?

E chi può senza un tragico orrore ricordare le scene ultime della Fedra interpretate dalla Rachel? l’amaro spaventoso accento con cui faceva la involontaria fatale confessione?

Hélas! du crime affreux dont la honte me suit,

Jamais mon triste cœur n’a recueilli le fruit.

Ma forse ancor più mirabile era la calma finale, la dignità tragica con cui, raccolto il manto sul petto, guardati tristamente i [199] suoi interlocutori, pallida, e già sulla soglia di Stige, — dopo un lungo silenzio, scandiva lentamente i versi immortali:

J’ai voulu, devant vous exposant mes remords,

Par un chemin plus lent descendre chez les morts.

J’ai pris, j’ai fait couler dans mes brûlantes veines

Un poison que Médée apporta dans Athènes.

Déjà jusqu’à mon cœur le venin parvenu

Dans ce cœur expirant jette un froid inconnu....

Eppure, questa terribile Fedra aveva nella conversazione e nelle lettere tutto il brio, tutte le finezze di una vera parigina. In questo volume della sua corrispondenza vi sono una trentina di lettere dove brilla una schietta vena di spirito e di buon umore. Ecco, per esempio, un biglietto col quale chiede un palco all’impresario Verteuil:

O Verteuil! puisque c’est ainsi qu’on vous nomme, et qu’on vous renomme!... une petite, toute petite loge, s’il vous plaît, pourvu qu’elle soit de six places.... Tous mes remercîments.

[200]

E questa letterina a un’amica, a proposito di regali:

N.... m’envoie pour mes étrennes un œuf, pour avoir un bœuf; on me dit que son hommage est en zing peint en bronze. Je l’ai déjà fourré à quelqu’un, pour m’en dezinguer au plus vite. Faites-moi donc le plaisir de passer chez Giroux et d’acheter quelque chose de cent francs, — pas un maravédis de plus. Si ça fait l’effet de deux cents, tant mieux; du flafla! J’avais envie de lui coller un Chinois que j’ai, et collé, c’est bien ça, car il a la patte cassée.... J’ai un drôle de style ce matin, mais que voulez-vous? il pleut si fort!...

Votre exploitée amie.

Una naturale semplicità la manteneva calma e degna al cospetto di regine e di imperatori. Conversando con lo Czar o con Wellington, con la regina Vittoria o col re del Belgio, essa si trovava à son aise come con la sorella Rebecca, o col segretario della Comédie Française.

Ecco una lettera dove, con una grazia e una ironia tutta parigina, racconta un suo trionfo alla Corte di Russia:

[201]

J’ai été invitée à un grand banquet donné en mon honneur au palais impérial. Voilà qu’à mon arrivée au palais, de grands laquais galonnés et poudrés m’attendaient et m’escortent: l’un prend ma pelisse, l’autre me précède et m’annonce, et me voici dans un salon tout plein de dorures, où tout le monde se précipite au-devant de moi. C’est un grand-duc frère de l’empereur, qui vient lui-même m’offrir la main pour me conduire à la table du banquet. Quel choix de convives! La famille impériale, les grands-ducs, les petits ducs, et les archiducs, tous les ducs enfin de tous les calibres, et tout ce tralala de princes et de princesses curieux et attentifs, me dévorant des yeux, épiant mes moindres mouvements, mes paroles, mes sourires, en un mot ne me quittant pas du regard. Eh bien! ne croyez pas que j’aie été trop embarrassée. Pas le moins du monde! J’ai été comme d’habitude, au moins jusqu’au milieu du repas, qui d’ailleurs était fort bon. A ce moment, les toasts en mon honneur commencent: il se passe alors un spectacle bien extraordinaire. Les jeunes archiducs, pour me voir de plus près, quittent leurs places, montent sur des chaises, et mettent même un peu les pieds sur la table, — j’allais dire dans le plat! sans que cela ait l’air de choquer personne. Et les voilà qui poussent des cris, des bravos à m’assourdir, et qui me demandent de dire quelque chose. Répondre à des toasts par une tirade de tragédie, c’était bien étrange! mais [202] je ne me suis pas laissé démonter pour si peu. Je me suis levée, et, reculant ma chaise, j’ai pris le geste le plus tragique de mon répertoire, et je leur ai entamé la grande scène de Phèdre. Il se fit alors un silence de mort; on aurait entendu voler une mouche, s’il y en avait dans ce pays-ci. Tous m’écoutaient religieusement, penchés vers moi, se bornant à des gestes admiratifs et à des murmures étouffés. Puis, quand j’eus fini, ce fut un nouvel assaut de cris, de bravos, de chocs de verre, et de nouveaux toasts, au point que j’en demeurai un moment comme interdite. Puis bientôt je me montai moi-même aussi, et, excitée en même temps par l’odeur des vins et des fleurs, et par tout cet enthousiasme qui n’était pas sans châtouiller mon petit orgueil, je me levai de nouveau, et j’entonnai, ou plutôt je déclamai avec beaucoup de châleur l’hymne national russe. Alors, ce ne fut plus de l’enthousiasme, ça devint du délire: on s’empressa autour de moi, on me serrait les mains, on me remerciait; j’étais la plus grande tragédienne du monde, et des temps passés et futurs....

Ma oh, come essa passò presto da questo tono confidente e gioviale all’accento dello sconforto e dei funebri presentimenti! [203] L’interno turbamento provato quasi quotidianamente nel rappresentare e incarnare le più violente passioni, gli strapazzi dei suoi lunghi viaggi d’attrice, rovinarono presto la sua salute. L’anima ardente consumava e uccideva in lei il gracile corpo. Si può dire della Rachel quel che Musset cantò della Malibran:

C’est le Dieu tout-puissant, c’est la Muse implacable

Qui dans ses bras en feu t’a portée au tombeau.

Ogni grido di Fedra, ogni gemito di Ifigenia accresceva la magrezza e il pallore delle sue gote.

Fin dal ’55 essa sentì che per lei non c’era più speranza, e che i suoi giorni erano contati. La tosse, la febbre non la lasciarono quasi più. Il 7 gennaio essa scriveva dall’Avana queste dolorose parole:

.... Je suis malade, bien malade. Mon cœur et mon esprit sont tombés à rien. Je ne jouerai pas non plus à la Havane; mais j’y suis venue, et le directeur, [204] usant du droit de son contrat, a demandé comme dommage 7000 piastres. J’ai payé les artistes jusqu’à ce jour. Je ramène toute ma pauvre armée en déroute sur les bords de la Seine; et moi peut-être comme un autre Napoléon j’irai mourir aux Invalides et demander une pierre ou reposer ma tête.... Mais non, je trouverai encore mes deux anges gardiens, mes jeunes fils: je les entends qui m’appellent. Aussi, c’est trop de temps passé hors de leurs baisers, de leurs caresses, de leurs chers petits bras. Je ne regrette plus l’argent perdu, je ne regrette plus la fatigue. J’ai porté mon nom aussi loin que j’ai pu, et je rapporte mon cœur a ceux qui l’aiment.

Semplice e antica espressione di un sentimento umano ed eterno! È il grido della madre moribonda, che essa manda dall’Avana e dall’Egitto nelle sue ultime fatali escursioni. Da Tebe, nel ’57, pochi mesi prima di morire, dettò la più bella, sua lettera, la quale rivela in lei rare qualità di scrittore. Descrive le rovine d’Egitto, il placido corso del Nilo, le Piramidi, e le ruine di Burnah che essa contemplò silenziosamente a un magnifico lume di luna, vincendo [205] forse la sua repugnanza a morire nello spettacolo della morte di un mondo. Fragile vaso d’alabastro, rischiarato per pochi anni dalla fiamma interiore del genio, essa posò per qualche giorno sulle tombe dei re; e forse, come Adriano, sentì sospirare la statua di Mèmnone....

Nell’estate del ’57, detto l’ultimo addio alla Comédie Française, il teatro delle sue glorie, lasciò Parigi, e andò ad aspettar la morte a Cannes, in villa Sardou.

Il 3 gennaio 1858, Rachel era in agonia. Parenti e correligionari, chiamati dalla famiglia, accorsero in fretta da Nizza. E la figliola d’Isdraello si udì raccomandare alla misericordia del Signore, nella lingua di Giob e di Geremia.

Restarono soli nella funebre camera un vecchio rabbino e due donne. Si avvicinarono [206] al letto della morente. Essa si voltò dalla loro parte, e con lo sguardo intento parve dire: leggete, aspetto le parole di Gèova!

— Vola, torna al tuo Dio, o figliola d’Israel!

Ascolta, Israel; l’Eterno, il nostro Dio, l’Eterno è uno.

Va’ ove il Signore ti chiama, va’, e che la sua misericordia ti assista!

Dio dei nostri padri, ricevi nella tua misericordia quest’anima che viene a te; riuniscila a quella dei patriarchi tra le gioie del paradiso celeste. —

Rachel ascoltava in solenne raccoglimento: era tutta attenzione a quelle grandi parole: il suo volto parve illuminarsi di una luce divina....

Vi fu un lungo silenzio. La sorella Sara rientrò nella camera, e si appressò al letto della morente. Rachel le strinse la mano, le sorrise, e spirò.

Allora il funebre trio cantò a bassa voce: Benedetto il Giudice di Verità!...

[207]

Il volto di Rachel era divenuto severo e maestoso. Le sue labbra eloquenti eran sigillate per sempre. Sul suo profilo di cammeo, sulla sua pura e pallida fronte furono versate lacrime ardenti d’amore e di ammirazione.

Ho qui dinanzi il ritratto della morta. La sua nobile testa è cinta del sacro alloro. Le mani ceree sono distese in un completo abbandono. Tutta la bella persona è composta nel riposo supremo. I capelli nerissimi ombreggiano la faccia e il collo marmoreo.

Anche il cadavere di Rachel ha una tragica fisonomia. Dal volto emana una suprema tristezza. Si direbbe la maschera di Melpomene, o, meglio, il tipo incarnato dei dolori infiniti e delle indomate speranze del popolo d’Isdraele.

FINE


[209]

INDICE

Prefazione pag. V
La Pompadour 3
La Du Barry 23
Sofia Arnould 51
Julie-Marianne 69
Giulia Lespinasse 89
La baronessa di Krüdener 113
La contessa Guiccioli 123
Elisabetta Barrett Browning 145
La signora Carlyle 169
Rachel 191

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.