The Project Gutenberg eBook of Il Benefattore

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Title: Il Benefattore

Author: Luigi Capuana

Release date: February 1, 2005 [eBook #7459]
Most recently updated: October 11, 2012

Language: Italian

Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso, Charles Franks and the Online Distributed Proofreading Team. Prodotto in comune tra Progetto Manuzio e Project Gutenberg

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL BENEFATTORE ***

Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso, Charles

Franks and the Online Distributed Proofreading Team.
Prodotto in comune tra Progetto Manuzio e Project Gutenberg

Luigi Capuana

IL BENEFATTORE

INDICE

Il Benefattore

Per un sogno

Raccontava il dottor Maggioli:

I. I microbi del signor Sferlazzo

II. L'incredibile esperimento

III. Un geloso!

IV. La redenzione dei capolavori

V. Due scoperte.

VI. L'invisibile

VII. Il busto

Care parentesi

Enimma

Il Benefattore

I.

Dal balcone centrale dell'Albergo del Gallo in piazza del Municipio a Settefonti, visto fermare la carrozza davanti al portoncino, l'albergatore era sceso giù in maniche di camicia, per dare il ben arrivato ai forestieri; e rimaneva un po' deluso, scorgendo che la carrozza ne conteneva uno solo. Il quale poi non si affrettava a smontare, ma restava rannicchiato in fondo al legno, con gli occhi socchiusi, quasi non avesse ancora avuto il tempo di svegliarsi interamente dal sonno fatto lungo la strada.

Invece, il viaggiatore non credeva di essere già arrivato. Udita però la voce dell'albergatore che, cavandosi il berretto di lana a maglia con fiorami rossi e verdi, gli domandava se doveva poi portar su le due valigie, balzava lesto a terra accennando col capo una risposta affermativa; e si metteva sùbito a guardare attorno, per la piazza, come persona che cercasse d'indovinare una località, un indirizzo, secondo le indicazioni ricevute.

Fece un gesto di soddisfazione infatti, pagò il cocchiere, disse, con accento straniero, all'albergatore:—Una stanza, tutta per me! (da questo si capiva che era pratico degli alberghi dei paesetti siciliani) e si avviò direttamente verso lo studio notarile, su la porta del quale egli aveva potuto leggere da lontano: BANCA LA BELLA, quantunque lo scritto della misera insegna fosse mezzo scancellato.

Il notaio giocava a tressetti con un vecchio prete e lo scrivano. All'apparire del forestiero fermatosi un istante sulla soglia—la porta era spalancata, e non c'era vetrina o paravento che vietasse ai curiosi ed agli sfaccendati di osservare da fuori quel che si faceva là dentro—il notaio, deponendo le carte che teneva spiegate in una mano, si sollevava a metà dalla seggiola a bracciuoli, e con un inchino invitava colui a inoltrarsi.

—In che posso servirvi, signore?

—Credo di parlare col notaio La Bella—disse il forestiero.

—Precisamente.

—Ecco una lettera che le spiegherà il motivo della mia venuta.

Sul viso del notaio si scorgeva lo stupore e l'incredulità suscitatigli dalla lettura di quel foglio azzurrognolo che egli teneva a distanza per aiutare gli occhiali a capestro lasciati scivolare fin sulla punta del naso, come ne aveva l'abitudine.

—Sicchè—poi esclamò, posando il foglio sul tavolino e squadrando da capo a piedi il forestiero—voi vorreste acquistare dei terreni, cioè i terreni che di là della strada provinciale salgono verso le colline di Tirantello e il molino del Cucchiaio?

—Tutti.

—Ma sono un mucchio di sassi, buoni soltanto per piantarvi sommaco; io non li vorrei neppure regalati.

—Io, invece, non li chiedo in regalo; li pago in contanti sùbito, quel che valgono e anche più.

—Parlavo per conto mio—si corresse il notaio.—Scusate. Qui suol dirsi:—Ne sa più un pazzo in casa sua, che un savio in casa altrui.—Ed è vero. Giacchè voi li comprate, significa che vi conviene. Tanto meglio. Siete francese, signore?

—Inglese, di Dublino, in Scozia. Ma vivo da vent'anni in Italia, e da dieci corro in su e in giù la Sicilia specialmente, pei sugheri. Voglio bene a quest'isola; voglio diventare siciliano: e compro terreni per speculare. La coltivazione qui è molto indietro. Darò il buon esempio.

—Avete udito, canonico?—disse il notaio volgendosi al prete che ancora discuteva con lo scrivano l'ultima giocata di tressetti interrotta dal forestiero.—Questo signore compra i terreni di Tirantello fino al mulino del Cucchiaio. Vostro fratello il dottore ne ha un bel pezzetto… e i Laureano potranno rimpannucciarsi.

—So che lei è un notaio onesto, una brava persona—lo interruppe l'inglese senza dar tempo di rispondere al canonico avvicinatosi sgranando gli occhi, per veder bene in faccia quel pazzo che aveva denaro da buttar via.—Io mi affido a lei per le pratiche coi proprietarii e pei contratti. Una settimana basterà?

—Se dipendesse soltanto da me, vi sbrigherei oggi stesso—soggiunse il notaio sorridendo.

—Sono all'albergo là in faccia…

—Vi troverete male, caro signore.

—Non importa. Conosco gli usi; mi adatto.

—Se voleste intanto indicarmi meglio i fondi… Da qui dietro, dal
Muraglione, li avremmo tutti sottocchio.

Uscirono insieme, accompagnati dal canonico; infilarono un vicoletto, poi un altro, e sbucarono su la spianata detta del Muraglione perchè un solido muro a calce, specie di bastioncino, impediva che da quella parte il terreno franasse nella vallata sottoposta.

Laggiù lo stradone provinciale tagliava in mezzo la bassa pianura. Poi i campi sassosi salivano a poco a poco in su, con scarsi alberi di ulivo, finchè non si fondevano con le colline stese in lunga fila, irte e brulle, da settentrione a mezzo giorno, e che il sole vicino al tramonto faceva apparire in tutta la loro arida nudità.

L'inglese indicò con la mano la estensione di terreni che avrebbe voluto comprare, se fosse stato possibile.

—Ma i proprietarii saranno felicissimi di sbarazzarsene—disse il notaio.—Non ne cavano tanto da pagare la fondiaria.

—Eh! Chi lo sa?—obbiettò il canonico.—Mio fratello, per esempio…

Il canonico voleva attenuare l'imprudenza delle parole del notaio.
Pensava che l'inglese doveva aver fatto bene i suoi calcoli; ora non
gli sembrava più uomo da buttar via sbadatamente il denaro. Inglese?
Positivo dunque. Non bisognava lasciarsi imbrogliare.

—Mio fratello, per esempio…—ripigliò dopo breve pausa.

—State zitto; non gli parrà vero di levarsi di torno quella grillaia lasciatagli in eredità dalla nonna.

—Eh! Eh! Andiamo!—conchiuse il canonico, tirando una presa di rapè, stizzito della risposta.

L'inglese pareva estasiato davanti alla bellezza del paesaggio. Dietro il dosso ineguale delle colline a destra, in fondo, la Piana di Catania; più in giù, la Piana di Lentini, l'agro Leontino dei Romani allora granaio della repubblica, e che ora non produceva tanto grano da bastare ai bisogni dell'isola. A sinistra, colla cappa di neve tinta in roseo dal sole in tramonto, e col pennacchio di fumo al cratere, l'Etna, modellato come un'enorme mammella posata su l'immenso vassoio della Piana; la tinta rosea delle nevi agevolava l'illusione. Un cielo densamente azzurro, limpidissimo, sorrideva su la stesa dei campi verdeggianti, su la mole del gran vulcano; e la trasparenza straordinaria dell'atmosfera rendeva percettibili i vigneti, i boschi di quercie e di castagni, i paesetti stesi a piè di esso quasi perle sgranate di una collana, luccicanti di qualche vivo riflesso dei vetri delle case, che si distinguevano soltanto come macchie bianchicce tra il verde della rigogliosa vegetazione e il color cupo dei terreni e della lava.

—Ecco don Liddu che viene a cercarvi—disse il notaio.

Il proprietario dell'Albergo del Gallo era andato alla Banca notarile per chiedere gli ordini pel desinare del suo avventore; e lo scrivano lo avea rimandato al Muraglione dove il forestiero doveva trovarsi col principale e col canonico per vedere i terreni.

—Che terreni?—aveva domandato don Liddu.

—Dice che vuol comprare dei terreni, a quel che ho potuto capire.

Don Liddu si era affrettato a raggiungere il forestiero e gli altri, anche per curiosità; e spalancò gli occhi quando il notaio, ridendo, gli disse:

—Se aveste un fondo colà, a Tirantello o al Cucchiaio, ora potreste arricchirvi, don Liddu.

Sapendo che miglior banditore non avrebbe potuto trovare, il notaio lo incaricò di spargere la notizia in paese. Non occorreva.

Prima che annottasse, tutto Settefonti sapeva dell'inglese venuto a comprare Tirantello e il Cucchiaio: e non c'era stato uno che non avesse dato del matto a quel forestiero. Mancavan terreni eccellenti a Settefonti?

—Ma già, gli inglesi hanno tanti quattrini che non sanno che
farsene—aveva sentenziato il Sindaco, appresa la notizia in
Casino.—Peccato che io non possegga un palmo di terreno colà!
Dovrebbe pagarlo a peso d'oro.

II.

Sin dal mattino del giorno dopo, fu una processione di interessati alla Banca del notaio La Bella.

—È dunque vero, notaio?

—Verissimo.

—Io ho mezza salma di terra a Tirantello.

—Io due salme sotto il Cucchiaio.

—Io venderei pure il mulino e il diritto dell'acqua.

—Bravi! A uno a uno.

—Ma bisogna intenderci, notaio!

—Che? Fino a ieri, tu non sapevi che fartene di quelle quattro zolle sassose, e ora nicchi?

—Ah, notaio! Voi tirate per l'inglese.

—Io non tiro per nessuno, ma per la verità, per l'onestà. Dobbiamo spogliarlo perche è inglese? Non è uno sciocco, sappiatelo. E poi, ci sono i periti, c'è il catasto. Dovreste benedire la divina Provvidenza che vi manda costui a questi lumi di luna. Darà lavoro a tutto il paese. Ha intenzioni grandiose. Non è pero uno sciocco, vi ripeto. Se si accorge che volete approfittarvi, è anche capace di andarsene d'onde è venuto. La Sicilia è vasta; e allora vi morderete le mani! Tenetevelo per detto.

—Notaio, fate voscenza.

—Niente affatto; ve la vedrete con lui. Eccolo qua.

Il signor Pietro Kyllea diede una forte scossa di mano al notaio e guardò in viso quella ventina di persone che gli si affollarono attorno, osservandole a una a una, poi domando:

—Sono i proprietari?

—Gran parte. Qualcuno verrà più tardi.

I più premurosi ad accorrere erano stati i contadini, i piccoli possessori, ai quali non sembrava vero di poter vendere terreni ingrati da cui non riuscivano a cavar niente, all'infuori di magri pascoli per le capre e pel bestiame. La inattesa ricerca aveva intanto destato in essi tutte le avidità del povero che vive in continua diffidenza contro il ricco. Nello stesso tempo che si rallegravano della incredibile fortuna loro capitata, volevano ricavarne più che era possibile; quasi la ricerca centuplicasse il valore dei loro terreni, e nascondesse un tranello. Fino allora non si erano accorti di possedere un tesoro. Ora, non avrebbero voluto lasciarselo strappare di mano.

L'inglese si rivolse al notaio:

—Facciamo una nota. Sceglieremo due, tre periti. Se possiamo metterci di accordo senza andar tanto per le lunghe, meglio. Se no, buona notte!

Quel:—Buona notte!—fece ridere.

I contadini si guardarono in viso, per consultarsi. Si vedevano davanti un uomo risoluto che andava per le spiccie e che non intendeva di esser messo nel sacco. Sì, o no, lealmente. Voleva anche pagare qualcosa di più per ingraziarsi la gente che poi doveva, se le fosse piaciuto, lavorare per lui. Ma aveva fretta di concludere. Sì, o no. Non sapeva nemmeno lui perchè avesse scelto quei campi di Settefonti; l'ispirazione gli era venuta attraversando lo stradone, per affari. Aveva pensato:—Tentiamo!—Se sbagliava, peggio per lui.

Questo aveva egli detto, mentre il notaio compilava la nota con lo scrivano, dopo aver interrogato coloro che stavano più vicini al tavolino. I contadini davano le indicazioni e facevano posto a quelli dietro.

—Sarete chiamati uno appresso all'altro.

E tutti erano andati via lentamente, un po' delusi, quasi fossero venuti là con la certezza di riempirsi le tasche di quattrini sùbito sùbito.

Più tardi vennero dal notaio il fratello del canonico e uno dei
Laureano.

—Dunque?

—Se date retta a vostro fratello, perderete la buona fortuna—disse il notaio al dottore.

—Ma io gli cedo quella grillaia anche a metà prezzo—esclamò il dottore.

—Per quel che vale—rispose il notaio.

—E voialtri?

—Noi siamo tre fratelli. Ognuno per sè e Dio per tutti. Io vendo la mia porzione, col terzo di più, se l'inglese la vuole. Prima però, starò a vedere quel che concludono gli altri.

—Santa prudenza!—approvò il La Bella.

—Vi farete d'oro,—soggiunse il dottore.

—Mio fratello, il canonico, ha fatto il conto che stipulerete in una settimana più atti che non nel corso di un intero anno. Beato voi!

—E voi acquisterete un nuovo cliente. Badate di non ammazzarlo sùbito. Rovinereste il paese. A quel che ho potuto capire, questo inglese darà lavoro a tutti.

—O che vuol fare? Mutare i sassi in pane?

—È uomo che se ne intende. Comprerà macchine a vapore, farà…

—Bravo! Macchine? Si vede proprio che se ne intende! Crede di essere in Inghilterra? Qui le vere macchine sono il sole e la pioggia quando Domeneddio la manda giù. I tempi sono cambiati. Prima si diceva:

    Sicilia, isola verde,
    Per tropp'acqua si deperde

Oggi, piove ogni sei mesi, quando piove! Farà la pioggia con le macchine costui? Basta; prenda la mia grillaia di Tirantello, e Dio gliela mandi buona!

Don Liddu raccontava a tutti le meraviglie dell'inglese nell'albergo. Aveva un materasso che si gonfiava come un otre, e due guanciali pure. Biancheria finissima; piatti, posate, bottiglie, bicchieri; tutto chiuso in una valigia. Mangiava come un lupo: un cappone, mezzo tacchino arrosto, e intrugli di minestre in brodo col vino; da selvaggio. E pepe a manate!… Ma pagava come un Dio, senza farselo dire due volte, senza neppure riguardare la nota. Avea voluto una caldaia, non vi essendo altro, per fare il bagno freddo la mattina, appena levato da letto. Vi saltava dentro nudo, vi sguazzava spandendosi l'acqua con le mani su la testa—don Liddu lo aveva osservato dal buco della serratura—e, appena asciugatosi, via come il vento, per la campagna: quattro, cinque miglia, quasi avesse il diavolo in corpo. Come non si buscava una polmonite? E turco, a dirittura! Nè segno di santa croce, nè messa le domeniche. E il Signore lo ha colmato di quattrini, mentre tanti poveri cristiani non hanno neppure un soldo per comprarsi un po' di pane!

—Mi farei turco anch'io, se fossi sicuro di buscarmi i quattrini che ha lui! Dico per dire,—concludeva don Liddu—giacchè con la salute dell'anima non si scherza.

Il notaio aveva condotto l'inglese in Casino, lo aveva presentato ai galantuomini più agiati, al Sindaco, all'Arciprete, all'Agente delle tasse, al Ricevitore, perchè così gli avea consigliato di fare l'amico che glielo aveva presentato con la lettera da cui era stato sbalordito quel giorno.

In casino, il dottor Medulla, fratello del canonico, tentava, con arte, di farlo parlare intorno ai progetti di coltivazione, per scoprire terreno, per vedere se doveva seguire il consiglio di suo fratello, di attendere fino all'ultimo prima di cedere la sua grillaia.

Ma l'inglese era stato parco, molto parco, nelle risposte.

—Non so ancora… È una mia idea, forse sbagliata. Chi non risica non rosica, come si dice in Italia… Si dice anche da noi. Vedremo.

Quel demonio d'inglese, però, sapeva tutto: i prezzi dei terreni, delle derrate, della mano d'opera; che cosa non sapeva?

E giocava a tarocchi da maestro; e al bigliardo aveva una destrezza! Serio serio, dinoccolato, pareva che sonnecchiasse, e teneva intanto gli occhi aperti.

Così, senza far rumore, si era comprato quasi un feudo per quattro soldi; e comperava ancora! Non gli erano bastati Tirantello e il Cucchiaio: l'appetito gli era venuto mangiando. E aveva preso anche i fondi accanto: mezzo Pennino e Santa Barbara, di là delle colline. E domani partiva per l'Inghilterra, quasi andasse a Brancaccio, cioè a quattro miglia da Settefonti, dov'era la rimessa della vettura postale, su lo stradone laggiù!

—Inglesi!—esclamava il sindaco.—Gente che sa fare e non sta mai con le mani in mano, come noialtri!

—E lei, che ha pure tanti quattrini, perchè non ha fatto e non fa?

—Perchè, caro Ricevitore… perchè… Non ne ragioniamo, è meglio!

III.

Due mesi dopo lo avevano visto ricomparire fresco ed asciutto, quasi fosse ritornato da una gitarella di piacere; con dieci o dodici carrettate di cassoni misteriosi, portati dalla stazione di Valsavoia, e messi a dormire in un vasto locale della rimessa postale preso in affitto fino a che egli non avesse potuto provvedere altrimenti.

Di cima al Muraglione, i galantuomini del Casino andavano ad osservare, due, tre volte al giorno, i lavori delle squadre di uomini che laggiù abbattevano siepi di fichi d'India, ammonticchiavano sassi per costruire il gran muro di cinta lungo lo stradone, appianavano rialzi di terreno, sgombravano la linea, tracciata dall'ingegnere, che dal posto dove dovea sorgere il cancello saliva a zigzag fino alla casetta rurale dei Laureano già abbattuta dalle fondamenta per far luogo al Cottèg, come avevano sentito dire che sarebbe chiamata la villa.

E di lassù si distingueva benissimo l'inglese che andava qua e là, dando ordini, sotto l'ombrello cenericcio sempre aperto contro il sole, e sollecitava e dirigeva, instancabile. Poi, verso sera, gli vedevano riprendere la via del paese, cavalcando alla testa dei suoi uomini, al pari di un generale, com'era partito la mattina, all'alba, dopo averli rassegnati (erano quasi un centinaio) e averli disposti in squadre, secondo i diversi lavori a cui venivano addetti.

Gli uomini partivano cantando in coro, con gli strumenti del lavoro in ispalla, marciando alla soldatesca. E come i soldati pel loro capitano, si sarebbero fatti ammazzare per quel padrone che li pagava bene, puntualmente; che li ristorava con buone minestre, con ottimo vino; che li faceva riposare un paio d'ore, quando il sole saettava dal meriggio; non rifiutando mai una persona che gli si fosse presentata per chiedere lavoro; pagando il medico e le medicine, se qualcuno di loro si ammalava.

Nei primi mesi, i galantuomini sorridevano di compassione, crollavano la testa, pensando che la cosa era troppo bella da poter durare. Convenivano però che l'inglese si rivelava più furbo di quel che non sembrasse. Facendo a quel modo, otteneva che i contadini e gli operai lavorassero il doppio quasi senza accorgersi di lavorare. Infatti in meno di due mesi, le grillaie di Tirantello e del Cucchiaio erano quasi irriconoscibili; il muro di cinta, terminato; lo stradone serpeggiava fino a piè della collina; e si vedevano già i fossati delle fondamenta che tracciavano lo scheletro del Cottage.

—E poi?—domandava il canonico Medulla.

—Dice che vuol piantare un vigneto da una parte—rispondeva il sindaco—e un giardino di agrumi dall'altra.

—E l'acqua? D'onde la caverà l'acqua per inaffiare il giardino?

—Ha già fatto cominciare gli scavi. Intanto ha quella del mulino dal Cucchiaio.

—Due gocce! È pazzo da catena costui. Un giorno, abbandonerà baracca e burattini e scapperà coi debiti che ha fatto nelle Banche di Catania; lasciatevelo dire da me!

—Ma sono quattrini suoi quelli che prende dalle banche, quattrini depositati, messi a frutto.

—Fandonie!

—Costui ci darà una bella lezione, signor canonico!

—La lezione la riceverà lui, e di che sorta!

Andare ad affacciarsi dal Muraglione per osservare i lavori dell'inglese, laggiù, era diventato l'occupazione giornaliera dei galantuomini che ordinariamente ozieggiavano in Casino, dicendo male di questo e di quello, ammazzando il tempo con interminabili partite a tarocchi o al bigliardo, o sbadigliando seduti in circolo, su la terrazza che dominava il Largo della Matrice e quasi segregava il Casino dal contatto della gente radunata davanti a la chiesa, le domeniche; contadini la più parte. Le gite al Muraglione formavano un diversivo, davano pretesto a discussioni, a malignità anche; perchè quando noi vediamo fatto da altri quel che, con nostro profitto, avremmo potuto fare e non abbiamo voluto o saputo fare, l'attività altrui ci insinua nell'animo un rancore chiuso; ci sentiamo quasi frodati di quel che ci sarebbe stato facile possedere e che scorgiamo intanto in mano di uno che ci apparisce ora un intruso e fino a ieri compiangevamo o disprezzavamo come illuso o pazzo da legare.

Chi di quei galantuomini si sarebbe mai immaginato che Tirantello, Cucchiaio, Pennino e Santa Barbara, avessero potuto divenire un gran podere modello, trasformati dall'attività di un sol uomo; e coprirsi di vigneti, di giardini di agrumi, con polle di acqua fatte scaturire quasi miracolosamente dalle viscere della terra; con un vasto casamento, con stalle, comode abitazioni pei contadini; con una vita rigogliosa, fiorentissima, regolata come un orologio dall'intelligenza direttrice che aveva saputo operare tale trasformazione, da rendere impossibile a qualunque immaginazione il ricostruirsi la visione di quell'aggregato di grillaie dove poco addietro le capre, i buoi trovavano a stento un po' di erba da brucare?

E c'era voluto meno di tre anni, perchè i viaggiatori che passavano con la vettura postale per lo stradone, mentre davanti la rimessa avveniva il ricambio dei cavalli, si accostassero al cancello meravigliati di scorgere una scena così ridente colà, dove prima non si vedeva altro che miseria e desolazione!

IV.

E appunto tre anni dopo l'arrivo dell'inglese a Settefonti, una bella sera di aprile si erano incontrati al Muraglione, il canonico Medulla e il sindaco con altri galantuomini del Casino.

—Ve lo dicevo, signor canonico? Costui ci darà una bella lezione!

Ma il canonico era fisso più che mai nella sua diffidenza.

—Datemi tempo, cavaliere!

—Tra una settimana avremo la festa della inaugurazione. Siete stato invitato?

—Come tutti gli altri. Io però non mi mescolo con protestanti. Sono pecore rognose, e la rogna è un contagio.

—Ma che c'entra qui la religione?

—C'entra. E ora che vengono le donne, più protestanti di lui… Ha una figlia, lo sapete? Nessuno mi leva di testa che i denari spesi là non siano quattrini della setta. Ne inventano d'ogni sorta per far propaganda.

—O se l'inglese non ha parlato mai di religione!

—Benissimo; è l'arte fina dei protestanti! S'insinuano, s'insinuano… Ecco: mi sembrate già mezzo protestante voi, cavaliere; scusate. Ha fatto rizzare pure una cappella laggiù. Che bisogno ce n'era? Settefonti ha trenta chiese, trenta!

—Anch'io ho la chiesetta a Sabattino, per la messa, quando siamo in villeggiatura—disse uno dei galantuomini, ridendo.

—Ah! Per la messa. Ma, avete sentito dire finora che l'inglese abbia fatto celebrare una sola messa laggiù?

—Se vi chiamasse per celebrarla ogni domenica, non sparlereste.

—Non sparlo io, dico la verità. E, in quanto ai risultati, vi ripeto: Datemi tempo! Eh? Vuole insegnarci a fare il vino? Ma sappiamo farlo meglio di lui, e di uva schietta. Farà degli intrugli e discrediterà i nostri vini costui. Fa burro e formaggi… di latte di vacca! Avete mai sentito dire che si facciano formaggi col latte di vacca? Farà formaggi che inverminiscono in due giorni. Se gli inglesi sono porci, da preferirli al nostro piacentino, al nostro caciocavallo, peggio per loro. Che è mai quel suo burro? L'ho assaggiato; cosa insipida, cosa da medicature, se mai. Oh! Vedremo i suoi olii. Per questo ha comprato Pennino e Santa Barbara, che hanno boschi di ulivi. Strettoi di ferro, o di acciaio, che so io? E la ruggine? Non guasterà gli olii? Don Paolo Conti, che ha voluto provarli questi nuovi famosi strettoi, vi ha rimesso mezzo patrimonio ed è tornato all'uso antico. E poi, chi troppo abbraccia, poco stringe, dice il proverbio.

Il canonico, fatta una dispettosa scappellata, era andato via.

Intanto, laggiù, sotto il sole, la vallata sorrideva, col vigneto, con l'agrumento, con le cascine bianche, con le vacche pascolanti su per le colline ora che e' era da brucare erba fresca sotto gli ulivi di S. Barbara. In cima a una collina, specchieggiavano due grandi vasche d'acqua per l'inaffiatura delle piante di limoni; e, più in là, con la facciata tinta in verde pallido, si vedeva il Cottage a un solo piano, dove sarebbe venuta ad abitare la famiglia dell'inglese, moglie, figlia e una cognata sorella della moglie, con due donne di servizio.

Il Sindaco e gli altri tre erano rimasti a contemplare, muti, quello spettacolo che loro sembrava ancora incredibile, quantunque avessero assistito, quasi giorno per giorno, alla rapida trasformazione.

—Il canonico è una bestia!—aveva poi esclamato il Sindaco.—Ma ci sono a Settefonti un centinaio di bestie uguali a lui. Protestanti! Che me n'importa, se fanno tanto bene? L'inglese è stato una provvidenza per Settefonti. Se c'è chi può lagnarsi, siamo noi proprietari che ci abbiamo visto mancare le braccia dei contadini, e abbiamo dovuto pagarli come li paga lui. Ma ora anche questo guaio cesserà; non occorrono più grandi lavori laggiù. Io non sono spericolato, come il canonico e tant'altri. Il mondo, infine, è di chi se lo piglia. Siamo curiosi noi! Don Liddu, per esempio, si è ingrassato a spese dell'inglese tre anni. Quasi tutto l'Albergo del Gallo era occupato da lui che vi aveva istallato i suoi uffici di amministrazione, lasciando appena una stanza per i forestieri, quando ne capitava uno. Ed ora che vede sfuggirsi questa mammella succhiata tre anni comodamente, Don Liddu piange e si strappa i capelli. Dice che è rovinato, perchè la clientela gli si è sviata, e già Maccarone gli ha preso il posto, con la Locanda della Luna là di faccia, quasi per fargli maggior dispetto. Che pretendeva? Che l'inglese rimanesse eternamente all'albergo? Egli ha laggiù un'abitazione da principe—posso dirvelo io che l'ho visitata—proprio da principe, da farci vergognare delle nostre catapecchie. Dovrebbe vivere con la famiglia all'albergo?… Sarà una bella giornata domenica prossima. Mezzo paese invitato; banda, fuochi d'artifizio. Pranzo per una settantina di persone… Verrà appositamente il cuoco di una gran trattoria da Catania… Alla faccia nostra! Sia! L'inglese, l'altra volta, ce l'ha spiattellato sul viso in Casino:—Potreste fare una Società, mettere insieme i capitali che tenete morti in casa, e chiederne altri al credito bancario, se non bastassero. La Sicilia diventerebbe un giardino; produrrebbe dieci, venti, cento volte più che oggi non dia. Invece, state qui in Casino, a morir d'ozio! Non ha forse ragione?

—Dovrebbe dare l'esempio lei…

—Non ne ragioniamo! È inutile!

Quando si vedeva messo alle strette, il Sindaco se la cavava sempre così:

—È inutile! Non ne ragioniamo!

V.

Le signore Kyllea erano arrivate nel pomeriggio del giovedì, e il Sindaco si era creduto in dovere di farsi trovare davanti al cancello per dar loro il saluto del paese di cui diventavano, più che ospiti, cittadine, e presentar loro tre bei mazzi di fiori. Si era fatto accompagnare da un Assessore e dal dottor Medulla, che aveva suggerito il galante pensiero di quei mazzi.

Appena le carrozze, condotte dal signor Kyllea alla stazione di Valsavoia, comparvero dallo svolto dello stradone, i tre si avviarono ad incontrarle, impacciati dall'idea di doversi presentare a signore che forse non sapevano una parola d'italiano, come essi ignoravano l'inglese. Avrebbe servito da interprete il marito. In ogni caso, si sarebbero fatti intendere coi gesti; e avevano riso anticipatamente della probabile scena muta, che il dottor Medulla, di umore allegro, aveva più volte accennato, facendo ora la parte loro, ora quella delle signore, mentre attendevano davanti al cancello.

Don Pietro—oramai lo chiamavano così—riconosciutili da lontano, aveva sùbito ordinato ai cocchieri di fermare i cavalli.

E la scena era stata assai diversa da quella che il Sindaco e gli altri avevano immaginato. La signora Kyllea rispondeva con un bel "Grazie" un po' gutturale; ma Miss Elsa, parlando col dottor Medulla, si esprimeva in un italiano che conservava appena qualche inflessione di accento straniero. Soltanto la cognata era rimasta zitta, salutando e ringraziando con rigidi cenni del capo. E poichè il Sindaco tornava a ripetere una delle frasi del suo discorsetto anticipatamente preparato per non impappinarsi, Miss Elsa, disse:

—Certamente; vogliamo diventare siciliane anche noi, come il babbo che si è abbronzato al sole di questa incantevole isola, e fin ne parla il dialetto; e cittadine di Settefonti, come ella dice, perchè ormai la nostra vita è legata a questa impresa del babbo, e noi siamo liete che sia così!

Dalla commozione che rendeva un po' tremula la voce, dal sorriso che le scintillava su le labbra e negli occhi, si scorgeva benissimo che la bionda signorina parlava sinceramente.

—Su, montino in carrozza anche loro—disse don Pietro—c'è posto per tutti. Non può immaginare che piacere mi hanno fatto—soggiunse rivolto al Sindaco e all'Assessore, e aiutandoli a salire in quella dove stava la signora Kyllea.—Qui le autorità! Noi, dottore, nell'altro legno.

Il cancello era già aperto, e le tre carrozze presero la salita, a gara, tra allegri scoppi di fruste e tintinnìo di sonagli.

Lassù, su la spianata davanti al Cottage, don Liddu, (aveva smesso l'albergo per diventare il factotum dell'inglese), che il segno degli evviva a una ventina di contadini schierati in due file davanti a la porta, e miss Elsa saltò giù dalla carrozza, esclamando:

—Voglio essere la prima a prender possesso!

Voscenza benedica!—le disse don Liddu. E le baciò la mano, quantunque miss Elsa tentasse di schivare l'omaggio.

Più tardi, a sera avanzata, preso il babbo sotto braccio, ella lo aveva trascinato fuori, per godere quello splendore di plenilunio che inondava la vallata.

Settefonti si rizzava là di faccia, su la collina, con una povera cinta di casupole lungo il Muraglione. La cima di un campanile sormontava le case; poi, di qua e di là, su la cresta, gli ulivi frastagliavano strane figure sul fondo del cielo d'un azzurro argentato, sparso di rare nuvolette, dietro alle quali tremolavano smorte le stelle vinte dal lume lunare. Un gran stormire di fronde si levava di tratto in tratto, simile a respiro della vallata. Laggiù, per lo stradone, si udiva il rumore dei carri che passavano lentamente; e, vicino, a sinistra, il chiocchiolìo dell'acqua che cascava dai canali nelle vasche, monotona, ininterrotta.—Che delizia!—esclamò miss Elsa, stringendo affettuosamente il braccio del babbo.

—Qui saremo felici! Restiamo fuori ancora un po'. Non sono stanca, non ho sonno… A che pensi, babbo?—domandò, vedendo che questi taceva.

—Penso—egli rispose—che non so se ho fatto bene, impiegando qui tutta la nostra fortuna. La terra è infida, quanto il mare, specie quaggiù.

—E ti senti scoraggiato in questo momento?—lo rimproverò la figlia.—Ora che noi siamo qui?

—Tu hai detto:—Qui saremo felici!—E le tue parole mi hanno turbato.

—Perchè?

—Perchè ora soltanto mi è parso di intendere che tu sarai sempre una straniera in questi luoghi, tu principalmente.

—Oh, babbo!…

S'interruppe, per ascoltare.

—Che significa questo suono di campana?—domandò.

—Due ore di notte. È il coprifoco di Settefonti. Fra mezz'ora, lassù, dormiranno tutti.

Il rintocco argentino si sperdeva per la vallata, confuso con lo stormire delle fronde che ora riprendeva con più lunghi intervalli, quasi la vallata si addormentasse anch'essa come quei di lassù, a Settefonti, invitata dai rintocchi squillanti che venivano rallentandosi e poi cessavano a un tratto.

VI.

Il canonico Medulla amava di star zitto giocando a tressetti; ma il notaio La Bella lo provocava.

—Non me ne parlate, notaio!… Busso!… Vi dico che è affare di propaganda!…

—Fanno tanta carità!

—Carità pelosa. E vi sembra decente che una signorina vada e venga sola da laggiù in paese e viceversa?… Striscio!…

—Visita gli ammalati poveri, regala medicine…

—Che medicine? Le pillolette omeopatiche le chiamate medicine?… Infine, è forse medichessa costei? Stupido, imbecille il sindaco, e più imbecille e più stupido mio fratello il dottore, che non le intentano un processo!… Dobbiamo giocare, sì o no?… Io parlo da sacerdote cattolico. E anche da persona che bada agli interessi di tutti… Ecco, con questi discorsi, mi fate fare delle bestialità! Smettiamo! È meglio!… Vinco sei soldi.

E il canonico, buttate sul tavolino le carte, si levò da sedere per rimettersi il mantello e il cappello a tre punte posati sur una seggiola in un angolo.

—Voi ridete, notaio!—egli riprese intanto che annodava i due nastri neri attaccati al collare del mantello.—Ma il veleno protestante già lavora. Volete scommettere che presto sentiremo parlare di un matrimonio tra la inglesina e il figlio del Sindaco?

—Che male ci sarebbe? La ragazza è bella, è giovane, è ricca…

—Tutti gli sciocchi, scusate, ragionano come voi. E il cattivo esempio lo contate per nulla? Sposare una protestante!

—Come se i protestanti fossero diavoli!

—Peggio! Voi non capite niente; siete con gli occhi chiusi.

—Io veggo che fanno molte opere che noi cattolici non facciamo.

—Lustre! Lustre! Intanto l'inglese è venuto a prendersi i nostri migliori terreni… Fa la concorrenza ai nostri vini, ai nostri olii, ai nostri agrumi… Si arricchisce alle nostre spalle! Ve lo dicevo cinque anni fa? Sono stato profeta?

—Dicevate anzi il contrario! Le grillaie! Se le ha ridotte un paradiso, è tutto merito suo. Perchè non le avete comprate voi, o il Sindaco, o il Barone Lo Gatto, voialtri che tenete i quattrini sotto chiave? Domineddio dovrebbe farveli muffire!

—Io sono sacerdote; non posso fare il contadino, lo speculatore…

—Voi; ma gli altri?

—Non voglio entrare nei fatti altrui… Vinco sei soldi, non quattro.

—E due di cui sono in credito dell'altra volta…

—Fanno sei, avete ragione!

Lupus in fabula—esclamò il notaio.—Ecco l'inglesina.

E dalla soglia della Banca, la salutò cavandosi il cappello.

Miss Elsa questa volta non era sola. L'accompagnava don Liddu con due paniere infilate pel manico alle braccia. Vestita semplicemente, con abito cinericcio che ne modellava la svelta personcina, cappelline di paglia alla canottiera ornato da largo nastro azzurro, borsa di cuoio bianco in una mano, ella rispose, sorridendo, al saluto del notaio, fece un gesto con la mano libera per accennare che tra poco sarebbe passata da lui, e infilò il vicolo di rimpetto.

—Va da una povera donna che le ho raccomandata io. Vedova, malata da tre mesi, con quattro bambini nudi e scalzi che periscono di fame…

—E voi date cinque anime in balia d'una protestante, perchè le trascini all'inferno?—sbuffò il canonico.

—Vi ho chiesto mezza lira per quella disgraziata e non avete voluto mai darmela!

—Ma io faccio la carità come so e posso; non debbo vantarmene con voi. Gesù Cristo ha detto:—La tua destra non sappia quel che opera la sinistra.—Costei, invece, va attorno con don Liddu che porta i panieri delle provviste, per far sapere a tutti la sua gran carità! Pretesti! Pretesti!

—È un caso, se oggi c'è don Liddu con lei.

—Pretesti!… Guardate là, intanto, il bamboccio del figlio del Sindaco che le ronza attorno, che spesso l'accompagna fino a mezza strada e anche fino al cancello laggiù. Vi pare bello? Vi pare onesto? Una zitella con un giovanotto! È uno scandalo per le ragazze del paese… Egli l'attende al passaggio. Già, costui non ha niente da perdere; è ateo. Se ne vantava l'altra sera in Casino… E suo padre, che è più bamboccio di lui, non lo ha preso a schiaffi… Ecco dove ci ha condotti il vostro liberalismo!…

—È studente; all'università non s'insegna teologia!

—S'insegnava una volta; e a nessuno era permesso spacciare dalla cattedra che Dio non esiste! Per questo si sono sùbito intesi bene la signorina e lo studente. E finirà… come deve finire. Tanto peggio per lei!

—Ah! su questo punto…—replicò il notaio con impeto.—Se la conosceste da vicino! È più assennata di una vecchia. Parla senza ipocrisie, ma con dignitoso contegno. Si rimane a bocca aperta udendola ragionare. E quante cose sa? E quante cose sa fare! Musica, canto, pittura. E non dico delle faccende di casa! Bada a tutto, alla cucina, al pollaio, ai fiori. Trova tempo per tutto, per la carità soprattutto. Le vostre nepoti, lasciatemelo dire, che fanno? La calza, il cucito, e sanno appena leggere e scrivere… E poi, al balcone da mattina a sera. Non dico che sia male tentar di acchiappare un marito; è cosi difficile al giorno d'oggi!

—È un'altra cosa! È un'altra cosa!

—Restate qui… Perchè non cercate di convertirla? Fareste il vostro dovere—disse il notaio con un che di malizia.

Induritum est cor Pharaonis!

—Che ne sapete? È così buona! Sarebbe un trionfo per voi.

Ma il canonico scappò lestamente, vedendo spuntare dal vicolo miss
Elsa con don Liddu.

VII.

Come il canonico aveva previsto, il figlio del Sindaco (non lo chiamavano altrimenti, quasi il nome di Paolo Jenco fosse stato più lungo a pronunziare) si era accostato a miss Elsa appena ella aveva fatto pochi passi nella piazzetta.

—Ah! Non è partito?—esclamò meravigliata, porgendogli la mano.

—Fortunatamente, no, signorina!

—Volevo dire: Come mai non è partito?

—Indugerò ancora un'altra settimana. Sarei venuto al cottage a congedarmi.

—Don Liddu, voi potete andarvene—disse miss Elsa.—Mi fermerò un po' dal notaio.

Don Liddu esitò un istante.

—Oh, non abbiate paura!—soggiunse la signorina che aveva capito.—Avrò un cavaliere, caso mai… Don Liddu non sa ancora capacitarsi che una signorina possa permettersi di fare qualche miglio per la campagna, sola sola…—ella continuò rivolgendosi al giovane.

E rideva.

—E se suo papà mi domandasse…—disse don Liddu per scusarsi.

—Non vi domanderà niente—rispose miss Elsa.—Mio padre vuol saperlo soltanto da me quel che faccio o non faccio. Non ho segreti per lui.

—Voscenza ha ragione!

—Povero don Liddu! Va via mortificato—disse Paolo Jenco, senza nascondere il piacere che sentiva di poter accompagnare miss Elsa.

Ella si avviò lesta e sorridente verso la Banca notarile, seguita dal giovane che la guardava ammirandola in silenzio.

—Cara signorina, io la ringrazio—disse il notaio La Bella venendole incontro.

—Debbo ringraziarla io invece—rispose miss Elsa.—Ma non vi è un ospedale qui? Quella poveretta è malata gravemente; a casa manca di tutto; non ha chi l'assista. I suoi figliuoli sono troppo bambini.

—Sì, l'ospedale c'è; nessuno però vuole andarvi, neppure i più miserabili. Credono che medici e infermieri li lascino morire, per sbarazzarsene; ed è pregiudizio invincibile. Forse interamente non hanno torto. Quell'amministrazione è un caos!

—Ne parlerò a suo padre che è il Sindaco—disse miss Elsa.

—Inutilmente—rispose il giovane.—Bisognerebbe portar là i malati con la forza. Sarebbe peggio.

—O persuaderli col curarli bene.

—È inutile—replicò il notaio.

—Possibile? Dio mio!

Il viso di miss Elsa si atteggiò a un doloroso stupore che la rendeva più bella.

—Il male di qui, di voialtri tutti—ella riprese—è questa rassegnazione mussulmana. Dite:—È inutile!—e non operate, non vi sforzate a vincere quel che vi sembra fatalità.

—È proprio così!—approvò il notaio.

—Eppure in molte altre cose avete tanta energia!

—Nel male—disse Paolo Jenco.

—Non è vero. Nel lavoro, per esempio, il vostro contadino è ammirabile. Così parco, così ubbidiente, quando è guidato bene! Così buono, quando non si vede maltrattato! I signori qui non capiscono che non dovrebbero comportarsi coi contadini come con schiavi da sfruttare. Mio padre dice che i contadini siciliani non hanno uguali.

—Li ha un po' viziati suo padre. Lo pensano tutti in paese.

—Ed io aggiungo—fece il notaio—che non gli sono molto grati.

—Sono ignoranti; è forse per questo. Ma non è colpa loro.

—E noi galantuomini siamo peggio. Certe volte, io mi vergogno di essere siciliano!

—Eccede!—lo ammonì miss Elsa.

Paolo Jenco scosse la testa, negando.—Riconoscere i propri difetti è già un bel passo—ella riprese.—Ma non basta. Lei che è giovane può far molto. Dia l'esempio di una vita nuova.

—Io? Ma io non posso niente. Mio padre non mi permette nessun'iniziativa. Ho ventitrè anni e mi stima ancora un bambino. Quando ne avrò quaranta, sarà lo stesso. La patria potestà è terribile tra noi, come presso gli antichi romani. Ribellarsi ad essa è atto pazzo quasi quanto sbattere la testa contro una parete di bronzo.

—È vero! È vero!—confermò il notaio.

—Educati a questo modo—riprese Paolo Jenco—noi perdiamo ogni energia. E quando, troppo tardi, siamo liberi di fare a modo nostro, continuiamo la tradizione. Ripetiamo, precisamente, quel che è stato fatto con noi. Ci vorranno secoli per mutarci.

—I secoli passano presto—disse miss Elsa, sorridendo.

Un ragazzino, coperto malamente da quattro stracci, si era avvicinato e stava ad ascoltare con le mani dietro alla schiena, gli occhi neri spalancati, intenti alla bella signorina, che l'osservava di sfuggita—se n'era accorto—e che parlava una lingua di cui egli capiva soltanto poche frasi.

—Vuoi venire, laggiù, da me? Ti farò il ritratto—gli disse miss Elsa.—Bel tipo arabo!—soggiunse rivolta a Paolo, senza attendere la risposta del ragazzino—Vuoi venire?

—Quando?—egli domandò.

—Domattina.

—Che ne farò del ritratto?

—Quello lo terrò io; ti regalerò un vestito; la tua mamma te lo adatterà. Hai la mamma?

—No.

—È morta?

—Chi lo sa?

—Sua madre è in carcere, per falsa testimonianza—spiegò il dottore vedendo lo stupore di miss Elsa a quella risposta.

—Poverino! Hai il padre però.

—È in prigione anche lui, per omicidio, e non ne uscirà vivo probabilmente—soggiunse il notaio.

—E gli altri parenti? domandò miss Elsa.

—Non ho nessuno—rispose il ragazzo.

—Come vivi?

—Cara signorina,—disse il notaio—ci vuol così poco per vivere nella sua condizione e alla sua età!

—Perchè non lo mettono in un asilo di orfani? Può essere calcolato per tale. Qualcuno dovrebbe occuparsene.

—Ma ce n'è venti, trenta, cinquanta nello stesso caso! Che vuol provvedere? Mancano i mezzi.

—Verrai domattina?—tornò a domandargli miss Elsa con voce intenerita dalla commozione.

—Eccellenza, sì.

—Perchè ti sei accostato a noi? Chi t'ha detto:—Va'ad ascoltare quel che dicono?

Afferrato improvvisamente per un braccio e colto alla sprovveduta da questa domanda di Paolo, il ragazzo si smarrì, e balbettò:

—Me l'ha detto… me l'ha detto… Nessuno me l'ha detto—poi si corresse, accigliato.

—Chi te l'ha detto, sì? Non esser bugiardo

—Il dottor Medulla…—confessò il ragazzo piagnucolando sotto la forte stretta della mano che lo aveva agguantato.

—Oh!—esclamò miss Elsa, indignata.—E perchè?

—Per niente signorina; perchè quel signore non ha altro da fare… e perchè…

—Il perchè lo so io, notaio—lo interruppe Paolo Jenco che si mordeva le labbra, fremente.

—Adoprare un ragazzino per un atto così vile!… Non avrei mai creduto che il dottor Medulla fosse capace di questo!

—È un imbecille presuntuoso e vigliacco!

—Non si arrabbi, signor Jenco!—disse miss Elsa aggiungendo alla gentilezza delle parole la dolcezza d'uno sguardo che pregava.

—Senti,—proseguì Paolo—va' a rapportargli: Don Paolino diceva che voscenza è un buffone.

—No,—intervenne il notaio.—Non gli dirai niente. Sarebbe troppa soddisfazione per quel pettegolo. E vi andrebbe di mezzo la signorina. Non gli dirai niente, hai capito?—continuò rivolto al ragazzo—se no, ti darò quattro scoppole e quattro calci io.

—Niente, eccellenza, sì; niente! Bella Madre Santissima!

—E domani andrai laggiù, dalla signorina Ti darà il vestito.

—Eccellenza, sì!

—Far fare la spia a un ragazzo!… Ma perchè?… Oh!

Il dolce viso di miss Elsa era diventato così severo e le sue rosee labbra si erano così scolorite, che il notaio sentì pietà di lei e stringendole una mano la confortava:

—Signorina, il mondo è cattivo!

VIII.

Scendevano, silenziosi, per lo stradone; miss Elsa con gli occhi bassi e le ciglia un po' corrugate, quasi facesse un insolito sforzo di riflessione; Paolo Jenco mordendosi le labbra, con gli sguardi ancora lampeggianti di sdegno, che però si addolcivano di tratto in tratto, quando li rivolgeva a osservare la signorina, quantunque il silenzio e l'atteggiamento di lei lo rendessero perplesso nel risolversi a dirle quel che gli tumultuava nel cuore.

Improvvisamente miss Elsa rizzò il capo, spalancò gli occhi ed esclamò soddisfatta:

—Ho capito!

—Che cosa?—domandò Paolo maravigliato.

—Il segreto di mio padre.

—Ha un segreto anche per lei?

—Non sapevo spiegarmi per quale ragione, da quasi un anno, noi viviamo proprio isolati laggiù a Villa Elsa, evitati, dovrei dire.

—Oh!… Miss Elsa!

—Da principio non è stato così. Fin alcune signore di Settefonti si benignavano di farci qualche visita, di accettare i nostri inviti. Ricorda che belle giornate di intima allegria? E che serate, quando quei signori, partivano di là a notte alta, al lume di luna? Io rimanevo su la terrazza del Cottage per vederli salire verso il paesetto, a piccole brigate di tre, di quattro persone; per rispondere ai loro saluti da lontano, che risonavano limpidissimi per la vallata; per ascoltare i violini, i flauti, le chitarre e gli strumenti di ottone che chiudevano la marcia e si affievolivano, si affievolivano, quasi la fatica della ripida salita smorzasse il fiato ai suonatori venuti sul tardi a far la serenata agli invitati ed a noi… Poi, a poco a poco, le visite diradarono, e gli invitati risposero scuse che avevano l'aria di pretesti per non accettare. E anche mio padre diradò le sue gite a Settefonti, che servivano, soleva dire, a sgranchirgli le gambe. Fedeli sono rimasti lei, suo padre, il notaio e… il dottor Medulla.

—Non lo nomini neppure!

—E ogni volta che io ho domandato a mio padre:—Ma perchè?—mio padre si è fatto un po' scuro in viso e mi ha risposto con apparente noncuranza:—Paese che vai, usanza che trovi!—Brutta usanza!—pensavo. Ora, dopo quel che è accaduto poco fa col ragazzino… Che abbiamo fatto di male mio padre, mia madre, la zia, io?… E perchè mio padre non è più chiamato, come una volta: il Benefattore?

—Perchè il mondo è cattivo, gliel'ha detto il notaio.

—È stato ed è davvero un benefattore; posso proclamarlo con orgoglio.

—Appunto per ciò!… E fossero soltanto essi cattivi ed ingrati! Ma costringono ad essere o ad apparir tali anche gli altri, perchè non tutti abbiamo la forza e il coraggio di ribellarci a un pregiudizio, di opporci a un'ingiustizia… Io, che lei stima meno cattivo di parecchi, io sono un vigliacco… me lo lasci dire; un vigliacco! Mio padre è peggio di me, perchè la vigliaccheria gli sembra prudenza. Deve averlo notato: in questi ultimi mesi, egli è venuto soltanto due volte laggiù. Io ho osato di venire, di accompagnarla spesso, ma non ho mai saputo osare…

Si fermò, torcendosi le mani, alzando rabbiosamente gli occhi al cielo, con tale espressione di dolore che anche miss Elsa, voltatasi a guardarlo, non potè far a meno di fermarsi, lievemente arrossita in viso; la reticenza l'aveva turbata.

—Paese che vai, usanza che trovi!—ella disse sorridendo con lieve espressione di tristezza.

—E poi—riprese Paolo, quasi non avesse udito quelle parole…—se anche avessi saputo osare… che cosa avrei conchiuso?

—Bisogna essere sinceri, per restare onesti,—mormorò miss Elsa.

—Bisogna, in certe circostanze darsi un bel colpo di pistola a una tempia!

—Sarebbe vero dunque che lei non crede in Dio, lei?—domandò miss
Elsa con dolcissimo accento di compassione e di rimprovero.

—Se Dio esistesse, non permetterebbe tante infamie!

—Oh, no, signor Paolo, non parli così! Del bene e del male che facciamo siamo responsabili noi.

—E di quello che ci costringono a fare gli altri?

—Nessuno può costringerci a fare il male.

—Non tutti siamo santi o eroi.

—Basta essere uomini di retto cuore.

Ora scendevano lentamente. Lo stradone in quel punto tagliava una collina, s'inoltrava tra due alte sponde che formavano rampe coperte di erbe selvatiche tutte in fiore. Cardi rizzavano spinosi steli coronati da ciuffi azzurri, violetti, gialli; pianticine rampicanti con fiori rossi a stelline, sembravano cosparse di macchie di sangue cascate sul verde delle foglie; arbusti con rami sottili, quasi delicate braccia di strani candelabri a cui fossero attaccate rigide lamette verdi, spiccavano con mucchi di chioccioline aggrappatevi attorno, e si sarebbero detti carichi di bacche biancastre.

—Ecco come siete voialtri!—disse miss Elsa, che si era fermata ad ammirare.—Una fioritura bella, ma selvaggia, ma…

—Inutile o nociva… Ha ritegno di dirlo?

—Nociva, no; quelle piante usurpano il terreno, impediscono che le rampe scoscendano, quando piove troppo, e ingombrino lo stradone.

—Lei vuol sviare il discorso!—esclamò Paolo.

—Non posso farle dire quel che non vuol dire.

—Mi perdonerà, se parlo?

—Non dirà certamente nulla che non dovrei udire.

—Io l'amo! Io sono pazzo di lei!…

E il giovane, pronunziate queste parole con voce soffocata dalla grande commozione, nascose la faccia tra le mani, quasi avesse paura di scorgere l'impressione che esse dovevano aver fatto su colei alla quale erano indirizzate.

—Pazzo?—rispose miss Elsa con voce un po' velata.—Eh, via! Lei esagera, alla siciliana… Ma che mi volesse bene, io lo so da un pezzo; attendevo che me lo confessasse; cominciavo a dubitarne…

Paolo si slanciò a prenderla per una mano. Si sentiva davvero impazzire, ma di gioia, di felicità… E portò alle labbra la mano bianca e fine che miss Elsa gli cedeva abbandonatamente.

Dietro alcune piante di fichi d'India si udì uno scoppio di risa. Paolo, voltatosi sdegnosamente verso quel punto, vide sparire a un tratto, tra le grosse e spinose foglie dei fichi d'India, la testa del contadino che si era accorto di quel bacio e aveva maliziosamente riso… Impallidì e rimase impietrito.

—Come sono disgraziato!—esclamò dopo un istante.

—Perchè?

—Ci hanno visto!

—Non abbiamo fatto niente di male.

—Ah! Ora costui andrà a spargere in paese…

—Che importa?

—M'importa per lei, non per me.

—Ma io le darei a baciare la mano al cospetto di tutti. Sì—ella soggiunse dopo breve pausa—lei ha ragione! Sciocca sono io, che non so ancora abituarmi al vostro modo di vivere e di pensare. Come siamo distanti! Io le ho espresso francamente, schiettamente quel che sento e penso. Perchè avrei dovuto esitare, mentire? E così non le nascondo che sono lieta di esser certa finalmente che non mi sono ingannata.

—Grazie, Elsa!.. Mi permette di darle del tu?

—Volentieri. Non siamo fidanzati sin da questo momento?… Oh!… Ora ho paura di sembrarti sfacciata.

—No, Elsa, no!…

—Che pensi?

—Vorrei inseguire, raggiungere colui che ha riso, avvertirlo, minacciarlo perchè taccia…

—Faresti peggio. Per chi dobbiamo nasconderci? Appena arrivata al cottage, io dirò ai miei parenti…

—Ti prego, Elsa; attendi qualche poco prima di far questo.

—Ma io soffrirei se dovessi nascondere a mio padre e alla mamma…

—Attendi un altro po'! Mio padre… Ebbene, mi ribellerò; non sono più sotto tutela!

Miss Elsa, appena essi furono usciti dalla gola dello stradone, si era appoggiata a un palo del telegrafo per lasciar passare due carri che salivano lentamente verso Settefonti; Paolo aveva pronunciato sotto voce la sua frase di ribellione; e la bionda creatura, già diventata triste e pensosa alla preghiera di attendere prima di parlare del loro fidanzamento ai suoi parenti, lo fissò quasi atterrita…

—Ha fatto male—ella disse dolcemente, con grande tristezza.—Non avrebbe dovuto parlare oggi… Saremo fidanzati più tardi, se potremo esser tali. Per ora non ha nessun impegno, non ha nessun dovere di ribellarsi contro suo padre. Dio mio! Perchè ha parlato?… Mi lasci andar sola. Non le dico addio, ma a rivederci.. Non vorrei esser cagione di dolore a nessuno!… Il mio cuore, Paolo, non dubiti, non cambierà in niente per questo… A rivederci!

E vedendola andar via, con passi affrettati, e poi sparire dietro la siepe d'agavi americane che cingevano da una parte la svoltata dello stradone, Paolo credette che la sua felicità si allontanasse e sparisse per sempre. Non era durata neppure mezz'ora!

IX.

Miss Elsa, trovò tutti i suoi su la spianata assieme con l'ingegnere loro ospite, venuto da Catania per esplorare le colline nel punto dove gemeva una fontanella che il signor Kyllea sospettava potesse essere indizio di una gran polla d'acqua.

Egli aveva praticato degli scavi, ma inutilmente; la sottile vena si era accresciuta di poco. Don Liddu però gli assicurava di aver sentito dire da suo nonno che colà c'era stata, tempo fa, gran tempo fa, molt'acqua che serviva a irrigare i terreni piantati a orto: poi, dopo il terremoto del 1793, la polla era scomparsa a un tratto. Un altro terremoto, nel 1821, l'aveva fatta ricomparire come si trovava al presente. E il signor Kyllea s'era messo in testa di ricercare e ritrovare proprio l'antica vena abbondante; sarebbe stata una benedizione, ora che la siccità si era ridotta fenomeno ordinario in Sicilia.

Dopo i tentativi poco fruttuosi fatti l'anno avanti, egli aveva pensato di ricorrere alla scienza di un ingegnere che godeva fama di valentissimo in lavori di tal genere; e appunto in quel giorno miss Elsa trovava il cottage in festa. L'acqua era stata finalmente scoperta, e dalla terrazza si poteva veder scendere giù, in un bel rivolo serpeggiante che anneriva il terreno per dove passava. Gli operai lavoravano ancora a sgombrare il profondo scavo praticato lassù. Il signor Kyllea volendo mostrare alla figlia il bel risultato, l'aveva condotta su la terrazza. Egli era gongolante di gioia.

—Anche questa mi è riuscita! Quando lo sapranno a Settefonti!…

E si meravigliò che sua figlia manifestasse poca soddisfazione e nessuna gioia per un avvenimento che elevava straordinariamente il valore dei loro terreni.

—Ma sì, babbo, sono contenta perchè tu sei contento…

E gli cinse il collo con le braccia e lo baciò.

Anche dalla signora Kyllea e dall'ingegnere fu notato che miss Elsa non era del solito buon umore.

—Ho un po' di mal di capo… Forse ho fatto la strada troppo in fretta…

Era la prima volta che le accadeva di non essere sincera coi suoi. E quando, dopo cena, si ritirò nella sua camera, quella piccola bugia prese davanti ai suoi occhi tali proporzioni che ella ne fu sgomentata, quasi fosse sul punto di diventare una gran mentitrice, un animo falso, capace di ingannare coloro che più le volevano bene.

In quella solitudine, l'assiduità della vista di Paolo Jenco le era riuscita dapprima attraente—giovinezza ama giovinezza—poi interessante pel carattere di lui così schiettamente siciliano e per l'ingegno e la cultura. Con lui, ella poteva parlare di letteratura e di arte senza timore di vedergli sgranare gli occhi come al dottor Medulla, assiduo anche esso, ma vanitoso, pretenzioso, e che sùbito aveva mostrato le orecchie, cioè si era palesato caldo corteggiatore, mettendo in tutti i suoi atti l'evidente intenzione di dar nell'occhio e scoraggiare il sospettato rivale, Paolo Jenco.

Una volta anzi, tentato di porlo in ridicolo, aveva dovuto pentirsene. Improvvisamente punto sul vivo, Paolo era scattato rispondendogli per le rime; e quella volta miss Elsa non nascose il piacere da lei sentito per la disfatta del presuntuoso ignorante.

Così, a poco a poco, nel suo spirito calmo, nel suo cuore tranquillo, la figura di Paolo Jenco si era insinuata carezzevolmente, senza che la bella inglesina si accorgesse del lavorìo di suggestione che vi veniva prodotto. E quando se n'accorse, in uno di quegli esami di coscienza che era abituata a fare di tanto in tanto con grande severità verso sè stessa, non se ne meravigliò, nè se ne dispiacque.

Si sentiva, s'indovinava voluta bene, con rispettosa gentilezza; e prevedeva che questo sentimento si sarebbe potuto trasformare in amore, se a lei fosse piaciuto d'incoraggiarlo, di alimentarlo dignitosamente, senza ipocrisia e senza calcolo. Si lasciò sedurre dal dolce incanto; o, meglio, scoprì che era già stata sedotta prima di agire riflessivamente. Ormai suo padre diceva spesso:

—Noi siamo già siciliani; questi terreni che la mia cultura ha reso fecondi, ci hanno fatto diventare altrettanti alberi umani, e vi abbiamo posto fonde radici, come le viti e come le piante di aranci e di limoni.

E, scherzando, soleva aggiungere rivolto alla figlia:

—Tu sei l'olivo specioso, tua madre la vite… e mia sorella… l'opunzia indica spinosa!

Ella infatti, cresceva bella e sana sotto quel cielo così limpido, tra quella vegetazione così rigogliosa. Metteva visibile impegno nel rendere vere le parole del padre, apprendendo a parlare il dialetto e sforzandosi di pronunciarlo col minor accento straniero possibile. La sua intimità con Paolo infatti si era aumentata, facendo con lui pratici esercizi dialettali, cosa che anche la divertiva quando ella non arrivava a sormontare la difficoltà di certi suoni di consonanti che la sua gola non si prestava a rendere facilmente.

E come sorrideva, orgogliosa, allorchè il maestro improvvisato poteva dirle:

—Brava!… Lei vuol dunque diventare siciliana a dirittura?

—Non mi aduli!

Così era passato un anno; così la solitudine del cottage le si era popolata di dolci fantasmi, senza che ella sentisse il bisogno di accertarsi se essi non erano un'illusione cagionata dalla sua giovine fantasia, o riflessi di una realtà intraveduta da occhio vigile e accorto, e che equivalevano a una certezza.

Non lo avea nascosto a Paolo. Perchè avrebbe dovuto nasconderglielo? Nè se ne pentiva ora che all'improvviso le si era rivelata la verità intorno alla sua triste situazione. Lei e i suoi si trovavano colà più stranieri di quando vi erano arrivati; suo padre, il benefattore, veniva già stimato un invasore, un intruso, uno sfruttatore della miseria di coloro a cui egli aveva pagato, più che realmente non valessero, i terreni acquistati; di coloro a cui aveva dato, per parecchi anni, modo di guadagnar da vivere onestamente, dignitosamente, con mercedi che erano servite di esempio, di paragone e che gli altri proprietari avean dovuto adottare; di coloro a cui aveva mostrato, con la pratica, in che maniera potevano rendere più fecondo il meraviglioso suolo da loro posseduto e lasciato quasi in abbandono. Ed erano appunto questi—i proprietari, i galantuomini—che aizzavano gli odii, che spargevano attorno la diffidenza; invidiosi, maligni e anche ciechi, perchè non s'accorgevano di fare il loro male agendo in quel modo. Ne aveva parlato, il giorno dopo, con suo padre, strappandogli quasi per forza una confessione di quel triste stato di cose.

Il signor Kyllea non era indignato, nè scoraggiato: aveva voluto nascondere, alle sue donne la verità per non affliggerle e per non atterrirle; giacchè la signora Kyllea e la cognata avevano la mente piena di pregiudizi intorno ai siciliani, ed erano quasi stupite di non aver visto finora invadere Villa Elsa da briganti con tromboni e cappelli a cono ornati di penne di gallo, come li immaginavano vestiti, ricordando certi disegni di giornali, di Magazzini, di riviste.

—Accade così per tutto, quando qualcuno sposta interessi, crea nuove risorse. Lotta lunga, ostinata, violenta; ma si finisce sempre con vincere!—aveva soggiunto il signor Kyllea.—Come non vincere, se si hanno alleati di questa forza?

A miss Elsa parve che suo padre dicesse queste cose con sottile accento di affettuosa malizia, e arrossì.

—Oh!—rispose—Certi alleati talvolta possono nuocere più che giovare!

Ma suo padre non le badò; scrollò il capo sorridendo, poi, tornato serio, disse:

—Gli alleati, per lo meno, debbono essere prudenti, e non far sapere ad altri…

E questo divieto aggiunse un senso di sgomento alla profonda impressione prodotta dalle rivelazioni di lui.

Ella stava per dirgli:

—Senti, babbo!…

La confessione di quel che era avvenuto tra lei e Paolo quella mattina, le tremava da un pezzo su le labbra, impaziente, quasi sospinta dal rimorso di essere stata taciuta parecchi giorni. Ma, appunto in quel momento, dopo le tristi cose accennate dal padre, le parve che la dichiarazione di Paolo, e il loro fidanzamento di un istante fossero stati un sogno, nient'altro che un sogno. E si trattenne, stringendo le labbra, quasi ringhiottendo le parole che le fremevano nella gola.

Disse soltanto, e con energia:

—Vinceremo, babbo!

X.

Spuntava appena l'alba. Il signor Kyllea, che aveva l'abitudine di alzarsi di buon'ora, era uscito su la terrazza a fumare e a respirare un po' d'aria libera prima di prendere il bagno freddo. Intanto, passeggiando su e giù, faceva i suoi esercizi respiratorii turando con un dito una delle narici, aspirando forte e respirando a bocca chiusa; turandosi l'altra narice e riprendendo ad aspirare e a respirare a bocca chiusa. Si fermava, girava turbinosamente, col pugno stretto, fino a stancarsi, ora il braccio destro, ora il sinistro, dando calci all'aria avanti e indietro con la gamba sinistra quando era in moto il braccio destro, con la gamba destra quando era in moto il sinistro…

A detta di lui, non c'era miglior mezzo per mantenersi sano e forte; gliel'aveva insegnato un medico indiano, di Calcutta, incontrato sul piroscafo durante un viaggio, dieci anni addietro.

Ed egli, che soleva fare coscienziosamente, ogni cosa, era tutto intento a questi esercizi, quando gli parve di udire strani rumori, lassù, su la collina dirimpetto e intravedere, alla dubbia luce dell'alba, un gruppo di persone, anzi parecchi gruppi di persone che dapprima scambiò per operai, meravigliandosi di vederli arrivati così mattinieri al lavoro.

In quel punto, don Liddu gli recava, su un piccolo vassoio, la tazza col caffè.

—Come mai?—disse il signor Kyllea indicando con la mano in direzione della collina.—Andate a vedere.

Don Liddu si avviò premurosamente, molto meravigliato anche lui.

Il signor Kyllea era sceso a prendere il binocolo da campagna; ma già la luce aumentata e permetteva di scorgere lassù, a occhio nudo, un brulichìo di gente, un affaccendamento attorno al condotto dell'acqua… Il binocolo gli rivelò la devastazione che quella folla di contadini aveva già operato durante la notte e che proseguiva rabbiosamente, vandalicamente.

Una bestemmia inglese gli sfuggì di bocca, e tese i pugni minacciando, quasi potesse esser visto da coloro. Scesa a precipizio la scaletta, stava per uscir fuori; don Liddu lo afferrò pel petto, balbettando:

—Ah, padrone!… Per carità!… Dove vuole andare?… Lo ammazzano!… Ci sono i carabinieri!… Hanno guastato i lavori di condottura!…

—Zitto!—disse il signor Kyllea.

Pensava alle signore che dormivano e che si sarebbero spaventate… Ma insisteva per uscire. Due carabinieri si presentarono su la porta…

—Non abbia paura; siamo qui noi!—disse uno di essi.

—Non ho paura di nessuno—rispose alteramente il signor Kyllea.—Sono suddito inglese!… Ma che vogliono costoro?

—Dicono che l'acqua appartiene ad essi; che lei l'ha distolta dall'altro versante della collina.

—Sono matti o furfanti.

—Dica: bestie piuttosto! Li hanno suscitati, incitati… Il brigadiere è là… Abbiamo telegrafato per rinforzi…

Ora si udiva un rumore confuso di voci, di passi incalzanti, quasi di armento che scendesse con corsa sfrenata, abbattendo gli ostacoli che gli capitavano dinanzi.

I due carabinieri si affacciarono alla porta e rientrarono, chiudendola. Il signor Kyllea, pallido, smaniante, strizzandosi le mani, si volgeva di tratto in tratto a guardare nella stanza accanto…

—Ah! Se non ci fossero le donne!… Ho tre Remington!

Don Liddu, che era andato ad affacciarsi dall'alto della terrazza, venne ad annunziare:

—Se ne vanno!… Hanno guastato tutto!… Ma lungo lo stradone scende un'altra fiumana di gente… Le campane suonano a stormo!

Don Liddu s'interruppe. Grida confuse, fischi, poi due colpi d'arma da fuoco!…

I carabinieri si slanciarono fuori; e don Liddu, afferrato il padrone, cercava a ogni costo di impedirgli di uscire.

—Per carità! Voscenza, no! Voscenza, no!

Il signor Kyllea stava per svincolarsi, quando comparve miss Elsa, atterrita.

—Babbo!… Che cosa è stato?… Babbo!

Ed ecco la signora Kyllea mezza vestita, bianca come un cencio lavato, che gesticolava senza profferir parola.

Il signor Kyllea si contenne:

—Niente! Niente!—disse.—Dei malintenzionati.

Ma non potè far a meno di trasalire anche lui, sentendo picchiare alla porta, e gridare:

—Aprite! Aprite!

—Sono i carabinieri!—esclamò don Liddu che aveva riconosciuto la voce.

Erano essi infatti, accompagnati dal brigadiere e sostenevano una figura insanguinata, con gli abiti stracciati, che si reggeva a stento.

Miss Elsa die un grido; aveva riconosciuto Paolo Jenco!

XI.

—È stato imprudente!—raccontava il brigadiere.—Con buone parole e con minacce, io avevo già indotto i contadini a tornare in paese, ed essi commettevano gli ultimi sfoghi stroncando qua e là alberi di aranci sul passaggio… È stato imprudente!… Fidava forse nella sua qualità di figlio del Sindaco… Ma quelle belve, se sono in furore, non rispettano niente… Li ha affrontati, li ha insultati, li ha minacciati di galera… E allora:.—Dàgli!—A iddu! A iddu!—Dàgli!—Abbiamo dovuto sparare all'aria, per atterrirli, lottare corpo a corpo…

Era stato un terribile quarto d'ora!

Fortunatamente, all'infuori di una larga ferita alla testa e qualche contusione, Paolo Jenco non aveva riportato altro dall'assalto furibondo dei contadini.

Quei galantuomini che più avevano soffiato nel fuoco e provocato la sommossa, si erano chiusi nelle loro case, paventando che i contadini imbestialiti non trascorressero; il Sindaco si era fatto vivo all'ultimo, ed era accorso soltanto dopo che aveva udito da una finestra: Hanno ammazzato il figlio del Sindaco!

Al cottage si affollavano tutti coloro che volevano diminuire la propria responsabilità, mostrando di giudicare severamente l'atto barbarico dei contadini. Soltanto il dottor Medulla non aveva avuto l'impudenza di venir a offrire l'aiuto della sua arte al ferito; si era scusato con un biglietto, dicendosi indisposto.

E mentre Paolo, assistito dalle signore, da miss Elsa in particolar modo, si sforzava di mostrarsi meno sofferente che non era, il signor Kyllea conduceva parecchi visitatori a osservare i guasti del giardino che sembrava percosso da un uragano, e i guasti lassù, dove bisognava ricominciare da capo l'opera di muratura del condotto dell'acqua.

Il notaio La Bella si mordeva la lingua, per non compromettersi, stimmatizzando l'opera ipocrita di certa gente che sapeva lui; gente che faceva servire ai suoi bassi interessi fin il sentimento religioso…

E per ciò egli, uomo pacifico, che non avrebbe schiacciato neppure una mosca noiosa, davanti a quelle devastazioni, si sfogava a dire:

—Poichè ci si erano messi, dovevano compir l'opera. Li sfruttiamo, li trattiamo peggio di animali, li mettiamo su, per cattivi fini, e poi sbraitiamo che il governo non ci tutela i beni e le vite contro l'avidità dei contadini! Facciamo i socialisti, gli anarchici, i rivoluzionari per comodo nostro, spargiamo di petrolio la catasta… e poi non vorremmo che qualcuno vi appiccasse fuoco!

—E se venivano a bruciarvi la Banca?

—Benvenuti! Avrei spalancato la porta, avrei consegnato tutta quella cartaccia imbrattata, per farne un bel falò… Tanto, la povera gente non ha quattrini da spendere in contratti… E poi, non si deve fare repulisti del vecchio? Ah! Poichè ci si erano messi!…

E tornato al cottage, vedendo Paolo con la testa fasciata, gli spiattellava bruscamente:

—Puoi ringraziare tuo padre!… Anche ora, dopo quel che è accaduto, tuo padre accende una candela a Cristo e una a Maometto, come il romito di Lampedusa; dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Dà ragione al signor Kyllea, e non dà torto ai contadini; e si agita per far scarcerare gli arrestati, per non irritare gli animi, per non lasciar fòmite di odii… Bella scusa! Quasi voglia ringraziarli perchè non ti hanno proprio ammazzato!

Paolo però li ringraziava davvero. Da due giorni egli godeva una felicità immensa, vicino a miss Elsa che gli curava la ferita meglio di un medico, con mani carezzevoli, e più con quegli sguardi traboccanti di affetto e di gratitudine. Egli solo era accorso, egli solo aveva messo a cimento la sua vita in quella terribile mattina! Nessuno dei due aveva fatto il minimo accenno a quel che era avvenuto tra loro lungo lo stradone; eppure si erano detti tante e tante cose!

—Come finirà?—domandava, tremante ancora la signora Kyllea.—Non potremo più vivere tranquille! Da due notti non chiudo occhio… Mi sembra di dover sentire nuovamente quelle grida…

La zia brontolava in inglese:

—Andiamo via! Torniamo in Inghilterra!

—Che cosa dice?—domandò Paolo a miss Elsa.

—Vuole andar via! Tornare in Inghilterra… Ma è possibile?

—Oh, no!—esclamò Paolo.

E i suoi occhi, e il suono della sua voce dissero qualche cosa di più.

Miss Elsa sorrise tristamente.

Qualche ora dopo, approfittando dell'occasione di esser rimasti soli in salotto, Paolo le disse:

—Vuole andar via anche… lei?

—Mio padre, in un momento di sdegno, ha pensato di vendere i terreni; ma ora non ci pensa più.

—Ma… lei… lei, dico!

Avrebbe voluto darle del tu, e per ciò esitava parlando.

—Io non ho volontà,—rispose miss Elsa.

—Volete… vuol esser mia, Elsa?—egli balbettò.

—E tuo padre?

—Ah!… Da questa ferita mi è uscito molto sangue, tutto il sangue vigliacco… Se mio padre si opponesse…

—Io non entrerei mai in una famiglia dove mi saprei appena tollerata…

—Uno solo è il vero ostacolo!—esclamò Paolo.

—Capisco ora—rispose miss Elsa—la Chiesa a cui appartengo. Ma…

—Ma…—ripetè Paolo ansiosamente.

—Su questo punto, noi inglesi—continuò miss Elsa.—non abbiamo pregiudizi; ogni individuo si aggrega alla comunità religiosa che più lo persuade e lo attira. Mia madre è metodista; mia zia, evangelica episcopale; mio padre, presbiterano; io sono puseysta, cioè quasi vicina al cattolicismo. Dovrei fare un piccolo passo per entrare nella vostra chiesa; neppur l'amore puro potrebbe indurmi a farlo, se ripugnasse alla mia coscienza. Ma… ecco la spiegazione di questo ma… Da un anno a questa parte, la mia coscienza è scossa. Io sento forse l'influsso dell'ambiente. Mi sembra che il contadino siciliano, rozzo e superstizioso, sia più vicino alla verità che non noi con la nostra credenza riflessiva. La magnificenza delle vostre feste, quasi teatrale, non mi ispira la repulsione d'una volta; mi commuove, mi pare che operi più intensamente dentro di me… La Verità ha tanti diversi aspetti! Noi possiamo osservarla da un solo lato, comprenderla mai… Almeno io credo così…

—Oh, Elsa mia!

—Eppure, vedi, io ho un ritegno, un misero ritegno umano; quello di poter essere creduta una calcolatrice… Forse lo penseresti anche tu, forse arriveresti a rimproverarmelo un giorno! E allora sarebbe finita; non potrei più amarti perchè non potrei stimarti, perchè non potrei più illudermi di essere stimata da te.

—È impossibile, Elsa!

E vedendo entrare il signor Kyllea che tornava da un convegno col Sindaco, per accomodare la faccenda dell'acqua, Paolo si alzò in piedi, gli andò incontro, e gli disse:

—Debbo essere sincero con lei. Mi parrebbe di commettere la peggiore delle azioni, se le nascondessi quel che dicevo a sua figlia in questo momento. Sia franco e sincero altrettanto; già è suo costume…

Il signor Kyllea gli stese una mano, guardandolo in viso con l'aria di chi incoraggia a parlare:

—Domandavo a miss Elsa, se vuole essere mia moglie.

Il signor Kyllea, ridendo allegramente, rispose:

—Io non mi mescolo negli affari degli altri, specialmente in certi affari.

E li lasciò soli.

XII

Il signor Kyllea era tornato trionfante.

Il Sindaco, invitandolo a un convegno per accomodare il maledettissimo affare dell'acqua, aveva pensato di mandargli incontro il brigadiere e due carabinieri, perchè lo scortassero fino al Municipio. Una gran folla ingombrava la piazza, quasi quell'acqua avesse dovuto essere spartita tra tutti, una goccia per uno.

—Grazie,—brigadiere—egli aveva detto:—O mi lasciate entrar solo in paese, o torno indietro. Se il Sindaco ha paura per sè, provveda ai fatti suoi.

Ed era entrato solo, a testa alta, col solito passo franco e risoluto. La folla si era aperta davanti a lui, ed egli era passato, guardando le persone in faccia, salutando alcuni che riconosceva per suoi lavoratori e che dovevano trovarsi là perchè c'erano tutti—tutti quei del paese, uomini e donne, giovani e vecchi—e non già perchè potessero avere qualche astio contro di lui.

Nella sala del Consiglio i pretesi interessati si pigiavano dietro il parapetto di legno che chiudeva gli stalli dei Consiglieri comunali inaugurati pochi mesi prima. Pochi Consiglieri erano intervenuti; ma il Sindaco, due assessori e il segretario erano già seduti al loro posto e avevano l'aria di formare un piccolo tribunale in attesa del reo. Dietro il seggiolone del Sindaco, in piedi, stava il notaio La Bella.

Il brigadiere introdusse il signor Kyllea dalla parte opposta a quella d'onde entrava il pubblico, e all'apparire dell'inglese, come molti tuttavia lo chiamavano, un mormorìo corse per la sala.

Il Sindaco, che sembrava mostrarsi piuttosto favorevole agli interessi dei suoi amministrati, per tattica di uomo che sa barcamenarsi nei momenti difficili—e ne aveva già avvertito il signor Kyllea—lo salutò, gli accennò di sedersi in uno di quegli stalli vuoti, e cominciò ad esporre il motivo di quella riunione.

—Meglio fare le cose all'amichevole, senza inframettervi i tribunali. Si risparmiano così tempo e denari. Già!… Certamente il signor Kyllea era in diritto di scavare l'acqua nei suoi fondi; ma era anche vero che la sorgente dell'opposto versante della collina fosse venuta meno dopo quello scavo… Già!… Bisognava mettere d'accordo i due interessi… Avevano fatte male cercando di farsi giustizia con le loro mani. Già!… Ma, che si voleva?… Ormai il fatto era fatto… Danni gravi! E dunque egli era là per la conciliazione, per l'ordine. Già!…

Chi sa quanti altri già egli avrebbe interpolati alle parole che gli uscivano stentatamente di bocca, se il signor Kyllea non si fosse rizzato in piedi e non lo avesse tolto d'imbarazzo.

—Io vado per le spiccie, signor Sindaco. Sono anche io per l'ordine e per la pace: ma veggo qua parecchi degli antichi proprietari delle grillaie da me comperate cinque anni fa; permetta che io mi rivolga a loro. Ve le ho pagate quelle grillaie, sì o no? C'era, forse, allora qualcuno che le avrebbe pagate di più? Ne cavavate appena appena di che provvedere alle tasse… Le rivolete ora che io le ho ridotte prospere e fiorenti? Prendetevele; sono pronto rivenderle, per quel che valgono ora, s'intende. Se c'è qualcuno che accetta, si faccia avanti… A loro, personalmente, le cedo; ad altri, no. A coloro che vi sobillano, che vi fanno credere che io vi ho spogliati, perchè sperano che annoiato, impaurito, lasci qui baracca e burattini, come dite voialtri… e mi sbarazzi dei terreni per quattro soldi… eh no! Io sono inglese; ho la testa dura. Voi… che ne dite? E voi… che ne dite? No? E allora che cosa pretendete da me? Che ve ne faccia un bel regalo? Non sono così gran signore da permettermi questo lusso. Bravi! Ridete; perchè è veramente da ridere! E ora veniamo a coloro dell'acqua. Chi sono? Si facciano avanti… Quattro, in tutto! E com'è che siete venuti a centinaia per rovinarmi ogni cosa? Primieramente, l'acqua dell'altro versante è tal quale si trovava prima… Ah! Può venir meno? Attendete che il danno avvenga: ne riparleremo. E quand'anche fosse così, dovevate farvi giustizia con le vostre stesse mani?… I tribunali? Andiamo pure davanti ai tribunali… Io non ho paura dei giudici. Rispondete intanto a una domanda: che cosa ne fate dell'acqua che ora possedete? Niente. Vi è mai passato pel capo di ricercarne altra?… Ci vogliono quattrini? Ma sicuro; negli affari ci vogliono testa e quattrini. Perchè non vi prestano i quattrini coloro che vi dànno i bei consigli di venire a guastarmi la conduttura, e a rovinarmi gli agrumi? Li hanno, i quattrini; e se vorreste vender loro quelle terre, essi non farebbero come me, non ve le pagherebbero il doppio di quel che ora valgono; vi risponderebbero:—Quattro sassi! Non sappiamo che farcene!—Io sono leale e franco, vi dico: Volete vendere?… No!… Benissimo. Vi dico anche: Se involontariamente vi danneggerò… se il danno sarà accertato… chi rompe paga… Sono pronto a indennizzarvi. È ragionevole, è giusto. Ma con la violenza… Ah! Ah! Su questo punto sono più siciliano di voialtri… quando vi ricordate di essere siciliani. Io, da che sono venuto qui, non ho fatto male a nessuno. Se c'è tra voi uno solo che possa lagnarsi con ragione di me… I miei lavoratori sono stati rimunerati con mercedi insolite qui. Mi davano l'opera delle loro braccia, il sudore della loro fronte, ed io li ho trattati da cristiani e non da bestie… È vero? Mi fa piacere sentirlo dire da voi stessi… Sareste ingrati, sconoscenti affermando il contrario… E intanto mi avete trattato da nemico… I veri vostri nemici cercateli altrove, tra coloro che vi aizzano, che si servono della vostra zampa per cavare le castagne dal fuoco… Sentirete come vi brucierà!… Parlo male, forse, signor Sindaco? Come? Certe cose non si debbono dire? Ora sono io che eccito la gente? La verità si deve dire sempre, a ogni costo; è il mio sistema… specie quando gli altri spargono attorno la bugia, la calunnia… E per concludere, sentite, signori miei. Io sono suddito inglese; la mia pelle vale cara… Se mi ammazzate, mi pagherete a peso d'oro… E aggiungo anche che non la lascio prendere al primo che la vuole. A coloro cui fanno gola i miei terreni—voialtri non li volete, non sapreste che farvene—rispondo: Fuori i quattrini!—Su, come vi dètta la coscienza: Che cosa preferite? Che restino in mia mano, oppure che vadano ad ingrassare chi li ha lasciati per centinaia d'anni incolti, infruttiferi?… Io lo sapevo che avreste risposto così. Siete brava gente, troppo buona gente… Grazie! Ho fatto del bene al vostro paese; farò ancora del bene, e non a parole; è il mio mestiere. Sono convinto che, facendo bene agli altri, ne faccio altrettanto e forse più a me. E queste mie parole riferitele fedelmente a coloro che non hanno potuto udirle… Chi vuol venire a lavorare domani, venga laggiù; il cancello sarà aperto… Io non ho rancori con nessuno… Vi saluto!

Sentendo applaudire nella sala, anche la folla della piazza prese ad applaudire.

Il canonico Medulla, che era in un negozio di droghiere in attesa del risultato, saputo com'erano andate le cose, fece una spallucciata sdegnosa:

—Si son lasciati mettere nel sacco! Con quell'imbecille di Sindaco!… Era da prevederlo!… Ora non manca altro che vi faccia diventare tutti protestanti!… Dio vi aiuti!

XIII.

Invece, sei mesi dopo, per incarico del vescovo, egli doveva istruire nei dommi della fede miss Elsa, che si era risoluta di fare il piccolo passo dal puseysmo al cattolicismo… Istruire?

—Ma se ne sa più di me!

Questa volta il canonico parlava sinceramente.

Si sentiva mortificato dalla sua ignoranza, si pentiva della sua malignità.

—Tu sei stato una bestia!—disse però un giorno a suo fratello il dottore.—Non sai far altro che ammazzare la gente! Con un po' d'abilità… Che credevi? Che quella signorina fosse come una delle nostre? Bisognava saper pigliarla pel suo verso.

—Perchè non me lo avete insegnato voi?

Il povero dottore, che aveva sprecati tanti mesi di corte, non rispose altro e andò via.

La sera delle nozze, Villa Elsa, vista dal Muraglione di Settefonti, sembrava una cosa fantastica, con tutti quei lampioncini giapponesi pendenti da albero ad albero, con la banda che suonava nel piazzale, coi fuochi d'artifizio incendiati su la collina perchè la popolazione di Settefonti potesse goderli meglio.

Quando, verso la mezzanotte, miss Elsa e Paolo rimasero soli, Paolo era così stordito dalla sua felicità, che non pensava di stringerla fra le braccia, quasi temesse di destarsi da un bellissimo sogno.

Miss Elsa, dolce e pudibonda, con grazioso gesto prese tra le mani la testa di suo marito, e baciando, come cosa sacra, la cicatrice ancora rosseggiante al lato destro della fronte di lui, gli disse:

—Chi sa! Forse, senza di questa…

……………………………………….

E da lontano arrivavano le ultime note di un passo doppio della banda di Settefonti e le grida di saluto degli invitati:

—Viva il Benefattore!

PER UN SOGNO.

Ezio Cami si svegliò sentendo ancora vivissima la profonda commozione degli avvenimenti sognati. Nella realtà, essi non avrebbero potuto lasciargli un'impressione più deliziosa e più forte.

—Peccato che sia sogno!—esclamò, rizzandosi a sedere sul letto.

Incrociò le mani dietro la nuca, appoggiò così la testa alla spalliera del capezzale e tentò di ricostruirsi, con tutti i più minuti particolari, quel sogno che già gli sembrava si dileguasse lontano nella densa nebbia dove spesso si smarriscono le incoerenti visioni notturne. Voleva rigoderselo, fissarselo nella memoria come un avvenimento reale. Era così bello e così assurdo! E, chiusi gli occhi e quasi trattenendo il respiro, rivedeva quell'angolo—di giardino?… di parco?… di foresta? non sapeva precisarlo—pieno di ombra, solitario, con quei riflessi azzurri delle acque—di un fiume? di un lago? del mare?—che s'intravedevano laggiù, fra i tronchi e i rami degli alberi, sotto la luce diffusa dei raggi solari, che però stentavano a infiltrarsi tra il fitto fogliame là dov'egli sedeva assieme con la signora Arici, tenendosi per mano, scambiando poche parole, in dolce intimità che lo stupiva anche nel sogno…

Si erano incontrati parecchie volte in riunioni familiari presso amici comuni; avevano ragionato di musica, di pittura, di poesia, di romanzi, di cose frivole, di pettegolezzi, di piccole malignità, fin di politica; ella, sempre contegnosa, quasi severa anche quando sorrideva delle eccessive opinioni di lui; egli, rispettoso e indifferente davanti a quella bellezza veramente straordinaria che faceva girare il cervello a molti, e che a lui ispirava soltanto un senso di ammirazione artistica e nient'altro, quale egli avrebbe potuto sentirlo per un capolavoro di statuaria o di pittura; convinto com'era della incrollabile virtù di quella donna, e sdegnoso, per natura e per proposito, dei lunghi assedii che esauriscono le forze dell'assediata e dell'assediante, e non sempre sono seguiti dalla resa.

In quest'ultimi mesi egli l'aveva avvicinata poco, distratto da una facile avventura con una signora molto gelosa e che commetteva l'imprudenza di non nasconderlo. Per questa e per altre ragioni, non ultima quella che assegna una fine anche amori giurati eterni, l'avventura era terminata due o tre giorni addietro; ed Ezio Cami, assaporando le delizie della riacquistata libertà, non pensava affatto a impegnarsi in altro consimile intrigo. Per ciò egli si stupiva, anche nel sogno, di vedersi in quel posto, tenendosi per mano, scambiando poche parole in dolce intimità con la bellissima signora Arici… Poi, senza avvedersi del cambiamento di scena, a un gesto di invito di lei, si erano trovati in una camera stranamente mobiliata… In casa di essa e di lui?… Ella gli resisteva appena, per vezzo, con negli occhi neri e grandi (invece la signora Arici li aveva limpidamente azzurri, ma egli nel sogno non si meravigliava di questa circostanza, dubitava di non aver osservato bene) con negli occhi neri e grandi una intensa ansietà di dedizione; poi, sciolte le nere trecce copiosissime e lunghe (la signora Arici in realtà era bionda), stringendosi al petto la testa di lui, gliel'aveva coperta ed avvolta con esse. Ed egli si era sentito avviluppare da quei capelli, come da tentacoli brulicanti che gli si fossero insinuati sotto le vesti e gli si attaccavano alle carni, dandogli tale sensazione di supremo piacere da doverne forse morire… Allora si era svegliato!

Ezio Cami, un po' superstizioso, disse:

—Dicono che i sogni siano il riflesso, la ripercussione della vita giornaliera… Io non ho mai pensato in questi giorni, neppure casualmente e alla sfuggita, alla signora Arici… Non l'ho mai desiderata, quantunque desiderabilissima, perchè non amo di fantasticare cose impossibili o che a me paiono irraggiungibili. Ed ella intanto mi è venuta in sogno, ed è stata mia, come se la nostra vita di amanti durasse da un pezzo, senza che lei nè io ci preoccupassimo del marito che pure esisteva anche nel sogno, giacchè ricordo benissimo che ella non era semplicemente una signora, ma la signora Arici!… Di che mi meraviglio?… Forse nella realtà non accadrebbe la stessa cosa?… Peccato che non sia vero!… Come mai però?…

Voleva trovare una ragione, un'origine al sogno; e scrollò le spalle quando gli si affacciò alla mente la spiegazione di un dottore, che si era formato una specialità dello studio dei sogni, a proposito di un caso consimile. Eh, via! Quel dottore era troppo invasato da certe recenti teoriche di suggestioni a distanza, da inconsapevoli proiezioni di pensiero… Appunto quella notte, la signora Arici avrebbe dovuto intensamente pensare a lui! Figuriamoci! Aveva pensato a lui quanto al Sultano del Marocco.

Eppure, dopo averci lungamente riflettuto su durante parecchi giorni, e notando l'insistente perduranza della impressione del sogno, egli avea finito con lusingarsi che la spiegazione di quel dottore poteva benissimo adattarsi al suo caso: cioè che la signora Arici, chi sa perchè?… forse nell'occasione di quella rottura che non era un mistero per nessuno… Le stranezze del cuore femminile sono infinite! Insomma, perchè no?… Si erano dati casi assai più assurdi di questo… E per curiosità e lusingato anche dalla vanità, si era proposto di verificare se il suo fosse stato un sogno ammonitore. Insomma, perchè no?

* * *

Non avea vinto facilmente; e, terzo, con la curiosità e la vanità, il suo cuore era entrato nella lotta, incitato dalla lunga resistenza della signora Arici, e anche dalla convinzione che quel dottore non s'ingannava giudicando certi sogni opera di inconsapevole trasmissione di pensiero.

Sin dalle prime esitanti parole da lui dette alla bellissima signora, egli aveva capito, dal contegno di lei, di non esserle indifferente… Anzi! Anzi! E questo lo aveva molto incoraggiato ad insistere. Oh, il suo bel sogno doveva avverarsi intero! Egli doveva provare, nella realtà, quell'ineffabile sensazione per cui gli era parso di essere avviluppato dai capelli di lei come da tentacoli brulicanti e di quasi morire nel godimento!

Invece!…

Egli aveva stretto fra le braccia il divino corpo tanto desiderato, senza sentirlo vibrare di una scossa, ghiaccio, quasi morto; senza che dalle labbra furiosamente baciate, aride e fredde, scoppiasse il riscontro di un bacio caldo, il suono di una parola ardente!

—Che hai?

—Niente. T'amo!

—Tu soffri! Stai male!

—No. T'amo. Ti ho amato sempre, tanto!

Ma sembrava che le parole le uscissero di bocca in modo meccanico, ch'ella le ripetesse come cosa appresa a memoria, senza che il cuore e l'anima vi prendessero parte.

Egli la scuoteva rabbiosamente, quasi brutalmente.

Ma più tentava d'infonderle ardore e slancio, più sembrava ch'ella si irrigidisse, si chiudesse in sè.

—Che pensi?… Parla!… Che temi?

—Niente!

Era divenuta pallida, come sul punto di svenirsi. Sembrava vinta da grande stupore. Nel sorriso, che di tratto in tratto le fioriva su le labbra, c'era qualcosa di indifferente, di gelido, che si comunicava a lui, che lo impacciava e lo irritava nello stesso tempo.

Egli aveva ingombrato di fiori il salottino e la camera; ne aveva sparsi per terra, sui mobili, sul letto con folle profusione, quasi volesse augurare un'uguale fioritura primaverile a quell'amore creduto impossibile, irraggiungibile e che ora avrebbe dovuto farlo delirare di gioia, e non fremere d'indignazione, e non fargli fin sospettare che ella non avesse trovato in lui quel che si era immaginato di trovarvi, e che la incredibile attitudine di passiva freddezza fosse sincera espressione del sentimento non riuscito a dissimulare.

—Ah!—le disse Ezio, con profonda amarezza.—Com'eri più amante nel mio sogno!

—Raccontamelo di nuovo!—ella rispose con dolce accento di preghiera.

E dopo ch'egli, illuso dalla tenerezza che gli era parso di scorgere in quell'accento, avea ripreso a raccontare, ella sembrava assente col pensiero, lontana quasi rincorresse qualch'altro suo sogno. Per ciò egli le stringeva le mani così forte da doverle far male, ma senza ch'ella mostrasse di accorgersene. Solamente, a intervalli, pareva riprendere coscienza, per esclamare:

—La realtà è più bella!… Oh, più bella! Quale? Evidentemente ricordava un'altra realtà, faceva villani confronti!

Il maligno sospetto, tosto che gli spuntò nel cervello, parve illuminargli di sinistra luce l'intelletto. E rapidamente, spietatamente egli giudicò che colei, stimata pura e non mai sospettata, doveva essere pura in apparenza soltanto, e che soltanto la sua suprema ipocrisia avea dovuto impedire che neppure un sospetto avesse osato di toglierle la brutta maschera dal viso.

—Ah, le oneste! Sono peggio delle peggiori!—egli pensava.

Si sentiva avvilito da quel che giudicava disprezzo di donna estremamente corrotta! Non sapeva chi lo trattenesse dal mostrarle con parole e con atti, in che conto ormai la teneva.

Le lasciò andare le mani, e si mise a passeggiare su e giù per la camera, ruminando i vituperi di cui la stimava meritevole.

Si era levata in piedi anche lei, e davanti allo specchio si aggiustava i capelli un po' disordinati, stirava le pieghe della veste. Poi, andatagli incontro lentamente, aprendo e socchiudendo le palpebre e posategli carezzevolmente le mani su le spalle, mormorava:

—Amore mio bello!

—Abbiamo fatto tardi!—egli borbottò, scansando la carezza per guardare l'orologio cavato di tasca.

—Ah!… Tu ti sei accorto delle ore trascorse; io, no.—

Ezio la guardò, colpito dal rimpianto che le era tremato nella voce pronunziando quelle parole.

Non mentiva dunque?… O mentiva così bene?

E la scrutava, mentr'ella s'infilava i guanti, a occhi bassi, e poi li abbottonava, stranamente assorta, senza fretta. Ma come la vide accostare all'uscio, porre la mano al paletto, e solo allora tendergli l'altra mano e le labbra, pronunciando un sommesso: A rivederci! Ezio improvvisamente scoppiò:

—Così tu ami? Così? Così?

—Oh, Dio!…—ella balbettò coprendosi il viso con le mani.

—Ti sei dunque fatto giuoco di me! E perchè mai? Perchè? Che indegna commedia sei qui venuta a rappresentare?

Ella affondava il viso tra le mani, per non udire, immobile, fulminata… E, come dicesi che avvenga alle persone prossime a morire di morte violenta, vedeva passarsi davanti agli occhi, in un lampo, tutto quel che aveva sofferto per lui: e le segrete angosce, e le lotte, e i tormenti dei rimorsi, prima di decidersi al tremendo sacrifizio della sua vita immacolata, della sua reputazione forse e della sua pace; e le raggianti fantasie di amore e di felicità con le quali si era confortata all'immolazione di tutta sè stessa ai piedi di lui! Oh! Ella l'amava tanto, che non avea saputo trovare parole per esprimerglielo, istupidita dalla gioia di darsi incondizionatamente, anima e corpo; resa quasi inerte e ghiaccia dall'estremo accesso della sua stessa passione… Ed egli non lo aveva capito! E poteva rinfacciarle:—Così tu ami? Così?—E buttarle in viso la infame accusa:—Che indegna commedia sei qui venuta a rappresentare?…

Ella non udiva più quel che Ezio continuava a dire contro di lei con voce soffocata, scotendole violentemente un braccio.

All'enormità dell'affronto, il suo orgoglio si era ribellato, le aveva fatto levar su alteramente la testa, avea acceso un gran lampo di fierezza, in quelle pupille poco prima annegate in ineffabile languore… E aperto rapidamente l'uscio, ella lo richiuse con gesto sdegnoso.

* * *

Ezio Cami, fu per lunghi mesi, sotto l'ossessione di quella scena di delusione che aveva offeso il suo amor proprio e il suo amore, e che lo faceva terribilmente soffrire notte e giorno, quantunque egli tentasse ogni mezzo di distrarsi, anche perchè colei non potesse rallegrarsi degli effetti dell'opera sua, e non lo riputasse sua vittima.

Era andato, prima, a isolarsi in villa occupandosi insolitamente di cose di campagna: poi, presto annoiato, era partito per un viaggio in Germania.

Qualche lettera di un amico gli inciprigniva con inconsapevole crudeltà la piaga ancora sanguinante, dandogli larghe notizie dei pettegolezzi cittadini… Si parlava molto della misteriosa malattia della bellissima signora Arici; il marito n'era inconsolabile… E si parlava moltissimo anche della sparizione di lui, che i maligni attribuivano a una passione infelice per… E citava il nome della canzonettista straniera alla quale Ezio aveva fatto apparentemente un po' di corte.

Benissimo! Questo sviava la mùta dei curiosi dalla sua vera traccia… Era stato gentiluomo; si era saputo contenere, anche nei primi momenti; e n'era lieto, specialmente ora che cominciava a sentirsi penetrare dal dubbio ch'egli si fosse stupidamente ingannato giudicando male la signora Arici. Le notizie di quella misteriosa malattia lo agitavano, lo spingevano a ripensare tutti i particolari della scena di quel giorno; e di mano in mano che gli sembrava di vedersi schiarire davanti agli occhi l'intimo significato degli atti e delle parole di lei, un sordo rimorso lo assaliva, una profonda angoscia lo tormentava.

Era stato cieco? Era stato pazzo? Come aveva potuto non conoscere la sincerità, la grandezza di quel cuore di donna? Come s'era lasciato sfuggire il possesso di quell'inestimabile tesoro? Frivolo, scettico, non aveva mai amato, non era mai stato amato. E l'unica volta che gli era accaduto di sentirsi elevare dalla misera volgarità della sua vita, l'unica volta che una nobilissima creatura gli era venuta incontro portandogli in regalo il fragrante fiore della sua passione, la sua infinita tenerezza, l'intiera essenza della sua anima, egli l'aveva ricacciata indietro, calpestando quel fiore, spargendo villanamente per terra quella purissima essenza!…

Ah, il fatale sogno! E che grande enimma la vita umana! Un'intima voce ci avverte:—Ecco, la felicità sta per passare per la tua via!—E noi stiamo ad attenderla, guardando qua e là, vicino, lontano, a destra a sinistra; illudendoci di doverla sùbito riconoscere a certi segni, secondo certi nostri preconcetti, senza riflettere un momento che essi possano essere fallaci… E la felicità, infatti, passa via, si allontana, sparisce; e soltanto allora noi ci accorgiamo di esserci stoltamente ingannati!… È inutile attenderla ancora, ella non ripassa mai dallo stesso punto!

Filosofava così per distogliersi dall'idea di scappare da quell'albergo straniero, accorrere da lei, gettarsele ai piedi e chiederle perdono!… Inoltre, chi poteva proprio assicurarlo che egli giudicasse dirittamente ora e non allora? Come discernere, con certezza, se la misteriosa malattia che lo faceva così sentimentalmente fantasticare provenisse da profondo dolore per grave delusione, o da dispetto di orgoglio e di vanità femminile? O da altra cagione, accidentale, che non aveva niente che vedere con l'una o con l'altra?

E così quando lesse, pochi giorni dopo, in un giornale italiano la notizia del suicidio della signora Arici attribuito a momentanea esaltazione morbosa, egli rimase perplesso, con un groppo di singhiozzi che gli stringeva la gola, e con una viva repugnanza di assumere parte della responsabilità di quell'atto disperato.

Chiamò il cameriere, ordinò che gli portasse il conto dell'albergo, e cominciò a preparare le valigie. Avrebbe ripreso la sua corsa pel mondo, finchè i danari gli fossero bastati, finchè non si fosse annoiato di errare, ignoto tra gente ignota… E poi?… E poi avrebbe continuato a vivere come prima, sarebbe invecchiato, inutile agli altri e a sè stesso.. e sarebbe morto, portando con sè nell'altro mondo, come testimonianza della sua dimora in questo, assieme con un bel sogno, la soddisfazione di aver amato davvero, una sola volta… e la lusinga o il sospetto di essere stato amato davvero, una sola volta!

RACCONTAVA IL DOTTOR MAGGIOLI…

I. I microbi del signor Sferlazzo.

Si parlava di microbi.

—Il soggetto è troppo grave da poter essere accennato in conversazione—disse il dottor Maggioli.—E poi, io sono oramai un po' fuori dal mondo scientifico; sto a guardare, sto a sentire quel che fanno e dicono gli altri, e non ho più voce in capitolo. La mia opinione sarebbe di nessun valore. Quando diventiamo vecchi, non ci si atrofizzano soltanto i muscoli e le ossa, ma anche il cervello. Certe idee nuove non possiamo più assimilarcele, non riesciamo ad intenderle; e resistiamo financo all'evidenza dei fatti. In ogni modo, a proposito di microbi, ho una storiella da raccontare.

Il cavalier Carmine Sferlazzo (il suo deputato lo aveva fatto crocifiggere con la stella d'Italia perchè attivissimo elettore) non era un'aquila, oh, no! ma era certamente una brava persona.

Egli aveva letto su pei giornali molte chiacchiere intorno a questi maledetti invisibili animalini che ora si trovano dappertutto e dei quali, anni fa, nessuno sapeva niente; ma da uomo prudentissimo, che non dà retta alle fandonie dei fogli, non se n'era dato gran pensiero.

Si trattava però della salute, della vita anche; ed egli, che voleva star bene e restare quaggiù il più lungamente possibile, aveva pensato che era meglio avere netta la coscienza; per ciò era andato a consultare il suo medico ordinario.

—Dunque, questi microbi? Bisogna dar retta ai giornali?

—Siete come i contadini anche voi?—aveva risposto il dottore.

—Illuminatemi, spiegatemi tutto. Sono venuto appunto per questo.

Altro che illuminarlo! Colui lo aveva atterrito a dirittura.

Milioni! Nell'acqua, nelle erbe, nei panni, fuori e dentro di noi, tra i denti, tra le ugne, negli intestini, nell'aria che respiriamo! Fin in Paradiso! aveva conchiuso quello scomunicato che non credeva a niente più in là dalla punta del suo naso.

Il cavaliere, all'ultimo, aveva scrollato il capo, diffidente, convinto anzi che quegli avesse esagerato a posta, per fargli paura.

Ma un giorno l'infame dottore, trovatolo, per via, lo aveva preso sotto braccio, e lo aveva condotto nel suo studio.

—Volete vedere i microbi?

—Dove sono?

—Qui.

E gli aveva messo sotto gli occhi un tubetto di vetro, con in fondo un dito di gelatina. Postolo a sedere davanti a un tavolino su cui era preparato il microscopio, lo aveva poi iniziato nei misteri dell'invisibile.

—Eh? Vedete come guizzano? Come si agitano quelle virgolette nere?
Sono ingrandite trentamila volte!

—E che razza di virgole sono?

—Microbi del tifo!

Il cavaliere diè un balzo. Voleva ammazzarlo dunque? O, per lo meno, farlo ammalare per cavarsi il bel gusto di guarirlo?

—Questi scherzi non si fanno, dottore!

—Oh, non c'è pericolo!

Doveva essere così, se il dottore maneggiava la gelatina impunemente; ma egli non si sentì tranquillo, neppure dopo che quegli lo ebbe spruzzato da capo a piedi con la soluzione di bicloruro di mercurio con cui gli aveva fatto lavare e si era lavato le mani pure lui.

Quella notte il poveretto non chiuse occhio.

—Ragioniamo!—diceva a sè stesso.—Questi dottori, questi scienziati sono, su per giù, una manica di ciarlatani. Ce le danno a bere grosse, sicuri che noi ignoranti non possiamo smentirli. Quell'altro professore, ieri, non voleva darmi a intendere che è stata misurata, fino a un millimetro, la distanza dalla terra al sole? Hanno mandato gli ingegneri a misurarla col compasso? Fandonie! Ciarlatanate! E la luce delle stelle che mette dieci, dodici, venti mila anni ad arrivare quaggiù! Hanno forse avuto sott'occhio il passaporto di essa, vistato dai sindaci di là? Fandonie! Ciarlatanate! Ma almeno queste sono innocue. Con la storia dei microbi però… Eh, via! I medici fanno il proprio interesse. Ora, quando non capiscono niente di una malattia, ci spiattellano in faccia: Microbi! E si tolgono ogni responsabilità. Spetta a noi cautelarci, guardarci!… E prima? Il mondo esiste da secoli… La gente, una volta, campava duecento, quattrocento anni. Dov'erano allora i microbi? Domineddio li ha creati a posta oggi, per far il comodo dei medici? Fandonie! Ciarlatanate!… Ma poi… chi sa? Le ho vedute proprio con questi occhi, quelle brutte virgole del tifo! Le chiamano virgole! E fanno fare punto fermo e daccapo, per tutta l'eternità! Belle virgole!

Si voltò e rivoltò sul letto tutta la nottata, ripetendosi a ogni po':—Ragioniamo!—Che voleva ragionare? All'alba non ragionava più, con lo spavento delle terribili virgole addosso.

E che accadeva? Neppure a farlo a posta!

Da lì a un mese, egli si ammalava di tifo!

—Ah, dottore! Siate galantuomo ora; guaritemi, se non volete che io vi maledica morendo!

E invece di rispondergli:—Sì, vi guarirò, farò il mio dovere!—il medico lo aveva sgridato con stizza:

—Non dite sciocchezze!

Febbre a quaranta gradi; delirio, durante il quale il povero cavaliere si sentiva rodere le carni dalle virgole nere osservate sotto le lenti del microscopio; coma, abbattimento, e tutti i malanni che il tifo porta con sè. Nei brevi lucidi intervalli concessigli dalla febbre e dal delirio, egli si recitava deprofundis e requiem, e dava occhiatacce di odio al dottore, che intanto aveva la sfacciataggine di assicurargli:

—Siamo fuori di pericolo!

Infatti, il cavaliere ne era uscito quasi per miracolo, ma diventato proprio un altro.

Quei microbi a cui fin allora non aveva voluto credere, ora, dopo l'esperienza, diceva, li vedeva dappertutto; e la sua vita diveniva un continuo tormento. In casa sua, dove prima entrava appena qualche romanzo francese, del Montepin, del Merouvel e simili, prestatogli da questo o quell'amico, ora si accumulavano giornali, opuscoli, fascicoli di riviste mediche, opere in più volumi, con figure, intorno ai diabolici microbi, dai quali egli voleva guardarsi e difendersi finchè fosse stato possibile.

Ogni suo atto era regolato scientificamente, con minuzia da sbalordire; il puzzo dell'acido fenico, del sublimato corrosivo, di altri disinfettanti prendeva alla gola chi aveva la disgrazia di dover andare a trovar il cavaliere in casa, per qualche affare.

Agli amici non più strette di mano, non più baci di addio o di ben arrivato; non si sapeva mai quel che costoro potevano portar addosso, senza loro colpa! E che scene con la sua amica, alla quale una sera aveva annunziato:

—Da oggi in poi, niente baci, niente carezze! Niente! Non voglio infettarti di microbi, nè esserne infettato! Ah, tu non sai! È terribile.

Quell'ignorantaccia intanto supponeva che fosse un pretesto per distaccarsi da lei a poco poco, per abbandonarla! E per ciò non voleva sentir parlare di acido fenico, di sublimato, di disinfettanti di nessuna sorta.

Oh, meglio quando egli non sapeva nulla! E la chiamavano scienza questa che, invece di guarire la gente, la faceva morire di paura!

Mangiando un boccone, bevendo un dito di vino, o di acqua bollita e ribollita, insipida da far nausea, il poveretto si domandava spesso:

—Ci sono? Non ci sono?

E il minimo dolorino di pancia, la minima accapacciatura lo tenevano in ambascia mortale. Eppure vedeva che la gente se n'infischiava della scienza e dei microbi; mangiava a crepapelle, si ubbriacava, faceva stravizii di ogni genere, e campava allegra, e moriva… quando doveva morire: giacchè una volta o l'altra, con una scusa o con un'altra, bisognava fare, pur troppo, quella bestialità! Ma sùbito si riprendeva:

—Non è una bella ragione! Se gli altri vogliono ammazzarsi, padronissimi! Io ora so; io ora debbo premunirmi!

Si premuniva, sì, ma dimagrava, diveniva giallo come una carota, a furia di privazioni, a furia di regime scientifico. Egli, che, prima, avrebbe digerito anche il ferro, era già ridotto a non poter digerire più, chi sa per quale razza di microbi acchiappati non ostante le cautele! Ah, Signor Iddio! Ed erano questi i benefici della Scienza? Perchè non lasciare in pace la umanità, visto che i microbi erano invincibili, onnipossenti, eserciti, miriadi, da starne due, tre milioni rannicchiati nello spazio di un foro fatto con la punta di uno spillo?

Era scoraggiato; non li combatteva più con fede, dopo di aver letto che, ammazzati i microbi di una specie, si faceva un favore a quelli di un'altra; la quale così prendeva rigoglio, si moltiplicava più rapidamente. E l'infelice impallidiva leggendo giornali, riviste mediche, che poi—si lamentava—parlavano turco per non farsi capire e far disperare un galantuomo che voleva istruirsi.

Lotta a corpo a corpo! Ma che lotta, con un nemico invisibile, con cui non si sapeva precisamente mai chi aveva vinto o chi era rimasto sconfitto?

Si rassegnava a vivere solo, come un cane, lontano da tutti.

—Eh, cavaliere? Non vi si vede più! Che avete? Non state bene?…
Dio, come siete ridotto!

—Beato voi, che siete un ignorante!—rispondeva l'infelice.

—Ah!… La solita storia dei microbi!

Ormai tutti sapevano la sua fissazione, e gli ridevano in viso.

Ma una mattina, che è che non è, ecco il cavaliere, vispo e gaio, che va in piazza a far la spesa, senza più badare a niente. Una catasta di roba! Erbaggi, frutta, pesce, carne, salami, pasta, burro, conserva, mostarda: una catasta! E un barile di vino rosso, di quello!

Era ammattito all'incontrario?

—Insomma, che è accaduto, Cavaliere?

—Ah, la scienza! La scienza! È come la spada di… di quel tale, che feriva e sanava nello stesso punto! Gli scienziati, ecco la rovina della scienza!…Microbi? Sissignori! Ma, Dio benedetto, aspettate un po', studiate bene prima di scompigliare il mondo con certe scoperte! Finalmente c'è stato chi ha messo a posto ogni cosa!… Farò un viaggio per andare a baciargli la mano, quella mano che ha scritto l'opuscolo La funzione dei microbi nell'organismo umano!

Lo guardavano sbalorditi, pensando:

—Senti come parla quel bestione del cavaliere! È proprio ammattito all'incontrario!

Ma egli continuò per settimane a predicare il nuovo vangelo, la vera Buona Novella dei microbi. E prendeva indigestioni per nutrirli, per amicarseli tutti quelle care virgole… e punti—diventava faceto—che gli stavano annidati addosso, tra i denti, tra l'orlo delle ugne, negl'intestini, nel sangue, nelle ossa; convinto ormai che l'uomo non fosse altro che un vasto microbaio a cui bisognava dar nutrimento, se si voleva star bene.

Vedevano? Egli era ritornato grasso, roseo, forte: gli si era fin stirata la pelle vaiolata della faccia, ora che badava lui a dar da mangiare scientificamente ai microbi; i quali, poverini, non chiedevano niente di meglio che di vivere in pace, ben nutriti, quasi accarezzati!

—Questo, pei microbi della mucosa! Questo, pei microbi del sangue! Questo, pei microbi dei nervi! Questo, pei microbi dei muscoli! Questo pei microbi delle ossa! Sissignori anche per quelli delle ossa.—E più essi divoravano, più egli stava bene! Se li sentiva rimescolare addosso, dentro, nelle più intime fibre del corpo; ma ora li conosceva perfettamente quei cari amici! Amici, sì, sì! Lavoravano per lui, combattevano per lui, distruggendo i nemici che lo assalivano di fuori. Se non si trovavano in forza, come potevano resistere? E certi imbecilli di scienziati avevano proclamato la crociata:—Morte ai microbi!—Imbecilli! Viva i microbi! si doveva gridare.

E il giorno che un capo ameno gli disse:

—Ebbene, insegnatemi il vostro metodo di dar il pasto a coteste feroci bestioline!—il cavaliere lo invitò a pranzo, e gli spiegò tutto:

—Questo, pei microbi della mucosa! Questo…

Intanto divorava come un lupo affamato, e beveva, beveva, perchè bisognava anche dar da bere a quei carissimi amici!

All'ultimo, si levò in piedi, alzando il bicchiere ricolmo per fare un bel brindisi. Ma barcollava, il braccio non gli stava fermo, e la lingua gl'impastava le parole in bocca.

—Viva i microbi!—balbettò—Viva i microbi!

E ruzzolò sotto la tavola.

II. L'incredibile esperimento.

—Eh, no!—disse il dottor Maggioli.—Non si tratta di creatura umana nel vero senso della parola; preumana, tutt'al più!

—Oh! Oh! Oh!

Le signore protestarono in coro, e la baronessa Lanari, battendogli col ventaglio sul braccio, tra indignata e sorridente, soggiunse:

—Queste enormità, non dovrebbe dirle mai davanti a noi!

—Perdoni—rispose il dottore.—La verità va detta dovunque, davanti a chiunque, specialmente quando è richiesta. La scienza, infine, non ha obbligo di essere galante.

—Ma gli scienziati, sì,—replicò la baronessa.

—Secondo. Interrogato, ho dovuto rispondere. E poi, la mia età mi dispensa da certi riguardi. La parola dei vecchi è impersonale.

—Ma dunque lei crede, sul serio…?

—Che la donna è una creatura preumana. E non è opinione mia soltanto, ma di qualche eminente scienziato… e della Bibbia pure.

—Alla Bibbia si fa dire tutto quel che si vuole—lo interruppe la baronessa.

—Questa volta la Bibbia parla chiaro, e la storia naturale più chiaro ancora. La Bibbia dice: Dio creò l'uomo a sua immagine e lo creò maschio e femina. La storia naturale ci mostra tuttavia questo caso in parecchi animali inferiori, che sono maschio e femina, come la creatura umana primitiva. Così Giobbe ha potuto poi dire: Homo natus de muliere, l'uomo nato dalla donna. Infatti nasce anche al presente dalla donna, e nascerà sempre dalla donna, anche quando…

Il dottor Maggioli si fermò un istante, guardando con aria interrogativa la baronessa.

—Ecco—riprese;—lei mi ha messo in imbarazzo, richiamandomi alla galanteria; non so più andare avanti.

—Ormai!—rispose la baronessa, ridendo.—Dopo il bel complimento che ci ha fatto, siamo preparate a tutto noi signore. Inoltre, non vogliamo privarci del piacere di sentirlo parlare.

—Io sono positivo—continuò il dottore.—Amo le teoriche fino a un certo punto; ma quando una teorica diventa fatto… E questa di cui dovrò ragionare è già stata tale, per eccezione, una sola volta, finora. Diverrà regola in avvenire.

—Si spieghi meglio; non ci supponga altrettante scienziate!

—È un po' difficile, ma tenterò; e se non saprò evitare qualche crudezza, la responsabilità sarà tutta sua. Rammentano il processo e la condanna del professore Manlio Brezzi? Processo a porte chiuse, di cui si occuparono tanto i giornali, parecchi anni fa?… Ah! Io ho il difetto di tutti i vecchi, che non sanno capacitarsi di esser tali. Anni fa! Ma in quel tempo molti di loro non erano ancora nati, parecchi erano bambini: qualcuno, giovanetto da occuparsi di ben altro che di processi scandalosi. Non si spaventino; quel processo fu scandaloso in apparenza; nessuno può saperlo meglio di me. Il mio povero amico e collega venne condannato a essere chiuso in una casa di salute, e vi morì, divenuto pazzo davvero, quantunque vi fosse entrato con la pienezza della ragione. È caso frequente nei manicomii. Allora io ero partito da poco per l'America, e non potei testimoniare in favore del mio amico. Avessi anche potuto farlo, non sarei stato creduto. Avrei corso il rischio di essere giudicato matto pure io.

—Di che strano delitto era dunque accusato quel professore?

—Di aver abusato della figlia diciottenne, e di averla fatta morire per nascondere quell'infamia.

—E non era vero?… E fu condannato?

—Innocente, non poteva giustificarsi. Quel che egli aveva fatto era proprio incredibile. La giustizia umana fu indulgente, dichiarandolo pazzo; ne convengo. Manlio Brezzi era un cercatore, un precursore. Quando s'intravedevano appena alcune possibili applicazioni dell'elettricità, egli già faceva studi, prove e riprove giudicate assurde, e oggi conquiste che non meravigliano nessuno. E non era un semplice sperimentatore, ma un pensatore, un filosofo, grande per lo meno quanto la sua modestia, cioè grandissimo. Egli leggeva nell'avvenire come in un libro aperto; ma non faceva profezie, determinando, specificando. Diceva:—Dovrà accadere questo e questo. Quando? Dove? Come? Non ne so nulla. Ma accadrà infallibilmente.—Per lui i secoli, nella vita dell'umanità, contavano quanto i minuti della nostra esistenza. Un sintomo sociale, impercettibile per gli altri, s'ingrandiva davanti ai suoi occhi come sotto potentissima lente, arrivava sùbito alle sue estreme conseguenze. Ed io posso testimoniare che egli non si è mai ingannato, mai! I fatti gli hanno dato sempre ragione.

—Anche quello per cui è stato condannato, ed è ammattito?—domandò maliziosamente la baronessa.

—Quello assai più di tutti, perchè è quasi un miracolo. Cinquant'anni addietro, si parlava appena di quel che oggi porta il formidabile nome di feminismo; cinquant'anni addietro nessuno sospettava che un giorno avrebbe trovato proseliti e apostoli—fuori del cristianesimo—il misoginismo, l'odio contro la donna. Brezzi li aveva intraveduti, in germe, li aveva visti crescere e fiorire con la straordinaria virtù della sua immaginazione di scienziato; e una sera, nel suo studio, d'onde usciva rare volte soltanto per udire un po' di buona musica antica, una sera potè dirmi:

—Vedi, quanto è meravigliosa l'azione latente del pensiero che ha creato, e va continuamente creando questo e gli altri mondi dell'universo! La donna, proclamando la sua emancipazione, crede di provvedere alla sua sorte, e invece non fa altro che lavorare all'emancipazione dell'uomo dall'attuale giogo di lei. E tutti e due, maschio e femina, non capiranno, per un bel pezzo, che non si tratta di loro, personalmente, ma della specie; che dovranno liberarsi, alla fine, dal capriccio, dall'accidente che è nell'individuo e nelle forze brute della Natura, e attuare la propria legge riflessivamente, cioè costringendo le forze brute a operare non a loro capriccio, per caso, ma ragionevolmente, come già cominciamo a imporre all'elettricità, che sarà tra non molto nostra schiava. Domineddio o la Natura (è lo stesso) provvide, da principio, alla specie creando l'uomo maschio e femina insieme, al pari delle Palmelle e dei Zignemi tra gli Infusorii; e se separò poi i due sessi, li avvinse e li tiene ancora avvinti per via del senso, e anche per via del sentimento, costringendoli ad amarsi perchè procreino e continuino indefinitivamente la specie… fino a che non sarà intervenuta la scienza per ricondurre la donna a quel che è stata sempre e che sarà sempre (giacchè non può essere altro): un'incubatrice di creature umane, ma senza il concorso del maschio!

Così nude e crude, queste affermazioni sembrano assurde; ma, svolte dalla sua parola dotta, feconda, quasi poetica, diventavano d'una chiarezza, e d'una efficacia irresistibile.

—Senza il concorso del maschio?—feci io quella sera, non afferrando bene il suo concetto.

—Certamente. Quel gran chimico che ha detto che noi creeremo l'uomo coi lambicchi, ha detto una sciocchezza: lo creeremo senza il maschio, senza l'amore e il sentimento e senza gli altri inutili ammennicoli; con quella stessa forza che la natura ha adoprato e adopra per la creazione, l'elettricità; facendo selezioni, scelte ora affatto impossibili, e perfezionando le specie fino al punto in cui non sarà più quella che ora è. Non ricorreremo però a lambicchi, a fornelli o ad altro macchinario più complicato; ci serviremo del fornello, del lambicco, dell'eccellente macchinario che la natura ha elaborato a questo scopo; della vera Magna Parens, della donna; non sapremmo inventare niente che valga a sostituirla.

—Insomma, secondo te—lo interruppi—arriveremo alla fecondazione artificiale per via dell'elettricità…

—C'è qualche matto che già sperimenta, e che crede d'essere già su la buona via di scoprire…

E scrollava il capo, con benevola malizia nel sorriso e nel lampo degli occhi.

Sì, egli pensava a questo gran problema sin d'allora, e ne calcolava tutte le difficoltà, come pure tutte le conseguenze nella vita sociale.

—La maggiore difficoltà consiste—egli diceva—nel trasformare, l'elettricità minerale, vegetale e animale in elettricità umana. Ma forse, non è così insuperabile, come sembra a prima vista. Vedremo!

Quand'egli diceva:—Vedremo!—voleva significare che era quasi sicuro del fatto suo. E quattro mesi dopo apprendevo che due esperimenti gli erano riusciti bene: egli aveva fecondato un fiore e un insetto con le elettricità vegetale e animale da lui segregate e imprigionate in speciali apparecchi. Gli rimaneva di fare altrettanto per l'elettricità umana; e non disperava di raggiungere questo intento.

Un giorno—erano passati due anni—egli mi diè il grande annunzio! Confidava il suo segreto a un amico, non sapendo rassegnarsi, per ora, a imitare il barbiere di Mida che si era confidato con una buca.

—Ho fatto l'esperimento su mia figlia, senza che essa sappia ancora di che si tratti.

—Ma, sciagurato!—esclamai.—E non hai pensato a quali orrendi sospetti tu esponi la tua dolce creatura e te stesso?

—Che? Si potrà credere… che un padre… Oh!

Nella sua ingenuità di scienziato, non riusciva a persuadersi che la malvagità umana potesse arrivare fin là!

Ebbi un lampo di speranza.

—Sei tu certo della riuscita dell'esperimento?

—Certissimo.

—Disfa' quel che hai fatto—gli dissi brutalmente.

—Commetterei un delitto, sopprimendo una creatura viva.

Ebbi un altro lampo di speranza:

—Quando facciamo violenza a una legge della natura, spessissimo i risultati, che noi vorremmo ottenere, falliscono.

Mi auguravo che fosse così, per la felicità di quella innocente creatura sacrificata a un esperimento scientifico; per la pace di quel grand'uomo che aveva rapito al cielo qualcosa di più del leggendario fuoco di Prometeo.

Non rifarò il processo; non vi racconterò nemmeno per quali inevitabili circostanze il segreto dello stato anormale della giovine venne scoperto. Scandalo enorme!

Manlio Brozzi ne fu atterrito. Soltanto la giovane rimaneva sempre inconsapevole, credendo a una malattia che poi non la faceva molto soffrire.

Prima che la figlia arrivasse ad apprendere la verità, prima che ella potesse sentire odio ed orrore di suo padre, egli si risolse, finalmente, a distruggere quel che aveva imprudentemente creato. Ma, a questa seconda prova, la giovane non resistette, o piuttosto, resistette tanto, che ne morì come per una qualunque violenza di aborto.

—Mia figlia è morta vergine!—protestò più volte Manlio Brezzi all'udienza.

Ed era verissimo; fu assodato.

Ma i giudici, non potendo credere al di lui miracolo della fecondazione elettrica, lo dichiararono pazzo…

Verrà giorno che un altro pazzo…

—Non faccia il profeta anche lei!—lo interruppe la baronessa Lanari, con la gentile autorità di padrona di casa che vuol impedire un eccesso.

—Dirò soltanto che il feminismo e il misoginismo odierni sono la naturale preparazione dal fatto previsto cinquant'anni fa da Manlio Brezzi. Tra pochi anni, tra pochi secoli… tra qualche millennio, la donna e l'uomo non avranno rapporti tra loro molto diversi da quelli che noi ora abbiamo con le nostre mandrie, coi nostri armenti. Lo donna sarà la Magna Parens, la covatrice artificiale, e l'uomo… Ma, forse, allora l'uomo attuale non esisterà più, trasformato in essere assai più spirituale e più perfetto.

—Ma, dottore!… dottore!

—Non parlo così io, per mio conto, cara baronessa—rispose tranquillamente il dottor Maggioli.—Ho ripetuto le precise parole di Manlio Brezzi, d'un mirabile scenziato che, nel momento in cui mi diceva ciò, era, probabilmente, anche la Scienza!

III. Un geloso !!!

—Anormalità! Pervertimenti!—esclamò con insolito calore il dottor
Maggioli.—Che ne sappiamo?

—Ma… allora la scienza—riprese l'avvocato Rosaglia—non riuscirebbe più a raccapezzarsi…

—Peggio per essa!

—Come? Lei, uno scienziato positivo…

—Non mi aduli! Scienziati sono coloro che fanno progredire la scienza. Io, tutt'al più, merito di essere chiamato studioso. E soltanto con questa qualità ho ardito di domandare: Che ne sappiamo? Ogni individuo è un mondo a parte, un caso specialissimo. Le generalità, creda, sono metafisicherie senza costrutto, o piuttosto, costruite artificiosamente da persone per bene, non c'è dubbio!, di grande ingegno, chi vuol negarlo?, le quali però hanno fretta di riassumere, di concludere, dimenticando la gatta frettolosa che fece i gattini ciechi, secondo la sapienza dei secoli!

Anormalità! Pervertimenti! È presto detto. Io potrei anche sostenerle, e con ottime ragioni, che in certi casi, quel che più ci sembra anormale, infine, non è altro che il normale spinto al suo estremo e completo sviluppo… Ma lasciamo stare le astruserie. Niente convince meglio di un bel fatto. Lei ha recato parecchi esempi di passioni giudicate anormali. Che dirà quando io le avrò narrato il più strano caso di gelosia che, forse sia accaduto finora? Lo so, dirà:—Pervertimento di sensi! Pervertimento di coscienza!…—A che discutere? Finiremmo con fare scappar via le signore, e saremmo davvero imperdonabili.

—Questo poi no!—disse, con un bel sorriso, la baronessa
Lanari.—Quando parla lei, le signore non scappano; anzi!

—Probabilmente, perchè come tutti i vecchi ho sempre qualcosa di nuovo da raccontare. Infatti, un marito della specie del mio amico Bertagni—è morto da un pezzo, e posso nominarlo senza riguardi—non si trova a ogni piè sospinto.

Noi ci vedevamo soltanto al caffè, dove andavo quasi tutte le sere, per tre partite di bigliardo con lui e con altri due amici. Non ero il suo medico di famiglia. Nella giornata, c'incontravamo di rado, e scambiavamo, in fretta e in furia, un saluto. Egli aveva i suoi affari; io i miei malati… E poi, da qualche tempo in qua, volevo evitare di ritrovarmi, anche per pochi istanti, da solo a solo con lui. Non ero sicuro di non commettere la bestialità di scaraventargli a bruciapelo:

—Ma insomma, sei cieco, o… contento? Tu solo non ti accorgi?… Tu solo non badi?… Che uomo sei?…

Quella sua serenità, quella specie di sfida—immaginavo—gettata in viso alla gente con lo starsene sempre alle costole di colui che lo rendeva… ridicolo, oh, m'indignava! Poi riflettevo:—Bertagni non è uno sciocco, nè un vile; lo conosci fin da bambino. Deve soffrire immensamente e non vuol farlo capire! Lasciagli almeno il pudore della sua disgrazia! Ma una mattina, insolitamente, ecco Bertagni da me.

—La signora Lucia sta male?

—Lucia sta benissimo.

—Stai male tu dunque?

—Sì; ma la tua arte non può far niente per me.

—E… allora perchè sei venuto?

—Per sfogarmi!… E per consultarti.

Abbozzai un gesto di stupore, ma non così abilmente da poter farlo passare per sincero.

—Eh, via!… Tu sai, come tutti gli altri!… È inutile fingere… Ti ringrazio della gentile intenzione—soggiunse, vedendo che tentavo d'insistere in quella dichiarazione di ignoranza.—A me, credimi, non importa niente di quel che tutti sapete! Tre anni fa, sì, ci fu un momento—sono di carne anch'io!—che avrei fatto strage di lui, di lei, dei loro complici… A che pro? Ci eravamo sposati per amore; amavo Lucia con tenerezza paterna—ho dieci anni più di lei!—E poi!… Aveva confessato; mi s'era buttata ai piedi implorando:—Perdonami!… o ammazzami!—Sembrava una pazza.. La presi tra le braccia.. la baciai… e le perdonai!

—E l'ingrata ha ricominciato?—lo interruppi.

—Ha continuato—egli rispose con incredibile calma.—Io non le avevo chiesto l'assurdo; non volevo costringerla a mentire peggio di prima. Capivo ch'era stata trascinata da folle passione; cercando di comprimerla, di soffocarla, lei stessa ed io avremmo ottenuto l'effetto contrario. E, senza ombra di amarezza o di sarcasmo, senza atteggiamenti melodrammatici, con gran semplicità di parola e di gesto, le dissi:—Attenderò. Tutto finisce a questo mondo; finirete di amarvi anche voi due. Intanto, io sarò per te, più che un amico sincero, un complice… Oh, rassicurati! Ti voglio troppo bene da mentire fanciullescamente…

—Hai avuto questa forza d'animo?—esclamai.

—Vuoi dirmi: Sei stato così imbecille?

Sì, ne conveniva, era stato così imbecille; ma non ne era pentito. Aveva visto due felici, e provato la raffinata sensazione di chi, sapendo di aver prodotto una bella e fragile opera, ha pure la convinzione che, volendo, potrebbe sùbito distruggerla con la stessa facilità con cui l'ha prodotta… e se n'astiene unicamente per pietà di essa, non per altro. Quale di quei due era più felice? Colui che ignorava quel che era avvenuto tra moglie e marito? O la donna che si abbandonava tutta alla sua passione con l'indefinito acre piacere d'un pericolo sfidato e non potuto credere immaginario, per quanto il contegno del marito l'affidasse?

Egli non aveva saputo indovinarlo; ma si sentiva felice anche lui. Niente era mutato in casa sua e nei rapporti con quell'amico. La loro intimità anzi, da allora in poi, era divenuta più stretta, più cordiale. Quegli doveva certamente essergli grato della creduta cecità di marito; Bertagni gli era gratissimo della felicità di Lucia…

—Questo sconvolge tutti i tuoi pregiudizi sociali; te lo leggo in viso… ma non importa!—egli esclamò interrompendosi.

Sfido! Quel che avevo udito mi sembrava enorme; rovesciava ogni mia convinzione, ogni mia esperienza psicologica; e intanto colui che seguitava a farmi la incredibile rivelazione parlava con calma, come chi ragiona di cose affatto naturali per lui, pur accorgendosi che non debbano nè possano apparir tali anche agli occhi degli altri.

Finalmente, Bertagni intravede che le parole da lui pronunciate il giorno della confessione di Lucia, sono già sul punto di avverarsi:—Tutto finisce quaggiù! Finirete di amarvi anche voi!—Non aveva però mai pensato al caso che potesse essere lui il primo a finire! Ed ora intuiva qualche cosa che non avrebbe saputo precisare, una lontana minaccia da quella parte; e ne era profondamente turbato.

Una mattina aveva detto alla moglie:

—Che faresti… se lui non ti amasse più?

—Mi ammazzerei!

—Perchè?

—Perchè non vorrei rifarmi daccapo, con un altro; e tornar tua non saprei. Tu mi disprezzi.

—Da che cosa lo deduci?

—Dalla tua insensibilità. Ci ho pensato a lungo, spessissimo.

—T'inganni.

—Va bene. Che significa dunque questa tua domanda? Ti compiaci di spaventarmi?

—No, faccio soltanto un'ipotesi.

—Tu sai qualche cosa!—ella proruppe.

—Niente.

—Giuralo!

—Lo giuro!

Era impallidita, e le lagrime che le tremavano nella voce già le sgorgavano dagli occhi.—Mi hai fatto una gran paura!—esclamò. E lo guardava ancora incredula, ansiosa.

—E allora? domandai io, con vivissima curiosità.

—Non dev'essere lui a finire il primo, no!—

Entratagli in testa questa fissazione, il povero Bertagni non ebbe più pace.

L'amante si era stancato? C'era qualcuna che lo contendeva a Lucia?… Questa relazione però non gli costava niente… Egli era covato tra la bambagia… Ma, spesso, l'uomo si stanca della felicità posseduta senza nessuno sforzo e di cui si stima sicuro… Un'altra? Chi?… Più bella, più buona di Lucia? Oh, voleva vederla!

E cominciò a osservarlo, a spiarlo, a notare ogni mossa, ogni gesto, ogni parola dell'amante di sua moglie, per strappargli il segreto. E a un saluto, a un sorriso, a un complimento rivolto da colui a qualche signora, Bertagni vibrava di indignazione. Non erano furati a sua moglie? Capiva di esagerare: ma, da lì a poco, dovette convincersi che faceva benissimo; la esagerazione lo costringeva a spalancare gli occhi, ad aguzzare lo sguardo, a tendere l'orecchio.

E così ora soffriva lui—Lucia non sospettava affatto, e si lasciava illudere dalle apparenze!—soffriva lui tutte le torture, tutte le lacerazioni, tutti gli strappi al cuore prodotti dalla gelosia allorchè ci si rizzano davanti agli occhi misteriosità terribili, e per poco la nostra intelligenza non si smarrisce tra le tenebre della pazzia!

—Che hai?—gli domandava Lucia.

—Nulla.

—Che ha?—gli domandava anche l'altro.

—Nulla.

E il più profondo dolore del Bertagni era quel turbamento che involontariamente egli doveva cagionare nell'animo della moglie col silenzio, con le reticenze, con l'aspetto rannuvolato; giacchè, per quanto si sforzasse di dissimulare, non sempre riusciva.

—Sai tu qualcosa?… Puoi tu indicarmi qualche traccia? Non essere pietosamente crudele! Parla!—mi disse all'ultimo.—Te ne supplico: parla!

Non sapevo che rispondergli e lo guardavo stralunato.

E mi raccontò che il giorno avanti avea voluto ammonire colui, senz'averne l'aria, fingendo di ragionare intorno a un caso molto simile al suo.

—Il seduttore—gli aveva detto—è vigliacco, se tradisce senza nessuna ragione. Offende due volte la donna amata; prima, rendendola colpevole; poi, posponendola a un'altra che, forse, vale assai meno di quella. Io, marito, se avessi la disgrazia…

—Che discorsi!—lo aveva interrotto l'amico.

—Io, marito,—egli continuò—se avessi la disgrazia… (oh, non tanto pel tradimento—novantanove volte su cento, il seduttore è un amico!—quanto per l'offesa dell'abbandono…) Io marito…

—Che discorsi!—tornò ad interromperlo colui, imbarazzato.

—Io marito, che potrei essere indulgente nel primo caso, sarei proprio inesorabile nel secondo, se mai avessi la disgrazia…

—Non mi ha lasciato finire—esclamò dolorosamente—e mi ha voltato le spalle!:.. Ho fatto male? Forse, ahimè, ho accelerato la catastrofe che avrei voluto impedire!… E per ciò oggi che ho il cuore assai più oppresso, e sento un gran bisogno di sfogarmi nel seno di un amico fidato, sono venuto da te. Scusami!… Povera Lucia!

Non l'ho riveduto più, nè ho mai saputo la soluzione di questo caso, forse unico, di gelosia maritale. Io dovetti lasciare Torino alcune settimane dopo, e non vi sono più ritornato. Appresi a San Francisco che il buon Bertagni era morto di nefrite, nel '50.

IV. La redenzione dei capolavori.

—Che ne dice, dottore?—domandò la baronessa Lanari.

—Non ho capito bene—rispose il dottor Maggioli.—I giovani di oggi fanno da vecchi anche parlando. A vent'anni—ahimè, più di mezzo secolo fa—la generazione a cui appartengo urlava, gesticolava fin ragionando di cose ordinarie, metteva in ogni suo atto quella vivacità e quell'entusiasmo che poi produssero le quarantottate… Non rida, giovinetto mio—egli proseguì, rivolgendosi a colui che aveva parlato.—Le quarantottate sono valse a qualche cosa; e, forse senza di esse… ma non entriamo nella politica. Volevo dire che non ho afferrato bene il senso delle sue parole; lei parlava troppo piano.

—Per timidezza,—lo interruppe il giovinetto.—La mia opinione avrebbe potuto sembrarle un'enormità.

—Abbia il coraggio di affermare qualunque enormità ad alta voce. È un modo come un altro di far progredire l'umanità. Lei dunque sosteneva…

—Che un giorno noi ci sbarazzeremo delle nostre gallerie d'arte, vendendole ai selvaggi del centro dell'Africa, della Nuova Zelanda, della Papuasia, agli Esquimesi, agli abitatori dei Poli, se ce ne sono. Quadri e statue serviranno loro da giocattoli, fino a che quei selvaggi non si saranno anch'essi inciviliti; se pure, da fanciulli grandi, non li sciuperanno prima, per vedere come sono fatti, precisamente come praticano i nostri fanciulli coi giocattoli di Parigi e di Norimberga.

—S'inganna, riprese il dottore sorridendo.—Così le avrebbe risposto il mio vecchio professore di fisiologia, se lei gli avesse espresso questo suo convincimento. Tra quattro o cinque secoli—egli metteva una lunga data per precauzione—i veri capolavori di pittura e di scultura non esisteranno più, cioè non staranno più chiusi nelle gallerie, ma andranno attorno pel mondo, vivi, immortali, e genereranno altri esseri, immortali al pari di loro; e formeranno, forse, il nucleo dell'umanità futura.

—Questa, sì, è un'enormità!—esclamò la baronessa.

—Lo credevo anch'io; ma ho dovuto ricredermi. E morrò col dispiacere di non poter assistere alla Redenzione dei capolavori, come il mio professore la chiamava.

—Ci sarà dunque pure un Cristo per le opere d'arte?

—Sì, baronessa; e sarà quella stessa divina forza che le ha create: il Pensiero!

—Vuole sbalordirci, dottore!

—Quando avrò raccontato quel che ho visto con questi occhi, lei penserà diversamente.

—Quante stranissime cose ha viste!—esclamò la baronessa con fine espressione di malizia.

—Privilegio della vecchiaia! Quel mio professore di fisiologia aveva un gran difetto; era eccessivamente modesto.

Soleva dire:—Più la scienza va avanti e più diviene ignoranza!—Modo suo speciale per indicare che ogni mistero schiarito ce ne mette sùbito innanzi parecchi altri e maggiori. La modestia di quel grand'uomo proveniva dalla sua immensa dottrina. Diceva pure:—Una verità precoce può esser utile assai meno di una menzogna opportuna.—Ed è vero. Ma se io dovessi riferire tutti i sapienti aforismi del mio vecchio professore non la finirei fino a domani.

Per arrivare al concetto della Redenzione dei capolavori, egli era partito dall'idea che il pensiero umano, creando un'opera d'arte, non poteva agire diversamente dal pensiero divino che agisce nella natura. Secondo lui, si trattava anzi dell'identica forza creatrice, con la sola differenza che il pensiero divino opera nella natura direttamente; indirettamente, per mezzo dell'umano organismo, nell'opera d'arte.

Io, materialista in quel tempo, sorridevo sotto il naso udendo queste metafisicherie dalla bocca di un professore che, appunto per la scienza da lui coltivata, la fisiologia, giudicavo avrebbe dovuto essere più materialista di me. Lo ascoltavo però con rispetto, perchè infine le sue metafisicherie si abbarbicavano sempre a un fatto, a parecchi fatti che gli esperimenti rendevano indiscutibili. Pensavo—È un gran poeta costui!—e ignoravo di dire una profonda verità, giacchè poeta significa: creatore o, meglio, rivelatore.

Egli stimava che le figure umane dipinte dai grandi artisti o scolpite in marmo, quando raggiungevano un alto grado di bellezza, dovevano essere certamente qualche cosa di più che semplici figure con la sola apparenza della vita. Figure voluttuose, figure severe, figure pensose, figure dai cui occhi e atteggiamenti traspariscono l'anima e la volontà, no, non potevano essere soltanto un gioco di linee e di colori, se poi provocavano sensazioni e sentimenti che sono arrivati in certi individui fino alla passione e alla pazzia. Piuttosto creature con organismi incompleti, o, meglio con organismi più raffinati, più perfetti del nostro, ma rimasti come in incubazione su la tela o nel marmo, in attesa dell'alito risvegliatore della loro vita latente.

—È una bella fantasia!—gli dissi un giorno.

—Sarà una realtà, giacchè mi costringi a rivelartelo—egli rispose.

E mi condusse in una stanza appartata del suo vasto laboratorio.

A una parete era appeso un ritratto di donna. Mi parve di riconoscerlo; avevo una confusa idea di averlo visto e ammirato non ricordavo più dove, quantunque ora—per accorta disposizione di luce, credevo—mi sembrasse assai più bello. Quell'attraentissima mezza figura cinquecentesca produceva una straordinaria illusione di rilievo, quasi di stacco, dal fondo grigio oscuro. Gli occhi avevano vividi lampi, come se nella pupilla si riflettessero le persone e gli oggetti circostanti; le labbra, un umidore, come di fiato che passasse a traverso della sottile apertura della bocca, donde s'intravedeva una fila di denti bianchissimi: la pelle una colorazione, una morbidezza, come se sotto la epidermide palpitassero, con impercettibile movimento, le vene che la rendevano fresca, rosea, quasi fosforica.

—Che capolavoro!—esclamai.

—È di Sebastiano del Piombo. Siedi là e sta a osservare.

Si sedette pure lui davanti al quadro a mezzo metro di distanza, e tese le braccia con le mani aperte, al modo che usano i magnetizzatori coi soggetti da ipnotizzare.

Oh, quel che avevo notato poco prima non era stato una illusione ottica, prodotta dai chiaroscuri e dalla luce! A poco a poco, sotto la influenza della corrente magnetica che si sprigionava dalle mani del professore, la figura dipinta si animava sempre più, s'agitava con lieve fremito, prendeva un'incredibile espressione di benessere, di piacere e, talvolta, anche di sofferenza, di smania repressa o che non riusciva a manifestarsi compiutamente. Dopo un'ora, e fino a che le braccia rimasero tese verso di essa, io potei credere che la figura di donna, immortalata su la tela dal prodigioso pennello di Sebastiano del Piombo, sentisse circolare dentro di sè un alito di vita assai diverso da quello ricevuto dalla potenza dell'arte. E quando le braccia del professore, cadendo stanche ed estenuate pel lungo sforzo fatto, interruppero la miracolosa operazione, dovetti accertarmi che qualche cosa era rimasto là, su la tela, qualche cosa di più di quel che vi avevo notato entrando, quantunque assai meno di quel che era apparso sotto i miei occhi mentre l'opera di vivificazione durava.

Sfinito, col respiro ansante, col viso livido di pallore, il professore teneva china la testa sul petto e gli occhi socchiusi. Gli presi una mano; era diaccia come quella di un cadavere. Dopo alcuni istanti, però, egli si riaveva, alzava la fronte rugosa e mi guardava tentando di sorridere.

—È mai possibile?—esclamai.

—Dubiti ancora!—mi rimproverò.—Sei dunque di coloro che preferiscono di dar torto alla testimonianza dei loro sensi, se questi contradicono un'opinione da essi stimata certezza?

Non lo nego, ero di questi! Dopo un quarto d'ora di riflessione, io credevo di essermi lasciato vincere dalla violenza suggestiva di lui; ma la sicurezza di tale convincimento veniva sùbito scossa, appena volgevo lo sguardo al ritratto. L'impressione che ne sentivo era stranissima: di cosa equivoca, non più opera d'arte e non ancora persona viva.

—Dovresti aiutarmi; sei giovane, robusto, e persona seria, di cui posso fidarmi—soggiunse il professore rizzandosi da sedere.

E mi raccontò la storia di quel ritratto d'ignota. Qualcuno di voialtri forse ricorderà lo scalpore che levarono i giornali parecchi anni addietro pel furto di un quadro della Galleria degli Uffizi. Lo aveva fatto rubare lui.

—Per tentare la prova—continuò—occorreva un capolavoro che esercitasse vivissima impressione su l'operatore; mi sembrava condizione indispensabile, ed io non potevo chiedere di averne uno a mia disposizione, senza farmi giudicare impazzito. Questo ritratto lo avevo visto più volte e n'ero rimasto profondamente scosso. Ne avevo anche ordinato una copia quattr'anni prima, ma era riuscita così male che avevo dovuto rifiutarla. Quando mi fissai nell'idea di questo esperimento, la ignota di Sebastiano del Piombo mi si presentò così insistentemente davanti agli occhi, che decisi di averla qui, a ogni costo. Non ho rimorso di aver fatto commettere un furto; lo scopo scientifico assolve d'ogni peccato. Tu non andrai a denunziarmi—soggiunse.—Mi denunzierò da me stesso, quando sarà l'ora.

Ahimè, quell'ora non arrivò, perchè le cose di questo mondo sono in gran parte rette dal caso. La morte colpì all'improvviso il professore, quando il suo esperimento era appena a un terzo di strada. Due giorni avanti, io avevo potuto assistere, ancora mezzo incredulo ma stupito, alla progressiva animazione del ritratto dell'ignota; ed ero uscito dal laboratorio domandandomi:—È possibile?—e rispondendo a me stesso:—sei peggio di San Tommaso!

Infatti, avevo osato di accostare la punta delle dita a quel volto che si animava, che palpitava; e, provata la sensazione di toccare non un freddo dipinto ma carne tiepida e molle che si sollevava, come una bolla, dal fondo della tela, avevo tratto indietro la mano con rapido gesto di terrore e di ripugnanza.

Il giorno della morte del professore, dopo averlo adagiato con l'aiuto di altre persone sul lettino di ferro dove egli aveva dormito, per tanti anni, poche ore della notte—non si permetteva, da quasi mezzo secolo, più di quattr'ore di sonno—io volli rivedere il ritratto dell'ignota. Un doloroso presentimento mi agitava: che la interruzione di quella vita avesse dovuto guastare i resultati ottenuti.

Un orribile spettacolo mi fece indietreggiare.

Il capolavoro di Sebastiano del Piombo era irrimediabilmente deformato; quasi la pelle di quel florido viso femminile fosse stata ridotta una vescica sgonfiata, raggrinzita e appiccicatasi, seccando, su la tela.

V. Due scoperte.

Che cosa era accaduto durante la giornata al dottor Maggioli? Qualcosa di lieto certamente, perchè in quella sera lo vedemmo entrare in salotto così arzillo e così allegro da irradiare il suo buon umore su tutte le persone colà raccolte.

—Sentiamo il suo parere—gli disse la baronessa Lanari.—Ma già lei lo ha espresso anticipatamente con la pratica; non ha preso moglie. Il cavalier Borrelli sostiene che artisti e scienziati dovrebbero restare celibi; non si può servire a due padroni, egli afferma.

—Sarei giudice e parte nella quistione—rispose il dottor Maggioli.—Per ciò riferirò soltanto come credeva di averla risoluta un luminare della scienza tedesca.

Nessuno, meglio del chiarissimo professore Jonath von Schwächen della piccola ma celebre università di Entmannt nello Schwazabourg, nessuno ha sperimentato meglio di lui la verità di quel proverbio. E nel suo caso c'era l'aggravante, come direbbe un avvocato, che, invece di due padroni, egli doveva servire due padrone: la moglie e la scienza.

—Avrebbe potuto scegliere!—direte. Eh, no! oramai la scelta non era più possibile. Fatta la sciocchezza di prender moglie—e vi assicuro che non era stata una sciocchezza, perchè la signora Von Schwächen rappresentava quel che c'è di più grazioso, di più roseo, di più biondo e nello stesso tempo di più solido nel tipo viennese—fatta, come suol dirsi, la sciocchezza di prender moglie, il povero professore non aveva altri mezzi di mantenere la sua cara metà all'infuori di quelli che poteva apprestargli la scienza; scienza a cui aveva consacrata tutta la sua giovinezza, vivendo di patate e di birra per parecchi anni, e di castagne in alcuni mesi dell'anno, intestato di riuscire una celebrità nel ramo della neurologia, scelto non so perchè, ma certamente non a casaccio.

A trent'anni infatti, egli era già additato come una delle glorie più luminose di questa nuova branca della antica fisiologia; le sue scoperte si contavano a dozzine; e due o tre di esse avevano sconvolto da cima a fondo scienza e scienziati, aprendo larghi spiragli di verità neppur sospettati fin allora.

Come il giovine professore, conquistato meritamente un alto posto nella piccola, sì, ma celeberrima università di Entmannt, avesse conosciuta, conquistata e sposata la bella e spiritosa signorina Elsa Meizen, non importa raccontare, quantunque sia assai interessante. Mi menerebbe troppo lontano e poi insinuerebbe qualcosa di leggero e di voluttuoso in questa narrazione che tenta di spaziare nella più seria e più elevata atmosfera scientifica. Basti sapere che i tormenti intellettuali del professore nella terribile lotta coi più complicati misteri della vita animale, erano eguagliati dai tormenti del marito che voleva—e chi può biasimarlo?—rimanere unico e assoluto possessore del tesoro di grazia di Dio che la sua buona sorte gli aveva concesso.

Non già che la signora Von Schwächen gli avesse dato il minimo pretesto di farlo sospettare della di lei purissima virtù; no, mai! Ma la bella e dolce signora non poteva impedire che gli sfaccendati di Entmannt, e specialmente i giovani studenti, non la perseguitassero con la loro troppo visibile e troppo significativa ammirazione, tutte le volte che ella accompagnava il marito nei giardini pubblici e nelle birrerie della città e dei dintorni; e il professore non era così assorto dagli esperimenti e dalle scoperte scientifiche da non accorgersi delle insidie che venivano tese alla sua felicità maritale.

Fino a un certo tempo egli si era difeso da ogni possibile malanno con l'interdire alla moglie e interdirsi qualunque relazione di società e d'intima amicizia, calcolando anche un po' su la lentezza degli istinti amorosi dei suoi compaesani, che sogliono divagarsi troppo a lungo per via, dietro il poetico e il sentimentale, prima di arrivare al positivo.

Figuratevi dunque la meraviglia e lo stupore di tutta la piccola, sì, ma pure pettegola cittaduzza di Entmannt, quando si seppe che l'orso di Düsseldorf come era chiamato il professore perchè nativo di colà, si era ammansato tutt'a un tratto, e frequentava le riunioni e riceveva in casa sua e dava fin pranzi per far ammirare, diceva, l'abilità culinaria della sua giovine signora.

Dirò subito di che si trattava.

Il gran neurologo—per caso, come accade sempre, ed egli non voleva accrescere, nascondendolo, il merito della sua scoperta—il gran neurologo, tormentando cavie e conigli e altri simili animali condannati dal destino alla vivisezione, si era accorto che certe sue operazioni intorno a non so qual paio di nervi, precisamente a sinistra della spina dorsale, producevano nei suoi soggetti di studio una rapida quanto durevole estinzione della facoltà amatoria, senza nessun pregiudizio delle altre funzioni vitali, anzi con evidente benefizio della salute. L'operazione poteva venir fatta con tale semplicità di mezzi, con tale sicurezza di riuscita, che non è da meravigliarsi se nel cervello del professore, continuamente agitato dal timore di perdere per lo meno l'esclusività del possesso del suo tesoro coniugale, nascesse subitanea la diabolica idea di servirsi di quella scoperta unicamente per sua personale difesa, finchè durava il pericolo, prima di abbandonarla all'universale patrimonio della scienza.

Ed ecco come cominciò a procedere e continuò per due anni a Entmannt il terribile difensore del suo diritto di marito. Adocchiato il più assiduo e il più intraprendente dei corteggiatori di sua moglie, lo invitava a pranzo e lo ubbriacava. Appena l'infelice, designato a esser vittima del fatale bisturi, cascava col capo su la tavola, il professore, aiutato dal servo, lo trasportava nella stanza dov'era già preparato un letto per riceverlo. Con la scusa di vegliar l'amico, egli si chiudeva per pochi minuti con l'addormentato suo ospite, lo rovesciava bocconi, metteva a nudo quel punto che la sua scoperta gli aveva additato, faceva la invisibile puntura… e tutto era finito! La mattina dopo, colui si svegliava, oh quantum mutatus ab illo!… E così lo sterilizzato personaggio—come egli con moderno vocabolo scientifico lo chiamava—poteva rimanere assiduo frequentatore della casa e dei pranzi, senza che la virtù della bella e seducente signora Von Schwächen corresse pericolo.

Il delitto scientifico—bisogna qualificarlo tale—rimaneva, non che impunito, ignorato, perchè le povere vittime non erano in caso neppur di supporre d'onde poteva essere derivata la loro disgrazia; e avevano il più grande interesse di non divulgarla.

Se non che c'è nel mondo, a quel che sembra, una giustizia assai più oculata e più tremenda della pretesa giustizia umana! E, tardiva ma inesorabile, essa raggiunse il colpevole al suo ottavo o nono delitto.

Ermanno Flart era uno dei più bravi discepoli del professore, e suo aiuto in molte delicatissime esperienze. La giovinezza, la natura estremamente vigorosa, anzi eccessiva, lo spingevano a lusingarsi di poter essere anche aiuto del professore in certe intime funzioni, che questi, da buon marito, pretendeva di eseguire da solo.

Quando si accorse delle mostruose intenzioni del prediletto discepolo—mostruose, perchè rivelavano la nera ingratitudine di cui egli era capace—il professore non potè frenarsi dal prorompere in eloquentissimi sfoghi contro la precoce perversità dei giovani moderni; ma il suo sdegno si centuplicò allorchè potè accertarsi che la sua fin'allora impeccabile metà incoraggiava, forse inconsapevolmente, gli slanci amorosi dello studente con occhiate e sorrisi in modo insolito prodigatigli ogni volta che quegli veniva a trovare il professore in casa o lo accompagnava nelle passeggiate e nelle diverse stazioni alle birrerie assieme con la sua bionda metà.

Occorreva provvedere e sùbito; e per ciò Ermanno Hart ricevette, da lì a due giorni, un invito a pranzo, pel quale non seppe nascondere la grandissima gioia e la immensa soddisfazione.

Lo studente, a tavola, non ebbe bisogno di incitamenti a bere e a ribere. Era già di sua natura bevitore poderosissimo; e il fuoco dei begli occhi della signora Von Schwächen gli produsse quel giorno tale irritante senso di aridità alla gola, che egli vuotò più bottiglie di vino e più scioppi di birra in due ore che non avesse mai fatto in un mese.

Cadde quant'era lungo, come morto, per terra, nel punto che voleva alzarsi dalla seggiola per propinare alla salute della bionda signora del suo professore. Il quale, mal dissimulando la infernale contentezza, lo raccolse, aiutato dal fido servitore, e lo trasportò nella solita stanza, dove poco dopo si chiuse, solo con lo studente, per procedere alla premeditata operazione sterilizzatrice.

Fosse però il turbamento che il delitto desta sempre, anche nei cuori più induriti, o avesse il professore ecceduto nel bere per dare il buon esempio alla sua futura vittima, fatto sta che l'occhio e la mano non solamente non furono fermi e sicuri come le altre volte, ma il caso se ne mescolò forse per far fare al chiarissimo neurologo una scoperta in opposizione a quella malefica e sterilizzante.

Sia che egli abbia operato la puntura nel lato destro invece che nel sinistro, o in un altro impercettibile punto non ancora scrutato dalla scienza, il resultato fu terribile.

E prima ad accorgesene fu la dolce signora Von Schwächen, che il marito, chiamato per non so quale seduta coi suoi colleghi di Università, avea dovuto lasciar sola a guardia dell'addormentato.

Ella era entrata nella camera, assai commossa dal caso; e si era permesso un castissimo gesto di carezza, alla fronte del giovane, quando lo vide saltar giù dal letto… Ah Signore Iddio!

E non ebbe tempo di indignarsi, di gridare al soccorso.—Non aggiungerò altro,—s'interruppe il dottor Maggioli, a un vivissimo gesto della baronessa,—quantunque, se veramente avesse voluto, nelle tre ore che passarono—egli soggiunse subito, sornione—prima che il professore fosse tornato a casa, la onesta signora avrebbe potuto indignarsi, gridare al soccorso e fare ben altro!

Il professore trovò il giovane già desto, un po' abbattuto, e gli sorrise col più ipocrita dei sorrisi che mai labbro umano avesse abbozzato. E sicuro del fatto suo, trionfante, sprezzante, da quel giorno permise che il giovane Hart rinnovellasse più frequentemente le visite alla signora, e consentì anche che l'accompagnasse qualche volta, e solo, al passeggio.

La signora Von Schwächen scoprì un giorno, fra gli appunti dei cartolari scientifici del marito, la spiegazione della sua sicurezza e della sua tranquillità, e fu indignata dell'infamia commessa contro quei poveri otto o nove timidi adoratori di lei. Palesò la scoperta al suo Hart; il quale, sospettando quel che doveva essere accaduto con lui, si diè segretamente a fare esperienze che lo condussero a verificare, in modo assolutamente scientifico, quel che il caso aveva fatto operare al ferocissimo sterilizzatore.

I due amanti, per ciò, stimandosi troppo protetti dalla sicurezza del professore, non presero più, da allora in poi, tante precauzioni nelle loro gioie, e un bel giorno si fecero sorprendere.

Ma allora si vide quel che può la passione scientifica in un alto intelletto. Invece di buttarsi addosso al vituperatore del suo talamo e strozzarlo, il professore Von Schwächen volle persuadersi come mai la sua operazione fosse fallita. Si mise a discutere con lo scolaro, quasi niente di male fosse accaduto, quasi si trovassero rinchiusi nel laboratorio. Il professore espose la sua scoperta e le sue otto o nove esperienze in anima vili; Hart riferì i resultati opposti, ottenuti per via delle ricerche da lui iniziate, e addusse in prova sè stesso.

E di accordo, come contratto di pace, professore e scolaro stabilirono di non propalare le loro rispettive scoperte.

—La mia è malefica!—conchiuse il professore.

—La mia è peggio; è superflua!—conchiuse il discepolo.

VI. L'invisibile.

—Oh, io sono come le bambine, alla mia età!…—disse la baronessa Lanari, ridendo.—Raccontatemi una fiaba, datemi a leggere una storia meravigliosa e sto a sentirla tutta occhi e orecchi, e divoro le pagine con deliziosa ansietà, anche quando la paura mi fa accapponare la pelle. Le novelle, i romanzi, che ci rappresentano fatti di ogni giorno, che ci ricantano le solite storie, alle quali spesse volte abbiamo assistito da testimonii e un po' forse da interessati; che, per lo meno, somigliano tanto a queste, da darci l'illusione che il merito del novelliere e del romanziere consista unicamente nella bella maniera con cui ha saputo raccontarceli; le solite novelle, i soliti romanzi mi fanno l'effetto di un pettegolezzo trasportato dai salotti nelle pagine di un libro. Invece, le storie meravigliose che hanno la potenza di farci penetrare lentamente, inavvertitamente, nelle regioni dell'impossibile, dell'assurdo, e farci sognare a occhi aperti e darci l'illusione che l'impossibile, l'assurdo siano, o siano stati, per eccezione, per misteriose circostanze, una realtà, non mi deliziano soltanto perchè mi trascinano con dolce violenza in un modo diverso dal nostro, ma anche perchè m'ispirano una grande ammirazione per l'ingegno dell'autore. Dopo, appena la sorpresa è passata, io rifletto che le cose lette sono una… una…

—Una sciocchezza, una stupidaggine—l'aiutò a dire il dottor
Maggioli.

—No, una mistificazione—riprese la baronessa—un capriccio di fantasia artistica (quel che mi sembra sciocco o stupido non riesco a leggerlo); che importa, però? Per una o due ore, per mezza giornata, io ho avuto il beneficio di dimenticare le noie, le miserie, le brutture che mi circondano e mi irritano e mi affliggono, e sono gratissima all'autore da cui è stato prodotto quel miracolo. Mesi fa, ho letto un romanzo inglese dove si narra la storia di un uomo riuscito a rendersi invisibile…

The invisible Man—la interruppe il dottore.—L'ho letto anch'io che non soglio leggere romanzi, ed è stata una gran delusione. Mi aspettavo di trovarvi ben altro. L'uomo invisibile non è un'assurdità, è una realtà, ed io credevo che quell'autore avesse voluto raccontarci la storia vera…

—Ecco, ora vuol mistificarci lei!—esclamò l'avvocato
Veraldi.—Scommetto che ha già pronta qualcuna delle sue storielle…

—Dica pure storielle, non me ne offendo—rispose il dottor Maggioli.—Convengo che possano sembrare tali perchè non sono ordinarie. Ma sappia che ogni volta che io racconto in questo salotto qualcuna di quelle che lei chiama storielle, io racconto fatti da me veduti, dei quali posso affermare, fin con giuramento, la veridicità. Mai, come nel caso dell'Invisibile Man, è apparso evidente che la fantasia più sbrigliata sia incapace di raggiungere la prodigiosa potenza della Natura. Vi sono attorno a noi, dentro di noi tali forze di cui pochi sospettano l'esistenza, e che si lasciano indietro, a grandissima distanza, tutto quel che possono inventare di più strano, di più incredibile un novelliere, un romanziere, un poeta in vena di scapricciarsi con le finzioni più pazze. Chi sa che cosa s'immaginava di aver prodotto lo scrittore dell'Uomo invisibile! Una cosa sbalorditoia, originalissima… Ebbene, io posso assicurarvi, baronessa, ch'egli è rimasto assai assai al disotto della realtà. L'uomo invisibile io… come dire?… l'ho visto. Sembra una contraddizione, e non è.

—Infatti, giacchè era invisibile…—disse la baronessa.—Ma dunque?

—Giudichi lei se ho ragione di parlare così. E perchè questi signori capiscano di che cosa si tratta, accennerò che il romanziere inglese ha inventato le avventure di un giovane scienziato il quale, per mezzo di reagenti chimici, è riuscito a rendere invisibile il suo corpo, e a dare il pauroso spettacolo di un cappello, di una giacchetta, d'un paio di pantaloni, di un paio di scarpe che camminino da sè, come cosa viva, senza che si scorga il corpo umano da cui sono portati. L'uomo invisibile del quale voglio parlarvi era diverso, meno incoerente senza dubbio, dell'eroe del romanziere inglese. Poteva rendersi invisibile quando gli faceva comodo, e interamente, corpo e vestiti. Poteva…

—Non ci metta paura facendoci credere che ciò sia possibile!—esclamò la signorina Bonucci.—Mi vengono i brividi soltanto a pensare che un uomo sia in caso di introdursi non visto in camera mia quando io più credo di essere sola…

—Si rassicuri.—continuò il dottor Maggioli, sorridendo.—Non è facile arrivare al punto di produrre in sè questo prodigio. Occorre un organismo speciale e tale persistenza nello sforzo per raggiungere lo scopo, da scoraggiare i più risoluti. E poi—sarebbe lungo spiegarlo—certi singolari stati fisici, come questo di cui parliamo, richiedono, a quel che pare, singolari e corrispondenti condizioni morali da impedire che se ne abusi, servendosene per soddisfare volgari e delittuosi capricci.

—Ah! Se fosse vero—lo interruppe l'avvocato.—io vorrei almeno divertirmi!

—Zitto!—disse la baronessa..—Sarebbe un po' difficile che lei, con tutto quell'adipe, divenga invisibile!

—Non era magro—riprese il dottor Maggioli, ridendo anche lui.—l'uomo che una mattina venne da me per consultarmi. Si lagnava di un male strano: aveva la sensazione di essere così leggero, che camminando gli sembrava di venir trasportato via dal movimento dell'aria più che dai piedi, quantunque il corpo obbedisse alla sua volontà.

—Sono un po' estenuato—disse, esitando. Lo invitai a spiegarmi quali potevano essere state le cagioni del male.

—So—rispose—che lei è una persona spregiudicata, e perciò ho preferito di consultarla invece del mio medico ordinario. Ho voluto fare un esperimento, sono riuscito, ma ne risento le cattive conseguenze. Non ritenterò più; intanto cerco di riparare i danni prodotti nel mio organismo dall'imprudenza commessa.

Per quanto io fossi già ridotto a non meravigliarmi di niente, mentre egli mi esponeva il suo caso, stavo incerto se avessi da fare in quel momento con un individuo malato di corpo o di spirito. L'uomo più spregiudicato del mondo non può udire senza incredulità la recisa affermazione di un fatto che contraddice a tutte le leggi della natura da noi credute inviolabili. E colui mi rivelava tranquillamente di essere arrivato a rendere invisibile il suo corpo e i suoi vestiti, e di essersi potuto spingere, così, a grandi distanze dal luogo in cui si trovava. Egli attribuiva a queste esperienze l'estenuazione che gli produceva l'effetto di sentirsi trasportato via, più che di camminare coi propri piedi.

—Come ha fatto?—gli domandai, quasi egli m'avesse detto cosa da non recarmi nessuna meraviglia.

—Non vorrei abusare della sua cortesia—rispose—intrattenendolo per parecchie ore con la spiegazione di teoriche un po' astruse. E poi, il preciso come non saprei spiegarglielo neppure io stesso. Tenterò.

Era un adepto teosofo, un discepolo di quella scuola religiosa filosofica e scientifica che esiste nell'India e che la signora Blavatsky e i suoi collaboratori cominciano a diffondere in Europa.

Ascoltai, senza batter ciglio, senza mostrare stupore o incredulità; anzi arrivai fino a mostrarmi persuaso della possibilità del fatto. Soggiunsi però:

—Una cosa è la possibilità di un fatto, altra la realizzazione di esso. Io, per esempio, non dirò mai che i palloni, teoricamente, non siano dirigibili; ma, per ora, la scienza non è riuscita a ridurre in pratica la teorica, quantunque molti si siano illusi di aver sciolto l'arduo problema.

—Crede dunque che io sia un illuso? Che il fatto della mia invisibilità sia soltanto un'allucinazione prodotta dallo sforzo nervoso, e dalla perturbazione che n'è seguita nell'organismo?

—Potrebbe darsi—risposi.

—In questo caso, le darò una prova. Ritornerò da lei fra qualche giorno.

—Perchè non darmela ora stesso?

—Perchè occorre una preparazione. La prova sarà tale, che lei non potrà più dubitare. Intanto pensi al rimedio ora che sa di che cosa si tratta.

—Una buona serie di doccie fredde!—dissi da me.

E credevo di non più rivederlo, sapendo per esperienza che i malati del genere a cui stimavo che colui appartenesse non sogliono ritornare dai medici, se sospettano di non essere stati presi sul serio.

Ecco ora quel che mi accadde due giorni dopo, e quando non pensavo affatto al mio strano visitatore.

Ero rientrato in casa portando cinque o sei bellissime rose thea. Allora amavo di avere qualche fiore sul mio tavolino di studio, in un vasetto giapponese regalatomi da un amico, oggettino bello e raro che mi era carissimo. Le avevo poste io stesso in quel vasetto, mutando l'acqua dei fiori mezzo appassiti che vi si trovavano da due giorni. Riferisco questi particolari per far meglio comprendere il mio stupore quando, terminato di leggere alcune lettere arrivate nella mia assenza, non vidi più le rose dove con molta cura le avevo disposte poco prima. Accusandomi di sbadataggine, le cercai con gli occhi per la stanza, su altri mobili; le rose erano sparite! Passato il rapido sbalordimento, io non potei più dubitare di averle poste nel vasetto e cercavo di spiegarmi quel fatto, sospettandolo una burla di un mio nipotino entrato zitto zitto nello studio mentre ero distratto dalla lettura. Guardai l'uscio, e vistolo chiuso e non socchiuso, rivolsi di nuovo gli occhi al tavolino… Era sparito anche il vasetto!

Un brivido di freddo mi corse per le ossa. Davanti a certi fenomeni non c'è tempra d'uomo che resista. E il pensiero volò subito all'incognito che mi aveva promesso una prova della sua invisibilità. Egli doveva essere nello studio, in qualche angolo, e chi sa come rideva della mia paura e del mio imbarazzo!

Giacchè, lo confesso, io avevo paura non sapevo come comportarmi.

A un tratto, ecco un foglio di carta da lettere che esce dalla papeterie, si stende sul tavolino proprio nel posto dove io solevo scrivere, ed ecco una penna impugnata da mano invisibile che si muove e traccia dei caratteri celeremente. Mi slancio per afferrare il braccio e fermare la mano, ma la penna cade sul tavolino, e io non sorprendo niente di solido come avevo immaginato. Leggo quel che la penna ha scritto:—Crede ora? Verrò domani—e mi sento preso da vertigine, vedendo riapparire il vasetto con le rose, ma in un altro punto del tavolino.

Eppure—tanta è la nostra avversione a prestar fede a quel che crediamo impossibile!—io sarei rimasto nel dubbio di essere stato vittima di un'allucinazione cagionata da quella che il Braid ha chiamato attenzione aspettante, se il giorno appresso il mio cliente non si fosse presentato, sorridendo dalla soddisfazione e ripetendomi le parole scritte:

—Crede ora?

—Credo a quel che ho visto—risposi.—Ma questo non prova che voi possiate rendervi invisibile. Prova soltanto che avete un potere misterioso con cui agite a distanza, mettendo in opra forze da me ignote e delle quali si parla in parecchi libri che si occupano di simili fenomeni.

—Ha ragione—egli disse.

E rimase pensieroso.

—Senta—riprese dopo lunga pausa.—Io ero risoluto a non abbandonarmi più a queste pericolose prove di cui già risento i tristi effetti. Ma esse hanno le affascinanti attrattive dell'hascich e della morfina e sono malefiche altrettanto. Gustate una volta, non è possibile rinunziarvi, neppure avendo la certezza di trovarvi, presto o tardi, la pazzia, o la morte. Ha ragione: le prove datele non sono convincenti. Per ringraziarla, a modo mio, della cortesia con cui mi ha accolto e dell'interesse dimostratomi, le darò ora la prova assoluta. Apriamo le finestre.

E accorse egli stesso ad aprirne una; io apersi l'altra.

—Si segga là—riprese indicandomi una seggiola—e non dica una parola, non faccia il minimo movimento. Stia soltanto a guardare.

Incrociò le braccia, si piantò ritto su la persona nel centro della stanza, con gli occhi chiusi e la testa rovesciata un po' indietro, immobile per alcuni minuti. Io trattenevo il fiato, ansiosissimo.

Vidi uscirgli disotto le braccia un lieve vapore bianco, che discese lentamente lungo le gambe e le avvolse quasi serpeggiando fino alla punta dei piedi; lo vidi risalire con ondate più dense, aggirarsi attorno al petto, elevarsi fin sopra i capelli e nascondere ai miei sguardi tutta la persona di lui. Poi questa colonna di fumo, che spandeva attorno un odore acre, sgradevole, cominciò a piegarsi da una parte quasi mossa dall'aria che penetrava da una delle finestre e a disperdersi uscendo, come spinta dal vento, con larghi avvolgimenti, dall'altra… Ed io sbarravo gli occhi, stupito di vedere che il fumo biancastro andasse via attenuandosi. Sembrava che il pavimento fumigasse; poi le ultime ondate si staccarono dal suolo tremolanti, si alzarono fino all'altezza delle finestre e svanirono.. Il mio cliente era sparito!

Rimase ancora là? Uscì, invisibile, dall'uscio o col fumo?

Non saprei dirlo… Era sparito; e non l'ho più riveduto!

VII. Il busto.

—E che direste—esclamò il dottor Maggioli—se io vi raccontassi per quale sciocca circostanza sono stato, trent'anni fa, sul punto d'impazzire?

—Voi, così savio, così impassibile?—lo interruppe l'abate Venini.

—Se non savio e impassibile—riprese il dottore sorridendo—certamente molto equilibrato di nervi e di immaginazione. Eppure… Questo significa che le circostanze non hanno valore per loro stesse, ma assumono maggiore o minore importanza secondo certi stati del nostro organismo dei quali la scienza non sa ancora rendersi conto. Ho visto un uomo coraggiosissimo tremar di paura come un bambino; ho conosciuto un pusillanime che ha compiuto un atto di eroismo di cui nessuno lo avrebbe mai creduto capace. Passato quel momento, l'uno è tornato intrepido sfidatore di pericoli qual era sempre stato; l'altro, un poltrone che si atterriva fin della sua ombra. E nessuno ha saputo spiegare per quali ragioni, in un istante, le loro parti si siano invertite.

—Ah, io avrei voluto vedervi da Orlando furioso!

—Furioso a dirittura, cara baronessa—riprese il dottor Maggioli.—Non posso ricordarlo senza sentirmi correre acuti brividi per tutta la persona.

—Su, fate abbrividire anche noi!—disse la baronessa Lanari.

—Probabilmente voialtri riderete. Io stesso debbo fare talvolta uno sforzo per persuadermi che l'accaduto di trent'anni fa non è stato un sogno bizzarro o un'allucinazione. Mi domando: È mai possibile che io sia arrivato fino al punto…? Ma appena mi si ripresenta alla immaginazione la figura sbalordita dell'unico testimone di quell'incredibile stranezza—chiamiamola pure così—e torna a risonarmi nell'orecchio il suo grido:—Oh Dio! che hai fatto! Perchè? Perchè?—chino la testa pensieroso, riflettendo che misera cosa è il nostro organismo intellettuale, se cagioni tanto insignificanti possono, tutt'a un tratto, quasi annientarlo.

—Mi meraviglio che un dottore parli in questo modo—disse l'abate Venini.—Io ho creduto finora, che il nostro organismo, così semplice e così delicato, abbia invece una forza di resistenza veramente straordinaria.

—E appunto qui consiste il suo mistero! Urti, colpi violentissimi, spesso non vi producono nessuna notevole impressione; e quel che in confronto di essi potrebbe dirsi un soffio, una lieve spinta vi fa avverare, come nel caso di cui parlerò, un grave disastro.

—Ma voi non siete impazzito!

—Ero già su la via, altrimenti l'atto da me commesso sarebbe proprio inesplicabile. Ho reagito in tempo; ecco tutto.

—Insomma, che cosa avete fatto?—domandò la baronessa resa impaziente dalla curiosità.

—Ho distrutto un capolavoro, o per parlare con precisione, un'opera d'arte che certamente, stava per riuscire un capolavoro.

—Perchè?

—Perchè?… Il mio amico Doneglia, scultore valentissimo che sarebbe salito in gran fama se fosse stato meno modesto e meno incontentabile, mi tormentava da parecchi anni:—Voglio fare il tuo ritratto!

—Se io fossi meno brutto!—rispondevo.

—Sarai bellissimo nel marmo o nel bronzo—insisteva.

—Si era fitto in mente che io avessi una testa da filosofo greco con quella lunga barba che m'ero lasciato crescere allora e i capelli folti e arruffati di cui più non c'è quasi vestigio. A me però sembrava troppo onore per la mia barba e pei miei capelli l'essere immortalati da un grande artista come lui. Pensavo ch'egli avrebbe impiegato meglio il suo ingegno e il suo tempo terminando quel suo Centauretto che ruzzava tra l'erba e pareva uscito dalle mani di uno scultore ateniese dei tempi di Fidia, quantunque lasciato non finito con la scusa che il ragazzo servitogli da modello era morto ed egli non aveva più trovato chi potesse sostituirlo. Glielo ripetevo ogni volta che tornava a tentarmi.

—Ebbene—mi rispose un giorno—ti do la mia parola d'onore che finirò il Centauretto, se prima mi lascerai cavare il capriccio di fare il tuo busto!

Era premio troppo grande da non vincere tutti i miei scrupoli. E misi la pretesa mia testa da filosofo greco a sua disposizione.

Così vidi di giorno in giorno, sotto il nervoso pollice del mio amico e sotto l'abilissima opera della sua stecca, uscir fuori dall'informe cumulo di creta ammassata sul cavalletto la mia figura così viva e parlante, che la guardavo con stupore quasi mi fossi sdoppiato, o quasi qualche cosa di me si fosse trasfuso in quell'immagine dalle cui labbra mi attendevo di sentir scappare da un momento all'altro il suono della mia voce, come già c'era il lieve bonario sorriso che, a detta del mio amico, formava la caratteristica della mia fisonomia.

I doveri di medico non mi permettevano di accordargli frequenti e lunghe pose. Spesso passavano due, tre settimane senza che io mettessi piede nel suo studio.

—Oh, Dio! Ti sei un po' ingrassato!—o pure:—Oh, Dio! Sei alquanto dimagrito!

Come avvenissero questi cambiamenti piccoli ma percettibili, giacchè egli li notava sùbito, non saprei dire.

—Non lo faccio a posta—rispondevo scusandomi.

Ne ero dispiacente perchè gli inopportuni cambiamenti ritardavano molto l'esecuzione del busto. L'incontentabile artista doveva togliere qualche cosettina qua, supplirla là; e quel po' di creta, tolta o aggiunta in un posto, determinava altre aggiunte o soppressioni, delle quali egli cercava di spiegarmi l'intima ragione per indurmi a pazientare nel martirio della posa. Ogni volta allora, riprendendo la seduta, mi sembrava ch'egli scancellasse l'impronta della straordinaria rassomiglianza; ma, alla fine, sul punto di accomiatarmi, mi maravigliavo che la rassomiglianza e l'alito di vita animatore del busto fossero col paziente lavoro divenuti più evidenti.

Un giorno gli dissi scherzando:

—Non mi accadrà, spero, come alla amata di quel pittore di cui si parla in una novella del Poe. Io non morrò perchè la mia vita si sarà trasfusa tutta nel ritratto quando esso sarà finito.

Rispose con un brontolìo. Passava e ripassava il dito su la fronte del busto, ed io mi accorsi che egli si sforzava di spingere un po' in dentro qualche cosa di duro che la creta copriva appena.

—C'è un sassolino?—domandai.

—No, il cranio vien fuori… Ho messo qui un cranio per meglio modellare la testa.

—Un cranio? Proprio un cranio?

—Ti stupisce?

Non potei nascondergli che il sapere incastrato nella testa del mio busto il cranio di un morto ignoto mi produceva repugnante impressione.

—Molti scultori fanno così—egli mi disse.

Rimessomi a posare, mi sentivo impacciato. Fanciullaggine! Ora lo comprendo; ma quel cranio che, vivente, aveva contenuto un cervello pensante affatto diverso dal mio, mi faceva fantasticare stranissime cose. Mi pareva che l'impronta di vita del mio ritratto dovesse ridestare le funzioni intellettive della vuota cassa cerebrale, e produrre un turbamento che poteva oltrepassare l'opera d'arte e influire su l'originale, su me che mi vedevo rivivere in essa. Mi pareva anche da sentirmi un che di estraneo dentro la testa, quasi quel cranio non fosse solamente incastrato nella creta, ma si fosse sostituito al mio, o almeno tentasse di sostituirsi al mio, come per opera di magìa.

Fanciullaggine! ripeto. E tale la giudicavo da principio. Infatti, nelle sedute dei giorni appresso, scherzando all'amico scultore:

—Chi sa che diamine pensa il mio ritratto con quel cranio altrui! Vi sarà rimasta qualche impressione dei pensieri là avvenuti una volta, e forse la forma esteriore può produrre il miracolo di metterli in moto. È una cosa macabra?

Intanto, durante le sedute di posa mi affondavo sempre più in questa fissazione. Un crescente malessere mi invadeva. Non osavo più di scherzare intorno a quel cranio. La preoccupazione dello spirito alterava l'espressione della mia fisonomia, facendomi corrugare la fronte, e togliendo alle mie labbra la caratteristica del lieve, bonario sorriso che lo scultore era riuscito a rendere, con molto stento, nell'opera sua.

—Che cosa hai?—mi domandava.—Muoviti, parla; non prendere quest'aria mutriona che ti disdice!

Ed io non avevo il coraggio di confessargli che tutto proveniva dal maledetto cranio di cui egli aveva avuto la funebre idea di servirsi per modellare più facilmente la testa del busto.

Ormai quel senso di malessere non era più momentaneo, durante soltanto le poche ore di posa; lo portavo via con me tutta la giornata, e, la notte, mi impediva di addormentarmi sùbito appena entrato in letto, come solevo, quantunque le visite e le occupazioni giornaliere mi facessero rientrare a casa non meno stanco di prima. Non mi sentivo più io, ma un po' quell'altro che doveva pensare dentro la testa del busto sotto l'involucro di creta che lo copriva. Ed era una smania acuta, una sofferenza tormentatrice a cui non riuscivo di sottrarrai. Mi sembrava ridicolo che mi fossi ridotto fino a questo estremo; mi davo dell'imbecille e peggio; ma nello stesso tempo provavo una vivissima attrazione verso il busto che di giorno in giorno diveniva sempre più rassomigliante e più vivo con l'amorosa, assidua carezza del pollice dell'artista, da cui vedevo affinare maravigliosamente la modellatura. Per parecchi giorni di sèguito ero andato a posare.

—Poche altre sedute—mi diceva il Doneglia—e poi sarai libero.

Egli, l'incontentabile, cominciava ad essere soddisfatto dell'opera sua. Ma io vedevo aumentare, con una specie di terrore, l'espressione di persona proprio viva che il busto aveva già assunto in quelle ultime sedute. Mi voltavo a ogni istante per guardarlo, irrequieto, con la sensazione di una dolorosa pressura al cranio mio e del busto, quasi fossero divenuti un cranio solo; con la sensazione di una lotta, di un contrasto di pensieri opposti che vi tumultuassero dentro per prendere gli uni sopravvento su gli altri. E mi mordevo le labbra, e increspavo le mani conficcandomi le ugne nelle carni, facendo grandi sforzi per non far scorgere all'artista la mia interna angoscia.

Egli dava gli ultimi tocchi di stecca agli occhi, facendovi la pupilla, dove quasi sprizzava una luce che animava il busto straordinariamente; e lavorava intento, con estrema delicatezza, mentre io sentivo più e più invasarmi dall'idea che stèssi per perdere la mia personalità ed essere interamente asservito a quell'altro…

—No! No!—gridai, slanciandomi addosso al busto e rovesciandolo con le due mani dal cavalletto.

—Oh, Dio! Che hai fatto! Perchè? Perchè?

Ma io non badavo al desolato grido dell'artista che vedeva distratta l'opera sua; e coi piedi deformavo la testa rimasta intatta nella caduta, facendone schizzar fuori quel cranio con le occhiaie, con la dentiera e il buco triangolare delle narici imbrattati di creta che sembrava carne imputridita e rimastavi appiccicata nello sfacelo; poi, con la punta di un piede lo facevo ruzzolare in un angolo.

—Perchè? Perchè?

—Perchè?—risposi, rinvenendo dal furore che mi aveva improvvisamente assalito.—Mi sentivo impazzire. Oh, quel cranio! Perdonami! Mi sentivo impazzire.

Capivo l'enormità a cui ero trasceso, e la contristata figura dell'artista che guardava stupito la distruzione da me operata, mi faceva pietà. Ma io rivivevo, io provavo l'immensa gioia della liberazione dall'incubo che per poco non mi aveva fatto perdere la ragione; e stringendo affettuosamente le mani del mio povero amico, gli mormoravo:

—Perdonami!.. Pensa ora al tuo Centauretto; non castigarmi col lasciarlo non finito!

È un gran rimorso. Il Doneglia non ha più ripreso la gentile statuina, e la moderna scultura italiana non può contare, per mia colpa, un capolavoro di più.

CARE PARENTESI.

—Gli effetti sono sempre in giusta proporzione con la causa? Niente di più falso!—disse Bodura—Io, per esempio, devo a un discorso politico dell'onorevol X la più deliziosa ora della mia giovinezza.

Tutti lo guardammo in viso, stupiti di quell'affermazione.

—Capisco!—esclamò Carenga.—Significa che hai fatto così dolce dormita…

—No, rispose Bodura.—Lottai eroicamente col sonno mentre l'onorevole parlava; la delizia venne dopo, inaspettatamente; ed ecco come.

L'onorevole aveva manifestato al Sindaco e ad altri influenti personaggi il desiderio di essere invitato a parlare agli elettori del suo capo-collegio prima della riapertura della Camera; per avere occasione, diceva, di esprimere la sua gratitudine alla città che gli aveva dato il più compatto numero di voti; in realtà, perchè gli premeva di far il suo discorso-ministro. Si prevedevano grandi mutamenti nel mondo politico, qualche cosa di più di un rimpasto ministeriale o della caduta del ministero; ed egli non volea lasciarsi cogliere alla sprovveduta. Predicava, da anni, inascoltato, il suo sistema finanziario; e, in vista della probabile salita al potere della Sinistra, intendeva rammentare ai suoi amici politici:—Un ministro delle finanze? Eccomi qua!—Il 18 marzo era prossimo. Dalla data capirete che si tratta di un avvenimento della mia giovinezza.

—Pur troppo!—fece Carenga, che aveva la manìa delle interruzioni.

—Allora—continuò Bodura—ero innamorato della moglie del Sindaco, ed era la prima volta che rivolgevo audacemente gli occhi verso una donna maritata. Sono stato sempre timido e per ciò, allora e dopo, ho avuto poca fortuna con le donne; figuratevi se ero timidissimo con una signora che potevo avvicinare di rado e che fin la maldicenza senza scrupoli delle fiere lotte amministrative aveva sempre rispettata! La mia corte alla bellissima signora si riduceva a lunghe insistenti occhiate in teatro, in chiesa, per le vie, dovunque la incontravo; a profonde scappellate, ricambiate da lei con lievi sorrisi che mi davano la lusinga d'una tacita accettazione, convinto com'ero che qualunque omaggio alla loro bellezza riesca gradito anche alle donne più oneste.

I preparativi per l'accoglienza all'onorevole richiesero parecchie riunioni; ed io, oltre che elettore, mezzo giornalista, mezzo letterato, mezzo poeta—in provincia si diventa sùbito qualcosa con poco o niente—ero stato invitato a prendervi parte in casa del Sindaco; anche perchè egli aveva posto gli occhi addosso a me pel suo discorso al banchetto. Infatti, una sera, me ne fece fare la proposta dalla sua signora, quasi fosse stata un'idea di lei.

—Occorre qualcosa di bello, di elevato… Lei che è giornalista, letterato… poeta…

—Oh, Signora!

—Si tratta di far figurare la città. Mio marito, uomo di affari, alla buona…

—Oh, Signora!

—Dev'essere un segreto tra me e lei! Mi sembrò di toccare il cielo col dito. Un segreto tra me e lei! Ero diventato rosso come un peperone e non sapevo rispondere altro che quel—Oh, Signora!—stupidissimo… ma eloquentissimo, di cui ella sorrideva nell'atto di rimproverarmi la eccessiva modestia. Qualificava, forse maliziosamente, modestia il mio grande imbarazzo.

Quella notte non andai a letto. Rifeci cinque o sei volte il mio lavoro, e verso le undici del giorno appresso, ora in cui il marito non sarebbe stato in casa, corsi a portare lo scritto alla adorata signora. Mi accolse con un: bravo! e mi stese tutt'e due le mani.

—Sentiamo; me lo legga lei.

Ricordo perfettamente che pasticcio di ampollose frasi era riuscito quel discorso; ma l'effetto della mia declamazione fu straordinario. E leggendo, pensavo:—La signora capirà benissimo che le apostrofi all'onorevole, agli italiani, al Parlamento, al Re (ce n'era per tutti!) significano soltanto:—Le ho scritte per lei!… Sono dirette a lei!… Ormai, per me, non c'è altro che lei al mondo!—Tanto sciocchi ci riduciamo quando siamo innamorati!

—Grazie—ella disse.—È mirabile! Peccato che mio marito non saprà recitarlo come l'ho udito io!

E congedandomi, replicò:

—Non se ne scordi; deve essere un segreto tra me e lei!

Mi attendevo qualcosa di più; ma infine!… Un segreto tira l'altro!… Questo mi consolava.

L'onorevole arrivò pochi giorni dopo, e parlò—Dio glielo perdoni!—due ore e mezzo filate, senza arrestarsi un momento per rinfrescarsi le labbra, scaraventando cifre dietro cifre su la faccia stupita degli elettori, che non ne capivano niente; magnificando il suo sistema, che avrebbe risanato, in un batter d'occhio, le finanze dello Stato, reso fiorenti le industrie, rigogliosa l'agricoltura, rigurgitanti le tasche dei contribuenti; i quali, se si fosse adottato il suo sistema, avrebbero pagato così allegramente le tasse, da prendere pel collo gli esattori perchè ricevessero il danaro!

L'onorevole parlava, parlava, parlava, agitando le braccia, sussultando con la persona, scotendo la testa, ingarbugliando tutto, anche la sintassi dei suoi periodi, e senza pur riuscire a riscuotere dallo sbalordimento l'uditorio, senza strappare un applauso, un bravo, un bene, un mormorìo di approvazione nei punti certamente da lui creduti d'irresistibile effetto!

Fu applaudito, e con calore, alla fine. Gli uditori non ne potevano più.

Io avevo dovuto adoperare ogni mezzo per non addormentarmi. Mi trovavo seduto in prima fila, proprio di faccia a lui; ed egli spesso, aveva l'aria di rivolgersi particolarmente a me, quasi volesse dirmi:—Voi, forse, quantunque letterato, potete capirmi. Ma gli altri!…—Ed avevo dovuto assentire con cenni del capo, tanto più seriamente quanto meno avevo capito.

Dopo il discorso, eravamo andati in casa del Sindaco, che faceva all'onorevole, ai consiglieri comunali, ai più influenti cittadini uno splendido trattamento di gelati, paste, liquori, nella sala da pranzo. Stavo per prendere un gelato, quando il Sindaco venne a dirmi in un orecchio:

—Vada nel mio studio, senza farsi scorgere; la mia signora lo attende.

Ah! Era splendida, elegantissima!… Ella chiuse l'uscio, mi prese per una mano e mi condusse davanti a la scrivania.

—Segga; mi aiuti.

—Un altro segreto?—dissi sorridendo e con voce turbata.

—Un altro segreto. Ecco qui il sunto del discorso dell'onorevole, fatto da lui stesso, per telegrafarlo ai giornali. La modestia gli ha impedito di segnarvi i bravo! i bene! gli applausi…

—Oh, Signora!

E questa volta, le presi una mano e la strinsi forte fra le mie tremanti di commozione. Sorrise, non la ritrasse, e continuò:

—Facciamo noi… cioè lei che se n'intende. L'onorevole si è rimesso a lei… Proprio, sa!

—Ah, Signora!

—Sì, sì; va bene!—ella riprese, indulgentissima, pregando con gli occhi che sorridevano.—Bisogna telegrafare e presto. Legga; metta lei le parentesi, qua e là…

Cominciai a baciarle calorosamente la mano.

—Ma non così!—esclamò ridendo.

—Mi lasci fare! Io… io…

—Va bene; ne riparleremo dopo! Intanto legga…

Leggevo quasi balbettando, frettolosamente.

—Qui, non le pare?… qualche: bravo!…

—Ma se nessuno ha fiatato!—(E un bacio alla mano che stringevo più forte). Ma se nessuno ha capito niente! Bravo? Applausi?… Silenzio profondo! (E un altro bacio).

—Non importa. Gli elettori… che vuole? Supplisca lei; lei che intende…

—Oh! Io intendo soltanto questo: che lei è cosa divina! Che darei il mio sangue, l'anima mia per una sua parola di amore!…

—Zitto!… Ne riparleremo… dopo! Con che dolcezza, con che benigna aria di compassione e con che sorriso ripetè quelle promettenti parole: Ne riparleremo… dopo! Allora ebbi fretta di cospargere di parentesi le cartelle del discorso: e i Bravo! i Bene! i Grande attenzione, gli Approvazioni vivissime, gli Scoppio di applausi, i Risa, tutta insomma la schiera delle parentesi con cui ogni deputato ha cura d'infiorare la stampa ufficiale dei suoi discorsi, tutta fu da me profusa a piene mani e anco a casaccio!

—È contenta?

—Più contento sarà l'onorevole.

—E io?… Io?

—Tenga! Ecco il suo premio!… Ma, no! Basta!… Ma, no!

Potevo appagarmi di un bacio solo?

Ella si difendeva tentando di respingermi con le braccia, tirando indietro la testa, protestando: Basta! Non più!

Pallida, seria, riaggiustati un po' i capelli arruffatisi durante quella specie di lotta; messa, quasi argine tra me e lei, la seggiola su cui poco prima stava a sedere, ella raccolse lentamente dalla scrivania le cartelle e me le porse:

—Le dia, in disparte, a mio marito. Vada.

—Perdoni, signora!

—Le perdono… perchè è tuttavia un ragazzo… e perchè è sincero. Mi ero accorta, da un bel pezzo…

Riprendeva il suo colorito, sorrideva benevolmente, come in principio.

—Ma io ho quasi quarant'anni, e lei può essermi figlio. La sciocchezza più grande la farebbe lei… Io, che non ne ho fatte nel fiore degli anni, sarei proprio imperdonabile se incominciassi ora… Un bacio, credevo, non porta conseguenza: e poi, se l'era meritato; ma andar più oltre, oh, no!… Via, si rinfranchi!… E non stia in collera con me… Qua la mano!

Vi assicuro—conchiuse Bodura—che uscendo di là non mi sentivo ridicolo. Ero più innamorato che mai, ma in tutt'altra maniera, di ammirazione e di rispetto… che non è sempre la peggiore, come voialtri credete.

—La _peggiorissima…_Mi fai dire uno sproposito.- esclamò Carenga. E rivolto a noialtri, soggiunse ridendo:—Per fortuna, voi non siete miei scolari!

ENIMMA.

—È possibile?—domandò Lelio Neri, interrompendo la sua narrazione.

—Tutto è possibile—rispose il vecchio professore di filosofia—anche l'assurdo; cioè quel che sembra assurdo alla presuntuosa nostra scienza.

—Dev'essere così!—esclamò Lelio.—Altrimenti i fatti che sto per raccontarle parrebbero invenzione di mente malata.

Avevo, dunque, notato che le apparizioni della mia bella vicina alla finestra si erano fatte meno rare; il suo contegno però non era mutato. Sollevava, al solito, a metà uno degli sportelli della persiana, affacciava la testa per guardare giù nella via; spesso, chiamava la sua mamma per farle osservare una persona che passava e che l'aveva colpita con qualche stranezza del vestito e del cappellino; ma se io tentavo di associarmi, in qualche modo, all'osservazione e alla risatina che la seguiva, tentavo inutilmente.

La indifferenza di quella bruna con occhi nerissimi, capelli così folti che pareva dovessero affaticarle la testa, con labbra rosse e fresche come ciliege, era riuscita ad irritarmi, a mettermi in puntiglio, anche perchè vi avevo sospettato un artificio, un'insidia, e volevo prendermi la rivincita.

Dovetti però presto convincermi che non si trattava d'artificio, nè d'insidia, e neppure di quella pudica civetteria che accresce grazia alla donna. Era proprio indifferenza assoluta e serena.

Infatti, le rarissime volte che ella mi aveva guardato—non abitavamo la stessa casa, ma la mia finestra era divisa dalle sue soltanto dallo spazio della cantonata intermedia—quegli occhi nerissimi non mi avevano fatto scorgere in lei niente che potesse indicare fastidio della mia insistenza tentatrice, o curiosità di scrutare le mie intenzioni, o altro sentimento qualunque.

Un giorno però, dopo parecchie settimane da che le sue apparizioni si erano fatte meno rare, fui lietissimo di osservare che, finalmente, ella si era affacciata alla finestra immediata alla mia, dove non si era affacciata mai fino allora.

Mi parve buon indizio; e appena ella volse la testa verso di me, le lanciai a voce abbastanza alta:

—Grazie! Grazie!

E chinai il capo con un lieve cenno di saluto.

Ella rimase alcuni istanti alla finestra; poi si ritirò senza guardarmi, non lasciando trasparire se avesse o no capito che quel: Grazie! fosse stato diretto a lei e che quel lieve cenno del capo significasse saluto.

Ero rimasto mortificatissimo, ma non scoraggiato.

La sera di quel giorno, verso le undici, stavo seduto a tavolino; non leggevo nè scrivevo. Fumando, con la testa tra le mani, riflettevo che il giocco, da parte mia, si era fatto serio, molto serio. Da semplice curioso, mi riconoscevo già innamorato, e lo apprendevo con un po' di dispiacere.

Interruppero queste riflessioni tre picchi alla parete dietro le mie spalle, tre picchi che mi sembravano dati con grandissima cautela.

Balzai dalla seggiola. La parete era intermedia tra le due case, e appunto quella mattina la bellissima bruna si era affacciata per la prima volta alla finestra della stanza accanto.

Stetti a origliare. I picchi furono replicati con lo stesso intervallo dei precedenti, e la loro intensità di suono aveva qualche cosa di così cupamente velato da far di nuovo sospettare che venissero dati con timorosa cautela. Picchiai tre volte anch'io e accostai l'orecchio alla parete. Mi pareva di udire un fioco e indistinto mormorìo proprio dietro il punto dove avevo accostato l'orecchio.

—Non capisco; vi prego di parlare più forte—dissi, mettendo le mani attorno alla bocca per raccogliere il suono della voce.

Mi fu risposto coi soliti picchi. Insistei, pregando:

—Parlate più forte!

Tutt'a un colpo, quasi la parete si fosse miracolosamente assottigliata, rimasi stupito di sentir pronunziare con voce debole, lenta, ma chiara:

—Questa sera non posso più. Domani, alla stessa ora!

—Grazie! Buona notte!—mi affrettai a soggiungere.

Non ebbi risposta. Picchiai tre volte; non ebbi risposta.

E passai la nottata in lieti fantasticamenti, facendo molte supposizioni per spiegarmi quell'atto così imprevedibile della mia bella bruna—potevo già chiamarla mia—e fabbricando mille castelli in aria intorno alle probabili conseguenze di esso.

E quanto mi parve raffinatamente furba il giorno dopo, quando la rividi alla finestra, indifferente e serena come le altre volte! Volli mostrarle che sapevo essere altrettanto furbo anch'io; e non le feci nessun cenno, e rimasi là a fumare, con un libro aperto sul davanzale e gli occhi su la pagina di cui non distinguevo neppure una lettera, tanto ero, nell'intimo, gongolante di gioia.

La mia impazienza per poco non mi fece credere che qualche maligno Giosuè avesse fermato il sole. La sera non arrivava! E con che lentezza si movevano le lancette dell'orologio! Verso le undici, non stavo più a sedere, ma addossato alla parete, in attesa dei picchi avvisatori.

Furono tre, come la sera precedente, e questa volta mi diedero uno strano brivido per la schiena.

Risposi all'appello, e accostai l'orecchio alla parete.

—Voi non potete vedermi, io sì—ella disse.

—Come mai?

—È un mio segreto.

—Davvero? Che faccio in questo momento?

—Avete preso in mano il calamaio. Rimasi interdetto!

—E ora?

—Vi siete sdraiato su la poltrona.

—Che occhi avete? In che modo potete vedere a traverso il muro?

—Vi basti esser certo che vedo.

—Mi mettete paura.

—Lo so.

Era la verità: sentivo paura di quell'incredibile potere. E per ciò domandai:

—Mi vedete sempre?

—La notte.

—Perchè di giorno, siete così diversa con me?

—Perchè?…

—Rispondete: Perchè?

La risposta non venne. Attesi più di un'ora. Qualcuno, pensai, ha dovuto entrare in camera di lei e impedirle di continuare.

Che doveva importarmi della sua apparente indifferenza durante la giornata? Il mistero che circondava quel nostro amore mi riusciva deliziosissimo. E preparavo le domande da farle la sera dopo. Non dubitavo che la sera dopo ella sarebbe venuta a conversare con me, dubitavo però della sua potenza visiva a traverso il muro; attribuivo al caso la coincidenza delle sue risposte con la realtà.

E alle undici della sera appresso, ripigliavo la conversazione interrotta. Ora la sua voce era più forte, ma sempre lenta, quasi stentasse a penetrare la densità del muro.

—Rispondete alla domanda di ieri sera: Perchè?

—È inutile. E soffrirei nel dirvelo. Smettete d'interrogarmi.

—Voi che vedete a traverso i muri, leggete voi nel mio cuore?

—Sventuratamente!

—Vi dispiace che io vi ami?

—Non mi amate; amate un'altra!

—Io?… Vi ingannate; guardate bene.

—Guardo e vedo: amate un'altra!

—Non lo dite neppure per ischerzo. Amo te, soltanto te, da un pezzo! Tu hai finto di non accorgertene. Come sono felice di sapere che hai finto!

—Zitto! Mi contristi.

—Dio mio! Che cosa devo fare per disingannarti?

—Niente.

Mi parve di udire dei singhiozzi.

—Che cosa debbo fare?… Non piangere!

I singhiozzi si affievolirono. Giudicai che ella si era allontanata dal muro. Poi non udii altro, nè potei ottenere altre risposte. Ero invaso da profondo turbamento. E la mattina, rivedendo la bella bruna alla finestra, serenamente indifferente, cominciavo a sospettare che colei volesse divertirsi alle mie spalle, intrigarmi. A che scopo? Non sapevo darmene nessuna ragione.

Durante una settimana, attesi invano i tre picchi e la risposta a quelli da me fatti più volte per provocarli.

Ormai volevo uscire dall'incertezza, ottenere una franca spiegazione; lo scherzo m'irritava, come mi aveva irritato, prima, quel che avevo giudicato artificio di civetteria.

Picchiavo, ripicchiavo ogni sera, ma invano. Stavo per rinunziare a ogni tentativo, quando i soliti desideratissimi picchi si fecero sentire.

—Ah!… Già sospettavo non saresti più venuta a parlarmi.

—È l'ultima volta!—ella rispose.

—Chi te lo vieta?

—Il mio destino!

—Non mi ami dunque?

—Tanto! Ma… è inutile. Oggi tu hai pensato di chiedere la mano di quell'altra!

—La tua!

Sì, la sua; era proprio vero. Mi ero deciso di finirla… Perchè intanto ella si ostinava a parlare dell'altra? Che intendeva dire? A una nuova interrogazione, rispose:

—Non t'ama; non ti amerà! Soffrirai un gran disinganno!

—Ma chi è mai costei che eccita la tua stolta gelosia?

—Addio! Non mi udrai più!… Soffrirò con te, nascostamente.
T'amo!… Addio!… Addio!

È impossibile esprimere con parole la desolante sensazione di quel suono di voce piena di pianto, il tremito di quelle ultime sillabe che sembrava si allontanassero, si allontanassero e dileguassero distante!…

Come rimanessi è facile capirlo. L'impressione dell'ignoto, del mistero, mi teneva inchiodato presso il muro, con un senso di sgomento e di terrore che mi gelava il sangue. Quando potei muovermi, riprendere coscienza della realtà che mi circonda va, e riacquistare la certezza che non ero stato vittima di un'allucinazione durante le notti in cui la fioca voce si era fatta udire a traverso il muro, io ebbi la debolezza di cedere alla pressione di quello sgomento, di quel terrore. E siccome avevo udito i colpi di tosse del fratello della mia padrona di casa, nell'altra stanza, finsi di aver sospettato che stesse male, ed entrai da lui che era ancora in piedi e che si sentiva soffocare dall'asma. Vegliai tutta la nottata con lui.

In quell'occasione, egli mi disse:

—Prima, tempo fa, io occupavo la vostra stanza; e nelle nottate bianche, come questa, qualche volta ero talmente sfinito dall'insonnia, che mi sembrava di udire dei picchi alle pareti, al soffitto, nel centro del pavimento; picchi, ora lievi, ora forti, che arrivavano fino a svegliarmi, se per caso lo sfinimento mi faceva chiudere gli occhi a un pisolino. Ho dovuto cambiare stanza per dormire tranquillo, quando mi riesce di dormire. L'immaginazione alterata è capace di farci sentire e vedere quel che non è.

—Avete anche visto?—gli domandai ansioso…

—No, non sono arrivato fino a questo punto. Ma avrei potuto arrivarci. Dicono che in quella stanza sia morta di consunzione di amore una parente del proprietario della casa, e si è formata la leggenda che vi si sente… Io lo sapevo, e la mia fantasia certamente lavorava senza che io me n'accorgessi, e mi produceva quelle allucinazioni… Sciocchezze! Quando siamo morti… siamo morti! Io credo che tutto finisce nella fossa.

Eppure, udendolo parlare così e tossire e ridere e tornare a tossire, mi sembrava che io fossi passato da una allucinazione a un'altra. Non osai di confermargli: Ho sentito anch'io, e qualche cosa di più dei picchi alle pareti!

Due giorni dopo, col pretesto dell'arrivo di un mio zio, abbandonavo quella casa.

Per una di quelle combinazioni che noi sogliamo attribuire alla scarsa immaginazione dei romanzieri in impiccio, ma che sono frequenti nella vita più che non si creda, alcune settimane dopo, io, che non avevo mai avuto occasione di incontrarmi con la mia bella bruna, mi trovavo faccia a faccia con lei presso una famiglia di comune conoscenza. La padrona di casa mi presentava.

—Oh,—disse la signorina—conosco bene il signore! Era nostro vicino fino a poco tempo addietro.

—Come mi ha riconosciuto? Non mi guardava mai, tutte le volte che si affacciava alla finestra.

—Quando abbiamo l'aria di non guardare, noi donne—ella rispose—vediamo meglio. E perchè ha lasciato quella stanza?

Eravamo soli, in un angolo, in quel momento; ed io mi sentii tutt'a un tratto il coraggio di dirle:

—Ah, signorina!… Per lei!

—Per me?

—Sia sincera; non gliene voglio! Si è divertita a burlarsi di me con quei picchi alla parete, con le stranissime cose che si è piaciuto di darmi a intendere?

—Io?…

E mi guardava con certi occhi spaventati, quasi temesse di aver da fare con un pazzo.

—Non è stata lei?… Ma dunque…

Rideva, rideva… e protestava:

—Si figuri! Io dormo all'estremità opposta. Qualcuno in quella casa si è divertito con lei.

—No; i picchi e la voce venivano dall'altra parte…

Rideva, rideva… e protestava:

—È impossibile!

—Chi dunque mi diceva…? Chi dunque mi rispondeva?

Riferii i dialoghi parola per parola.

—Che vuole che ne sappia?—ella disse.

E, presa da femminile curiosità, dopo un attimo di esitanza, soggiugeva:

—E chi era quest'altra di cui le diceva che era innamorato?

—Lei, signorina!… E diceva la verità!

—Io? Io sono fidanzata—ella rispose, cessando di ridere.

Lelio Neri fece una breve pausa; poi si rivolse al vecchio filosofo che era stato ad ascoltarlo attentamente:

—Che cosa debbo credere? A un'inesplicabile allucinazione? Alla leggenda? Noti che allora io la ignoravo.

—Che vuoi che ti risponda?—concluse il filosofo, scrollando la grossa testa canuta.—Amleto ha detto: Vi sono, Orazio, tante e tante cose nel cielo e nella terra che la vostra filosofia ignora!—E non si può ancora dire niente di più savio intorno a questo argomento!

FINE.