The Project Gutenberg eBook of La giovinezza di Giulio Cesare, Volume 1 (of 2) This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: La giovinezza di Giulio Cesare, Volume 1 (of 2) Author: Giuseppe Rovani Release date: January 24, 2025 [eBook #75196] Language: Italian Original publication: Milano: Felice Legros, 1873 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE, VOLUME 1 (OF 2) *** LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE SCENE ROMANE DI GIUSEPPE ROVANI VOLUME I MILANO LEGROS FELICE EDITORE Via S. Sofia, 29 M DCCC LXXIII Diritti di traduzione e di riproduzione riservati all’Editore. Tutti i diritti di proprietà letteraria riservati all’Editore a norma della Legge 25 giugno 1865, N. 2337 Tip. già D. Salvi e C., Via Larga, 19. ALLA GENTILE SIGNORA C. S. M. V. CHE CONFORTÒ L’AUTORE DUBITANTE NEL COMPIMENTO DI QUEST’OPERA PRELUDIO Alquanti anni addietro, parlando di letteratura, e di teatro, e di pittura, e della difficoltà di trovare argomenti degni e facilmente inspiratori, ci siam lamentati dell’odio, onde sul nostro suolo italo-greco si volle dar di martello a tutto ciò che sapeva di greco e di romano. In architettura tutto dovea essere gotico, arabo, longobardo; in pittura guai a vedere una clamide, un calzare, un pilo; in musica, se fu sopportato l’elmo di Ezio, fu perchè Attila aveva incendiato gli edificj antichi; e intanto i giovani pittori versavano nella disperazione di trovare un soggetto che non fosse stato stancato dalla scuola romantica; le Piccarde, e le Imelde, e le Pie, e le Parisine, e i dogi di Venezia, e le Violanti, e le Margarite, e i Torquati avevano bastantemente attediati i frequentatori delle sale di Brera; e intanto noi pensavamo che il dipinto più famoso e più mirabile e più attestatore di vero genio che mai siasi visto in Europa era stato _l’Ultimo giorno di Pompei_ di Bruloff; che in Francia, Coutur vinse tutti i quadri del Luxembourg, colla sua _Orgia romana_; che l’illustre Hayez a vent’anni inspirandosi nel _Laocoonte_ di Virgilio, aveva dato una grande promessa di mantenere la gloria delle arti italiane; e altrove il celebre Klenz, inspirandosi in Grecia e in Italia, aveva costrutti edifici mirabilissimi; e nelle faccende dell’arte drammatica, Parigi respirò, quando Ponsard dall’asma di Hugo e Dumas ricondusse il pubblico nel grande ambiente di Roma antica; e risalendo due secoli addietro, il dio Shakespeare che aveva fatto parere angusti persino Sofocle ed Eschilo, e fu il gran padre della poesia moderna, aveva date le massime prove del suo genio indovinatore, mettendo in iscena la Roma di Cesare e di Bruto colla potenza di un architetto archeologo che, completando i ruderi, rifaccia una città. Queste cose noi pensavamo, ma i pittori, mentre a parole ci davan ragione, in fatto tornavano ai consueti amori; ma i giovani drammaturghi crollavan la testa se lor dicevamo: «tornate indietro se volete andare innanzi.» E la cagione della avversione loro stava in ciò, che vedevano il mondo antico nei libri di scuola e nella storia convenzionale di Rollin e nei quadri convenzionalissimi di David e Camuccini. Non consideravano che il mondo antico diventava un nuovo mondo per l’ispirazione dell’arte, se si sapesse davvero interpretar Tito Livio, se si facessero quadri, drammi e romanzi col pennello ricreatore, per esempio, di Gibbon. Più volte anche noi fummo tentati di dettare qualche libro d’invenzione, ricercando inspirazioni intatte in temi vetusti. Ma la certezza di cadere ci tratteneva sempre, in considerazione dell’inveterato pregiudizio del pubblico leggente. Non essendo imperatori e nemmeno principi di Monaco, non potevamo, oltre alle altre ragioni, aver l’autorità di far rivoltare tutta la folla verso quella parte da cui era fuggita. Ma la vita di Giulio Cesare scritta da un sovrano è stata così potente da far volger le teste di tutti gli Europei a quel lontano orizzonte. Nell’esame che noi abbiam fatto di quell’opera, abbiam dimostrato, per ciò che riguarda il concetto, di essere avversissimi al modo sistematico onde l’ex Sua Maestà ci mise innanzi la figura di Cesare. Napoleone pretese di spogliare il suo eroe di tutte le basse scorie dei minori viventi, di innalzarlo ad improbabile ideale di virtù, di grandezza, di perfezione. Troppi storici, egli dice, trovano più facile d’abbassare gli uomini di genio, che d’innalzarsi, per una generosa inspirazione, alla loro altezza, penetrandone i vasti disegni. Ma il coronato scrittore, il quale comincia l’opera sua con quella nobile sentenza, «che la verità storica non deve essere meno sacra della religione» — la offese di tratto con questo sistema di esagerazione. Giulio Cesare fu un uomo stragrande; ma pretendere di purificarlo dei vizj che erano una fatale condizione dei tempi in cui nacque; ma negare che egli abbia fatto uso di mezzi perversi per raggiungere i suoi intenti; è dire ciò che la storia ricisamente rifiuta. Come si spiega la sua costante amicizia col dissoluto Sallustio? come quel perpetuo altalenare d’amicizia e di inimicizia con Pompeo, con Cicerone, con Catone? che segreti nasconde la sua deferenza per Catilina? Se si dovesse dire quel che risulta dal vero storico e dall’analisi investigatrice dei più profondi pensatori, la figura di Giulio Cesare è una prodigiosa meraviglia considerata come un fenomeno umano, ma in un senso diverso da quello onde lo considera Napoleone; vogliamo dire che Cesare, tra le più grandi figure dell’umanita, si distingue per aver compenetrato in sè solo le qualità più disparate e più opposte, e tali, che pare un prodigio che un uomo solo, pur conservandosi nel più mirabile equilibrio, abbia saputo assumerle tutte. Dell’umano poliedro, Giulio Cesare mise in mostra tutte quante le faccie; è forse il solo in tutta la storia che presenti questo carattere straordinario. Diremo di più, il suo intelletto era così forte e la sua ragione così geometrica e rigorosa, che usufruttava a grandi intenti persino le debolezze e le aberrazioni del sentimento e del senso. Perchè dunque togliere al genio di Giulio Cesare una delle più singolari condizioni del suo carattere? Carattere che, sebbene con meno profonda impronta, si riscontra in altri veri grandi genj, sia nel campo dell’arte come in quello dell’azione. Il genio è un’arpa a mille corde; ciascuna alla sua volta manda il suo suono; la luce dell’umanità si decompone nell’anima del genio in raggi molteplici, ed esso li rimanda e li restituisce al mondo trasformati o in un’opera dell’arte o in un sistema di rivoluzione. Giulio Cesare avendo passato la sua gioventù in mezzo ai vizj, vagheggino, bellimbusto elegante fino all’effeminatezza, fino a temere di turbare l’acconcia disposizione delle non spesse chiome, soffregandosi il capo con un dito solo, stando all’espressione di Cicerone; seducente a tutte le donne e amante riamato, aveva conosciuto il cuore umano e tutte le classi della società nei loro più intimi penetrali; indebitato fino agli occhi, aveva dovuto aggirarsi fra i turpi usurai di piazza, e colà scontrarsi e col veterano accattone e coi falliti e colle ombre, e approfondire altre terribili piaghe. Colla bacchettoneria di _Catone_ non avrebbe mai potuto pescare si profondamente in quel torbido mare della feccia di Romolo. Ecco perchè non conveniva spogliare Giulio Cesare di quegli errori e di quelle colpe che lo abbassarono fino a livello de’ più bassi mortali; ecco perchè conveniva dir tutta la verità anche ad onta che l’eroe dovesse sembrare talvolta uno scellerato. Inoltre l’ex Imperatore, per le sue ragioni, scrisse una storia dove si racconta e si discute, non si drammatizza. Esso poi non tenne conto di quelle intime cagioni che, apparentemente piccole, sono spesso i fattori dei più grandi avvenimenti. Nel suo libro, perchè non è libro d’arte, ma di scienza storica, le figure non han rilievo, tra la moltitudine di esse non v’è prospettiva aerea; di più, Roma non si vede che in piazza e, per così dire, nelle ortografie degli edifizj. Ciò adunque che noi ci proponiamo è di vederne gli spaccati, di penetrar nelle case, di considerare il più grande dei Romani nei più minuti particolari della sua vita, limitandoci per ora alla sua gioventù, perchè è la parte più drammatica, perchè ci dà il modo di conoscere in tutta la loro varietà i costumi romani, e perchè ci offre ovvie le occasioni di ritentare alquanti problemi storici che lo scettrato scrittore sciolse alla sua maniera e troppo da sovrano. I. IL TRIONFO DI POMPEO E L’ADOLESCENTE CESARE. Correvano le none di maggio dell’anno di Roma 672, corrispondenti al giorno 7 di maggio dell’anno 82 avanti Gesù Cristo. Era il giorno statuito per il trionfo di Pompeo reduce dall’Africa, dove in soli quaranta giorni aveva debellato e ucciso Domizio, fatto macello di ventisette mila uomini, soggiogata la Libia, portata la strage persin tra i leoni e gli elefanti, e regolate le faccende dei re ostili ai Romani: per le quali cose era stato acclamato imperatore dai soldati, pur essendo egli di soli 24 anni. Senza parlare dei dotti che avranno letto gli annali di Fenestrelle e i commentarj Sillani e le vite di Oppio e le monografie di Teofane, di Mitilene e di Posidonio, chiunque ha scorso Plutarco saprà come quel trionfo gli era in prima stato negato da Silla, perchè la legge portava che nessuno potesse trionfare se non fosse già console o pretore. Ma Pompeo che faceva l’umile allorchè tutti lo esaltavano, e saliva in orgoglio se altri gli contrariasse, avendo avuto la millanteria di dire nell’adunanza istessa ove trovavasi il dittatore, _che gli uomini adorano il sole che nasce a preferenza del sole che tramonta_, con quell’insolita audacia percosse talmente colui, che pur sembrava un dio assai più che un re, e un dio crudele, da farlo prorompere in quelle parole: — _Ebbene trionfi, trionfi, trionfi_. Ma Silla prima aveva avuta l’imprudenza di dare l’appellativo di _Magno_ al giovine Pompeo, forse perchè nell’assiduo altalenare dell’umor suo, tormentandolo i pidocchi meno del consueto in quel punto, e sperando di guarirne, erasi sentito trasportare alla bontà ed all’entusiasmo. Così dunque venne decretato il trionfo. Nella prima parte della mattina, che i Romani chiamavano _diluculum_, il campo Marzio era tutto occupato dalle soldatesche reduci dall’Africa. Il campo Marzio, il quale era situato in modo da invadere parte dell’area dove dopo Cesare fu il circo agonale ed oggi v’è la piazza Navona, era come il _dietro le scene_, dove apprestavasi tutto ciò che, nell’ora che chiamavasi _mane ad meridiem_, doveva passare in processione lungo la via trionfale sotto gli occhi del popolo romano. Alla quadriga in cui doveva sedere il Magno Pompeo erano già aggiogati quattro elefanti, chè così egli aveva voluto, disdegnando i cavalli; ma gli apprestatori del trionfo e della sua parte decorativa essendosi accorti che que’ quattro enormi bestioni non potevano passare per l’arco posticcio stato eretto all’uscita del campo Marzio, mandarono tosto due centurioni veterani alla casa di Pompeo per avvisarlo dell’inconveniente. Il giovane ventiquattrenne stava nel suo cubicolo; sul letto, poco più alto del pavimento, coperto d’una gran pelle d’un libico leone che egli stesso aveva ucciso, era apprestato l’abito trionfale, fatto di porpora, il quale veniva chiamato toga picta, ovvero tunica palmata; v’era pure una corona d’alloro, e un ramo d’alloro. Traducendo quell’intima scena romana nel più umile volgare moderno, quella stanza del magno eroe pareva il camerino d’un tenore serio celeberrimo, che ripetendo sotto voce la grande aria di sortita, presenta già gli applausi strepitosi del pubblico in delirio. Balbo il centurione fu introdotto nel cubicolo. — Che cosa ti conduce qui? gli chiese Pompeo. — Vengo per avvisarti, o imperatore, che gli elefanti non si possono aggiogare. — Che? Perchè? gridò Pompeo uscendo dalla maestosa tranquillità che era il suo carattere esterno abituale. — L’arco di campo Marzio è troppo angusto. — E si atterri. — Bisognerebbe atterrare tutti gli archi posticci fatti innalzare in questi giorni lungo la via trionfale dall’architetto Poliarte. — Mandami dunque qui questo Greco poltrone, ch’io lo farò flagellare come una bestia da soma. E Pompeo batteva i piedi al pari di una donna capricciosa che, un’ora prima di recarsi al ballo, s’accorga che la sarta non le preparò la veste secondo il suo gusto. — Imperatore, interruppe allora il centurione.... — Che vuoi? — Ricordati che i tuoi soldati ti han chiamato _Magno_ sul campo di battaglia. — E dunque? — Tu non devi adirarti per così poco. Se ce lo comandi, noi centurioni tireremo il tuo carro. Crediam bene di valere quattro elefanti. Se ciò ti appaga, smetti lo sdegno, o Pompeo Magno imperatore. Queste parole il centurione le pronunziò senza che la sua faccia si atteggiasse punto al senso affettuoso ch’esprimevano. Era una di quelle facce romane della prima razza, ampia, quadrata, magra, a risalti, di quelle fatte apposta per la scultura monumentale che modella le teste per esser vedute da lontano; di quelle facce che non piangono e non ridono mai e dissimulano sotto l’apparenza di un orgoglio indomabile perfino la tenerezza, perfino l’idolatria. E quel veterano infatti che più volte aveva palleggiato Pompeo fanciullo, quando aveva fatte le prime armi sotto a Strabone padre di lui, lo amava svisceratamente, ma per timore ch’ei se ne accorgesse, solea fargli le più generose profferte quasi sempre con faccia bieca. Pompeo sapeva questo, e tranquillatosi di tratto, gli stese la mano, che il centurione strinse come da pari a pari — e: — Va, gli disse, appresta i quattro cavalli bianchi, e non se ne parli più. Il centurione partì. Pompeo, abbigliato che fu, uscì dal cubicolo, venne al portico, dove la lettiga l’attendeva, e si fece trasportare così al campo Marzio. Colà giunto, appena mise piedi in terra e apparve la maestosa sua figura, ornata di porpora, cinto il capo dell’alloro aurato, proruppe un urlo giojoso di voci romane, e ben era, per ripetere Omero, _Di nove mila un urlo o dieci mila:_ e tra quell’applauso spiccavano le parole: Salve, imperator, salve, salve, salve. Jo triumphe. Jo triumphe. Jo. La quadriga stava nel mezzo del campo Marzio; i quattro cavalli bianchi erano aggiogati. Pompeo salì. Tutti i soldati si adunarono in cerchio presso al carro; intorno al circolo tutto fitto e lucido d’armi girava un altro cerchio di facce popolane. Pompeo tenne un discorso ai proprj soldati; in prima parlando a tutti insieme, ne esaltò il valore rammentando le vittorie ottenute; dopo lodò ciascuno in particolare. In seguito venne la distribuzione dei premj. I quattro centurioni più veterani presentarono a Pompeo i donativi, ch’eran per lo più cose militari, corone d’oro e d’argento; ed esso, leggendo il nome di coloro che ne dovevano essere insigniti, nomi che venivan scritti sui donativi stessi, chiamò i distinti a riceverli ad uno ad uno. Compiuta questa cerimonia, discese a fare il sagrificio; e del sangue del vitello sgozzato ne empì una tazza per versarlo sul carro d’oro, in modo che tutto apparisse chiazzato di macchie sanguigne. Finalmente Pompeo risalì sul cocchio e la processione si mosse, e nello stesso carro, dietro alle spalle istesse del trionfante, stava il carnefice, come voleva il costume, il quale sosteneva sopra alla corona d’alloro ond’era redimito il glorioso capo, un’altra pesante corona d’oro massiccio; ed il carnefice gridava spesso ad alta voce: Respice post te hominem — memento te; volendo con ciò ricordare al trionfatore l’incertezza dell’umana fortuna. Nel sito in cui Pompeo sedeva eravi un idoletto contro l’invidia, e dal carro pendeva una sferza ed un campanello, che eran i segni dei condannati a morte, per avvertirlo che dal colmo della gloria poteva precipitare nell’estremo delle umane miserie. La quadriga trionfale era preceduta da molti carri pieni di spoglie ed armi nemiche, da trombettieri e suonatori d’istrumenti diversi; dopo di essi conducevansi i buoi destinati al sacrificio, ornati di corone e di bende, e colle corna dorate. Appresso spiegavansi i trofei della Libia e la completa armatura dell’ucciso Domizio. Gran numero di capitani dell’esercito di Domizio, seguivano il trionfo con catene leggiere al collo, alle braccia, alle ginocchia. Davanti a costoro precedevano saltando due giullari, che con gesti buffoni eccitavano al riso gli spettatori, facendosi beffe dei prigionieri incatenati; e un terzo giullare, che chiamavasi _Manduco_, moveva la bocca in modo come se stesse mangiando i vinti. Senatori, soldati, cittadini liberati, ambasciatori, centurioni, chiudevano la processione, la quale percorreva la via trionfale per più di due miglia; i cittadini accorsi erano per la maggior parte vestiti di bianco; i templi accanto ai quali il trionfatore passava, erano aperti, e da essi uscivano profumi ed incensi; il medesimo avveniva dei palazzi e delle case private che rispondevano su quella via tutta coperta d’erbe odorose e di fiori. La folla aspettante il carro trionfale, come lo vedeva giungere, prorompeva nel solito grido: _Jo triumphe — Jo triumphe_. Allorchè il trionfante Pompeo giunse al Campidoglio, discese nello spazio che era tra il tempio della Fortuna e l’arco di Scipione. Il tempio di Giove Capitolino allora non era ancora edificato; ma in sua vece sorgeva una semplice ara. Nel momento che i prigionieri passando innanzi al vincitore venivano condotti nel carcere Mamertino, Pompeo si prostrò davanti all’ara, e in mezzo al silenzio che subito e profondo si mise fra tanta moltitudine, pronunciò con voce sonora questa preghiera: «A te, Giove Ottimo Massimo, a te Giunone regina, a voi tutti, o Numi, di questa arce abitatori e custodi, lieto rendo grazie perchè avete voluto che la repubblica romana venisse difesa ed ampliata dalle mie armi. Così vi scongiuro a conservarla, ed a proteggerla in ogni tempo, come ora fate.» Finita questa preghiera, i vittimarj a’ piedi dell’ara uccisero venti giovenchi, mentre Pompeo deponeva sull’ara stessa le spoglie più preziose della vittoria. Non è possibile immaginare spettacolo più grande, più maraviglioso, più pittoresco di quello che offriva in quel momento il Campidoglio colle sue adjacenze. Il fantasioso Martin che ritrasse con sì potente matita il festino di Baldassare, appena basterebbe per dare una idea di quella scena straordinaria, anche per la giacitura dei templi e degli archi e delle vie e dei clivj, e de’ cento gradi della rupe tarpea, e della gradinata che metteva all’arce capitolina; edificj e spazj che per la varietà delle altezze si mostravano tutti allo sguardo gremiti di popolo infinito. Al formicolìo dei cittadini e della plebe faceva contrasto l’apparenza delle splendide lettighe dove sedevano le nobili romane e alcuni dei più illustri patrizj; e fra tutti riluceva al sole il carro tutto d’oro ed aspro di gemme, dove stava assiso Lucio Cornelio Silla, il padrone di Roma. Quantunque avesse cinquantasei anni e cominciasse già ad essere corroso da quel morbo pediculare che poi lo trasse a morte, visto da lungi, mostrava ancor bionda la chioma inanellata e spessa e prolissa, il solo dono di cui la natura lo fece insigne, e in gioventù potè farlo parere perfino avvenente. Ma ne’ suoi occhi grandi ed azzurri balenava una luce sinistra, piena di terribilità, che teneva in isgomento i soggetti e provocava in tutti un senso di disgusto indicibile, e tanto più che al color fulvo-chiaro delle chiome e alla tinta cerulea degli occhi faceva stranissimo contrasto il colore bruno della pelle chiazzata qua e là di macchie bianche, onde, allorchè fu in Atene, un Greco mordace avea chiesto chi mai fosse quel _moro infarinato_. Ma intanto che sagrificavasi, tutte le teste a un tratto si volsero al culmine del colle Capitolino. Colà con maraviglia di tutti era salito un uomo a cavallo, per guardare la scena sottoposta; e subito per le bocche di tutti corse il nome di Giulio Cesare. Perdonato da Silla per intervento delle vergini Vestali, esso era in quei dì tornato a Roma con intenzione di ripartirne tosto, affine di prendere commiato dalla consorte e consolarla della morte d’una sua sorella, che era avvenuta in quei giorni appunto. Sebbene quel grado di consanguineità non fosse tale da obbligarlo a vestir la toga del corruccio, pure cercando esso tutte le vie per rendersi singolare e fermar la pubblica attenzione in ogni modo, apparve colà tutto bruno come la morte, e inforcando un cavallo tutto nero come la pece. Pompeo trionfava e tutta Roma era piena di Pompeo, pure in quel punto il diciottenne Giulio trovò il modo di distaccare da colui gli sguardi del popolo romano e farli rivolger tutti sopra di sè. Lucio Silla, seguendo il movimento di tutte le teste che gli ondeggiavano d’intorno, dirizzò anch’egli colà la sua truce pupilla, e vedendo l’abborrito fanciullo, ne torse indispettito la faccia. II. LAJA PITTRICE E IL RITRATTO DI CESARE. La ragione per cui sulla sommità del clivo Capitolino, intanto che Pompeo trionfava, era comparso improvvisamente Giulio Cesare, non era stata indovinata da nessun Romano; neppur da Pompeo, troppo saturo d’orgoglio, per sospettare in altri intenzioni rivali. Ma l’osservatore Lucio Cornelio Silla, che nella toga mal cinta del giovinetto parente di Mario aveva letto il futuro, tosto, allorchè volse la testa iraconda a quell’inattesa apparizione, ne intravide l’intento e ne parlò poi sdegnosissimamente con Lucullo banchettando seco lo stesso dì. Cesare il seppe, e giacchè, anche senza questo nuovo sdegno, non riposava tranquillo sul perdono strappato all’onnipotente dittatore dalle preghiere e dalle lagrime delle Vestali, pensò, come tutti sanno, di lasciar Roma, e andò a militare in Asia sotto Marco Termo pretore, intrattenendosi in Bitinia presso Nicomede; poi militò in Cilicia sotto Servilio Isaurico, e non ritornò in Roma se non quando fu certissimo che le piattole vendicatrici avevano consegnato all’Averno il suo mortale nemico. Appena ritornato, il suo primo pensiero fu di abbandonare il palazzo avito che teneva sul Palatino e di farsi architettare nella Suburra una piccola casa grecamente elegante, che in breve gli costrusse il suo amico Ermodoro di Salamina, il celebre autore del tempio di Giove presso il portico di Metello. Non v’è atto della prima gioventù di Cesare, anche il più minuto e a primo tratto insignificante, che non meriti di essere intimamente esplorato. Tutto per lui aveva una ragione di essere; perfino le inezie tenevano in germe un remoto intento. Il Palatino era il quartiere dove sorgevano i palazzi del più vetusto patriziato romano (i nobiloni dei quattro quarti d’allora). Esso, come dice Ampère, era a Roma quel che il sobborgo St. Germain è a Parigi. Era la nostra Porta Nuova, il Borgo Nuovo, la via de’ Bigli, la via Monforte; quel che si vuole insomma. Sulla linea parallela del Palatino, al di là della basilica Opima e della via Sacra e del tempio degli Dei Penati, correva la via del Foro alle Carine, dove abitava la gente nuova, i cavalieri, gli uomini di toga e di borsa, i causidici, i banchieri, i ricchissimi aggiotatori della pubblica fame. Cesare abbandonando il quartiere della gente vetusta, non si degnò di traslocare in quello della gente nuova, ma trasportò la sua dimora dove s’affollavano a miriadi le casupole, le botteghe e le officine della porca plebe, dove rintronavan martelli e incudini e stridevan seghe, dove vagolavan meretrici e vespertini adulteri, dove stava persino l’abbominata dimora del carnefice di Roma. La Vedra, le Vedrazze, il borgo di Cittadella, il vicolo del Sambuco in Milano potrebbero dare, sebbene con maggior decoro, una qualche imagine della Suburra, la quale si stendeva sul monte Celio appena fuor della mura (extra mœnia). E Giulio Cesare venne ad abitar qui precisamente. Or non si pressente già colui che preferiva di esser primo in un villaggio che secondo in Roma? La casa di Cesare, veduta da lunge aveva l’apparenza di un tempietto greco: sarebbesi detta la dimora di un nume, e ciò anche per l’eccessivo contrasto colle catapecchie che in lungo e in largo le sorgevano d’intorno. Correvan le none di maggio dell’anno di Roma 674 — ovverosia il cinque maggio. Era l’ora quinta del giorno (_hora quinta diei; — mane ad meridiem_). Intorno alla casa e sotto il portichetto a colonne joniche stavan clienti, ombre; vi eran soldati dalle profonde cicatrici, dalle braccia monche, dalle troncate gambe, dalle chiuse e bendate occhiaje, probabilmente i derelitti veterani di Mario; — e fra tutti, per le insolite vesti, si distinguevano i lerci ebrei, i vampiri usuraj che attendevano al varco il già tanto indebitato pronipote della Venere dea. — Ma si entrino i penetrali, a visitarvi il divo Giulio; e come l’Apollo sagittario ei ci si presenta infatti nudo come la celebre statua greca, bianco e diafano come il marmo pario, posante come quel dio. Egli stava in quel punto facendosi ritrattare dalla più valente pittrice di quel tempo, da quella celeberrima Laja di Mileto, che dipinse per la prima volta sè stessa nelle proporzioni del naturale adoperando gli specchi di cristallo grandi come il corpo umano: i quali specchi insieme coi vitrei musaici, erano stati introdotti in Roma dalla Grecia fin dai primi tempi di Silla (_Specula totis paria corporibus_). La giovine Laja, severa come una Minerva, inaccessibile a qualunque senso che non fosse il più profondo amore dell’arte, sedeva innanzi a quella statua viva disegnandone i contorni su di un’ampia tavola. Presenti a quella seduta artistica c’era il vecchio Sopolis, il maestro di Laja, il più distinto ritrattista di Roma, prima che quella fiorisse, e che amava la sua allieva più di sè stesso e della quale, anzichè avere invidia, si gloriava. Medesimamente stava presso a Cesare il suo vecchio famulo Taltibio, che idolatrava il padrone avendolo portato fra le braccia infante. Cesare non credendo che Laja venisse in compagnia di Sopolis, per un tratto di squisita delicatezza volle presente il vecchio famulo, onde stornare sospetti e non scemare d’un punto l’innocente severità dell’arte. Taluno potrebbe dire: e perchè allora farsi ritrattare in quel costume così eccessivamente scoperto? Cesare non lo deve aver fatto a caso. Sapeva di aver forme bellissime e desiderava che ciò si sapesse in Roma e fosse testificato dall’inappellabile giudizio degli artisti. — Una dote di più, pensava egli, è un’arma di più. Cinquantamila giovani dame romane ben possono, ad un bisogno e secondo i loro mezzi, confederarsi a cinquantamila strenui soldati; e in ogni modo aiutarmi nei privati convegni sollecitando a mio pro amanti, parenti e mariti. La figura di Cesare, alta, elegante, asciutta come quella di tutti i giovani, offriva all’occhio le proporzioni del discobolo greco. Vista un po’ da lunge pareva aver braccia e gambe non fortissime; ma queste vedute dappresso e misurate, oltrepassavano la grossezza comune; grossezza che veniva dissimulata dall’egregia proporzione appunto. Alcuni autori antichi e moderni ebbero a far le meraviglie confrontando la gracilità alle fatiche incomportabili e straordinarie ch’egli solo potè sostenere. Ma fisicamente, non si fa se non quel che si può fare: e per quanto la virtù dell’animo, o a dir meglio, l’ispirazione, il soffio, il dio prepotente della volontà possa far prodigi, se non c’è la potenza dei muscoli, le fatiche non si possono protrarre a lungo. Alessandro, Cesare e Bonaparte ebbero tutti e tre forme apparentemente arrotondate; ebbero pelle candidissima e quasi muliebre; ma nessuno più di loro seppe resistere alle fatiche del campo. La forza veniva celata dall’epidermide; come l’ambizione sterminata e la profonda scelleraggine dall’amabile astuzia e dall’ingannevole volto. Tuttavia, in quelle membra egregie di Cesare, c’era un lieve difetto. Verso le regioni dei lombi, la spina dorsale, quella che Napoleone al cospetto della scoperta di Volta, disse essere la pila della vita animale, appariva lievissimamente deviata; deviazione che l’anatomico riscontrò pur nel cadavere imbalsamato di Napoleone allorchè da Sant’Elena venne trasportato in Francia. Strana somiglianza che, sebbene in diverso modo, pur si riscontra nell’apollineo collo di Alessandro il Grande, di alcun poco inclinato da un lato. Si direbbe che il _ganglio massimo_, che è la testa, abbia voluto in questi tre uomini che rappresentano la più sterminata potenza delle facoltà mentali, dare indizio della sua eccezionale pesantezza gravitando sulle altre parti del corpo. E un altro difetto che non appariva ancora nel ventenne Cesare, ma doveva rivelarsi precocemente, era la calvizie. Non si può sapere da che questa sia derivata in lui, e come derivi in altri. Ma la testa di Cesare offriva un fenomeno strano; mettendo la mano al disopra di essa, anche alla distanza di un palmo, si sentivano gli effetti come di una forte irradiazione di calore e sovente una lieve onda di fumo vaporoso ne lambiva la superficie, quasi che una fiamma riscaldasse internamente le cavità del cranio. La pittrice Laja non conosceva questi fenomeni, e non poteva prevedere la calvizie futura nella chioma corvina acconciamente inanellata dell’elegante patrizio; ed era tutta intenta invece, nella sfiducia che in quel punto l’aveva assalita, a cercar di ritrattare la luce degli occhi di Cesare (_nigri et vegeti_) che abbagliavano dominando, e parevano parlare pur nel silenzio del labbro, il quale era roseo e tumido a significazione di voluttà, e dava di tanto in tanto un tremito lieve come se la parola gli scorresse sopra ed ei volesse trattenerla. Pareva il labbro di lord Byron, questo Cesare non riuscito, come Champagny ebbe già a definirlo. La seduta durò quasi due ore. A un certo punto Giulio Cesare con morbido accento: — Sarai stanca, o Laja, disse, proseguiremo domani. Non voglio che la tua mano s’affatichi più del conveniente. Tuttavia fammi certo, o Laja, del quando, impiegando due ore al giorno, il mio ritratto sarà compiuto. — Oggi siamo alle none di maggio. A quelle di giugno il popolo romano vedrà l’effigie tua sotto al portico di Metello. In quel giorno farai in modo, o Giulio, di essere assente da Roma e farai correr la voce che ciò possa essere per qualche grande impresa, a meno che tu non t’incarichi di compirla davvero. Affinchè il ritratto sia convenientemente apprezzato e metta in entusiasmo il tuo popolo, conviene ch’ei senta il desiderio dell’originale lontano. — Quel che possa avvenire tra un mese non lo so; ma certo sarà appagato il tuo desiderio. Laja si alzò e uscì col vecchio Sopolis, attraversando un lungo androne affollato di cittadini romani. Cesare infilò la toga che Taltibio gli porse e, guardandosi in uno di quegli specchi grandi fino alla proporzione dell’uomo, che gli eran venuti da Atene, se la cinse larghissima, studiando con gran cura un partito di pieghe che pareva riuscito a caso e per gli effetti della noncuranza. Voleva ei forse velare con quella, in apparenza, fortuita combinazione di linee, di occhi e di borzacchini l’incorreggibile deviazione della spina dorsale? Di Cesare in fuori, nemmeno Giove Ottimo Massimo poteva saperlo. Quando ei si fu bene acconciato, entrò nell’androne girando lo sguardo intorno, sorridendo a quanti eran là congregati, stringendo la mano a tutti. — La dea Murcia vi ajuti, disse poi. Essa vi faccia parer comodo l’avere aspettato e l’aspettare qualche poco ancora. I miei poveri veterani mi attendono sotto il portico. Uscì infatti. Alla sua comparsa que’ miserabili soldati claudicanti e guerci e ciechi fecero circolo intorno a Cesare, ed egli stringendo la mano a tutti, diede una dramma a ciascuno. Tutti i giorni essi venivan là per ricevere quel sussidio e talvolta erano in numero di venti, di trenta, di cinquanta. Quand’essi furon partiti, Cesare ammiccò a tre giudei che gli si erano avvicinati. — È presta ogni cosa? domandò loro. — Siam qui da due ore. Tutto è pronto. — Entrate meco pel corritojo segreto. Silenzioso procedette innanzi. Silenziosi lo seguirono i tre giudei. Cesare entrò nella biblioteca, sedette, e chiese severo: — Quanto avete portato? — Quello che ci hai imposto. Sessanta talenti. — Di che qualità? — Di tutte. Non si può sempre tenerne in serbo una qualità sola. Ne abbiamo di _attici_, di _eginetici_ e di _babilonesi_. Il talento _eginetico_ aveva il valore massimo, ossia equivaleva a ottomila franchi circa; il _babilonese_ a settemila, a seimila l’_attico_; onde, per adequato, quei tre sucidissimi giudei avevan portato a Cesare più di quattrocento mila franchi, una somma ben ragguardevole; ma pel giovinetto mal cinto assomigliavano a un getto d’acqua profluente sulle sabbie del deserto. Uno dei giudei come ebbe deposto sovra una tavola di porfido egiziaco i sessanta talenti, trasse di sotto al sajo un rotolo, lo spiegò dinanzi a Cesare, porgendogli lo stilo che pur trasse di sotto il sajo: — Segna or qui, domine, gli disse; per le calende di novembre restituirai talenti cento. — Che? esclamò Cesare, alzandosi iracondo. Quaranta talenti per mesi cinque? Il giudeo non rispose, e voltosi ai due ebrei che lo seguivano: — Riprendete quell’argento, disse loro. Dolabella lo aspetta. Quaranta talenti di premio son già pattuiti con lui. Cesare smise l’ira di tratto e si diede a ridere, e battendo sulla spalla del giudeo: — Ringrazia il tuo dio, soggiunse poi, come io ringrazio Mercurio se non t’ho ammazzato qui senza far parola, perchè sei un ladro simpatico. Ma chi credi tu che io mi sia? furfante. Se Dolabella ti promise quaranta talenti, il discendente di Venere te ne darà cinquanta, e tosto scrisse nel rotolo le cifre volute e ci mise il C. Julius Cæsar. Usciti che furono i tre giudei, Cesare recossi di nuovo nell’androne. — Siam qui da due ore, o Cesare, e ci conviene recarci tosto all’esperimento mattutino. — Salve, o Cocceio; salve, Plauzio. Eran quelli due celebri istrioni di Roma. Il primo rappresentava la maschera di _Macco_ — qualche cosa tra il Pulcinella e l’Arlecchino — ed era di tanta valentìa segnatamente nell’introdurre versi improvvisati tra quelli di Plauto e di Terenzio, che tutta Roma accorreva per sentirlo. Non c’è nulla di assolutamente nuovo e di solitario sotto al cielo, e quel Cocceio forse era il grande arcavolo del celeberrimo Sacchi di Venezia. L’altro era Plauzio e rappresentava quella maschera che si chiamava _Papposilene_, dall’aspetto di un satiro velloso. — Ho con me l’_Eunuco_ di Terenzio, soggiungeva Cocceio, qui e qua intercalato da certi miei versi, pe’ quali mi sembra che tutta Roma riderà a crepapelle di Pompeo, di Cicerone, di Catone, di Lucullo e dell’indorato Crasso. Vorrei, o Cesare, che tu mi aiutassi ad aggiustarne la misura; a trovare ed aggiustar dardi per ferire chi ha ad esser ferito, e dare così il tono alla gran voce del popolo romano. — Va prima all’esperimento, poi torna da me all’ora seconda di notte. Vale, o Cocceio; Plauzio, vale — e stringendo la mano all’uno e all’altro li licenziava, intanto che rivoltosi ai clienti: — Porgetemi le vostre querele, disse loro, e a rivederci domani al pomeriggio sotto i portici del tribunale — _ai gradi aurelj_. — Ed entrò in un’altra stanza. — Salve, o Sallustio. — Salve, Cesare. Questa volta ho empiti due rotoli. Coprii di ridicolo l’affettato Ortensio; ho messo in evidenza tutti i difetti di Cicerone e berteggiata la pingue eloquenza del pizzicagnolo Crasso.... Or mi preme che tu legga la critica del modo onde Pompeo condusse la guerra spartacia. Mi proposi mostrare che ben più che alla virtù propria, ei deve tutto all’aiuto della cieca fortuna. Ma chi era codesto Sallustio? Nulla meno che il famosissimo Crispo Sallustio, l’autore della Guerra Giugurtina e della Catilinaria, l’autore tradotto e ritradotto per tanti secoli da miliardi di studenti. Allora giovane ancora faceva quel che oggi si direbbe il _giornalista_, e redigeva coll’aiuto d’altri, e segnatamente di Cesare, il _Commentarium rerum urbanarum_; il _Moniteur_ d’allora; perchè Roma fu la prima ad avere una gazzetta; e chi ne crede Venezia introduttrice per la prima volta nel secolo decimosettimo s’inganna. — Ci vorrebbe qualche cenno profondo e terribile intorno alle imprese di Lucullo. — Non posso parlare di lui. Egli mette a mia disposizione trecento liberti per moltiplicare le copie del _Commentario_. Tu vedi. Ciascun liberto me ne dà cinque copie al giorno. Uscendo tutte le settimane nel dì sacro a Mercurio, ne circolano diecimila e cinquecento copie. — E a una dramma per copia; che, a parlarti liberissimamente, è troppo caro prezzo. — Col tempo lo ridurremo. Per ora lascia andare. Mi gode raccogliere quarantadue mila dramme al mese, salve le spese che non varcano dramme due mila. Ciò che significa la rendita di quattrocent’ottanta mila dramme ogni anno. Val quanto essere in una delle più ricche provincie dell’Asia proconsole e senza essere ladri come Verre. — Dunque Lucullo è il più gran condottiero che mai sia esistito? — Sì, finchè mi presta i suoi trecento liberti. Nessuno saprebbe aiutarmi così. Nè tu pure — quattrocent’ottanta mila dramme mi lusingano la fantasia. (E una dramma valeva 97 centesimi di franco). A questo punto il famulo Taltibio annunciò: — Sergio Catilina. E il bieco e livido Catilina spuntò sulla soglia. — Venga, esclamò Cesare. Ed or sentiremo come il mondo antico venne in quel dì palleggiato dall’interloquio di questi tre _anticristi_. E le donne che si annoiano di politica s’affidino per la presenza di Catilina. Per costui assisteranno a sì terribili scene, che sovente ne avranno irte le chiome. III. CESARE, SALLUSTIO E CATILINA. Si fece il ritratto di Cesare, ne’ suoi più minuti particolari, dei quali alcuni riescirono peregrini e stranissimi perfino a qualche studioso; così, prima d’entrare nel fitto dell’azione, si vuol fare il medesimo anche colla colossale e strenua figura di Lucio Sergio Catilina, intorno al quale venti secoli di storia non seppero mai dire compiutamente il vero manifesto, nè esercitare l’intuizione intorno al vero nascosto. La lettera morta dei narratori antichi, allorchè questi non sieno investigatori filosofi, e non abbiano l’immaginazione ricreatrice, non basta perchè altri s’acqueti su di essa, e possa farsi una idea precisa di quello che racconta. Il libello famosissimo di Sallustio è un lavoro di egregie forme e d’uomo che in vecchiaja si ricompiace d’arte, ma più fatto per insegnare a scrivere, che per comunicare altrui la potenza di far rivivere tutto intero un periodo della storia, ripresentandolo alla posterità col rilievo e la completa planimetria di una città distrutta, fatta ricomparire col lavoro degli scavi. Esso narra alla ricisa, e le sue pagine sono troppo fuggitive per poter abbracciare tutta l’ampiezza del prolungato cataclisma del tempo in cui visse. Quel libretto va dunque interpretato coll’ajuto d’altri lavori, va compulsato ostinatamente, va costretto, quasi diremo, colla tortura a confessare tutto quello che espressamente forse vi si tacque. Quando Catilina si presentò sulla soglia della camera di Cesare, e, invitato, si assise, e, ancora invitato, stette ascoltando quel che Sallustio con voce sonora leggeva a Cesare intorno alle guerre di Pompeo, poteva avere trentacinque anni, ma ne dimostrava di più. Era di statura, come suol dirsi, vantaggiosa, ma non alta; dalle maniche della toga apparivan le braccia nude, affatto ossee, percorse da cordoni grossi e da vene gonfie. Si vedeva che quelle braccia e quelle mani avrebbero lasciato il segno dove fosser posate, press’a poco come, vedendo la zampa poderosa del tigre, si crede tosto al naturalista il quale assicura che quella può colla subita percossa rompere le reni al cavallo assalito. La faccia aveva di forme ampie, stupendo l’ogivale, ma il bianco dell’occhio era injettato di vene sanguigne, la fronte attraversata da una grossa vena, le guance livide ed esagitate, sulle quali appariva quel che potrebbe dirsi una battaglia di muscoli. Pure, allorchè, a certe espressioni di Sallustio con cui investiva di ridicolo Pompeo, egli sorrise, a un tratto parve che quella battaglia sostasse, che un raggio di sole illuminasse quel mare in procella; parve che quell’aspetto così tremendo e stravolto, potesse quasi riaversi e rinfrescarsi e balzar fuori bellissimo, se un desiderio appagato, se una fortuna raggiunta fosse venuta in suo soccorso; chè la bocca, aperta al riso, si rivelava di eleganti forme antiche, con una fila di denti, forti sì e grossi, ma bianchissimi. Nella prima gioventù, allettato forse dalle lodi del rodio maestro Apollodoro, che gli disse congratularsi seco dell’aver avuto da natura il dono spontaneo dell’eloquenza, si diede insieme con Lucullo ad approfondirsi nelle lettere greche e nella filosofia, e come chi in ogni cosa si lascia portare agli estremi, affannavasi a poter riuscir primo in quelle discipline; ma la forza del corpo avendolo fatto attissimo alle fatiche del campo, a talchè divenne lo stupore de’ giovani e dei veterani, i quali dicevano non poter egli venir superato facilmente da altri combattendo corpo a corpo, tutto per molto tempo si diede alle cose di guerra, e con tale insistenza febbrile, che dagli albori a vespero si maneggiava continuamente in quelle. Ma, per decreto della fortuna, tale e tanto apparato di insigni attitudini fuori affatto dell’ordine comune, dovevano, per l’esagerato contrapposto di altre, e per un fatto specialissimo, condannare la sua fama ad attraversare due mila anni perpetuamente avvolta di orrore. La uccisione del patrizio Gratidiano è nota a tutti: quello fu il fatto onde la figura di Catilina per la prima volta compare sulla soglia della storia. Sappiamo da Sallustio e da Cicerone e da Tito Livio, com’egli nato da famiglia patrizia e ricchissima, nella prima gioventù, portato dalla sua natura non paga che di esagerazione, si fosse dato allo spendere ed al lussureggiare fuor d’ogni misura; apprendiamo altresì com’egli fosse prodigo non per sè solo, ma con tutti, anche coi ricchissimi, e che il donare altrui cavalli, armi dorate, opere d’arte, quando s’accorgeva che queste venivano appetite, era per lui un’abitudine. Questo non è indizio d’animo iniquo; ma tale abitudine, se giova altrui, è funesta a chi la tiene; epperò venuto in rovina quasi totale, sapendo per aver militato più volte, di essere attissimo anche alla condotta di una guerra, desiderò ardentemente di essere spedito proconsole in qualche provincia; ma per ciò gli occorrevan danari, onde placare i debitori, i quali come vespe gli ronzavano intorno all’avito palazzo, e per nessun conto non lo avrebbero mai lasciato partire senz’essere pagati. — Ora quel Gratidiano era un suo amico, di sfondata ricchezza, il quale volendo impiegare il molto oro lasciatogli dal padre stato più volte proconsole rapacissimo, ambiva di acquistare i latifondi dei ricchi venuti in basse acque, e li angariava usureggiando. Catilina si rivolse dunque a colui per cedergli le terre e le ville che gli erano rimaste; ma quegli negò assolutamente di fare il suo desiderio. Onde Catilina, non potendo indovinarne il perchè, e parendogli un’indegnità, e sospettando che la cagione fosse d’impedire a lui di salvarsi dal naufragio dei debiti, e di rifarsi ricco e coprirsi di gloria militando, montò in tale furore, che lo percosse fierissimamente. Nè vi fu per allora altro. Ma quel rifiuto spietato fece tale effetto sull’animo di Catilina, che l’odio non ne uscì mai più; onde andava pensando al modo di vendicarsi. E vennero le proscrizioni di Silla, di questo salassatore sistematico del mondo romano. Per livellarlo e togliere le sporgenze e far galleggiare un partito solo, colui aveva pensato di allagarlo di sangue, come altri, in altri tempi, essendo aboliti dalla gentilezza dei costumi i mezzi feroci, pur trovarono il modo di assassinar l’Italia unificandola con mezzi violenti, assurdi, funesti, scalzando autonomie, schiaffeggiando tradizioni gloriose, condannando, quasi coscritti, a perpetue tappe i funzionarj della nazione per tramescolare le genti; alternando la pubblica alla privata miseria; creando cariche inutili per assicurare i traballanti puntelli del governo, nominando a migliaja inutili impiegati nuovi, e licenziando utili impiegati vecchi, colla paga e l’obbligo di non far nulla, per trasmutarli così in piante parassite, in sanguisughe innocenti, ma sempre dannosissime all’erario, epperò affogandoci tutti non nel sangue, ma nell’abisso senza fondo d’un debito pubblico inaudito... Chi sia stato più rovinoso all’Italia di quel vetusto Silla a sangue, e degli odierni Silla a secco, potrà giudicarlo la più veggente posterità. Ma si torni a Sergio Catilina e a Gratidiano. In uno di quei giorni orridi di Roma, al confronto dei quali è poca cosa perfino _il tempo del terrore_ passato sulla Francia esterrefatta, e ne’ quali guai a chi era ricco e del partito antisillano (chè tutti avevano il diritto di ucciderlo, e troppo spesso la ricchezza faceva che si confondessero espressamente partiti e partigiani), Sergio Catilina vide da lunge passeggiante lungo Tevere Gratidiano, sicurissimo di sè perchè era patrizio, perchè era sillano. Quella vista gli fece di tratto balenar in mente un’orribile idea. L’odio non gli si era mai spento in petto; ma in quel punto divampò con un ardore che non può avere espressione. Accelerò il passo, onde presto raggiunse il lento Gratidiano, e a pochi palmi che fu da lui, giacchè gli veniva da tergo, Fermati, gli gridò, Gratidiano usurajo; e lo agguantò di colpo, e lo atterrò, e della daga due e tre e dieci volte il trafisse e ne fece colle mani stesse uno scialacquo di sangue; e così orribilmente sfigurato se lo prese tra le braccia, e portatolo di peso alla curia dove Silla stava dando ragione dall’alto di una gradinata, assiso in una sedia d’oro: — Prenditi, o padrone di Roma, questo verro scannato; da me scannato. Esso possedeva dieci milioni di dramme, e tanto dell’agro romano quanto misurano cento pietre miliarie. Io lo dono a te, o padrone di Roma. E, così detto, partì senza aggiunger altro, lasciando esterrefatto perfino Silla. Un tale delitto è orrendo, e per nessun conto scusabile nemmeno da un iniquo, quantunque vi si riveli qualche ragion mitigante. Se quel Gratidiano, pur non danneggiando sè stesso, anzi lucrando, avesse ajutato Catilina, questo, chi sa? puro di macchie, avrebbe attraversato la storia e sarebbe giunto fino a noi forse come il più gran capitano dell’antichità dopo Alessandro e Cesare. Ma queste non sono che congetture, e il delitto sta e il modo atrocissimo di esso; a tal che, pur tra quei costumi efferati dell’antica Roma, quando, divenuto Silla dittatore, per alcun tempo un’apparente calma si sovrappose al non spento Vesuvio e celò i sintomi di più tremende eruzioni, la figura del giovane Catilina passeggiante per Roma faceva ribrezzo ai timidi riguardanti. E perfino dal fratello venne aborrito e scansato; e, fatalmente, venuti a parole, mentre armeggiavano nel campo Marzio, e dalle parole ai fatti, Lucio Sergio uccise il fratello. La storia registrò che gli tolse la vita per raccogliere tutt’intera l’eredità paterna — e qui la congettura è davvero men forte della storia. Se non che, tornato ricchissimo per la morte appunto del fratello, di nuovo si diede a profondere oro, ed ingraziarsi, colla capziosa eloquenza e coi vischiosi allettamenti dei doni desiderati, i giovinetti patrizj, che banchettavan felici con colui che pure aveva ucciso un patrizio morto in fama d’onesto e un fratello vissuto siccome intemerato. Ma a questo era trovata la scusa, e sovente, perfin la lode; la qual cosa ci dà a pensare. E più che mai si diede ad ingraziarsi la plebe; e i veterani, senza riguardo che fossero piuttosto di Silla che di Mario; e i miserabili avanzi della proscrizione sillana, ovverosia i figliuoli poverissimi dei doviziosi padri stati legalmente assassinati, vaganti per Roma come larve a questuare l’indispensabile obolo. A questo momento trovavasi la vita di Lucio Sergio Catilina, quando recossi a Cesare. Allorchè Sallustio Crispo stava leggendo a Cesare un rotolo del suo _Commentarium rerum urbanarum_, la milesia Laja avrebbe dovuto cogliere quel punto per ritrarlo. Nato essenzialmente scrittore e ardente di fiamma intellettuale, si animava di un impeto insueto allorchè declamava o leggeva qualche cosa di proprio o d’altrui. Allora la sua faccia, bruttissima quand’era nella calma dello spirito o nella concentrazione del pensiero, assumeva qualche cosa che, mentre era refrattaria all’arte, pur riusciva ad appartenervi, soggiogandola, quasi per conquista del più forte. I ritrattisti possono destare entusiasmi strani, riproducendo di tali faccie, anche senza far gran fatica; chè i punti salienti e le stravaganze e la vivacissima movenza dan già il dipinto bell’e fatto. Sallustio aveva i capelli rossi (rufi) copiosissimi, inanellati, scendenti fin quasi ai sopraccigli, _rufi_ del pari e densi e grossi e arcuati — parevano due sanguisughe sovrapposte agli occhi per placarne il lampo infiammato — e gli occhi aveva non grandi, ma di quel glauco venereo che accusa il moto del cervello traducentesi a un tratto in conflagrazione sensuale. La voce avea sonora, profonda come quella del leone. Tre figure più dissimili, e nel tempo stesso più attraenti e caratteristiche di quelle di Cesare, Catilina e Sallustio, non era possibile trovare nemmeno allora, nemmeno a Roma. Era il vitreo prisma triedro riflettente tutti i raggi del mondo romano. Nato di padre plebeo, ma non poverissimo, potè questi avviarlo allo studio delle lettere greche; e l’oratore Apollodoro si meravigliò di lui giovinetto, com’erasi meravigliato di Catilina; anzi nel ginnasio, volle contrapporlo a quest’ultimo per suscitarne un’emulazione feconda; e ciò che è strano, Catilina che voleva primeggiare in tutto, non sentì mai invidia di Sallustio, forse per la propria notevole superiorità, di cui Sallustio ebbe invidia: la quale ricomparve poi, a chi ben la cerca, nel famoso libello. Sallustio era, in confronto di Catilina, quel che Cicerone era in confronto di Cesare; il soggiogatore delle Gallie e l’eroe fulminato di Perugia certo che avrebbero superati ambidue, se non avessero avuto altro per il capo. Ma Sallustio si addentrò più e più negli studj, e con tale ardore, che sapeva a memoria i brani più insigni di Sofocle, e i passi d’oro di Tucidide e Senofonte e le oda di Pindaro e i canti afrodisiaci d’Anacreonte e alcune delle parti mirabilissime dell’artista Platone assai più che filosofo. Declamava di maniera che anche lo zotico centurione, indurito nell’armi, si faceva attento alla sua voce e concentravasi in sè e dimenticava i castri e le guerre invocate. Le più illustri dame romane gareggiavano per averlo nelle proprie dimore; e più di tutte la _eminente_ Sempronia, famosissima allora, talchè è famosa anche oggi; quella Sempronia dotta in greco e in latino, prima nell’arte del canto e del ballo, bellissima fra tutte le belle donne tiberine, ma ambiziosa ed aspirante a potenza ed a glorie virili; il Catilina del suo sesso, in una parola; talchè ebbe poi seco a confederarsi. Ingraziatosi il così detto bel mondo dell’antica Roma, invitato, adulato, pregato dalle donne romane a intrattenere le loro adunanze perchè era anche eloquentissimo e audace nella disputa, onde, anche per la voce sonora, spesso metteva altri a tacere; si sentì portato all’eleganza, e, venduti gli augusti poderi aviti, tutto si diede al lusso ed agli amoreggiamenti, e, credendosi avvenente, si condusse come se lo fosse, e raccolse i premj dovuti alla sua fiducia. Usufruttando la fama di giovine dottissimo, credette opportuno di continuare quel _Commentario_ romano che non sappiamo da chi sia stato iniziato primamente in Roma. Divenuto ricco, accrebbe le eleganze e sdrucciolò alle dissolutezze, pur tra la toga azzimatissima e i compri e non compri baci innestando il greco di Tucidide e le armonie d’Omero. A guardar certe apparenze e lasciando inesplorato il profondo dell’animo, parrebbe di scorgere qualche somiglianza tra Sallustio e Foscolo. L’eminente Sempronia, nelle pieghe del cui peplo il Romano inciampò, parrebbe somigliare a quella lombarda inclita patrizia, dotta in molti idiomi, bella come Venere, dalla cui rete afrodisiaca si lasciò prendere l’Italo-Greco moderno. Ma, a non trarre altrui in inganno, giova il dir tosto che la generosa figura di Foscolo nè deve nè può entrare nell’accennato confronto. Solo, certe somiglianze personali e talune abitudini della vita privata e l’eccellenza nell’arte e la fama non moritura di ambidue, ci suggerirono questo fuggitivo raffronto. Ma Sallustio nacque povero e morì ricchissimo e di ricchezze derivategli dalle genti espilate; laddove Foscolo nacque agiato e morì in esilio e poverissimo, senza ottenere un frutto delle sue opere, indarno celebrato. Sallustio fu il satellite perpetuo di Giulio, lo seguì, lo adulò, lo incensò quasi nume. Foscolo invece stette solo in piedi in mezzo all’universo prostrato davanti al Cesare moderno. — È questa una solenne grandezza che lo redime di tutti i suoi peccati. Ma si ritorni al Cesare antico. IV. ATTICA ACCADEMIA DI MUSICA E POESIA NEL PALAZZO DELL’EMINENTE SEMPRONIA. Nelle aule del palagio di Sempronia, eretto sull’aristocratico Palatino, per l’ora della _primæ noctis intempestæ ad mediam noctem_ era stata invitata la classe più alta, più elegante di Roma, onde assistere ad una _attica accademia_ di musica, di canto e di danza. L’_eminente_ Sempronia prediligeva tutto ciò che richiamava la Grecia, nell’idioma della quale ell’era insigne. Gemeva Roma divisa in più partiti, la miseria affannava crudelmente le derelitte plebi, gli odj imperversavano tra gli uomini nuovi e la classe senatoria, e fervevano odj e inimicizie implacabili pur tra senatori e senatori, tra patrizj e patrizj, tra console e console: era una guerra di tutti contro tutti; guerra che perdurava per l’arbitrio dei prepotenti che tutto avevano invaso, per la maestà delle leggi strascinata nel fango, per la dea Giustizia esule dal suo tempio, e fatta oggetto di scherno, ridotta qual era a larva di minaccia senz’ajuto di pene inesorabili. Eppure su questo fondo procelloso, su questa immensa negra acqua acherontea non mancavano le apparenze di un perpetuo gaudio, di una ricchezza babilonese inesauribile, e i circensi costavano tesori; ed Emilio Scauro spendeva duemila talenti per l’erezione di un teatro temporario, ornato di trecentosessanta colonne e di tremila statue; e le tuniche, e i pepli, e i flammei, e le vesti femminee accusavano l’oro profuso, per le perle e per le gemme dell’Indo, e i coralli e le cocciniglie dell’Eritreo. È a un tale spettacolo che assisteremo nelle aule della _eminente_ Sempronia. Nell’ora seconda della notte esse cominciarono ad affollarsi. L’aula _magna_ mostrava nel pavimento un mosaico di Eraclito, scolaro di Sosos, rappresentante le danze efesie; nella vôlta, era assiso un Apollo citaredo tra le nove Muse, dipinto del greco Marco Plauzio Ceta. Sei giri di sedie dorate stavano disposte a gradi e in emiciclo — nel mezzo era quel che diremmo l’orchestra, per chi doveva suonare, cantare, declamare; a questa si accedeva per una porta, attraverso la quale, quand’era dischiusa, vedevasi una lunga fuga di sale, tutte quante illuminate. Una reggia d’oggidì appena potrebbe venire al confronto di quelle magnificenze d’allora. E venne l’ora che l’emiciclo fu tutto gremito di viri togati e di pretestati giovinetti e di matrone e di fanciulle. Brillavano di gemme le _zone_ ond’esse avean cinti i fianchi; alcune portavan la _vitta_ o il _reticolo_, foggia adoperata a far pompa della stessa prolissità delle chiome, sotto colore di nasconderle: _Vitta coercebat positos sine lege capillos;_ altre avean coperto il petto del capizio, e dei suoi nodi s’eran strette a dismisura per comparire più gracili e più aggiustate di vita: _Demissis humeris, cincto pectore, ut graciles fient._ Gli uomini di toga e di spada, allora già famosi in Roma, comparvero ultimi, il che, o per vanità o per altro, fu sempre fatto dagli antichi e dai moderni, e si adagiarono su certi stalli di greca fattura addossati alle pareti laterali dell’aula. Comparvero Pompeo e Lucullo; comparve Pomponio Attico; elegante la toga di un partito di pieghe che sembrava preparato da Fidia, si mostrò Ortensio, l’oratore numeroso ed a cadenze musicali, e nel quale più che il genio impetuoso dell’eloquenza valevano i lenocinj dell’arte la più ricercata, e nelle vesti appunto ne mostrava riprodotto lo stile; ed entrò Marco Tullio Cicerone, a cui tutti volsero gli sguardi. E in vero, che malgrado il vario frastuono dell’aula magna, e l’impaziente aspettazione degli intervenuti, e i discordamenti accordati de’ suonatori già comparsi in orchestra, soffianti nelle trombe argive ed egizie, e ne’ flauti frigj, e pizzicanti cetre e formingie e testudis e magadis e anacreontici bárbiton, siam costretti a fermarci più di quel che comporterebbe il momento innanzi a questa grande tanto quanto eccezionale figura dell’antichità. Esso aveva la fronte amplissima e sì sporgente alle regioni del sopracciglio, che gli occhi parean protetti da una tettoja; e quelli avea profondi e di smorta luce e accusanti miopia, chè solea stringerli ogni qualvolta mettea attenzione nel guardar qualche cosa. Pure da quella cavità profonda e da quella semispenta luce, usciva di tant’in tanto un baleno specialissimo di arguzia gioconda e amabilmente ironica, che pareva rivelasse un perpetuo e filosofico sorriso dell’intelletto. Il _quam ridiculum consulem habemus_ onde Catone ebbe a definire poscia in pieno Senato il carattere di Cicerone, manifestossi in quella stessa notte, appena ei si mise a sedere tra Pompeo e Lucullo, chè, girato lo sguardo intorno, tosto, parlando sottovoce con loro, liberò il volo a tali celie e scherzi ed epigrammi, che Lucullo rideva ad ogni sua parola, e Pompeo, che non avrebbe voluto compromettere la dignità imperatoria con risa scomposte, s’affannava a comprimerle, onde, per la legge appunto della compressione, più violento che mai e plebeo gli scoppiò un cachinno, che fece volgere su di lui tutte le pupille delle dame romane. Di lì a poco entrò Clodio, il giovinetto Clodio tanto bellimbusto, azzimato e amante riamato delle tiberine beltà, quanto facinoroso e accattabrighe sanguinario. Nessuno, nemmeno il più esperto investigatore d’indoli umane, avrebbe potuto indovinare quel che stava sotto a quelle formose apparenze; e come le chiome di femminile mollezza e il volto imberbe di etrusca perfezione potessero dissimulare un carattere sì feroce e protervo, e un cuore fatto d’agata, assai più che di ferro. Soltanto la qualità della sua voce poteva renderlo sospetto: chè quella non era nè maschile nè femminile, e mandava de’ suoni misti come se fosse ancora in quella età critica in cui l’adolescenza si svolge alla gioventù; e anche l’occhio, sebbene di linee fidiache, mandava tratto tratto un guizzo di luce sinistra e serpentina, che tosto si spegneva, quasi che una pellicola simile a quella dell’avoltoio discendesse a coprirne la pupilla. E in compagnia di Sallustio apparve Catilina. Il primo si recò nell’orchestra. Catilina, torbido e accigliato e manifestamente convulso, se ne stette in piedi, chè tutti gli stalli erano occupati. Entrato quasi di celato alcuni minuti prima, aveva gettato l’occhio lungo i gradi dell’emiciclo dell’aula magna per vedere se vi stesse già seduta la sua Aurelia Drusilla, non la Dorestilla di cui parla Sallustio, e che era già stata abbandonata da Catilina; — ma Aurelia non vi era. Chi gli stava presso s’accorse che, messosi l’indice tra’ denti, se lo compresse. Irrequietissimo uscì di nuovo, percorse tutte le sale, discese alla soglia del palazzo. In quel punto per sua fortuna, Aurelia balzava a terra dall’aureo cocchio, preceduta da due servi e accompagnata dall’ateniese Armodio, suo commentatore quotidiano di Omero ed Esiodo e d’Aristofane e dei tre tragedi. Catilina, tramutatosi in viso di tratto e mandando luce dagli occhi e sorridendo, le si mise d’accosto; ma, a un tratto: — Tu, di recente, hai versato lagrime, le disse. — Sì, rispose Aurelia, e ognora ne verserò finchè Tullo non sia mandato a militare in qualche remota provincia. — E che dunque avvenne? — Quel che un tempo ogni dì, prima che venisse a morte l’infesto Cetego; e il figlio è peggiore del padre, ed è mio figlio. Nessuna madre al mondo fu mai tanto bistrattata come da costui. Però tu ne sai la cagione, o Sergio. Catilina si rifece cupo; seguìto dall’ateniese Armodio accompagnò Aurelia presso Sempronia, la quale in solitario recesso stavasi provando al canto accompagnata dal citaredo Psosias. E tosto Sempronia si recò nell’aula magna, insieme con Aurelia, che pure doveva aver seggio nell’orchestra, come la più insigne, in quel tempo, suonatrice di _simikion_, specie di lira da quaranta corde accordate all’ottava a due a due. Appena Sempronia e Drusilla si mostrarono in orchestra, proruppe un lungo applauso, al quale successe il più profondo silenzio; e comparve allora Giulio Cesare; un prolungato bisbiglio femminile turbò il silenzio alla comparsa di lui, che non a caso venne ultimo. Anche nel secol nostro fu notato che gli uomini i quali furono o vollero diventare illustri, sempre, quasi sovrani, comparvero ultimi ai ritrovi e ai banchetti e alle feste cui erano invitati. È il desiderio ognor vigile che li affanna di staccare sul fondo della buja folla come individualità raggianti. Alle mense della veneziana Teotochi, lord Byron, questo Cesare non riuscito, fece sempre attendere per più di mezz’ora i commensali mormoranti d’impazienza. Giulio Cesare, non vedendo stalli vuoti, si collocò, stando in piedi, presso a Catilina. Sallustio era entrato in orchestra, e del suo _vale_ sonoro diretto a Sempronia e Drusilla echeggiò tutta l’aula magna. E proprio dirimpetto a Catilina, tra il vano d’una porta d’ingresso e lo stallo dov’era assiso il maestoso Pompeo assai più che Magno, venne a piantarsi un giovinetto in pretesta, dalla faccia fierissima ed arrotante gli occhi come bissonte provocato, e li fissava su Catilina sfacciatamente. Figlio del defunto Cetego e di Drusilla Aurelia, matrona di appena trentatrè anni, e insigne di non superabile beltà, talchè pareva non varcasse il quinto lustro, egli odiava Catilina, quantunque il proprio zio fosse amicissimo di colui, di un odio che anelava di tradursi in atti di sangue — l’odiava per il disdoro che la madre propria si fosse invaghita di uno scellerato sanguinario, e più forse perchè, doviziosissima qual ella era, veniva a metter tutto nelle mani dilapidatrici di colui che, per forza, voleva diventargli marito. Tra il figliuolo e la madre i dissidj e le rampogne e le ingiurie duravano assidue da tempo, e un dì ei si lasciò trarre a percuotere il bellissimo volto materno, ond’essa, apertasi con Sergio, questi giurò di mettere in brani quell’adolescente furioso. Ma eran già aperti sui leggii i rotoli della musica, i cui segni stavano a quelli d’oggidì, ossia alle note di Guittone d’Arezzo, come i numeri latini agli arabici. La musica romana, che era pur sempre la greca, constava nientemeno che di 845 segni, così per le voci come per gli strumenti, e venivan rappresentati dalle lettere dell’alfabeto, naturali, rovesciate, inclinate, accentate, dimezzate. L’accademia doveva aver principio da una sinfonia composta dal citaredo Psosias, d’Atene, il quale, chi mai lo penserebbe? ad onta che l’idioma della vocale sua patria, tutto soave di eufonie, e già musica per sè solo, avesse dovuto di preferenza innamorarlo della melopea, pure, al pari del più _irto_ contrappuntista tedesco, s’affannava di comparir dottissimo nella _ritmopea_; la quale da tutti i musici greci era stimata più importante degli stessi pensieri e delle stesse idee. Era già l’arte della decadenza ellenica, per la quale vennero nel massimo dispregio i canti semplicemente sublimi che avean messo il tumulto nei cuori dei contemporanei di Sofocle. Nulla v’è di nuovo sotto al cielo, e la grandezza dell’arte che sta nel semplice, essendo sempre dono di pochissimi, tosto dall’impotente mediocrità viene disprezzata, perchè gli uomini in ogni sfera e dell’azione e del pensiero e delle sue diverse discipline ostentano di tenere in nessun conto quel che sono impotenti a raggiungere. E per verità, che quella sinfonia, sebbene perfettissimamente eseguita, non piacque troppo all’uditorio, e dispiacque a Cesare intendentissimo dell’antica musica greca; a tal che non si tenne in silenzio, e: — _Bene, optime_, gridò a Psosias colla sua voce armoniosamente sonora, — tu sei profondo al pari d’Archimede; — ma quegli coi numeri di Pitagora e coi segni d’Euclide aperse nuovi cicli agli umani intenti. — Tu invece, a chi servi tu? l’arte non deve servire che all’arte — officio della musica è di esprimere alla sua maniera i pensieri e gli affetti. Tutti i tuoi greci poeti furono sommi perchè fecondarono di idee e scossero di efficaci commozioni chi li leggeva e li ascoltava. Ma tu e i tuoi Greci moderni riduceste la musica ad un vuoto e sterile rumore. Tuttavia, sei dotto, o Psosias — e ammiro le tue fatiche; bensì mi lagno teco, perchè, percuotendomi l’orecchio, mi opprimesti il cuore, vietandogli che battesse più alacre. Ed ora salvaci tu da tanto gelo, o eminente Sempronia, col tuo canto divino; e tu pure, o Aurelia, dalle dita vocali. — Allora assurse la _eminente_ Sempronia. Ella fu la prima forse tra le donne tiberine ad ottenere in dono dai concittadini quel predicato di _eminente_. Questo le fu concesso e a significato delle doti eccezionali della _decòra forma_, e delle virtù dell’intelletto, e delle tre Grazie che pareano averla tenuta in custodia fin dalla culla; ed anche perchè, a sollievo di chi non voleva toccar l’accusa d’adulazione, essendo nata a Tivoli, derivava dai luoghi _eminenti_ della campagna romana e da’ suoi dolci colli. Anche oggidì si chiamano _eminenti_ a Roma le donne cresciute sugli alti suoi poggi. Sempronia, che i devoti amanti chiaman _diva_, avea questo di specialissimo, che rendeva completamente il tipo antico e perpetuo della donna romana; quella tremenda austera beltà che già tenne Clelia attraversante il Tebro sotto i dardi nemici, e nel tempo istesso nell’arco del sopracciglio e nel suo frequente aggrottarsi qualcosa che richiamava la erinnica Tullia trasvolante sul cocchio parricida. Il volto di Sempronia, precisamente come si osserva anche oggidì nelle più belle Tiberine, era il trionfo della legge dei contrasti, la legge massima dell’arte; severa e chiusa in sè, pareva una divinità sdegnata che fulminasse i mortali. Ma se appena il sopracciglio si alzava e tremolava il raggio della pupilla e il sorriso rivelava il tesoro dei denti eburnei, tosto pareva dischiudersi un luminoso olimpo; a tal che quel repentino trasmutamento aveva, quasi diremmo, tutti i caratteri d’una solennità. Non aveva che ventisei anni, e com’era il trionfo della bellezza era anche il trionfo del peccato: E il peccato era in lei fatto natura. Orfana di padre e di madre e ricchissima, sebbene fosse liberale di soccorsi ai miseri, la sola virtù morale che avesse, non isdegnò i lautissimi doni de’ suoi amanti, presentantisi talvolta in processione, e paghi, sebbene fossero consoli e proconsoli e sacerdoti di Giove e d’Apollo e duci dei cavalieri, di ottenere una minima quota dei suoi sguardi, che dall’alto faceva cadere su di essi quasi fossero pioggia d’oro. Era tempra di Semiramide colei, dall’ampia mente fatta al dominio, e dal cuore non mai commosso proclive alla tirannia. Pure avea una strana deferenza per Sallustio Crispo, deferenza, non amore, perch’egli sovente doveva pure acconciarsi ad essere spettatore di erotiche accademie. Ma se lo storico sembrò ai posteri fatto di diamante, l’uomo ai contemporanei apparve duttile come verga di sanguinella. Annunciata da un preludio suonato da Drusilla sul _trigono_, ella cantò un canzoncino di Anacreonte. In quel canto, perchè le regole trovate dall’arte non sono che una riproduzione della natura, v’era quasi tutto ciò che si ammirò nella musica posteriore. Ella sfoggiò scale ascendenti, ossia l’_Agoge_, e dalle basse balzando di tratto alle note alte con felicissimi ardimenti, si fece ammirare in quella che chiamavasi _Ploke_, e il limpido zampillo della voce prolungava sulle note tenute con inalterabile eguaglianza, per virtù della _Jone_. Dopo di lei Drusilla, accompagnata dal flauto frigio, suonò un concerto sul _simikion_; e Psosias toccò la cetra, in cui era inarrivabile, provocando le lodi di Cesare, che esagerò per compensarlo del rabbuffo onde prima lo aveva investito, e del quale erasi pentito, perchè troppo gli premeva di non inimicarsi nessuno. Ci fu un quarto d’ora di riposo. Catone, il rigido Catone, che aveva passeggiato nelle altre aule, involandosi dispettoso alle blandizie della musica ch’ei soleva chiamare _effeminatrice d’eroi_, comparve sulla soglia perchè seppe che Sallustio Crispo, l’incomparabile declamatore, stava per esporre il terzo canto dell’Iliade. Comparve, prese una sedia, s’accostò all’orchestra, e, incrociate le braccia, stette ascoltando attentissimamente. Sallustio, annunciato che quel canto della Iliade era una traduzione di esametri latini di ignoto scrittore, cominciò la recitazione. Più che le donne stettero attenti gli uomini di spada. Agli esperti, a Cicerone in ispecial modo, parvero stupendi e di nuova eleganza quei primi esametri; e mirabilissimo quel passo onde Ettore investe Alessandro di contumelie: E non la cetra Ti gioverìa, nè quelle ciocche e il viso, Nè Venere e i suoi doni, ove la polve Ti contamini in campo. Oh se i Troiani Fosser men sofferenti, io ti vedrei Vestito di una grandine di pietre E pagato oggimai d’ogni lor lutto. Gli esametri latini recavan forse davvero questa perfettissima concinnità dei versi Foscolani. Onde l’artista Cicerone non seppe trattenersi, e gridò: — Non v’è poeta antico del Lazio; non Ennio, non Nevio, non altri, che abbian scritto di tali carmi. Però se tu sei il felice traduttore, o Crispo Sallustio, giacchè so che tieni altissimo ingegno, dillo, ch’io ti bacerò sulla fronte. — Non io, rispose Sallustio, ma è Giulio Cesare astante, che ora mi fulmina degli occhi perchè ho tradito il suo segreto. Ei me li diede a leggere, facendomi giurare che a nessuno al mondo li avrei mai dati a vedere. Ma se a rompere un tal giuramento ho bene operato, lo dica il tuo senno, o Marco Tullio; e Cesare mi perdoni. E Cicerone attraversò tutta l’aula, si fermò innanzi a Cesare, e, alzatosi, lo baciò in fronte, esclamando: — A grandissime cose sei nato, o Giulio, io te lo annuncio..... e sempre ti circondi Venere de’ suoi raggi, Venere la tua grand’ava celeste. — Proruppe un lungo applauso, e le fanciulle tenevan gli occhi intenti sul giovinetto Giulio; che, stringendo la mano a Tullio, chinò il capo girando lo sguardo intorno a ringraziar l’uditorio, ma con tale maestà, che sembrava prenunciasse l’agitar della testa del Giove futuro. E l’accademia vocale, istrumentale e poetica si sciolse, e dai gradi dell’emiciclo discesero matrone e fanciulle; e tutte precorse da famule eleganti, che dovevano apprestare altri seggi, passarono nell’aula delle danze. L’ora era tarda, l’_inclinatio mediæ noctis_ era già sopravvenuta. Si cominciarono le danze, delle quali era conduttrice l’instancabile Sempronia. Si produssero balli egizj, incessi etruschi, danze argive. La decadenza di quest’arte non era ancora avvenuta; toccava infamarla all’osceno Nerone. Ma allora, tuttavia, segnatamente nella danza argiva, le movenze, gli atteggiamenti, i passi, il girare e l’inclinare delle teste, la flessione delle braccia, il piegar delle dita, tutto si proponeva l’intento di suggerire alle arti plastiche giri di linee elegantissimi e scelti contorni e lievi protervie dissimulate da casti sguardi. In ultimo comparvero Sempronia e Drusilla in costume di Niso ed Eurialo venuti a gareggiare in mezzo ai giuochi del campo dì Enea; e danzarono accompagnandosi coi _crotali_ che dall’antico Ilio eran passati in eredità alla gente latina. Fremettero a quel ballo audace (primo annuncio di decadenza) i giovani romani, e acuti ardori li investirono allo spettacolo di quei popliti fatali e di quelle pafiche gambe, tradite agli sguardi dalle lievi e brevi tuniche che si alzavano troppo spesso. Ma più di tutti fremette Catilina di forsennata fiamma; e fremette il sedicenne Cetego maledicendo alla beltà materna. E sangue, scellerato sangue, apprestò quella danza. V. L’IRA DI CETEGO. Come cessò quella danza fatale, cui susseguì un urlo d’applausi baccanti; e intanto che si disponevano a novi balli, novi attraenti côri di alfesibee e alfesibei, Giulio Cesare fermò Catilina. — E perchè, gli disse, ti aggiri irrequieto e terribile, così che sembri un tigre bramoso? — Tengo l’averno qui — quegli rispose, premendosi il cuore col pugno serrato. — Ma e la gloria della donna tua non ti lusinga invece? non ti accomuna agli Dei? — Sì, tutto che vuoi.... se non vivesse quell’irto cignale di fanciullo che tu vedi or là... in fondo... — È il figlio di lei. — Impara dunque a sopportarlo. — Lo tentai; mi feci acuta violenza; ma colui non sopporta me... nè la madre... e un dì fu sì feroce e codardo che la percosse in volto. Però ei deve andar sotterra, e presto. — Ami tu Aurelia davvero? Catilina guatò Cesare con lampeggiante pupilla, e: — Tu me lo chiedi?... Roma, l’Italia, il mondo, tutto che sta in cielo e in terra, manderei in isfacelo io... per questa donna, a me, oltre ogni umano pensiero, dilettissima. E così dicendo, strinse della propria con sì tenace stretta la mano di Cesare, che questi ne diè segno doglioso in un fuggitivo aggrottare del ciglio. — Senti, Sergio, disse allora Cesare... Io mi propongo di renderti amico e ligio il giovane Tullo, se concedi che in questa istess’ora io gli parli. — Vedi ch’ei sta in profondo abboccamento colla giovanissima Servilia, sorella a Catone; terrestre Ebe che lui infiamma d’amore, come Roma vocifera. Non v’ha macigno che, tocco in sì rovente bragia, a placito nostro tosto non si squagli. — Hai seco parlato altre volte? — No. — Dunque vedo che non lo conosci, se credi ammansarlo. Però, se ci riesci, ti ringrazierò ammirando. E Cesare, lasciato Catilina, scansando con leggiadria i danzanti côri, s’accostò ai due giovani. Ei non aveva mai parlato nè con l’uno nè con l’altra; inoltre, è quasi ingiunzione di legge, l’aliare disattenti e inconsapevoli e ciechi intorno a due che sieno infervorati in amoroso colloquio. Ma Cesare invece infranse la legge di colpo, e si fermò innanzi ad essi, e li guardò fisso; ma con sì benigna movenza di pupilla, che nè a Servilia nè a Cetego venne in mente di chiamarlo importuno; — e Cesare, inclinatosi tra l’una e l’altra testa: — Cari colloquj io interrompo, soggiunse, ma contemplandovi invidioso da lungi, sentii la necessità di gratularmi con te, o giovinetto Cetego, che tanto premio ti meritasti; e con te, fanciulla, che Ebe a me sembri: Ebe dalle chiome fragranti di nettare e ambrosia, fidente in costui, il quale mi sembra una promessa di Marte. Sorrise a Cesare Servilia d’ineffabile sorriso, pur tacendo, l’animo grato le brillò nella pupilla: e Cetego li fissò pure, ma di uno sguardo involontariamente fiero; chè natura gli aveva per tal modo modellato il fortissimo ciglio, che mal poteva atteggiarsi a dolci movenze: e codesta fierezza, che pareva dovesse renderlo inamabile alle donne, era quella appunto che le traeva a sè, dominandole, e sovente anche involontarie. — Belle parole tu ne dici, o Cesare, esclamò poi... ma se son belle pronunciate da te, ben migliori sarebbero, e a me più profittevoli, se venissero dalla scellerata mia madre, e dall’inflessibile fratello di costei. — Nè tua madre è scellerata, nè inflessibile è Catone. Però, se lo concedi, vorrei per poco trattenermi teco. Dopo queste parole, Servilia essendo stata invitata a nove danze, Cetego s’alzò, e: — Sono con te, soggiunse; ma già ti avviso che tu alimenti impossibili speranze. Non c’è altro che il ferro, nè altra dea che Nemesi a cui mi affidi. Cesare precedette, recandosi sopra un terrazzo del giardino pensile. Cetego il seguiva; ma il giovinetto Clodio gli si attraversò allora dicendogli: — Che vuol Cesare da te? — Lo saprai. — Bada che i miei servi son pronti. — A che i servi? Basto io solo in ogni modo. — No, Cetego. Colui ha sempre seguaci numerosi di notte. Provvedi a te. — Ora attendi. Tosto ritorno. Il palazzo di Sempronia sorgeva sovra un dei più alti declivi del monte Palatino. Dal terrazzo ove Cesare erasi recato, vedevasi gran parte della sottoposta Roma, quella segnatamente che da porta Romanula si estendeva fino alle stazioni dei municipj. Nereggiavano sull’azzurro cielo in gigantesche proporzioni la basilica Porcia e la Opima e la Fulvia Emilia; illuminate dalla luna, potevansi contar le colonne del tempio degli Dei Penati e di quello di Castore e Polluce e della curia Ostilia. Cesare, a guisa di chi vagheggia un latifondo cui sospira di possedere, osservò, prima di parlare a Cetego, quella maestà romana accresciuta dalla notte e dal cielo profondo e dai confini indeterminati pel giuoco delle tenebre in contrasto colle varie ed ampie macchie bianche della luce lunare. — E questa posò sulle figure di Cesare e di Cetego, tagliando il viso di quest’ultimo, di maniera che la parte inferiore era in ombra, spiccando netta la superiore, la quale pareva uscire, come di soppiatto e sospettosa, da una selva densissima di capegli a larghe anella, che, al par di quelli che si vedono nel busto di Lucio Vero, aveano la loro radice a mezza fronte, e insieme coi sopraccigli congiungentisi fitti all’inizio della linea nasale, davano un aspetto terribilmente fantastico a quella testa giovanile, cui Cesare artista ed esploratore di caratteri guardò a lungo; e in guardarla, parea pensasse: Or vedo che le mie saran parole al vento. — Dimmi, o Cetego, entrò primo a parlar Giulio Cesare, hai tu fiducia in me? — Più di quella ch’io ho in altri, perchè tu sei il più giovane di quanti hanno già qualche fama in Roma. — E non per altra ragione? — Sì, anche pel tuo ingegno, come assicura il greco Armodio; e perchè sei il primo nel cogliere il bersaglio col pilo; e perchè sei il solo che freni il cavallo pancia a terra tenendo le braccia intrecciate dietro le terga. — E non per altro? — Altro non so di te... Ma della giovinezza in fuori... nessuna tua virtù mi aggiunge fiducia... perchè quelle che ti ho accennate, se saranno utili a te, temo possan riuscire dannosissime agli altri. — Sebbene tu mi dica ingiuria, pure mi congratulo teco che in sì giovane età parli, se non con senno verace, certo con tutte le apparenze e le scaltrezze di un senno che par fatto d’esperienza. — Chi rimane orfano ancor fanciullo, impara assai prima degli altri a vivere e a giudicare degli uomini. Io poi non ebbi che affanni e dolori atroci nella casa mia... Mio padre morì trentenne... e ancor ne ignoro il come. Qui Cetego stette muto un istante, poi ripigliò: — Sventuratissimo colui che nacque da madre bellissima, la quale, giovane tuttora, vede crescersi innanzi, quasi assiduo rimbrotto, un figliuolo di tale apparenza ed aitanza e forza, che minaccia di farla parer vecchia innanzi tempo. — Ami tu la madre tua? — No. — E perchè? — Per corrispondere all’odio suo... — E come puoi credere ch’ella t’odii?... — Insultando alla propria fama, ella insulta alla mia... però mi odia... — In che modo insulta alla propria fama?... Il suo nome echeggia dovunque in suon di lode... — E di che lode mi parli tu?... mal t’infingi, o Cesare... e concedi troppa importanza al fatto che nella vita mi precorri di sette anni. Ma pensa che la mente mia è forte e scaltrita, come è virilmente muscoloso codesto mio braccio gladiatorio. Guarda, o Cesare — e squassò al chiaro di luna il suo braccio dritto, di sì poderosa apparenza, che se allora vi fosse stato il dinamometro, esso ne avrebbe di tratto oltrepassato la misura. — Se la densità delle braccia fosse espressione d’intelletto..... Ercole sarebbe Apollo..... Ajace avrebbe cantato Ilio invece di Omero.... Burro, il gladiatore, tuonerebbe dai rostri come Tullio..... — Degli altri io non so... Ben di me so questo... che mi sento uscito d’adolescenza, e, precorrendo natura un buon tratto, or mi trovo compiuto sì di fuori che di dentro e nel corpo e nell’animo al par di chicchessia... E guai a chi s’attentasse insultarmi. — Lode a te, o Cetego; ch’egli mi sembra sii stato battuto all’incude, dove già stridette il ferro di Mario. Or se tu sarai quel che or sembri, Roma dovrà gloriarsi del nome tuo. Queste cose diceva Cesare; ma nell’intimo provò in quel punto per Cetego la stessa inesplicabile avversione che Silla aveva sentita per lui; ma Silla aveva palesato quel che Cesare dissimulò con arte profondamente lusinghiera, intanto che a Cetego porgeva la mano, la quale non fu respinta, ma nemmeno accolta dall’arcigno fanciullo che tosto soggiunse: — Non posso stringere la mano che stringe quella di Catilina. — Anche di ciò mi loderai, o Cesare? — Ammiro la tua sincerità selvaggia, non l’errore del tuo giudizio... — Io detesto Catilina, assassino e fratricida. E tu, Cesare, ti contamini della sua velenosa dimestichezza. — Tu non lo conosci; nè conosci i fatti che detesti. — Ti do tempo sette anni a darmi ragione. — Nè sette, nè settanta. Odio quell’uomo, e l’odio mio è fatto disprezzo. Però da questo punto, guaj se egli s’attenta di riporre il piede nella casa degli avi miei. Sulla soglia di quella io farò di lui quel ch’ei fece di Gratidiano in riva al Tevere. Lo giuro ai numi dell’Averno; ad essi consacro il suo capo scellerato. — Ma dimmi, o Cetego, hai tu il diritto di vietare alla madre tua di venir sposa a quell’uomo che più le piace? — Ne ho la volontà, se non ne ho il diritto; se poi tu parli di Catilina, anche il diritto è con me. — E credi che Aurelia tua madre debba obbedire a te, quasi a padrone? — Non a me padrone, ma più che a padrone, al tiranno _onore_. E in forza di questo io comando nella casa dei Cetegi. — E Servilia? Non pensi a Servilia? — È a lei che penso, e se Catone mi è avverso, non è già perchè io sia Cetego, ma perchè sono il figlio dell’amante di Catilina. — E se io parlassi, e se Catone non opponesse più l’inesorabile sua parola ai desideri tuoi... e se la divina Servilia diventasse tua moglie.... allora, pago di te stesso, non ti placheresti con tua madre, col suo marito futuro?... — Marito futuro? Ma chi è, ma chi ha ad essere costui? — Non andare in escandescenze, o giovinetto; e giacchè ti credi già degno della toga virile, fa che a me non sembri di soverchio la tua pretesta. Or su, dêssi far senno e provvedere al tuo avvenire, pel quale già temo. — Altri piuttosto dee tremar per il proprio. — Tu sarai padrone nella casa tua. Io farò in modo che l’intero asse paterno venga tosto nelle tue mani; nè altri ti debba più governare. Questo ottenendo, come puoi tu pretendere che altri debba essere tuo schiavo? — Non m’importa nè d’asse paterno, nè di libertà, nè di padronanza, nè d’altro; quel che ho detto, ripeto, e quel che voglio, esser deve. Intanto, io ti prego, o Cesare, di riferire a Catilina, che se questa notte pensasse mai di toccar la soglia della casa dove io sto.... là si fermerebbe cadavere, nel proprio sangue immerso..... — Ti credetti acciajo da Mario... Or non mi sembri che zanna da tigre. Però ti rinselva, e fa la tua strage se ti riesce. E Cesare, senz’altre parole e senza saluto, lasciò Cetego sul terrazzo. Le danze proseguivano. Cesare attraversò le sale, venne a Catilina, e: — Nulla c’è a fare. — Ben te lo dissi. — Or devi star sull’avviso, o Sergio. Colui ha propositi di sangue, se tu non rinunci a Drusilla, se non rinunci a metter piede nella casa dei Cetegi. — Quando così si vuole, quasi urlò Catilina allora, domani ella sarà mia sposa... e stanotte dormirò nella casa dei Cetegi. E lui, lui stesso padrone ultimo dell’antico palagio, getterò dalla torre che guarda Tevere; e lunge lo scaglierò, come Pirro fece d’Astianatte, ed Ercole di Lica. Lo giuro ai numi. — Lascia i numi lassù, e a te provvedi. Ma le aule si vuotano, chè l’ora del _conticinium_ è presta. Che pensi di fare or tu? Attendere il _diluculum_, o uscir tosto? — Uscir tosto, e in modo che Cetego se n’accorga. Spesso lo vidi in colloquio con Clodio, il quale mi guatava bieco. Vo’ vedere se avran l’audacia di seguirmi. — Attenditi il peggio, o Sergio. — Ho braccia strenue e daga sotto la toga, com’è mio costume di portar sempre; e una siepe di giovani indebitati che strappai sovente alle ugne dell’usurajo. — Ed io verrò teco. — No, piuttosto veglia in disparte, e governa le fila non osservato. — Sia. Ma or vedo là Catone. Voglio parlargli; e mi par che stia levando dal seggio la sorella Servilia. Colui affetta di non tener cocchio, a pompa d’austerità e ad imitazione dell’arcavolo; — così il piè leggiadro di lei dee inzaccherarsi, per la stranezza fraterna, nel fango tiberino. — Ma ciò mi dà il pretesto di farmi loro compagno lungo la via, sì che Cetego ne sia disciolto. Vo’ sentire quel che di costui pensa Catone. È affar di breve ora. Dalla casa di Catone, ritornando, terrò la via più dritta e più breve... Tu, se ti rechi al palagio d’Aurelia o al tuo, fa di fermarti in veduta della via Sacra. E Cesare lasciò Catilina, e volando a Catone, che già pareva partirsi con Servilia, e prevenendo Cetego che veloce le si accostava: — Or esco teco, o Catone, se me lo concedi, che di grave affare ho a intrattenerti. E prima ti supplico ad attender qui un istante, che del breve indugio mi darà venia Servilia tua; Servilia, raggio del cielo. Catone non disse nè sì, nè no. Ammiccò del viso alla sorella, quasi a dire: che tedio!... pur si dee aspettare. E Cesare cercò allora di Sempronia, che erasi ritratta con Aurelia, la quale tutta affannosa, le stava parlando. — O Aurelia, Cesare le disse; vengo per ammonirti di non ti staccar mai per questa notte dal fianco di Sempronia. — E che altro avvenne? Oh parla. Io tremo ancora dei feroci propositi di Sergio. E Cetego mi fulminava or ora con sanguigna pupilla. O Dei!... — e Aurelia cadde in ginocchio, e aggiunse palma a palma, e protese lo sguardo in alto e pronunciò preghiere. — Circondati di calma, o Aurelia, esclamò Cesare, e in me ti affida. Ed or salvete, o donne. Così le lasciò, venne a Catone e del braccio sostenendo Servilia tra la folla che si accalcava agli esiti del palagio, passò innanzi a Cetego fermatosi per salutar Servilia, la quale gli rivolse un lungo sguardo, da cui parevano uscir parole chiarissime di rimprovero amaro e di cocente desiderio. VI. AURELIA E CATILINA. Cesare accompagnava Servilia, sorreggendola del braccio, con eleganza molle che non pareva promettere il futuro mangiator d’erbe condite in olio guasto. Eppure la futura cortesìa resa alla agreste cordialità degli abitanti del cisalpino villaggio, aveva un nesso con quella eleganza comandata dall’eccezionale istante e dalle braccia olimpiche della attraente Servilia. Accanto al giovane Cesare, col Cesare già tenuto in Roma nelle sfere dove la dea Voluptas avvolgeva la gioventù delle sue rosee nubi, veniva Catone, chiuso in sè, severo, col capo basso, tutto ad angoli e a cateti, come il teorema di Pitagora. E a lui disse Cesare: — Catone, mi son proposto di commuovere la tua sapienza che ha tre lustri più della mia e accenna alla natura del diamante, la quale taglia e non si lascia mai tagliare. — Parla, o Giulio. — Puoi tu permettere, o Catone, che in codesta già tanto infelice e contaminatissima Roma, debba avvenire una scena turpe di sangue, essendone provocatori e volendone essere autori uomini della classe più insigne, e pur essi insigni di qualche virtù? — Non so nè a chi accenni, nè a che; però parla più chiaro. — Chiaro io ti parlerò, e così che me ne farai rimprovero. Concedi adunque, e tosto, che Cetego impalmi Servilia. Catone lo guardò senza rispondere. Servilia accennava a Cesare di non proseguire. — Tu avresti dovuto parlarmi di questo fuor della vista e dell’udito di costei; pur ti ringrazio d’aver fallito alla più volgare prudenza, perchè di tal modo parlerò una volta sola invece di due. — Fu dunque alta prudenza la mia e profonda cognizione dell’indole di Catone se omisi i riguardi che ai mezzi uomini si concedono. E Servilia, se è tua sorella, deve essere di tal tempra da non isgomentarsi di cosa nessuna, e avere il diritto di sapere ciò che la riguarda. — E lo sappia. — Perchè dunque tu, suo tutore saviissimo, le contendi la sua felicità suprema? — E in che fai tu consistere la felicità? — Nel conseguimento dei propri desiderii. — Va bene. Ma qual tempo tu concedi ai desiderii, perchè debbano considerarsi atti di ragione e di salute, e non già di esaltazione e di febbre? — Non occorre il tempo per giudicar della ragionevolezza del desiderio. Cetego, giovane ricco e patrizio, ama Servilia adolescente, beltà meravigliosa, sorella di Catone. Se qui non trovi la ragione compagna dell’affetto, dove la cerchi tu? — La cerco nella durabilità del contento. Ma Cetego sarà figliastro dell’aborrito Catilina, onde tu già vedi quanti guai futuri. Ma anche senza di questo, Cetego è tal tempra che riesce insopportabile a me, che voi tutti, pel mio rigore, chiamate insoffribile. E costei, questa fanciulla, questa bizzarra creatura, per la _forma decòra_ impasto d’Ebe, come espressero le tue parole, ma pur anco impasto di Nemesi e di Lubenzia, come io ne so, mal verrebbe opportuna a colui che tiene la cervice di porfido e il cuor più duro della cervice, e aspira già al dominio e ad essere inesorabile con tutto e con tutti, pur non varcando i tre lustri che di un anno solo. Però se Giove lo fulminasse, lo giuro a te, o Cesare, io farei ecatombi a Giove. Se Cetego vivrà, tutti saremo schiavi... tutti, e tu pure, o Cesare giovinetto, che io non amo per la stessa causa onde aborro colui... Ma tu hai i capelli di seta e la pelle lucente, quasi argilla di Cipro, onde lusingandomi che Venere possa assassinar Marte, ancor ti sopporto. Tu non potrai mai negare la sincerità del mio labbro. — Ti ringrazio, o Catone, che tu mi stimi oltre il valore. Ma di ciò sarà giudice il tempo. Ora, solo mi preme che tu veda la sincerità onde mi faccio intermediario fra te e Cetego. Io desidero stornar delitti, e tu vuoi alimentarli; però non so bene qual più valga del tuo senno maturo o del mio che gl’inconsapevoli potrebber credere acerbo. — Qual senno tu abbi non so; ben so che di raggiante intelletto ti fe’ dono l’arcavola tua. — Ma verrà giorno che mi giudicherai; e questa Servilia, al cospetto della quale, pel grande amore appunto ch’io ho per lei, ora sembro crudele, mi chiamerà pietosissimo invece e salvatore suo. Non so se Cetego vivrà, perchè i violenti trovan sempre morte innanzi tempo, ma s’egli mai avesse a vivere vita completa, avventurati coloro che si saranno involati al suo dominio. Ricordati, o Giulio, di queste mie parole.... e salve. La mia dimora mi attende, e il _diluculo_ è presto. Catone il censore, la gloria della casa nostra, nacque là in quel cadente palagio, dove io nacqui e costei e il fratello mio, che pure io amo di profondo amore, e pei quali, dopo questa mia cara Roma, che sarà eterna, tutto io darei. Inflessibile mi credete, e lo sono, e comprendo gli affanni di questa giovinetta amante non scaltrita; ma a chi più costi la mia inflessibilità, tu lo considera, o Cesare, guardando le mie lagrime, che a dispetto mi prorompono dagli occhi. E guardami tu, o Servilia, e perdona alla mia crudeltà, perchè è fatta d’amore. Salve, Cesare. Catone andò innanzi; Servilia, salutando, guardò Cesare con lunghissimo sguardo, e in esso v’era l’amore per Cetego, amore che parea presentire la morte; e v’era, nel tempo stesso, il primo vaghissimo afflato di un affetto novo, che, per arcani processi, spuntava allora allora dall’inconsapevole cuore. Cesare, rimasto solo, nel silenzio della notte, rimeditando la figura tutta di Servilia, quasi pittore che volesse colorire un ritratto senza guardar altro e non fidandosi che dell’abilità della mano interprete della tenace memoria, dimenticossi della moglie pur giovine e bella, in quei giorni primaverili ridottasi a Tivoli per usufruire aure più salubri: se ne dimenticò e pensò a Servilia, e considerando quella grazia soave e quella greca gentilezza di forme, e quella pelle pastosa e fragrante quasi fosse migliaccio e mandorla insieme; e quell’occhio ineffabile dove il lampo dell’intelletto parea asperso di voluttà, sentì gli assalti d’una voluttà eccedente, la quale essendo per la prima volta _cesarea_, toccava un ideale non comprensibile se non da chi alla natura di un poeta concitato al sublime confederasse le effervescenze di faunina protervia; la quale appunto si rivelava nel labbro tumido del giovinetto Giulio. Assorto in tali pensieri, progredì la via. Il palagio di Catone, poco oltre il simulacro di Venere Claucina e le taberne argentarie, prospettava la _via Sacra_ tra il foro Pescatorio e il tempio di Giano superiore. Cesare, sostato un istante, sentì un lontano suono di voci e grida. Accelerò il passo. Ei non aveva daga, chè quando non militava avea per costume di non portar mai armi. Venne a’ primi limiti della via Sacra. Protese l’orecchio, sentì suon di ferri, e apponendosi al vero, accorse. Or che cosa era avvenuto? Catilina, prima di lasciar la casa di Sempronia, erasi recato presso di lei, per levare Aurelia e accompagnarla, in cocchio, al palagio dei Cetegi — chè Cesare non gli aveva detto nulla di quanto avea raccomandato ad Aurelia stessa. — Le aule si vanno vuotando, e tu rimani, Aurelia? così le disse Catilina con una blandizie d’accento, che parea venire da tutt’altro apparato di voce. — E che?... Cesare mi pregò di non staccarmi dal peplo di Sempronia. — Ringrazio Cesare del pietoso consiglio, e più dell’averlo taciuto a me, chè ben sapeva l’avrei respinto. Ma la moglie di Sergio Catilina non deve involarsi a pericolo nessuno. Pensa, Aurelia, che io testè giurai a Cesare che domani innanzi all’ara noi saremmo consacrati marito e moglie. Or quel che io giurai a Cesare puoi tu giurarlo a me? Aurelia taceva... — Puoi tu giurarlo a me? ripeteva Sergio quasi ruggendo. — Giuralo, disse ad Aurelia la virago Sempronia. Aurelia si scosse e: — Non è bisogno che nè tu, nè questi mi sollecitiate. Quel che già dissi, esser deve. Quest’uomo fortissimo sarà il marito mio. — Lo giuro ai numi — e già lo è, senza che un’ara splenda d’inutile fiamma. Prendi, o Sergio, e stringi la mia nella tua mano; basti quest’atto per attestare a tutti ch’è indissolubile il nodo. A tali parole il volto di Catilina raggiò d’insolita luce, baciò in fronte Aurelia, baciò sulle gote Sempronia. — Ed ora si vada alle tue case, soggiunse ad Aurelia, ed io verrò teco. Cetego morente ti lasciò, finchè tu vivi, l’utile dominio di essa. — Ti assidi adunque padrona là donde vorrebbe scacciarti lo scellerato figliuolo. E il figliuolo, non scellerato, ma caparbio, avendo visto uscir Cesare, e indarno aspettando la madre e non sapendo imaginare dove Catilina si fosse recato, si partì dal palagio di Sempronia insieme con Clodio. Partì stretto al braccio del veramente scellerato suo amico, d’indole felina; e d’uno in altro passo, seguito dalla canaglia romana che l’amico assoldava, sen venne all’avito palagio. Toccò la soglia Cetego e chiese all’_ostiario_, che era un negro dell’Abissinia e già parlava la lingua del Lazio: — È rientrata la madre mia? — No. — E nessun altro? — No. — Più non comprendo, o Clodio, allor soggiunse all’amico, il quale ascoltava tacendo e irrequieto che già non ci fosse cagione da menar le mani. «Ebbene, entriamo noi, Clodio; e questa tua plebe passi insieme; ella sarà inaffiata di falerno. Clodio, fatto un segno ai seguaci che a un suo cenno si trattennero in un lungo e cupo androne, varcò il limitare con Cetego, il quale rivoltosi all’ostiario moro: — Bada che nessun altro deve metter piede stanotte in questa mia casa.... — Pensa che tua madre non è ancora entrata, rispose il moro. — Non parlo di mia madre, o stoltissimo, ma di chiunque non appartiene alla famiglia dei Cetegi. — Ma... — E che hai a dire? — Domando a te, domine, che cosa io dovrò dire a Catilina se... — Se... prosegui... — Se, come di consueto, venisse qui? — Guarda questa riga fatta di marmo rosso... Ebbene... se Catilina, entrando, osasse varcar questa riga, tu in quell’istante morirai. — Ebbene, io morirò. Ma non sta nelle mie forze il respingere colui. Un dì che m’indugiai a rispondere, mi rovesciò là d’un colpo di mano, e ancor ne porto il segno; però comandami, o Cetego, cose a me possibili, e obbedirò; e in ogni modo aggiungi a me altri servi i quali mi aiutino. — A un sol tuo cenno — guarda là quanta gente è addensata — a un sol tuo cenno dunque, saran qui tutti per aiutarti. Appena Cetego ebbe finito di parlare, che durando il più profondo silenzio per l’attenzione paurosa e dell’ostiario e degli altri servi, si sentì non molto da lungi un rumor profondo di ruote. Cetego stette in ascolto, e, incrociate le braccia sul petto e piantandosi sul limitare colle gambe a centina, quasi dovesse sostenere una vôlta, stette attendendo, presago, il cocchio materno. E il cocchio veniva infatti, solenne, cupo, lentissimo; chè, dopo disceso dal palagio di Sempronia che stava in luogo eminente, doveva risalire il declivo per toccar quel dei Cetegi. Cominciava il primo _diluculo_ colla sua luce fredda e misteriosa. Nel cocchio d’oro sedevano Catilina e Drusilla. Ai lati di esso, giacchè ascendevasi il declivo a passo, procedevano in spesse schiere i giovanetti amici di Catilina; e dietro al carro pur procedevan serrati gli amici e i clienti di Sempronia; e, a qualche distanza, scorgevasi una nube di schiavi a lei devoti; e davvero che pareva une nube, eclissandosi al suo passaggio le argentee chiazzature della morente luna. Quel pittore che amasse inspirarsi a Roma antica, e volesse anche ritrarre uomini e donne eccezionalmente grandi sì nel bene che nel male; e volesse ritrarre Catilina ed Aurelia nel loro cocchio d’oro, non dee far altro che rammentar il carro dove l’incomparabile Sabatelli pose a sedere Jezabele e Acabbo minacciati da Elia, intanto che i bruni cavalli, guidati dall’inconscio auriga, facevano sterzare, allontanandole dall’infesto profeta, le tardissime ruote. VII. LA MORTE DI CETEGO. Cesare dunque accorreva dalla vetusta casa dei Catoni: Aurelia e Catilina assisi nell’aureo cocchio, discendevano per il clivo Palatino: Cetego sul limitare dell’avito palazzo li attendeva colle braccia conserte e col labbro inferiore compresso dai denti. La casa dei Cetegi sorgeva tra i rostri della Curia, il fico Ruminale e le statue di Pitagora e di Alcibiade; Silla avrebbe voluto farla distruggere perchè turbava il sistema architettonico del Comizio per le adunanze curiate, e del Foro romano. Non la rispettò che per deferenza al padre di quel giovine tremendo e per la grande antichità dell’edificio a stile etrusco, di cupa e quasi sacerdotale apparenza. La facciata prospettava la parte settentrionale del Foro romano; e Cetego, sebbene fosse assorto in terribili pensieri, pure, attratto dalla maestà degli edificj, guardava il tempio di Saturno a sinistra e quello della Concordia a destra e il portico Capitolino, e più in alto quel del Tabulario, e più in alto ancora le sommità degli edificj del Campidoglio, a cui sovraemineva il gigante frontone del tempio di Giove e la gran macchia bruna del dio fulminante che staccava sul glauco cielo di quella Roma luminosa anche di notte. Cetego tendeva l’orecchio al rumor cupo e ancor lontano delle ruote del cocchio materno, e aspettava impaziente; e il cocchio discendendo il clivo passò innanzi al sepolcro dei Cinzii, e alla basilica Porcia, e alla corinzia rotonda dei Penati, e venne a Giano superiore e oltrepassò l’arco Fabiano e il simulacro di Venere Claucina. Aurelia tremò quando vide il fico sacro Ruminale che sorgeva non lunge dalla sua casa. Catilina stesso si scosse ed aggrinzò la fronte e di sdrajato che egli era si mise eretto in sulla pelle di pardo. E il carro svoltò e fu in veduta della casa di Cetego, e Cetego mandò un cupo bramito come il leone che vede la preda. Tutti i liberti e gli schiavi e alquanti gladiatori dalle poderose membra ch’egli cresceva nei sotterranei al pugilato come oggi nelle stalle si crescon poledri alle corse, si strinsero intorno a lui. Allora l’auriga, sollecitato da Catilina, sferzò i cavalli spingendoli a tutta corsa, talchè, trattenuti, appena sostarono davanti a Cetego che quasi ne andava travolto. I seguaci del cocchio di Aurelia si misero a gran corsa anch’essi, sparpagliandosi lungo la via, come frammenti di una fitta nube, la quale di nuovo si raddensò intorno al cocchio quando fermossi di tratto innanzi a Cetego. E Catilina sorse e balzò in terra e porse il braccio ad Aurelia che, non osando, si trattenne. — Tu, Aurelia, discendi invece, gridò allora Cetego — e risalga costui e si rechi alle sue case, chè queste soglie non hanno ad esser contaminate mai più dal vile suo piede. Catilina non rispose che col terribile suo sguardo, e non fece un passo innanzi per allora — parea perplesso; Cetego guatava fisso Catilina e stava, come tigre, per balzargli addosso, ma non si mosse per allora — anch’egli parea perplesso; Aurelia, alzatasi, stringeva di una mano il balteo dorato del cocchio, tenendo il dritto piede in quello, e il sinistro a terra, incerta di quel che si facesse, e cogli occhi spalancati e vitrei e fissi al figlio che non guardava lei. Ci fu istante in cui il silenzio fu così profondo, che quella folla densissima d’uomini parean larve inanimate, e a pochi passi fuor di quella scena sariasi detto che là c’era solitudine. Ma a un tratto: — Eroe assassino, gridò Cetego, eroe di rapine, eroe drudo. Se le leggi non stessero là inutili e disprezzate, deposte indarno nelle arche del Tabulario, tu già da tempo saresti stato strangolato nei sotterranei del carcere Mamertino. Ma non solo assassino, ma non solo ladro, ma non drudo solo, ma vile tu sei, chè non hai cuore di avanzarti d’un passo. Catilina ruggì a quei detti, e, tratta la daga, si slanciò di tratto su Cetego, che, pur colla daga stretta in pugno, lo attese imperterrito, immobile; e il fortissimo colpo di Catilina parò col braccio fortissimo. Aurelia si ritrasse in cocchio gridando: — T’arresta, o Catilina, per colei a cui sagrifichi io ti scongiuro. — Non ferire, o Cetego, per l’ombra del padre tuo ti supplico in ginocchio. Catilina, a quelle supplichevoli grida, sentì fatto più debole il ferro di Cetego, che fu invaso da un orror sacro udendo invocata l’ombra paterna; e certo avrebbe potuto ucciderlo allora, se anche a lui il ferro non fosse crocchiato in pugno, chè si sgomentò di uccidere il figlio di colei, per amor della quale avrebbe ceduta l’ambita Roma ai nemici. Intanto la turba degli schiavi di Sempronia, sguainate le armi, si strinsero intorno a Catilina, come per proteggerlo; e incontanenti fecero lo stesso i servi di Cetego, il quale si vide accerchiato da tutte le parti, gridando tra gli altri un gladiatore: — «Io, io, mi batterò per te. Non c’è nessuno più forte di me in Roma.» La rauca voce millantatrice del gladiatore non indarno fu intesa dai gladiatori di Sempronia, che si sentirono offesi per sè medesimi. — E or la vedremo, gridò uno fra tutti, e avanti, e penetriamo le porte. E le due schiere avverse si slanciarono contemporaneamente l’una sull’altra mandando un urlo, che rintronò assai lungi. Così tanto Catilina che Cetego rimasero serrati in mezzo, come se comandassero un battaglione quadrato. Fu allora che Cesare, staccatosi da Catone, a quell’orrendo urlo accelerò il passo, e più e più procedea veloce come l’Apollo d’Omero, il sagittario Apollo, quando nella sua terribilità s’affretta a saettare il campo acheo. Procedea, non armato, agitando colla destra una verghetta elegante ch’egli solea sempre portar seco. Era quello un costume dei più eleganti giovani di Roma, quando, svestite le armi, passeggiavano la città. Chi la avea d’avorio, chi d’ebano, chi d’argento e d’oro, chi d’altre materie. Quella di Cesare era fatta con osso di crocodilo, e avea la virtù di esser duttile ed infrangibile; all’estremità di quella elegante verghetta luccicavano al raggio lunare due palle d’oro; ma non erano d’oro altrimenti, eran di piombo. Tutto era calcolato nelle abitudini di Cesare. Mescolandosi egli spesso nelle taberne colla più turpe feccia romana, trovandosi sovente a tu per tu con qualcuno dei gladiatori stati messi in libertà, ubbriachi di falerno guasto, e però facilissimi agli insulti ed alle risse, egli comparendo non mai armato, era però sempre più armato degli altri; e avea l’arte di non lasciarsi mai uscir di mano quella verga e di non lasciarla toccare nemmeno ai più fidati amici. Quando Cesare si trovò a quel punto della via Sacra che tocca il clivo Palatino, si fermò per lasciar passare un cocchio dove sedeva Sempronia colla testa alta e come stesse ascoltando; e i cavalli erano flagellati a precipitarsi a pancia terra. Intanto che altri ed altri uomini armati correvan giù a rompicollo pel clivo seguitando il cocchio, Cesare continuò la via rapido ancor più, ma senza correre; gli sarebbe sembrato di smarrire dignità, pur in faccia a sè solo. Intanto che Cesare s’affrettava, Servilia, chiamata anch’essa dagli insoliti urli, e sospettando ogni danno (chè nelle aule di Sempronia già erasi accorta apprestarsi alcunchè di terribile), e temendo per Cetego, non ebbe timore di nessun’altra cosa, neppure del fratello Catone che erasi ritratto in biblioteca; — e disse a tre ancelle che avevano vegliato per aspettarla dalle danze: — Abbiate pietà di me, vogliate seguirmi. — Osiamo. — Sentite questi urli — oh Numi!!... Hanno ammazzato il mio Cetego — fate presto. Le ancelle amavano quella bellissima tra le fanciulle di Roma, la quale, satura come era di onda erotica, era naturalmente portata alla gentilezza carezzosa, e amava le ancelle quasi fossero sorelle sue. — Ond’elle: — Noi ti seguiamo, Servilia; ma e il fratel tuo? — Zitto — usciamo — nessuno parlerà. E vennero alle soglie dove vegliavano due servi. Allorchè questi videro Servilia, fecero per opporsi. Essi tenevano ordini severi, in seguito a quanto era avvenuto con Cetego. — Ma Servilia li saettò con tale sguardo, dove imperava il comando e s’umiliava la preghiera e a coloro parea raggio di Olimpo, chè non fecero più motto; e Servilia uscì accompagnata dalle tre ancelle. Uscite che furono, Servilia affrettò il passo così che parea volasse; e le ancelle sebben tutte giovani, la seguivano con lena affannata. Spirava il vento crepuscolare e svolazzavano i veli a quelle fanciulle. Servilia era sempre innanzi all’altre, e a lei svolazzava, crepitando, la vesta azzurro-stellata. Parevan le _Ore in ritardo_ che s’affrettassero a raggiungere il sole che stava per sorgere fra pochi istanti. E giunsero innanzi alla casa di Cetego nel punto che Cesare, soverchiando colla sua voce squillante e già imperatoria il frastuono orrendo: — Sospendete i brandi, gridava; vi scongiuro per Giove che di là vi guata e par che accenni di fulminarvi. Sospendete i brandi, ho detto; e tu parti, o Catilina, e tu entra nelle tue case, o Cetego. — Non sarà mai ch’io mi parta di qui senza entrare nella casa d’Aurelia, chè di Aurelia è la casa e non di costui. — Nè quest’uomo di sangue entrerà mai a contaminare la dimora degli avi miei. Lo giuro. — Parti dunque, o scellerato, gridò allora a Catilina l’imberbe Clodio scelleratissimo. — Parti, o Catilina, gridò medesimamente il gladiatore che primo colla sua millanteria aveva suscitato la pugna. Catilina sentendosi così insultato da uno schiavo, non ebbe più ritegno, e gli si gettò addosso. La lotta era orribile. Ma Cesare accorse, e percosse di tal forza il cranio del gladiatore, che quello fu visto procumbere tosto al suolo, come il toro virgiliano sotto al cesto d’Entello. Allora Cetego che amava quel suo fedelissimo schiavo, già tanto caro al padre, si avventò furibondo su Cesare che si scansò, percuotendo nel tempo stesso il braccio del giovane; e accorreva Catilina in soccorso di Cesare, e un nugolo di servi da una parte e dall’altra si azzuffarono in orrenda miscela. Mandava acute strida Aurelia dall’alto del cocchio. Sempronia, la virago Sempronia, eccitava i proprj servi a difendere Catilina. Servilia domandava ad alta voce Cetego, che non sentiva più nessuno. E la pugna continuava; e Cesare, Cesare stesso in quel punto più valoroso che assennato, armato la sinistra della sua verga, la destra di una daga che aveva raccolta da terra, faceva strage a destra e a sinistra, invulnerato sempre. Ma nel turbinío della mischia, Catilina cercava sempre di Cetego, e Cetego di Catilina; ond’essi si trovarono ancora dirimpetto e si azzuffarono. Ci fu un punto che Cesare era rimasto solo, chè tutti gli eran caduti d’intorno; e allora s’accorse di Servilia che a gran voce continuava a chiamar Cetego, e vedendo Cesare, passò imperterrita sopra i cadaveri e: — Salvami Cetego, o Cesare, gli gridava; tu lo puoi. — Non lo posso. — Ah spietato! — No. — Ahi, Catilina gli è sopra. — Pietà, Catilina, gridava Aurelia. Ma la daga di Catilina penetrò in quel punto nel petto di Cetego, e questi cadde colla daga infissa. In questo istante affannato e cupo giungeva sul luogo Catone, il quale, saputo di Servilia uscita, accorse là sospettando; e in mezzo a tutti quanti, alla caduta di Cetego fatti immobili e muti, stette muto anch’esso, e vide Aurelia balzar dal cocchio e accostarsi al figlio e inginocchiarsi e piegarglisi sopra. — No, madre, va. Io scendo a trovare l’ombra del padre mio. Va. — Io ti consacro ai numi dell’Averno. E in quest’istante, volendo i servi estrargli la daga dal petto: — No, disse, la vita ne uscirebbe tosto col sangue. Rammento Epaminonda. Ma prima di morire ho bisogno di dir parole a tutti. Aurelia, sempre in ginocchio, rigate di largo pianto le guancie, guardava il cielo. — Romani, quanti siete qui: io muojo e appena ho varcato il sesto e decimo anno. Catilina, uccidendo me, si tolse dinanzi colui che certo gli avrebbe vietato di assassinar la patria, ch’egli ha in animo di ferire, come già fece con Gratidiano e col fratel suo. O Catone, che or vedo qui, a un morto puoi credere, giacchè a me vivo non credesti mai. Ma la tua sapienza fu inutile per me, chè non giungesti a comprendere qual anima forte si celava dentro a questo corpo. Io idolatrava questa mia Roma, al par di te e più di te, o Catone, sebbene così giovane; e la idolatrava come si fa con chi, piagato già da orrende sventure, pur ci accorgiamo che il fato gliene prepara di irreparabili. I suoi assassini vivono tutti, ed io muojo, io che forse l’avrei salvata. Giovane io sono, ma molte cose io vidi e previdi e so e prevedo. Cassandra era giovane. — In questa patria mia infelicissima, tutta infestata di ambiziosi, di fedifraghi, di concussatori, di ladri, di traditori, di meretrici uomini e donne, io muojo incontaminato; il peccato non mi toccò; e così io mi serbavo, perchè senza la virtù dell’animo e senza il corpo fortificato dalla fisica virtù, nessuno potrà aspirare ad amar la patria ed a salvarla; il maestro mio, parlandomi di Socrate, mi disvelava tutta la sapienza di quell’Uomo Nume. Ed ecco perchè mi percuotesti a morte, tu primo, o Cesare. Tu mi temevi, e tu, non so con qual potenza furiale, mi fiaccasti il fortissimo braccio, che poi non resse a quel di colui che là mi guata; e certo ei sarebbe caduto primo, se tu non eri, o Cesare. E tacque; e Servilia, neppur trattenuta da Catone, gli si accostò allora, singhiozzando e tentando indarno di parlare. — Non piangere, Servilia, esclamò Cetego. Va, va in pace. — Tre lustri tu conti appena, e Venere ti colmò dei suoi doni. Va. — Altri ti ameranno; altri amerai tu. Catone trasse indietro Servilia. E Cetego, dopo un istante, si squarciò la tunica e se la strappò di dosso. A quell’atto inconcepibile, gli astanti strinsero il cerchio. Ed egli si trasse la daga, e dal petto balzò il sangue a fiotti. Allora ei v’intrise la tunica e ve la inzuppò: — poi si alzò con uno sforzo sovranaturale e, fatti alcuni passi barcollando, si collocò in modo da poterla sbattere di quanta forza aveva sul volto a Catilina, che tutti trattennero dal precipitarsi sul moribondo; e il sangue quasi minuta pioggia spruzzò d’intorno ad aspergere quanti eran là presso; e il volto di Catilina non avea parte che non fosse insanguinata e faceva orrore la luce degli occhi suoi guizzante in quella tinta. Cetego cadde col capo indietro e là giacque. Sorgeva il sole. VIII. MORTE D’AURELIA. Sempronia, previdente per Drusilla Aurelia, che, sempre in ginocchio e immobile, stava là sul campo funesto, collo sguardo intento ed attonito e senza espressione; la fece portare nel proprio cocchio, e senza che quella volesse o non volesse, seco la trasse e ricoverolla nel proprio palagio. Catilina salì nel cocchio d’Aurelia e, strappate le redini all’auriga, sferzò egli stesso i cavalli e involossi e, fermatosi in riva del vicino lago di Giuturna presso al tempio di Castore e Polluce, lago sacro, discese, e tutto vi si deterse, quasi a scongiurare gli avversi numi e il fato, e l’orrore che, pure ad onta dell’animo efferato, avealo invaso sentendosi e vedendosi intriso di tanto sangue. Si ritrasse poscia all’avita casa sul Palatino; donde, rimandato il cocchio d’Aurelia, uscì nel proprio qualche tempo dopo e sollecitò i cavalli fino a Nettuno, vico in riva al mare, dove tenea sontuosa villa ed ampio agro e lungo tratto di terra aspro di fittissima pineta. Ai coloni, ai servi, agli schiavi ingiunse con minaccia di morte, nessuno osasse por piede in quella selva; e là ei si ridusse, affrettando passi in assidua irrequietudine, e giacendo sulla nuda terra e mandando urli di disperazione. I coloni e i servi lo udivan esterrefatti, quasi una fiera s’aggirasse colà, e sentivan sovente il nome di Aurelia cupamente echeggiato nella calma della notte. Sbollita l’ira contro Cetego, dopo la morte di lui; inorridito di avere ucciso il figlio di Aurelia, per la quale egli ardeva di erinnico amore; pensando che dessa lo avrebbe respinto da sè, e in olocausto dell’estinto e per timore dei Romani che certo avrebbero fatto segno di pubbliche contumelie la donna che si fosse sposata all’uccisore del proprio figlio; fu investito dal terrore d’averla perduta per sempre; onde i gemiti, e gli urli, e il rifiutato cibo, e la barba lasciata crescere in disordine selvaggio. E intanto il cadavere di Cetego fu trasportato nella sua casa; il giovane Clodio, non avendo Cetego nessun parente in Roma nè prossimo nè lontano che gli chiudesse gli occhi e la bocca, come voleva il rito, adempì al funebre ufficio, chiamandolo ad alta voce e più volte per nome, quasi tentando di richiamarlo in vita, così pure richiedendo la consuetudine; e il cadavere fu lavato e profumato dai _pollinctori_, e poscia venne esposto nel vestibolo della casa coi piedi rivolti verso la porta; e un vaso d’iridescente murrina colmo di acqua lustrale fu posto vicino al capo dell’estinto, che tutta Roma accorse per vedere; e gli accorsi, segnatamente le donne, si aspergevano di quell’onda per purificarsi. Tre giorni stette esposto così, dopo i quali preceduto da suonatori di flauto accompagnanti le nenie, e dalle piangenti prefiche, da donne bianco-vestite e redimite il capo di corone, da una folla d’amici e conoscenti, tutti guidati dai _designatori_ portanti torcie, e tutti cogli occhi fissi sull’_arcimimo_, il quale procedeva accanto alla lettiga dov’era il cadavere e portava una maschera che ne ritraeva le fattezze; perchè Cetego era patrizio e avea il diritto dei ritratti (_jus imaginum_) accanto al feretro; i _vespilloni_ recavano i busti del padre e degli avi suoi. Il convoglio attraversò il Foro, dove si fermò, e qui il giovinetto Clodio, salito sulla tribuna, ne recitò la laudazione; il più virtuoso dei giovanetti, il solo forse in tutta Roma che fosse senza labe, doveva essere lodato da colui che, già perverso e soltanto amato da Cetego perchè dissimulatore seco, dovea poi recare al colmo la scelleraggine romana. Ma Catone, conoscitore di Clodio, salì anch’esso dopo lui la tribuna, quasi a placar l’estinto avendo la coscienza della propria virtù; e Catone discese in mezzo ai gemiti degli astanti; e il convoglio stava per procedere quando Cesare, attraversato il Foro, improvvisamente, con meraviglia di tutti, salì la tribuna. I cittadini ch’erano accorsi nella notte della lotta funesta, e assistendo alla morte di Cetego, avean sentite le sue parole estreme accusanti Cesare qual prima cagione della morte sua, bisbigliarono al primo e quasi furono per prorompere in tumulto alla comparsa inattesa di colui pel quale Cetego era morto; ma il giovane Cesare, girato intorno lo sguardo imperterrito e pieno di una calma sicura e fidente che conquideva, comandò il silenzio e parlò: — O Romani, o Roma tutta, chè vedo il Foro non bastare a contenere quanti ella aduna di cittadini nobili e grandi e virtuosi e pietosi. Voi avete bisbigliato al mio primo apparire; e il bisbiglio mi parve fosse per tramutarsi in contumelia. Nè io mi lagno. Una voce mendace corse per tutto ad accusar me della morte di questo più che sacro tra i giovanetti mortali onde Roma, s’ei fosse vissuto, sarebbe stata ancor più gloriosa e più forte; e, quel che meglio era da invocarsi, la gloria e la forza sua, per virtù dell’anima divina che infiammava queste strenue membra che qui giacciono senza vita, non avrebbero mai più avuto da temere gl’invidiosi fati che a tanta gloria e a tanta forza or vorrebbero far guerra, aiutati dagli scelleratissimi che, non idolatrando che l’utile proprio, vedrebbero senza turbamento messa tutta a soqquadro la sacra patria. Se questo io penso e dico e solennemente proclamo, poteva io volere la morte di questo giovane, che primo io compresi ed additai ad altri? _Promessa di Marte_ io lo chiamai, e con questa lode che la verità e la giustizia mi dettavano, io tentai di trattenerlo, deviando la bollente ira sua da propositi non degni di lui. Tutto quello che per me si poteva io feci a stornare l’orrenda sciagura che, preveduta da me, pur troppo, venne. Io supplicai Catone, il virtuoso Catone, a conceder la mano di Servilia a Cetego, perchè nel soddisfacimento del desiderio amoroso, ogni ira svanisse e il sacro giovane fosse conservato a Roma. Catone è qui; Catone conobbe dopo di me il grande animo di Cetego; Catone or ora vi comandò le lagrime. Ed egli non sa mentire. Interrogate or dunque lui se quel ch’io dico è il vero. — Catone, con voce profonda: — è vero, disse. La folla si raddensò allora e strinse più fitto il cerchio intorno alla tribuna donde parlava Cesare. — Che più? esso continuava, quando dalla casa di Catone sentii l’orrido urlo notturno della battaglia funesta, m’affrettai per fermarla. E, gettatomi nella mischia, supplicai Catilina a partire di là; supplicai Cetego ad entrare nella casa sua; li supplicai colla voce aspra dell’ira che il mio timore e la mia pietà rendeva imperterrita. Tu Clodio, che sei qui, e strenuamente aiutasti l’amico tuo nella lotta sanguinosa; per l’amore dunque che portavi a questo giovinetto, proclama ora al cospetto di quanti son qui la verità delle mie parole. — La proclamo, gridò Clodio, non iniquo in quel punto; e, volgendosi alla folla, Cesare dice il vero, continuò, credete a lui; Cesare voleva salvar Cetego. — Sì, voleva salvarlo con pericolo mio, e se io non paravo il ferro di Cetego che già mi era addosso per squarciarmi il petto, oggi io sarei qui al suo posto. E bene sarebbe stato; chè io dispero di eguagliare così santa virtù; ma l’amor della vita è irresistibile nei mortali, onde mi difesi e lui percossi. E non ero nemmeno armato. Ed or datemi venia, o Romani, s’io parlai di me; datemi venia e considerate che lo feci per mostrarvi ch’io non era indegno di pronunciare il compianto sul sacro suo capo. Ma ogni sua lode stia tutta in queste mie esortazioni che ora rivolgo alla eletta schiera dei giovinetti suoi colleghi che, ammirando e ringraziando, qui vedo, e che insieme con lui dalle labbra inspirate di Antioco Scalonita beveste la divina sapienza di Socrate. E Socrate era il Nume del vostro giovinetto collega, e morendo lo nominò. Vogliate dunque, o giovani, imitare l’estinto amico vostro. Senza virtù, ei disse morendo, non si può aspirare ad amar la patria. Con queste parole sacre ei si fece l’elogio da sè stesso. Fate dunque che riviva Cetego in tutti voi, o giovinetti, speranza della patria. Fategli onore imitandolo. E la luminosa ombra sua, là nei beati Elisi, esulterà sapendo che lasciò di sè così forte amore e così profonda traccia nella sua Roma che tanto idolatrò. — Cesare discese. L’ammirazione della folla compunta era al colmo. Il convoglio mosse verso il campo di Marte, dove facevasi la sepoltura dei patrizii; i cadaveri della plebe aveano le loro fosse nel campo Esquilino. Il rogo era colà apprestato; chè dopo Silla e negli ultimi cento anni della repubblica, l’inumazione era stata abolita pei ricchi. Il rogo era costrutto di legno di tasso, di pino e di frassino, ed era coperto di rami di cipresso. Il corpo fu unto di nuovo, e dopo che Clodio ebbe alzate le palpebre e dischiusi gli occhi all’estinto e messogli tra i labbri l’obolo onde pagar Caronte, il cadavere fu messo sulla catasta che incendiata lo vestì di fiamme altissime, le quali lo trasmutarono in cenere e in aride ossa, che, lavate poi con latte e vino, furono deposte dentro un’urna funeraria. Gli _ustori_ la consegnarono a Clodio e a tre giovinetti dell’età di Cetego che dovevano deporla nel mausoleo di famiglia, sorgente lungi da Roma in riva al mare, presso Ponte Gatera. Le tombe dei ricchi venivan quasi tutte erette in riva al mare. Adempiuto a tal rito, il sacrificatore immerse un ramo d’ulivo nell’acqua lustrale, ne asperse gli astanti ad intento di purificazione; finalmente la prefica _princeps: — Ilicet,_ pronunciò ad alta voce, e significava _ire licet_; e un lungo e suonante _vale_ pronunciarono in risposta più migliaja d’astanti che tosto partirono; e Clodio e i tre giovinetti, saliti in cocchio ed abbraccianti l’urna viaggiarono per Ponte Gatera. Tre giorni appresso nel vetusto palazzo di Cesare, che pur sorgeva sul Palatino e dove dimorava la moglie sua, fu dato il convito funerario; e nove giorni più tardi, nel palazzo di Lucullo, il quale era parente dei Cetegi ed era tornato in Roma due giorni prima, fu data, per compire il rito, la grande cena, così detta la _Novendiale_. La cena fu apprestata in Apolline, ch’era la più suntuosa delle aule di Lucullo. — Quando i convitati entrarono, i cori espressero un lugubre canto greco, il celeberrimo canto che già Alessandro aveva fatto comporre da Alchemene citaredo e musico per i funerali di Efestione. Tutti i convitati erano avvolti in un manto nero e stettero in piedi ad ascoltare un compianto che Lucullo disse in greco, perchè era presente il filosofo Antioco Scalonita che non conosceva la lingua del Lazio. Allorchè Lucullo si tacque, una fanciulla tutta velata a bruno ed a cui due altre fanciulle, pure in gramaglia, tenean sollevato il peplo, girò intorno intorno porgendo a ciascuno quel medesimo vaso di pietra murrina che, già deposto presso il cadavere di Cetego, avea contenuto acqua lustrale; e in quel momento era colmo invece di falerno consacrato all’ara di Bacco, e sorseggiato prima dalle rituali labbra delle vergini vestali. Quei vasi di pietra murrina eran stati portati per la prima volta in Roma da Pompeo, e li avea consacrati a Giove Capitolino. Un sol vaso di quella pietra, volendolo la gara ambiziosa dei ricchi sfondati, costava ingenti somme. Quello che allora girava intorno, era costato ottanta talenti, quasi mezzo milione di lire italiane; e in seguito costarono ancora di più. Nerone ne acquistò uno per un milione e mezzo. Il delirio degli acquirenti era generato dall’ignoranza della materia onde constava quella pietra, varia di colori, ma più di rosso e di bianco e di un terzo colore senza nome, ma fiammeggiante e che, lumeggiando gli altri, produceva le tinte dell’arcobaleno. Que’ vasi venivano tratti dall’Oriente e segnatamente dalla Parzia. (_Oriens murrhina mittit; maxime Parthici regni_). Adempiuto a codesta cerimonia, tutti i convivi svestirono la gramaglia e comparvero in candida toga. Lucullo disse altre parole, e si assisero. Non erano più di dodici, perchè i Romani, eccettuate le grandi solennità pubbliche dove i convitati non si contavano, non amavan di varcare quel numero; e quando non potevano esser dodici, avevano gran cura di trovarsi nel triclinio in numero dispari, di tre, di sette, di nove. Lucullo, il padrone, collocossi, come voleva l’infrangibile costume, sul letto a dritta in capo del desco. Il letto più onorevole essendo quel di mezzo, vi fu messo a sedere il retore Diodato, settantenne, e ciò per omaggio alla sua gran fama, alle sue virtù, alla sua grave età, ed anche per gli obblighi impreteribili dell’ospitalità; vi sedettero Antioco Scalonita, Filone platonico, e Apollonio rodio, venuto a visitar Roma e dove, venerato da tutti, dimorava da più mesi. Essi furono invitati da Lucullo a quella _novendiale_ per essere stati maestri al giovane Cetego. Crasso sedette all’estremità a sinistra insieme con Cicerone e Sallustio. Catone si assise con Cesare, al quale, essendo il più giovane, fu dato l’ultimo posto che era quello dell’estremità a destra. L’ebano, il cedro, l’avorio, l’oro e l’argento erano le materie ond’erano contesti e fregiati i triclinj. I cuscini, aspri di gemme, rosseggiavan di porpora a ricami d’oro. Sui tripodi ardevan fiamme diffondenti aromatici odori. E gli uomini assisi a quel triclinio rappresentavano compiutamente la condizione degli ultimi cento anni della repubblica romana, dai quali doveva scaturire tutta quanta la posterità. L’esule sapienza greca, venuta a diffondere in Roma un tal grado di coltura, che attraversando gl’intelletti di Cesare e di Cicerone e di Sallustio, doveva preparare poi il secol d’oro della letteratura latina. Lucullo, stracco di guerre e di vittorie, obeso di ricchezze, reduce dalle spedizioni in Oriente, profondente già il lusso asiatico che doveva corroder Roma e prepararne la decadenza ed apprestare le brache muliebri dell’imberbe Eliogabalo. Catone l’estremo raggio del passato; Cesare la torbida luce del futuro; Pompeo, il trionfo della mediocrità inghirlandata; Cicerone la sapienza onnigena che, circuendo le questioni da tutti i lati, si arresta ognora nel dubbio scientifico e pratico; e s’accosta senza fiducia a tutti i partiti, e non sa a che appigliarsi, e fa ridere di pietà l’ignoranza imperterrita che va dritta come saetta al suo scopo, e s’accampa nelle sedi del genio. Il convivio fu protratto a notte alta. Levate le mense, Lucullo pronunciò un altro discorso nel greco idioma. Il falerno intanto girava in copia, talchè i greci filosofi parean trasmutati in ebriosi Anacreonti; e Cicerone parlava greco, saettando d’obliqui strali intinti d’amabile piacevolezza il Magno Pompeo, che, appena intendendo greco e non sapendolo parlare, faceva umilissima figura in quel simposio, sebbene imperatore laureato; Cesare solo non beveva; eppur s’era assiso accanto al rigido Catone già tutto arrubinato di falerno bevuto a larghe canne. Catone, virtuoso in tutto, solo in ciò eccedeva; Cesare, corrotto, e fallace, e vizioso, e ognora mascherato, quando il voleva, d’iridescenti virtù, in questo solo era irrimproverabile. Ma l’uno doveva morire per la repubblica e non avea timore che i suoi desiderii trapelassero dal sincero lieo; l’altro invece aveva a preparar l’impero, e la tranquilla e cauta linfa doveva mascherare i suoi disegni. Intanto che i funerei convivi di Lucullo, giocondissimi di falerno più che addolorati per la morte di Cetego, uscivano dall’alto palagio del più ricco allora e più prodigo dei Romani, del prode e grande al pari dei più insigni, del capostipite dei sibariti futuri; e riducevansi alle loro dimore; voci d’ire e d’affanno morale, e imprecazioni furiali, e gemiti e pianti e preghiere udivansi nelle aule dell’eminente Sempronia. Catilina era uscito dal suo covo di belva e dalle ombre della pineta che facea tetre le sponde di quel tratto del mare Interno; e saputo che Aurelia dimorava presso Sempronia, inaspettato entrò nelle stanze di questa, e inaspettato stette innanzi alla donna che ancora ei voleva, la quale fremette e si alzò alla vista di lui. — Dunque mi neghi tu, le disse, a quell’atto, Catilina. — Non io ti nego, no, ma la sventura. — E tanto amore, e tanto dolore, e tanto sangue sarà stato invano? — Non fu invano il sangue, pur troppo. Esso ci ha divisi per sempre. — Osi tu dirlo a me? — L’ombra di Cetego lo comanda. — E questo è l’amor tuo?... tu dunque m’ingannavi. Non è amore se non quello che, ardendo indomabile, calca disprezzando tutte le cose umane e divine, se queste gli si oppongono. — Abbi pietà di me, Catilina; pensa a Roma; pensa alle pubbliche maledizioni, se le nostre mani congiunte avessero a contaminare le are. Catilina guatò a lungo Aurelia con occhi ardenti che non poterono essere sopportati nè da quelli di lei nè da quelli di Sempronia, la quale era presente, e, a qualche distanza, ritta e immobile e colle ciglia aggrottate, quasi simulacro d’inesorabil diva, guardava e fremeva, e insieme pur temeva e non osava parlare. Catilina facea sgomento. Tacque assai tempo, tenendo fissi gli occhi a terra, e di tanto in tanto facendo atti che accennavano l’orrenda interna battaglia; poi a un tratto: — Ebbene, proruppe, sieno dunque placati gli Dei del cielo, e gl’inferni Dei, e i Romani tutti che tanto aborro, e le ombre del tuo sposo primo e del tuo figlio unico, ma tu sii sacrificata a tutti. Sì, tu morirai per mia mano qui, oggi, adesso — ed io mescerò, intermedio questo mio ferro benefico, il solo benefico meco e pietoso, mescerò il tuo sangue col mio, e morirò accanto a te.... e diede in uno scoppio di pianto ineffabile, che sgorgando su quel terribile volto, faceva senso più che se fosse stato sangue; e fu il primo e l’ultimo che versassero gli occhi di Catilina. E pianse Aurelia... e pianse Sempronia... chè Catilina in quel punto era sincero, ed estremo com’era in tutto, l’amore che nutriva per Aurelia era tale che nessun umano concetto arriverebbe a significarlo. Aurelia, tutta in lagrime, si gettò allora ai piedi di Catilina, e: — Abbi pace, gli disse. Tu mi hai vinta. Io sarò tua per sempre. Solo concedimi otto giorni di abluzioni lustrali, ond’io possa placare i numi. Io lascio Roma; nell’avita mia villa mi reco lungo il mare — tu la conosci. Là saremo sposi, e tosto darem le vele ai venti; — e Roma ci dimentichi e il mondo. Se tanto, come vedo, tu mi ami, a che grandezza, a che potenza vuoi aspirar tu? A tutte cose l’amore sorvola indomato. Tu lo hai detto. Di tratto a Catilina tramutossi il volto: un raggio di gioia guizzò negli occhi suoi, e: — Ben lo sapevo. Non potevi tu essere mendace meco. Ora io ti lascio, o donna. Solo io voglio assaporare questi momenti di gioja suprema, che nemmeno gli dei possono aver maggiore; nè Giove, l’onnipotente re del cielo. Addio, Aurelia; fra otto giorni ci rivedremo al mare. Addio, Sempronia. Grandi, immortali cose noi dovevamo intraprendere. Ma Aurelia mi fa disprezzatore d’ogni grandezza e d’ogni potenza divina ed umana. Addio — e partì. E Sergio Catilina uscì; e lentissimo, assaporando un orgoglioso gaudio, per le profferte ultime di Aurelia e le ginocchia di lei piegate, vagò lunga ora per le vie di Roma; e poscia risalì alle proprie case, donde, fatti aggiogare al carro due ardenti poledri, ritornò a Nettuno, che non molto distava dalle ville d’Aurelia; ritornò alla fittissima sua pineta bruna; e nel centro di quella fe’ consacrare un’ara a Venere, che tutta precinse di mirti e imbalsamò di fiori e al sommo vi depose un vaso di marmo pario, nel quale, apertasi col proprio ferro una vena, fece piovere molta onda di sangue, e fu sangue votivo — e per otto giorni colà stette, leggendo e rileggendo, nelle ore diurne, la fedeltà di Penelope nel greco d’Omero, e in Esiodo l’estremo sacrificio della moglie entusiasta di Capaneo; e dormendo le notti abbandonato alla nuda terra. Aurelia lasciò Roma; condusse con sè la casa tutta, le ancelle, gli schiavi, e rifiutò di essere accompagnata da Sempronia che le si profferse. Venne alla sua villa in riva al mare. Si purificò; e per otto dì, sparso il capo di cenere, stette innanzi all’effigie dell’estinto marito e alla toga insanguinata del figlio. Ella amava Catilina d’un amore inesplicabile; ma forse più per essere stata attratta nel vortice violento del forsennato amore di lui, e per lo sgomento ond’erane oppressa, che per elezione spontanea del cuore. Perdurando nella purificazione e nel pianto penitente, pur era di continuo esagitata da pensieri in assidua lotta tra loro. Le notti aveva insonni; e se appena appena per la stanchezza del corpo, le si chiudevano le palpebre, svegliavasi di colpo esterrefatta; e vedeva l’ombra del marito e la più feroce ombra del figlio; e gemeva e gettavasi in ginocchio e protendeva le braccia orando, non sapeva a quali numi. Ella considerava come, per Catilina, fosse disprezzata e insultata da tutte le dame romane, invidiosissime della sua beltà, in confronto della quale reggeva la sola di Sempronia; sapeva come la maggior parte di quelle dame fossero assiepate d’amanti non amati e non temuti, a’ quali, nel fuggitivo delirio, concedevano ogni favore; ma la minore avvenenza e il non esser insigni in arte nessuna, com’ella era, le circuiva di opportuna e complice oscurità, la quale facevale beate e trionfanti, pur tra il lezzo dei peccati che ad esse dovevan comandare il rimorso e il pubblico vitupero a Roma. E misurava tutta la propria sventura, e si disperava e tremava in aspettando Catilina. E sorse l’ottavo giorno. Certissimamente ei sarebbe venuto. Inorridì Aurelia a quel pensiero, e, stata immobile davanti all’effigie del marito e baciata e ribaciata la toga di Cetego, e guardato a lungo il cielo, quasi avesse voluto penetrare i regni superni a interrogar gli Dei; a un tratto, fermato un proposito, chiamò e fece chiamare le ancelle e i servi e gli schiavi quanti eran là a sè d’intorno; e: — Preparatevi a partir tutti per Roma in sull’istante. Io rimango qui sola. Alcune ancelle le si fecero intorno, come sospettando una sventura, e: — E perchè ne rimandi così, o padrona benefica? — Non vi rimando. Sol vi prego di precedermi — lasciatemi sola qui. Ve lo impongo; e lo disse in modo che nessuno più si oppose, e al liberto che sopraintendeva alle domestiche faccende: — Fa che si apra la porta massima del palagio, e stia aperta; e si aprano le altre porte; e tutte rimangano spalancate insieme a quelle che conducono a questa mia stanza. Che non intervenga inciampo; e nessun uomo, nessuna donna non odasi più sotto a questo tetto; e il più profondo silenzio lo circondi, prima che la clessidra segni passato il _diluculo._ E tutti partirono e il silenzio circondò l’alto palagio, e soltanto udivansi le onde del mare flagellar le rive. Passarono le ore della _mane ad meridiem_; e da lunge a confondersi col mugghio marino s’udì un rumor cupo di ruote, e di lì a poco il fischio d’un flagello equino e uno scalpito affrettato di cavalli. Era Catilina che da Nettuno veniva rapidissimo ed esultante, governando egli stesso le briglie. E fu innanzi all’alta porta, che trovò spalancata e senza ostiarii. Non ci pensò. Svoltò allora e girò nell’interno recinto e balzò dal cocchio, lasciando le redini all’auriga. Fatti alcuni passi e non vedendo comparir nessuno (chè di solito, come ognora vedevasi nei palagi dei ricchi patrizii, una folla di servi ingombrava gli atrii interni), stette sopra di sè un istante, e percorrendo gli atrii e le stanze terrene anteriori e non scorgendo anima nata, si sentì tutto cosparso di un sudore gelato; e penetrò nelle stanze più interne, e di porta in porta venne a quella di Aurelia. Ella giaceva sul proprio letto, immersa in un lago di sangue. Vedevasi a terra una daga. Aurelia era avvolta nel peplo: nella sinistra teneva la toga di Cetego; nella destra un papiro che parea stringere colle dita irrigidite. Catilina levò il papiro, lo scorse, e queste parole vi lesse: — _Morii per placare le ombre del mio marito Cetego e di Cetego mio figlio. Vivi e purga la tua fama._ Catilina mandò un gemito che non può essere narrato. In quel punto anch’esso poteva comandare la pietà. IX. SEMPRONIA E CATILINA. Sempronia aveva lasciato Roma alcuni giorni dopo Aurelia, e recossi, correndo il tepido maggio, alla sontuosa sua villa, sorgente tra Nettuno e Ponte Gatera, tre _miliarie_ da quella d’Aurelia. Allorchè questa lasciò Roma sì d’improvviso, mostrando nell’aspetto un affanno che parea provocare il turbamento mentale, e stette invincibile nel respingere le profferte di Sempronia di accompagnarla, essa temette il peggio, senza tuttavia osare di attraversare con violenza i desiderii di Aurelia, che nella profondità del suo dolore diceva di voler vivere in solitudine. Ma la molta casa di Drusilla ripartendo per Roma, così avendo comandato la padrona, e le ancelle e i servi e il maggiordomo, sospettando fosse per succedere qualche sventura, credettero opportuno prender la via che da Ponte Gatera passava innanzi alla casa di Sempronia, per avvisare qualche servo di lei onde a corso sforzato si recasse a Roma a darle avviso di tutto, non potendo essi altrettanto per la lentezza delle cavalcature. E così fecero; e avendovi trovato Sempronia stessa, la misero in tale apprensione, ch’ella partì senza por tempo in mezzo, e a velocissimo corso venne a Ponte Gatera troppo tardi, ma pure non inutilmente. Sapendo che il palagio doveva esser vuoto, non provò, anche per il diverso affetto che nutriva per Aurelia, quell’orrido sgomento onde Catilina era stato colpito; pure attraversò gli atrii tremebonda; con respiro affannato mise il piede nella stanza d’Aurelia; vide, guardò, mandò un gemito, s’accostò al letto insanguinato, toccò la fronte ad Aurelia, chiamò ad alta voce Catilina, che, in ginocchio accanto al letto, stringeva nella propria una mano della estinta, sulla quale teneva impresso il labbro; onde, perdurando la immobilità di lui e il profondo silenzio, pareva che il bacio estremo della disperazione si fosse come pietrificato su di essa. Sempronia lo chiamò ancora; ed ei si scosse, e alzò la testa, e guardò colei attonito e a lungo. Pareva non la ravvisasse. E Sempronia scôrse allora il papiro, e, non opponendosi Catilina, lo lesse, e: — Scuotiti, o Sergio: te lo dice una donna che pure è sopraffatta dal dolore. E ciò dicendo, si gettò a sedere, e pareva non potesse più proseguire; pur si fece forza, e accostatasi a Catilina: — Sorgi, le ripetè. Parla. Ho bisogno di sentire una voce che risponda alla mia. Sventurato sei tu; sventuratissimo. Io ti comprendo appieno. Ma sorgi in ogni modo; e, vivendo per la gloria, glorifica la donna tua, che morendo (già tutto indovino senza saperlo) si divise in due, dandosi in olocausto al figlio, e legando a te il più sviscerato amore espresso da queste parole immortali. Però avventuroso ancora io ti reputo, o Sergio, pur nelle più acute fitte del tuo non comparabile dolore. Catilina si alzò, e senza parlare, ma con uno sguardo pieno di significazione, strinse la mano di Sempronia. — Vivrò, soggiunse poi: Aurelia me lo comanda. Sarei sacrilego se non la obbedissi con religione. Purgherò la mia fama, sebbene io sia stato più sventurato che colpevole. — E quest’alta donna che per amor tuo compì il grande atto romano, sia l’assidua inspiratrice di ogni tua opera futura. Però, giura qui sul suo sacro capo, che salverai Roma, strappandola alle mani che ora la stanno sbranando. — Sì Aurelia, ripetè allora gemendo Catilina e torcendo il capo perchè gli ripugnava che Sempronia vedesse il suo pianto; lo giuro sul tuo capo. Consacro la mia vita a Roma; e s’io l’addurrò a grandezza e potenza imperitura! e se gli Dei concederanno che io ne diventi l’arbitro, ajutatori miei quanti Romani aspirano al grande intento, a te dedicherò un tempio, e sarà il tempio della _Diva Aurelia_; e le donne romane andranno in quel recinto a ricevere da te consigli di fortissima virtù. — E i numi ti saranno propizj, soggiungeva Sempronia; molti si accostarono a noi in questi giorni, me esortatrice; ed altre donne insigni che irresistibilmente inducono i giovani più nobili e generosi all’alta impresa; e a me attrassi Fulvia, e per lei Quinto Curio, al quale se falliscono intelletto e cuore, bene soccorre la sterminata opulenza onde faremo uso, se la fortuna comanderà di venire al ferro e alla strage; e mandai lettera a Cetego lo zio, perchè tosto ritorni a Roma, che sdegnato lasciò; ora che, ereditando tutte le ricchezze dei Cetegi, accumulate per tre secoli, con esse farà paga l’ira sua e completerà il suo senno e renderà invincibile il braccio e te farà grande e immortale, o Catilina. Tu che fosti capace di così indomabile amore, immense cose farai — ed io assegnerò a fortuna il perpetuare Aurelia tua, infiammandoti ognora delle sue estreme parole. Catilina guardò Sempronia a lungo, chinò il capo e tacque. Le trame della famosa congiura, i ricordi della quale dovevano stancare più di venti secoli, erano state gettate da tempo, anzi un tentativo era già stato fatto ma interno, per cui quella congiura ebbe due fasi. Catilina, profondissimo scrutatore di menti e di cuori, avendo penetrato l’ambizione di Sempronia, la quale, non che uscire affatto dall’indole muliebre, e per il genere e per la forza espansiva, sarebbe stata eccedente ed eccezionale anche in un uomo forte, credette bene di metterla a parte de’ proprj disegni, sembrandogli che le attrattive di quella donna fossero per riuscire onnipotenti sugli animi dei più caldi fra i giovani romani, e così fu. E Catilina raccomandò a Sempronia di star chiusa con Sallustio, sebbene lo prediligesse. Ma dessa, se lo prediligeva, non lo amava; perchè l’ambizione di lui versava in tutt’altra sfera della sua, e non le pareva di quella tempra fortissima ch’ella, quantunque donna, presumeva d’avere. Onde, se l’arte li avvicinava, il campo dell’azione li divideva; e avrebbe voluto che Sallustio fosse Catilina, e spesso ebbe a dire ad Aurelia, come fosse degna d’invidia e dovesse riputarsi la più fascinante fra le donne, se avea saputo domare colui che uomo era e leone, e talora pareva assumere le forme e gli attributi di un dio terribile. Codeste eccezionali doti di Catilina avevano percosso l’eccezionale Sempronia, e allorchè poi lo vide mandar gemiti e versar lagrime e a tutti rivelare i segni di un amore senza esempio, sentì vivissimo il desiderio che a lei, stanca oramai di adorazioni sempre eguali, e che nell’assidua moltiplicità si scancellavano a vicenda, toccasse finalmente in sorte un uomo di quella tempra. Però, varcando i limiti di quella prudenza che deriva dall’orgoglio femminile, potè proferire, pure in presenza della salma d’Aurelia, quelle parole che a Catilina comandarono un pensieroso silenzio. Ma Sempronia, adunati servi e schiavi e donne libere e vergini e sacerdoti e sagrificatori e ustori e préfiche gementi, fece apprestare all’amica Aurelia onori funebri degni di asiatica regina; e quando le fiamme del rogo estremo innalzarono altissime le loro lingue luminose, i naviganti del Mare Interno, calando allora la notte, credettero, guardando da lungi, fosse luce di faro. Catilina partì con Sempronia; e nella villa di lei si raddensarono, lungi da Roma, più e più le trame della congiura. E vi furono adunanze quotidiane. Cesare vi fu chiamato, e parve lasciarsi attrarre. Ma ora si ha vederlo altrove. X. I GIUOCHI DEL CIRCO MASSIMO. Alle calende di giugno, ricorrendo la festività del dio Vulcano, si apprestavano, come di consueto, pomposi giuochi e gare di corse, a cavallo, colle bighe, a piedi. Que’ giuochi si facevano nell’antico Circo Massimo, e vi accorreva tutta Roma e gente extra-urbana e di tutta Italia. Quel circo fu dal Prisco Tarquinio fatto innalzare tra i monti Palatino ed Aventino. Costrutto con legno in principio, fu al tempo dei Scipioni rifatto con marmi e pietre e mura laterizie. Appellavasi _Massimo_ per la sua ampiezza. Plinio lasciò scritto ch’era lungo circa duemila e duecento piedi, largo intorno a mille. Secondo Dionigi d’Alicarnasso, poteva contenere 150 mila persone ai tempi di Tarquinio; secondo Plinio, 260 mila al tempo dei Scipioni; secondo Aurelio Vittore, al tempo di Cesare, la sua grandezza era tale da contenere 300 mila persone. Quel circo era più lungo che largo, la parte anteriore a linea retta, la posteriore a linea curva. Era cinto da portici di sessanta arcate. Sotto que’ portici aprivansi botteghe per la vendita di commestibili, ed anche di mercanzie (_tabernæ mercatorum_); sovra que’ portici erano sedili di pietra a scalea. V’eran le carceri a vôlta pei cavalli e i carri e le bighe; tra i portici e il vacuo scorreva l’_Euripo_, il quale era un canale largo e profondo. Le mete eran di legno dorato; nel mezzo sorgeva un alto obelisco dedicato al Sole (_obeliscus Solis_) quasi albero di nave; presso al quale sorgeva il suo tempio, e intorno i simulacri delle dee Pollenza e Cerere e Libera e Murcia e Venere. Fino al tempo di Cesare non si davano che spettacoli romanamente ma grettamente popolari, ma la distinzione e l’eleganza greca dei giuochi olimpici non cominciò che con Cesare. Le gare non v’eran sostenute che dai giovani patrizj di Roma. Non fu che sotto Costanzo che nel Circo Massimo si diedero combattimenti di gladiatori; e sotto Claudiano caccie di leoni e di tigri. Se il Colosseo, che a noi posteri impiccioliti, sembra la costruzione più gigantesca e poderosa e insigne di magistero architettonico che vanti l’antichità, non conteneva che 80 mila spettatori; se la moderna Arena milanese, che in altezza è la sesta parte del Colosseo, ma in area è il doppio, pur non potrebbe contenere che 40 mila spettatori pigiatissimi, l’immaginazione si smarrisce pensando ai 300 mila spettatori che potevano sedere nel Circo Massimo, e quasi è tentata a credere mendace Aurelio Vittore, se questo non fosse rinfrancato dall’autorità di Dionigi d’Alicarnasso e di Plinio. Ventiquattro erano i giovani patrizj che intervenivano a dar spettacolo di sè correndo a piedi, a cavallo, sui carri, nelle bighe. Nessuno doveva aver varcato il quinto lustro. Venivano scelti fra quanti si presentavano agli esperimenti, i quali duravano otto giorni prima della festa. Nè solo in quegli esperimenti davasi il _diritto di corsa_ alla prevalente valentìa personale, ma sì anche alla bellezza fisica. A pari valore il più bello era prescelto. Presiedeva a tale giudizio l’Edile di Roma; e i giudici non dovevan essere romani, ma d’altre parti d’Italia, e meglio della Grecia; ed eran pittori e scultori tra i più celebrati. Que’ giovani dovevano aver tutti militato in due campagne almeno; e se avevano guadagnato la corona civica o la murale o qualche altra onoranza di guerra, poteva bastare anche una campagna sola. Era dunque per tali cagioni desideratissima quella maniera di spettacoli in Roma. Le dame romane poi e le nubili fanciulle aspiranti ad amori e a sponsali, e le vergini vestali istesse, sollecitate da irrequieti ardori del sangue, trovavano acutissimo il diletto nel sedere colà spettatrici. Per tutti poi era pieno del più alto interesse il vedere in quei giovani eletti le speranze più insigni della patria, destinati forse a diventar conquistatori ed eroi. Nell’ora che appellavasi _sol_, e correva tra l’inclinazione del meriggio e la _suprema tempestas_, il popolo entrò per dodici arcate che stavan presso alle _tabernæ mercatorum_, dove i più comperavan pane e commestibili, e frutta e aranci e cedri a soddisfare l’aspettato desío del cibo e l’inevitabile sete. Gli ordini più distinti dei cittadini, gli uomini di toga e di spada, colle mogli, coi figli, entravano per la porta di quattro alte edicole, che si chiamavano _Mœniana_, i capi saldi del circo, sormontati da quadrighe di bronzo. I due consoli, il sommo pontefice, i sacerdoti, il capo degli auguri, l’Edile, le Vestali entravano per la porta massima dei grandiosi atrj che costituivano la facciata del circo, e si chiamavano _Oppida_. Qui sorgeva il palco dei giudici presso alla meta. Quale spettacolo fosse già per sè solo la vista di circa 300 mila persone tutte addensate in un luogo, la fantasia se lo figuri. Suonava d’ogni intorno quell’ampio ricinto della gran voce del popolo, spezzata in molteplici parlari: e pareva il Tevere quando, muggendo, s’affretta alla foce. Al fine squillarono le trombe, al cenno dell’Edile cessò il rumore delle voci, e il vasto silenzio significava che tutte le pupille erano rivolte alle Carceri, donde dovevano uscire nelle bighe i ventiquattro giovani eletti per fare il primo giro così detto d’introduzione. E le ventiquattro bighe uscirono, ed eruppe un applauso che squarciò l’aria, e le bighe in tre file di otto per ciascuna procedettero lentissime, e quasi radendo le balaustre dei podj, perchè gli incliti aurighi fosser veduti più dappresso dagli spettatori. Nella prima fila bello e poderoso appariva il giovinetto Isaurico Servilio, trionfatore della Cilicia. A lui la Parca appena Il decimo ed ottavo anno filava. e già aveva pugnato su tre campi di battaglia; infelicissimo tuttavia per non avere ancora meritato corone. Presso lui procedeva Clodio — Clodio Apollo, — com’era soprannominato in Roma dalle dame e dalle fanciulle, e perchè aveva fulva la morbidissima chioma che gli scorreva sul collo, ad onta del più rigido costume romano, e bianco-rosea aveva la pelle; e nell’arco del sopracciglio e in quello del labbro e del mento fidiaco recava invero le sembianze dell’Apollo greco. Viso di fanciulla era quello e pareva esprimere indole soave e gentili costumi. Ma Nerone invece e Caligola ed Eliogabalo insieme ei sarebbe riuscito, se, nato duecento anni dopo, gli fosse toccato in sorte l’impero romano. Nato negli ultimi tempi della repubblica, si dilettò ad empir Roma di stragi, e a far delle leggi ludibrio, e a gettare insidie perpetue a quelli che invidiava ed odiava. Pur le fanciulle inconsapevoli lo guardavano ammirate; e Pompea, l’adolescente figliuola di Pompeo, arse d’incompreso ardore quand’egli la saettò d’uno sguardo lungo — amoroso. Nel mezzo della prima fila, non a caso concedendo ai cavalli le briglie in modo che di tutta la testa sopravanzassero gli altri, per cui, facendo della propria biga un cuneo, pareva primo e duce agli altri, procedeva il superbo Scipione, il pronipote dell’Africano; faccia rigorosamente romana, severa come lo stile dorico, straniera al sorriso, non ammorbidita mai da uno sguardo benigno; teneva capelli fitti e brevi, e barba intera, invadente i zigomatici. Non amava nessuno, se si eccettui Catone; non era amato da nessuno. Presso al quinto lustro, avea già combattuto in quattro battaglie con valore incredibile; ma l’intelletto non era pari al suo braccio, nè alla costanza del volere. Aspirava al primato, credendo che il sangue degli avi lo dovesse costituire in eccezionale privilegio. Ma quasi che l’arte volesse sfoggiare la virtù dei contrasti, accanto a lui veniva Tullo Fideno, più noto in Roma pel soprannome di _Favonio_. Caro alle Grazie, soffuso il volto di una tinta di beatitudine perpetua che gli derivava dalla sanissima epa e dalla bontà del cuore, sollevava sempre, al suo comparire, un giocondo rumore fra i cori delle fanciulle danzanti in mezzo agli allori e gli oliveti del Pincio, e quel rumore pareva fremito di foglie agitate dall’aura primaverile; ed egli era invero balsamico come quell’aura, e come quell’aura veloce e lieve nelle gare delle corse pedestri. Onde un dì l’epigrammatico Cicerone lo appellò _Favonio_, nome che per l’uso si sovrappose poscia al vetusto della casa Fidena. Nella seconda fila veniva il figliuolo di Dolabella, che, seguito il padre in Asia, imitatore così del valore come della rapacità paterna, era tornato a Roma ricco di talenti argentei e di gemme preziose e di statue d’oro rapite ai templi delle divinità straniere; e presso Dolabella veniva Cajo Popilio, già nemicissimo di Cesare per la competenza nel tribunato dei soldati. E Cesare era l’ultimo della terza fila, e non a caso s’era locato ultimo; e presso lui stavan Cassio e Casca. Il fato aveva così ravvicinato que’ tre giovani, apprestando alla storia l’inesauribile tema. Le tuniche di quei ventiquattro giovani, facendo combinazione con delle fasce trasversali e con un nastro serico onde ciascuno chiudeva il volume dei capegli, li facevano distinguere anche da lontano, essendo state infisse alle colonne che dividevano i 24 compartimenti del circo altrettante tavole, che a grandi caratteri mostravano i nomi dei gareggianti. Così, per modo d’esempio, Scipione vestiva la tunica porporina, colla fascia e nastro bianco; Favonio appariva ceruleo tutto; Giulio Cesare portava la tunica alba, attraversata da una fascia azzurra, e sul nastro che si fermava alla sommità del fronte, luceva una stella contesta con zaffiri dell’Eritreo, e gli luceva in fronte a significar Venere progenitrice e l’alta origine divina. Compiuto il giro del circo, fra i continui battimani e i sonori _salvete_ del virile pubblico, le ventiquattro bighe rientrarono nelle Carceri; e dopo qualche tempo, allo squillo delle trombe circensi, i ventiquattro uscirono tutti, chiamati ad uno ad uno, secondo portava la scelta della sorte; chè l’ultimo dei ventiquattro, ossia colui che era il più lontano dall’_Euripo_, si trovava nella condizione peggiore. Primo venne chiamato Scipione; Giulio Cesare fu il quarto; Favonio riuscì terz’ultimo. La prima gara era quella della corsa a piedi, come quella in cui dovevano i gareggianti adoperare tutte le forze proprie. E in quel giorno il desiderio e l’attenzione e l’aspettazione e l’interesse erano più vivi che mai, per la ragione che sapevasi che, di tutti, senza confronto, i più veloci corridori erano Favonio e Cesare; e che tra loro non erasi mai potuto, in molte altre gare d’esperimento, sentenziare con certezza quale dei due fosse il più veloce. Bene la maggior parte parea propendere per Favonio, ma Cesare l’avea pur vinto molte volte, e allorchè Favonio lo potè sorpassare, tosto correva per Roma la voce che Cesare, il ricercato amante, avea lasciate le forze sul non suo talamo; e si pronunciavano i nomi delle afrodisiache spossatrici. I soldati, i forti, gli uomini, anche le dame, stavano tutte per Cesare; ma le fanciulle ingenue, che, pur guardandolo con deferenza, eran sovente sgominate dal lampo del suo sguardo, il quale spesso rivelava l’interna battaglia del pensiero che, dimentico e di voluttà e d’amori e tediato dello spettacolo della beltà, inseguiva coll’ansia dell’ambizione il potere ed il dominio; le fanciulle dunque stavan tutte per Favonio, e tremarono per lui, quando al suono della tromba i ventiquattro si slanciarono al corso. A Cesare era toccato il numero due presso il podio; a Favonio il quattordicesimo. Cesare apparve dunque subito il primo al primissimo slancio. Da ventiquattr’ore non avea fatto un passo; aveva dormito profondo la notte; s’era nudrito sobriamente tra il mattino e il pomeriggio, ed erasi immerso in un bagno tepido, soffregandosi il corpo con manipoli di foglie di menta decotte; chè credevasi allora potessero comunicar robustezza. Tutto il primo giro fu primo e quasi tutto il secondo; ma al finire di questo, Favonio gli fu presso, poi lo sorpassò, e al principiar del terzo gli stette pari e tornò secondo, forse per aver dato il piede in una scheggia di sasso o d’altro, e Cesare gli era innanzi d’una decina di palmi romani. Gli gridò allora Favonio: — Deh, Cesare, lascia a me il premio. — S’io rimango secondo, perdo la fanciulla mia, che mi vuol primo o mi nega. — Io sento la morte nella tua vittoria. Cesare udì, pensò più che mai il passo, e i dieci palmi diventaron venti o ventiquattro. Se non che, quando fu lontano dalla meta la stesa di due braccia, fermossi a un tratto, e disse a Favonio: — Va avanti e sii il primo. Tutto il Circo assurse a quella fermata non attesa di Cesare; e il silenzio dominò quelle trecento mila bocche; e discese l’Edile e discesero i giudici dal seggio, e interrogaron Cesare e Favonio. — E che avvenne, o Giulio? — Nulla avvenne, ma il premio dev’esser dato a lui, come il più veloce. Guardate che il suo destro piè fa sangue. Qualche sasso avverso lo ferì; però non accetto i profitti dall’altrui disgrazia. Egli meritamente è il primo. Per tutto il circo correva una domanda sola; ma qualche tempo dopo, dal seggio dei consoli e dell’Edile e dei giudici, volò la risposta per tutto il circo; e l’entusiasmo fu immenso; e — Viva Giulio Cesare! si gridava da tutte le parti. Ma i giudici stettero dubbiosi nel pronunciare la sentenza. Gli uni dicevano non essere nella consuetudine il tener conto delle sventure; però doversi il premio a Cesare; altri dicevano che il primo giunto alla meta era stato Favonio; e parimenti non essere nella consuetudine di tener conto delle cagioni, ma del fatto ultimo e compiuto. Però, fatto arbitro l’Edile, questi decretò doversi dare il primo premio a Favonio, e un premio straordinario o di eccezione a Cesare. I consoli confermarono il giudizio dell’Edile. Quando Favonio ricevette il premio, che fu un caduceo d’oro, Cesare lo baciò in fronte, e alla sua volta ei ricevette dall’Edile un anello prezioso che quegli si trasse dal dito; e così i due premiati rifacendo il giro del circo, avvolti nell’onda assordante dei più frenetici applausi, ritornarono alle Carceri. Scorso un quarto d’ora, squillarono le trombe e uscirono dodici bighe. Perchè lo spazio interposto tra l’Euripo e il Podio fosse sufficiente al corso delle bighe, se per caso avessero a venir tutte di fronte, i gareggianti si dividevano in due schiere di dodici ciascuna. Fatti tre giri la prima, usciva la seconda, che faceva altrettanti giri. Il primo e il secondo delle due schiere, ossia i quattro prevalenti rimasti soli, correvan poscia gli ultimi tre giri, e quegli solo che primo toccava la meta toccava il premio. Questa corsa non pareva presentare interesse veruno, e la ragione era chiara. Nelle corse d’esperimento s’era conosciuto che Cesare aveva asserito il vero, allorchè disse di possedere i due poledri più veloci che allora fossero in Roma, e gl’increduli non avevano più trovato inverosimile che, fatti venire appositamente dai presepi dell’Arabia Felice, gli fossero costati dodici talenti (circa ottantaquattro mila lire italiane). Era dunque una gara di ricchezza e di prodigalità più che di valentía, e già se ne poteva indovinare l’esito. Primi nelle due corse di preparazione erano stati Cesare e Scipione; nella seconda Dolabella e Favonio, i quali ricomparvero poi nella corsa _decretoria_. Quale guidatore di cavalli Cesare era insigne, senza dubbio il primo; onde nella prima corsa aveva lasciato indietro di un giro e mezzo gli altri. Ma anche a Scipione intervenne lo stesso; e i suoi cavalli erano nati in Roma, da una famosa coppia andalusina che Sertorio, durando la guerra ispanica, aveva mandato in dono al padre di lui. Scipione adunque, Cesare, Dolabella e Favonio usciron dalle Carceri e si fermarono rigorosamente a quella riga nera trasversale che concedeva a colui che trovavasi nel posto men vantaggioso qualche palmo più innanzi degli altri. Suonò la tromba; al terzo squillo si slanciarono al corso. Era profondissimo il silenzio, tanto l’attenzione generale era concentrata. Sì Cesare che Scipione rattenevano i cavalli a quanta forza avevan nelle braccia; di maniera che Dolabella e Favonio furono di qualche palmo innanzi a loro nel primo giro; al secondo Scipione tenne men tese le redini e volò innanzi a Cesare d’un mezzo giro buonamente. Ma Cesare, a questo punto, rallentò le redini, e i suoi cavalli che rilucevano all’ultimo sole pel serico pelo dorato che pareva murrina cangiante, si precipitarono furiosi al corso; e parevano acque di torrente rovinanti improvvise pei levati incastri. Passarono il mezzo giro, un istante furon presso alla biga di Scipione, la sorpassarono a volo, e una ruota sola della biga cesarea toccava terra. Trovossi un giro intero innanzi a tutti, venne alla meta, la sorpassò; e dovette cedere ai cavalli, che, sfrenati a quel modo e indarno trattenuti, ripercorsero un altro giro intero. L’entusiasmo fu al colmo. Tutta Roma là raddensata ululava frenetica. Applaudiva l’Edile, applaudivano i consoli. Il premio fu un elmo e uno scudo di preziosa materia e di più prezioso lavoro; Cesare fece il consueto giro del vincitore, glorioso della velocità incomparabile de’ suoi cavalli; e rientrò per prepararsi all’ultima gara. Quest’era la più aspettata dal pubblico, la più difficile e la più pericolosa pei contendenti! Essi dovevano correre il pallio su cavalli che non conoscevano, cavalli della razza romana allevati a spese dell’erario; poledri ardenti, già domati a sopportare il cavaliere, ma bisognosi ancora di lungo ammaestramento; e però assai pericolosi e pei vizii che ancor tenevano; e perchè, non sapendo i cavalieri circensi l’indole particolare di ciascuno, e il grado della forza e della velocità, più ancora che alla propria valentía, la quale doveva essere insigne, bisognava che si raccomandassero alla fortuna. Nelle corse d’esperimento quei cavalli, scelti a sorte, erano già stati adoperati; ma dovendosi ancor sorteggiare nella gara circense, le difficoltà e i pericoli rimanevano gli stessi. I ventiquattro cavalli furon tratti fuori. Ciascuno portava un numero sulla fronte. I contendenti vennero chiamati dall’Edile per ordine d’alfabeto. Un fanciullo estraeva i numeri, e al cavaliere veniva consegnato il cavallo che la sorte aveagli decretato. Adempiuto a questo, i ventiquattro contendenti salirono in groppa. Volate, impennate, scarti, salti, agitamenti di testa, fremiti, sbuffi furono le prime difficoltà a superare. Ma alfine potè incominciare la corsa. Il premio, come sempre, era dato al primo che toccava la meta; ma con questa particolarità in tal gara, che tutto era permesso per giungervi; qualunque astuzia, qualunque inganno. Bastava toccarla primo. Nè è a dire quanto il pubblico romano si appassionasse a tale spettacolo. Spinti i cavalli alla corsa, slanciatone uno, e fu quello toccato a Scipione, successe la gara naturale fra i poledri stessi. Ma allora avvennero accidenti molteplici che lasciavano ognora in ansia gli spettatori. Favonio, appena giunto a mezzo del primo giro, dovette acconciarsi a retrocedere col cavallo che lo riportò di sbalzo nelle Carceri. Il cavallo di Scipione, che fu primo in tutto il primo giro, quando fu percosso dal flagello di Dolabella che veniva presso Scipione, questo fu di colpo sbalzato di groppa, e venne così a far due o tre capivoltate a terra avvolto ne’ globi della polvere olimpica. Cesare, il primo dei cavalcatori di Roma, come tutti gli storici suoi contemporanei e i posteri narran concordi, e in conseguenza invidiato e temuto nelle gare, stava apprensivo e in guardia e oculatissimo; però approfittando della sventura di Scipione, sospinse il cavallo fino a sorpassar tutti gli altri. Ma venendogli d’accosto Clodio, che gli sferzò improvviso il cavallo, imitando Dolabella, fu portato a impennate nel mezzo del campo, e sarebbe stato rovesciato nell’_Euripo_, s’ei non fosse sbalzato a terra e lasciato il cavallo in balìa di sè; ma fu vendicato da Lutazio, che fece rotolare nella polvere l’imprecante Clodio. Cesare, fremendo, chiuso in sè, stava attento alla corsa; chè usciti che furono i più viziosi poledri, parea procedesse regolarmente. A lui mordeva di trovarsi fra quei cinque o sei ch’eran caduti a terra. Guardava dunque attentissimo ogni cosa, e pensava se gli potesse venir fatto qualche tentativo straordinario; e a un certo punto, Cassio apparve primo, e di tanto sopravanzò gli altri, che oramai non rimaneva più dubbio sul vincitore. Cesare il vide venir precipitoso. Stette in sull’ale allora, e quando Cassio fu vicinissimo, ei misurò il tempo, spiccò un salto, e in men che non si dice, fu in groppa, strappò il freno di mano a Cassio che rovesciò nella polvere; e Cesare procedette innanzi fra gli applausi del Circo frenetico d’entusiasmo pel colpo inatteso, e toccò primo la meta. Ma che nodo inestricabile di eventi si generò da questo fatto! e che odio si preparò Cesare; e come forse gli idi di marzo si collegarono a quella prima offesa toccata al pallido Cassio; e d’altra parte, che nuovi e strani e perigliosi amori femminei si apprestarono a Cesare per quella triplice vittoria! XI. INCORONAZIONE DI CESARE NEL CIRCO MASSIMO. Una delle ragioni, anzi la sola veramente forte ragione per la quale Cesare aveva desiderato di ottenere la triplice vittoria (e quando dovette scavalcare pel traditore flagello di Clodio, aveva affrontato alla sua volta, la più ardua difficoltà degli esercizii equestri, saltando in groppa al cavallo già vincitore di Cassio e rovesciando l’amico nella polvere circense), fu la specialità del diritto che a lui concedeva quella triplice vittoria appunto. Il caso che un _concorrente_ riuscisse ad ottenere tutti i premi delle gare erasi, in tanti anni, verificato sì rare volte, che lo si reputava quasi improbabile, e in ogni modo tanto eccezionale da costituire in un diritto eccezionale anche il vincitore. Questi adunque oltre il premio comune della corsa, riceveva dall’Edile una corona d’alloro; ma la specialità del diritto consisteva in questo, ch’egli, fra le fanciulle patrizie che sedevano al Pulvinare, poteva scegliere quella che doveva incoronarlo. Saliva perciò in aureo cocchio e, accompagnato a piedi da tutti i competitori, sedendogli accanto il sacerdote di Vulcano che gli portava la corona, faceva il giro di tutto il circo, poi, fermatosi innanzi al Pulvinare, nominava ad alta voce quella che doveva porgli la corona sul capo. E Cesare salì in cocchio e compì il giro, e quando stette innanzi al Pulvinare nominò Servilia. Era quello un onore grandemente ambito dalle fanciulle romane. E in quel dì molte vi aspirarono tremando ansiose quando Cesare fu per pronunciare l’inclito nome. E grande fu la meraviglia in tutti quando sentirono prescelta Servilia; e dolorosa e dispettosa la sorpresa in lei, che detestava Cesare, pensando che per esso, quantunque si fosse scolpato nell’orazione funebre per Cetego, questo non aveva potuto sopportare il ferro di Catilina. Alzò gli occhi al cielo; ma dovette assurgere, quando le vergini vestali, dal loro posto distinto, come voleva la cerimonia, le si fecero accanto per accompagnarla sull’alto ripiano della scalea che dal Pulvinare metteva nel circo. Cesare, sebbene fosse già per la seconda volta marito, marito di Cornelia e da essa idolatrato fino al delirio; e la soave e infelice sposa sentisse già nella salute affranta gli effetti di un amore sconfinato e non corrisposto; pure ei non seppe o non volle dal dolore e dal rimorso che talora lo investiva, accettare i consigli che lo dissuadevano dal pensare ad altre donne e più che mai alla divina Servilia. Ma di colei si accese fin d’allora che seppe come ella ardeva per Cetego: che gli parea di non aver mai veduto forma di donna più perfetta, più elegante e più attraente di quella: onde avvezzo a superare tutte le difficoltà e ad appagare ogni aspirazione propria, aveva come giurato a sè stesso, di tentar tutto che appena fosse nel possibile, perchè colei gli si piegasse amorosa, dominata e vinta e irresistibilmente conquisa. Cesare conosceva sè stesso, e in altre consimili vittorie erasi accorto di possedere il fascino del crotalo che sulla propria lingua trisulca sforza filomela a sollecitare il volo, pur nell’istante ch’essa geme l’ultimo singulto. E Cesare ascese la scalea, e fermossi sul penultimo grado, e il sacerdote consegnò la corona a Servilia, che la prese tremando: — Perchè tremi, o fanciulla? esclamò allora Cesare con voce sonora. Io ho voluto che tutta Roma ti venerasse qual Dea largitrice di assoluzione ai pentiti mortali. Chè io subisco il pentimento d’involontaria colpa. Ma Cetego desideravo felice, lo giuro ai Numi; e però sollecitavo il fratel tuo a farti sua consorte; e Cetego io supplicai perchè deponesse le ire e non volesse provocare irreparabili sventure. S’io lo percossi non fu che per fuggir morte. Perdona adunque e adempi al rito e fa glorioso il mio capo non dell’alloro che tengo dalla fortuna, ma del tocco soave delle tue mani che me lo impongono. Le alte parole, lo sguardo di Cesare radiante per l’intimo gaudio, il sovrumano aspetto di lui, il grido concorde scoppiato allora da tutto il Circo: _Perdona, o Servilia_ — commossero la fanciulla, che, inchinandosi, depose la corona sul capo di Cesare, il quale, quasi sfiorando in quel punto il volto di Servilia, sommessamente le susurrò: — Io ti amo, o Servilia, e da tempo, e di un amore che non può essere compreso che da intelletto divino. E fu Venere mia gran madre ad apparirmi in sogno per rivelarmi i decreti del fato, il quale noi vuol congiunti in vita e in morte. La fanciulla sentì e tremò e non rispose. Mai non avrebbe creduto che Cesare potesse pensare a lei a quel modo; e l’orgoglio le s’interpose tra il passato e il futuro. Cesare ridiscese la scalea, risalì il cocchio. Servilia circondata dalle Vestali si assise in un seggio dorato, e innanzi a lei, salutandola Antistite della festa, passarono inchinandosi i consoli e l’Edile e le dame romane e le fanciulle. Lo squillo di più trombe diè allora il segno che il popolo romano dovea sgombrare il circo. Il sole era caduto, e il popolo, uscendo dagli atrj e dai meniani, suonante come onda di fiume, si recò al monte Pincio, in vetta al quale era l’ara di Vulcano, e colà dovevasi continuare e chiudere la sacra festività fino _ad mediam noctem_. Il vincitore del circo doveva comparirvi. L’Antistite della festa, sempre accompagnata dalle Vestali, doveva recarsi ad assidersi colà in un bosco d’allori, in seggio d’onore. Calò la notte; sorse la luna. Cesare ascese il Pincio, e recatosi innanzi a Servilia, come voleva il rito, le porse la mano. Ella discese, e accanto a Cesare, passeggiò in mezzo al popolo romano i viali del Pincio. La processione delle Vestali lor teneva dietro a pochi passi. L’alto onore a cui Servilia fu assunta in quel dì pel volere di Cesare, le parole di lui inaspettate, conflagranti, avevano messo uno strano tumulto nel sangue già ardente della quindicenne fanciulla. Ell’era in quell’età, ed aveva tale tempra da farle amare l’amore prima dell’oggetto che doveva riscaldarlo; e ciò per la voluttuosa e vaga albedine di aspirazioni e di desiderj mille. Sebbene l’austero Cetego avesse potuto non parere adatto all’indole di lei; pure, essendole comparso innanzi per il primo quando l’adolescenza si svolgeva nella giovinezza, tosto essa gli si era affezionata con ardore. Se a quella fanciulla fosse stato interdetto di veder mai sembianza d’uomo, il sangue tuttavia le avrebbe riscaldata la fantasia così da comunicarle la potenza creatrice, e farle idoleggiare nella vuota solitudine qualche larva ideale. Se Cesare non le fosse comparso innanzi così presto, così inatteso, e non le si fosse dichiarato in quel modo, ben avrebbe perdurato più a lungo nell’amoreggiare, interprete il dolore, coll’ombra dell’estinto Cetego; ma sarebbe pur sempre venuto il dì che quella, eclissata da un corpo vivo, non sarebbe più stata evocata. Chiaro dunque è come nel breve tempo che era trascorso dal crepuscolo alla _prima nox intempesta_, onnipotente l’avesse già dominata il nuovo amore, sebbene prima avesse potuto detestar Cesare. L’onda del popolo romano si apriva all’apparir di lei; gli sguardi si fermavano avidi su quella meravigliosa beltà. Ebe l’aveva soprannominata Cesare quand’ella brillò nelle aule di Sempronia — e parea veramente la Ebe dell’Olimpo d’Omero; chè l’onda voluminosa delle chiome sembrava oro, ma quando l’artefice nel riforbirlo, gli comunica quel colore particolare che par vermiglio insieme e nero, e che i Latini chiamavano feniceo; però il colore della pelle, nella fronte, nel collo, nel seno, nelle braccia, rendeva il candore trasparente dell’alabastro, che tramutavasi in roseo pallido nelle gote; brillando il cinabro schietto sulle labbra ognora semichiuse, per la struttura del naso e nari strettissime, più forse che la perfezione lo comportasse; e nel volto quel che appariva di più insigne era la linea soavissima che girava le parti esterne dell’occhio; occhio di colore azzurro-profondo, e ch’ella girava lento ma luminoso e raggiante come l’aria di Roma; quell’aria singolare che Cicerone ebbe a chiamare _lux_, sebbene avesse navigato il mare Argolico, e visitata la chiara Zacinto. Di finissimo bisso avea la veste, che secondava con indulgenti pieghe le coscendici dense: quella cadeva prolissa fino ai legami della _solea_, che lasciava veder nudo il candido piede. La zona tenea d’argento, e la cingeva sì adatta e breve che pel contrasto del fianco ricolmo concitava il sangue dei Quiriti ammiratori. Nude mostrava le braccia fin oltre la spalla; e il bisso aprivasi alla regione delle acsille che le caste _alipile_ avevan detonse. Cesare passeggiò qualche tempo senza dir parola, assorto nella contemplazione di sì attraente beltà; e così, standole assai presso, e sentendo una fragranza speciale che Servilia effondeva dalla pelle, fragranza come di citiso fiorito, trovò che potè essere veritiero Aristossene, quando lasciò scritto che Alessandro Magno spirava dalla pelle soavissimo odore; e si apponesse Teofrasto quando asserì che ciò derivava dalla fervida temperatura del corpo di lui e dalla concozione che il calore fa degli umori, onde gli aromi nascono là dove più arde la terra. Un tale fenomeno che il caldo giugno potè far palese, più che mai rese acuto in Cesare il desiderio amoroso di Servilia; onde così le parlò allora: — Ambrosia tu spiri dalle divine membra, o Ebe, più cara di quella che sorride a Giove. Servilia alzò gli occhi in viso a Cesare. — Pronuncia una parola, ei proseguì allora; fa che non sia stato invano quanto ti dissi allora che mi hai posto questo alloro sul capo. — Tu sai, Cesare, la condizione dell’animo mio; che penseresti di Servilia tu, se potesse dimenticar Cetego così? — Non io ti dirò di dimenticarlo; la memoria di Cetego sia sacra in perpetuo. Pur gli estinti non risorgono; e i doni più che divini onde Venere ti colmò, non debbono struggersi in inutile pianto. — Non mi tentare, o Cesare; io pavento l’ombra minacciosa di Cetego. — Ma se Cetego non avesse vinto il tuo cuore, ma se per altri tu non avessi mai sentito, nè oggi sentissi amore, le mie parole sarebbero cadute sì inutilmente dal mio labbro, e sarebbero rimaste là sui gradi del circo, quasi doni spregiati, e non voluti raccogliere? — Io le raccolsi quando pronunciai il tuo perdono. Però non t’odio io più.... le tue parole mi hanno conquisa; e la virtù della tua mente e l’aitanza sovrumana del tuo corpo, e Venere che brilla in cielo or mi comanda di venerarti. Ma non tentarmi; ancora te ne scongiuro, o Cesare. E così parlando continuarono il giro pei viali del Pincio, e ritornarono all’ara di Vulcano, dove le Vestali, disposte in circolo, raccolsero nel proprio seno Servilia. Cesare piegò allora un ginocchio innanzi a lei, che doveva spruzzarlo d’acqua lustrale, come voleva il rito; poi si alzò dicendole sommesso: — Oggi mi hai imposto il glorioso alloro, e asperso di sacra onda; ma domani verrò a chiederti una fronda di mirto. Presso al circolo delle Vestali, in mezzo alle quali Servilia si assise, seguendo con lungo sguardo Cesare, che di ricambio saettò lei di uno sguardo profondo, breviloquente, efficace ancor più dei Commentarj che scrisse poi, stavano in crocchio alcuni dei più illustri personaggi di Roma. E Cesare, partendo, s’incontrò in esso. Quel gruppo glorioso nel quale Cesare diè di fronte era costituito nullameno che di Catone fratello e tutore e custode della Servilia-Ebe, di cui ella era indegna ed egli di lei; tanto che non parean i portati di un talamo istesso, e forse non lo eran davvero; tanto la virtù romana, pur nel fitto della più rigida apparenza, si dilettava ad insultar cielo e terra, e obbedendo all’onnipotente natura più che alle leggi che la vendetta senile aveva redatte, mescolava pupille cerulee e pupille nere e colori olivigni e pafici candori sotto un medesimo tetto. E Lucullo, il glorioso, l’opulento, l’elegante, il dotto, il già inclito per virile beltà, ma in quel punto già scendente pel decimo lustro, e però non più caro alle flore primaverili, parlava a Catone della Servilia sua e gli gridava alto; chè il dio Vulcano gli aveva concesso in quella notte di tuffare le bramose labbra nei dolii colmi di lieo. Gli gridava alto queste parole: — Solo oggimai io sono; stancata ho la gloria; ed ella ha tediato me; io feci scorrer sangue a torrenti, in onta a Platone divino che aborriva il sangue e malediva a chi lo versava. Ricco son io così, che i re da me debellati mai non arrivarono a tanto. Non ho figli presso di me; e sono estinte o ripudiate le mie molte mogli; riviver dunque io voglio e rinnovare una gioventù artificiale, inaffiando il cuore di sangue riscaldato dalla bellezza e dalla adolescenza non anco sospettata di prepostere colpe. Concedimi dunque, o Catone, la divina sorella tua in consorte. Felicissima io la farò, e tanto più quanto meno io sono giovane; chè l’esperienza lunghissima mi scaltrì a non essere marito importuno e, trascorsa che sia la dodicesima parte del primo anno nuziale, a concedere, vedendo e non vedendo, qualche spiraglio alle future aspirazioni muliebri; poichè a profonda pietà mi commovono le donne dannate all’assidua contemplazione di un sempre egual marito. Ma io saprò involarmi a tempo; e Servilia sarà proclamata felicissima tra le romane donne, se tu, o Catone, me la concedi in isposa. — Se in te, rispose Catone, parla il volere dell’intelletto e il consiglio del cuore più che lo stimolo transitorio dell’agitante falerno, mia sorella, della quale io sono tutore, sarà tua consorte. Cesare udì e fremette; chè ben conosceva Catone, il quale le sue forti virtù offendeva coll’avarizia, e bramava di levarsi dell’importuna tutela di Servilia; Cesare per di più temeva che la fanciulla potesse pendere incerta tra lui giovane sprofondato nell’abisso dei debiti, e il ricchissimo e già tanto glorioso Lucullo, ancora bello di volto e di membra pur nella protratta virilità; e che quando Anacreonte lo inspirava, pareva che dal bigio autunno retrocedesse a rinnovare gli aurei giorni dell’estate. Fremette ma dissimulò; e disse parole gioconde a Lucullo e confortò Catone. È inutile proseguire il discorso, ma essi avranno parte ad un avvenimento che sta fra i più famosi che segnalarono l’ultimo centenario della romana repubblica; vogliam dire la congiura di Catilina, che ci siamo proposti di rappresentare e discutere più che superficialmente; e sebbene molti fatti della giovinezza di Cesare, degni di ritrattazione, sieno avvenuti prima della congiura stessa, pur ci conviene, in onta all’ordine cronologico, darle la preferenza; perchè assai cose anteriori rimarrebbero incomprensibili senza la luce delle successive; e ci pare inoltre che i pensamenti di Cesare, le sue aspirazioni e la profonda sua acutezza, e lo sfoggio delle più attraenti e luminose qualità adoperate all’intento del più profondo e longanime egoismo, tutti si rischiarino e prendano rilievo attraverso a quell’uragano, dall’esito del quale dovevano dipendere le future sorti dello Stato romano. XII. SALLUSTIO E LA CATILINARIA. Se il monumentale Sallustio avesse fatto il debito suo, le nostre pagine sarebbero oziosissime; ma già lo si disse: Sallustio fece un’opera mirabile per l’arte, insufficiente per la storia; spesso indegna di fede per il suo carattere di libello partigiano, e in taluni passi, in onta alla sua brevità, offrente incertezze e contraddizioni e assurdità tali che possono ravvisarsi dalla critica più volgare. Le orazioni ch’ei fa recitare a Cesare, a Catone, ad altri, sono lavori d’arte oratoria, non mai di politica e storica sapienza; non v’è mai l’utile grandezza, per esempio, delle concioni di Tito Livio, nelle quali, pur sfoggiandosi tutto il lusso accessorio dell’eloquenza, si riassumono nulla meno che interi sistemi d’ordine pubblico, di riforme legali, di amministrazione, di relazioni internazionali. Quelle concioni erano inventate da Livio; ma, inventando, indovinava e spiegava e ricreava i momenti storici e i personaggi. Lo stesso Shakespeare nelle orazioni di Bruto e di Antonio par che conosca Roma più di Sallustio. Nè il solo Sallustio ci costringe a non star contenti al suo detto, sebbene sia il più manchevole ed infido di tutti; ma dopo avere interrogati tanti altri storici per controllarlo e completarlo, ci converrà stare in guardia anche di essi, facendo uso di quella chiave universale e perpetua dell’indagine storica, che è fatta di raffronti e di logica. Quante favole e asserzioni riferite in buona fede dal sommo Livio caddero di tratto, appena quella chiave dischiuse dei segreti non avvertiti e non sospettati prima! Così non potè più esser Lucrezia la cagione della caduta dei Tarquinii, nè la simulata pazzia di Bruto primo, ma l’autorità regia raccomandata alla morte degli Ottimati; ma la fortezza del Campidoglio, che fu per Roma antica quel che furono le fortificazioni per Parigi moderna. Medesimamente, per toccare di un ordine di cose già da noi trattato nella descrizione del Circo Massimo e dei giochi romani e dei più illustri giovani gareggianti, non potemmo tener fede a quelle parole di Cornelio Nipote: _Magnis in laudibus tota fuit Græcia victorem Olimpiæ citari.... quæ apud nos ab honestate remota ponuntur_. I circhi antichi di Roma erano costruiti sulle forme dei circhi della Grecia, precisamente come l’Olimpico; e allora l’architettura rivelava completamente l’uso dell’edificio nel tutto, nelle parti, nello scopo. Nel tempo poi che decorse dalla morte di Silla a Cesare, l’imitazione greca, nelle scienze, nell’oratoria, nelle arti, nel costume, erasi in Roma fatta delirio, specialmente per impulso di questo giovine re della moda; per lui vi fu un impetuoso riflusso di democrazia che, trionfando Silla, era stata respinta momentaneamente da un violento regresso dell’intera legislazione romana. I filosofi greci, scacciati dai Sillani, come propalatori di idee sociali, ritornarono in folla nei primi tempi di Cesare, perchè in un sistema di rivoluzione più elementi disparati si connettono fra loro. Così la democrazia greca ajutò forse la ricomparsa dei trofei di Mario. Così anche i giuochi ellenici, imitati con più caldo impeto, dovevano, per la parte che loro spettava, ajutare la nuova alluvione che Cesare meditava; tanto più che egli primeggiava in quei giuochi, e non trascurava occasioni ad attrarre gli sguardi e l’ammirazione del popolo romano e dei militi innamorati della prestanza fisica. Se non che Cornelio Nipote scrisse nei primi anni d’Augusto, quando forse per qualche legge di lui, che pose gran cura nel riformare i pubblici spettacoli, sarà stato conteso ai patrizii di fare di sè mostra nei circhi, e nei teatri pubblici, e la nuova costumanza confuse colle anteriori. Queste cose noi ridiciamo ai lettori, perchè lungo questo lavoro si preparino ad assistere a un quadro storico il quale vorrebb’essere arte innanzi tutto, ma anche indagine e discussione; e dove l’autore si propone emanciparsi da quella antica legge che comandava di non offendere le credenze invalse per trovare più facile l’applauso; ed introdurre l’arte, pur sempre conservandole il poetico suo scopo, nel campo della critica storica, a cui il lettore deve mescersi per giudicare poi se l’autore abbia avuto torto o ragione. Secondo il primo esempio datoci da un ingegno tanto grande quanto originale e rivoluzionario, non sarebbero più degni d’essere trattati quei soggetti dove non ci fossero a sommovere questioni intorno a qualche personaggio od avvenimento o costume caratteristico; nè il poeta dovrebbe mai più occuparsi d’intrattenere il pubblico, quando non abbisogni di rettificare sentenze che il pubblico ha accettate senza esame. Ed or si prosegua. Erano corsi quasi due anni dagli ultimi fatti che abbiamo raccontato; il concetto della vasta congiura non aveva ancor potuto tradursi in atto. Le difficoltà erano immense; alcuni ostacoli parevano insormontabili. Il segreto però era rimasto profondissimo tra Catilina, Sempronia, Cetego, lo zio del giovane estinto, Quinto Curio, Fulvia e Pisone, che già avevan avuto parte in quella prima congiura denominata del _cinque febbrajo_, perchè siccome esso era stato il giorno della prima fondazione di Roma, così doveva anche essere l’anniversario di quella e l’inaugurazione di una Roma nuova. Sempronia, che in tutto teneva dell’indole di Catilina, e quasi il superava nel delirio dell’ambizione, per accaparrarsi i complici e tenerseli fedeli, in quegli anni s’era immersa nei debiti fin sopra il capo, onde nè colle proprie ricchezze, nè con quelle dello zio Cetego che fu dissanguato, non poteva più ajutar Catilina. Pare che questi, permettendolo Sempronia stessa, si fosse accostato ad una Oristilla, dama romana sterminatamente ricca; e colle arti sue inesplicabili, le si fosse aggavignato al cuore, e però fosse riuscito nell’intento di farla dichiarare garante degli impegni di lui in faccia agli innumerevoli creditori. Sallustio raccontò essersi allora tenuto per certo che Catilina abbia ucciso il proprio figlio per far piacere ad Oristilla; ma di ciò non è a tener conto. Ardendo sempre più Catilina di compir l’impresa; e avendo più volte tentato Cesare, che gli pareva il più opportuno ad agitar Roma; essendosi quegli ognora scansato, risolse di aprirsegli ancora, onde si recò con pochissimi fidi alla casa di lui nella Suburra. — Quantunque di tanto sii tu più giovane di noi, disse Catilina a Cesare, pure ancora siam qui venuti per consiglio e per ajuto. L’impresa che tu sai pare matura. Vieni dunque or tu a comunicarle l’ultima spinta. Pare che Cesare non volesse compromettersi in quella, prima di non avere approfondito il terreno ed esplorato il cielo d’ogni intorno; onde: — Quello che già ti dissi, ora ti ripeto. Soltanto, come mi sono obbligato, oggi mi obbligo a tenere il segreto. Io non voglio aver parte in cosa che mi sembra uscire dal probabile e quasi dal possibile. — Eppure tutta Roma è con me; e la sua parte più giovane e più generosa promette di corrispondere alle beneficenze ond’io la colmai. — Promettere è agevole; ma le beneficenze già usufruttate, allorchè viene il momento estremo di contraccambiarle, tosto si convertono in ingratitudine. Altro ci vuole; e ben io proporrei cosa utilissima, se fossi nella tua toga e volessi tentare una simile impresa. — Parla. — Ritorna colla memoria a tanti anni addietro della repubblica romana. — A quando? — Al tempo in cui Roma, estendendosi sempre più, si trovò aver quasi tutto da amministrare negli Stati esteri. Allora si cominciò a dare il primo crollo all’aristocrazia di famiglia. La democrazia non ha più formidabile nemico che in questa aristocrazia casalinga, che, se ha avuto un crollo, pur è ancor tanto onnipotente. Molti secoli trascorsero prima che al padre fosse conteso di appropriarsi anche ciò che acquistavano i figli; però questi, cittadini nel foro, schiavi in casa, dovevano combattere e guadagnare persino la preda bellica per lasciarla ai padri che potevano diseredarli. Ci fu un momento che questi giovani generosi si sentirono attiepiditi considerando una sì grande ingiustizia. — Che si fece allora? si riconobbero i _peculii_, ossia fu stabilito il diritto di proprietà su tutto quello che i figli acquistavano in guerra. Il _peculio castrense_ fece così ribollire più guerriero il sangue nei petti dei giovani romani. Ma, lo ripeto, la potestà patria non fu tocca che in un lato dal _peculio castrense_ — e oggi essa è ancora prepotenza più che potestà. Queste cose io non le dico perchè l’utile mio proprio mi faccia parlare. Mio padre è morto; nessuna potestà pesa dunque su di me; chè io vivo del mio diritto. Dunque è un’ingiustizia assoluta che mi fa forza. Ma è anche contro una tale ingiustizia che fremono tutti i giovani romani i quali hanno il padre vivo. «Ora chi si mettesse alla testa di così fortunosa impresa, qual è questa tua, dovrebbe in alcune conventicole notturne, dove questi giovani, invitati con arte, verrebbero ad adunarsi in folla; dovrebbe giurar loro, sull’ara, con tutta la solennità di un giuramento sacro, accresciuto da cerimonie eccezionali e tali che potessero percuotere la loro fremente imaginazione; che sarà abolito per sempre il diritto di vita e di morte che hanno i padri; che più non debbano essere preteriti i figli nei testamenti, che quand’anche _per valide_ ragioni potessero venir diseredati, questo non si possa fare che _nominativamente_. E v’è altro a prometter prima. Venga abrogata quella iniqua legge di Silla la quale tiene anche oggi i figli dei proscritti incapaci dei pubblici diritti. Costoro brulicano a migliaja di migliaja, e s’affretterebbero da tutta Italia a far grosse le legioni di colui che sentisse aver tanto di forza da ricostituire su novelle fondamenta la repubblica nostra, e sulla vasta base del diritto sociale ripiantare la grandezza romana che l’aristocrazia, ristretta sì ma tenace e profonda, minaccia dalle radici. «Queste cose io proclamerei, se credessi opportuno oggi di tentare un’impresa pericolosissima qual è quella di cui mi hai parlato e mi parli. Ma io dissi quel che dissi, solo a sfoggio di parole, come se Apollonio Rodio volesse farmi argomentare su d’un tema qualunque. Però come io tenni e tengo e terrò il segreto, anche tu lo terrai; e se i miei pensieri ti fossero per giovare, falli tuoi, che io non ne voglio sapere. E ancora ti sconsiglio dal tentare una sì audace impresa.» Catilina non ripetè parola, e insiem cogli altri lasciò Cesare, il quale nel salutarlo lo guardò con profonda significazione, e parea volesse dirgli: Avevi a venir solo, e ti avrei parlato in diverso modo. E Catilina, trovatosi libero coi colleghi: Or mi accorgo, disse, che fu pessimo consiglio l’essere ritornati da costui. Ma basteremo noi a tutto, e non parlò più. Sibbene fece tesoro delle parole di Cesare; o per dir più giusto, gli parve di comprendere quanto colui fosse per fare. Veramente, leggendo l’orazione che poscia ei tenne ai congiurati, orazione evidentemente inventata da Sallustio, non avremmo il diritto di dir questo; ma come si può egli credere a quell’orazione; come si può comprendere l’acutezza di Catilina se fossero veri quei due passi della concione dove le parole contraddicono ai fatti e alle asserzioni stesse di Crispo: «Anzi che una misera, obbrobriosa vita (è Sallustio che sfoggia arte oratoria per bocca di Catilina), e fatta omai dell’altrui superbia ludibrio, senza onore si perda, non è egli meglio da vittoriosi morire? Ma gli uomini attesto e gli Dei, ch’ella sta in noi la vittoria, non in costoro fra le diuturne loro ricchezze invecchiati, avviliti.... «Qual uomo di virile animo soffrirà che ricchezze a costoro sopravanzino da fabbricar nei mari ed i monti appianare, mentre il necessario perfino a noi manca? Due e più palagi a costoro; a noi un tugurio neppure.» Ma basti di Sallustio, al quale domanderemmo, se rivivesse, come abbia potuto, in quel breve riassunto della congiura Catilinaria far dire in un luogo tali parole a Catilina, e in un altro narrare in che modo colui abbia potuto adunarsi intorno a sè tanti giovinetti; col donare cioè a chi cavalli, a chi statue, a chi danaro. Quei giovani, a sì strane parole, avrebbero prorotto in tali risa da far dileguare ogni disegno di congiura, e da farne andare scornato lo stesso Catilina. Ma ora trattasi di determinare le cause vere e speciali, e non probabili che in quel periodo storico, le quali devono aver provocato il fenomeno fino ad ora inesplicabile, che tanti giovani appartenenti alle più cospicue famiglie di Roma abbian seguito al campo con sì ardente alacrità, il tanto aborrito Catilina, e colà sian caduti quasi tutti da eroi. Le cause generalissime assegnate da Sallustio, e che toccando fenomeni di tutti i tempi non rivelano per nulla il caratteristico assetto di Roma al tempo della giovinezza di Cesare, non bastano a spiegare quel fatto singolare. XIII. LA PATRIA POTESTÀ. Per tornare alla questione toccata da Cesare, la patria potestà tanto nel fatto arbitrariamente eseguito, che nel diritto meditato con intenzione di sapienza e di umanità, sia che questo proceda spontaneamente dal naturale, o si fissi con arte nel civile, è argomento vetustissimo. Attraversò tutte le civiltà, sempre di volta in volta modificandosi, sempre accennando all’intento del meglio, ma senza mai risolversi in una sentenza postrema, che appaghi tutte le coscienze, tutti i pensamenti dei savii e faccia scomparire tutti i dubbii. Anche oggidì presenta i caratteri di un problema di cui la soluzione attenda il futuro e minacci di rimaner perpetua. Dalle leggi delle dodici tavole nelle quali appare che la collaborazione di Ermodoro, esule dalla Grecia democratica, indarno valse a placare l’aristocratica e spietata scienza dei giuristi romani, alla odierna legge italiana, i giureconsulti intorno a molti e pericolosi problemi appaiono ognora in disaccordo. Quelli tra loro che innanzi ad altro interrogarono il diritto naturale e, inspirati da una filosofia fatta troppo credula dal sentimento e dall’amore, trovarono nel sangue paterno tutte le guarentigie alla possibile felicità dei figli, mostrarono di non conoscere tutta la terribilità del cuore umano, della quale i fenomeni vedonsi sovente anche in coloro che adempiono ai doveri di cittadini intemerati, che passano ilari al cospetto del codice, inutile per essi, che persino meritarono ed ottennero premii dal pubblico riconoscente. Chi dalla natura e dalla condizione e dal diritto tiene un potere, facilissimamente, sia nella sfera della pubblica azione che in quella della vita privata e domestica, è tentato di trasmodare alla tirannia. Quei sapienti innamorati sentenziarono essere eccezione il padre che non ama i figli; ma non pensarono che nell’amore stesso che si manifesta in loro al cospetto o della beltà delle figlie o dell’ingegno dei figli, è deposto il più delle volte un germe occulto di egoismo, il quale esploderà tantosto che a quella beltà tenti accostarsi alcun mortale non ricco; o quell’ingegno, tratto irresistibilmente a coltivare la non doviziosa arte, diserti il foro, o il nosocomio, o il trabucco. Quante fanciulle cui la beltà fu dono sventuratissimo, vennero costrette dal buon padre a concedere la mano ad uomini odiati, de’ quali la ricchezza e la condizione privilegiata rendevano amabilissimi a lui solo, e vennero dannate a infelicità perpetua, e di cosa in cosa, persino a cercare nel peccato un lenimento all’affanno. Chi sa quante volte dietro al sacerdote benedicente l’infausto nodo, la sposa desiderante e piena la fantasia di formose apparenze, vide sorgere lento lo spettro voluttuoso dell’adulterio, iridiscente come le ali di Lucifero, e irridere al rito, quasi aspettando un avvenire vicino. Il furore di dominio spesso dissimulato dalle più benigne apparenze, la gelosia inesorabile nell’amministrazione e nel godimento dei possessi, mantennero sovente i figliuoli quasi poveri nella casa del ricchissimo e fastoso genitore. Lo spettacolo di uomini non ancora _viri_ a quaranta, a cinquant’anni, tenuti in continua ed umiliante soggezione del padre; e a tale età ritraenti uno scarso sussidio non proporzionato alla casalinga dovizia, è caso frequentissimo e volgare. Quel pensatore sommo che fu Leopardi, al quale forse i giustissimi sdegni erano di soverchio esacerbati e incruditi dalla maledetta condizione del suo corpo e della salute, la quale gli fece veder la vita attraverso a un prisma di troppo tetra luce, ebbe a dire che nessun uomo ci addita la storia, il quale sia stato operatore di grandi e gloriose cose, vivente il padre. Alessandro, Cesare, Napoleone, egli diceva, sfolgorarono indipendenti da ogni predominio paterno. La sentenza dell’inclemente filosofo parrebbe varcare il confine del giusto; ma anche nell’esagerazione, quasi in procella, s’agita pur sempre e appare il vero. Se non che Leopardi viveva in tempi e in un paese dove alla patria potestà la legge concedeva diritti ancora eccessivi. Nelle Romagne e in Toscana il padre avea diritto all’usufrutto dei beni peculiari del figlio fintantochè questi non avesse raggiunta l’età d’anni trenta; il che significava che un uomo a quell’età già matura era ancora fanciullo; e sì manifesto errore volevasi mantenere dai giureconsulti di quelle regioni quando avversavano i redattori del nostro Codice odierno. Leopardi imprecava alla caparbietà senile dei giuristi i quali, scelti fra gli assai provetti, e portando nella redazione di codesta parte del codice, quel dispregio che in un certo ordine di cose i vecchi hanno per i giovani, congiurarono a rendere in essi inutili quelle facoltà d’azione che dai venti ai trent’anni negli uomini di mente sana sono potentissime. La storia ci apprende che Leopardi aveva ragione. Alessandro a vent’anni aveva già sottomesse la Cilicia e la Pamfilia e tagliato il nodo gordiano; a trenta era compiuta per lui ogni possibile conquista. A Pompeo ventiquattrenne era stato concesso l’onore del trionfo; Annibale appena ventenne imperava e teneva in temuto dominio l’esercito cartaginese sebbene fatto d’uomini di molteplici razze e di varie nazioni. Che se balziamo ai tempi moderni, Gastone sotto le mura di Ravenna moriva di spingarda a ventitrè anni ed era già da tempo governatore della Lombardia e generalissimo delle truppe francesi; Bonaparte poco oltre il quinto lustro aveva già vinte dodici battaglie, annientati cinque eserciti, disarmato il re Sardo, atterrito Ferdinando di Napoli, umiliato Pio VI, rovesciate due repubbliche, e a trent’anni già console onnipotente di Francia preparavasi all’universale Impero. Pitt e Fox a ventiquattro anni erano già antagonisti, e se il primo sì giovane governava sapientissimo la _positiva_ Inghilterra; Fox già tuonava nel Parlamento con quell’eloquenza invadente e invitta che dal suo tempo e dalla sua patria, per trovargli un riscontro, ci fa risalire alla Grecia e a Demostene. Che se dal campo agitato dell’azione digrediamo alle sgombre sfere del pensiero; Leibniz a 17 anni insegnava calcolo sublime a Gottinga; Pascal ventenne inventava la macchina aritmetica; Gœthe, compiuto appena il quarto lustro, aveva già scosse le menti ed agitati i cuori di tutta Europa e introdotta ovunque la moda del suicidio; Beccaria, Filangieri, Romagnosi, tutti assai prima del trentesim’anno, avevano compiute le opere per le quali sono immortali. Ma bastino le citazioni, chè a proseguirle si colmerebbe un volume. Codesta digressione relativa alla patria potestà considerata generalissimamente nei codici moderni, potrà forse parere inutile; pur ne giova a tener conto del progresso del pensiero da Roma antica a noi; perchè, se ancor sorvivono molti elementi che sono in contrasto colla natura, colla ragione e colla giustizia assoluta; tuttavia, al confronto di tutti i codici dell’evo moderno e del medio, la legislazione romana rispetto alla _patria potestà_, appare veramente abnorme e monstruosa e incredibile. Incredibile tanto più se si considera che Roma è la patria antichissima della scienza del diritto; che questa le comunica un carattere suo proprio, essenzialmente storico; che essa fu ed è la madre di tutte le legislazioni del mondo civile; che vive ancora ed è ancora la massima parte di tutti i codici d’Europa. La quarta legge delle dodici tavole spettante alla patria potestà è la ferocia belvina convertita in scienza e consolidata nel diritto civile. I figli in Roma erano cittadini, in faccia agli altri uomini persone, al cospetto del padre schiavi e cose; nè mai diventavano maggiorenni. Il legislatore dei Romani, scrive Dionigi d’Alicarnasso, diede al padre ogni potestà sui figli, per tutto il tempo della loro vita; tiene il diritto di sostenerli in carcere, di sferzarli a morte, di venderli. Anche console e proconsole o duce d’eserciti e trionfatore, il figlio era pur sempre sottomesso alla monstruosa potestà del padre. Della spietata aristocrazia domestica non v’ha esempio in nessun’altra legislazione, nemmeno nelle più truci consuetudini delle barbare genti. Giustiniano, sebbene al suo tempo la patria potestà fosse ridotta a misura più mite, diceva con dolore: — Non vi sono uomini al mondo, che abbiano tanta potestà sui figli come noi. — _Liberis jus vitæ_, così è fermato nelle dodici tavole, _necis venundandique potestas patri esto_; e soltanto in un momento di luce, che per quei cupi legislatori potè parere serena, fu statuito che: _Si pater filium ter venundavit, filius a patre liber esto_. Eppure Cicerone, il primo dell’antichità che offra i caratteri dell’uomo e del pensatore moderno, il solo che in Roma non renda il fenomeno dell’irremovibilità latina, il solo che dal tormento del dubbio scientifico sia tratto a interrogare la ragione pura, lodava le dodici tavole; e chiamava incondito e ridicolo ogni diritto civile fuorchè il romano. Ma Cicerone era patrizio; e l’ordine privilegiato al quale apparteneva facea velo al giudizio anche di quel sommo. Nè si creda che l’atroce legge rimanesse lettera non esercitata; Bruto, Cassio, Fulvio, Fabio Eburno, Scauro furono tutti sacrati a morte dai padri furiali. Lo storico Paolo, vissuto a Roma, testimoniò che la risorsa ordinaria dei padri versanti in angustie pecuniarie era di vendere i figli. Dopo tali enormezze legali, può sembrar mite il diritto che avevano i padri sui beni dei figli, derivassero loro o per eredità della madre e dei parenti, o per guadagni da essi fatti in particolare, o per le ricche prede che portavano dalle terre dove avevano militato. Al tempo di Cesare una serie numerosissima di leggi le quali, promulgate in trecento e più anni, portavano il nome di chi le aveva proposte e fatte accettare in Senato, in molta parte modificarono e attenuarono quelle delle dodici tavole; e per quanto riguardava la patria potestà, lasciando sopravvivere la tirannia aristocratica del padre nei diritti di fustigare, di uccidere, di vendere i figli, fu statuito ch’ei non potesse avere più alcun diritto su quello che essi avevano acquistato in guerra. A provocare, come già udimmo da Cesare, l’ardore guerresco dei giovani, avvisatamente i giuristi avevano resa loro incresciosa la vita domestica; chè il militare in terre lontano dove il valore procurava gloria e ricchezze li sollecitava al campo. Gli acquisti fatti dai figli in guerra furon denominati _Peculio castrense_. Pur se la legge vigeva, non sempre veniva osservata; chè tutti gli altri diritti lasciati ai padri, troppo spesso rendevano irrito quel solo stato concesso ai figli. Bastava una minaccia del padre avaro e tiranno, perchè i figli si lasciassero rapire tutto quello di che la legge li costituiva in assoluta proprietà. Non tutti i padri erano efferati, molti erano giusti, alcuni miti e clementi. Ma se un’indole perversa governava la volontà paterna, il figlio poteva bensì ricorrere al pretore e farsi patrocinare dal più eloquente oratore; ma la sentenza favorevole al figlio veniva poi ad infrangersi contro all’inesorabile petto del padre, il quale colla morte poteva togliere al figlio la proprietà che il pretore gli aveva dato colla legge. Ed ora in un fatto romano famigliare vedremo la riprova di queste asserzioni storiche. XIV. MARCO SCEVA. Dalla casa degli Sceva che sorgeva sul colle Palatino, alle none di luglio dell’anno 690 _ab urbe condita_, usciva un giovane di strenue forme. Sebbene clamidato mostrava nudissime le braccia fino al sommo. Il volto, la trasparenza della pelle, l’occhio lucente che mandava un raggio ingenuo, ad onta ch’ei paresse turbatissimo, rivelavano che quel giovane appena poteva aver varcato di due o tre anni il quarto lustro. L’interno soliloquio di un animo affannato appariva nei movimenti concitati di tutte le membra, e più nelle braccia, nelle quali guizzavano i muscoli come se, provocato a vendetta, ei percuotesse fieramente qualcuno. Quel giovane era Marco Sceva figlio di Publio; quello Sceva che cento anni dopo, già fu detto, gli endecasillabi di Lucano dovevano consacrare all’immortalità. Certamente men grande di Cesare, meno di Pompeo, men fortunato dell’uno e dell’altro, fu tuttavia ancor più valoroso di quei due valorosissimi, e come quelli non sono stati, intemerato e santo e intatto dalla gloria tentatrice. Il poeta dei tempi di Nerone, entusiasta d’ammirazione, lo tramandò ai posteri perchè questi, nella immane corruttela romana, vedessero un eroe completo senza innesto di colpa. Ma provoca una strana meraviglia il fatto che quel giovane di natura sì generosa, sì forte, sì intera, procedesse da un padre che persino la Roma inquinata di allora dispregiava ed abborriva, quantunque fosse uomo senatorio e consolare e fosse ricchissimo e avesse militato con Silla, con Sertorio e con Lucullo non senza riputazione di valoroso. Il Cenci di Roma moderna può dar qualche imagine della natura di quel Cenci antico, odiatore di figli, tentatore di figliuole. Marco Sceva, disceso dal Palatino, d’una in altra via, s’incamminò alla sacra, e da quella piegando al foro e radendo le taberne, accelerò il passo al fornice fabiano, e così, venuto alla Suburra, si fermò innanzi alla casa-tempio, come l’appellavano i Romani, del divo Cesare. Nominossi all’ostiario, il quale rivolto ad altri servi, lor disse riferissero a Cesare che Marco Sceva desiderava parlargli. Fu introdotto. Cesare sedeva nella Biblioteca, elegante, azzimato, profumato, quasi stesse in mezzo ad un circolo di giovani dame. Si alzò all’apparire di Sceva in sulla soglia, gli mosse incontro con abbandono cortesissimo, lo salutò, gli prese la mano, e: — La tua mano è piombo, o Marco; tu puoi tentare a certame l’immortale amante di Dejanira. Ma quali cure ti mandarono a me? — Orribili cure. Come sappiamo erano quelli i giorni, in cui, come in onda bollente, si sommoveano e riscaldavansi i progetti, le trame, i disegni di Catilina e degli altri congiurati. I giorni in cui nella casa di Precia, famosissima cortigiana di Roma, quella all’influenza della quale ricorse lo stesso Lucullo per ottenere il governo della Cilicia, adunavansi i giovani del più alto patriziato romano, eccitati ognora dal febbrile Catilina. I giorni in cui le altre cortigiane, la Chiledone mantenuta da Verre, e la Flora pagata da Pompeo, e la Lesbia e la Lice e la Cloe indorate dall’indebitato Antonio, console con Cicerone, andavano rinfiammando gli assidui loro visitatori all’impresa di rovesciar la Repubblica; e Sempronia faceva altrettanto; e la nobilissima e perversa Fulvia teneva da Quinto Curio, cieco d’amore, tutti i segreti della congiura; e accoglieva Lentulo, amatore sostituto e non riamato, e lo sollecitava e lo faceva ardere d’ira, e gli sosteneva il coraggio, sebbene avversa a quelle mene, in segreto, e traditrice, poi in palese. Cesare, sapendo tutto questo, credette, al primo, che Marco Sceva fosse venuto a lui per interrogarlo intorno a quell’impresa — ma Sceva: — Orribili cure, proseguì, accelerarono i miei passi alla tua dimora. — Ma quali cure? — I tormenti di Dite son refrigerio in paragone di quelli a cui soggiacio nella mia casa maledetta dagli Dei immortali. — Narra. Affannato di troppo mi sembri tu. Io, tranquillo, forse ti potrò giovare di consiglio. Qualche cosa già so. — Tu sai, divino Giulio, ch’io militai sotto Pompeo contro Mitridate. — Non v’è romano che non lo sappia. Non v’è romano che non conosca le prove di valore mirabilissime che hai date. La corona di quercia e la murale e la lorica che il gran Pompeo ti ha donato, ne sono i testimoni. — E sia; ma la onesta e lecita contentezza che mi verrebbe da tali premj e dagli applausi che, pur nel più fitto e nei più fieri pericoli della mischia mi vennero sovente dai miei commilitoni, tutto scompare e si trasmuta quasi in uno scherno crudele della fortuna, se penso alla mia condizione di mortale disperatamente infelice. Quando fu debellato il re, e Pompeo non potendo andare nell’Ircania e al Caspio per la moltitudine dei serpenti velenosi, si ritirò nell’Armenia piccola, a lui furono condotte tutte le schiave del voluttuoso Mitridate. Pompeo non le accolse, ma pensò invece di rimandarle ai loro genitori, essendo per la maggior parte figliuole di capitani e di primati; e comandò questo; ma Demetrio, il liberto e maggiordomo suo, il Demetrio ladrone come tu sai, e già ricco sfondato, del quale tu conosci la natura stranissima e prepotente, che è più padrone del padrone, onde si fa lecito di rimproverarlo spesso e aspramente, e Pompeo ne ride e lascia dire e fare, perchè è innamorato del liberto, Demetrio adunque, vedendo passare come in processione la lunga schiera delle più sfolgoranti beltà dell’Asia, apertosi a me che gli stava presso in quel momento: — Bene fu inspirato Silla dagli Dei, quando disse Pompeo esser Pompeo Magno, ma asino Magno io lo proclamo adesso, e se egli rifiuta questi doni del sommo cielo, doni di pregio inestimabile, io me ne terrò due o tre; chè di tante bellissime ci sono sempre quelle che avanzan le altre; e verrà tempo, lo giuro per gli Dei, che invoglieranno anche Pompeo. Prendendomi allora per mano, scegline pur tu un pajo che ti faran bene. Te ne faccio un dono. Pompeo non oserà parlare. Tu sai, Cesare, che Demetrio quasi più famoso del padrone ama ed odia pazzamente sempre; quando ama protegge e darebbe il sangue per il suo protetto; quando odia perseguita senza posa, e a tale che seppe rendere odiosissimi al troppo credulo Pompeo persino alcuni dei suoi più cari amici. A me toccò in sorte di essere assai ben veduto da lui, onde, rapacissimo qual è, e nel punto stesso anche assai generoso, chè tanta ricchezza addensata in pochi anni, gli dà una gioconda e benefica ebbrezza al capo, mi ricolmò spesso di doni. Di quella schiera di beltà celesti tornanti alle case, ei ne trattenne sei. Pareva fosser più paghe le fanciulle che rimanevano, delle altre avviate alle case paterne, case non regali e certo silenziose dei tripudj onde Mitridate rallegrava i ginecei. Ancora invitato da Demetrio a trascieglier le donne mie, ne vidi una di sì attraente bellezza ch’io ne fui preso di colpo e mi appagai di lei sola. Essa parlava greco, e comunicava alla naturale soavità delle vocali onde l’idioma d’Omero è sì musicale, un suono particolare che le rendeva ancor più soavi. Richiestala se non le sarebbe dispiaciuto viver meco, chinò il capo arrossendo; quel rossore valse per mille parole, onde in me l’amore di cui era già sorto il germe a un tratto si fe’ gigante e ardentissimo. Condottala alla mia tenda, mi recai poscia con Demetrio, che ciò volle, a visitare il castello tenuto in custodia da Stratonica e dove erano riposte immense ricchezze. Pompeo il giorno prima non prese che quei tesori che gli pareva sarebbero stati d’ornamento ai templi e di maggior pompa al trionfo. Però saputosi questo da Demetrio, volle veder meco Stratonica a cui Pompeo avea lasciato ogni cosa; e le ingiunse in suon di minaccia, ch’egli si voleva prendere quel che Pompeo aveva rifiutato. Demetrio parlò così deliberato e fiero, che Stratonica in prima non fe’ motto; poi, dopo qualche silenzio: ecco, prendete, gli disse. E Demetrio in vasi d’oro e in monili e in gemme, si pigliò le cose che più gli piacquero, e caricatone un carro e il proprio cocchio, mi volle condurre alla mia tenda dove, pregandomi a ricevere qualche segno dell’amor suo, depose alcuni di quei vasi d’oro e mi diede assai gemme; ma non volendo io per nessun conto accettare, salì in furore che pareva sincerissimo e minacciommi dell’odio suo. — Io desidero la vostra benevolenza, gli risposi, ma questa ben mi era sufficiente anche senza tali ricchezze. Si rasserenò Demetrio e parea felice d’avermi arricchito. Riposando la guerra, con queste ricchezze e con quella fanciulla più che divina, tornai a Roma, dove credevo che le due corone riportate e la lorica argentea a me donata da Pompeo mi avrebber fatto meno odioso al padre. Ma gl’infernali Dei parvero tenere in feroce dominio la casa mia ben più di prima. Il padre, coprendomi di contumelie e chiamandomi ladro più di Verre, pur si tenne tutto quanto io gli veniva mostrando, e quando adocchiò quella mia fanciulla, tremai veggendo come nel suo occhio lupigno balenasse un raggio fatale acceso dagli estri di Venere. Da quel giorno è un perpetuo litigio; da quel giorno le grida onde il padre copre le mie parole, sebbene calme, tremende, sembrano aver converso in un antro ferino la vetusta e nobile casa degli Sceva. — Ma perchè conducesti colei sotto al tetto paterno? ma non avevi amici in Roma dove celarla? — Ebbi fiducia, ti dico, nelle corone avute e nel dono di Pompeo; sperai che per questo il padre sarebbe venuto a più miti consigli; pensai che già egli scende per l’undecimo lustro, e gli umori acri e guasti del sangue onde spesso ei si corruccia e geme, vanno per lui accelerando il lavoro delle Parche. Ma egli tentò Gordiene mia che lo respinse, fierissima; però la fece chiudere nell’ergastolo dove in oscena mescolanza gli schiavi tumultuano in perpetue liti; maschi, femmine, fanciulli. Bensì atterrai la porta dell’ergastolo e uno schiavo che colsi presso alla fanciulla da lui accarezzata, di tal colpo lo colsi che cadde rovescio e più non sorse. Ma accorse il padre avvisato dai perfidissimi servi e colà fecela rinchiudere. Un litigio orrido avvenne tra me e lui. Ei minacciò, io minacciai; ed ora tremo di me stesso, tremo di lui, chè io sento, o Cesare, la tentazione del parricidio. — Bada, Marco, di non ripetere mai più queste parole scellerate. Pensa che nell’otre chiuso e gettato al mare, ospiti il gallo, il gatto, il serpe e il pavio non fan buon giuoco. Tralascio l’infamia. Tu sei devoto agli Dei immortali di Roma; il tuo sangue dee scorrere per lei sola e per la gloria che t’irradierà fin nei beati Elisi. Te consiglio intanto a ripetere a Catilina tutto che mi hai detto; egli pensa a far distruggere la legge che dà ai padri tanta possanza sui figli. — Lo so; già m’affiatai più volte con Catilina..... Oh la fortuna sorridesse davvero all’audacia.... — Comprendo a che accenni; pure io reputo intempestiva l’impresa di Catilina; nè sarò mai per approvarla. Tuttavia, ripeto, versa in Catilina tutto intero il tuo affanno; da questo nuove, inattese, grandissime cose nasceranno. Cesare si alzò, e stringendo fortemente la mano a Marco Sceva: — Ascolta il mio consiglio, ripetè. Va tosto a Catilina. Sceva partì. Cesare voleva la congiura, voleva che la Repubblica qual era allora andasse sossopra; voleva che tutti gli ordini si tramescolassero e si confondessero in un’alluvione rinnovatrice. Però consigliava e sconsigliava, diceva e non diceva, faceva di fuga passare innanzi allo sguardo altrui, i più audaci e risolutivi disegni. Ma operava di queto e cauto, perchè vedeva l’impresa pericolosa e incertissima — e, rimettendosi a sedere: — Codesto giovane forte, ardente, infelicissimo, già glorioso, infiammerà tutta la gioventù romana a inaudite imprese, e gli Dei immortali provvederanno. XV. GLI ERGASTOLI PRESSO GLI ANTICHI ROMANI. Gli ergastoli, o luoghi di lavoro forzato, presso gli antichi Romani, dipendevano dalla giurisdizione privata. V’erano gli ergastoli urbani e i suburbani o campestri. I primi stavano nei vasti sotterranei dei palagi patrizj; gli altri presso le ville e nelle campagne. Gli schiavi e i servi colpevoli venivan chiusi nei suburbani; e durante il giorno, trascinando le catene, e sotto l’assidua minaccia della verga del servo custode, lavoravano i campi. I non colpevoli empivano i sotterranei dei palagi romani. Attendevano a lavori diversi: le donne a tesser lini, a cucire saj, a listar clamidi e toghe, ad apprestar pepli; gli uomini a lavorar calcei e solee, a tingere del colore del pesce triglia, che latinamente chiamavasi _mullus_, il mulleolo lunato ed il cucirvi sull’estremo il C, significante il numero centenario dei Romani: a preparare i calcei puri o _peroni_ per la folla dei servi e degli schiavi. Era interdetto ogni sorta di lavoro che desse fragore e potesse turbare i tripudj dei lucidi triclinj ove sdrajavansi i padroni, o i profondi silenzj delle camere cubiculari. La giovane Gordiene era stata chiusa dal padre di Marco Sceva nel sotterraneo appunto del suo ampio palagio. In quel vasto antro dove s’affollavano uomini e donne a centinaja, gemeva Gordiene e malediceva al padre di Marco e supplicava gli Dei perchè mandassero il giovane valoroso in suo soccorso. Ma colà invece discendeva il padre a vederla, a parlarle, a tentarla, a minacciarla; e sovente se la faceva condurre nelle segrete stanze, dove colla violenza avrebbe soddisfatto alle brame procaci, se essa la prima volta levando da una guaina d’oro che teneva nell’aureo cinto una breve lama ricurva non avesse così parlato: — Questa, disse al vecchio Publio, è intinta di veleno d’aspide; tu mi puoi trafiggere a morte; ma tu cadrai senza vita prima di me, come fossi colto dal fulmine, se appena di un punto ti sfioro la pelle. Re Mitridate, maestro in preparar veleni, diede un tal dono a me ed a Stratonica divina, perchè fosse custodia alla beltà nostra, e sgomento alla violenza dei tentatori. — Il giorno in cui Marco Sceva fu alla casa di Cesare, Gordiene era stata insidiata dal padre di lui, ed ella, come sempre, avealo respinto e atterrito col funesto splendore dell’avvelenata lama. Però il padre di Marco, temendo e considerando che la via della violenza gli era interdetta, ricorse alle blandizie, alle promesse, giurò alla fanciulla l’avrebbe rimessa in libertà e resala degna d’essere invidiata dalle più nobili dame romane; ma Gordiene era incrollabile; e alzando la voce e facendo vibrare in suon minaccioso e beffardo il suo greco accento: — Antepongo, esclamava, di essere schiava del figlio tuo, che libera con te e per te. — Marco, quando venne al Palatino per recarsi al palagio di Catilina, ritorse il passo e tornò al palagio paterno. FINE DEL PRIMO VOLUME. INDICE DEL PRIMO VOLUME. PRELUDIO _Pag._ 7 I. Il trionfo di Pompeo e l’adolescente Cesare » 17 II. Laja pittrice e il ritratto di Cesare » 33 III. Cesare, Sallustio e Catilina » 55 IV. Attica accademia di musica e poesia nel palazzo dell’eminente Sempronia » 75 V. L’ira di Cetego » 101 VI. Aurelia e Catilina » 121 VII. La morte di Cetego » 137 VIII. Morte d’Aurelia » 157 IX. Sempronia e Catilina » 187 X. I giuochi del Circo Massimo » 197 XI. Incoronazione di Cesare nel Circo Massimo » 223 XII. Sallustio e la Catilinaria » 243 XIII. La patria potestà » 261 XIV. Marco Sceva » 277 XV. Gli ergastoli presso gli antichi Romani » 293 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE, VOLUME 1 (OF 2) *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.