The Project Gutenberg eBook of La giovinezza di Giulio Cesare, Volume 2 (of 2) This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: La giovinezza di Giulio Cesare, Volume 2 (of 2) Author: Giuseppe Rovani Release date: January 24, 2025 [eBook #75197] Language: Italian Original publication: Milano: Felice Legros, 1873 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE, VOLUME 2 (OF 2) *** LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE SCENE ROMANE DI GIUSEPPE ROVANI VOLUME II MILANO LEGROS FELICE EDITORE Via S. Sofia, 29 M DCCC LXXIII Diritti di traduzione e di riproduzione riservati all’Editore. Tutti i diritti di proprietà letteraria riservati all’Editore a norma della Legge 25 giugno 1865. N. 2337 Tip. già D. Salvi e C., Via Larga, 19. I. GORDIENE. Eran corsi più giorni che Marco non vedeva Gordiene; e come al mattino era disceso per accostar l’orecchio alle porte del sotterraneo, e invitare Gordiene, nominandola, a fargli sentire il caro suono della sua voce, così non potè trattenersi in quell’ora del _post meridiem_, dal ripetere quella visita; e, di volo attraversata la casa e disceso, si soffermò innanzi alle porte dietro cui stava chiusa la fanciulla sua, e così sostando, pareva ripetesse quel vetusto motto: _Si deam nequeo, templum adoro_. Ma data e ridata e ripetuta più volte la consueta parola, non udì rispondere la voce consueta. Stette in una terribile apprensione. Un turbinìo fracassoso di voci diverse echeggiato dalle volte di quegli antri risuonava fino a lui; ma il suono ch’ei voleva e sapeva pur distinguere in quella sì romorosa confusione, non uscì. Risalì, venne al cavedio; era affollato di clienti, di schiavi e servi. Chiese del padre, i servi erano muti; chiese di Gordiene, i servi erano muti; e strettisi in ischiera, si allontanarono da lui ritraendosi in un angolo. Se non fosse stato Marco dalle braccia di Milo, i servi avrebbero osato avventargli ingiurie, chè il tetro Publio ognora li eccitava contro il figlio, come chi aizza de’ sanguinari veltri ad assalire un passaggero sospetto. Ma essi temevano Marco. Questo, senza sgridarli, chè a ciò non aveva nè volontà, nè tempo, s’accostò alle stanze paterne, avendo dalla bocca stessa di Gordiene appreso come il padre le ordisse continue insidie. S’accostò; udì la voce del padre forte, aspra e roca nel tempo stesso; udì la voce di Gordiene alta, vibrata, minacciosa e tuttavia ancora attraente; udì un fremito come di grosse minugie sui legni cavi attrite dagli archi nel tono più basso; e la voce virile e la femminile staccarsi da quel fondo di note cupe, che non erano effetto d’arte musicale, ma espressione spontanea e non voluta di spavento e di terrore. Marco non pensò all’ingiuria che stava per fare al padre, non vide il pericolo proprio, chè contavansi a centinaja i servi che a un cenno del padrone potevano avventarsegli contro ed atterrarlo; non fu sospinto che dall’affanno e dalla disperazione; e d’un calcio atterrò le chiuse imposte della paterna stanza. S’affacciò; sostette immobile sulla soglia, guatò il padre che guatò lui. Strano a dirsi: ebbero sgomento l’uno dell’altro. Gordiene tenacemente appoggiata alla parete serrava nel breve pugno la ricurva lama, esiziale come la lingua del crotalo. Dei tanti schiavi ch’eran là, tre giacevano morti; e le loro facce belvine apparivan tinte come di smorto azzurro. Il veleno preparato dal re Mitridate con bava d’aspide e con miscele di succhi vegetali che, maestro espertissimo in quell’arte, ei traeva dalle erbe dei funesti suoi orti, uccideva di colpo, senza dolore, senza dar tempo a lamenti. Chiuso era il labbro di Publio; sol dagli occhi vibrava al figlio continui lampi di luce sanguigna. Poderoso appariva anch’esso ed era alto ed ampio, talchè uno spettatore non consapevole avrebbe creduto, osservandolo al primo, essere ancora più forte del figlio. Ma canuto egli era e gli occhi, sebbene fierissimi, aveva segnati di vene rossigne, e offese di rughe spesse e profonde le parti esterne; guardato più a lungo, mostrava una vita in decadenza: decadenza anticipata dai turpi costumi, da un morbo occulto, già antico e ribelle; dall’assenza non mai interrotta d’ogni mite affetto; da un livore implacato che lo faceva aspro a tutti, aspro e funesto a sè stesso. Al giovine Marco la considerazione di quanto aveagli raccontato Gordiene, fece tosto indovinar la cagione della scena che gli si presentava dinanzi; onde più non soffrendo di comprimere gli sdegni: — O degno d’esser nato in Argo, o Atreo o Atride; non umano padre. Da te pollute le due sorelle mie, tanto infelice io vivo, che perchè son morte avventurato mi debbo chiamare; chè la vergogna respinta invano dall’inerme virtù, seco nascosero sotterra. Nè ancora ti plachi, pur scendente a vecchiaja e dalla vendetta degli Dei inquinato nel sangue. Servi, che fate qui, perchè susurrate parole, mentre io parlo? Or sappiate che il padrone vi aveva condannati a morte. Tre vomitarono già l’anima dal vilissimo corpo. Io li conosco, e di voi tutti i più vili sono essi, chè di menzognere delazioni mi saturavano il padre a rendermigli sempre più odioso. Or ecco come li ha pagati; e non ancora nel vostro capo ottuso penetrò il vero? Guardate, non son ferite di morte queste; ma Gordiene stringe avvelenato il ferro, e una puntura lieve basta a dar morte. Tutto compresi. Il padrone v’ingiunse di disarmarla; e dei tanti che qui vedo, i più sarebber caduti l’un sopra l’altro, finchè alla fanciulla affranta sarebbesi estorta l’invincibile sua difesa; e inerme così, l’avreste gettata alle bramose mani del padrone ajutato dai pochi di voi superstiti. Questo vi dico, o turpi cani da preda, perchè vediate come vi compensa il padrone. Ma io sto qui adesso. — Tu parli, o sciagurato, tuonò Publio, come libero cittadino innanzi a cittadino libero; ma qui cittadino tu non sei. Io patrizio, io senatore, io re nella mia casa; tu schiavo e servo innanzi a me e cane come costoro. Però gli Dei ringrazia e l’indulgenza mia se delle sacrosante leggi non mi valsi fin qui per punirti qual meriti. — Obbedisci tu piuttosto alle sacrosante leggi, o violatore della legge. Rendimi quel che è mio; restituisci i vasi d’oro e il tripode d’oro aspro di smeraldi e di piropi; e questa fanciulla assai più preziosa di piropi e smeraldi; questa fanciulla che è mia, di me solo, e sulla quale tu non tieni diritti. Ella è schiava, tu dici, ed è; ella è cosa, anima non le spira nel petto; il diritto le invola l’umanità; dunque è mia come i tesori che portai dall’Asia, tesori che non hanno anima. Ma io ti citerò ai gradini del pretore. Cesare parlerà e consacrerà il tuo capo alla vendetta della legge ed al furore del popolo. Verre tu mi hai chiamato, più ladro di Verre; ma ben Verre sei tu nella tua casa e ai danni del figlio. Fremeranno i giusti, e per la prima volta sarà visto il figlio punire il padre. — Empio; e nelle parole tue già parricida. Oggi prima che tramonti il sole scenderai sotterra. È da troppo tempo che nel suo antro solitario il carnefice vive e mangia e beve inoperoso. — Io piuttosto sarò carnefice e indittore di morte qui. Ferisci costoro, o Gordiene; io ti proteggerò di me e del mio ferro; prostratevi in ginocchio, o servi chiamati all’assassinio dal padrone; e, sebbene non vi numeri a cento, siate ora ecatombe a questa donna mia. — Codesti sciagurati, parlò allora Gordiene, che qui giaciono, io ho ferito, o Marco, perchè con feroce violenza m’aveano già stretto il fianco. Costoro non si mossero; io perdono ad essi. Publio percuoteva intanto de’ suoi gravi passi il ligneo tabulato, aggirandosi intorno a sè stesso fremente, meditabondo, cupo, orrido a vedersi; poi si fermò, e dalla parete staccò l’antica larga sua daga che di là pendeva tra la lorica e l’elmo. — Contro di me ti avventa, o scellerato, gridò poscia. La tua giovane daga attraversi l’antica mia; e se più vali, squarciami il petto. Io ti assolverò dal parricidio. Ma vo’ che tutta Roma debba inorridire vedendoti, e fuggire la folla da te come da lebbroso immondo. T’avventa dunque e fa sprizzare augurali scintille dall’avido mio ferro. Vieni ti aspetto, o scellerato. — Non avverrà ch’io ti percuota, sebbene scellerato io sia; e sento di esserlo ora; perchè, standoti presso, mi par di assorbire tutto l’inferno dell’anima tua. — Ebbene ferirò io primo — e fe’ tre passi. Gordiene si staccò dalla parete dove immobile ancora si stava, e: — No, o padre di Marco, no — non ferire; ei si lascierebbe ferire — egli è tuo figlio; ed io sono la schiava sua; ma sua donna anche e sua madre e sua sorella e sua figlia. — E muori dunque tu. E di tratto, come fulmine non atteso l’ampia daga di Publio a lei penetrò nel petto tra le mammelle e il cuore. Cadde Gordiene; grida di terrore ed anche di pietà mandarono i servi. Marco Sceva rimase immobile come simulacro marmoreo; e la vitrea pupilla rivelava il subito deliquio dell’intelletto. E stette immobile anche il nefario padre, e un istantaneo lampo di pentimento gli attraversò l’anima buja. Ma si scosse Marco e si gettò a terra in ginocchio accanto alla morente Gordiene; e le prese ambedue le mani ancor calde; e s’inchinò su lei imprimendole un bacio sul labbro, di sotto al quale ei sentì tremare il bacio che non potè esser ricambiato, perchè lo spirito si esalava in quel punto da quella bocca soave che si chiuse per sempre. Un silenzio di tomba tenne quella stanza alcun tempo. Nessuno movevasi; sentivansi gli aneliti, e il più grave di Publio. Ma fu rotto il funereo silenzio dal giovane Marco; fu rotto da un suo grido disperato; e poi tornò a stringere all’affannoso petto le mani di Gordiene; e l’eroe futuro di Lucano, il titano di Farsaglia tremava, singhiozzava, piangeva come un fanciullo percosso. II. CESARE E PUBLIO SCEVA. Cesare, quando Marco Sceva fu partito, continuò per qualche tempo a leggere Polibio e ad esaminare gli ampj papiri cartacei dove l’amico suo Varrone aveva fin d’allora delineato la geografia e la topografia del teatro della guerra cartaginese. Ma, di tratto, smessa la lettura, come se lo avesse colto un improvviso pensiero, chiamò un servo, al quale ingiunse dicesse all’auriga di apprestare il cocchio. Il racconto che Sceva gli aveva fatto, il dolore profondo dal quale avealo visto oppresso, l’indole generosa ma pericolosissima a un tempo di quel giovine straordinario, gli fece pensare essere necessario di provvedere ad ajutarlo. Cesare volgendo ognora e rivolgendo in mente più disegni d’imprese future, sebbene senza un punto determinato, ed essendo oramai giunto a quell’età che più non gli permetteva di star pago di una celebrità la quale si chiudeva entro le mura di Roma, celebrità senza fasti e senza gloria, si aggirava spesso fra centurioni e militi, armeggiava con essi, con essi versava in famigliari colloquj, si rendeva amicissimi i più forti e valorosi, all’intento di averli seco, quando mai dal Senato gli fosse decretato di condurre la guerra a conquista di paesi; però gli parve essere fra tutti di altissimo prezzo il giovane Sceva, il quale era stato di grande ajuto a Pompeo in molti pericolosi dubbj delle battaglie. Di quei tempi la forza fisica e l’impeto del coraggio quand’era fuor d’ordine della natura comune, potea rendere un sol milite romano formidabile a intere coorti. Quando Niebuhr, non all’intento di scoprire il verissimo vero, ma per libidine di singolarità, e per avversione alla gente latina, negò alla ricisa molti fatti gloriosi dell’antica Roma eccezionali, e negò il valore prodigioso di Coclite e la possibilità di star solo al ponte contro le irruenti schiere degli Etruschi, mostrò di non comprendere nè Roma nè i Romani. Lucano, poeta, che certo era più grande dello storico tedesco, e viveva e scriveva in tempi ancora prossimi alla battaglia di Farsaglia, e dalla tradizione orale non interrotta avea trovato quel vero che Niebuhr invano cercò nella sua fantasia inzuppata di cerevisia, narrò di Marco Sceva un fatto di guerra maraviglioso, al pari e più di quel d’Orazio. Cesare dunque voleva gratificarsi quel giovane già fin d’allora singolarmente forte e coraggioso e glorioso fra i commilitoni, e dominarlo così da staccarlo da Pompeo. Uscì dunque in cocchio e recossi alla casa degli Sceva. Voleva parlare al padre di Marco, per tentar di placarlo e renderlo meno aspro al figlio. Discese alla casa; non vedendo l’ostiario, entrò senz’altro, e passato al cavedio, con sua meraviglia lo vide affollato di schiavi e servi e clienti, i quali pareva tendessero l’orecchio come in aspettazione di qualche notizia. Marco Sceva non era ancora uscito dalla stanza paterna, ed alcuni momenti prima aveano risuonato pel vasto palagio le voci alte, sonore, minacciose del padre e del figlio, e prima ancora le acute esclamazioni di Gordiene. L’ostiario aveva lasciato la porta senza custodia, chiamato anch’esso da quelle voci e da quelle grida accennanti a un litigio feroce. I servi si curvarono, in atto di soggezione, all’apparire di Cesare. I clienti di Publio gli si fecero incontro e gli baciaron le mani. — Che è avvenuto? — chiese loro Cesare — mi sembra di vedervi tutti in qualche sospensione. — I consueti contrasti tra il padre e il figlio — ma oggi siamo in timore del peggio — chè suonaron minaccie tremende, e grida e pianti femminili. — E non è uscito Marco? — Uscì e tornò, disse l’ostiario che sentì le parole di Cesare. Questi espertissimo delle passioni umane e dei desiderj impazienti che comunicano a chi le ha in petto, indovinò la cagione del ritorno di Marco. Disse poi all’ostiario: — Io m’inoltro alle stanze di Publio. — Non entrare, o Cesare, in tal momento. — È in tal momento ch’io debbo entrare. L’ostiario non rispose. Cesare lasciò il cavedio; entrò nelle stanze interne. D’una in altra passò a quella di Publio. Fermatosi al limitare, vide e inorridì. Guardò Publio appoggiato al dossale di un’aurea edra, guardò alla daga insanguinata che il vecchio aveva lasciata cadere sul tabulario. In sul primo affacciarsi, Cesare credette, ricordando Appio e Virginio, che Marco stesso avesse trafitta la fanciulla piuttosto che lasciarla in balìa del padre; ma la daga caduta e quella che ancor pendeva chiusa nella vagina dal fianco di Marco, gli rivelò il tutto; e l’orrore e la pietà furono in lui soverchiati dall’ira. Tacque tuttavia; chè Marco sempre inchinato sul corpo della sventurata, e sempre gemente, teneva il tergo rivolto a lui, ned erasi accorto della sua presenza. Nè Cesare pensò d’interrompere quel dolore con intempestive parole. Pure, dopo alcuni istanti, s’accostò a Marco e al cadavere della fanciulla. Marco si volse, vide Cesare; proruppe in nuove e più abbondanti lagrime, poi, ribaciata Gordiene: — Guarda, o Cesare, esclamò, appena il decimo ed ottavo anno a lei traeva la parca; ed ospite eterna degli Elisi ella è già; e più non udrò il suono della sua voce; nè più il raggio almo degli occhi suoi; nè più il sorriso, onde pareva mi schiudesse il lucido Olimpo. Chi la trafiggeva è lì. Guardalo, o Cesare. Ned ei sente orrore di sè; nè sa l’insulto che fece alla natura, che liberale componeva questa beltà sovrumana. Nè ancora ei pensa ad uscire da questa stanza maledetta. — Escine tu, gridò Publio allora, e per sempre; e che mai più io non ti veda. Fallo uscire da questa casa, o Cesare. Teco il conduci: chè se ancora qui s’indugia io lo consegno al carnefice, e così l’anima sua volerà più presto incontro all’anima della schiava. — Non ti dico parole, o Publio, esclamò Cesare; nulla vi ha che ora torni opportuno a dire, nè che tu sii degno di sentire. Roma ti conosce appieno; Roma conosce il tuo figlio appieno. Usciamo, o Marco. Questi s’inchinò un’altra volta a contemplare Gordiene, dalla quale non sapea staccarsi; le tolse il peplo insanguinato; levò dal tabulato la lama indarno esiziale che a lei, trafitta, era caduta di mano; tolse dal cinto di Gordiene l’aurea guaina di quel ferro e ve lo chiuse; e questo e il peplo portò seco, a commemorazione perpetua del suo sventuratissimo amore e di quell’orrido giorno. Muto si lasciò prendere la mano da Cesare che, muto, condusse Marco fuori della casa paterna. Salirono in cocchio; disse Cesare all’auriga: — Vola a Catilina. Il cocchio si fermò innanzi al palazzo di lui, ma l’ostiario disse a Cesare: — La nobile Sempronia mandò ora a chiamar Catilina. Se vuoi parlargli, è bisogno che ti rechi a quella casa. L’auriga piegò al palazzo di Sempronia. — Entra tu solo, o Cesare, disse Marco quando il cocchio si fermò. Troppo disfatto io sono, nè la mente può soccorrere alle mie parole. — Non occorre che tu parli; parlerà il peplo e il sangue. Io dirò il resto. Discesero, entrarono nel palagio; annunziati, misero il piede nella sala magna, dove Sempronia accoglieva a congressi, dissimulati da sollazzevoli apparenze, gran numero di cittadini. — Ave, Cesare, disse Sempronia. Ave, Marco Sceva. Ma che veste e che sangue rechi tu sul braccio? Tutti i seduti si alzarono: gli altri s’avvicinarono al giovane Sceva. III. MARCO SCEVA, CESARE E CATILINA NELLA CASA DELL’EMINENTE SEMPRONIA. In quel numeroso convegno oltre a Sempronia, v’erano la Dorestilla stata già amante di Catilina, e la ricchissima Babulca stancatrice di amanti indebitati; e la Gèmina, maschia d’aspetto e famosa di tenebrosa fama, nella di cui casa il bellissimo Bleso, inclito Endimione ognora tentato dalle Diane terrestri, era entrato vivo e, deposto nella sedia portoria, era uscito morto; e v’erano altre patrizie romane. La Precia cortigiana e la Flora e la Chiledone, sebbene care a Lucullo e a Pompeo e a Crasso, e soffiatrici instancabili nell’uragano che stava per prorompere, non v’erano. Le nobili dame peccatrici paganti si schermirono con arte atta a stornare ogni rancore, dal concedere l’accesso alle peccatrici pagate. Catilina, Lentulo, Quinto Curio, Cetego, lo zio dell’ucciso, più e più s’accostarono a Cesare e a Marco. Cesare parlò: — Sovente, o Catilina, con te e Lucullo, espertissimo di leggi e costumi, e Ruffo e Scevola giureconsulti, e Granio Flacco, il commentatore delle dodici tavole, abbiam discusso intorno al bisogno di far nuove leggi che surroghino le antiche e distruggano il fatto pel quale dobbiamo sottostare a molte che sono in manifesto contrasto coi presenti costumi, colle necessità che modi diversissimi di vita pubblica e privata, in sì lungo ordine d’anni andarono creando; e, quel che è più penoso a pensare e a dire, in contrasto colla natura, colla ragione, colla giustizia. «So che in codeste adunanze corre spesso il discorso intorno alle cose che riguardano la patria, alla quale tanto più volenterosi contribuiscono i cittadini quanto più ripetono la domestica felicità dalla sapienza delle istituzioni e dalla equità dei diritti. Tu conosci, o Catilina, questo giovine forte, questo decoro della casa Sceva, e voi tutti conoscete il padre suo. «Ma che vale al figlio s’ei provvede a rinnovare la gloria sacra degli avi e a coprire i vituperi paterni? «Leggi così strane e assurde e spietate abbiamo noi, che condannano la virtù ad essere la schiava del vizio; perchè se un figlio pei suoi meriti è caro agli Dei ed alla patria, tuttavia è decretato schiavo perpetuo del padre, anco se questi per le scelleraggini sue venga in odio agli Dei e torni increscioso ai cittadini. «Tuttavia la legge per cui nella famiglia il figlio non è uomo, venne in una sua parte riformata; ma le parti superstiti e antiche fecero inferma e impotente la nuova, se non per il diritto, per il fatto. Publio tenne per sè i tesori e le proprietà che questo amico mio, questo giovane forte e caro a Marte, si portò dalle terre dove militò gloriosissimamente. La legge nuova decretò non tangibile dal padre questa peculiare proprietà de’ figli; però il diritto castrense scolpito è in bronzo nel tabulario. Ma se il figlio al cospetto del padre non è uomo, se può essere manomesso e infranto dal padrone come una creta spregiata, percosso e ucciso come un cane vile, inutilmente splende la legge nel tabulario, quando il padre sia avaro, ladro, iniquo. Ben di cento e più talenti è il valore delle ricchezze che Marco recò dall’Asia; ma con esse portò seco un tesoro inestimabile, un tesoro vivo in cui spirava divina la Psiche, e di cui la beltà sovrumana era luce di cielo ai riguardanti, e a questo infelicissimo amico mio necessità di vita. Ora guardate quel peplo e quel sangue. Il padre gli uccise la bellissima fanciulla che seco aveva condotta a Roma; Gordiene ella si nominava ed era di greca schiatta, e stava già nella reggia di Mitridate, figlia a un primate. Non potendo toglierla al figlio, perchè la fiera virtù di lei gli rendeva impossibile manometterle il corpo di voluttuosa attraenza, ne fece scelleratamente uscir l’anima immortale, squarciandole il petto. «Ben è vero che, a memoria d’uomini, fatto così atroce e fuori dell’ordine umano non avvenne mai in Roma. Ma te vedo, o Verguntejo, quantunque senatore, tenuto in tanta povertà dall’avarizia paterna, che per esser pari al tuo grado, hai dovuto tanto aggirarti nell’aere circumforaneo dove gli usuraj, augelli di preda, attendon le vittime, che, sprofondato nell’abisso dei debiti, a stento riesci a salvar dagli insulti dei creditori la senatoria toga. Nè tu, Lentulo Sura, sei più avventurato; nè voi, figli di Servio, fratelli Sulla, siete netti dell’immonda lebbra; e Cabinio e Cornelio e Statilio che qui vedo, sebbene consiglieri del Consiglio militare e tenuti in altissimo pregio nel campo e nel fôro, son tenuti in umiliante soggezione dal paterno rigore. Ma tutti mi guardate attoniti e forse ascrivete ad impudenza maravigliosa se io Cesare parlo di debiti a voi, io il più indebitato di quanti sono in Roma, sebbene non abbia padre che mi tenga in tirannico governo; ma io parlo qui per esortarvi a proporre finalmente una legge che distrugga o modifichi codesto mostruoso abuso della potestà paterna. «Io so che avrete avversissimo uno dei più grandi Romani, Cicerone, il quale è di sì formidabile eloquenza che contorce anche i più forti intelletti a cambiare sentenza, pur se questa sia effetto di convinzioni antiche e profonde. Però, quantunque ei rechi tanto onore alla patria nostra, e si prostri sacerdote devoto all’ara della virtù, nessuno è più di lui fatale a Roma, perchè di nulla vuol sapere che assecondi il corso naturale dei giustissimi desiderj degli uomini. Nella sua casa, toccando della riforma delle leggi, egli, in mezzo a Scevola e Rufo e Lucullo e Crasso e me, fu il solo che, quasi invasato da un arcano furore, non consueto in lui, d’animo così buono e mite, chiamasse sacrilego il solo pensiero di cangiare le antiche leggi. È un funesto pregiudizio che, quasi a mostrare che non v’è perfezione nell’uomo, penetrò come verme in quel nobilissimo intelletto. E giacchè è a proporre una tale riforma di legge, un’altra ve n’è a proporre in apparenza non giusta come la prima, ma giustissima al postremo della questione. Ora parrà ch’io voglia parlare pel mio vantaggio, ma parlando per me, parlo per tutti. «Voi sapete come fra i legislatori greci sia altamente riputato Solone; sapete pure come esso, di colpo, saltando tutti gli ostacoli, abbia promulgata la legge dell’abolizione dei debiti. Ma io non propongo di ripetere il radicale pensiero di Solone. È troppo radicale, troppo eversore, e sembra varcare i confini della giustizia. «Però io proporrei una legge che riducesse i debiti alla loro terza parte. Ai feneratori non si toglie quanto iniquissimamente hanno acquistato; non si spoglia nessuno di essi, quantunque a buon diritto lo si potrebbe, chè la pecunia rapita, dovrebb’essere restituita dai ladri; ma siamo indulgenti anche coi ladri; si tengano quel che possedono. Soltanto si riducano i loro crediti. A questa legge avremo avverso Catone, potentissimo in Senato. — Egli è grande Catone, è austero, è di costumi incontaminati — ma è venuto nella sentenza che del proprio si possa far l’uso che si vuole e chi cerca danaro e n’ha di bisogno lo paghi anche senza misura di proporzione. Egli è per tale persuasione che il virtuoso Catone, imprestando, arricchì di molto. Vuolsi adunque proporre anche questa legge; ma tranquillamente, ma senza turbare l’ordine pubblico, ma rispettando severissimamente le persone di questi splendori di Roma. «Ed ora, perchè la presenza di Marco Sceva e le mie parole non possano far credere che codesto sia un convegno di troppo gravi e pericolosi intenti, mentre invece è una adunanza tutta devota a geniali esercitazioni, io e Marco partiremo, e Sempronia bionda e Gèmina bruna tornino a consolare dei loro canti questo Catilina che or mi si è fatto taciturno e fiero in vista.» E sorridendo, Cesare uscì, invitando Sceva, che se ne stava immobile e ognora attonito, a seguirlo. La notte di quel dì stesso, Catilina avea chiamato presso di sè Lentulo, Verguntejo, Quinto Curio, Manilio ed altri. Li condusse nei più intimi recessi del suo vecchio palagio. — Ho mandato a chiamar Cesare, loro disse. Verrà tra poco. Come già considerammo, le sue parole avevano altro intento che di mitezza. Egli si avvolse ad arte; ma qui tra noi pochi e forti e di acuto intendimento si manifesterà. «Il proporre le due leggi onde parlò, che significava? una rivoluzione vasta, profonda, lunga. Voi sapete come talvolta esso ama circondarsi di mistero come la Pizia. Rivoltare tutti i figli contro i padri, tutti i debitori contro i creditori, è spingere il naviglio in un mare di sangue più vasto, più procelloso di quel di Silla. E sì tremenda impresa m’invoglia. «Cesare facendo le lodi di Cicerone, lo disse il più funesto a Roma; col raccomandare di rispettarlo, volle dunque accennare che, a toglierlo di mezzo, sarebbe atto pietoso a Roma. Sterminato come scaltro è l’ingegno di Cesare; qui lo aspetto con impazienza.» Ma la notte procedette altissima e Cesare fu aspettato indarno. Nè mai più si accostò a quelle adunanze, nè il volle. Ei sollecitava gli intrepidi ad un’impresa tanto vasta quanto pericolosa e incertissima, per serbarsi poi intatto a raccogliere il frutto della audacia fortunata, o a non dividere la sventura che insegue e spegne gl’inconsulti. Cesare era d’ingegno presago e odorava l’avvenire. Ma un’altra ragione ci fu perchè Cesare non si recò alla casa di Catilina. IV. CESARE E SERVILIA. Già udimmo il sedicenne Cetego, nell’aurora sanguigna che illuminò la sua morte, respingere il lagrimoso vale dell’idolatrata Servilia, presago del suo non duraturo affetto; e nelle parole ultime ond’ei prese commiato dall’odiato Cesare, suonare il presentimento e della repubblica che per lui sarebbe perita e dell’amante che gli avrebbe involata; ci accorgemmo come Cesare, pur nel più cupo dell’orrida scena, adocchiando vagamente Servilia, già fiutasse i profumi di non lontane voluttà, intanto che nel sangue del sacro giovinetto prevedeva quello che sarebbe grondato dalle ferite ch’ei meditava infliggere al gran corpo romano. E lui vedemmo infatti dopo i trionfi del circo, penetrare col balsamo avvelenato d’insolite parole, il cuore e il senso dell’incauta fanciulla, e coll’alloro agonale che Servilia aveva imposto sull’astro simbolico che gli brillava in fronte, infiammare la stolta plebe romana e sgomentar gli astuti, i forti ed i veggenti. Ma codesti fatti lo salvaron forse da morte. Pareva che la fortuna più s’innamorasse di lui quanto più esso era in colpa. — E Cesare s’irrise dell’inflessibile fratello di Servilia, e lei piegò e vinse, pur nelle istesse case dei Catoni sino allora incontaminate. — Ma l’ardentissimo amore ch’egli mise in lei, fece sì ch’essa con suo pericolo accorse di nascosto ad avvisarlo che Catone sospettava di tutto, e però stesse in disparte dalle congreghe catilinarie. Se non che questa Servilia istessa, non si può congetturare per qual cagione, se non forse per le transitorie movenze del cuore umano, di repente, ad onta di sì profondo amore per Cesare, dalle case dei Catoni, fiore indarno cresciuto in quella rigida flora, passò a concedere le seconde fragranze nelle case dei Bruti, sposa quale divenne dell’ultimo discendente di Giunio. Ma tosto ella riarse di Cesare, e lui cercava ovunque, nella sua casa alla Suburra, nell’antico palagio, nel fôro, nel pretorio, nei comizj; e ancelle e famuli eran messaggeri assidui e portatori di lettere. — E intanto nacque Marco Bruto, l’ultima parola della repubblica romana. Cesare vide quel neonato, e, in guardarlo, sorrise a Servilia, che sorrise a lui. Quante varie fila annodava il destino di Roma! I Bruti, i Catoni, Servilia, Cesare; l’amore e l’adulterio preparanti la lotta della Repubblica e dell’Impero! V. LA CONGIURA DI CATILINA E IL SENATORE QUINTO CURIO. Di tutti coloro che si radunavano intorno a Catilina un uomo che fosse compiutamente onesto, un giovane che non fosse stranamente vizioso, se si eccettui Marco Sceva, una donna che non fosse cupamente adultera, perchè, come vedemmo, talune non paghe dell’adulterio semplice lo vollero insanguinato, non c’era. — E qui ci si offre una questione. — Come mai tanti uomini avvolti in così profonda corruzione s’avviavano ad un’impresa che ad ogni modo era grande? Grande era, perchè, pretermessi gl’intenti, diremo, individui che si riferivano alla radicale riforma del regime domestico, la repubblica allora procedeva di tal modo che a rovesciarla era sempre un bene. — Una cosa quando è pessima non può mai esser cangiata in peggio. — Non ordine, non sicurezza nè pubblica nè privata. — A vivere in Roma si era men sicuri di quel che si sarebbe a percorrere un bosco dove stesse in sull’arme una schiera di assassini. — Dunque Catilina ed i suoi procedevano ad una grande impresa dove per lo meno ci volevano le virtù del coraggio e del sagrificio. — Andavano ad incontrar la morte per un grande intento. — Eppure, ripetiamo, nessuno di loro era virtuoso. Or come questo si spiega? non è un problema storico, è un problema umano. — Tranne le eccezioni gloriose e delle quali l’Italia or presenta alla storia maraviglioso esempio, chi è nato alle imprese arrischiate e va imperterrito incontro ai pericoli, tiene dalla natura qualche cosa che è squilibrio di facoltà; le fortissime soverchiano al punto le miti che queste scompajono poi affatto, e non rimane che la terribilità dell’indole. — Nell’inazione codeste nature sono tremende e straripano feroci, onde sono infestissime a chi le avvicina. — È noto che i più coraggiosi soldati del primo Napoleone, quelli che davvero potevano chiamarsi fulmini di guerra, e per virtù dei quali il gran capitano tenne per tanti anni in pugno la vittoria, allorchè, durante le tregue e le paci, si riducevano ai patrj focolari, erano così infesti alle loro case che queste desideravano si rinfiammasse la guerra per liberarsi da quegli insopportabili flagelli. — E toccando di qualche figura celeberrima, del _Giovanni delle Bande Nere_, per esempio, non v’era uomo che, fuori del talento e del coraggio guerriero maraviglioso, nell’ordine delle doti private non fosse detestabile al pari di lui; eppure fu un grande eroe e l’Italia va gloriosa del suo nome. — Cessa dunque lo stupore del come i congiurati di Catilina avvolti in tanta depravazione, pur s’avviassero generosamente al campo, i cui fasti gloriosi al cospetto della storia non dipendevano che dalla fortuna. Tra i congiurati stati ammessi nelle stanze intime di Catilina e ai quali dopo il capo doveva esser dato il governo delle cose, v’era il senatore Quinto Curio. — Tra que’ dodici chiamati alla congrega segreta, allo sciogliersi di essa, erasi giurato di serbare il più profondo silenzio e di tenere a bada anche i giovani patrizj che già erano stati invitati da loro, col pretesto che per allora l’impresa era tenuta in sospeso, al fine di stornare tutti i sospetti; cogli altri giurò anche il senatore Curio. — È deplorevole come Catilina, uomo di fortissimo ingegno e profondo conoscitore d’uomini, non siasi accorto che taluni, e molti, non erano intellettuali affatto, nè capaci di fare alcun che di bene. — Tra questi v’era quel senatore appunto, uomo nullissimo e dedito all’ubriachezza. — Anche Sallustio lo dice. — Colui partitosi da Catilina, recossi come di consueto alla casa del senatore Messala, che fu poi Console, uomo turpe in ogni ordine di cose; e a tutte le ore del giorno e nella maggior parte della notte così putrido di vino, che quando i suoi clienti gli si presentavano, stavano in distanza da lui, perchè non ne potevano sopportare il vinoso fetore. — Ad ogni modo però, siccome era ricchissimo e possedeva il migliore falerno della repubblica, di notte molti patrizj si recavano nelle sue stanze e vi si trattenevano empiendo di continuo le tazze alle anfore indulgenti che stavano nel mezzo del circolo degli amici. — Quinto Curio venne dunque a lui e tante tazze tracannò che il suo discorso erasi ridotto al vaniloquio d’uno scemo; sorgendo dai sedili, mal si reggeva sui piedi, e in queste condizioni recossi come di consueto a visitare l’amante Fulvia. VI. FULVIA E QUINTO CURIO. Allorchè il senatore Curio fu sul limitare del palagio, vi si trattenne un istante ed il suo corpo fece quel movimento tutto particolare agli ebbri e che somiglia a quello di un pendolo capivoltato. Dei servi adunati nel cavedio la maggior parte stettero seriissimi e in silenzio, perchè sapevano ch’esso era l’amante della padrona ed esso medesimo quasi padrone. — I più stettero dunque serj, ma due o tre non poterono trattenersi e diedero in uno schianto di riso scandalosissimo. — Curio, barcollante, quantunque dignitosamente avvolto nel manto senatorio, si irritò di quelle risa, e: — Bestie del foro boario, gridò con accento incerto e come d’uomo apopletico. — Bestie del foro boario, perchè ridete? Domani vi farò fustigare a sangue. — E dal cavedio, barcollando, passò nelle stanze di Fulvia che soleva vegliare tardissimo. I servi stettero in silenzio finchè furono in presenza di Quinto Curio, ma poi che questi se ne fu uscito, tutti quanti, anche quelli che avean saputo contenersi, diedero ancora nelle prime rumorose risa. Quando il senatore fu nella stanza di Fulvia, la salutò come potè, e come potè si mise a sedere. Appiedi della fatale Romana, in atto di presentarle un vaso, stava una giovinetta schiava: — Per Venere e per Marte e per tutti gli Dei e Semidei del cielo e della terra, disse ebriosamente Curio, sai tu, Fulvia, che questa Alfesibene è oggi mai un portento di beltà? — Essa è degna di chi è la regina di questa casa; ma tu Fulvia, regina mia, dovresti regalmente farmi il dono di questa fanciulla creata dalla natura in un momento di giocondità e di afrodismo. Nelle tue mani essa non serve a nulla. — Cedila dunque a me. Se Curio avesse immerso un pugnale in petto a Fulvia, non le avrebbe dato spasimo maggiore. — Un brivido d’invida ira la percorse tutta; nulla disse però; sibbene quel fuggitivo istante bastò per odiare quella fanciulla e per sempre. — E la schiava, adempiuto al debito suo, si alzò e a un cenno di Fulvia, il quale fu blando e quasi soave, uscì dalla stanza. La faccia di Fulvia era di quelle che di primo tratto danno la sicurezza della perversità anche ai meno esperti leggitori dei volti umani. A Cicerone, stando al suo detto, riusciva ributtante; e non era sgarbo, che, presentandosi l’occasione, ei non le facesse. Curio era l’amante suo manifesto, ma da lei era disprezzato e da qualche tempo le si era fatto insopportabile; essa lo sagrificava ad un amante occulto tanto bello quanto povero, e che sovveniva di danaro. — Avarissima però qual era e questo pesandole assai, s’era più volte recata alla casa di Cicerone perchè volesse dar collocamento a quel giovine in qualche magistratura. Cicerone era _Quartumviro alla Moneta di Roma_, quel che oggi si direbbe direttore della Zecca, e Fulvia lo supplicò più volte perchè desse posto a quel giovine negli uffici della _Moneta_ appunto. — Fulvia, sebbene ricca, d’istinto naturalmente ladra, credeva che a quel giovanetto, versante tra l’oro e l’argento, potessero facilmente rimaner tinte le mani. Fulvia, quando la schiava fu uscita: — Quinto, disse, si vede che ti sei immerso nelle anfore del senatore Messala — se tutti somigliassero a te, davvero che il Senato parrebbe una vasta taberna dove il popolo di Roma più lercio va a tuffarsi nella torbida onda ad esso versata da Bacco e Sileno. — Codesta è indegna cosa. — Fulvia regina, non ti adirare.... Bacco più che Giove ed Apollo è sovente consigliero di alti pensamenti e..... (qui fece pausa perchè la lingua si rifiutava al suo istituto), e vo’ dire che Bacco infonde sapienza e coraggio. — Tu non sai, Fulvia, quello che io so, nè verrà mai dì che tu l’abbi a sapere: ovvero sia, no: errai, il dì verrà ed è prossimo che tu saprai tutto, ma oggi, Fulvia regina, sebbene io non abbia segreti per te, pure devi essere circondata dal più nebbioso mistero. — Hai misteri per me tu? ebbene domani all’ostiario e agli altri servi comanderò d’impedirti la soglia del mio palagio. Curio a quelle parole, pronunciate con asprezza, si riebbe dall’ebbrioso sopore, e: — Dimmi, che pensiero faresti tu di me, se io mancassi a un giuramento? — T’avrei in dispregio, se vi mancassi al cospetto degli altri tutti, ma io, da te, o Curio, debbo essere costituita in singolare privilegio. Chi ha misteri con chi dice d’amare, non ama. — E pronunciò queste parole con accento blando e carezzevole, ma udendo il quale chiunque non fosse stato Curio sarebbesi accorto del suo suono perfido e mendace e insidioso. Fulvia sapeva della congiura e provò anzi dispetto che Sempronia non l’avesse mai chiamata alle adunanze preparatorie; sapeva anche delle conventicole clandestine a cui erano invitati pochissimi; ma non avea mai sospettato che Quinto Curio fosse tra quelli; lo credeva uom dappoco e inetto a qualunque impresa; però si mise in sull’ale quando lo sentì a toccare del giuramento. E Quinto tra i vapori del vino e quelli dell’amore e per la debolezza nativa non seppe trattenersi, e: — Si sta maturando una grande impresa, ma a prepararla ha a compirsi un fatto pel quale anche tu, Fulvia, sarai vendicata. — Io? — Tu.... E Curio si soffermava come sonnolento. — Prosegui dunque, diceva Fulvia, o quasi gridava, scuotendolo da quel letargo. — Ah.... dunque sarai vendicata.... Più volte accesa d’ira m’hai detto che dal console Cicerone avesti a sopportar contumelia. — Ebbene? — Domani a quest’ora questo non sarà più possibile.... gl’inferni dei avranno già accolto il console. — Oh.... che narri? — Sì, domani Cicerone dev’essere ucciso nella medesima sua casa. — Verguntejo.... conosci tu Verguntejo? — Sì, prosegui. — Verguntejo e Manlio furono eletti a questo.... Domani sera visiteranno il console e.... La repubblica in quel punto verrà trafitta a morte insieme con lui. — Gli Dei immortali guidino i colpi, ma tu, Curio, or parti di qui e va a rinchiuderti nel tuo palagio. — Guai se con altri ti manifesti; e perchè sfugga il pericolo di incontrarti con altri nel far la via, ti farò apprestare il cocchio e chiudere nelle tue stanze, e taci e dormi. Chiamato il servo, gl’ingiunse di preparare il cocchio. Curio intanto si addormentò davvero; Fulvia si alzò e passeggiando come se fosse impazientissima, lo andava guardando con disprezzo e sorrideva sugli occhi chiusi di lui con un sorriso veramente infernale. Tornò il servo. — Sveglia il senatore, gli disse Fulvia, sorreggilo, accompagnalo e mettilo in cocchio; dì all’auriga che s’affretti; flagelli i cavalli, e divori la via — già non è lunga; poscia ritorni a condurre me altrove. Il servo obbedì, svegliò Curio, lo alzò, lo trasse seco sebbene ei si rifiutasse. — Va, Quinto, diceva Fulvia, con ciglio aggrottato, va, ti ripeto. — Anche l’ora è tardissima. — Va. Quinto si lasciò trascinare; mal piantava il piede e aveva l’occhio semispento. — Uscito ch’esso fu, Fulvia chiamò le famule; si fe’ cingere i fianchi e coprire di un denso peplo notturno.... e, così preparata, stette aspettando il ritorno del cocchio. Il cocchio ritornò. — Fulvia prese allora una tavoletta e vi scrisse alcune parole; poscia uscì e salì in cocchio. Disse all’auriga: — Va alla casa del console Cicerone. L’auriga rispose: — Siam già presso alla seconda ora dopo la media notte. — Va alla casa del console, replicò Fulvia, e sollecita i cavalli. L’auriga tacque e attese al debito suo. VII. FULVIA E CICERONE. In brevi istanti furono al palagio di Cicerone. Un profondo silenzio lo circondava e lo occupava di dentro. L’ostiario sonnecchiava sul limitare. — Gli ostiarj si davano il cambio e non abbandonavano mai le porte delle case. Dice Fulvia all’auriga: — Sveglialo. L’ostiario si svegliò, si alzò, guardò, si meravigliò, domandò che cosa era avvenuto. — Reca questa tavoletta al console; anche se fosse nel cubicolo, sveglialo. — A quest’ora è ancora nella biblioteca. — Bene è. L’ostiario chiamò un servo, al quale consegnò la tavoletta. Il servo entrò nella biblioteca. — E che hai tu? gli chiese Cicerone dimesticissimo. — L’ostiario mi diede questo. Alla porta c’è un cocchio e una dama vi siede. Cicerone lesse: «Fulvia a te viene, o console, sebbene l’ora di notte sia tarda; viene per cose gravissime che non ammettono indugio, cose relative alla patria e a te.» Cicerone rimase stupito. Cicerone che detestava Fulvia, sebbene non ne avesse una ragione, ma per un’avversione tutta spontanea, al primo fu per rimandarla. L’avversione che sentiva gli pareva un presagio, epperò la visita inattesa di quella donna a quell’ora gli dava molto a pensare. Tuttavia non volendo essere pusillanime in faccia a sè stesso e sollecitandolo anche la curiosità, disse al servo: — Falla entrare. Cicerone si alzò — egli teneva la toga lunga; era quello un distintivo degli alti personaggi; ma il grande oratore e filosofo aveva portata quella lunghezza ad una misura non usata da alcuno in Roma, e ciò non per altro che per nascondere l’estrema sottigliezza delle sue gambe, sottigliezza troppo filosofica e che provocava il sorriso degli ignoranti ma densi centurioni. Quand’era seduto, al pari d’Ulisse in Omero, egli appariva maestoso e magniloquente come una delle sue orazioni. Alzato, presentava uno squilibrio tale di forme che offendeva l’occhio dell’artista. — Sarebbe dunque stato meglio per lui che, dovendo comparirgli innanzi una donna, fosse rimasto seduto. — Ma egli non aveva fiducia in quella donna, temette persino fosse venuta per qualche atto proditorio; però si alzò e nel fesso della toga nascose un ferro. Fulvia entrò. Faccia angolosa, sebbene a linee artistiche e grandiose, sopraciglia fitte, occhio nero e saettante, figura alta e maestosa. Ella si piantò innanzi a Cicerone. — Non ti chiedo perdono, disse poi, o console, per la tarda ora: bensì voglio ringraziamenti da te. — Siedi, e parla. — Se io adesso non fossi qui, tu domani a quest’ora saresti già piombato in Acheronte. — E da chi sai tu? — Da Quinto Curio, il quale lasciata la casa di Catilina, dove Cajo Cornelio e Lucio Verguntejo si offerirono di portarsi alla tua casa e sotto colore di salutarti, darti la morte, passò come di consueto da Messala ad ubbriacarsi, e venuto poi a vedermi colla testa naturalmente melensa, fatta più immelensita dal vino, mi svelò tutto; onde io venni da te senza por tempo in mezzo; di tal modo provvidi a vendicarmi dell’assidue tue ripulse alle mie preghiere. — Alle antiche ripulse rimediato sarà. Ora parti. — E chiamato il servo, — Appresta il cocchio, gli disse. Fulvia si alzò, e: — Se la repubblica più volte fu custodita con sapienza da te, questa volta crollava di certo se io non ero. Salute a Cicerone, e nella lotta che ancora non è cessata ti ajutino gli Dei immortali. Così detto, si partì. Cicerone si gettò sulle spalle il manto consolare, uscì, stette ad aspettare il cocchio, vi salì, e recossi alla casa del console Antonio. — Di troppa indulgenza — pensava strada facendo — si usò con questo Catilina; lo si doveva abbattere fin da quando tuonai contro di lui in Senato. Lo sfoggio del _quousque tandem_, onde le cattedre gonfiaron gli orecchi di tanti milioni di studenti, era già successo fin dai tentativi della così detta congiura di febbrajo. VIII. CICERONE E IL CONSOLE ANTONIO. Il console Antonio stava già nel cubicolo, ed era addormentato. Il servo per comando di Cicerone fu, mal suo grado, costretto a svegliarlo. E il console Antonio, vecchio soldato che per trent’anni aveva fatto le guerre con coraggio e con fierezza, e che vestendo squaglia di coccodrillo era duro e intrattabile anche nelle relazioni domestiche, quando fu svegliato coprì d’ingiuria il servo e quasi volea percuoterlo; se non che il servo fu presto a dirgli: — Console, è qui Cicerone. — Cicerone? chiese maravigliato Antonio. — Egli mi comandò di svegliarti. — Va, fa che non attenda troppo. Digli che lo aspetto. Cicerone entrò. Antonio guardandolo fisso: — E che avvenne di sì grande che a quest’ora io ti vegga qui? Ben potevi comandarmi, che sarei venuto io. — Non c’è tempo a perdere; la congiura è matura e sta per esplodere. Io dovevo essere ucciso da Cornelio e da Verguntejo domani. Questo mi fa credere esser vero quanto mi fu riferito, avere lo stesso Cornelio e Lentulo, Sceva e Lucio Cassiolongio proposto di metter tutta Roma in fiamme e di governarne l’incendio. Or s’ha dunque a provvedere, Antonio, e come fulmine colpirli tutti. Antonio tacque. Egli era a parte della congiura, e l’aveva incoraggiata. Affogato nella molesta onda dei debiti, non vedeva mezzo di liberarsi, se non ajutandola; epperò s’era lasciato attrarre dalle tentazioni di Catilina. Ma a questo punto, venne forzato a respingerla, e la repentina diversione, che era tradimento, lo rese più zelante di Cicerone stesso; pensò che era console e ridivenne soldato inesorabile e nimicissimo degli amici. Tuttavia la notte stessa Catilina ebbe segreto avviso di uscir tosto di Roma. Pare che lo stesso Caio Antonio abbia provveduto a ciò. Così almeno congetturò Catilina. Avvisati adunque la medesima notte, quanti poter dei propri seguaci e delle viragini donne, la Sempronia, la Precia, la Chiledone, la Flora, e di quelli che dovevano radunare i giovani patrizi uscirono tutti dalla città che ancora non era l’alba, e per diverse porte, prendendo per diverse vie, alfine di non destare sospetto. Fuori di Roma il luogo del ritrovo comune doveva essere oltre Tevere a Monte Castrilli. Da Porta Capena uscì Catilina a cavallo. Accanto a Catilina veniva il cocchio di Sempronia; sedeva con essa la Chiledone. Poi seguiva un altro cocchio dove stavano la Precia e la Flora. Queste donne avevano fermato e giurato di combattere come uomini, di vincere o di morire. E ben potevasi esser certi che la loro fermezza era incrollabile. Da Porta Trigemina uscì Manlio, da Porta Portuense uscì Marco Sceva, e a questi, lungo la via, come era stato ordinato da Catilina, vennero a congiungersi tutti i giovani patrizi. I veterani che Catilina aveva raccolti, pagandoli, e che erano condotti da un centurione di Fiesole, medesimamente assoldato, erano già a Monte Castrini quando Catilina vi giunse. Esso aveva pensato non sarebbesi potuto tentar la fortuna senza una mano di soldati esperti ed induriti nelle armi. Questi avrebbero dato coraggio ai giovani che non avevano ancora fatto sufficienti prove nelle varie battaglie. Intanto che la gente di Catilina veniva a congiungersi tutta, i pochi sciagurati ch’erano rimasti in Roma furono da Cicerone fatti sostenere e strangolare nel carcere Mamertino, arbitrariamente, violentemente, senza processo. Ma Cicerone fu chiamato per questo Padre della Patria, così avendo voluto la fortuna, chè merito nessuno egli non aveva avuto in quel fatto; e senza l’ubbriachezza di Quinto Curio, e la scelleraggine della spia Fulvia, sarebbe caduto nell’insidia di Catilina. Eppure di questo avvenimento, del quale avrebbe dovuto vergognarsi, si vantò per tutta la vita, assai più che delle sue doti veramente insigni, e della sua grandezza oratoria e delle altre sue virtù straordinarie. Curio nell’ubbriachezza poteva aver detto il falso, e Fulvia per qualche vendetta poteva essere stata bugiarda; ma nel dì stesso che i congiurati erano stati messi a morte, essendo stato Cicerone ragguagliato che Catilina capitanava assai gente, la quale ogni dì ingrossava, e con essa tentava di far insorgere le città vicine alle quali chiedeva e da cui otteneva uomini, ingiunse a Cajo Antonio console di raccogliere quanti soldati potesse e muovere incontanente contro Catilina, e Antonio amico di Catilina e congiurato con esso, mise insieme un esercito, e quantunque avrebbe potuto schermirsi perchè soffriva di podagra, pure con maravigliosa alacrità, chè espertissimo soldato egli era, lo capitanò egli medesimo, e avendo per luogotenente il legato Marco Petrejo mosse contro all’amico, del quale avrebbe dovuto dividere i pericoli e la fortuna. Ma Statilio, Gabinio, Cepario, Lentulo, Cetego e gli altri sventuratissimi erano stati strangolati, mentre egli sebbene vituperevole del vilissimo tradimento che compiva, procedeva burbanzoso alla testa dell’esercito, tenendosi certo della vittoria e per la fiducia che aveva nell’arte propria e nell’esperienza lunga e nel provato coraggio, e perchè sapeva o congetturava almeno di aver sotto di sè maggior numero di uomini, e soldati tutti, che non poteva averne Catilina, e perchè i giovani e gli adolescenti che, siccome gli era stato riferito, avevano seguito Catilina dovevano in campo riuscire a colui piuttosto d’impaccio che d’aiuto. — Nato fra le armi e copertosi di gloria, non aveva mai comandato un esercito nè governato mai per sè solo una guerra, però l’idea del tradimento egli velò e coperse sotto alla nube sanguinosa della gloria militare. — È degno d’osservazione come Sallustio non dica nulla di questo. IX. LA BATTAGLIA DI PERUGIA. Catilina saputo come il Senato gli mandava incontro un esercito poderoso, saputo inoltre, con sua grande meraviglia, che Cajo Antonio console lo comandava, fra aspri monti a gran giornate venne nel campo di Pistoja, ma Quinto Celere Metello, luogotenente di Antonio, volò esso pure a gran giornate nel Piceno e qui si accampò; e Antonio col forte delle sue genti veniva a congiungersi a Metello per ovvio e facile cammino all’intento di chiudere ogni scampo a Catilina. E questi nella prima parte di questa breve guerra mostrò grande sapienza militare, tenendo ognora in iscacco il console, ora accennando di muovere verso Roma, quando Antonio lo sospettava avviato verso la Gallia Cisalpina, ed ora sollecitando le marcie verso la Gallia, quando Antonio lo sospettava avviato per gli Apennini a Roma. Ma le notizie di Roma e la congiura scoperta e la morte dei congiurati tolsero a Catilina ogni speranza di potere, traendo in lungo la guerra, ricevere soccorsi da Roma per darlene tosto egli stesso. — Disanimati, moltissimi uscirono dalle sue file, per il che sebbene da principio egli avesse rifiutato l’aiuto degli schiavi accorsi a lui in gran numero per acquistar libertà, si piegò ad accoglierli, onde il suo esercito potè presto salire a quasi diecimila uomini. Quinto Metello Celere con tre legioni occupò il campo Piceno, e Antonio e Petrejo lo andavano inseguendo celerissimamente e con esercito poderoso; però non sperando nulla per allora dagli amici che stavano a Roma, pensando che soltanto dalla fortuna delle armi e dalla vittoria, non facile ma possibile, poteva dipendere l’adempimento de’ suoi disegni, Catilina risolse di venire a battaglia. Sotto a Perugia (chè dalle opinioni degli storici pare di dover desumere che qui avvenne il conflitto) dopo alcune marcie e contromarcie vennero ad incontrarsi i due eserciti. Il fedifrago Antonio, quantunque non potesse combattere in persona per la podagra, pure scorreva a cavallo, di fila in fila, a incoraggiare i soldati: — Voi combattete — dicea loro — per la patria, pei figli, pei lari; l’oste nemica, è oste di vili, d’imbelli, di scellerati. Anche donne stanno in quel campo contaminato, e adolescenti non ancora addestrati nel campo di Marte; onde se l’ottenere vittoria contro coloro non può dare gloria nessuna a voi soldati veterani, una sconfitta ci coprirebbe di un’ignominia senza esempio, e tale che più non sareste accolti in Roma dalla sdegnata cittadinanza; però vi esorto a condurre la battaglia in modo che sia piuttosto una strage, e nessuno dal campo nemico possa tornare in Roma; chè tutti coloro, uomini, adolescenti, per la virtù fatale dell’infame Catilina, reduci in patria vittoriosi, spargerebbero un contagio esiziale, disperderebbero le sacre leggi, recherebbero la morte nel seno delle vostre case, ad intento di vendetta ed a compimento dei loro disegni feroci. E come il console Antonio arringò i propri soldati, Catilina attese a infondere coraggio e fidanza ne’ propri. — È inutile ripeter qui le sue parole: bensì hanno a riportarsi quelle di Marco Sceva il quale capitanava la parte più giovane del campo catilinario. — Erano da due a tre mila giovinetti, tra cui non pochi avevano già militato. — Bellissimi giovani, e tutti d’aspetto fierissimo a vedersi e veramente strenui. Molti di loro non erano militarmente vestiti, nè tutti avevano armi da campo — tenevano lancie, ronche, pertiche, forche. Marco Sceva misurando dalla propria la virtù altrui, era pieno di speranza generosamente baldanzosa. — A quella parte del campo non v’era nessuno che varcasse gli anni ventiquattro; i più stavano fra il sedicesimo e il ventesimo anno. Marco Sceva dunque prima della battaglia disse parole forti a quei giovinetti forti. — A quale intento siamo qui noi oggi, o giovani generosi? che io chiamo eroi; chè già lo siete, non per altro che perchè siete qui. — Lo sareste anche senza la battaglia a combattersi, anche senza il sangue che verseremo, anche senza la vittoria che strapperemo al nemico, se gli dei la concederanno. — Ma perchè siamo qui? Voi tutti lo sapete; per infondere nuova vita nel cadavere di Roma; per rimediare all’atrocità di talune leggi. — Noi combattiamo qui oggi per tentare di far quello che Cesare propose — _Cessi oggimai la Legge di divorare la Giustizia._ — Ecco il motto del divo Cesare; la giustizia trasformi, rinnovi la legge, e la nuova che ne uscirà, sia tale che debba essere benedetta da quanti tengono l’onestà dell’intelletto e la sapienza sincera. Noi combattiamo qui oggi, o giovani miei coetanei, per ottenere una legge ragionevole e per distruggerne una tanto feroce quanto antica — essa è tale, che essendo noi liberi, pur dobbiamo vivere schiavi in perpetuo. — Io non vi esorto a ribellarvi contro i padri. — Essi debbono essere religiosamente venerati. — Ma non dobbiamo essere in piena balìa delle loro ingiustizie, quando essi ne commettono. Non è bisogno che io v’infonda coraggio, già lo vedo sulle vostre facce ardenti. — Pensate che questo è un giorno supremo. Bisogna vincere o cader tutti sul campo. — Se vinti e vivi ritornaste in patria, sareste tutti scannati dai vostri padri, ed avreste così una morte vergognosa ed esecranda per voi e le case vostre; mentre cadendo col ferro in pugno avrete gloria e tale da comandare l’ammirazione ai vostri padri stessi, costringerli forse a inaspettati consigli, e persuaderli ad abrogare la legge nefanda. Dopo queste parole di Sceva e quelle che già aveva dette Catilina, questi dopo aver comandato di discendere, accanto ai pedoni, a quanti stavano a cavallo, perchè così non credessero gli uni di essere in peggiore condizione degli altri, fece dar nelle trombe; esso aveva diviso le sedici sue coorti in due parti; la prima schierò di fronte, l’altra tenne in riserva. — Le truppe consolari sommavano a ventimila uomini; tra questi i più erano veterani; il resto constava persino di militi più o meno nuovi, constava persino di giovani patrizj avversissimi a quelli che sapevano combattere nel campo catilinario, e questo per diversità di sentimenti, e per ingraziarsi i padri, e per prepotenza di fibra cornea. Erano quelli i colli torti di Roma antica. Catilina, come fu detto, non aveva che dieci mila uomini, dei quali alquanti veterani, moltissimi schiavi, fatti tali in guerra, e sui quali Catilina, sebbene li avesse accolti con avversione, contava moltissimo perchè erano avvezzi alle battaglie, e la speranza di ricuperare la libertà doveva renderli formidabili. È facile immaginarsi il cozzo orrendo dell’urto primo. — I veterani del console Antonio vi portavano la sicura fierezza che loro veniva dalla vecchia abitudine. — Quasi tutti i giovani sui quali al primo incontro toccarono i loro colpi caddero feriti o morti. — In quel primo scontro caddero la Chiledone e la Flora. — Caddero presso i loro amanti, che furibondi diventarono tremendi. — Erano essi armati di agricoli forconi. — Strano a dirsi! quest’arme diventò apportatrice di morte. — Il veterano si trovava incontro a un’arme nuova; la breve sua spada mal sapeva tener lontana la lunga asta, e alcuni di essi caddero colle facce trapassate o deformate. — Marco Sceva vedendo che quell’arme, pure maneggiata da giovinetti, era con sua meraviglia divenuta micidialissima, ringuainò la spada, prese uno di que’ forconi e si gittò nel fitto di un corpo di veterani, atterrandone molti colla destrezza del fortissimo suo braccio, e sgominandoli tutti coll’abile maneggio di quell’arme improvvisata. — In quanto a Catilina, esso era dappertutto, vedeva tutto, soccorreva tutti e faceva strage colla forza del suo braccio non inferiore che a quello di Sceva. Ci fu un momento in cui parve l’esercito consolare piegasse sotto al disperato assalto di Catilina e di Sceva, e al coraggio meraviglioso di tanti giovinetti, i quali, vedendo cadere tanti veterani del campo nemico, operavan prodigi. Ma il console Antonio, che per la podagra stava lungi dal campo, mandò a rimproverare Petrejo luogotenente, onde questi, infierito per l’amaro rimprovero, ricorse alla riserva che, a torto o a ragione, voleva tenere ancora in serbo. — Essa era fatta dalla Coorte Pretoriana; non avendo ordine di moversi, fremevano e taluni si mordevano le labbra per la vergogna a cui vedevano esposto l’esercito consolare. — Petrejo disse lor dunque: — Or fate strage e finite la giornata. A tal comando la Coorte Pretoriana, come torrente a cui nulla resiste, si precipita, invade, assale, solca, infila. Cade Manlio, cade il Fiesolano, cade Sempronia, la quale aveva fatto prodigi di valore accanto a Catilina — che vedendola cadere rimase come sconcertato. E mandando un grido, vedendosi vinto e in mezzo a un campo di morti: — Tentiamo or dunque l’ultima strage, disse a Sceva e ai pochi dai quali era attorniato — e così fece, ma cadde quasi sull’istante. E Sceva venne ferito; ma parve leone, e lo smisurato e furibondo suo valore sgominò di tal guisa gli avversarii, che molti ne uccise; cosicchè nel disordine estremo della battaglia rimase quasi in solitudine; cadde della ferita e della stanchezza. Chi si recò dopo la battaglia a visitare il campo, vide Catilina ancora spirante fierezza in mezzo ad un cumulo di pretoriani estinti; e nella parte catilinaria furon visti insieme con tanti giovanetti, che dalla speciale forma esterna accorgevasi appartenere a famiglie distinte, cumuli di schiavi, che tali si riconoscevano per l’abito speciale, non avendo Catilina potuto vestirli. — Ma la massima sorpresa onde vennero colti i visitanti, fu quando s’imbatterono nei cadaveri di donne. — La prima di cui s’accorsero fu la Chiledone. Al primo pensavano non fosse che un giovinetto; ma le mani e le gambe, sebben queste fossero fasciate, rivelavano il diverso sesso. Di più meravigliarono quando videro altre donne. — La Sempronia vestiva una tunica di prezioso argento. — I curiosi ammiravano quel viso ancor bello nel pallore della morte. Qualcuno persino osò alzarlo, per guardarlo meglio — qualcuno varcò altro segno. — Ma intanto che i semplici curiosi si stupivano di tanta bellezza, i ladri da campo, antichissimi come le guerre, i quali esploravan tutto attentamente per tornare poi sul luogo quando gli altri fossero partiti, osservavano l’argentea lorica con occhio tristissimo d’avida impazienza — perciò alla notte, l’eminente Sempronia venne spogliata. Dei pochissimi giovani che erano stati risparmiati dalla morte, nessuno tornò a Roma. — I due soli i quali ebbero una sì demente fidanza vennero scannati dai loro padri. Così finì questa famosa congiura, la quale se fosse riuscita, Catilina sarebbe stato collocato fra gli eroi. — Ma l’eroe dovea esser Cesare, che fiutando gli eventi e sentendo odore di cadavere, astutissimamente si ritrasse, e lasciò che Catilina tentasse la sorte. E Catilina con sincerissimo, sebbene troppo fidente, coraggio, arrischiò l’impresa e cadde e passò ai posteri come uno scellerato, e nulla più. X. CESARE E LA FIGLIA DI POMPEO MAGNO. A questo punto ci rifacciamo con Giulio Cesare. Un dì, recandosi egli a visitar Pompeo reduce dalla guerra mitridatica, vide seduta accanto al Magno eroe la sua figliuola maggiore, al cospetto della quale, forse perchè soffiava dal Porto d’Ostia il vento d’Africa, di repente sentì infiammarsi il sangue. Accigliato mostravasi Pompeo, e il saluto reso a Cesare non pareva benevolo. — Mal mi accogli, o Gneo, disse allora Giulio. Però meglio era se l’ostiario mi avesse rimandato. — Mal non t’accolgo; bensì lo sdegno che ancora mi commove, non concede ch’io mostri a chicchessia lieta la fronte. Ora esci, o Pompea. Ascoltami, Cesare. Pompea si alzò, mostrando, sebbene non ancora sedicenne, una statura e una costruzione dorica. Ell’era una beltà perfetta ma severa, se la severità non paresse smarrirsi e quasi consolarsi anch’essa nel completo rigoglio delle forme. Pure la serietà dell’occhio e dell’arco del ciglio e della linea acre del labbro disdegnoso quasi di sorriso, mentre sembravano vietare l’amore appassionato, provocavano nei giovani ammiranti l’avidità della conquista, un’avidità acuta, inquieta, indomabile, quantunque altri potesse sospettare che, compiuta la conquista, non sarebbe sembrato altrettanto prezioso il possesso. La severità pungeva il desiderio; l’assenza dell’amabilità non poteva mantenerlo. Cesare disse parole di castissima lode a Pompea; parole che, sebbene avessero l’intento di rispettare la presenza paterna, pure, accentate come furono dalla voce dell’elegantissimo libertino, l’occhio sfavillante del quale pareva riscaldare quella castità al punto da trasmutarla nel suo opposto, agitarono per modo il sangue della fanciulla, che tutta si coperse di rossore, e rispondendo breve e decorosamente severa, di là si tolse. — Ben si vede quanto anche tu stimi codesta sì formosa tua figlia, se fin qui la tenesti sempre lontana dagli sguardi altrui. Mai io non la vidi. — Ben altri la vide; e mi fu chiesta in isposa oggi stesso. E ancora fremo pensando a colui che tanto osava. — E chi è? — Clodio. Ei la vide in Roma vicina a me come ora tu la vedesti. Però quand’io partii per l’Asia e mandai la fanciulla in villa, affidata a vigili ancelle, ei si recò fino a Brindisi ed entrò ne’ miei giardini e trovò modo di volger parole a lei, che tutto raccontò. Ed oggi ei mi trattenne al Tabulario, e sfacciatamente, com’è suo costume, minacciò volere mia figlia in moglie. Io negai asprissimo; egli rispose feroce; ma lo lasciai scornato dicendogli, non mi tenesse più parola di questo; chè, per gli Dei di Roma, giammai sarebbe avvenuto che mia figlia dovesse diventar cognata della infame _Quadrantaria_. Codesto soprannome di _Quadrantaria_, dato alla sorella di Clodio, era di turpissima origine. Derivava dalla parola _quadrante_, la più vile moneta di Roma; e con ciò i libertini ozianti nelle terme, ad esagerazione di maldicenza, volevan significare come Clodia, ad onta dell’alto casato e delle ingenti ricchezze, fosse immonda di tanta avarizia quanto lo era di lussuria, onde, all’uopo, trafficavasi per un _quadrante_. — Respinger dovevi le sue pretese a marito, rispose Cesare; non insultarne la sorella. A Orbilio Pupillo, te assente nell’Asia, fece ardere le case e i giardini, perchè insultò Clodia, chiamandola ad alta voce _Quadrantaria_, quand’essa passeggiava per la via Sacra. — E arda i miei palagi, e gli orti miei, se il può. Non io lo temo. — Ma più che a’ tuoi palagi e a te, potrebbe tendere insidie a Pompea. Tutto ei sa osare; di sotto a quella bianca sua pelle muliebre scorre sangue ferino. — Ed io oggi stesso la farò sposa d’altri. — E qual è il marito che sappia tener Clodio in soggezione? — Tu, o Cesare. Di troppo hai protratta la tua vedovanza. A te io do Pompea in isposa. — Ed io la prendo; e ne ringrazio i Numi. E così le nozze furono statuite, e, ingiungendolo il padre, Pompea, non amante, venne sposa a Cesare. XI. CLODIO E POMPEA. Il tempo avea misurato un anno a quelle nozze, e Clodio fremeva ancora come il dì ch’erasi recato a Brindisi per veder Pompea; fremeva d’ira per Pompeo come il giorno che era stato respinto da lui; fremeva d’invidia e di gelosia per Cesare possessore tranquillo di colei, ad ottener la quale egli avrebbe mandato tutta Roma a soqquadro. Clodio, dopo le nozze, aveva visto più volte Pompea nelle feste, nei giuochi pubblici, nei templi; era riuscito ad avvicinarla, a parlarle, ad onta della custodia assidua della matrona Aurelia, la sapiente e virtuosa e rigida madre di Cesare, idolatra del figliuolo; per l’onore e la gloria e la fortuna e la grandezza del quale s’inginocchiava alle are votive, stancava auguri, faceva immolar vittime, supplicava Venere splendente in cielo; e nel raggio azzurro della stella, con devozione da visionaria e da estatica, le pareva veder le parvenze dell’amorosa diva. In questa condizione di cose venne il giorno in cui dovevasi celebrare la festa della dea Bona. Esso cadeva nel primo di maggio. Questa dea era adorata a Roma da antichissimo, custodiva la castità, e inspirava la profezia. — Il suo culto era affidato alle sole donne, che in quella solennità dovevan sentire o simulare avversione per gli uomini, ad imitazione della dea che, maritata a Fauno, sempre lo avea respinto da sè, onde il dio cornuto erasi vendicato cangiandola in serpente. Cicerone nell’orazione in favore di Milone ci fa sapere come al suo tempo il santuario di lei era situato fra Aricia e Bovilla; pure la solennità celebravasi nel palagio del pretore. Nell’anno 678 di Roma, il giovane Cesare copriva una tal carica. Fra le osservanze religiose venute in qualche languore negli ultimi anni della repubblica, a questa concedevasi ancora sì grande importanza, che si reputava sacrilego quell’uomo che l’avesse turbata; a tal che, se plebeo, lo si puniva colla morte; se patrizio, veniva chiuso per un lustro nel carcere Mamertino, e poscia condannato a perpetuo esiglio. Nella notte di quell’anno di Roma 678, chè quella festa celebravasi a notte alta, Clodio erasi chiuso nel proprio palazzo, volendo il rito che le vie della città fossero in quelle ore della festa affatto sgombre d’uomini. Da qualche tempo egli non aveva potuto veder Pompea, e una rabida smania di avvicinarla lo rendeva furioso e intrattabile a tutti. Certissimamente che quello non poteva essere che un amore degno di Clodio; desiderio, vale a dire, smania, furore, delirio, ma senza affetto. Divinamente bello qual era, veniva adocchiato dalle matrone, dalle spose, dalle maritande; ed ei pur le adocchiava e le ambiva; ma guai se la deferenza per lui rivelavasi in esse oltre lo sguardo; subito al desiderio in lui subentrava il disprezzo; e lo mostrava con atti da schiavo e da gladiatore ubbriaco. Però non aveva suscitato mai uno di quegli affetti che si fanno passioni, e son duraturi. Ma intanto ardeva di Pompea, forsennatamente ardeva, e non aveva pace. Nè ella scoprì a lui solo come il proprio labbro fosse capace di sorriso; e nel proprio sguardo severissimo e fisso trovò per esso movenze inaspettate, ed espressioni desideranti, ignote a Cesare. In quella notte Clodio stava nel cubicolo, assiso sul letto coperto da una pelle di pardo, dirimpetto ad uno di quegli specchi, di cui già parlammo, venuti dalla Grecia. Si vedeva, si guardava, si ammirava. Pensava che tutte le Romane sarebber venute obbedienti a lui; ma si tormentava di possedere un’ajtanza inutile per colei che sola ei bramava. In questo punto gli entrò nel cubicolo la sorella Clodia, la famigerata Quadrantaria, stata ripudiata pochi dì prima. Egli aveva una predilezione speciale per colei. Sola fra tutti poteva venire presso lui non chiamata. Sola ell’era di cui gli sarebbe rincresciuta la morte; ma la sua maledetta natura fece sì che l’unica vena dolce scorrente nel suo sangue si convertisse in veleno fratricida, e incestuosamente preparasse la sorella all’abominio di Roma. — Cessa il corruccio, o Clodio, ella gli disse; non è degno di un forte quale tu sei. E si mise a sedere vicinissima a lui. In questa posizione le due faccie venivano riflesse dallo specchio. Clodio, così meccanicamente, guardava il volto della sorella; questa il volto di lui, e a ciascuno pareva di vedere sè stesso, tanto si assomigliavano. — Perchè non vai tu stanotte alla festa della dea? chiese Clodio.... Tu potresti dir parole a Pompea, e recarle il mio saluto.... — E se altri mi pigliasse per te?.... Guarda come le nostre faccie sono le medesime. Clodio esaminò di nuovo nello specchio sè e la sorella... poi, a un tratto balzato in piedi: — Ah! Fauno m’inspira, gridò, il cornuto marito della castissima dea. Chiama qui le tue ancelle, e dì loro che mi rechino le tue vesti più candide e più pompose....... — E a che? — Vo’ travestirmi qui in costume muliebre. Vo’ vedere se in beltà anche una donna possa venire a gara con me. Clodia crollò la testa, sorrise, e: — Se questo gioco, disse, può valere a placarti l’ira, io farò in modo che Paride abbia a gettarti il pomo nel confronto di Venere stessa. E uscì; e poco dopo rientrò colle ancelle portanti lini e bissi e pallii e pepli e corone e cingoli e zone e vitte e rose di Persia e viole del lido argolico. Adocchiati quegli addobbi, Clodio s’alzò, e gridando: — Fate presto — si sfilò per la testa la toga, e apparve ignudo come Alcibiade, scoperto da Socrate nel gineceo. E la Quadrantaria s’affrettò ad indossargli la stola di bianchissimo bisso, il quale per le donne allora era in uso più del purpureo; e gli sovrappose una cerulea stola, e gli cinse strettamente i fianchi con una zona di lamina d’oro; e la testa gl’incoronò di asiatiche rose. — Ammirate, o ancelle, esclamò allora; qual mai donzella si vide più avvenente di costei? — E or s’appresti in sull’istante il mio cocchio dorato, disse Clodio. — Che pensi tu....? — Recarmi alla notturna festa, prostrarmi al simulacro della diva, e vendicar Fauno. Se mai mi valse questa beltà di donna, oggi si adoperi intera; e il nascosto phallo contamini le sagrificanti vestali, e Pompea mi abbracci e mi baci in gonna. Or che attendete? il cocchio io voglio.... e intanto mi si rechi un dolio di Falerno; ch’io sovrecciti il sangue all’estrema audacia, e prepari a Roma il non mai più udito scandalo. Venne il dolio di Falerno; ed ei ne tracannò con avida gola, finchè lo si avvisò dei pronti cavalli. Uscì, strinse la mano a Clodia, che: — Bada a te, gli disse nel salutarlo. Storna lo scandalo, serba il segreto. Tra le fiaccole tenute in alto dai servi, Clodio ascese il cocchio in modo sì virile, che contrastava troppo alla candida stola e alla corona di rose. La silenziosa Roma risuonò poco dopo del sollecitato cocchio, il quale si fermò innanzi al palazzo del pretore Giulio Cesare, che in quella notte erasi ritirato nel suo picciol tempio della Suburra. XII. LA FESTA DELLA DEA BONA. Il palagio di Giulio Cesare, già fu detto, sorgeva sul Palatino. Era di costruzione etrusca; veduto all’esterno pareva una dimora cadente in isfacelo. Nè Giulio Cesare provide mai a ripararlo; l’avrebbe anzi smantellato in guisa da farlo parere una rovina ancor più illustre, assidua commemoratrice ai Romani della vetustà del suo casato. Ma varcato il pronao, anche perchè all’artista Cesare piaceva l’antitesi, tosto alle mura cadenti e cupe, succedeva, diremo, la luce della pompa orientale e meridionale. La madre Grecia, e la Grecia grande, e l’Asia, e l’alto Egitto, quasi a rappresentare là dentro l’assorbimento romano, e la divoratrice conquista, sfoggiavano tutto quello che l’arte, e il lusso, e la corruzione avevano trovato nelle patrie dell’alloro e del non ancora rivelato filugello. Varcato il pronao e un ampio spazio che divideva l’antico palagio dal nuovo, un lucente vestibolo biancheggiava delle conteste ossa di elefanti indiani; cinque porte rivestite di ebano davano accesso all’aula magna, e su quelle erano intarsiati i dorsi di testuggini eoe, dagli occhi delle quali usciva la verde luce degli smeraldi. Il procinto vi si aggirava dentro in cerchio; a quello facevan corona binate colonne a capitelli d’oro, sulle quali rispianava un dorato architrave che sosteneva tre colonne riproducenti in aria il giro delle sottoposte. Le pareti interne erano serpentino con intrecci d’armi. Gli onici e le sarde lastricavano il pavimento, nel mezzo del quale sfolgorava un mosaico d’Eraclito, che Cesare aveva fatto trasportar là dai giardini di Servilio. Non v’eran lacunari; ma l’azzurro del cielo e le stelle e la luna mandavano i loro raggi là dentro a mettere gara tra il cielo e la terra. Le vestali, siccome voleva il rito, agli ornati architettonici avevano aggiunti a profusione quelli della più fragrante flora romana, con frutti e fiori d’ogni albero, escluso il mirto, siccome quello che pareva interdire i pensieri della castità, chè le donne si preparavano alla festa colle più rigorose astinenze; così almeno era creduto. Le mogli per una settimana s’involavano agli amplessi maritali. Le fidanzate e le fanciulle dovevano affannarsi a liberare la testa e il cuore dai desiderj tentatori. Il simulacro della dea sorgeva nel mezzo del recinto. Una ghirlanda di pampini ne cingeva la testa; un serpente era attortigliato intorno a’ suoi piedi. Innanzi alla base del simulacro stava un gran vaso colmo di vino. Quel vino significava la religiosa tradizione, che ricordava essersi la dea ubbriacata, mentre dimorava ancora in terra; onde Fauno l’uccise con un bastone di mirto, facendola degna in così strano modo dei doni immortali della divinità. Pure quel vino, che poscia veniva bevuto senza ritegno, chiamavasi latte, a conciliare l’idea dell’astinenza coi protervi effetti che produceva, e _Mellario_ il vaso che lo conteneva, onde è a sospettare che quelle donne stessero innanzi alla dea, _velate di devota incontinenza_, preparando così la frase al poeta futuro. Quando la vestale _damiatrice_ s’inginocchiò davanti al simulacro, tutte le vestali, candide come cigni depurati dal rio, s’inginocchiarono; e con esse quante matrone e spose e fidanzate e fanciulle eran là convenute. Più presso al semigiro delle vergini sacre stava l’insigne Aurelia, la madre di Cesare, venerata in Roma per l’alto senno e le virtù volute e le consuetudini sante. Aveva raggiunto il nono lustro; pure il freddo raggio lunare, turbato dalla calda luce delle resinose faci, così beneficamente la vestiva, che due lustri parevano scomparsi dal suo nobile volto. Accanto a lei stava genuflessa Pompea, la moglie di Cesare, non amante della suocera, che non amava lei. La beltà tramontante di Aurelia, dall’occhio espanso, lento e solenne, e dai contorni che Tullio chiamò scientifici, e li dicea segnati dal geometra Euclide, faceva contrasto colla diversa severità della olimpica Pompea, severità ostentata per dissimulare le intime accensioni. Non lungi da Pompea, vestita come una regina asiatica, coi piropi al collo, alle braccia, ai brevi orecchi, si vedeva Servilia, la moglie del penultimo Bruto, la madre dell’estremo. Peccatrice nata, pure il peccato ella rendea perdonabile coll’intensità dell’affetto concesso ad un uomo solo. Accanto a lei, volgevasi alla dea una giovinetta adolescente della casa _Imperiosa_. Colla chioma biondissima e l’alba pelle e l’occhio tinto di cielo e lucentissimo per la gagliarda fosforescenza del cervello, sembrava accennasse alle Gallie, alla Bretagna, alla Germania, e invitasse a non ancor noti connubii la _cæruleam pubem_. Ma la _damiatrice_ pronunciò la preghiera, maritandola ad una antichissima cantilena del Lazio: «Castissima dea, che le assidue ripulse al Fauno procace, a te, ancora terrestre, costaron sangue innocente; onde l’Olimpo ti accolse pietoso nella propria luce; inspira e consiglia e sgomenta il senso delle mortali che qui ti adorano. Rinnovella le virtù prische della neonata Roma; e dalla muliebre purezza sia redento e salvo e fatto glorioso e invitto il popolo romano.» Queste ultime parole, affidate alla stessa cantilena, vennero ripetute in coro da quante donne erano là inginocchiate, alcune delle quali si ribellavano all’alto concetto della preghiera. Quando tacquero i canti, la _damiatrice_ s’accinse a compiere il sagrificio che chiamavasi _Damium_, da _Damia_, altro nome che teneva la dea, donde venne l’appellativo della sagrificatrice. Questa immolò alquante galline di varii colori, tranne il nero; dopo di che, dodici tra le più giovani vestali, immersero nel _Mellario_ altrettante coppe d’oro, e così colme le recarono in giro. Tutte le donne ne bevettero, e le vergini ìvano e redìvano colle coppe ognora vuotate e ognora ricolme, continuando in tale servizio, finchè il _Mellario_ rimase esausto. Allora la sagrificatrice esclamò ad alta voce e in lingua greca: _Evviva il frutto di Bacco_ — e tosto cominciarono le danze bacchiche; e alquante donne, tra le più giovani e formose, e indarno devote della moglie di Fauno, travestitesi in Mènadi e Tìadi e Bassaree, le seguaci assidue di Bacco, si sciolsero le chiome, svestirono le stole e i pepli prolissi, e apparvero in pelli succinte, scuotendo cimbali e tirsi e spade serpentine. Forse è per ciò che agli uomini era interdetta quella solennità sacra, perchè i fumi vinosi esaltando nella danza vorticosa talune di quelle che eran sazie della settimana oziata, le eccitavano ad imitare le ignude baccanti, fors’anche per rivelare alle invide amiche le nascose bellezze. Aurelia stava seduta volgendo intorno il ciglio severissimo, quasi disapprovasse quei danzanti cori, più che della dea, cultrici della troppo geniale arte greca, nè tuttavia potendoli vietare perchè erano concessi dal rito biforme; nè danzava Pompea, ma passeggiava tra gruppo e gruppo, lenta e aggrondata e oppressa dagli sguardi onde la suocera la teneva in soggezione. Se non che, a un certo punto, un’ancella s’accostò a lei, e, annunciandole la visita di una donna, la ritrasse fuori del Procinto. — E chi è questa donna? chiese Pompea. — La vedrai, o domina. Ma frena lo stupore e comprimi il grido, se mai nel vederla, tentasse prorompere dal tuo labbro. — È forse qualche indovina dai nefasti augurii? — No; è tale invece che ti colmerà di gioia. Ma comprimi il cuore perchè non ti scoppii, e soffoca il respiro, e raccomandati a Giove onnipotente. E vennero a un recesso rimasto solitario, dove la luce dell’aula magna, attraversando atrii e fughe di colonne, si scioglieva in un pallido albore. — È tra quelle colonne, disse l’ancella. E la ignota donna incoronata di rose e bianco-vestita fece alcuni passi..... e prendendo a Pompea la tunica: — Or vedi se t’amo! le disse. L’ancella, smemorata della propria condizione, mise una mano sulla bocca di Pompea, con violenza non voluta a comprimere il grido che n’usciva, e si ritrasse poscia a qualche distanza. — Domani, continuava quella donna, io starò nel carcere Mamertino. Ma oggi sto qui; qui, o Pompea; e ti abbraccio e ti bacio, e si sperda ogni fede maritale, e Cesare m’invidii, e mi abborra invidiandomi, e mi accusi innanzi a Roma esterrefatta del mio ardire sacrilego, ma ammirata anche dell’amor mio sovrumano. È un dio in me oggi che mi comunica un furor sacro e un potere che varca ogni umana idea. Esci meco, o donna. Fuggi di qui, o Pompea, fuggi con me; e saziato alfine e risaziato il vietato amor nostro, si discenda sotterra, e l’aura solo degli elisi lo smorzi, e calmi e trasmuti in una beatitudine eterna. Pompea non rispondeva, e tutta tremante si lasciava abbracciare e baciare e ribaciare, non potendo por freno all’insanito impeto del travestito Clodio; nè volendolo forse, chè sentivasi rapita e inebriata anch’essa da quei detti infuocati e sincerissimi in quel punto. Ma gl’istanti volavano, e da quel recesso del palagio si sentirono voci più vicine e fruscìo di vesti e suon di passi vicinissimi. Pompea, atterrita, tentò svincolarsi dalle braccia di Clodio; l’ancella confidente, che stava sull’ale a qualche distanza, accorse ad ammonirli che potevano essere scoperti; e Pompea, strappata dalle mani del giovane la propria stola, che mandò suono di prolungato squarcio, fuggì, e si ridusse tra la folla muliebre, occultando i lembi del diviso bisso. Clodio si tolse di là, e movendo a caso e a tentone lungo le intime parti della casa, s’incontrò in alcune famule che là vegliavano. Quella donna aggirantesi colà solitaria provocò l’attenzione di esse; e la più vecchia ed astuta, domandando con voce alta di chi chiedesse o di che abbisognasse, le si accostò. Clodio rispose iracondo, ma la voce maschile, sebben di suono bastardo, non saputa alterare in quel momento di eccitazione e d’ansia e d’incertezza, lo tradì e lo scoperse; e la scaltra vecchiarda che, ben sapendo dei quotidiani inseguimenti di Clodio, e obbedendo riverente ad Aurelia, credeva gratificarsela con ostentare avversione a Pompea, lo conobbe e lo nominò forte; e corse ad Aurelia, ed empì di scandalo e di orror sacro le vestali e la moltitudine delle donne che affollavano il Procinto, annunciando che un uomo aveva invaso il tempio della dea antropofoba. Allora le matrone travestite da _Bassaree_ e da _Tiadi_, armate di bastoni intrecciati di pampini e d’ellera, mossero in cerca del profanatore, e lo trovarono che ancora s’aggirava lungo gli oscuri atrj. Lo circondarono affollate, gli gridaron d’uscire; nè ancora movendosi colui, lo percossero spietate, sospingendolo alle porte. Tra quelle _Tiadi_ e _Bassaree_ v’erano forse le smesse e dispregiate amanti di Clodio, che, immemori in quel punto della dea profanata, provvidero a vendicar sè stesse dei patiti insulti. E Clodio uscì, facendosi delle braccia valido schermo al volto che serbò inviolato. Alla notte succedeva il conticinio, o il primo crepuscolo. XIII. AURELIA E CESARE. La solennità era compiuta. Nell’ampio spazio che si stendeva davanti al palagio di Cesare, scalpitavano cavalli e rumoreggiavano ruote di cocchj fastosi. L’ostiario dall’alto della scalea gridava i nomi delle uscenti patrizie; e gli aurighi accorrevano. Suonavano nell’aere crepuscolare gli appellativi delle più vetuste case romane: Arvina Domus, Bubulea, Calpurnia, Censorina, Fabia, Drusa, Imperiosa, Julia... E dopo un’ora, allorchè al conticinio successe il dilucolo, e tutto fu silenzio intorno al palazzo, Aurelia uscì in cocchio dalle porte, e recossi alla Suburra, alla casa-tempio del figlio Giulio. Discese, entrò. Cesare vegliava nella biblioteca. Egli alzossi quand’ella gli comparve innanzi. Osservandoli, non si rivelava, al primo, nessuna somiglianza tra loro. Aurelia aveva l’occhio ampio, azzurro, calmo. Cesare lo aveva nero, profondo, saettante. Della madre non teneva che la linea del mento larga e quadrata, linea che poi la scienza rivelò significare la fermezza implacabile del carattere, e la forza della volontà. Della madre teneva pure la pallidissima pelle e la bocca non descrivibile, ma parlante anche nel silenzio. Del padre, che non conobbe, ei teneva quegli elementi discrepanti, che rompendo la linea severa di una troppo uguale virtù, la estendono e le comunicano una varietà infinita. Il padre aveva rivelato ingegno naturale fortissimo; ma non volle mai stancarlo nè col greco d’Omero, nè con quello d’Esiodo; aveva militato strenuamente perchè a tutto era atto; ma appena gli fu concesso, erasi ritratto in villa, dove morì in età appena virile. Da codesti mortali che non fanno dispendio delle doti onde la natura fu con essi liberale, nascono per consueto i grandissimi uomini. È il cervello forse, non mai adoperato, che trapassa nei generati, vergine, e intatto, e con moltiplicate forze, in quella guisa che l’avarizia paterna condensa ai successori inaspettate ricchezze. — Qual grave fatto ti conduce da me in quest’ora, o madre? — È più che grave; è inaudito: e volli che tu lo sapessi da me, prima che la voce di Roma giungesse al tuo orecchio. Clodio, in veste muliebre, penetrò questa notte nella casa Giulia; nella tua casa, che i Romani chiamano sacra, quasi tempio. L’osceno giovane insultò ai riti della dea, cui le vestali e noi, venerate matrone, sagrificavamo. Ei vide e parlò e tese insidie alla moglie tua. Gli schiavi espunsero il vero dalla lenonia ancella, battendola a verghe. Lungo la intera mia vita, che già misura nove lustri, non fu consumato mai così nefando sacrilegio. Appena se ne rammentava mia madre, che morì settantenne prima che tu nascessi. Ma domani, innanzi alla maestà del Senato, tutta Roma s’inchini alla maestà della tua vendetta. Le pene del carcere Mamertino vengano a tuo e a mio riguardo esacerbate; e dopo il decretato lustro, invece del perpetuo esilio, l’empio insultatore abbia morte sul Campo Scellerato. Una legge nuova surroghi l’antica. Cesare stette in silenzio per qualche tempo, e sulla sua fronte chinata, si vedevano, quasi nubi, a passare i pensieri; ma, a un tratto, di tetro, fatto calmo e sereno: — Abbi pace, o madre. Se un tigre s’avventa alle agnelle, non per ciò le agnelle vengono contaminate, nè patisce disonore il padrone dell’ovile. E, dopo tutto, era desso Clodio? desso certissimamente? — Mille donne il videro. — Era vuotato il _Mellario_ quando lo videro? — A che accenni tu? — Guarda, o madre: io non bevo che acqua, acqua tersa e leggera, che attraversando cento miliari, mi deriva dalla Campania. Se nel _Mellario_ sacro avesse brillato quest’onda, non avreste veduto Clodio; no, ma la sorella di lui. Castore e Polluce erano men gemelli di costoro due, e, in onta al sesso, assomigliavansi meno. — E dunque? — Io dovrei accusar Clodio domani, come la legge impone, ma non l’accuserò. Di codesti Clodj ve ne sono a migliaia in Roma; meno appariscenti, meno opulenti, ma Clodj in ogni modo: nella testa, nel cuore, nel sangue. E costoro mi abbisognano, o madre. Tu non sai quel che qui dentro ferve (e battevasi il fronte colla destra); non mi basta il tempo per provvedere alle inutili vendette che tu mi consigli. Altre vendette io voglio, ma grandi, più grandi di Roma, grandi come l’universo. Codesti Clodj son belve, e l’uomo usufrutta le belve, solleticandole. Però, credi a me, che non egli, ma sua sorella penetrò nell’apprestato santuario della dea. — Ma e permetterai tu che Pompea?... — Ella non fu che sventurata.... — Sventurata? — Sventurata che le verghe abbiano strappato una menzogna alla bocca dell’ancella; che le vestali e le matrone prostrate alla dea castissima, l’abbian creduta capace di tradir me, me Cesare, figlio della veneranda Aurelia, e che perciò io debba essere costretto a ripudiarla. — Non ti comprendo, o Giulio. — Il tuo senno doveva precorrere il mio. Non basta che la moglie di Cesare sia innocente, ella doveva essere superiore ad ogni sospetto. Però, se non fu, esca dalla mia casa e si cerchi altro marito. Ed ora bacia tuo figlio, o veneranda Aurelia, e affrettati al riposo; chè gli occhi tuoi accusano la stanchezza della notte vegliata. Aurelia, grave e silenziosa, partì. Cesare l’accompagnò fino alle soglie, e baciolla in fronte con riverenza. Ei fremeva di dentro; ma la madre non vide che serenità e calma. XIV. I BAGNI AL PONTE FABRICIO. Il dì successivo all’esecrando misfatto, tutta Roma stette variamente commossa di stupore. Nessun uomo fino allora aveva osato mescolarsi ai riti privilegiati della dea Bona con sacrilego intento. Solo nell’anno 640 di Roma un improvvido giovinetto della casa Fidena, sospinto da curiosità spensierata, vi si era accostato; e scoperto, e condannato, e chiuso nel carcere Mamertino, vi era morto prima che spirasse il lustro espiatorio. Ma anche fuori del sacrilegio, onde inorridivano i devoti di quel tempo, l’audacia di Clodio sembrava incredibile agli stessi conscellerati suoi amici e seguaci, per l’ingiuria fatta alla casa di Cesare, del prediletto, del già divino Cesare; per l’offesa recata ad Aurelia, sacra tra le matrone; e l’insulto, onde nella baciata Pompea aveva ferito il Magno eroe, l’invitto fino a quel tempo, tornato allora dalla guerra mitridatica, tra i raggi di una gloria che non pareva superabile, e i fumi di un orgoglio senza misura, onde nel tempio consacrato, dopo il trionfo a Minerva, aveva fatto scolpire: — Aver esso uccisi due milioni d’uomini, affondate ottocento navi, conquistate più di mille e cinquecento città. — Però i riti più vietati, la castità più custodita, il privilegio, la potenza, la gloria dei due più benedetti dalla dea Fortuna, Clodio aveva saputo avvolgere in un’onta sola. Intorno all’ora che i Romani chiamavano _meridiei inclinatio_, risuonava di voci il grande edificio dei pubblici bagni, che Cesare, essendo edile, aveva fatto costruire con insolita magnificenza, sebben di legno, presso al ponte Fabricio. Prima di Cesare, i pubblici bagni avevano servito soltanto per le povere classi; ma con lui e per lui vennero poi frequentati anche dai ricchi patrizj, dai senatori e dai cavalieri. A qualunque cosa Cesare provvedesse, sempre si scorgeva in esso l’intento sociale di equiparar le classi, di abbassare la nobiltà, confondendola con quella che Tullio chiamò _la feccia di Romolo_, e di rendersi così affezionata, obbediente e ligia la parte massima del mondo romano, ossia quella vasta e varia ed eterna plebe, mare magno nel quale egli intendeva di soffiar la procella a sua voglia, e di mandarvi naufrago il patriziato rivale. — Quell’edificio era vastissimo, e poteva contenere più di tremila persone. Era di legno, ma non appariva tale, perchè le tinte simulavano i marmi, e l’oro faceva splendidi gli architravi e i capitelli corinzj. Intorno all’edificio balneario v’erano botteghe e taberne d’ogni genere; le più eleganti sorgevano dalla parte del Tevere; tra queste alcune che sulla facciata portavano scolpita la parola — _Refectorium_. — Fuori di esse v’eran tavole di marmo e sedili dorati e velarj azzurri con stelle, a riparo del sole. Alle cineree toghe degli ultimi plebei, alle _pulle_ degli atrati, mescolavansi, agli ingressi ed alle uscite dell’edificio balneario, e purpurei laticlavj, e toghe pure e palmate e preteste, e loriche metalliche di veliti e astati; e tra una fitta di lercia plebe, fu vista a brillare anche la clamide _coccinea_ di Pompeo che uscì all’aperto recandosi sotto una tenda, dove Marco Tullio Cicerone stava conversando colle tre bellissime figlie del giureconsulto Scevola, e col rètore Diodato, che egli alloggiava. Allorchè splendette al sole la clamide di Pompeo, Cesare, dalla via che scende dal Palatino, se ne veniva a cavallo, seguito da due famuli equarj incontrandosi nel cocchio di Giulia, la sorella di Gajo Cesare, la vedova del padre di Augusto, che, fanciullo di tre anni, ella si teneva d’accanto. Esciva in quel momento anch’essa da quei pubblici bagni, cosa di cui gli storici fanno particolare menzione. — Salve, o Giulia, le disse Cesare. Tu dài riputazione a questi luoghi; bene sta che il tuo fanciullo sia teco; bello ei cresce, e caro agli Dei. — Grazie ti rendo. Oggi lo immersi io stessa per la prima volta nella vasca dei fanciulli che non pagano il quadrante. Pareva un picciol nume fra gli altri che carezzosi lo attorniavano. Certo non è più venusto nè più roseo il figlio alato della dea da cui derivi. — Ed ecco un problema storico. Nei tempi della prisca repubblica, quando le più rigide virtù erano custodi della libertà, i ricchi patrizj non si mescolavano mai alla plebe: il padre non si bagnava col figlio pubere, nè il suocero col genero. La repubblica non voleva l’eguaglianza. Ma nella decadenza di essa, il patrizio si mescolò invece alla plebe. Cesare aveva condotto le cose di maniera che così avvenisse; come aveva tentato instaurare i giochi greci, per intenti che non pareva avessero relazione alcuna con essi. Pompeo mesce la clamide alle _sordide_ dei plebei; il fanciullo Augusto è tuffato nella pubblica vasca insieme ai fanciulli volgari. Cesare non sapeva i destini del fortunatissimo fanciullo, come non sapeva che Adriano si sarebbe bagnato in pubblico in mezzo alla moltitudine, e che Alessandro Severo, nelle terme da lui erette, sarebbesi mescolato col basso popolo, e, siccome narra Lampridio, sarebbe tornato pedestre al palazzo imperiale in mezzo alla folla, colle vesti ancora indossate dei pubblici bagni. Tolta la libertà, è agevole a chi si tiene la supremazia di fatto, il dare spettacolo di eguaglianza apparente. Intanto che Cesare s’intratteneva colla madre d’Augusto, una frotta di giovanetti appena pretestati, usciva dai bagni schiamazzando. Marc’Antonio e Sceva spiccavano tra quelli. Il primo era già ben noto in Roma pei meriti paterni e la ricchezza e l’ingegno e la forza muscolare ch’ei veniva sempre più aumentando coll’assiduo esercizio e l’arte che gli comunicava il celebre atleta Cromi, l’invincibile nei giochi del circo, il desiderato dalle proterve romane, l’amante della famosa Galeria Emboliaria, la meravigliosa attrice romana, la quale, non ancora trentenne, possedeva case in città, e ville a Tivoli e a Brindisi, e seicento talenti (più di due milioni di lire italiane) che depositati nelle casse di Crasso, le fruttavano l’interesse del tre per cento. Sceva, lo sappiamo, era uno dei pochi giovinetti reduci dai campi sanguinosi di Perugia. Aveva seguito Catilina e Sempronia, e combattendo strenuamente con essi, con essi era caduto, e come estinto era stato trovato sul cadavere di Catilina. Esso mostrava una profonda cicatrice che, dal sopracciglio destro tagliato, saliva traversale fino al sommo delle tempia. Il giovane Antonio, seguito da Sceva, se ne venne a Cesare, che salutò ambidue facendo scorrere la destra sui capelli dell’uno e dell’altro, e piacevolmente tirando una ciocca al ben chiomato Antonio. La folla dei bagnanti e dei bagnati che sedeva innanzi alle taberne, con nappi colmi di sidro e cerevisia e di biondo lieo, guardava al gruppo di coloro su cui Cesare sovrastava, senza sapere, senza nemmeno sospettare di quali e quanti eventi il fato e la fortuna stava per renderli inventori e agitatori e vittime e raccoglitori beati. E in quel punto il cavallo di Cesare attraeva l’attenzione di tutti, perfino quella di Cicerone, per un istante smemorato del passato, spensierato del futuro. Eppure, tutta Roma rumoreggiava in quel momento di Cesare, e della moglie sua, e di Aurelia, e di Clodio, e del misfatto sacrilego, e dell’insulto fatto al cielo ed alla terra, e della onnipotente maestà del Senato, che avrebbe sgomentato i contemporanei e i posteri colla terribilità della sentenza e dell’esempio. Ma il cavallo di Cesare, tenuto in assidua ed elegante irrequietudine dalla mano esperta e dal consapevol piede del cavaliere, doveva per un momento trattener le parole sulle labbra di tutti gli astanti, e chiamare i loro sguardi sul pelo color margarita, che i pascoli dello Xanto avevan fatto insigne di lucentezza cangiante, e sulla criniera negra e il collo arcuato e le nari espanse e gli occhi sanguigni e gl’ineffabili garetti. Cesare voleva preparare Roma a negare importanza a quello che era avvenuto la notte prima, ostentando la propria calma nello spettacolo del frigio poledro. E il giovinetto Marc’Antonio, ammirando parte a parte le forme di esso: — E perchè, disse, o Cesare, non concedi nessuno lo ascenda di te infuori? — Perchè tutti me li sbalza lungi a centinaja di palmi; tanto è caparbio nel non volere che altri gli comprima il dorso. Il cocchio dove Giulia stava assisa proseguì la via. Il fanciullo Augusto, dalle guancie rosate e paffutelle e dagli occhi azzurri, colle manine a pozzette, gettava baci al giovinetto Antonio assai più che a Cesare (oh rose e pozzette bugiarde!). E Cesare lo inseguiva con lento e meditante sguardo. Pareva che qualche Sibilla vaticinante lo commovesse in quel punto; chè quel lungo inseguimento degli occhi non potea derivare che da un’ispirazione arcana. E Antonio, raccogliendo indifferente quei baci, non guardava che al cavallo di Cesare con attenzione innamorata, e: — Se tu mi concedi di ascendere questo poledro, mi parrà di essere un dio; e per la prima volta un dio ti adorerà. Codesto non avvenne mai, da che Giove tiene l’Olimpo in governo. — Ed io tel lascio ascendere. Ma bada che è men trattabile dello stesso Bucefalo d’Alessandro. Però, se riesci a dominarlo, te lo dono. E Cesare balzò a terra d’un salto, e prendendo il cavallo pel freno, si accostò, seguito da Antonio e da Sceva, alle taberne dove stavano Pompeo e Cicerone, dove tutti potevano ascoltarlo, e: — Te lo dono, continuò; ma devi anche volare a Interamna ad avvisar Clodio, il quale dimora là da più giorni, che una tremenda calunnia lo perseguita in Roma. Cesare, non a caso, parlò con voce oltre il consueto sonora; onde s’accrebbe il silenzio intorno a lui, e Cicerone lo guatò tra attonito e beffardo; e Pompeo chinò il grave capo, non sapendo che mai congetturare. E Cesare guardava, ascoltava, scrutava tutto, sempre, in apparenza, intento al frigio cavallo che Antonio aveva preso per le briglie, come se fosse già suo, e Sceva severissimo e già virile guardava disattento; il giovinetto Sceva, che non avendo di poi saputo congiungere vizio nessuno a virtù stragrandi, lasciò indifferente la fama, e quantunque destinato, come già fu detto, ad essere l’eroe primo di Farsaglia, non sarebbe giunto fino a noi, se Lucano non lo avesse vendicato dell’ingratitudine di Cesare. XV. CICERONE E MARC’ANTONIO. Cicerone, la vigilia del giorno decretato dal Senato per il giudizio del misfatto di Clodio, sedeva nella sua biblioteca che, al pari di tutte le biblioteche romane, era volta a levante, come punto più adatto per difendere i volumi dalle offese dell’atmosfera (_usus enim matutinum postulat lumen_). Intorno intorno alle pareti di quella stanza quadrata erano tante casse o _armaria_ contenenti i volumi o rotoli; ciascun _armario_ portava il suo numero d’ordine, ed era riposto nei _foruli_ o _nidi_. Di questo tempo la biblioteca di Cicerone, sebbene non ancora aumentata da quella ereditata da Attico, era la prima di Roma, superiore persino a quella di Cesare; ma questi non aveva ancor potuto colle gloriose rapine ajutare splendidamente la sapienza. Però sono a riputare quasi sincere le parole di Marco Tullio quando ebbe a dire ch’egli anteponeva la propria a tutti i tesori di Creso. Cicerone, per qualche ora, stette leggendo solo; poi il _librario_, il quale era uno schiavo custode della biblioteca, gli annunciò che veniva Marc’Antonio insieme col fanciullo Pollione. Cicerone chinò il capo; entrò l’adolescente Antonio, che della mano destra cingeva il collo al fanciullo. Il sedicenne Marc’Antonio soleva un giorno per settimana, quasi sempre _in die Jovis_, recarsi da Cicerone, per apprendervi l’arte oratoria, non l’eloquenza propriamente detta, ma la parte materiale di essa; le pôse, vale a dire, il gesto, il modo di inflettere la voce. Il giovinetto aveva una prodigiosa attitudine a questo; e Cicerone si dilettava nell’ammaestrarlo. Ma Pollione era scolaro quotidiano di Tullio, sempre che questi non fosse assorbito dal Senato, dai Comizj, dal Pretorio. Il più grande degli oratori latini idolatrava quel fanciullo, d’ingegno prodigiosamente precoce, e che già era la meraviglia di tutta Roma. Cicerone predisse quel che poi si avverò, che quel fanciullo di appena otto anni sarebbe stato oratore come Demostene, poeta più di Ennio, storico come Erodoto. Or, per tornare al giovinetto Antonio, non era Giove che presiedeva a quel giorno in cui venne a Cicerone, era Marte; ma non a caso il _Padre della Patria_ lo aveva fatto chiamare due giorni prima. Cicerone sorrise quando vide Antonio, e fece seder Pollione e gli diede un rotolo greco perchè tentasse di farlo latino. Disse poi ad Antonio: — La prima filippica di Demostene la sai tu? — Sì, tutta. — Sei parato a declamarla? Io ascolto.... Ma in prima disponi meglio le pieghe della toga. Un occhio di piega che venga a cader male in qualche parte del corpo può provocare il riso in tutto l’uditorio, tradir la causa del tuo cliente, e mandarlo desolato al carcere. Tutta la potenza del mio amicissimo Ortensio consiste nel preparar bene la toga. La plebe e la non plebe si pasce di nuge. Non comprende un detto sublime, ma ride e sibila e imperversa se una piega è fuor di posto. Dopo queste parole pronunciate incidentemente dal grande oratore, Antonio s’accinse a declamare la prima filippica di Demostene; e Marco Tullio in prima si alzò e, quasi fosse Fidia o Prassitele, venne acconciando alcune pieghe della toga, ancora pretestata, del giovinetto che non toccava i diciassette anni. La pretesta aveva alcuni ornamenti di porpora, ed un fregio speciale d’oro o d’argento chiamato _bolla_. E Antonio declamò. Lo sviluppo fisico in lui era completo; ampio già di spalle, rotondo di membra, sebbene asciutte, siccome avviene della prima giovinezza; fittissimi aveva e ricciuti i capelli, romanamente ricciuti; l’occhio nero, lucente, saettante, già pieno di terribilità; tuttavia, negli istanti della calma e dei tenui abbandoni, pareva di vedere in esso la voluttà che nuotasse nell’intelligenza. Aveva voce sonora, metallica, estesa sì che agli acuti, quando s’investiva di Demostene (chè era colmo d’ingegno e d’ardore e d’onda drammatica), nella calma notturna la sua voce avrebbe potuto percorrere un mezzo miliario; tuonò dunque nell’idioma greco. Lo stesso Cicerone, maestro sommo, gioiva a sentire la foga del giovinetto, quando sul labbro di lui quella lingua inimitabile diventava tempesta tutta irta di consonanti, nei punti che il greco autore aveva voluto soffiare la procella nella congregata Atene; e, negli istanti che s’era proposto di commuovere e cavar lagrime anche dalle più aride palpebre, aveva chiamato in soccorso le vocali onde, abbisognando, quell’idioma è tutto soave. Intanto che Antonio recitava, e Cicerone ascoltava, in un canto della biblioteca, il fanciullo Pollione traduceva dal greco, sospendendo di tant’in tanto quel lavoro, e prestando anch’esso attenzione alle parole di Antonio. Ma questi non era stato chiamato da Cicerone presso di sè per la lezione di declamazione. Essa in quel giorno non era che un pretesto. Però come ebbe finito, e Cicerone l’ebbe lodato: — Or dimmi, Antonio, gli chiese Tullio, come ti si prestò in una lunga corsa il cavallo di Cesare? — Nemmen uno dei cavalli che Febo aggioga alla quadriga può eguagliar questo di Giulio. È onda marina quando invade la riva; è saetta che scatta, è luce, è lampo. Nè altri che Giulio ed io potrebbe governare questo divino alipede. Cesare temeva per me. Ma io gli mostrai che ben ero degno del suo generoso dono. — E chi hai trovato ad Interamna? — Clodio, che vi dimorava da quattro giorni. — Parlasti seco? — Sì. — E ti disse? — Nulla; e non sapeva nulla. Sì l’ho avvisato io della tremenda calunnia che lo aveva assalito in Roma. — A che ora giungesti ad Interamna? — A mezzo il giorno. — Bene è. Clodio poteva essere già arrivato là prima di te, partendo al primo diluculo, quando, flagellato, fuggì dal recinto della oltraggiata Bona. Tu partisti due ore dopo. — Clodio non aveva il mio cavallo. — Ha bighe ed ha quadriglie Clodio. Ed ha cavalli romani velocissimi. Quattro fan sempre maggior via di uno solo. — Tu sei oratore grande, o Tullio, e filosofo sommo, e sedesti nella sedia consolare in modo da esser chiamato _Padre della Patria_: ma questo non ti dà il diritto di sentenziar di cavalli e di velocità. — Ma perchè ti recasti a Interamna? — Per veder Clodio. — E a che? — Per ammonirlo della calunnia che lo perseguiva. — E che te ne importava? — Clodio è giovane ch’io prediligo. Me fanciullo, presso ad affogar nel Tevere, egli salvò. — Dunque tu credi che nel dì dei riti della dea, egli stesse fuori di Roma? — Non lo credo; lo so. — Ed io so invece ch’egli era in Roma, perchè io stesso lo vidi. — Alla tua età, cogli occhi quasi abbacinati dalle continue veglie e da tutti i volumi greci e latini che stanno in quelle casse, è assai facile prendersi abbaglio. — Non ho tocco ancora il mezzo secolo e la notturna lucerna e i caratteri latini e greci mi lasciarono ancor potente la pupilla. Ma fossi stato anche cieco, nel dì dei riti ho parlato a Clodio che mi rispose. Però tu hai detto mendacio. — Non dirò ingiuria al mio maestro; ma respingendo l’ingiuria tua, sto e starò fermo nel mio asserto, e sarò testimonio validissimo contro le accusatrici e gli accusatori. — La porpora e l’oro della tua pretesta ancora infantile t’interdicono, o Antonio, d’esser testimonio. — E allora sarò ancora più terribile. — Che vuoi dire tu? — Tutti i giovinetti miei colleghi nei ginnasj e nelle accademie, tutti io condurrò, armati, a spaventare il Senato, quando mai facesse ingiustizia. Non son necessari i _Viri_, no, nè i veterani, nè i gladiatori a mettere Roma sottosopra. Ma noi dalla pretesta infantile basteremo. Vedranno allora i Romani qual cosa potrà o saprà fare il _Padre della Patria_. Così dicendo il giovinetto Antonio uscì precipitoso e Cicerone meditabondo gli tenne dietro collo sguardo. — Io gli insegno oratoria, pensò o proferì poi sommesso, ma Cesare insegna a costui l’arte degli ambidestri intrighi e delle fallacie indegne di così giovane età, e nel petto gli va già condensando l’ira ai futuri danni della patria. Oh Cesare! Silla ti avea conosciuto. XVI. TERENZIA. Uscito Antonio, entrò Terenzia, la famosissima Terenzia, perchè Cicerone volente o nolente, la tramandò ai posteri. Era donna di belle forme e forti; ma le linee del volto, sebbene giuste, non erano attraenti; e l’occhio rivelava intelligenza di donna volgare, e assai più fatta di malignità che d’acutezza. Sentivasi la vanitosa gloria di essere la moglie del grande oratore, del quale era fieramente gelosa, onde gli stava sempre presso e lo importunava, e guai se nei triclinii promiscui ei mostrasse alcuna deferenza per qualche altra donna romana. Nè solo era gelosa delle donne, per sè; ma era gelosa anche degli uomini, per Cicerone. Non trovava virtù nessuna in nessuno. Guai se alcuno le lodasse Ortensio o Crasso, ch’erano eloquentissimi. Allorchè Cicerone, il quale era davvero un _vir bonus_, e, purchè a lui si concedesse il primo posto, era facilmente liberale di lodi, dopo l’orazione di Cesare contro Dolabella, in un istante d’entusiasmo sincero, proclamò ad Apollodoro e al giureconsulto Scevola e al rètore Diodato che Cesare col tempo e persistendo sarebbe diventato il primo oratore di Roma, ella salì in tanto furore che gli astanti ne risero. Codesto amore fatto di ammirazione che essa portava a Cicerone, siccome non aveva nè modo, nè misura, nè buon giudizio, recava al grande oratore un tedio orrendo; chè ella codiava agli ingressi delle camere dove si raccoglievano i clienti, e ascoltava attenta tutto quello che dicevano gli amici che recavansi a visitar Cicerone, e poscia tempestava di rimproveri e di consigli e talora anche di minaccie il filosofo infelice, che calmo ascoltava e rado rispondeva; e per comprimere la tentazione di salire in furore, pensava intanto a qualcuna delle sue opere. Quante volte il _De Oratore_ e il _De Officiis_ lo salvarono dalle battaglie domestiche! — Voglio credere, o Marco, che tu non vorrai ascoltare questo sfacciatissimo fanciullo. Cicerone girò la testa, guardò Terenzia, e, continuando essa a parlare e a gridare, egli piegò il collo e volse gli occhi a terra, come chi è disposto a ricevere intero un acquazzone che imperversa. — Io stessa percossi l’infame Clodio e con me donne più di cento, tanto che a lui convenne partire, anzi fuggire; fuggir scornato, flagellato, insanguinato. Non poteva ei dunque trovarsi in Interamna quando ciò avvenne. Però, se io fossi Cicerone, il grande oratore, il _Padre della Patria_, vorrei davanti alla maestà del Senato, domandare all’empio da chi tenne tante ferite. Ben dovrà egli saper rispondere, perchè di quelle un uomo non può sanare in tre dì. E come hai tu sterminato i Catilinarj, devi sterminare così tutta la casa Clodia, e salvar Roma da questo giovane, che è il disonore dei patrizj, dei cavalieri, della toga e delle armi, perchè, appena ventenne, vi tien tutti in isgomento. Pompeo gli s’invola innanzi, Cesare gli è amico e lo lusinga e lo difende, Crasso gli dà danaro, tu tentenni al solito e più quando sei al suo cospetto, e non sopporti la luce di quel suo sguardo inesplicabile. O è un dio costui, un dio più in su di Giove, onnipotente come il fato, o non so più chi mai egli possa essere. E c’è la impudentissima Quadrantaria, la sorella; quella che ti sobillò a ripudiarmi per diventare la moglie tua; Quadrantaria, più impudente ancora del fratello, e per la quale si dovranno un giorno purgare le aure romane, e aspergere d’onda lustrale le donne tutte e le fanciulle di Roma, contaminate come furono dalla sola sua presenza. Come quando per comprimere un dolore fisico, si sospinge il pensiero a sprofondarsi in quei subbietti che per consueto lo rapiscono, così Cicerone, intento com’era in quei giorni a dettare il _Sogno di Scipione_, intorno al quale ei voleva sfoggiare tutta l’altezza e l’eleganza dello stile latino, riandava colla memoria quello che già aveva scritto, affannandosi nello studio di una perfezione che al suo gusto non mai contentabile pareva refrattaria. Però, risolvendosi per lui le parole di Terenzia in un rumore quasi privo di senso, riuscì anche questa volta a scansare un fracassoso diverbio. E, come terminando di ripetere a memoria un brano del suo lavoro sublime, si alzò, e rivoltosi a Terenzia, ripetè con voce sonora quelle parole che stanno nel Sogno istesso: _Ade animo et omitte timorem._ E così detto, uscì, lasciando Terenzia nel colmo dell’ira, che in lei quasi sempre, anzichè venir placata, si esacerbava pel silenzio di Cicerone. Il più grande oratore e il più gran filosofo di Roma antica era uomo d’indole mite: la efferatezza romana ei non la sentiva; pensatore multilatere, considerando gli uomini e gli eventi dalle faccie molteplici che gli si svolgevano innanzi, non stava mai fermo al suo proposito. Nel personaggio il più tristo e crudele, essendo gran scrutatore di caratteri, sapeva scoprir la vena dolce; però era incapace di odio. Negli uomini temperati alla più solida virtù, ei pur sapeva intravedere le occulte mire, e della virtù medesima sospettava la vanità. Catone, l’incorruttibile, l’inesorabile Catone era segno alle sue perpetue celie. Bensì era devotissimo dell’amicizia, purchè la simpatia dell’ingegno e la scienza ne fossero il cemento. Cicerone è stato forse il primo gran personaggio dell’antichità che preannunciasse il tipo degli uomini moderni. I Romani eran fatti di un metallo solo e fusi in un pezzo solo. Cicerone invece era metallo di Corinto, preziosissimo, ma di varia lega, e la sua statua era contesta di pezzi diversi. XVII. CESARE, CRASSO E CICERONE. Uscendo per recarsi al Senato, Cicerone, quantunque fosse certissimo della colpa di Clodio, sentivasi tutt’altro che eccitato a condannarlo. In primo luogo, come filosofo e pensatore, non essendo quel che potrebbe dirsi, un bigotto di Roma antica, in faccia alla giustizia assoluta, non dava grande importanza all’insulto fatto ai riti della dea Bona; dea di terzo ordine, la quale era piuttosto complice dei disordini delle matrone e delle donne romane, che inspiratrice e custode della loro virtù. Facendo la via, crollava dunque la testa, pensando all’importanza smodata che davasi alla colpa di Clodio. In secondo luogo ei temeva cotesto giovine inesplicabilmente terribile a tutti, e non sapeva risolversi a farselo nemico, e facendosi nemico lui, sapeva di rendersi nemici e Cesare e Crasso. Procedette così fino al tempio, dove il Senato doveva congregarsi. Innanzi al limitare di esso vide Cesare e Crasso circondati da una fitta di cittadini d’ogni classe. V’erano patrizj, cavalieri, tribuni, perfino senatori. Allorchè Cesare vide Cicerone gli si fece incontro, e: — Credo bene che tu avrai divisa la tua colla mia sentenza? — Ora non so nulla, o Cesare. Converrà sentir l’accusa, i testimoni, la difesa, tutto quello che è necessario a pronunciare una sentenza. Del rimanente, che Clodio abbia contaminato i riti della dea come lo ha giurato la madre tua, lo giurò Terenzia. Questo solo ti prometto, o Cesare, che non dirò e non farò cosa che sia contro alla giustizia. L’ambizione, che era la sola eccitatrice del coraggio di Cicerone, e che già lo aveva reso imperterrito e inesorabile nella condanna dei catilinarj, lo mantenne in rigorosa dignità anche questa volta. Non voleva mettere in pericolo il predicato di _Padre della Patria_, che lo aveva fatto sussultar di gioia, quando gli giunse all’orecchio pronunciato dalla gran voce del popolo romano. Così insieme con Cesare e con Crasso ei mise piede nel vasto pronao del tempio. Quanti stavano intorno ad essi entrarono in quell’immenso recinto, dove tutta Roma era affollata, tanta era l’importanza che davasi a Clodio e al suo delitto e al giudizio e alla sentenza che il Senato avrebbe pronunciato. E poco dopo entrò anche Clodio, fiero e provocante nell’incesso, infiammato negli occhi: e pareva Apollo sagittario, quando dall’arco suonante vibrava saette pestifere a contaminare il campo argivo. Il frastuono era al sommo. Cesare parlava ora all’uno, ora all’altro, ora all’altro. Crasso faceva lo stesso, e alle loro parole si vedevan teste inchinarsi, e mani comprimere sterni, come in atto di promessa e di giuramento. Solo a un certo punto nacque diverbio tra Cesare e un tal Trebonio. — Dammi altri cinquanta talenti, dicevagli questi, e farò a tuo senno. — Non li ho meco, Trebonio. Domani li avrai. — Adesso io li voglio, o Clodio sarà condannato. Trenta clienti stanno agli ordini miei. — Ebbene, attendi. Passeggiava tra quella folla, circondato dai suoi pari, un tale Assio, celebre usuraio di quel tempo. Capitanava una schiera di manutengoli, e in tutti i giorni d’assemblea venivano nel pronao a mercanteggiar di danaro. Quell’Assio era già vecchio, e avea militato in Asia portando in Roma, insieme con alquanti de’ suoi commilitoni, assai danaro. La sua schiera chiamavasi l’_Acies Asiatica_. Cesare gli si avvicinò e gli disse: — Dammi cinquanta talenti. — Non li ho meco. — Valli a prendere sull’istante. — Se Crasso ti fa garanzia, vado. Cesare chiamò Crasso. Questi, sentito il fatto: — Va, gli disse, e presto. Rispondo io. Va. Assio partì. Continuava a rumoreggiare il gigantesco pronao. La varia folla, dove tutte le classi si mescevano, era fondo cupamente agitato, quasi fosse onda acherontea, sul quale staccavano a grande rilievo gli antichi illustri scellerati. XVIII. CLODIO. Chi s’addentrò nella storia romana con istudio più che mediocre, e, com’è naturale, per l’invito del soggetto stragrande, s’intrattenne più a lungo coi personaggi onde gli ultimi cento anni della repubblica sono in vario modo famosissimi, avrà dovuto pensare che Clodio non ha nulla di comune cogli altri celebri, e nello stesso tempo farsi la quistione del perchè, senza nessuna precedenza di guerra, di conquiste, di gloria, senza nessun prestigio eccezionale di quella eloquenza colla quale si esaltano ad ingiuste predilezioni le facili plebi, colui abbia potuto diventare così invadente, tremendo, invincibile, pur nel fitto di tante strenue figure, e tra quei colossi di Cesare e Pompeo. Ma, ad una malvagità che passava la misura, ad un temperamento di belva indomabile, congiungeva una forza di volontà tale che non lo faceva mai dubitante in faccia a qualunque ostacolo. Doni naturali e fortune spontanee aveva avuto nella beltà fisica e nella ricchezza; ma questi doni divideva con altri molti; e se la ricchezza gli aveva giovato per tenere una schiera numerosissima di schiavi e gladiatori, della bellezza non aveva saputo far uso se non se per rendersi odiosissimo alle donne, che egli disprezzava e insultava appena che, attirate dalle fallaci apparenze, gli si abbandonavano inconscie. Codesto fenomeno umano di Roma antica lo si spiega adunque col solo fatto della forza della volontà. E codesta forza a Clodio derivava dalla efferatezza e dal men che mediocre ingegno, che gl’impediva di vedere i pericoli; il che spiega altresì come Cesare, l’idolatrato, palpasse la groppa di quel cavallo selvaggio. Ma se si spiega la cagione della deferenza di Cesare, non si può scusare l’uomo che palpa adulatore e mendace, potendo flagellare a sangue e punire. Se non che, Cesare intendeva valersi di Clodio in quella guisa onde l’indiano sguinzaglia il leopardo a cacciare le antilopi. Viltà però era questa, della quale nessun panegirista saprebbe salvarlo, e che mostra davvero come nessuna faccia dell’umano poliedro mancasse a Cesare, nemmeno la viltà, e come tutte le sue doti incomparabili e pressochè sovrumane, egli governasse con una prudenza longanime e fredda, che pareva scaglia di serpente attorta ai generosi fianchi del leone. Intanto che i senatori, tenendo dietro ai consoli Pisone e Messala, entravano nel tempio, Cesare diceva a Clodio: — Male fu, o Clodio, che siasi pubblicato questo decreto — _a Pontificibus factum Clodii nefas esse decretum_. — E, come il leggi su questa colonna, non è cantonata in Roma dove esso non si veda. — Ridicola cosa è questa, o Cesare, che il Senato siasi rivolto al collegio dei pontefici, perchè sentenziassero se il fatto onde sono imputato sia un delitto. Se il fatto fosse, il delitto esiste, la legge non fu abrogata. Se io vengo accusato d’aver congiurato a’ danni della repubblica, non occorrono pontefici per sentenziare se questo sia delitto. Occorre sentenziare se l’accusa sia vera o falsa. — _Macte animo_, o Clodio, sebbene la parte più formidabile del decreto sia questa. Leggi. — Ho letto; il so. — _Ex_ S. C. _consules ad rogationem promulgandam vocati_. Quasi tutti i senatori ti sono avversi. Con questo decreto intesero alla rovina tua. La faccia tremenda di Clodio e invariabile, parve impensierirsi. Cesare lo guardava e rideva nell’animo. — _Macte animo_, ripetè poscia. Il tribuno Fufio Caleno mi obbedirà. Esso è già entrato, e siede nel suo stallo. Egli farà obbiezione al decreto. Così dicendo, entrò nel tempio insieme a Clodio. Eretto espressamente vicino alla Curia, e dedicato a Giove, quel tempio era costrutto in forma di elissi, a guisa di circo; aperto nella vôlta, sotto a quella, rigirava un _podium_ su cui si affollavano i Romani che vestivano il sajo o la cinerea toga, e che, da quell’altezza, seppure vedevan muoversi le bocche senatorie, ben rare volte dall’onda sonora era ad essi fatto dono delle orazioni declamate. A loro pareva di sentire ed eran paghi; e, ad ogni modo, si godevano ad ammirare la maestà dei padri della patria, e i non sperati laticlavj. Assai più sotto, e quasi presso alla statua d’oro di Giove, che sorgeva al disopra degli stalli dove sedevano i consoli, girava, soltanto la terza parte della vasta elissi, un altro _podium_, coperto da un aureo graticcio, dietro al quale ascoltavano, non vedute, le vestali e le cospicue matrone romane. Raro era che quello fosse occupato; ma in quel giorno appena bastava per contenere tutte le intervenute. Oltre le vestali, la maggior parte aveva sacrificato alla dea, e taluna di esse sapeva che i mariti avrebbero deposto Clodio non esser penetrato. Dirimpetto al _podium_ delle vestali e delle donne patrizie, girava quello dei cavalieri, non coperto da graticcio. Dal pavimento del tempio, sorgeva in semicerchio elittico una gradinata di tre alti piani, sui quali eran disposti, a breve distanza l’un dall’altro, gli stalli dei senatori. Di contro a questi, sovra una base più giù della gradinata senatoria, eran le sedie dei consoli, innanzi alle quali stava una gran tavola di porfido egiziaco, meraviglia anche allora, per l’ampiezza eccezionale del monolito. Su quella tavola s’accumulavan tabelle cerate d’ogni maniera e d’ogni misura, e volumi e rotuli e stili di ferro. Tra la gradinata senatoria e le sedie consolari, quasi sotto al _podium_ dei cavalieri, stavan le sedie dei tribuni della plebe. I senatori erano tutti entrati nel tempio, e passeggiavano, in attesa dei consoli, nei vuoti spazj, ostentando la larga striscia di porpora, e il metallico C (_cento_) che brillava presso la punta dello stivaletto nero che saliva a sorpassar la noce del piede. Quel C significava il numero originario dei senatori al tempo dei re; ma l’ampia striscia purpurea e il nero stivaletto e il C lucente, significavano altresì che ciascun senatore possedeva ottocento mila sesterzj di rendita (centomila delle odierne lire). Essi, a gruppi di vario numero, parlavano, discutevano ed empivano il tempio di frastuono, accresciuto dal bisbiglio incessante del popolo minuto, salito in alto, e dalle voci delle vestali e da quelle dei cavalieri. Entrarono finalmente i consoli Pisone e Messala, pei quali si fe’ gran silenzio nel vasto recinto. Ed entrò il tribuno Quinto Fufio Caleno, che, attraversando il tempio, si recò difilato al suo stallo. I senatori tutti, gravi e taciti, ascesero la gradinata, e sedettero. Cesare e Cicerone, quali esaminandi, stettero in disparte insieme coi testimonj. Il console Pisone alzossi, e: — Padri coscritti, prese a dire, a noi consoli, con decreto che già tutta Roma ha letto, e che, ad ingiuria della sapienza vostra, reputo sia stato intempestivo, avete ordinato di fare una legge che sottomette Clodio ad un giudizio davanti al popolo. Ora, quand’anche io e il mio collega dividessimo la sentenza vostra, venne a noi il tribuno Caleno qui presente, ad opporre il _veto_. Parli or dunque il tribuno. Fufio Caleno si alzò, e con voce chiara e sonora così parlò: — Padri coscritti, soltanto ad impedire si sparga sangue cittadino, io opposi il _veto_ al vostro decreto. Clodio è amato e sostenuto dal suo numeroso partito, il quale è disposto a far tutto per lui. Egli ha partigiani perfino negli adolescenti e nei fanciulli. Fuori di questo tempio, credo bene ve ne siate accorti, o senatori, giovinetti a migliaia, armati di daghe e pili, capitanati dal giovinetto Marc’Antonio, assai noto in Roma — il quale è di sì gran forza che a sedici anni nel ginnasio atterrò un gladiatore, e nelle esercitazioni che tiene il greco Apollonio improvvisò orazioni che fanno presentire in esso un agitatore d’uomini, fatale — mandano grida furibonde al cielo, pel timore che non siasi per far giustizia in codesto sacro tempio; ma Clodio è anche odiato.... A queste parole, un — _no no_ — ripetuto da centinaja di bocche, risuonò dal _podium_ dove stava affollato il popolo minuto. Cesare e Pompeo aveano sparpagliato numerosi clienti colassù, perchè distribuissero danari, onde a tempo opportuno far nascere un tumulto che lasciasse in tronco e giudizio e sentenza. Il senatore seniore, che era Marco Scauro, e per il diritto dell’età presiedeva alle assemblee, si alzò e fe’ cenno ai tubatori, che diedero fiato alle trombe. Era quello il primo segno col quale s’intimava silenzio al popolo che, gridando, mostrava di non rispettare la maestà del Senato. Al terzo segno le guardie del tempio solevano ascendere a far sgombrare il _podium_. — Ma Clodio è anche odiato, continuava ad alta voce il tribuno Caleno, nè saprei se in Roma, in suo cospetto, sia prevalente l’odio o l’amore; onde, o padri, non essendovi partito soverchiante, ma sembrando invece troppo eguale la violenza delle forze in conflitto, la zuffa sarà lunga, sanguinosa, orrenda, esiziale a Roma. Padri coscritti, per l’amore sacro che voi portate a questa patria, io vi supplico: _scancellate il decreto_. Per verità che queste brevi parole del tribuno Caleno furono sapientemente astute; non potevasi trovar ragione più forte e più santa per respingere qualunque obiezione; ma il Senato sapeva che Caleno era grande sostenitore della fazione Clodiana. Però il seniore Marco Scauro si alzò di nuovo, e: — Metto ai voti la proposta Caleno. Chi l’accetta si alzi; chi la respinge rimanga seduto. — Propongo invece, disse alto un altro senatore, che i voti siano segreti. Così nessuno avrà taccia d’essere stato intimidito o consigliato da fini obliqui. Intanto che stavasi apprestando la votazione segreta, il console Pisone ascese la gradinata dei senatori, e passò di fila in fila, parlando con gran calore a ciascuno di essi. Ei li andava sconsigliando dal mantenere il primo decreto, come racconta Cicerone nella sua epistola ad Attico. E in questo punto istesso Cesare si alzò, recossi vicino a Clodio, che in piedi e fremente guatava intorno intorno i congregati nel tempio, e: — Ascolta un mio consiglio, gli disse. — Quale? — Tu fremi; ma ora convien smettere l’ira. Percorri tu pure quelle file, e umilmente raccomandati a ciascun senatore. — Io? — Tu — se non sei ascoltato, guai! — la rogazione ti è fatale. Il terribile Clodio che per un istante si umilia, protestando pur sempre la propria innocenza, li piegherà tutti al più mite consiglio. Clodio guardò Cesare a lungo, e la fierezza gli perdurava nel marmoreo volto, e, sebbene di dentro fosse tutto sgomentato, le linee e i piani di quello eran fatti così stabili all’espressione dell’ira, che questa appariva pur sempre, anche allorquando nell’animo stava il timore. Il quinquennio nel carcere Mamertino, e l’esiglio perpetuo, anche per riguardo a’ suoi pazzi disegni di conquiste, di gloria, d’impero, gli davan troppo a pensare perchè non ascoltasse il consiglio di Cesare, quantunque indicibilmente gli ripugnasse — e s’avviò, e ascese le gradinate, e, come racconta ancora Cicerone, in modo umile e sottomesso, si gettò, con grande meraviglia di tutti, ai piedi di ciascun senatore. Cesare non avrebbe mai fatto questo, in qualunque orrenda circostanza si fosse trovato; ma l’animo suo non era putrido della malvagità di Clodio; e se, qual mezzo indispensabile, poteva usufruttare la viltà segreta, il fortissimo intelletto gli sconsigliava la viltà palese, e l’alta ambizione gli avrebbe fatto preferire la morte più dolorosa al vergognoso atto di piegar le ginocchia davanti a dei mortali. E intanto gioiva nel veder Clodio umiliato a quel modo; e pensava che, siccome la verga ardente dell’Indo ammansa anche il tigre, così, dopo quel fatto, Clodio sarebbe divenuto strumento assai più duttile nelle mani di chi avrebbe voluto farne uso. Intanto che i senatori discendevano nel mezzo del tempio a deporre le palle nella divisa urna, Cesare, per involarsi al tedio di quella sfilata di laticlavj che, essendo più di quattrocento, doveva consumare assai tempo, pensò di ascendere a fare una visita gentile alle donne, matrone e fanciulle patrizie, che sedevano nello scompartimento del _podium_ a loro assegnato, e che le divideva dalle vestali. Uscì dunque dal tempio, perchè l’accesso a quel luogo era esterno, e salì. Che i senatori e i cavalieri si recassero a visitar le donne colà nei giorni d’assemblea, non era vietato; questo tuttavia non soleva avvenire quasi mai, o ben di rado; onde l’apparizione di Cesare provocò in quasi tutte una sensazione di meraviglia, e, in talune anche, di vivissimo piacere. Egli s’intrattenne innanzi a ciascuna, dicendo parole eleganti e lusinghiere. Quando venne a Terenzia: — E dunque, le disse, pare a te, o la più avventurata tra le consorti, chè è una gloria appartenere a Cicerone, pare a te Clodio uscirà assolto da questa votazione, e la sua innocenza sarà vivamente rischiarata dal sole di Roma? — Se il sole di Roma rischiarerà le menti di coloro che laggiù stanno ora votando, mi confido che l’empio misfatto sarà punito come la legge impone. — Male pensi, o Terenzia; gli occhi tuoi, la notte dei riti, erano fatti torbidi e falsoveggenti dal consacrato lieo. Però nella sorella di Clodio vedesti il fratello che abborri. Io so tutto. — Quadrantaria? — Sì, Quadrantaria — che voi tutte spose e matrone e viragini, insigni di virtù e di quella castità onde la Diana Efesia provoca i dispetti di Febo, respingeste dalle vostre adunanze. — E adunque quante siam qui eravamo losche allora? — Tutte, o Terenzia. — Non esclusa la madre tua? — Non esclusa. E Cesare procedette innanzi, e interrogò amabilmente e astutamente ed epigrammaticamente altre donne, delle quali non era alcuna che non fosse iraconda contro di Clodio, e: — Guarda, o Cesare, gli dissero a più voci, guarda che fa Clodio adesso. Chi è innocente è imperterrito, e si conforta di generoso disprezzo. Ma l’indomabile belva sanguinaria or lambisce finalmente con lingua di coniglio. — A lui importa che la sua innocenza trionfi. Gli riuscirebbe più tetro il carcere, pensando che lo si volle in ogni modo vedere in Roma contaminatore di castissime donne (e fece un’appoggiatura forte su quel superlativo), mentre villeggiava in Interamna. E passò alla madre, che lo guardò severissima e taciturna. — Prendi, o madre, le inspirazioni da Minerva, e lascia che Nemesi avveleni altro sangue. E passò a Servilia. — E tu che pensi di Clodio? — Nulla io penso, io non lo vidi ai riti. Servilia portava tale e tanto amore a Cesare, che, sapendo l’amicizia di lui per Clodio, non aveva voluto deporre ai danni di lui, protestando di essersi intrattenuta innanzi all’ara della dea, quando le altre donne vestite da baccanti e armate di tirsi erano uscite per vendicare non sapeva quale ingiuria. La votazione era finita, Cesare discese. Si contaron le palle. L’umiliazione di Clodio, e le insinuazioni del console Pisone, e le astutissime parole di Caleno, per allora, non valsero nulla. Quindici senatori votarono a favore di Clodio: quattrocento contro di lui. — E passò il decreto che ordinava ai consoli: inculcassero la rogazione con tutta la loro autorità, e niun altro affare si trattasse prima che questo non fosse esaurito. Cesare, in presenza di un decreto tanto severo, quantunque volesse tener celati i proprj intendimenti, già s’era mosso per recarsi alla tribuna; ma sorse Ortensio, il decoroso ed artistico Ortensio, l’oratore a nessuno secondo, e che Cicerone, pure invidiando, amava. E prima di parlare s’acconciò magistralmente le pieghe, e con voce atta all’espressione musicale (dono che Cicerone non aveva, tenendo una voce sonora sì, ma aspra), — Senatori colleghi, esclamò. Non vi dirò che il mio voto fu per respingere la rogazione. Caleno ha parlato con gran senno. Gravi disordini saranno certissimamente per nascere da questa violenta risoluzione. Però vi faccio una proposta conciliatrice, che spero sarà da voi benignamente accolta. Il tribuno Caleno pubblichi dunque _una legge per la quale si debba giudicare la causa di Clodio innanzi al pretore con giudici eletti_. Per deferenza ad Ortensio, che era altamente rispettato ed amato in Roma, e quasi sempre interpellato ed ascoltato in Senato, quella proposta fu accolta per acclamazione, e così pochi minuti distrussero la votazione di due ore. XIX. LE TRE GRAZIE E I TRE FAUNI. Se non che, portata la causa davanti al pretore, Cesare, Crasso e Clodio videro essere stato inutile tutto il denaro profuso tra i senatori ghiottoni, e i testimonj bugiardi, e il tribuno ambidestro; e pensarono che tutto riusciva a capo, che i maneggi erano divenuti assai più difficili, perchè era necessità brogliare in prima per la scelta dei giudici, poi con altro oro disarmarli d’onestà e di giustizia. Quella scelta per Clodio andò tra bene e male. Cinquantasei furono i giudici; di questi varj erano i temperamenti, le tendenze, le amicizie, le inimicizie, le virtù, i vizj. Tuttavia, l’oro onnipotente riescì a fare della maggior parte di quei molteplici elementi una pasta unica ed avvelenata. Alcuni però resistettero, rispondendo con insulti alle tentazioni; ed erano i più potenti, i più influenti e i più ricchi, come naturalmente doveva essere. L’oro per essi non poteva aver la forza dell’esca. Ma Cesare tanto almanaccò, che riuscì a cavarne più che un costrutto. Tra quei giudici v’era un _Contatore_, un _Ceva_, un _Furio_, di sfondate ricchezze, come fu detto, amanti della repubblica, onestissimi nella trattazione degli affari proprj e degli altrui; ma protagonisti in Roma di strani e non casti racconti, per l’effeminatezza dei loro costumi e per libidine delira. — Però, disse Cesare a Crasso — in un punto che stavano tormentandosi per diradare le difficoltà — se io avessi le tre Grazie che vive e vere tu recasti a Roma da Atene, certo che costoro sarebbero presti a giurare anche il falso. — Anch’io ho pensato a questo, rispose Crasso; non veramente alle tre mie Grazie incomparabili, ma ad altre fanciulle che tengo nel gineceo; e ti giuro pei numi ch’io sono talmente arso di puntiglio per riuscire in questo affare, che per appagarmi darei fondo a tutti i miei tesori, non che alle tre Grazie. E Crasso fece in modo di trovarsi con quei tre onestissimi Fauni togati; e, parlando con essi delle più belle donne di Roma, venne a proclamare la preminenza delle greche. — Ed io ne tengo di tali, soggiunse poi, che le più famose fanciulle romane parrebbero laide al loro confronto. Tra le altre, son tre ateniesi, insigni di così attraente perfezione, che tutte le statue d’oro degli dei che hanno are in Roma non varrebbero a compensarle. Ma tu non credi, o Furio. Ebbene, tutti e tre v’invito a cena; e intorno al triclinio, dopo l’inspiratore Falerno, gireranno liberali della loro scoperta beltà le sedicenni, coronate di fiori, che, al pari delle ore, mi segnano i passatempi del giorno. — E noi verremo, o Crasso, e ammireremo anche gli altri tesori da te accumulati nelle tue conquiste. E venne l’ora della cena; sedettero al triclinio i tre invitati; vi sedettero Cesare, Crasso e Lucullo. Fu lenta quella cena, lieta, briosa, lucente oltre il consueto. I tre Fauni stavano tracannando Falerno, quando, a un tal punto, vennero introdotte sette fanciulle delle più belle, comperate già, col più squisito intendimento dell’arte, nelle varie provincie d’Italia; e tutte nel costume delle sette _eterie_ che furon messe innanzi a Fidia, perchè delle parziali e diverse loro bellezze ne plasmasse un insieme unico di non raggiungibile perfezione. E quelle fanciulle, a un cenno, quasi trasvolarono innanzi ai tre invitati attoniti e acutamente concitati; e uscirono dal triclinio. — Ebbene, amici, disse allora Crasso, codeste che avete vedute, son bellissime figlie della terra; ma or vedrete le Grazie immortali, le tergemini di Citerea, le sorelle d’Amore. Sorgete ed adorate! — E diè un cenno. Entrarono le tre Grazie, pudibonde, raccolte, chinati e timidi gli sguardi. Erano inver beltà tutta divina. Anche i volti di Lucullo e Crasso lucevano arrubinati di Falerno, e il raggio dell’occhio, male affratellandosi coi raggi delle fiamme che splendevano nel triclinio, raddoppiava loro il numero delle tre dive; e le giudicavano con entusiasmo, ma senza quel discernimento che vede il casto nel perfetto nudo. Ma a Cesare, il quale non beveva mai vino, guardando quelle fanciulle, non pareva più impossibile che la greca Elena avesse potuto esser cagione di una guerra decenne; e, dopo averle osservate senza turbarsi, pur in mezzo a quel presente tutto pregno di voluttà, volse il pensiero al futuro. E il futuro consigliò Cesare ad alzarsi, e a guardar Crasso con occhio sì parlante, che quegli, sebbene esaltatissimo, comprese; e ammiccato alle schiave custodi, le tre dive, comperate da un mercante di Atene a un prezzo minore di quello ch’era stato offerto pei tre poledri celeberrimi, involati alle stalle di Mitridate, uscirono di là — e poco dopo usciron tutti — Crasso trasse in disparte Furio, e: — Voglio che tu parta soddisfattissimo di me; ho in pensiero di farti un dono; ma a un patto. — Qual dono e qual patto? — Ti concedo Aglaja, la più bella delle tre Grazie; ma tu devi operare in modo che per tua parte Clodio sia rimandato assolto. Al Fauno patrizio parve incredibile e insperabile il dono; onde conchiuse coll’accettare e coll’obbedire e col promettere e col giurare. Gli altri due fecero il medesimo. Nè qui terminarono le vittoriose insidie tese da Cesare e Crasso; ma altre più turpi e più inaudite ne ordirono, e molti stetter conficcati all’amo. E venne il giorno che al Pretorio si radunarono i giudici per emettere l’ultima sentenza. Essi, come fu detto, erano cinquantasei. Venticinque condannarono Clodio, trentuno lo assolsero. Così nei tempi corrottissimi si vende e si compera la giustizia, e non è mezzo, per quanto osceno, a cui non si ricorra. E in proposito del fatto di Clodio e dell’oro profuso e delle fanciulle offerte e accettate, e d’altre turpitudini ancor peggiori, così prorompe Cicerone: — _Giammai una più scandalosa compagnia di ribaldi si assise innanzi alle tavole del giuoco assassino. Fra senatori infami e cavalieri cenciosi, sedettero pochi uomini onorati, coi volti mesti, quasi tementi di esser guasti dal contagio di quegli scellerati._ Ma chi era lo scellerato primo e massimo? XX. POMPEO E CESARE. L’assoluzione di Clodio, che siccome altamente se ne querelavano i savj, aveva per la prima in Roma, con sì palese scandalo, rovesciata l’ara della giustizia, mentre mostrò quanto fosse prepotente la volontà di Cesare, a lui tuttavia non avea recato nessun giovamento. Dipendeva solo dalla fortuna e dagli eventi e dall’incerto avvenire s’egli avrebbe potuto trarne un prezzo che fosse pari all’enormezza del turpissimo broglio. E fino a quel momento, di tutto quello che egli avea fatto per aprirsi una via alla potenza, alla gloria all’immortalità, non aveva raccolto frutto nessuno. Dei numerati eroi, che sono gli atleti nella palestra dell’azione, e, quasi miliarj, segnan le distanze e i caratteristici mutamenti della storia, Cesare è il solo che abbia dovuto o voluto attendere gli anni della gioventù più matura per salire al primato, e far convergere a sè gli sguardi dell’umanità. Correva l’anno 692 di Roma. Cesare aveva trentott’anni; se allora fosse morto, l’oscurità avrebbe circondato il suo nome, perchè nulla ancora avea fatto di grandissimo, e le fatiche di una insistente preparazione erano segreti affanni della sua mente e della sua ambizione. Ma quell’anno doveva segnare il suo momento critico. Sul principio di quello, Pompeo era tornato a Roma dalla guerra mitridatica. Aveva dilatate le frontiere dell’impero: il Ponto, la Siria, la Bitinia aveva ridotte a provincie romane; lasciando infino al Tigri tributarj della repubblica tutti gli altri re e popoli orientali. Aveva preso la città e la fortezza di Gerusalemme, entrando nel vietato _Sancta Sanctorum_ del famosissimo tempio. Aveva condotto Aristobulo e i suoi figli prigionieri in Roma, fatto tributario Ircano, date leggi ai popoli conquistati, fabbricate trenta città, fatto il dono di cento milioni italici alle licenziate legioni. Però dal Senato gli era stato accordato il privilegio di portare nei dì festivi una corona d’alloro e la generalizia veste e l’abito trionfale nei giuochi equestri. Tutti lo proclamavano _il primo cittadino di Roma senza rivali_; e i prudentissimi di Roma, a stornare i crescenti disordini, già lo desideravano e proclamavano _Dittatore_. Primo ed unico era dunque nella città dominatrice: a lui privilegi, a lui corone, quasi re, quasi dio, e, per di più, era tornato a Roma coi carri di guerra colmi di tanto oro ed argento e gemme, che il medesimo Crasso non poteva più vantarsi d’essere il più ricco Romano. Ed era stata sì vasta e immensurabile la rapina, che Demetrio liberto di lui e maggiordomo, e ladrone come sappiamo, aveva raccolto per sè più di venti milioni; onde, a mostrare gratitudine verso l’indulgente padrone, gli fece erigere a proprie spese quel primo teatro di pietra che s’intitolò da Pompeo appunto. E nel tempo stesso in cui sorse il teatro monumentale, Pompeo edificò un tempio a Minerva, che fu celebre, più che per la sontuosa architettura, per l’iscrizione tanto laudatrice del Magno eroe, che l’orgoglio umano nè prima nè dopo non ebbe mai esaltazione maggiore. Cesare, che disprezzava Pompeo, e lo credeva indegno di tanta fortuna, e lo chiamava ladro della gloria altrui nella guerra spartacica e dei Pirati, e diceva sì agevoli le vittorie sue, che anche un pretestato avrebbe saputo compirle, e lo chiamava il più ignorante dei Romani, e il meno atto a concionare, e il più intricato nei colloquj dove l’arte e la scienza e la filosofia avevano parte, guardava e fremeva a tanto sperpero di gloria e fortuna e potenza e ricchezza, e, ritorcendo sopra di sè lo sguardo, pensava di aver dato fondo a tutte le ricchezze avite; chè il sommo pontificato, l’edilità, il pretoriato, lo avevan lasciato così sprofondato nei debiti, che oramai gli mancavano duemila talenti (dodici milioni di lire italiche) a non posseder nulla. E codesta frase, ch’ei trovò per la prima volta in uno di quei momenti nei quali l’ira si converte in facezia, per la prima volta fece il giro di Roma, e provocò il riso dei ricchi e dei poveri, e fu poi ripetuta per lungo ordine di secoli dagli indebitati di tutte le classi. Esso era anche uscito dalla carica di pretore, influentissima in Roma, perchè tutte le contese relative alle cose dell’amministrazione pubblica e privata, e alquante che riguardavano la giustizia e l’osservanza delle leggi, dovevano passare per le aule pretorie. Era dunque ridotto alla condizione di un semplice cittadino privato; sempre il primo tuttavia nei consorzj geniali, alla palestra, all’ippodromo, nelle disputazioni legali col giureconsulto Scevola e le tre sue figlie bellissime, sfoggianti muliebre sapienza pei riverberi della luce paterna; ascoltato nelle questioni d’arte da Arcesilao, da Postumio, da Ermodoro, architetti insigni; vincitore sovente di Varrone in questioni d’archeologia; insegnatore a Pompeo di più esatta geografia de’ paesi che colui aveva conquistato; meraviglia all’astronomo Posidonio, che da lui scolaro tenne lampi rischiaratori nelle ricerche intorno al flusso e riflusso; e meraviglia a Sosigene, ch’ei già preparava alla riforma del calendario. Ma codesti primati, sebbene costituissero tanti diritti, pur lo mantenevano inerte nel campo de’ grandi fatti. Sebbene però guardasse a Pompeo ed alla sua immensa fortuna con disdegno sprezzatore, e l’ambizione, come già era avvenuto al Magno Alessandro, nei momenti della massima esaltazione gli avesse già fatto parere angusta la terra, e si fosse affannato per ottenere il governo della Spagna, statogli finalmente assegnato, pure da qualche giorno non desiderava di lasciar Roma. XXI. L’IMPERIOSA. Cesare, il profumato libertino, il desiderato da tutte le donne, l’odio occulto di tutti i mariti, il rivale sospettato da tutti gli amanti, non era mai stato preso da un vero, profondo, violento amore. Troppe donne, troppe giovinette gli avevano aliato intorno più chiedenti che chieste. Servilia istessa, alla quale ei professava una gratitudine schiettamente sentita, e per la quale ebbe una singolare preferenza, non lo aveva mai saputo esaltare a quell’entusiasmo onnipotente dell’amore, che, allorquando invade e conflagra un’anima, si accampa sovrano e prima di tutte le umane cose. Servilia erasene accorta, ma non per questo potè mai tralasciar d’amarlo. L’amore di lei era quello di una schiava africana, ardente, capace d’immergere il ferro in petto all’uomo idolatrato, o di obbedirlo, come la belva domata, atterrita pur nella ferocia, e governata da un fascino arcano. Il sentimento pareva al tutto incompatibile colla forza e la vastità della mente di Cesare, a guisa di un arbusto gentile che non può tallire sulla eccelsa vetta di una roccia granitica. Ma Cesare era l’uomo onnilatere, e nulla cosa a lui aveva a rimaner straniera; e però doveva attraversare, prima che la sua gioventù si chiudesse, una di quelle fasi della vita, che transitoriamente sembrano mandar naufraghe nel mare agitato del cuore, le più rigide facoltà della mente. Nella notte sacrata ai riti della dea Bona, tra le fanciulle sagrificanti insieme colle matrone, era prostrata innanzi all’ara quell’Elelia Imperiosa, che già fu nominata, dell’antichissima casa romana di tal nome. Essa era nata nella Gallia Cisalpina, quando il padre suo, Popilio, fu governatore di quella provincia, ed era nata da madre gallica. Morto il padre, morta la madre, Elelia era rimasta unica erede delle ricchezze avite. Ridottasi a Roma, dimorava nell’antico palazzo degli Imperiosi, nella parte più alta del Palatino, custodita dalla sua grand’ava. Essa era insigne di eccezionale bellezza; chè le chiome biondissime e gli occhi azzurri, sebben cerchi dall’arte greca e celebrati da Omero, non eran frequenti in Roma. Cesare, qual pretore, aveva dovuto esser giudice e conciliatore nelle contese iniziate da coloro che vantavano diritti su qualche parte dei lati possedimenti della fanciulla, degli ampj giardini, degli orti immensi, delle acque dell’Aniene che le irrigavano i campi, deviate cogli idraulici congegni che prima la vetusta Babilonia avea trovati. Per questo fatto, esso, oltre al vecchio liberto maggiordomo della casa Imperiosa, che da anni ne teneva le ragioni, avea dovuto sentire e il famoso Scevola e gli altri giureconsulti Publio, Rutinio, Rufo, e quel Granio Fiacco, celebre per aver commentate le dodici tavole. Con essi erasi trovato nella casa Imperiosa, quando fu necessario vedere i palazzi e gli orti e i campi. Così ebbe occasione di avvicinar la fanciulla. Cesare, per l’abitudine del suo ingegno scrutatore, la guardò come un fenomeno muliebre, che mai non gli era apparso innanzi prima d’allora. Ognor concentrata in sè stessa e taciturna e altera, pareva ch’ella tenesse in soggezione tutti quelli che la circondavano, comprese le vegliarde che recavansi a trovar l’ava, compresa l’ava stessa. Ma, se più spesso era taciturna, pur qualche volta diceva parole, ed eran severe ed assennatissime, nè parevano uscire da labbro giovanile. Oltre l’idioma gallico che aveva appreso dalla nutrice, e il natìo latino, parlava il greco col soave accento eolio; onde Apollonio, quando l’udì, chiese se la sua cuna era stata irrorata dalle aspergini del mare Argolico. Laja, la celebre pittrice che avea ritratto Cesare, le apprendeva il disegno, e Laja si gloriava di quella fanciulla singolare. E le lodi non pareano toccarla. Sariasi detto che, quasi tenesse da qualche divinità, di lei particolare custode, la notizia che i numi avean decretato di costituirla nel privilegiato possesso di doni intellettuali e corporei non concessi altrui, ella non facesse più caso delle lodi dei mortali, e, sebbene non ne avesse orgoglio nessuno, si riputasse come segregata da essi. Cesare pertanto fu vivamente attratto da quella fanciulla, considerandola come un arduo problema da sciogliere, e nel tempo stesso, e più forse, perchè provocava in lui una sensazione acutissima quella bellezza eccezionale, e quell’intelletto che era fuori affatto dell’ordine femmineo. Onde, sotto colore delle consuete faccende pretorie, e della necessità di abboccarsi con Scevola, il quale tenne preghiera dalla giovinetta Imperiosa di condurre spesso da lei le sue tre così belle coltissime figliuole, e di trovarsi a conversare con Laja, la quale, anche dopo le ore del disegno, amava indugiarsi con essa, Cesare era venuto moltiplicando le visite in quella casa, e a tale che non passava giorno che non vedesse la _tiberina_ Imperiosa; col qual predicato ei la distingueva, perchè le chiome di lei eran bionde e profluenti come le onde del Tevere. E venivano in quella casa anche Cicerone e Terenzia e Tulliola e l’adolescente Marc’Antonio, e vi si recavan frequenti altri giovani e giovinetti patrizj, e i padri e le madri di quelli, segnatamente allorchè aveano le fortune dissestate; chè la fanciulla Elelia era desiderata sposa più che dai giovani, tenuti pressochè in isgomento da quell’aura sacra onde ell’era circonfusa, dagli stessi loro parenti, i quali ammiravano le nebbie vespertine che si innalzavano sugli immensi poderi di lei, più di quel che temessero la sacra aura. In quei conversari diurni e notturni di Cicerone, ad onta e di Ortensio e del rètore Diodato, Cesare brillava ognora di una luce tutta propria. Di qualunque cosa ei discutesse, teneva sempre il campo. Bensì, con arte squisita e piena di blandizie, pareva che nell’abbattere il contradditore, lo innalzasse. Però Cicerone, che pur era invidiosissimo, non sentiva invidia di lui; onde potè lasciar scritte in lode di Cesare quelle celebrate parole a Cornelio Nepote: «_E chi di lui è più acuto e più frequente di sentenze? chi nelle parole è più ornato e più elegante? Nei sali attici poi e nelle facezie, Cesare supera tutti quanti_. Molti bellissimi giovani romani facevan cerchio intorno all’Imperiosa, parlante Giulio; ma Elelia non era attratta da nessun volto, da sguardo nessuno, da nessuna chioma fittamente ricciuta. Ascoltava attentamente il giovane trentottenne, il giovane declinante, il già calvo Giulio, che indarno tentava dissimulare quello da lui sì aborrito difetto, ritorcendo a coprir la fronte le ostinate chiome, che soltanto gli crescevan folte presso l’occipite. Bensì ella chinava gli occhi, quando la nera e vivacissima pupilla di lui saettava gli astanti con ineffabili punte. E un dì, per brevi istanti, Cesare ed Elelia si trovaron pressochè soli; vale a dire che, sebbene nella camera medesima stesse l’ava seduta, la quasi cecità e sordità di lei non era d’inciampo a che potessero parlar liberamente. Cesare, appoggiato al parapetto di una finestra, or guardava Roma sottoposta, e parea ch’ei ne pigliasse la misura, come faceva sempre ogni qualvolta guardava la città dall’alto; or piegando la testa, tenea dietro alla giovane Imperiosa che, meditante e ad ampi passi, s’affrettava dall’un canto all’altro della camera. Ci fu un momento nel quale i loro sguardi s’incontrarono. Allora Cesare, staccatosi dal parapetto, s’accostò all’Imperiosa, e: — Qual pensiero affretta così il tuo passo? — Il tormento d’esser donna. — Tutta Roma è ora a’ tuoi piedi.... Se invece tu fossi uomo.... — Tutto il mondo. — Quanti anni hai tu? — Diciotto; chi non lo sa? — E trentott’anni a me conta la Parca, e il mondo non è ancor mio. — Se più t’indugi, non lo sarà mai. Guarda Pompeo. Non è di molto maggiore di te. E a ventiquattr’anni aveva già trionfato.... ed ora è il dio di Roma. — E questo a te dà tedio? — Tedio ed ira; e mi punge, quasi doloroso, un desiderio che sorga finalmente l’uomo che lo soggioghi. — E credi che viva in Roma un tal uomo? — Tu. Cesare tacque.... e piegando poscia il discorso: — Vuoi tu rimaner sempre fanciulla e consacrarti a Diana? — No. — Dunque perchè fra tanti patrizj cospicui di gioventù, di valore, di ricchezza, non scegli colui che ti faccia sua sposa? — Chi di loro meritò statue d’oro? Per chi di loro sorsero templi? Do preferenza alla gioventù, ammiro la beltà; ma non mi vince davvero che il fatto di una virtù straordinaria. — E scegli dunque Pompeo. Una consorte ei cerca. — Pompeo ha dieci anni più di te. E l’Imperiosa si diede ancora a passeggiare, e Cesare ognor la seguiva ammirato, e sempre più gli s’involavano gli inizj per isciogliere quello strano problema. E, osservando la stupenda e quasi matronale figura di lei, per la quale mostrava un’età maggiore, e guardando la bianchezza della sua pelle, insolita in Roma, bianchezza tutta soffusa di rose freschissime, e tali doni congiungendo alla precocità dell’ingegno, e alla stranezza delle sue maniere, e alle aspirazioni che parevano soverchiare età e sesso, si venne ricordando di talune considerazioni (Cesare avea voluto intingersi anche di medicina) del medico Antistio (colui che doveva poi alle fatali idi contare ed esaminar le ferite) intorno a talune malattie che nella primissima giovinezza sembrano accrescere i doni della natura mortale; a guisa dell’arsenico che, amministrato con scientifiche dosi, tingeva del più florido color del cinabro le guancie del re Mitridate. E si rammentò che Antistio avea definita quella malattia: _pulcher et intellectualis morbus_, il quale, di quel tempo, più che altrove, era frequente nella Gallia Cisalpina; onde a Cesare sembrò possibile che nel sangue della divina Elelia la gallica madre avesse deposto un germe lieve di stroma formoso e roseo e geniale. Ed ella si fermò di tratto, e disse: — È vero, Cesare, che tu vai in Lusitania? — Sì. — T’affretta adunque. — S’io vi morissi ne avresti dolore tu? — Sì, gran dolore ne avrei. Ma se la gloria circonderà te spento, adorerò l’ombra tua in perpetuo. Cesare tacque. Annunciate, entrarono in quel punto le tre figliuole di Scevola. Cesare uscì; attraversò il cavedio; salì a cavallo; e, come se intorno gli alitassero le aure dei beati elisi, pressochè trasmutato, si avviò alla sua casa nella Suburra. Se non che, a mezza via, un liberto in cocchio gli venne incontro affrettatissimo, e, allorchè fu presso a Cesare: — Corri, gli gridò. La tua casa è assediata. Il cavedio è invaso. — Da chi? — Dai ladri. — E che ladri? — Gli usuraj, i giudei, i pirati dell’_acies asiatica_.... Cesare mise il cavallo al galoppo — fu tosto alla Suburra. — Un grido nemico lo accolse. Cesare fermò di tratto il cavallo; e calmo guardò dall’alto quella ciurma inferocita. Gridò primo il famigerato Assio, l’ex centurione usurajo, già quasi ricco come Crasso: — Cesare, tu non partirai per le Spagne, se prima non mi avrai restituito quel che ti ho sborsato. Di cento talenti mi sei debitore, due milioni di sesterzj. — E a me cinquanta ne devi, gridava un giudeo. Io ti ho pagato le statue, i quadri, i cavalli, le donne, i vizj lutulentissimi tuoi. Pagami, o Cesare, o indarno speri di andar governatore nelle Spagne. — Bada, gridava un altro, ch’io narrerò a Catone i tuoi notturni colloquj con Servilia; pagami, o io pagherò i vafri più feroci di Roma perchè accompagnino con sibili quella donna tua, quando si mostrasse in pubblico. Paga, o Cesare. Tu volevi partire e lasciarci tutti scornati. Cesare discese da cavallo, e stato calmo un istante, e, come raccogliendo le sue forze, perchè voleva esser certissimo dell’effetto, si concentrò in sè, e d’improvviso lasciò andare un colpo di mano sulla guancia di Assio, un così poderoso colpo, che colui cadde intronato su quelli che gli stavan dietro; poi, preparandosi al peggio, trasse dal cinto della tunica la consueta sua elegante balena, armata di plumbee palle dorate, e a quegli che aveva dette parole ingiuriose a Servilia, e accorreva in aiuto di Assio centurione, l’appoggiò sì risolutamente tra il naso e il labbro, che il dolore acutissimo impedì a colui di vedere e di sentire il sangue che gli scorreva sul sajo. E intanto la plebaglia, che là s’era addensata da qualche tempo, applaudiva battendo palma a palma, e gridava: — Viva Cesare, viva il divino Cesare. Sebbene alquanto placati, e dal risoluto contegno di Cesare, e dagli evviva urlati dalla canaglia, pure i creditori non si mossero; s’atteggiarono anzi come se risoluti di non lasciar più quel posto. — Se questa canaglia, diceva un di loro, dovesse aver danaro da te, udresti, o Cesare, se allora ti acclamerebbe. — Divino ti chiamano, diceva un altro sghignazzando con disprezzo ostentato, così fosse! che Venere almeno, la tua grand’ava, ti pagherebbe i debiti. — Silenzio v’intimo, gridò allora Cesare, entrate tutti e attendetemi nel cavedio. Oggi sarete pagati. Entrò anch’esso, e per alcuni istanti si sentì umiliato, percosso, disfatto. — Più nulla dunque io sono, egli dicea fra sè, un gruppo di vilissimi creditori può abbattere un Dio: e venti carri pieni d’oro accompagnarono Pompeo nel suo viaggio trionfale! E stette pensando e ripensando al modo di poter avere, in quel giorno, venti milioni, almeno, di sesterzj grossi. E statuì di raccomandarsi a Crasso. XXII. RITORNO DI CESARE DALLA LUSITANIA. Nel 693 _ab urbe condita_, Cesare era partito da Roma con venti coorti; nel 694, già reduce dalla Lusitania, stava attendato fuori della città in aspettazione del trionfo, salutato _Imperator_ dalle idolatranti legioni, nel campo circuito dagli _impedimenta bellica_ che avevano trasportato l’oro ispano a colmare il romano tesoro, lasciando a Cesare quanto bastava per cangiare il truce sguardo dei creditori e le loro contumelie amare nell’umile sorriso e nelle profferte di servigi nuovi. Quindici milioni di lire italiche furon necessarie perchè si tirasse intero il rigo ai minacciosi chirografi. Crasso, alla partenza di Cesare, non aveva pagato che poco più del terzo dei debiti di lui. Nè li aveva pagati per amore suo. Un atto generoso, quando varca la misura comune, quasi sempre, non è generoso che nell’apparenza. Se Crasso non avesse odiato Pompeo, non avrebbe soccorso Cesare. Sentiva sè incapace di soverchiare il Magno eroe, desiderava che altri sorgesse a metterlo finalmente in ombra. E un anno solo aveva bastato perchè Pompeo non potesse più dir, sogghignando, quando udiva le lodi di Giulio: « — Non basta una _povera_ corona di quercia, nè due misere campagne col vecchio Termo, e i servizj sotto l’_Isaurico_, perchè costui dai ginnasj e dalle accademie e dall’ippodromo passi a soggiogar provincie e nazioni.» Pompeo sentiva l’avvenire nelle ossa, come i brividi che annuncian tempesta; onde la prepostera invidia. Tuttavia, Pompeo, nel punto che Cesare partiva propretore per le Spagne, non era affatto fuori di ragione. Precedenze di gloria militare, qual condottiero d’eserciti in vaste imprese, Cesare allora non potea vantarne; ma in quel modo che Cesare avea la più ampia fiducia in sè stesso, tutta Roma l’avea in lui, quasi quel prediletto avesse riportato già dieci trionfi. Pompeo soltanto sogghignava, di quello sprezzo però che vien respinto dalla convinzione. E anche Cesare, lo vedemmo, disprezzava Pompeo, il gloriosissimo, il presunto dittatore perpetuo. Ma Cesare era convinto del proprio disprezzo; e diceva che se Lucullo e Crasso, e Termo decrepito, avessero combattuto contro di lui, sempre sarebbe stato vinto, e: — _Sì_, diceva, _costui, codesto semidio, non è già figlio della virtù, ma solo della indulgente fortuna_. — Ma la fortuna, se non indulgente, non fu avversa a Cesare, e permise che il suo intelletto stragrande e gli ardimenti suoi e il valore incomparabile, si mostrassero all’aperto e si rivelassero nella loro più completa potenza. In lui tutto era maturo, come la sua età. Esso contava trentanove anni. L’attraente gioventù dava luogo alla poderosa virilità. E nelle Spagne, in un anno solo, potè far mostra di tutte le sue molteplici doti; potè rivelarsi gran capitano, grande amministratore, e più che conquistatore, scopritore di nuove terre. Era l’annuncio di quel che avrebbe fatto poscia nelle Gallie e nella Britannia. Fortunato, più che i posteri assalitori, nella guerra delle montagne, spinge le popolazioni ad abbandonar _fuggendo_ quelle altezze, fino allora credute inaccessibili a piede straniero, a gettarsi al piano, a passar fiumi in uno coi limitrofi atterriti, e rifuggirsi all’oceano; e getta zattere a trasportar le proprie truppe, che in parte rimangono affogate dalla marea sorveniente, e vi ammira quel Marco Sceva, da lui già patrocinato giovinetto nell’ardua lotta giuridica per la patria potestà, e trovato semivivo nella battaglia di Perugia fra l’inestricabile intreccio dei cadaveri, dove quel dì Catilina potè fare spavento ai veterani del console vincitore; lo ammira nel punto che, nelle acque dell’oceano, solo fra tutti, riguadagna, nuotando, la riva; e non sapeva che quel prodigioso giovane era destinato a morire a Farsaglia, trapassato nell’occhio destro, e a dare a Lucano, torniamo a dire, il tema di strapotenti versi. Pompeo e Lucullo e gli altri condottieri contemporanei di Cesare aveano invase e conquistate regioni già note. Cesare scoprì l’esistenza di popolazioni sconosciute. Brigantio, regione tutta abitata da selvaggi, fu da lui rivelata per la prima volta ai geografi romani. Ma, già lo si disse, l’ardito capitano, lo scopritore di terre e d’uomini, doveva mostrarsi profondo amministratore; onde i medesimi ispani lo salutarono liberatore e benefattore. Era colà, da gran tempo, feroce e continua la lotta tra creditori e debitori. La fittissima falange di questi volea far proclamare l’abolizione totale dei debiti, e i creditori, armati, invadevan le terre state offerte in cauzione. I creditori domandavano a gran voce alle autorità, che il carcere e il digiuno e altre pene corporali, perfino la fustigazione, si decretassero inesorabilmente ai debitori insolventi; e questi se ne ricattavano incendiando le case de’ creditori, mettendone a ruba e a sacco i poderi, e assassinandoli all’aperto, senza timore della forza armata, poca e impotente a frenar tanta ira, mantenuta negli uni dall’avidità insaziabile, negli altri dal terrore della miseria, più spaventosa della morte; epperò, ben più che una guerra civile, era una guerra selvaggia, resa più funesta dall’indole indomita e fierissima degli abitanti. Cesare, che aveva studiato in Roma la voragine dei debiti e la piaga dell’usura, e già avea pensato al modo agevole di porvi riparo, se nelle sue mani fosse venuta la somma delle cose, provvide ad attuare in Lusitania quel che aveva meditato in Roma. Decretò dunque (e la presenza delle sue trenta coorti compresse ogni opposizione) che i creditori non commettessero, pel loro diritto sebbene legittimo, un atto di spogliazione ingiusta, e i debitori, serbando ogni anno per sè un terzo delle loro rendite, ne concedessero i due terzi ai creditori, fino alla totale estinzione del debito. Provvedendo con ciò a conservare la proprietà, stornò l’azione degli usuraj di Roma, di quell’_acies asiatica_ che si faceva sempre più invadente e pericolosa; e salvò il capitale dei debitori, il quale sarebbe stato divorato nel momento che avrebbero avuto a pagare le anticipazioni. La guerra di Spagna fu per Cesare quel che fu pel primo Bonaparte la guerra d’Italia. Notissimo il primo in Roma, ma, avanti la conquista della Lusitania, ignoto al rimanente del mondo. Senza luminosi fatti precedenti che fossero caparra di grandi fatti avvenire, fiducioso in sè stesso sino alla temerità, e fiducioso in lui il popolo romano sino alla cecità. La corona di quercia e i fatti di Cilicia equivalgono l’episodio di Tolone e la scaglia di Parigi. Ma di tratto, arrivati l’uno e l’altro sul campo delle grandi imprese, giganteggiano senza che sieno manifestate al volgo le preparazioni del genio; ma consapevoli essi soli di quel che prima avevano pensato e vagheggiato e sperato e operato in più guise e per più vie. Però, compiuta l’impresa, sì all’uno che all’altro applaudono il paese conquistato e la patria del conquistatore. L’ammirazione comprime l’odio in petto ai vinti. Il successo, superiore all’aspettazione, condanna l’invidia a mascherarsi di entusiasmo. Quando Cesare venne a Roma, tutta Roma uscì di sè stessa per muovergli incontro. Lucullo, Cicerone, Termo, Crasso si assisero nella sua tenda; Pompeo venne solo, a tributargli onore con gran pompa di aurato cocchio e di candidi cavalli. I senatori stettero curvi innanzi a lui. Il pontefice massimo si atteggiò come se stesse all’ara. La plebe intanto urlava innamorata ed ebriosa. Numerose schiere di viniferi erano state distribuite nei varj quartieri della città, dal bevitor d’acqua Giulio, perchè, in suo nome, Roma bevesse alla salute di Roma. E ad esso presentossi il re dei sagrifizj, che era l’espressione più completa della forma repubblicana, essendo stato creato quando appunto furono discacciati i re; e, in processione, apparvero il Flamine Diale, ed il Marziale e i dodici Salj, portanti lo scudo sacro al dio Marte, e i sacerdoti Luperci dalle sferze fecondatrici di donne, e vennero le Vestali, non già quali custodi del perpetuo fuoco, ma sì dell’arcano dell’impero, significando così ai conquistatori e trionfatori che non dovevasi loro, la vittoria e la fortuna di Roma, ma ad una celeste potenza inspiratrice e guidatrice dei duci, per necessità ineluttabile. E a questi sacerdoti e sacerdotesse e semidj e semidee, s’aggiunsero altri d’altre classi che non aveano incarico nessuno fra la terra e l’Olimpo; e sfolgoravano le matrone e le giovani donne patrizie nei loro cocchi dalle casse fatte a nave, ondulanti sulle elastiche cigne; e i giovani cavalieri premean cavalli condotti dalle regioni diverse della repubblica, onde ai bruni corsieri delle stalle di Roma, dalle prolisse criniere, si mescolavan quelli della calda Arabia, dal vellutato-cangiante mantello, e i cresciuti ai paschi del Simoi e del placido Scamandro, e i palafreni mirabili di Lucullo, ch’ei proclamava discesi da quelli che Giove avea concesso a Troe in premio di Ganimede. E il prefetto della città, il quale copriva anche la carica d’ispettore dei circensi, avea mandato al campo di Cesare due elette schiere di atleti e gladiatori. Capitanava i primi il famosissimo Cromi di Mitilene, lottatore e pugillatore fin allora creduto invincibile, onorato di statue nei circhi di Atene, e d’Agrigento, e di Siracusa, e di Ercolano, siccome allora voleva l’ingiusto costume; chè insieme colle statue degli dei e degli eroi si mescevan quelle degli atleti, e più spesso all’eroe non era concesso il simulacro ond’era stato insignito il lottatore, che poteva batter la polvere tra le fischiate della disprezzante plebe. Cromi era allora il primo dei primi in tutto lo stato romano, e di recente, nella stessa Roma, per la prima volta, da che nel circo massimo combattevano atleti, gli era stata decretata una statua di bronzo dorato, essendo consoli Gabinio e Pisone. Colui era elettissimamente formoso, ma più arieggiante l’Apollo che l’Ercole; onde, nell’apparenza, non offriva caparra di prepotenza muscolare; bensì, la proporzione mirabile del suo costrutto era quella che gli comunicava il poderoso equilibrio delle forze. Per farsi una completa idea del come ei fosse, più che ammirato, idolatrato in Roma, si pensi ai tumulti e ai fremiti che provocavano i toreadori nei circhi di Spagna. Al tempo del celebre _Montes_, l’ammaliatore, e dell’andaluso _Ciclanero_, il bello, allorquando procumbeva il toro trapassato nel collo dalla lama lieve, tra le grida sfogate onde il circo risuonava, grida ed urli esprimenti un entusiasmo che toccava il furioso delirio, ai piedi di quei trionfatori cadean collane e catene d’oro, onde le non più orgogliose dame si spogliavano, ammiranti un uomo che avea fatto stramazzare una bestia. Tale avveniva di Cromi, finita la lotta, quando ei sorgeva solo fra gli atterrati avversarj, e girava lo sguardo intorno, ascoltando con accettante sorriso gli echeggiati applausi. I consoli, gli edili, i pretori, i senatori, gli gettavano anelli e stili aurei e gioje, e parean grano lanciato dal ventilabro; e le donne, monili e cinti e zone, ove i rubini gareggiavano coi più preziosi piropi. Nella piccola ma eletta cliptoteca della sua casa, chè egli affettava l’opulento patrizio, e non si riputava inferiore a Pompeo, sorgeva, alto quasi un palmo, sul pavimento lo strato di quei monili, come se fossero avena da tramescolare a palate. Esso portava i capelli inanellati e prolissi e cadenti sul collo, contro il costume degli atleti che li teneano rasi, perchè non fossero mezzo di vittoria all’avversano. Ma egli teneva in gran pregio quella chioma, onde gli si incorniciava voluttuosamente il greco volto, e portava il berretto frigio, e pari ad Achille si riputava, e al non minore Diomede, onde ricantava con atletica voce i passi che loro si riferivano nel greco d’Omero. Esso era marito. Sua moglie, Galeria Emboliaria, nell’arte propria era celeberrima al par di lui. Accanto a Roscio e ad Esopo, ella recitava nella commedia e nella tragedia. Valente nella prima, non superabile nella seconda. Di tutti gli autori greci, prediligeva Eschilo. Nell’_Agamennone_, vestendo il personaggio di Clitennestra, atterriva gli spettatori. Avea recitato, ed era già celebre infin d’allora, per l’inaugurazione del teatro d’Emilio Scauro; doveva recitare per la dedicazione del teatro di Pompeo; protrasse i giorni fino a declamare decrepita, imperando Augusto. Pare ch’ella vivesse più d’un secolo, ad onta dell’indole irrequieta e rabida, delle passioni ch’ella assumeva recitando colla più completa espressione del vero, e delle passioni che arsero lei stessa anche fuor delle scene, e dei casi funesti ch’ella subì e fe’ subire, cercandoli e volendoli. Ella sedeva in cocchio, vestita di bisso a liste d’oro, e pareva una regina assira meglio che una commediante e, assisa in trono anzichè in cocchio, guatasse bieca dall’alto un popolo di schiavi. Essa non era lunge dal drappello capitanato da Cromi, e percorrendo le file dei giovani cavalieri, e fermando l’occhio sui più belli fra i bellissimi, e ripiegandolo poi sul suo, e secondo lei, soltanto suo, e, in eterno, in sempiterno, suo Cromi, esultava d’orgoglio; e tanto più che, passando qualche ora prima davanti al pronao del circo, aveva veduta la statua di lui sfolgoreggiante di recente oro. Il genio dell’arte che in essa era strapotente, per virtù di quell’arcano istinto che, inconsapevole, opera prodigi, e può operare tra le più deplorabili stranezze, le turbava, come un padrone inclemente, le facoltà dello spirito, quelle facoltà che sovente, anche nelle persone più volgari, pur si trovano nel più tranquillo e fortunato equilibrio. Se il fortissimo e formosissimo Cromi, nel dì ch’essa, adocchiandolo, arse d’insano amore per lui, fosse caduto morto a battere i lacerti sulla polvere del circo, avrebbe dovuto render grazie alla benefattrice fortuna. L’amore geloso di Giovanna la Pazza per Filippo il Bello, la quale nemmen patì che l’imbalsamato cadavere di lui fosse veduto da occhio muliebre, può dare un’imagine dell’amore di Emboliaria per Cromi. Ma Cesare, a un tal punto, uscì dalla tenda. Veniangli d’appresso Pompeo e Crasso e Lucullo e Cicerone, e al suo fianco, in fidatissimo colloquio, procedeva Sallustio. Questi, fattosi lodatore delle gesta di Cesare nel suo _Commentarium rerum urbanarum_, che, già accennammo, era la _Gazzetta_ di Roma antica, istruiva Roma quotidianamente di quel che operavasi in Lusitania, e, rettorico essendo e stilista e artista, dipingeva, più che raccontasse, que’ fatti di guerra, di cui Cesare mandavagli i semplici e quasi gretti profili, ma nei quali appariva l’intelletto maestro che voleva geometria rigida e non pompa di stile. Ma, colla pompa dello stile e colla adulazione, il _progiornalista_ romano, preparò le ricchezze future e quei famosissimi giardini che ancora oggi si chiamano di Sallustio. Cesare, tra codesti illustri suoi contemporanei e quasi colleghi e, in apparenza, amici, apparve tutto quanto militarmente vestito. Il paludamento imperatorio, che era la clamide coccinea, non impediva che fosse veduta l’argentea lorica, lavoro insigne di cesellatore greco; le figure di Venere e Marte, staccanti sovra un semicerchio di olimpiache deità a basso rilievo, eminevano tratte dal metallo a tutto sbalzo. E Cesare, per la prima e l’ultima volta, si mostrò coperto il capo della galea vetusta. La calvizie, più che minacciosa in Roma, lo avea debellato in Ispagna, ond’egli non ancora bene avvezzo a quella per lui aborritissima deformità, si coprì la testa. Ancora giovine non voleva che le romane sentissero fuggir le illusioni al suo cospetto, e quella galea aveva un cimiero sul vertice, contesto d’oro e adorno di brevi piume rosse; e la visiera gli ombreggiava il volto, mezz’alzata e mezzo abbassata, volto indescrivibile, dove l’alunno di Marte, fortissimo e tinto e ritinto in bronzo dai soli ispani e dalle fatiche e dalle notti dormite _sub luna_, faceva la pace col pronipote di Venere celeste; ed ei lo sapeva, e l’argentea lorica lo manifestava. E passeggiando, e trattenendosi tra cocchio e cocchio, dove più sfolgoravan le patrizie, e stringendo la mano ai senatori, agli auguri, ai sacerdoti, a quanti gli si affollavano intorno, e sparpagliando ovunque sorrisi ammaliatori, quali non vide mai Roma sul suo labbro espressivo, diceva brevi ma succosissime parole intorno alla cosa pubblica, e interrogava Sallustio e Cicerone su quanto era avvenuto in Roma durante la sua assenza. — E perchè non vedo Catone qui? — È questo un giorno di cittadina gioja, osservò Sallustio; tu ben sai che l’austerità sua gli fa abborrire ogni tripudio festoso. — Ciò sta bene, esclamò Cesare ghignando, a chi vende e compera le mogli come se fossero giumente, e a chi presta danaro al venti per cento. — Ei ti è avverso, Cesare, disse Lucullo, e in Roma tu non avesti mai più ostinato e implacabile avversatore di lui. — E finch’esso continuerà a parlare in Senato, soggiunse Crasso, non isperare che, come talvolta avvenne in addietro, ti si conceda l’onor del trionfo, e insieme il diritto di ambire al Consolato. — Ebbene, Crasso, mi ripiglierò l’oro e lascierò a chi la vuole la purpurea borsa che lo contiene. E venne al cocchio dell’Emboliaria, e dimesticissimamente le strinse l’asiatica mano. — Palla-Minerva mi sembri, o Galeria; uno sgomento, vestito di voluttà, sempre mi invade quando ti vedo. O Medea, o Clitennestra, o Mirra, fate che io sia Giasone e Egisto e Ciniro. Pensavo a te, o Galeria, sulle rive dell’oceano, ma pensavo anche che il tuo Cromi divino mi ti ha rapita. Ed or lo veggo laggiù, e, mentre lo ammiro, mi dispiace. Sovrumano egli è nell’aspetto... ma, dimmi, sempre t’è fido? L’Emboliaria si accigliò turbatissima, e: — A che tu vorresti accennare? disse. — A nulla, o cara; bensì mi piace che amore, per te non cieco, ti tenga nel suo inflessibile, soave governo. Cesare era amabile e gentile colle artiste; coll’Emboliaria in modo singolare; chè ammirava in essa il talento drammatico straordinario, ma si rideva delle strane pretensioni di lei, epperò, nel suo accento sentivasi la nota dell’ironia che l’Emboliaria non sentiva, riputandosi una regina assira. E Cesare venne all’atleta Cromi, e lo inaffiò di lodi; ma, parlando con lui, s’accorse ch’era disattento e guardava a un cocchio dove stava assisa la fanciulla Imperiosa, alla quale ei passò tosto; e fu l’ultima visitata, mentre avrebbe dovuto essere la prima. Cesare le parlò sommesso: — Ho incise nella memoria le ultime tue parole; sotto a questa lorica stanno le tue lettere di fuoco.... L’Imperiosa era disattenta, e appena rispose, e torse la biondissima testa, e all’onniveggente Cesare apparvero i raggi visivi di Cromi e di lei che s’incrociarono a mezza via. Fremette Cesare, strinse la mano sudante dell’Imperiosa, e ritornò alla tenda. XXIII. CESARE E ROMA. Erasi ritirato nella tenda, intanto che il campo in aspettazione della prima notte, attendeva all’esercizio delle armi, nelle quali persino i centurioni più veterani andavano addestrandosi, quasi fossero gregarj nuovi. Le trombe finalmente diedero il segnale del riposo. Ciascuna centuria si ridusse al proprio quadrato. Dopo qualche tempo, squillò un secondo segnale, poi un terzo. E un silenzio profondo successe al fracassìo del giorno, non interrotto che dai nitriti giocondi dei cavalli, i quali pareva si rimandassero i saluti da un estremo all’altro del campo. Cesare stava aspettando il decreto del Senato, il quale certissimamente gli sarebbe stato favorevole, se l’aspra eloquenza del ferrigno Catone, come grandine assidua, non avesse percosse e sgominate le menti dei senatori; pure, non v’era ancor nulla di deciso. Cesare aveva una schiera fitta di amici, che sulla sua fortuna volevano innestare la propria; ond’esso tuttora sperava che gli venisse accordato e l’onor del trionfo e il diritto di ricorrere al Consolato. Ma, dopo essersi tormentato d’ira pensando all’inflessibile nimicizia di Catone, cangiò quel tormento in un altro, rimeditando il fatto che per lui non aveva più bisogno di prove, della superba fanciulla Imperiosa, che aveva gettato gli avidi sguardi negli sguardi di un atleta. Egli, Cesare, il discendente di Venere, il primo sacerdote in Roma alle are pafiche, arbitro e donno delle più cospicue beltà romane, egli, il vincitore della Lusitania, era stato posposto ad un atleta. Ben questi aveva ottenuto statue dorate, già lo si disse, ma Cesare considerava quegli onori come volevano essere considerati; però un atleta, per quanto applaudito e premiato ed onorato, era a’ suoi occhi nulla più che pubblico ludio. Ma si sforzò a distorre da sè quel pensiero, diventatogli, con grande meraviglia di lui stesso, molestissimo, e messosi a sedere, si diede a consultare le opere che teneva accumulate sulla tavola. Erano i lavori di geografia più celebri a quel tempo. I lavori di Eratostene, d’Ipparco, di Seragione, di Polibio. Varrone, che fu poscia bibliotecario di Cesare, quando venne cogli altri a visitarlo, gli aveva portato a leggere gli abbozzi delle ricerche intorno a Roma antichissima. Cesare, più ancora di Cicerone e di Sallustio e d’altri, dava importanza a tali studj, e talora, lasciata ogni altra cura, vi si sprofondava coll’avidità dello scienziato che anela alla scoperta, colla voluttà di chi idolatra la terra nativa, e tutte le altre trova seconde ad essa, e ne esplora le origini affannosamente, e vorrebbe indovinarne i destini futuri. Colla scorta di Varrone, e col lume della dottrina propria, nel silenzio del campo, risalì la corrente dei tempi. E si partì da quel momento, momento di più secoli, allorchè intorno alle rovine dell’impero etrusco, tumultuavano sanguinarie, nella gara disputata della conquista, le varie genti dell’Italia primigenia; e, fermandosi tra codeste genti a considerare gli atteggiamenti della storia, e il carattere delle leggi e delle religioni e dei riti, e le credenze intorno alle divinità che riassumono i costumi dei popoli, sentìa quasi rammarico che l’Olimpo fosse stato ignoto ai vetustissimi suoi proavi; e pensava alle primavere di sangue, in cui si trucidavano quanti eran nati in quella stagione, e ai giovani che fuggivano e si rendean latitanti; e qui vedeva l’origine prima della sua Roma, e la valle dei mistici sette colli, dove la gioventù maschia s’affoltò e dove, secondo gli scrittori greci, era sorta la primitiva Roma, la Roma anteriore a quella di Romolo; e leggeva un passo di Varrone, il quale confutava quegli scrittori che attribuivano l’origine di Roma ad un figlio di Ulisse e di Circe, e sorrise all’ira del dotto antiquario, trasmutatosi in poeta nel coprir di contumelie Crispo Sallustio, fatto seguace dei Greci in quell’opinione. Continuando sempre con Varrone, guardava se quell’amico suo avesse rivelate cose ch’ei non sapesse. Ma egli conosceva assai bene e il pomerio, o _post murum_, e il primo solco, e il foro boario dall’eneo toro, e l’ara di Ercole e le costruzioni di Tito Tazio. Ma, dall’archeologia passando alla storia, e lo sguardo togliendo dalle tavole di Varrone, Cesare pensò ai primi tre secoli di Roma; e considerò che in tre secoli la fama di essa non era ancora uscita dal suo cerchio, sebbene crescesse e maturasse lentissimamente, pur fra tradimenti e discordie e guerre e sconfitte; e s’intrattenne coi sette re, e più assai coll’ultimo che fu cacciato; gli faceva meraviglia come, sebbene quel re fosse stato astutissimo e fortissimo, e per più anni onnipotente, pure non avesse potuto tener testa a chi non lo volle più. Non aveva però, considerava Cesare, legioni a sè devote, e non era possente nell’arte della guerra, e la fama non ci riferì ch’ei fosse valorosissimo, e, comunque fosse astuto, non ebbe l’astuzia massima di accarezzare la plebe; se le avesse dato quel ch’ella chiese e ottenne dopo, se le avesse concesso i tribuni avversatori dei patrizj, e il diritto a tutti di salire ai primi gradi dello Stato, e l’eguaglianza dei diritti, non sarebbe caduto, non sarebbe stato scacciato, avrebbe continuato a regnare. E, di cosa in cosa, e di periodo in periodo, quando venne al momento dell’orrenda alluvione dei Galli, Cesare s’accigliò e alzossi e diessi a misurare il terreno della tenda con passo celere; pareva che assistesse ad una scena presente, e vedesse le sgominate legioni e i soldati sgozzati per la campagna, e i cittadini in fuga, e Roma messa a sacco e a fuoco, e dagli stessi nemici latini compianta, come se già fosse un mucchio di rovine; così accigliato, pareva meditasse una vendetta lunga, sterminata, inesorabile, più tremenda assai dell’antica offesa, e forse in quel punto gli entrò in petto l’avida brama di essere inviato colle sue legioni a conquistar le Gallie. Ma si calmò, pensando a Camillo, Romolo secondo, padre della patria, come il popolo lo aveva acclamato, e alla duplice vittoria e ai Galli, scannati tutti. Pur meditava che quel duello a morte tra invasi e invasori, era stato utile, perchè i popoli italici s’erano stretti così intorno a Roma, e i Latini, almeno per qualche tempo, si riposarono dall’odio contro di essa, come fecero gli Etruschi e i municipj e i socj e le colonie; tornati poscia ai prìstini rancori, diedero occasione a Roma di spiegare tutta quanta la sua sapienza armata, e però con sessant’anni di guerre, terribilmente e astutamente guidate, provocare il desiderio nelle genti dell’Apennino, nei popoli del Sannio, del Lazio, della Campania, dell’Etruria, di diventar tutti cittadini romani. A questo punto, s’intrattenne con quel popolo, che al tempo dei Galli, e delle disastrose guerre interne di Roma coi vicini, era il primo popolo del mondo, e pensò ad Alessandro, che, non ancora trentenne, aveva sottomesso più che cinquanta milioni d’uomini, e ai Greci successori, caduti in bassa viltà, e al re Pirro, e alle due sconfitte toccate per l’inaspettata comparsa degli elefanti, e l’impeto, non mai prima sopportato, della cavalleria tèssala; si confortò rimeditando il senno del nonagenario Appio che negò a Pirro di venire a patti, se prima non fosse uscito d’Italia, onde fu causa che il re, tornato alle armi, dovesse ridursi, vinto, al suo regno cogli inutili elefanti e colla non più invincibile cavalleria tèssala. E Cesare di nuovo si accigliò e s’alzò di nuovo, pensando alle guerre puniche e alla morte di Regolo e al genio di Amilcare cartaginese, che preparò il genio maggiore del figlio Annibale, inizj della prima guerra punica, intercalata dall’invasione dei Cisalpini, dei Boi, e dei Cenomani, e d’altri della loro schiatta, che misero il Senato nella necessità di decretare la patria in pericolo; intercalata poi dalle vittorie del console Flaminio e di Metello. Passeggiando, e fermandosi di tratto in tratto, e prolungando il soliloquio della memoria al cospetto della stragrande figura di Annibale, si sentì invaso dall’entusiasmo, diremo, lirico, della guerra, della conquista, della gloria, dell’impero. Cesare solo poteva comprendere Annibale, il solo nemico di Roma che aveva compreso Roma; uomo di guerra, insuperabile, ma uomo eziandio di profonde e profetiche vedute politiche, che, unico allora, e prima dello stesso Scipione, avea pensato come, dopo il postremo cozzo tra Cartagine e Roma, la fortuna avrebbe decretato ai popoli a quale delle due città dovessero obbedire. Cesare, considerando quel guerriero straordinario, e confrontando il sistema degli eserciti dei condottieri romani e del cartaginese, stupiva come colui potesse governar le battaglie con tanta disparata varietà d’elementi, il Greco, l’Ispano, il Gallico, l’Asiatico, e con soldati barbari e persino antropofagi, non aventi numi, nè riti, nè patria; e pensò a Canne, e all’impeto inconsulto del plebeo Varrone, che, solo e senza un soldato, pure ottenne dalla sapienza del Senato Romano il trionfo della sventura. Considerava come lo sterminato genio d’Annibale, se mandava uno splendore perpetuo fra i posteri, era stato inutile, lui vivo, perchè la sua patria non lo avea compreso, per il che perdette poi sè stessa a Zama, dove Scipione, rifacendo il disegno di Regolo, avea tratto il formidabile nemico. E Scipione a Zama fece il pensiero di Annibale, giocando l’ultima sanguinosa giocata, e quel pensiero comunicò ai legionarj, quando dal cavallo tuonò loro, prima della battaglia, che, tramontato il sole di quel dì, il mondo saprebbe se di Roma o di Cartagine sarebbe stato mancipio. Col capo chino, e le braccia intrecciate dietro il tergo, così rifletteva: Romolo, Camillo, Scipione sono i tre Numi terrestri che generarono, nutrirono e diedero a Roma l’onnipotenza. Gli altri che vennero dopo non furono che uomini al cospetto di essi. Usufruttarono ed ampliarono il mondo creato, ma la creazione era già compiuta. Or che dunque resta a fare? dopo Zama questa mia Roma ottenne tutto che volle. In cinque lustri, l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto; la patria di Alessandro cadde anch’essa, schiere di re comparvero incatenati dietro ai carri trionfali. Il trionfo di Paolo Emilio non fu mai superato da nessun altro; che altro dunque rimane a fare? Dal tempo di Scipione, risalì ancora la corrente delle vicende romane, per esaminare di nuovo tutta la compagine dei varj elementi che concorsero a generarle; e questo, all’intento di vedere appunto quel che ancora avrebbe potuto un uom forte e di alti pensamenti e di instancabile volontà, il quale si proponesse di accrescere il numero dei terrestri numi di Roma. Ripensava pertanto, come le genti latine, i confederati italiani, s’erano addossati alla civiltà romana, senza però volerne essere assorbiti, e pretendendo che il diritto latino e l’italico dovessero rimanere inviolati, davanti al diritto quiritario, e le deità latine e i genj autonomi dell’Apennino, ignoti altrove, non dovessero temere i fulmini dall’olimpico Giove; ma come poi, allorchè i Romani si nominarono re cittadini, i Latini e i Tirreni e gli altri Italici più non tenessero alla conservazione del loro diritto, diventato inutile, nè più si sgomentassero degli arcani genj vaganti lungo le falde e le creste della montagna sacra, e con ogni maniera d’astuzie e di frodi legali s’affannassero a penetrare nel vietato _post murum_, onde farsi annoverare fra quei re sulle tabelle del censo; e tutto questo, ad onta dell’orgoglio patrizio, che raggiunse il punto massimo, quando Scipione ascese al tempio di Giove Capitolino, rifiutandosi a dar conto della propria amministrazione, e sprezzando l’ingratitudine di coloro, che non volevano dilungarsi da quella consuetudine, pure al cospetto di chi aveva fatto Roma padrona del mondo. Cesare, speculando le vicende di Roma e dell’umanità, pensava come, dopo Scipione, lo splendore della gloria e della potenza aveva dovuto rischiarare orrende piaghe, e generarne e inasprirle; e la ricchezza, accumulata nelle mani dei patrizj e degli usuraj e dei pubblici appaltatori, isterilire i campi, disertare i paesi, abbandonare l’agricoltura agli schiavi. Qui, nel profondo della notte, gli si affacciò l’insanguinata figura di Tiberio Gracco, il generoso ch’erasi proposto di salvar Roma ridonando gli alimenti all’agricoltura derelitta, impedendo che la ricchezza si condensasse in poche mani, e l’Italia si condensasse in Roma, ma sibbene sforzando Roma, a prolungarsi su tutta l’Italia, e dai moltiplicati rostri eretti lungo l’Apennino e i due mari, tuonassero le voci numerose di quella nuova Roma, che, uscita da sè stessa, sarebbesi estesa da Caulonia a Genua. Dietro la figura di Tiberio Gracco, gli comparve quella del fratello Cajo, rifuggitosi nel bosco delle Furie, e poscia cadente sul ferro, che lo schiavo, per ordine suo, gli appuntò al petto, allorchè i suoi nemici furono per raggiungerlo. Dopo questi due grandi sventurati, Cesare meditò i vastissimi concetti di Livio Druso, altra anima santa, e mente indarno profetica, più profondo di Tiberio, più cauto di Cajo. Ammirava Cesare quel suo sistema di universale conciliazione, e il disegno di allontanare da Roma la sempre, ed a ragione, torbida plebe, accontentandola colla possidenza e coi lavori dei campi, e, radunando gl’italioti, con quelle rogazioni, che animarono le speranze di tutta Italia; e mentre ammirava questi vasti disegni, rammentava, raccapricciando, che Druso era stato trafitto nel Foro da una pugnalata a tradimento, la quale impedì la salvezza di Roma, avvolgendola in tre guerre consecutive e terribili: la servile, la barbarica, la sociale, per la qual ultima caddero sul campo più di trecentomila uomini. Ma colui, pensava Cesare, non comandava a legione nessuna, e non è che la forza armata capace di convertire, in fatti duraturi, i più ardui concepimenti dell’intelletto. Così protraendo la storica recensione, a guisa di un’artista di gran genio, delirante per il nuovo e l’inaspettato, il quale, rianda colla memoria le opere dei grandi, coll’intento di scoprire che nuovi spiragli rimangano all’arte e quali vie, ancora inesplorate, restino a percorrere, e nel tempo stesso quali errori debbansi fuggire, attraverso all’ombra di Livio Druso, l’associazione delle idee mise Cesare al cospetto di Mario, del suo parente Mario, del figliuolo del banchiere Arpinate, il quale era stato assunto ad inclite nozze con una figliuola dell’illustre famiglia Giulia; ed esultava nel pensiero che il plebeo Mario aveva saputo vendicar Roma dalle viltà dei patrizj, insensibili alle ingiurie di Giugurta, e all’epigramma fatale di quel barbaro, onde aveva detto, essere la padrona del mondo, _repubblica da affittare_, e compir la vittoria di Metello, il capitano dei patrizj; e ammirava il suo modo di guerra all’antica, metodico, disciplinato, austero, cauto all’uopo, e all’uopo fatto di sorprese veloci e d’impeti tremendi, onde arrestò l’alluvione barbarica e dissuase i popoli del Settentrione dal tentar nuove invasioni; esaminò poi attento il rovescio di quell’uomo straordinario, inarrivabile in guerra, nullo, e peggio che nullo, nel maneggio della cosa pubblica, e nel governo delle fazioni, senza fermezza di carattere, senza costanza di principj. Cesare ne traeva la conseguenza che un capitano di eserciti, per quanto grandissimo, se non possiede anche la sapienza dell’uomo di Stato, è un uomo a mezzo, incapace di condurre a maturanza le rivoluzioni, dannoso a sè, fatale alla patria, devoto in ultimo al dispregio delle moltitudini, e deplorava che Mario avesse tradita la plebe, e preparato così il trionfo degli ottimati. Il nobile Cesare odiava gli ottimati, amava la plebe. Pur, se questa può sembrare una virtù d’apparenza, tutti i tiranni delle grandi e delle piccole nazioni odiarono sempre i patrizj, accarezzarono ognora la plebe. Da Tarquinio il Superbo, ai più perfidi dei Visconti e degli Sforza, codesto fenomeno è invariabile. Però Tarquinio fu scacciato dai patrizj, però gli uccisori di Gian Maria e di Gian Galeazzo, erano nobili; e il popolo li insultò, lasciando, indifferente, che venissero decapitati. Cesare covava già il futuro; lo aveva covato fin da fanciullo, colla meravigliosa precocità della sua mente, che gli metteva in petto il disdegno d’essere ancora eguale agli altri. Imparziale e giustissimo estimatore d’uomini e cose nel soliloquio della coscienza, negli atti esterni dimenticava i segreti giudizj, e faceva quello che riputava poter giovare ai supremi suoi intenti. Quando di notte, nel tempo della sua edilità, rialzò i trofei di Mario, non fu già perchè avesse voluto onorare quell’eroe a due faccie, ma perchè gli sembrò che quella prova di coraggio potesse, a tutto suo favore, percuotere di meraviglia il popolo romano. E come giudicava Mario, giudicava Silla, ma a rovescio. Amava l’eroe d’Arpino, pur dispregiandolo, e odiava Silla, ammirandolo. Comprendeva la sapiente astuzia di colui, nello stare sempre lontano da Roma, intanto che Mario, sebbene maledetto dai due partiti, era tuttavia l’eroe massimo, e, anche dopo avere udita con gioja la morte del rivale, nel tenersi per più anni ancor lungi dalla patria, per dar tempo ai Romani di stancarsi dei sanguinarj proseliti di Mario. Comprendeva tutta la gravità del concetto sillano. Siccome Temistocle aveva detto trovarsi Atene sulle navi, in pari modo Silla aveva veduto la _Roma vera_, la _Roma viva_, trovarsi tutta nel campo, marciante e vagante e vittoriosa, in mezzo alle legioni. Riputò pertanto ch’egli, in questo, doveva riprodurre, con imitazione rigorosa, la sagacia sillana; chè le conseguenze di quella sagacia, dopo le vittorie d’Oriente contro Mitridate, furono la vittoria in Roma, e il dominio assoluto sull’Italia. Cesare, il nemico acerrimo di Silla, lo ricopiò letteralmente. Se si fosse trattato di un’opera dell’arte, tutti lo avrebbero redarguito di vergognoso plagio. Ma, sul campo dell’azione, il plagio, quand’è usufruttato opportunamente, è un atto di sapienza. E, sempre ammirando l’odiato Silla, comprendeva, senza che ne provasse ribrezzo, come la tranquillità spietata onde aveva imposto la sanguinaria proscrizione e lo sterminio di intere popolazioni, di intere città, di tutto che gli parve contaminare la repubblica, assomigliasse alla tranquillità del chirurgo, il quale amputa le membra credute funeste all’intero corpo. Cesare pensava che, in questo, non lo avrebbe mai imitato; ma pure non sentiva orrore di quelle stragi operate con metodo, quasi diremmo scientifico. Un romano non poteva aver le nostre viscere, e se Cesare fosse pietoso lo si vide quando, giovinetto, fece impiccare i pirati dai quali erasi riscattato; lo si vide nelle Gallie, e più in Roma, allorchè, alla ferocia, congiunse la viltà, la viltà nata d’invidia, esercitata contro il generoso e prode Vercingetorige, l’emulo suo formidabile, il quale, datosi spontaneamente a lui, fu tratto a Roma, incatenato al carro trionfale, tenuto in carcere decenne, e scelleratissimamente poi fatto scannare. La clemenza di Cesare, onde son piene le pagine della storia convenzionale, assomiglia alla così erroneamente decantata generosità del leone che, pur allora che è satollo, si tien la preda in serbo per divorarla poi. Eccettuata adunque la proscrizione, Cesare s’accorse che di tutti i Romani, che nel passato s’eran tenuto in pugno il massimo potere, da quel Silla che aveva tanto aborrito e che aborriva ancora, doveva ripetere le prime linee del proprio disegno, e rifare, quando fosse venuto il tempo, molti dei provvedimenti che segnalarono la dittatura di colui. Silla spartì le terre dello Stato a centoventi mila veterani, diede la libertà a migliaia di schiavi. In questo Cesare pensava di imitarlo; ma non mai, se la fortuna fosse stata per dargli la preponderanza sulle sorti romane, avrebbe voluto nè dare, nè conservare al Senato la sovranità del governo, non mai avrebbe voluto discendere dal sommo fastigio dello Stato, per ridursi a vivere ed a morire da privato. — È chiaro, diceva Cesare, che colui nell’estremo della vita era impazzito; forse l’assidua pena onde i pedicoli voraci, penetrandogli sempre più nelle carni, lo tormentavano, gli fecero aborrire e disprezzare quell’ente che è più desiderabile dall’uomo il quale sa e sente di essere superiore a tutti gli altri, il potere; in questo non avrebbe mai voluto imitarlo. A questo punto, al lume di una _lucerna polimixa_ che contava dodici lucignoli, tornò a leggere Varrone, e a misurare i segni geografici onde quell’archeologo aveva incise alquante tabelle a schiarimento di Polibio, di Eratostene e di Ipparco. Cesare in quella notte misurò tutte le terre che allora erano sottomesse a Roma. Verso l’ora del _conticinio_ si adagiò sul cubicolo da campo, e dormì fino a sole alto. Dopo il meriggio gli fu recato il decreto del Senato che gli vietava di potere simultaneamente aver l’onore del trionfo e optare al Consolato. Non stette in dubbio un istante. Recossi tra le legioni; le licenziò. Un lungo ululato in cui l’entusiasmo suonava insieme col dolore, accompagnò le sue parole. A notte entrò in Roma segretissimamente. XXIV. IL TRIPICINIO. Col ritorno di Cesare dalla Lusitania, e col suo ingresso in Roma per optare al Consolato, si chiude la sua giovinezza, e una giovinezza protratta. Esso allora aveva trentott’anni. Pure si vuol protrarla ancora, perchè alcuni fatti che si compirono dopo, tengono la loro prima radice in essa, e molti dei motivi già prodotti rimarrebbero in tronco, senza seconda parte, con pericolo d’imitare la melodrammatica gallo-germanica, e d’insultare al genio italico, sebbene questa non sia palestra musicale. Cesare, abbiamo detto, segretissimo, a notte, entrò in Roma, e segretissimo entrò nel tempio là nella Suburra; gli ostiarj, i servi, gli schiavi lo attendevano. Egli diede monete a tutti, e tutti gli s’inchinarono, sorridendogli con riverente e grato viso. Egli era idolatrato da coloro. Entrò nella biblioteca, e là, raccogliendo i pensieri fatti lungo la via, coi nuovi che, nel silenzio ond’era circondato, gli vennero abbondanti, li strinse in un vasto disegno. Era un piano di battaglia. Ei pensava ch’era venuto il tempo di tentare imprese romanamente grandi, di sospingersi nel fitto dell’azione, di emulare Alessandro, del quale, con lagrime d’invidiosa ed impaziente ambizione, aveva ammirata la statua nelle Spagne. Non dubitava di venire eletto console. Aveva per sè il popolo, e conosceva il Senato che, se non lo amava, lo temeva. Però, la susseguente giornata fu per lui operosissima. Preparò tutti i congegni per assicurar l’elezione, si mostrò al popolo, il quale circondandolo e seguendolo gli applaudiva e acclamava il suo nome, ed egli lungo la via, in più luoghi fermandosi, tenne ad esso opportuni discorsi. Venne poscia al Senato nell’ora che era convenuto, e i senatori al suo apparire si alzarono tutti, e gli applaudirono, perchè gli amici di lui non pochi, alzandosi primi e applaudendo a furore, costrinsero gli altri ad imitarli, chè non amavano rivelarsi. Cesare disse brevi parole, pregando il Senato ad assegnargli un giorno per dar conto della propria amministrazione in Lusitania. Il dì gli fu subito statuito. Uscì allora dal Senato, e se ne venne alla casa di Pompeo. Quando ne varcò il limitare, già cominciava a tradursi in atto il suo vasto, profondo, astuto disegno. Pompeo stava anch’esso nella sua, per lui inutile, biblioteca, e Cesare passò in essa. Pompeo lo accolse con lieto volto. Sedettero entrambi. Stettero muti alquanto; nè Pompeo era tale da rompere primo il silenzio. Amava o non parlare o parlar poco, chè si smarriva facilmente negli ambiti del discorso. Parlò dunque Cesare primo: — Io non venni qui, o Pompeo, a farti una visita onoraria. Sì venni per cose gravi. Grande sei tu chiamato, e grande sei, ma a che ciò ti vale? Lucullo addensa nemici ai danni tuoi, e avendo pagato i debiti di Clodio, questi, e per l’ira spontanea, antica che sente per te, e per mostrarsi grato al suo benefattore, il quale mai non ti perdonerà l’avergli strappata di pugno l’impresa de’ Pirati, e la conseguente vittoria e la gloria, minacciò e minaccia d’incendiare tutti i tuoi possedimenti. Queste cose io le seppi al campo, e tu le sai. Non basta dunque essere grandi; conviene essere potenti. — Ben parli, o Cesare, ma a che accenni? — A questo; che se la potenza, anzi la prepotenza non può averla uno solo, la si ottiene condensando le forze di più. I fasci dei littori non vi è chi li sappia spezzare, pure le verghe, onde son contesti, le infrange un fanciullo. Unisciti dunque a me, o Pompeo; io cercherò altr’uomo, altro che a noi si confederi. — Quest’uomo è Crasso. Pensa, Pompeo, che noi tre, di tutta Roma, possediamo, quale privilegio, le virtù più bramate dai mortali, le quali, congiunte, producono l’invincibile forza. Tu hai la grandezza. Crasso la ricchezza. Appena un re dell’Asia può in questo competer seco. Io tengo qualche virtù a me particolare, che nè tu hai, nè egli, e nessuno ha. Pompeo sorrise, quasi dicesse: Lo so. — Stringiamoci dunque insieme, continuava Cesare, e l’universo è nostro. — Ben parli, ripeto. Ma quanto dici non sta nel possibile. Crasso è mio nemico antico e implacabile. — A Crasso provvedo io. Accetti dunque tu? Pompeo stette pensoso un istante, poi: — Se Crasso accetta, disse, io accetto. E Cesare, strano a dirsi, alla risposta di Pompeo, si fece per poco meditabondo anch’esso. Davvero che quelle due grandi figure di Roma antica, che poi dovevano disputarsi il dominio del mondo, in quel momento meritavano di essere plasticamente ritratte. Come erano dissomiglianti l’uno dall’altro! Pompeo aveva grossa testa, con capelli fittissimi che scendevano fino al sopracciglio, occhio ampio e bello; ma tutta la sua bellezza consisteva nelle linee della cassa, e svaniva alla pupilla, nera e profonda, ma senza mobilità, nè espressione. Ampie spalle mostrava, ed ampio petto. Era davvero il tipo completo della razza romana. Cesare, già lo abbiamo descritto e con precisione quasi anatomica, pure, esaminandolo in confronto di Pompeo, aggiungiamo che nulla affatto c’era in lui di romano; anzi pareva si dilungasse da Roma e dal suo tempo. L’eleganza della sua figura e della sua veste, pareva arieggiasse la leggiadria dei costumi futuri. Era insomma un uomo moderno. L’architettura ossea della sua testa era grande certo più di quella di Pompeo, ma non appariva, perchè ancora in quell’età, una indescrivibile grazia, in parte naturale, in parte voluta, ne smorzava le linee, e lor toglieva tutto quello che ci poteva essere di profondamente antico. Del resto, non è vero che interceda tanta somiglianza tra Cesare e Napoleone. Il primo era alto di statura, aveva bel collo, uscente libero dalle spalle, aveva occhi neri e vivacissimi, che talora inutile rendevano la parola. Gli occhi di Napoleone eran gialli e felini, che facevano abbassar quelli di chi lo guardava, e non avevano altra espressione che la terribilità di una volontà implacabile. Non si parli più dunque di somiglianza tra il più grand’uomo di Roma antica e il più gran capitano dei tempi moderni. Meditato alquanto, Cesare si alzò; si alzò Pompeo, e si strinsero la mano. In quel momento parevano davvero amicissimi. Solo in fondo alla mente di Cesare sorgeva già il germe di un obliquo disegno. — Non è da indugiarsi, soggiunse poi. Io volo a Crasso. Pompeo, zoppicando, chè da anni aveva una piaga nella gamba destra, onde le fasciava ambedue con nastri bianchi, accompagnò Cesare fino al cavedio. Prima di recarsi alla casa di Crasso, Cesare tornò alla Suburra. Fece attaccare i cavalli, e salì in cocchio insieme col suo fidato Taltibio, recantesi in braccio i quattromila talenti che Crasso aveva prestati a Cesare. Questi conosceva l’avarizia dell’amico, e come la ricomparsa di quei quattromila talenti gli avrebbe messa una tale giocondità nel sangue, da renderlo docile a qualunque volere e consiglio. Crasso, invece di starsi coi clienti, passeggiava nel cavedio coi mediatori di danaro e coi banchieri e feneratori d’ogni conio, tra i quali v’erano alcuni perversi veramente, degni di capestro. Essi tenevano stanza intorno al foro, e mercanteggiavano di danaro, ma quanti cadevano nel loro laccio, e che: _se obruebant in aere circumforaneo_, come allora correva il detto, il quale significava ch’eran carichi di debiti, dovevano presentare garanzie impreteribili, eran fonte di un ingente reddito a Crasso, il quale dava il danaro ai feneratori di seconda e terza classe, e ne ritraeva usure così ladre che oggi non potrebbero essere credute. Crasso, visto Cesare, gli mosse incontro con grande cortesia, licenziò quella canaglia, e: — Entriamo, disse: che ti conduce a me? — Entriamo. Cesare fece segno a Taltibio di seguirli. E Taltibio, onusto dei quattromila talenti, tenne dietro al padrone. — È il primo giorno, o Crasso, che io sto in Roma. Ma il primo pensiero fu di restituirti il danaro. Guarda, e conta, e accogli i miei ringraziamenti. — Sei stato ben sollecito, disse Crasso, ma bene hai fatto.... E guardò e contò, e rendeva la somiglianza di un ghiottone eccezionale, quando, spensierato d’ogni altra cura, va cospargendo dei cari sapori di un cibo desiderato tutte le papille gustatorie. Crasso aveva allora quarantotto anni, sebbene ne dimostrasse più di cinquanta. Era grosso e panciuto; bensì, per un contrasto strano, aveva il volto scarno. E ciò che, a ben guardarlo, lo rendeva diverso dagli altri, era il suo sguardo. Che possa dare idea dell’occhio di Crasso, non è che quello dell’avoltoio; vibrava una luce vivissima, la quale scompariva, sarebbesi detto, sotto a una pellicola opaca che la smorzava, lasciandola ricomparire tosto, a saettare altri raggi acuti, per spegnersi poi di nuovo. — Pompeo ti saluta. — Megabocco mi saluta? esclamò Crasso con meraviglia. Megabocco era uno dei tanti soprannomi che aveva Pompeo, e che erano stati inventati da Cicerone. I dispregiatori di Pompeo in Roma ripetevano que’ soprannomi; però lo si chiamava Epicrate, Alaborche, Sampiceramo. Erano parole enigmatiche di cui Cicerone si valeva, parlando cogli amici, ogni qualvolta voleva dir male di Pompeo, senza che gli astanti potessero intendere quel che diceva, e riferirlo a Pompeo stesso. Ma le parole si sparpagliavano per tutta Roma, e con esse probabilmente anche la spiegazione degli enigmi. — E dunque, disse Crasso a Cesare, per che ragione grave sei tu venuto? — Io t’ho visto ieri, e t’ho stretto la mano, e ho invocato gli Dei quando ti espressi le parole augurali, affinchè la tua gloria presente si accrescesse e si perpetuasse. — Senza gravi ragioni non si salutano tutti i giorni che le donne desiderate. Ma tu non sei tale, però se ti reco i saluti di Megabocco vuol dire che la terza parte del dominio di Roma e del mondo io ti metto nelle mani. Ti par essa cosa da dispregiare? Crasso guardò Cesare con grande stupore, e: — Se tu non fossi Cesare, davvero che sospetterei avere il sole ispano riscaldata e alterata la tua mente. — La mise invece al suo perfetto calore. Ed ora le mie facoltà sono complete. Trattasi pertanto di confederarci noi tre; tu, Pompeo, ed io, e di governare con mano di ferro e con inesorabile volontà questa repubblica che va scardinandosi da tutte le parti, e di dominare codesto Senato che contiene tutta la feccia patrizia, ben più funesta alla repubblica della feccia romulea di Cicerone. Però accogli la proposta; lascia ogni rancore, t’accosta a Pompeo; con esso parlerai stanotte nella mia casa alla Suburra, io verrò a prenderti in cocchio. Nessuno v’è in Roma, come già dissi a Pompeo, che al pari di noi tre abbia le doti atte per governare e dominare e trarsi a sè tutto il popolo romano e l’italico; tu, il più ricco, taccio della gloria militare; Pompeo il più grande, almen tale è riputato dal Tevere al Gange; io.... io tengo virtù che forse mi vi faranno eguale. — Ebbene, disse Crasso, alzandosi e passeggiando, quando si ha a diventar padroni della terza parte del mondo, che tu già palleggi, (egli sorrise) ben si può ancora stringere la mano a Megabocco. Cesare, sorridendo pur esso, disse a Crasso: — I quattromila talenti, che troppo presto ti ho restituito, ora dovresti ritornarli nelle mie mani, in compenso di quella parte di mondo che ti concedo. Così, amabilmente scherzando, que’ due Romani, innamorati della patria, sotto colore che la repubblica si scardinava, preparavano le leve per farla uscire di perno. E Cesare si partì, dicendo a Crasso: — Alla media notte verrò a prenderti in cocchio. — Io aspetterò. Venne la media notte. Cesare recossi da Crasso. Partirono insieme per la Suburra. Pompeo li attendeva. Entrarono. Crasso e Pompeo simultaneamente mossero incontro l’uno dell’altro, e si strinsero la mano. Sedettero. Le cose che Cesare aveva dette la mattina all’uno e all’altro furono ripetute, e nelle stanze più interne, nel silenzio della notte, segretissimamente giurarono di stare ognora congiunti a porgersi vicendevole aiuto, di fare tutto quello che fosse atto a raggiungere i vasti intenti. La repubblica romana e il mondo già perigliavano, messi in bilico sugli omeri poderosi, ma infidi, di quei tre. Fu questo uno dei momenti storici più caratteristici e fatali dell’antica Roma. Pronunciato il giuramento, al quale Cesare diede una solennità quasi rituale, egli soggiunse: — Oggi tra me pensavo poter esser utile che Cicerone si accosti a noi; l’elemento cittadino è da lui per eccellenza rappresentato. In noi c’è senza dubbio la colleganza di tutte le varie doti necessarie per dominare la repubblica; ma l’elemento cittadino, se non ci manca adesso, ci verrà a mancare, non per altro che perchè dovremo lasciare Roma per altre imprese di guerra. Se lo credete, domani io tenterei Cicerone, per vedere di trarlo a noi. — Dubito ch’egli ti annuisca, o Cesare. — Annuirà. Necessariamente ei deve temerci. Il grand’uomo è ambizioso; in tutto vuol essere il primo a trovare e condurre un disegno. Ma è timidissimo anche, e, in mezzo a due contrarj venti, mal saprebbe reggersi in piedi. Posto in mezzo tra noi e il Senato, che volete voi che faccia o possa il grande oratore? — Se ti riesce di trarlo a noi, disse Crasso, facciano gli Dei immortali che ciò sia per il bene. Ma Cicerone è uomo ognora tentennante, e, per quanto più forze congiunte sieno possenti, se una sola vacilla, tutto può andare a rovina. — S’ei sarà per vacillare, cadrà, e la sua timidezza, sebbene obliqua, lo metterà nel nostro pieno dominio, e, di quel prezioso elemento che a noi avrebbe dato gran forza, anche il Senato sarà destituito. «Or, prima di lasciarci, dobbiamo parlar d’altra cosa importantissima per me ed anche per voi. Se io ottengo il Consolato, il nostro potere si consolida sempre più. Conviene adunque ajutarmi per conseguirlo. Io rinunciai al trionfo per presentarmi candidato. Il popolo è per me, e del Senato la più parte. Oggi non stetti in biblioteca, e, tra in cocchio e tra pedestre, misurai Roma più volte, per parlare a quanti mi era necessario; però col vostro appoggio non dubiterei di riuscire.» — Impegno la mia fede, o Cesare, che il mio aiuto non ti mancherà, disse Pompeo. — Ed io impegno la mia, soggiunse Crasso. E l’uno e l’altro lasciarono la casa di Cesare. A questi, tornato appena dalle Spagne, era bastato un dì solo per preparare e colorire un audace disegno, che doveva poi, per gradi, cangiare i destini di Roma; era bastato un dì solo per abboccarsi con tutti i proprj clienti, e farseli sempre più devoti; per trattare con un tal Votinio, affinchè assoldasse pel dì delle elezioni da due a tre migliaja d’uomini della più lurida e sanguinaria plebe romana. Quando fu solo, Cesare si sentì pago dello scorso giorno, e, pensando alla facilità onde aveva riconciliati Pompeo e Crasso, gioiva e rideva nell’animo. Rideva perchè così pensava: — Colla facilità stessa onde si strinsero la mano dopo tanto odio, questo ricomparirà. Non fu mai detto che il sangue, quando fu guasto, possa essere stato completamente purificato. Ciò sta bene; il loro disaccordo mi darà su di essi una supremazia invadente. «Grande è Pompeo, come affermano quanti non sanno giudicar le menti umane. Ma, se tolgasi alcuna pratica di guerra, cui la fortuna ajutò a parere virtù stragrande, e quasi concessa a lui per privilegio particolare agli Dei immortali, è uomo di angustissimo intelletto; lo si governa con una briglia di canape. Meno abile uomo di guerra, e più ampio intelletto, è Crasso, ma in guerra non pensa che alle ingenti prede; però l’uno e l’altro son cavalli da aggiogare al mio cocchio.» Così pensato e poi studiato e poi dormito, all’alba fu in piedi e per tutto il giorno non si diede riposo. Si recò alla casa di Cicerone; questi lo accolse con onore, e quasi potea dirsi con amore. Cicerone temeva Cesare, e faceva mille sospetti intorno ad esso; ma, come uomo di profondo e onesto intelletto, e innamorato degli studj, ne ammirava il grande ingegno. Non v’è scrittore che, per questa parte, lodi Cesare più di Cicerone. _Sanos quidem homines_, scrive nel _Bruto, Cæsar scribendo deterruit_. Parlando dei Commentarj, _nudi sunt_, sentenziò nel _Bruto_ stesso, _recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracto_. — E altrove: _quis sententiis aut acutior, aut crebior, quis verbis aut ornatior, aut elegantior?_ Gli era caro pertanto, e conversava lietissimo con esso; ma lo considerava come chi, amante della beltà, vorrebbe amoreggiare una donna eccezionalmente decorosa di forme, ma, nel tempo stesso, fiuta il tradimento nell’ammirare il giro attraente de’ suoi occhi, e le ineffabili sue blandizie. Ma Cesare venne tosto al suo tema, e gettò abilissimamente la rete, cui Cicerone abilissimamente rispose, schermendosi, e, più volte ghermito, più volte, quasi anguilla astutissima, gli guizzò di mano, finchè Cesare, visto di non poterne far nulla, lasciò che libero ricadesse nel suo elemento. E il discorso piegò ad altro. I due grandi uomini toccaron più temi con acuta eleganza. Cicerone interrogò Cesare intorno ai costumi delle Spagne. Quando parlava Cesare, Cicerone stava attentissimo, come scolaro che ammiri le parole d’un maestro rispettato, tanto le descrizioni di Cesare erano poesia dipinta. A noi rincresce di non poter riferire qui quell’amabile e dotta conversazione; ma ci sollecita il tempo, come ne era sollecitato Cesare, il quale, pur descrivendo i costumi ispani, pensava al Consolato. Cesare si licenziò finalmente da Cicerone, e questi: — Gli Dei t’abbino in custodia, o Cajo Giulio Cesare console. — Domani mi presento candidato. — Vivi certissimo del successo; se non fosse stata l’eloquenza ostinata ed iraconda di Catone, avresti avuto anche il trionfo. — XXV. CESARE CONSOLE. Cesare, all’indomani, si presentò candidato, ossia vestì la toga candida, e s’inscrisse per essere eletto console. Le tabelle dove erano scritti i nomi, si distribuivano a ciascun cittadino dai _diribitores_. Siccome i cittadini erano distribuiti nelle loro centurie, così s’instituiva la sorte tra le centurie della prima classe. La centuria che riusciva prima si denominava _prærogativa_. Questa centuria, chiamata dal magistrato, ossia dai consoli che stavano per uscir di carica, entrava nel _Septo_, ovvero ovile, situato nel campo di Marzio. Il suo voto era in singolar modo apprezzato. Nei primi tempi di Roma davansi i voti a voce, ma per la legge Gabinia si diedero poi segreti. La _prærogativa_ era la prima a dare il voto, dopo di che veniva licenziata dal magistrato e, si chiamavan, poscia, le altre, dette _jure vocatos_. Torna inutile il dire che ogni sorta di pressione veniva esercitata sui votanti, dal Senato, dai clienti, dagli amici, dai candidati. Erano promesse di cariche lucrose, eran profferte di danaro, erano minaccie, e le minaccie si traducevano in vendette. Molti del Senato erano avversissimi a Cesare, e avrebbero adoperata qualunque arte, gettata qualunque insidia, affinchè non riuscisse. Ma temevano il popolo innamorato di Cesare, e si accorsero che i votanti, tentati in ogni modo, non erano disposti ad appagarli. Però, ciò vedendo, condusser le cose in modo che Cesare avesse per compagno, nel Consolato, un uomo che fosse d’intendimenti assolutamente opposti ai suoi, e la scelta cadde su Marco Calpurnio Bibulo. Perchè i nuovi consoli entrassero effettivamente in carica, dovevansi attendere le calende di gennajo, le quali, quando furon venute, i nuovi consoli seguiti dal Senato, dai cavalieri, da gran folla di popolo, salirono il Campidoglio, ed entrarono nel tempio di Giove Capitolino a prendersi la toga _prætexta_, vale a dire che aveva il lembo intessuto di porpora. Il vestir la toga significava che cominciava da quel momento la loro carica, e da quel momento i littori coi fasci, ch’eran dodici per ciascun console, aspettarono che uscissero dal tempio per mettersi al loro seguito; comparvero i consoli, e il popolo applaudiva dal basso della lunga scalea. Vista da qualche punto lontano, allorchè tutti discesero, quella pareva una cascata variopinta. I battimani, gli evviva esplosero, quando i consoli furono in mezzo al popolo, ma non si udiva in mezzo all’onda sonora della gran voce di Roma, che: viva Cesare, viva il divo Cesare, viva il semidio Giulio, che procede da Venere. Per Marco Calpurnio Bibulo non fu battuta una palma, non una voce echeggiò. Nè i dodici littori coi fasci donde uscivano le minacciose scuri che seguivano Bibulo, nè la toga _prætexta_, nè il _Scipio eburneus_, specie di bastone significante il comando, che portava nella destra, ebbero forza di piegar l’attenzione su di lui, e di sviarla da Cesare. Quel Calpurnio Bibulo era assai noto in Roma, e doveva esserlo, se fu votato console. Era stato questore in Macedonia, pretore in Roma, edile; e, poco tempo prima del Consolato, eletto augure, ufficio quasi joratico, e che consistendo tutto nell’esplorazione dei cieli, per interrogare il volere degli Dei, veniva quasi ad esser superiore a tutti i poteri, perchè il terrore dell’ignoto, non veduto che misteriosamente da essi, era in taluni casi superiore alla minaccia armata di chi volesse far passare una legge ch’essi avrebbero statuito di respingere. Questa venerazione tremebonda per gli auguri, di secolo in secolo venne scemando, tanto che Cicerone, quando fu augure, rideva di sè stesso cogli amici, e ammiccava per ischerno i colleghi, quando esploravano i cieli con ciglio grave e teatralmente inspirati; e gli auguri ridevano anch’essi di celato, allorchè non eran credenti inferociti; chè i credenti più o men falsi, in quelle cose che la ragione rifiuta, son di tutti i tempi e di tutte le religioni. Ora, Calpurnio Bibulo, quando adempiva all’ufficio d’augure, si comportava di tal modo come se veramente mettesse fede in quel rito bugiardo, chè un augure il quale non fosse impazzito, ben sapeva che i cieli lucevano, ma non parlavano, che gli augelli volavano, ma pur pispillando, non davan responsi, e che il mover l’ali piuttosto a sinistra che a dritta, piuttosto nell’alto dell’aere che presso terra, non poteva indurre timore o speranza che in un intelletto scemo. Pompeo era augure insieme con Calpurnio. Il primo recavasi ad esplorare i cieli sull’alto del colle Palatino; faceva l’augure senza ch’ei desse importanza a quell’ufficio, però nessuno, per questo, occupavasi di Pompeo. Calpurnio saliva alla sommità del monte Capitolino. Ma la gioventù romana, che in quel tempo di pace, eccettuati gli esercizj nel campo di Marte, tutta si dava all’ozio ed alla vita gioconda, e non concedeva importanza a nulla, e rideva di tutto, quando sapeva che Calpurnio doveva recarsi a quel colle, vi saliva anche essa, e collocandosi, quantunque il rito nol concedesse, dietro ai sacerdoti, che facevan cerchio intorno all’augure, tentava il possibile per vedere di rompere la gravità di Bibulo. Ma non c’era mai riuscita; l’indole di lui era tale che tutto ciò che la sua condizione gl’imponeva di fare, con scrupolosa fermezza lo adempiva. E a taluno che metteva in celia il suo contegno devoto e compunto: Allora si aboliscano gli auguri, rispondeva gravemente; ma finchè le leggi e i riti non li interdicono, sempre guarderò i cieli con solennità di religione. Ed era sì pertinace Calpurnio che, allorchè fu ispettore alla moneta di Roma, essendone quartumviro Cicerone, portò un tale rigore nell’adempimento del còmpito suo, assediava di tali e tanti dubbj il quartumviro stesso, che amava sollecitare le operazioni in servizio all’erario, che Cicerone, stanco infine di quell’assidua noja, riuscì a disfarsene, e fe’ licenziar Bibulo da quell’ufficio. Come poteva un tale uomo essere nel Consolato compagno a Cesare? Ma il Senato aveva creduto fare atto di grande sapienza politica a conquistare i voti in favore di Bibulo, pensando che per la tenacità de’ suoi propositi, e pel coraggio onde aveva dato prova in guerra, ed anche per essere augure, sarebbe stato un tremendo contrappeso alla, più che potenza, prepotenza di Cesare. Ma, se il Senato conosceva Bibulo, pareva non conoscesse Cesare abbastanza. Questi era indispettito che gli si fosse dato quell’odiosissimo collega patrizio, aristocratico, avversatore di tutto che fosse vantaggioso alla plebe, per di più, in odore di tanta onestà e virtù, che la plebe stessa, se non lo amava, lo stimava. Ma Cesare non era uomo da starsene in forse, e giacchè il Senato gli aveva messo incontro quell’ostacolo, pensò di atterrarlo tosto. Là, nelle aule consolari, entrò un giorno nelle stanze di Calpurnio, vi entrò da padrone. — Sappi, o Calpurnio, gli disse, ch’io ho preparato una legge utile e pietosa alla classe povera, e deve passare in ogni modo, dovesse ardere tutta Roma, s’altri l’avversasse. — Di che legge tu parli, o Cesare? — La miseria, quasi contagio, soggiungeva Cesare, contamina tutta Italia. A questa si ha a porre un rimedio; è male antico che con pietosa sapienza i Gracchi e Druso tentarono di estirpare; ma l’avarizia e l’iniquità della fazione aristocratica, trovaron modo di assassinare quei tre sublimi benefattori dei cittadini soffrenti. Io, in parte, voglio continuar l’opera loro, e ho preparato una nuova legge agraria, per la quale le terre della Campania dovranno essere distribuite a ventimila cittadini poveri aventi tre o più figliuoli. Tu mi comprendi, o Calpurnio, questa legge deve passare, e tu l’appoggerai. — Troppo ti comprendo, o Cesare, rispose Bibulo, alzando il suo testone pesante, dalla fronte alta, eccezionalmente convessa e dall’occhio profondo, troppo ti comprendo, o Cesare, ma la legge non passerà, perchè io non l’appoggierò. E continuò a legger tabelle. Cesare non si scompose, e: — Oggi salirò i rostri, e la legge sarà accettata. Ne faccio qui solenne giuramento agli Dei immortali. E si partì. E tosto ingiunse ai trombettieri percorressero tutti i quartieri di Roma, e gridassero tra l’uno e l’altro squillo al popolo, essere convocato nel Foro per l’ora dell’inclinazione del meriggio, poichè Cesare doveva parlare. E a quell’ora il Foro già era gremito di popolo, e, come quella del Tevere, si udiva il muggito della sua gran voce. Cesare, accompagnato da Pompeo e da Crasso, seguito dai dodici littori, da molti senatori, quelli che erano della sua parte, da moltissimi clienti, entrò nel Foro, salì il rostro. Il popolo acclamò. La figura di Cesare, palliata come una statua uscita da un artefice greco, emineva dignitosa sulla moltitudine, che converse tosto le acclamazioni nel più profondo silenzio. Era quello davvero uno spettacolo romano. Le statue degli Dei sormontanti i templi e le basiliche, parevano assistere a quella solenne adunanza del popolo. Cesare parlò. La sua voce rotonda, metallica ed espansa, percorse di tratto l’onda sonora dell’aere foraneo. — Popolo romano! incominciò, ami tu te stesso? Il silenzio continuò. — Se ami te stesso, devi dunque amare anche tutte le parti del tuo corpo glorioso. Se pertanto una di queste parti fosse afflitta da un grave malore, saresti tu così improvvido da non porvi rimedio? Ora, questa parte del tuo corpo, afflittissima e chiedente ajuto, è quella classe caduta in sì deplorevole miseria, che non solo non può accostarsi ai circensi, ma che sovente chiede pane indarno. O popolo romano, rifiuteresti tu di medicare codesta parte cotanto ammalata del corpo tuo? Un lungo ululato contesto di no, no, no.... si alzò da tutte le parti del Foro. In questo punto, entrò il console Calpurnio Bibulo, coi littori consueti, seguito da gran numero di senatori, e da tre tribuni. — Popolo romano, continuò Cesare, io ti propongo la legge di dividere le terre della Campania a ventimila di questi miserissimi cittadini. Popolo romano! se tu hai pietà di te stesso, perchè devi aver pietà d’una parte tua, propongo che questa legge passi per acclamazione. Il popolo rumoreggiava. Pure la voce rauca di Calpurnio si fe’ sentire abbastanza. — Popolo romano! non passar questa legge; ella è di danno a Roma. Le terre della Campania sono esse non poca parte delle ricchezze della Repubblica. Bene compiango io i cittadini miserabili, ma la miseria è una tremenda necessità della vita. Nè le terre della Campania varranno a distruggerla; bensì, divise ai poveri, impoveriranno la Repubblica. «Popolo romano! lo ripeto, non passar questa legge. Ella non gioverà che a chi l’ha proposta. Ben ponderate, o Romani, queste mie parole, giudicate, sentenziate; chè, se sarete per votarla, codesto sarà un segno manifesto che gli Dei vi hanno tolto il senno.» Calpurnio parlava dal basso. Cesare non discendeva dal rostro. — Popolo romano! tuonò Cesare, se io ti ho proposto questa legge, è perchè è utile, ancor lo ripeto, ed è pietosa. Sono i ricchi che hanno sempre divelte le leggi agrarie, perchè più della Repubblica, sono innamorati di sè stessi. «Passa, o popolo, questa legge per acclamazione. Essa mostrerà che tu sei erede della sapienza dei sapientissimi avi nostri, essa vendicherà le ombre dei Gracchi e di Druso, essa ti farà amare e glorificare sempre più dalla gratitudine di tutta Italia; chè questa legge benefica deve destar rumore dalla Campania fino alle terre della Cisalpina.» Il popolo ondeggiava. Il console Calpurnio attraversava il Foro per salire anch’esso i rostri. Cesare allora discese, e questo doveva essere, come fu, un tremendo segnale, chè, in quel punto, capitanata da Votinio, una masnada di gente, armata di bastoni e di ronche, invase il Foro, circondò Calpurnio e i suoi littori. Bibulo, assalito all’impensata, fu percosso da una tempesta di bastonate inclementi; nè ciò bastò, chè alcuni di quella canaglia avendo portato seco dei vasi immondi, ne versaron le fetide onde sulla testa calva di Calpurnio, quasi fossero acque ploccie. E i littori, in quel giorno, maledirono l’istante in cui vennero a quella carica, chè, non solo lor si ruppero i fasci, ma ebbero spietatamente fracassata la schiena; nè i senatori seguaci ebber sorte migliore. In tal modo, Cesare provvedeva a far passare le leggi. A quella scena non aspettata, alla fuga del bastonato Calpurnio, dei littori sfasciati, dei senatori celantisi nei pallii, fin sopra il capo, quasi che su di loro si rovesciasse a dirotto un acquagine dal negro cielo, nel popolo astante successe una muggente agitazione, e pareva quella dell’onda marina, quando è prossima la tempesta. A tutti, perfino ai molto innamorati di Cesare, parve iniquo quell’atto suo, e forse ei ne avrebbe avuto insulti e danno, se l’ilarità non si fosse sovrapposta al severo giudizio, chè, dopo tutto, il popolo romano s’era assai dilettato a quella scena; epperò la pietà fu strozzata dagli schianti delle risa generali, che, a conforto del console, dei littori e dei senatori percossi, aveano echeggiato per tutto il Foro. L’immondo liquore onde fu inaffiata la testa calva del console, convertì di tratto la tragedia nella più buffa delle commedie. A questo aveva provveduto Cesare stesso, pensando che col provocare nel popolo un riso irresistibile, sarebbesi stornato qualunque tumulto a lui pericoloso. Nel popolo continuava l’agitazione, frammischiata tuttavia di smascellate risa. Cesare, al piede dei rostri, stava immobile, grave, e girava sul popolo il suo tremendo occhio d’aquila. Pompeo e Crasso stavano presso a lui. Disse Cesare al primo: — Ascendi tosto i rostri, e parla al popolo in favore della legge. La voce tua gli giungerà grata. Pompeo parlò breve, ma con forte eloquenza, a lui insolita. Ebbe qualche frase efficacissima, e questa tra l’altre: — Se ci fosse taluno, cotanto ardito da opporsi a questa legge colla spada, io la difenderò col mio scudo. Il popolo applaudì. E Crasso salì pur esso i rostri, quando Pompeo ne discese, e, con eloquenza incalzante, strinse fortemente il popolo ad accettar la legge; la quale subito passò senz’altra opposizione. Il giorno successivo il console Bibulo si recò in Senato, portando nella fronte e nel volto i segni del fortunoso evento. Lamentossi forte della violenza inaudita fatta alla sua persona, disse che la dignità del Senato aveva obbligo di vendicarlo; declamò, senza volerlo, tragicamente, chè il tema lo agitava tutto; protestò, gridò, e la sua voce alle ultime cadenze del discorso inflettevasi quasi nel pianto. Ma un silenzio di tomba accolse il lamentoso discorso, chè il Senato era atterrito, e, dei senatori, più della metà, se avessero mostrate al popolo le schiene patrizie denudate, avrebber provocato un ilare compianto collo spettacolo delle molteplici chiazze nerastre; però, le superstiti doglie, costringendoli a consumare per sè, tutta quanta la pietà onde i loro petti eran colmi, non ne ebber nemmeno un misero residuo per il console sventurato. E Calpurnio, disperato, si ritirò nella propria casa, fermo il proposito di starvi chiuso tutto il tempo che doveva durare il Consolato, soltanto facendosi vivo col popolo, per mezzo degli editti. E frequentissimi ne fece affiggere alle cantonate di Roma e, insieme con quelli, veementissime declamazioni contro Cesare, e contro il triumvirato: svelava, profetando, i disegni dell’onnipotente collega. L’ira compressa lo faceva eloquentissimo, talchè il popolo, che leggevale avidamente, terminò per sviare ogni simpatia dal suo tanto idolatrato Giulio. Questi se ne accorse, chè, uscendo in pubblico, veniva accolto con bisbigli, che potevano assai bene tradursi in minaccie e peggio. Ma Cesare, come avea conosciuto il Senato che atterrì, come alle prime ripulse di Calpurnio, che avrebbero fatto vacillare altri, egli si sentì più imperterrito ad atterrare ostacoli, così giudicò passeggero quel dissapore del popolo, e sempre uscì in pubblico, e spesso anche senza i littori. E di quel tempo uscì una satira tremendamente scherzosa contro il triumvirato. Quella satira corse per tutta Roma, ed era letta ad alta voce nelle taverne e nei bagni pubblici. Aveva per titolo _Tripicina_, o la bestia di tre teste. Era stata stesa da Varrone, sebbene fosse amico di Cesare e ne governasse la biblioteca. E qui si chiude la giovinezza di Giulio Cesare. Col Tripicinio e coll’imperversare della sua virilità onnipotente, si vedrà quanto fece questo uomo, che fu il più grande dell’universo. FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME. INDICE DEL SECONDO VOLUME I. Gordiene Pag. 5 II. Cesare e Publio Sceva » 17 III. Marco Sceva, Cesare e Catilina nella casa dell’eminente Sempronia » 27 IV. Cesare e Servilia » 39 V. La congiura di Catilina e il senatore Quinto Curio » 43 VI. Fulvia e Quinto Curio » 49 VII. Fulvia e Cicerone » 61 VIII. Cicerone e il console Antonio » 67 IX. La battaglia di Perugia » 75 X. Cesare e la figlia di Pompeo Magno » 89 XI. Clodio e Pompea » 95 XII. La festa della Dea Bona » 105 XIII. Aurelia e Cesare » 119 XIV. I bagni al ponte Fabricio » 127 XV. Cicerone e Marc’Antonio » 141 XVI. Terenzia » 153 XVII. Cesare, Crasso e Cicerone » 161 XVIII. Clodio » 167 XIX. Le tre Grazie e i tre Fauni » 189 XX. Pompeo e Cesare » 199 XXI. L’Imperiosa » 207 XXII. Ritorno di Cesare dalla Lusitania » 225 XXIII. Cesare e Roma » 249 XXIV. Il Tripicinio » 275 XXV. Cesare console » 299 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE, VOLUME 2 (OF 2) *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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