The Project Gutenberg eBook of Un dramma nell'Oceano Pacifico This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Un dramma nell'Oceano Pacifico Author: Emilio Salgari Illustrator: G. G. Bruno Release date: March 25, 2025 [eBook #75712] Language: Italian Original publication: Firenze: Bemporad, 1895 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UN DRAMMA NELL'OCEANO PACIFICO *** EMILIO SALGARI UN DRAMMA NELL’OCEANO PACIFICO RACCONTO CON MOLTE ILLUSTRAZIONI DI G. G. BRUNO. FIRENZE, R. BEMPORAD & FIGLIO CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI Via del Proconsolo, 7. 1895. PROPRIETÀ LETTERARIA DEGLI EDITORI R. BEMPORAD E FIGLIO. FIRENZE, 1895. — Tipografia di G. Barbèra. CAPITOLO PRIMO. Un assassinio misterioso. — Aiuto!... — Mille fulmini! Chi è caduto nella gran tazza? — Nessuno, signor Collin, — rispose una voce che scendeva dalla coffa dell’albero di mezzana. — Che io sia diventato sordo? — Sarà stato il timone che ha i cardini un po’ stretti ed arrugginiti. — Non è possibile, gabbiere. — Allora saranno state le tigri che ruggiscono in modo da mettere i brividi. — No, ti ripeto, era una voce umana. — Eppure non vedo nulla, signor luogotenente. — Di questo sono certissimo. Bisognerebbe avere gli occhi d’un gatto per discernere qualche cosa con questa oscurità. — In mezzo all’urlío della tempesta e ai muggiti delle onde che il vento sollevava a grande altezza, si udì ancora un grido che non pareva emesso nè dalle belve, delle quali aveva parlato il gabbiere, nè dal cigolío del timone. Il luogotenente Collin, che stava aggrappato alla ribolla del timone tenendo gli occhi fissi sulla bussola, si scosse per la seconda volta e disse: — Qualcuno è caduto in mare. Non hai udito un grido, Jack? — No, — ripetè il gabbiere. — Eppure questa volta non mi sono ingannato! — Se un uomo fosse caduto dalla _Nuova Georgia_, gli uomini di quarto si sarebbero subito accorti della disgrazia. — E dunque?... — Che ci sia qualche pesce di nuova specie, nelle nostre acque? — Non conosco alcun pesce dell’Oceano Pacifico che possa mandare un simile grido. — Che sia un naufrago? — Un naufrago qui, a dugento leghe dalla Nuova Zelanda? Hai visto qualche vascello, prima che il sole tramontasse? — Nessuno, signore, — rispose il gabbiere. — Aiuto!... — Per mille diavoli! — esclamò il luogotenente, mordendosi i lunghi baffi rossicci che ornavano il suo viso abbronzato dai venti del mare e dai calori equatoriali. — Un uomo segue il nostro vascello! — Sì, è vero, signor Collin, ho udito anch’io il grido. — Asthor!... — Un vecchio marinaio, con la barba lunga grigia, con le forme tozze che dimostravano una robustezza eccezionale, attraversò barcollando il ponte della nave e raggiunse il luogotenente. — Eccomi, signore, — rispose il lupo di mare. — Dov’è il capitano? — A prua, luogotenente. — Hai udito un grido, tu? — Sì, e veniva dal mare. — Tieni la ribolla, pilota. — Il signor Collin lasciò il timone, ed aggrappandosi ai cordami, ai bordi ed agli attrezzi che ingombravano la nave, per non venire rovesciato dai violenti colpi di mare, che saltavano di quando in quando in coperta con tremendi muggiti, giunse a prua. Un uomo di alta statura, con le spalle larghe, di membra muscolose, impartiva con voce squillante dei comandi ad un gruppo di marinai che tentavano di spiegare una vela di trinchetto che il vento continuava ad abbattere. — Capitano, — disse. — Cosa desiderate, luogotenente? — rispose il gigante, volgendosi. — Abbiamo un naufrago nelle nostre acque. Ho udito due volte gridare aiuto. — Quando? — Poco fa. — Un naufrago qui! Non bisogna perder tempo e virare subito di bordo. Mia figlia non mi perdonerebbe mai di non aver salvato un disgraziato marinaio. — Ma il tempo è orribile, signore. — Non importa; tutto si deve tentare per salvarlo. Fate virare di bordo! — Collin con un colpo di fischietto chiamò i marinai dispersi pel ponte e li dispose ai bracci delle manovre, mentre il pilota Asthor, che si trovava sempre alla ribolla, faceva uno sforzo potente per far poggiare la nave. Il momento era tutt’altro che propizio per eseguire questa manovra, e tanto meno per tentare un salvataggio. L’Oceano, smentendo, come del resto ben sovente accade, il suo nome di Pacifico datogli da Magellano che pel primo lo attraversò, era in piena rivoluzione. Montagne d’acqua, irte di candida spuma ma nere come se fossero d’inchiostro, si scagliavano con inaudita rabbia in tutte le direzioni, ora formando baratri spaventevoli che parevano non dovessero finire più, ed ora slanciandosi verso il cielo con muggiti tremendi. Un vento impetuoso scendeva di tratto in tratto dalle tempestose nubi che correvano all’impazzata pel cielo oscurissimo, e balzando, con un moto circolare, su tutti i punti della bussola, fischiava in tutti i modi scotendo furiosamente l’alberatura della nave, strappando brano a brano le vele, sbattendo i boscelli. La _Nuova Georgia_ però, nonostante quei doppi assalti, le montagne d’acqua che balzavano sopra i suoi bordi, e le violente oscillazioni, eseguì l’ardita manovra comandata dal suo intrepido capitano. Tornata al vento, si slanciò sulla via poco prima percorsa, tenendo bravamente testa agli elementi infuriati. Il capitano ed il luogotenente collocatisi a prua, presso l’albero di bompresso, scrutavano attentamente i marosi cercando il naufrago che per ben due volte aveva chiamato «aiuto,» mentre i marinai allestivano le cinture di salvataggio, le corde da lanciarsi e preparavano una baleniera per essere pronti a calarla in mare, se vi fosse stato bisogno. — Vedete nulla; signor Collin? — chiese il capitano dopo alcuni minuti. — Nulla, capitano, quantunque noi siamo già nelle acque del naufrago. — Che si sia annegato? — Il luogotenente stava per manifestare la sua opinione, quando un giovane marinaio, dall’aria furba e intelligente, disse, volgendosi verso il capitano: — Miss Anna è sul ponte! — Mia figlia qui! — esclamò il capitano, volgendosi vivamente. — Dov’è? — Eccomi, padre mio, — rispose, una voce armoniosa, ma tranquilla. Una giovinetta si avanzava verso prua aggrappandosi alla murata ed ai cordami, per non venire travolta dai cavalloni che irrompevano sulla tolda con mille muggiti. Poteva avere sedici o diciassette anni; era una graziosa ragazza, alta, snella, con capigliatura abbondante di un biondo oro, con occhi di un azzurro profondo, di carni vermiglie, non ancora guastate dall’aria marina e dai morsi del sole equatoriale. Negli occhi, nell’espressione del viso, nelle labbra sottili, s’indovinava in quella delicata personcina una tenacità e un’audacia, che sono ben lungi dal possedere le donne della sua età e soprattutto le donne europee. Nonostante che la tempesta fosse violentissima e la nave corresse non lieve pericolo, sebbene di solida costruzione e montata da un numeroso equipaggio, quella creatura non sembrava per nulla spaventata, e sorrideva tranquillamente come se si trovasse benissimo anche fra la natura sconvolta. — Qui tu, Anna! — ripetè il capitano con accento di terrore. — Sì, padre mio, — rispose la coraggiosa giovinetta, avvicinandoglisi. — Ma non pensi che un’onda può strapparti dal ponte e trascinarti in mare? — La figlia di un capitano marittimo non deve essere da meno di suo padre. Eppoi, credi tu che si stia meglio giù che sul ponte, quando vi sono quelle brutte belve che urlano orrendamente? Ah, padre mio, che carico pericoloso portiamo noi! — Le gabbie sono solide e il quadro di poppa non ha comunicazione colla stiva. — Lo so, ma quei ruggiti mettono i brividi. To’!... La _Nuova Georgia_ ha cambiato rotta!... E si prepara una imbarcazione!... Cosa vuol dire ciò, padre? — Non t’inquietare, Anna, — rispose il capitano. — Abbiamo virato di bordo per cercare un naufrago. — Forse uno dei tuoi marinai è caduto in mare? — No, ringraziando il cielo. Si tratta di uno sconosciuto che pochi minuti fa gridava aiuto. — E dove? — Non lo sappiamo neanche noi. — Non l’hai veduto? — No, ma il luogotenente e il pilota l’hanno inteso gridare. — Pover’uomo!... Bisogna salvarlo a qualunque costo. — È ciò che stiamo facendo. — In quell’istante, in mezzo alle onde che si rovesciavano le une addosso alle altre con orribile frastuono, si udì una voce gridare ripetutamente: — _Help! Help!_... (Aiuto! aiuto!) — Il naufrago! — esclamò il signor Collin, precipitandosi verso la murata di babordo. — Attenzione, timoniere! — gridò il capitano. — Poggia tutto!... — La nave virò sul posto mettendosi attraverso al vento, in maniera da non allontanarsi troppo da quel punto. Il capitano, il luogotenente, miss Anna ed i marinai, curvi sulle murate o issati sulle griselle, guardavano attentamente in mezzo alle onde, che le tenebre facevano a malapena distinguere. — Coraggio! — gridò il capitano, imboccando il portavoce. — Veniamo in vostro aiuto. — Soccorso!... Annego!... — ripetè la stessa voce di prima, che pareva uscisse di sotto le onde. — L’abbiamo sottovento, — disse il luogotenente. — Sì, sì, — confermò il vecchio pilota. — Maledette tenebre! — esclamò il capitano. — Non si può vedere a tre metri di distanza. — Aspettiamo un lampo, — disse miss Anna. — E facciamo intanto qualche segnale, — aggiunse il luogotenente. — Ehi, Harry, lancia un razzo! — Un marinaio partì come una freccia, balzando attraverso le corcome e gli attrezzi che ruzzolavano per la tolda, scese nel quadro di poppa e ritornò portando un razzo che subito accese. Una striscia fiammeggiante salì verso le nubi oscillando vivamente sotto i violenti soffi del vento, e scoppiò spandendo all’intorno miriadi di scintille dai riflessi azzurri. Quasi subito, come se il cielo fosse stato invidioso di quella linea di fuoco, un lampo la fendette da ponente a levante, illuminando come in pieno giorno lo sconvolto Oceano. Agli occhi dell’equipaggio s’offerse allora un terribile spettacolo, che certamente non s’aspettava. A mezza gomena dalla nave una piccola zattera, mezzo sfasciata, coll’albero spezzato a cui era ancora attaccato un lembo di tela, ondeggiava disperatamente fra le onde che l’assalivano da tutte le parti. Due uomini, uno bianco ed uno nero, sdraiati presso l’albero e strettamente abbracciati, pareva che lottassero ferocemente. Nelle loro mani si vedevano brillare degli oggetti che si alzavano e si abbassavano rapidamente, e che sembrava fossero o coltelli o pugnali. — Gran Dio! — esclamò miss Anna, retrocedendo vivamente. — Mille milioni di fulmini! — esclamò il capitano. — Cosa succede su quella zattera? — Un urlo acuto, straziante, come di un uomo che viene assassinato s’alzò fra le onde seguito da un altro che pareva di trionfo. — Laggiù si assassinano! — esclamò Collin. — Quale dramma si svolge su quella zattera? — chiese Anna rabbrividendo. — Degli uomini che si uccidono mentre la morte gli minaccia! Padre mio, fuggiamo di qua! — No, bisogna salvarli. — Ma uno a quest’ora sarà morto. — Salveremo il vivo. — Un assassino! — Chi può dire che sia un assassino? Forse si è difeso; noi non possiamo sapere di che cosa si tratta, almeno per ora. — In quel momento si udì a babordo un cozzo violento, e proprio sotto il fianco della nave una voce che gridava: — Salvatemi!... Ohe!... della nave!... — Lanciate delle funi! — gridò il capitano. Sette od otto gomene vennero gettate insieme con alcune cinture di salvataggio. Malgrado la profonda oscurità, presso il babordo si vedeva la zattera la quale finiva con lo sfasciarsi, e, fra i rottami, un uomo che si dibatteva disperatamente fra la spuma. — Issa! — gridò il naufrago. — Terrete fermo? — chiese il capitano. — Sì. — Issate! — I marinai ritirarono la gomena alla cui estremità erasi aggrappato il naufrago. Una testa sparuta, inzuppata di acqua, con una capigliatura lunga appiccicata alle gote ed al collo, apparve dopo alcuni istanti. Il capitano afferrò il disgraziato per le spalle e sollevandolo come fosse stato un fanciullo, lo depose sul ponte. Lo sconosciuto stette qualche istante ritto girando due occhi smarriti sui marinai, aprì le labbra balbettando con voce appena distinta «un grazie,» poi stramazzò fra le braccia del luogotenente che gli stava dietro. — Morto! — esclamò miss Anna. — No, il suo cuore batte, — rispose Collin. — Portiamolo nel quadro di poppa. — Sì, miss. — E l’altro? — chiese un marinaio. — Sulla zattera erano in due. — Cerchiamolo, — disse il capitano. I marinai accorsero verso la murata; ma ormai era troppo tardi. La zattera sfasciatasi contro i banchi della nave, era scomparsa col secondo naufrago. CAPITOLO SECONDO. Il Naufrago. La _Nuova Georgia_ aveva lasciate il porto giapponese di Yokoama il 24 agosto 1836 diretta in Australia, dove contava di fare un carico di _trepang_, sorta di molluschi cilindrici, abbastanza coriacei, ma che sono tanto pregiati dai ghiottoni dell’Impero Celeste. Portava con sè, oltre una partita di sete e di porcellane giapponesi, dieci grandi gabbie di ferro contenenti dodici stupende tigri indiane, appartenenti al proprietario di un serraglio di Yeddo, il quale, dopo aver raggranellata una cospicua sostanza, si era deciso di sbarazzarsi dei suoi pericolosi compagni, cedendoli ad un negoziante di belve domiciliato a Melburne. Per quanto contasse già quindici anni, la _Nuova Georgia_ era ancora una bella e robusta nave, anzi passava per una delle migliori della marina mercantile americana. Si poteva dire che era il più grande veliero che in quei tempi solcasse le acque dell’Oceano Pacifico, poichè stazzava oltre duemila tonnellate e portava l’attrezzatura completa di una vera nave, ossia, vele quadre al trinchetto, alla maestra e anche all’albero di mezzana. Destinata dapprima a servire d’incrociatore nella marina repubblicana, era stata in seguito venduta al capitano James Hill di Boston, il quale cercava appunto in quel tempo una solida nave per esercitare il traffico nell’Oceano Pacifico, traffico molto difficile ma assai vantaggioso, specialmente allora. Il capitano Hill, un marinaio vero nel più largo senso della parola, che aveva fatto quattordici volte il giro del mondo, era audace quanto si può immaginare, forte come un toro, risoluto in qualsiasi pericolo. Aveva preso con sè la propria figlia miss Anna, rimasta orfana della madre, aveva arruolato il luogotenente Collin suo antico compagno, venti scelti marinai e si era avventurato fra le isole della Polinesia e della Melanesia non punto spaventato della trista fama, che hanno gl’isolani, grandi amatori di carne umana cotta allo spiedo e con la salsa verde. Aveva fatto sette viaggi fortunati, ed ora aveva cominciato l’ottavo con quel pericoloso carico, che però egli era sicuro di condurre intatto a Melburne, insieme con le sete destinate alle bellezze australiane. Ma il destino, come vedremo in seguito, aveva deciso altrimenti! . . . . . . . Portato nel quadro di poppa lo sconosciuto raccolto sulla piccola zattera, il capitano si era affrettato a discendere in compagnia della figlia, mentre il luogotenente risaliva sul ponte per resistere alla tempesta che da due giorni si scagliava rabbiosamente contro il grande veliero. Il vecchio Asthor stava strofinandogli vigorosamente le membra con uno straccio di lana inzuppata di _gin_ e cercava di fargli introdurre nella bocca, strettamente chiusa, alcune goccie di generoso vino di Spagna. Il misero però si ostinava a non dar segno di vita, quantunque il cuore continuasse a battere debolmente sì, ma tanto da far sperare una non lontana ripresa dei sensi. — Il povero uomo è stato conciato molto male, — disse il capitano. — Fammi largo, Asthor, onde possa visitarlo. — Il naufrago poteva avere quaranta o quarantacinque anni. Era di statura media, ma tarchiata, muscolosa, che dimostrava una forza non comune; la sua pelle bianca in alcune parti e assai abbronzata in altre, portava dovunque delle tracce rossastre, dei tatuaggi strani ma non molto dissimili da quelli che usano farsi i marinai. Il suo viso era tutt’altro che simpatico. Aveva i lineamenti duri, un naso grosso, rosso come quello di un gran bevitore, la fronte bassa come quella di un delinquente, la barba lunga, incolta, rossastra. Sul collo, verso il lato destro, vi si vedeva una ferita cicatrizzata di recente, e più sotto un piccolo foro che pareva prodotto da un colpo di coltello. Anche sul viso si vedeva un’altra ferita, la quale mandava ancora alcune goccie di sangue. — Sono ferite gravi? — chiese miss Anna. — No, figlia mia, — rispose il capitano, — poichè il ferro che le ha prodotte non doveva essere acuto. — Chi può essere? Un marinaio? — Non te lo so dire, ma.... To’! cosa sono queste lividure che vedo ai polsi? — Delle lividure? — Sì, e molto marcate. — Prodotte da che cosa? — Il capitano non rispose, ma aggrottò la fronte e scosse ripetutamente il capo. — Forse da delle corde? — insistette miss Anna. — E forse da delle manette, — rispose il capitano con voce grave. — Che sia un forzato fuggito da qualche penitenziario? — Può essere. — Forse dall’isola di Norfolk? — Non ne so nulla; fra breve però quest’uomo ci dirà, qualche cosa. — Ritorna in sè? — Sì, figlia mia. — Il capitano non s’ingannava. Il naufrago aveva aperto la bocca come per respirare più liberamente, e stava per alzare le palpebre. Due occhi falsi, grigiastri, che mandavano una luce sinistra, si fissarono ben presto sul capitano e sulla giovane donna con una specie di stupore. — Come vi sentite? — chiese il capitano. Lo sconosciuto invece di rispondere si alzò lentamente a sedere e chiese con voce rotta: — Dove.... sono.... io?... — In una cabina della _Nuova Georgia_, — rispose il capitano. — Una nave.... inglese?... — No, americana. — Il naufrago mandò un respiro come di soddisfazione. Il capitano Hill lo notò, e dopo aver fatto cenno a sua figlia di ritirarsi, riprese: — Chi siete? — Bill Habbart,... un povero naufrago;... ma.... e Sangor?... — Sangor?... Chi è costui?... — Il naufrago fece un gesto di stupore, poi si morse le labbra come si fosse pentito di essersi lasciato sfuggire quel nome. — Chi è questo Sangor? — tornò a chiedere il capitano. — Un compagno di sventura. — Che poi avete assassinato. — Io!... — esclamò il naufrago impallidendo e stringendo i pugni. — Vi ho veduti poco fa coi coltelli in mano, lottare come due tigri sulla vostra zattera. — È vero, ma fu primo l’indiano a gettarsi addosso a me. — Per qual motivo? — La zattera stava per affondare sotto il nostro peso, avendo le onde strappate quasi tutte le tavole. Sangor allora, cieco di paura, cercò disfarsi di me sperando di salvarsi, ma nella lotta ebbe la peggio, poichè cadde in mare. — È proprio vero quello che mi dite? — Lo giuro, — disse il naufrago. — Ma come vi trovavate in pieno Oceano, su quella zattera? — Appartengo all’equipaggio di una nave naufragata due mesi fa presso le isole Figii. — Come si chiamava quella nave? — Il _Tamigi_. — Una nave inglese forse? — Sissignore. — E vi eravate salvati voi due soli? — No, — rispose il naufrago nel cui sguardo brillò uno strano lampo. — Alle Figii vi sono altri sette compagni che attendono di venire salvati. — Avevano mandato voi in cerca di aiuto? — chiese il capitano. — Sissignore. — In quali condizioni si trovano? — Disperate, poichè li avevo lasciati mezzo morti di fame e alle prese con gli antropofagi. — Credete che siano ancora vivi? — Lo spero, poichè sono tutti armati e risoluti! — Da quanti giorni avete lasciata l’isola? — Da tredici. Capitano, ditemi, cercherete di salvare quei disgraziati? — Tutto dipende da una vostra risposta, — rispose il comandante guardandolo fisso, come se volesse leggergli nel più profondo del cuore. — Parlate, interrogatemi, signore. — Ditemi, perchè avete ai polsi quelle profonde lividure? — Il naufrago a quella domanda, che forse non si aspettava, trasalì, ma rimettendosi prontamente, rispose colla massima calma: — Me le hanno prodotte le funi, essendomi fatto legare alla ribolla del timone durante la tempesta che ci fece naufragare. Il mare saltava a bordo con tanta furia, che senza quella precauzione mi avrebbe portato via. — Sono soddisfatto di voi, — disse il capitano, tendendo la destra al naufrago che gliela strinse vigorosamente. — Ora non pensate che a dormire ed a rimettervi della vostra brutta avventura. — Ma i miei compagni li salverete? — insistette il naufrago. — Appena la tempesta sarà cessata, metterò la prua verso le isole Figii. — Grazie, grazie, signore. — Non una parola di più e riposate. — Il naufrago si ricoricò nel lettuccio, ma appena si vide solo si rialzò con uno scatto di tigre e sulle sue labbra sottili apparve uno strano sorriso, una specie di sogghigno che avrebbe dato da pensare a chi avesse potuto vederlo. Nella cabina attigua miss Anna aspettava suo padre, impaziente d’interrogarlo sull’esito di quel colloquio. Appena seppe di che si trattava, l’anima generosa di lei non ebbe che un solo pensiero: salvare i disgraziati minacciati dagli implacabili denti degli antropofagi. — Lo farai, padre mio? — chiese la coraggiosa giovanetta. — Sì, figlia, — rispose il capitano, — noi andremo a liberare quei poveri marinai. — Le conosci tu quelle isole? — Le ho vedute una sola volta e mi è bastato per giudicarle. — Forse sono abitate da selvaggi feroci? — Da antropofagi e dei più terribili, figlia mia, poichè vanno pazzi per la carne umana che dicono che somiglia, per sapore, a quella dei migliori maiali. — Hai perduto dei marinai, forse? — Ne ho veduti tre cadere sotto le mazze di quei feroci mangiatori, mentre stavano preparando il trepang a poche centinaia di metri dal mio vascello. — E sono stati mangiati? — Abbiamo trovato i loro scheletri il giorno appresso, all’entrata di un villaggio disabitato. — E resisteranno i disgraziati compagni del naufrago? — Lo spero, Anna, poichè quel Bill Hobbart mi ha detto che sono armati ed i selvaggi hanno una gran paura delle armi da fuoco. — E sono molto lontane queste isole? — Fra sei o sette giorni vi possiamo giungere, se la tempesta non ci spinge troppo verso l’est. — Voglia il cielo che noi ritroviamo quei disgraziati ancora vivi! — Speriamolo, figlia mia. Orsù, ritorna nella tua cabina, che in coperta non si può rimanere senza pericolo. — Mi lasci? — La tempesta non accenna a calmarsi e la mia presenza è necessaria sul ponte. Tu sai che navighiamo in un Oceano cosparso d’isole, d’isolotti e di banchi coralliferi, e che un urto può avvenire da un momento all’altro. Va’, Anna e non temere, che io veglio attentamente, e il nostro legno è solido. — Il capitano baciò in fronte la giovanetta, e salì rapidamente in coperta non ostante il violentissimo rollío che faceva sbandare spaventosamente la nave. L’Oceano era ancora tempestosissimo, e il vento non accennava a calmarsi tanto presto; però le nubi cominciavano a mostrare qua e là degli strappi attraverso ai quali si vedevano apparire, ad intervalli, le stelle. Quantunque il pericolo non fosse cessato, era facile capire che l’uragano stava per volgere al suo termine. Era tempo, poichè l’equipaggio, spossato da una lotta che durava già da tre giorni, senza aver potuto chiudere occhio e senza mai aver acceso il fuoco, non ne poteva proprio più. Anche la _Nuova Georgia_, quantunque costruita senza risparmi e non nuova alle tempeste dell’Oceano, era ridotta in deplorevole stato; i suoi fianchi resistevano sempre agli assalti furiosi delle onde, nè pareva che avessero sofferto, ma tutta la sua attrezzatura era in completo disordine. Le vele fatte a brani in più luoghi non tenevano più al vento, le sartie si erano rallentate in varii punti, le manovre scorrenti erano state in gran parte strappate ed anche un tratto della murata di babordo aveva ceduto, lasciando il passo alle montagne d’acqua. Il capitano Hill appena salito sul ponte si accostò al secondo che si teneva ancora saldo accanto al timoniere, cercando di mantenere il veliero sulla buona via e gli chiese: — Abbiamo nessuna terra in vista? — No, capitano, — rispose l’ufficiale. — Eppure, se i miei calcoli non errano, dobbiamo essere vicini all’arcipelago di Santa-Cruz. — Che la deriva ci abbia portati così tanto verso l’est? — Sono tre giorni che il vento ci allontana dal gruppo delle isole Salomone, ed a quest’ora dobbiamo navigare lungo il 182º parallelo. — Ecco un nuovo pericolo in vista. Le isole di Santa-Cruz non godono troppo buona fama, capitano. — Nè migliore nè peggiore di tutte le altre isole che sorgono in questo lembo dell’Oceano Pacifico, ma noi passeremo senza dar di cozzo contro le scogliere. — L’oscurità è tanto profonda da non potersi distinguere una terra qualsiasi a due gomene di distanza. — Ce la indicheranno le onde e le folgori. To’! non mi era ingannato io! — Terra sottovento! — gridò in quell’istante un marinaio, che stava a prua. — In guardia, Asthor, — disse il secondo volgendosi al vecchio marinaio che teneva la ribolla del timone. — Non temete, signore, — rispose il lupo di mare cacciando la ribolla all’orza. — I selvaggi almeno per questa volta non metteranno sotto i loro denti la mia carne coriacea. — Il capitano Hill, che con quella po’ po’ di tempesta non sapeva precisamente dove si trovava, non avendo potuto da tre giorni fare una sola osservazione che gli potesse dare la longitudine e la latitudine, si portò a prua per vedere coi propri occhi la terra segnalata. Al chiarore di un lampo potè scorgere, a meno di due miglia da prua, un’isola ergersi sulle spumanti onde. Aguzzando ben bene gli occhi, gli parve di vedere dei punti luminosi brillare sulla spiaggia. — Quelle canaglie di selvaggi ci hanno scorti e cercano di attirarci in qualche porto, — mormorò. — Ma, miei cari ghiottoni, il capitano Hill vi conosce così bene da non lasciarsi ingannare. — Poi, volgendosi verso il vecchio Asthor, gridò con voce tonante: — Ehi, vecchio lupo, tutta la barra all’orza e viriamo al largo. Lo spiedo degli antropofagi non è fatto per noi. — A quel comando i marinai si slanciarono alle braccia di manovra e la _Nuova Georgia_, con una magnifica bordata girò al largo lasciando a sinistra quella prima isola che indicava la vicinanza dell’arcipelago di Santa-Cruz. CAPITOLO TERZO. Le isole di Santa-Cruz. L’arcipelago di Santa-Cruz, poichè era proprio quello, come il capitano aveva già previsto, è la continuazione di quel grande semicerchio d’isole, che, dipartendosi dalle coste orientali della Nuova Guinea, si collega con la Nuova Caledonia, formando con la costa Australiana quel temuto mare che si chiama del Corallo. È situato fra l’arcipelago Salomone e l’arcipelago delle Nuove Ebridi, e si compone di un grandissimo numero di isole, vedute per la prima volta dal navigatore spagnuolo Quiros nel 1605, e dipoi da Mondana, mentre si recava in cerca delle isole Salomone, che aveva scoperte l’anno precedente. Santa-Cruz è l’isola più grande, essendo lunga oltre otto leghe e larga tre, ed è situata a 10°,46′ di lat. meridionale e 163°,34′ di lat. orientale. Vengono in seguito il gruppo La Perusa, tristamente celebre pel naufragio fattovi dall’infelice ammiraglio francese La Perouse nel 1788, gruppo composto di Vanikoro, Tevai, Manevai e Nanuna; poi Ticopia che ha un circuito di quattro o cinque miglia, ed i cui abitanti, caso veramente strano, sono ospitali e di costumi mitissimi mentre i loro vicini sono tutti mangiatori di carne umana; il gruppo Danks composto di quattro isole assai elevate ed assai popolate; Mitria, così chiamata perchè in distanza sembra precisamente una mitria; il gruppo Duff composto di undici isolette; Chennedy che è abitata da selvaggi ferocissimi; Tinacoro che è un picco vulcanico di due miglia di circuito e coronato da un cratere fiammeggiante; il gruppo Mendana composto di nove isolette basse e boscose e alcune altre conosciute solo di nome, ma che non hanno importanza alcuna stante la loro poca estensione. Tutte queste isole sono abitate da Polinesiani di aspetto niente affatto sgradevole, di statura proporzionata, di colorito oscuro ma che varia in alcuni isolani, toccando l’olivastro, la tinta dei Malesi. Hanno però le labbra grosse e sporgenti come gli Africani, il naso schiacciato ed i capelli cresputi, ciò che fa supporre provengano dalla non molto lontana Papuasia. In generale godono pessima reputazione, e non risparmiano i disgraziati equipaggi che naufragano sulle loro coste. Il capitano Hill, che, come dicemmo, non ignorava ciò, si affrettò ad allontanarsi dall’isola segnalata, e che, secondo i suoi calcoli, doveva essere una del gruppo di Mendana o Tinacoro, che sono le prime che s’incontrano venendo dal nord. L’uragano che non cessava di soffiare, quantunque a poco a poco accennasse a calmarsi, poteva spingerlo su quelle inospitali coste ed allora sarebbe stata la morte di tutti quanti, quand’anche l’Oceano e gli scogli gli avessero pel momento risparmiati. La _Nuova Georgia_ riprese adunque la lotta cogli elementi scatenati, salendo e discendendo le montagne d’acqua che l’assalivano da ogni parte, ora rovesciandosi sul tribordo ed ora sul babordo, non ostante l’abilità del vecchio Asthor, che si teneva sempre alla barra. Alle sette del mattino però, il sole irrompendo da un grande squarcio apertosi nelle nubi, illuminò l’Oceano e come se quello fosse un segnale di pace, il vento scemò di violenza e l’acquazzone che da dodici ore cadeva quasi senza interruzione, cessò affatto. Il capitano Hill ed il tenente Collin, approfittarono di una tregua, che pareva durevole, e scesero nel quadro di poppa per vedere come stava il naufrago, che fino allora era stato abbandonato a sè stesso. Il pover’uomo dormiva tranquillamente come si fosse trovato in una comoda e sicurissima camera, ma udendo entrare delle persone si svegliò bruscamente. — Come state, amico? — gli chiese il capitano. — Mi sento ancora debole ma sto benissimo, — rispose il naufrago. — Vi devo molto, signore, per avermi salvato con un tempo così indiavolato; un altro capitano non avrebbe compromesso la sua nave per raccogliere uno sconosciuto. — Non parliamo di ciò; un altro al mio posto avrebbe fatto altrettanto, o per lo meno lo avrebbe tentato. — È finita la tempesta? — Sta per cessare. — E vi dirigerete alle isole Figii? — Ho già modificata la mia rotta. — Ma dove siamo noi ora? — Dinanzi l’arcipelago di Santa-Cruz. — Fra pochi giorni adunque giungeremo alle isole. — Se Dio lo permette. — Grazie, signore. — Non sapevate dove eravate, quando vi raccogliemmo? — No, ma supponevo di trovarmi nell’arcipelago di Salomone. — E ove eravate diretto? — Andavo a cercare aiuti verso la costa australiana, ma l’uragano mi colse e mi respinse verso l’est. Avevo deciso di raggiungere l’arcipelago di Salomone nella speranza d’incrociare qualche nave proveniente dalle isole Marianne in rotta per Sidney, quando voi mi raccoglieste. — Sulla vostra zattera, c’era solamente l’indiano che uccideste? — Sì, capitano. — E perchè siete partiti in due soli? — Perchè non avevamo che pochissimi viveri. — Chi comandava la vostra nave? — Il naufrago a quella domanda parve esitare come se cercasse nella memoria un nome, poi disse: — Il capitano James Welcome. — Lo avete mai udito nominare, signor Collin? — chiese il capitano al secondo. — Mai, ma siamo in tanti noi, — rispose l’interrogato. Il naufrago guardò i due comandanti aggrottando più volte la fronte con una specie di inquietudine, ma fu un lampo poichè si rasserenò subito. Il capitano Hill ed il suo compagno raccomandarono al naufrago il più assoluto riposo, poi risalirono in coperta. — Che vi pare di quell’uomo? — chiese il capitano che sembrava fosse diventato pensieroso. — È un tipo non troppo simpatico, signore. Avete forse qualche sospetto per farmi simile domanda? — No, ma mi sembra che non si spieghi francamente, e se devo dirvi tutto, aggiungerò che ho dei sinistri presentimenti. — E come? Chi credete che possa essere? Su questo Oceano non si possono raccogliere che dei marinai disgraziati. — O dei forzati, signor Collin, — aggiunse il capitano. — Voi credereste?... — Non credo nulla per ora, ma voi sapete che il penitenziario delle isole Norfolk non è molto lontano, e che ogni anno buon numero di quei pericolosi soggetti evadono su dei semplici canotti che rubano alle navi, od anche su delle zattere. — Potete ingannarvi, capitano, ma mi date da pensare. — Vedremo in seguito, tenente. — In quell’istante un marinaio postosi di guardia sulla coffa dell’albero maestro, segnalò un’altra isola che appariva a una dozzina di miglia versa l’est. Il capitano approfittando del sole che brillava, prese il sestante e fece il calcolo per accertare la posizione e la rotta della nave. Stava per terminare, quando una voce dolce e melodiosa gli domandò: — Siamo lontani ancora? — Ah! sei tu Anna, — chiese egli volgendosi verso la giovanetta. — Sì, io che vengo a chiederti se siamo ancora assai lontani dalle isole dei naufraghi. — C’è del tempo, figlia mia; ma se il vento si mantiene così buono e se l’onda cessa, noi vi approderemo fra cinque o sei giorni. — Oh! un’isola dinanzi a noi? — Una brutta terra, figlia mia, che gode una fama sinistra, nota anche in America, ma specialmente in Francia. — Come si chiama adunque? — Vanikoro. — Cos’è questa Vanikoro? — Un’isola che con quelle di Tevai, Manevai e a Nanuna forma il gruppo di La Perusa. — Il gruppo di La Perusa? Forse che a queste isole si unisce il nome dell’ammiraglio La Perouse, l’infelice navigatore scomparso così misteriosamente con le sue navi e i suoi equipaggi? — Sì, Anna: guarda attentamente quell’isola di così trista celebrità. — Vanikoro era allora interamente visibile. Quest’isola ha un circuito di circa dieci leghe ed è irta di picchi conici, il più alto dei quali porta il nome di Monte Capogo. L’interno è tutta una fitta boscaglia, interrotta da paludi che la rendono quanto si può dire insalubre; le coste hanno invece due baie chiamate Vana e Paiu, che sarebbero accessibili ai bastimenti, se non le rendessero pericolose la cintura di scogli coralliferi che la difendono contro gli assalti delle onde. I suoi abitanti sono senza dubbio i più brutti che s’incontrino nelle isole della Polinesia e nel tempo stesso i più feroci. Nulla potrebbesi immaginare di più schifoso e di più stomachevole di quegli esseri con faccie di scimmia, con forme angolose, con membra da etici, coperte di sudiciume d’ogni specie. Anna che osservava attentamente l’isola col cannocchiale del padre, fermò la sua attenzione su di uno strano monumento che non doveva essere l’opera di quei selvaggi. Sembrava un obelisco posato su di una base quadrangolare e che alzavasi circa due metri: — Cos’è quel monumento? — chiese al padre. — Un ricordo rizzato dal capitano Dumont d’Urville alla memoria di La Perouse e dei suoi disgraziati compagni. — Ma è proprio su quest’isola che s’infransero i vascelli di quello sfortunato navigatore? — Proprio su questa, Anna. — Si salvò adunque qualche marinaio dal naufragio? — Nessuno o almeno nessuno fu raccolto dalle navi che andarono in cerca dei naufraghi. — Spiegati adunque. — Ecco qui: La Perouse, come già saprai, era scomparso coi suoi due vascelli dopo d’aver fatto numerose scoperte e d’aver fatto capire che si recava nell’Oceano Pacifico. Le ricerche non approdarono a nulla, quantunque il capitano D’Entrecasteaux, spedito appositamente in questi mari, passasse a breve distanza da Vanikoro che egli anzi chiamò Isola della Ricerca. Erano già passati quarant’anni dacchè le due navi erano state inghiottite, quando nel 1826 il capitano inglese Dillen, visitando le isole di questo arcipelago, vide nelle mani di alcuni isolani di Ticopia degli oggetti di ferro di provenienza europea e un’elsa d’argento su cui erano incise delle iniziali che parevano quelle di La Perouse. Desideroso di sapere qualche cosa intorno a quel duplice naufragio che aveva commosso i due mondi, si mise in cerca di due marinai, prussiano l’uno e lascaro l’altro, che tredici anni prima aveva sbarcati nell’isola, e trovatili ancora vivi li interrogò circa la provenienza di quegli oggetti. Saputo che erano stati colà trasportati da alcuni indigeni di Vanikoro, si diresse a quella volta, e dagli isolani seppe che appunto quarant’anni prima erano colà naufragate due grandi navi, che uno degli equipaggi era stato massacrato e divorato, e che l’altro, dopo aver soggiornato alcuni mesi in quel luogo, aveva preso il largo su di una piccola nave che si era costruita, lasciando però a terra alcuni di loro. Infatti il Lascaro di Ticopia aveva detto di aver veduto, cinque anni prima, a Vanikoro, due uomini che sembravano marinai di navi naufragate. Non potendo il Dillen disporre di molto tempo, veleggiò verso l’India, e giunto a Calcutta informava i rettori della Compagnia delle Indie della scoperta fatta. Gli venne tosto affidato un bastimento per esplorare Vanikoro, e nel luglio del 1827 vi sbarcava. Le sue indagini portarono piena luce sulla misteriosa scomparsa della spedizione La Perouse, poichè potè vedere una delle navi sommerse, incastrata fra i coralli e visitare il luogo dove era stato costruito il piccolo vascello. Gl’indigeni negarono di aver massacrato e divorato uno degli equipaggi, ma così doveva essere accaduto, poichè seppe che in una capanna detta la _Casa degli Spiriti_ conservavano ancora i cranii delle vittime. Dillon raccolse gran numero di oggetti, àncore, uncini, chiodi, petrieri, pezzi d’istrumenti geografici ed astronomici, una campana fusa a Brest, parecchi oggetti d’argento e di ferro, una lastra adorna di tre gigli che poi regalò a Carlo X allora re di Francia e che ora si trovano nel Museo della Marina. Più tardi Dumont D’Urville raccolse a Vanikoro un cannoncino, un’àncora e due petrieri che furono aggiunti alle prime reliquie di quel tremendo naufragio. — Adunque le due navi si ruppero contro quelle coste, — disse Anna, additando l’isola. — Sì, ed a quanto sembra in una notte tempestosa e oscurissima. — Ma cosa accadde agli uomini che si erano imbarcati sulla piccola nave da loro costruita? — Non si ebbero di loro mai più notizie; però un capitano inglese ha affermato di aver veduto distintamente verso il 1811, in uno stretto braccio di mare delle isole Salomone, una grande antenna ergersi dal fondo, fornita di tutti i suoi attrezzi. — Sono naufragati anche loro? — Così deve essere. — E non si fece alcuna ricerca alle isole Salomone? — Nessuna. — Eppure qualcuno poteva essersi salvato e potrebbe vivere.... — Ciò non è impossibile; forse qualche mozzo potrebbe essere ancora vivo. — Disgraziati!... — mormorò Anna. — Chi sa quanti saranno caduti sotto i denti degli antropofagi. — Molti senza dubbio, poichè gl’isolani di Vanikoro hanno pessima fama. — Sono molto feroci? — Molto, Anna. — Ma come possono aver vinto i marinai di La Perouse armati di fucili e di cannoni? — Colle freccie avvelenate. — Conoscono i veleni quei mostri? — Sì, e quello che adoperano non perdona, poichè chi è toccato da una delle loro freccie muore dopo tre giorni di agonia atroce, senza che alcun rimedio lo possa salvare. — Hanno anche delle lancie. — Sì, ma la punta non è di ferro, non possedendo essi tale metallo, ma di scheggie d’ossa umane che estraggono dai cadaveri che mettono a macerare per alcune settimane nell’acqua marina. — Che abominevoli selvaggi! padre mio. Non vorrei cadere nelle loro mani. — Bah!... abbiamo un equipaggio scelto ed affezionato, una buona nave e armi in tal quantità da tenere fronte a mille polinesiani riuniti. — In quell’istante si udì nella stiva un orribile concerto che scosse l’intero vascello, facendo trabalzare i marinai. Lo stesso capitano, non ostante il suo provato coraggio, impallidì e la sua destra corse al calcio della pistola che portava sempre alla cintura. Erano urla rauche, ruggiti soffocati, miagolii potenti accompagnati da scricchiolii e da colpi sordi, che parevano prodotti da corpi poderosi lanciati contro una parete di legno. — Cosa succede? — chiese miss Anna, che istintivamente fece un passo verso il quadro di poppa. — Che le tigri abbiano sfondate le gabbie? — chiese il capitano volgendosi verso il secondo di bordo che accorreva con una scure in mano. — È impossibile, signore, — rispose questi. — I ferri sono solidi. — Andiamo a vedere. — I due uomini si slanciarono verso il boccaporto che era aperto e guardarono giù. Dinanzi alle dieci gabbie, entro le quali ruggivano furiosamente e saltavano rabbiosamente dodici superbe tigri reali, videro un uomo che le guardava con profonda attenzione, per nulla intimorito di quelle dimostrazioni feroci. Quell’uomo era il naufrago. CAPITOLO QUARTO. Le bizzarrie di Bill. Il naufrago era tanto fisso nella sua contemplazione, che non si era accorto della presenza del capitano e del signor Collin. Le braccia incrociate sul petto, seguiva con uno sguardo ardente, che talvolta pareva mandasse lampi magnetici, l’evoluzioni delle belve le quali continuavano a mandare potenti ruggiti, tentando di slanciarsi verso di lui. I suoi occhi si fissavano specialmente, con strana attenzione, su di una grossa tigre che pareva fosse la più robusta e la più feroce, seguendola in tutte le mosse, con un’ostinazione inesplicabile. Si sarebbe detto che egli conosceva quella fiera delle _jungle_ indiane o che tentava di soggiogarla con la potenza del suo sguardo. Ad un tratto la gran tigre, che dapprima pareva la più indemoniata, si arrestò guardando a sua volta il naufrago che era sempre fermo dinanzi alla gabbia, e, cosa davvero stranissima, la si vide accovacciarsi, battendosi lentamente i fianchi con la coda e rimanere immobile come se una potenza occulta l’avesse soggiogata. — Ehi, amico! — disse il capitano che aveva osservato colla più viva curiosità quella bizzarra scena. — Per caso, sareste voi un domatore di belve? — Il naufrago a quella domanda si scosse e fece un gesto di dispetto, ma che subito represse. Alzò il capo verso il boccaporto e salutò i due comandanti. — No, signore, — rispose poi, sforzandosi di sorridere. — Vi conosce forse quella tigre? — Nemmeno, quantunque ne abbia incontrate parecchie durante i miei viaggi. — Eppure si direbbe che la tigre è stata magnetizzata da voi. — Non lo credo, capitano. — Vi dico che avete uno sguardo che affáscina. Guardate! anche le altre belve non si muovono più e strisciano in fondo alle gabbie come se avessero paura di voi. — Voi scherzate, signore, — rispose il marinaio con tono brusco che nascondeva un mal celato dispetto. — Vi rivedremo alla prova; ma perchè avete lasciato la vostra cabina? — Ho udito dei ruggiti e sono sceso qui per vedere da che cosa provenivano. — Volete salire in coperta? Se vi sentite un po’ meglio, venite a respirare una boccata d’aria fresca. — Grazie, capitano. — Il naufrago che pareva si fosse pienamente rimesso, salì abbastanza lesto la scala e comparve sul ponte. Nello scorgere miss Anna si arrestò come stupito fissando su di lei un acuto sguardo che mandava strani bagliori; ma vedendosi osservato dall’equipaggio e dal capitano, scosse il capo come se volesse scacciare un importuno pensiero e si levò il berretto inchinandosi e mormorando una parola che nessuno potè ben comprendere. — Come vi sentite? — gli chiese il capitano. — Benissimo, signore, — rispose egli senza però staccare gli occhi dalla giovane miss. — E le vostre ferite? — Guariscono a vista d’occhio. Ma.... dove siamo noi, signore? — Navighiamo verso il gruppo delle Nuove Ebridi. — Ah!... non siamo adunque molto lontani dalle isole Figii? — Spero di raggiungerle fra cinque o sei giorni, e di arrivare in tempo per salvarli. Se non li trovassimo, mia figlia ne sarebbe dolentissima. — Ah! è vostra figlia la signora! — esclamò il naufrago con uno strano accento. — Sì, miss Anna è mia figlia. — E naviga sempre con voi? — Da parecchi anni. — Bella e coraggiosa fanciulla, — mormorò il marinaio fissando nuovamente la giovane donna. — Miss, vi ringrazio dal più profondo del cuore dell’interesse che prendete pei miei compagni di sventura. Vi serberanno riconoscenza per lungo tempo. — È dovere d’ogni donna d’interessarsi dei disgraziati, — rispose la giovanetta. — Non avrei mai perdonato all’equipaggio di un vascello che non fosse accorso in aiuto di poveri marinai minacciati dai denti degli antropofagi. — Grazie, miss; voi siete troppo buona. — Ditemi, Bill, — chiese improvvisamente il tenente avvicinandosi al naufrago. — Avete mai udito parlare dell’isola di Norfolk? — Il marinaio a quella brusca interrogazione, che forse era lungi dall’aspettarsi, restò come fulminato; ed un rapido pallore, seguito subito da un vivo rossore, gli passò sul volto. Si volse di colpo verso il tenente che pareva non avesse dato il menomo peso a quella significantissima domanda, e piantandogli in viso due occhi nei quali guizzava una cupa fiamma, gli chiese: — Cosa intendete di dire? — Nulla, vi ho fatto una semplice domanda. — Ah! ora comprendo! — esclamò Bill battendosi la fronte. — Voi mi domandate se conosco un’isola dove si custodiscono i forzati inglesi. Ma perchè tale domanda?... — Ve lo dissi già, per una curiosità qualunque. — La conosco quell’isola di fama sinistra. Ho approdato una volta su quelle spiagge coll’_Alert_, un bastimento americano che faceva il traffico fra le isole del Pacifico come il vostro. Brutta isola, signore, e brutti abitanti. — Me lo immagino. — Dove siamo ora? — chiese il naufrago che pareva volesse troncare quel discorso che non gli andava troppo a sangue. — Abbiamo lasciato da un’ora l’isola di Vanikoro e corriamo verso le Nuove Ebridi. — Grazie, signore. — S’inchinò dinanzi a miss Anna, salutò il tenente e giunto a prua si sedette sopra un gruppo di funi senza aggiunger sillaba. Quell’uomo però pareva in preda ad una strana inquietudine, dopo la domanda rivoltagli dal signor Collin. I suoi occhi, che avevano una luce falsa, giravano nelle orbite fissandosi ora sul tenente che passeggiava in coperta ed ora su di Anna che discorreva col padre, e le sue mani si stringevano energicamente come se stritolasse qualche cosa. Il di lui volto ora impallidiva ed ora diventava rosso, e i suoi muscoli avevano delle scosse nervose. Si sarebbe detto che una collera tremenda, frenata a gran pena, ruggiva nel cuore di quel marinaio, raccolto quasi morente sui flutti del Grande Oceano. Fortunatamente l’attenzione dell’equipaggio venne in quel momento attratta dalla comparsa di un magnifico pesce-veliero o _sword-fish_, come l’hanno battezzato gli Inglesi. Appartiene alla specie dei pesci-spada, coi quali ha anche qualche somiglianza e s’incontra spesso nell’Oceano Pacifico, dove viene assiduamente cacciato dagli isolani che apprezzano assai le sue carni, che sono delicatissime, specialmente se giovane. Se è ricercato è però anche temuto, perchè è d’un temperamento violento. Quello che navigava nei pressi della _Nuova Georgia_, misurava non meno di dieci piedi di lunghezza e portava un corno lungo quasi due metri, rotondo anzichè piatto come quello del pesce-spada e in parte spuntato. Aveva spiegata la sua natatoia dorsale di cui si serve come d’una vela, e si lasciava portare dal vento. — Sono pericolosi, padre mio, tali pesci? — chiese Anna al capitano che seguiva con curiosità la corsa di quello strano abitatore del mare. — Tutti gli isolani lo temono, ed è così coraggioso da affrontare anche le balene ed i vascelli. — Eppure non è grande. — È vero, ma la sua arma è robusta e ne fa un grande uso. È quasi impossibile incontrarne uno che abbia il corno intero, e vedi che anche quello lì lo ha smussato. Nella sua rabbia, s’è visto sovente precipitarsi contro i bastimenti che egli forse scambia per balene e piantarvi profondamente il corno. Anche la nostra _Georgia_ ebbe un giorno la prua trapassata da quell’arma. — E il pesce visse? — Rimase attaccato alla nave e morì dopo aver ricevuto tre colpi di carabina. — È facile la pesca di quegli animali? — Molto difficile, Anna. Finchè sono giovani si prendono facilmente colle reti, ma quando sono grandi ed hanno il corno sviluppato, spezzano le maglie per quanto siano solide, e fuggono. Occorrono allora le fiocine od i ramponi ma difficilmente si lasciano avvicinare. — Il veliero non seguì che per un breve tratto la nave, perchè d’improvviso ripiegò la sua natatoia e s’immerse scomparendo agli occhi dell’equipaggio, che aveva già fatto portare in coperta un rampone con la speranza di banchettare con le delicate carni del nuotatore. La _Nuova Georgia_ continuava intanto a filare verso l’ovest avvicinandosi all’arcipelago delle Nuove Ebridi, dietro il quale, ad una distanza di dugento trenta o dugento cinquanta miglia si trova quello di Figii. Il vento si manteneva buono ma non era ancora regolare, anzi pareva accennasse a muovere un nuovo perturbamento spingendo innanzi a sè neri nuvoloni. Dopo il tramonto quei vapori che si erano veduti verso il sud, invasero rapidamente la volta celeste oscurando gli astri in tal modo, che il mare parve fosse diventato d’inchiostro. Il vento invece di crescere, cosa davvero strana, cadde completamente, e la _Nuova Georgia_ rimase quasi immobile su quei neri flutti, immersa nella più profonda oscurità. A un tratto però un fenomeno che è frequente nei climi caldi, accadde rompendo quella fitta tenebria. Il mare, un momento prima così nero, s’illuminò stranamente come se sotto fosse stata accesa una lampada elettrica d’una potenza straordinaria. L’acqua pareva che fosse diventata una immensa distesa di bronzo fuso, che aveva splendidi riflessi argentei, ma intersecati qua e là da linee che parevano di fuoco e che cangiavano ad ogni istante forma, diventando circolari per poi rompersi ancora. Le onde frangendosi contro i fianchi neri del legno, pareva che mandassero miriadi di scintille, le quali prendevano i colori più brillanti che si possano immaginare. Torme di pesci gli uni più strani degli altri, allungati e neri, corti o grossi e di svariati colori, correvano, guizzavano in quel mare d’argento, inseguendosi, giocherellando, battendosi e divorandosi, ora scendendo ed ora salendo alla superficie, mentre immobili come ombrelli aperti o come funghi giganti, galleggiavano i polipi dalle carni trasparenti e gelatinose. Miriadi di molluschi fosforescenti andavano alla deriva, lasciandosi portare dal flusso, spiegando ognuno un lampo di luce diversa: ecco le pelagie che ondulano pigramente, simili a paracadute che si lasciano portare dal vento; ecco le melitee dalle cui braccia stranamente incrociate sprizzano lampi d’un rosso cremisi; ecco le acalefe microscopiche che sembrano costellate di diamanti della più bell’acqua, le vellele le cui creste tramandano una luce azzurra d’una infinita dolcezza, e le beroe, le meduse, le osyroe, ec. che uniscono i loro bagliori a quelli che producono certi piccoli molluschi, grandi come un pollice, di forma cilindrica, di consistenza delicatissima e che si trovano colà ammassati a miriadi, invadendo una larga zona di mare. La _Nuova Georgia_, immobile su quel mare, spiccava vivamente con la sua nera massa su quella argentea superficie, e pareva che più non navigasse, ma nuotasse sopra un’atmosfera abbagliante, fosforescente. Miss Anna, il capitano Hill, il tenente Collin e tutti i marinai [Illustrazione: LA _NUOVA GEORGIA_.] contemplavano con ammirazione quel fenomeno che è frequente, come abbiam detto, in quelle regioni, ma che è pur sempre tanto bello. Perfino il naufrago si era lentamente alzato e curvato sul bordo del legno; ma invece d’uno sguardo di ammirazione, quello strano uomo aveva lanciato un cupo sguardo su lo scintillante mare ed aveva fatto un gesto di dispetto gettando nel tempo istesso una sorda imprecazione. A poco a poco però quel fenomeno si allontanò in direzione dell’est e la nave che filava lentamente in senso contrario, rimase nuovamente avvolta fra dense tenebre che i fanali di prua non erano sufficienti a rompere. Il naufrago che era tornato a sedersi a prua, quando vide scintillare il mare in lontananza, si alzò lentamente e cogli occhi parve che cercasse qualcuno. Lo stesso gesto di dispetto che aveva fatto prima lo ripetè, non vedendo sul ponte nè il capitano Hill, nè miss Anna, nè il tenente. Una profonda ruga gli si disegnò sulla fronte e rimase lì come perplesso. Vedendo però passare un giovane marinaio che aveva allora allora lasciato la camera di prua e che non aveva assistito alla brusca interrogazione del signor Collin a proposito dell’isola di Norfolk, lo fermò dicendo: — Ehi, camerata, che ora abbiamo? — Devono essere le dieci, — rispose il marinaio. — Chi degli ufficiali è di guardia per il primo quarto? — Asthor, il pilota. — E il signor Collin? — Monterà la guardia della mezzanotte. — È un bravo ufficiale il signor Collin? — Bravissimo, ve lo assicuro. — Gode molta fiducia a bordo? — Quanta ne gode Asthor che naviga da vent’anni col capitano Hill, e forse di più. — È vero che è il fidanzato di miss Anna? — Non l’ho mai saputo e non lo credo. — Dimmi, camerata, si crede realmente che io sia un povero marinaio che ha avuto la disgrazia di naufragare? — Per bacco! Non vi abbiamo raccolto in pieno mare, su di una zattera? — È vero, ma mi pare che il signor Collin mi guardi con certa diffidenza. — È un uomo sospettoso il tenente, ma non credo che abbia motivi per diffidare di voi. Toglietevi simili ubbíe dal capo. — Hai ragione, camerata. Sono pazzo a credere che a bordo della _Nuova Georgia_ mi si veda di cattivo occhio. Buona notte! — Il naufrago attraversò lentamente il ponte colla fronte aggrottata e le braccia incrociate strettamente sul petto. Pareva assai pensieroso e preoccupato. Nel passare dinanzi al grande boccaporto si fermò ad ascoltare le tigri, che mandavano dei profondi brontolii. — Hanno fame, — mormorò con voce sorda. — Eppure carne ve n’è qui per tutt’e dodici. — Poi retrocesse lentamente verso prua e fissò gli occhi sulle nubi che correvano disordinatamente pel cielo. — La tempesta, — mormorò, — sarà fatale per qualcuno. — Represse un triste sorriso che gli spuntava sulle labbra e sparve nella camera di prua. CAPITOLO QUINTO. Gli antropofagi dell’Oceano Pacifico. Contrariamente alle previsioni di tutti, l’uragano che pareva tornasse a minacciare la _Nuova Georgia_ non scoppiò, anzi durante la notte le masse nuvolose si ruppero e riapparvero le stelle; però si capiva che era un momento di tregua e nulla più, poichè il vento soffiava sempre dal sud, ossia dalla parte donde si formano e partono i tifoni, e il mare conservava quella tinta plumbea che indicava come altrove un grande temporale lo sconvolgesse. Il giorno dopo, all’alba, la _Nuova Georgia_, che durante la notte aveva percorso una settantina di miglia, si trovava di fronte all’arcipelago delle Nuove Ebridi. Questo gruppo è uno dei più importanti di quella regione, quantunque in quel tempo fosse ben poco conosciuto, come del resto è anche oggidì assai imperfettamente, e si estende sopra una superficie di centoventi leghe. Quiros, che le scoprì il primo nel 1606, diede all’arcipelago il nome di Australia dello Spirito Santo; Bougainville, che le visitò nel 1768, le chiamò Nuove Cicladi, e Cook, che aveva la smania di cangiare nome a tutte le isole, quello di Nuove Ebridi. Le principali sono Fauna, che è la più nota, fertilissima, di aspetto piacevole, con un vulcano e sorgenti di acqua calda: misura sette leghe di lunghezza e tre di larghezza; Koro-Mango, di grandezza quasi eguale, e che gode fama perchè dai suoi boschi si estrae la preziosissima polvere di sandalo dal profumo delicato; Mallicolo, che ha una lunghezza di diciotto leghe e sette di larghezza; Sandwich, notabile per la bellezza dei suoi siti; Santo Spirito, che è l’isola maggiore e che si dice sia una delle più belle e delle più fertili del mondo. Molte altre, ma più piccole, circondano il gruppo principale e si estendono verso il sud-est fino a sessantacinque leghe dall’estremità meridionale della Nuova Caledonia. Gli abitanti, eccettuati quelli di Fauna, non godono una fama migliore degli altri polinesiani, poichè le navi che ebbero contatto con loro furono spesso costrette a far uso delle armi da fuoco, per non cadere sotto i denti di quei mangiatori di carne umana. Sono per lo più di statura bassa, gracili, di pelle assai abbronzata e per la maggior parte brutti. Quelli di Mallicolo specialmente sono di lineamenti così ributtanti, che le scimmie appariscono belle in loro confronto. La _Nuova Georgia_, che filava con notevole velocità, si tenne prudentemente lontana da quelle coste inospitali; però non isfuggì agli occhi degli isolani, i quali si mostrarono in buon numero sulle spiagge, agitando minacciosamente le loro lancie ed i loro archi. Delle freccie furono pure lanciate, ma caddero a mezza via ed il capitano Hill, che non voleva perdere tempo nè impegnarsi in qualche brutta avventura, non si degnò di rispondere. Però verso il mezzogiorno, a circa trenta miglia dall’isola Barwell, la _Nuova Georgia_ fece l’incontro di un doppio canotto, solidamente legato e fornito di un ponte, montato da una dozzina di selvaggi di statura piccola, la tinta oscura, la testa lunga ed il naso schiacciato, nudi quasi del tutto, ma armati di lancie le cui punte parevano formate da scheggie di ossa e molto probabilmente da frammenti di ossa umane. Vedendo la nave veleggiare al largo, il grande canotto manovrato da una diecina di pagaie si diede a inseguirla con la speranza di abbordarla e di ottenere, forse con la violenza, qualche cosa. Il capitano Hill però fece dirigere la nave al nord e fece sparare un piccolo cannone che teneva nascosto sotto il castello di prua. La detonazione e anche l’impossibilità di vincere il veliero che camminava colla velocità di otto nodi all’ora, persuasero quei brutali selvaggi a proseguire la loro rotta. — Dimmi, babbo, sono molti gli abitanti di queste isole? — chiese miss Anna al capitano. — Quando Bougainville le visitò, cioè nei 1799, stimò il loro numero a 200,000, e Cook confermò tale cifra; ma ora sono scemati più della metà. — E perchè tale enorme diminuzione? — Perchè gli isolani sono quasi sempre in guerra fra di loro ed i vinti vengono senz’altro mangiati, siano feriti o completamente sani. — Assistono anche le donne a quei mostruosi banchetti? — No, poichè le donne non possono prendere i pasti in compagnia degli uomini; ma si fanno cuocere da parte un pezzo dei prigionieri. — Nemmeno le mogli mangiano coi mariti? — No, poichè pei mariti esse rappresentano semplicemente delle bestie da soma. La loro condizione è così misera e così opprimente, che spesso uccidono le figlie per sottrarle ad una vita tanto degradante. — Che orribili selvaggi! E a quale razza appartengono? — A quella melanesica; ma notasi però in loro l’influenza della razza polinesica. — Dimmi, tutti i popoli che abitano le isole del Grande Oceano sono antropofagi? — Quasi tutti. — Per necessità forse? Mi hanno detto che le isole del Pacifico sono assai scarse di animali e di alberi fruttiferi. — Sì, ma non tutte. Alcune abbondano di cani, di maiali, di uccelli, di alberi che danno frutta saporite, e per di più il mare che le circonda è ricco di pesci. Malgrado ciò, gli abitanti sono antropofagi e mettono nello spiede e in salsa i loro nemici. Un tempo non si credeva all’antropofagia, ma dopo i viaggi di Van Diemen, di Tasman, di La Perouse, di Bougainville, di Cook, di Quiros, di Mendana, ec. bisognò ammetterla. Alcune tribù sacrificavano i nemici per spirito religioso, ma li mangiavano, altri per insufficenza di alimenti, altri ancora per leccornía e taluni per ereditare il coraggio o le virtù del morto, come per esempio gli Australiani che mangiano a preferenza il cuore del nemico per acquistare maggior energia, i Maori della Nuova Zelanda l’occhio sinistro prima di tutto, perchè secondo le loro credenze figura l’anima del mangiato, e le tribù americane dell’Amazzoni che bruciano il cadavere bevendo poi la polvere per appropriarsi i pregi di lui. — Ma come, l’antropofagia non è ristretta agli isolani del Grande Oceano? — No, Anna, — disse il capitano. — Più o meno tutti i popoli hanno praticato il cannibalismo. I Galli, che sono gli odierni Francesi, mangiavano gli uomini, e ne fanno fede le caverne ossifere scoperte nelle vicinanze di Parigi, a Ville-Neuve-Saint-George ed a Saint-Maure; nel Portogallo in una sola caverna furono raccolti 9500 denti umani e gran numero di ossa portanti le tracce della combustione e degli istrumenti taglienti. Mangiavano uomini gli abitanti dell’Asia minore; i Giapponesi ed i Messicani per spirito religioso; anzi aggiungerò che questi, discendenti del grande impero di Montezuma, rimproveravano agli Spagnuoli il sapore amaro delle loro carni!... — È incredibile!... — esclamò miss Anna con orrore. — Un tempo poteva dirsi così, ma oggi la scienza ha messo tutto in chiaro. Del resto l’antropofagia è ancora molto estesa; si mangiano uomini fra i Battias, di Sumatra, dove il cannibalismo ha spiccatamente il carattere di punizione, fra gli Indiani dell’America del Nord per vendetta, fra i Cafri, i Caraibi di Masoris, nel Congo, nel Timbuctu, nel Dahomey e nell’Ogowai per pura leccornía. Aggiungerò per ultimo che a Taiti, isola oggi civilizzata, or non è molto, in un periodo di carestia si mangiarono tante persone che fu chiamato quel tempo «la stagione da mangiare gli uomini» e che in Francia nel 1090 e in Egitto nel 1200, pure in tempo di carestia, si andava a caccia delle persone per venderne la carne!... — È orribile! — Ma storico, Anna. Del resto anche oggidì di quando in quando giunge la notizia di scene di cannibalismo avvenute fra naufraghi. Le cronache marinaresche sono piene di sì orribili pasti, fortunatamente consigliati non dalla golosità, ma dalla fame. — I selvaggi dicono che è eccellente la carne umana? — chiese il tenente, che da qualche minuto assisteva alla conversazione. — Tutti sono d’accordo nel lodare il gusto squisito e la delicatezza della carne umana; però dicono che quella della razza bianca è amara e troppo salata. — Speriamo allora che ci risparmino, se abbiamo la disgrazia di cadere nelle loro mani. — Troveranno qualche mezzo per farci diventare eccellenti, signor Collin, — disse il capitano ridendo. — Io so che gli isolani delle Figii hanno un modo speciale per ingrassare i loro prigionieri e renderli più succulenti. — Compiango i compagni di Bill se hanno avuto la sfortuna di cadere, in questo frattempo, nelle loro mani. Purchè non sia invece una mezza fortuna. — Perchè, tenente? — chiese il capitano sorpreso. — M’intendo io, signor Hill. — Spiegatevi, — disse miss Anna. — Non ora. — In quel momento dietro di loro si udì una specie di grugnito. Il naufrago stava a tre soli passi di distanza e forse aveva inteso le parole del tenente. Fortunatamente per lui, nessuno lo vide fissare sul tenente due occhi che mandavano cupe fiamme e stringere i pugni con tale forza, da farsi entrare le unghie nelle carni. Si allontanò silenziosamente senza essere stato scorto e andò a sedersi a prua, ma i suoi occhi correvano sempre, però con diversa espressione, da miss Anna al signor Collin. Cosa mai meditava in quel momento quell’enimmatico personaggio, sul cui viso si leggeva ad un tempo una strana tenerezza e si vedevan lampi d’un odio profondo? Gli avvenimenti dovevano fra breve dirlo. Nel pomeriggio il vento crebbe di violenza, e il barometro si abbassò bruscamente, mentre le onde provenienti dal sud, si facevano più frequenti e sempre più alte. Si vedevano accavallarsi sull’orizzonte mostrando le loro creste coperte di candida spuma e venivano a rompersi con violenza contro la _Nuova Georgia_, la quale rollava e beccheggiava vivamente. Le tigri, quasi presentissero la vicinanza di una tempesta, si mostravano assai inquiete, e già nella stiva si udivano incessantemente rintronare le loro rauche urla, facendo impallidire i marinai che non si erano ancora abituati a quegli sgradevoli concerti. Il capitano per non lasciarsi cogliere alla sprovvista da quell’uragano che da due giorni andava raccogliendo le proprie forze, per scatenarsi chi sa mai con quale furore, fece imbrogliare le alte vele di pappafico e contra-pappafico e fece ammainare i coltellacci e gli scapamari che aveva fatti spiegare al mattino per guadagnare velocità. Non ancora soddisfatto, fece rinforzare i paterazzi e legare solidamente le imbarcazioni, la cui perdita poteva diventare funesta, e le gabbie delle tigri onde nel rollío o nel beccheggio non si rovesciassero spezzando, le sbarre. — Temi qualche tifone? — gli chiese Anna, che di rado lasciava la coperta della nave. — Sì, e non ti nascondo che questo uragano mi dà molto da pensare, trovandoci noi in un mare cosparso di isole e di isolotti, e per di più d’una profondità che mette i brividi. — Ha dei baratri immensi l’Oceano Pacifico? — Spaventevoli, Anna; una nave che andasse a picco non lascerebbe spuntare di certo la sommità dei suoi alberetti. — In quale punto è più profondo? — Secondo gli ultimi scandagli, la maggiore profondità si troverebbe a mezzogiorno del Kamtschiatca, penisola della costa asiatica. Là lo scandaglio avrebbe toccato fondo a 8515 metri. — Otto chilometri e mezzo di profondità! — Pare però che vi siano dei baratri profondi quattordici e perfino sedici chilometri. — Ma tutti gli Oceani hanno tali abissi? — La profondità media del Grande Oceano toccherebbe i 4380 metri; ma si sa che fra le isole Figii, Tonga e Samoa esiste un abisso di 8102 metri secondo taluni e di 8280 secondo altri navigatori; quella dell’Atlantico toccherebbe i 4022 verso il nord e i 3927 verso il sud; quella dell’Oceano Indiano i 3627 e degli altri due Oceani i 3803. Forse in avvenire queste profondità diverranno maggiori, poichè si difetta ancora di scandagli precisi. — Ma la vita a simili profondità deve essere nulla. — E perchè mia cara? — Per la grande pressione che deve esercitare una massa così immensa d’acqua. — Un tempo si credeva a questo, anzi aggiungerò che si riteneva che l’acqua si comprimesse talmente pel suo peso, da raggiungere una densità paragonabile a quella del ferro o del piombo. Si riteneva che una palla di ferro gettata in un mare profondo non giungesse fino a toccare gli abissi, ma si arrestasse fra gli strati acquosi, poichè non si era pensato che l’acqua è appena compressibile e che anche sotto le più potenti pressioni la sua densità è minima. Io so che recenti esperimenti hanno dimostrato che la pressione è così leggiera da non essere d’impedimento nemmeno ai pesci che hanno l’abitudine di vivere alla superficie dei mari. Ed infatti, se questa forza fosse così enorme come si credeva, come vivrebbero i crostacei che abitano il fondo degli abissi marini? Bisognerebbe che fossero più solidi del ferro, mentre non lo sono affatto. — La dimostrazione è chiara, padre mio. Ma.... to’, piove. — Il tempo si mette male. Ritirati, Anna, chè fra breve avremo un uragano dei più furiosi, e il ponte sarà spazzato dai colpi di vento. — Infatti il tempaccio si avanzava rapidamente, invadendo la vôlta celeste e sconvolgendo il grande Oceano Pacifico che stava per smentire ancora, il suo tranquillo nome datogli da Magellano. L’equipaggio era tutto salito in coperta pronto a sostenere la lotta, e si vedeva interrogare con ansietà le nubi e le onde. Quei lupi di mare presentivano una fiera tempesta. Solo il naufrago, che stava sempre seduto a prua su di un ammasso di cordami, pareva tranquillo e sogghignava ad ogni muggito delle onde, fissando con due occhi di fuoco il tenente Collin quasi che meditasse un sinistro progetto. CAPITOLO SESTO. Il delitto del naufrago. L’Oceano Pacifico montava a vista d’occhio; si sarebbe detto che una forza misteriosa, irrompente dagli abissi immensi del fondo, lo sollevasse. Montagne d’acqua, poichè ora potevansi chiamare con tal nome, venivano dal sud accavallandosi le une sulle altre, coperte da un immenso lenzuolo di candidissima spuma, e venivano a rompersi con lunghi muggiti contro i fianchi del vascello, il quale si rovesciava violentemente ora sul babordo ed ora sul tribordo con mille scricchiolii, ed ora s’impennava come un cavallo vigorosamente spronato. La tinta del mare aveva perduto il suo azzurro brillante ed era diventata cupa, quasi volesse gareggiare colla tinta nerastra dei nuvoloni che correvano disordinatamente, accumulandosi negli immensi spazii del cielo. Il vento, che poco prima era ancora costante, pareva che fosse impazzito e balzava bruscamente dal nord al sud, dall’est all’ovest, accennando a prendere un violento moto circolare. Sibilava attraverso i mille cordami della _Nuova Georgia_, scoteva con furore i boscelli rugosi delle manovre, faceva crepitare le vele e curvare perfino gli alberi. Il capitano Hill, consultato il barometro, vide non senza una viva emozione, che segnava la cifra straordinaria di 705 millimetri! — È un vero tifone quello che sta per assalirci, — disse al tenente Collin, che si era messo accanto al timoniere. — Ma come nascono questi tifoni che si sono acquistati una così triste celebrità nei mari del Giappone, della China e del Grande Oceano? — chiese il tenente. — Nascono generalmente dall’incontro di due o più correnti d’aria contrarie, le quali provocano un movimento rotatorio che è pericolosissimo per le navi che si trovano nel mezzo. — Si estendono per un largo tratto? — Per quattrocento o cinquecento chilometri, comunemente; ma si sono osservati dei cicloni di mille chilometri, e temo che quello che sta per piombarci addosso sia così immenso, poichè la depressione barometrica è considerevolissima. — Ordinariamente quale direzione hanno? — Vanno dal sud-ovest al nord-est, e il loro movimento circolare, nell’incontro delle due correnti, è da destra a sinistra. — Sicchè avremo qualche tromba marina. — È probabile, tenente; anzi faremo bene a preparare il nostro piccolo cannone. — Volete spezzarla colle palle? — Basta la detonazione, il più delle volte, per romperla d’un sol colpo; la palla sarebbe inutile, poichè non farebbe che attraversare la colonna d’acqua. — Ma è pericoloso per una nave che si trova a breve distanza. — Sì, è vero, poichè la massa liquida nel precipitare sul mare solleva cavalloni enormi; ma tutto si deve tentare piuttosto di lasciarsi avviluppare da quelle furiose colonne liquide, che sono dotate di tale potenza rotatoria da trasportare con loro i più grandi vascelli e da sollevarli. — Un grande lampo che fendette la massa delle nubi come se fosse una gigantesca scimitarra, seguito poco dopo da un cupo rimbombo che si perdette nei lontani orizzonti, troncò la conversazione. Il capitano Hill abbandonò il posto e salì sul ponte di comando col portavoce in mano, pronto a comandare la manovra, mentre il tenente Collin si portava a prua dove gli uomini si disponevano ad ammainare i fiocchi e a prendere terzaruoli sulle vele basse. L’uragano si avvicinava con rapidità straordinaria, sconvolgendo il mare e il cielo. Impetuosi colpi di vento, dopo d’aver sollevate e sferzate le onde che montavano sempre con tremendi muggiti, giungevano l’uno addosso all’altro sulla _Nuova Georgia_, la quale fuggiva con la rapidità d’un immenso uccello, verso il sud-ovest. Il sole era scomparso da qualche ora, e una profonda oscurità pesava sul Grande Oceano. Però al balenar dei lampi, si vedevano volteggiare, sospinti dalla forza del ciclone, i grandi albatros, con le loro piume bianche e nere, il becco grosso e tanto robusto, da spaccare il cranio ad un uomo, e con le loro ampie ali che misuravano non meno di cinque metri. Si vedevano lottare contro il vento, volteggiare disordinatamente sopra i flutti e si udivano, fra i fischi ed i muggiti della natura irritata, le loro grida rauche e discordi. Anche gli abitatori del mare parevano inquieti, perchè si vedevano ruzzolare fra le onde numerosi squali con potenti mascelle fornite di triplici file di denti, e slanciarsi in aria torme di _Exocœtus volitans_, strani pesci dotati di larghe pinne somiglianti ad ali, che si innalzano con un potente colpo di coda percorrendo distanze di centocinquanta a dugento metri, e che appena ricaduti tornano a riprendere il volo, riaprendo le pinne ventrali e agitandole in modo da sembrare quattro invece di due. La _Nuova Georgia_, nonostante venisse assalita da ogni lato dai marosi che si slanciavano talvolta fino sul suo ponte, pure si comportava bene e teneva bravamente testa all’uragano. Guidata dalla ferrea mano del vecchio Asthor si manteneva sulla via del sud-ovest, per rifugiarsi, in caso disperato, nelle insenature di qualche isola. Rollava disperatamente la poveretta, si copriva d’acqua da prua a poppa, tuffava nel seno delle onde spumeggianti i suoi solidi fianchi, montava sulla cresta delle montagne mobili, precipitava nel fondo degli abissi, sferzava i marosi col suo albero di bompresso, tanto s’inchinava colla prua, ma usciva sempre vittoriosa da quegli assalti furiosi che non le lasciavano tregua. Ad un tratto però, verso il sud, quando il vento, ormai scatenato aveva perduto ogni ritegno, girando ora al sud-ovest ed ora al nord-est, provocando quegli incontri di correnti che generano i cicloni, apparve una specie di cono che pareva scendesse dalle nubi per posarsi sulla sconvolta superficie dell’Oceano. Il capitano Hill, quantunque coraggiosissimo e pronto a tutto, impallidì. — Si forma una tromba verso il sud, — disse rivolgendosi verso il tenente Collin che lo aveva raggiunto sul ponte di comando. — La _Nuova Georgia_ fugge rapidamente, signore, — rispose il tenente. — Forse noi saremo lontani, quando la tromba si sarà formata. — Confidiamo in Dio! Non temo per me, ma per la mia povera Anna. — Speriamo, signore. — L’uragano cresceva sempre. I colpi di vento erano così impetuosi che pareva uscissero a forza da un’immensa tromba collocata a pochi passi dalla nave. Scuotevano orribilmente gli alberi, sbrandellavano le vele, facevano volteggiare come pagliuzze i più grossi boscelli delle manovre e facevano fremere le grosse sartie e i grossi paterazzi in tal modo, da temere che si spezzassero. Onde sopra onde si slanciavano addosso alla nave percuotendola fieramente a prua e a poppa, a babordo e a tribordo, facendo gemere i cordami ed i puntelli, spostando le imbarcazioni e aprendo delle breccie nelle murate. Pareva che si accanissero ad aprire i fianchi del legno, onde trascinarlo negli spaventosi baratri dell’Oceano Pacifico. La notte era calata, una notte oscura come il fondo d’un barile di catrame. Non si vedevano che tenebre, le quali pareva si addensassero di momento in momento sempre più sull’Oceano, quasi volessero rendere più pericolosa e più orrida la situazione della _Nuova Georgia_. Solamente all’orizzonte, di tratto in tratto balenava, e a quel rapido bagliore si vedevano correre sulla coperta i marinai coi capelli sciolti al vento, i volti pallidi, gli occhi smarriti e i panni inzuppati, e sul ponte di comando si vedeva spiccare l’alta statura del capitano Hill ed a prua la tetra figura del naufrago. In mezzo agli urli della tempesta, ai sibili del vento e ai ruggiti delle onde si udivano a un tratto irrompere, dalle nere profondità della stiva, i potenti gridi delle dodici tigri, le quali, atterrite da quei fragori e da quelle scosse orribili, si dibattevano furiosamente dentro le gabbie. Verso la mezzanotte una raffica più impetuosa delle altre si rovesciò sulla nave con tale violenza, da farle immergere tutta intera la prua. Il capitano Hill temendo che la _Nuova Georgia_ si rovesciasse sui fianchi per non più rialzarsi, comandò di imbrogliare le vele di parrochetto e di mezzana contentandosi di tenere spiegate le vele basse. Alcuni marinai si slanciarono sulle griselle, ma le scosse che risentiva la nave e i colpi di mare che giungevano tanto alti sopra le murate, lo impedivano; onde furono costretti a ridiscendere in coperta per non essere portati via e precipitati nei flutti muggenti. Due uomini, dopo aver corso mille pericoli, erano riusciti a raggiungere la vela di mezzana ed a imbrogliarla. Quella di parrochetto però, violentemente investita dalle raffiche, dava tali colpi da compromettere la sicurezza del naviglio e dell’albero di trinchetto. Era necessario di chiuderla o per lo meno di sventrarla con un buon colpo di coltello. Il tenente Collin, giovane ardimentoso e che sfidava intrepidamente il pericolo, vedendo riuscire vani gli sforzi dei marinai, si slanciò a prua, e afferratosi fortemente alle griselle si elevò nelle tenebre. Un altro uomo si era contemporaneamente mosso: era il naufrago. Senza essere stato veduto, fra quella profonda oscurità e quei colpi di mare che spazzavano senza interruzione il ponte della nave, sbattendo i marinai addosso alle murate, s’aggrappò allo straglio di maestra, e coll’agilità d’una scimmia si inerpicò a forza di braccia, giungendo nell’istesso momento del tenente, sul pennone di parrochetto. — Tu qui, Bill? — chiese il tenente nel vederselo vicino. — Sì, signor tenente, — rispose il naufrago con strano accento. — Vi sorprende? — Da qual parte sei salito? — Dallo straglio. — Aiutami adunque. — Il tenente si mise a cavalcioni del pennone tenendosi avvinghiato alla sbarra di ferro che corre sopra, e appoggiando i piedi sulla corda che corre sotto, cercò di raccogliere i bracci di manovra per imbrogliare la vela. D’improvviso si sentì stringere alla gola da due mani nervose e con tale forza, da non esser capace di emettere il più lieve grido. Facendo uno sforzo disperato, girò il capo e vide sopra di sè la tetra figura del naufrago, sulle cui labbra errava un satanico sorriso. Abbandonò con una mano la sbarra tentando di respingerlo; ma il naufrago era robusto e pareva che in quel momento avesse triplicato le forze. Il vascello sospinto dalle onde barcollava furiosamente ed il vento ruggiva tremendo fra l’alberatura e faceva scuotere i due uomini, ma la lotta continuava senza che si scambiassero una parola. Il povero tenente che non poteva abbandonare il pennone per non sfracellarsi sul ponte della nave, non opponeva ormai che una debole resistenza e si sentì rapidamente strangolare. Quella lotta fra cielo e mare, in mezzo a quelle tenebre e la burrasca che ruggiva, durò un solo minuto. Il signor Collin si sentì quindi trascinare verso l’estremità del pennone, e smarrì i sensi. Il naufrago attese che la nave s’inclinasse sul tribordo, poi tenendosi stretto al pennone colle sole gambe, con una spinta precipitò nello sconvolto Oceano la vittima, la quale scomparve negli abissi. — Ecco uno che non parlerà più, — mormorò il naufrago con voce sorda. — Andrai a chiedere ai pesci se io vengo o no dall’isola dei forzati. — Girò gli occhi intorno per vedere se nessuno lo aveva veduto, e ridiscese silenziosamente in coperta, confondendosi fra l’equipaggio. CAPITOLO SETTIMO. I frangenti. Nè il capitano Hill che si trovava sul ponte di comando, nè il vecchio Asthor che concentrava tutti i suoi sforzi sulla ribolla del timone per mantenere sempre la nave sulla buona via, nè l’equipaggio che aveva un gran da fare a evitare le ondate che irrompevano ad ogni istante in coperta e che era occupato a bracciare continuamente le vele basse, si erano accorti della caduta del tenente Collin. Il mare irritato e le tenebre avevano coperto quell’assassinio, forse lungamente meditato da quel sinistro uomo, e così freddamente consumato. Il naufrago ridisceso in coperta era silenziosamente scivolato a prua e pareva occupato alla manovra dei fiocchi, sicuro ormai di non essere stato veduto da nessuno, poichè l’oscurità non permetteva di distinguere l’assenza di chicchessia. Malgrado però la sua apparente calma, più volte si era curvato sulla prua, aveva scrutato profondamente quei flutti irritati e aveva teso l’orecchio a lungo, temendo che il disgraziato tenente seguisse la nave e chiamasse aiuto. Certo la coscienza di Bill, per quanto fosse incallita nel delitto, non doveva in quel momento essere tranquilla, poichè tutte le volte che incontrava gli sguardi di qualche marinaio impallidiva orribilmente, e gli si gelava sulle labbra lo strano sorriso che di rado lo abbandonava. Erano passati dieci minuti e la _Nuova Georgia_, trasportata dall’uragano aveva percorso un miglio, quando il capitano Hill, vedendo ancora semi-sciolta la vela di parrochetto e non scorgendo fra l’equipaggio il tenente, si mise a gridare: — Ohe! signor Collin, dove siete? Volete un aiuto? — I soli muggiti delle onde e i fischi sempre più violenti e stridenti del vento, risposero a quella domanda. Il capitano credendo che la sua voce non fosse stata udita, discese dal ponte di comando e si avanzò fino ai piedi dell’albero di trinchetto cercando di discernere il tenente fra le vele e i cordami; ma l’oscurità era così profonda che non potevasi distinguere alcuna cosa. — Signor Collin! — ripetè con voce tonante. Anche questa volta la domanda rimase senza risposta. — Scommetterei un penny contro una sterlina che il signor Collin non è sull’albero, — disse un marinaio che era salito sul castello di prua per meglio vedere. — È impossibile, — esclamò il capitano impallidendo. — Eppure, signore, io non lo scorgo nè sulla coffa, nè sulla crocetta, nè sui pennoni, — disse il marinaio. — Che gli sia avvenuta qualche disgrazia? Ma quando?... Come?... Avete udito nessun grido voialtri? — Nessuno, signore, — risposero i marinai che si erano aggruppati presso l’albero. — Non l’avete veduto discendere? — No. — Che sia caduto in mare? — In quel momento un lampo abbagliante ruppe l’oscurità che pesava sull’Oceano. Tutti gli occhi si fissarono sulla vela di parrochetto e tutti videro distintamente che il luogotenente non era più sull’albero. — Gran Dio! — esclamò il capitano, facendo un gesto disperato. Si slanciò verso la murata di babordo scrutando le onde e gettò tre tuonanti chiamate: — Signor Collin!... dove siete?... rispondete, in nome di Dio!... — Anche queste chiamate non ebbero esito migliore delle altre. Il mare ruggiva sempre, il vento urlava e fischiava attraverso l’alberatura e il sartiame, ma nessuna voce umana si udiva mescolarsi alla possente voce della tempesta. — Perduto!... — esclamò il capitano Hill con accento disperato. — Asthor, viriamo di bordo!... — La tempesta incalza, signore, e le onde ci assaliranno sui fianchi, — disse il vecchio marinaio. — Bisogna tentare di salvarlo. — Badate, signore, che metterete a pericolo la nave. — Non importa, Asthor; tutto si deve tentare per salvarlo. Ai bracci delle vele voialtri e pronti per virare!... — Era una pazzia il voler virare di bordo con quell’uragano che assaliva furiosamente la _Nuova Georgia_. Le onde potevano irrompere sul suo fianco, spostare il carico della stiva e rovesciarla; ma il capitano Hill era un uomo di gran cuore, che amava molto i suoi uomini e voleva tentare a qualunque rischio il salvataggio del disgraziato ufficiale. Sotto la robusta mano del vecchio pilota, la _Nuova Georgia_ virò di bordo presentando per alcuni istanti il fianco destro alle onde. Sotto la spinta formidabile di quelle masse liquide che il vento trascinava in una corsa disordinata verso l’est, si piegò talmente da temere che si rovesciasse per sempre; ma si risollevò quasi subito e ritornò sulla via poco prima percorsa, affrontando con l’affilata sua prua l’uragano che ora l’assaliva di fronte. Il capitano Hill e gran parte dell’equipaggio, affollati sul castello di prua, scrutavano avidamente le tenebre e di quando in quando mandavano acute chiamate. L’armaiuolo di bordo aveva fatto portare in coperta il piccolo cannone e lo scaricava a intervalli di due o tre minuti. Alcune volte, fra i muggiti delle onde, pareva di udire una lontana chiamata o un grido straziante, ma poi l’equipaggio si persuadeva di essersi ingannato. Il vento quando fischia fra l’attrezzatura produce sovente dei suoni così strani, da scambiarli bene spesso per grida di naufraghi. — È perduto! — esclamava il capitano Hill strappandosi i capelli dal dolore. — Povero Collin! Così buono, così coraggioso e così giovane!... Sento che non lo ritroverò più mai!... — Se fosse vivo, avrebbe risposto alle nostre grida e ai nostri segnali, signore, — disse il vecchio Asthor che aveva affidato il timone al contro-mastro. — Ma come mai cadde senza mandare un grido e senza che si vedesse? — Gli saranno venute meno le forze e il vento l’avrà strappato dal pennone, oppure è caduto per una forte scossa. — Ma senza mandare un grido? — Che il pennone di pappafico lo abbia percosso al capo in modo da farlo svenire? — Bisogna supporlo, Asthor. — Se ciò è accaduto, il povero ufficiale a quest’ora riposa in fondo agli abissi marini. Ritorniamo, capitano. — Continuare a lottare contro la tempesta che era girata all’ovest, non era prudenza. La nave era solida, sì, ma il fasciame poteva da un istante all’altro cedere agli urti sempre più potenti di quelle masse liquide. La _Nuova Georgia_ guidata da Asthor, che aveva ripresa la ribolla del timone, virò nuovamente di bordo e riprese la rotta primiera, lasciandosi trasportare dall’uragano che non accennava ancora a calmarsi. Il capitano Hill però ed anche l’equipaggio non riuscivano a staccare gli occhi da quel tratto d’Oceano, nelle cui onde era stato inghiottito il povero Collin e quantunque ormai assai lontani, si vedevano curvarsi di frequente sui bordi e guardare lungamente lontano, quasi avessero la speranza di veder passare presso la nave il cadavere dell’audace e sfortunato marinaio. Un uomo solo pareva fosse contento di allontanarsi da quei paraggi, e questo era il naufrago, il quale ormai si teneva sicuro, ben sapendo che l’Oceano non restituisce la preda e che sa conservare troppo bene i segreti. Aveva avuto paura dapprima, quando cioè la nave era ritornata sulla propria via, non essendo certo che il luogotenente fosse morto, ma ora più nulla aveva da temere, e poteva respirare tranquillamente. Il delitto non aveva avuto testimoni; nessuno aveva veduto la scena svoltasi sul pennone del parrochetto; a che adunque temere? Intanto la _Nuova Georgia_ continuava a fuggire dinanzi all’uragano, con una velocità che il capitano Hill stimava superiore ai tredici nodi. S’avvicinava alle isole sulle quali, secondo quanto aveva narrato il naufrago, dovevano trovarsi i superstiti della nave affondata. Si poteva ormai dire che non era molto lontana, poichè già l’Oceano si rompeva con maggior furore, segno evidente che stava per rinserrarsi fra le isole dell’arcipelago Figiano. Verso le due del mattino, un marinaio che era salito sul castello di prua per imbrogliare la trinchettina che il vento aveva sciolto, segnalò un fuoco che si scorgeva verso il sud-est. Il capitano Hill puntò il cannocchiale in quella direzione, e scorse infatti un punto luminoso che appariva e scompariva secondo che le montagne d’acqua si alzavano o si abbassavano. — Che siamo di già presso l’arcipelago Figiano? — disse fra sè. — Vorrei essere lontano ancora trecento leghe piuttosto che trovarmi addosso a quelle terre con simile tempesta. — In quell’istante apparve sul ponte miss Anna. La coraggiosa giovanetta aveva indossato un lungo mantello di tela impermeabile e non pareva spaventata, quantunque la _Nuova Georgia_ beccheggiasse e rollasse spaventosamente e le onde montassero sempre in coperta, correndo all’impazzata da prua a poppa. — Dove siamo, padre mio? — chiese ella. — Quale pazzia, Anna, salire sul ponte con questo uragano, — disse il capitano correndole incontro. — Sono inquieta, babbo, e poi vicina a te mi pare di non correre pericolo alcuno. Non accenna a cessare questo uragano? — Non ancora, e temo che si prolunghi fin troppo. — Che notte orribile! — Tremenda, Anna, e disgraziata per uno di noi. — Cosa vuoi dire?... — Collin non è più con noi. — Morto!... — È scomparso mentre dall’alto del parrochetto tentava d’imbrogliare la vela. — Quale disgrazia! — esclamò la giovanetta con voce soffocata. — Morto!... lui morto!... — Due lagrimoni le scendevano sulle gote, mentre un rauco singhiozzo le saliva alla gola. — Morto! — ripetè per la terza volta. — E tu non l’hai salvato? — Nessuno lo ha veduto cadere in mare, e quando mi accorsi della sua scomparsa eravamo assai lontani. — E non sei ritornato? — Abbiamo virato di bordo a rischio di inabissarci tutti e l’abbiamo cercato a lungo, ma il disgraziato era scomparso. — Ah! padre mio!... — Terra a prua! — gridò in quell’istante un marinaio. — I frangenti a tribordo! — urlò un altro che si teneva ritto sulla murata, aggrappato ai paterazzi dell’albero di maestra. — Attenzione, Asthor!... — Gran Dio! — esclamò il capitano Hill. — Dove siamo noi?... — Stava per slanciarsi verso prua, quando un uomo gli sbarrò il passo: quest’uomo era il naufrago. — Cosa vuoi, Bill? — gli chiese. — Se vi preme la vita, fate imbrogliare le vele o cercate di riguadagnare il largo, — rispose il naufrago con voce sorda. — Conosci questi luoghi? — Sì, capitano. — Dove siamo noi? — Dinanzi ai frangenti di Figi-Levù. — Poi si tirò da una parte per dare il passo al capitano e si avvicinò a miss Anna, che pareva ancora atterrita per la disgraziata fine del signor Collin e che si sforzava a soffocare dei singhiozzi. — Signorina, — le disse fissandola con due occhi che mandavano vivi lampi. — Volete che io salvi tutti o che perda tutti? — La giovanetta alzò il capo che teneva chinato sul petto e guardò con stupore quell’uomo che le indirizzava una così strana domanda. — Cosa avete detto, Bill? — gli chiese. — La nave è perduta, signora. — Come lo sapete voi? — Sta sui frangenti, e fra pochi minuti si sventrerà sugli scogli coralliferi di Figi-Levù. — Ma salvatela adunque! — Lo volete, miss Anna? — Ne va la vita di tutti! — Il naufrago scrollò le spalle con un gesto di noncuranza, poi disse con voce sorda: — È voi che desidero salvare, perchè non voglio che finiate sotto i denti dei cannibali. — Si slanciò verso poppa e guardò per alcuni istanti intorno alla nave. Il mare si infrangeva furiosamente per ogni dove, rimbalzando a grande altezza con sprazzi mostruosi. Ruggiva orribilmente sopra i bassifondi che lo tenevano imprigionato, cercando di sorpassarli o di spazzarli via. All’est, attraverso le tenebre, si scorgeva confusamente una massa enorme sormontata da una serie di picchi aguzzi che si perdevano, di quando in quando, fra le nubi che volteggiavano in tutte le direzioni, trascinate dal vento che pareva impazzito. Il naufrago con un solo salto balzò giù dal cassero e si fermò dinanzi al capitano che correva verso il ponte di comando. — Signore! — gli disse. — Cosa vuoi, Bill? Spicciati, chè i minuti sono preziosi. — Se volete che la vostra nave non s’infranga sulle scogliere, è necessario che mi affidiate il comando per pochi istanti. — Cosa vuoi fare? — Salvare la vostra nave, ho detto. — Sei capace di compiere questo miracolo? — Conosco l’isola e le sue scogliere, signore! — Comanda adunque! — Il naufrago salì sul ponte di comando, imboccò il portavoce e gridò: — Asthor, barra tutta all’orza! Due àncore a picco a prua!... — Il vecchio timoniere ubbidì. La _Nuova Georgia_ a quel colpo di timone virò sul posto, presentando la prua alle onde; subito i marinai lasciarono cadere le due àncore che s’infissero solidamente sul fondo roccioso dei bassifondi. Quando vide la nave fermarsi, il naufrago si avvicinò al capitano che lo aveva raggiunto sul ponte di comando e gli chiese: — Avete dell’olio a bordo? — Dell’olio! — esclamò l’americano guardandolo con profondo stupore. — Dalla vostra risposta dipende la salvezza della nave. — Ma cosa volete farne? — Lo saprete poi. Fate portare in coperta tutto quello che avete. — Due marinai, al comando del capitano, discesero nella dispensa e ritornarono sul ponte portando due barili della capacità di sessanta o settanta litri ciascuno. Il naufrago senza perder tempo, poichè la nave ancorata come era, subiva a prua delle scosse tremende che minacciavano o di sfasciarla o di spezzare le catene, fece riempire di canape due sacchi di tela ben fitta, vi fece versare dentro alcuni litri d’olio e li calò uno a tribordo e uno a babordo. Allora, dinanzi agli occhi dell’equipaggio stupefatto, avvenne un fenomeno strano, meraviglioso. Appena quei due sacchi, dai cui fori piccolissimi trapelava lentamente l’olio, ebbero toccata l’acqua, le onde quasi per incanto si spianarono tutto all’intorno. Fin dove giungeva l’olio, che si espandeva rapidamente, l’acqua si estendeva tranquilla, senza contrazioni, senza sussulti, mantenendo la nave quasi immobile; ma al di là di quella zona si vedeva il mare dibattersi con una rabbia estrema, quasi volesse sfogarsi di quella calma forzata. Il naufrago avvicinandosi allora al capitano stupefatto, gli disse: — Se le àncore non cedono, potremo attendere con piena sicurezza l’alba di domani, o potremo aspettare che l’uragano si calmi; se le catene si spezzano, per noi e per i miei compagni è finita, poichè laggiù si stende l’isola dei cannibali. Sperate!... — CAPITOLO OTTAVO. Arrenati sulle scogliere di Figi-Levù. Il modo di calmare le onde adoperando l’olio, non è cosa moderna, come generalmente si crede. Quantunque questo sistema, che può rendere immensi vantaggi alle navi sbattute dalle fiere tempeste degli oceani, sia sconosciuto a molti capitani e marinai, è vecchio, poichè alcuni antichi scrittori ne fanno menzione nelle loro opere. Plinio, per esempio, nella sua _Storia Naturale_ ne dimostra l’efficacia, e Plutarco pure dice qualche cosa su ciò, ma per varii secoli nessuno si curò di verificare tale fenomeno. Il merito ne doveva spettare al celebre propugnatore dell’indipendenza degli Stati Uniti, a Franklin, il quale nel 1757, avendo osservato che i pescatori delle isole Bermude oliavano il mare per calmare, come egli diceva, le _onde tremanti_, ne dimostrò l’efficacia; però ben pochi adottarono il sistema, e anche oggi, come dicemmo, molti lo ignorano. Anche i balenieri, le cui navi più o meno sono sempre lorde d’olio, avevano notato che le onde si spianavano intorno ai loro legni, specialmente durante la fusione delle materie grasse, e avevano anzi notato che l’olio di pesce, e specialmente quello di foca e di delfino, era il migliore, avendo constatato che gli oli minerali erano troppo leggieri ed i vegetali di poca efficacia nelle alte latitudini perchè troppo facili a rapprendersi. Ci vollero moltissimi esempi, prima che questa meravigliosa scoperta venisse adottata, se non dai legni minori, almeno dai più grandi che intraprendono lunghi viaggi; anzi si può dire che soltanto in questi ultimi anni venne presa in considerazione, quantunque dapprima fosse stata vivamente combattuta, poichè si credeva che il mare diventasse dipoi così burrascoso da riuscire fatale alle altre navi che avessero avuto la disgrazia di passare sopra quei tratti prima oliati. L’ufficio idrografico di Washington ha pienamente constatato i grandi benefizi che rende alle navi questo sistema, dimostrandolo in dugento rapporti che sono il risultato di dugento esperienze fatte sia da barche di salvataggio, sia da bastimenti. Le barche di salvataggio dell’Australia, che da più anni si esercitano a passare fra gli scogli durante il cattivo tempo, coll’aiuto dell’olio, hanno pure dimostrato che il mare subito si spiana e che si rompe solamente sui margini del tratto oliato. E all’olio dovettero la loro salvezza il piroscafo _Stockolm City_ nella sua traversata fra Boston e l’Inghilterra, la _Nehemiah Gibson_ del capitano Bailey, l’_Emily Witney_ del capitano Rollin sorpresa da un furioso uragano il 25 agosto 1886, la _Marta Cabb_ in viaggio dall’America all’Europa, il _Meno_ del Lloyd nord-tedesco comandato dal capitano Kuhlmann, ec. Senza l’olio tutte queste navi avrebbero affondato e chi sa se dei loro equipaggi qualche persona sarebbe sopravvissuta, per dare al mondo la notizia del disastro. Non si creda, del resto, che sia necessaria una spesa enorme per oliare il mare. La sostanza grassa si dilata con rapidità immensa, dura attorno alla nave anche se questa fugge e bastano due sacchi pieni di canape imbevuto della materia grassa, e sospesi o a prua, o a poppa, o a babordo o a tribordo, secondo la direzione della nave, per fare un lungo cammino. In mancanza di sacchi, basta far cadere l’olio dagli ombrinali dopo averli mezzo-turati con canape, onde non scorra troppo facilmente. Si è constatato che in media la spesa subita da diciassette bastimenti fuggenti in poppa, fu di litri 1,83 per ora, di altri undici di litri 2,70; ma devesi notare che questi fuggivano in direzione del vento e che quindi l’olio si disperdeva con maggiore facilità. Le cause che producono questo fenomeno, sono facilissime a spiegarsi. Non essendo l’olio penetrabile nè all’aria nè all’acqua, la coesione delle sue molecole è tale, che il suo getto non può trasformarsi in pioggia. Il vento non avendo nessuna presa su di esso, lascia intatto lo strato che copre l’acqua, la quale non venendo più urtata si mantiene quasi tranquilla. Tutt’al più subisce gli urti delle onde che si dibattano agli orli dello strato, ma non forma che delle ondulazioni che sono sensibili solamente in pieno mare. La _Nuova Georgia_, immersa nello strato oleoso che opponeva una fiera resistenza alle contro-ondate della risacca, quantunque il suo spessore fosse talmente sottile da superare tuttociò che si può supporre (si calcola che sia di 1/90000 di millimetro) rimaneva quasi immobile, essendo rinchiusa fra i bassifondi dell’isola. I marosi, che il vento sollevava a prodigiosa altezza, si scagliavano rabbiosamente, colle creste bianche di spuma, contro lo specchio unito prodotto dall’olio che sempre più dilatavasi, ma si calmavano quasi di colpo. Le sommità si abbassavano come per incanto, passavano sotto lo strato sollevando lentamente la nave e uscivano dall’altra parte, dove tornavano ad alzarsi con furore estremo frangendosi e rifrangendosi contro le scogliere. — È meraviglioso questo fenomeno, — disse miss Anna che contemplava il mare dalla murata di poppa. — Meraviglioso e pur tanto facile a spiegarsi, — rispose il capitano Hill. — Occorreva un semplice marinaio per insegnarlo a me, che navigo da tanti anni. — Che Bill lo abbia usato egli stesso? — O lui o il suo capitano senza dubbio. — Qualunque olio gode la proprietà di calmare il mare? — Sì; e ora che mi ricordo, ti dirò anzi che qualunque materia oleosa può fare altrettanto. Ho infatti più volte osservato che tutti i detriti diversi provenienti dalle cucine delle navi e tutti i corpi galleggianti formanti una massa compatta, producevano un rallentamento nelle onde. — È vero, — disse una voce dietro di loro. — Ah! sei tu, Bill! — esclamò il capitano. — Lascia che ti ringrazi di averci salvati, poichè senza di te forse la _Nuova Georgia_ più non galleggerebbe. — Un enimmatico sorriso sfiorò le sottili labbra del naufrago. — Non parliamo di questo, — disse. — Avete fatto abbastanza per me: siamo pari. — Hai fatto altra volta uso di questo prodigioso esperimento? — domandò il capitano Hill. — Sì, a bordo di una nave baleniera. Il capitano avea osservato più volte che durante la fusione di grassi di balene, i cui residui vengono gettati in mare, le onde non andavano ad infrangersi contro la nave: tentò l’esperimento durante una terribile tempesta che ci aveva colti all’uscita del mare di Behring, e riuscì pienamente. Del resto non è solamente l’olio che ha la proprietà di calmare le onde, poichè più tardi verificai che tutti i corpi galleggianti in massa compatta oppongono una grande resistenza alle disgregazioni delle particelle del liquido marino sotto l’azione delle raffiche. Infatti nella baia di Bristol, che si trova nell’America settentrionale, presso la penisola di Aliaska, mentre attraversavamo uno spazio di mare coperto da un numero infinito di ghiacci, vidi che le onde si frangevano furiosamente tutt’all’intorno, ma che l’acqua era tranquillissima sotto i ghiaccioli. All’ingiro si scatenava la bufera, ma dove eravamo noi la calma era completa. — Vi credo, poichè anch’io ho verificato un fatto quasi simile, — disse il capitano. — Attraversando un banco immenso di aringhe, trovai colà il mare perfettamente calmo, mentre al di là le onde s’alzavano a prodigiosa altezza. — L’isola che ci sta dinanzi, la conoscete bene? — chiese Anna al naufrago, mostrando la massa enorme che si distingueva a grande stento fra l’oscurità. — È Figi-Levù, non m’inganno, — rispose il marinaio. — È su quella terra che si trovano i vostri compagni? — Sì, miss. — Sapete dove essi sono? — Quando lasciai l’isola erano accampati presso una piccola baia sulle coste occidentali; ma so che stavano per lasciarla, essendo stati scoperti e minacciati dai selvaggi. — Dove saranno ora? — chiese il capitano. — Lo ignoro; ma li troveremo. — Ciò detto, il naufrago parve immergersi in profondi pensieri e non parlò più. Il capitano Hill e sua figlia abbandonarono la poppa e si portarono a prua, dove l’equipaggio si affaccendava a calare una terza àncora, quella così detta di speranza, che è la più grossa e che invece della catena porta una grossa gomena. Il mare tutto intorno alla nave si manteneva sempre calmo, ma al di là dello strato d’olio infuriava sempre, con tremendi muggiti, e producendo anche sotto lo strato una violenta oscillazione, di cui si risentiva anche la _Nuova Georgia_. La materia grassa che si vedeva scintillare al chiarore dei lampi a tre quarti di miglio sottovento e sopravvento, di quando in quando veniva respinta e scompaginata dalla furia dei marosi e del vento, ma subito si estendeva, opponendo una resistenza incredibile agli elementi scatenati. Finchè l’olio non veniva a mancare, vi era la speranza di salvar la nave; però il capitano e Asthor s’accorsero ben presto che le àncore, forse perchè il fondo doveva essere o poco resistente o troppo liscio, a poco a poco cedevano, lasciandosi trascinare verso l’isola degli antropofagi. — Brutta scoperta! — disse il capitano ad Anna. — Se le àncore non incontrano un fondo roccioso, fra due ore saremo a poche gomene dall’isola. — Eppure il mare è abbastanza tranquillo attorno a noi, — osservò la giovane miss. — Non è il mare che ci trascina, è il vento che investe la nostra nave, cacciandoci al sud-est. — Sono feroci gli abitanti di Figi-Levù? — Tanto feroci, che si divorano tra fratelli. Si dice che siano gli antropofagi più temibili di tutte le isole del Grande Oceano. Non vorrei che ci toccasse la sorte che toccò all’_Union_. — Cos’era questa _Union_? — Una bella e solida nave americana, appartenente al dipartimento marittimo di New York e montata da un numeroso equipaggio. Era partita in sul finire del 1799 diretta a Tonga-Tabù, un’isola grande, che dista di qua poche diecine di leghe, ma che ha una tristissima fama. Raggiunta l’isola, i selvaggi assalirono il vascello e uccisero il capitano e tre marinai. Stavano per impadronirsene, quando il sotto-capitano tagliò le funi che erano legate alle àncore, prendendo prontamente il largo. Gl’isolani che sono tanto ipocriti quanto feroci, finsero di mostrarsi pentiti e mandarono a dire all’ufficiale di tornare a Tonga per far la pace. Cadde nell’agguato e tornò ad approdare; ma accortosi a tempo che stavano tramando per impadronirsi del legno, prese definitivamente il largo. La sfortuna pesava però su quel vascello, poichè cinque giorni dopo naufragava su Figi-Levù e l’equipaggio veniva assalito e divorato da quei mostruosi amatori di carne umana. — E non furono capaci di difendersi quei disgraziati marinai? — I polinesiani sono coraggiosi e non temono le armi da fuoco. Quando un legno approda alle loro coste, nulla più li trattiene e montano all’abbordaggio con un’intrepidità che spaventa, e.... — Non proseguì. Si era bruscamente curvato sul bordo e guardava con profonda attenzione l’acqua che si sollevava in forma d’una grande onda, scuotendo la _Nuova Georgia_. — Abbiamo toccato! — esclamò. — Dove? — chiese Anna impallidendo. — Sul fondo. — Ti sarai ingannato. — In quel momento a prua si levò un clamore acuto. I marinai correvano da babordo a tribordo, guardando l’acqua e incrociando domande e risposte. — Siamo su di uno scoglio?... — Non vedo nulla. — Abbiamo urtato? — No! — Sì! — Ma la nave raschia sul fondo! — Gettate lo scandaglio! — gridò Asthor. — Presto, o sarà troppo tardi. — Il capitano Hill, in preda ad una viva emozione che si può ben comprendere, poichè la nave poteva da un istante all’altro arrenarsi, corse a prua seguito da Anna. — Abbiamo urtato? — domandò. — Lo temo, capitano, — rispose Asthor con voce alterata. — Quanti piedi d’acqua abbiamo? — Sette! — esclamò il marinaio che ritirava in quel momento lo scandaglio. — Gran Dio! — esclamò il capitano Hill. — Dov’è il naufrago? — Eccomi, signore, — rispose Bill facendosi innanzi. — Tu mi dicevi di conoscere questi luoghi. — Sissignore. — Ma abbiamo urtato. — Me ne sono accorto. — Abbiamo un banco sotto di noi o siamo sulle sabbie dell’isola. — Credo che vi sia un banco. — Ma lo ignoravi tu? — Voi sapete che i polipi cambiano sovente i dintorni delle isole del Grande Oceano. Un mese fa il fondo non si scorgeva; senza dubbio lo hanno inalzato quei microscopici fabbricatori di banchi e di scogliere. — Che ci sia acqua bastante al di là del banco? — Lo credo. — Riusciremo a raggiungerla? — Il naufrago crollò il capo più volte, poi disse con voce lenta e tranquilla: — Siamo nelle mani del destino. — Perduti? — chiese miss Anna, rabbrividendo. — Forse non ancora, — rispose il capitano Hill. — Non spaventarti, Anna, chè a bordo abbiamo mezzi sufficienti per rimettere in acqua la nave ed armi bastanti per respingere gli assalti degl’isolani, se questi cercheranno di montare all’abbordaggio. — Poi ridirizzando l’alta persona tuonò: — Spiegate la trinchettina e il fiocco e la vela di trinchetto! Asthor, al timone! — In pochi secondi quei diversi ordini vennero eseguiti. La _Nuova Georgia_ investita dal vento girò lentamente su sè stessa, cercando di riguadagnare il largo; ma diede indietro avvicinandosi alle spiagge di Figi-Levù. Un urlo immenso d’angoscia si levò fra l’equipaggio che ormai si credeva perduto e in procinto di naufragare sulla terra degli antropofagi. Le àncore stridevano e strisciavano sul fondo del banco, che pareva non offrisse più presa alle punte di ferro. A poppa si udì un urto dapprima leggiero, poi come uno strofinío alternato ad altri urti che diventavano sempre più forti, di mano in mano che la nave indietreggiava. — Un’àncora a poppa! — gridò il capitano Hill. — Presto, o siamo perduti. — A bordo non vi era che un ancorotto da pennello. Fu subito portato a poppa e calato precipitosamente in mare. Parve che avesse preso fondo buono, poichè la nave virò di bordo, volgendo la prua verso l’isola; ma fu cosa di poco momento, poichè anche quello strisciava sulla superficie liscia del banco. D’improvviso avvenne un urto violento, che fece tremare gli alberi e spezzare alcune sartie. La _Nuova Georgia_ sospinta dall’onda s’alzò, poi si abbassò toccando ancora, indi rimase immobile sbandata sul tribordo: si era arrenata! Quasi nell’istesso momento sotto le tenebrose foreste dell’isola si udirono degli spaventevoli clamori, che parevano di belve più che di gole umane. L’equipaggio intero rabbrividì, e perfino sulla fronte del naufrago, ordinariamente serena, si disegnò una profonda ruga. CAPITOLO NONO. L’arcipelago di Figii. L’arcipelago di Figii, che è anche chiamato di Viti, si estende fra il 16° e il 21° di longitudine sud e il 174° e il 179° di longitudine est. Si compone di dugentoventicinque isole, di cui ottanta o novanta sono abitate, la cui popolazione intera si calcola che superi di poco i 200,000 individui. Per grandezza e per numero di popolazione tiene il primo posto Figi-Levù o Viti-Levù, lunga novanta miglia e larga cinquanta, poi Vanùa che ne ha cento su venticinque e che nella forma somiglia a una pera: ha monti elevati, valli profonde, vegetazione ricchissima; Candabu lunga quaranta miglia e larga dieci, che al sud termina in un monte sottile ma altissimo; Ono che ha un circuito di cinquanta miglia; Tabe-Uni che ne ha quaranta; quindi tutte le altre hanno un circuito più limitato, anzi talune non sono che semplici brani di terra disabitati. Tutte queste isole sono rocce corallifere o vulcaniche, hanno picchi elevati, alcuni dei quali toccano perfino i cinquanta piedi; ma cosa davvero strana, presentano tutti forme coniche, sicchè da lontano si scambierebbero per tanti pani di zucchero. La loro feracità è incredibile e la loro bellezza è tale, che sembrerebbe di trovarsi dinanzi a un vero Eden anzichè su di una terra popolata da antropofagi. Gli abitanti tuttavia hanno un certo grado di civiltà, conseguito più pel contatto continuo coi vicini isolani di Tonga che di frequente irrompono su questo arcipelago per provvedersi di carne umana, che per proprio istinto. Vestono decentemente, portano turbanti in capo e grembiali che si fabbricano coi filamenti tessuti d’una specie di gelso; scavano grandi canotti nei tronchi dei più grossi alberi, costruiscono spaziose abitazioni, fabbricano stoviglie e coltivano con passione i loro fertilissimi campi. Malgrado però tanti perfezionamenti della loro razza, non rinunciano all’abbominevole costume di cibarsi di carne umana, e basta entrare nelle loro abitazioni per veder bollire entro grandi pentole dei pezzi di carne strappata non solo ai vinti nemici, ma talvolta ai loro stessi fratelli!.... Bellicosi quanto si può immaginare, poichè non temono affatto la morte ritenendo che questa non rappresenti che un cambiamento di vita, sono sempre in guerra fra di loro per rinnovare le provviste di carne umana e soprattutto con gli isolani di Tonga. Guai poi al vascello che va a naufragare sulle loro spiagge! Non danno quartiere a nessuno, e i disgraziati marinai che cadono nelle loro mani vanno a finire nelle grandi pentole o sulla punta d’uno spiedo gigantesco. Si può ora ben immaginare con quale angoscia l’equipaggio aveva veduto la _Nuova Georgia_ arrenarsi, sapendo quale sinistra fama avevano gli abitanti dell’isola. Fortunatamente però, la nave non si era spezzata e si poteva sperare ancora di rimetterla a galla. Il capitano Hill, passato il primo momento di terrore, era ritornato l’energico uomo di prima, risoluto a tutto e pronto a tutto. Assicuratosi che la _Nuova Georgia_, difesa dallo strato d’olio che frenava l’impeto delle onde, non correva almeno pel momento pericolo alcuno, comandò di trasportare a babordo tutti gli oggetti pesanti che si trovavano in coperta onde rialzarla un po’ e rendere meno facile una scalata dalla parte opposta; poi fece aprire l’armeria e trasportare sul ponte i fucili, le pistole, le sciabole d’abbordaggio, le scuri ed il piccolo cannone da segnali che venne caricato a mitraglia. Terminati i preparativi di difesa, chiamò il naufrago che in quel frattempo non aveva lasciato la prua, occupato, a quanto pareva, a studiare la costa dell’isola che cominciava a diventare visibile, avvicinandosi l’alba. — Al mio posto cosa faresti? — gli chiese. Il naufrago guardò il ponte della nave, guardò le onde che venivano a morire contro i bordi, corrugò due o tre volte la fronte, poi disse: — Aspetterei un’alta marea, poichè le maree ordinarie sono deboli nell’Oceano Pacifico. — Mi toccherà aspettare quattro giorni. — Quando avverrebbe questa grande marea? — Alla mezzanotte di sabato, e oggi è martedì. Credi che gettando delle ancore a poppa e alando al molinello la nave possa scagliarsi? — Non lo credo, poichè noi riposiamo su di un fondo roccioso. Se si trattasse d’un banco di sabbia la nave potrebbe scivolare; ma questi banchi sono tutti di natura vulcanica o corallifera e per lo più scabrosi. — In questo frattempo i selvaggi ci lasceranno tranquilli? — Avete udito poco fa le loro grida? Erano grida di guerra, e vedrete che appena il mare si sarà calmato, essi verranno sulle loro _canoe_. — E sia, ma troveranno pane pei loro denti. Conosco anch’io i selvaggi del Grande Oceano, e sono stato più volte da loro attaccato, ma ho sempre trionfato. — State in guardia, signore, poichè i Figiesi sono molto coraggiosi e molto astuti. Non verranno subito con intenzioni ostili; anzi cercheranno di acquistare prima la vostra fiducia per poter salire a bordo, vi faranno offerte di pace e anche vi manderanno dei viveri o dei regali, ma poi piomberanno addosso al vostro equipaggio a tradimento, e se non sarete pronto, stermineranno tutti noi. — Nessuno metterà piede sul ponte della mia nave, Bill, te l’assicuro. Ora occupiamoci dei tuoi compagni. Dove speri di trovarli? — Non ve lo saprei dire. Forse si trovano nell’interno dell’isola, riparati sui monti e forse nascosti in qualche baia. — Come faremo ad avvertirli del nostro arrivo? — Avete un cannoncino a bordo; fate sparare alcuni colpi. — Ci udranno? — Lo spero, signore. Se sono ancora vivi, comprenderanno che una nave ha approdato a queste coste, e si affretteranno a raggiungerci. Se non otterremo alcun risultato, interrogherò gli indigeni; e quando avremo rimesso la nave a galla, faremo il giro dell’isola sparando cannonate. — Ora attendiamo l’alba e poi agiremo, — disse il capitano. — Intanto prepareremo le difese per accogliere come si meritano quei mangiatori d’uomini. — La calma che regnava attorno alla nave, la quale incagliata come era non risentiva che una leggera ondulazione e solamente verso poppa essendo la prua arrenata, permetteva d’intraprendere qualunque lavoro di difesa. Il capitano Hill, che aveva sostenuto altri assalti da parte dei selvaggi, chiamò a raccolta i marinai e fece rizzare presso l’albero di trinchetto e presso l’albero di mezzana, cioè verso prua e verso poppa, due robuste trincee per poter difendere più facilmente la nave nel caso d’un abbordaggio e prendere gli assalitori fra due fuochi. Dietro quei ripari fece collocare tutte le armi e sul cassero fece piazzare il cannoncino dopo averlo caricato a mitraglia. Non contento, fece portare sul ponte due casse piene di bottiglie vuote che si dovevano spezzare e spargere per la coperta, onde i rottami lacerassero le piante dei piedi agli assalitori, i quali ignorano affatto l’uso delle calzature. Ciò fatto, attese tranquillamente l’alba. Di mano in mano che il cielo si rischiarava, il vento scemava di violenza e il mare si calmava. Le onde s’infrangevano sempre furiosamente attorno allo strato d’olio e attorno ai banchi, ma al largo si vedevano correre con minor velocità e non più elevarsi a grande altezza. Fra poche ore l’uragano doveva calmarsi del tutto, cosa che se da un lato era desiderata dal capitano che temeva per la sua nave quella continua ondulazione, dall’altro tornava svantaggiosa all’equipaggio, perchè i selvaggi non avrebbero mancato di approfittare della calma per mettere in mare le loro imbarcazioni. Alle cinque un fascio di raggi solari, passando fra uno strappo delle nubi, illuminò il mare e l’isola, la quale apparve tutta intera, coi suoi picchi elevati, colle sue foreste, colle sue valli verdeggianti e le sue baie. Fu con una certa emozione che l’equipaggio della nave arrenata scòrse, aggruppati confusamente sulla spiaggia più vicina, un centinaio di selvaggi armati di lance e di pesanti mazze. Quegli uomini erano di color nero per lo più, di statura alta e bene proporzionata, con una capigliatura folta e cresputa. Alcuni portavano turbanti adorni di conchiglie e di pezzetti di denti di balena, distintivo speciale dei capi o dei guerrieri famosi, tutti però avevano i fianchi stretti da una striscia di stoffa, le cui estremità ricadevano davanti. Dalla lunghezza di queste estremità si distinguono i personaggi più importanti, e si dice che solo i re ed i grandi capi abbiano il diritto di lasciarle cadere fino a terra. In mezzo a quel gruppo, il capitano distinse anche alcune donne, riconoscibili per la loro cintura adorna di frange, detta _lika_, che nelle ragazze misura appena venti centimetri di lunghezza, mentre nelle maritate scende fino al ginocchio. Parevano non meno eccitate degli uomini e tendevano i pugni verso la nave, pronunciando delle parole che il marinaio Bill asserì significare minacce orribili. Alcuni uomini muniti di frombole si spinsero fino sugli ultimi scogli e lanciarono alcuni ciottoli; ma essendo la nave lontana due gomene, caddero a mezza via. — Capitano, — disse il naufrago che pareva non meno inquieto degli altri, — fate sparare il cannone onde quei furfanti sappiano che abbiamo armi di voce potente. — L’armaiuolo di bordo ad un cenno del capitano salì sul cassero e diede fuoco al piccolo pezzo, scagliando un nembo di mitraglia sugli alberi della costa. A quella detonazione e più di tutto al fischio dei numerosi proiettili, gli isolani si calmarono come per incanto. Dapprima parvero sorpresi, quantunque dovessero conoscere da lunga pezza gli effetti delle armi da fuoco grosse e piccole, poi si videro gettare a terra le armi e alzare le mani facendo gesti che parevano amichevoli. — Canaglie, — borbottò il naufrago. Poi si alzò quanto era lungo, e parve che ascoltasse con viva attenzione. — Cosa ascoltate? — gli chiese miss Anna. Bill si volse verso di lei col viso alterato. — Non avete udito nulla? — le chiese con agitazione. — Le grida dei selvaggi e niente altro. — Io ho udito una lontana detonazione! — esclamò. — Non m’inganno io!... — Anch’io ho udito un lontano colpo di fucile, — disse Asthor. — Che siano i vostri compagni? — chiese il capitano. — Fate tonare un’altra volta il cannone, signore. — L’armaiuolo che aveva ricaricato il pezzo, lo scaricò contro le rupi dell’isola, le quali ripercossero la detonazione. Tutto l’equipaggio ammutolì e tese gli orecchi; ma nulla potè udire, poichè in quell’istesso momento si alzarono sulla spiaggia urla acute e si videro quasi tutti i selvaggi abbandonare le scogliere e scomparire sotto i boschi a tutta velocità. — Cosa succede? — chiese miss Anna al naufrago. Questi invece di rispondere si slanciò verso le griselle di babordo e si inerpicò sull’albero di maestra arrestandosi sulle crocette. Da quella posizione elevata, egli guardò a lungo la costa cercando senza dubbio d’indovinare la causa della fuga precipitosa dei selvaggi. — Vedete nulla? — gli chiese il capitano, dopo alcuni istanti di attesa. — No, signore, — rispose il naufrago. — I boschi m’impediscono di spingere lontano lo sguardo. — Vedete nessun canotto? — Nessuno, capitano. — Volete che faccia tuonare ancora il cannoncino? — Fatelo pure. — Per la terza volta il piccolo pezzo d’artiglieria scosse gli strati d’aria e destò l’eco delle scogliere, ma nessuna detonazione vi rispose. Il naufrago rimase sull’albero di maestra alcuni minuti, scrutando attentamente le spiagge dell’isola, poi discese mormorando: — Se sono perduti, sono perduto anch’io. — Fece un gesto di rabbia ed i suoi occhi s’accesero d’un lampo sinistro. Quando toccò il ponte aveva riacquistata la sua solita calma; sulla sua fronte però si scorgeva ancora una profonda ruga. — Ebbene? — gli chiese il capitano. — Non ho udito altre detonazioni. — Ma come spiegate la fuga dei selvaggi? — Forse qualche avvenimento è accaduto nell’isola e non vorrei.... — Che cosa? — Che questo avvenimento riguardasse i miei compagni. Ho un sinistro presentimento. — Temete che siano stati fatti prigionieri proprio ora che noi siamo qui? — Quel colpo di fucile isolato mi dà assai da pensare. — Ma noi li salveremo egualmente, — disse Anna con animazione. — Non lasceremo a nessun patto che i selvaggi divorino quei disgraziati. — Un canotto! — esclamò in quel momento un marinaio, additando la costa. Tutti gli sguardi si diressero verso il luogo indicato e videro una pesante canoa scavata nel tronco di un albero gigantesco, staccarsi dalla riva e dirigersi rapidamente verso la nave. Dodici selvaggi seminudi ma armati di pesanti mazze, remavano con un accordo perfetto, mentre a prua se ne stava ritto un uomo di alta statura, col turbante in capo e una folta barba dipinta in rosso. I marinai afferrarono i fucili e l’armaiuolo puntò il cannoncino, ma il naufrago con un gesto imperioso li trattenne. In pochi minuti l’imbarcazione attraversò lo strato d’olio e giunse sotto il tribordo della nave. Allora l’uomo col turbante, alzato il capo verso l’equipaggio, chiese nella sua lingua: — Cosa cercano gli stranieri? — Bill si curvò sul bordo e rispose nell’istesso idioma: — Cerchiamo gli uomini bianchi naufragati sulla tua isola tempo addietro e che si trovano nei boschi. — Il capo selvaggio lo guardò con due occhi che mandavano lampi feroci, poi scoppiò in una lunga risata. — Il re nostro sta per morire, — gridò, — e gli uomini che cercate gli faranno scorta d’onore nell’altra vita; ma noi mangeremo voi! — Ciò detto, la _canoa_ virò prontamente di bordo e si allontanò colla velocità di una freccia. In quel mentre, il naufrago fece un gesto di furore. CAPITOLO DECIMO. Un re sepolto vivo. Non esiste forse in tutto il mondo un popolo che abbia tanto poca paura della morte quanto il Figiano. Abbiamo già detto che per gli abitanti dell’arcipelago di Figii la morte non rappresenta che un puro cambiamento di vita, perchè nei loro animi è radicata fortemente la convinzione che una pronta risurrezione li attenda, appena lasciata questa terra; ma a quale punto arrivano! Quando un uomo crede di esser vissuto abbastanza nella sua isola, non trova cosa più naturale che di farsi strangolare da qualche fido amico, il quale si presta colla miglior buona grazia che immaginare si possa, a quel lugubre ufficio. Un uomo si sente ammalato? Si fa strangolare, non sembrandogli giusto di presentarsi al Grande Spirito affatto agonizzante o stremato di forze. Muore un bambino? La madre lo segue facendosi strangolare dal marito, perchè ritiene che il piccino possa avere ancora bisogno delle sue cure nell’altro mondo. Due amici carissimi non vogliono separarsi? Quando uno muore, l’altro si affretta a seguirlo facendosi uccidere!... Due amanti si adorano ma non possono sposarsi per differenza di casta? Pregano il padre od il suocero o chiunque altro di toglier loro la vita per unirsi nell’altro mondo, e quei bravi selvaggi non si fanno pregare due volte. Che più? Quando un padre è vecchio e pieno di acciacchi, i figli lo avvertono rispettosamente che ha vissuto anche troppo, che è giunta l’ora di lasciare questa terra di miserie, e sempre rispettosamente lo strangolano o lo fanno strangolare.[1] Quando il re è vecchio ed ammalato, la popolazione umilmente lo avverte che è tempo di lasciare il trono al figlio primogenito, e si prepara a fargli grandi funerali ed a festeggiare contemporaneamente il successore. Il povero despota di ieri, bene o male bisogna che si adatti al volere dei suoi fedelissimi sudditi e si lascia portare alla sepoltura, ma con questa differenza, che mentre gli altri vengono sotterrati morti, egli invece è sepolto, sì; ma sepolto ancor vivo!... Questo seppellimento di un uomo vivo, che potrebbe tuttavia campare un buon numero d’anni, si compie con cerimonie speciali, come si converrebbe a persona potente. La sposa principale che non può, con suo profondo rammarico, seguire il re nel grande viaggio, poichè gli usi della corte glielo vietano, dipinge il petto e le braccia del povero despota adoperando un color nero che si ottiene da una specie di noce chiamata _aluazzi_; poi gli annoda attorno alle gambe ed alle reni delle striscie di stoffa bianca detta masi, che si ricava dalle fibre filate di una specie di gelso, comunissimo in tutte le isole del Grande Oceano. Ciò fatto si trasporta con grande pompa il morto-vivo alla sepoltura; ma prima di calarlo nella fossa, vi si gettano dentro, già strangolati, due o tre dei più famosi guerrieri onde gli servano di scorta e facciano capire al Grande Spirito che ha da fare con un potente personaggio, e vi si gettano altresì parecchie donne, che sono destinate a servirlo nell’altra vita! Questi costumi, che non possono essere stati immaginati che dalle menti degli antropofagi, sembreranno strani, anzi addirittura inverosimili, tanto sono orribili, e si potrebbe credere che fossero stati inventati dalla fantasia degli scrittori o dei marinai, se i navigatori che visitarono più volte quell’arcipelago non li avessero constatati coi loro occhi. I missionari che in questi ultimi anni sbarcarono in quelle isole, tentarono ogni sforzo per mettere un freno a simili atrocità e in parte vi riuscirono; ma non è molto tempo che il reverendo Thomas William dovette assistere al seppellimento del re Somo-Somo, uno dei più valorosi selvaggi che regnava a Nasima e che fu trasportato al sepolcro ancor vivo, quantunque fosse gravemente ammalato, insieme con parecchie donne che erano state prima strangolate per tenergli compagnia nell’altra vita! Ed il missionario, atterrito e impotente, poichè tutti i suoi sforzi erano riusciti vani, affinchè quell’orribile funerale non si facesse, fu costretto a udire i colpi di tosse del vecchio re, mentre la terra lo aveva già ricoperto! La sinistra notizia portata dal selvaggio che montava la canoa, come è facile immaginare, produsse una impressione dolorosa in tutto l’equipaggio, poichè nessuno ignorava i feroci costumi di quegli spietati mangiatori di carne umana. I disgraziati naufraghi della nave inglese, che l’equipaggio sperava di trovare ancora liberi e di salvarli senza dover ricorrere alle armi, stavano per venire sacrificati per servire di scorta al moribondo re nel grande viaggio dà cui più non si torna, e d’altra parte la _Nuova Georgia_ stava per venire assalita senza avere la speranza di prendere il largo, dacchè l’uragano l’aveva spinta attraverso alle scogliere. Per alcuni istanti a bordo della nave regnò un profondo silenzio, tanta era stata l’impressione ricevuta da quelle brutte notizie; poi il capitano Hill che era un uomo di grande energia e risoluto, lo ruppe: — Non scoraggiamoci, — disse. — Siamo pochi, è vero, ma tutti valorosi e non nuovi ai pericoli; abbiamo armi, polvere e palle in abbondanza, e non dobbiamo temere quei brutti antropofagi. Orsù, Bill, cosa mi consigli di fare? — Il naufrago che guardava l’isola cogli occhi fiammeggianti, i pugni chiusi, il viso sconvolto da una collera furiosa, si volse come una fiera. Non era più l’istesso uomo di poche ore prima, freddo e tranquillo; era pallido e nel suo viso si leggeva un non so che di furore e di sinistro, da mettere paura. — Cosa vi consiglio di fare? — diss’egli con voce rauca. — Lo so io forse? — Tu conosci l’isola e gli isolani meglio di me, e puoi darmi dei preziosi consigli. Credi tu che si possano salvare i tuoi compagni? — Un lampo di gioia attraversò gli occhi di Bill. — Volete salvarli? — chiese, cambiando tono. — Se è possibile, sono pronto a tentarlo. — Possiamo farlo; ma dovremo ricorrere alla forza, signore, e dare battaglia ai selvaggi. — Hai un piano tu? — Forse, — rispose Bill, dopo alcuni istanti di meditazione. — Mettilo fuori. — La _Nuova Georgia_ per ora non correrà pericolo alcuno; di questo sono certo. Finchè non sarà finita la cerimonia del seppellimento, nessun selvaggio verrà ad inquietarci, perchè nessuno lascerà le feste che seguiranno l’inaugurazione del nuovo regno. Abbiamo quindi del tempo per agire senza temere un improvviso assalto.... — Proseguite, — disse miss Anna. — Ecco il mio piano: questa sera, dopo calato il sole, lasceremo la nave sotto la guardia di sei uomini risoluti e andremo a sbarcare in una piccola rada a me nota. Per un sentiero che non è conosciuto dai selvaggi, attraverseremo la foresta ed andremo ad appostarci in prossimità del grande villaggio abitato dal morente re. Quando la cerimonia funebre comincierà, piomberemo addosso all’orda, rapiremo i miei compagni e fuggiremo verso la rada. Se più tardi, rimessisi dalla sorpresa che certamente farà loro la nostra improvvisa comparsa, verranno ad assalirci sulla nave, preparerò io un’insidia che li terrà per sempre lontani. — Sta bene; noi tenteremo il colpo. — E non vi seguirò io? — chiese Anna. — È impossibile, figlia mia, — rispose il capitano. — So che tu sei coraggiosa e abile nel maneggio delle armi da fuoco, ma non potresti seguirci sotto i boschi, forse con i selvaggi alle spalle. Ti darò una buona guardia però, e Asthor non lascerà avvicinare il nemico, sta’ certa. — Farò quello che tu vorrai, padre mio. — Il mare frattanto si era calmato e la costa era deserta. Il capitano fece calare in acqua le due imbarcazioni maggiori, che armò con due spingarde caricate a mitraglia; vi unì un gran numero di fucili scelti fra i migliori, una buona provvista di polvere e di palle e alcune provvigioni, ignorando ancora quanto durerebbe la spedizione. Ciò fatto, il bravo capitano attese la notte per agire. Alle dieci di sera diede il comando d’imbarcarsi. Abbracciò Anna che era vivamente commossa per quella separazione la quale poteva riuscire fatale all’uno e all’altro, raccomandò al vecchio Asthor e ai sei marinai di fare buona guardia, poi scese nella imbarcazione. I tredici marinai destinati a prendere parte all’ardito colpo di mano, avevano già preso posto nelle scialuppe portando con loro altre armi e non attendevano che un segnale per dar mano ai remi. — Veglia, Asthor, — disse il capitano, prima di prendere il largo. — Ti affido mia figlia che è il tesoro più caro che abbia sulla terra. — Mi farò uccidere se sarà necessario, ma la ritroverete viva, signore, — rispose il lupo di mare. Il capitano fece un ultimo saluto ad Anna che stava ritta sulla murata, poi comandò di prendere il largo. Le due scialuppe, facendo meno rumore che era possibile e protette dalle tenebre, si allontanarono girando attorno alle scogliere e misero la prua verso il sud. Il naufrago che si era messo al timone della maggiore, segnava la via additando ai remiganti i bassifondi e le scogliere, onde non dessero in secco. Di quando in quando però li faceva arrestare e con quei suoi occhi, che anche di notte luccicavano come quelli dei gatti, scrutava con cura minuziosa le sponde dell’isola per assicurarsi che nessuno gli spiava. Dopo una buona mezz’ora Bill spinse la sua scialuppa verso la costa e superato un banco, sopra cui rompevasi il mare con una certa violenza, la fece entrare in una piccola baia assai ristretta, circondata da una fitta foresta di banani (_ficus indica_), alberi di proporzioni colossali, con tronchi formati di grossi fusti intrecciati, che riuniti misurano quasi trenta metri di circonferenza e una massa enorme di fogliame capace di proteggere, colla sua ombra, quattrocento persone e più. — Fermi, — mormorò il naufrago. I remiganti si arrestarono a dieci o dodici metri dalla riva, e non sapendo di che cosa trattavasi, raccolsero i fucili armandoli. — Cosa succede? — chiese il capitano Hill che giungeva colla seconda scialuppa. — Ascoltate! — Tutti fecero silenzio, e stettero in ascolto, rattenendo perfino il respiro. In lontananza si udivano echeggiare i selvaggi clamori a cui si univano talvolta dei suoni strani che parevano prodotti con delle conche marine. Il capitano Hill impallidì e provò una stretta al cuore. — Che assaltino il mio legno? — chiese. — No, — disse Bill. — Queste grida non vengono dalla parte del mare ma dalla parte del grande villaggio. O Vavanuho è morto o qualche grave avvenimento è accaduto. — Chi è questo Vavanuho? — È il re che devono seppellire. — Sbarchiamo. — Le due scialuppe si accostarono alla spiaggia e si arrenarono su di un banco di sabbia. I quindici uomini armatisi dei fucili, delle pistole e dello sciabole d’abbordaggio, sbarcarono ai piedi dei grandi fichi banani, le cui radici venivano a lambire l’acqua della piccola baia. Bill fece gettare sulle scialuppe una grande quantità di rami e di foglie onde non venissero scoperte, poi messosi alla testa del drappello, s’inoltrò sotto la fitta ombra proiettata dai giganteschi alberi. Avevano percorso appena sei o sette passi, quando Bill si arrestò bruscamente afferrando il fucile. — Cosa avete veduto? — chiese il capitano Hill. — Un’ombra ha attraversato il sentiero. — To’! — esclamò in quell’istante una voce. — Bill qui! Sogno o i cannibali mi hanno accoppato? — CAPITOLO DECIMOPRIMO. I compagni di Bill. Un uomo si era alzato dietro al cespuglio, e dopo quella esclamazione si era avanzato verso il drappello, fermandosi però di tratto in tratto per stropicciarsi energicamente gli occhi, come se avesse timore di vederci male. Ma quale uomo! Era alto, magro come se fosse digiuno da tre settimane, sparuto, livido. Una barba prolissa, rossiccia, gli pendeva dal mento e una lunga capigliatura arruffata come una matassa gli cadeva sugli omeri, i quali lasciavano vedere le ossa, tanto erano secchi. Pochi brandelli di stoffa, che ricordavano vagamente le forme di una casacca e d’un paio di calzoni sfondati, coprivano quel corpo ischeletrito e coperto di contusioni. — Ma sei proprio tu Bill? — ripetè quel disgraziato. — Mac Bjorn! — esclamò il naufrago. — In quale stato mai ti trovo!... — Un po’ magro, non dico di no, ma vivo ancora a dispetto di quella canaglia di antropofagi che mi volevano morto. Ma.... non sei solo tu, a quanto pare. — Ringrazia innanzi tutto questo signore, il capitano Hill comandante la _Nuova Georgia_, che è qui appositamente venuto per salvar voi tutti. — L’uomo magro s’inchinò facendo scricchiolare tutte le ossa del dorso, e disse: — Vi ringrazio, signore, a nome di tutti i miei compagni, i quali saranno ben lieti di vedervi, ve lo assicuro, se li troverete ancora vivi. — Perchè se li ritroverò vivi? — chiese il capitano, dopo d’aver restituito il saluto. — Se non vi affrettate, bisognerà cercarli nella fossa del re. By-god! Hanno fretta quei buoni selvaggi! — Sono prigionieri? — chiese Bill. — Tutti. — Ma tu perchè sei libero? — Eh! eh! — esclamò il naufrago ridendo. — M’avevano legato che parevo un salame; ma sono così magro, che riuscii a sgusciare fra i cordami e darmela a gambe. — E vi hanno inseguito? — chiese il capitano. — Sì, ma ho le gambe lunghe e il corpo leggiero, e presto potei guadagnare il bosco. — Quando sei fuggito? — domandò Bill. — Poco fa. — Quelle grida adunque che abbiamo udite?.... — Erano di rabbia. Gli antropofagi s’accorsero della mia fuga quando ero lontano, e hanno dato l’allarme; ma ora me ne infischio di quei bricconi. E.... dov’è Sangor che non lo vedo? Tu eri partito coll’indiano. — È morto, — rispose Bill facendo un gesto di stizza. — Sono vivi tutti gli altri? — Sì, vivi, ma in cattivo stato, magri come bastoni e tanto deboli, da non poter quasi stare in piedi, perchè sono due giorni che non mangiano. Pare che i selvaggi vogliano mandarli all’altro mondo cogli intestini leggieri e una gran dose d’appetito. Cosa vuoi? costumi da antropofagi! — Vi sentite in grado di condurci fino al villaggio? — gli chiese il capitano. — Lo spero, purchè mi sia dato un biscotto da sgretolare e un sorso di _gin_ o di _brandy_. — Un marinaio gli offrì la propria fiaschetta mentre un altro gli riempiva di biscotti le tasche della sbrindellata giacca e un terzo gli dava una scatola di pesce in conserva. Il naufrago prese avidamente la fiaschetta e in tre lunghe sorsate la vuotò. — Eccellente, in fede mia, questo _wisky_, — disse facendo scoppiettare la lingua. — Andiamo ora, o sarà troppo tardi; ma silenzio assoluto ed aprite per bene gli occhi. — Impugnò colla destra una sciabola d’abbordaggio datagli da un marinaio e colla sinistra una pistola offertagli da un altro; e raccolti i lembi della sua giacca, quel corpo lungo lungo, le cui ossa scricchiolavano ad ogni passo, si mise in cammino fiancheggiato da Bill, il quale gli sussurrava, agli orecchi, delle parole che il capitano non riusciva a comprendere, quantunque si trovasse due passi più indietro. Chiedeva degli schiarimenti o si trattava di qualche cosa di più grave? Mac Bjorn, l’uomo-scheletro, non rispondeva, ma si vedeva muovere spesso il capo, come se approvasse ciò che gli veniva chiesto o detto: chi però l’avesse osservato meglio e di fronte, anzichè di dietro, avrebbe veduto quei piccoli occhi affondati nelle magre occhiaie mandare strani bagliori, e su quelle aride labbra apparire di tratto in tratto un sarcastico sorriso. Camminando con precauzione, con gli orecchi sempre tesi e gli occhi bene aperti, la piccola colonna giungeva dopo un’ora in uno spazio aperto fra gli alberi. Mac Bjorn con un gesto fece fermare i marinai che lo seguivano. Si curvò verso terra per raccogliere meglio i rumori, fiutò a più riprese l’aria come un cane fiuta la selvaggina, poi volgendosi verso il capitano che non perdeva di vista alcuno dei suoi gesti: — Siamo presso il villaggio, — disse. — Superata questa boscaglia, ci troveremo dietro le ultime capanne. — Dove si trovano i nostri compagni? — gli chiese Bill. — In una capanna accanto a quella reale, — rispose Mac Bjorn. — Guardata da molti guerrieri? — Sì; da una ventina, e armati di lancie e di pesanti mazze. — Se irrompessimo questa notte nel villaggio, credete che si potrebbero liberare? — domandò il capitano. — Non lo credo, perchè la capanna è forte, i nostri compagni solidamente legati e prima di giungere presso di loro i cannibali li accopperanno. È meglio attendere il momento in cui comincerà la cerimonia funebre, poichè allora la popolazione sarà inerme. Il nostro improvviso assalto cagionerà un pànico generale, le donne e i ragazzi faranno una grande confusione, e noi ne approfitteremo per disperdere quelle canaglie e liberare i prigionieri. Seguitemi! — Mac Bjorn che conosceva la via meglio di Bill, si mise alla testa del drappello e s’avviò verso il nord con mille precauzioni, evitando di fare scricchiolare i rami degli alberi, e fermandosi di tratto in tratto per ascoltare se la foresta era silenziosa. Dopo cinquecento passi abbandonava la foresta dei banani e s’addentrava in un’altra più fitta formata da superbi artocarpi, alberi che danno frutte grosse, di corteccia rugosa, contenenti una polpa giallastra e che cucinata serve da pane. Infatti, tali piante vengono appunto chiamate anche alberi del pane, quantunque la polpa di quelle frutta somigli più al fondo del carciofo che alla farina. Mac Bjorn l’attraversò, strisciando fra le liane che correvano fra i tronchi, formando una rete arruffata, e si arrestò dinanzi a un gruppo gigantesco di fitti cespugli. — Guardate laggiù, attraverso ai rami, — disse volgendosi verso il capitano. Hill s’alzò, scostò alcuni rami per meglio vedere e scorse, a circa dugento metri, una doppia fila di capanne le cui forme rammentavano gli alveari delle api, ma ampie e difese qua e là da palizzate. Numerosi fuochi ardevano lungo il grande viale che divideva le abitazioni, e al chiarore di quelle fiamme vide parecchi gruppi di selvaggi i quali bivaccavano all’aperto tenendo in pugno le loro lancie con la punta di osso o di ferro, e le loro pesanti mazze chiamate molto opportunamente rompiteste. Aguzzando meglio lo sguardo, il capitano scorse un po’ più oltre una grande capanna, sulla cui cima ondeggiavano degli stracci e dei rami d’albero, e attorno alla quale si affollavano moltissime persone movendosi con una certa animazione. — È la capanna reale, — gli sussurrò agli orecchi Mac Bjorn. — È morto il re? — Ieri mattina era ancora vivo e non mi parve tanto ammalato da far temere prossima la sua fine. Io scommetterei anzi, che se lo lasciassero in vita, camperebbe ancora un discreto numero d’anni. — È contento di farsi seppellire? — Non mi parve sconcertato; anzi, incoraggiava suo figlio che si strappava i capelli per la disperazione. — Il suo erede? — Precisamente. — E perchè quel caro figlio non impedisce il seppellimento? — Perchè dice che è meglio essere re che figlio di re, e che suo padre ha vissuto fin troppo. — Che razza di furfanti! — Costumi da antropofagi, signore, — disse Mac Bjorn, senza manifestare il menomo orrore. — Oh! ecco che comincia ad albeggiare. — Infatti verso oriente una luce scialba si vedeva apparire, e gli astri a poco a poco impallidivano. Fra pochi minuti il sole doveva splendere, poichè in quelle latitudini si può dire che non vi è nè tramonto, nè alba. Scomparso il sole, la notte cala bruscamente, e viceversa. Ad un tratto si udirono echeggiare pel villaggio le conche marine e si videro uscire dalle capanne uomini, donne e ragazzi in gran numero, indossanti gonnellini affatto nuovi, file di denti di pescicani e di pezzi di ossi di balena. Attorno alla capanna reale s’alzarono acute grida, in mezzo alle quali si distinguevano delle urla strazianti. — Sono le spose del re che piangono, — disse Mac Bjorn. — Quelle brutte streghe si disperano perchè tutte non possono venire sepolte, mentre i nostri compagni fremeranno pensando che dovranno accompagnare nel gran viaggio quell’ubriacone di Vavanuho. — Speriamo di salvarli, — disse il capitano. — Tenetevi pronti a tutto: quando darò il comando, scaricate i fucili nel più fitto dell’orda, poi carichiamola colle sciabole e colle pistole. — Era ormai giorno fatto; il sole comparso sopra i grandi picchi che dividevano l’isola, faceva cadere una pioggia d’oro sui boschi e sulle capanne del villaggio. La folla cresceva di minuto in minuto; si vedeva accorrere dalle vicine foreste che nascondevano altri villaggi, dalla parte del mare, dalla parte dei monti, e si accalcava attorno alla dimora reale dove una compagnia di sonatori faceva echeggiare furiosamente le conche marine. D’improvviso si fece un grande silenzio: i guerrieri si ordinarono rapidamente formando una lunga colonna che si distaccò dalla grande capanna, dirigendosi verso il bosco occupato dall’equipaggio della _Nuova Georgia_. Dietro di loro comparve il vecchio re, portato su di una specie di palanchino sorretto dai più famosi guerrieri della tribù, adorni di numerose collane e colle membra tatuate. Il povero despota era vestito in gran gala. Aveva le braccia e le gambe fasciate da lunghe striscie di quella tela detta _masi_, il petto dipinto di nero colla tintura di _aluazzi_, il capo coperto da un fazzoletto rosso sormontato da uno strano diadema formato di conchiglie e aveva al collo numerose collane di pezzi di fanoni di balena. Poteva avere sessant’anni, ma l’abuso delle bevande alcooliche e qualche lunga malattia lo avevano invecchiato assai. Malgrado sapesse la sorte che lo attendeva, pareva contento e sorrideva amabilmente alla prima moglie che lo sventolava con un ventaglio di foglie di cocco. Mac Bjorn e Bill, che aguzzavano gli occhi, distinsero dietro al vecchio re, ma circondati dalla popolazione, i loro sei compagni, solidamente legati, stracciati, scheletriti, tutti pesti dalle percosse che piovevano abbondanti sulle loro spalle ogni volta che si fermavano. Accanto a loro camminavano dieci ragazze, vestite a festa, anch’esse legate, destinate a venire uccise per tenere compagnia al loro sovrano nell’altra vita; ma non avevano il volto sparuto e sconvolto dei disgraziati naufraghi, anzi parevano felicissime di essere state scelte a tale ufficio onorifico. — Eccoli! — esclamò Bill, che era diventato pallidissimo, nello scorgere i suoi compagni. — Li vedo, — rispose il capitano, che non potè frenare un gesto di compassione. — In quale stato sono stati ridotti! Ma pagheranno il conto, quei feroci mangiatori di carne umana. — S’alzò e puntò il fucile esclamando: — Siate pronti! — I marinai armarono i fucili mirando nel più fitto dell’orda selvaggia. — Fuoco! — tuonò il capitano. Tredici colpi di fucile rimbombarono, formando una sola detonazione. CAPITOLO DECIMOSECONDO. L’assalto degli antropofagi. A quell’improvvisa scarica che aveva gettato a terra una dozzina di persone, le quali si contorcevano nella polvere mettendo urla strazianti, una confusione indicibile si manifestò fra l’orda dei cannibali. Gli uomini, le donne, i ragazzi ed i guerrieri stessi che circondavano il palanchino, colpiti da un pazzo terrore, non sapendo ancora a che cosa attribuire quella detonazione, fuggirono in tutte le direzioni gettando grida acute, abbandonando il vecchio re che era rotolato sconciamente in terra, i sei prigionieri, e le dieci donne destinate alla morte. Il capitano Hill balzò innanzi colla sciabola d’abbordaggio nella destra e una pistola nella sinistra, gridando: — Avanti, marinai! — Bill, Mac Bjorn ed i marinai della _Nuova Georgia_ superarono in un batter d’occhio la macchia e si slanciarono verso il villaggio urlando a pieni polmoni, per accrescere il terrore e la confusione. Alcuni guerrieri vedendoli correre verso il re e credendo forse che volessero ucciderlo per poi mangiarlo, tornarono indietro agitando furiosamente le loro pesanti mazze; ma una scarica di pistole bastò per metterli in fuga. Tre o quattro di loro però, colpiti dalle palle, stramazzarono a terra. Il capitano Hill, Mac Bjorn e Bill circondarono i prigionieri bianchi che parevano istupiditi per quell’inaspettato soccorso, tagliarono con pochi colpi di coltello i loro legami e li spinsero verso la foresta gridando: — Presto, fuggite, o sarà troppo tardi! — I marinai vedendo accorrere da tutte le parti la popolazione, resa furiosa da quell’attacco micidiale e per la fuga dei prigionieri, fecero un’ultima scarica, poi si misero a lavorare di gambe dietro ai fuggiaschi. Raggiunta la boscaglia, si cacciarono in mezzo alle piante cercando di far perdere le loro tracce, e presero la rincorsa verso il mare, ricaricando le armi. Alle loro orecchie echeggiavano sempre le urla feroci dell’intera tribù, che si era precipitata dietro alle vittime e ai rapitori. — Presto, presto, — ripeteva il capitano che temeva di vedersi tagliare la ritirata verso il mare. — Corri Mac Doil, uno sforzo ancora Kingston, allunga le gambe O’ Donnell, — diceva Bill spingendo innanzi i suoi antichi camerati. — Forza Brown, saldo in gambe Dikens e tu, Welker, bada di non incespicare. — Quei poveri diavoli che una lunga serie di patimenti e un digiuno forzato avevano ridotti pelle ed ossa e del tutto sfiniti, correvano facendo sforzi disperati, aiutandosi con salti smisurati, sbuffando e barcollando. Le grida via via più acute dei selvaggi che pareva si avvicinassero sempre più, bastavano ad animarli, sapendo che se questa volta erano sfuggiti alla, tomba, la seconda non avrebbero evitato lo spiedo. A dugento passi dalla sponda, due di quei disgraziati, caddero sfiniti; ma i marinai che venivano dietro correndo in gruppo serrato li raccolsero e con un ultimo sforzo li trasportarono fino alla baia. Le due scialuppe erano ancora lì. I marinai gettarono nell’acqua le foglie ed i rami che le coprivano, le spinsero giù dal banco e s’imbarcarono. — Al largo! — tuonò il capitano Hill, quando vide che tutti erano a bordo. Le scialuppe s’allontanarono rapidamente, dirigendosi verso l’uscita della piccola baia. Alcuni selvaggi, i più agili, giungevano allora sulle rive. Vedendo fuggire la preda, alzarono furiosi clamori e si misero a tempestare le due imbarcazioni con una grandine di frombole; ma il capitano che non li perdeva mai d’occhio, abbattè con una palla il più ardito della banda. Gli altri, veduta la mala parata, tornarono ad imboscarsi, ma si misero a correre lungo le rive, sempre urlando e minacciando. Le due scialuppe spinte dai remi vigorosamente manovrati, in pochi istanti uscirono in mare e si diressero verso la _Nuova Georgia_, la cui massa spiccava nettamente sul luminoso orizzonte. — Dio sia ringraziato! — esclamò il capitano, quando rivide la sua nave. — Ora non temo più questi selvaggi. — Poi si volse verso i prigionieri che si erano lasciati cadere nel fondo della scialuppa, esausti di forze. Erano sei veri scheletri che potevano degnamente stare in compagnia con Mac Bjorn; magri allampanati, smunti, laceri e coperti di contusioni. Si leggeva sui loro volti una serie d’inenarrabili patimenti e di miserie. Erano quasi tutti sulla quarantina, coi capelli biondi che rivelavano la razza anglosassone; ma cosa davvero strana, avevano certe faccie che non ispiravano alcuna fiducia, certi occhi che mandavano cupi lampi e che avevano un non so che di falso e di bestiale. Particolare poco confortante: tutti portavano ai polsi e alle caviglie dei piedi profonde lividure, come quelle che si vedevano sulle membra del naufrago Bill. Il capitano però non ne fece troppo caso, e credette che quelle lividure fossero state prodotte dalle corde dei selvaggi. Alle otto della mattina le due scialuppe giungono presso le scogliere che tenevano prigioniera la _Nuova Georgia_. Anna, Asthor ed i marinai di guardia salutarono con grida di gioia il ritorno della spedizione. Il capitano Hill, salito il primo sul ponte, strinse più volte fra le braccia la coraggiosa giovanetta che non aveva avuto paura di rimanere quasi sola sul vascello, colle orde antropofaghe tanto vicine. — Non sei ferito, padre mio? — chiese ella. — Ritorno incolume, e come me sono tornati pure tutti gli altri. — Li avete salvati tutti? — Tutti, Anna; ma quei poveri uomini sono ridotti in uno stato da far paura. — Infelici! — esclamò la giovanetta, che si era curvata sul bordo. — Sembrano scheletri! — Presto, portateli in coperta e passateli nell’infermeria, — disse il capitano. Mac Bjorn ed i suoi compagni, che non erano più capaci di rimanere ritti nè di fare un passo, furono portati a braccia sul ponte e fatti scendere sotto coperta, in un riparto della corsìa, dove si trovavano alcune brande pei feriti. Asthor s’incaricò della loro cura, la quale, del resto, non doveva essere nè lunga nè difficile, trattandosi solamente di gente sfinita pei lunghi patimenti, ma di complessione ancora solida e che doveva ringargliardirsi presto con pasti sostanziosi e bottiglie di vin generoso. Il capitano avrebbe voluto incaricarsene lui; ma in quel momento la sua presenza era più che necessaria sul ponte, poichè la _Nuova Georgia_ stava per correre un secondo e più tremendo pericolo. La spiaggia, fin dove giungeva lo sguardo, erasi rapidamente coperta di una moltitudine di antropofagi resi furiosi per lo smacco subito e per la perdita dei prigionieri. Di là lanciava orribili imprecazioni contro gli stranieri, gli sfidava con urla che nulla avevano di umano, li minacciavano agitando in modo convulso le pesanti mazze, le lunghe lancie e le frombole. Pareva che di momento in momento, tutta quella gente dovesse precipitarsi in mare per muovere all’abbordaggio della _Nuova Georgia_. — È un esercito, — disse il capitano, sulla cui fronte passava e ripassava una profonda ruga. — Se tutta quella popolazione ci assalta, per noi non so come andrà a terminare. — — Prevedo un impetuoso assalto, — disse Bill che pareva più inquieto di tutti. — Oh! se questa nave non si fosse incagliata!... — — Fortunatamente siamo pronti a riceverli e abbiamo rinforzato il numero dei difensori. Sono coraggiosi senza dubbio i vostri compagni. — Non solo coraggiosi, ma anche valenti tiratori, — disse Bill con un certo orgoglio. — Oh! oh! ecco dei canotti! — Il capitano, Anna e i marinai che stavano loro attorno, volsero gli sguardi verso l’isola e scorsero, non senza una certa emozione, una ventina di grandi _canoe_ venire dalle coste settentrionali a tutta velocità. Il capitano Hill ridirizzò l’alta statura e tuonò: — Ognuno al posto di combattimento!... — Poi, volgendosi verso Anna che era diventata pallida, ma che affettava ancora una grande calma: — Figlia mia, — le disse con voce un po’ commossa, — ritirati nella tua cabina, poichè fra poco qui pioveranno le lancie e le frombole dei cannibali. — — Ma se tu affronti la morte, voglio affrontarla anch’io al tuo fianco, — rispose la giovanetta. — Non tremo, padre mio, e tu sai che so adoperare il fucile come i tuoi migliori marinai. — Lo so, ma combatterei male sapendoti esposta ai proiettili di quei bruti. Se avremo bisogno d’un fucile di più, ti prometto di farti salire in coperta. — La baciò in fronte e la condusse nel quadro di poppa chiudendola nella cabina. Quando risalì sul ponte, i selvaggi stavano imbarcandosi nelle _canoe_ mandando urla feroci ed agitando le armi. I suoi marinai disposti lungo le murate, o appollaiati sulle coffe degli alberi, o celati dietro alle funi ammassate sul castello di prua o sul cassero, attendevano intrepidi l’attacco coi fucili in mano e le scuri e le sciabole di arrembaggio alla cintola. Anche i naufraghi, malgrado la loro estrema debolezza, avevano lasciato le brande dell’infermeria, pronti a combattere fino all’ultimo sospiro. — A noi, feroci antropofagi! — esclamò il capitano. — Ehi, Asthor, fa’ spiegare la bandiera americana sul picco della randa, e tu, armaiuolo, fa’ piazzare le spingarde e il cannoncino sul castello di prua! — Era tempo! I venti grandi canotti, imbarcati oltre dugento guerrieri armati di lancie, di mazze e di frombole, avevano lasciata la costa e arrancavano a tutta lena correndo addosso alla _Nuova Georgia_, che, arrenata come era, non poteva in modo alcuno sfuggire l’abbordaggio. Gli altri selvaggi che erano rimasti a terra per mancanza di posto, incoraggiavano i compagni con urla che salivano al cielo e che facevano gelare il sangue. Parevano impazienti di prender parte anche loro alla pugna. Erano più di mille, ed a ogni istante altri ne giungevano dalle boscaglie, assieme a numerosi capi distinguibili pei loro turbanti. I venti canotti a mezza via si diressero in due colonne per assaltare il disgraziato legno da ambe le parti, cioè a babordo e a tribordo. Il capitano Hill, che anche in quel terribile frangente conservava una calma ammirabile, e che non perdeva d’occhio la flottiglia assalitrice, divise i difensori della _Nuova Georgia_ in due gruppi affidando il comando di uno di questi ad Asthor, vecchio marinaio che aveva più volte combattuto contro i selvaggi. A trecento metri l’armaiuolo aperse il fuoco col cannoncino, facendo piovere sulle orde assalitrici una vera tempesta di mitraglia; ma quantunque parecchi figiani cadessero fulminati o gravemente feriti, i canotti continuarono la corsa. — Orsù, miei prodi, — gridò il capitano. — Fuoco a volontà!... — A quel comando venti lampi balenarono sul ponte della nave arrenata, seguiti dalle acute detonazioni delle due spingarde, le quali lanciavano palle del peso di mezza libbra. Urla indescrivibili, urla di furore e di dolore, s’alzarono fra gli assalitori. Quindici o venti di loro caddero nel fondo delle imbarcazioni che furono arrossate di sangue, e parecchi altri precipitarono in mare, ma l’assalto non venne arrestato. In meno che non si dice, i venti grandi canotti si trovarono sotto i bordi del vascello, e quei diavoli color marrone o bronzo lucente, si slanciarono all’abbordaggio, gli uni salendo sulle spalle degli altri per giungere alle murate, e aggrappandosi alle bancazze, alle sartíe, agli sportelli delle cabine, alla rete della delfiniera e ai cavi pendenti dell’albero di bompresso, empiendo l’aria di clamori feroci e menando disperatamente le armi. Il capitano Hill, i naufraghi, Asthor ed i marinai lottavano coll’energia della disperazione, sparavano le pistole, menavano le scuri e le sciabole d’arrembaggio; si difendevano coi calci dei fucili e colle pesanti aspe dell’argano, ma era fatica sprecata. Cadevano dieci selvaggi colla testa fracassata, e colle membra tronche od il petto squarciato; ma altri dieci, altri venti, altri cinquanta erano pronti a sostituirli e s’inerpicavano sui fianchi della nave come una legione di demonii, sfidando intrepidamente la morte, decisi a tutto pur di riavere i loro prigionieri e di guadagnarsi l’arrosto di carne umana. Il capitano Hill, a rischio di ammazzare i propri marinai, aveva fatto volgere il cannoncino e le spingarde verso il ponte onde fulminare gli assalitori lungo i bordi della nave; Asthor aveva fatto spezzare delle casse di bottiglie e disperdere i rottami presso le murate, ma i cannibali salivano sempre a dispetto della mitraglia e si slanciavano in mezzo ai vetri infranti senza badare alle orribili lacerature che si producevano ai piedi. Ormai la battaglia pareva definitivamente perduta, quando in mezzo alle grida dei vincitori, alle urla dei marinai ed alle detonazioni si udì una voce gridare: — Tutti sugli alberi!... capitano Hill, barricatevi nella cabina di miss Anna!... La nave è salva! — Poi Bill, il capo naufrago dai sinistri disegni si slanciò in mezzo al ponte e sparve nel ventre del vascello, dove in fondo, spaventate da quell’orribile frastuono, mugolavano le tigri. CAPITOLO DECIMOTERZO. Il domatore di tigri. La vittoria dei cannibali era completa. Quell’attacco furioso ed irresistibile, le loro lancie, le loro pesanti mazze e il loro numero quasi venti volte superiore a quello dei difensori, avevano trionfato sul coraggio e sulle armi da fuoco degli uomini bianchi. I marinai, dopo aver fatto prodigii di valore e di aver perduto sei compagni caduti nel più folto della mischia, impotenti ormai a far argine all’irrompente furia dei nemici e sul punto di venire circondati e tagliati a pezzi, al comando dato da Bill si erano affrettati a porsi in salvo sugli alberi, asilo più facile a difendersi, mentre il capitano Hill, dopo di essersi aperto il varco fra gli assalitori a colpi di sciabola, si era precipitosamente ritirato nella cabina di Anna chiudendo e assicurando il boccaporto per impedire, od almeno ritardare, la discesa degli antropofagi nel quadro di poppa. I vincitori, quantunque ridotti a un terzo, poichè un gran numero di loro giacevano sul ponte contorcendosi fra rivi di sangue e altri galleggiavano attorno ai canotti, celebrarono la loro vittoria con tre urli potenti ai quali risposero i guerrieri affollati sulla spiaggia. Era l’annuncio che il vascello era stato vinto e l’arrosto di carne umana guadagnato!... Però l’arrosto doveva essere ancora lontano, poichè i marinai salvatisi sulle antenne, sulle coffe e sulle crocette tenevano tuttora le loro armi, e risposero alle grida di vittoria con due scariche micidiali che gettarono a terra parecchi altri assalitori. I cannibali non si spaventarono per questo e diedero furiosamente l’attacco all’alberatura tentando di salire sulle griselle e sui paterazzi; ma la partita non era eguale, e molto sangue doveva loro costare prima di snidare i difensori. Ogni uomo che cercava di salire stramazzava sul ponte con una palla nel corpo, e nel cadere si spezzava le gambe o le braccia, o si spaccava il cranio. Ben comprendendo che non sarebbero mai riusciti a raggiungere i difensori finchè a questi duravano le palle e la polvere, cambiarono tattica e assalirono gli alberi colle scuri trovate sul ponte. Tagliati gli alberi, dovevano per conseguenza cadere anche i marinai: non era che questione di pochi minuti, forse d’un quarto d’ora. Già, i marinai si ritenevano per perduti, quando si udì ancora la voce di Bill che saliva dalle nere profondità della stiva: — Su, su, tigre! — gridava egli sghignazzando. — Avanti, agnellina mia! Lassù vi è un buon pasto da fare! — Un istante dopo una tigre enorme, la più grande delle dodici che si trovano chiuse nelle gabbie, si slanciava fuori dal boccaporto maestro, piombando in mezzo ai selvaggi esterrefatti. Parve dapprima sorpresa di trovarsi in così numerosa compagnia; poi, aizzata dall’odore del sangue che bagnava la coperta della nave e obbedendo ai suoi istinti feroci, si scagliò contro gli assalitori mandando un potente ruggito. Con due colpi d’artiglio atterrò due uomini, poi si slanciò contro gli altri facendo balzi di quindici piedi. Vedendo quell’animale così feroce e così forte, i selvaggi, che ignoravano a quale razza appartenesse, non avendone mai visto uno uguale, furono presi da un superstizioso terrore che divenne ancor maggiore quando s’accorsero che se la prendeva con loro e che sbranava quanti incontrava su’ suoi passi. Fu un fuggi fuggi generale. Resi pazzi dallo spavento si precipitavano in mare dalle murate, dal cassero, dal castello di prua, piombando addosso ai compagni che si trovavano nei canotti e abbandonando perfino le armi. I canottieri presi anche loro dal pànico, diedero mano ai remi e fuggirono disperatamente verso la costa senza fermarsi per raccogliere i nuotatori che mandavano urla acute, immaginandosi che quello strano animale si slanciasse anche in mare per sbranarli. In pochi istanti sul ponte della _Nuova Georgia_ non rimaneva un solo selvaggio vivo. La tigre si era incaricata di ammazzare anche i feriti, ed ora diguazzava fra il sangue dei morti rimpinzandosi di carne umana. — Hurrà!... Hurrà!... — gridarono i marinai dall’alto dei pennoni. — Viva Bill! — Allora si aprì il boccaporto di prua che metteva nella camera comune dei marinai, e comparve il naufrago, tenendo in pugno una sciabola. Vedendo il ponte sgombro, si avanzò intrepidamente verso la gran tigre che stava stritolando fra le potenti mascelle le membra di un selvaggio. — — Bill!... Bill!... — gridarono i marinai. — Bada che la tigre ti sbranerà!... — Il naufrago alzò le spalle facendo un gesto sdegnoso e continuò ad avanzarsi contro la fiera che aveva alzata la testa, mandando sordi brontolii. — Vattene! — disse Bill, additandole con un gesto energico il boccaporto di maestra. La tigre rimase immobile fissandolo con due occhi di fuoco. Chiunque altro si sarebbe affrettato a ritirarsi dinanzi a quel contegno ostile, ma Bill invece continuò il suo cammino. Lo strano uomo pareva trasfigurato. I suoi lineamenti dimostravano in quel punto un’energia suprema e una volontà incrollabile, e dai suoi occhi pareva che schizzassero scintille. Si fermò a tre passi dalla tigre che continuava a brontolare, e additandole nuovamente il boccaporto, ripetè con una voce che aveva una strana intonazione: — Vattene!... — Allora l’equipaggio, che dall’alto dell’alberatura assisteva colla più alta meraviglia a quella scena inattesa, vide la feroce belva indietreggiare lentamente, curvare umile il robusto dorso, abbassare il capo come se non potesse reggere lo sguardo potente, affascinante di quell’uomo, dirigersi verso il boccaporto e scendere nella stiva. Bill la seguì col braccio sempre teso, discese nel ventre del vascello dietro la fiera, si udì un fragor di ferri agitati e percossi, poi si vide ritornare sul ponte. — Potete scendere, — disse volgendosi verso l’equipaggio ancora stupito. — La tigre è tornata nella sua gabbia. — Poi si recò a poppa, sollevò il boccaporto e chiamò il capitano Hill che si affrettò a salire in coperta seguíto da Anna. — E i selvaggi? — chiese con ansia l’americano, vedendo il ponte sgombro. — Fuggiti, — rispose Bill con voce tranquilla. — Avete scatenato le tigri? — È bastata una sola per fugare gli antropofagi. — Grazie, Bill, di quanto avete fatto. Senza di voi la mia nave a quest’ora sarebbe perduta, e tutti noi saremmo prigionieri. — Voi avete salvato me, io ho salvato voi, — rispose il naufrago con voce sorda — Nè io più nulla devo a voi, nè voi a me: siamo pari! — Il capitano Hill lo guardò con sorpresa. — Perchè queste parole, Bill? — chiese con tono di rimprovero. — Perchè non amo essere debitore verso di nessuno, — rispose il naufrago con accento marcato. — Siete orgoglioso, Bill. — Il naufrago scosse il capo e contrasse la fronte. — No, — disse. — Un giorno saprete il perchè. — Girò sui talloni dopo d’aver lanciato un acuto sguardo verso Anna e si allontanò coi lineamenti contraffatti e un sardonico sorriso sulle labbra. — Che singolare uomo! — disse la giovanetta. — Non riuscirò mai a comprenderlo, Anna, — disse il capitano Hill. — Eppure quelle parole m’hanno fatto una sinistra impressione!... Bah!... Non ci pensiamo! — Fece un gesto come per iscacciare un cattivo pensiero e andò incontro ai marinai che scendevano dall’alberatura. — Quanti uomini abbiamo perduto? — chiese ad Asthor. — Sei, signore, e dei più valorosi. — Tutti nostri? — domandò il capitano sospirando. — Tutti, signore, per nostra disgrazia. Pareva che la fortuna proteggesse i naufraghi, poichè essi non hanno riportato nemmeno una ferita. A proposito, cosa vi sembra di quegli uomini? — Mi pare che siano buoni diavoli, — rispose il capitano. — Ma.... — Cosa sospettate? — Ho scorto sulle loro braccia e sulle loro gambe delle lividure che mi danno molto da pensare, mio vecchio Asthor. Possono essere state prodotte dalle corde, ma forse.... — Comprendo, — disse il pilota il cui volto erasi annuvolato. — Il signor Collin aveva notate le stesse lividure sui polsi di Bill. To’! che tanto sangue sia stato sparso per salvare degli uomini di quella fatta, dei reduci da quella sinistra isola che si chiama Norfolk?... — Forse c’inganniamo, Asthor, e poi.... — S’interruppe e fece un gesto di sorpresa. Gli erano venute in mente le strane parole poco prima pronunciate da Bill. — Ho una vaga paura, Asthor, — disse. — Voi temete?... — Nulla per ora, ma teniamoli d’occhio. — Li sorveglierò attentamente, capitano, e guai a loro se oseranno tramare qualche cosa. Il vecchio Asthor è ancora robusto e capace di spaccare il capo a chi ardisse alzare una mano contro di voi o contro a miss Anna. — Silenzio, mio caro lupo di mare; ora pensiamo ai morti. — Fece ritirare Anna onde non assistesse alla brutta scena, e i marinai, per ordine del capitano, gettarono in mare i cadaveri degli assalitori che ingombravano la coperta. La risacca, che si faceva sentire fortissima, ne spinse parecchi fino sulle spiagge dell’isola, e si videro allora quei feroci mangiatori di carne umana impadronirsi avidamente dei loro spenti compagni e portarseli sotto i boschi, non già per dar loro onorevole sepoltura, ma per divorarseli, poichè, come si disse, quegli esseri ributtanti non sdegnano di pascersi delle carni dei fratelli e delle sorelle quando la fame o la golosità gli spinge!... La sera venne calata la bandiera americana a mezz’asta in segno di lutto, e dopo l’uffizio dei morti recitato dal capitano unitamente a tutto l’equipaggio, vennero calati in mare i sei marinai caduti durante la pugna, ben avvolti però in una grossa amaca e con una pesante palla di ferro legata ai piedi, per sottrarli ai denti dei mostruosi abitanti dell’arcipelago Figiano. CAPITOLO DECIMOQUARTO. La grande marea. Durante la notte nulla accadde di notevole. Gl’isolani fecero udire continuamente il suono rauco delle loro conche marine, ma non abbandonarono la spiaggia per tornare all’attacco del vascello. I marinai che si aspettavano ad ogni momento un nuovo assalto, non abbandonarono un solo istante la coperta, e per far capire ai selvaggi che si tenevano in guardia, fecero tuonare parecchie volte il cannone e le spingarde, scatenando clamori assordanti da parte dei numerosi nemici accampati sulle scogliere ed ai piedi dei grandi alberi dell’isola. Quando spuntò l’alba, il capitano che non aveva chiuso occhio in tutta la notte per essere pronto a respingere gli assalti, vide che il numero dei nemici era cresciuto. Sulla spiaggia vi erano almeno cinque o seimila selvaggi e altri si vedevano giungere dalle isole vicine, ma nessuno ardiva accostarsi alla _Nuova Georgia_, la quale pareva incutesse in tutta quella gente un superstizioso terrore. — Che tentino un nuovo assalto e che aspettino di essere moltissimi per riuscire? — chiese il capitano a Mac Bjorn che osservava i selvaggi con profonda attenzione. — No, — rispose l’uomo allampanato. — Quei furfanti hanno avuto troppa paura della vostra tigre per ritornare alla carica; ma essi contano su qualche tempesta per mangiarci. — In qual modo? — Credono senza dubbio che la vostra nave non possa più lasciare la scogliera, e aspettano che una tempesta la frantumi. Fors’anche temono che voi vogliate sbarcare e si tengono pronti a darvi addosso, onde non possiate raggiungere le fitte foreste dell’interno. — Fortunatamente noi saremo lontani quando la tempesta che loro attendono scoppierà su queste spiagge. Domani avremo la grande marea, e sono certo che la _Nuova Georgia_ lascerà senza fatica questo banco. — Lo credo anch’io, signore, poichè ho osservato il banco e mi sono accertato che non ha punte rocciose e che la nave appoggia solamente coll’asta di prua. — Infatti è vero, Mac Bjorn. Nel caso che la grande marea non bastasse, faremo gettare due àncore a poppa e lavorare l’equipaggio all’argano. — E quando saremo liberi, dove ci condurrete, signore? — A Melburne, — rispose il capitano. — È la mia destinazione. — In Australia! — esclamò il naufrago corrugando la fronte e facendo una smorfia. — Vi dispiace? — chiese il capitano Hill, che aveva notato quelle gesta di malcontento. — No, signore, — rispose vivamente Mac Bjorn. — Se però vi rincrescesse, potrei sbarcarvi all’isola di Norfolk dovendo colà fermarmi per alcune ore, — disse il capitano guardando attentamente il naufrago. Nell’udire il nome di quell’isola sinistra che serve di prigione ai forzati inglesi, Mac Bjorn trasalì vivamente, e di pallido che era divenne livido. — No! no! — esclamò. — Quell’isola è un soggiorno troppo brutto, signore. Preferirei sbarcare in un’isola abitata dai selvaggi, piuttosto. — Allora verrete a Melburne. — In mancanza di meglio si vada pure in Australia. Forse colà troverò qualche legno che mi trasporti in patria. — È molto tempo che non la rivedete? — Sei anni, signore, — rispose il naufrago, mentre una nube gli passava sulla fronte. — E desiderate ardentemente rivederla. Avete qualcuno laggiù? forse vostra moglie? — Mac Bjorn guardò il capitano che pareva affettasse la massima calma, e nei suoi occhi guizzò un lampo sanguigno. — Mia moglie! — esclamò con voce rauca. — Ah! no, signore, è morta da lungo tempo. — Pover’uomo! — mormorò il capitano con sottile ironia, che aveva compreso fin troppo con quale individuo aveva da fare. — Andate a bere un buon bicchiere di _gin_, e perdonatemi se involontariamente ho evocato un doloroso ricordo. Mac Bjorn, che era diventato tutto d’un tratto cupo e che aveva assunto un’espressione selvaggia, si allontanò senza rispondere, ma camminando come un uomo che si è ubbriacato. — Tuoni e lampi! — mormorò il capitano, — che razza di naufraghi ho imbarcato io? Quell’uomo deve aver ucciso qualcuno, forse sua moglie, ed ora sono convinto di aver a bordo non dei disgraziati, ma dei forzati fuggiti dall’isola di Norfolk. Oh!... guai a loro, però, se oseranno tentare qualche cosa contro di me! — Cosa mormori, padre mio? — gli chiese Anna, che era allora comparsa sul ponte. — Nulla, Anna, — rispose il capitano forzandosi di sorridere. — Brontolavo contro quei dannati selvaggi che pare vogliano assediarci. — Bill scatenerà un’altra volta la tigre, e li metterà ancora in fuga, se oseranno ricomparire a bordo della _Nuova Georgia_. — Bill!... Bill!... — mormorò l’americano coi denti stretti. — Sì, scatenerà le tigri, Anna. — Perchè me lo dici con questo tono? — chiese la ragazza. — Si direbbe che quel povero naufrago non ti è simpatico. — Infatti, Anna, vorrei che non avesse mai posto piede sul mio legno. — Ma perchè? — Silenzio, figlia mia; per ora nulla posso dirti. — E perchè, signore? — chiese una voce. Il capitano si volse e si trovò dinanzi a Bill, il quale lo guardava con due occhi fiammeggianti mentre impallidiva a poco a poco. — Che fai tu qui? — chiese l’americano aggrottando la fronte. — Forse tu mi spiavi? — No signore, — rispose Bill cercando di sembrare tranquillo. — Mi dirigevo da questa parte per meglio osservare le mosse dei selvaggi e involontariamente ho udito le vostre parole, le quali sono molto amare per me. Avete forse avuto da lamentarvi di questo naufrago, dal giorno in cui lo raccoglieste moribondo sul tempestoso Oceano? — No, è vero; anzi ho dovuto due volte ringraziarti. — Perchè allora quelle severe parole? — Non posso spiegarmi. — Cosa temete? Se io e i miei compagni siamo d’impaccio a bordo della vostra nave, alla prima isola che incontrerete sbarcateci. — Ci penserò; tutto dipenderà, dalla vostra condotta. — Sta bene, signore, — disse Bill risentito. Fece un saluto a miss Anna e si allontanò dirigendosi verso poppa; ma quell’uomo era impallidito e le sue dita si chiudevano con forza come se avessero voluto stritolare qualche cosa. — Sei severo, padre mio, — disse Anna con tuono di rimprovero. — Non so perchè ti sia venuto in uggia quel pover’uomo. — Lo saprai più tardi, non voglio ora arrischiare un giudizio terribile. — Nella notte vi furono due allarmi che fecero salire sul ponte tutto l’equipaggio, essendo stati scorti alcuni canotti staccarsi dall’isola; ma al primo colpo di cannone fuggirono. Il giorno seguente la condizione era invariata; la _Nuova Georgia_ era sempre incagliata e gli antropofagi accampati sulle sponde. Però fra poche ore quella pericolosa prigionia doveva cessare, poichè a mezzodì la gran marea doveva toccare la sua massima altezza e rimettere a galla il legno. Il capitano, che sospirava l’istante di lasciare quei brutti paraggi, diede subito gli ordini necessari onde tutto fosse pronto per l’ora della grande piena. Fece alleggerire la prua della nave facendo portare a poppa le ancore grosse, le catene, le casse dell’equipaggio, le botti d’acqua dolce, gran parte dei pennoni di ricambio e perfino le gabbie delle tigri che occupavano la parte anteriore della stiva. Ciò fatto, fece calare in mare una imbarcazione e gettare a poppa due ancorotti, le cui catene vennero fissate all’argano per operare una forte trazione all’indietro; quindi fece spiegare tutte le vele per approfittare del vento, che soffiava leggermente da prua. Compiute quelle diverse operazioni, il capitano dispose la maggior parte dei suoi uomini, i naufraghi compresi, attorno all’argano a cui erano state già fissate le manovelle. La marea intanto continuava a montare. Alle undici aveva già coperto quasi tutto il banco e si udivano, sotto l’asta di prua, degli scricchiolii, segno evidente che il veliero tendeva ad alzarsi. Mezz’ora dopo c’erano già due piedi d’acqua sul banco. Era il momento opportuno per tentare un primo sforzo. — Tutti ai vostri posti! — tuonò il capitano Hill. — La marea sta per toccare la sua massima piena. — L’equipaggio si curvò sulle aspe, e radunate tutte le forze le spinse innanzi con sovrumana energia. Le catene dei due ancorotti gettati sul banco si tesero bruscamente, ma le punte di ferro tennero saldo. — Speriamo! — mormorò il capitano. — Forza, amici, forza, o non lasceremo mai più questo banco. — I marinai spingevano con una specie di furore, tendendo i muscoli in tal maniera, che pareva si volessero spezzare. Erano tutti pallidi ed avevano le fronti imperlate d’un freddo sudore; guai se quegli sforzi non riuscivano! Era finita per tutti, anzi peggio che finita, poichè nessuno ignorava che li attendeva lo spiedo di quei feroci mangiatori di carne umana. La nave scricchiolava sempre sotto quella potente tensione di tante vigorose braccia, ma non accennava a indietreggiare. Pareva che fosse incavigliata a quel dannato banco. Il capitano Hill, malgrado il suo coraggio, era diventato pure pallido e sentivasi il cuore battere più forte del solito. Una vaga paura cominciava ad invaderlo, e gettava sguardi disperati sulla sua Anna. — Uno sforzo ancora, ragazzi! — esclamò con voce soffocata. Asthor e i tre o quattro uomini che stavano ai bracci delle manovre, accorsero in aiuto dei compagni. Quel nuovo rinforzo fu decisivo. La nave oscillò bruscamente, scivolò sul banco dapprima lenta, poi rapida, e infine galleggiò sul mare, arrestandosi a poche braccia dai due ancorotti. Un immenso urlo di gioia echeggiò fra l’equipaggio, a cui fecero eco urla di furore e vociferazioni spaventevoli. I selvaggi vedendo la nave lasciare il banco e comprendendo che l’agognata preda stava per isfuggire, si erano precipitati confusamente nei loro canotti e accorrevano da tutte le parti per dare un disperato assalto. — All’erta! i selvaggi! — tuonò Asthor che si era slanciato verso poppa. — Troppo tardi, miei cari! — esclamò il capitano Hill trionfante. — Ai bracci delle manovre, la barra all’orza e si viri di bordo. — Quella manovra fu eseguita con fantastica rapidità, tanta era la paura di venire raggiunti. La _Nuova Georgia_ girò attorno alle scogliere che racchiudevano il banco e uscì in pieno mare a gonfie vele dirigendosi verso l’ovest. I lunghi canotti dei Figiani non si arrestarono per questo. Passarono quasi volando sopra il banco e continuarono la caccia manovrando furiosamente i remi, ma, come aveva detto bene il capitano, ormai era troppo tardi. Il vascello fuggiva colla velocità di una rondine marina e in breve fu tanto lontano, da togliere a quei brutti abitanti dell’arcipelago figiano ogni speranza di poterlo raggiungere. Quando il capitano Hill non li vide più, mandò un sospiro di sollievo. — Andiamo dritti in Australia, padre mio? — chiese Anna. — Dritti senza fermarci, poichè non vedo il momento di sbarazzarmi di due carichi pericolosi. — Di quali intendi parlare? — Delle tigri e dei naufraghi. — Sempre con quei disgraziati te la prendi. — Ti ho detto che ho i miei motivi. — Se ti danno fastidio, perchè non gli sbarchi in qualche isola? — Se posso lo farò. — Ne abbiamo qualcuna nelle vicinanze, dove essi non possano correre pericoli? — Dinanzi a noi abbiamo l’arcipelago delle Nuove Ebridi e più al sud-ovest la Nuova Caledonia, l’uno e l’altra popolati da selvaggi forse più feroci dei Figiani. — Ma non vi sono isole disabitate? — Un tempo erano numerose; oggi a poco a poco sono state quasi tutte occupate. La popolazione umana cresce costantemente malgrado i grandi vuoti che fanno le guerre e le epidemie, e verrà un giorno anzi che non vi sarà più posto. — Cosa dici mai? Vi sono dei continenti che hanno ancora degli spazi immensi poco abitati; l’Africa, l’Australia e le due Americhe. — È vero, ma fra due secoli non avranno più un territorio deserto o quasi deserto. Gli scienziati hanno studiato, anzi, e più volte, questo grave argomento, e hanno dedotto che fra non molto la popolazione del globo non troverà più cibo sufficiente e che sarà costretta o a decimarsi con continue guerre o.... a tornare all’antropofagia. — È incredibile! — Eppure è vero, Anna, ed ora ti spiegherò meglio la cosa. Gli scienziati hanno notato che la superficie terrestre suppergiù ha 28 milioni di miglia quadrate di terre fertili, 14 di steppe e 4 di deserti, e hanno calcolato che il massimo degli abitanti che queste categorie di terre possono nutrire è di 207 persone per miglio quadrato nelle terre fertili, di 10 per le steppe e di 1 pei deserti. Risulta da ciò, che quando la popolazione del globo avrà raggiunto la cifra di 5994 milioni non vi sarà più altra terra disponibile capace di nutrire un maggior numero di persone. Ti pare esatto questo calcolo? — È giusto, — rispose Anna dopo alcuni istanti di riflessione. — Ma quanti anni occorreranno perchè la popolazione diventi così numerosa? — Ecco, da una media fatta, risulterebbe che la popolazione del globo presa insieme aumenta ogni dieci anni di otto persone per cento. Partendo da questo calcolo, i 5994 milioni di abitanti si possono ottenere in poco più o poco meno di 200 anni! Cosa sono due secoli per l’umanità? Nulla. — È una cosa che spaventa! — Non dico di no, e io non vorrei trovarmi vivo fra due o trecento anni. Forse allora il progresso scientifico e industriale avrà trovato il modo di rendere la terra più fertile, avrà forse trovato anche il modo di rendere produttive le steppe e i deserti, ma sarà un rimedio di poco momento. La popolazione crescerà sempre, la terra non basterà più e i nostri tardi nepoti non avranno altra alternativa che quella di distruggersi con guerre terribili o di mangiarsi l’un l’altro, a meno che non trovino il mezzo di dare la scalata alla luna o a qualche altro mondo, cosa alquanto difficile a mio parere. Fortunatamente noi non saremo più vivi e chi sa da quanti anni dormiremo il sonno eterno o nella profondità degli abissi marini o sotto chissà quanti piedi di terra. Ma, orsù, bando ai mesti pensieri e andiamo a far colazione, Anna, che ne abbiamo bisogno. — CAPITOLO DECIMOQUINTO. Bill si svela. La _Nuova Georgia_, sfuggita al naufragio ed all’ultimo assalto degli antropofagi continuava a fuggire verso il sud-ovest, in modo da passare dinanzi alle ultime isole dell’arcipelago delle Nuove Ebridi e di evitare poi le pericolose coste della Nuova Caledonia che in quel tempo godevano una triste celebrità, non essendo ancora state occupate dalla Francia. Il capitano la manteneva carica di vele, aggiungendo perfino i coltellacci e gli scopamari, ansioso di raggiungere le coste australiane. Cominciava a impensierirsi, quel bravo marinaio, non pel tempo che aveva perduto, non per la sua nave che nell’arrenamento non aveva sofferta alcuna avaría, non per le tigri che erano solidamente rinchiuse nelle loro gabbie di ferro, ma pei naufraghi che aveva salvati dopo tante fatiche e con tanto coraggio. Dal momento che quegli uomini avevano riveduto libero il vascello, si erano cambiati, e pareva pesasse loro assai la riconoscenza che dovevano all’equipaggio americano. Non erano più umili e servizievoli come durante il pericolo; non erano più riconoscenti, come non erano più obbedienti. Oziavano da mattina a sera senza prendere parte alla faticosa manovra del veliero, rispondevano con alterigia al pilota Asthor, giocavano alle carte o ai dadi in fondo alla stiva, diventavano insolenti ed esigenti ogni momento più. I cibi di bordo più non bastavano per le loro bocche e pretendevano un trattamento pari a quello del capitano, accampando, con un’audacia e con una gran faccia tosta, la loro qualità di naufraghi e facevano schiamazzo per avere, all’ora dei pasti, doppia razione di vino o di _gin_ o di _wisky_. Anche Bill si era mutato tutto d’un tratto; anzi sembrava che segretamente aizzasse i suoi compagni. Trattava il capitano da pari a pari, e dinanzi a miss Anna non si mostrava più rispettoso come una volta. L’equipaggio sentiva per istinto che quei naufraghi non erano leali marinai, anzi che erano schiume di fannulloni, pronti anche, se le circostanze li avessero favoriti, a ribellarsi apertamente contro le autorità di bordo. Il capitano e Asthor non li perdevano d’occhio, e sempre più convinti di aver da fare con dei forzati evasi dall’isola di Norfolk, si tenevano in guardia, pronti a reprimere con la più grande energia il minimo tentativo di ribellione. Quell’attiva sorveglianza, non doveva tardare a condurre ad una scoperta di una gravità incalcolabile. Una sera, mentre il capitano ed Anna riposavano nelle loro cabine di poppa e Asthor vegliava in coperta, un gabbiere s’accorse che i naufraghi avevano silenziosamente abbandonate le loro brande. Sorpreso per questo fatto, si affrettò a dare avviso al pilota. — Ah furfanti! — esclamò il vecchio marinaio corrugando la fronte. — O io sono una gran bestia, o qui sotto gatta ci cova. — Senza avvertire nessuno per non allarmare inutilmente l’equipaggio, si munì d’una lanterna, si nascose in tasca una pistola e scese nella stiva, certo di trovare colà i naufraghi. Infatti li vide seduti tutti in giro, presso le gabbie delle tigri, occupati a confabulare, ma a voce così bassa da non poter essere uditi. Bill era nel mezzo e aveva in quel momento la parola. Il pilota nel sorprenderli impallidì. Cosa potevano dirsi per cercare quel posto isolato, lontani dagli occhi e dagli orecchi dell’equipaggio americano? Nulla di buono senza dubbio. Il vecchio marinaio stette in forse se dovesse svegliare il capitano o chiamare in aiuto l’equipaggio; ma per tema di provocare un’agitazione ingiustificata discese solo nel frapponte e si avanzò risolutamente verso i naufraghi. Appena scorsero la luce della lanterna, s’alzarono come un solo uomo facendo dei gesti di dispetto, forse vergognosi, ma più probabilmente irritati per essere stati sorpresi. — Cosa fate qui, radunati all’oscuro come tanti congiurati? — chiese il pilota con voce acre. — Forse gli orecchi dei vostri camerati devono ignorare ciò che voi dite? — Oh per mille boccaporti! — esclamò Bill con ironia. — E che? siamo noi prigionieri a bordo del vostro legno? Non siamo padroni di scambiare due chiacchiere, signor pilota della _Nuova Georgia_? — Bella pretesa! — esclamò l’allampanato Mac Bjorn. — Un’altra volta faremo portare qui tutte le lanterne e le torce che troveremo a bordo. — Ehi! uccello di malaugurio, — disse il pilota piantandosi minacciosamente dinanzi all’uomo allampanato. — Bada che Asthor è capace di farti rientrare in gola tali parole. A te nulla devo, e se non cammini dritto con le tue gambe ossute, ti rompo il groppone. — I naufraghi si misero a ridere; ma il pilota non rideva no, schiantava di rabbia e si sentiva invaso da una pazza voglia di far prendere tutti quegli uomini e di rinchiuderli in una cabina coi ferri alle mani ed ai piedi. — Orsù, — riprese. — Cosa facevate qui? — Lo vedete, — rispose Bill. — Discorrevamo sul modo di lasciare più presto che si può il vostro legno. — E perchè? — chiese il vecchio piantandogli addosso uno sguardo acuto come uno spillo. — Perchè non vogliamo sbarcare nè all’isola di Norfolk nè in Australia. — Ah!... avete forse dei conti da saldare con quelle autorità?... — Bill impallidì e fece un gesto minaccioso, mentre i suoi compagni lanciavano sul pilota torvi sguardi, nei quali si leggeva una cupa minaccia. — Basta, — disse Bill con voce rauca. — Ne abbiamo abbastanza dei vostri sospetti, signor pilota della _Nuova Georgia_! Quanto prima, noi vi faremo sapere chi noi siamo. — È una minaccia? — Credetela come vi piace, a me non importa. — Domani riferirò ogni cosa al capitano Hill. — Fatelo pure. — Ve lo prometto, Bill. Ora lasciate questo luogo e tornate nelle vostre brande, o faccio accorrere i marinai e vi caccio in una cabina ben chiusa. — I naufraghi s’allontanarono senza rispondere e si ritirarono nella camera comune, affettando la massima calma. Asthor li seguì collo sguardo; poi crollando il capo mormorò: — Mi auguro d’ingannarmi, ma quegli uomini ci porteranno sventura. — Visitò accuratamente le gabbie delle tigri, diffidando ormai di tutto; si assicurò che i naufraghi si fossero ritirati nelle brande, poi risalì in coperta molto pensieroso ed inquieto. Prima dell’alba Bill era già sul ponte. Egli passò dinanzi ad Asthor a fronte alta, lanciando su di lui uno sguardo canzonatorio, mentre i suoi compagni si sdraiavano oziosi sul castello di prua, guardando tranquillamente le manovre dei marinai americani. Gli passò accanto tre volte, quasi cercasse un pretesto per essere interrogato sulla misteriosa adunanza della notte; poi andò a sedersi sulla murata di babordo osservando con profonda attenzione il mare che gli si stendeva dinanzi agli occhi, liscio come uno specchio. Quando il capitano Hill apparve sul ponte, il naufrago era ancora immerso nella sua osservazione, sicchè non potè vedere Asthor avvicinarsi al comandante. — Quali nuove? — gli chiese questi, vedendosi avvicinare con un certo mistero dal vecchio marinaio. — Brutte, signore, — rispose Asthor. Il capitano aggrottò la fronte. — Cosa intenderesti di dire? — domandò. — Intendo di dire che a bordo della _Nuova Georgia_ si trama, — rispose il pilota. — E cosa? — Lo ignoro, capitano; ma senza dubbio si ordisce qualche congiura ai nostri danni. — E da chi? dal mio equipaggio forse? — No, ringraziando Iddio! il vostro equipaggio è fedele, ma non i naufraghi. — Che?... I naufraghi oserebbero?... — Sì signore; gli ho sorpresi la scorsa notte in misterioso conciliabolo in fondo alla stiva, dinanzi alle gabbie delle tigri. — Vuoi spaventarmi, vecchio Asthor? — chiese il capitano con voce alterata. — Sarebbe cosa inutile; vi dico quello che ho veduto e nulla di più. — E quegli uomini che io salvai mettendo in grave pericolo la mia nave e la vita di noi tutti, oserebbero congiurare contro di me? Morte e dannazione!... Silenzio con Anna, mio vecchio amico, onde non si spaventi. Ah!... è così?... Dov’è Bill? — Eccolo là, seduto sulla murata di babordo. — Sta bene: sarà il primo che la pagherà per tutti. — Si assicurò di aver alla cintola le pistole, sapendo già d’aver da fare con un furfante risoluto a tutto; si avvicinò alla murata e battendo sulle spalle del naufrago, esclamò: — A noi, messer Bill!... — Il naufrago si volse con tutta tranquillità, ma nel vedersi dinanzi il capitano col volto corrucciato, impallidì leggermente e i suoi occhi si piantarono subito sopra Asthor. Nondimeno si rasserenò tosto e scendendo dalla murata, gli chiese, incrociando le braccia sul petto: — Cosa desiderate, capitano? — Una spiegazione prima. — Parlate, signore. — Innanzi a tutto, di dove vieni? — Bill fece un gesto di sorpresa. — Ma.... da una nave naufragata, lo sapete bene. — Tu mentisci!... — Bill trasalì e ne’ suoi occhi guizzò un lampo sanguigno. — Io!... — esclamò, stringendo le pugna. Ma poi frenandosi e ridiventando tranquillo, aggiunse: — Ditemelo voi allora, giacchè lo sapete meglio di me. — Mi basta così per averti giudicato. Dimmi ora: per quale motivo la scorsa notte hai radunato nella stiva i tuoi compagni? — Se parlate così è altra cosa, rispose l’assassino del povero Collin. Volete proprio saperlo?... Ci siamo radunati per prendere delle deliberazioni intorno alla vostra rotta. — Alla rotta della mia nave! — esclamò il capitano al colmo dello stupore. — Sissignore, poichè la vostra rotta non accomoda nè a me, nè ai miei compagni. — Cosa intendi di dire? — Che non vogliamo che la vostra nave approdi nè all’isola di Norfolk, nè alle coste Australiane, — rispose con voce risoluta il naufrago. — Ah!... E voi credete?... — Che obbedirete, — rispose Bill con tono minaccioso e guardandolo fisso fisso. Il capitano Hill, a un simile tratto d’audacia, rimase per alcuni istanti senza parole. Era confuso e stupito: del resto vi era di che stupirsi quando si pensi che l’equipaggio americano era due volte più numeroso dei naufraghi, fedele al suo capo e pronto a prestargli man forte anche colle armi in pugno. — Sei ubbriaco forse? — gli domandò. — No, signore, — rispose il naufrago imperturbabilmente. — Non ho assaggiato un sorso di _gin_, nè di _wisky_, nè di _brandy_. — Ma sai che posso farti frustare a sangue col gatto a nove code? — Non l’oserete! — E chi me lo impedirà? I tuoi compagni forse? — chiese il capitano coi denti stretti. — No, ma voi non l’oserete, se vi preme di condurre la nave in porto e salvare vostra figlia. — Era troppo! La pazienza del capitano era stata messa a dura prova. — Miserabile! — esclamò, alzando il pugno chiuso sul naufrago che non fece un solo passo per evitarlo. La larga mano del gigante piombò con sordo rumore addosso al naufrago e lo curvò con forza irresistibile, facendolo stramazzare sul ponte. Vedendo cadere il loro compagno, i naufraghi che erano sdraiati sul castello di prua, aspettando con calma affettata la fine di quel colloquio tempestoso, si erano alzati di scatto colle fronti aggrottate; ma Asthor con un fischio radunò l’equipaggio onde si tenesse pronto a respingere qualunque mossa offensiva. — Uccidetemi pure se vi accomoda, o meglio assassinatemi, — disse Bill con fredda ironia, senza fare un gesto per rialzarsi. — No, furfante, — rispose il capitano furibondo. — Non sono di quegli uomini che assassinano, ma ti metterò nell’impossibilità di far male a me, a mia figlia e al mio equipaggio. — E poi? — chiese sempre ironicamente il naufrago. — E poi ti farò dare venti colpi col gatto a nove code, onde tu impari a rispettare i tuoi salvatori prima, i tuoi superiori dopo. — Provatevi!... — Mi sfidi!... — Vi sfido!... — A me, marinai!... — Sette od otto uomini, a quel comando, si precipitarono sull’audace furfante, riducendolo all’impotenza. In quel medesimo momento apparve sul ponte miss Anna. — Padre mio!... — esclamò correndo incontro al capitano che teneva in pugno una pistola, pronto a scaricarla contro i camerati di Bill. — Gran Dio!... cosa succede?... — Ritirati, Anna, — rispose Hill. — Sono cose che non ti riguardano. — Ma perchè quell’uomo sul ponte? — È un miserabile che sta per venere punito. — Che!... Bill punito!... Lui che ci ha salvati dagli antropofagi? — E che ora minaccia la mia nave e la tua vita, Anna. — È impossibile, padre mio! — L’equipaggio è testimone. — Ma cosa vuoi fare a quel disgraziato? — Lo faccio frustare come un cane. — Oh! no, gli perdonerai! — Mai, Anna. Ritirati, lo voglio!... — La giovanetta comprese che ogni preghiera sarebbe stata vana e si ritirò lentamente, mentre il naufrago rialzato il capo la mirava con due occhi che mandavano strani lampi. Quando scomparve, il capitano volgendosi verso i marinai che tenevano stretto Bill, disse: — Ed ora, frustate questo miserabile. — Eccomi, signore, — rispose Asthor facendo fischiare il gatto a nove code. — Il braccio è solido e robusto e picchierò sodo tutti i venti colpi! — CAPITOLO DECIMOSESTO. L’incendio della nave. Nel tempo in cui si svolge il nostro racconto, le pene corporali erano largamente usate a bordo dei vascelli, sia che appartenessero alla marina mercantile o a quella da guerra. Frustare un marinaio indisciplinato o ribelle, era cosa che accadeva molto spesso; e specialmente gli americani, ma soprattutto gli inglesi che conservano tutt’ora quel barbaro uso nella loro armata, ricorrevano anche troppo al gatto a nove code. Questo staffile, che inspirava un vero terrore a tutti i marinai, si compone di un corto manico a cui sono solidamente attaccate nove strisce di cuoio guernite di piccole palle di piombo, di cui ognuna produce sul dorso del paziente un solco sanguinoso. Venti o trenta colpi bastano per ridurre in uno stato deplorevole l’uomo più robusto. Gli inglesi però condannano i ribelli, i ladri e gli indisciplinati fino a cinquanta colpi e qualche volta anche più; ma all’esecuzione di questo terribile gastigo fanno assistere un medico, il quale deve farlo cessare se la vita del paziente è in pericolo; tuttavia l’interruzione è momentanea, perchè viene ripresa, non appena le orribili piaghe del povero torturato si sono rimarginate. Tutti i malfattori del Regno Unito tremano quando odono parlare del gatto a nove code, e lo temono più della morte. Per dimostrare quanto vi sia di vero in ciò, basti dire che fu con questo staffile che i giudici londinesi posero fine a quella famosa banda di strangolatori che celavansi di notte nei vani delle porte, per strozzare i viandanti mediante un nodo scorsoio. La pena di morte applicata a taluni di quei birbanti non era bastata a spaventare gli altri; ma appena si decretò per quegli scellerati un numero spaventevole di colpi di gatto a nove code, tanti da far morire il condannato, la banda si sciolse e nessuno osò più strangolare un solo viandante notturno. Bill, che si era qualificato per un marinaio inglese, non doveva ignorare la gravità della pena; pure quel tristo che doveva possedere una energia a tutta prova e un’audacia più che straordinaria, guardò freddamente Asthor che si avvicinava facendo fischiare le nove striscie di cuoio indurito. — Nudategli il dorso, — disse il vecchio marinaio. A questo comando il naufrago trasalì e tentò respingere i marinai che lo trattenevano, esclamando con voce strozzata: — Ah! no, questo no!... — E perchè no? — chiese il capitano Hill, nella cui mente balenò un sospetto. — Non è necessario. — Forse nascondi qualche cosa sulle tue spalle?... — Il naufrago lanciò sul capitano uno sguardo feroce, e tentò di rialzarsi facendo uno sforzo disperato; ma i marinai lo tennero fermo. — Vi dico che non mi spoglierete! — urlò con voce furente. — Una parola, signore. — disse una voce. Il capitano Hill si volse e si trovò dinanzi al magro Mac Bjorn, il quale era sgusciato fra i marinai schierati presso l’albero di maestra, per tenere a bada gli altri naufraghi. — Cosa vuoi tu? — gli chiese il capitano ruvidamente. — Il tuo posto non è qui. — Permettete che dica una parola in favore del mio camerata. — E che?... pretenderesti d’impedire la punizione? — Non ho questa pretesa, signore, — rispose l’uomo allampanato, inchinandosi umilmente. — Ma vi pregherei di non far somministrare i venti colpi di gatto a nove code sulle spalle di quel disgraziato. — E il motivo? — Perchè due mesi sono quel povero diavolo si è fratturata una spalla, e capirete. — Ho capito più del bisogno, Mac Bjorn, — disse il capitano ironicamente. — Olà, amici, impadronitevi anche di questo scheletro vivente. — Ma signore! — esclamò Mac Bjorn impallidendo. — Volete accopparmi a colpi di gatto?... — No, ma voglio vedere anche le tue spalle. Spicciatevi, nudate le spalle di questi uomini! — I marinai stavano per obbedire quando improvvisamente si udì una voce gridare: — Al fuoco!... al fuoco!... — Un fulmine che fosse scoppiato fra l’equipaggio, non avrebbe prodotto un effetto maggiore di quel grido, lanciato in quel momento. — Al fuoco! — ripetè la voce di prima. Un marinaio si slanciò fuori dal boccaporto di maestra, pallido, smarrito, trafigurato, gridando per la terza volta, con una voce strozzata dallo spavento: — La nave brucia!... — Il capitano Hill si slanciò verso di lui. — Sei impazzito, Brown! — esclamò. — No, signore, — rispose il marinaio. — La dispensa dei viveri è in fiamme: guardate!... — Una nube di fumo acre e denso usciva dal grande boccaporto, dapprima lentamente poi rapidamente, avvolgendo le vele basse. — Gran Dio! — esclamò il capitano. Girò intorno uno sguardo terribile guardando prima Bill, poi Mac Bjorn e quindi i loro compagni. — Guai, guai!... Un sospetto solo e vi faccio tutti appiccare sul più alto pennone! — esclamò. — A me, Asthor e voi tutti, se vi preme la vita, preparate le pompe. — Ciò detto si slanciò verso il boccaporto seguito dal vecchio marinaio, mentre l’equipaggio abbandonati i due prigionieri s’affannava a preparare le pompe e i mastelli, aiutato dai naufraghi che parevano avessero abbandonato ogni proposito di vendetta. Malgrado i nuvoloni di fumo che ora irrompevano con furia irresistibile attraverso la larga apertura, il capitano e Asthor scesero la scala che conduceva nel frapponte. Il fumo aveva invaso quasi tutta la stiva. Usciva in grosse colonne dal deposito di viveri situato sotto la camera comune di prua, stipandosi nelle corsìe e occupando tutti i recessi della grande nave. Le tigri, che cominciavano ad essere avvolte e che per istinto sentivano la vicinanza del fuoco, ruggivano e balzavano con impeto furioso contro i ferri facendo oscillare le pesanti gabbie. Era un concerto spaventevole, un miscuglio di miagolii potenti, di fremiti, di urla rauche, che facevano rizzare i capelli. Il capitano e il pilota, tenendosi i fazzoletti sulle labbra e il berretto ben calato sugli occhi, si spinsero fino al fondo della corsìa. Giunti colà, attraverso al fumo che diventava sempre più nero e più pesante, videro guizzare delle lingue di fuoco, le quali gettavano bagliori sanguigni sulle nere pareti della stiva. Ascoltando attentamente, si udiva un cupo ronzío, interrotto di quando in quando da detonazioni sorde prodotte dallo scoppio dei barili contenenti il petrolio o i liquori e dai crepitii del legname ardente. Di tratto in tratto il fumo si diradava mostrando nette le fiamme che si allungavano con le contrazioni dei serpenti, lambendo il sottoponte del vascello; ma poi tornava a irrompere sempre più denso, come se venisse cacciato fuori da un vento impetuoso. — È la dispensa che brucia, — disse il capitano retrocedendo e tergendosi il sudore che inondavagli la fronte. — Sì, signore, — rispose il pilota la cui faccia si era fatta oscura. — Saliamo, o sarà troppo tardi. — Si tuffarono fra i nuvoloni di fumo, salirono rapidamente la scala e apparvero in coperta. I marinai, pallidi sì ma risoluti a combattere fino all’estremo l’elemento distruttore, avevano già preparate le pompe immergendo le trombe in mare, lungo i fianchi del vascello. — L’incendio non è per ora grave, — disse il capitano, — ma può diventarlo se non lo combattiamo vigorosamente. Non vi chiedo che calma e sangue freddo, ma vi avverto che chi lascia le pompe senza mio ordine, è un uomo morto. — Poi, volgendosi verso i naufraghi che contemplavano tranquillamente i marinai dall’alto del castello di prua, colle mani in tasca, disse loro con voce minacciosa: — Al lavoro anche voi, e se vi rifiutate vi faccio appiccare, parola da _yankee_!... — Non vi era da scherzare col capitano Hill, il quale aveva già dato prove chiare di sapersi fare ubbidire e di non indietreggiare dinanzi ad alcun ostacolo. Di buona o cattiva voglia i naufraghi, compresi Bill e Mac Bjorn che parevano contenti di essere sfuggiti a quella visita che forse doveva svelare il loro vero essere o qualche cosa di peggio, si misero alacremente al lavoro con l’equipaggio. Mentre Asthor scendeva nella stiva con alcuni marinai per collocare le manichelle e gli altri manovravano energicamente le pompe, comparve in coperta miss Anna gridando: — Padre mio, il fuoco è a bordo!... — Il capitano le si avvicinò premurosamente. — Lo so, Anna, — disse con profonda emozione. — Non ti spaventare, chè spero, coll’aiuto di Dio e del mio equipaggio, di domarlo. — Al fianco tuo non ho paura, lo sai. Speri di domarlo? — Non posso dire nulla per ora, ma non mi lascerò prendere alla sprovvista. Chiama due marinai e fa’ preparare due imbarcazioni, le due più grandi, e fa’ imbarcare dei viveri e delle armi. — Due marinai accorsero alla chiamata e si misero a disposizione della giovanetta, mentre il capitano tornava alle pompe. L’incendio, quantunque vigorosamente combattuto da tutto l’equipaggio fino dal suo primo divampare, progrediva e minacciava di estendersi a tutta la nave. La dispensa dei viveri era diventata una fornace ardente, entro cui si scioglievano i grassi, avvampavano gli alcools, si contorcevano e scoppiettavano le balle di baccalà, i barili di carne salata e di carne secca e le casse di biscotti, sollevando nuvoloni di fumo nero e fetente e nembi di scintille che uscivano impetuosi dal boccaporto, avvolgendo l’albero di maestra e le vele. Cupi brontolii e sordi scoppi s’udivano sotto il ponte a cui vi facevano eco le urla e i ruggiti sempre più spaventevoli delle dodici tigri che si sentivano soffocare, malgrado le coperte inzuppate d’acqua che avvolgevano le grandi gabbie. I legnami scricchiolavano, i puntelli del frapponte gemevano e cadevano, le tavole della coperta bruciavano, e il catrame delle fessure e dei fianchi provieri della nave bolliva, spandendo all’intorno un acre odore. Nella camera comune dell’equipaggio nessuno poteva più resistere. Gli uomini che formavano la catena coi mastelli, avevano dovuto ritirarsi da quel posto pericoloso per non venire soffocati dal fumo, e per tema che il pavimento mancasse improvvisamente sotto ai loro piedi. Le pompe però funzionavano sempre, senza posa. I marinai che conservavano un sangue freddo ammirabile, lavoravano con suprema energia sotto gli occhi del capitano e del pilota Asthor. Quando uno era sfinito, un altro lo sostituiva, e i torrenti d’acqua continuavano a rovesciarsi, con fischi acuti, nelle fumose cavità del vascello. Tre volte il capitano Hill, con un’audacia senza pari, si era avventurato fra le gettate di fumo irrompenti dal boccaporto e i nembi di scintille per accertarsi dello stato dell’incendio, ma era stato costretto a retrocedere per non morire asfissiato. Alle tre pomeridiane Asthor, che si era avventurato nella camera comune per salvare le casse e le brande dell’equipaggio, risalì frettolosamente sul ponte coi capelli e la barba mezzo arsi. — Capitano! — disse traendo da un lato l’americano. — Le fiamme hanno invaso la camera comune e il pavimento sta per crollare. — Si estende dunque il fuoco! — riprese con accento doloroso Hill. — Sì, malgrado i torrenti d’acqua che precipitano nella dispensa. — Cosa fare? cosa tentare?... — mormorò egli, gettando uno sguardo disperato su Anna, che stava seduta a poppa. Ad un tratto trasalì ed emise un grido di furore. — Gran Dio! — esclamò. A prua s’alzarono urla di terrore e parecchi marinai abbandonarono la prima pompa situata presso l’albero di trinchetto. Un nuvolone di fumo irrompeva dal boccaporto di prua che metteva nella camera comune dell’equipaggio, misto a folate di scintille. Le fiamme avevano divorate le tramezzate e fatto crollare il pavimento e investivano ora il piede dell’albero di trinchetto. Il capitano Hill si gettò fra i fuggenti, e raccolta una scure tuonò: — Ai vostri posti!... — Fra i marinai vi fu un istante di esitazione; ma comprendendo l’atto minaccioso del capitano, ritornarono alla pompa proviera dirigendo il getto d’acqua nella camera comune. Ma quegli sforzi erano vani. Alle otto, nel momento in cui sparivano sotto l’orizzonte gli ultimi bagliori del tramonto, una fiamma immensa irrompeva dal boccaporto di prua, illuminando sinistramente, d’una luce sanguigna le onde dell’Oceano Pacifico!... La _Nuova Georgia_ era perduta! CAPITOLO DECIMOSETTIMO. L’assalto delle tigri. Non vi è nulla di più terribile dell’incendio di una nave in alto mare. Sembrerebbe impossibile che un corpo galleggiante, contornato dall’acqua, potesse venire distrutto invece di esser salvato colla massima facilità: eppure sono rari i casi in cui un vascello riesce a sfuggire al disastro, quando il fuoco è scoppiato a bordo. Gli sforzi dell’equipaggio sono quasi sempre inefficaci a porre un freno all’elemento distruttore. Le pompe funzioneranno sempre, l’energia non verrà meno agli uomini, i torrenti d’acqua scenderanno senza posa nelle cavità della nave, ma il fuoco guadagnerà sempre di forza, poichè è rinchiuso in una prigione di legno, e questa, quantunque di fuori sia bagnata, nell’interno è sempre secca. Le ardenti vampe si dilatano con rapidità spaventevole, invadono le cabine, si allungano nelle corsie, intaccano i piedi degli alberi, distruggono i puntelli, divorano i bagli e i corbetti, consumano il sottosuolo del ponte, finchè la coperta intera, priva di appoggio, precipita nella stiva trascinando seco le pompe, l’alberatura, l’attrezzatura, il castello di prua, il cassero, e anche gli uomini, se non sono pronti ad abbandonare la fumante carcassa. Allora nulla più arresta la distruzione: l’implacabile fiamma, divorato il grande ammasso di legname e ringagliardita da quel nuovo elemento, intacca i fianchi, incenerisce i corbetti che formano l’ossatura; apre delle immense ferite. Il mare entrerà da quelle aperture fra l’acqua irrompente e il fuoco, si combatterà l’ultima battaglia, le vampe si spegneranno bruscamente sotto l’invasione del nuovo e più potente elemento, ma la nave sarà tuttavia perduta. Il fumante rottame non galleggerà più mai su l’azzurra superficie del mare, e affogato da quel nuovo nemico scenderà nei profondi abissi. Tale doveva essere la sorte della _Nuova Georgia_, se il caso non le veniva in aiuto. Ormai il fuoco si era impadronito di quel corpo galleggiante; non poteva essere che questione di poche ore. L’equipaggio, sfinito dal faticoso manovrare delle pompe, spaventato dall’irrompere improvviso di quella immensa cortina di fuoco, istupidito dal fumo che lo avvolgeva acciecandolo e soffocandolo, non ne poteva più. E per colmo di disgrazia si faceva strada il timore che il ponte, le cui tavole erano già diventate tanto ardenti da bruciare i piedi, fosse lì lì per crollare. Non restavano al loro posto che a gran pena, più per paura delle pistole del capitano e di Asthor, che per dovere o per speranza, poichè ormai avevano perduto ogni illusione sulla possibilità di salvare la nave. Quantunque tutti i getti delle pompe fossero stati diretti contro la camera comune, la grande fiamma ingigantiva a vista d’occhio, illuminando come in pieno giorno l’Oceano circostante. Si contorceva come fosse irritata nel trovarsi imprigionata fra le pareti della camera comune, spariva fra i densi nuvoloni di fumo, poi ricompariva più brillante e superba allungandosi verso le vele dell’albero di trinchetto ed eruttando contemporaneamente nembi di scintille, che il vento trasportava lontane lontane fra le tenebre, disperdendole sulle onde dell’Oceano Pacifico. Nel frapponte proviero si udivano sempre cupi ronzii, sordi brontolii, uno spaccarsi e un cadere di legnami ardenti e giù, in fondo alla stiva, i ruggiti delle dodici tigri e lo scricchiolare delle gabbie furiosamente investite da quei potenti e feroci abitatori delle _jungle_ indiane. Miss Anna, atterrita dal fuoco e da quelle urla, si era ritirata a poppa per tenersi pronta a scendere nelle due imbarcazioni; ma il capitano Hill e Asthor, che non avevano perduto ancora ogni speranza, facevano intrepidamente fronte all’incendio, tentando ogni mezzo per domarlo. Con le pistole in pugno, per incutere paura all’equipaggio e costringerlo con quella minaccia a continuare il duro lavoro, dirigevano i getti delle pompe or qua e or là, facevano tagliare questo o quel pezzo del castello di prua a fine d’isolare la fiamma irrompente, facevano recidere le manovre per salvare l’albero di trinchetto o ammainare le vele ed i pennoni che correvano maggior pericolo. Ma tutti i loro sforzi pareva che riuscissero infruttuosi. Alle dieci di sera dovettero far trasportare le pompe dietro l’albero di maestra avendo l’incendio guadagnato via. Ormai bruciava l’intero castello di prua e l’albero di bompresso si poteva considerare come perduto. Alle undici l’albero di trinchetto, la cui base doveva essere stata carbonizzata dall’incendio, precipitava attraverso la prua della nave, trascinando seco tutta la velatura e fracassando, nella caduta, le due ultime imbarcazioni sospese alle grue di cappone e parte della murata. Per alcuni istanti l’albero rimase sospeso, appoggiato alla coperta del legno, poi i paterazzi e le sartie si spezzarono rimbalzando e precipitò in mare sollevando una larga ondata. — Ecco uno stuzzicadenti andato, — gridò l’allampanato Mac Bjorn. — Un altro che lo segua, e siamo fritti!... — Taci là, uccello del malaugurio! — esclamò Asthor. — È finita, — disse Anna, rabbrividendo. — Povero padre mio!... — Sì, è proprio finita, — rispose il capitano Hill con voce sorda. — Non ci rimane che di salvarci nelle imbarcazioni; prima di partire, andiamo a vedere i progressi dell’incendio, Asthor. — Andiamo a vedere, signore, — riprese questi. S’avanzarono attraverso il fumo e alle scintille che avvolgevano interamente la nave e si spinsero fino al boccaporto di maestra, mentre l’equipaggio, quantunque stremato di forze, riprendeva la faticosa manovra. La fiamma vorace, quasi fosse soddisfatta di aver abbattuto il grande albero, si era abbassata, ma lavorava con tutta lena a distruggere il castello di prua. Sotto il ponte però si sentivano ardere i legnami e precipitare i puntelli del frapponte e la stiva era illuminata da una estremità all’altra dal riflesso delle vampe. Il capitano e Asthor scesero dal boccaporto di maestra, si calarono nel frapponte e si spinsero verso prua. L’incendio avvampava sempre ed ora cominciava a intaccare la sottocoperta minacciando di farla crollare sotto i piedi dell’equipaggio. — Tutto è inutile! — esclamò il capitano. — Per la _Nuova Georgia_ è finita. — Lo vedo, — rispose il pilota crollando tristamente il capo. — Ma.... da dove viene questo fumo? — Dell’altro fumo? — Sì, e sale dalla stiva. — Si curvarono sull’apertura del frapponte e guardarono in giù. Dei frammenti di legname, forse lanciati dall’esplosione delle botti ripiene di alcools o di olio minerale, ardevano in fondo alla stiva, attorno al piede dell’albero di maestra a cui avevano dato già fuoco. — Fuggiamo! — esclamò il capitano. — È un nuovo incendio che avvampa, e possiamo venire presi in mezzo. — Addio, _Nuova Georgia_, — disse il pilota. — Sei perduta per sempre! — Risalirono frettolosamente in coperta, mentre le tigri, mezze soffocate e diventate furiose dalla vicinanza di quel nuovo incendio, ruggivano più forte che mai. — Anna, — disse il capitano abbracciando la figlia. — Tutto è ormai perduto e non ci rimane che di lasciare questa disgraziata nave. — Non vi è più alcuna speranza? — chiese la giovanetta colle lagrime agli occhi. — Nessuna. Finchè io dispongo tutto pel salvataggio, scendi nella mia cabina, raduna le carte di bordo, i valori, e vieni a raggiungermi. — Sì, padre mio. — Mentre Anna scendeva nel quadro di poppa, il capitano gridò: — Si abbandonino le pompe e si raccolgano quanti viveri si possono trovare. — Si abbandona la nave? — chiesero i marinai. — Sì, amici miei, — rispose il capitano con voce commossa. — La _Nuova Georgia_ è perduta! — Affrettiamoci, — disse Asthor. — L’albero di maestra può piombarci addosso da un momento all’altro. — Andiamo a vedere se si può salvare qualche cosa nella dispensa, — disse Bill volgendosi verso i naufraghi. — Vuoi abbruciarti? — gli chiese Asthor. — Là dentro fa molto caldo, mio caro. — Noi siamo di pelle dura, — rispose Mac Bjorn con un sogghigno. — Andiamo, amici!... — Bill e i compagni, nonostante i vortici di fumo, discesero dal boccaporto di maestra, mentre l’equipaggio americano si sparpagliava pel ponte onde riunire i barili d’acqua e le casse di biscotti e di carne salata, che avevano levate dalla camera comune, prima che il fuoco la invadesse. Il capitano Hill, Asthor, i gabbieri Mariland, Grinnell e Fulton si portarono a poppa per rimorchiare le due scialuppe, le sole che ormai rimanevano, sotto la scala di tribordo. Già stavano per ritirare le gomene, quando in fondo alla stiva si udirono urla feroci e ruggiti formidabili. Il capitano rabbrividì. — Gran Dio! — esclamò. — Che le tigri abbiano spezzate le gabbie? — È impossibile, — rispose il pilota. — A meno che qualcuno.... — Non finì. Due marinai che erano scesi nel frapponte sperando di aiutare i naufraghi nelle loro ricerche, si slanciarono in coperta coi capelli irti, i volti disfatti da un terrore impossibile a descriversi, gridando con voce disidrata: — Le tigri!... Si salvi chi può. — Tradimento! — urlò una voce. Poi, attraverso il fumo ed ai bagliori dell’incendio, si videro irrompere sul ponte, con un balzo gigantesco, le dodici tigri, ma libere, affamate di carne umana, furibonde per la lunga prigionia, più terribili di un migliaio di antropofagi! L’assalto fu irresistibile e mostruoso. Balzando attraverso alle fiamme e al fumo, piombarono fra l’equipaggio americano che era inerme e a cui il terrore aveva paralizzate le forze. Una scena spaventevole accadde allora sul ponte del disgraziato veliero. Gli uomini che non pensavano nemmeno a fuggire, tanto era stato inaspettato quel brutale assalto, cadevano a due, a tre alla volta, atterrati dai potenti artigli delle belve o stritolati da quelle formidabili mascelle. Per alcuni istanti si udirono urla disperate, invocazioni, gemiti, rantoli e ruggiti, poi due colpi di pistola e la voce del capitano Hill che tuonava: — Sugli alberi!... Salvatevi sugli alberi!... Anna!... Anna, bárricati nella cabina!... — Unendo alle parole i fatti, il capitano si aggrappò d’un balzo alle griselle dell’albero di mezzana e s’inerpicò fino alla crocetta con fantastica rapidità. Due uomini lo raggiunsero tosto: erano il pilota e il gabbiere Grinnell. — Il mio equipaggio! — gridò il capitano che si strappava i capelli. — Anna!... O mia Anna!... — Tradimento! — esclamò il pilota. — Ah! miserabile Bill! — Datemi un fucile almeno! — esclamò il disgraziato comandante piangendo di rabbia. — Fulton, Mac-Land, O’Riel, Mariland, ove siete voi, gran Dio! — Tutti perduti! — rispose Grinnell, che era bianco come un cencio lavato. — Ah! miserabili forzati!... — Sì, sono stati loro che hanno aperto le gabbie, — disse il vecchio marinaio che piangeva come il capitano. — Ah! vi strapperò il cuore! — gridò l’americano con odio profondo. — Vedi nessuno sull’albero di maestra, Asthor? — Sì, sì; vedo attraverso il fumo due uomini aggrappati alla crocetta, — disse Grinnell. — E gli altri? — Le tigri stanno divorandoli, — rispose Asthor con voce cupa. — Sciagura sui naufraghi! — E Anna?... — Non temete per lei, capitano, — rispose Grinnell. — Vedo che il boccaporto di poppa è chiuso. — Era aperto prima? — Sì, ne sono certo, capitano. — Che l’abbia chiuso Anna? — Sì, deve essere stata la miss, che forse nel momento dell’allarme stava per salire in coperta. — Zitto!... — Delle grida! — esclamò Asthor, rabbrividendo. — Sì!... escono dal quadro.... Anna mia!... — Odo la voce di Bill! — gridò Grinnell. — Che si sieno rifugiati nel quadro di poppa, quei miserabili? — Udite! — esclamò Asthor. Fra i ruggiti delle belve che balzavano fra i cadaveri e i cupi brontolii dell’incendio, si udì echeggiare un colpo di pistola seguíto da un grido di dolore e da una orribile imprecazione. — Scendiamo! — esclamò il capitano fuori di sè. Il pilota lo afferrò a mezza vita con vigore straordinario. — No!... Non vi lascerò divorare dalle tigri, signore, — gridò. — Lasciatemi, Asthor! — disse il capitano cercando di liberarsi da quella stretta. — No.... aiuto Grinnell!... Sul ponte vi è la morte!... — Il capitano che pareva fosse impazzito stava per respingere i due fedeli compagni, quando il boccaporto di poppa si alzò e ne uscì un uomo. L’americano mise un vero ruggito. — Bill! — esclamò con un intraducibile accento d’odio. — Bill!... — CAPITOLO DECIMOTTAVO. La fuga dei forzati. Sì, l’uomo che usciva dal quadro di poppa ove erasi rifugiata Anna e che con un coraggio che rasentava la pazzia saliva su quel ponte mezzo arso e scorrazzato dalle dodici tigri indiane, era proprio Bill, il cupo e misterioso naufrago raccolto sul tempestoso Oceano. Cosa veniva a fare sul ponte del veliero? Veniva ad assistere al feroce pasto delle fiere o ad assicurarsi se tutti erano morti? Forse nè l’uno, nè l’altro. Il miserabile aveva le vesti a brandelli, quasi abbruciate, e pareva che penasse a mantenersi in piedi. Con una mano si stringeva il fianco destro da cui cadevano delle larghe goccie che parevano di sangue e nell’altra stringeva una cassetta. Le tigri nel vedere quella nuova preda si slanciarono verso di lui mettendo dei ruggiti da far gelare il sangue; ma retrocessero di colpo come se fossero state côlte da un misterioso terrore. Il naufrago aveva raddrizzato il corpo; i suoi occhi si erano accesi d’una viva fiamma; quegli occhi affascinavano ancora le fiere e le faceva tremare. Fece un gesto di minaccia, poi indietreggiò verso la poppa, barcollando salì sul cassero senza perdere di vista le dodici tigri che lo seguivano lentamente come se fossero attirate da una forza misteriosa, si arrampicò sulla murata e guardò l’Oceano gridando: — Poggia sotto, Mac Bjorn!... — Bill!... Infame Bill!... — urlò il capitano. Il naufrago alzò il capo. — Ah! siete voi, capitano Hill, — rispose con voce fioca. — Parola di marinaio che sono molto contento di rivedervi ancora vivo. — Cos’hai fatto della mia Anna?... — Anna! — esclamò il naufrago con voce cupa. — Mi ha conciato.... per bene.... morte e dannazione!... — Muori, cane! — esclamò il capitano levando dalla cintola di Asthor una pistola. Puntò l’arma sul miserabile, ma la mano gli tremava così fortemente per l’emozione e pel furore, da rendere impossibile la giustezza del tiro. — A me! — gridò il vecchio Asthor, levandogliela di mano. Mirò e fece fuoco. Bill mise un urlo e cadde dalla murata stramazzando in mare. — Corpo d’una spingarda! — gridò una voce che fu riconosciuta per quella di Mac Bjorn. — Quegli uccelli marini mi guastano il camerata. Al largo, compagni, e che il diavolo li bruci tutti!... — Sotto la poppa del legno si udirono dei colpi sordi, come se i miserabili sfondassero qualche cosa, poi apparve una delle due scialuppe. Mac Bjorn era al timone, Bill giaceva disteso sul banco e pareva senza vita; e gli altri arrancavano con gran vigore. Attraversarono la zona illuminata dall’incendio, poi sparvero fra le tenebre. In lontananza si udì ancora la voce beffarda dell’uomo allampanato che gridava: — Buona fortuna, capitano!... — Poi più nulla. — Fuggiti! — esclamò l’americano con voce strozzata. — Sì, — rispose Asthor, — dopo d’aver sfondata la seconda scialuppa. Ma forse Bill non è più. — E Anna?... È viva o morta?... — Speriamo che sia viva, — risposero i due marinai. — Ma se Bill.... o Dio!... se l’avesse uccisa? — È impossibile capitano! Aveva delle armi con sè e se Bill è rimasto ferito deve essersi ben difesa. — Oh! quale orribile situazione! — esclamò il disgraziato piangendo. — Potessi almeno scendere e.... — Zitto, signore, — disse Grinnell. — Cos’hai udito? — chiese l’americano afferrandolo strettamente per le braccia. — Ho udito la voce di miss Anna. — Ah!... Grinnell, non illudermi!... — Zitto, — disse Asthor. — Sì.... non m’inganno.... Grinnell ha udito bene.... ascoltate capitano!... — Dal quadro di poppa si alzò una voce abbastanza chiara, e quella voce aveva gridato: — Padre mio, dove sei?... — Anna! — gridò il capitano con voce tuonante. — Sei tu?... — chiese la giovanetta. — Sì, sono io, Anna! — Salvo? — Sì, salvo, e tu?... — Sono barricata nella mia cabina. — Ferita?... — No, padre mio. Sei solo?... — No, siamo in cinque. — E Asthor?... — Sono vivo, miss, ringraziato Iddio, — gridò il vecchio marinaio. — E gli altri? — Morti, — rispose il capitano. — E i naufraghi? — I miserabili sono fuggiti!... — Anche Bill? — Credo che sia morto. — Ha rubato tutti i valori! — Ma è morto! — E ha anche tentato di rapirmi. — Ah!... — esclamò il capitano. — Ora comprendo tutta la trama infernale. Quello scellerato amava mia figlia!... — Le tigri sono ancora sul ponte? — chiese Anna. — Sempre! — Non potete scendere? — Siamo sugli alberi, e le nostre armi sono scariche. — Brucia la _Nuova Georgia_? — Sì, ancora, ma.... Ehi, Asthor, non ti sembra che il fumo sia diminuito? — Sì, sì, — confermò il vecchio marinaio. — Ora distinguo chiaramente i due uomini salvatisi sull’albero di maestra, mentre prima il fumo ce li nascondeva. — Chi sono? — Fulton e Mariland. — Quale fortuna se l’incendio si spegnesse!... — Ma non possiamo egualmente discendere, — rispose il pilota. — Finchè le tigri scorrazzano la coperta nessuno potrà mettere i piedi sulla nave. — Lo so. — Se si potessero distruggere! — Le nostre pistole sono scariche, Asthor. — Un’idea, — esclamò il pilota. — Se miss Anna potesse aiutarci!... — In qual modo?... — Miss! — gridò il pilota. — Avete dei fucili e delle munizioni nella vostra cabina? — Alcuni istanti dopo la giovanetta rispose: — Vi sono tre carabine nel salotto. — Potete prenderle?... — Le tigri, sono tutte in coperta? — Sì, — rispose il capitano. — Posso tentare d’uscire dalla mia cabina? — Il capitano esitò a rispondere. Se nel momento in cui la coraggiosa ragazza lasciava la sua cabina, una tigre fosse discesa improvvisamente nel quadro di poppa, il cui boccaporto era stato lasciato aperto da Bill? Questo pensiero paralizzò per alcuni istanti la lingua del padre. — Anna, mia adorata figlia! — esclamò. — Non tentare una simile temerità!... — È necessaria per la vostra e per la mia salvezza, — rispose la giovanetta con voce risoluta. — Ma le tigri possono scendere. — In dieci secondi mi sbrigherò. Ma come farò io a farvi giungere le armi? — Ve lo dirò poi, — rispose Asthor. — State attenti alle tigri, e se qualcuna si avvicina al boccaporto di poppa, datemi l’avviso con un triplice grido. — Che Iddio ti aiuti, coraggiosa figlia! — esclamò il capitano con voce commossa. — Aspettate un istante, miss! — gridò Grinnell. Si levò dalla cintura il coltello da manovra e in tre colpi staccò il grosso boscello del picco della randa. — Ecco un proiettile che non faticherà a schiacciare la testa di una tigre, — rispose egli. — La prima che si avvicina al boccaporto di poppa, sentirà se pesa. — Grazie, Grinnell, — disse il capitano. — Spicciati, Anna! — Attenti alle tigri! Io esco dalla cabina! — I tre uomini, in preda ad un’ansietà impossibile a descriversi, attesero fra il più profondo silenzio. Le tigri si erano radunate tutte verso prua, e malgrado il fumo e le scintille che uscivano dalla camera comune, dilaniavano i cadaveri che ingombravano la coperta mugolando e stritolando colle potenti mascelle le ossa di quei disgraziati. Pel momento non pensavano ai vivi, sicure forse di avere più tardi anche quelli. Ad un tratto però una grande tigre alzò la testa e aguzzò gli orecchi, mettendo un sordo miagolio, uno di quei miagolii che sono propri delle tigri e somigliano a veri ruggiti. Il capitano, Asthor e Grinnell impallidirono, poichè in quel momento appunto Anna doveva trovarsi nel salotto del quadro. — Grinnell! — mormorò il capitano con voce soffocata. — Sono pronto, — rispose il gabbiere alzando il pesante boscello. La tigre aveva interrotto il pasto e pareva che ascoltasse con profonda attenzione. Agitò la coda due o tre volte, poi si volse bruscamente verso poppa fissando gli occhi sul boccaporto del quadro. — Ha udito qualche cosa, — mormorò Asthor, rabbrividendo. — Sì, — rispose il capitano, la cui fronte s’imperlava d’un freddo sudore. La tigre rimase immobile per alcuni istanti, guardando sempre il boccaporto con quei suoi occhi che avevano dei verdi riflessi, poi si diresse silenziosamente verso poppa, ma come indecisa. — Anna!... Anna!... la tigre! — gridò il capitano. Grinnell levò il pesante boscello e lo scagliò verso la fiera, la quale con un grande balzo lo evitò, fuggendo verso prua. Nel quadro s’udì un colpo sordo, come di una porta che si chiude con violenza, poi la voce di Anna che gridava con accento trionfante: — Padre, siamo salvi!... — Hai le armi? — Sì!... — Barrica la porta. — È barricata. — A te, ora, — disse il capitano, volgendosi verso Asthor. — Miss, — gridò il vecchio pilota. — Occupate la vostra cabina o quella del capitano? — La mia, — rispose Anna. — La vostra finestra guarda.... — A babordo, presso il timone. — Se lancio una corda dritto il timone, potreste prenderla?... — Lo spero. — Attenzione, dunque!... — Il pilota ritirò il gherlino della bandiera, una solida funicella che poteva sopportare un peso di trenta o quaranta chilogrammi, all’estremità vi attaccò il suo coltello di manovra, poi gridò: — Miss, lancio la fune!... — E la lanciò, tenendo in mano l’estremità opposta, e con una precisione tale, che il coltello andò a fermarsi presso il timone. Un braccio, quello della giovanetta, uscì dalla piccola finestra della cabina e la mano s’impadronì del gherlino. — Tenete saldo l’altro capo, — diss’ella. — Non temete, — rispose Asthor. Passarono alcuni minuti. Le tigri avevano interrotto il loro mostruoso banchetto e guatavano con una certa inquietudine quella strana manovra, quasi presentissero che per loro doveva avere delle mortali conseguenze. — Issate! — gridò ad un tratto Anna. Asthor e Grinnell ritirarono il gherlino che era diventato pesante e videro con gioia che vi erano attaccate tre carabine e un pacco voluminoso che doveva contenere le munizioni. — Siamo salvi! — esclamò il capitano, afferrando le armi. — Brava fanciulla! Tagliate le griselle onde le tigri non salgano, e poi fuoco a volontà. — Le fiere che non dovevano ignorare la potenza delle armi da fuoco e che avevano seguite con viva inquietudine quelle diverse manovre, si erano radunate in mezzo alla coperta fissando ferocemente i tre marinai e cacciando sordi mugolii. — Fuoco! — gridò il capitano. Tre detonazioni scoppiarono formandone una sola. Una gran tigre, che pareva capitanasse le altre, fece un balzo immenso mandando un ruggito terribile e si distese sul ponte dibattendosi furiosamente. Le sue compagne, atterrite da quella prima scarica, si misero a balzare pel ponte urlando e ruggendo, urtandosi confusamente e attraversando con un solo salto il vascello da babordo a tribordo. Ma i colpi si succedevano ai colpi, le palle fischiavano e andavano implacabilmente a ferire con una precisione terribile. Invano le fiere raddoppiavano i balzi e i ruggiti; invano si slanciavano all’impazzata contro l’albero, dalla cui cima il capitano, Asthor e Grinnell le fulminavano, e invano fuggivano, cercando di ripararsi dietro ai barili e alle casse e agli attrezzi sparsi sul ponte. — Fuoco! fuoco! — gridava sempre il capitano, mentre Fulton e Mariland, inerpicati sull’alberetto di maestra, mandavano urrà fragorosi. La fucilata continuava sempre più forte, sempre più precisa, abbattendo una ad una quelle formidabili ma impotenti avversarie. In capo a dieci minuti sette tigri giacevano senza vita sul cassero, due si dibattevano fra le strette dell’agonia, una, impazzita dal terrore, era balzata in mare dove i pescicani l’avevano trascinata nei profondi abissi. L’undicesima, gravemente ferita, si trascinava pel ponte pieno di sangue cercando di raggiungere l’albero per tentare, con un ultimo sforzo, di slanciarsi fino alla coffa, e la dodicesima si era ritirata a prua, accovacciandosi dietro a due casse. — Due scariche ancora, — disse il capitano Hill, — e potremo discendere. — Altri tre colpi di carabina echeggiarono, e la tigre moribonda cadde fulminata ai piedi dell’albero di mezzana. — All’altra, — disse Asthor ricaricando l’arma. In quell’istante Grinnell mise un grido di rabbia. — La tigre è fuggita! — esclamò. — Dove? — Nella camera comune. — Che si sia spento il fuoco? — Così deve essere, — disse Asthor. — Ma.... come faremo ora a scovarla? — Avete paura? — chiese il capitano. — No, — risposero i due marinai. — Allora scendiamo, e affrontiamola!... — CAPITOLO DECIMONONO. Sul rottame. La proposta del capitano, come ci si può immaginare, era temeraria, poichè le tigri sono senza dubbio le fiere più coraggiose del mondo, le quali non temono che rare volte l’uomo, e si gettano, con un’audacia che rasenta la pazzia, contro i cacciatori, senza badare al numero nè alle armi. Del resto quello era l’unico mezzo per scovarla, poichè poteva rimanere celata dodici, fors’anche ventiquattr’ore e forse anche di più, prolungando la prigionia del capitano e dei suoi compagni non solo, ma mettendoli alle strette con la fame e con la sete. Essendo state tagliate le griselle, i tre valorosi uomini si lasciarono scivolare lungo i paterazzi, portando seco le carabine e buona parte di munizioni. La tigre, che senza dubbio gli spiava dal suo nascondiglio, nel vederli porre piede sul ponte, fece udire un brontolío minaccioso. — Non commettete imprudenze, — disse il capitano ai due compagni. — Tenetevi presso di me, e badate di non fallire il colpo. — Tenendosi al coperto dalle casse e dai barili che ingombravano la coperta, il capitano si spinse con gli altri fino a dieci passi dal castello di prua. — Scarica il fucile attraverso il castello, Grinnell. — Il gabbiere fece partire il colpo. Alla detonazione la tigre mise un ruggito terribile e comparve sulla porta della camera comune, ma si ritrasse prima ancora che il capitano e Asthor potessero mirarla. — Ha paura, — disse Grinnell, ricaricando prontamente il fucile. Asthor raccolse un boscello e lo lanciò nella camera. Questa volta la tigre si slanciò fuori mugolando. Si raccolse su sè stessa per prendere lo slancio e balzò innanzi descrivendo una grande parabola. Tre spari rimbombarono. La fiera, arrestata di colpo nella sua volata, stramazzò da un lato andando a battere la testa contro la murata di babordo. Facendo uno sforzo disperato si rialzò ancora, tentando di riprendere lo slancio per precipitarsi addosso agli assalitori; ma improvvisamente le forze le vennero meno e si accasciò rimanendo immobile. Era morta!... — Hurrà! Hurrà! — gridarono Asthor, Grinnell, Fulton e Mariland. Il capitano si slanciò verso poppa urlando: — Anna!... Anna!... Siamo salvi!... — Nel quadro di poppa s’udì una porta aprirsi con fracasso, s’udì gemere la scala e la coraggiosa giovanetta comparve precipitandosi nelle braccia di suo padre. — Mia Anna!... — esclamò il capitano, stringendosela al petto. — Quanto ho tremato per te!... — Ed io quanto per voi tutti!... — esclamò la giovanetta piangendo di gioia. — Siamo salvi? — Sì, ringraziato il cielo!... — E le tigri? — Tutte morte. — E l’incendio? — Si spegne! — gridò il pilota accorrendo. — Si spegne! — esclamarono Anna e il capitano. — Sì, — rispose il vecchio marinaio. — Altro non arde che un cumulo di rottami ardenti, ma che con poche pompate spegneremo. — È un miracolo questo! — esclamò il capitano Hill. — Lo credo, signore, — rispose Asthor. — Ed i naufraghi? — chiese Anna. — Sono fuggiti ieri sera, e a quest’ora devono essere assai lontani, — rispose il capitano. — Ma il cuore mi dice che un giorno io li ritroverò, e allora guai a loro!... — L’avete ucciso Bill? — Asthor sparò contro di lui un colpo di pistola, facendolo stramazzare in mare dalla murata di poppa. Quando quei miserabili abbandonarono la _Nuova Georgia_, egli non dava più segno di vita. — Infame! — esclamò Anna. — Dimmi, — disse il capitano. — Passarono dal quadro di poppa quei furfanti? — Sì, — rispose Anna. — Attraversarono il salotto e scesero nelle scialuppe passando per la finestra. — E Bill?... — Bill lo udii entrare poco dopo e bussare alla mia cabina. Avevo sentito le tue grida, sapevo ormai che le tigri erano sul ponte e mi ero chiusa dentro armandomi d’una pistola. — Continua, Anna. — Gli chiesi cosa volesse, e mi rispose che voleva salvarmi. Non sapendo ancora chi egli precisamente fosse ed ignorando che era d’accordo coi suoi compagni, aprii e vidi che teneva in mano la cassetta contenente i tuoi valori. Solo allora la benda mi cadde dagli occhi. «Cosa avete rubato?» gli chiesi. «I dollari di vostro padre,» mi rispose egli sogghignando. «Ho pensato che possono servire più a me che agli altri.» «Andatevene, o vi uccido!» gridai io, mostrandogli la pistola. Egli si mise a ridere dicendomi: «Me ne andrò, ma insieme con voi, perchè io vi amo!...» «Andatevene!» ripetei alzando l’arma. «Ah!... ah!...» esclamò egli ironicamente. «La colomba si crede forte, ma io sono uno sparviero che non ha paura.» Fece atto di gettarsi addosso a me. Avevo l’arma alzata: tesi il braccio, feci fuoco e richiusi la porta barricandomi dentro col tavolo. Lo sentii mandare un grido di dolore, poi s’allontanò imprecando, e dal modo che camminava compresi che l’avevo ferito, poichè s’arrestò più volte sulla scala. — Miserabile! — esclamò il capitano. — Ora comprendo tutto.... egli ti amava!... Sì.... mi ricordo che ti guardava sempre in istrana guisa e che ti seguiva ognora pel ponte.... Egli si era proposto di rubarmi la nave e te insieme, capisci!... Quale trama infernale!... Mio Dio!... — Ma chi credi che siano quegli uomini? — Dei forzati, Anna, degli evasi dal penitenziario dell’isola di Norfolk! Sia maledetto il giorno in cui raccolsi quell’uomo morente sul tempestoso Oceano. Bella riconoscenza!... Orsù, non pensiamo più a costoro, ma occupiamoci di noi. Asthor!... — Il marinaio, che stava preparando una pompa, accorse con la massima prestezza. — Vi è molto fumo nella stiva? — gli chiese il capitano. — No, signore, — rispose egli. — Si può discendere? — Sì. — Andiamo a vedere, adunque. — Detto fatto, lasciarono il ponte e scesero la scala che metteva nel frapponte. Dalla dispensa uscivano ancora, ma ad intervalli, delle nubi di fumo; ma non era più nè denso nè puzzolente; anche dal profondo della stiva qualche getto saliva, ma leggiero. — L’incendio si spegne da ambe le parti, — disse il capitano. — Come succede ciò? — Non so davvero come spiegare questo miracolo, — rispose il pilota. — Eppure ieri sera il fuoco ardeva vigorosamente. — Andiamo innanzi, vecchio mio. — Tenendosi curvi per evitare il fumo che rasentava la vôlta del frapponte, s’avvicinarono alla dispensa la quale era sparsa di legni ancora ardenti, ma che parevano che fossero lì lì per ispegnersi. — Odi! — esclamò ad un tratto il capitano, arrestandosi bruscamente. — To’! — esclamò il pilota. — Si direbbe che cade dell’acqua sul fuoco. — Di dove viene? Pompano i nostri uomini? — No, — rispose il pilota. Il capitano si spinse più innanzi, e tornò ad arrestarsi esclamando: — Guarda, Asthor! — Il vecchio marinaio guardò nella direzione indicata, e vide una larga apertura dalla quale entravano dei getti d’acqua spumeggiante. — Ora comprendo! — esclamò. — Il fuoco ha intaccato i corbetti ed ha aperto una falla; le onde entrano rimbalzando contro la prua della nave. Senza quel buco provvidenziale, l’incendio non si sarebbe spento. — È vero, — disse assentendo col capo il capitano. — Siano benedette quelle onde! — Purchè quell’apertura non comprometta, più tardi, la sicurezza della _Nuova Georgia_. — La tureremo, Asthor. — Ma come si è spento il fuoco scoppiato nella stiva? — Ora lo sapremo. — Lasciarono il frapponte e scesero nella stiva. Appena giunti nel fondo, s’accorsero che vi era un buon palmo d’acqua. — Tutto si spiega, — disse il capitano. — L’acqua entrata dalla falla si è riversata qui ed ha spento il secondo incendio. Risaliamo, Asthor. — Lasciarono la stiva e tornarono in coperta. — Ebbene? — chiese Anna. — Il nostro legno pel momento è salvo, — rispose il capitano. — Alle pompe, giovanotti!... — Le braccia erano scarse, ma fortunatamente erano robuste. In pochi istanti la pompa maggiore fu armata, il capitano ed i suoi quattro marinai impugnarono le traverse e si misero a lavorare con febbrile attività, mentre Anna, che non voleva essere da meno degli altri, dirigeva il getto sui fumanti rottami della dispensa e della camera comune. Le onde che lanciavano senza interruzione larghi getti d’acqua attraverso l’apertura fatta dall’incendio, li aiutavano con efficacia. Il fumo diventava di minuto in minuto meno denso ed i tizzoni si spegnevano rapidamente con lunghi sibili. A mezzodì il fuoco era del tutto spento. Il capitano chiamò attorno a sè i marinai e disse loro: — Ascoltatemi, amici: la nostra situazione, quantunque il fuoco sia stato spento, non è bella ma nemmeno disperata. La mia intenzione è quella di poggiare sull’isola più vicina, su quella Tanna che è una delle più note e che è popolata da polinesiani non troppo cattivi e colà costruirci una navicella cogli avanzi del nostro vascello. Tentare di raggiungere l’Australia con un legno ridotto a così mal partito sarebbe una pazzia, un voler affrontare una morte certa. Approvate il mio progetto? — Credo che sia il migliore, — disse Asthor. — Ebbene, rattopperemo alla meglio questa povera _Nuova Georgia_ e spiegheremo le vele per Tanna. Al lavoro, compagni, e senza perder tempo! — CAPITOLO VENTESIMO. Il naufragio della «Nuova Georgia.» Il pilota ed i tre marinai, impazienti di rimettersi alla vela, si posero al lavoro senza perdere tempo, sotto la direzione del capitano Hill. Innanzi tutto, sgombrarono la coperta che era sparsa di cadaveri mezzo divorati e di tigri. Gli avanzi del disgraziato equipaggio furono raccolti, rinchiusi in parecchie amache e calati in mare; dopo li seguirono le tigri, quantunque a tutti rincrescesse non poco di perdere quelle superbe pellicce, dalle quali si potevano ricavare degli splendidi tappeti d’un gran pregio. Pulita la coperta dalle larghe chiazze di sangue e trasportate nella stiva le casse e i barili che la ingombravano, procedettero al taglio dell’albero di maestra, che da un momento all’altro poteva rovinare sul ponte, essendo la sua base bruciata e la cassa distrutta. Lavorando vigorosamente d’ascia, dopo mezz’ora lo fecero precipitare in mare, avendo precedentemente recise le manovre e i cordami che lo univano all’albero di mezzana. La caduta di quel colosso danneggiò gravemente la murata di babordo, ma il pilota si ripromise di riparare il guasto a tempo più opportuno. Terminati i diversi lavori, scesero nel frapponte per tentare di chiudere la falla aperta dall’incendio, la quale lasciava entrare di tratto in tratto le onde. Quantunque misurasse quasi due metri di lunghezza e uno e mezzo di altezza, Asthor aiutato dai tre marinai riuscì ad otturarla alla meglio con delle materasse, tenute salde da parecchie tavole incrociate. Era un riparo momentaneo, inefficace contro le grandi ondate, ma poteva bastare per alcuni giorni e forse fino all’arrivo all’isola di Tanna. Alle otto pomeridiane, nel momento in cui il sole si tuffava, o meglio pareva che si tuffasse in mare, la _Nuova Georgia_ era pronta a riprendere la navigazione, interrotta da tante disgrazie. Il capitano stabilì i quarti di guardia per non stremare le forze di tutti, cosa quanto mai pericolosa, essendo l’equipaggio così scarso e la nave troppo grande e così malamente attrezzata, non possedendo che un solo albero. Asthor, Grinnell e Mariland dovevano montare il primo quarto; Hill, Fulton e Anna, giacchè questa non voleva essere da meno degli altri, e di manovra se ne intendeva, il secondo. Così almeno ognuno poteva riposare le sue quattr’ore, prima di riprendere il servizio delle altre. Alle nove l’equipaggio spiegò le vele sull’albero di mezzana, sciolse un’altra vela stabilita a prua a mo’ di fiocco, Asthor si mise al timone e la _Nuova Georgia_ riprese a navigare con la prua rivolta al nord, ossia verso l’arcipelago delle Nuove Ebridi. Il vento era debole e il mare un po’ agitato, però la notte era chiara, essendo allora allora sorta la luna. La nave, quantunque non troppo bene servita dall’albero di mezzana, che come si sa è situato a poppa, cominciò a filare ma con una straordinaria lentezza. Era molto se percorreva due nodi all’ora! Il capitano, Anna e Fulton si ritirarono nelle loro cabine, lasciando i compagni di guardia. Nulla che meriti di venir notato accadde durante il primo quarto. La _Nuova Georgia_, quantunque sovente uscisse di rotta obbligando il pilota a un’attiva sorveglianza del timone per causa dell’albero di mezzana che esercitava uno sforzo squilibrato sulla poppa, navigò senza interruzione percorrendo in quelle prime quattro ore circa nove nodi. Alla mezzanotte il capitano, Fulton ed Anna, che non aveva voluto rimanere nella sua cabina, considerandosi già come un uomo dell’equipaggio, montarono il secondo quarto. All’alba il capitano che voleva dar riposo ad Anna, stava per svegliare il pilota e i suoi compagni, quando apparve un fenomeno strano, che meravigliò tutti. Già da alcuni minuti era stato osservato che sul ponte cadevano dei fili leggieri leggieri, più sottili di quelli che si traggono dai bozzoli dei bachi da seta e che si attaccavano in gran numero attorno ai pennoni, alle vele, ai paterazzi e alle sartie dell’albero di mezzana. Fulton ed Anna che si erano accorti di ciò, stavano per domandare al capitano la spiegazione di quel fenomeno bizzarro, quando si videro cadere sul ponte numerosi filamenti d’una bianchezza abbagliante, che pareva scendessero dalle alte regioni dell’atmosfera. Dapprima erano poche dozzine, ma un po’ più tardi apparve in aria come una nube vaporosa, leggiera, la quale si tingeva dei primi riflessi dell’aurora e scendeva con un largo ondeggiamento, estendendosi sopra la nave e sopra un gran tratto dell’Oceano circostante. — Che cosa succede, padre mio? — chiese Anna nel colmo della sorpresa. Il capitano non rispose. Fissava attentamente quella strana nube che continuava a discendere, lasciando cadere sul ponte e sull’attrezzatura delle tele d’una leggerezza unica, di cui talune misuravano perfino venti metri e parevano formate da un solo filo bizzarramente intrecciato. — Ah! — esclamò ad un tratto ridendo. — Noi assistiamo ad uno dei più curiosi fenomeni e che non è tanto comune. — A quale? — chiesero Anna e Fulton. — A una emigrazione di ragni, — rispose il capitano. — A una emigrazione di ragni! — esclamò la giovanetta con tono incredulo. — Sì, Anna. — Ma sono tele di ragno queste? — Non ti pare? — Hai ragione; quantunque siano bianchissime, e abbiano una forma speciale e mi sembrino più resistenti. — Ma io non vedo nessun ragno, — disse Fulton. — I ragni emigratori o aeronauti sono tanto piccoli, che si stenta a vederli; ma se tu osservi bene, li troverai fra le loro tele, — disse il capitano. — Il fenomeno non è nuovo ed è stato più volte osservato dagli scienziati. — Ma che ragni sono? — chiese Anna che andava di sorpresa in sorpresa. — E perchè intraprendono simili strane emigrazioni? — A quale specie appartengano non lo saprei dire, come pure ignoro i motivi che li spingono ad abbandonarsi alle correnti aeree. Per lo più questi viaggi si attribuiscono a eccentricità di ragni vagabondi; altri credono che siano dovuti semplicemente a viaggi accidentali. Alcuni scienziati hanno assistito alla partenza di questi ragni e specialmente a parecchie della specie dei _thomicus viaticus_. — Deve essere stata una partenza curiosissima. — I piccoli ragni prima di abbandonarsi all’aria, si arrampicavano sulla cima degli steli delle graminacee o sulla punta estrema dei gambi del frumento; di là gonfiavano l’addome, spingevano in aria un fascio di fili leggerissimi che faceva l’ufficio d’un pallone, poi al primo colpo d’aria lasciavano il loro punto d’appoggio e si lasciavano, trasportare. — To’!... To’!... — esclamò Fulton stupito. — I ragni si mettono a tessere nuovi ragnateli. — Si preparano alla partenza, — disse il capitano. — Come! riprendono il viaggio? — chiese Anna. — Lo vedrai fra breve. — Infatti tutti quei ragni avevano abbandonati i vecchi ragnateli che erano diventati pesanti per l’umidità notturna e ne tessevano degli altri con sorprendente rapidità. In capo a mezz’ora una gran parte, dopo d’aver lanciato in aria, con un soffio, il nuovo filo, s’abbandonavano al venticello mattutino che li trasportò via colla massima facilità innalzandoli verso le alte regioni dell’atmosfera. Al secondo colpo di vento i rimanenti seguivano i loro compagni scomparendo fra i primi raggi di sole. — Buon viaggio! — gridò una voce allegra. — Ah! Come v’invidio! — Era Asthor che da parecchi minuti era salito in coperta e che osservava curiosamente quella emigrazione meravigliosa. — Ah! sei tu, vecchio mio, — disse il capitano. — Sì; e giunto in tempo per assistere a questo bizzarro fenomeno. Come va la _Nuova Georgia_, signore? — Cammina come uno zoppo, o meglio come un uccello che ha le ali ferite. — Tutto il giorno la _Nuova Georgia_ filò assai lentamente verso il nord; ma vicino a sera accelerò la corsa, essendosi alzato un forte vento dal sud-sud-ovest. Il sole si tuffò nel seno d’un nuvolone di colore oscuro, e il mare si alzò in larghe ondate rompendosi con fracasso contro i fianchi della nave. Il capitano non volle prender riposo e rimase in coperta con tutto l’equipaggio. Era diventato inquieto, visitava sovente la falla che opponeva un debole riparo contro i colpi di mare e scendeva di frequente nella stiva per assicurarsi della solidità dell’albero di mezzana, il quale essendo privo dell’appoggio di quello di maestra, dacchè tutte le gomene erano state tagliate e anche del rinforzo delle griselle, poteva cedere e precipitare in coperta. Alle dieci di notte il vento fischiava con grande violenza fra il sartiame e le vele; e fra la grande nube che si era distesa sull’Oceano, lampeggiava e tuonava fragorosamente. Le onde battevano furiosamente i fianchi dello stremato vascello, il quale rollava e immergeva la prua, vibrando poderose testate a babordo e a tribordo. Per maggior disgrazia l’oscurità era così profonda che non si poteva distinguere nulla, a una gomena di distanza. Anna, malgrado le preghiere del capitano, era risalita in coperta e guardava intrepidamente il tempestoso Oceano, quasi lo sfidasse. La coraggiosa fanciulla non tremava e voleva mostrarsi degna del padre suo, che passava per uno dei più intrepidi lupi di mare delle due Americhe. A mezzanotte, Grinnell che era disceso nel frapponte s’accorse che le traverse situate dietro alle materasse che ostruivano la falla, minacciavano di cedere contro l’impeto crescente delle onde. Asthor accorse prontamente e aiutato da Fulton le assicurò meglio che potè, ammonticchiandovi dietro quante botti e quante casse si potevano trovare. L’acqua però filtrava attraverso alle fessure e si udiva precipitare in fondo alla stiva in grossi zampilli. Più tardi il mare divenne ancor più cattivo e il vento accrebbe la corsa del veliero, il quale divorava lo spazio con fantastica rapidità non ostante che gli fosse rimasto un solo albero. Frequenti colpi di mare, superando le mal ferme e mezzo infrante murate dalla caduta dei due alberi di maestra e di trinchetto, si rompevano in coperta spazzando via i rottami, entrando nel castello di prua e inabissandosi con sordo fragore nelle profondità della stiva. Le casse, i barili e le gabbie delle tigri, non più trattenute dai legami o dal peso, correvano per ogni dove, urtandosi e spaccandosi; ma l’equipaggio non aveva tempo di occuparsene, intento come era a manovrare il grande vascello, a cui sarebbero stati necessari almeno altri dieci uomini per ben dirigerlo. Il capitano che diventava ad ogni istante più inquieto, invano interrogava le tenebre coll’acutezza del suo sguardo, sperando sempre di scorgere qualche fuoco che indicasse la vicinanza dell’isola. Alle due del mattino però, al baleno d’un lampo, scorse sulla linea dell’orizzonte una grande massa oscura, sulla cui cima ondeggiava un nuvolone di fumo tinto di rosso. — Un vulcano! — esclamò. — Dove? — chiese una voce. — Laggiù, Anna. — Una terra adunque? — chiese la giovanetta. — È Tanna! — esclamò il capitano. — So che ha un vulcano quasi sempre in attività. — Ah! padre!... — Asthor! — gridò Hill. — Fa’ imbrogliare le vele e governa dritto all’asta di prua! — In quell’istesso momento a poppa si udì uno scroscio violento. L’albero di mezzana era rovinato attraverso il cassero, tuffando l’estremità dell’alberetto nel seno delle onde spumanti! CAPITOLO VENTESIMOPRIMO. Il naufragio. L’isola di Tanna è una delle più belle e delle più pittoresche del gruppo delle Nuove Ebridi. È la più meridionale di tutte, ma è la più conosciuta, o lo era a quel tempo, essendo già stata visitata dal navigatore Quiros nel 1606, da Bougainville nel 1768 e più tardi da Cook. È un’isola di natura essenzialmente vulcanica, e si calcola che la sua lunghezza non superi le sette leghe su tre di larghezza. È montuosa per la maggior parte e coperta da fitti boschi, ha un vulcano che spesso è in attività, molte sorgenti termali e certe parti del suolo esalano vapori sulfurei. Se gode fama di essere una delle più belle dell’intero arcipelago, dicesi che sia pure una delle più fertili, quantunque il suo terreno sia composto di varie specie di lave, di strati d’argilla mescolata a terra alluminosa, di massi di tripolo e di strati ricchissimi di zolfo. Le sue montagne si inalzano ad anfiteatro, e danno a quel lembo di terra, perduto sul Grande Oceano, un aspetto non solo ridente, ma interessante. Gli abitanti, il cui numero si faceva allora ascendere a tre o quattromila, non sono nè peggiori nè migliori di quelli dell’arcipelago intero, ma non certo perfidi come gli isolani di Tonga-Tabù e delle Figii, non avendo i navigatori che la visitarono, avuto mai da lagnarsi di loro. È bensì vero che al tempo del viaggio della _Nuova Georgia_ erano ancora antropofagi, ma non divoravano che i nemici uccisi in battaglia ed i prigionieri. Fra le tante isole, che si trovano disperse su quell’immenso Oceano, era ancora una delle migliori a cui potevano approdare i poveri superstiti dell’equipaggio della _Nuova Georgia_. Disgraziatamente minacciavano di toccare quella terra, che per loro rappresentava la salvezza, in tristissime condizioni. Infatti la caduta dell’albero di mezzana, avvenuta proprio nel momento in cui scoprivano l’isola, metteva in gran pericolo la sicurezza del vascello, che ormai si poteva considerare come un vero rottame in balia delle onde. Erano però tanto abituati alle disgrazie, che nessuno si spaventò troppo, quantunque corressero il pericolo di naufragare sulle scogliere dell’isola. Solamente Anna era impallidita, ma si era subito rimessa, fidando nell’abilità del padre suo. — Asthor! — gridò il capitano, vedendo l’albero cadere attraverso il cassero. — Tieni salda la ribolla del timone e cerca di guidare la nave verso l’isola, e voialtri gettate in mare l’albero. — I tre marinai assalirono l’albero a colpi di scure a fine di staccarlo completamente dal troncone; poi lo spezzarono sotto la crocetta essendo troppo pesante per le loro forze, indi lo spinsero nelle onde. La _Nuova Georgia_, che piegava sul babordo a causa del peso, si risollevò, e trasportata dal vento navigò verso l’isola ma andando attraverso alle onde, non avendo ormai più stabilità per mancanza di vele. Il capitano salì sul castello di prua e guardò attentamente. L’isola non era che a tre o quattro gomene, e da quel lato mostrava una spiaggia dolcemente inclinata e che pareva priva di quella corona di scogliere corallifere che circondano ordinariamente le terre dell’Oceano Pacifico. Vi era quindi la speranza di poter approdare, senza che la nave si sfracellasse, o per lo meno di arrenarsi senza troppa violenza. Le onde spingevano il disgraziato legno, il quale si sollevava penosamente, essendosi riaperta la falla ed avendo quindi cominciato a imbarcare acqua in grande quantità. Talvolta la violenza della risacca, che causava delle immense e spumeggianti contro-ondate, lo arrestava e lo trascinava al largo; ma poi riprendeva la corsa verso la costa, la quale di quando in quando si tingeva di rosso pei riflessi del vulcano che in quel momento eruttava con grande violenza, con sordi boati. — Ah! — esclamò il capitano. — Se potessi scoprire la baia della Risoluzione, che Cook ha descritto così bene! Ma chi sa da qual parte si trova, e poi.... per mille boccaporti! E se questa non fosse l’isola di Tanna!... Se ben mi ricordo, più al sud si trova un’altra isola, quella di Anatton!... Ma e il vulcano?... Anatton non ne ha, che io sappia. — La _Nuova Georgia_ continuava ad avanzare sprofondando nei cavi delle onde o dondolandosi spaventosamente sulle creste. Gemeva tutta come se presentisse la sua prossima fine, si rovesciava con crescente violenza sui fianchi come si dibattesse per non venire trascinata contro quella costa, ma i marosi la spingevano sempre e con maggior rapidità. Alle tre del mattino non era più che a due gomene dall’isola. Il capitano che osservava attentamente le onde per indovinare se il fondo era cosparso di roccie o di punte corallifere, gridò ad un tratto: — Giù le àncore!... — Mariland, Fulton e Grinnell strapparono le funicelle e le due àncore precipitarono nell’acqua facendo sparire rapidamente le catene attraverso alle cubie di prua. La nave filò innanzi per alcuni metri, poi si arrestò bruscamente virando di bordo. Quasi nell’istesso momento un urto violentissimo avveniva a poppa, facendo stramazzare sul ponte l’intero equipaggio. — Abbiamo toccato? — chiese Asthor risollevandosi lestamente. — La poppa si è arrenata! — gridò il capitano. — Nulla di rotto? — Non mi pare, — rispose Grinnell, che erasi precipitato sul cassero. — Ma l’acqua entra! — gridò Fulton. — Dove? — chiese il capitano. — La sento precipitare nella cala. — Che una punta rocciosa abbia sfondata la carena? — chiese Asthor. — È possibile, — rispose, il capitano. — Ma non importa; siamo su di un banco. — L’Oceano, sollevato furiosamente dal vento, non faceva segno di cessare. Enormi ondate assalivano da prua la _Nuova Georgia_ passando sopra le murate e il castello, e rompendosi in coperta. Gli ombrinali erano insufficienti a sfogarla, e correndo verso poppa precipitava nella profondità della stiva col fragore di una cateratta. La povera nave si agitava sotto quei colpi vigorosi e continui, scricchiolava e a poco a poco veniva respinta sempre più verso la costa, ma non vi era pericolo che la risacca la riportasse in alto mare. L’enorme massa si era incastrata fra le scogliere e le sabbie, e nessuna forza sarebbe stata capace di toglierla dal suo letto. Ciò bastava per rassicurare l’equipaggio, il quale ormai più nulla temeva, avendo la terra così vicina. Anche se l’Oceano l’avesse demolita, non si sarebbe trovato imbarazzato a porsi in salvo, nonostante le violentissime ondate. Finalmente verso le quattro cominciò ad albeggiare. Attraverso uno squarcio delle nubi passò un fascio di luce, la quale permise ai naufraghi di osservare l’isola che stava dinanzi a loro. La costa correva dall’est e all’ovest per un tratto di parecchie miglia, quasi in linea retta, senza un porto, una baia o una piccola rada, coperta da una folta vegetazione di alberi di cocco, di banani, di fichi di tutte le specie e di palme con le immense foglie disposte a ventaglio. Più oltre si alzavano parecchie montagne verdeggianti disposte ad anfiteatro, e in mezzo ad esse spiccava un vulcano dal cui cratere sorgeva una immensa colonna di fumo rossastro, la quale lasciava cadere, su una zona immensa, della cenere nerastra. Enormi massi incandescenti salivano alti e ricadevano sui fianchi della fumante montagna, scomparendo fra i boschi o rimbalzando fra le rupi. Cosa davvero strana, e in aperta contraddizione colle teorie degli scienziati: quel vulcano invece di dominare l’isola era più basso, e d’un bel tratto, delle vicine montagne! Il capitano, Anna, il pilota e i tre marinai esaminarono attentamente la costa temendo di veder raggruppati dei selvaggi pronti ad assalire il rottame, ma non videro nè un abitante, nè una capanna. — Sbarchiamo? — chiese Anna. — Farei volentieri una passeggiata sotto quei boschi. — Una lingua di terra lasciata scoperta dalla bassa marea si spinge fino sotto la poppa della nave, — disse Fulton. — Lo sbarco è facilissimo. — Si armarono tutti delle carabine, si misero alla cintola una scure, si empirono le tasche di polvere e di palle, raccolsero dei viveri, e calata una scala di corda, scesero sulla lingua di terra che la bassa marea aveva lasciata scoperta. Nonostante che le ondate di tratto in tratto l’attraversassero, dopo pochi minuti i sei naufraghi della _Nuova Georgia_ mettevano piede sull’isola, dinanzi ai grandi boschi. Il luogo non poteva essere più pittoresco. Dinanzi a loro una moltitudine di alberi, d’ogni specie e d’ogni dimensione, si estendeva a perdita d’occhio, coprendo interamente la costa. Si vedevano enormi _banian_, alberi venerati dagli abitanti dell’India, sorretti da centinaia di tronchi disposti come tante colonne; bellissime piante di noci di cocco che si piegavano sotto il peso delle frutta; vecchi fichi coi tronchi nodosi e lucenti, che mostravano certe frutta lanuginose; dei _catappa_, specie di mandorli che danno nocciuole due volte più grosse di quelle d’Europa e più delicate, e bellissimi banani, le cui foglie gigantesche dovevano spandere un’ombra deliziosa, durante le ore più calde della giornata. Un numero infinito di colombi, di pappagalli neri o con penne variopinte e di uccelletti, garrivano in mezzo ai rami, senza spaventarsi della comparsa di quegli uomini, che certo dovevano forse vedere per la prima volta. — È un vero Eden, — disse Anna che aspirava l’aria profumata di quei boschi, sotto i quali crescevano in gran numero bellissimi fiori cremisini. — Che disgrazia che questo paradiso terrestre sia abitato da mostruosi mangiatori di carne umana! — To’! — esclamò Grinnell. — Cosa vedo su quell’albero di cocco? — Tutti guardarono nella direzione indicata dal marinaio e scorsero su di un albero, quasi nascosto fra il fogliame, uno strano animale che pareva gli spiasse, aspettando forse che non facessero attenzione a lui per discendere e fuggire. — È un _birgus latro_! — esclamò il capitano. — È roba che si mangia? — chiese il pilota, impugnando la scure. — Una colazione succulenta, vecchio mio. — Allora il furbo non ci scapperà. A me, marinai! — Il pilota, Fulton, Grinnell e Mariland si slanciarono verso il cocco e abbracciatolo si misero a scuoterlo con tanto vigore da far precipitare al suolo lo strano animale, se si può chiamarlo così, il quale allargò tosto le sue numerose e magre zampe tentando di fuggire verso il mare, ma i marinai, che già contavano sulla colazione, in un lampo gli furono addosso e con due colpi di scure lo distesero senza vita sulla sabbia. CAPITOLO VENTESIMOSECONDO. Il primo selvaggio. Quel _birgus latro_, come lo aveva denominato il capitano Hill, quantunque sorpreso sulla terra, anzi sulla cima di una pianta di noci di cocco, era un abitante del mare, un crostaceo dei più grossi, un granchio gigante insomma. Questi _birgus_, che gl’isolani del Pacifico chiamano granchi ladri, hanno delle bizzarre abitudini che non si possono tacere. Quantunque siano abitatori del mare, passano una buona parte della loro vita a terra, cercando avidamente gli alberi delle noci di cocco che crescono in quasi tutte le isole dell’Oceano Pacifico. Questi strani granchi, sembrerebbe impossibile, vanno pazzi per le grosse noci e tutto arrischiano per procurarsele. Durante il giorno dormono nascosti nelle cavità delle rupi o sospesi ai rami degli alberi più folti, ed allorquando la notte cala si mettono in cerca delle loro frutta favorite. Trovato l’albero, lo scalano con la massima facilità, rompono la scorza fibrosa della noce più grossa e la lasciano cadere a terra. Come si sa, queste noci sono tanto dure, che anche l’uomo si troverebbe imbarazzato ad aprirle senza una scure, ma il granchio ladro non per questo si sgomenta. Essendo dotato di potenti morse, ne introduce una nel punto che si chiama _occhio_ della buccia, e girando su sè stesso la rompe pezzetto per pezzetto, bevendo poi avidamente il latte e mangiandosi la polpa bianca e delicata. Si dice che uniscano al cocco anche la noce oleosa del _pandanus_ per renderla più delicata, ma non sappiamo se ciò sia veramente esatto, quantunque tutti gli isolani lo confermino. Asthor ed i marinai, dopo di aver osservato con curiosità quel grosso crostaceo, raccolsero parecchie bracciate di legna secche, accesero sulla spiaggia un gran fuoco capace di arrostire un bue, e lo gettarono sui carboni. Mentre si cuoceva, Asthor e Grinnell si cacciarono nel bosco per far raccolta di frutta. Posero mano alle scuri e si misero ad abbattere un banano che aveva un grappolo di frutta del peso di cinquanta o sessanta chilogrammi. Non contenti, fecero un’ampia provvista di fichi, di _yambos_, frutta grossa come le pere d’Europa, tenere come il burro e rinfrescanti, e di grosse mandorle e di _magnagne_, grosse radici, dolci, farinose, che si cuociono sotto la cenere. Stavano per ritornare, quando videro una specie di gallo, alto circa quaranta centimetri, colle gambe armate di sproni, il becco rosso, lungo e robusto, gli occhi grandi e neri e le penne bigie e rosse. Saltellava sotto l’albero rizzando il suo ciuffo biancastro e cacciando degli acuti _ka-ha_, _ka-hu!_... — È un _kagù_, — disse Asthor. — Un arrosto eccellente, che merita un colpo di fucile. — Prendiamolo, pilota, — disse Grinnell. Asthor puntò lentamente il fucile, mirò con profonda attenzione e fece partire la scarica. Il pollo fece una svolazzata in giro e cadde stecchito. Grinnell stava per precipitarsi verso l’albero per raccogliere la preda, quando fra i rami d’un vicino cespuglio si rizzò un essere umano. — Un negro! — esclamò il marinaio arrestandosi e armando rapidamente il fucile. — Un selvaggio! — esclamò Asthor impugnando la scure. — Corbezzole! Non è tanto brutto come credevo. — Infatti quell’uomo improvvisamente apparso era un selvaggio, un isolano di Tanna. Come aveva giustamente osservato il pilota, non era brutto; tutt’altro. Era di media statura ma robusto, di lineamenti abbastanza regolari e la tinta bronzina; portava un semplice gonnellino di fili d’erba intrecciati, così stretto alla cintura, da produrgli un forte rigonfiamento sul ventre; aveva i capelli imbrattati di terra rossa mescolata con olio, sostenuti da una specie di freccia, e al collo e alle braccia portava ornamenti di scaglie di tartaruga e di denti di porco selvatico. Le sue armi consistevano in una scure di pietra ed in un arco. Vedendo Grinnell, non parve sorpreso troppo, e si limitò ad esclamare: — _Erramange_! (È un uomo!). — Cosa vuole quel mangiatore di carne umana? — si chiese il pilota perplesso. Gli fece cenno di avvicinarsi. Il selvaggio che aveva ascoltato i loro discorsi con profonda attenzione, come se cercasse d’indovinarne il significato, fece alcuni passi innanzi dicendo: — _Sir!_ — To’! — esclamò il pilota pieno di stupore. — Questo selvaggio conosce l’inglese! Non l’hai udito, Grinnell? Mi ha chiamato signore!... — Che sia un selvaggio incivilito?... — Lo sapremo in breve. Vuoi venire con noi? — chiese il pilota. L’isolano parve che studiasse il significato di quella domanda, poi rispose in inglese: — Yes, _sir_. (Sì, signore). — Si passò nella cintura la scure di pietra e si gettò l’arco in ispalla come se volesse, con quei due gesti, rassicurare i marinai, raccolse il _kagù_ e si avvicinò al pilota strofinando il proprio naso con quello di lui. — Cosa fa? — chiese Grinnell. — È un segno di amicizia, — rispose Asthor. — Vieni con me, amabile selvaggio, che ti offrirò una lauta colazione. — Si caricarono delle frutta e si posero tutti e tre in cammino. Grinnell però, che era diffidente, si mise dietro all’isolano, pronto ad accopparlo al primo atto offensivo. Attraversato un lembo di foresta, in pochi minuti giunsero all’accampamento, dove il capitano, allarmato da quel colpo di fucile sparato contro il _kagù_ li attendeva in preda ad una viva ansietà. — Signor Hill, vi conduco un invitato, — gridò il pilota da lontano. — Un antropofago! — esclamò Anna con accento poco rassicurato, mirando il selvaggio. — Ma è gentile assai, miss. Avanti, signor.... come diavolo lo chiamerò?... signor uomo-selvaggio. — L’isolano si avanzò, senza manifestare alcuna sorpresa, verso l’accampamento e andò a strofinare il suo naso con quello del capitano Hill; poi preso da un vivo terrore fece due salti indietro guardando la gran nave mezzo coricata sulle sabbie e impugnando la scure di pietra come per difendersi. Senza dubbio egli la scambiava per qualche mostro gigantesco e aveva paura di venire assalito e mangiato; ma poi si rassicurò e sedette dinanzi al fuoco. Fulton ritirò l’arrosto, che mandava un profumo delizioso e le _magnagne_ che erano state poste sotto la cenere, poi con due colpi di scure spaccò il guscio mettendo allo scoperto una polpa biancastra che prometteva di essere eccellente. Il selvaggio fece molto onore al pasto, gradì assai i biscotti e sorseggiò con avidità una colma tazza di vino. Tutti poi fecero un bel vuoto nella provvista delle frutta, magnificando la delicatezza dei banani, la fragranza delle pere e la dolcezza delle noci di cocco e delle mandorle. Accese le pipe e sdraiatisi sulle fresche erbette, all’ombra dei grandi alberi, il capitano si provò a interrogare il selvaggio, in lingua tonghese, che conosceva abbastanza bene, e cominciò con domandargli: — Come ti chiami? — Koturè, — rispose subito l’isolano nella stessa lingua. — È lontano il tuo villaggio? — Lassù, — rispose l’isolano, indicando la cima di una montagna coperta di fitti boschi. — Vorresti condurci? — Si! sì!... — Ci presenterai al tuo re?... — Sì. — Ci accoglierà bene? — Sì, perchè è un tuo parente. — Un mio parente!... — Sì, perchè egli è un bianco come sei te e come sono i tuoi compagni!... — CAPITOLO VENTESIMOTERZO. Il re bianco. Il capitano Hill, sua figlia, il pilota e i tre marinai, rimasero parecchi minuti senza parlare, tanta fu la loro sorpresa nell’apprendere dal selvaggio che un uomo bianco, insignito del grado di re, si trovava in quell’isola. Chi poteva essere costui, giunto in quella terra selvaggia e che a tutta prima sembrava inglese o per lo meno americano? Era un povero naufrago spinto su codeste spiagge da qualche tempesta, oppure un marinaio colà sbarcato volontariamente? Oppure era uno dei forzati fuggiti dalla _Nuova Georgia_ dopo l’odioso attentato? Questi erano i pensieri che conturbavano il cervello dei sei naufraghi della nave americana. — Chi può essere? — chiese Asthor, rompendo pel primo il silenzio. — Ah! come sarei curioso di saperlo! — Che sia uno dei forzati? — disse Grinnell. — È impossibile, — rispose Fulton. — Koturè ha parlato di uno solo, mentre loro erano otto. — Ma possono essere annegati gli altri, — osservò Mariland. — Lo sapremo, — disse il capitano. — State zitti, e lasciatemi interrogare quest’uomo. — Sì, sì! — esclamarono tutti. — Koturè, — riprese il capitano rivolgendosi al selvaggio che pareva ascoltasse con vivo interesse i loro discorsi, cercando di afferrare il vero senso delle parole. — È giovane o vecchio il mio parente di colore? — Giovane, — rispose l’isolano. — Ha la barba? — Sì, e del colore del metallo lucente. — Bionda vuoi dire. È molto tempo che è sbarcato nell’isola? — Koturè parve che pensasse un po’, quindi mostrò due volte le dieci dita aperte. — Venti giorni, — disse il capitano. — Allora quel bianco non è uno dei forzati. — È evidente, — disse Asthor, — avendo essi abbandonato la nostra nave da pochissimi giorni. Ma chi può essere? — Sarà qualche naufrago, — rispose Anna. — Koturè, — riprese il capitano, — come è giunto nella vostra isola quell’uomo? — È stato raccolto in mare, molto lontano di qui, da alcuni miei amici, — rispose risolano. — E l’avete fatto re? — Sì, dopo una vittoria riportata contro la tribù del capo Arrou. L’uomo bianco decise la sorte dello scontro, con la sua audacia. — Io desidero ardentemente di vedere questo mio parente. Se tu mi conduci da lui, ti regalo un fucile e t’insegno il modo di adoperarlo. — Ti condurrò, — rispose l’isolano. Essendosi in quel frattempo calmato il mare, ritiratasi la marea, il capitano, Anna e i marinai decisero di riguadagnare la nave per passare colà la notte. Il selvaggio dopo di aver un po’ esitato, li seguì. La sua meraviglia cresceva ad ogni istante nel vedere i diversi oggetti che ingombravano il ponte e nel mirare la profondità della stiva. Manifestava la sua gioia con frequenti strofinamenti di naso, non risparmiando nè quello del capitano nè quello di Anna. Quello di Asthor era diventato rosso come una peonia chinese, poichè il selvaggio preferiva sopra tutti, il naso grosso del vecchio pilota. Dopo una notte tranquilla, durante la quale il vulcano continuò a eruttare mettendo sordi boati, che si potevano udire a venti miglia di distanza, i naufraghi e il selvaggio lasciavano la nave per recarsi al villaggio del re bianco. Armatisi tutti, s’inoltrarono sotto i grandi boschi salendo una grande montagna coperta da fitti alberi. Raggiunta la cresta dopo molte fermate per dare riposo ad Anna ed una marcia di tre ore, si trovarono improvvisamente dinanzi a un villaggio, composto da una sessantina di capanne difese tutte all’ingiro da siepi di spine. Nel mezzo, si elevava una abitazione più vasta, più regolare, a due tetti spioventi e che pareva costruita di recente. Si capiva a prima vista che nella costruzione doveva aver avuto parte la mano di un europeo. La popolazione, composta di tre o quattrocento individui fra uomini, donne e ragazzi, uscì in massa incontro agli stranieri; ma Koturè respinse tutti con vigorosi colpi di bastone, senza badare dove cadevano. — Andiamo dal re, — disse il capitano alla guida, — e voi altri circondate Anna e armate i fucili. — Largo! — tuonò il pilota respingendo i selvaggi che si accalcavano attorno al gruppo, nonostante la grandine di legnate. — Attento, Grinnell, spingi e urta Fulton; e tu, Mariland, fa’ posto alla miss. Dannati curiosi!... Eppure il vostro re è un bianco come noi!... — Procedendo a stento ed a furia di spinte, giunsero finalmente dinanzi alla grande capanna. Proprio in quel momento il monarca, attirato da tutto quel baccano, comparve sulla soglia della porta. Era un uomo bianco, come lo aveva descritto Koturè, di statura alta, di circa trent’anni, con due occhi azzurri e una bella barba bionda. Indossava una vecchia camicia sbrindellata, un paio di pantaloni neri in parte sfondati, sorretti da una larga cintura di pelle color d’arancio picchiettata di nero, distintivo dei grandi capi e dei re, presso gli isolani di Tanna. Sul capo portava una corona di penne di pappagallo e di _kagù_, fissata con una treccia di pelle, e al collo e ai polsi numerose collane di denti di _gulù_ e braccialetti di denti di porco selvatico e di cane mescolati a scaglie di tartaruga. Nel veder giungere quel drappello di uomini che circondavano una giovanetta, il monarca bianco sbarrò gli occhi, si fece pallido come un morto e parve pietrificato. Ad un tratto si strappò violentemente la corona di pelle che lo rendeva irriconoscibile, e si slanciò verso il capitano, mandando un urlo di gioia. — Non mi conoscete più?! — esclamò. — Collin! — gridarono il capitano, Anna e i marinai al colmo dello stupore. — Signor Hill! miss Anna!... Asthor!... — gridò il re. — Collin!... voi!... — ripetè il capitano. — Sogno io! — esclamò Anna che era diventata prima pallida e poi rossa rossa. — Sì, sono io, mio capitano, — gridò il re precipitandosi nelle braccia di Hill e stringendo poi ardentemente la mano alla giovanetta, ad Asthor e ai marinai. — Ma come siete qui, Collin?... — chiese il capitano che non si era ancora rimesso dallo stupore e che parevagli ancora di sognare. — Ma non siete annegato? — domandò Anna che piangeva dalla gioia. — Ah! credevo di non rivedervi mai più! — Ve lo dirò dopo. Entrate nella mia regale dimora e lasciate che rimandi a casa questa popolazione chiassosa e impertinente. — Prese Anna per una mano e introducendola nella capanna, le disse galantemente: — Permettete, miss, che vi offra il mio seggio reale. Gli altri si contenteranno delle stuoie, non possedendo io altre sedie. — Grazie, signor Collin, — rispose Anna sorridendo. — Accetto di cuore, quantunque sia il trono d’un antropofago. — Non ancora, miss, ve lo assicuro. Durante il mio breve regno non si è mangiato nemmeno una costoletta umana nella mia capanna, anzi, in tutto il mio villaggio.... almeno lo spero. Entrate, capitano; avanti, amici, e accomodatevi come meglio potete. — Con un gesto imperioso congedò la popolazione intimando il più assoluto silenzio, fece disporre la sua guardia d’onore intorno alla capanna per non venir disturbato, e raggiunse i suoi amici che si erano accomodati in una vasta stanza, ossia nella sala del trono, poichè nel mezzo si trovava una specie di sgabello tappezzato di stuoie, lavoro del re senza dubbio, non conoscendo l’uso delle sedie gli isolani dell’Oceano Pacifico. — Prima di cominciare la mia storia, — disse Collin, — lasciate che vi offra tutto ciò che produce la reale cucina: poche cose, davvero, ma non tanto cattive. — Battè le mani e accorsero due ragazzi portando un vaso ricolmo d’un liquore giallastro, delle noci di cocco e sette od otto pasticci che esalavano un profumo appetitoso. — Cosa ci date? — chiese Anna, che si era accomodata sul seggio regale. — Della birra di mia fabbricazione, — rispose Collin offrendo delle tazze formate da un pezzo di foglia di banano arrotondata; — poi offro delle torte indigene composte di foglie di fico e di banano, cucinate nella stufa, e dei pasticci di polpa di noce di cocco, e foglie di fichi avvolti nella polpa dei banani. Vi assicuro che sono eccellenti. — E quelle canne, cosa sono? — Canne di zucchero deliziose. Ora, signor Hill, fra un boccone e l’altro, vi narrerò la mia storia; ma sono curioso di sapere per qual motivo io vi trovo qui. — È presto detto, Collin, — rispose il capitano. — Abbiamo naufragato su quest’isola. — La _Nuova Georgia_ naufragata!... — esclamò Collin con dolore. — Ma in qual modo?... E... e Bill?... — È fuggito, — rispose il capitano con voce sorda. — Fuggito!... quel miserabile è fuggito!... — gridò il tenente stringendo i pugni. — E perchè questa esplosione di collera, mentre voi nulla sapete dei progetti infami di quell’uomo? — chiese Anna. — Dei progetti infami?... Cosa intendete di dire, miss? Gran Dio!... Ma cosa vi ha fatto quel miserabile? — Ci ha rovinati, — rispose il capitano. — Egli ed i suoi compagni non erano naufraghi, ma evasi dal penitenziario di Norfolk. — E li avete raccolti i suoi compagni? — Sì, Collin, li abbiamo salvati a prezzo di grandi pericoli, sfidando un abbordaggio dei selvaggi e per riconoscenza ci tradirono scatenando le tigri contro di noi e incendiandoci la nave. — Infami!... E sono fuggiti?... Ma dove?... — Non lo sappiamo. Si sono imbarcati sul grande canotto mentre noi ci eravamo salvati sugli alberi per sfuggire alle tigri. — Ma la _Nuova Georgia_ dove si trova ora? — Arrenata sulla costa, a otto miglia di qui. — Ah! — esclamò Collin. — I miei selvaggi non mi avevano riferito male. — Forse eravate stato avvertito del nostro sbarco? — chiese il capitano. — Sì, uno dei miei sudditi mi riferiva stamane che al nord dell’isola aveva veduto aggirarsi degli uomini di pelle bianca. — Al nord! — esclamarono ad una voce il capitano e Asthor. — Al sud volete dire. — Ma no, al nord, — disse Collin. — È impossibile! — esclamarono i naufraghi. — La _Nuova Georgia_ si è arrenata al sud dell’isola. — Eppure il mio selvaggio non può essersi ingannato, poichè si era recato sulle coste settentrionali alla caccia dei granchi ladri. — Che siano sbarcati degli altri bianchi? — Ma chi potrebbero essere? Degli altri naufraghi forse? — disse Collin. — Quanti ne ha veduti il vostro cacciatore? — chiese il capitano nella cui mente era balenato un terribile sospetto. — Parecchi, ma non seppe dirmi il numero. — È qui il vostro uomo? — No, l’ho mandato alla scoperta per darmi più precise notizie. — Quando tornerà? — È partito stamane all’alba col suo fratello e spero di rivederlo fra poche ore. Ma perchè siete così eccitato, capitano? — Perchè comincio a credere alla giustizia di Dio! — esclamò Hill con tono solenne. — Spiegatevi, capitano, — dissero tutti. — Sospetto che quegli uomini siano i forzati. — I forzati qui!... — Sì, amici, devono essere gl’infami che ci incendiarono il vascello e che scatenarono contro di noi le tigri, assassinandoci l’equipaggio. Quei miserabili devono essersi diretti verso quest’isola, che era la più vicina, forse per attendere qualche nave che li trasporti in Europa od in America a godersi i denari rubatimi. Il cuore mi dice che io non m’inganno e che fra breve tutti pagheranno il fio.... Collin, giuratemi che voi mi aiuterete a far giustizia sommaria di quei ladri, incendiarii e assassini. — Il tenente si alzò e disse con voce solenne: — Lo giuro, tanto più che ho un vecchio conto da saldare con quel Bill. — Voi!... — esclamarono tutti. — Sì; io, che a quest’ora dovrei dormire sotto le onde nei profondi, abissi del Grand’Oceano. Ho ascoltato la vostra dolorosa istoria; ora udite la mia. — CAPITOLO VENTESIMOQUARTO. I forzati. Collin fece servire la birra che aveva ottenuta colla fermentazione di parecchie frutta, e che fu dichiarata ad unanimità eccellente, accese una pipa regalatagli da Asthor, si sdraiò sulle stuoie, poi disse: — Voi tutti avrete supposto che io sia caduto in mare a causa d’una disgrazia qualunque, quella notte che la Nuova Georgia lottava contro il secondo uragano. Sono certo che a nessuno di voi è mai venuto in mente che il mio capitombolo si dovesse attribuire ad un infame delitto. — A un delitto! — esclamarono tutti, mentre Anna impallidiva per l’emozione. — E commesso da chi? — Lo saprete fra poco. Fino dal primo momento in cui Bill venne tratto a bordo del nostro veliero, io sospettai il suo vero essere. Quelle lividure che portava ai polsi e alle gambe mi avevano spiegato abbastanza, e lo tenevo sorvegliato attentamente, sapendo di quali azioni sono capaci i forzati delle isole Norfolk, che sono i peggiori di tutti, la vera schiuma dei ladri e degli assassini dell’Inghilterra. Egli si era accorto senza dubbio dei miei sospetti, poichè tutte le volte che io gli passavo accanto, gettava su di me i suoi sguardi pieni d’odio profondo, nei quali si leggeva un intenso desiderio di sbarazzarsi della mia pericolosa persona. Credo che ci fosse un altro motivo, e cioè che egli mi sospettasse suo rivale in amore. — Suo rivale! — esclamò il capitano stupito, mentre Anna arrossiva. — Sì, poichè egli segretamente amava miss Anna. — Ma che sia proprio vero? Non lo credevo, malgrado tante prove. — Sì, Collin ha ragione, — disse la giovanetta. — Quel miserabile aveva messo gli occhi su di me. Mi guardava sempre, cercava di soddisfare i miei più piccoli desiderii, mi seguiva ovunque e mi ricordo che nel momento in cui la _Nuova Georgia_ si arrenava dinanzi alle isole Figii mi disse: «Volete vivere o morire?» Poi si decise a oliare il mare. — Sì; deve essere proprio così, — riprese il capitano: — quello sciagurato ti amava, e solo per questo ha cercato di rapirti e forse ha ordito l’infernale trama. Continuate, Collin. — Quella notte che ci colse la seconda tempesta, — continuò il tenente, — ero salito sull’albero di maestra per togliere un nodo che ci impediva di imbrogliare la vela. Mentre stavo eseguendo l’operazione, me lo vidi dietro, a cavalcioni dello stesso pennone. Credetti che fosse salito per aiutarmi, ma d’improvviso mi afferrò per la gola e approfittando del momento in cui la _Nuova Georgia_ si rovesciava sul tribordo o sul babordo, mi precipitava in mare. — Infame! — esclamarono i naufraghi. — Quando tornai in me la nave fuggiva trasportata dall’uragano. Mi credetti perduto; pure mi misi a lottare disperatamente contro le onde che mi travolgevano come una piuma, lanciandomi di cresta in cresta, di abisso in abisso. Poco dopo vidi passarmi dinanzi una barca montata da alcuni selvaggi e che la tempesta trascinava nella sua furiosa corsa. Rapido come il lampo mi aggrappai ai bordi, sentii due braccia che mi aiutavano e caddi svenuto. Quando rinvenni mi trovai sulle spiagge di quest’isola. Alcuni selvaggi che tornavano dalle isole di Tonga mi avevano raccolto e invece di mettermi allo spiedo o nella pentola colla salsa verde, mi nominavano re del loro villaggio! Mi avevano scambiato per una divinità marina o per un uomo di grande valore? Io ancora lo ignoro; so però che qui tutti mi adorano, che ogni mio desiderio per loro è un comando e che a un mio cenno sfiderebbero senza esitare anche le fiamme del vulcano. — Ma contate di rimanere re di quest’isola? — chiese il pilota. — La carica è buona, specialmente se vi trattano bene e vi ingrassano, ma avrei paura di venir mangiato. — Non ho nessuna voglia di finire qui la mia vita, Asthor, — disse il tenente ridendo. — Fra i miei sudditi conto degli abili carpentieri i quali ci aiuteranno a costruire un grande canotto coi rottami dello sconquassato veliero, e quando avremo terminate le nostre faccende, spiegheremo le vele per l’Australia. — In quel momento si presentò un selvaggio, dicendo: — Paowang è giunto! — È l’uomo che mandai alla scoperta, — disse Collin. — Che entri! — Il selvaggio che attendeva di venir chiamato, si fece innanzi. Era un bell’uomo, di statura alta, di lineamenti energici, e con lo sguardo fiero. Pareva affannato per una lunga corsa, e per non perdere tempo teneva ancora indosso le sue armi consistenti in una pesante mazza di legno adorna di ciuffi di peli di cane, in una lancia con la punta d’osso e in un arco con una dozzina di frecce. — Gli hai veduti? — gli chiese Collin, senza lasciarlo quasi respirare — Sì, capo, — rispose il selvaggio con voce affannosa. — Dove sono? — Si trovano accampati presso una caverna della costa settentrionale. — Quanti sono? — Sette e un uomo ferito. — Hanno nessuna barca? — Ho veduto sulla spiaggia i rottami d’un canotto assai grande, — rispose il selvaggio. — E cosa facevano quegli uomini? — Hanno abbattuto un grande albero e lo scavano per fare una imbarcazione. — Sono armati? — Ho veduto che avevano di quelle canne che lanciano fuoco e mandano tuoni somiglianti a quelli del vulcano. — Sapresti condurci alla loro caverna senza farci scoprire? — Quando lo vorrete, anche subito, — rispose Paowang. — Ma sono tuoi parenti quegli uomini? — No, sono miei nemici. — Allora si mangiano, — rispose il fiero antropofago. — Vedremo, — disse Collin. — Non vi è alcun dubbio, sono i forzati! — esclamò il capitano quand’ebbe udita la traduzione di quel dialogo. — Il ferito è Bill, gli altri sono i suoi compagni. Chiedete al selvaggio se ha veduto un uomo assai magro e di statura alta. — Collin fece la domanda a Paowang. — Sì, — rispose questi. — Ho veduto un uomo magro come un granchio ladro, dopo la stagione degli amori, e mi parve che fosse il capo di quella banda. — È Mac Bjorn, — disse il capitano, — il luogotenente dell’infame Bill. Finalmente il giorno della vendetta è giunto! Asthor, tu tornerai alla costa coi marinai e una scorta di indigeni e porterai qui il cannoncino per demolire la caverna di quei miserabili, dei fucili e delle abbondanti munizioni. — Non chiedo che di partire, capitano. — E voi, Collin, farete radunare tutti i vostri guerrieri, i più scelti e i più valorosi, per aiutarci nell’impresa. — Manderò tosto alcuni messi nei villaggi vicini. Prima di domani avrò sotto le armi due o trecento uomini scelti. — E cosa farete dei forzati? — chiese Anna. — Si appiccheranno all’albero più alto della foresta, miss, — disse Asthor. — Se i selvaggi vorranno poi metterli nello spiedo, io non glielo impedirò davvero. — Non si arrenderanno di certo. — disse il capitano. — Se ne troveremo qualcuno vivo, lo condurremo con noi in Australia e lo faremo rimandare alle isole Norfolk. — Verrò anch’io alla caverna? — chiese Anna. — No, miss, — disse Collin. — Laggiù vi sono dei gravi pericoli; rimarrete qui sotto la guardia di Koturè. — Poco dopo Asthor, i tre marinai e dieci indigeni scendevano le balze della grande montagna, mentre Collin inviava parecchi messaggieri nei vicini villaggi per far accorrere i guerrieri e i loro capi. CAPITOLO VENTESIMOQUINTO. La banda di Bill. Durante la notte nel villaggio del re bianco regnò una straordinaria animazione: i guerrieri, che accampavano sulla piazza, non chiusero un occhio. Si udivano chiacchierare, gridare, suonare le loro conche marine, andare e venire come se fossero impazienti di partire per le coste settentrionali dell’isola, dove contavano di fare chi sa mai quale bottino e qual banchetto mostruoso. Di quando in quando giungevano dai villaggi più lontani altre bande di guerrieri, i quali facevano la loro entrata nella capitale con un baccano indiavolato. Si capiva che l’entusiasmo era al colmo, e che tutti volevano prendere parte alla spedizione, essendo la guerra quasi un divertimento pei popoli selvaggi, anzi una festa. All’alba Collin, il capitano e i marinai erano in piedi, pronti a partire. Quando comparvero sulla piazza, furono accolti con grida entusiastiche. Quasi trecento guerrieri, armati di mazze, di lance, di scuri di pietra, di archi, erano schierati dinanzi alla capanna coi loro capi alla testa. — Partiamo, — disse il capitano abbracciando Anna. — Non temere, figlia mia, che torneremo tutti sani e salvi. Il nostro numero è tale da costringere i forzati alla resa, senza bruciare molta polvere. — Sii prudente, padre mio, — disse la giovanetta commossa. — Non ho che te sulla terra, e se tu venissi ucciso, non so cosa accadrebbe di me abbandonata su quest’isola, fra degli antropofagi. — Ci saremo noi, miss, — rispose Collin. — Coi nostri petti faremo scudo al padre vostro. — Non vi sarà bisogno, tenente, — disse il capitano. — I forzati non opporranno molta resistenza. — Koturè! — gridò Collin. Il selvaggio si fece innanzi. — Lascio questa donna sotto la tua protezione, — gli disse il re. — Bada che è più preziosa del mio trono, e ti avverto che se ella avrà da lagnarsi di te o dei tuoi, faccio tuonare il cannone sul vostro villaggio e lo distruggo da capo a fondo. — Per toccarla bisognerà che mi uccidano, — rispose il selvaggio. — Questa donna è _tabù_ (cioè: sacra, inviolabile). — Sta bene; partiamo! — Il capitano abbracciò un’ultima volta Anna, e la schiera lasciò il villaggio accompagnata per qualche tratto dalla rimanente popolazione. Paowang col fratello, e dodici dei più valenti guerrieri, aprivano la marcia; dietro veniva il piccolo drappello degli uomini bianchi, poi tutti gli altri disposti su una doppia fila. Il cannoncino, portato a braccia da quattro uomini che si scambiavano ogni tratto, veniva ultimo. La spedizione discese il versante opposto della montagna, aprendosi il passo a colpi di scure, attraverso i fitti boschi; discese in una valle stretta, ombreggiata da un numero infinito di banani che si piegavano sotto il peso dei loro giganteschi grappoli, e interrotta qua e là da piantagioni di canne di zucchero. Paowang si orizzontò col vulcano, il cui cratere vomitava sempre fiamme, fumo e pezzi di rocce ardenti, quindi condusse la truppa attraverso alle piantagioni per rimontare una collina. — Sono vicini al vulcano i miei nemici? — chiese Collin, raggiungendo la guida. — A poca distanza, — rispose l’isolano. — Allora non accampano sulla spiaggia. — Il mare è lontano dalla caverna che essi abitano. — E perchè si sono così allontanati? — Perchè quella costa è quasi priva di alberi. Devono essersi allontanati per trovare un grosso tronco da scavare. — Comprendo, — rispose Collin. — Meglio per noi e peggio per loro. Bada però, Paowang, che se ci scoprono fuggiranno nei boschi. — Ci avvicineremo con prudenza, capo. Quando ci vedranno saranno ormai circondati. — È isolata la loro caverna? — Si trova ai piedi di una collinetta. — È boscosa l’altura? — Solamente il versante opposto. — Alle otto del mattino, dopo una marcia di tre ore, salendo e scendendo colline e attraversando vallate e burroni, Paowang si arrestò ai piedi del vulcano. — Ci siamo? — chiese Collin. — Fra breve, — rispose l’isolano. — Che il grosso della truppa rimanga qui e noi coi vostri amici bianchi raggiungiamo la vetta di quella collina. — Fecero sdraiare le truppe fra le macchie raccomandando a tutti il più profondo silenzio; poi il capitano Collin e Paowang salirono l’altura cacciandosi fra i cespugli e gli alberi. In meno di venti minuti raggiunsero la cima e di là girarono lo sguardo sul paese circostante. All’est, a una distanza di un miglio e mezzo, si vedeva l’Oceano le cui ondate si frangevano con fragore contro la spiaggia; in faccia a loro s’alzava il vulcano avvolto fra nuvoloni di fumo e di scintille, che di quando in quando il vento lacerava lasciando vedere l’immensa colonna di fuoco che erompeva dal cratere, e all’ovest sorgeva una piccola altura addossata a un colle, priva di vegetazione da un lato, ma coperta dall’altro da fitte macchie e da gruppi di alberi di cocco e di fichi. — Si vedono? — chiesero ansiosamente Collin e il capitano. — Sì, — rispose l’isolano, dopo alcuni istanti di acuta osservazione. — Eccoli laggiù. — Dove?... dove?... — Ai piedi dell’altura. — Il capitano e Collin guardarono nella direzione indicata, ed infatti scorsero sette uomini, sette marinai, a giudicarli alle vesti che indossavano, intenti a lavorare un tronco d’albero di dimensioni gigantesche, per trasformarlo senza dubbio in un canotto. — Sono essi! — esclamò il capitano. — Ecco là Mac Bjorn che dirige il lavoro; quello corpulento è Mac Doil, il terzo è O’Donnell, il quarto Brown, il quinto, quello che manovra la scure, è Dikens, il sesto è Kingston e l’altro è Welker. — Ma dov’è l’ottavo, l’infame Bill? — chiese Collin coi denti stretti. — Eccolo là, sdraiato ai piedi di quel banano, — rispose il capitano. — Il miserabile è ancora vivo, malgrado le sue due ferite. — Collin aprì il cespuglio che li nascondeva e guardò. Infatti, sdraiato all’ombra di un banano, vide l’ottavo forzato che riconobbe subito. — Bill! — esclamò con inesprimibile accento d’odio. — A noi due, furfante! — E la caverna? — chiese il capitano. — Non vedete quell’apertura? — rispose il tenente. — Guardate là, presso quel cespuglio. — La vedo. — Come disporremo i nostri uomini? — Paowang con cento uomini s’imboscherà fra quei cespugli che si estendono verso l’est; suo fratello, con altrettanti, si celerà in mezzo a quel bosco di fichi che si stende verso l’ovest, e noi prenderemo posto dinanzi, fra quelle macchie. Se i forzati saliranno la collina, ci riuscirà facile ad allargare le tre bande e accerchiarla. — Vado a dare gli ordini necessari, — disse Collin. — Aspettatemi qui; poi scenderemo attraverso a questo bosco e prenderemo posto dinanzi alla collina. — Il tenente e Paowang discesero l’altura e il capitano rimase in osservazione. Mezz’ora dopo, Collin era di ritorno accompagnato dai marinai che portavano il cannoncino e da una cinquantina di guerrieri, scelti fra i più valorosi. — Sono partiti gli altri? — gli chiese il capitano. — Fra pochi minuti saranno anche a posto, — rispose il tenente. — Scendiamo, capitano. — Tenendosi al coperto dai cespugli attraversarono l’altura e passando fra i boschi raggiunsero il piano calandosi in mezzo a due immensi fichi baniani che da sè soli formavano una piccola foresta. Asthor postò il cannoncino dinanzi all’altura puntandolo verso la caverna, e Collin distese i suoi guerrieri a destra e a sinistra, appiattandoli dietro ai numerosi tronchi dei fichi colossali. Avevano appena terminato quei preparativi di combattimento, quando si videro i forzati interrompere bruscamente il loro lavoro, guardare all’intorno con visibile sospetto, quindi fuggire precipitosamente verso la caverna preceduti da Bill che zoppicava. — Fulmini e lampi! — esclamò Asthor, che stava caricando il pezzo. — Ci hanno scoperti!... — Meglio così, — rispose Collin. — Ora non possono più scapparci. — Così dicendo sparò un colpo di fucile in direzione della grotta. A quel segnale urla feroci s’alzarono nei boschi che circondavano l’altura e si videro apparire i selvaggi, i quali agitavano furiosamente le loro armi, impazienti di venire alle mani. — Intimiamo la resa, — disse il capitano. — Quelle canaglie non si arrenderanno, — rispose il pilota. — Guarda! guarda! — esclamarono Fulton e Mariland. Un forzato era uscito dalla caverna tenendo in mano un fucile e cercava di rendersi conto di ciò che stava per accadere. Senza dubbio, non sapendo ancora chi erano gli assalitori, doveva essere sorpreso di aver udito, fra quei selvaggi clamori, un colpo di fucile che annunciava la presenza di uomini bianchi. — Chi vive? — gridò. — Amici o nemici? — Sono io, mastro Brown! — esclamò Hill, uscendo dal bosco. — Mi riconosci?... — Il forzato nel vedere il capitano della _Nuova Georgia_ che credeva ormai morto o molto lontano, retrocesse bruscamente e lo guardò con due occhi che parevano quelli d’un pazzo. — I morti ritornano! — balbettò. — Sì, ma per appiccarvi tutti!... — E cosa volete? — chiese il miserabile, pallido come un morto. — Appiccarvi tutti!... — risposero i naufraghi, uscendo dalle macchie. — Prima vi bisogna il nostro permesso, — gridò una voce beffarda. Mac Bjorn, l’antipatico luogotenente di Bill, era comparso sul limitare della caverna e guardava sogghignando, con una insolente bravata, gli ultimi superstiti dell’incendio e dell’assalto spaventevole delle tigri. — Mille folgori! — riprese egli. — Bisogna dire che avete la pelle dura, capitano, per trovarvi qui ancora in ottima salute; ma vi accerto che è dura anche la nostra e che la cravatta di canapa che dovrebbe appiccarci non è ancora stata filata. Orsù, in ritirata, Brown, e bada alle palle!... Il pilota e Fulton, furiosi per l’insolenza e l’ironia di quel furfante, fecero fuoco, ma il forzato con un balzo si rifugiò nella caverna, seguito subito da Brown. — Vi prenderemo, state certi! — gridò Collin. — Orsù, a posto di combattimento!... — Tre o quattro colpi di fucile partirono dalla caverna, ma il tenente ed il capitano avevano avuto tempo di ripararsi dietro ai tronchi dei fichi baniani. I selvaggi udendo quelle fucilate, emisero spaventevoli vociferazioni e risposero con una nube di freccie, ma senza alcun risultato, essendo i forzati solidamente trincerati e nascosti dietro a enormi pezzi di roccia, che avevano fatto rotolare dinanzi al loro fortino. — Bah! Non sarà coi vostri stuzzicadenti che li farete sloggiare, — disse il pilota. — Ci vuole della mitraglia per quei furfanti, ma ci siamo noi, e fra poco li faremo cantare, ma non di piacere. — Puntò il cannoncino e lanciò la prima scarica le cui palle scrosciarono contro le roccie. Nella caverna si udirono urla di furore e una voce, quella di Brown, che gridava: — Son morto!... — Quello ha cantato, — disse il pilota. — Un furfante di meno che ci darà da fare. — Fuoco! — comandò Collin. Le carabine cominciarono a fischiare mescendo le loro acute detonazioni a quelle sonore del piccolo pezzo, ai sibili delle freccie e alle vociferazioni dei selvaggi. I forzati però, solidamente trincerati, non si sgomentavano e opponevano una fiera resistenza, rispondendo colpo per colpo e abbattendo con matematica precisione i selvaggi che osavano lasciare la macchia per lanciare le loro zagaglie contro l’apertura. Di quando in quando, attraverso al fumo che usciva dalla nera galleria, appariva qualche testa, che subito tornava a nascondersi, e si udiva la voce sarcastica di Mac Bjorn gridare: — Fuoco su quei dannati americani! Mirate giusto e picchiate sodo!... — Invano Asthor lanciava la mitraglia del suo pezzo proprio dentro la caverna sgretolando le rocce; invano il capitano, Collin e i tre marinai scaricavano senza posa le loro carabine e i selvaggi scagliavano lance e freccie: i forzati resistevano con disperata energia e non accennavano ad arrendersi e, quello che è peggio, non cadevano, riparati come erano. Già dodici o quindici isolani giacevano senza vita fra i cespugli, stecchiti dal piombo di quei ribaldi, quando il capitano tuonò: — Finalmente sono nostri!... — Si arrendono? — chiese Collin. — No, ma li costringeremo. — In qual modo? — Affumicandoli. — Asthor, lascia il cannone; prendi dieci uomini e va’ a incendiare i cespugli che stanno dinanzi alla caverna. — Pronto! capitano, — rispose il pilota. — Bada alle palle! — Non mi coglieranno: ho già scelta una via sicura. — Va’, adunque, e spicciati. — CAPITOLO VENTESIMOSESTO. L’assalto della caverna. Quello dell’affumicatura era l’unico modo per costringere i forzati alla resa. Trincerati dietro alcune salde rocce che sfidavano la mitraglia e le palle delle carabine, potevano tener fronte ad un intero esercito. È vero che si poteva assediarli fino all’esaurimento dei viveri o fino alla mancanza delle munizioni; ma ciò richiedeva forse un tempo troppo lungo, e l’entusiasmo dei selvaggi poteva raffreddarsi, non essendo abituati alle lunghe resistenze, decidendo le loro battaglie in pochi quarti d’ora. Asthor prese con sè Grinnell e dieci isolani, si gettarono in mezzo alle macchie strisciando come serpenti, e raggiunsero il gigantesco tronco che i forzati avevano atterrato per fabbricarsi l’imbarcazione e che giaceva a soli quindici passi dalla caverna. Dietro a quel riparo, non potevano temere le palle dei difensori della caverna. — Presto, diamo fuoco ai cespugli, — disse Asthor. — Il vento soffia dalla costa e spingerà il fumo nella caverna. Bella idea che ha avuto il capitano! — Accese l’esca, sparse fra le piante e gli sterpi vicini della polvere da sparo e vi diede fuoco. Quasi subito una fiamma si alzò allargandosi rapidamente e investendo le frondi e i rami delle macchie, i quali si contorcevano scoppiettando. I forzati che si erano accorti della manovra degli assedianti e che comprendevano il grave pericolo che stavano per correre, vedendo quelle fiamme che sprigionavano nuvoloni di fumo, si misero a urlare come dannati e drizzarono i loro fucili verso i vicini cespugli credendo che gli incendiarii fossero allo scoperto; ma le loro palle non riuscivano a toccare nè i due marinai nè gl’isolani che si tenevano accuratamente riparati dietro il gigantesco tronco. Furiosi per questo scacco e pel fumo che il vento spingeva verso la caverna, balzarono fuori per sloggiare i nemici che erano così vicini, ma il capitano e Collin non li perdevano di vista e lanciarono un nembo di mitraglia. Due forzati caddero fulminati; gli altri fuggirono precipitosamente nella caverna, trascinandosi dietro un compagno ferito. — Ecco altri due che se ne sono iti, — disse Asthor. — Peccato che quel figuro di Mac Bjorn non sia del numero! Mi pare però che non abbia più voglia di canzonarci. — Fra poco non ci canzonerà più, — disse Grinnell che cercava di assestare una palla a qualche altro di quei furfanti. — Se il fuoco non si spegne, riempirà la caverna di fumo in modo da non lasciarli più respirare. — Avanti! — si udivano gridare in quel momento il capitano e Collin. A quel comando i selvaggi si gettarono carponi e si misero a strisciare attraverso ai cespugli tentando di avvicinarsi alla caverna. Asthor, Grinnell ed i loro dieci compagni fecero altrettanto, tenendosi dietro alle vampe che procedevano sempre divorando le piante che incontravano sul loro passaggio. I forzati tiravano sempre, incoraggiandosi con grida feroci; però la loro resistenza non era tenace come prima e per di più parevano pochissimi, imperocchè non tuonavano che tre sole carabine. Erano tutti morti gli altri o il fumo gli aveva ridotti in tale stato da non essere più in grado di sostenere la lotta? — Che gatta ci covi? — si chiedeva Asthor, cercando di vedere ciò che succedeva nella caverna. — Uhm! non so cosa dire e temo una brutta sorpresa. — I selvaggi coperti dal fumo e dalle fiamme giunsero a soli venti passi dalla caverna. Abbandonata ogni cautela balzarono in piedi e lanciarono le loro zagaglie e le loro frecce, mentre i bianchi facevano una scarica generale delle loro armi. Gli assediati risposero con una salva d’imprecazioni, poi attraverso il fumo si vide apparire un uomo che si reggeva a stento in piedi; ma fatti pochi passi all’aperto, stramazzò a terra. — È Dikens! — esclamò il pilota, che lo aveva riconosciuto. — Un altro che va a trovare messer Belzebù. — Un’altra scarica, — comandò Collin, — e poi tutti avanti! — Cinque colpi di carabina echeggiarono, mentre i selvaggi lanciavano attraverso all’apertura le loro scuri di pietra; ma i forzati non risposero. Asthor che era giunto a pochi passi dalla caverna, si rizzò in piedi tenendo in mano la carabina e guardò al di là delle fiamme, ma non vide in piedi nessun uomo. — Tuoni e lampi! — esclamò. — Come va questa faccenda? — Li vedi? — gridò il capitano. — Aspettate.... vedo attraverso il fumo un uomo che si dibatte; ma gli altri?... Ah! ne vedo altri due che mi pare abbiano finita la loro brutta esistenza. — Avanti! — gridò Collin. I selvaggi colle lance dispersero i tizzoni, abbatterono i cespugli che ancora bruciavano, e giunsero dinanzi alla caverna contemporaneamente ad Asthor ed a Grinnell. — Non vedo che dei morti e un moribondo, — gridò egli, saltando dentro. Il capitano e Collin lo raggiunsero, ma dovettero retrocedere per cagione del fumo. Appena però si fu diradato, s’inoltrarono cautamente attraverso la nera apertura che pareva si addentrasse profondamente nei fianchi del colle. Quattro uomini giacevano dietro le rocce che avevano con tanta ostinazione difese. Erano Brown con la fronte spaccata da una palla, Mac-Doil col petto coperto di sangue, Kingston e O’Donnell che erano stati uccisi dalle lance dei selvaggi. Il quinto, Welker, rantolava appoggiato alla parete. — E gli altri? — chiese Collin, girando intorno un rapido sguardo. — Dikens è caduto fuori, — disse Asthor. — Ma Bill e Mac Bjorn? — chiese il capitano. — Eh! per mille vascelli non si vedono! — esclamò il pilota mostrando i pugni. — Eppure non devono essere fuggiti, — disse Collin. — Welker, — disse il capitano avvicinandosi al forzato. Il miserabile udendo pronunziare il suo nome aprì gli occhi, e vedendosi dinanzi Hill borbottò, forzandosi a sorridere: — Appiccherete un morto, capitano. — Dove sono Bill e Mac Bjorn? — Negli occhi del moribondo brillò uno sguardo d’odio. — Vili!... — esclamò. — Ci han...no abban...donati.... tra...diti!... — Ma come?... — Là!... là!... — mormorò egli additando il fondo della caverna. — Fug... giti!... — Una parola ancora, — disse il capitano. — Chi siete voi? — Un pallido sorriso sfiorò le labbra di Welker. — Son.... mor...to, — disse. — Non.... im...porta.... sia...mo forz...ati di Nor.... — Non finì: un tremito generale lo prese, alzò le braccia portandosi le mani raggrinzate alla gola e si accasciò su sè stesso rimanendo immobile. Era morto!... — Affrettiamoci, — disse Collin, — o quei miserabili ci fuggiranno. — Si slanciarono verso il fondo della caverna e scoprirono uno stretto corridoio oscuro. Senza badare al pericolo a cui si esponevano, si cacciarono dentro tenendo le armi in pugno e dopo aver percorso cinquecento metri si trovarono dinanzi ad una apertura che pareva scavata di recente a colpi di piccone o di scure. L’attraversarono e uscirono all’aperto. Si trovarono sul versante opposto dell’altura, il quale si univa colla base di una collina che addossavasi al vulcano. — Fuggiti! — gridò Collin, strappandosi i capelli. — Ah! miserabili! — esclamò il capitano. — E si sono portati via anche i vostri danari, signor Hill, — disse Asthor che aveva frugato in tutti gli angoli della caverna. — Ma li raggiungeremo anche se si dovesse frugare tutte le foreste dell’isola, — disse Collin. — E dove si saranno diretti? — chiese il capitano. — Non possono avere molto vantaggio su di noi, tanto più che Bill è ferito e zoppica. — In quell’istante Paowang, che da qualche minuto osservava attentamente il terreno, si avvicinò a Collin e gli disse: — Ho scoperto le loro tracce, capo. — Dove si dirigano? — Salgono la collina. — Saresti capace di seguirli? — Sì; e senza smarrirli. — Allora partiamo. Che dieci guerrieri si uniscano a noi. — Collin chiamò dieci isolani e si mise in marcia dietro a Paowang, seguito da Hill, Asthor e dai tre marinai. Continuando le tracce lasciate dai due fuggiaschi che si vedevano impresse sulle erbe che qua e là apparivano calpestate, o fra i cespugli che si vedevano qua e là strappati, salirono la collina, l’attraversarono e scesero l’altro versante. Giunti al basso, Paowang si fermò indeciso. — Hai perduto le tracce? — gli chiese Collin. — No, ma tornano indietro. — È impossibile! — Eppure non m’inganno. — Ma noi non li abbiamo incontrati. — Il selvaggio non rispose. Guardava attentamente le boscaglie e pareva che un pensiero profondo lo tormentasse. — Aspettatemi qui, capo, — disse poi. Si gettò a terra e si mise a studiare attentamente le erbe, guardando con viva attenzione i rami dei cespugli che si vedevano spezzati di recente, poi si mise a camminare carponi descrivendo un semicerchio che terminava verso la collina. Poco dopo però si vide tornare indietro e dirigersi verso la base del vulcano. — Ha salito la montagna tremante, — disse. — Hanno salito, vuoi dire. — Paowang scosse il capo. — No, — disse poi, — poichè la traccia è una sola. — Che si siano divisi? — disse il capitano. — Ma le tracce dell’altro? — Avete ragione, Collin. — Indovino, — disse Asthor. — Cosa intendi di dire? — domandò Hill. — Voglio dire che Mac Bjorn si è preso Bill fra le braccia per non affaticarlo. Voi già sapete che quell’infame è ferito in una gamba, poichè l’abbiamo veduto zoppicare. — Hai ragione, Asthor. Deve essere così; ma tanto meglio per noi, poichè faremo più presto a raggiungerli. — Ha le gambe lunghe quel Mac Bjorn, — disse Asthor, — e temo che ci farà sudare assai. È magro come uno scheletro, ma, perdinci, è tutto nervi ed è capace di farci correre un bel tratto col suo compagno sulle spalle. — Avanti, — disse Collin. Paowang si era già messo in cammino dietro la traccia, inoltrandosi traverso ai boschi che si arrampicavano sui fianchi della montagna tremante. Hill, Collin e tutti gli altri lo raggiunsero. Il cammino diventava sempre più difficile, a mano a mano che salivano. Un numero immenso di liane s’attortigliavano agli alberi o si allungavano sul terreno come serpenti, intrecciandosi in mille guise, descrivendo curve e serpentine d’ogni dimensione e impedendo il passo al piccolo drappello. Ora invece si stendevano fitte macchie formate d’una specie di nocciuoli coi rami assai uniti, oppure immense zone di certe canne che somigliavano ai _bambù tulda_ e che erano strette le une alle altre, da non permettere il passo se prima non venivano abbattute. I marinai e gli indigeni lavoravano di sciabola e di scure con una specie di furore, ma in certi momenti si trovavano imbarazzati a farsi largo fra quegli ammassi di vegetali che pareva volessero soffocarli. Paowang aveva smarrito la traccia da parecchio tempo, ma continuava a salire la grande montagna. Il suo istinto lo guidava ed era certo, certissimo, di aver dinanzi i due fuggiaschi. Di tratto in tratto si arrestava, e dopo d’aver raccomandato il più profondo silenzio, ascoltava attentamente sperando di raccogliere qualche rumore che indicasse la presenza dei due nemici; ma i continui boati della montagna soffocavano ogni cosa. Alle tre pomeridiane il drappello, trafelato per la lunga marcia, era giunto presso la cresta di una collina che si addossava al vulcano, quando Paowang che camminava sempre in testa a tutti sfidando la nera cenere che il vulcano eruttava, si fermò dinanzi ad uno stagno le cui acque fumavano, mandando uno sgradevole odore di zolfo. Si curvò ed esaminò la polvere nera che copriva le rive di quella sorgente d’acqua calda. — Ecco le loro tracce! — esclamò! — Sono quelle di due uomini e seguono la cresta della collina. — Che abbiano intenzione di deviare? — chiese Collin. — Sì.... ma.... silenzio! — L’isolano si era bruscamente rialzato e i suoi occhi si erano fissati sui fianchi di una vicina montagna, assai più alta del vulcano e che pareva si dovesse prolungare in direzione della costa. Salì su di una roccia tenendosi nascosto dietro ai rami di un niaulis, e riparandosi gli occhi colle mani, per difenderli dai raggi del sole, continuò a guardare. — Ho udito rompersi alcuni rami, — disse poi, — e vedo i cespugli agitarsi lassù. — Ancora?... — Sì, eccoli!... — Collin, il capitano e i marinai guardarono nella direzione indicata, e videro apparire, a circa sei o settecento metri sul versante della montagna che stava loro di fronte, una testa. Scomparve subito, ma quel momento era bastato. — Mac Bjorn! — esclamarono tutti. Asthor e Fulton puntarono rapidamente le carabine e fecero fuoco. Si videro i cespugli agitarsi rapidamente, poi più nulla. Avevano le palle colpito nel segno, o i due forzati si erano nascosti o allontanati strisciando? — Accorriamo, — disse il capitano. — Ormai non ci sfuggono più!... — CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO. Bill preso. Per i due miserabili era finita; la loro cattura, non era più che questione di ore, forse di minuti. Ormai la loro fuga non poteva riuscire, dacchè erano stati scoperti ad una così breve distanza. È vero che attraverso a quelle intricate boscaglie, mezzo chilometro era tuttavia un bel vantaggio; ma Mac Bjorn doveva essere stremato di forze e il suo compagno non poteva accelerare il passo, ferito come era e zoppicante. Collin e il capitano, che sospiravano il momento di agguantarli, si slanciarono dietro a Paowang che era già partito, seguito dai marinai e dai dieci indigeni. Attraversata la cresta della collina, scesero in una piccola valle e ripresero la salita di quella seconda montagna, procurando di dirigersi verso il luogo ove avevano veduto apparire la testa dell’allampanato Mac Bjorn. Abbattendo con furore le piante che loro impedivano il cammino, dopo venti minuti di rapida ascensione raggiungevano la macchia di cespugli, contro la quale Asthor e Fulton avevano fatto fuoco nella speranza di abbattere i due forzati. — Li vedi, Paowang? — chiese Collin. — Non vedo che un cappello, — rispose il selvaggio. — Da’ qua!... — Paowang gli porse un berretto da marinaio che aveva trovato in mezzo ai cespugli. — È quello di Mac Bjorn, — disse il capitano. — Ed è forato da una palla, — soggiunse Asthor. — Cerchiamo, — riprese Collin. — To’!... Cos’è questo! — esclamò Mariland indicando delle erbe macchiate di rosso. — È sangue, — affermarono i due comandanti. — Che Mac Bjorn sia stato ferito? — chiese Asthor. — O lui o Bill di certo, — rispose il capitano. — Tanto meglio; li raggiungeremo più facilmente, — disse Collin. — Vedi nulla, Paowang? — Sì, — rispose il selvaggio che guardava in alto. — Ho veduto ancora i cespugli muoversi. — Dove? — Lassù, a trecento passi. — In quell’istante una detonazione echeggiò in alto, e una palla fischiò agli orecchi del capitano abbattendo un selvaggio che gli stava dietro. Una nube di fumo si alzò in mezzo ad una macchia, disperdendosi lentamente. — A terra! — gridò Collin. — Diamine, grandina! — esclamò Asthor gittandosi dietro il tronco d’un albero. — Ci sono molto vicini, a quanto sembra. Collin e il capitano puntarono le loro carabine verso il cespuglio, su cui ondeggiava ancora la nuvoletta di fumo, e fecero fuoco simultaneamente. Un urlo di dolore rimbombò sulla montagna, seguíto poco dopo da una voce che gridava: — Questa volta ci sono!... — È Mac Bjorn! — gridarono i marinai. — È toccato! — gridò Collin. — Attenti alle teste! — tuonò Asthor. Un macigno del peso di mezzo quintale scendeva rimbalzando giù per i fianchi della montagna, schiantando sul suo passaggio i cespugli ed i tronchi dei piccoli alberi. Passò a soli cinque metri dalla piccola banda. — Non hai l’occhio giusto, Mac Bjorn! — gridò Asthor. — Si fa quello che si può, — rispose il bandito col suo solito accento beffardo. — Ma noi faremo di più pel tuo collo, brigante! — gridò Collin. — Se mi troverete vivo!... — Avanti, ma attenti ai sassi e alle palle, — disse il capitano. — Un momento, signore, — disse Asthor, fermandolo. — Ora gli manderò uno dei miei confetti. — A rischio di ricevere una palla nel cranio, s’arrampicò sull’albero che fino allora lo aveva protetto, si pose a cavalcioni di un ramo, procurando di confondersi fra il fogliame e puntò la carabina mirando con profonda attenzione. Un minuto dopo premeva il grilletto. La detonazione fu seguita da un secondo grido. — Ci sei? — chiese Asthor. Nessuno rispose; ma poco dopo si udì una voce fioca, ma ancora beffarda che diceva: — Ho avuto il mio avere!... — Ha dell’audacia quel manigoldo! — esclamò Collin pieno di stupore. — È una disgrazia che sia una canaglia di tre cotte. — Ma Bill, dove sarà? — chiese il capitano. — Sarà morto, — disse Asthor. — O a quest’ora fugge, — rispose Collin. — Zitti! — esclamò Fulton. Sulla montagna si udiva ancora Mac Bjorn che diceva con voce sempre più fioca: — Fuggi.... io ormai.... sono spacciato.... e la vista mi.... si intorbidisce.... Bah!... così.... dovevo.... finire!.... — Bill ci sfugge! — esclamò Collin. — Avanti! avanti! — Ripresero l’ascensione dell’alta montagna in fila indiana, cioè uno dietro all’altro per perdere minor tempo ad aprirsi il passaggio. Paowang, il più pratico dei luoghi, si trovava sempre alla testa e recideva le liane e i rami con una sciabola d’abbordaggio. Raggiunta la macchia superiore, trovarono disteso Mac Bjorn. Il miserabile non dava più segno di vita e il sangue gli usciva in copia da due ferite che aveva sul petto, una a destra e l’altra a sinistra. Quel furfante pareva che dormisse, e sulle sue labbra vedevasi ancora l’ironico sorriso che non lo abbandonò mai. — Beffardo visse e beffardo morì! — esclamò Asthor. — Tale doveva essere la sua fine. — A pochi passi dal bandito si trovava la sua carabina, e più in là Grinnell raccolse una cassetta, quella che Bill aveva rubata al capitano. Fu subito aperta, ma non conteneva che pochi dollari e poche carte. — Dove sono andati gli altri? — si chiese Asthor. — Se li sarà presi Bill, — rispose il capitano. — Ci tiene ai denaro rubato, l’assassino! Eppure mi sembra che non sia il momento opportuno per caricarsi di tanto peso. — In marcia! — gridò Collin. — Eccolo! — gridò Fulton in quell’istante. — Ha lasciato il bosco. — Tutti gli occhi si volsero verso la cima della montagna. Su di una zona che appariva sgombra di piante, si vide Bill, il quale saliva faticosamente zoppicando e barcollando. — Fermati, o faccio fuoco! — gridò Collin. Il forzato si volse, e vedendosi osservato si levò di spalla la carabina come se avesse intenzione di scaricarla; ma poi riprese la salita con maggior rapidità raggiungendo un’altra macchia. Collin, furioso, puntò il fucile; ma il capitano glielo abbassò. — È inutile, — disse Hill. — Ormai è nostro. — Infatti pel forzato era proprio finita. Soli trecento metri lo separavano dai suoi insecutori; la sua gamba ferita e la stanchezza non gli permettevano più di camminare lesto, e la cresta della montagna era ancora alta. — Un ultimo sforzo, amici, — disse il capitano. Quantunque fossero tutti spossati da quella caccia all’uomo che durava da parecchie ore e dalla lunga marcia fatta nel mattino, salirono quasi a passo di corsa la ripida costa e raggiunsero il margine della foresta. Più oltre il terreno era quasi spoglio di vegetazione, sparso solamente di poche graminacee e di rocce. Bill, che non poteva più nascondersi, faceva sforzi disperati per guadagnare la cresta della montagna, forse sperando di trovare un rifugio nei boschi dell’opposto versante; ma si capiva che non poteva più reggersi. Si udiva ansimare fortemente e si vedeva aggrapparsi agli sterpi e alle rupi per aiutarsi, fermarsi per riprendere lena; e poi continuava la salita traballando come un ubbriaco. — Fermati, o ti spezzo le gambe! — gridò Collin. Il forzato non rispose e continuò a salile. — Fermati! — ripetè il tenente con tono minaccioso. Bill questa volta si fermò. I suoi accaniti insecutori erano distanti pochi passi, e avrebbero potuto ucciderlo colla massima facilità. Incrociò le braccia sul petto, dopo aver gettata via la carabina, e guardandoli fissi disse con voce rotta: — Ho perduto la partita: pago!... — Poi si lasciò cadere su di una rupe, prendendosi il capo fra le mani. Collin che precedeva tutti, gli si precipitò addosso puntando contro di lui il fucile. — Mi riconosci, miserabile?! — gridò. Bill alzò il capo mostrando il viso, che in quel momento era più bianco d’un panno lavato, e disse con voce lenta, misurata: — Vi riconosco; si vede che i morti talvolta ritornano. — Ed io sai chi sono? — gli chiese Hill, che lo aveva raggiunto. Un lampo d’odio brillò negli occhi del forzato. — Voi! — esclamò. — Per quale arte diabolica siete qui e vivo? Credevo le tigri vi avessero divorato. — Ti sei ingannato, assassino, incendiario e ladro. Sono vivo ancora, e qui giunto per farti scontare le tue infamie. — Uccidetemi adunque, se così vi piace. Ho perduto, e sono pronto a pagare. — No, la morte sarebbe troppo dolce. — Cosa intendete di fare? — chiese il forzato con inquietudine. — Ti ricondurrò alle isole di Norfolk. — Il viso di Bill divenne ancora più pallido e i suoi lineamenti si contrassero ferocemente. — È viva ancora vostra figlia? — chiese egli improvvisamente. — Sì, Dio l’ha protetta. — Ma perderà voi! — esclamò il bandito. Poi rapido come il lampo si trasse dalla giubba una pistola già montata e la puntò contro il capitano; ma Grinnell che gli stava accanto lo fece stramazzare al suolo con una calciata di fucile. Il colpo partì, e la palla si perdette altrove. — Sii maledetto! — ruggì il forzato. — Legatelo, — disse Collin. I marinai si gettarono su Bill e lo legarono strettamente, nonostante la sua disperata resistenza. Asthor prima lo frugò facendo piovere dalle tasche i biglietti rubati nella cabina del capitano. — Stanno meglio nelle saccocce del suo proprietario che nelle tue, — disse il pilota. — E poi, ai forzati che vanno alle isole di Norfolk il denaro è inutile, vecchia canaglia. — Ritorniamo, — disse Collin. — La notte cala e la via è lunga. — Ad un suo cenno quattro selvaggi levarono Bill e lo trasportarono giù dalla montagna. Asthor prima di lasciare la vetta guardò in giù, nelle sottostanti pianure e vallate. Nel fondo, presso la collina, alla cui base aprivasi la caverna, egli scorse dei fuochi giganteschi brillare fra gli alberi. — Guarda, — disse rivolgendosi a Grinnell che lo precedeva. — I selvaggi banchettano colla carne bianca, — rispose il marinaio. — Buon appetito! — gridò Asthor. E questa fu l’orazione funebre dei compagni dell’infame Bill, degli evasi dal penitenziario delle isole di Norfolk! CAPITOLO VENTESIMOTTAVO. Conclusione. Pochi giorni dopo le vicende narrate, i naufraghi della _Nuova Georgia_, aiutati dai selvaggi che ubbidivano sempre al proprio re che ai loro occhi si era fatta una grande riputazione dopo la distruzione dei forzati, presero a demolire il vascello per costruirsi una grande scialuppa. Ormai non avevano più nulla da fare a Tanna, e tutti sospiravano il momento di giungere in paesi civili. I lavori, sotto la direzione del capitano e di Collin, furono spinti così alacremente, che quattro settimane dopo veniva varata la nuova imbarcazione o meglio il bastimento, poichè poteva chiamarsi tale, stazzando quasi cento tonnellate. Attrezzatolo a _cutter_ e approvvigionatolo coi viveri che erano rimasti sulla _Nuova Georgia_ e che erano stati gelosamente conservati in un apposito magazzino costruito sulla spiaggia, condussero a bordo Bill che venne rinchiuso in una solida cabina, ma strettamente legato. Queste precauzioni erano però superflue, poichè il miserabile pareva rassegnato alla sua sorte. Collin dovette molto faticare per rinunciare al trono, poichè quei buoni isolani non volevano lasciarlo partire, tanto lo amavano. Dovette promettere di ritornare fra breve, se volle imbarcarsi in compagnia del capitano, di Anna, di Asthor e dei tre marinai. Prima della partenza, Hill fece regali d’armi a tutti i principali capi dell’isola, ed agli altri fece dono degli avanzi della _Nuova Georgia_, con tutto ciò che ancora contenevano. Finalmente un bel mattino il piccolo _cutter_ spiegò le vele e si spinse in alto mare, accompagnato per un buon tratto dalle piroghe degli isolani, i quali piangevano vedendo partire il loro re. Dopo ventisei giorni di felice navigazione, avvistavano le coste dell’Australia, e una settimana dopo sbarcavano a Brisbane, dove consegnavano Bill alle autorità inglesi. Il miserabile, nel momento in cui la polizia coloniale lo arrestava a bordo del legno, disse al capitano: — Vi auguro di essere felice. — Poi volgendosi ad Anna: — Se foste diventata mia, sarei divenuto un altr’uomo; ma era troppo tardi: dimenticate le mie infamie, e se lo potete, compiangetemi. — Poi si lasciò condurre a terra senza opporre resistenza. I naufraghi della _Nuova Georgia_ rimasero due settimane a Brisbane, in attesa d’un legno che li trasportasse in America. Prima di partire seppero che Bill era stato ricondotto alle isole di Norfolk, dove doveva scontare vent’anni di lavori forzati per assassinio. La sua pena, per gl’infami attentati commessi sulla _Nuova Georgia_, era stata portata alla detenzione perpetua. Dopo quarantacinque giorni sbarcarono nel Messico, ad Acapulco e di là tornarono agli Stati Uniti, ma il loro soggiorno in terraferma fu di poca durata. Il capitano Hill, acquistata una nuova e più grande nave alla quale diede il nome di _Nuova Georgia_ per ricordo dell’altra, riprese poco dopo i suoi viaggi oceanici, conducendo con sè due figli invece di una sola: il tenente Collin e sua moglie Anna Hill! Non occorre dire che l’allegro Asthor, Mariland, Fulton e Grinnell si erano imbarcati insieme con loro. SPIEGAZIONE DEI TERMINI MARINARESCHI USATI NEL PRESENTE VOLUME. =Alare al molinello=, girare il molinello o argano per ritirare sulla nave le àncore o per operare una forte trazione delle funi legate a terra. =Albero di trinchetto=, albero situato a prua della nave. =Albero di bompresso=, vedi= Bompresso.= =Ancorotto da pennello=, piccola àncora con due sole branche o _patte_, come si chiamano in termine marinaresco. =Aspe=, specie di travicelli che servono a far girare l’argano. =Babordo=, fianco destro della nave. =Bagli=, pezzi di sostegno ai puntelli del ponte. =Baleniera=, chiamasi così una scialuppa che è di forme svelte. =Bancazze=, sporgenze situate sui fianchi delle navi per l’appoggio delle sartíe e dei paterazzi. =Barra all’orza=, mettere la ribolla del timone o asta a destra od a sinistra, secondo che la nave si trova sottovento o sopravvento. =Beccheggio=, quel movimento che fa la nave da prua a poppa, per le scosse delle onde. =Bompresso=, albero situato sulla prua della nave, e che invece di essere verticale è orizzontale. =Boscelli=, grosse carrucole. =Bracciare le vele=, chiuderle, ammainarle. =Bracci di manovra=, funi che servono a chiudere le vele ed a voltarle secondo il vento. =Cala=, luogo vicino al fondo della nave, che fa parte della stiva. =Canoa=, piccola barca scavata nel tronco di un albero. =Cassero=, ponte che si trova a poppa, sopra la coperta. =Castello di prua=, sorta di ponte, più elevato della coperta, e che s’inalza a prua. =Coffa=, largo pezzo di legno semicircolare, che trovasi ad un terzo d’altezza degli alberi d’un bastimento: serve d’osservatorio e di sostegno alle scale di corda. =Coltellacci=, piccole vele che si aggiungono alle estremità delle altre per prendere maggior vento. =Contrapappafico=, quarta vela dell’albero di trinchetto. =Coperta=, ponte di un vascello, che chiamasi anche _Tolda_. =Corbetti=, costali di un bastimento. =Corcome,= cordami arrotolati per esser più pronti a sciogliersi. =Crocette=, traverse di legno, che si trovano presso la cima degli alberi sotto l’ultimo alberetto, e servono di appoggio agli ultimi paterazzi. =Cubie=, grandi buche le quali si trovano a prua a fior del ponte, che servono di passaggio alle catene delle àncore. =Delfiniera=, piccola asta situata sotto l’albero di bompresso, a sostegno delle corde o trinche dell’albero. =Deriva=, deviazione della nave dalla propria direzione per causa o del vento o delle onde. =Fiocco=, piccola vela di forma triangolare, che si spiega sull’albero di bompresso e che si unisce all’albero di trinchetto. =Frangenti=, piccoli scogli a fior d’acqua. =Frapponte=, sorta di ponte situato sotto la tolda o coperta, a metà dell’altezza della stiva. =Frapponte proviero=, parte del frapponte presso la prua della nave. =Gabbiere=, marinaio incaricato della manovra delle vele alte, gabbie, pappafichi, contrapappafichi, ec. =Gomena=, fune, ed anche misura di lunghezza che viene calcolata ordinariamente in 150 braccia. =Griselle=, scale di corda. =Grue di cappone=, pezzi di legno arcuati, situati a prua, che servono di sostegno alle scialuppe. =Imbrogliare le vele=, manovra che significa serrarle, chiuderle. =Manichelle=, trombe di tela o di gomma. =Montare all’abbordaggio=, assalire il ponte d’una nave e il suo equipaggio. =Murate=, parapetti della nave. =Ombrinali=, piccoli fori che servono di scolo all’acqua sopra il ponte della nave. =Pagaie=, specie di remi adoperati dai polinesiani. =Pappafico=, vedi =Vela di pappafico=. =Paterazzi=, funi di sostegno. =Patte=, vedi =Ancorotto=. =Pennone di pappafico=, asta che serve di sostegno alla vela detta di pappafico. =Picco della randa,= pennoncino dell’albero di mezzana, che serve di sostegno alla vela detta randa. =Piroga=, scialuppa scavata nel tronco di un albero, in uso presso i polinesiani. =Ponte di comando=, sorta di piccolo ponte, situato sopra la coperta, e riservato al capitano ed agli ufficiali. =Quadro di poppa=, quella parte della poppa riserbata alle cabine, salotti, ec., per gli ufficiali. =Raffica=, impetuoso colpo di vento. =Randa=, vela in forma di trapezio che si stende verticalmente. =Ribolla=, barra o asta del timone. =Risacca=, il ritorno disordinato dell’onda respinta da un ostacolo. =Rollío=, quel movimento che subisce la nave da destra a sinistra, o da sinistra a destra. =Sartíe=, funi di sostegno degli alberi delle navi. =Scopamari=, piccole vele che si aggiungono all’estremità di quelle quadre, per raccogliere maggior vento. =Sopravvento=, il trovarsi la nave in direzione favorevole al vento. =Sottovento=, il trovarsi la nave in una direzione contraria al vento. =Stazzatura=, portata o tonnellaggio di una nave. =Stiva=, ventre della nave, e serve per collocarvi le merci. =Straglio=, fune che corre in senso obliquo fra l’albero di trinchetto e quello di maestra, e che serve per spiegare una vela triangolare, che chiamasi appunto _straglio_. =Terzaruoli=, cordicelle che servono a ridurre la superficie delle vele. =Tolda=, vedi =Coperta=. =Tramezzate=, pareti di divisione dell’interno d’una nave. =Tribordo=, fianco sinistro della nave. =Trinca=, corde di sostegno all’albero di bompresso. =Trinchettina=, una delle tre vele triangolari dell’albero di bompresso. =Trinchetto,= vedi =Albero di trinchetto=. =Uomini di quarto=. Uomini di guardia. =Vela di mezzana=, prima vela dell’albero di mezzana, collocato a poppa della nave. =Vela di pappafico=, è la terza vela che porta l’albero di trinchetto e l’albero maestro. =Vela di parrocchetto=, seconda vela dell’albero di trinchetto. =Velatura=, l’insieme di tutte le vele d’una nave. =Virare di bordo=, dirigere la nave a destra od a sinistra. INDICE DEI CAPITOLI. CAPITOLO PRIMO. — _Un assassinio misterioso_ Pag. 3 SECONDO. — _Il Naufrago_ 13 TERZO. — _Le isole di Santa-Cruz_ 23 QUARTO. — _Le bizzarrie di Bill_ 34 QUINTO. — _Gli antropofagi dell’Oceano Pacifico_ 44 SESTO. — _Il delitto del naufrago_ 53 SETTIMO. — _I frangenti_ 61 OTTAVO. — _Arrenati sulle scogliere di Figi-Levù_ 72 NONO. — _L’arcipelago di Figii_ 82 DECIMO. — _Un re sepolto vivo_ 93 DECIMOPRIMO. — _I compagni di Bill_ 101 DECIMOSECONDO. — _L’assalto degli antropofagi_ 110 DECIMOTERZO. — _Il domatore di tigri_ 119 DECIMOQUARTO. — _La grande marea_ 126 DECIMOQUINTO. — _Bill si svela_ 136 DECIMOSESTO. — _L’incendio della nave_ 146 DECIMOSETTIMO. — _L’assalto delle tigri_ 155 DECIMOTTAVO. — _La fuga dei forzati_ 164 DECIMONONO. — _Sul rottame_ 174 VENTESIMO. — _Il naufragio della «Nuova Georgia»_ 182 VENTESIMOPRIMO. — _Il naufragio_ 190 VENTESIMOSECONDO. — _Il primo selvaggio_ 197 VENTESIMOTERZO. — _Il re bianco_ 204 VENTESIMOQUARTO. — _I forzati_ 213 VENTESIMOQUINTO. — _La banda di Bill_ 218 VENTESIMOSESTO. — _L’assalto della caverna_ 227 VENTESIMOSETTIMO. — _Bill preso_ 236 VENTESIMOTTAVO. — _Conclusione_ 244 Spiegazione dei termini marinareschi usati nel presente volume 249 NOTE: [1] Presso i Battias, popoli che abitano la costa settentrionale dell’isola di Sumatra, fra il regno di Achin e il mare, si fa quasi lo stesso. Quando i padri non possono più lavorare vanno a legarsi ad un albero e aspettano che i parenti vadano a mangiarli! E si noti che i Battias godono una certa civiltà, e non recente. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UN DRAMMA NELL'OCEANO PACIFICO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.