LUIGI BARZINI
MILANO
Tipografia del CORRIERE DELLA SERA
1902
PROPRIETÀ LETTERARIA.
Dall’Italia emigrarono nello scorso anno mezzo milione di abitanti. L’emigrazione nostra, sorta, continuata e aumentata fino a queste spaventose proporzioni in mezzo a troppa indifferenza, è venuta ad un tratto ad imporsi alla nostra preoccupazione come uno dei problemi più gravi, più complessi e più urgenti.
È questa emigrazione un indice della nostra forza, del bisogno d’espansione nostro, o della nostra miseria, o della nostra ignoranza, o di tutto un po’? Ubbidisce essa a leggi naturali e ineluttabili, o è—in parte almeno—provocata artificialmente—profittando della credulità, della duttilità e della ignoranza delle masse infime della nostra popolazione—a scopo di lucro da parte di agenti d’emigrazione o a scopo di rinsanguare e rinforzare della nostra forza e del nostro sangue lontane nuove regioni? Nell’emigrazione non vi sarebbe forse un po’ della « tratta »? Le nuove condizioni nelle quali viene a trovarsi l’emigrante italiano sono migliori o peggiori di quelle che lascia? Quali sono i vantaggi o gli svantaggi diretti e indiretti che da tale emigrazione vengono alla Madre Patria? Quali i rimedî possibili ai mali? Ecco i quesiti la cui soluzione s’è imposta.
Il Governo ha creato nuove leggi sulla emigrazione, e il Commissariato di recente istituzione, presieduto e amministrato con zelo e amore, comincia a portare i suoi frutti. Ma indipendentemente da ciò l’opinione pubblica, dalla quale tutto emana, non è restata più a lungo indifferente. I mali sono giunti a tal punto che le lontane miserie di tanti, di troppi nostri emigranti, hanno avuto un grido che è risuonato fino qui, ed ha fermato imperiosamente il nostro pensiero su quelle miserie, vecchie miserie e che ci sembrano nuove.
Il Corriere della Sera colse l’occasione della emigrazione italiana al Canadà avvenuta l’anno passato, nella fine di marzo, per seguire passo passo l’odissea dolorosa di quegl’infelici strappati alle loro case dalle bugiarde lusinghe d’una speculazione infame, e abbandonati alla miseria e agli stenti. Il nostro Eugenio F. Balzan, il quale unito a quegli emigranti compì con loro il viaggio dall’Italia al Canadà, ossia dall’illusione alla verità, rivelò gl’inganni, gli sfruttamenti, gli abusi, i soprusi e le ingiustizie delle quali migliaia di nostri concittadini sono state le vittime; e le sue relazioni ebbero una profonda eco.
Questo nostro interessamento ci procurò l’onore d’una lettera del senatore Pasquale Villari, con la quale l’illustre Presidente della Dante Alighieri incoraggiava un più vasto studio del fenomeno emigratorio, e risolvemmo di affrettare l’esecuzione d’un antico nostro progetto: esaminare da presso la vita dei nostri emigranti nel loro nuovo ambiente, vedere la loro nuova situazione morale e materiale. E cominciammo dall’Argentina, che è il paese dove vive il maggior numero d’italiani, e dove per cinquanta anni si è diretta la più grande corrente della nostra emigrazione.
Ecco l’origine e lo scopo delle lettere argentine del nostro redattore Luigi Barzini, pubblicate nel Corriere dal novembre dello scorso anno al settembre di questo. Sono lettere oneste e coscenziose, che presentiamo ora raccolte in volume perchè su tante verità è necessario un po’ insistere, e disgraziatamente gli articoli di giornale nascono, vivono e muoiono nel corso d’una sola giornata.
Speriamo di non aver fatto opera completamente sterile, e di aver portato, nel limite delle nostre forze, un contributo allo studio dell’emigrazione che tanto ci sta a cuore.
Il CORRIERE DELLA SERA.
Prefazione | Pag.iii |
L’addio | »1 |
Sfogliando una guida | »6 |
Qua e là per Buenos Aires | »13 |
Gli allucinati | »22 |
La crisi Argentina—Troppa Buenos Aires | »31 |
L’Argentina e il capitale inglese | »39 |
Le nostre lettere dall’Argentina—Continuando | »45 |
Le basi dell’oligarchia Argentina | »55 |
Il Governo in azione | »64 |
La giustizia Argentina | »73 |
La polizia Argentina | »84 |
L’esercito argentino | »93 |
Il lusso nell’Argentina | »102 |
Ricchezze e miserie | »113 |
Andando all’Estancia | »125 |
Vita mandriana | »134 |
Il lavoro italiano nell’Argentina | »144 |
Errori e difetti dell’emigrazione italiana | »154 |
Unioni e scissioni | »166 |
I figli degli italiani | »173 |
Nelle campagne argentine: « peoni » e « medieri » | »185 |
Nelle campagne argentine: i « coloni » | »194 |
La tutela della Madre Patria | »204 |
Concludendo sull’Argentina | »217 |
[Dal Corriere della Sera del 19 novembre 1901.]
Da bordo del Venezuela, 12 ottobre.
Chi può udire senza commozione profonda il grido che si leva da una nave carica d’emigranti, nel momento della partenza, quel grido al quale risponde la moltitudine assiepata sulle banchine, urlo disperato di mille voci rauche di pianto? Gridano addio! E par che gridino aiuto!...
L’addio! Non c’è cosa più amara e più dolorosa. Tutta l’umana sofferenza può essere espressa in questa parola: addio! In fondo ad ogni nostro dolore possiamo trovare sempre un addio: a qualche cosa o a qualcheduno.
Io non dimenticherò mai la triste partenza di questo vapore che mi trasporta al di là dell’Atlantico; forse perchè anche io, partendo, mi sento un po’ compagno agli emigranti che sono a bordo. E anche perchè nella noia e nella disillusione dei viaggi vi sono due grandi emozioni, due sole, alle quali nessuno può sottrarsi: la partenza e il ritorno.[2]
***
Quando si ode a bordo l’avvertimento: « Chi non è passeggiero, a terra! » comincia un momento di strazio. Pare che soltanto allora chi parte abbia nettamente il sentimento dell’irreparabile. Si direbbe che vi fosse in ogni anima questo pensiero: potrei ancora non partire! Ciò dava coraggio.
« Chi non è passeggiero, a terra! »—ripetono delle voci indifferenti di marinai. Scoppiano i pianti fra la povera folla accampata sui ponti; si annodano abbracci lunghi, violenti, disperati; le facce lacrimanti si reclinano sulle spalle scosse dai singhiozzi; delle parole interrotte e affannose s’intrecciano: Ricorda!... Scrivi!... Torna, torna!...
« A terra! A terra! »—ammoniscono crudelmente i marinai: e comincia per la passerella la dolorosa processione di chi rimane. Non sono molti. L’amaro conforto dei saluti non è per tutti. È una folla varia che si dispone lungo la banchina, con le pallide facce attente alla nave, aspettando.
Vi è qualche cosa di funebre in questa attesa. Infatti la partenza di un emigrante per un lontano paese ha un po’ della morte. Egli muore alla sua vita consueta. Muore per i suoi, muore per il suo paese, sparisce verso l’ignoto. Egli forse pensa vagamente ad un ritorno, è vero; la sua morte ha una speranza di risurrezione. Ma nel momento del distacco il turbine del dolore disperde ogni sogno. Egli ha l’occhio perduto e il viso desolato di chi si trova di fronte all’abisso insondabile di un’altra vita. Questa morte è peggiore della vera, dell’ultima, in ciò: che qui vi è la desolazione di chi parte aggiunta alla desolazione di chi rimane. Questi due dolori di fronte, dalla riva alla nave, si nutrono l’uno dell’altro fino alla disperazione.[3] Le anime legate d’affetto sono come specchi che si mandino le immagini: ciò che vi passa dentro si riflette centuplicato all’infinito.
Tutti tacciono perchè tutti sentono che parlare sarebbe piangere. Solo qualche voce mormora ogni tanto: coraggio! E dei singhiozzi rispondono. Un emigrante arriva in ritardo, correndo, seguìto da una donna. Hanno il volto acceso dalla corsa e tutto bagnato di lacrime. Sul limite dell’imbarcadero si abbracciano strettamente, senza una parola, mentre i facchini pronti a ritirare la passerella gridano: Presto! Poi l’uomo si svincola e si slancia a bordo, come fuggendo. Lo segue lo sguardo desolato della donna che rimane immobile, stordita. Nessuno bada a questa scena; il dolore rende egoisti, cioè crudeli; i dolori degli altri sono spesso di conforto ai proprî.
***
Nel silenzio si odono i comandi dall’alto della plancia: i fischi dei segnali trillano degli ordini. Da tutto intorno viene intenso il tuono della vita, il palpito della città indifferente. I trams elettrici fuggono rombando lungo la via di circonvallazione e suonano allegramente le loro campanelle. Il frastuono d’un treno in partenza si spegne nel tunnel che va a sboccare nella luminosa San Pier d’Arena. Un mondo di gente passa lontano senza fermarsi, senza volgersi, inconsapevole dei mille drammi che lì a due passi hanno nella partenza imminente un unico epilogo. Dalle colline scende il vento fresco e porta gli ultimi profumi della terra. I giardini non sono mai stati così verdi e belli, così crudelmente allettevoli. Il colossale Nettuno della villa Doria, guarda dal folto degli alberi con profondo disdegno il suo regno antico, il mare; pare che dica: Qui, qui si sta bene! Genova tutta sorride al sole....[4]
I preparativi fervono. Le grandi braccia lente delle gru hanno posto nella stiva aperta le ultime casse. Erano bagagli d’emigranti, poveri bauli di legno grezzo, cesti, vecchi cofani borchiati di ferro che gemevano sotto la stretta delle funi. La passerella viene ritirata. Nulla è più fra la terra e la nave. Si ode un comando. Gli argani di prua si mettono a girare con frastuono: l’àncora sale, esce lentamente dal mare bagnata e scintillante. Gli ormeggi si allentano. Sotto alla poppa l’acqua comincia a ribollire, si forma un vortice da cui la spuma fugge in tumulto spandendosi lontano: l’elica è in moto.
Gli emigranti si accalcano ai parapetti, si arrampicano agli attacchi delle sartie, lottano per un posto, pallidi, silenziosi, risoluti.
Il piroscafo si sposta: lentamente lentamente scorre lungo la banchina. La folla muta lo segue passo passo facendo dei segni d’addio. Qualche fazzoletto sale agli occhi, ma per poco; non c’è tempo di piangere, si vuol vedere, vedere fino all’ultimo, vedere fino che è possibile: i momenti sono preziosi. Gli occhi non si distolgono un istante dalla nave; occhi rassegnati e dolenti, nei quali con l’espressione della sofferenza vi è tanta dolcezza d’implorazione. Chi soffre rassegnato ha lo sguardo del vinto che domanda pietà, ed emana da lui tutta la poesia della sconfitta. Una povera donna solleva sulla testa un bambino che saluta con tutte e due le manine, ridendo.
Ad un tratto il vortice di spuma diventa tempestoso, l’elica comincia a pulsare rapidamente facendo vibrare la nave tutta. La terra si scosta. Allora delle voci si levano, dei pianti mal contenuti scoppiano. Poi, improvvisamente, dai fianchi del piroscafo si sferra il grido disperato che stringe il cuore, l’urlo che quasi non sembra più umano: Addio!! E mille braccia si tendono verso la terra e si agitano quasi nell’inane sforzo d’un ultimo amplesso.[5]
***
Addio! risponde la folla già confusa sullo scalo. Sopra di essa biancheggiano i fazzoletti agitati, e ogni fazzoletto è riconosciuto da bordo come se fosse un volto, è seguìto fissamente, avidamente. Quel puntino bianco che sfarfalleggia sulle teste ripete ancora una volta tutto quel mondo di cose inesprimibili che le anime sanno dirsi quando il pianto rende muta la bocca.
Ogni cosa sparisce lontano; gli uffici doganali e i docks del ponte Federico Guglielmo non sembrano più che casette biancheggianti al sole. Si passa vicino ad una nave-scuola, dalla quale arrivano le allegre battute d’una marcia militare; dei ragazzi in uniforme marinaresca si affacciano al parapetto agitando i berretti. Il nostro piroscafo silenzioso si allontana scivolando sull’acqua calma e serena. Sopra un carboniere, dei marinai in catena eseguiscono una manovra, e il loro canto lietamente si spande nella quiete del porto. Si gira il Molo Vecchio, dietro al quale spunta la foresta delle alberature veliere, un intreccio folto di sartie, di scale e di pennoni che spicca sull’azzurro immacolato del cielo; il mare scherza in mille modi sugli scogli intorno alla lanterna. Allegri squilli di tromba vengono da due navi da guerra ancorate al Molo Lucedio; dei canti lontani pare che si chiamino. I gabbiani si rincorrono a fior d’acqua gridando, come per giuoco. Girando il Molo Giano per uscire dal porto, Genova intera si apre allo sguardo, vigilata dai forti, incantevole. Vi è per tutto una gioiosa aria di festa!
Poco a poco ogni cosa fugge all’orizzonte e si annebbia. La faccia della Patria impallidisce lontano, ma lungamente ancora corrono su di lei fervide le ultime carezze dello sguardo nostro....
[Dal Corriere della Sera del 5 dicembre 1901.]
Da bordo del Venezuela.
Mi è capitato per le mani un opuscolo interessante. Lo ha trovato interessante, prima anche di me, il Governo argentino, tanto che ha creduto bene di autorizzarne la compera di quindicimila copie per farle distribuire gratuitamente in Italia. Si tratta di una Guida dell’Emigrante Italiano alla Repubblica Argentina.
È un opuscolo scritto con una certa sincerità, e perciò in fondo onesto, e mi guardo bene di metterlo in un fascio con le infami pubblicazioni di propaganda che circolano per certe nostre campagne dove più infierisce l’epidemia dell’emigrazione. È appunto perchè è scritto con sincerità che è interessante. L’Argentina, si capisce, vi è chiamato il « paese ideale »; vi si dice che « non esiste nessun paese nel mondo dove gl’italiani possano star meglio che nella Repubblica Argentina », nella quale si sono date convegno tutte le benedizioni del cielo e della terra. Ma fra la relazione di tante cose belle e seducenti si leggono delle frasi, destinate forse a smorzare il disinganno, frasi[7] che dovrebbero far molto meditare gli emigranti nostri, se l’uomo preso dal furore migratorio fosse un essere ragionevole.
Sono granelli di sincerità: « Gli operai debbono essere decisi a far di tutto, ad andare da qualunque parte.... I loro lavori, come pure quello dei campi, risulteranno pesanti, forse più pesanti che i lavori analoghi che si fanno in Italia.... Gli emigranti debbono rassegnarsi a tutto (nei primi tempi) e andare in America con l’idea che i principî saranno duri e penosi... Il collocamento degli artigiani non è tanto facile (paragonato a quello degli agricoltori) e più d’una volta non potranno lavorare subito nel loro mestiere e dovranno rassegnarsi a fare qualunque cosa per pesante che sia. Quando ciò succede, molti maledicono l’ora in cui venne loro in mente d’imbarcarsi, abbandonandosi a sfoghi del tutto ingiustificati... Gli emigranti a cui si offre un occupazione fuori di Buenos Aires l’accettino subito ed abbiano la decisione di andare dappertutto. In Buenos Aires è molte volte impossibile la collocazione.... Gli emigranti si debbono rassegnare alle contrarietà dei primi tempi, vivendo male, adattandosi a qualunque lavoro, senza debolezze, nè abbattimenti. Altrimenti sarebbe meglio che non si muovessero dal loro paese, perchè in qualunque nazione d’America si dirigessero troverebbero di peggio.... Quelli che emigrano debbono essere sempre persuasi che per aprirsi una strada, per vivere, e fare alcuni risparmî, dovranno sopportare le fatiche più penose, sottomettersi ai lavori più pesanti. Meglio per loro se la realtà sarà poi meno fosca delle previsioni.... »
***
Tutto ciò è naturale. L’America come si presenta alle fantasie e alle speranze di tanta povera gente non è mai esistita, neppure all’epoca dei Guarany. In tutti i[8] paesi del mondo sono i forti che resistono e che trionfano dopo lunghe lotte e fatiche: anche in America. Ed è questo che dovrebbero capire gli allucinati che continuano ad essere attratti laggiù dal sogno di facili ricchezze.
Dovrebbero capire che « rassegnandosi a viver male, adattandosi a qualunque lavoro, senza debolezze, nè abbattimenti », potrebbero ben restare nella loro Italia che è pur sempre « il paese del mondo dove gli italiani possano star meglio »—senza offendere la Repubblica Argentina. Dovrebbero capire che se facessero in patria quanto la necessità fa far loro laggiù, se profondessero nel loro paese tutte le energie con le quali fanno ricchi quei lontani paesi, se i sacrificî e il lavoro bestiale ai quali li spinge, una volta emigrati, la disperazione come una sferza sanguinosa, li riserbassero per la bella terra che li ha visti nascere, se le iniziative che essi trovano quando lontani e perduti il bisogno li stringe, le avessero a casa loro, troverebbero bene in Italia la loro America, ma quella delle leggende, e più bella, e più cara.
Ma è la miseria che li spinge ad emigrare: lo dice anche la Guida dell’Emigrante Italiano alla Repubblica Argentina. Pare quasi che la giovane America ci stenda una mano caritatevole, a noi vecchi miserabili, prendendoci un po’ di braccia. Ah! la nostra miseria, noi la gridiamo. E la miseria d’America, della terra promessa? E gli scioperi argentini? E i diecimila disoccupati di Buenos Aires? E coloro che tornano da laggiù sfiniti, con la volontà spezzata? E quelli che non possono nemmeno tornare perchè non ne hanno la forza? E coloro che finiscono nell’atorrantismo, la forma più abbietta e vilipesa della povertà? Di fronte agli arrivati che conosciamo, quanti caduti, ignoti, lontani, dimenticati?
La Guida dell’Emigrante, parlando delle fortune fatte da molti lavoratori italiani nell’Argentina, dice:[9]
« Sappiamo che fra gli emigranti ve ne sono che soffrono ogni genere di angoscie, contrarietà e privazioni prima di trovare una via meno aspra, se pur la trovano, ciò che non a tutti succede. » Ma tuttavia, diamine, c’è chi arriva a farsi una bella posizione, e « si suol citare, come esempio, in Buenos Aires, un fabbro che finì per possedere una gran fonderia e un gran numero di case. » Ebbene, un fabbro è poco, e poi il fabbro di Buenos Aires, non lo abbiamo noi in cento e cento edizioni? Non vediamo in tutte le nostre città operai industriosi e intelligenti, uomini di volontà e di costanza che arrivano a mettersi alla testa di industrie, e che giungono ad avere la loro « fonderia con gran numero di case? »
E via, rompiamo l’incanto che circonda ancora l’America nella mente del nostro popolo. L’America è un paese dove si soffre, dove si piange e dove si soccombe, come in tutto il mondo. Laggiù la lotta è meno disciplinata ed è perciò violenta, terribile: alla curée della ricchezza corrono mastini forti ed agguerriti. E non sono di quei mastini che possa fornire l’emigrazione nostra. L’emigrazione italiana è un’emigrazione di muscoli. Questa Guida dell’Emigrante, dice: « Oltre i deboli rachitici, gli sconciati e i vecchi, non debbono emigrare coloro che hanno studiato, che hanno ricevuto un’educazione più o meno scelta. » Nè muscoli infermi, nè teste sane dunque. Sono buone braccia che si vogliono da noi, ma niente altro che buone braccia. E noi le diamo.
Quest’opuscolo che sfoglio, sulla cui copertina, come una vidimazione ufficiale, spicca il bollo del « Consulado de Milan », è una chiara e facile esposizione di consigli, alla portata delle intelligenze semplici. Dalla lettura di questi consigli all’emigrante italiano si forma a poco a poco la netta visione di che cosa sia veramente l’emigrazione laggiù: come dai consigli del medico si capisce il male.[10]
L’emigrazione non è l’effetto naturale della legge della domanda e dell’offerta di lavoro, come asserisce la prefazione dell’opuscolo. Nei centri argentini vi è pletora di mano d’opera, specialmente a Buenos Aires che attraversa una crisi non indifferente, e la Guida infatti cerca in ogni pagina di persuadere l’emigrante ad internarsi nei campi, risolutamente, senza paura della distanza, e subito. Nella colonizzazione è la ricchezza del paese, il quale ne risente i vantaggi, mentre tutto il passivo di vite, di lavoro e di denaro grava sui pionieri dispersi nelle estancie delle Pampas. Si vuole un’emigrazione stabile: la Guida trova assai più vantaggiosa per gli emigranti « l’emigrazione con carattere definitivo » e consiglia loro di « mettere in ordine i loro affari come se non dovessero tornar più » prima di partire. Li pone in guardia contro il dolce mal della patria; « bisogna guardarsi da questi sentimentalismi che causano malessere e inquietudini e inducono a commettere leggerezze di cui più tardi ci si pente »; la leggerezza, si capisce, è il ritorno. « Queste vacillazioni recano un danno enorme agli emigranti. » « Del resto hanno la loro poesia e le loro attrattive anche le pianure argentine con i loro orizzonti infiniti. » « Per fortuna gli italiani sono quelli che più facilmente si radicano nella Repubblica Argentina; i più, nondimeno, tardano a convincersi che devono considerare l’Argentina come loro residenza definitiva, come loro seconda patria. » Coloro che non hanno tali debolezze « ottengono un immenso vantaggio su quelli che solo pensano al ritorno ».
È logico. La Guida vede l’emigrazione francamente e nettamente dal punto di vista argentino, soprattutto quando, parlando dei risparmî degli emigranti, consiglia « coloro che hanno qualche maggiore conoscenza di queste cose » a comperare titoli degli imprestiti interni della Nazione, perchè « i tracolli e le sospensioni di pagamento di altri tempi non si ripeteranno ». Ma dal[11] punto di vista italiano? Non è doloroso e umiliante? Questa sottrazione continua delle nostre forze vive, questa trasfusione del sangue nostro per la rigenerazione di paesi lontani, dovuta principalmente alla ignoranza delle nostre masse, non è cosa ben triste?
E non siamo troppo ottimisti sui vantaggi riflessi che la madre patria può avere dalla emigrazione: lo stato civile dei Consolati c’insegna che l’italianità normalmente si perde alla prima generazione: e tutti gl’italiani che da cinquant’anni sono passati nell’Argentina hanno procurato alla loro madre patria solo un terzo della esportazione che ha l’Inghilterra laggiù; e non vi sono che ventimila inglesi nell’Argentina. Inglesi, beati loro, da padre in figlio e da figlio in nipote, come se vivessero in pieno Regno Unito.
***
La Guida dell’Emigrante se la prende un po’ col Governo italiano perchè intende d’occuparsi dell’emigrazione. « Tutte le nazioni d’Europa—dice—hanno dell’emigrazione, in scala maggiore o minore: ma l’Italia è l’unica nazione dove si parla continuamente di misure, di protezioni, di leggi, di colonie (che poi non sono tali) ». Se la prende col Governo « perchè insomma con tanto parlare di colonie e di protezioni non si fa che irritare suscettibilità attendibili e creare diffidenze e sospetti ».
Sì, tutte le nazioni hanno degli emigranti: ma sopra 1,765,784 emigranti europei sbarcati nell’Argentina dal 1857 al ’98 1,093,112 erano italiani. Abbiamo diritto di occuparcene. E poi che cosa ha fatto il Governo italiano con la sua nuova legge per l’emigrazione e il[12] relativo complicato, burocratico e fiscale regolamento? Ha reso più facile il viaggio, ha provveduto perchè gli emigranti abbiano a bordo tanta carne, tanto pane e tanti metri cubi d’aria respirabile durante il tragitto.
Come se il complesso fenomeno dell’emigrazione consistesse in quei venti giorni di navigazione!...
[Dal Corriere della Sera del 24 dicembre 1901.]
Buenos Aires, novembre.
La più grande caratteristica di Buenos Aires è quella di non avere nessuna caratteristica. Buenos Aires è un po’ di tutto. Un Santos Dumont capitato qui, supponiamo, con la macchina per volare, si troverebbe estremamente imbarazzato a giudicare, dall’alto, in quale paese del mondo il vento, o il motore, lo avessero condotto.
Sulla piana e sterminata distesa di case vedrebbe delle guglie tedesche ornate di trafori in ferro, come certi tetti della vecchia Norimberga, vicino a basse terrazze candide e disordinate ricordanti Cadice! Scorgerebbe le cinque cupolette tradizionali di una chiesa russa e più lontano due campanili spagnuoli: e cupole italiane gettanti la loro ombra sopra le mansardes di un casamento parigino: e palmizi come alla Favorita e platani come all’« Avenue des Champs-Elisées. » Volta a volta si crederebbe arrivato in tutti i paesi d’Europa, l’infelice aereonauta!
Buenos Aires si può dire infatti una specie di campionario[14] di capitali europee; nemmeno la più piccola sfumatura di colore locale. Vien quasi voglia di chiedere, come er re de Spagna portoghese dei sonetti di Pascarella:
Ma st’America c’è? ne sete certo?
Si esce da una brutta copia di « boulevard » parigino—chè tale è l’Avenida de Mayo, la principale via della città—e si trova nella « Plaza de la Victoria », un perfetto square londinese, ombroso e verde con la sua fontana che getta acqua nei giorni solenni, e il suo bravo monumento equestre, una specie di « cavallo di spade », rappresentante il generale Belgrano. Di fronte al generale biancheggia quel curioso obelisco celebre sotto il nome di « Piramide de Mayo », eretto per « perpetuar el glorioso pronunciamiento de independencia », funzione che esso, per quanto composto di stucco, compie coscienziosamente da novant’anni. È il capolavoro d’un povero mastro muratore italiano, un certo Podestà, divenuto architetto per bisogno. Si sa, l’italiano
Er talentaccio suo se l’ariggira.
L’opera dell’oscuro nostro compatriotta è ingabbiata da un’armatura costellata da lampadine elettriche che si accendono nelle sere di festa: una volta all’anno si dà al tutto una buona mano di vernice. Questo è il più antico e il più sacro monumento della Repubblica Argentina, intorno al quale si compiono le cerimonie patriottiche e le dimostrazioni; mèta dei corteggi e dei pellegrinaggi, tribuna dell’eloquenza commemorativa.
La manìa d’ingombrare i monumenti con il permanente preparativo della luminaria è generale. L’illuminazione pare considerata qui come una cosa importante, indispensabile, che bisogna aver sempre pronta sotto mano per ogni circostanza. Oh! « sangre español! » [15] Anche la cattedrale, per esempio, che sta nello stesso square incastonata fra un paio di Banche, ha i capitelli e le colonne del suo brutto portico corinzio percorsi da grossi tubi di gas neri che sembrano fasce di lutto.
Eppure—chi lo direbbe?—questa chiesa, e i suoi tubi, formano l’orgoglio dei bonearensi. Un ex-ministro argentino, grande uomo, celebre per aver mangiato molti milioni sulle opere di salubrità durante l’indimenticabile presidenza di Juarez Celman, davanti al Pantheon a Roma, esclamò: « Muy bonito, si, però, nuestra catedral es mas bella y grandiosa! » Egli di tali sue impressioni geniali ha composto dapprima delle corrispondenze europee al più diffuso giornale di qui, la Prensa, e poi anche un libro, dove ha trovato modo di dichiarare che San Pietro e i Palazzi vaticani con le relative loggie e musei non valgono la Galleria delle Macchine dell’Esposizione di Parigi. Davanti alle Pinacoteche fiorentine ha avuto questa meditazione: Quanti milioni gettati via, mentre oggi la fotografia rende così bene la verità della vita!
Sembrano scherzi, ma no, si tratta di cose scritte, e soprattutto lette, sul serio. L’ottimo ex-ministro rispecchia abbastanza fedelmente l’opinione dei suoi concittadini. Qui si pensa così della nostra arte, delle nostre grandezze, delle nostre glorie!
***
Lasciato lo square dall’obelisco patriottico per entrare in certe vie laterali, pare trovarsi nella City, parlo della City londinese, col suo asfalto, le sue Banche, le sue agenzie e la sua folla. Calle Reconquista somiglia a Lombard Street. Banco di Londra e Rio della Plata, Banco di Londra e Brasile, Banco britannico dell’America del Sud, poi Banco Anglo-Argentino,[16] e lì presso il « River Plate Trust », la « Loan y Agency Comp. », e la « New Zealand and River Plate Lond Mortgage Comp. », e la Società Ipotecaria Inglese, una quantità d’istituti finanziarî inglesi fra i quali le altre Banche francesi, spagnuole, tedesche, argentine e italiane, stentano a formare la maggioranza numerica. Biondi commessi in soprabito e cilindro, con le cartelle dei valori sotto il braccio, vi vengono addosso, vi urtano e si allontanano gettandovi un frettoloso: « I beg your pardon! »—Si odono dei rapidi: « Good morning! »—« Good bye! »—« Come è l’apertura del London Exchange? »—« All right! »
Qui le mani inglesi manipolano le finanze della Repubblica. Gl’inglesi sono i veri padroni dell’Argentina; essi hanno tutte le ferrovie, il porto, le opere colossali dell’acqua potabile, i trams, tutte le principali imprese; un investimento di un seicentocinquanta milioni di franchi, senza contare i prestiti allo Stato. La capitale finanziaria dell’Argentina è Londra. Dal London Exchange viene tutti i giorni la parola d’ordine. Nei nebbiosi dintorni della Mansion House può decretarsi la sorte di questo Stato, che esiste solo in grazia dei capitali inglesi e delle braccia italiane.
Gl’inglesi a Buenos Aires formano proprio l’« imperium in impero », anzi direi meglio l’« imperium in... repubblica. » Essi formano una potenza a loro. Vivono completamente separati. Chiusi gli ufficî, alla sera, essi corrono alla stazione del « Retiro », e i « dinner trains », pronti per loro, li portano a Belgrano e a Flores, ameni quartieri pieni di giardini e di villette inglesi, che rammentano vivamente i gentili e melanconici sobborghi aristocratici di Londra. A traverso le cancellate dei parchi, profumati da superbe magnolie fiorite, i passanti possono seguire le partite di lawn-tennis, di cricket, di foot-ball che si svolgono sull’erba dei prati; e alla sera, dalle verande aperte, intravvedono il pranzo di famiglia, silenzioso[17] e cerimonioso come in pieno West-End; un’eletta raccolta di gentlemen in abito da società e di ladies in décolletée. Oh! Quell’abito! Vi sono degli inglesi che vivono all’interno, in estancie lontane dal consorzio umano, soli, nella pampa, e che si mettono in frack per andare a tavola!
Quando gl’inglesi hanno voglia d’un po’ di spettacolo, si fanno concedere il Teatro dell’Opera, vi mettono in scena una produzione inglese, e loro se la recitano, se la cantano, se la ballano e se l’applaudiscono, infischiandosene del mondo intero. Giusto adesso essi danno all’Opera un’operetta popolare inglese, il « San Toy », nella quale si possono ammirare delle rispettabili ladies che ballano il passo a due con pudibonda grazia, e delle venerande misses dagli occhiali e i denti rilegati in oro, le quali, vestite da cinesi, cantano:
Lettori, fuggiamo!
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Due quadri a ponente della City si trova una via che per il suo aspetto ricorda il Corso di Roma: è la Calle Florida, il centro dell’eleganza bonearense. I lettori comprenderanno il significato di quei « due quadri a ponente ». Essi sanno bene come Buenos Aires sia—a somiglianza di tutte le città moderne—costruita a quadrigliato; le strade, tutte eguali in modo desolante, s’intersecano ad angolo retto, alla stessa distanza, formando dei quadri: una cosa più noiosa della nebbia. Il quadro è la base delle distanze, l’unità di misura: gl’indirizzi vengono indicati così: tanti quadri a destra e tanti a sinistra e siete arrivato. Par di camminare sopra una scacchiera; infatti per andare[18] alla Posta io debbo fare il « salto del cavallo »; per andare alla Banca marcio come la « torre », sempre dritto; e vado al club seguendo le regole dell’« alfiere ». Roba da diventar matto, anzi... scacco matto!
Calle Florida dunque è la via dello chic; lì sono i negozî più ricchi, i bars e i caffè più in voga, lì gli eleganti portano a spasso le loro cravatte e le eleganti le loro ultime toilettes parigine. Calle Florida è tributaria in tutto a Parigi; sì, dall’epoca della penultima Esposizione mondiale. Da allora Parigi—unica fra le città europee—gode della stima presso gli argentini. Il « hijo del pais »—il figlio del paese—quando vuol visitare il nostro vecchio ed arretrato continente non ha altra mèta che Montmartre; esplora il « Moulin Rouge », lascia i suoi pesos nei dintorni della place Blanche, e ritorna in patria completamente soddisfatto. A Parigi vivono sempre degli argentini, il cui numero varia anche a seconda della situazione politica; in certe circostanze, per esempio, quando c’è la minaccia d’una guerra col Cile, il viaggiare esercita qui un’attrattiva irresistibile.
Parigi è l’unico termine di paragone con Buenos Aires; giorni sono, al « Grand Prix » di trentamila pesos all’Ippodromo, un diplomatico—che potrebbe anche essere italiano—diceva ad una signora argentina moglie del direttore d’uno dei migliori giornali bonearensi, accennando all’elegante concorso: È un bellissimo spettacolo che forse nemmeno da noi è dato di vedere spesso! La dama si volse sdegnosamente rispondendo: « Sappiate, signore, che soltanto a Buenos Aires e a Parigi si può ammirare una simile cosa! » Poche signore bonearensi avrebbero dato altra risposta. Parigi è nella loro mente il compendio di tutto il bello e di tutto il buono che possegga l’Europa.
Esse non hanno altra ambizione che di rassomigliare a delle parigine. Tutte, senza eccezione, cominciano col trasformare la loro bruna carnagione con[19] l’impiego, senza economia, di tutte le colorazioni che la chimica ha escogitato a questo scopo, dal bianco per il collo al rosato per le gote, dal carminio per le labbra al livido per gli occhi; s’inondano di profumi; s’abbigliano con quanto la moda boulevardière lancia di più vivace e di più ardito. E riescono nel loro intento. Lo straniero che non è ancora al corrente della strana manìa universale, rimane choqué del gran numero di... parigine che vede.
Alla sera tutto questo mondo si ritrova nel parco di Palermo sulle verdi rive del Rio della Plata; lungo le avenide, bordate di palme rigogliose, gli equipaggi sontuosi sfilano lasciando fra i pedoni una scìa d’ammirazione e di maldicenza. Al di là del parco, delle villette e dei giardini si seguono; nel silenzio della campagna, la vita tumultuosa si spegne. La pampa incomincia; essa porta l’infinita e squallida uniformità della pianura fino alla città: Buenos Aires è come un’isola circondata da questo oceano erboso. Nulla viene a rompere la linea sterminata dell’orizzonte, fuori degli innumerevoli elevatori a vento dei pozzi artesiani, grandi ruote a palette sopra armature d’acciaio, che fanno pensare a scheletri di fuochi d’artificio rimasti da un immenso e misterioso festival.
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Dal lato opposto della città gli eleganti non vanno mai. Vi è la Boca del Riachuelo, uno strano rione, un paese quasi, dalle piccole case di legno, di ferro zincato, di casse da petrolio; qualche volta anche di mattoni. Dalle vie sterrate, sulle quali il vento solleva il polverone a vortici, si scorgono piccoli recinti pieni d’immondizie, depositi di vecchi cerchi di botte, di mobili a pezzi, di cenci, di roba d’ogni genere raccolta certamente per la strada e radunata non si[20] sa perchè, forse per quella strana manìa collezionista che accompagna talvolta la miseria. In alcuni cortiletti al piede di alberi rachitici bruciati dal sole, vegetano pomodori ed erbaccie fra i quali razzolano i polli. In certi punti il terreno è paludoso; le vie sboccano in veri pantani. Qui le case sono costruite sopra palizzate, come quelle dei villaggi lacustri; l’acqua marcisce intorno alle abitazioni, tutta coperta da muffe verdi. In alcune strade meno frequentate pascolano liberamente dei buoi, che gettano al vento il loro muggito lamentoso. Per ogni dove piccoli negozî oscuri di almacen dove si vende di tutto; povere mostre polverose coperte di mosche; osterie dalle quali esce il tanfo caldo del vino come dalla bocca d’un ubbriaco; loschi caffè dove non si prende il caffè...
La Boca migliora in prossimità del fiume; vi si vedono dei grandi depositi di legname e di ferro, delle agenzie, degli ufficî. I caseggiati si serrano uno contro l’altro in disordine, come se si affollassero verso lo scalo per osservare curiosamente le golette, i brigantini, i trealberi, i velieri d’ogni forma che ancora preferiscono dar fondo al Riachuelo per antica consuetudine.
La Boca del Riachuelo è genovese. Qui l’aspro dialetto ligure è la lingua comune. I genovesi sono pressochè i soli italiani che vivano riuniti in Buenos Aires, che abbiano formato una comunità separata, e che s’impongano talvolta anche alle autorità ora per avere una « Calle Ministro Brin », ora per reclamare il diritto ad un corpo di pompieri speciale, italiano. Sono marinai e figli di marinai, gente che vive sempre del mare; scaricatori, piloti, battellieri, qualche armatore di velieri: alcuni passati poi al commercio e divenuti grossisti, almacenieri; e osti e mestieranti. Solo gli arricchiti lasciano la Boca.
Tutti gli altri italiani—ve ne sono più di duecentomila in Buenos Aires—vivono dispersi per l’immensa città. Oh! ma non è difficile trovarli![21]
I venditori ambulanti che trascinano la loro triste vita sui marciapiedi sono tutti italiani. Questo si dice ufficialmente avere in mano il piccolo commercio. Sono italiani i terrazzieri che scavano le fogne, i lastricatori delle vie, i muratori arrampicati sui ponti, tutti coloro che compiono i lavori più rudi, gli operai in genere. Basta correre là donde viene il batter d’un martello, dove stridono delle macchine, dove romba un lavoro qualunque esso sia, dove si fatica, per trovare gl’italiani. Non v’è pietra, si può dire, che non sia stata messa a posto da mani italiane; dalle mani italiane è uscita la Buenos Aires d’oggi con i suoi casamenti tedeschi e francesi e le sue ville inglesi.
No, non è difficile trovarli i nostri connazionali! Fra i palazzi sontuosi, anche nelle più belle calles e avenidas—con quella promiscuità che caratterizza questo caos che è Buenos Aires—vi sono delle porticine ai cui stipiti la miseria ha lasciato la sua sudicia traccia. Sono gl’ingressi ai conventillos, le case immonde dove vivono ammassati i poveri. Anche lì si parla italiano!
Fortunatamente vi sono palazzi e ville abitati da molti connazionali nostri, e ciò conforta. Ma lì, lettori miei, normalmente non si parla più italiano; la nostra lingua vi è bandita.
Lì generalmente « se habla la lengua del pais!... »
[Dal Corriere della Sera del 13 gennaio 1902.]
Buenos Aires, dicembre 1901.
Vengono e vengono gli allucinati, sempre, a migliaia e migliaia, tutti i giorni. Essi seguono follemente il loro miraggio, abbacinati; non sanno nulla, fuori che questa è la terra dove « si fa fortuna »; ignoranti e incoscienti, senza volontà e senza idee, spinti da una forza misteriosa e mostruosa, quasi un esercito di ipnotizzati, attirati da questa terra come i vascelli dall’isola fatata nella leggenda araba.
È inutile che i giornali onesti gridino al mondo la grande crisi che affligge questo paese: essi vengono. È inutile che le ricerche imparziali facciano conoscere che nella sola città di Buenos Aires quarantamila operai almeno sono senza lavoro; che tanta parte e migliore della campagna ha perduto i raccolti, tanto che lo Stato distribuisce le sementi; che il malgoverno ha rovinato i commerci, distrutto il credito, paralizzato lo sviluppo industriale, colpito a morte la libertà e la giustizia: essi vengono. È inutile che ogni giorno[23] le liste dei ricercati dai Consolati dimostrino la scomparsa di migliaia e migliaia di emigrati, dispersi, spariti nelle solitudini delle pampas forse, perduti in lontane estancias, finiti non si sa dove, non si sa come: essi vengono. È inutile che i consoli, di fronte alla immensa miseria che chiede tutti i giorni il loro aiuto, sconsiglino l’emigrazione: essi vengono. Vengono, increduli al male, quasi convinti che il volerli dissuadere significhi solo il volerli escludere dalla loro parte di fortuna, sostenuti e consigliati non si sa da quale demonio.
Ogni nave che arriva ne scarica migliaia sulle banchine del Porto Madero. Il loro numero è pubblicato vicino alle note di carico: essi sono una merce d’importazione. Dal gennaio ne sono sbarcati sessantacinquemila. Nel solo mese di ottobre sono arrivati dodicimila emigrati, dei quali diecimila italiani. In questi ultimi tre giorni sono arrivati tremila e ottocento emigrati, in gran parte nostri connazionali.
L’« Hôtel de Inmigrantes » è gremito. Il lavoro di sparpagliamento di questa gente per tutta le Repubblica procede alacremente. Annesso al ricovero per gli emigrati v’è l’« Oficina de Trabajo » che riceve le domande di mano d’opera e distribuisce il lavoro; gli emigranti con le famiglie sono trasportati sul posto del lavoro a spese dello Stato. Teoricamente l’organizzazione è bella, ma il suo funzionamento è troppo spesso inumano. I lavori per i quali si richiede la mano d’opera sono ben sovente temporanei; quando sono finiti, gli operai vengono licenziati; i miseri rimangono senza risorse in mezzo ad un paese sconosciuto, soli, inascoltati, ignorati. E non possono tornare indietro; l’emigrante può viaggiare gratis su tutte le linee della Repubblica, ma solo in una direzione: avanti, verso la periferia. L’Argentina ha bisogno di dicentrare la popolazione; la legge è sapiente, ma spietata. Giunti all’interno, gli emigranti sono praticamente prigionieri del paese. Alcuni tentano il ritorno[24] a piedi fra disagi gravi ed anche pericoli. Non sono molti giorni che una famiglia italiana di quattro persone, fra cui una bambina, è tornata a Buenos Aires da Tucuman (milleduecento chilometri) a piedi, traversando il terribile deserto delle Salinas. Inoltre l’« Oficina de Trabajo » non si cura di esaminare le capacità degli individui per distribuirli logicamente secondo i climi o i lavori. La personalità sparisce, un emigrante vale l’altro, gli uomini diventano cose, macchine che non costano nulla e che arrivano in abbondanza. Si domandano cento uomini per il raccolto dello zucchero nel Salta o nel Chaco? Ebbene, si mandano i primi cento che capitano a compire quel lavoro al quale gl’indi stessi si rifiutano. Gli emigranti possono non accettare, è vero, ma questa povera gente sente nominare il Chaco per la prima volta!
Nell’« Hôtel de Inmigrantes » sono accampati come un’armata alla vigilia della battaglia. Il paragone viene naturale. Di fronte a tanta forza incosciente si prova quella pietà profonda che solleva la vista di soldati partenti allegramente per la guerra. Quale sorte li aspetta? Queste sono le ultime ore che trascorrono insieme: il bastimento rappresentava ancora un pezzo di patria; questo rifugio continua ancora la vita di bordo. È un immondo lazzaretto della miseria, ma li tiene uniti. Fra poco saranno dispersi a centinaia di leghe da qui e non sapranno, nemmeno vagamente, dove si troveranno. Non potranno—come il Maomettano che prega volgendosi alla Mecca—volgersi verso un punto dell’orizzonte pensando: l’Italia è là. Non ho trovato che un solo emigrante, sopra tanti che ho interrogato, capace d’indicarmi l’America sopra una carta geografica che presentavo loro!
È questa immensa ignoranza che li rende docili, sicuri e preziosi per il paese. Dove cadono si attaccano e producono, come il seme. L’idea della prosperità che verrà li rende rassegnati a tutto, come una[25] volta l’idea del paradiso; poi, nell’ora del disinganno, sono rassegnati per abitudine. Essi formano la vera ricchezza del paese; non esiste un « hijo del pais » che coltivi la terra: per lui c’è l’impiego, l’affare, la speculazione, il giuoco. È il lavoro dello straniero—e dicendo straniero si può quasi significare italiano—che ha sviluppato le risorse della terra, che ha reso possibili le industrie, attivato il commercio, creato in mezzo secolo l’Argentina d’oggi.
Questo Governo conosce il valore inestimabile dell’emigrante, la massima dell’Alberdi « gobernar es poblar » è sempre applicata: l’emigrazione è incoraggiata con opuscoli, con pubblicazioni, con conferenze tenute all’estero e principalmente in Italia; la diminuzione dell’emigrazione ha destato allarmi, provocato provvedimenti. Eppure, questa merce umana così preziosa, è ricevuta e trattata qui con molta meno cura dell’altra merce, quella in balle! Per le casse di carta o di cotone vi sono dei grandi edifici in muratura, dei docks superbi ventilati e asciutti, muniti di ascensori, ben situati sugli scali fra larghe vie in cemento. Per gli emigranti vi è una grande baracca di legno cadente e infetta, nella quale vengono condotti come mandrie all’ovile da inurbani impiegati.
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L’« Hôtel » degli emigranti (lo chiamano Hôtel!) sorge su quella landa indefinibile, irregolare, fangosa, che sta fra il torbido e tempestoso Rio della Plata e la città, una striscia di terra che si direbbe la zona neutra fra il possesso delle acque e quello degli uomini. Tutto intorno dei pantani putridi coperti da una superba vegetazione acquatica mettono un po’ di verde sul piano squallido e un po’ di miasmi per l’aria.
L’« Hôtel », di legno, ha una forma strana, sembra[26] un gasometro munito di finestre. Dei tetti bassi, neri e irregolari gli si aggruppano intorno. Nel mezzo all’edificio principale, al gasometro, vi è un cortiletto circolare, oscuro, umido, una specie di pozzo, sul quale si aprono le porte delle camerate. Un sistema di logore scalette di legno, che dà all’ambiente l’aspetto d’un retroscena, permette l’accesso ai piani superiori. L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d’umanità accatastata, di miseria.
L’infinito armento umano ha lasciato sulle cose, nell’aria, per ogni dove le sue tracce. Le pietre delle soglie sono consunte; gli angoli sono smussati, scavati, allisciati e anneriti dalle centinaia di migliaia di mani che vi hanno strisciato su. Più in alto, all’altezza dei volti, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi d’amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero guarda indietro!
Il cortile, l’andito, gli spiazzi fra le baracche, le quali circondano l’edificio a gasometro, sono affollati d’emigranti. Vestono gli abiti migliori, messi il giorno dell’arrivo per un curioso sentimento di dignità. Alcuni, sdraiati rinfusamente sui sacchi dei loro cenci, sonnecchiano o pensano; altri passeggiano a gruppi discutendo, si affollano alla porta dell’« Oficina de Trabajo » col cappello in mano, rispettosamente: altri giuocano; delle ragazze si pettinano l’una con l’altra; dei bambini macilenti giuocano sul pavimento gridando; delle donne allattano. V’è il disordine triste d’un bivacco zingaresco: si grida, si ride, si canta e si piange. Ma i più restano immobili e silenziosi, stupiditi, indifferenti, stanchi, con gli occhi senza sguardo, aspettando.[27] La nostalgia li afferra, quella nostalgia istintiva della bestia catturata, un torpore doloroso. Sulle faccie sono i segni non dubbî d’un viaggio penoso, in alcuni occhi brilla la febbre.
Ma ecco che si sente il suono d’un organetto, di quella fisarmonica che è l’istrumento prediletto dei nostri contadini; molti fanno cerchio, qualcuno balla. Una donna singhiozza.
Le camerate sono silenziose. Lì cercano rifugio i solitarî: coloro che vogliono nascondere il dolore. Dalle fessure delle pareti sconnesse entra sibilando il vento, questo freddo e polveroso pampero, e l’edificio ne è scosso. Nella penombra s’intravvedono delle figure umane immobili, sedute o distese sugli immondi tavolacci. Nel vedere entrare un estraneo, gli uomini si levano lentamente in piedi con impacciato rispetto. Nella loro paziente aspettativa, l’arrivo d’un estraneo porta sempre un po’ di speranza. Un pover’uomo tiene in braccio un bambino evidentemente malato. Il piccino abbandona la testa sulla spalla del padre, respira affannosamente e chiede da bere con voce lamentosa. L’uomo è un meridionale muratore; interrogato sul suo piccino, risponde:
—La notte fa freddo qui, s’è perduto il nostro bagaglio e non abbiamo di che coprirci... Tanti bambini sono malati!
—Come s’è perduto il vostro bagaglio?
—Non lo so: veniamo da Salerno: all’imbarco un signore ha domandato a me e ad alcuni miei compagni le ricevute del bagaglio. Arrivati qua, non abbiamo trovato più niente.
—E non avete più le ricevute?
—No, niente!
Si tratta di uno dei soliti furti agli emigranti. Alcuni di questi poveretti sono stati derubati a bordo; per essi i compagni di viaggio hanno raccolto fra loro delle piccole somme, offrendo quel poco che potevano.[28] E questi poveri parlano della loro elemosina con una semplicità sublime.
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La sera scende triste su questo luogo di miserie. Essa, come una vecchiaja quotidiana, porta tutta la melanconia, la stanchezza, il disinganno della giornata trascorsa. Il magro pasto—un pezzetto di puchero galleggiante in acqua sporca che dovrebbe essere brodo, e un pezzo di pane—è divorato in silenzio. I quattro cinque impiegati dell’« Oficina de Trabajo » se ne vanno; un « vigilante » indiano, legittimo discendente degli antichi timbues, e ora rappresentante il potere esecutivo, gira i cortili ispezionando; il direttore del ricovero, cioè dell’Hôtel, un ometto calvo, barbuto e mellifluo, succhia il mate sulla porta del suo ufficio e sorveglia distrattamente lo sfilare degli emigranti che entrano nelle loro camerate. Si accendono qua e là delle lampade alla cui luce rossastra la scena prende un aspetto sinistro.
Nell’oscurità si è spenta ogni gaiezza. Nessuno più ride o canta, non si parla nemmeno: si bisbiglia. La notte è scesa anche negli animi. Pare che la speranza non sia visibile che alla luce del sole. Se un chiarore improvviso diradasse queste ombre non si scorgerebbero che volti mesti, pensosi, attoniti o piangenti. In un angolo lontano la fisarmonica riprende sottovoce, timidamente il suo suono asmatico e singhiozzante. Il legittimo discendente degli antichi timbues la fa tacere. Nelle camerate si dorme o si sospira.
Nel fetido cortile a pozzo, divenuto deserto, il pompiere di guardia si arrotola una sigaretta e se l’accende. La penombra lascia appena scorgere tutt’intorno dei cartelli con la scritta: Es prohibido fumar.
Dalla vicina stazione del Retiro arrivano gli urli laceranti delle sirene. Il rumore della città, come il muggito[29] d’un mare, viene ad infrangersi contro queste solitudini tetre. È l’ora in cui Buenos Aires comincia a divertirsi. L’orizzonte è tutto rischiarato dal crepuscolo livido della luce elettrica.
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Alcuni emigranti hanno qui dei parenti o degli amici: possono trovare consiglio e appoggio; il loro collocamento è meno difficile e meno cattivo. Altri—meridionali in gran parte—vengono in questa stagione per lavorare ai raccolti, e a febbraio tornano in Italia. Molti di essi hanno l’abitudine a tale emigrazione periodica, come le rondini; conoscono il paese, guidano gl’inesperti, si lasciano condurre a spese del Governo argentino senza spendere un centavo, e raggranellano qualche cosa. Gli altri, la grande massa, sono venuti qua alla cieca, con le loro famiglie, senza sapere nulla. Sono gli allucinati. La sorte che li aspetta in questo momento, in cui antichi emigranti lasciano certe regioni divenute ingrate al lavoro, può essere terribile. Un ministro argentino diceva giorni sono: « L’emigrazione è necessaria, ma, dato il momento, sono preferibili diecimila emigrati di meno che diecimila disoccupati di più! »
Dissipata un po’ la diffidenza, abituale nel contadino, ho domandato a molti emigranti:—Perchè siete venuti in America?
I più rispondono:—Per tentare la sorte!—oppure:—Tanti vi hanno fatto fortuna, proviamo anche noi! Per essi l’America è una lotteria; giuocano, e mettono la vita per posta. L’idea di venire qua li prende come un’ossessione, s’impadronisce di loro per contagio. Molti vengono perchè hanno conosciuto della gente venuta prima di loro, semplicemente. Un campagnuolo veneto che emigrava, faceva gli addii; un amico[30] gli disse:—To’, voglio partire anche io!—E tutti e due con le loro donne sono venuti in America, come si fosse trattato di far due passi. Un contadino piemontese mi ha detto:—Ho emigrato perchè v’è qui mio fratello.
—Meno male! E dov’è tuo fratello?
—Non lo so. Ci scrisse tanti anni fa dalla Terra del Fuoco dove era occupato a tagliar boschi, poi non ha scritto più.
E quest’uomo, che non sa nemmeno cosa sia la Terra del Fuoco, che non conosce la sorte di suo fratello, lascia tutto e viene qua con i suoi figli, attirato dall’ignoto. Nessuno si è informato delle condizioni dell’Argentina oggi—già per molti America, Buenos Aires e Argentina sono sinonimi!—nessuno ha pensato a chiedere dei consigli alle autorità. Hanno tutti una grande diffidenza dei consigli, li ascoltano con l’aria di crederci e non crederci. La paura d’essere ingannati è caratteristica in loro; ad essa sola del resto i contadini debbono l’immeritata fama di scaltri. In ogni cosa che si dice temono un tranello. I più franchi domandano:—Ma voi che interesse avete a dirci così e così?
—Per il vostro bene!
Essi scuotono la testa increduli—e disgraziatamente non a torto—che il loro bene stia a cuore a qualcuno. Sono imbevuti di false idee leggendarie sulle favolose ricchezze del paese, la incredibile fecondità del suolo, la cortesia e bontà degli abitanti, sempre le stesse, che basterebbero da sole a provare l’esistenza di agenti catechizzatori.
Bisognerebbe ricercarne alcuni dopo un anno di America e rimandarli al paese nativo a narrare sinceramente le loro avventure. Sarebbe il miglior rimedio contro questa emigrazione cieca e disordinata, senza organizzazione, senza guida, senza protezione, che è per la Madre Patria un grande dolore, e una ancora più grande umiliazione!
[Dal Corriere della Sera del 14 gennaio 1902.]
Buenos Aires, dicembre 1901.
L’Argentina è in preda ad una grave crisi; crisi di tale estensione che parlare di essa significa parlare di tutto. L’intera vita della Repubblica ne è affetta. Non è la malattia d’un organo; è la malattia dell’organismo. Ne soffrono tutti: è come se l’aria a poco a poco fosse divenuta meno respirabile; i ricchi come i poveri sentono l’affanno della soffocazione.
Il debito pubblico è difficile a precisarsi; si conta a miliardi, non a centinaia di milioni; cioè ammonta a una cifra spaventosa rispetto alla popolazione del paese. L’alto cambio sull’oro rende gravosissimo il pagamento degli interessi dei prestiti esteri, il quale pagamento, del resto, non è regolare che sui preventivi. Ordinariamente si pagano questi interessi con nuovi prestiti a breve scadenza. Si allarga il male. Il dissesto è generale. Agli impiegati ora si paga lo stipendio se si può. Vi sono degli impiegati che debbono avere fino a tre mesi di stipendio. Le somme dovute dallo Stato a privati—riconosciute con regolari mandati di pagamento—non vengono pagate.[32] Occorrono pressioni, inframmettenze extra-legali, pots de vin. Questa ritrosia del Governo al pagamento dei debiti ha persino fatto sorgere un nuovo mestiere: quello di tramitador. Il tramitador è una persona che vende la sua influenza; egli s’incarica di far pagare dalla tesoreria i mandati di pagamento dei clienti, e si prende perciò il venti o il trenta per cento sulle somme. L’immoralità diventa abituale. Non basterebbe un libro ad enumerare le mangerie, i furti, le irregolarità che si verificano abitualmente nelle amministrazioni del Governo argentino, ai quali si deve non poco l’aggravamento della situazione generale.
Passando dallo Stato alle altre amministrazioni pubbliche si trovano gli stessi mali nella stessa proporzione. La Municipalità di Buenos Aires naviga in pessime acque. Il Governo ha dovuto creare una specie di Comitato amministratore per evitarle il fallimento. Naturalmente anche qui gli impiegati non sono pagati. Non è molto che gli spazzini pubblici hanno fatto una dimostrazione ostile alla Intendenza municipale—brandendo le scope—per reclamare il pagamento degli stipendî arretrati. I maestri non sono meglio trattati degli spazzini. Immaginate da questi indici la miseria che si nasconde sotto la splendida vernice di questa grande Metropoli.
Vi sono migliaia e migliaia di persone in assoluta miseria. Al Consolato d’Italia è una processione continua di sventurati che vanno a domandare l’elemosina dei dieci e dei venti centavos per mangiare. Il minimo numero di disoccupati è calcolato a quarantamila; ma sono certamente di più.
L’industria langue, il commercio è arenato. La media totale degli affari commerciali è diminuita della metà. Avvengono dei fallimenti per milioni; cadono dei colossi. La somma dei fallimenti arriva a circa venti milioni di franchi al mese. A questa statistica fa riscontro quella dei suicidî. Uno dei più forti commercianti[33] stranieri, interrogato sulla gravità della crisi, mi ha detto:—La crisi è tale che non potrebbe essere di più!—Un altro commerciante, alla stessa domanda, mi ha risposto:—Immaginate che in seguito ad un male non curato sopravvenga la cancrena. Ebbene, la crisi del novantuno era il male; quella di oggi è la cancrena!
Questa è la situazione descritta in poche parole. Il male è tanto più grave in quanto che è profondo. Le cause sono molte; recenti e lontane, passeggiere e durevoli. Le lontane e le durevoli sono le principali, e perciò la guarigione è difficile.
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Una delle cause della crisi è l’accentramento a Buenos Aires di grande parte della vita argentina. Questa Repubblica dà l’idea d’un mostro che abbia un corpo piccolo e debole, ed una grande, smisurata testa. La popolazione della capitale è di più che 800,000 abitanti, e tutto il resto dello Stato non ha nemmeno quattro milioni. La sproporzione è enorme.
In un paese che, come l’Argentina, non ha altra vera ricchezza che la produzione agricola, che non possiede o quasi industrie, questa mostruosa capitale tanto popolata significa non solo che un’infinità di gente è completamente sottratta all’unico lavoro proficuo—quello dei campi—ma che tutta questa gente vive interamente alle spalle degli altri, e di una vita enormemente dispendiosa. Buenos Aires assorbe troppe risorse argentine. È un lusso, una « spesa di rappresentanza » che solo potrebbe permettersi un ricco popolo di cento milioni d’uomini.[34]
Buenos Aires occupa più di diciottomila ettari, ossia supera Parigi di settimila e Berlino di seimila e trecento ettari. Ha edifici grandiosi, grandi boulevards, parchi, ha centoquaranta chilometri di pavimentazione in legno, un porto che è unico nel suo genere, un impianto d’acqua potabile che è fra i primi del mondo, dei servizî pubblici straordinarî. L’esistenza di questa città è un fenomeno puramente americano, di quelli che sfuggono in parte alla nostra analisi.
La Buenos Aires d’oggi è sorta sull’antica città così, come un’impresa, come una speculazione ben lanciata, in forza di uno di quegli inesplicabili delirî collettivi che afferrano talvolta i popoli davanti alla prospettiva della rapida ricchezza. L’Argentina appariva il paese incantato che avrebbe pagato tutto e tutti, e la sua prosperità avvenire venne ipotecata in una febbre di affari, i quali non avevano altra base che delle speranze assurde. Le fonti della prosperità vennero trascurate per delle speculazioni fantastiche: l’Argentina vera fu perduta di vista.
Il credito illimitato apriva le Banche a tutti. Si creavano delle fortune in poche ore. Si costruiva, si costruiva come se l’Europa intera avesse dovuto rovesciarsi qua. I terreni aumentavano di valore fino all’incredibile. L’affarismo escogitava delle imprese favolose. Si arrivò a costruire qui vicino una città, La Plata, i cui terreni furono pagati fino a 150 volte il costo attuale. Ora La Plata è morta, e si visita come Pompei. I capitali e le braccia stranieri affluivano attratti da rimunerazioni enormi. L’oro correva a rivi. Il Rio della Plata meritava il suo nome. La disonestà trionfava. S’ipotecava per centomila lo stabile che valeva mille. Ogni sentimento d’onestà, di giustizia, di dignità, d’amor patrio erano travolti dalla febbre della ricchezza. I governanti arricchivano e lasciavano arricchire le loro clientele.[35]
La corrida, come fu chiamata, cioè la corsa di depositanti alle Banche, cominciò nel 1890 e finì nel 1891 col fallimento generale. Le Banche argentine fallirono. Il Banco della Provincia di Buenos Aires fallì per due miliardi. Era il terzo istituto di credito del mondo—prima di divenirne il primo istituto di.... discredito. Centinaia di milioni di sudati risparmî dei nostri emigranti furono perduti.
In quel violento, turbinoso accentramento d’affari e di lavoro si formò la Buenos Aires d’oggi, che così cara costa alla Repubblica. Alla sua vita manca la base.
Gl’interessi della capitale sono in contrapposizione a quelli delle provincie. Con ciò che è costato l’abbellimento, il lusso e la comodità di Buenos Aires, l’Argentina poteva mettersi comodamente in condizioni da vincere in tempo la concorrenza di quei paesi che hanno la stessa sua produzione: gli Stati Uniti, il Canadà, l’Australia, e fra poco si potrà aggiungere la Siberia.
Invece all’Argentina manca il primo elemento di successo, che sarebbe una viabilità a buon mercato e facile. La canalizzazione delle acque, la navigazione dei grandi fiumi che vengono tutti a riunirsi, come le stecche di un ventaglio, all’immenso Rio della Plata, hanno uno sviluppo insufficientissimo. Le ferrovie, tutte in mano di Compagnie inglesi, per il costo esagerato dei noli rappresentano uno sfruttamento rovinoso per il produttore. Le ferrovie hanno poi una sfera limitata d’azione lungo il loro percorso, tanto più ristretta quanto più elevato è il costo dei trasporti; e non esistono strade. Se si esce da Buenos Aires non si trovano comunicazioni. Tempo fa i soldati della guarnigione per recarsi ad un nuovo campo di manovre, qui vicino, smarrirono la strada. Dai grandi boulevards in asfalto illuminati a luce elettrica si passa al niente.[36]
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La conseguenza è che certi prodotti argentini portati qui vengono a costare come i prodotti analoghi europei sbarcati e sdaziati (e i dazî sono molto forti). Il vino di Mendoza, per esempio, costa quasi come il vino italiano.
In alcuni luoghi si lasciano i raccolti sulla pianta per l’impossibilità del trasporto. Si prende ciò che necessita per l’uso locale. Un diplomatico che ha visitato l’interno recentemente, mi raccontava delle enormi quantità di grano abbandonato che marcisce nei pressi delle stazioni ferroviarie per mancanza delle grandi somme necessarie al pagamento del trasporto.
La difficoltà delle comunicazioni rende lento e poco proficuo il lavoro di colonizzazione in tanti territorî, che per la loro fertilità si presterebbero a culture fortunate, ma che si trovano situati lontani dalle linee ferroviarie. La zona sfruttata deve essere forzatamente limitata. L’Argentina non può estrinsecare tutte le sue energie. È come un albero, ricco di frutti splendidi ma posti troppo in alto per arrivarvi con le mani. E mancano le scale.
Vi sono dei prodotti necessarî, per esempio il legname da costruzione, i quali vengono importati dal Canadà, dagli Stati Uniti, e persino dalla Norvegia, e che si trovano in enorme abbondanza nel paese. Il trasporto ne è impossibile. Si è costretti a comperare ciò che si ha in casa, e che si potrebbe anche vendere.
La produzione argentina si trova perciò in condizioni d’inferiorità sui mercati; il margine di guadagno è minimo. Basta che sopravvenga un ribasso nei prezzi perchè si verifichi un ristagno disastroso, come[37] avviene ora nel commercio della lana, la quale forma una delle più grandi produzioni del paese. Vi sono sul solo mercato di Buenos Aires dodici milioni di chili di lane giacenti.
L’Argentina, immensa e varia, avrebbe delle risorse inesauribili. Con tutte le condizioni difficili create al suo commercio, la sua esportazione ha superato, nel solo corso di quest’anno, l’importazione di circa cinquanta milioni di pesos oro, ossia duecento cinquanta milioni di lire. Ma la situazione creata a questo paese è tale che tutti questi milioni di superavit attivo bastano appena ad impedire un peggioramento economico. Essi tornano all’estero sotto forma di dividendi e di interessi.
***
È Buenos Aires il centro della rovina argentina. Essa ha stornato dai campi la ricchezza. Per un lungo e recente periodo l’affarismo ha fatto di questa città come un’immensa bisca: da ogni parte si accorreva a giuocare. Si giuocava sul valore dei terreni, degli edifici, sui prestiti, sulle azioni dei Banchi, sulle azioni delle imprese più varie e più assurde. L’enorme movimento del denaro aveva creato una prosperità favolosa, ma fittizia. Lo sperpero era enorme. Lo standard di vita generale giunse ad un lusso senza riscontri. Il bisogno del lusso portò alla disonestà sistematica. Una disonestà inaudita.
Le opere pubbliche di Buenos Aires sono state pagate molto ma molto al disopra del loro valore. Centinaia d’intermediarî vi si sono arricchiti. I ministri divenivano arcimilionarî. Si davano concessioni di favore[38] ad imprese d’ogni genere—le ferrovie, per esempio, e i lavori delle « Acque correnti »—pur di guadagnarci sopra, abbandonando così il paese, mani e piedi legati, allo sfruttamento straniero, senza speranza di redenzione. « Après nous le déluge »—pareva che dicessero, come altrettanti Re Soli, i governanti argentini!
E il « déluge » non s’è fatto aspettare. È caduto sotto forma di crisi universale. Lo stato dell’Argentina è grave, ma non disperato. Solo spaventa questo: che se la prosperità effimera creata dalla speculazione epilettica, è scomparsa, non sono però scomparsi il lusso e altri malanni che ne furono la conseguenza. I quali quando si attaccano ad un uomo come ad un popolo mettono troppe radici per guarire presto. Specialmente se non sono curati. E qui non lo sono, almeno quanto occorrerebbe.
[Dal Corriere della Sera del 16 gennaio 1902.]
Buenos Aires, dicembre 1901.
L’Argentina è finanziariamente nelle mani dell’Inghilterra. Tutte le imprese più remunerative sono inglesi. Due di esse, la ferroviaria e la bancaria, rappresentano da sole i coefficienti principali dell’attivo nazionale: l’una comanda alla produzione, l’altra ai trasporti, ossia alla commerciabilità della produzione. Esserne padroni significa avere nelle mani la vita della nazione.
L’Argentina lavora per l’Inghilterra: tutta la differenza attiva fra l’esportazione e l’importazione, ossia il guadagno, va a Londra sotto varie forme. Il problema è troppo interessante per noi, che qui rappresentiamo il lavoro, per non esaminarlo con attenzione.
***
È nel periodo più nefasto della speculazione—giunta al parossismo sotto la presidenza di Juarez Celman—che la egemonia inglese sugli affari si affermò. Gl’inglesi hanno dimostrato una volta di più di essere degli[40] uomini pratici. Essi hanno saputo mantenersi estranei al delirio che aveva afferrato tutti i latini arrivati qui, e profittare delle circostanze con una antiveggenza sorprendente. E prima di tutto seppero profittare ammirabilmente della corruzione governativa per ottenere concessioni di favore, le cui condizioni stupiscono profondamente chi non sa a quale punto di cecità e di, diciamo, mancanza di scrupolo erano arrivati quei governanti.
Così si formano le Compagnie ferroviarie inglesi, le quali sono oggi padrone di 12,684 chilometri di ferrovie, ossia di tutto il transito della Nazione. A queste Compagnie il Governo garantisce un minimo di utili sopra un capitale fissato, e non ha nessun diritto d’intervento se non quando l’utile risultasse superiore a un elevato per cento. La Compagnia ha mano libera su tutto, sui noli, sulle velocità, sugli orarî, sugli stipendî agli impiegati, sui movimenti del personale. Gli affari vanno benone. Vi sono delle linee che fruttano il dodici, altre il quindici, altre anche di più: i noli si mantengono fortissimi, e tuttavia il Governo non può intervenire: deve assistere indifferente a questo sfruttamento enorme della produzione. Ed ecco perchè:
Le Compagnie, oltre al capitale fissato come base per i rapporti col Governo, si sono riservate l’emissione di « titoli non commerciabili » al 4 e al 5 per cento, emissione che per una sapiente scappatoia può essere illimitata. Gl’interessi su questi titoli gravano al passivo della Compagnia e servono a ridurre gli utili alle proporzioni necessarie per togliere al Governo ogni diritto d’intervento. Così in apparenza l’utile è sempre inferiore alla percentuale sopra cui comincia la partecipazione dello Stato, ma in realtà è maggiore, perchè i possessori di questi titoli non sono che gli stessi azionisti della Compagnia.
Al Governo argentino è dunque tolto ogni e qualsiasi controllo sulle proprie ferrovie. In forza di questo[41] stato di cose, si è potuto vedere in certe linee i noli aumentare nella proporzione da 45 a 92, e tuttavia scemare gli utili. In forza di questo stato di cose, gli stipendî agli impiegati inglesi possono arrivare a delle cifre principesche.
La produzione argentina intanto trova nei trasporti il più grave ostacolo ad uno sviluppo rapido. Le Compagnie ferroviarie se ne curano poco: esse sono in una botte di ferro.
***
Ma se si esamina il funzionamento delle Banche nell’Argentina, si rimane ancora più meravigliati. Leggere di cose bancarie argentine è divertente quanto il leggere dei romanzi inverosimili. C’è del fantastico.
Osserviamo un Banco inglese—osservarne uno è come osservarli tutti—; il « River Plate Bank ltd ». Nell’89 aveva sessantamila azioni con un capitale versato di seicentomila sterline, ossia di dieci sterline per azione. Alla fine di quell’anno gli utili furono del 40 per cento, di cui il 15 venne dato come dividendo e il 25 per cento fu capitalizzato, di modo che l’azione da dieci sterline passò a rappresentare un capitale di dodici sterline e mezza. Nell’anno appresso si ebbe un dividendo del 15 per cento sul nuovo capitale, ossia del 18.75 per cento sul capitale versato, più un altro 25 per cento capitalizzato, e l’azione rappresentò un capitale di quindici sterline. Nel 91 arrivò la catastrofe generale, il fallimento delle Banche argentine, la moratoria concessa a tutti con legge del Parlamento: fu un anno disastroso. E tuttavia il nostro « River Plate Bank » ebbe un dividendo del 9.16 per cento sul capitale totale, ossia del 13.75 per cento sul capitale versato. I dividendi hanno continuato ad aumentare con un[42] crescendo che non ha certo un riscontro con l’aumento degli affari, che invece sono in pieno ristagno. Nel 92 si ebbe il 18.75 per cento, nel 93 il 18.75 per cento, nel 94 il 22.50 per cento, nel 95 il 24 per cento, nel 96 il 27 per cento, nel 97 il 30 per cento, nel 98 il 30 per cento, nel 99 il 30 per cento, nel 1900 il 50 per cento. In dodici anni si ebbe dunque il 298.50 per cento di dividendi, più il 116 per cento del fondo di riserva—che oggi arriva al milione di sterline—ossia un 514.50 per cento di utili netti. Il 42.87 per cento all’anno!
Questi utili in affari di denaro qui non sono straordinarî, perchè qui, come ho accennato, gli alti interessi, diciamo così, dominano. Ma bisogna por mente che le Banche inglesi sono le più numerose, e soprattutto le più forti. Le altre Banche non sono che dei satelliti nel sistema planetario della finanza argentina, nel quale il capitale inglese rappresenta il sole. Quale enorme assorbimento d’energia non rappresentano da soli i dividendi che prendono la via di Londra? Il « London e Brazilian Bank » ha dato quest’anno il 46 per cento di dividendo, con tutto che nei cambî col Brasile questa Banca ha perduto la bellezza di 84 mila sterline! Il totale dei dividendi delle Banche inglesi si può certamente ritenere superiore ai tre milioni di pesos oro, ossia ai quindici milioni di franchi, calcolando modestamente!
La supremazia delle Banche inglesi sul mercato argentino è una conseguenza logica degli errori e delle colpe commesse nel periodo dell’affarismo di recente memoria. Al sopraggiungere della crisi del 1891, caddero il « Banco Nacional » e il « Banco della Provincia de Buenos Aires » e con essi l’Argentina perdette i due unici sostegni della sua indipendenza economica. È vero che i sostegni funzionavano male! Le Banche inglesi furono quasi le sole a resistere. Continuarono con calma le loro operazioni riuscendo a vincere il[43] panico dei depositarî. Le Compagnie ferroviarie versarono nelle Banche inglesi i loro introiti—gl’inglesi, beati loro, sono sempre uniti e d’accordo—e quei milioni non arrivarono inopportuni per fronteggiare la crisi. Il cambio giunse al 480%, e le Banche inglesi cambiarono il loro oro; quando il cambio è sceso, dopo sette anni, al 206%, le Banche inglesi hanno reintegrato, guadagnando così il 234 per cento. La loro posizione è formidabile. Le ferrovie della provincia di Buenos Aires versano settimanalmente 600,000 pesos oro, e il solo movimento di denaro delle Compagnie ferroviarie basterebbe alla vita delle Banche, senz’altro.
Ma il credito incrollabile che le Banche inglesi godono attira a centinaia di milioni di pesos i depositi privati: esse sono diventate il tramite principale dei movimenti di denaro, sono divenute il centro d’un enorme cumulo di affari bancarî.
***
Tutto questo non basta. Gl’inglesi sono anche i detentori della maggior parte del debito pubblico argentino, che è di trecentottanta milioni di pesos oro, vale a dire di un miliardo e novecento milioni di franchi.
Di modo che l’Inghilterra in interessi e dividendi assorbe alle finanze argentine circa quarantasei o quarantasette milioni di pesos oro all’anno—cioè duecentotrenta o duecentotrentacinque milioni di franchi—così ripartiti:
Dalle imprese ferroviarie 17 milioni e mezzo, dalle Banche 3 milioni, da varie imprese 2 milioni, dalle finanze governative per interessi del debito pubblico 24 milioni.
L’esportazione supererà quest’anno l’importazione, si calcola, di circa cinquanta milioni di pesos. È chiaro[44] che questo superavit attivo è insufficiente alla benchè minima capitalizzazione; gli sforzi della produzione sono fiaccati.
Ma noi non abbiamo veduto che la supremazia finanziaria inglese; vi è anche la supremazia commerciale. Le ferrovie hanno concessioni di leghe di territorî lungo il loro svolgimento. Nelle regioni più fertili abbondano le estancias inglesi. I prodotti di queste estancias, per la facilità dei trasporti e per i favori di cui godono, vengono ad avere una posizione privilegiata sui mercati.
Oltre agli estancieros vi sono i commercianti inglesi, importatori ed esportatori. Per quel sentimento di unione e solidarietà che è una delle più invidiabili caratteristiche inglesi, ed anche in forza di quella massima inglese che the onesty is the best policy—l’onestà è la miglior politica—questi commercianti godono presso gl’istituti bancarî inglesi di un credito illimitato. E, data la forza delle Banche inglesi, questi commercianti sono d’una potenza enorme. La concorrenza con loro è impossibile. Il commercio va scivolando nelle loro mani. I soli scambi con l’Inghilterra si aggirano sui sessanta milioni annui di pesos oro, cioè sui trecento milioni di franchi all’anno!
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Concludendo: guadagna davvero chi ha saputo ed ha avuto i mezzi di fare.
[Dal Corriere della Sera del 23 maggio 1902.]
CONTINUANDO....
Le prime lettere dall’Argentina, pubblicate nel Corriere, hanno suscitato polemiche che l’amico lettore non ha forse dimenticato. Sono stato accusato di malignità, di menzogna e di peggio.
Al momento di continuare la pubblicazione delle « lettere argentine », nelle quali riassumo la imparziale osservazione dei fatti, permettetemi di parlarvi un poco delle pubblicazioni passate, per le quali tanti attacchi feroci e ingiusti mi sono stati mossi.
Non è per difendere me; no, è per difendere la verità.
Qualunque sdegno di uomo offeso, qualsiasi legittima indignazione di onest’uomo attaccato ingiustamente, qualsiasi scatto d’amor proprio dolorosamente ferito sono ben poca cosa di fronte alla rivolta impetuosa che divampa nell’animo di chi, conoscendo il vero, lo vede calpestato, nascosto, lo sente negare senza pudore e senza vergogna. E specialmente quando questa verità si riferisce a sofferenze, lotte, dolori, miserie e lacrime di tanti e tanti nostri fratelli![46]
Qui la questione personale passa in seconda linea. Non vengo a parlarvi della guerra sleale che mi è stata mossa, degli ostacoli frapposti alla mia strada, delle ire e degli odî suscitati contro di me, come delle minaccie e degli insulti che ne sono stati le conseguenze, delle calunnie basse e ridicole con le quali si è aizzato contro di me il furore della folla argentina, come per porre un supremo ostacolo al compimento del mio dovere. Tutto ciò non interessa che me, al più. Voglio invece parlarvi di quanto ho scritto, che è la verità; e la verità interessa tutti.
È necessario che non solo sia conosciuta, ma creduta. Pensate che ora, mentre ben trentatre Società operaie dell’Argentina lanciano agli operai italiani un manifesto esponendo la loro miseria coi dati ufficialmente riconosciuti esatti, continuano a salpare per quella Repubblica nostre navi cariche d’emigranti, i quali vanno con la credula mente piena di errori e l’anima piena di sogni; e proprio in questo momento un maggior numero di disgraziati lascia l’Argentina in cerca di pane; pensate a questa enormità, che mentre migliaia di persone, le quali hanno vissuto laggiù, che parlano la lingua del paese, che conoscono l’ambiente, si riducono ad abbracciare la più disperata delle risoluzioni: la fuga, altre migliaia di persone ignoranti di tutto, ossia in condizione di enorme inferiorità, si dirigono ciecamente verso quella terra che li affascina. L’umile posizione che questi allucinati abbandonano in Patria e che ad essi sembra misera di fronte alla fortuna che sognano, diviene precisamente la mèta agognata dalla triste e disfatta folla dei disillusi fuggitivi. E chi può fuggire è pur sempre fortunato! Quanti non ne hanno più la forza; oh! quando la miseria pone il piede sul vinto non se lo lascia facilmente sfuggire! Dodicimila e quattrocentosessantotto emigranti hanno lasciato l’Argentina nel solo mese di marzo, e dodicimiladuecento ottantatre vi[47] hanno approdato! Pensate a queste cifre, e ditemi se non è necessario e urgente che la verità sia nota. Tutti questi nostri emigranti partirebbero forse se conoscessero niente altro che le cifre dei rimpatri? Non cadrebbe la benda dai loro occhi? Il tacere è un delitto.
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Le prime « lettere argentine » sono state conosciute nella Repubblica per mezzo dei telegrammi dall’Italia diretti al giornale La Prensa. Quando vi avrò detto che questi telegrammi, che poi altri giornali hanno riportato, avevano dei titoli di questo genere: Insultos à los Argentinos. Nuevas apreciaciones injuriosas. Un enemigo de l’Argentina. Opiniones falseadas, ecc., vi avrò dato un’idea del modo antipatico col quale le mie lettere sono state portate a conoscenza del pubblico.
L’opera mia dunque è stata giudicata laggiù sulla base di questi documenti: ebbene, con tutto ciò la stampa indipendente si è schierata tutta dalla mia parte. E fra la stampa indipendente debbo notare prima di tutto la stampa estera.
La Patria degli Italiani ha dichiarato che quanto avevo detto era una verità nota e ripetuta, e quando il testo delle lettere è giunto, lo ha integralmente riportato. The Standard, organo della Colonia inglese, ha detto fra l’altro:
« Queste corrispondenze potranno fare più bene della malsana massa di altre pubblicazioni la cui schifosa adulazione eccita sospetti. Siccome il paese è commercialmente, politicamente e socialmente malato, il Barzini fa bene a dirlo, dissipando così malintesi e disperdendo illusioni. Noi non crediamo che abbia calcato le ombre, poichè queste crescono invece di diminuire; l’incauto emigrante che crede[48] di trovare integrità di governo e di giustizia è messo in guardia. Togliendo di mezzo le false idee, egli ci rende un buon servizio. I nostri migliori amici non sono quelli che ci adulano, e la stampa indigena dovrebbe porsi bene in mente ciò nel pesare il valore delle opinioni del Barzini. »
Le Courrier de la Plata, giornale della collettività francese, conclude così un articolo sulla questione, dopo avere accennato agli errori dei Governi, ai furti ufficiali, ai deficit dei bilanci, e agli altri mali che rendono la situazione sempre peggiore e che compromettono gravemente tutte le speranze fondate sull’avvenire argentino:
« Le ragioni che il Barzini invoca non sono che troppo fondate, e i giornali del paese che le discutono l’accusano solo di esagerazione.
« Non si gridi al partito preso di malevolenza! Gli articoli del Corriere della Sera segnalando il male, rendono un vero servizio alla Repubblica. Il giorno in cui si terrà conto di questi consigli e in cui si cambierà strada, le profezie favorevoli espresse dal signor Martinez nelle sue conferenze, si convertiranno in una realtà. »
Il Correo Español, organo della importante Colonia spagnuola, dopo aver riportato i telegrammi della Prensa, accompagnandoli con apprezzamenti lusinghieri per il Corriere, aggiunge, rivolgendosi alla stampa argentina:
« Potrebbero i giornali indignati, con la mano sul cuore, affermare che sono falsi questi giudizî?
« L’affermazione li lascerebbe a molto mal partito, poichè essi ci presentano con tinte molto più oscure la situazione del paese, e ci presentano quadri terrorizzanti sulla situazione dei lavoratori nella Repubblica, come pure ci descrivono lo stato economico della Nazione, che attribuiscono al Governo, alla sua mancanza di tatto, ai suoi abusi e alla totale corruzione dei poteri pubblici. »
Tralascio tutti gli altri giornali stranieri, che ripetono le stesse cose. Gli apprezzamenti concordi di tanti giornali che rappresentano collettività diverse,[49] cioè interessi diversi e diverse tendenze, spesso in opposizione fra di loro, sono una prova luminosa che le verità da me affermate sono proprio di quelle inconfutabili. E ciò prova inoltre che la necessità di propalare il vero è egualmente, imperiosamente sentita da tutti gli stranieri che vivono nell’Argentina, i quali sono precisamente le prime vittime dei malanni del paese.
Ma anche fra gli argentini stessi abbondano uomini imparziali che l’amore per la verità e per il bene spinge valorosamente contro la turbolenta corrente del malinteso orgoglio di razza ed il cieco chauvinisme della massa criolla. Non tutta la stampa indigena si è unita al coro d’insulti contro il Corriere e contro di me.
Un importante giornale argentino, El Municipio, con un articolo intitolato: Un corrispondente italiano che ardisce di dire la verità, ha per il primo levato la sua voce serena sul tumulto degli improperî. Esso ha scritto:
« Nelle sue corrispondenze il Barzini si occupa della crisi argentina, e per studiarla ed esporre le sue cause ed i suoi effetti, ha il coraggio di dire la verità intiera, portando alla superficie il fango sociale e amministrativo.
« Non vediamo ragioni per censurare il Barzini per aver detto la verità, questa verità nuda che la stampa argentina dovrebbe proclamare ad alta voce.
« Malgrado gli attacchi anche grossolani, dei quali è oggetto il menzionato corrispondente, dichiariamo che il Barzini merita il nostro più alto concetto di considerazione e stima, per la sua autorità, perla sua franchezza, per la sua indipendenza.
« Molto vale chi, come lui, ha saputo sottrarsi all’atmosfera di corruzione che asfissia la maggior parte dei rappresentanti dell’opinione pubblica, e trasmette alla penna le sue osservazioni ed i suoi studî con l’impulso della sua coscienza e di profondi sentimenti d’imparzialità e di giustizia.
« Si protesta contro lo specchio che denuncia le nostre deformità, ma non si protesta contro la nostra bruttura.[50] Che colpa ha la macchina fotografica di prendere un brutto ritratto se non è migliore l’originale? Dicendo ciò che ha detto, il Barzini non ha fatto che trasmettere alla carta delle verità.
« Non c’è nè cortesia, nè coltura in un popolo che s’infuria contro un uomo solo, un ospite che dovrebbe venir circondato di rispetto perchè ha coscienza del suo dovere, e lo compie. »
Mi dispiace d’intrattenere il lettore sopra cose che sembrano personali; ma di fronte alle accuse di malevolenza, di esagerazione e di falsità, con le quali si è tentato di togliere ogni valore a ciò che ho scritto, io ho più che il diritto, il dovere di difendere con me il lavoro mio.
***
In riassunto, che ho detto nelle prime « lettere argentine? » Che vi è una crisi spaventosa. Ebbene, oggi il Commissariato generale per l’emigrazione comunica ufficialmente le stesse notizie sulla crisi, sconsigliando l’emigrazione perchè vi sono ora centoventimila disoccupati nell’Argentina. Ho detto che Buenos Aires ha una vita artificiosa che assorbe le ricchezze del paese e che inutilizza quasi un quarto della popolazione. Ed ecco che cosa dice nel numero del 2 marzo un giornale argentino su questo argomento:
« Si sta facendo una vera mistificazione della prosperità del paese, prendendo come base dello stato economico e sociale della Repubblica la metropoli argentina.
« Tutto è una mistificazione.
« La grandiosità della capitale contrasta con l’esistenza miserabile che trascinano le provincie, e poi la sua vita di lavoro e di attività non è propria, perchè capitali, braccia, intelligenze e sforzi sono genuinamente stranieri, si debbono al capitale inglese, al braccio italiano, alla iniziativa degli uomini di tutte le nazioni che sono venuti a popolare questa terra, a convertire in fertili pianure le deserte pampas, ad ammassare col sudore della loro fronte le basi del presente e a marcarci la via dell’avvenire.[51]
« Gli ospiti illustri che arrivano a Buenos Aires dovrebbero essere strappati dall’aspetto seducente della metropoli, e condotti nelle provincie, perchè possano formarsi un concetto esatto di ciò che è la Repubblica Argentina, politicamente, socialmente, economicamente; si dovrebbe far loro percorrere la campagna e mostrar loro la miseria che vi domina, la fame che fa bagnare di lacrime le misere abitazioni, l’abbandono che regna nelle amministrazioni.
« Bisognerebbe indicar loro la verità, e la verità non si rivela nelle immense avenues, nei superbi palazzi, nei comodi alberghi, nell’ambiente aristocratico dei clubs, fra lo sciampagna e i doppieri.
« Passino i limiti della capitale federale gli stranieri che ci visitano, se vogliono studiare il vero aspetto nazionale, se vogliono convincersi che questo è un paese senza libertà, senza morale, senza amministrazione e senza giustizia. »
Ho scritto che il così detto Hôtel de inmigrantes, dove albergano i nostri poveri connazionali che sbarcano laggiù in cerca di lavoro, è un immondo lazzaretto della miseria, lurido come un canile. Il giornale La Nacion un mese dopo scriveva:
« Non si può negare che a bella prima l’Hôtel de inmigrantes col suo corteggio di casettaccie e di capannette deve dare ai nuovi arrivati un’idea abbastanza sfavorevole dell’ospitalità argentina. Le deficienze dell’immondo padiglione possono essere praticamente comprovate anno per anno da migliaia di ospiti. Sarebbe da desiderarsi che il Governo d’un paese come il nostro, dove noi ci stanchiamo a furia di predicare la necessità di fomentare l’immigrazione, cominciasse ad albergarla meglio. »
Non basta. La Prensa, il 27 dello scorso marzo, scrive:
« Dice un rapporto tecnico che l’Hôtel si trova in uno stato di distruzione tale che riesce impossibile mantenerlo in piedi senza far tali spese da essere equivalenti al costo d’un altro edificio nuovo. Le conclusioni del rapporto non lasciano luogo al dubbio: l’edificio sta nel suo ultimo periodo e minaccia di cadere. »
Infine ho parlato di volo della sistematica irregolarità amministrativa e della profonda immoralità politica.[52] Si è gridato al calunniatore! Ma ecco qua che cosa scrive recentemente un giornale argentino, intorno a questo doloroso argomento:
« Lo spettacolo che offre in questi momenti la politica militante è tale da irritare le anime più placide e far vergognare le persone meno suscettibili ai vituperî della morale. Mai questo paese ha conosciuto una decadenza simile alla presente. I governanti non si occupano che di ripartire le rendite pubbliche, gran parte delle quali sono aggiudicate al proselite e al favorito. Domina in assoluto la preoccupazione assorbente del traffico dei posti pubblici. »
E ancora:
« Nulla è al suo posto. Nell’ordine politico, economico, finanziario tutto è fuori della sua orbita. La nazione precipita nel sentiero che conduce al disastro. La corruzione domina con impudenza e con ostentazione: la inettitudine si fa infermità cronica nelle alte sfere governative, e la decomposizione avanza senza incontrare ostacoli.
« La frode elettorale eretta a sistema è fonte e germe di tutti i mali. Il personale delle amministrazioni, composto dei premiati nello sport politico, inocula nell’ingranaggio amministrativo il virus della decomposizione. La somma dei mali costumi forma una quantità voluminosa di elementi funesti... ecc. »
Il giornale che parla così è la Prensa, il più diffuso giornale dell’Argentina. Precisamente quella Prensa, amico lettore, che ha dato il la dell’indignazione per le mie povere lettere, le quali, con molta meno crudezza, accennavano genericamente alle stesse cose che tanto giustamente la preoccupano.
Ma c’è di più. La Prensa ha inventato la Campagna anti-argentina! « Possiamo dire—ha scritto—che quasi tutta la stampa europea comprese le riviste illustrate, è compromessa in questa campagna. » Si tratta di « giudizî interessati pubblicati nei giornali più serî d’Europa, fra i quali menzioneremo il Times di Londra e il Temps di Parigi. » E non si salva nemmeno l’Agenzia Havas! Si capisce[53] che è tutta propaganda cilena in questa « campagna che aprirono contro la Repubblica quasi tutti i giornali europei. »
In queste ridicole accuse che insultano in blocco la migliore parte del giornalismo europeo, colpevole solo di aver raccolto un po’ di verità—la quale ha pur sempre le gambe più lunghe della bugia—di quella verità che la Prensa non nasconde, vi è uno strano e mostruoso miscuglio di orgoglio cieco e di palese malafede.
All’estero non si deve parlare dell’Argentina se non per lodarla ed adularla ad ogni costo. È un vecchio costume, al quale il paese ha l’abitudine.
Soltanto i giornalisti argentini hanno il diritto di « osservare tutti i dettagli in relazione con la vita nazionale »—ha proclamato la Prensa in un articolo insolente che era indirettamente dedicato a me. E un altro giorno, lavando la testa al Temps, ha ripetuto: « Noi abbiamo il diritto di tollerare i nostri errori e di accogliere gli apprezzamenti della stampa nazionale, perchè sono i nostri proprî interessi che discutiamo con l’ampio diritto di cittadinanza, e con il merito di provati servizî ad una nobile causa; però, quando si tratta di giornali stranieri che debbono mantenersi estranei ai dettagli delle passioni delle altre nazioni, la missione del giornalismo argentino è altra... »
Ah! no!
Quando anche non fosse un diritto innegabile del giornalismo la serena critica di tutto quanto interessa l’umanità, se anche non fosse un suo sacrosanto dovere il desiderio del bene in qualsiasi luogo dove vivono uomini, e la persecuzione del male sotto tutte le latitudini e in ogni suo rifugio, anche se occorresse questo diritto di cittadinanza per interessarsi a ciò che voi chiamate i dettagli delle vostre passioni, ebbene noi potremmo parlare, perchè noi questo diritto di cittadinanza lo abbiamo![54]
Pensate che vi è più d’un milione d’italiani nell’Argentina, e che più della metà degli abitanti è di sangue italiano. Le nostre braccia sono invitate anche ora che, a centinaia di migliaia, altre braccia laggiù penzolano inerti lungo i fianchi con l’abbandono della disperazione. Abbiamo il dovere di vedere che cosa avviene di questo esercito di nostri lavoratori che abbandona la Patria per dare l’immensa sua forza ad un altro paese.
Noi abbiamo come voi, giornalisti argentini, il diritto di additare e studiare nelle loro origini e nel loro sviluppo le gravi malattie del vostro paese, perchè quanto voi, se non di più, noi ne desideriamo la guarigione.
Nessuno più sinceramente degli italiani può augurare al paese, che alcuni chiamano la Giovane Italia, quel completo risanamento morale, politico ed economico, che solo potrà sollevarlo dalle sue sciagure, e che gli darà finalmente la forza di occupare il posto che per le sue latenti energie si merita.
Purtroppo non ho ancora esposto che una parte dei mali, e prima di occuparmi diffusamente delle condizioni e dell’opera degli italiani, dovrò consacrare parecchie lettere alla descrizione talvolta dolorosa, ma sempre necessaria dell’ambiente nel quale i nostri connazionali esplicano la loro attività.
Non è col tacere o col mentire, perpetuando equivoci, errori e disinganni, che si può giungere al bene! È per questo che io continuo la mia via con la serena coscienza di compire un dovere.
[Dal Corriere della Sera del 25 maggio 1902.]
Sotto grandi titoli, una mattina, non è molto, i giornali argentini avevano delle notizie di questo genere:
« San Martin, ore nove.—Un gruppo di Casaristas ha aperto il fuoco sugli avversarî. La polizia, agli ordini di un commissario, rispose al fuoco. Gli assalitori si ritirarono lasciando dei feriti. A Lamadrid v’è stato un vivo scambio di fucilate. »
« Chivilcoy.—I membri dei seggi hanno dato di piglio alle armi, vi è stato un nutrito scambio di fucilate, aumentato con l’intervento della polizia. I feriti sono molti. Il fuoco durò per ben dieci minuti. »
« Pila.—Un gruppo d’Ugartisti ha attaccato il Municipio e la Commisseria. La polizia respinse l’attacco. Vi sono feriti gravi. Si spararono moltissimi colpi di remington. »
« San Fernando.—Un forte gruppo d’individui fece fuoco lungo il canale in direzione della piazza. La polizia rispose al fuoco respingendo l’attacco. »
Se si parlasse di Boeri, invece che di Casaristas e di « Polizia del Capo », invece che di semplice polizia, tutti, leggendo tali notizie, penserebbero che la guerra nell’Africa Australe non è mai stata più attiva di così.[56] Ma siccome non si trattava che di elezioni (parziali, per fortuna) nella provincia di Buenos Aires, nessuno si è commosso, ed una parte della stampa ha persino colto l’occasione per gridare, con legittima soddisfazione, che: « ... in queste elezioni si è provato il progresso morale del popolo, il quale pacificamente è accorso alle urne a compire il più sacro dei suoi doveri, senza che si verificassero i deplorevoli fatti dei passati Comizî... »
Ringraziamo il buon Dio di averci tenuti lontani dai passati Comizî, e di averci così permesso di vedere tanto progresso morale. Il quale appare però seriamente pregiudicato dai risultati che delle suddette elezioni (parziali, per fortuna) dà il più autorevole giornale, la Nacion.
In un paese, San Nicolas, votano centoventi persone e si trovano mille e duecento voti. A Barracas al Sur compaiono mille voti prima della formazione del seggio. A Lomas de Zamora quattrocento elettori producono mille e duecento voti. In tre seggi non c’è stato concorso, ma hanno tuttavia figurato tremila e duecento voti. In altri quattro seggi è avvenuto lo stesso miracolo. A Patagones una persona ha contato ventidue elettori concorrenti alle urne: voti mille e centocinquantatre. Infine si calcola a trentamila la somma dei voti fraudolenti in queste elezioni (parziali, per fortuna). Il Pais—giornale pellegrinista—rimprovera alla Nacion—che è mitrista—queste oziose inchieste, rammentandole che i mitristi, in certe altre elezioni, crearono a Buenos Aires un vero atelier con sedici scritturali per la fabbricazione di registri elettorali falsi, in base ai quali stabilirono il loro trionfo. Queste sono cose, del resto, consuetudinarie. Una Commissione, che per incarico d’un Comité Demòcrata, ha voluto rivedere alcune liste elettorali a Buenos Aires, ha trovato che in un seggio il falso ammontava al 47%, in un altro al 58%, in uno al 79% e nel resto del distretto[57] al 45%. I giornali El Tiempo e la Prensa, che pubblicano l’inchiesta, ne offrono tutte le prove. Ma chi bada a queste piccolezze?
Questa profonda e radicata immoralità rivela molto più di una semplice stranezza di costumi politici: le sue cause sono gravissime, e le sue conseguenze hanno un’influenza disastrosa sull’intera vita della nazione argentina.
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Spieghiamoci. Laggiù la politica è una professione. È la professione naturale del « figlio del paese », la quale gli offre il modo di vivere—con uno splendore relativo ai di lui mezzi intellettuali e alla sua viveza—fornendogli una rendita sotto forma di stipendio per un impiego qualsiasi, oppure facilitandogli guadagni d’ogni genere per via d’influenze. Così si vedono degli impiegati che non hanno la necessità d’andare all’ufficio, ed altri che non sanno precisamente in che cosa il loro impiego consista.
Perciò la lotta politica non è altro che la lotta di gente che vuole degli impieghi per diritto di nascita contro gente che non se li vuol lasciar sfuggire, in nome dello stesso diritto. È una « lotta per la vita »: e trattandosi della vita si capisce che ci si... ammazzi, qualche volta. « La vera lotta elettorale è oggi, come sempre, circoscritta alle rivalità di clientele ristrette, per non dire di pochi uomini, aggruppati in due fazioni avverse per la impossibilità di mettere tutti contemporaneamente il muso nella stessa mangiatoia »—scriveva il 31 del marzo passato la Patria degli Italiani.
È chiaro che questa politica di speculazione vive della ricchezza pubblica come di una preda legittimamente conquistata, invece di esserne la tutrice vigile[58] e sapiente. Ora, la ricchezza è prodotta dal lavoro; il lavoro è in massima parte straniero; è quindi precisamente a danno degli stranieri che si alimenta l’enorme pianta parassitaria della politica, che ha più ramificazioni d’un’intera foresta di baobab.
Gli stranieri si vedono completamente esclusi dalla cosa pubblica. Il paese risulta nettamente diviso in dominatori e in dominati. Questo non sarebbe un gran male, se una tale politica non avesse logicamente la più perniciosa delle influenze su tutte le amministrazioni pubbliche—nelle quali si sazia—e, quel che è peggio, sulla giustizia; di modo che i dominati si trovano esposti—privi delle armi del diritto politico—a tutte le violenze, ai soprusi, agl’inganni, alla ingiustizia senza limiti.
Come si vede, la politica argentina, per quanto in sè stessa priva d’interesse per noi, assume una importanza capitale in quanto serve a spiegare e illustrare la situazione dei nostri connazionali laggiù. E permettetemi di parlarvene a lungo. Del resto, l’argomento non è noioso: avvengono nella politica di questo paese delle cose tanto strane!...
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La lotta politica ristretta alle persone, animata da bassi interessi, isolata nei varî centri provinciali, prende spesso alimento dagli odî personali, e diviene di una brutalità selvaggia. Si combatte con tutte le armi, con la frode, con la corruzione e col terrore. Da una parte l’arbitrio, dall’altra la violenza. Avvicinandosi un Comizio, i crimini politici diventano cosa di tutti i giorni, specialmente nelle provincie interne. La cronaca registra giornalmente minaccie a mano armata, arresti e[59] condanne arbitrarie eseguiti contro gli oppositori, persecuzioni poliziesche, maltrattamenti, ferimenti, assassinî. A prestar piena fede ai giornali i più diffusi vi sarebbe da inorridire. Dai luoghi desolati dalle elezioni arrivano loro notizie di treni assaltati dalla polizia per arrestare gli avversarî del Governo che vi viaggiano, di prigionieri posti alla tortura dei ceppi, di spedizioni di soldati armati di remingtons inviati in tutti i dipartimenti di una provincia con l’ordine di non lasciarsi sfuggire l’opportunità di fucilare gli avversarî (Prensa, 11 e 12 febbraio).
Certo è che in questi periodi di fermento politico la vita pubblica si svolge sotto il più tirannico dei regimi. In certe provincie è un vero regime del terrore. I giornali di opposizione sono talvolta assaltati, le macchine spezzate, i redattori minacciati di morte, come è avvenuto a Chacabuco e durante le ultime elezioni di San Juan. La mancanza di giustizia rende possibile ogni violenza. Durante queste elezioni, che hanno fatto versare tanto sangue, la polizia ha assassinato nel suo stesso domicilio il direttore del giornale El Censor, colpevole di reato d’opposizione. Questi delitti hanno fatto sfuggire al più autorevole giornale argentino una frase caratteristica: « Dalla frode e dalla tranquilla esploitation delle posizioni ufficiali non è ammissibile che si passi al regime del terrore, alla legge del pugnale e della corda » (Nacion, 8 gennaio). Pare che la frode e la tranquilla esploitation siano... ammissibili!
Intanto si procede alla formazione delle liste elettorali. Mancando uno stato civile in regola, le iscrizioni si fanno volta per volta, alla domenica a mattina, nell’atrio delle chiese parrocchiali, dove il registro è depositato sopra un tavolo fra due vigilantes che sonnecchiano e i membri d’un Comitato. Gli elettori iscrivendosi dichiarano a quale partito appartengono. Lo scopo di questa usanza è chiaro: le sole iscrizioni[60] bastano a dare la più ampia idea della situazione, e le manovre poi si possono fare a ragion veduta. Se il partito « legale » è un po’ deboluccio, si rinforza con un po’ di nomi. Se alle elezioni non si presentano gli elettori, si fanno figurare gl’iscritti come votanti. Nel marzo passato, nelle elezioni di Santiago de l’Estero, a Quebrachos concorsero alle urne il giudice di pace, il commissario di polizia e suo figlio e vi lasciarono.... mille e tanti voti. Il falso diventa usuale. Non c’è controllo: i giudici si guardano bene dall’ascoltare i reclami di illegalità perchè essi stessi nascono quasi sempre dall’illegalità.
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E si viene alle elezioni. Qui entrano in scena i caudillos, uomini che, per il prestigio della criminalità, godono di ascendenti sulla parte infima della popolazione criolla, la quale forma quasi esclusivamente la massa elettorale. Il caudillo porta in campo le sue forze al servizio di questo o quel partito, come un capitano di ventura. Queste forze vengono dalla campagna, dalla prateria, spesso semiselvaggie, gauchos, ignoranti sempre, che considerano le elezioni come un carnevale, un’epoca di godimento e d’impunità (se stanno dalla parte governativa). Arrivano nelle città ostentando il loro armamento di rivoltelle e di coltelli intorno alla cintura, e incomincia il terrore dei pacifici cittadini. Tipi sinistri percorrono a cavallo le vie, insultano i passanti, spingono la cavalcatura sui marciapiedi e talvolta nei negozî. Spesso si fermano a mangiare e bere nelle fondas, poi non pagano, bastonano chi protesta e se ne vanno gridando: Viva el Gobernador!—il grido che è il sesamo apriti della circostanza.[61]
È poco tempo che Santa Fè, Rosario e tutte le città della provincia, come più recentemente San Juan, hanno attraversato un periodo elettorale con il relativo accompagnamento di morti e di feriti. Le scene che si sono svolte in questi luoghi non sembrano dei nostri tempi. I negozî si chiudono, la gente per bene si tappa in casa con le provvigioni, come per un assedio in regola; e l’illusione è perfetta quando—e non di rado—si sentono echeggiare attraverso le imposte serrate i colpi delle armi da fuoco. La Prensa ha riportato da un giornale di San Juan questa descrizione d’ambiente: « Le famiglie non escono per nessun motivo, nessuno si mostra per le piazze, e ad ogni momento si aspetta di sentire il rumore d’una scarica che ponga termine alla vita d’un cittadino, o il galoppo d’uno squadrone di polizia che sciaboli senza pietà. Non si domanda che resultato ebbe questa o quella elezione, ma quanti morti si ebbero. Da ogni parte si parla di domicilî che saranno assaltati. Le versioni sono fondate perchè abbiamo visto il popolo indifeso sciabolato per le vie di pieno giorno e assassinare miseramente e vigliaccamente... » È certo che in queste descrizioni, che potrei riportare a sazietà, vi è di quell’esagerazione che è propria di queste riscaldate fantasie ispano-americane; ma non molta. I crimini esistono. Non vi è forse che Buenos Aires dove tali miserie siano meno visibili, perchè si perdono nella vastità e nel cosmopolitismo.
In prossimità dei seggi elettorali si vedono talvolta dei veri bivacchi di questi gauchos armati, accoccolati intorno ai barili della caña e all’arrosto che si va cuocendo all’aria aperta, il tradizionale asado electoral. Questi bravi elettori si aggruppano a seconda dei partiti nei posti prestabiliti di fronte al sagrato della parrocchia—dove si tiene l’elezione—in attesa d’essere chiamati ad esprimere i voti della coscienza del popolo.[62]
L’appello viene fatto partito per partito. Si comincia dal partito governativo, il quale in caso di dubbia riuscita adopera tre sistemi di guerra che si potrebbero chiamare: il pacifico, il semi-pacifico e il bellicoso. Il primo è semplicissimo; si fa l’appello tanto lentamente che giunge l’ora stabilita per la chiusura prima che gli avversarî—che votano dopo—abbiano avuto il tempo di votare.
Il secondo consiste nel sollevare degli incidenti ad ogni voto avversario, domandando la prova della personalità. L’adito è aperto all’arbitrio; si fanno votare dei partitarî due o tre volte, si stabiliscono officine di falsificazioni, si fa di tutto.
Quando ciò non basta per assicurare la vittoria, entrano in campo i remingtons della polizia che circonda le urne e che sta appostata persino sui tetti delle case vicine. È il sistema bellicoso. Nelle recenti elezioni di San Juan, intorno ad un’urna sono caduti sei morti e venti feriti. Questo non ha impedito al vice-governatore di scrivere un rapporto dove diceva: « Le elezioni si sono svolte tranquillamente e in completo ordine in tutti i Comizî; solamente in Pocito...., ecc.! » Oh! una cosa da nulla!
All’inganno d’un partito risponde, naturalmente, l’inganno dell’altro, alla frode la frode, e alla violenza la violenza. Il resultato è la più mostruosa mistificazione della volontà popolare.
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Su queste elezioni poggia l’oligarchia che strema le forze dell’Argentina e ne prostra le promettenti energie. Dalle elezioni nasce la piovra governativa, e viceversa: come la storia dell’uovo e della gallina. È un circolo[63] chiuso, la cui anacronica esistenza è spiegata dalla esclusione della vita politica di quella grande parte della popolazione che più lavora, produce e paga, la quale avrebbe precisamente il più grande interesse ad una politica onesta: alludo agli stranieri.
Con questa straordinaria organizzazione, elettorale viene a mancare completamente il controllo del popolo nel complesso organismo governativo. Una macchina senza regolatore.
Appurate così le origini della disorganizzazione, vedremo prossimamente fino dove ne arrivano le ineluttabili e disastrose conseguenze.
[Dal Corriere della Sera del 29 maggio 1902.]
L’ultima volta, mio buon lettore, abbiamo osservato l’allegra parodia electoral—per dirla con la frase del paese—argentina. Vediamo oggi che cosa ne viene fuori—che, come vedremo, è per noi italiani il più interessante.
E prima di tutto vediamo chi ha il monopolio del Governo nell’Argentina. Un giurista, il prof. Martinoli, in una sua monografia sul Diritto argentino, calcola che tolti gli stranieri, i loro figli ancora in minore età, le donne e i bambini, che se figurano nel censimento non sono per ora nelle liste politiche, e tolti gl’indiani, i semibarbari, i gauchos e tutti i detriti in dissolvimento delle razze inferiori, i quali non sono che « docili e incoscienti strumenti di qualunque caudillo, rimangono pochi argentini padroni del campo politico. » « Gli argentini, dunque, atti al Governo—egli scrive—sono in franca minoranza, in dichiarata insufficienza, chiamati ad amministrare interessi in[65] enorme proporzione alieni, senza controllo da parte degli amministrati, senza che essi sentano in carne propria il peso principale dei tributi, con tutti i vantaggi in cambio delle cariche pubbliche, e con tradizioni finanziarie ed economiche che non li fan certo raccomandabili come modelli di reggenti ordinati e scrupolosi: formano cioè una vera oligarchia. » Un’oligarchia i cui difetti sono aggravati dalla « infaticabile sfruttabilità dello zio che in questo unico caso è quello di.... Europa. » Si pensi alla gravità di queste parole scritte da un uomo colto e imparziale, straniero, ma strettamente legato alla vita del paese, in posizione elevata, e coprente cariche onorifiche, il quale le ha scritte in una pubblicazione di carattere ufficiale fatta per conto della nostra Colonia.
Il campo dove l’oligarchia—spazia—stavo per dire.... pascola—è straordinariamente vasto. Per averne un’idea basti rammentare che nell’Argentina vi sono tanti Governi indipendenti quante regioni, ossia quattordici Governi, quindici col Governo centrale.
Ciò significa: quindici Camere di deputati, quindici Senati, quindici Ministeri, ossia un battaglione di eccellenze, quindici capi di Stato, quindici polizie, un numero sterminato di giudici che brandiscono la bellezza di trenta Codici di procedura; insomma quindici di tutto. Gli stipendî sono generosi; gli onorevoli deputati e senatori dei Governi regionali hanno 500 pesos al mese (ossia 1250 franchi circa mensili); quelli del Governo federale ne hanno mille (2500 franchi al mese circa), e vi sono gl’incerti, che poi sono quasi sempre.... certi. E pensare che noi troviamo qualche volta troppo un Parlamento solo: e non lo paghiamo! In proporzione, col sistema argentino, noi in Italia dovremmo avere più di cento Parlamenti. Orrore!
Vi sono varie provincie, come quelle di Catamarca, della Rioja, di San Luis, di Santiago de l’Estero, le[66] cui risorse sono insufficienti a pagarsi il lusso di un gobierno; e si capisce. Questo faragginoso organismo governativo, ammessa anche l’onestà più scrupolosa negli uomini di governo, non può che spossare il paese per il solo fatto della sua esistenza. Ma la correttezza, per di più, non è una moneta straordinariamente corrente laggiù.
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Gl’impieghi non sono divisi sempre fra i più degni. « Sono i collaboratori nella lotta elettorale che si presentano a reclamare il premio pagato col tesoro pubblico sotto forma di stipendio per deputazioni, seggi senatoriali, posti di governo, incarichi diplomatici, affari, concessioni, posti di favoritismo, persino frodi doganali, decretati a forza d’influenze ben compensate. » (Giornale La Prensa).
L’idoneità non è più così la qualità necessaria per essere chiamato al disbrigo d’un ufficio pubblico. Un deputato federale argentino, che porta uno dei nomi più illustri della Repubblica, il Belin Sarmiento, ha scritto coraggiosamente su questo argomento: « L’idoneità è scomparsa di fronte alla camerateria e al nepotismo, al punto che il talento stesso non avrebbe assicurata la carriera senza l’intrigo e la compiacenza; si creano posti inutili per dare una paga al parente e al partitario. » A molti funzionarî pubblici manca perciò la capacità necessaria e la preparazione; basta intrigare; la frode politica apre tutte le porte. « La politica qui fornisce un vero cursus honorum, attraverso il quale si può sempre vivere del bilancio e senza far niente con tutto decoro, per divenire infine una specie di Pericle buono a tutto, ambasciate, alte funzioni[67] giudiziarie, direzioni di banchi, rettorati universitarî, grasse missioni finanziarie, confezioni di codici, anche... generali. » (Professore Martinoli).
Infatti il giornale El Diario, parlando del Congresso, ha rivelato che « una terza parte, non uno di meno dei deputati, accumulano stipendî per Commissioni speciali, direzioni di banchi, di università, di collegi e di altri incarichi pagati in modo eccezionalmente lauto; e più d’un terzo dei senatori (per non essere da meno) hanno oltre ai mille pesos al mese, altre somme dagli ottocento ai mille pesos per incarichi ufficiali »—circa 5000 franchi al mese!
Da un tale genere di funzionarî, che, come scriveva recentemente la Prensa, « si considerano padroni dei loro posti per diritto di conquista e che li disimpegnano a loro piacere sicuri dell’impunità per le loro colpe e per i loro errori », deriva la più estesa irregolarità in tutti i campi dell’amministrazione pubblica. L’interesse personale produce un’influenza disastrosa. « Ciò contribuisce a rendere la politica un affare, a farne non l’occupazione altruistica e nobile, e quasi onoraria d’una classe scelta, ma invece una vasta Tammany Hall, un pugillato per l’esito, una curée di sensalismi, e a dare ad ogni ambizione un predominante fondamento d’interesse che tutto degrada e materializza e che corrompe parimenti governanti e governati. » (Prof. Martinoli).
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La corruzione si propaga infatti. Lo standard della morale pubblica si è modificato sotto questo regime. Quando l’eccezione diventa regola, la regola diventa eccezione. Avviene in morale quel che ci succede in[68] ottica quando entriamo in un ambiente illuminato da una lampada colorata; al principio si trova tutto strano, falso, curiosamente colorato; poi l’occhio s’abitua, il ricordo della luce pura svanisce dalla retina, ogni cosa si normalizza al nostro sguardo. Così laggiù si è abituata la coscienza pubblica alla strana luce della moralità ufficiale.
« Supponendo che certi fatti che vediamo giornalmente siano successi in altri paesi, ed immaginando lo scandalo che produrrebbero, abbiamo la norma del livello morale della nostra società, che non si commuove considerandoli quotidiani e comuni. Basterebbe collezionare ogni scandalo che si rivela giornalmente per formare il museo degli orrori. » (Belin Sarmiento).
Nella lingua stessa, che è come lo specchio dell’anima di un popolo, rimangono le traccie della strana clemenza con la quale si giudicano certe colpe. L’indelicatezza non si chiama più così: si chiama.... vivezza—viveza. Un uomo senza scrupoli da noi si dice un furfante; laggiù un uomo vivo! Ed è quasi un complimento.
Quale tempra adamantina d’onestà non occorrerebbe per sottrarsi alla influenza dell’ambiente, alle seduzioni dell’interesse? « Sarebbero uomini eroici, superiori all’umano coloro che elevati al potere dai nostri politici potessero lottare contro i loro amici, contro il loro proprio interesse, lottare contro i sofismi che da ogni parte fioriscono intorno al potere, lottare infine contro tutti i proprî contemporanei, e rifarli come lo scultore riammassa l’argilla quando è scontento della sua prima concezione. » (Belin Sarmiento).
Il male che deriva da tanta bruttura è reso più grave dalla curiosa condizione di complicità in cui si trovano moltissimi funzionarî pubblici, complicità dalla quale deriva quell’impunità cui allude la Prensa nel brano citato più sopra. Essi debbono la loro posizione alla loro unione di partito, cioè a dire ad una colpa[69] comune. Naturalmente non si può sempre punire un funzionario che abbia troppa.... viveza, perchè sarebbe come trasformarlo in un avversario politico. E poi è difficile punire uno per colpe che sono troppo comuni, peccati divenuti veniali, condannare in lui sè stessi, e i proprî sistemi, i proprî interessi e la propria morale. La catena gerarchica così si spezza, la disciplina è svanita. Come il potere si basa sul fascio enorme di irregolarità elettorali commesse dagli adepti al partito trionfante, ognuno di questi fattori del Governo, conquistato un impiego, sente di avere il sacrosanto diritto ad una parte del potere. Ogni funzionario diventa un tiranno nella sfera della sua influenza. Il meno che può fare è di non compire il suo dovere seguendo l’esempio di tanta parte dei parlamentari che sono in un quasi perenne sciopero legislativo.
Si aggiunga ancora, come ultimo e non minore incentivo al mal fare, la poca stabilità degli impieghi. Quando s’insedia un nuovo partito è un nuovo esercito d’impiegati che occupa gli uffici, mentre l’esercito dei vecchi si ritira—per prepararsi ad un altro assalto—si ritira in armi, e soprattutto.... in bagaglio. Un’elezione andata male o una rivoluzioncella andata bene bastano a sbalzar tutti dal posto; la vita non è assicurata, il tempo stringe, bisogna prendere ciò che capita, diamine!
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Al di fuori di questa straordinaria organizzazione governativa, di questa formidabile associazione tirannicamente dominatrice, stanno gli stranieri, i veri sfruttati, perchè sono quasi i soli che lavorino, che producano, che trasformino. Sono essi, in fondo, che[70] pagano. E « ad essi viene a mancare ogni autorità sulle autorità anche inferiori: essi debbono sopportare senza possibile reazione le facili prepotenze dei funzionarî, specialmente nelle campagne dove l’abuso è così comune. » (Prof. Martinoli). Vedremo in seguito, dettagliatamente, quali e quanti sono questi abusi e queste prepotenze che gli stranieri soffrono, e più specialmente coloro fra di essi che l’ignoranza, la miseria e l’isolamento vengono a rendere più deboli e più umili.
Ora ne abbiamo visto le origini che tutto spiegano a filo di logica. Nel « museo degli orrori », di cui parla l’on. Belin Sarmiento, il lettore ora forse non troverebbe nulla che potesse meravigliarlo troppo. Alla meglio gli ho spiegato la formazione e la natura del vasto organismo governativo, che forse non completamente a torto è stato chiamato una Tammany Hall politica. Dalle sue ruote si capisce come cammina.
Non c’è più nulla di strano. A San Juan, per esempio, dove l’irrigazione soltanto rende possibile la coltura di quel suolo tropicale, il Governo toglie l’acqua agli avversarî politici per far seccare i loro raccolti e far morir di sete uomini e bestiami. Lo chiamano il gobierno de l’agua. (Nacion, 9 gennaio). Il penultimo governatore d’una delle principali provincie ha passato gli ultimi sei giorni del suo regno a firmare boni di tesoreria a favore di partitarî per un valore pari al bilancio della provincia—quattro milioni di pesos. La storia non dice se al settimo giorno il bravo uomo si prese il meritato riposo. Dice però che venne sollevata la questione della validità dei boni, risoluta favorevolmente e che l’ex-governatore venne immediatamente... fatto senatore! A Tucuman un ministro delle finanze accusa il predecessore di aver stornato grosse somme per lavori pubblici che non si sono mai visti, e nessuno gli bada (Prensa, 20 marzo). Un ex-governatore è accusato d’aver sottratto centomila pesos da[71] una sovvenzione per una calamità pubblica (Diario, 5 aprile). Alcuni Governi provinciali, come quelli di Entre Rios e San Juan, non rendono conto delle somme pagate dal Governo centrale per l’istruzione, e lasciano i maestri quattordici mesi senza stipendio. Il Consiglio nazionale d’educazione è alla sua volta accusato dai giornali di grosse irregolarità amministrative a proposito della costruzione di edifici scolastici costati quattro volte il loro preventivo. La Prensa attribuisce la massima parte del deficit delle imposte alle irregolarità commesse abitualmente dagli incaricati dell’esazione. Tutto questo non può stupirci più. Entra quasi nell’ordine naturale delle cose.
I Parlamenti votano sempre nuove spese e creano nuovi impieghi per contentare le clientele, mentre il paese precipita alla rovina, mentre i coloni delle principali provincie mancano persino della semente, e la miseria s’avanza ululante dai campi verso la città. I debiti provinciali aumentano con una rapidità che ha dell’emulazione. Con un bilancio che mette paura, il Parlamento federale vota un aumento di trenta milioni di pesos di nuove spese e crea una quantità di nuovi posti diplomatici per « provvedere alle necessità di certi gentiluomini messi colle spalle al muro dalla mancanza di mezzi » (El Diario). Molti uomini politici sono pubblicamente accusati di gravissime immoralità, ben definite e particolarizzate, e le loro ricchezze favolose autorizzano il sospetto. Il Diario racconta che per avere una modificazione sulla tariffa doganale di un certo articolo si offrivano settantamila pesos nei couloirs del Congresso. « Al Congresso poco importa di protezionismo e di libero scambismo—scriveva la Patria degli Italiani, commentando la notizia—chi meglio paga, meglio è servito. »
Giù giù per la trafila amministrativa tutto cammina così. Vi sono governatori che commettono ogni sorta di abusi. Gli stranieri del Neuquen in questo momento[72] si agitano implorando che per carità non venga rieletto il governatore presente vicino a scadere di carica (Prensa, 10 marzo). A Rufino gli stranieri si trovano costretti a riunirsi in una « Società di resistenza » contro gli abusi delle autorità; una specie di Compagnia d’assicurazione per i danni che si scatenano dall’imperversare della prepotenza (Prensa, 3 marzo). E più giù ancora tanti magistrati vendono la giustizia e regalano ingiustizia, dei giudici di pace sfruttano tranquillamente i coloni, dei commissarî sono loro complici, e per loro conto commettono angherie e persecuzioni infami: fino agli agenti, agli ultimi soldati di polizia nelle colonie, che da selvaggi che sono, fanno anch’essi del loro meglio, arrestando, bastonando e violando quando e come possono. Di queste gesta parleremo.
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Bisogna concludere che l’Argentina è veramente un paese meraviglioso se ha potuto trascinare fino ad ora un tale mostro divoratore sulle sue spalle. In esso principalmente va cercata la ragione vera della sua crisi spaventosa e del suo mortale abbattimento presenti, le cui conseguenze ricadono sui nostri lavoratori. Questi a centinaia e centinaia di migliaia scontano con la miseria, laggiù, lontani dalla Patria—verso la quale si volgono tristamente i loro pensieri come verso una felicità per sempre perduta—gli errori e le colpe che non sono loro!
Intanto si dice nelle sfere ufficiali che le risorse del paese salveranno la situazione. Questa è una bella maniera per dire che sarà pur sempre il lavoro, il nostro lavoro, che pagherà tutto!
[Dal Corriere della Sera del 1-2 giugno 1902.]
Il generale Roca, durante la sua ultima tournée in Europa, andò a visitare Bismarck, che nell’eremitaggio di Friedrichsruhe era diventato come l’oracolo politico di tutti gli statisti in vacanza. Si dice che in quella circostanza l’Oracolo, interrogato su ciò che pensava dell’Argentina, rispondesse, fra una boccata e l’altra della sua pipa leggendaria:
—Il vostro paese non avrà avvenire finchè non avrà Giustizia!
Sono passati degli anni, ma c’è da scommettere che, anche oggi, se il signor Presidente potesse interrogare l’anima del Gran Cancelliere, si sentirebbe rispondere con le medesime parole.
Perchè infatti si può dire che in quel beato paese c’è tutto ormai, meno che la Giustizia. La libertà, il commercio, la proprietà, e persino la vita non vi sono sempre efficacemente garantiti. Troppo sovente la Giustizia è partigiana o corrotta. In essa trovano forza la prepotenza, la disonestà, la criminalità. La Giustizia, soggetta spesso a tutte le malsane influenze dei partiti,[74] del denaro e degl’interessi personali, assicura troppe volte l’impunità al « figlio del paese »—che può disporre di queste forze—e concorre così a mantenere la massa straniera in una condizione sempre più umile di sottoposizione.
E tutto questo perchè anche la Giustizia soffre laggiù del gran male d’origine: la politica. Nasce e vive nella politica; è agitata dalle passioni della vita pubblica; strettamente legata all’ambiente; bruttata dagli stessi difetti e delle stesse colpe che è chiamata a correggere e a punire. Gli uomini che amministrano la Giustizia sono nominati a tale onore non sempre per i loro meriti personali, per il loro carattere, la loro onestà, la loro indipendenza, la loro coltura, ma perchè sono del partito al potere, oppure amici o parenti di persone d’influenza, o intriganti, o complici in trame politiche. Avviene così di trovare dei giudici che non hanno nessuno dei requisiti che la legge richiede. « A Santiago de l’Estero non un solo membro del Potere Giuridico possiede i requisiti costituzionali » (Giornale La Prensa, 3 novembre). Immaginiamo quale autorità può emanare da questi magistrati. Il peggio è che vi sono dei giudici ben altrimenti indegni del loro posto specialmente nei gradi minori della magistratura. « In certe provincie la libertà, l’onore e i beni della povera gente sono in mano di Giudici di Pace degni della galera »,—scriveva la Patria degli Italiani il 7 dell’aprile passato, giustamente esasperata da alcune infamie giudiziarie commesse nella provincia di Cordoba; e aggiungeva:—« Ecco perchè nelle campagne gli stranieri vivono a disagio e le colonie si spopolano. La Giustizia di Pace in mano a malfattori volgari irrita e disamora del paese gli emigranti, che vedendosi in balìa di furfanti rivestiti di autorità fuggono, sottraendosi al peggiore dei dispotismi, quello della giustizia amministrata da farabutti. » Vi sono troppi giudici che hanno familiarità con la colpa: alcuni di essi[75] debbono all’appartenere alla giustizia il beneficio di non esser chiamati a renderle conto delle loro azioni. Vi sono giudici che hanno subìto delle condanne; vi sono dei recidivi: vi sono dei criminali.
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Se nelle alte sfere della magistratura non mancano dei buoni e dei colti, ciò non toglie che l’organismo giudiziario non sia profondamente guasto, e—questo è un sintomo grave—poco vi si bada. Un commissario governativo, incaricato di un’ispezione nella provincia di Santa Fè, dice nel suo rapporto che « i posti di Giudice di Pace appartengono a covi di uccelli di rapina che si sono stabiliti in ogni colonia. » (La Prensa, 20 aprile). La Prensa dell’11 aprile riporta questi apprezzamenti del giornale La Verdad di Entre Rios: « Sono note le azioni vergognose compiute da certi magistrati. Tutto han commesso, dalla prevaricazione al furto, fino al sindacato dei giudici con i procuratori, ecc. Tutto ciò ha spinto la nostra giustizia in una discesa obbrobriosa, trascinando nella sua débâcle di corruzione i grandi interessi della società che si trova abbandonata alla voracità dei saccheggiatori dei Tribunali. »
Si è arrivati al punto da contare, nelle campagne, i buoni giudici come eccezioni. « I Giudici di Pace e i commissarî delle colonie, salvo oneste eccezioni, spogliano, derubano, taglieggiano i poveri coloni. » (Patria degli Italiani, 20 novembre). La Prensa del 22 aprile consiglia il governatore di Cordoba a nominare per giudici « uomini onesti e degni per sollevare le popolazioni dai molti mali che le affliggono a causa dei cattivi giudici. » Il consiglio è ottimo anche per tutte le altre provincie della Repubblica.[76]
Le accuse a carico di giudici piovono giornalmente sulle colonne dei giornali di tutti i partiti, ma le autorità governative rimangono bene spesso indifferenti. La Nacion ha fatto, inutilmente, una vera campagna contro un giudice molto influente della Capitale, accusandolo velatamente di vita immorale, scandalosa, di affari loschi, di parzialità. Alcune di quelle schiave bianche, che infami trafficanti traggono con inganno dai villaggi d’Europa, e per la cui sorte i Governi ora cominciano a preoccuparsi, riuscirono a fuggire dalle mani dei loro « padroni » e ricorsero alla polizia, che arrestò i colpevoli. Ma il giudice in questione diede ordine di liberarli e fece carcerare quelle infelici. La stampa accusò il giudice d’aver favorito degli « amici personali »; ed egli è sempre giudice! Un altro giudice proscioglie dei detentori di bische clandestine e poi ordina che sia tolta ogni sorveglianza sulle case da giuoco: viene accusato di favoritismo, ma resta sempre giudice. Un giudice è denunziato per falsificazione in atto privato e non viene nemmeno sospeso dalle funzioni. (Patria, 30 dicembre). La Prensa riporta da un giornale provinciale che parla della giustizia corrotta: « Il potere esecutivo non pensa a porvi un rimedio, anzi ora si tratterebbe di dare un avanzamento a qualcuno dei magistrati sotto la cui giurisdizione sono scomparse considerevoli somme di denaro appartenenti ai depositi giudiziari... »
Nelle Colonie vi sono di quei giudici che per ironia si chiamano di pace, che fanno ordinanze di sequestro a danno dei coloni, portando loro via i raccolti, gli animali da lavoro, gli attrezzi, tutto, e lasciandoli spesso nella più dolorosa miseria. (La Libertad di Cordoba, 2 aprile).
Un gruppo di coraggiosi, abitanti un pueblito nel Rio Negro, ha domandato al ministro della giustizia di ritirare il Giudice di Pace e sostituirlo con una persona per bene. Quel degno magistrato sarebbe stato[77] già da anni accusato di gravi colpe commesse come giudice a General Roca—paese del Rio Negro—poi d’irregolarità come capo del Registro Civile. Ora il giudice recidivo è accusato di negata giustizia, di favoritismo per partitarî politici; ma non basta; è anche accusato di aver tentato, usufruendo della sua autorità, di portar via una fanciulla minorenne alla madre, infine di complicità nel ratto d’un’altra minorenne, la quale sarebbe stata rinchiusa per alcuni giorni nella di lui casa. Il rapitore era il figlio del giudice. Il segretario di questo magistrato è sotto l’accusa di tentato assassinio. (Prensa, 3 marzo).
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Gli escandalos judiciales, sia pure di questi ultimi mesi, formano un’imponente raccolta di cose orribili e talvolta amene. Nelle provincie la vendita della giustizia è una cosa purtroppo non rara. Qualche giudice ha delle trovate originali in questioni di... affari; uno domandò all’avvocato della parte favorita alcune monete per un amico numismatico, al quale mancavano precisamente sette aguilas nord-americane d’oro (settecento lire) alla sua collezione. Vi sono anche dei giudici che si fanno pagare dalle due parti: la giustizia al migliore offerente. Fra tutti, eccovi un caso che fa pensare ad un intreccio da pochade. Un italiano che vive a Serodino—presso Rosario—e che chiameremo con la sua iniziale V., ha comperato da un altro italiano una trebbiatrice, la quale però è perseguitata da un mandato di sequestro, come un cassiere in fuga. Un curatore si presenta a Serodino per fare eseguire il sequestro; ma il Giudice di Pace della colonia, pagato dal V., si rifiuta di eseguirlo, dando così[78] tempo al V. di correre a Rosario, di presentarsi in compagnia del suo avvocato al giudice L., che aveva spiccato l’ordine di sequestro, e di ottenere la revoca mediante il pagamento di cento pesos. Il curatore, informato dell’accaduto dal segretario del giudice, corre alla sua volta dal magistrato, paga duecento pesos e si fa spiccare un secondo decreto di sequestro, revocante la revoca. Seguite bene l’intreccio. Il segretario del giudice telegrafa immediatamente a Serodino al V., informandolo, e questi si precipita a pagare trecento pesos ottenendo una seconda revoca. Qui incomincia il fantastico. Il curatore, con un crescendo che il valore della macchina giustifica (6000 pesos) aumenta la somma e ottiene un nuovo ordine di sequestro che... viene revocato dietro il pagamento di mille pesos. Forse la cosa non sarebbe finita qui e il giudice avrebbe terminato per intascarsi la trebbiatrice se il V. non avesse avuto l’idea felice d’associare agli utili della trebbiatura un argentino influente, e, si capisce, non s’è parlato più di sequestri.
Una tale corruzione, se è in certo modo spiegabile nei Giudici di Pace, che hanno un periodo di carica limitato ad un anno, rinnovabile, e che sono senza stipendio—è vero che per legge dovrebbero essere scelti fra i più ricchi e i più onorati cittadini!—è assolutamente incomprensibile negli altri giudici i cui stipendî, che si parla di aumentare, variano sui mille e cento, mille e duecento, mille e cinquecento pesos al mese (2750, 3000, 3750 lire circa al mese). Le cause vanno ricercate dunque non nelle circostanze, ma negli uomini. È la coscienza che si è modificata. Le colpe e i delitti sono guardati con occhio soverchiamente benigno.
Assassini volgarissimi sono assolti per poco che godano d’influenze nel mondo politico. O almeno sono rilasciati ad una libertà provvisoria che dura a vita d’uomo, e i loro processi vengono sospesi nel purgatorio[79] degli archivî. Da un’inchiesta del Ministero della Giustizia risulta che a Buenos Aires—dove funzionano una giustizia senza paragoni migliore di quella delle provincie, ed una polizia che laggiù dicono la premiera del mundo:—sopra ogni cento delitti ne vanno impuniti ottantotto! E cioè: trenta colpevoli non sono arrestati affatto; degli arrestati quarantotto sono rilasciati per ordine dei giudici d’istruzione; dei ventidue che rimangono, dieci sono assolti dai tribunali e non rimangono puniti che... dodici colpevoli, a pene del resto quasi sempre benigne se non si tratta di stranieri. (Dal Diario del 23 marzo ’99 e dall’ultima pubblicazione del senatore Agostino Alvarez sulla politica argentina).
Figuriamoci che cosa avviene fuori della capitale!
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E la necessità d’una sana e rigida giustizia non è in nessun luogo così fortemente sentita come in quei paesi giovani, spinti avanti dal rapido accrescimento della operosa popolazione dovuto all’emigrazione, dove tutti gli appetiti si risvegliano nel tumultuoso periodo dello sviluppo, dove la lotta per la fortuna prende forme violentissime, dove gl’interessi e le passioni scatenano nella mobile società—come il maestrale nell’Oceano—tutte le tempeste dell’umana malvagità. Nel Far-West nord americano, quando il miraggio della fortuna vi attirò tutto un popolo di avventurieri pronti al delitto prima che quella società avesse affidato la sua difesa ad una giustizia organizzata, nacque la legge di Lynch; la società si difendeva da sè.
La criminalità nell’Argentina non è frenata dai rigori della giustizia, nè da quelli della società.[80]
La società è clemente verso la colpa; « noi succhiamo nascendo un latte di clemenza »—ha scritto l’Alvarez. Nelle campagne ammazzare si dice una desgracia; ma, intendiamoci, non è una disgrazia per chi ci rimette la pelle, ma per l’assassino. C’è chi ha, poveretto, molte... disgrazie sulla coscienza. Questi uomini si chiamano « uomini d’azione ». Tutto questo si spiega. È troppo fresco nella memoria il ricordo del periodo sanguinoso dei Facundo, dei Frate, dei Chacho, del tiranno Rosas, a petto ai quali i nostri capitani di ventura erano delle signorine sentimentali, periodo che potrebbe chiamarsi il medioevo argentino. E le stragi degl’indiani, le sanguinose guerre civili sono ancora nella mente del popolo. E poi il sangue argentino è sangue andaluso con un pochetto di sangue indiano, e perciò l’argentino è cortese, cavalleresco, generoso forse anche, ma bene spesso impetuoso e violento. « Nell’Argentina dall’epoca dell’indipendenza nessuna infermità ha distrutto più popolazione »—ha scritto l’Alvarez—« di quella che Chamfort chiamava la fraternità di Caino; il revolver e il pugnale sono endemici, e per un niente s’ammazza, come vuole l’uso criollo. » La rivoltella è nelle tasche di tutti. « È poco che in un ballo al quale erano convitati alti personaggi »—ha scritto un giorno la Nacion—« un diplomatico straniero espresse la sua sorpresa nel sapere che molti invitati avevano lasciato le loro rivoltelle al guardaroba, come se uscendo temessero un’imboscata, o preparassero una cospirazione. »
Il male è che spesso sono dei nostri connazionali le vittime della « fraternità di Caino » e potrei citare molti, troppi casi d’italiani uccisi impunemente, talvolta senza ragione, per brutalità, se non per un semplice esercizio di tiro al blanco—come ultimamente è avvenuto in una colonia di Santa Fè, dove un gaucho ha ammazzato un giovane italiano per provare un Winchester nuovo. Una madre italiana con i suoi[81] cinque bambini sono stati trucidati da un criollo presso Bahia Blanca, alcuni mesi fa, e un giornale argentino, che pubblicava la fotografia orribile delle vittime accatastate nel disordine tragico della morte, scriveva: « il colpevole cadrà domani in mano della giustizia per essere posto in libertà per l’influenza d’un caudillo elettorale o per la sensibilità dei giudici. » Un fatto analogo è avvenuto a Raffaela nella sera del 20 settembre passato; due italiani vennero assassinati a tradimento nel loro negoziuccio di almaceneros a scopo di furto, e i colpevoli, due gauchos, sono già liberi. Per un altro fatto consimile il ministro d’Italia, che domandava la ricerca e la punizione dei colpevoli, si sentì rispondere che la Giustizia nelle provincie è autonoma. È ancora vivo a Buenos Aires il ricordo dell’assassinio d’un povero lustrascarpe italiano compiuto dal figlio di un senatore, e quello di un distinto giovane italiano ammazzato a colpi di revolver sulla poltrona d’un teatro. Gli autori rimasero impuniti.
Quali fulmini non dovrebbe scagliare la legge per curare tanto male e così profondo?
Anche quando è buona, l’amministrazione della giustizia è così lenta, complicata e debole che riesce spesso inefficace. Per il commercio, ad esempio, rappresenta una rovina. La Nacion ha con una serie di articoli rivelato tutte le porte che la giustizia difettosa spalanca alla disonestà commerciale. Dei bancarottieri possono impunemente offrire delle percentuali ridicole a saldo dei loro debiti; hanno una frase magica per spaventare i creditori: Se non accettate mi metto nelle mani del tribunale!
Coi tribunali non si sa mai come si vada a finire!
Vi è una legione enorme di curiali, procuratori, curatori, uscieri, che nella lingua del paese sono chiamati con la espressiva denominazione di aves negras—uccelli neri. Questi corvi appollaiati intorno ai tribunali,[82] si precipitano dove c’è qualche cosa da mangiare, e fra onorarî, percentuali, prebende e propine finiscono ogni cosa, dividendosela con un accordo che somiglia ad una complicità legale. Anche ammettendo l’onestà più scrupolosa nei giudici, è naturale che con una giustizia così organizzata, la rettitudine commerciale non sia nè protetta, nè incoraggiata.
Nelle successioni testamentarie di stranieri avvengono cose infami protette dalla legge. Gli « uccelli neri » non lasciano talvolta una bricciola dei patrimonî raggranellati qui con stenti e lasciati morendo ai parenti lontani. Essi mandano le pratiche a lungo per degli anni, se l’eredità è grossa, per dei mesi se è piccola, fino a che a furia di spese giudiziarie, di emolumenti, di stipendî per curatele quasi tutto è divorato.
Non parliamo dei tranelli nelle compre-vendite, per cui un contadino, supponiamo, che compra un pezzo di terra può trovarsi di non esserne il padrone: non parliamo delle gherminelle dei contratti e di tante altre truffe semi-legali che la Giustizia contempla indifferente.
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Tronchiamo questa esposizione di brutture, le quali nulla aggiungono e nulla tolgono al triste quadro della Giustizia argentina.
Di tutti i mali che affliggono quella Repubblica—alla quale tanta fortuna invece potrebbe sorridere—la cattiva Giustizia è il più grave per i nostri connazionali, perchè è quello le cui conseguenze dolorose li colpiscono direttamente e immediatamente.[83]
Quei governanti argentini che amano veramente il loro paese e che ne vogliono il bene, che desiderano l’aiuto generoso delle nostre braccia e delle nostre simpatie, rivolgano le loro cure al risanamento della Giustizia. La giustizia è la coscienza d’un paese. Se la coscienza si risveglia e si migliora, le azioni divengono buone. Pongano tutto il loro amore e tutta la loro scienza in questo. E nella buona Giustizia l’Argentina troverà precisamente la guarigione di tutte le sue piaghe!
[Dal Corriere della Sera del 5 giugno 1902.]
Un giorno dello scorso marzo il Governatore di Santa Fè, dottor Freyre—un omone dall’aspetto bonario e dalla parlantina sciolta—facendomi gli onori della sua casa mi mostrava una curiosa raccolta di ritratti fotografici. Erano le fotografie di tutti i suoi impiegati di polizia, bene incorniciate simmetricamente in un grande quadro di peluche e sormontate dai nomi dei relativi originali, incisi in targhette dorate. Una epigrafetta in testa al quadro faceva conoscere che si trattava di un omaggio della Polizia Santafecina al Señor Gobernador in occasione della di lui recente assunzione al potere. Il Governatore guardava tutti quei ritratti con una grande espressione d’uomo soddisfatto, e mi spiegava:
—Li conosco tutti, uno per uno, da quando ero capo come Jefe politico; qualcuno ne ho fatto io—nei suoi occhi sfavillava come una scintilla di amore paterno—e sono tutti hombres valientes, amico!
Gettai un’occhiata sulle fisionomie; una raccolta di tipi risoluti, una collezione di occhi fieri, di baffi e di barbe dal taglio poco comune, e qua e là dei nasi[85] adunchi, degli zigomi salienti e delle bocche larghe tagliate come con un colpaccio di ascia, caratteristiche non dubbie della razza meticcia. Vi era anche un negro.
—Io conosco la storia di tutta questa gente; li ho tutti nel pugno—continuava il mio ospite.—Vedete questo, e questo, e questo? Ebbene, essi non portano il loro vero nome.
Io ascoltavo con un interesse crescente le curiose informazioni che il Governatore dava a me e ad altri presenti, e non mancavo d’incoraggiarlo con quelle esclamazioni d’assentimento che sono le goccie lubrificanti delle conversazioni. Ed egli continuava, ingenuamente persuaso di dire le cose più naturali del mondo, e di fare il miglior vanto dei suoi sottoposti.
Così spiegò che alcuni di quei funzionarî non portavano il loro nome perchè in passato erano stati assassini. Molti di quegli uomini avevano un passato al quale il Governatore alludeva con reticenze piene di effetto drammatico. Certi si erano trasformati da delinquenti a poliziotti per opera sua. Ricordo fra gli altri la storia di un cocchiere più volte arrestato per ferimento, furto e rivolta agli agenti a mano armata, e divenuto commissario. Appuntando il dito sopra varî ritratti il Governatore ripeteva con compiacenza le parole: Este era un picaro!...—Questo era un farabutto—con l’aria di dire: Che uomo abile che era costui!
Tutto ciò per noi è strano. Noi consideriamo la Polizia come la mano della Giustizia, una grande mano, potente e delicata ad un tempo, che rintraccia i colpevoli, li scova, li afferra, e li porta al cospetto della maestà della Legge. Nell’Argentina, la Polizia—o meglio le polizie, poichè ve ne sono quindici, una per provincia ed una speciale per Buenos Aires—prima di essere la mano della Giustizia è la mano della Politica. Modificandosi lo scopo della sua esistenza, snaturandosi[86] la sua funzione, deve necessariamente modificarsi la sua essenza. Le polizie argentine non hanno tanto lo scopo di difendere la società, quanto quello di difendere i partiti al potere. Formano dei piccoli eserciti pretoriani sempre pronti all’arbitrio ed alla violenza partigiana, a portare nella lotta politica l’influenza decisiva della forza brutale contro il diritto. E allora come potrebbero essere strumenti di giustizia e di legalità se la loro funzione si esplica così spesso proprio nel campo dell’ingiustizia e dell’illegalità?
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È naturale che a comporre queste polizie vengano chiamati uomini risoluti e spregiudicati, ossia senza molti di quegli scrupoli che renderebbero impossibile l’adempimento del triste còmpito che la politica impone loro. Ed ora ditemi quale uso non faranno della forza di cui dispongono, della potenza straordinaria che loro conferisce il nome della legge, questi uomini scelti per evidente necessità negli strati inferiori della società, e anche delle razze umane, spesso familiari alla colpa, privi della coltura e dell’educazione, che, anche nelle anime cattive, insinuano il pudore del male? Supponete di questi uomini posti nelle colonie, lontani da qualsiasi controllo, aventi l’impunità quasi assicurata dalle distanze e dalle necessità politiche, se non dai difetti e le lungaggini delle procedure giudiziarie, e immaginate che cosa avviene. C’è poi l’aggravante d’una pessima retribuzione.
Vi sono dei commissarî che non prendono più di sessanta, settanta, ottanta pesos al mese, con i quali debbono provvedere alla paga dei soldati di polizia—due o tre—da essi personalmente arruolati, alle spese d’inchieste—che dovrebbero essere rimborsate,[87] ma non lo sono mai—e talvolta anche al mantenimento dei prigionieri fino alla loro consegna all’autorità giudiziaria. Dei tenenti di polizia prendono trenta pesos al mese. « Questi impieghi portano l’autorizzazione implicita all’exploitation dei pacifici abitanti della campagna sotto forma di multe »—ha scritto giustamente la Prensa.—Infatti la multa arbitraria forma una delle fonti più comuni e anche più oneste dei beneficî polizieschi. Dei contadini sono talvolta arrestati con una scusa qualunque, e poi il commissario contratta con loro la liberazione. Ciò non toglie che la libertà non si venda anche ai veri colpevoli, qualche volta. Gli arresti arbitrarî naturalmente non sono certo una cosa rara, specialmente se vi si può innestare una ragione politica. Ecco un caso tipico: pochi giorni fa in una colonia importante vennero arrestate in massa una quantità di persone, fra le quali capitarono dei commercianti, due giornalisti, un notaio, il collettore delle imposte e persino un ex-commissario di polizia, e vennero per ordine speciale rinchiuse nella cella destinata agli accattoni. Il giorno dopo seppero d’essere accusate di disordini, ubbriachezza ed altre cose.... multabili (telegrammi da Chos-Malal 25 marzo).
Il diciannove di marzo un italiano ha ricorso al nostro ministro a Buenos Aires per essere stato arrestato nella Pampa Centrale, detenuto otto mesi senza ragione, e derubato dalla polizia di cinque cavalli e di tutte le sue mercanzie.
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Qualche volta capita di peggio; per esempio, di restare in segregazione cellulare per dieci e anche quindici[88] giorni dimenticati. E peggio ancora, di essere bastonati o feriti. Cito qualche esempio recente. A Rosario tre giovanotti italiani, dei quali uno ex carabiniere da poco in congedo, mentre conversavano sopra un marciapiede, si sono visti arrestare, senza saperne il perchè, e condurre alla Commisseria, dove—dopo la solita perquisizione—sono stati segregati in tre celle separate « condottivi a forza di calci e di pugni. » Poi un ufficiale di polizia « li ha sottoposti a nuovi e più duri trattamenti arrivando fino ad usare la daga d’uno dei vigilanti, con la quale a casaccio, in un impeto d’ira, percosse ripetutamente uno di quei tre malcapitati producendogli lesioni d’una certa gravità. Il poveretto cercò di reagire, ma si vide ridotto all’impotenza da diversi agenti. L’ufficiale poi ordinò non fosse loro somministrato nessun cibo e che alla benchè minima lagnanza fosse loro risposto con la violenza. Dopo trentasei ore di quel martirio furono posti in libertà tutti sanguinolenti e malconci. » (Dalla cronaca della Republica di Rosario). La Patria degli Italiani confermava il fatto. Il console italiano ha potuto comprovare i maltrattamenti e un telegramma alla Patria aggiungeva che « il console continuerà nella energica sua attitudine di protesta ».
Non più tardi del passato aprile cinque arrestati a Rosario, dipartimento Belgrano, sono stati bastonati dai commissarî al punto che uno dei disgraziati è stato ridotto in gravi condizioni, senza conoscimento e senza favella. Un corrispondente della Prensa ha scritto da Belleville sulla abituale crudeltà di quella polizia. « Gli arrestati sono condotti a bastonate alla polizia; si arriva anche a ferirli; ieri un guardafili arrestato senza causa giustificata venne condotto a bastonate alla Commisseria, niente altro che per fare ostentazione di rigore. »
A Santiago del Estero la polizia « contando sull’impunità delle sue colpe »—come ha scritto la Prensa—ha[89] preso a sciabolate un povero diavolo perchè aveva rimproverato il commissario d’avergli avvelenato il cane; poi ha preso a sciabolate due suoi amici che l’accompagnavano, conosciuti come oneste e laboriose persone, ferendo tutti e tre, dei quali uno mortalmente alla testa. È comunissimo leggere nella cronaca dei giornali di « arresti in forma vessatoria e violenta »; questo significa a pugni e bastonate. Ho sott’occhio un rapporto di polizia—riportato dalla Capital di Rosario, giornale governativo—nel quale le parole bastonazos y machetazos—bastonate e pugni—vengono quasi a far parte del linguaggio d’ufficio. Pochi giorni or sono un vecchio e onorato commerciante italiano in Azul, è stato arrestato nella solita forma vessatoria violenta, e poi liberato senza la minima spiegazione. Notizie di questo genere arrivano da tutte le provincie. Alcuni arrestati presso a Chos-Malal da soldati di linea, che compiono dei servizî di polizia, come sospetti di furto, sono stati detenuti nove mesi, durante i quali hanno subìto delle vere torture per essere costretti alla confessione. Si è giunti a dar loro fino a cinquecento frustate. Una delle vittime è stata assoggettata al simulacro dello scannamento che le ha lasciato nel collo il segno del coltello; ed una donna creduta complice è stata spogliata in presenza dei soldati e sospesa per i piedi con una corda. Queste le denunzie che la Prensa riportava. Alla Rioja un povero pazzo preso dalla polizia è stato legato con le mani e con i piedi ad una grossa sbarra di ferro, e poi sospeso ad una pianta di gelso che si trova nel cortile della Commisseria. (Giornali del 25 gennaio).
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La violenza della polizia diviene alcune volte estrema. Un telegramma laconico da Sant’Antonio (Catamarca)[90] del 15 aprile diceva: « Domenica dalla polizia locale è stato assassinato il giovane E. M. con un colpo di remington, senza motivi noti. Si crede ad una vendetta premeditata. » Soltanto qualche giorno prima un commissario aveva ammazzato a revolverate due marinai ad Uruguay in Entre Rios. (Giornali del 12 e 13 aprile).
Alla fine dello scorso marzo la polizia di Bahia Blanca ha assalito alcuni operai italiani inermi al grido di mueran los gringos, ne ha ferito quattro a sciabolate, ed ha inseguito gli altri fin nelle case e nelle botteghe insultandoli, facendo arresti a casaccio, conducendo in prigione persino due feriti, uno dei quali in istato grave. Le inchieste ufficiali hanno negato questi fatti, che però sono attestati da testimonianze inconfutabili e da una protesta firmata da quarantatre commercianti di Bahia Blanca appartenenti a varie nazionalità. I commercianti di quella città sono cinquantadue.
A Corrientes, nella colonia Bella Vista, un giovane, che dal nome sembrerebbe italiano, è stato anche lui assassinato dalla polizia. Il telegramma pubblicato dalla Prensa diceva così: « Il giovane tornava da un ballo con un fratello. Un ufficiale e un sergente di polizia lo raggiunsero per via e il sergente gli diede la morte. »
In questi casi spesso le autorità superiori iniziano delle inchieste, la giustizia se ne impadronisce, ma la cosa finisce così quasi sempre, con un po’ di rumore. Dopo qualche anno i giudici dichiarano che per il tempo trascorso è impossibile fare la luce, e buona notte. Alcuni agenti di polizia di Trenque Lanquen sono stati così recentemente liberati dalle accuse di usurpazione d’autorità, brigantaggio, stupro, furto e usurpazione d’immobili, le vittime dei quali furono dei contadini della colonia La Luisa, di nazionalità francese. Ho sotto gli occhi i rapporti pervenuti al ministro di Francia, che fanno fremere d’orrore e d’indignazione.[91] « C’est la Justice condamnée par les juges eux-mêmes! »—scrive nei suoi commenti Le Courrier de la Plata, organo della collettività francese.
E pensate che non tutte le vittime della polizia hanno il coraggio se non la possibilità di avanzare i loro rapporti. Pensate che vi sono tanti gridi di dolore che si perdono inascoltati nell’immensità della Pampa!
Che difesa può rappresentare per la società questa polizia che fra pochi buoni elementi contiene tanto marcio? Un giornale di Santiago del Estero—dove i reati sono comunissimi—El Siglo, giornale che cito a preferenza fra tanti perchè non tacciabile certo d’avversità al Governo—dimostra la parte che ha la polizia nello sviluppo della criminalità, non fosse altro per la sua passiva condotta di fronte al delitto, conseguenza inevitabile della sua disorganizzazione. La polizia non si cura talvolta nemmeno di eseguire le constatazioni del delitto. « La garanzia della vita e della proprietà delle popolazioni rurali—dice El Siglo—va facendosi ogni giorno più illusoria, al punto che non si prende alcuna misura per la persecuzione e la punizione dei colpevoli, i cui crimini hanno per teatro gli stessi sobborghi di questa capitale. »
El Municipio di Rosario ha scritto: « Basta percorrere i centri rurali e conversare con gli abitanti autorevoli, per darsi conto che la vita laboriosa e onorata si è fatta impossibile per il predominio degli elementi nocivi che commettono le maggiori ferocie senza che nessuno li molesti. »
Ma anche se una tale polizia proteggesse le popolazioni dai criminali, che mai le proteggerebbe poi dalla... polizia?
È giustizia riconoscere che fra le quindici polizie argentine quella di Buenos Aires è di gran lunga migliore, e rappresenta un’eccezione lodevole. Da qualche anno è stata organizzata su modelli europei. La vita internazionale della grande metropoli ha avuto un’influenza[92] sui costumi; la lotta politica ha preso in quell’ambiente vastissimo forme meno primitive e meno brutali, e la polizia si trova ricondotta a poco a poco al suo naturale ufficio di strumento della giustizia. Va rientrando nella legalità. Non vi è ancora rientrata del tutto, perchè anche a Buenos Aires, a dire il vero, avvengono qualche volta arbitrî e abusi polizieschi; ma sono un nulla in confronto agli orrori ed errori delle polizie gauchas delle provincie.
E se si potesse fare il bilancio di quanto costano alle operose, infaticabili ed umili popolazioni rurali quegli errori e quegli orrori, quanto denaro, quante lacrime, e quanto sangue italiano!...
[Dal Corriere della Sera dell’8 giugno 1902.]
Negli ultimi giorni dello scorso anno, mentre la questione argentino-cilena prendeva un aspetto minaccioso, tanto che la guerra si credeva da alcuni imminente, inviai da Buenos Aires una corrispondenza sopra l’esercito argentino. La probabilità della guerra rendeva l’argomento della massima attualità; ma nello stesso tempo poteva sembrare inopportuna la pubblicazione di critiche sopra un esercito alla vigilia forse della sua entrata in campagna, e credetti mio dovere di far sospendere quella pubblicazione.
Ora l’orizzonte è schiarito; sulla Cordigliera delle Ande brilla l’arcobaleno. Un telegramma del 1 giugno al Times comunica che una convenzione è stata stabilita fra le due Repubbliche rivali, per la quale si limitano gli armamenti navali fino alla eguaglianza delle due flotte argentina e cilena, facendo inoltre assicurazioni di politica pacifica che non possono essere accolte senza una vera soddisfazione da noi italiani. Ma gli accordi stabiliti non accennano agli armamenti terrestri, e un telegramma della Stefani da Parigi ha annunziato[94] ieri che l’Argentina ha ordinato armi in Germania per ottanta milioni. Adesso è dunque doppiamente opportuno un esame spassionato dell’esercito argentino al quale sono inerenti gravi problemi finanziarî e politici. Oggi le spese militari aprono grandi breccie nel non florido bilancio dell’Argentina, e noi che abbiamo il più legittimo desiderio della prosperità della Repubblica, non possiamo disinteressarcene; e nello stesso tempo non possiamo disinteressarci dal conoscere fino a quale punto quell’esercito risponda alle condizioni di garanzia per la tranquillità e la sicurezza della Repubblica, che è la tranquillità e la sicurezza di tanti nostri connazionali.
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La probabilità d’una guerra risveglia in ogni pacifico cittadino l’animo d’uno stratega. Sorgono legioni formidabili di profeti militari, i quali muovono compatti le prime ostilità... al buon senso. Così per la possibile guerra fra il Cile e l’Argentina non mancavano critici militari che facevano ogni giorno la più abbondante distribuzione di vittorie e di sconfitte.
Nulla in verità è poi più difficile di un giudizio sopra una guerra come questa, nella quale ogni belligerante avrebbe da lottare con enormi difficoltà opposte dalle distanze, dalla conformazione territoriale di probabili campi di battaglia, dalla lunghezza sterminata delle linee di comunicazione, dalla impossibilità di regolari servizî logistici. L’inaspettato e la sorpresa avrebbero in una tale guerra una parte molto importante. Avevano torto coloro che prevedevano l’arrivo dei cileni sulla Plaza de la Victoria di Buenos Aires, come coloro che predicevano il bivacco degli Argentini per[95] le vie di Santiago. Le condizioni nelle quali si svolgerebbe una tale campagna, che sarebbe stata lunghissima e fortunosa, potrebbero togliere valore alla affermata superiorità dell’organizzazione militare cilena e neutralizzare i difetti della difesa argentina.
Ciò non toglie però che questi difetti esistano, e che a noi europei specialmente si rivelino con maggiore crudezza per il paragone che istintivamente facciamo fra questo esercito ed i nostri.
Il sentimento militare nelle nostre nazioni ha preceduto tutti gli altri, persino quello della nazionalità, perchè è nato prima che nascessero le nazioni. Noi siamo stati popoli essenzialmente guerrieri; ci siamo tagliati le nostre patrie a colpi di spada; la guerra è stata la più nobile delle nostre occupazioni—a torto o a ragione, non discuto—; per secoli abbiamo considerato la guerra come l’unica fonte di ogni onore; la nobiltà non poteva nascere che fra lo strepito delle battaglie, e per le battaglie è vissuta fino ad oggi. Portare la spada è stato un privilegio ambìto, e i segni di onorificenza che anche oggi rendono tanto fieri i nostri imbelli soprabiti borghesi non hanno origine che nella guerra. L’esercizio delle armi è stato da noi sempre riconosciuto come fra i più eletti, e l’esercito è divenuto poi oggetto di ogni onore e di ogni amore quando il popolo tutto è stato chiamato a combattere nelle sue file le più sante battaglie; l’esercito è divenuto tutta una cosa, tutta una carne col popolo.
Nell’America no; il sentimento militare è l’ultimo arrivato fra i sentimenti del popolo. Si è formata una società di politicanti, commercianti, industriali, agricoltori, la quale quando ebbe bisogno di un esercito se ne assoldò uno, come si assolda un guardiano, componendolo di tutti coloro che non avevano o non potevano far di meglio. L’on. Belin Sarmiento, deputato federale, nipote del grande statista argentino Sarmiento, in una pubblicazione fatta nel 1892, ci dipingeva i[96] soldati d’allora come « provenienti dallo scolo degli elementi sociali che non trova altra uscita, uomini indegni della vita civile, molti avventurieri, déclassés, indiani incapaci al lavoro e persino criminali ». Si comprende in quale considerazione nell’opinione pubblica doveva esser tenuto questo esercito e in quale disdegno per il militarismo sia cresciuto il popolo argentino. Dio mi guardi dal discutere se questo sia un bene o un male; se la mancanza del fardello delle tradizioni militari—dalle quali pur sgorga quello spirito di disciplina che compagina le forze e le volontà—renda realmente più leggero un popolo sulle vie del progresso. Constato dei fatti e nulla più. I nuovi popoli, anche senza il militarismo, pare che si odiino precisamente come i vecchi.
L’anima collettiva argentina, pronta sempre agli entusiasmi, alla presunta vigilia d’una guerra, inneggia all’esercito; ma nel sentimento individuale le diffidenze, le prevenzioni e la poca simpatia persistono, e ciò forma oggi il maggiore ostacolo alla buona organizzazione della difesa nazionale. Una legge sulla coscrizione militare è ora in vigore, ma i risultati non sono certo soddisfacenti, perchè non è penetrato nello spirito di tutto il popolo—e non lo potrebbe essere—il sentimento del dovere militare, perchè sottrarsi all’obbligo di far parte dell’esercito non è sempre considerato indegno e vergognoso, perchè chi può eludere la legge troppo spesso la elude senza che senta gravarsi intorno il disprezzo del popolo, che potrebbe essere il più potente stimolo al compimento del dovere. La legge è benigna, le autorità sono clementi, la rilassatezza e l’indifferenza generale sanzionano tutto.
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Due altri mali antichi affliggono l’esercito, e sono la politica e la speculazione—i due mali del resto[97] che rodono la Repubblica intera. Per la politica, l’esercito non è risultato uno strumento di difesa nazionale; il nemico esterno è stato perduto di vista nella preoccupazione del nemico interno.
Nella lunga serie delle rivoluzioni l’esercito ha sempre preso parte attiva con i suoi pronunciamientos, dimenticando il suo alto ufficio, e distruggendo a colpi di cannone la sua compagine.
Per la speculazione, l’esercito, divenuto campo di sfruttamento, è costato somme favolose, restando male equipaggiato e male organizzato. Nella citata opera del Belin Sarmiento trovo questo dato ufficiale: il costo del soldato argentino era nel ’92 di 2025 pesos all’anno; le cose non sembrano molto cambiate poichè, non contando la farraggine delle spese straordinarie, il soldato argentino costa oggi sui tremilaottocento franchi all’anno, cifra enorme se si pensa che il soldato europeo costa in media meno di mille lire all’anno. Come mai?
Non è facile immaginare il saccheggio della speculazione nei bilanci della guerra. Partite di cavalli e di muli pagate effettivamente la metà meno dei prezzi che figurano pagati (un fatto simile è stato denunciato il 12 aprile da due giornali), forniture di sellerie e di armi fatte a prezzi disastrosi, somme rilevanti passate in tramitaciones per ottenere contratti di forniture, ecc. A capo dell’amministrazione del Ministero della guerra vi è un « intendente di guerra », impiegato borghese. Ora, non tutti gl’intendenti sono stati di una regolarità scrupolosa; ve ne sono stati di quelli che hanno preso percentuali di discutibile legalità sugli affari di forniture e di altro, senza misteri, ritirandosi dopo due o tre anni con delle vere fortune. (È doveroso dire che il presente intendente di guerra gode fama di uomo onesto; ma certi suoi predecessori!...).
Il giornale El Diario, qualche anno fa, con una serie di articoli—che si è saputo scritti da persona assai[98] addentro in questioni militari—ha rivelato molti mali che bruttano l’esercito argentino. Pare persino che vi siano talvolta dei fornitori imposti « per ordine » ai colonnelli. Un colonnello che si rifiutò ad una tale obbedienza sarebbe stato punito inviando il suo reggimento a soffrire i rigori di cinque mesi d’inverno nelle regioni andine, senza equipaggiamenti e senza vestiario invernale!
L’esercito, come disgraziatamente tante altre istituzioni argentine, è stato considerato una specie di greppia, alla quale con un po’ d’influenza si poteva fare una mangiatina. E a furia d’influenze e di appoggi non è stato difficile a molti persino di ottenere le spalline. A questo si deve in grande parte se l’esercito argentino, composto d’un effettivo di 8691 uomini, ha l’onore d’essere comandato da ventisette generali (senza contare tutti i generali fuori di attività di servizio), da quattrocentoquattordici colonnelli, da duecentoquarantasei maggiori—notate la decrescenza—da centosettanta capitani, quattrocentocinquantasei tenenti e duecentosessantuno sottotenenti. Totale 1575 ufficiali in attività, fra i quali i colonnelli sono due volte e mezza più numerosi dei capitani, ed i sottotenenti quasi eguali in numero ai maggiori. Ciò significa un ufficiale per ogni cinque soldati... e mezzo.
È facile comprendere il valore di questa massa di comando. Eccettuati un quindici o venti ufficiali superiori, molti dei quali di sangue straniero, veramente colti e moderni, licenziati da scuole militari europee—e specialmente italiane—e un buon gruppo di giovani promettenti, il resto, nella buona maggioranza, sarà formato da eroi capaci di farsi ammazzare senza batter ciglio—e lo hanno qualche volta dimostrato—ma digiuni di scienza militare, e spesso anche... civile. È noto un vecchio colonnello che non sa nè leggere, nè scrivere. Firma col timbro, come Carlo Magno. L’uso della carta topografica risulta per molti antichi[99] ufficiali un vero rompicapo cinese, davanti al quale capitolano esclamando: Es mas practico el baequiano!—È più pratica la guida!
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Naturalmente i giovani, i moderni, si trovano in lotta con i vecchi. Formano il partito dei riformatori, capitanato dallo stesso ministro della guerra Ricchieri—di origine italiana—uomo di vedute ampie e di solida coltura, dal quale l’esercito aspetta salvezza. Ma i « giovani » sono alla loro volta divisi fra i « figli del paese » e gli stranieri ed i figli di stranieri!... Ne vengono continue polemiche, critiche acerbe che si trascinano sulle colonne dei giornali, con evidente nocumento della disciplina.
E questa benedetta disciplina sarebbe tanto necessaria in un esercito, che, come l’argentino, conserva ancora una parte degli elementi torbidi, dei quali parlava l’on. Belin Sarmiento, formata in maggioranza da indiani e meticci. Non bastano a mantenere la disciplina le crudeli pene corporali che si applicano con frequenza e spesso con eccessiva durezza.
All’indisciplina concorre in parte il regime di vita del soldato, la libera uscita che ottiene alla notte, durante la quale non di rado si ubbriaca. I soldati escono senza le armi, ma hanno quasi tutti il coltello infilato negli stivali, pronto ad uscir fuori quando il vino o la caña annebbiano la mente. Tornano al quartiere insofferenti del giogo disciplinare, stanchi, impreparati alle dure esercitazioni della milizia.
Un’altra causa d’indisciplina è la donna. Come il Creatore commosso dalla noia d’Adamo gli diede la donna, il Governo argentino ha dato la donna al suo soldato. Forse lo guidò l’idea d’evitare peggiori insubordinazioni,[100] a meno che non sia stato invece il legittimo e antico desiderio di aumentare la popolazione con i... « fils du régiment! » I reggimenti fuori della Capitale hanno cinquanta e quelli di Buenos Aires dieci, diciamo così... attachées militari, le quali vivono nel recinto della caserma, o a cinquanta metri dall’accampamento, seguendo i soldati ovunque.
Questa istituzione dovuta certo ad un resto di uso indiano—poichè le donne si trovano in tutte le armate primitive—portata nell’esercito argentino dai numerosi indiani che vi hanno fatto parte, è fomite di mali disciplinari, sui quali è degno sorvolare.
Molto gravi sono le conseguenze di tutte queste svariate cause. Il soldato argentino è generalmente capace di coraggio e di audacia, ma non ha sufficienti doti militari. Marcia pochissimo, e sarebbe appunto la marcia, in una guerra fra la Pampa, l’arma più formidabile. L’artiglieria, creazione nuova, libera dei tristi mali originali, è buona. La cavalleria non riceve quasi istruzione di maneggio, non conosce il servizio d’esplorazione, che sarebbe il suo primo còmpito, e questo avviene anche perchè, in un paese di cavalli, la cavalleria non ha sempre i cavalli! I reggimenti della Capitale, si può dire che siano i soli regolarmente montati; quelli ai confini normalmente sono... a piedi. Quando c’è necessità si manda loro una cavallata—una mandria—si montano, e via!
Il Commissariato è allo stato embrionale; i servizî logistici non sono organizzati. Le condizioni dell’esercito scemano il valore delle cifre nei quadri della difesa nazionale. Ai dodici battaglioni di fanteria, agli undici squadroni di cavalleria, alle sei batterie di artiglieria che comprendono 8691 soldati, si aggiunge la fantastica cifra di 438,894 uomini della Guardia Nazionale, ma tra mausers, remington e carabine non vi sono armi che per la metà circa, riducendosi così alla metà anche il valore numerico.[101]
L’Argentina deve preoccuparsi seriamente di questo esercito che le costa tanti e tanti denari, deve rintracciare le vere cause dei suoi mali e delle sue deficienze per sanarli.
E qui viene naturale il paragone fra l’esercito argentino e la marina. La marina, sorta da poco, non ha tabe originali, non ha sofferto per le vicissitudini delle ingloriose lotte politiche. Ha avuto una direzione omogenea ed una organizzazione senza troppi rimpasti, dovute alla mente del Rivadavia che fu molto coadiuvato dall’italiano Muscari. Per quanto anche qui si riscontrino errori e colpe di dolorosa memoria, tuttavia il progresso è rapido e sicuro. Una marina non s’improvvisa, perchè non bastano le navi formidabili quando mancano gli uomini da mettervi sopra: e la marina argentina ha bisogno ancora di tempo per creare tutti gli uomini che le necessitano, per non ricorrere, come ora, al personale straniero. Ma la strada che essa ha rapidamente percorso è certo una buona garanzia per l’avvenire suo.
Il paragone fra le forze di terra e quelle di mare ricorre molto sui giornali argentini. « Perchè—domandavasi giorni sono la Prensa—le nostre forze di terra decadono, mentre si migliorano invece le navali? »
Si potrebbe rispondere forse con le sue stesse parole:
« Perchè la marina ha la fortuna di stare in un campo dove non ci sono governatori, nè elezioni. La sua influenza si salva dal contagio corruttore della oligarchia, e può svolgere intanto le sue attitudini, e perfezionarsi! »
[Dal Corriere della Sera del 12 giugno 1902.]
Il popolo criollo, che si trova quasi estraneo alle assorbenti cure del lavoro, che ha a portata delle sue mani le facili ricchezze alimentate dalla inesauribile sorgente del lavoro straniero, che—con un’esagerazione che le teorie dell’atavismo giustificano—ha ereditato dai suoi padri spagnuoli insieme alle virtù della fierezza e dell’orgoglio anche i difetti della tendenza spendereccia, della manìa delle apparenze, dell’amore alle grandiosità—come ha ereditato dalle antiche madri aborigene la passionalità e la dolce mollezza—non poteva resistere alla piacevole malattia del lusso. « Il lusso sterile si è subitamente introdotto nei nostri costumi—ha scritto un saggio argentino—; ma la ricchezza male acquisita va lasciando dietro di sè molte rovine morali; poichè l’oro è come l’acqua d’un fiume, che desola e rovina se inonda subitamente, mentre porta in ogni dove la fecondità e la vita se giunge lentamente per mille condotti. »
In trenta anni o quaranta dalla tradizionale semplicità della vita campesina si è giunti al più assurdo lusso, assurdo perchè il meno sapiente, un lusso che[103] si è infiltrato a poco a poco in tutte le classi, che si rivela negli atti più semplici della vita, che è divenuto quasi una necessità. Nelle epoche dei grandi guadagni e delle speculazioni colossali, che sono così recenti e sembrano favolose, si sono create delle abitudini che resistono tuttavia, e resisteranno pur troppo fino a che sarà facile sacar plata—trovar denari—a chi ha il privilegio di vivere nell’immensa rete dell’intrigo politico.
Il primo sintomo caratteristico della malattia del lusso, lo straniero l’osserva appena sbarcato, prima di vedere e sapere nulla, niente altro che allo scorgere il modo con il quale l’argentino porta in tasca il suo denaro. Noi abbiamo la meschina abitudine del portafoglio che, se i borsaioli lo rispettano, serve a conservare i nostri biglietti di banca ben piegati e classificati. Qui il portafoglio per il denaro è una gretteria che fa sorridere di disprezzo fin l’ultimo almacenero; l’argentino porta la sua carta monetata insaccata nelle tasche dei pantaloni. Qualunque somma è portata così, come il fazzoletto. Per pagare si tira fuori un pugno di biglietti, se ne getta uno tutto spiegazzato al venditore con un’inimitabile aria di disdegno, e si ripone il resto con noncuranza nella solita tasca, picchiandoci sopra un colpetto per diminuirne il volume.
Questa strana ostentazione di disprezzo per il denaro, forma una caratteristica argentina veramente rivelatrice. È una questione di amor proprio, di orgoglio curiosamente sentito; in fondo è una contraddizione patente che costa molto e che forma da sola una delle principali spese di lusso. Non si guarda alla spesa purchè il gesto sia bello. C’è sempre una certa ricerca dell’effetto. Ho visto una sera in un caffè a Buenos Aires un giovanotto, un compadrito (teppista elegante), il quale, ferito alla testa da una bastonata consegnatagli da un suo buon amico, si asciugava la ferita con biglietti da un peso—i più correnti—che gettava[104] via insanguinati, e questo perchè non aveva un fazzoletto. Era sublime; ma certo quel bravo ragazzo avrebbe semplicemente domandato una salvietta al cameriere se nessuno fosse stato lì a guardarlo.
Al caffè, al restaurant, se si è in un gruppo di amici, è sempre uno che paga per tutti, per legge inviolabile. Si va al teatro in comitiva? Chi è più vicino allo sportello dei biglietti compera le poltrone, gl’ingressi, i programmi per tutti; e guai allo straniero che tenta il modesto rimborso. Il più umile impiegato della municipalità pone le mani in tasca con l’aria di un Grande di Spagna; salvo poi, tornando a casa solo, a fare i conti sotto un lampione di quanto costa la grandiosità.
Ho cominciato dall’accennare a queste minuzie perchè sono sintomatiche, e fanno già comprendere il carattere del lusso argentino. Non è il lusso d’un paese che col migliorare delle sue condizioni economiche sente aumentare i bisogni e si adatta progressivamente ad un maggiore comfort; il raffinamento della sensibilità in un popolo ha un processo molto lento, e la prosperità argentina sorse in pochi anni d’affari tumultuosi. È il lusso sterile di chi spende per spendere, per « figurare », di chi poco conosce il costo del denaro; ed è il lusso più pericoloso perchè non ha una norma fissata dal livello dell’intellettualità del popolo, la quale ha un limite, ma è invece regolato dall’ambizione e dallo snob che non hanno limiti.
La conseguenza principale—dal nostro punto di vista di stranieri cointeressati—è uno sperpero inutile d’enormi ricchezze, il quale fatalmente non può non indebolire le resistenze morali alla corruzione. Ricercando le cause dei mali argentini, per i quali tanti italiani soffrono, non possiamo tralasciare il lusso, e tutto quanto il lusso si trascina appresso, le cui conseguenze materiali e morali sono vaste e profonde.[105]
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Il lusso infesta tutti i campi, come una splendida ortica, e vegeta persino sul bilancio di Buenos Aires. La Capitale si comporta come una signora un po’ civetta, la quale comperi un cappellino che costa un occhio a chi.... lo paga, per la sola ragione che qualche amica ne ha comperato un altro. Si fanno boulevards perfettamente inutili perchè Parigi ne ha; si creano parchi e giardini dispensabilissimi per non essere al di sotto delle grandi capitali; si gettano milioni in un giardino zoologico, dove le scimmie abitano villini arabi e i leoni dimorano in tempî greci, solo per poter dire che il Zoo di Londra non è così bello; facendo un grande serbatoio d’acqua potabile si è voluto che la costruzione rappresentasse un grandiosissimo palazzo del rinascimento francese, tutto ricoperto di maioliche inglesi, spendendo due milioni e mezzo per la pura e semplice ornamentazione. Non si è mai pensato che tutta la popolazione dell’Argentina non arriva a cinque milioni e che un popolo di cinque milioni deve spendere un poco meno di quelli sette o otto volte più grandi; si è detto e scritto che Buenos Aires avendo quadruplicato il numero dei suoi abitanti in ventotto anni, « raddoppia di popolazione ogni quattordici anni », e non si è pensato all’assurdo di una tale premessa, secondo la quale fra cinquanta anni Buenos Aires dovrebbe avere dieci milioni di abitanti. Si è speso sempre basandosi sul fantastico, ipotecando un lungo avvenire, senza far mai i conti con le risorse del paese, ripetendo eternamente che il paese è vasto e ricco e che pagherà tutto. L’importante è che Buenos Aires mantenga il suo posto di « segunda ciudad latina[106] del mundo »—la prima, si sa, è Parigi—e poco preme che le finanze si rovinino, che i debiti crescano in proporzioni spaventose. Nulla importa purchè « il gesto sia bello »! La collettività fa lo stesso lusso dell’individuo, sterile, inutile lusso, in modo assurdo e sproporzionato alla potenza finanziaria del paese.
L’apparenza è tutto. Quel serbatoio d’acqua potabile diventa quasi un simbolo: il simbolo della esteriorità argentina. Un ricchissimo sfarzoso castello scintillante di ceramiche policrome, all’esterno; all’interno... acqua potabile!
Non si fa del lusso in proporzione a ciò che si è, ma a ciò che si vuol parere; lusso esagerato negli edifici, negli arredi, negli abiti, in ogni cosa. Non si ha idea, per esempio, delle somme che si spendono laggiù per le toilettes. La stagione dell’Opera viene preventivata venti o trentamila pesos nelle famiglie della buona società. Nei negozî principali di mode si ottengono delle rivelazioni interessanti sulle spese femminili. Conti di quaranta e cinquantamila pesos sono pagati correntemente dalle signore, cioè volevo dire dai mariti, dell’aristocrazia portegna. Tutto quanto è moda costa caro perchè tutto è importato. Parigi, questa fata morgana dell’Argentina elegante, assorbe per le sue mode e i suoi gingilli, in proporzione, due volte e mezza più di ricchezza dal Sud che dal Nord-America. Ah! quella Parigi si è fatta una gran clientela di repubbliche, esportando i diritti dell’uomo e poi i.... cappellini della donna!
Non parliamo di quanto si spende in feste, feste pubbliche, private, religiose, di beneficenza; non parliamo del lusso nei clubs, nei teatri, in ogni dove. Vi è in tutto questo qualche cosa d’una immensa mise en scene; si sente il fittizio.
Le spese eccessive portano un dissesto endemico nei bilanci domestici, che vengono a rispecchiare così il bilancio dello Stato in proporzioni ridotte. Lo sperpero[107] cieco del denaro conduce per conseguenza ad una caccia altrettanto cieca al denaro, la quale ha per forma più mite il giuoco. La questione del giuoco è così grave che ora tutta la stampa argentina unanime a grandi gridi ne invoca la estirpazione. Ma non è con dei saggi articoli di fondo che, specialmente ora, potrà svellersi la mala pianta del giuoco, i cui sottili viticchî, si può dire, avvolgono ogni anima.
La folla giuoca alla « loteria nacional »—che è una specie di lotto colossale—con un accanimento incredibile.
Le corse di cavalli offrono un altro sfogo alla manìa del giuoco. Vi sono a Buenos Aires sopra a trecento agenzie dette « casas de sport », specie di totalizzatori, dove tutti corrono a giuocare sopra i risultati delle corse che hanno luogo una volta alla settimana all’Ippodromo; e notate che queste « casas de sport » sono colpite da una tassa proibitiva di duecentomila pesos all’anno. Queste agenzie ricevono per ogni giorno di corsa 180,000 giuocate. 100,000 ne riceve il « Jockey Club » sul campo delle corse, e ciò porta ad un totale di circa mezzo milione di pesos per giornata, ossia ventiquattro milioni di pesos all’anno, eguali a sessantadue milioni di lire circa (giornale El Pais, 28 marzo). Sessantadue milioni puntati dalla sola Buenos Aires in un solo giuoco d’azzardo!
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Ma il giuoco che ha le conseguenze più disastrose per il paese è quello di Borsa. Alla Borsa di Buenos Aires si giuoca accanitamente. Le oscillazioni nei cambî prodotte dalla speculazione mettono spavento; si è visto il cambio dell’oro passare da 240 (ossia che ci[108] vogliono 240 pesos in carta-moneta per ogni 100 in oro), a 238, poi a 241 e infine a 246 tutto in uno stesso giorno. Immaginate quali liquidazioni! Questo giuoco si basa sulla politica. Durante la questione col Cile si sono visti dei gelosi segreti diplomatici immediatamente propalati e discussi sui giornali provocando rialzi dell’oro di molti punti. Quando un giornale pubblicava un bollettino speciale troppo allarmante, bastava fare alla Borsa un’inchiesta dissimulata per sapere che il direttore di quel giornale aveva comperato in quel giorno, per mezzo dei suoi agenti, quaranta o cinquantamila pesos d’oro. Ricordo che quando venne ritirato il ministro plenipotenziario Portela da Santiago, io, con un certo orgoglio di pubblicista bene informato, osservai ad un signore mio conoscente, il quale gode relazioni politiche, che sapevo la notizia dal giorno prima; ed egli mi rispose sorridendo:
—E io ero prevenuto quattro giorni fa!
—Impossibile!
—Ecco la prova—e mi mostrò il conto del suo agente di cambio che attestava la compera di non so quante decine di migliaia di pesos d’oro fatta precisamente quattro giorni prima.
La speculazione non ha limiti. Con una politica incerta e convulsa come in generale sono sempre le politiche americane, col desiderio smodato in troppa gente di profittare delle occasioni per il proprio interesse, e con l’aggravante d’una crisi che ha molto assottigliato l’adipe della nazione rendendola più vivamente sensibile alle variazioni economiche di qualsiasi genere, l’influenza della speculazione di Borsa così esercitata è veramente disastrosa. Si sa bene, pur troppo, che in tutte le Borse si specula, come del resto in tutti gli ippodromi si giuoca; ma sono la natura e l’estensione del giuoco e della speculazione che qui rendono il male spaventoso. Rovinati dai cambî, molti negozianti cercano di rifarsi sui cambî, giuocando e alla[109] Borsa di Buenos Aires vi sono nientemeno che quattromilacinquecento soci; una popolazione! Le grandi oscillazioni rendono più allettevole il giuoco; un solo colpo buono può essere una fortuna. Il giuoco poi per un fatale concatenamento mantiene grandi le oscillazioni. Sapendo le grandi somme che l’Argentina deve pagare all’estero, in oro, per gl’interessi dei prestiti non fosse altro, si comprende quanto il cambio fittizio fissato dalla speculazione sia rovinoso. Senza contare i disastri provocati da ogni liquidazione un po’ fuori della media prevista, senza contare la sfiducia e il discredito che vanno sempre più circondando nell’Argentina quanto è materia di finanza!
Che dire poi del giuoco vero, il giuoco classico e genuino che si fa intorno al tradizionale tavolo verde? Le bische sono innumerevoli. La città, i sobborghi, i paesi dei dintorni, i luoghi di villeggiatura e di bagni sono pieni di bische. Non ho cifre esatte sulle bische di Buenos Aires, ma si può immaginare quante mai potranno essere, sapendo che nella piccola città di Cordoba, la città detta la Santa e anche la Dotta, si conoscono quattrocentoventiquattro bische. In proporzione Buenos Aires dovrebbe averne diverse migliaia.
Sono queste bische che impensieriscono tanto oggi i Catoni della stampa, dei quali non pochi fanno come quel padre che, accorso in una casa di giuoco per sorprendervi il suo figliuolo scapestrato, e trovatolo ad un tavolo di baccarà, gli gridò con accento indignato:—Disgraziato, che fai? perchè, perchè... prendi carta sul cinque? Guarda come si fa—e si assise severamente al suo fianco.
La stampa non risparmia accuse veramente gravi e precise alle autorità che dovrebbero sorvegliare alla esecuzione della legge, la quale colpisce severamente le bische come le « casas de sport » con tasse proibitive. Ma chi ci bada? Il giornale Los Principios è[110] arrivato persino a denunziare un commissario di polizia come... proprietario di una bisca!
Quanti milioni non passano giornalmente sui tavoli da giuoco? Non dimentichiamo poi di aggiungere alle bische i clubs dove si giuoca tremendamente. Cito un dato: il Club del « Progresso » incassa per le sole tasse di giuoco, ossia per la sola vendita dei mazzi di carte—il cui prezzo può variare a seconda l’entità del giuoco fino a quindici pesos—incassa, dico, dagli otto ai dodicimila pesos al mese; ossia, in un club solo i giuocatori pagano più di centomila pesos all’anno (250,000 franchi circa) per i mazzi di carte. Quale disordinato spostamento di ricchezze non deve portare un tale giuoco nella società bonearense?
A poco a poco tutto tende a diventare giuoco, dalle imprese alla politica; la via del lavoro è sempre più schivata come mezzo per raggiungere la prosperità e la ricchezza, perchè è una via troppo lunga e aspra e difficile in confronto delle altre. Si spende rapidamente; è necessario guadagnare rapidamente. Ne viene uno squilibrio nelle manifestazioni della vita sociale. La compagine morale della società s’indebolisce: e guai quando si rallenta o cessa di funzionare quel potente regolatore delle azioni umane che è la coscienza!
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Fra i mali che sono causati dal lusso e dal giuoco ve n’è uno che a noi interessa di più perchè ha un’influenza diretta sulle transazioni di denaro e perciò sugli affari. Intendo parlare dell’usura. I saggi d’interesse sono normalmente alti nell’Argentina (l’interesse legale ipotecario è del 12%) per la richiesta di capitale dovuta al rapido sviluppo della produttività del paese,[111] ma ancora più per le diffidenze dei capitalisti, per i rischi provenienti dalla « indelicatezza » commerciale, ecc. Sono poi resi enormi quando a tutto questo si aggiunge la ricerca disordinata del denaro provocata dal lusso e dal giuoco.
L’usura diventa una cosa normale. Un’infinità di famiglie va avanti impegolandosi sempre più nei debiti in attesa della volada—un colpo di fortuna—o di una nuova pioggia di ricchezze, come nel ’90. Gl’impiegati che sono al corrente dello stipendio spesso lo scontano ai primi del mese; quelli che da mesi non lo possono ritirare vendono il loro credito verso il Governo la Municipalità per i due terzi o per la metà.
Nel piccolo prestito il 50% si chiama un interesse onesto. L’« interesse onesto » però non è comunissimo. Secondo le circostanze si vede applicato un tasso dell’80, del 100, del 200%. L’interesse si calcola a mesi, e si dice perciò modestamente il 5, l’8, il 10%. Ciò che in realtà è il 60, il 96, il 120%. Pullulano gli ufficî di prestito su pegni e su garanzie che fanno operazioni dal 4 ½ per cento in su (al mese, s’intende). Il male è così vasto che non si nasconde più. Si « opera » alla luce del sole. Si vedono degli avvisi agli angoli delle vie, sui giornali, nell’interno dei tramways, sui siparî dei teatri, che dicono: « Dinero! Dinero! Chi ha bisogno di denaro vada in via tale, numero tale, ecc., succursali in tutta la città ». Sono stabilimenti molto riconosciuti! La réclame applicata all’usura è l’ultima parola del progresso. L’usuraio diventa una persona per bene, un essere rispettabile e rispettato, bene accolto. Se ne incontrano per tutto, nei clubs, nelle Società e persino nelle redazioni dei giornali. Alla domanda: Chi è quel signore?—vi rispondono con indifferenza: uno strozzino—come vi dicessero un avvocato, un ingegnere, un dottore.
Vedremo, parlando dei nostri connazionali, la rovina[112] che l’usura porta nella campagna. Le sue conseguenze sulla prosperità generale sono evidenti.
Il lusso, il giuoco e l’usura formano tre anelli d’una stessa pesante catena che cinge le braccia della Repubblica Argentina. In essi troviamo ancora una ragione concomitante della gravissima crisi presente, e non certo la più lieve. E per questo male non v’è che una guarigione: il lavoro. Il lavoro domina le manìe dissipatrici.
Gl’italiani, nell’Argentina, sono generalmente tacciati d’avari. Essi conoscono troppo quanto costa il denaro per poterlo gettare, poichè lo pagano col sudore della fronte, che è quanto di più sacro e di più prezioso possa dare un uomo!
[Dal Corriere della Sera del 17 giugno 1902.]
Nel mese di aprile l’esodo di emigranti dalla Repubblica Argentina ha superato l’arrivo di 3032 individui, secondo le statistiche dalla Direcion de Emigracion. La differenza fra i partiti e gli arrivati sembra che aumenti di mese in mese in proporzione geometrica; il sintomo non è equivoco; l’Argentina è stata finora uno dei paesi che hanno assorbito la maggiore quantità di emigrazione europea, e debbono essere ben vaste e profonde le perturbazioni che oggi creano un tale rigurgito nella regolare corrente immigratoria che si era formata.
Questo solo fatto basterebbe a dare la misura delle gravissime condizioni della Repubblica Argentina, le cause delle quali abbiamo sommariamente e alla meglio rintracciato negli articoli precedenti, esaminando la politica, il governo, la giustizia, l’esercito e la società di quella giovane nazione.
A queste cause, che sono pur troppo permanenti, si aggiungono anche cause occasionali e transitorie—come ora la deficienza dei raccolti—le quali trovano[114] l’organismo della nazione già spossato, incapace di resistere, e producono danni enormi, come quelle malattie di stagione che non danno che un leggero malessere ai forti, e colpiscono a morte gl’indeboliti. Mi diceva un giorno il governatore Freyre—il quale è salito da poche settimane al Governo di Santa Fè con un programma largo di promesse—che « se ci fosse un buon governo nell’Argentina basterebbero soli tre anni di raccolto sopra cinque per star bene. » Anzi l’eccellente uomo—il quale naturalmente trovava che il suo governo faceva eccezione alla regola—dopo un istante di riflessione ha soggiunto che « due soli anni di buon raccolto ogni cinque sarebbero tuttavia sufficienti alla prosperità del paese. »
In fondo, salvo l’esagerazione ottimista che ogni uomo di governo prova in presenza di un giornalista straniero, egli diceva la verità. Le sciagure argentine vengono dagli uomini e non dal paese. Il paese è ricco.
È ricco; ma potrebbe paragonarsi ad una miniera d’oro in mano a gente inetta e dissipatrice, di una Chartered che sperperi, che amministri in modo disastroso, che sfrutti ciecamente la ricchezza, che faccia dei debiti enormi. Intorno alla miniera d’oro si finirebbe per soffrire la fame. E la fame si soffre ora nell’Argentina.
La responsabilità degli uomini che reggono i destini di quel paese appare più grave ai nostri occhi se si paragona ciò che è l’Argentina oggi a ciò che potrebbe essere; se la tristissima e squallida miseria alla quale centinaia di migliaia di stranieri sono condannati, si pone a confronto delle prosperità che quella terra avrebbe potuto dar loro, in meritato compenso dei sudori e delle virtù che vi hanno prodigato.[115]
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La prima ricchezza dell’Argentina è la vastità. L’Italia potrebbe esservi contenuta dieci volte; la Germania sei. Dalle regioni tropicali del Gran Chaco e di Missiones si svolge fino alle nevi eterne dello stretto di Magellano ed ai fiords ghiacciati della Terra del Fuoco; quasi tutti i prodotti della terra potrebbero esservi coltivati. Essa offre tutti i climi e tutte le altitudini. Le sterminate pianure delle Pampas, quell’oceano di terra, potrebbero offrire il grano per mezzo mondo. Gl’immensi fiumi Uruguay e Paranà, il Rio Colorado, e più giù nella Patagonia il Rio Chubut, il Rio Senger, il Rio Deseado potrebbero alimentare l’irrigazione di territorî sconfinati, e servire di via ad un immenso traffico fluviale che colerebbe nei porti marini per ripartirsi sulla terra. Nei boschi impenetrati del nord, quasi fuori del dominio umano, si celano i legni preziosi, il cautciù, la china, e nei boschi della estrema Patagonia e della Terra del Fuoco crescono gli abeti colossali e i pini che potrebbero essere la grande riserva dei legnami da costruzione del mondo. È vero che a dieci leghe da una ferrovia o da un imbarco il valore dei prodotti è assorbito dal trasporto; ma è anche vero che pochi paesi come l’Argentina si prestano a gettarvi attraverso delle strade ferrate, rapidamente e a buon mercato. Infine sulle pianure argentine pascolano ventidue milioni di buoi, quattro milioni e mezzo di cavalli, settantaquattro milioni di pecore. Pensate quale eldorado potrebbe essere questo infelice paese, dal quale tanti emigrati fuggono!
Quelle cifre hanno pur sempre un grande fascino per chi le considera astrattamente senza tener conto di tutte le circostanze che abbiamo esposto. Di quelle[116] cifre si parla all’estero, e non si parla del resto. Il quadro descrittivo dell’Argentina è sintetizzato così: due milioni e mezzo di chilometri quadrati, dei quali ottocentomila coltivabili, cento milioni di animali da pascolo e meno di cinque milioni d’uomini; è una ricchezza senza riscontri nel mondo. Tutto il resto appare transitorio; i popoli si modificano, i cattivi governi passano, gli uomini muoiono, e la terra resta con i suoi tesori inesauribili. L’avvenire dell’Argentina è fulgido e sicuro! Correte a prendere i primi posti o folle di emigranti! perchè indugiate? correte presto; e che importa se voi e anche i vostri figli morrete soffrendo prima che si alzi il sipario! Pensate alle future civiltà neo-latine, e correte....
È bello fantasiare sul futuro, ma noi non possiamo uscir fuori della vita attuale per mirarne la storia attraverso la seducente prospettiva dei secoli. Non possiamo fissare unicamente, impassibili, i lontani successi d’una guerra senza vedere nè voler vedere la infinita schiera dei caduti, senza sentirci chiamati dal disperato appello dei loro gridi, senza sentirci trascinati a lenire le loro sofferenze, sopra tutto quando si tratta di nostri fratelli, e la guerra è per altri paesi: e specialmente poi quando riconosciamo che le vittime cadono non per la fatalità ineluttabile, ma per le inettitudini e le colpe di altri!
Nell’Argentina bastavano i caduti nella conquista della terra selvaggia, nella tenace lotta contro la natura che difende strenuamente i suoi possessi incontaminati. I nostri lavoratori hanno forte il cuore come forti le braccia; essi accettano con l’animo lieto di speranza quella lotta pericolosa la quale porge poi bene spesso il conforto e il compenso del trionfo.
Ma tutti gli altri caduti? Tutti coloro che dopo anni ed anni di tenace lavoro debbono abbandonare la terra da essi vinta alla Pampa, flagellati dalla miseria che ha tolto loro persino gli attrezzi del lavoro, che li ha[117] sorpresi deboli e sfiniti, sfruttati e spremuti, alla prima avversità? Vedremo il seguito come da Entre Rios, da Cordoba, da Santa Fè, da ogni parte giungano le notizie della nera miseria di quegli infelici, che sono oggi più poveri di quando giunsero laggiù perchè non posseggono più il fatato tesoro della speranza.
Più volte nelle campagne ho incontrato piccole carovane d’emigranti, col volto logorato dalla sofferenza, curvi sotto il fardello dei cenci, e percorrenti così intere regioni per centinaia di chilometri in cerca di lavoro, domandando ricovero nelle capanne, arrestati spesso dalla sfinitezza, sferzati sempre dalla fame! Parlando particolarmente dell’emigrazione dovrò disgraziatamente intrattenere l’amico lettore su questi fatti, che sono mostruosi in un paese dove pascolano cento milioni di animali.
Cinquecento italiani disoccupati a Bahia Blanca hanno pubblicato un manifesto che dice: « Ci troviamo senza pane nella più squallida miseria. Molti di noi da due giorni non mangiano; le nostre mogli e i nostri figli hanno fame. Noi non chiediamo che della terra da lavorare!... ». Non è inesplicabile questo nel paese che ha quasi un milione di chilometri quadrati di terra che aspettano il lavoro?
Il numero dei disoccupati che veniva calcolato a centoquarantamila tre mesi or sono, ora si ritiene aumentato di un buon terzo a causa dell’inverno australe che porta anche in tempi normali un rallentamento in molti lavori. A Buenos Aires oggi i disoccupati sarebbero ottantacinquemila, secondo notizie degne di fede. A tanto è ridotta quella terra promessa, da tutti quei mali che conosciamo. L’immensa piovra della politica oligarchica la tiene sotto le spire dei suoi tentacoli, e le assorbe il sangue della ricchezza. L’Argentina ha dissipato molto più di quanto ha prodotto, fino a stremare alcune fonti della sua stessa prosperità, a indebolire la sua attività produttrice. Perchè in[118] fondo le ricchezze del suolo argentino, che sono immense, fanno pensare ad un tesoro chiuso in una cassa forte della quale non si è buoni a girare la chiave. Il tesoro c’è, ma non si può contare certo su di esso per un immediato sollievo. È inutile che l’Argentina sia sconfinata e varia; il ricco deserto oggi non conta che come un insieme di nomi e di segni geografici; l’Argentina vera sulla quale pesa tutta la miseria del presente è relativamente piccola, e non sorpassa i confini della parte sfruttata. Questa parte sopporta tutti i mali; e poniamoci bene in mente che ogni espansione rappresenta uno sforzo che il paese non potrà mai fare finchè non si sarà sollevato dalla prostrazione che lo accascia. È il problema del presente che s’impone dunque; esso si deve studiare fin dalle sue origini, e lasciamo le splendide fantasticherie dell’avvenire all’avvenire!
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I governanti argentini vedono le cose semplicemente: la produzione risulta insufficiente di fronte alle spese? Aumentiamo dunque la produzione. E come? Con nuova immigrazione. Così si assiste al curioso spettacolo del Governo argentino che chiede emigranti persino al Transvaal, mentre più di duecentomila operai nella Repubblica stessa domandano inutilmente lavoro.
Bisogna guarire prima! Le trasfusioni di nuovo sangue rendono forti i deboli ma non sanano i malati! Si faccia una diagnosi accurata della Repubblica Argentina.
I suoi debiti con lo straniero, debiti molteplici e complicati, si aggirano intorno a quattrocento milioni di pesos oro, ossia due miliardi di franchi; e con questo l’Argentina non è padrona delle sue ferrovie[119] che per una parte insignificante. Vi sono poi i debiti interni dello Stato, e i debiti delle singole provincie, i debiti dei Municipî, che formano un cumulo enorme di passività. Il pagamento degli interessi per i prestiti all’estero, più il pagamento dei dividendi dei capitali stranieri impiegati nel paese, rappresenta un impoverimento che il superavit attivo formato dalla esportazione sull’importazione—circa cinquanta milioni di pesos oro all’anno—non basta a compensare. Poi vi sono le spese ordinarie, enormi, sproporzionate, dato il carattere dell’amministrazione argentina; e vi sono le spese straordinarie; e gli armamenti. L’economia nazionale è caduta in uno stato d’acuta anemia. La produzione non ha trovato più i suoi compensi: i suoi sforzi poderosi sono fiaccati. Il peso delle imposte è divenuto troppo grave; e meno le imposte rendevano per l’impoverimento progressivo, e più sono state ampliate per la necessità dei bilanci. « L’imposta interna è esorbitante—scriveva l’8 di febbraio la Prensa, il più grande giornale argentino—e vi sono regioni da essa rovinate; la massa della popolazione la sente come un carico insopportabile, sempre più pesante ». Un sistema di protezionismo feroce ha colpito il commercio, che in nessun posto ha tanto bisogno della libertà massima quanto nei paesi in via di sviluppo. Scemati gl’introiti doganali si è aggiunto una percentuale alle tariffe: si sono create delle tasse d’esportazione. I rimedî sono peggiori del male; si fa dell’empirismo finanziario, il quale non impedisce che le entrate non corrispondano più esattamente alle previsioni. L’impoverimento ha un termometro quasi sicuro nel cambio dell’oro che è salito sopra al 240. Le produzioni sono colpite, il lavoro deprezzato. « Gli uomini i più intraprendenti e animosi non trovano un campo dove applicare le loro iniziative; parrebbe che l’Argentina vigorosa e piena d’energia sia stata trasformata in un paese estenuato, esaurito, avente appena[120] tanta vita da fornire lo scarso pane quotidiano. » (Prensa).
La crisi si allarga, invade tutto. « Chi non sente il disastro? Non v’è un solo fenomeno della multipla attività nazionale che non attesti la crisi. Nelle campagne come nelle città, nelle imprese agricole come nelle officine, nell’ufficio dei grandi negozianti, come nello spaccio del venditore, nella casa della famiglia benestante come nelle abitazioni dell’operaio, si sente lo stesso malessere, si parla con paura e con angustia delle penose difficoltà che vi sono per provvedere alle prime necessità della vita »—scriveva lo stesso giornale, che cito a preferenza, oltre che, per la sua importanza anche perchè è stato quello che più mi ha gridato la croce addosso per le mie prime lettere argentine. Si giunge al punto che mancano i fondi per pagare i piccoli stipendî. « Per la prima volta da venticinque anni »—scriveva El Pais, noto giornale portavoce del finanziere senatore Pellegrini—« si arriva al primo del mese senza che la tesoreria abbia i fondi necessarî per pagare gli stipendî dell’amministrazione. »
A Buenos Aires i pensionati delle amministrazioni restano otto mesi senza ricevere un soldo. Il Governo non paga talvolta nemmeno gli operai, che pure non hanno altre risorse fuori del loro lavoro. Vediamo gli operai del porto di Riachuelo—tutti italiani—rifiutarsi al lavoro perchè da due mesi non sono pagati. Lo sciopero ha per effetto il licenziamento immediato di molti, ma non certo l’immediato pagamento. Nello scorso mese di maggio centocinquanta italiani che lavoravano alla costruzione di caserme a Mendoza si sono posti in sciopero, perchè dal primo di gennaio non avevano ricevuto un centavo di paga, e vivevano di piccoli debiti caritatevoli fatti presso dei fornitori, trascinando una esistenza di miserie indescrivibili. Dopo alcuni giorni di trattative hanno ricevuto tre mesi di[121] paga e sono stati licenziati tutti. Il direttore dei lavori, un tenente, gridò ai soldati di cacciarli sulla via, e se resistevano di prenderli a bastonate—a garrotazos. Durante gli arrolamenti per la marina, fatti nel tempo delle ultime difficoltà diplomatiche col Cile, vennero contrattati qualche centinaio di macchinisti e fuochisti per la squadra, in massima parte italiani. Cessato il pericolo d’un conflitto, le navi passarono in disarmo e gli arrolati vennero sbarcati e congedati, ma senza pagare loro la mercede stabilita; una lettera sulla Patria degli Italiani del 30 marzo fa sapere che in quel giorno ancora non erano stati soddisfatti quegli impegni.
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E se questo fa il Governo centrale, figuratevi quello che fanno i governi provinciali. Nel febbraio passato il Governo della Plata doveva più di tre milioni di lire di stipendî arretrati; e s’intende di piccoli stipendî dovuti a stranieri, oppure a impiegatucci che per la loro situazione non hanno peso nell’organismo elettorale—come, per esempio, i maestri. I grossi stipendî corrono sempre, cascasse il mondo. E per parlare di maestri soltanto ecco qualche dato: i maestri di Salta debbono avere più di un anno di stipendio; quelli di Chacabuco, quattro mesi; quelli di San Juan, quattordici; quelli di Entre Rios, nove. A Paranà si è festeggiato un centenario; il corpo insegnante, invitato alle cerimonie, ha rifiutato per non avere vestiti.
I Municipî stanno peggio dei Governi. Il Municipio di Buenos Aires, in stato di semi-fallimento, e posto perciò sotto una specie d’ufficio di tutela, è divenuto quasi insolvibile per la massa dei suoi fornitori—quasi[122] tutti stranieri—molti de’ quali, visti i loro contratti violati, hanno inviato alla Intendenza di finanza una protesta, che è una vera requisitoria contro l’amministrazione. Gli spazzini municipali e tutti gli altri operai giornalieri, quasi tutti italiani, debbono avere quattro mesi di paga! Essi hanno inviato alla Patria degli Italiani una lettera che commuove tanto vi traspare l’orrore della loro situazione.
Da questi dati s’indovina il resto. Alle disastrose condizioni delle amministrazioni pubbliche fanno riscontro quelle delle amministrazioni private. I fallimenti si seguono continuamente; cadono dei colossi. Nella città di Mendoza, che aveva fama di essere fra le più prospere della Repubblica, in sessanta giorni hanno chiuso gli sportelli quattro Banche. Le lettere di credito subiscono uno sconto dal 25 al 40%. Tutti i commerci e tutte le produzioni sono più o meno in crisi; in Entre Rios, a Cordoba, a Santa Fè c’è la crisi agraria, a Mendoza e a San Juan la crisi dei vini, a Tucuman la crisi degli zuccheri. I suicidî aumentano; « il fatto caratterizza la crisi tremenda che attraversa la Repubblica »—ha scritto la Patria.
La tendenza purtroppo naturale a sfruttare il lavoro straniero, trova facile incitamento nelle ristrettezze finanziarie. In certi casi è stata negata agli operai la mercede pattuita, dopo lunghi mesi di pesante lavoro compiuto nelle estancias, sui campi, in qualche fabbrica di zucchero; e intanto quegl’infelici vivono di fame! Conosco varî di questi casi interessanti concernenti più di cinquecento operai; e dovrò tornare a parlarne diffusamente.
La Patria degli Italiani, giornale certo non sospetto d’idee sovversive, e nemmeno d’animosità contro il Governo argentino, scriveva il 12 aprile: « Noi riceviamo quasi ogni giorno dei lagni e dei reclami da parte di nostri umili compatriotti, che ci denunciano le ingiustizie di cui sono vittime, le frodi che[123] si compiono in loro danno da persone che calpestano le leggi, francheggiati dall’impunità loro garantita da autorità dimentiche dei loro doveri e destituite di senso morale. Noi vediamo non solo svolgersi un sistema di sfruttamento iniquo, ma violarsi altresì le leggi che dovrebbero garantire le mercedi. Così si commettono le più nere ingiustizie, così si ruba di bocca il pane a chi suda per guadagnarselo, così si perpetua uno sfruttamento infame delle classi lavoratrici. Noi non siamo disposti a renderci complici con un silenzio compiacente, il silenzio della stampa argentina più autorevole, di questo stato di cose, che è una ignominia per la Repubblica e che nessuna onesta penna deve tollerare. »
Ora nelle campagne migliaia di peones—braccianti—lavorano per la sola comida—il cibo—e che comida! In alcune colonie i contadini mancano di pane: a Sunchales, per esempio, ed a Sant’Agostino. Un corrispondente scriveva da San Luis alla Patria nel febbraio: « Se sono vere le notizie che arrivano, non solo i bestiami sarebbero morti per fame in questi dintorni—il che era noto—ma anche persone. Si ebbero casi di famiglie perite di miseria. » Se la notizia non era esatta era però, come si vede, tale da trovar credito, e fra le genti del luogo e a Buenos Aires, e sulle colonne dei giornali. Dalla stessa località arriva questa notizia: « la moneta ha completamente emigrato, e perciò il commercio funziona col sistema del cambio delle merci! » È un passo indietro verso le forme primordiali della civiltà.
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Tutto questo ci mostra quali sono le maggiori vittime del contraccolpo della crisi generale. Possiamo quasi dire che se tutto il male è argentino, gran parte[124] del dolore che esso provoca è italiano. Le masse degli umili, dei poveri—che sono disgraziatamente le masse dei nostri emigranti—pagano di borsa e di persona le spese di tanti errori.
E quale rimedio si escogita? Quello di fomentare nuova immigrazione! È come se per salvare una nave in pericolo si tentasse d’aumentare il numero degli imbarcati! La nave argentina è buona ed ha in sè la forza di salvarsi; ma è necessario che dal ponte di comando si veda la rotta, che si sondi il pericolo, si fugga dai paraggi torbidi e tempestosi. Il mare libero è là, infinito, luminoso, splendido, che invita a correrlo verso i lontani lidi d’una migliore civiltà, ai quali gli altri Stati volgono la prora in una gara sublime. Su via, una forte mano al timone, e si viri di bordo!
[Dal Corriere della Sera del 22 giugno 1902.]
San Jacinto de Mercedes (Argentina).
Sono arrivato a Mercedes di notte, dopo tre ore di ferrovia a traverso una campagna ignota, della quale nel buio intuivo l’immensità uniforme, come si sente l’immensità del mare navigando nell’oscurità e nella calma.
Nel compartimento, pieno di ricca gente di campagna che tornava all’estancia dagli affari di Buenos Aires, si fumava e si gridava. Con una vivacità tutta argentina, la discussione s’era fatta generale; la crisi delle lane, la chiusura dei mercati inglesi ai bestiami argentini, la questione cilena, la guerra boera, fornivano argomenti inesauribili. Ogni tanto dai finestrini spalancati entravano dei buoni soffî di vento fresco, ristoratore, impregnato del sano odore del fieno, che dissipavano il fumo azzurro delle sigarette e, come per incanto, sedavano le conversazioni. Pareva che dalla campagna arrivassero delle folate di silenzio. La discussione talvolta nasce dal caldo come una fermentazione di parole.[126]
Di tanto in tanto, in mezzo all’oscurità, avanti a noi, lontano, scorgevamo gruppi di luci verdi e rosse, i quali facevano pensare a piccole e strane costellazioni cadute sulla terra. Il convoglio vi arrivava in mezzo sbuffando. Erano stazioni perdute nella solitudine. Sembravano inglesi, per la costruzione, e talvolta anche per il nome, come Cowland, Open Door.
Durante le fermate si udiva il trillo dei grilli—quel rumore che nulla toglie al grande silenzio dei campi addormentati—sonoro e ritmico come un tintinnìo lontano di sonagliere agitate da cavalli stanchi d’un viaggio senza fine.
Poi, Mercedes. Una stazione più grande delle altre circondata da colossali eucaliptus neri, dalle foglie inquiete perennemente come quelle dei nostri pioppi. All’uscita, delle vetture in fila che ricordano le nostre antiche diligenze, dei ragazzi creoli che si precipitano sulle valigie, dei cocheros che offrono il loro coche anche per l’indomani, per il dopodomani, per qualsiasi tempo e momento, per la città e per il campo. Poi una cittadina dalle vie ampie e sterrate e dalle case minuscole e bianche. Finalmente l’albergo, un antico albergo, con le camere a pianterreno in giro a un patio fresco e delizioso tutto ornato di piante. Quest’antica architettura criolla dà alla casa una dolce aria d’intimità. È una delle cose migliori che la Spagna abbia lasciato quaggiù; ed è una cosa araba!
Alla mattina alle cinque un coche mi portava a gran trotto verso San Jacinto, una delle più belle estancie della Repubblica.
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Un viaggio delizioso. L’aria fresca del mattino mi batteva in faccia nell’impeto della corsa portandosi via tutte le tristezze che la città lascia sempre addosso.[127]
La campagna si svolgeva intorno a me, tutta piana come un mare. Sulla cima delle alte erbe la brezza spingeva verdi ondate, che fuggivano via rincorrendosi con allegro fruscìo. Intorno intorno si levavano isole di eucaliptus, di pioppi americani, di acacie, che ombreggiavano i puestos, le capanne dei pastori. Sul verde mandrie di buoi, mandrie di cavalli, mandrie di pecore, di guanachi, di nandù, tutta una popolazione pascolante, sparsa e immobile da far credere che fosse cresciuta su dalla terra come i cardi giganteschi che costellavano i pascoli.
Da ogni parte recinti di fil di ferro: centinaia di miglia di filo di ferro—d’alambrado, come si dice qui—che sostituiscono la nostra bella siepe. L’alambrado e il primo lavoro umano sui campi vergini, è la presa di possesso. Molte proprietà non consistono ancora che in terra selvaggia e alambrado tutt’intorno.
Questo recinto raddoppia il valore della terra; in alcuni luoghi il recinto costa più della terra a cui serve da limite. Il ministro d’agricoltura diceva giorni sono ad un amico che il filo di ferro dei campi argentini basterebbe a pagare i debiti provinciali, ciò che significa che è un valore fantastico.
L’aria era piena d’un festoso pispiglio d’uccelli che a nuvole si levavano al passaggio della vettura, e in tale quantità da mandare in visibilio un cacciatore. Viudes dal petto rosso come un rosolaccio, canarini che si confondono con le stoppie giallastre, pernici dal volo rumoroso, gabbiani di terra schiamazzanti, e fenicotteri e trampolieri d’ogni razza immobili sull’orlo dei fossati e dei pantani, gru in fila come soldati, ferme sopra una zampa e meditative, grosse cicogne dall’elegante volo dritto e lento, civette che a gruppi di tre o quattro corrono a posarsi in cima ai pali dell’alambrado per inchinarsi grottescamente quasi salutando chi passa, aironi dal ciuffo, neri e bianchi da sembrare in marsina. E tutto un mondo di uccellini[128] che non conoscono ancora la persecuzione e non temono l’uomo, che si allontanano quanto basta per non rimaner schiacciati, che si posano a sciami, come le mosche, sulle pazienti schiene dei buoi e delle pecore per nettare il becco sul pelo lucido o per cercare i semi rimasti fra la lana. Vi è tanta cacciagione che la caccia è quasi sconosciuta. In alcuni luoghi le martinette—specie di pernici—sono uccise dal gaucho a colpi di bastone; il fucile è inutile.
La via correva dritta fra due recinti di filo di ferro, interminabile, grandissima, accidentata, piena di erbe e di sterpi, di viottoli, di fossi, di pozze. Le vie nell’Argentina non sono—quando ci sono—che striscie di campagna, sulle quali è permesso di passare. La vettura al gran trotto dei suoi quattro cavalli tirava dritto su tutte le asperità della via, a urtoni, sobbalzando, inclinandosi dalle parti, dandomi la perfetta illusione di viaggiare sopra un affusto d’artiglieria lanciato alla posizione.
Il vento sollevava la giubba del cochero lasciandomi scorgere il suo grosso coltellaccio gaucho dal manico d’argento cesellato, infilato alla cintura sulle reni, e la rivoltella sul fianco. Ma il mio uomo aveva una faccia bonaria d’indio mansueto che contrastava singolarmente col suo armamento. Si volgeva ogni tanto a darmi delle indicazioni minuziose, pensando forse che più le indicazioni sono minute e più la mancia invece è grossa.
—Este puesto se llama La Bella!
—Perbacco!
—Si, señor, y aquel humo blanco è un treno della ferrovia del Pacifico.
—Guarda, guarda! E San Jacinto?
—Ci siamo da un’ora sui terreni dell’estancia; San Jacinto è a dodici leghe, señor![129]
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Dodici leghe, s’intende dodici leghe quadrate. La lega è venticinque chilometri quadrati. Questa forma l’unità di misura delle grandi proprietà. Dodici leghe vuol dire 300 km. q. Ma un’estancia di dodici leghe non è una grande estancia. Il proprietario di San Jacinto, un argentino dei più ricchi, possiede ancora un’estancia di ventotto leghe, un’altra di sessanta leghe, un’altra nel sud, di cento, e infine una piccola e miserabile proprietà di nove leghe. Egli è il sovrano di un regno di cinquemiladuecentoventicinque chilometri quadrati. Non è facile il farsi un’idea esatta di queste proprietà. Si viaggia per giorni sempre sulle terre d’uno stesso padrone, talvolta. Per girare tutta l’estancia di San Jacinto ci vogliono quattro giorni di cavallo, e qui i cavalli non vanno che al galoppo. Pochi proprietarî al mondo possono aver la soddisfazione di constatare, girando l’occhio sull’orizzonte senza confine: È tutto mio!
Un’estancia è un piccolo Stato con governo assoluto. Il mayordomo è il governatore generale; il capataz—colui che trasmette gli ordini—è il primo ministro; i gauchi e i pastori sono i reggenti e i commissarî delle piccole provincie. Il popolo poi, numeroso, buono, pacifico, un popolo ideale che si lascia mungere, vendere e ammazzare senza una protesta, è formato dalle mandrie innumerevoli. San Jacinto ha centodiecimila abitanti: trentamila buoi, sessantamila pecore, ventimila cavalli, senza contare qualche centinaio di cavalli da corsa allevati con tutte le cure, che formano la nobiltà. Vi sono pure delle classi elette anche fra i bovini e gli ovini, discendenti d’illustri famiglie inglesi, che vivono fra le comodità e gli agi; ma di[130] fronte alla vera nobiltà dei cavalli non possono considerarsi che come dei parvenus! formano la grassa borghesia. E non manca neppure l’elemento sovversivo, senza dimora fissa, insofferente dei freni governativi e che dove arriva distrugge. È rappresentato dagli struzzi americani, i nandù, che fuggono rapidamente di fronte alle autorità costituite. Ma ciò non toglie che all’epoca buona per la riscossione dei tributi non vengano tutti regolarmente pelati delle loro belle piume. E tornano poi nudi alla loro vita sovversiva, con l’aria spaventata di grossi tacchini fuggiti dalle mani del cuoco.
Il guanaco, questo curioso campione della fauna americana, grande come un puledro, mezzo pecora e mezzo dromedario, è il filosofo della razza ruminante. Vive sempre solo, osservando freddamente il mondo dall’alto del suo lungo collo flessuoso che par fatto apposta per dominare la pianura, per porre gli occhi in vedetta di fronte all’immensa distesa della Pampa. Nulla lo scuote dalla sua vita pensosa. Se l’uomo l’avvicina, non fugge; lo guarda venire, freddo, immobile, indifferente; poi quando se lo vede da presso, improvvisamente gli lancia uno sputo rumoroso dalle narici, aperte in mira come le bocche d’un fucile da caccia. Non è certo una difesa; è un segno di disprezzo. Il grande filosofo guanaco pensa: Tu, o uomo, mangerai le mie costolette, è indubitabile, ma io ti disprezzo profondamente, ed eccone la prova. E mentre il re della creazione se ne va tutto umiliato, il superbo animale torna a piombarsi negli abissi ignoti delle sue meditazioni di bestia riflessiva.
Così vivono la loro libera vita gli animali della prateria. Essi sarebbero ben fieri se sapessero di formare la più grande risorsa della Repubblica Argentina, e se sapessero di essere quasi ventitre volte più numerosi degli uomini.
Centodiecimila animali in una sola estancia; questo[131] dà un’idea dell’importanza degli allevamenti argentini, e anche della poca divisione della proprietà. La pastorizia è l’unica industria veramente argentina, e forse la più lucrosa perchè richiede il minimum di lavoro, e perchè le crisi e le tariffe non hanno una influenza diretta sul suo sviluppo. Le bestie tranquillamente s’ingrassano e si riproducono sotto qualunque governo, e persino durante le rivoluzioni. I loro nemici sono soltanto la siccità che le affama e l’inondazione che le affoga. Nel ’900 nella provincia di Buenos Aires sono morti affogati sopra a mezzo milione di capi di bestiame.
La concorrenza degli allevatori nord-americani ed australiani ha indotto i principali estancieri argentini a modificare i loro antichi sistemi. Gli allevamenti si fanno ora non più sulla terra vergine, ma su quella per molti anni solcata dall’aratro perchè l’erba vi è più molle e più folta. Parte delle estancie perciò sono date in affitto o a mezzadria per la lavorazione. Questa temporaneità del lavoro campestre, sia detto di passaggio, non giova certo all’avvenire dell’agricoltura in varie provincie, al quale avvenire è intimamente legata la sorte di tanti nostri emigranti. Fortunatamente l’allevamento, migliorandosi la terra, ha bisogno di meno spazio. Oggi si comprende poi che la qualità ha maggior valore della quantità. S’introducono a migliaia i riproduttori inglesi e si studia di migliorare le ossute e cotennose razze criolle con l’incrocio dei shorthorns, dei durhams, degli herefords per i bovini, degli hampshires, dei leycesters, dei rambouillets, dei lincolns per gli ovini, e delle migliori razze di cavalli da corsa, da tiro, da sella e da lavoro.
L’esportazione di bestiame ha raggiunto una media di mezzo milione circa d’animali all’anno. Parola d’onore, di fronte a questa cifra ci sarebbe da stupire della crisi argentina e delle profonde miserie di quella Repubblica, se non si conoscesse che razza d’amministrazioni[132] pubbliche vi sono, che governi si succedono al potere, e che giustizia vi regna.
Uno studioso di scienze economiche che conosce profondamente le finanze della Repubblica, mi diceva un giorno: Se si fosse dovuto studiare a bella posta uno speciale sistema di governo e di finanza per rovinare questo paese, non si poteva far di meglio che applicare i sistemi che sono stati applicati!
***
San Jacinto è arrivato improvvisamente, tanto più che tali profonde meditazioni politico-finanziarie mi avevano conciliato un sonno non meno profondo. Mi sono svegliato all’ombra di enormi eucaliptus fiancheggianti un bel viale. Da una parte, fra i tronchi, vedevo una distesa di giardino, fra il cui verde appariva una villetta rosa, una di quelle villette americane basse e irregolari, così simpatiche e ospitali con le loro verande, le loro balaustrate fiorite e i loro patios freschi come cortiletti di convento. Come certe fonti pare che invitino a bere, così queste case criolle pare che invitino ad entrare. Fra gli alberi, lontano, gruppi di casette, anch’esse color rosa, scuderie a fascie rosse e bianche, tettoie, una chiesuola dal campanile acuminato. Due gauchi a cavallo hanno traversato galoppando il viale, lontano, fra nembi di polverone.
Un gentiluomo in reding-dress seguito da due grossi mastini inglesi è comparso sul viale al rumore della vettura, e mi è venuto incontro sorridendo. Era il capo dell’estancia, il governatore generale di San Jacinto e del suo popolo mansueto.
Io lo credevo un estanciero criollo; e immaginino i lettori la mia gioia quando mi sono sentito dare il benvenuto nel più puro idioma bolognese. Ci siamo salutati con effusione.[133]
—Domani—mi ha detto mentre mi conduceva nella casa—visiteremo l’estancia, nelle ore fresche del mattino. Lei cavalca?
—Come un centauro... se il cavallo è molto docile.
—Bene, allora domani all’alba in sella.
E si è allontanato per dare degli ordini. Io mi sono gettato sopra un molle pliant; avevo ancora negli occhi la gran luce, e tutto mi appariva avvolto del seducente velo d’una tenebre misteriosa; il silenzio assoluto e solenne della campagna sotto il sole cocente mi dava il senso d’una sordità dolcissima. Il riposo era così completo, che io l’ho assaporato lungamente, centellinando da buongustaio!
[Dal Corriere della Sera del 25 giugno 1902.]
San Jacinto de Mercedes.
Il mio ospite, questo estanciero bolognese che mi fa gli onori di casa della campagna americana—un simpatico tipo da romanzo, uno di quegli avventurosi eroi alla Ohnet che ritrovano in una esistenza di rude lavoro la ricchezza perduta per una gioventù spensierata e mondana—, mi dice di amare molto la sua vita di solitudine selvaggia. E io lo credo bene.
Egli ha conosciuto troppo la società per non preferire l’isolamento. Ha vissuto troppo fra gli uomini per non amare le bestie. La bestia ha sull’uomo questo vantaggio, che è infinitamente più buona. La cattiveria è una prerogativa umana, e l’uomo domina più perchè cattivo che perchè intelligente.
Basta viverla un po’ questa vita dell’estancia per sentirne tutto l’incanto. Non c’è nulla: comodità poche, varietà nessuna, un orizzonte infinito e monotono, un silenzio perpetuo. È che il godimento non viene dai beni presenti, ma dai mali assenti. È un po’ la gioia del perseguitato che si sente libero in un asilo tranquillo—e ogni uomo nel consorzio dei suoi simili è sempre un perseguitato più o meno.[135]
Pensavo queste cose stamani galoppando come un pazzo per la campagna, nell’ora gloriosa dell’alba. Il primo raggio di sole dorava le cime delle alte erbe ed i calici spinosi dei cardi colossali, mentre in basso, raso terra, persistevano le ultime ombre violastre, come un rimasuglio della notte. Intorno a me si levavano a nuvoli gli uccelli schiamazzando. I cani del mio ospite mi seguivano abbaiando festosamente. Ieri mi hanno accolto ringhiando, ma, dopo avermi annusato con diffidenza e riconosciuto all’odore per un buon diavolo, hanno sollecitato le mie carezze mugolando con l’aria di chiedermi scusa. Ora sono miei grandi amici.
Disseminate per la pianura erano piccole mandrie di buoi, dalla schiena fulva e lucida, pascolanti tranquilli. Due gauchos sopraggiunti di galoppo hanno cominciato a percorrere il campo mandando un grido strano, un ahooo! lungo e gutturale. Li ho veduti sparire lontano, fra le erbe, con le camiciole svolazzanti nella foga della corsa come blouses di fantini: poi sono tornati al loro galoppetto criollo, silenziosi e tranquilli.
Stavo chiedendomi la ragione di quella corsa, quando ho osservato una cosa strana. I buoi ai gridi dei due uomini hanno cessato dal pascolare, levando il muso come per ascoltar meglio; poi si sono messi in cammino, lentamente, senza fretta, da bestie che sanno il fatto loro, ruminando per non perdere il tempo. Ecco che in un minuto tutte le mandrie sono in moto, sfilano attraverso il campo da ogni parte dirette ad un punto lontano, una radura senz’erba, dove s’adunano. È una specie di meeting di buoi; arrivano, si fermano placidamente e aspettano. Dopo poco tempo ve ne è una folla di migliaia.
Il mio ospite, che mi ha raggiunto, mi spiega che il luogo del convegno si chiama rodeo, che i buoi li si aduna per « lavorarli », ossia per scegliere i migliori,[136] per selezionare i malati, per esaminare le loro condizioni, per esporli ai compratori. Ma nessuno potrà mai spiegare l’obbedienza spontanea di questi animali, che vivono nella completa libertà, al grido d’un uomo. È uno dei più curiosi spettacoli che io abbia mai veduto. I cavalli dei reggimenti accorrono ai segnali di tromba perchè sanno di ricevere la biada; un’obbedienza interessata. Ma al rodeo queste povere bestie non ricevono nulla; per accorrervi anzi lasciano la colazione a mezzo. L’abitudine spiega poco e l’istinto meno. Cosa diamine passa per la mente d’un bue quando il gaucho grida il suo ahooo!?
***
Questa volta i buoi sono stati adunati per scegliere fra loro i più grassi destinati ad essere imbarcati per l’Africa Australe. I gauchos a cavallo entrano fra l’enorme mandria, e col petto della cavalcatura, addestrata a tale lavoro, spingono fuori il bue scelto, che appena libero dai compagni, spaventato dagli urti, prende la fuga. Il gaucho stringendolo col cavallo a destra o a sinistra ne regola la direzione; quando lo ha condotto lontano in un luogo prestabilito, lo abbandona. Il bue s’arresta, e si volge tranquillamente a vedere il suo persecutore che si allontana, mentre altri buoi sopraggiungono sbuffanti a riunirsi ad esso, formando a poco a poco la mandria dei grassi sfortunati.
Un grande bue fulvo si ribella. Balzato fuori dalla mandria, abbassa la testa pesante e fugge pazzamente, con la coda sollevata, muggendo, lasciandosi indietro l’uomo.—El lazo! El lazo!—gridano i gauchos[137] precipitandosi alla caccia. Il bue compie un giro cercando di raggiungere il verde pascolo, e passa vicino a noi, terribile, con la bocca aperta e bavosa, la lingua di traverso, gli occhi sanguigni. Stormiscono gli sterpi sotto i suoi passi pesanti e precipitosi, e lascia dietro di sè tutta una treccia di erbe abbassate e di cardi spezzati, come una valanga nera e ruggente. I gauchos lo rincorrono, curvi sull’arcione. Agitano in aria il lazo che sibila roteando. Il primo laccio è lanciato; si svolge per l’aria come un serpentello lungo e sottile, e cade sulla testa del bue. Ma il nodo scorsoio non ha fatto presa; il bue scuote il capo correndo e si libera. Un secondo laccio parte col grande nodo aperto. Il bue afferrato improvvisamente per il collo si arresta; salta con la schiena ad arco; tempesta la terra con le zampe poderose, mentre dalla gola strozzata dal laccio gli esce un ululato terribile, lungo e lamentoso. Un altro lazo destramente lanciato gli afferra le zampe. Il bue cade agitandosi, si risolleva terribile, ricade. È legato da quelle sottili corde di cuoio come Gulliver dai fili dei lillipuziani. Il furore cede al terrore. Tenta di liberarsi con un ultimo supremo sforzo, e resta in ginocchio, immobile, sbuffante col pelo irto, con la testa bassa sul gran petto ansimante, la bocca bavosa, mandando ad intervalli un muggito disperato che sembra il pianto mostruoso di un gigante vinto.
A questo punto il mio amico mi grida: Guardate, guardate gli altri! e mi accenna le mandrie. Tutti i buoi assistono alla lotta, attenti come gli spettatori d’una plaza de toros. Non ve n’è uno che non guardi. I più lontani sollevano il muso per veder meglio, e lo appoggiano dolcemente sulla groppa del vicino. Qualcuno si fa strada a forza fra i compagni per giungere alla prima fila, e lì si arresta, col collo teso, i grandi occhi fissi, attenti e meditativi. Sotto la selva delle corna sono migliaia d’occhi curiosi, che esprimono[138] una meraviglia calma e dignitosa. Quando il bue domato entra nella sua mandria, ancora tutto fremente, col muso rigato dal sangue che cola da un corno spezzato, i compagni lo circondano premurosamente, lo annusano, lo fiancheggiano e lo seguono, quasi per fargli coraggio, per recargli il conforto delle loro simpatie e della loro solidarietà. La povera bestia si rifugia nel centro del gruppo, accompagnata da un vero corteggio.
Nessuno ha mai pensato a studiare la vita di queste grandi società bovine: il bue sembra un animale completamente noto, e non è vero. Lasciato libero forma delle tribù, ubbidisce a dei capi, segue delle leggi che noi non conosciamo; ha delle speciali manovre d’offesa e difesa contro i nemici comuni; sottomette poi tutta la sua organizzazione sociale al supremo controllo dell’uomo per ragioni misteriose.
Il cavallo è certo molto meno intelligente. Il cavallo libero ha per maggiore caratteristica la paura. È più timido di una gazzella. Non è possibile avvicinare una mandria di cavalli senza provocare ciò che qui, con un vocabolo pieno d’espressione, si chiama disparada. La disparada è una fuga frenetica. Uno spettacolo superbo.
***
Quando ci siamo diretti, dopo un galoppo di qualche ora, verso la parte dell’estancia destinata all’allevamento dei cavalli, ero già prevenuto. Al nostro appressarci alla prima mandria tutti i cavalli hanno sollevato la testa nella espressione di « all’erta » con le orecchie dritte e immobili. Poi, quando siamo stati[139] a cinquanta passi, e potevamo scorgere perfettamente le forme gentili di questi cavalli criolli, che pare conservino ancora un po’ del sangue dei loro padri arabo-spagnoli, è avvenuta la disparada. Quei due o trecento cavalli si sono precipitati ad una fuga furibonda.
Andavano tutti uniti; facevano pensare ad una carica di cavalleria senza i cavalieri. Non abbiamo più veduto che una moltitudine di schiene dai lombi contratti nello sforzo d’un furioso galoppo, uno sventolamento di criniere e di code. I cavalli hanno fatto dei pazzi giri per la pianura, giri capricciosi senza ragione apparente, fino a che si sono calmati e hanno ripreso a pascolare lontano lontano.
Queste fughe di cavalli sono pericolosissime per chi si trova sulla loro strada. Il cavallo spaventato è cieco; investe qualunque ostacolo. Il gaucho sorpreso da una disparada non ha che una via di salvezza: fuggire nella stessa direzione; unirsi alla mandria. Succede allora talvolta che egli perde il controllo della sua cavalcatura, ripresa dall’istinto selvaggio, e deve seguire la fuga capricciosa fino alla fine, prigioniero di quell’uragano di bestie. La disparada era la più terribile arma degli indiani contro le truppe argentine. All’appressarsi dei soldati adunavano tutti i loro cavalli in grandi mandrie, poi, al momento opportuno, gridando e sventolando il poncho provocavano la fuga nella direzione dei nemici. Non vi era salvezza; la disparada rovesciava e calpestava compagnie intere.
Nella Pampa lontana e deserta avvengono talvolta delle fughe di cavalli, causate dalle punture dei mosquitos. Comincia una mandria a fuggire, verso la direzione del vento, per liberarsi delle nuvole di insetti che la tormenta. Ad essa altre se ne aggiungono, ed altre ancora. Si forma un esercito di cavalli che passa come un ciclone sollevando immense colonne di polvere; lo scalpitìo, simile al brontolare lontano della[140] bufera, si ode da lungi e il gaucho che lo conosce bene fugge ventre a terra per assistere al passaggio di quella fantastica emigrazione dalla maggiore distanza possibile.
***
Entriamo nei corrales, i grandi recinti dentro i quali si chiudono i cavalli selvaggi per gettar loro il lazo. Un bel puledro è stato afferrato col laccio alle gambe e al collo. Sei gauchos saltati di sella tentano di tenerlo fermo, tirando le corde. Il cavallo rantolante per la gola serrata s’impenna, impunta le gambe appaiate dai lacci e trascina a tratti gli uomini con un moto pauroso del collo. Il domatore, un giovane bruno i cui lineamenti tradiscono il sangue indiano, vestito nel tradizionale costume della pampa, la camiciola ricamata e il chiripà rimboccato alla cintura come la vestaglia degli arabi, si appressa cautamente sostenendo l’ampio recado, la sella gaucha. Il recado è tutto il patrimonio del gaucho. È formato da un po’ di ogni cosa; vi è una coperta, un poncho, una pelle di guanaco: durante i riposi diventa letto, diventa sedile, diventa tetto. Il recado è la casa dell’uomo della prateria. Ogni cura egli pone nell’abbellirlo, nell’aggiungervi ornamenti d’argento, staffe di corno intagliato, nastri colorati, fiocchi di seta; il recado è il suo orgoglio.
Il domatore tocca con la mano carezzevole il collo dell’animale, che dà un balzo, fremendo, quasi pieno di orrore e di disgusto più che di paura; il disgusto di un sovrano prigioniero che si senta toccare da mano plebea. I lacci si tendono nello sforzo unito dei sei[141] uomini; in questo momento la sella scivola dolcemente sulla groppa del cavallo. L’animale si getta a terra in un parossismo di furore.
Gli uomini gli si precipitano addosso. È una lotta di pochi istanti, dopo la quale il cavallo scalpitando si leva in piedi, completamente bardato, il suo muso sporco di polvere e di sangue è ingabbiato nell’immonda testiera dal largo morso e all’addome è accinghiato strettamente il recado variopinto. Ma ha un’aria così minacciosa, con la criniera eretta, gli occhi ardenti, le narici aperte e sbuffanti, che gli uomini rinculano in giro come i capeadores intorno al toro ferito che si risolleva muggendo. Non hanno però abbandonato le redini, e cautamente, con l’aiuto di cavalli addestrati, vecchi complici che lo sospingono, è condotto all’aperto.
Allora, lentamente, con un fare noncurante e dinoccolato, il giovane indiano si appressa alla bestia. Dà una calma occhiata investigatrice alle fibbie e ai nodi della bardatura, si stringe sui fianchi l’alta cintura ornata d’argento e poi risolutamente balza in sella d’un colpo afferrandosi alla criniera.
Il cavallo resta per un momento immobile, come stordito da tanto ardire, con i garetti tesi, i muscoli contratti. Quindi si solleva sulle zampe posteriori e si rovescia a terra. Dopo un istante fra i folti nembi di polverone si vede il cavallo di nuovo in piedi scalpitante. Spicca salti terribili, furibondo, ma sulla sua groppa rimane l’uomo, curvo sulla criniera, impavido, saldo. Improvvisamente il cavallo prende la fuga e si allontana in un galoppo infernale verso l’orizzonte infinito, che il miraggio abbellisce di tremuli laghi sui quali i lontani boschetti di eucaliptus si specchiano nitidamente.
Pochi minuti dopo torna al piccolo galoppo, tutto intriso di schiuma, con gli occhi smorti e la bocca insanguinata, umile, obbediente alla volontà di quel fanciullo attaccato alla sua groppa: domato.[142]
Povero sovrano della prateria! Chi sa che non sarà proprio lui a ricondurmi tra qualche mese—attaccato ad una modesta vettura di piazza—all’imbarco sulle banchine del Porto Madero!
***
Abbiamo continuato il nostro giro per l’estancia, sotto un sole torrido che accecava e stordiva. Ed ho un ricordo vago di quella corsa per prati senza fine. Rammento delle grandi tettoie presso un boschetto, sotto le quali ingrassano dei buoi colossali e delle pecore che sembrano enormi batuffoli di lana bianca, destinati a figurare in non so quale esposizione di bestiame: e delle scuderie divise in boxes, dai quali sporgono le teste di nobilissimi cavalli inglesi la cui genealogia mi veniva illustrata da un trainer, inglese puro sangue anche lui, che da venti anni è nell’Argentina e non parla spagnuolo. « Non parlo ancora castigliano, not yet »—mi ha detto flemmaticamente.
—Oh!—ho risposto—è questione di tempo!
Rammento un toril dove sultaneggiano dei tori mastodontici venuti dall’Inghilterra, i quali hanno ai loro ordini servi e scudieri; rammento numerose famiglie di struzzi che fuggivano davanti al nostro galoppo, simili a gruppi di piccoli cammelli con due sole gambe.
Dopo sei ore di cavallo ho cominciato ad accorgermi che la sella indigena è deplorevolmente incomoda; che il sole del gennaio sud-americano dà dei punti a quello del nostro agosto; che la pianura sconfinata ha—come il mare—le sue attrattive, ma che qualche gruppo d’alberi—come un po’ di terraferma[143] in navigazione—sarebbero d’una comodità indiscutibile.
Ma la fatica, il caldo e la sella incomoda ho presto dimenticato laggiù nel fresco patio della villetta rosa, dondolandomi nell’amaca. E pensando alla vita della prateria ho provato una grande compassione per me stesso che andavo a rituffarmi nella vita sociale, laggiù a Buenos Aires.
Bella cosa esser gaucho! Perchè, vedete, il cavallo selvaggio, il toro furioso, la tormenta della Pampa, il sole tropicale sono tutte cose pericolose, non c’è dubbio; ma, non è forse peggio, qualche volta, quel mostro che chiamiamo... « il nostro simile? »
[Dal Corriere della Sera del 29 giugno 1902.]
In una voluminosa pubblicazione, edita or sono tre anni per cura d’un Comitato della « Camera Italiana di Commercio » di Buenos Aires, pubblicazione di carattere ufficiale che è una specie di bilancio dell’opera nostra nell’Argentina, al capitolo dell’industria si legge:
« E noi (italiani) cerca questa ospite terra, alle nostre braccia si apre, e il nostro sudore domanda per fecondarsi. Noi abbiamo steso per tutte le linee di ferro; noi strappati i metalli alle vene delle roccie; noi staccati i marmi e i graniti dalle montagne e svelti i tronchi dalle radici; noi innalzate al cielo le moli dei palazzi e dei tempî; noi addolciti i costumi, infiorata la vita; dischiuse le intelligenze. Che ci manca? Il coraggio di dire di noi ciò che è nel pensiero di tutti e sulle labbra di molti! »
Sante parole!
Ebbene, abbiamolo una buona volta questo coraggio della verità, senza trepidare per suscettibilità offese e per risentimenti sollevati. Che è mai « nel pensiero di tutti e sulle labbra di molti? »[145]
È che noi italiani siamo le api operaie di quel grande alveare; è che l’Argentina esiste e vive in virtù del lavoro italiano. Senza di noi non avrebbe produzione, non avrebbe nè agricoltura, nè industria, non avrebbe teatri, palazzi, porti, ferrovie. È il lavoro dei nostri connazionali che ha veramente creato l’Argentina d’oggi, la quale senza di esso non avrebbe nessuna potenza economica, come un Guatemala od una Bolivia qualunque.
***
Giungendo a Buenos Aires i grandi piroscafi transatlantici s’inoltrano lentamente in un canale lungo ventun chilometri, scavato nel fondo del torbido Rio della Plata e segnato sulle acque agitate con centinaia di boe e segnali luminosi. Chi ha tracciato questo solco colossale nel letto del fiume? Degli operai genovesi. S’incontrano rimorchiatori che trascinano affannosamente le navi all’entrata del porto. Le loro piccole ciurme sono italiane. Ogni tanto i piroscafi passano rasente a dalle enormi draghe. Chi sono quegli operai che le manovrano lavorando sotto al sole cocente, in mezzo al frastuono degli immani macchinarî? Sono italiani: ecco, riconoscono la bandiera della patria a poppa della nave che passa, si sollevano dal lavoro, guardano pensosamente, e salutano. Si appressa un vaporino, una scala è gettata e compare il pilota sul ponte. È italiano.
Si arriva al porto—la cui grandezza stona, in questi tempi di crisi, con la pace che vi regna, ora che le settantasette gru idrauliche sugli enormi scali sono in troppa parte inoperose. Chi ha fondato, costruito, eretto, armato, montato tutto questo? Operai[146] italiani. Il granito delle grandi pareli dei bacini e dei docks viene dal Tandil, dove braccia italiane lo strappano alle colline, lo spezzano, lo sagomano, lo trasportano. Laggiù fra le lontane solitudini migliaia d’italiani, riuniti in poveri villaggi, lavorano le cave di granito che italiani hanno scoperto: e il rombo del loro lavoro echeggia per le valli deserte—quando una crisi politica o economica non li snida e non li ricaccia affamati, come nel novanta e come adesso, nella mandria immensa dei senza lavoro!
Dal ponte della nave ormeggiata l’occhio spazia sulla città, i cui mille pinnacoli, cupole, campanili si ergono sulla moltitudine dei tetti. Tutto ciò che si vede è stato fatto da braccia italiane. Il lavoro materiale italiano entra in proporzione del novantasei per cento su quanto si fa laggiù.
Nel 1855 Buenos Aires non era che una ben misera città, fangosa e sporca. Le case piccole, basse, primitive, costruite senza calce con informi mattoni e fango, non avevano altro di buono che il patio: cioè a dire che la parte migliore della casa era fuori di casa. Persino l’abitazione del dittatore Rosas, che per venti anni ha imperato sull’Argentina, non era che una misera stamberga che fino a due anni fa si poteva vedere ancora in piedi ma pencolante, come quelle vecchie case inglesi dell’epoca d’Elisabetta, in Holborn, che tanto piacevano a Dickens.
In quell’epoca circa giunse laggiù il primo architetto. Era italiano, milanese. Poi altri lo seguirono. A questi nostri compatriotti si debbono le pi ime costruzioni civili di Buenos Aires. Già le braccia italiane giungevano in numero sufficiente per eseguire i loro progetti. Sorsero i primi palazzi, e poi dei teatri, degli ospedali, delle scuole. Braccia italiane costruirono senza posa. Da quell’anno sono state erette più di cinquantamila case; ossia tutta la città è rinata dalle sue maceriuzze fangose. E, se non in ogni costruzione è entrata la mente[147] italiana, certo tutte sono dovute al lavoro materiale di quelle macchine umane che noi esportiamo gratis. E là ne abbiamo mandato per un valore di forse sette miliardi, se è giusto il calcolo degli americani del nord che attribuiscono ad ogni emigrante il valore di mille dollari.
Se per un miracolo tutto ciò che è prodotto dal lavoro italiano potesse scorgersi, assumesse un colore speciale, rosso, supponiamo, si vedrebbe Buenos Aires tutta intera, dal fiume ai campi dell’ovest, imporporarsi come sotto il riflesso d’un incendio sterminato. Da lì il colore di fuoco serpeggerebbe lungo tutte le ferrovie, lungo i fiumi, accenderebbe i battelli che li percorrono, e le città che toccano, i canali che vanno a irrigare le arse pianure di Cordoba e di Mendoza e di San Juan: si propagherebbe allargandosi per i campi di Santa Fè, di Rosario, di Buenos Aires, di Entre Rio, e giù al sud tingerebbe Bahia Blanca e il suo grande porto militare che il talento italiano ha ideato e braccia italiane hanno costruito. Non una città, non una colonia sfuggirebbero.
Non so se mai si farà una carta geografica che mostri il lavoro dei popoli, come si fanno le carte idrografiche per indicare l’altezza delle pioggie nei differenti paesi, e le carte etnografiche che mostrano le varie razze umane sparse pel mondo. Certo è che su questa carta l’Argentina tutta, dal Chaco alla Terra del Fuoco e dalla Cordigliera delle Ande al Plata, dovrebbe essere dipinta del colore indicato nel margine da queste parole: Lavoro italiano!
***
L’Argentina non aveva agricoltura prima che i coloni italiani andassero a dissodarne le sconfinate pianure.[148] La Spagna, all’epoca della sua dominazione, forniva le farine; poi le fornì il Cile. « In gran parte la ragione di tale trascuratezza—dice un culto studioso della materia, Giacomo Grippa, in una monografia comparsa nel libro di cui ho parlato in principio—è da cercarsi nella indolenza degli abitanti, che non cedette a nessun tentativo che si facesse per scuoterla. » L’agricoltura argentina, che forma la principale ricchezza del paese, è un prodigio italiano. Si pensi che i campi di Santa Fè, di Cordoba e di Entre Rios, da dove questi prodotti vengono, erano pampas, pianura selvaggia, senz’acqua, coperta da vegetazione sterposa, da cardi, da cactus, e che sono i nostri contadini che l’hanno resa fertile, con anni e anni di lavoro assiduo tenace. Si pensi che la conquista di tanto territorio è costata tanto sacrificio di vite italiane, quanto nessuna guerra nostra.
Dall’agricoltura sono nate le industrie, con le quali il paese si è emancipato dall’estero per alcuni prodotti di prima necessità. E gli iniziatori dell’industria argentina sono quasi tutti italiani. Perchè, vedete, si potranno trovare dei figli del paese concessionarî di lavori, intraprenditori, impresarî; talvolta commercianti; rarissimamente industriali; operai mai.
La coltura estensiva richiedeva macchine. Qualche povero fabbro italiano audace e volonteroso tentò di copiare le macchine straniere che capitavano nelle sue mani per le riparazioni. Riuscì. La sua fucina si ampliò a poco a poco, divenne officina, divenne fonderia. Dopo una lotta lenta, assidua e tenace come il battere del suo martello, vide il suo stabilimento aumentare, ed ergersi le ciminiere fumanti nel cielo; udì sempre più prepotente intorno a lui lo strepito infernale e divino del lavoro. Trovò imitatori: altri stabilimenti sorsero. Gli opificî fondati da italiani producono i tre quinti del totale lavoro del ferro in tutta la Repubblica. O meglio producevano, perchè ora tanti forni sono[149] spenti, tante macchine immote, tante officine silenziose.
Altre industrie affini a quella del ferro sono sorte per opera d’italiani: fabbriche di mulini, di bilancie, di oggetti d’ogni metallo. L’industria dei metalli è quasi tutta italiana.
E qui un’osservazione, per dissipare un pregiudizio molto diffuso e dannoso. Le fabbriche e le imprese dovute alla iniziativa e al lavoro italiani non possono chiamarsi italiane che impropriamente, perchè il capitale che ne è l’anima si è formato laggiù, vi è radicato profondamente, è argentino, là si sviluppa e lascia tutti i suoi frutti. Disgraziatamente la mente che ha ideato e diretto il lavoro produttore, e le braccia che lo hanno eseguito, che sono italiane, non possono considerarsi che come apparecchi e macchine di precisione la cui provenienza è indifferente per la nazionalità dell’impresa. È necessario por mente a questo per non cadere in errore nell’apprezzare il valore dal punto di vista nostro, di quanto vado nominando come italiano. Quando si dice opificio, fabbrica, banca, commercio o impresa inglese o tedesca, per esempio, s’intende che il capitale che li anima sta di casa a Londra o ad Amburgo, dove vanno gl’interessi e dove s’accumula la riserva. Quando invece si dice opificio, fabbrica, banca, commercio o impresa italiana, s’intende—salvo qualche rarissima eccezione—che noi in Italia non ci abbiamo a veder niente affatto, ma che solo è nato nel nostro paese l’uomo che ne ha avuto l’idea e il coraggio, la perseveranza e la sapienza d’attuarla.
È il capitale che dà la nazionalità all’impresa.
In tutte quelle industrie che si dicono italiane, perchè fondate, dirette, amministrate e lavorate da italiani, il carattere d’italianità è assolutamente transitorio; dipende spesso dalla vita d’un uomo. A poco a poco, per cessione o per eredità, passano tutte in mani straniere—che spessissimo sono quelle dei figli—e di nostro[150] non resta che la mano d’opera, la forza motrice. È poco. La mano d’opera è come il vomero dell’aratro che umile e basso si nasconde nel lavoro assiduo e passa ovunque sconvolgendo e fecondando, e che poi non è nulla di fronte al valore della terra e del grano. E poco monta che sia stato forgiato di ferro italiano o di ferro cinese.
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Continuiamo la nostra rivista del lavoro.
La pastorizia—che, dopo l’agricoltura, è la più grande fonte di produzione—ha fatto sorgere altre industrie, per opera sempre d’italiani. A due fabbriche italiane il popolo deve una parte delle sue vestimenta di lana. Un opificio fornisce anche di quei ponchos caratteristici, mezzo mantelli e mezzo scialli, che una volta le donne tessevano nei ranchos solitarî. Due fabbriche italiane trasformano la lana in cappelli, dai più rozzi ai più eleganti, e coprono quasi tutte le teste della Repubblica, anche quelle degli eleganti che non comprano nulla se il negoziante non giura loro che ciò che vende viene direttamente da Parigi.
Le pelli si esportavano semplicemente secche o salate; gl’italiani hanno introdotto l’arte del conciare. La conceria ha fatto sorgere le fabbriche di selle e di scarpe e sono gl’italiani che le hanno create e che vi lavorano.
Sempre troviamo gl’italiani come iniziatori d’industrie, le quali utilizzano ciò che una volta si gettava via, che traggono ricchezze dal niente, che aumentano enormemente la produttività dal paese. Se non hanno un gran posto nelle statistiche dell’esportazione, servono a limitare grandemente l’imposta che l’Argentina[151] paga all’estero sotto forma di compere. Vi sono industrie che in una nazione sono quello che la buona massaia è nella casa: fanno economia di tutto, raccolgono ciò che viene abbandonato, lo trasformano, l’utilizzano; e il loro lavoro continuo e silenzioso, spesso inapprezzato, alla fine raddoppia l’attivo. Dal grasso degli animali, una volta abbandonato insieme alla carne—non si prendevano che le ossa, il cuoio e le corna—ora si toglie la stearina, la margarina, l’oleina. Furono italiani i primi ad usufruire delle carni istituendo i saladeri dove a migliaia al giorno si macellano i buoi, la cui carne salata, il tasaio, viene esportato in grandissima quantità, mentre le altre parti degli animali si trasformano in olio, in colla, in cuoio. Profittando della stearina a buon mercato, degli industriali italiani hanno fondato una fabbrica di fiammiferi che produce centocinquanta milioni di scatole all’anno emancipando completamente il paese da quella importazione.
Si può giurare che non esiste un ramo d’attività che non si debba all’iniziativa italiana. Coltivata la terra e ottenuto il grano, gl’italiani crearono i primi molini. Ottenuto il granoturco, crearono le distillerie. Ottenuto il riso crearono le fabbriche di amido. L’uva era stata dichiarata di coltivazione impossibile in questa terra piana come un mare: la vite non verdeggia che sui colli. Essi cercarono lontano, ai piedi delle Ande, le colline e vi piantarono il prezioso arbusto. Vi mancava l’acqua; laggiù non cade la pioggia—i temporali umidi dell’Atlantico lasciano l’acqua lungo la immensa traversata della Pampa—ed essi chiusero la strada ai fiumicelli che scendono dai ghiacciai per le paurose gole della Cordigliera e irrigarono con le loro acque trecentomila ettari di terra. Una sola casa vinicola italiana di Mendoza produceva quarantacinquemila ettolitri di vino all’anno. Dico « produceva » perchè la crisi argentina ha travolto anch’essa nel turbine disastroso, gettandola a terra con altri colossi.[152]
Anche nelle imprese d’iniziativa straniera, nelle ferrovie inglesi, nelle officine elettriche tedesche, per tutto, entra sempre il lavoro italiano. La mano italiana con la sapienza e la pazienza del ragno tesse e ritesse la tela della ricchezza argentina, che i turbini politici ed economici lacerano via—e noi sappiamo come.
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Ecco che cosa è il lavoro italiano! Ma noi possiamo essere orgogliosi di ben altro! Noi abbiamo portato in parte i germi della coltura intellettuale nell’Argentina; è un lavoro che non si ricorda e non si vuol ricordare. Adesso l’emigrazione intellettuale è preclusa dall’Argentina (come l’emigrazione dei malati o degli storpî o dei vecchi) per mezzo d’un feroce protezionismo che impone la così detta « rivalidazione delle lauree straniere »—della quale parleremo in seguito—che si risolve in un vero sfratto ai laureati stranieri. Ma se l’Argentina ha laureati suoi da proteggere, molto lo deve all’Italia.
Furono italiani i primi professori che incamminarono la scuola argentina sulla via delle moderne discipline, trasformando in ateneo ciò che non era al più che un seminario. Ai principî del secolo passato l’emigrazione italiana non era composta che di esuli politici, ossia—in gran parte—di uomini intelligenti. Per molti anni la parola « emigrato » da noi non significava che « perseguitato » per l’amor di patria. Ne arrivarono laggiù di questi emigrati, ad ogni rivoluzione repressa e ad ogni congiura scoperta, come ne arrivarono a Londra: ossia dove la distanza o la libertà garantivano la vita. Da dopo il ’21 gli annali dell’Università di Buenos Aires e di Cordoba cominciano a registrare nomi di professori italiani. Troviamo il fisico Carta Molina, fondatore del primo gabinetto di fisica sperimentale, poi perseguitato sotto l’accusa d’essere unitario e rinchiuso[153] per forza in un manicomio dove è morto. Troviamo il naturalista Carlo Ferraris, fondatore della prima cattedra di storia naturale e del primo museo zoologico; troviamo il fisico Massotti, fondatore del primo osservatorio astronomico, e il Moneta al quale si deve l’Ufficio delle Opere Pubbliche dello Stato, ed anche la prima carta geografica esatta del paese. Quando si è fondata una facoltà di matematica e ingegneria, i professori furono tutti quanti italiani. Arrivarono verso il ’65 i professori Ströbel e Speluzzi di Milano, Rossetti, Ramorino, Luzzetti che insegnarono scienze esatte. Ora tutti sono morti, e poco si ama ricordarli. Potrei continuare a empire pagine di nomi di italiani che hanno dedicato la loro vita a mettere al corrente gli argentini delle nostre scienze e della nostra civiltà; dal prof. De Angelis, che è stato il primo a raccogliere le leggi argentine, e il primo anche a raccogliere tutti i documenti della storia di quel popolo, fino al prof. Giuseppe Tarnassi, che è il primo ad occupare la cattedra di latino all’Università di Buenos Aires, cattedra ultimamente istituita.
Se le statistiche della produzione e del commercio possono darci l’idea del valore del nostro lavoro materiale, disgraziatamente nessuna statistica può darci quella del nostro lavoro intellettuale, la cui influenza meno immediata è tanto più vasta e profonda.
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Ecco rapidamente tracciato il quadro del lavoro italiano nell’Argentina. Era necessario per comprendere quanto la situazione morale, materiale e politica dei nostri emigrati laggiù sia diversa da quella alla quale essi hanno diritto.
[Dal Corriere della Sera del 6 luglio 1902.]
Pochi popoli pagano al mondo un tributo d’emigrazione più grave dell’italiano; e pure la nostra stessa emigrazione sembra dimostrare—contraddizione strana—che noi manchiamo delle migliori qualità di popolo emigratore.
La massa dei nostri emigranti non ha preparazione, non conosce nulla del paese dove approda, e trova tutto inaspettato; non ha coscienza della sua forza e del suo valore; non è plasmata nè da una coltura, nè da una educazione, e si forma facilmente sopra un altro stampo; ha una verginità intellettuale che la rende duttile. Per una profonda ignoranza di cui noi in Italia, purtroppo, abbiamo la colpa e la responsabilità, la massa degli emigranti non conosce nemmeno il suo stesso paese, ne ignora le glorie e le grandezze, e non può sentire perciò l’orgoglio di essere italiana, non può provare quell’infinita soddisfazione della superiorità di razza che crea le pacifiche conquiste. Di fronte ad un nuovo popolo, in un nuovo[155] ambiente, la cui brillante appariscenza la sua semplice mente non può sondare, essa si sente inferiore; ritiene come un torto proprio l’essere diversa; ne prova umiliazione, e tende a far scomparire ogni diversità modificandosi. E tutto questo perchè la nostra è una emigrazione di braccia, un’esportazione di muscoli, e troppo poco—in proporzione—d’intelligenza. Gli intelligenti nelle masse sono come i graduati nell’esercito, una piccola minoranza che guida, non fosse altro con l’esempio, che unisce in un’azione comune. Togliete gli ufficiali ad un esercito d’eroi, ed avrete la fuga più vergognosa. L’esercito dei nostri emigranti manca di ufficiali, e si sbanda, e si arrende alla spicciolata, subito, cedendo bene spesso quell’arma potente che si chiama « dignità nazionale ».
Gli apprezzamenti che vado facendo si riferiscono al complesso della nostra emigrazione, s’intende; grazie a Dio si trovano per tutto dei fieri italiani, i quali prima d’ogni altro riconosceranno la loro dolorosa impotenza di fronte alla massa. Dopo d’avere constatato i trionfi gloriosi del lavoro italiano nell’Argentina, possiamo bene rilevare spassionatamente qualche nostro difetto, nel quale si possono trovare le cause di alcuni mali della nostra emigrazione.
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L’emigrazione nostra, così com’è, fa pensare all’esportazione d’una materia prima destinata ad essere trasformata ed adoperata. Subisce tutte le influenze senza resistere perchè è ignorante, cioè debole, e miserrima, cioè disarmata. In queste condizioni appena giunge ad immettersi nella nuova società, ne occupa l’infimo posto, ossia il più disprezzato. Laggiù nella[156] scala delle posizioni sociali vi è un gradino di più, in basso: dopo il povero viene l’immigrante. Esso è più povero del povero nella conoscenza dell’ambiente e delle condizioni della sua nuova vita. Esso non potrà elevarsi che col lavoro, la sobrietà ed il risparmio. Questo significa che sarà costretto ad una vita di sacrificî, di gretterie e di umiliazioni, la quale, in mezzo al lusso dell’ambiente argentino e alla grandiosità dissipatrice dei « figli del paese », formerà un contrasto stridente che porrà l’emigrante sotto una luce ancora più dispregevole.
Osserviamo un emigrante qualunque, un emigrante « tipo »—piemontese o calabrese, poco importa—che arriva dal suo campo in cerca della fortuna. È umile per necessità, timido per ignoranza, si presta ad essere sfruttato e malmenato in silenzio perchè non conosce i suoi diritti—del resto comprende ben presto che il reclamare per i torti ricevuti è inutile, se non rovinoso, e che egli è solo e abbandonato.—Egli ammira tutto perchè nulla ha visto mai. Ciò che è diverso per lui è migliore. Conserverà della Patria una nostalgia istintiva, l’amore per i luoghi ove si è nati, quell’amore che il tempo ed i ricordi rendono sempre più dolce: amerà ricordarla, ma più andrà avanti con gli anni e meno conoscerà la vera grandezza e le glorie del suo Paese, perchè nella sua mente l’idea della Madre Patria non sarà altro che l’idea del suo passato. Vedrà lontano una casupola, un villaggio, una valletta; la sua casa, il suo villaggio, la sua valle. Quella è l’Italia; tutto il resto è vago, incompreso, indefinito. Talvolta si accorge che la sua qualità di straniero lo esclude da mille benefizî, lo priva di garanzie e di diritti; si trova come un veltro estraneo alla muta che lo guarda bieca e ringhiosa intorno alla curée. Allora, raramente, ma non troppo, e se i suoi mezzi e la sua posizione lo permettono, cerca di cambiar manto, di rendersi più simile che sia[157] possibile ai fortunati, cerca di cancellare le traccie di italianità che gli sono rimaste, e comincia dal modificare il proprio nome. Si chiama Chiesa si cambia in Iglesia; se si chiama Speroni si trasforma in Espuelas; e si vede così un Montagna divenire señor Montaña, un Bibolini cambiarsi in Bibolian.—Disgraziatamente non mancano esempî!
Questo emigrante sarà doppiamente prezioso per il paese che lo acquista, ma quale sostegno potrà essere al nostro prestigio nazionale?
Quanto dico è amaro a dirsi, ma più amaro ancora a tacersi. Del resto, la causa di questi mali è qui, è in Italia, ed in Italia soltanto può esservi la cura.
L’animo del nostro paese è rimasto estraneo all’emigrazione; questa non rappresenta l’espansione d’un organismo esuberante di vitalità, ma piuttosto un male specializzato d’una sua parte. Essa non ci ha preoccupato che di tanto in tanto per un sentimento umanitario, e niente più. Non abbiamo pensato a sorreggerla, a dirigerla, a illuminarla. L’emigrazione nostra è come sangue vivo sgorgante dalla piaga incurata della nostra miseria e della nostra ignoranza. La piaga è vecchia e non ci dà dolore, e poco ci curiamo se questo po’ di sangue nostro cade, si disperde, va a male. Non abbiamo veduto tutto il buono e tutto il cattivo che dalla nostra emigrazione poteva venire. Ben altrimenti dovevamo invigilarla e proteggerla, farle sentire lo sguardo della Madre Patria fiso sopra di lei; darle un ampio stato maggiore d’intelligenti.
Dalla Germania, dall’Inghilterra emigrano masse di giovani che escono da scuole create apposta per aprire gli occhi, che si sparpagliano per il mondo a battere sempre nuove vie per dove in breve s’incanalano i commerci delle loro patrie, delle quali così s’aumenta il prestigio e la potenza ovunque. Nuove regioni sono sondate, studiate, e ad esse dirette le masse emigratrici[158] nella proporzione e nella composizione necessarie.
I rarissimi giovani colti frammisti all’emigrazione italiana, non partono ordinariamente—salvo onorevoli eccezioni—che quando vedono fallito l’ultimo tentativo per ottenere un umile impiego, sia pure a mille e cento. Vanno senza idee, senza progetti, senza appoggi e senza mezzi, travolti nel turbine della miseria, e privi perciò di quella grande forza che è l’indipendenza. Talvolta cadono per non rialzarsi più, talora invece riescono a formarsi una posizione; ma imparano laggiù, alla scuola della vita, quanto il paese nativo non s’è curato d’insegnar loro, ed è naturale che si modifichino, che si adattino all’ambiente; non possono serbarsi italianamente puri, e nello istesso tempo lottare per il pane in un ambiente dove sentono l’ostilità mordente, sorda, continua e tenace contro lo straniero.
Nessun uomo può rinunziare allo spirito di conservazione. L’emigrazione italiana ha perciò poche guide e pochi esempî, e viene a mancare così di quella mirabile coesione che è la caratteristica di altre emigrazioni.
Aggiungete la impunità che la cattiva giustizia assicura così spesso al « figlio del paese » quando commette reati a danno d’italiani—i quali sopportano tutto in espiazione di quel peccato originale che è l’essere gringo—aggiungete l’inazione diplomatica che lascia i nostri connazionali esposti all’arbitrio, al sopruso e alla brutalità, ed avrete un’idea della posizione forzatamente umile dell’emigrato italiano.
È per questo che noi laggiù non abbiamo sempre troppa fierezza, e non facciamo mostra di un’eccessiva dignità nazionale. Un anno e mezzo fa, poco tempo dopo che al Brasile si era data una sanguinosa caccia all’Italiano—pagata poi con un po’ di denaro, senza nessuna soddisfazione per la bandiera italiana che la[159] folla aveva oltraggiato trascinandola nel fango—il Presidente del Brasile, Campos Salles, si è recato a Buenos Aires. Moltissime Società italiane con bandiera e musica andarono a riceverlo, qualcuna di quelle Società diede persino feste in suo onore, e alla sera le facciate delle sedi sociali furono illuminate. Un ricco signore italiano giunse persino ad offrire la sua casa per ospitarvi il Presidente brasiliano, offerta che, si capisce, venne senza indugio accettata. E come questo, troppi altri « omaggi » inconsiderati rendiamo. In tutto ciò vi è molta ingenuità, molta incoscienza, desiderio di far cosa gradita, entusiasmo impulsivo e incoerente. Siamo latini anche noi; una bandiera spiegata e un festone di lampadine elettriche bastano spesso a farci gridare evviva. C’è il buon cuore, il cuore italiano, perchè con quello si nasce e si muore, ma non c’è il carattere italiano, perchè il carattere si forma; e, disgraziatamente, in Italia non è popolarizzato il mistero della sua formazione. Le nostre masse povere che emigrano sono moralmente amorfe.
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I danni che a noi derivano da questa emigrazione sono materiali e morali. I materiali: l’Italia che ha nell’Argentina più d’un milione dei suoi figli—ossia un quarto della popolazione della Repubblica—non contando i loro discendenti, non occupa nell’importazione di quel paese che il quarto posto, e il settimo nell’esportazione. I danni morali sono molto più gravi: laggiù si giudica del nostro paese in base all’emigrazione.
Gli Argentini stimano la Spagna perchè ne sono figli, l’Inghilterra perchè ne sono debitori, la Francia[160] perchè ne sono satelliti, la Germania perchè ne sono clienti, gli Stati Uniti perchè ne sono ammiratori e imitatori. Dell’Italia sanno poco (la coltura storica e artistica non è in verità il loro forte), fuorchè essa manda laggiù bastimenti carichi di suoi figli, attivi, infaticabili, preziosi, sì, ma poveri e umili, due qualità straordinariamente disprezzabili, specialmente in un paese dove il denaro e l’orgoglio sono tutto. L’Italia è generalmente raffigurata dalla massa criolla come un paese di affamati, saturo di popolazione—quasi una piccola Cina—che ha bisogno di tendere la mano alla ricca e progredita America. Basta vedere le allegorie politiche dei giornali illustrati, nelle quali v’entri l’Italia, per capire, niente altro che dal gesto di magnifica protezione dell’Argentina verso l’Italia più piccina di lei, quale è il pensiero di quella gente, sui rapporti dei due paesi.
Ricordo che un giorno il direttore del più popolare giornale della sera, parlando con me di politica europea, mi sosteneva col massimo convincimento che l’Italia deve l’essersi salvata dalla crisi economica, di recente e dolorosa memoria, precisamente all’... Argentina. L’Argentina ci avrebbe salvato prima portandoci via dei disoccupati e degli affamati che avrebbero fatto la rivoluzione, poi economicamente con i... risparmî mandati a casa dagli emigranti e con lo sbocco dato ai nostri prodotti. L’egregio direttore ripeteva ciò che in più occasioni aveva scritto e ciò che la massa dei suoi lettori pensa.
Un giovanotto della migliore società bonearense, di ritorno da un viaggio in Europa, o meglio a Parigi, rispondendo ad un amico mio che gli vantava la vita napoletana, al sentire la parola paseos—passeggi—esclamò, con un sorriso indescrivibile:
—Caramba, me abria gustado ver los napolitanos in coche!—Perbacco, mi sarebbe piaciuto vedere dei napoletani in carrozza![161]
Un altro aneddoto ancora più caratteristico. Il figlio d’un ministro argentino si trovava a Napoli con un amico italiano, ora stimatissimo professore di latino a Buenos Aires, e passeggiando per la città, meravigliato del concorso elegante, esclamò:—Ma qua sono tutti stranieri!—L’amico rispose distrattamente che ci sono sempre molti stranieri a Napoli. Alia sera, al San Carlo, il figlio del ministro non si era ancora seduto nella sua poltrona, che girando lo sguardo sorpreso intorno alla sala ripetè:
—Però todos, todos estranjeros!
—Ah, no!—rispose l’amico comprendendo finalmente—sono napoletani, tutti napoletani, che Dio ti benedica!
La sua mente non concepiva dei napoletani in abito nero e delle napoletane in décolletée e brillanti, riuniti in una splendida sala da teatro. Per lui, come per la maggiorità de’ suoi concittadini, « napolitano » era quasi sinonimo di venditore ambulante, di lustrascarpe e di spazzaturaio.
È facile immaginare quanto questa, diciamo così, poca considerazione dei nativi contribuisca a deprimere maggiormente il morale del nostro emigrante. L’Argentino, per la sua natura spagnolesca—che sotto certi aspetti può anche avere alcunchè di simpatico—è superlativamente orgoglioso, e convinto della sua indiscutibile superiorità sopra tutti gli altri umani dell’universo—ed è abituato a sentirselo dire. Anche nelle sue dimostrazioni di amicizia e di simpatia vi è sempre un’aria di degnazione, di protezione; nella sua cordialità c’è della benevolenza; si pone a vos ordenes per una forma di squisita e cavalleresca educazione, ma non riconosce nè ordenes nè deseos se la sua vanità non è solleticata; egli può concedere, mai cedere. Nelle transazioni fra uno straniero e un « figlio del paese » vi è sempre il carattere di transazioni fra inferiore e superiore, anche se avvolti nel[162] velo soave di una educazione inappuntabile. Per di più, se gli argentini colti, quelli che formano la minoranza dirigente, sentono nella prosperità in cui vivono i vantaggi incalcolabili della nostra emigrazione, e la desiderano e la provocano, la massa povera criolla, quella che vive disseminata nella campagna, ne sente invece i danni. Una volta era padrona della Pampa, che la nutriva senza la dolorosa necessità del lavoro. Ora, dove è l’italiano enlazare un bue diventa un furto; il colono difende i frutti del suo lavoro, e il gaucho è costretto per vivere a lavorare nell’estancias qualche mese dell’anno; ciò offende la sua dignità. Egli ha rancore contro il gringo, e di quando in quando all’occasione si vendica a colpi di rivoltella, troppo spesso impunito.
La situazione dei lavoratori italiani, specialmente nei campi, è in certo modo simile a quella degli ebrei in alcune nazioni d’Europa, i quali fanno liberamente i loro affari, ma un’ostilità blanda e latente li circonda. Alla prima occasione si sentono gridare in faccia la parola « ebreo » come un’ingiuria. Laggiù si grida: gringo.
L’italiano si chiama gringo, un vocabolo dispregiativo, che non ha la traduzione. Non se ne sa nemmeno l’origine: alcuni credono che venga da griego-greco. Parrebbe che una volta, in uno dei primi anni del secolo passato, sbarcasse al Plata una comitiva di cavalieri d’industria greci, che rubarono mezzo mondo e poi presero il largo. Da allora si sarebbero chiamati griegos gli stranieri, quasi come per dirsi:—In guardia amico!—Da griego gringo; e questo appellativo è restato quasi esclusivamente sulle spalle degli Italiani. Non sono molti anni che rappresentava un’ingiuria mortale, ma poi i gringos sono diventati tanti che la parola ha perduto molto dell’acerbo significato, restando una semplice espressione disprezzante, come potrebbe essere da noi il vocabolo « stranieraccio ».[163] In forma amichevole gringo si cambia in gringuito. Spesso invece è seguito da un immondo qualificativo decentemente intraducibile e pure tanto comune laggiù, che pare non abbia altro scopo che di riportare la parola gringo all’antico ingiurioso significato.
Un argentino si offende se viene chiamato gringo. Tutti gl’Italiani indistintamente sono gringos. L’appellativo è usato correntemente. Dei gringos il più dispregiato è il tano. Tano è la corruzione di « napoletano ». Tutti i meridionali sono « tani ». Questa parola non è molto usata nelle classi decentes; se ne fa abuso nel volgo, specialmente della campagna. Siccome i poveri emigranti meridionali, calabresi, abruzzesi, napoletani, siciliani, sono i più miseri e i più incolti, la parola tano poco a poco è venuta a designare l’ultimo gradino dell’umiltà umana. Dire tano è come dire « miserabile! » Di questa parola non esiste un vezzeggiativo in tanito: tano è sempre dispregiativo assoluto. L’Argentino irritato vi dice in faccia gringo: irato vi grida tano. Ciò significa che le parole equivalenti a italiano e napoletano occupano un posto nel vocabolario delle ingiurie. E il nostro orgoglio non ne può essere lusingato.
Nel teatro criollo, che è una derivazione recente dell’antico teatro spagnolo, s incontra spesso il tano. Come in tutti i teatri primitivi i caratteri dei personaggi rimangono stereotipati attraverso le diverse commedie, formando quasi delle maschere; fra queste maschere il tano fornisce il diversivo allegro: è burlato da tutti, parla a strafalcioni; è un po’ il « servo sciocco » delle antiche scene italiane, ma più servo e più sciocco, per di più ladro e.... bastonato. Questo solo basterebbe a farci comprendere la strana depressione del nostro prestigio.[164]
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Fra chi è nato al di qua e chi è nato al di là dell’Atlantico v’è una barriera invisibile che l’Argentino sente e apprezza; ed attribuisce alla propria generosità e alla propria bontà il non farla sempre valere. Esso si ammira in buona fede; dice e scrive in fondo in fondo così: « tutta questa gente moriva di fame nel suo paese, è venuta qua, ed io non la scaccio; come sono buono, generoso, ospitale! » Tutti hanno interesse di ripetergli in coro « come siete buono, generoso, ospitale! »—e la barriera invisibile persiste minacciosa.
Oh! facciamo una buona volta i calcoli di questa ospitalità generosa, vediamo da quale parte sono gli utili maggiori, immaginiamo che cosa sarebbe quel paese senza di noi, ed osserviamo ciò che è; vediamo chi crea la sua ricchezza, vediamo chi produce e chi spende, chi suda e chi gode, chi fa e chi disfà. Smettiamo di mentire, perchè la nostra dignità ne ha sofferto abbastanza.
Il nostro lavoro è richiesto: si domandano braccia.—« Che cosa guarirà mai la profonda crisi argentina? »—chiedevo un giorno al senatore Canè, uno dei più colti politici argentini.—« Non c’è che un rimedio: l’emigrazione »—mi rispose. Dunque da una parte si chiede l’emigrazione, dall’altra vi è la potenza di soddisfare la domanda. Si può ben trattare come parti contraenti, mettere delle condizioni, volere delle garanzie, pretendere un po’ di giustizia per i nostri poveri connazionali, in cambio della immensa forza che noi diamo, e che noi dovremmo dirigere.[165]
La vera Italia è sconosciuta o misconosciuta laggiù: la sua voce timida vi fu raramente udita; ascoltata mai. Il solo fatto di chiedere niente altro che il mantenimento delle calpestate promesse costituzionali, come il « diritto alla vita, all’onore, alla libertà, all’eguaglianza, alla proprietà e alla sicurezza », ci porrebbe immediatamente in una ben diversa situazione morale.
« Parla? dunque vive! »
[Dal Corriere della Sera del 30 luglio 1902.]
Gl’italiani al Plata sono riuniti in circa trecento associazioni diverse: il che significa che sono perfettamente disuniti.
La questione delle associazioni ha laggiù un’importanza speciale perchè da essa deriva una grande debolezza, una mancanza di coesione morale, una dispersione di forze e di ricchezze nella nostra colonia, mentre potrebbe e dovrebbe essere un elemento di unione e di potenza.
La cosa andrebbe studiata con cura. Noi abbiamo nel sangue un po’ di spirito di scissione; è indubitabile. Il disaccordo non è lo stato meno normale dei nostri spiriti; la discussione ci piace. Anche quando siamo in due abbiamo sempre qualche idea altrui da combattere e qualche idea nostra da patrocinare. È un difetto latino; le nostre anime si avvolgono nell’antica toga sempre pronte all’orazione. Le discussioni sprizzano fuori dall’urto delle opinioni come le scintille dall’urto dei corpi, e noi amiamo soverchiamente queste scintille della discussione. Da questo viene il caratteristico[167] chiacchierìo tumultuoso della nostra folla a cui si contrappone il mutismo solenne e impressionante della folla inglese, per esempio, della quale si ode il rumore, ma non la voce. Una folla anglo-sassone o teutonica agitata da un entusiasmo è unita persino nell’evviva!, col suo hip, hip, urrah!, e canta in coro. E il canto collettivo—anche quando è stonato—è il segno migliore dell’accordo.
Questo nostro spirito di scissione noi lo troviamo esagerato negli italiani all’estero, e specialmente in America. La massa della nostra emigrazione, come già abbiamo avuto occasione di rilevare, proveniente da paesi diversissimi, misera e incolta nella generalità dei casi, è nel complesso deficiente di quelle qualità che formano il carattere nazionale. Per di più la necessità del lavoro la divide: la lotta accanita per l’esistenza o per la fortuna fa di un uomo quasi l’avversario d’ogni altro uomo. Le preoccupazioni della vita attuale distolgono la mente dalle cose della patria, le cui conseguenze, del resto, non sono più immediate; la distanza e il tempo annebbiano e discolorano quanto si è lasciato indietro; sulla nuova terra altre tradizioni ed altre usanze fioriscono e fanno dimenticare le antiche; ogni cosa, insomma, concorre ad allentare i vincoli dell’unione. Infine l’allargarsi d’una nuova civiltà offre a tutte le ambizioni in concorrenza l’esca di nuovi onori, reali e fittizî.
L’onore che è più a portata di mano laggiù è dato dalla carica di presidente, di consigliere, di segretario, di qualche cosa insomma di una società italiana. Vi sono società italiane utili e benemerite della collettività, ma ve ne sono molte il cui scopo è proprio quello di fornire delle cariche sociali ai soci, un titolo onorifico da sostituire al cavalierato che il democratico regime americano non ammette. Le cariche sociali vi si cambiano a turno una volta all’anno. Così chiunque può diventare il señor Presidente; il che in Republica[168] è straordinariamente lusinghiero. Un distintivo all’occhiello, il diritto di prendere la parola in un Comizio o di mettere il proprio nome in fondo ad un manifesto, esercitano un’attrazione straordinaria.
Quando una società comincia a diventare troppo numerosa, subito la minoranza, priva di cariche sociali, si stacca in massa e fonda una nuova società. Molte associazioni italiane si riproducono per scissione, come i bacilli.
Da questa straordinaria quantità di associazioni l’unione non è certo cementata; è una fermentazione di rivalità, di antipatie, di ambizioni e anche d’interessi, un lavorìo demolitore, un indebolimento doloroso, una corrosione lenta e continua della compagine morale della nostra colonia.
Quando una gioia o un lutto della Nazione fanno battere all’unisono tutti i cuori italiani, quando giunge dalla Patria un grido d’entusiasmo o di dolore, allora si compie per un momento il miracolo dell’unione, allora tutte le bandiere, gli stendardi e i simboli degli innumerevoli gruppi italiani si vedono riuniti per le vie agitati dallo stesso fremito, in mezzo ad un popolo, un altro popolo italiano, che è mosso da uno stesso amore. Si ha in quel momento la visione rapida, di fronte all’imponenza della massa enorme, della irresistibile possanza della nostra unione. Ma è un momento! Il giorno dopo, la discordia ricomincia il suo triste lavoro di tarlo, che sgretola, polverizza e disperde l’anima italiana.
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Non parliamo delle associazioni e dei circoli che hanno per scopo il divertimento; essi si comprendono;[169] il loro moltiplicarsi o il loro diminuire non ha alcuna influenza sopra l’unione della collettività. Anzi la loro presenza è un bene perchè i nostri connazionali vi trovano un sollievo e un riposo, che senza tali clubs dovrebbero cercare in ambiente straniero. Esaminiamo invece quelle associazioni il cui scopo non è il divertimento, ma l’interesse. Nella sola Buenos Aires vi sono sopra a cinquanta Società di mutuo soccorso e di previdenza.
La prima di queste società la Unione e Benevolenza venne fondata nel ’58. In quell’epoca la forma di mutuo soccorso s’imponeva, era l’unica garanzia per i lavoratori dispersi in un paese nuovo, e anche l’unica forma di difesa che fino allora la previdenza collettiva avesse trovato.
La scissione si è manifestata subito nella prima società, dalla quale si distaccò, tre anni dopo dalla fondazione, la Nazionale Italiana. E altre e altre si formarono; dalla XX Settembre si stacca la Nuova XX Settembre. Sorgono la Colonia Italiana, l’Unione Operai Italiani, l’Italia Unita, la Giovane Italia, e nello stesso anno l’Italia (senza aggettivi); più tardi la Nuova Italia, l’Italia Risorta, l’Italia al Plata, e—ironia dei nomi—l’Unione Italiana. Due società di mutuo soccorso prendono il nome di Vittorio Emanuele II, due di Cavour, due di Umberto I. L’associazione di mutuo soccorso Galileo Galilei, non è la stessa—come potrebbe credersi—della Eppur si muove. Una serie di associazioni si forma in nome della fratellanza: Unione e Fratellanza, Progresso e Fratellanza, Fratellanza Artigiana... Si formano associazioni femminili di mutuo soccorso: l’Unione e Benevolenza femminile, la Margherita di Savoia, la Figlie d’Italia, la Società femminile...
È facile immaginare quanto tale suddivisione di capitali, di amministrazioni e di forze direttive sia a[170] tutto nocumento del mutuo soccorso. Ma dall’84 comincia a far capolino una ben più grave e dolorosa divisione, che viene a scindere non soltanto gl’interessi della collettività, ma i suoi sentimenti di patriottismo e di amore; intendo parlare del regionalismo. Sorge prima una Unione Meridionale che accentua la triste rivalità fra il nord e il sud. Segue la Stella di Napoli, poi una Partenope, dalla quale naturalmente si distacca una Nuova Partenope; poi l’Unione Calabrese, il Circolo Sannitico, la Veneta di M. S., l’Abruzzo, la Magna Grecia, l’Unione Sarda, la Ligure di M. S., il Centro Pugliese, i Figli di Sicilia e via via.
Tutti questi innumerevoli aggruppamenti, aventi un unico scopo, non erano proprio necessarî; le antiche piaghe delle nostre fraterne discordie, cicatrizzate in Patria, si riaprono laggiù. Lo spirito italiano, non troppo forte all’inizio, ne è sempre più indebolito. E la Patria disgraziatamente non esercita quell’azione tutelare, al di sopra di tutte le lotte di campanile, azione che dovrebbe essere come una dolce amorosa protezione materna sui figli lontani. I figli crescono in discordia quando la madre non li cura!
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Il mutuo soccorso si è cristallizzato nell’antica forma perchè non ha mai avuto la forza, data la suddivisione ad oltranza dei capitali, di trasformarsi nella moderna assicurazione. Le molteplici società di mutuo soccorso nella sola Capitale hanno quasi ognuna una sede propria, per la quale si è immobilizzata grande parte del capitale sociale. I soci pagano una tassa mensile che varia intorno ad un peso e mezzo (L. 4 circa) per[171] avere la visita medica gratuita nei periodi di malattia, e una piccola pensione di un peso circa al giorno fino alla guarigione, pensione che decresce secondo norme stabilite e che in certi casi diviene minima. Riunite tutte queste associazioni bonearensi, compresa la Società di Beneficenza in una, si avrebbe un sodalizio con venticinque milioni di capitale, con settantamila soci che, pagando premî minimi, verserebbero sette milioni circa di franchi all’anno. Quante miserie sollevate, quante lacrime asciugate, quante rovine scongiurate! E sopra tutto quale forza prodigiosa non verrebbe ai nostri connazionali da questa unione d’interessi, e quale indipendenza?
Alcune delle società che ho nominato, e specialmente le più antiche, debbono essere considerate al di fuori del meschino battagliare delle ambizioni e delle rivalità. La loro colpa è quella di non aver compreso quanti danni venivano per riflesso alla Patria ed alla colonia per la loro disunione, e di non essersi modificate col volgere degli anni. Ma in compenso queste associazioni hanno prodigato tanto bene nella collettività, da esse sono partite nobili iniziative, e la loro azione, per quanto divisa, ha avuto sempre per movente l’amore all’Italia, riuscendo a mantenere più a lungo che fosse possibile i vincoli fra la Madre Patria e i suoi figli lontani.
La Società di Beneficenza da cui dipende l’Ospedale italiano, ha potuto curare sopra a quarantamila infermi, in venticinque anni; la sede dell’Ospedale, da pochi mesi inaugurata, costa tre milioni circa, e non ha nulla da invidiare alle migliori cliniche.
Undici di queste associazioni italiane di Buenos Aires, e dieci nelle provincie, hanno diritto sopra le altre alla nostra più viva simpatia e alla nostra riconoscenza, perchè mantengono a loro spese delle scuole italiane. Esse hanno compreso che solo la scuola poteva essere il mezzo per tenere vivo nella colonia il sacro fuoco[172] dell’amor di Patria. Hanno lottato contro ogni difficoltà con perseveranza e patriottismo per cercar di dare ai figli d’italiani un po’ d’anima italiana. Sono riusciti? Questo esamineremo spassionatamente più avanti. Alla questione delle scuole italiane è legato il grave problema dei « figli d’italiani », che vivamente c’interessa, perchè rappresenta il problema dell’avvenire.
Per ora osserviamo che le scuole italiane di tutta la Repubblica Argentina sono frequentate solo da tremila e cinquecento bambini, debole cifra se si pensa al numero grande di italiani che vivono laggiù.
Così la scuola italiana non può avere una profonda e vasta influenza sulle generazioni che crescono; essa resta come un simbolo, più che come istituzione viva e vivificante; un simbolo per il quale lottano tanti patriotti generosi. Ma pure, anche se quelle scuole non dovessero avere altro risultato che questa santa lotta per l’italianità, non potrebbero dirsi inutili. Dove si lotta, sia pure perdendo, è segno che si vive. Tutto è meglio dell’indifferenza.
Ma nelle scuole, come disgraziatamente in quasi tutto quanto parte dalla iniziativa italiana, troviamo il segno d’una profonda divisione come un peccato originale. Ogni scuola fa da sè, come ogni società fa da sè.
Si è parlato qualche volta di unione, ma vi sono grandi interessi—non nostri questi—cui giova mantenere debole l’elemento italiano, e molte piccole ambizioni—nostre queste purtroppo—che si nutrono delle scissioni.
Chi sa, forse, che se dalla Patria—la quale con più affetto dovrebbe vigilare e proteggere i suoi figli—partisse la voce della concordia e dell’amore, non verrebbe ascoltata!
Se la Madre parlasse, chi sa!
[Dal Corriere della Sera dell’11 agosto 1902.]
È stato molte volte scritto e detto che non v’è popolo che emigrando si assimili maggiormente alle nuove genti e ai nuovi paesi dell’Italiano.
È un elogio od un rimprovero? Tutti e due; a seconda del punto di vista. Si comprende che questa qualità appaia una grande virtù agli occhi degli ospiti, una virtù che centuplica i vantaggi della emigrazione, togliendole tutti i pericoli; ma si comprende anche che agli occhi degli altri questo potere di assimiliazione sia una grande debolezza. Assimilarsi vuol dire finire d’essere italiani.
L’italianità infatti—specialmente nell’America latina, dove certe affinità di razza rendono la trasformazione più rapida e completa—non resiste sempre fino alla seconda generazione. I figli degli italiani, nella generalità dei casi, non sono più italiani. Mancandoci essi, ci manca l’avvenire.
Senza stolti ed ambiziosi sogni di espansione politica, e di dominî, noi abbiamo certamente diritto di pensare che alla nostra espansione di razza, a questo dilagare[174] per il mondo di centinaia di migliaia di italiani all’anno, corrisponda almeno una espansione della nostra forza morale; che l’italianità non venga soffocata; che resti un culto per la grande Patria, un riconoscimento delle sue glorie antiche, fra le genti che il lavoro e la scienza italiana arricchiscono d’opere e d’idee.
Le legislazioni americane, da quella degli Stati Uniti a quelle di tutte le altre repubbliche, che ne sono più o meno una derivazione, si oppongono a che il figlio di cittadini stranieri nato sul suolo americano sfugga alla cittadinanza americana. Ed è giusto. Senza di ciò oggi l’America non sarebbe certo degli americani. La vecchia legge europea ha lottato lungamente, ma ha dovuto cedere alla necessità. Data la natura e la estensione della emigrazione nostra in America, il pretendere che i figli d’italiani nati laggiù conservassero la nazionalità dei padri compiendo i doveri di cittadinanza dal di là dell’Oceano, era assurdo. Ma non parliamo qui certo della italianità materiale; si tratta dell’anima italiana. È lei che scompare nei figli. Potranno certi retori gridare—e lo gridano—che non è vero, ma il fatto resta innegabile, inconfutabile.
Noi vediamo nell’Argentina i figli d’inglesi, ottimi cittadini argentini, ma inglesi nel sentimento, inglesi nel carattere, nella lingua; pronti a dare la vita per la nuova patria, ma con la mente e col cuore pieni della loro vecchia Britannia, palpitanti per le sue sciagure ed esultanti per le sue vittorie. Nel Chobut, da ventotto anni, viveva una floridissima e popolosa colonia di Gallesi, in parte figli dei primi pionieri e nati argentini, ma parlanti la loro aspra lingua, gelosi custodi delle loro tradizioni, fieri della loro storia. L’anno passato questi Gallesi protestarono indignati contro certi atti della Giustizia Argentina; una inchiesta ordinata dal Governo inglese riconobbe le loro ragioni, ed essi, dopo ventotto anni di residenza nell’Argentina, abbandonarono in maggioranza il paese per piantare[175] le loro tende nel Canadà, ritornando più Gallesi di prima. Nel Brasile vi sono dei Municipî tedeschi nei quali tutti gli atti si scrivono in tedesco. I figli d’italiani—nella generalità dei casi, s’intende—non sono italiani, nè nella lingua, nè nel sentimento. È colpa loro? È colpa dei loro padri? No; il male è qui, in casa nostra.
***
La prima caratteristica d’un popolo è la sua lingua. La lingua è il più grande vincolo fra gli abitanti d’una stessa nazione; è, per modo di dire, il segno primo di riconoscimento, come un gergo fra gli affiliati d’una stessa immensa associazione. Sul marciapiede d’una città straniera, quando fra il vocìo esotico della folla è dato di udire una parola del nostro idioma, noi ci volgiamo rapidi, col cuore pieno d’una subita gioia come se la voce di un amico ci avesse salutato, e ristiamo presso allo sconosciuto che parla la nostra lingua, trattenendo la voglia di stendergli la mano, di gridargli: « Sono italiano anche io! venite qui, non mi lasciate! »—e lo guardiamo con tristezza mentre si allontana, sentendoci ripiombare nella soffocante melanconia della solitudine. Parlare la propria lingua all’estero significa respirare un po’ d’aria della Patria; due parole, un saluto, bastano a sollevare il nostro spirito, come se quelle parole venissero da « là »; è tutto quanto di più caro abbiamo nella vita che ci parla in quel momento; poche parole del nostro idioma bastano a far compiere all’anima un rapido viaggio in luoghi amati e lontani, e farla tornare più lieta e serena.[176]
« Parla la lingua della gran Patria tua »—ha scritto Ruggero Bonghi. « Non senti come attraverso questa si sprigiona e si manifesta ogni idea della tua mente, ogni moto del tuo cuore? Nessuna lingua è più bella della tua. Nella tua lingua si rispecchia la storia della patria. Di secolo in secolo le generazioni, che hanno preceduto la tua, vi hanno deposto il loro animo e ve lo hanno trasmesso. Quando tu la parli nella purezza sua, tu vivrai non solo con patrioti che vivono, ma ancora con quelli altresì che hanno vissuto prima di te, e niente di forestiero ti penetrerà nell’anima ».
Nella lingua è il segreto dell’unione, il baluardo della nazionalità. Ebbene, quanti italiani in Italia parlano italiano?
I colti tutti; ma noi sappiamo che disgraziatamente essi non formano la maggioranza nella massa emigratrice. Gli altri parlano ligure, parlano siciliano, romagnolo, lombardo, napoletano, piemontese, ma non italiano. La nostra lingua non va più al nord di Pistoja e più al sud di Roma. Un povero lavoratore abruzzese si troverà di fronte ad un suo compagno d’emigrazione ligure, come di fronte ad uno straniero. Mancherà lo slancio dell’affratellamento. Essi non potranno parlarsi, perciò non potranno conoscersi. E per amarsi bisogna conoscersi. Ecco forse la prima e più grave ragione della dispersione, della scissione e della discordia.
Ci troviamo di fronte a questa dura verità; che se tutti i francesi parlano—più o meno—il francese, tutti gl’inglesi l’inglese, i tedeschi il tedesco e i russi il russo, la maggioranza del popolo italiano non parla italiano. Come possiamo pretendere che avvenga all’estero, quello che non avviene in Italia? L’emigrato che non conosce che il suo dialetto, dovrebbe studiare l’italiano come una lingua nuova; è assurdo. Quando deve imparare una nuova lingua impara la più utile: quella del paese.
Ora, possono i figli di questi nostri emigranti conoscere[177] l’italiano, se non è noto nemmeno ai loro genitori? Certamente no. E mancando la lingua italiana manca loro la base dell’italianità, il vincolo più forte con la Patria d’origine.
Per di più, all’infuori dell’idioma, i padri, che non conoscono spesso essi medesimi le grandezze e le glorie del loro Paese, i quali, talvolta, nella loro miseria hanno sentito come un senso d’inferiorità di fronte ai « nativi » e che hanno udito spesso il rimprovero umiliante della loro origine condensato in una parola di scherno, questi padri che nel loro affetto per i figli cercano di sottrarli alla condizione che ha messo tanto amaro sul loro pane sudato, e vogliono perciò renderli eguali agli altri più che sia possibile, questi padri, dico, potranno soffiare nell’anima dei loro piccoli un vigoroso spirito d’italianità? No; e chi di loro fa eccezione—ed eccezioni vi sono—compie un atto di eroismo.
Un’altra causa s’aggiunge: la donna. L’emigrazione italiana, come tutte le emigrazioni di lavoratori, è nella massima parte formata di uomini. I poveri non possono permettersi il lusso di portare lontano le loro donne. E con esse lasciano a casa la ricchezza inestimabile delle tradizioni, delle antiche credenze, degli affetti domestici. La donna vive nella casa e per la casa, sia pure essa un tugurio; la sua anima non disperde energie all’infuori della casa; si attacca al posto dove ha speso tutto il tesoro del suo amore, della sua attività, dove ha lavorato, sofferto, gioito, s’imbeve dello spirito di quei luoghi, ed anche trasportata lontano, al di là dei mari, vivrà sempre nella casa antica, e vorrà che tutto quanto la circonda gliela ricordi e gliela rievochi. Le rimembranze d’un uomo spaziano per monti e per valli: quelle d’una donna sovente non escono da quattro mura. Ogni donna che emigra porta con sè chiuso nel cuore un piccolo lembo della Patria. Ne parlerà ai suoi figli, sempre; imparerà loro le preghiere che ella[178] vi ha imparato; conterà loro le leggende che essa vi ha appreso; farà sì che l’amino, poichè essa l’ama.
Ma le donne italiane che emigrano sono poche. Una gran parte dei nostri emigranti dispersi per la Repubblica Argentina si maritano con delle donne del paese, con delle criollas, spesso con delle brune chinitas figlie della Pampa, misere e fiere come i cardi delle loro pianure. Nulla d’italiano nella casa, e i figli crescono ignari della patria del padre, se non sdegnosi.
Quante volte non è dato di udire i figli d’italiani chiamare il padre loro: El viejo gringo!—Il vecchio gringo!...
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Il Governo Argentino, il cui più legittimo desiderio è quello di argentinizzare gli stranieri, ha avuto paura di una possibile diffusione della lingua italiana, e l’ha combattuta. Nelle scuole superiori pubbliche argentine si impara per obbligo il francese e l’inglese o il tedesco; l’italiano no. Ciò in un paese dove vive circa un milione d’italiani, e anzi appunto per questo. Da anni un Comitato italiano a Buenos Aires, composto di buoni patriotti, domanda lo studio obbligatorio dell’italiano nelle scuole; ora è riuscito ad avere l’aderenza di tutte le principali Società italiane. L’agitazione si è fatta sentire, certo, ma udire? La nostra lingua non è trattata finora nemmeno a parità di condizione con le altre. Il nostro spirito nazionale non può esserne che depresso. Alle menti infantili appaiono la Francia, la Germania, l’Inghilterra, la Spagna, attraverso le loro letterature, come le sole nazioni degne d’essere conosciute. L’Italia viene alla coda. Tutto questo influisce moltissimo nell’animo dei figli d’italiani, i quali poi[179] molte volte vedono nell’ignoranza del padre come una prova della inferiorità italiana, e nella povertà dei nuovi emigranti l’indice della miseria nostra. E si confermano argentini con fierezza, e con tutto lo zelo esagerato del neofita, il quale si mostra sempre il fedele più fedele, perchè ha il passato da far dimenticare e perdonare. Nel nostro caso si tratta di far dimenticare e perdonare la origine italiana, che bene spesso è taciuta, dissimulata e talvolta negata.
Con lo studio della lingua italiana sarebbero rivelate loro bellezze e grandezze che non sanno, ricchezze che non immaginano, glorie che nessun paese potè mai vantare.
Il problema dei figli d’italiani è antico quanto l’emigrazione, e si presentò già triste e sconfortante fin da circa quarant’anni or sono alla mente dei patriottici fondatori delle prime scuole italiane nell’Argentina.
La scuola sola poteva dare il rimedio a tanto male. Nella scuola l’anima del fanciullo si scalda dei primi entusiasmi come un ferro alla forgia. Gli uomini e i paesi che impara ad amarvi esso li amerà per tutta la vita, perchè le prime impressioni rimangono profonde nella tenera cera del suo sentimento d’adolescente. Nella scuola si forma la sua coscienza, perchè ivi comincia a distinguere il bello dal brutto e il buono dal cattivo. Occorreva una scuola italiana che fosse anche scuola d’italianità, e a questo scopo, verso il 1866 sorsero a Buenos Aires le scuole delle Società Unione e Benevolenza e Nazionale Italiana.
Dieci anni dopo vennero istituite le scuole femminili della Unione Operai Italiani; nel ’77, quelle della Colonia Italiana, e l’anno dopo quelle dell’Italia Unita. Nell’84 sorgono le scuole della Società Venti Settembre e l’asilo dell’associazione femminile Margherita di Savoia; nell’86 le scuole dell’Italia, nell’87 quelle della Patria e Lavoro, nel ’90 le scuole della[180] Umberto I, nel ’94 quelle della Nuova Venti Settembre, e nel ’97 le scuole della Cavour.
Tutte queste scuole sono sorte per fermo volere di benemerite persone degne di tutta la nostra riconoscenza, le quali hanno dedicato loro ogni energia, in mezzo alle opposizioni più accanite; opposizioni di soci egoisti che non volevano si stornassero per le scuole i fondi predestinati al mutuo soccorso; opposizioni di uomini e giornali argentini che scorgevano nelle scuole italiane un peligro nacional; opposizioni passive e schernose di scettici e disamorati.
Oggi vi sono quindici scuole italiane a Buenos Aires. È confortante. Ma osservandole si vede subito che queste scuole sono troppo per numero e troppo poco per forza, e che i loro risultati non sempre sono quelli che potrebbero sperarsi. Non basta fare una scuola; bisogna guardare anche un po’ a che cosa deve servire; occorre sempre proporzionare l’intensità e la natura d’uno sforzo allo scopo. Lo spirito d’italianità laggiù languiva, incerto, senza spinte, freddo ed inerte come una nave disarmata in balìa del mare; la scuola sarebbe stata la sua vela, spiegata per raccogliere nelle sue pieghe bianche e frementi tutti i soffî vivificanti dell’entusiasmo patriottico, per riunirli, farne una forza che spingesse e dirigesse. Occorreva questa grande vela all’abbandonata navicella dell’« italianità », e vi hanno spiegato invece dei fazzoletti. Forse non si poteva far di più.
***
Secondo le cifre più recenti, gli alunni che frequentano tutte le quindici scuole italiane di Buenos Aires, compresi gli asili infantili, sono 2855.[181]
A Buenos Aires si calcolano sopra a 250,000 sudditi italiani. La proporzione del numero dei fanciulli in età da frequentare la scuola (dai sei ai quattordici anni) sul numero degli adulti in una popolazione normale, oscilla sul 20%. Data però la composizione della nostra emigrazione potremmo calcolare il 15% di fanciulli; ma restringiamo ancora e stabiliamo soltanto una proporzione del 10%. Ebbene, troviamo che a Buenos Aires vi sono almeno 25,000 figli d’italiani, dei quali soltanto 2855 frequentano le scuole italiane. Cioè: sopra venticinquemila figli d’italiani, ventiduemila circa sfuggono alla scuola italiana. Fuori di Buenos Aires è molto peggio. Quale influenza può avere questa scuola sul sentimento della massa?
Quel piccolo decimo poi che la frequenta non vi fa che un temporaneo soggiorno: le nostre scuole non hanno che le elementari, e per di più gli alunni le abbandonano al secondo o terzo anno, normalmente, per continuare gli studî nelle scuole argentine. Ma da una statistica pubblicata nel ’98 rilevo che mentre la « classe preparatoria » della Unione e Benevolenza era frequentata da centoventidue bambini, alla quinta non ve erano che otto. Duecentotre alunni si trovavano alla prima classe della Nazionale Italiana, e soltanto cinque alla quinta. Perchè i bambini non rimangono nelle nostre scuole? Perchè esse sono talvolta didatticamente manchevoli; ma soprattutto perchè le autorità scolastiche argentine non vedono di buon occhio gli allievi provenienti dalle nostre scuole, e giacchè per continuare gli studî è pur necessario passare nelle scuole del paese, è conveniente, dal lato dell’interesse e del tempo, di passarvi presto. I bambini lasciano la scuola italiana proprio quando le loro menti cominciano ad aprirsi, quando le loro piccole anime principiano a comprendere. L’influenza italiana non può lasciarvi vestigie profonde; e nel nuovo ambiente, fra i nuovi condiscepoli, tutto è presto cancellato.[182]
Le nostre scuole sono talvolta didatticamente manchevoli. È mancata l’unione delle iniziative, tutto è diviso. Quindici Società hanno voluto fondare quindici scuole, non volendo sottrarre nemmeno questa santa istituzione alle lotte, alle rivalità, alle ambizioni, che sono le triste caratteristiche di quelle nostre dissociate associazioni. I capitali che uniti avrebbero servito a mantenere delle grandi scuole capaci della loro nobile missione, divisi, sono invece in proporzione meschini; spesso insufficienti. L’arredamento scolastico è per molte scuole antiquato e deficiente. Il personale insegnante, male retribuito, non può essere sempre, ragionevolmente, il più scelto e il più adatto; deve talvolta dedicarsi anche ad altre occupazioni per campare la vita, non facendo più dedizioni alla scuola di tutte le sue forze e di tutto il suo amore.
Ma il difetto peggiore forse di quelle scuole è nel programma, fissato da una speciale Commissione di sorveglianza. Il programma è presso a poco quello delle scuole corrispondenti in Italia. Questo è assurdo. In Italia i ragazzi vanno a scuola per istruirsi; il resto lo insegna loro il paese. Essi vedono i monumenti, assistono alle cerimonie, odono i discorsi, seguono i reggimenti per la via, sentono rammentare date gloriose, entrano nelle chiese, nei musei, nelle pinacoteche; poco a poco, si forma in loro l’amore sconfinato al paese, l’ammirazione per i suoi grandi, la coscienza delle sue glorie; diventano italiani, così vivendo, per tutto quanto penetra nella loro anima; tutto ciò che vedono e che odono si ammassa inavvertito nel loro spirito, diviene pensiero, diviene sentimento come il cibo diviene sangue. Ma questo all’estero non accade. È la scuola che deve supplire—poichè disgraziatamente non supplisce sempre la famiglia—creando, direi quasi, un processo rapido d’italianizzazione con i mezzi più adatti. L’istruzione pura e semplice passa in seconda linea.
L’Argentina che vuol dare al suo popolo eteroclito[183] l’unione con un acceso spirito di nazionalità, ha ben compreso questo. I suoi uomini illustri vengono rapidamente eroicizzati. Ed è giusto: poichè manca il sublime sfondo del tempo che ingigantisce le figure che vi si proiettano, è necessario mirarle attraverso la smagliante lente della retorica. Questo, dopo tutto, è sano patriottismo. In tutte le scuole, anche nelle straniere, siano pure private, il Governo argentino impone una parte del programma riguardante la storia e la lingua del paese; ed ha ragione. Ma i nostri programmi non contrappongono nulla di efficace a questa argentinizzazione.
Non si tratta già di sottrarre i figli d’italiani alla loro nuova patria; il volerlo sarebbe errore grave. Si tratta di non perderli assolutamente per la vecchia. Bisogna persuaderli che non c’è un solo grande paese al mondo, l’Argentina, ma che ve ne sono almeno due. Bisogna che essi sentano il legittimo orgoglio e la fierezza di discendere dalla nostra stirpe gloriosa.
È tutto un altro sistema d’educazione che ci vuole. L’insegnamento buono per l’Italia è falso, falsissimo per l’estero; esso trova nell’ambiente una opposizione che bisogna vincere, invece di trovarvi un aiuto, una più grande scuola di perfezionamento. Occorre ben altrimenti colpire le fantasie dei bambini, parlare alle loro piccole anime ed accenderle di entusiasmo e di fierezza. Bisognerebbe mostrar loro sempre le superbe vedute delle nostre città, dei nostri monumenti, le pitture storiche, in modo teatrale. I bimbi, come i vecchi, non credono che quello che vedono.
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Sarebbe possibile alla Collettività Italiana l’istituzione di queste grandi scuole, il cui programma ideale abbiamo rapidamente tracciato?[184]
Sì, con un po’ più di unione, con un po’ più di concordia e d’amore. Ma il Governo italiano non dovrebbe rimanere estraneo all’iniziativa ed alla organizzazione di queste scuole italiane. Soltanto a questa condizione tacerebbero le antiche rivalità. Intorno alla sua opera tutti si unirebbero fraternamente. Occorre che una voce potente e paterna chiami i dispersi, concilî i dissidenti, plachi le ire, e questa non può essere che una voce che viene dalla Patria. Troppo tempo il Governo ha trascurato ed abbandonato quelle nostre colonie lasciando crescere le discordie, permettendo soprusi, sordo ai reclami, impassibile di fronte alle ingiustizie. Curando le scuole, che sono il vivaio degli uomini, avrà giovato a tutto un avvenire e si sarà fatto perdonare il passato.
La Collettività Italiana di Buenos Aires, che ha saputo adunare tanti milioni di capitale per la Società di beneficenza dell’Ospedale, farebbe altrettanto, e più, per le scuole, quando rimanesse persuasa che educare italianamente i figli è altrettanto necessario del curare i malati. L’azione del Governo dovrebbe essere più che altro morale: coordinare le forze e usarne con illuminata sapienza. Santa opera di pacificazione e di previdenza che non dovrebbe destare laggiù sospetti e gelosie.
L’Argentina potrà facilmente persuadersi che l’Italia non vuol certamente toglierle i suoi nuovi cittadini, ma vuole soltanto esserne amata perchè ne è madre.
[Dal Corriere della Sera del 15 agosto 1902.]
La nostra emigrazione è nella massima parte composta di agricoltori, e l’agricoltura forma la più grande risorsa presente e futura della Repubblica Argentina. Lasciamo dunque un poco, lettore mio, le città con i loro governi, le loro amministrazioni, i loro tribunali, le loro collettività straniere—e relative associazioni—lasciamo la vita « civile » fra le passeggiate, le avenidas, i clubs, le bische, i teatri, gl’ippodromi che conosciamo già abbastanza e andiamo in cerca di tutti quei nostri connazionali che non si vedono nei grandi centri perchè lavorano dispersi per i campi, che non danno nell’occhio perchè sono umili, attaccati alla terra e del colore della terra. Essi sono la maggioranza. Sono essi che empiono le navi partenti dai nostri porti. La parola « emigranti » evoca alla nostra mente la loro folla misera e forte. Sono essi che i nuovi paesi invitano, perchè essi sono la ricchezza, l’unica vera ricchezza. Eppure sono gli ultimi ad essere visti da chi arriva laggiù, perchè al primo momento si scorge solo[186] una folla di affaristi, di politicanti, di banchieri, di commercianti, d’industriali, di borsisti. Sono la maggioranza, ma le loro voci lontane non si odono; essi vengono gettati sui campi come si getta il seme. Il loro còmpito principale è quello di dare il frutto, darlo per tutti, e, se ne avanza, anche per loro.
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L’emigrante che sbarca col solo patrimonio delle sue braccia è un peon. Il peon—italianizzato in peone—è l’essere più umile che esista. È qualche cosa meno di un uomo: è una macchina da lavoro della forza d’un uomo. Il peone fa di tutto: è facchino, manuale, spazzino. Vive alla giornata, oggi trasporta le pietre nei cantieri, domani trasporta i covoni sui campi. Gira sempre in traccia di lavoro; passa da colonia a colonia, da provincia a provincia, ben felice quando un’occupazione lunga lo fissa in qualche parte. Viaggia quasi sempre a piedi come l’Ebreo Errante, ma senza le scarpe leggendarie, perchè le sue si logorano.
Durante i lavori della campagna trova facilmente a vendere le sue braccia, se però qualche flagello non ha distrutto i raccolti. Quando sulle grandi aie le trebbiatrici rumorose ed ansimanti divorano i covoni, ed il frumento scorre via dal loro fianco come un liquido d’oro, una folla d’uomini s’affatica intorno alle macchine, porge loro i bocconi, raccoglie il grano nei sacchi che poi trasporta sui carri enormi. Sono centinaia di peoni. Da dove vengono? Nessuno si cura di saperlo; nessuno domanda il loro nome. Giungono a branchi, attirati dal frumento come le formiche. Sono[187] accettati fino a che ve n’è bisogno; vengono contati e distribuiti al lavoro sotto la sorveglianza di capataz. Ricevono un nutrimento che varia—a seconda dei luoghi—ma che è invariabilmente cattivo; bevono acqua calda e quasi sempre melmosa, raramente mescolata con un po’ di caña—acquavite ricavata dalla distillazione della canna di zucchero. Il loro lavoro è aspro, terribile, sotto al sole torrido. Hanno un salario che può andare dal mezzo peso al giorno fino ai due pesos. Quando il raccolto è cattivo, il salario diminuisce. Quest’anno un numero grandissimo di peoni lavora nelle estancias per il solo cibo, ossia per il permesso di vivere.
I peoni più fortunati sono quelli che trovano un lavoro fisso; essi ricevono quindici, venti pesos al mese, ed hanno il vitto.
Purtroppo non è rarissimo il caso di peoni ai quali viene rifiutata la mercede pattuita. Finito il lavoro vengono qualche volta scacciati. Si sa bene che le loro proteste non sono ascoltate.
Vivono come le bestie, dormono in molti dentro un tugurio, che nella città è una camera di conventillo e in campagna una capanna od anche una semplice tettoia. Se ammalano cadono nelle mani di una curandera (poter chiamare il medico nelle campagne argentine è un lusso), la quale lega loro dei nastri rossi al polso per guarirli dalla febbre palustre, cava loro qualche libbra di sangue se accusano un grande male alla testa, fanno loro ingoiare le cose più strane e repugnanti per guarirli da un po’ di tutto. E muoiono così, sul loro giaciglio.
Il peone che ha una famiglia, non sempre ne è unito. È il primo consiglio che gli emigranti poveri ricevono dalle « Guide » distribuite in Italia, e dagli impiegati dell’Hôtel de Inmigrantes: separatevi dalla vostra famiglia; le donne trovano facilmente ad occuparsi in Buenos Aires! Ed essi e le loro donne si separano:[188] partono alla ricerca del lavoro per vie diverse che talvolta non s’incontrano più.
Il sogno del peone è divenire mediero, ossia affittuario di un pezzo di terra. Talvolta riesce a mettere da parte un po’ di denaro, qualche centinaio di pesos, realizza il suo sogno. Le economie del peone sono il risultato di una vita miserabile, sordida, piena di sacrificî inauditi, di avvilimenti e di rinuncie spesso vergognosi. Se nella patria s’imponessero questi lavoratori una parte dei sacrificî che compiono sotto la sferza del bisogno laggiù, e se dedicassero alla loro terra soltanto un po’ di quelle fatiche crudeli, alle quali li costringe la necessità in America, allora l’Italia sarebbe senza dubbio il più ricco paese del mondo.
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Il mediero prende in affitto una o due concessioni (la concessione è un quadrato di 860 metri di lato). Si fabbrica con le sue mani una capanna di legno e di fango seccato a mattoni, ricoperta di una lastra di zinco o di paglia. L’abitazione di terra è tradizionale; vi sono città come Mendoza, per esempio, che sono quasi interamente costruite così. Non è raro, viaggiando per la campagna, di vedere dentro un ristretto recinto dei cavalli che corrono per tutti i versi spaventati da gridi e da colpi di frusta. Lo strano torneo dura delle ore, e non è facile capire a prima vista che quelle brave bestie con i loro nobili caracollamenti hanno il modesto ufficio d’impastare il fango per costruirne delle case.
La vita del mediero è meno incerta di quella del peone, ma non meno dura. Egli vive isolato in mezzo alla sterminata pianura. Spesso il centro di popolazione[189] più vicino dista delle leghe. Una visita del medico costa venti pesos alla lega (50 lire). In caso di malattia ogni cura efficace è impossibile. Nell’estate, quando il grande calore corrompe l’acqua dei pozzi, il tifo ed il vaiolo mietono intere famiglie. In quella triste stagione è comune il vedere attaccato alla porta delle casupole un cencio nero, che si agita al vento tropicale soffiante dal Brasile e dal Paraguay caldo come il soffio d’una fornace. Quel cencio nero che sembra un uccellaccio di malaugurio agonizzante, significa che la morte è passata da lì: è il segno del lutto. La durezza delle condizioni fatte dal proprietario costringe il mediero a coltivare molta più terra di quanto sarebbe in grado di fare. Questo rende i lavori campestri eccessivamente faticosi. Il padrone sfrutta il mediero, e questi sfrutta la terra. La coltivazione si riduce allo strappare al suolo quanto più prodotto è possibile col minimo di lavoro, in proporzione alla superficie. Una famiglia normale coltiva circa cento ettari di terra. Le operazioni campestri debbono ridursi a due sole, per mancanza di tempo e di forza: la semina e la raccolta. La terra non sente la cura continua, operosa, della mano dell’uomo; non viene rinvigorita dalle concimazioni, nè liberata dalle male erbe. Si spossa rapidamente; dopo otto dieci anni, la sua forza produttrice declina rapidamente. L’uomo è costretto ad abbandonarla; essa ritorna pascolo; il deserto la invade di nuovo. Il proprietario è molto ricco, e poco gl’importa di sostituire l’agricoltura con la pastorizia nelle terre sfruttate; ma il mediero, salvo casi non troppo comuni, è sempre povero. Esso abbandona i campi ingrati in cerca di nuovo lavoro, ma con molto coraggio e molte illusioni di meno. È incalcolabile il numero di medieri che in quest’anno di misero raccolto sono tornati ad essere peoni. Ricordo d’averne incontrati tanti e tanti nelle colonie di Santa Fè e di Rosario, tragiche figure di affamati. Sono venute le annate di buon raccolto, ma[190] essi non hanno potuto profittare della prosperità. La ricchezza strappata alla terra con tanta fatica, è passata per le loro mani senza lasciarvi nulla, mentre intorno a loro si sono andati arrotondando dei patrimonî. È necessario fermarci ad illustrare brevemente lo sfruttamento del quale è vittima la grande massa di questi poveri lavoratori dei campi.
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La condizione più comune fatta dai proprietarî ai medieri è quella detta della terzeria. Il mediero deve mettere del proprio gli attrezzi da lavoro—che in una coltivazione estensiva consistono in macchine agricole che rappresentano un discreto capitale—deve mettere gli animali da lavoro, e infine le sementi; e deve consegnare al padrone una quantità del prodotto totale variante dal 25 al 30%. Questa parte del prodotto deve essere posta in sacchi nuovi, e portata a spese del mediero fino sui vagoni della più vicina stazione ferroviaria.
Il mediero si pone generalmente al lavoro senza capitali o con capitali insufficienti. Le macchine e il resto deve acquistarli a credito; deve anche acquistare le prime sementi. Tutto questo o gli viene anticipato dal proprietario, oppure fornito da un almacenero. In tutti e due i casi i prezzi sono gravati inumanamente. L’ombra di questo debito si proietta su tutte le prime annate di lavoro, durante le quali è necessario eseguire opere preparatorie, come la scavazione dei pozzi, la costruzione delle stalle e dell’abitazione, e il frutto della terra è minimo. Il mediero ha bisogno di farsi anticipare il vitto fino ai primi raccolti. Nulla di più facile: egli ha offerte da tutte le parti: vi saranno i[191] prodotti che pagheranno tutto. I commercianti delle campagne, tenitori di strani magazzini dove si trova di tutto, dalla trebbiatrice alla pasta da minestra e dal grano ai cappelli, si affrettano a divenire creditori, e porre così una specie d’ipoteca sul lavoro del mediero. L’agricoltore è quasi sempre ignaro dei prezzi; la sua diffidenza è dissipata presto dall’apparente fiducia di cui è fatto segno. Egli non si accorge che non è a lui che si presta, ma alla terra. Se il raccolto si presenta bene, egli vede aumentarsi il debito; quando passa per il pueblo (piccolo centro) viene assediato d’offerte dal suo fornitore; gli si imbottisce il carro di stoffe per le sue donne, di conserve alimentari, di un po’ di tutto. Egli è sedotto da questa effimera abbondanza. Si abitua a non misurare più le sue forze, fino al momento che il debito non lo ha ridotto allo stato di strumento facitore di ricchezza; egli come una pompa assorbe dalla terra i suoi tesori per dissetare avide bocche.
Nei tempi del raccolto, che richiede grande rapidità per non compromettere il prodotto, egli non può bastare da solo con la sua famiglia a compire i lavori campestri sulle grandi estensioni che è costretto a coltivare; ha bisogno di peoni, le cui mercedi sono a suo carico. Le spese aumentano. Le distanze poi rendono qualche volta disastroso il trasporto. Tutte queste difficoltà sono superate quando la terra vergine compensa ad usura i suoi sudori. Ma allorchè sopraggiunge la cattiva annata, quando dal Gran Chaco, che sembra la misteriosa patria dei flagelli, vengono i nuvoli di cavallette e si rovesciano sui suoi campi, quando la tormenta li inonda di sabbia arida, quando la siccità li brucia, oppure quando la terra stanca e spossata dallo sfruttamento continuo rifiuta i suoi doni, allora la miseria terribile sopraggiunge. Tutti gli uccelli di rapina piombano sulla casa del mediero. Egli è vittima di tutti gli agguati legali e non legali, di tutte le infamie. Se il paese traversa economicamente un periodo critico, come[192] ora, i creditori sono inesorabili. L’agricoltore paga mille per uno. I suoi attrezzi, i suoi bestiami, il suo grano sono sequestrati, la sua casa saccheggiata. Queste operazioni si compiono alla prima alba, come i delitti, perchè nessuna opposizione sia possibile. La legge non lo consente, ma lo consentono dei giudici, e basta.
Il mediero ritorna più miserabile di quel che non fosse prima, poichè spesse volte alla sua miseria materiale si aggiunge una ben più grave miseria morale. Il suo lavoro non è stato continuo; egli non si è occupato delle coltivazioni di frutta, di erbaggi, di ortaggi, i cui prodotti non poteva smerciare facilmente data la distanza dei mercati, e che richiedevano lunghe cure prima della produzione, lenta ed aleatoria. Nessun affetto alla terra lo portava ad arricchirla di vigne e di frutteti, che richiedono un capitale non piccolo, e che avrebbe potuto abbandonare forse da un momento all’altro prima di ricavarne i frutti. Egli non voleva che il guadagno immediato, il più gran guadagno. Grano, mais, lino, ecco le tre uniche coltivazioni, le più semplici. Tra il faticoso lavoro dell’aratura e quello tremendo del raccolto passavano lunghi mesi di ozio assoluto, d’inazione bruta. Il paziente lavoro di tutti i giorni non ha più tenuto occupato il suo spirito; dalla fatica bestiale passava alla disoccupazione ancora più bestiale. L’aspettativa fatalistica del raccolto lo ha reso apatico; è divenuto mezzo gaucho nell’anima, stemprato e stanco; senza il sollievo ed il conforto di una vita civile ha perduto la grande forza della volontà, si arrende alla sciagura, cede, è vinto.
Questa è la sorte disgraziatamente comune a tanti nostri emigranti, ma non a tutti, per fortuna. Vi sono alcuni proprietarî (molto pochi in verità) che fanno ai loro medieri patti più umani, che forniscono loro una parte degli attrezzi, un carro, i cavalli, oppure che stabiliscono il rimborso onestamente. Vi sono agricoltori che riescono a mantenersi con le loro forze, che vivono[193] sempre nel sacrificio della più stretta economia, che dopo varî anni di lavoro giungono a capitalizzare due, tre, quattromila pesos, sottraendoli all’ingordigia delittuosa dei soliti uccelli di rapina. Essi, al primo rallentarsi della produzione, cercano altri campi per loro conto, e divengono coloni.
Il colono rappresenta l’ultima trasformazione dell’emigrante. Diventando colono, lo straniero cessa virtualmente d’essere straniero, perchè si attacca definitivamente alla terra. Il colono è la vera forza.
Fare d’ogni emigrato agricoltore un colono, questo è il problema che la Repubblica Argentina s’impone; ma la sua soluzione finora non fu cercata che fra i miraggi della teoria.
I coloni e la colonizzazione c’interessano vivamente perchè sopra essi si basa l’avvenire della nostra emigrazione, non solo, ma bensì l’avvenire stesso dell’Argentina, e non sarà discaro al lettore che ad essi dedichiamo la lettera seguente.
[Dal Corriere della Sera del 24 agosto 1902.]
Nell’Argentina vi sono circa ottocentomila chilometri quadrati di terra coltivabile, dei quali appena quarantacinquemila sono lavorati. Questa è una grande seduzione per le masse che emigrano. La conquista sembra semplice; quella terra non aspetta che il lavoro per profondere i suoi tesori immensi, ecco le braccia, noi ne abbiamo.
Ma l’emigrante, il quale giunge laggiù attratto dal miraggio d’una prosperità che appare certa, il quale sogna di divenire proprietario—per il diritto che dà il lavoro—di una terra che ora è abbandonata, selvaggia e infruttifera, si accorge ben presto che la realtà è ben diversa dai bei sogni che hanno confortato il suo distacco dalla Patria.
Ecco ciò che egli trova:
Della grande superficie di terra disponibile soltanto una parte ben piccola è accessibile, ossia solo quelle terre i cui prodotti possono essere trasportati, o potranno essere trasportati in un futuro non eccessivamente remoto. A dieci leghe da una ferrovia o da un[195] fiume navigabile il prezzo del trasporto assorbe il valore del prodotto; da lì incomincia la sterminata zona della terra inutile, sulla quale non è possibile che la vita selvaggia, senza contatti con l’umanità, vita che è inaccettabile se ad essa non si dà la speranza di un limite. Vi sono terre non attraversate presentemente da strade ferrate, ma che lo saranno probabilmente. Qui la vita selvaggia è affrontabile, perchè vi è la probabilità di uscirne presto. In fondo tutti questi calcoli di tempo non debbono sorpassare i limiti della vita umana; si ha un bel predire un fulgido, favoloso avvenire nelle età future: questo non ci commuove come la speranza della più modesta agiatezza balenataci nella mente quale compenso al nostro lavoro.
La terra aperta al fecondo lavoro dell’uomo si riduce dunque ad un tredicesimo circa di tutta la terra coltivabile, ad un quarantaduesimo della superficie totale della Repubblica. Orbene, questa terra in massima parte non è più libera, ed ha un costo che la speculazione ha reso esagerato.
Entriamo un poco nel meccanismo della compra-vendita dei terreni. Essi appartengono in grande parte a latifondisti argentini, che sono arrivati al possesso quasi sempre o per diritto di « denuncia »—per il quale si poteva una volta divenire proprietarî delle terre denunciate allo Stato come libere—o più spesso per favoritismi, per compensi di maneggi politici, per regalìa governativa, o magari per nessun diritto. All’epoca della sanguinosa conquista, quando le misere tribù indiane furono spazzate vie dalla Pampa, enormi lotti di terre vennero cedute ai capi dell’armata e agli amici del governo. Queste terre non avevano che un valore minimo, erano pascoli brulli e selvaggi. L’emigrazione nostra, introducendo l’agricoltura, diede loro un ben maggior valore, e la terra divenne in breve oggetto della più sfrenata speculazione, i cui lucrosi compensi pagava e paga il lavoro italiano.[196]
Il coltivatore non ha altro sogno che quello di divenire proprietario. Sfruttare questa aspirazione legittima, ecco la base della speculazione, che è sempre proceduta e procede così: Il latifondista divide la sua proprietà in porzioni che affida, al momento opportuno, alle vendite al remate—specie di asta pubblica. Se la corrente immigratoria è forte, e se i terreni sono facilmente accessibili, egli trova subito degli speculatori delle Società di speculatori che comperano. Spesso quelle terre, magnificate da réclames veramente americane, passano da remate in remate aumentando straordinariamente il loro costo, senza che nessun lavoro abbia aumentato menomamente il loro valore. È il lavoro futuro che si va ipotecando. Finalmente, quando l’opportunità si presenta, la terra, divisa in piccoli lotti, passa ai coltivatori a condizioni disastrose.
Il prezzo è centuplicato, alle volte. Per esempio, leggo in una relazione pubblicata nel ’91, che la colonia Pilar, comperata da un agente tedesco di nome Lehman per seicento pesos boliviani, ripartita in concessioni e rivenduta, passata poi in mano dei coloni col patto di pagamenti rateali, dopo sette anni si trovò essere stata comperata per nove decimi da coloni italiani pel prezzo complessivo di cinquantamila pesos.
I coloni vengono allettati alla compera con ogni mezzo. Se i compratori non accorrono si cambia nome alla colonia in vendita; una colonia che sotto il nome spagnuolo non trovava acquirenti venne chiamata Nuova Torino, e si popolò di emigrati piemontesi, contenti di trovare almeno nel nome un dolce ricordo della Patria abbandonata. Due colonie vicine, situate in terreni paludosi, trovarono presto compratori italiani quando vennero battezzate coi nomi di Umberto e Margherita. Nei cartelli réclame di queste colonie erano disegnate due belle piazze, intorno alle quali dovevano sorgere le abitazioni. I poveri contadini recatisi sul posto trovarono che al posto delle piazze v’erano delle canadas—piccole[197] paludi. Domandarono la rescissione dei contratti, ma il venditore rimediò creando per le due colonie un centro solo al quale dette il nome di Nuova Roma, e tutti contenti.
I cartelli réclame poi sono capolavori del genere: la « pianta » delle colonie vi appare tutta verde, con belle strade bianche, divisa in quadri sui quali l’ingenua fantasia dei contadini miete messi abbondanti. Come resistere alla tentazione di comperare un pezzo di quella bella terra, quando si ha in tasca qualche migliaio di pesos, siano pure risparmiati Dio sa a costo di quanti sacrificî? Non occorre pagar subito: si paga a rate annuali. Si paga in cinque, sette, dieci anni.
Il colono viene a pagare così un prezzo enorme. Non sempre riesce a soddisfare ai suoi impegni, ed allora si vede ritolta la terra che egli ha fecondato, per la quale ha speso per anni ed anni ogni sua energia ed ogni suo pensiero, quella terra nella quale aveva riposto tutte le sue speranze. Deve abbandonarla, abbandonare la casa che bene spesso ha eretto con le sue mani, rese sapienti dalla necessità, abbandonare le messi, tutto. E si trova ricaduto nella miseria assoluta: tutto è da ricominciare.
***
Il colono non riceve il titolo di proprietà della terra comperata che quando ha compìto l’ultimo versamento; è questo che rende la sua posizione sempre incerta. Finchè i raccolti sono buoni egli può cavarsela, consacrando tutto il suo lavoro al pagamento delle rate. È una vita di sacrificio e di privazioni, ma è nei limiti del possibile; e in fondo ad essa egli vede la liberazione,[198] il possesso incontrastato, il principio della prosperità tanto sognata. Ma i raccolti non sono sempre buoni; vi sono le cavallette, la tormenta, la siccità che arrivano con una periodicità spaventosa ed annientano di colpo le messi di un’annata; e tutto può essere perduto, perchè se anche egli non viene scacciato dalla terra, l’accumularsi dei pagamenti e le necessità di contrarre debiti lo rendono indefinitivamente schiavo del venditore. A meno che non venga l’annata d’oro, ben rara purtroppo. « Per il colono »—scriveva nel febbraio la Patria degli Italiani—« il lavoro è un giuoco nel quale contro nove probabilità di veder completamente frustrate le fatiche d’un anno, una sola gli permette qualche benefizio; ed anche questa abbandonata al capriccio della fortuna.... Una volta tanto, quando meno ci si pensa, ecco che un flagello rovina il raccolto degli Stati Uniti e della Russia, il frumento, il lino diventano rari sui mercati di consumo, l’Europa è costretta a provvedersene a qualunque prezzo, e paga i cereali a peso d’oro; allora esce finalmente dalla ruota della lotteria il numero atteso dagli agricoltori, il ricavo del raccolto paga tutte le spese e tutte le usure. »
Come si vede, la situazione dei coloni, date le condizioni di vendita, che sono generali, è ben difficile. A tutto questo si aggiungono bene spesso gli inganni e le frodi nel contratto—che la Giustizia lascia impuniti—nei lacci dei quali cadono facilmente i nostri poveri contadini, che non meritano in verità, specialmente all’estero, la loro tradizionale fama di scaltri.
Avviene spesso che il contratto di vendita risulta nullo perchè il venditore non aveva alcun diritto di proprietà sulla terra venduta. Le cause per contestazione di proprietà sono comunissime nell’Argentina, anche a causa della mancanza d’un catasto completo e regolare, che rende spesso impossibile di constatare l’autenticità d’un titolo di proprietà.[199]
La vendita al remate di terreni per parte di gente che non vi aveva alcun diritto prese all’epoca delle speculazioni uno sviluppo fantastico. Bastava un po’ di réclame sui giornali, si stampavano piante immaginarie di terreni, divisi in lotti, e si rematava. I compratori pagavano una caparra per avere un titolo che naturalmente non valeva nulla. Con questo sistema vennero rematadi non pochi pantani della provincia di Buenos Aires—specialmente vicino alla Plata—passandoli per splendidi appezzamenti di terra. Si è rematado anche il letto del Paranà. Una Società per azioni, la « Colonizadora Popular », il cui gerente è fuggito a New York, una grande Società che possedeva persino dei piccoli vapori sul Rio della Plata e sul Paranà, vendette, senza mai sognarsi d’averne il diritto, una straordinaria quantità di terreni al nord, si può dire quasi tutto il Chaco Australe, frodando un tre milioni di pesos che, manco a dirlo, erano in gran parte italiani.
Ma anche ora che è passata la febbre dell’oro, pare che le vendite all’usanza della « Colonizadora Popular » non siano passate di moda, se si crede ad un articolo della Patria del 16 aprile, col quale s’invocano provvedimenti contro certi rematadores che mettono all’asta dei terreni, intascano la loro quota e lasciano ai compratori la soddisfazione di constatare, dopo qualche tempo, che l’asta non era regolare.
Si passano i limiti del verosimile. Una forma di frode abbastanza ripetuta è questa: un uomo influente, amico del Governo, compera un terreno nazionale da pagarsi in tempo determinato, ordinariamente dieci anni. Subito remata. La terra subisce il solito processo di rincarimento e in ultimo viene venduta ai coloni, i quali la coltivano, la fecondano del loro sudore e pagano le annualità pattuite. Ma l’amico del Governo, che ha intascato un bel capitale, dimentica di pagare la terra allo Stato. Passa il tempo stabilito e il contratto suo[200] è nullo. Lo Stato torna padrone e sequestra la terra. I contratti dei coloni sono nulli; la terra è mal venduta; i loro bolletti provvisorî valgono un bel niente. Essi sono spodestati. La loro terra appartiene ad un altro concessionario, il quale li scaccia.
Qualche volta è successo—e non certo raramente—che il venditore accende un’ipoteca sui fondi venduti ai coloni, sapientemente profittando del fatto che i coloni hanno titolo di proprietà soltanto alla fine dei pagamenti. Ritira le quote annuali dai coloni e se ne va in pace. I poveri contadini si veggono ritolta la proprietà loro o debbono assoggettarsi a pagare l’ipoteca, ossia a ricominciare da capo.
Un argentino ricchissimo, che aveva mal comperato certi terreni in San Vicente, nella provincia di Santa Fè, pensò di rifarsi vendendoli a dei coloni italiani. Nell’affare figurò un agente, il quale cedette i lotti ai coloni a rate annuali e passò gl’incassi all’argentino ricchissimo—il fatto è ben noto in tutta la provincia. I veri proprietarî, dopo alcuni anni, fecero un processo ai coloni e ottennero di sloggiarli tutti quanti. Alcuni di quegli infelici preferirono pagare di nuovo, ma dovettero pagare il doppio, poichè il terreno, dopo sette anni del loro lavoro, aveva raddoppiato di prezzo. Essi così pagarono tre volte la terra. Cito questo caso, perchè l’argentino in questione ha occupato un’altissima posizione nel governo della provincia di Santa Fè ed è fra i più reputati uomini politici: lo chiamano l’honrado tirano—il tiranno onesto. Questo dimostra che fare di queste cose non è in fondo un gran male laggiù. È un po’ di viveza.
***
È impossibile enumerare tutte le infamie di questo genere delle quali sono vittime i nostri coloni. Il male[201] è che il cattivo esempio viene dall’alto. Cito fra molti un fatto—che posso documentare—avvenuto recentemente a Yeruà. Il Governo argentino ha venduto dei terreni a coloni italiani, pagamento rateale a dieci anni. Quando mancano gli ultimi pagamenti, gl’incaricati della riscossione si rifiutano di ricevere il denaro per poter così mantenere non definitivo e illegale il possesso. E sapete perchè? Per poter cedere una parte di quelle terre già pagate, sacrosantamente pagate, ad una Compagnia ferroviaria.
Tra errori e frodi, non è esagerato l’asserire che più del sessanta per cento dei contratti di vendita di terre è di validità non accertata. La colonia Cello, la colonia Josefina, la colonia Santarita, sono state pagate interamente due volte; anzi molto di più, perchè nel nuovo pagamento si è tenuto largamente conto dell’aumento del valore.
Non è facile immaginare quale sia questo aumento, talvolta. Il colono prende possesso d’una terra vergine, e la terra ha bisogno di lunghe, pazienti e faticose cure prima di schiudersi alla fecondità. Il colono deve circondarla di recinti, deve costruirvi la casa, scavare i pozzi, tracciare le strade, allevare gli animali da lavoro, dissodare la terra, a più riprese sconvolgerla tutta. Soltanto dopo varî anni egli raccoglie i frutti del suo assiduo lavoro. Nei primi anni le sementi si perdono; i cardi e gli sterpi sotterrati dall’aratro tornano a sollevare i loro steli tenaci fra le zolle, soffocando il frumento: bisogna schiacciarli di nuovo sotto i colpi degli attrezzi campestri, come serpentacci, fino a che si ritirano dai campi coltivati, vinti e dispersi. Ebbene, è proprio in questo momento, quando il colono sta per ritrarre i primi frutti del suo lavoro, che egli—nei casi troppo soventi di mala vendita—si vede scacciato. Egli deve abbandonare la terra « con tutto quanto vi è piantato, edificato e inchiodato »—come è detto nei contratti di vendita. E deve abbandonare[202] anche il raccolto, perchè questa specie di sfratto laggiù compare, come una mala pianta, quando le messi maturano.
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Ecco perchè anche il colono come il mediero—del quale il lettore conosce la triste esistenza—si trovano costretti a sfruttare ad oltranza la terra, ripetendo senza posa le colture che offrono prodotti di più facile smercio e di maggiore profitto, come il grano, il lino e il mais, senza mai concederle una rotazione che significherebbe perdita di tempo e di denaro, senza mai rinnovarle i sali sottratti dalla vegetazione, senza mai darle riposo.
La terra s’impoverisce rapidamente. La vita media d’una colonia non supera i venticinque anni. La crisi agricola, in molte delle più antiche colonie argentine, diviene endemica. Entre Rios e Santa Fè declinano. Si leggono nei giornali argentini delle descrizioni desolanti di miserie profonde. Se il colono fosse lasciato libero del suo campo, senza l’oppressione d’uno sfruttamento così grave, non basterebbero certo le cavallette del Chaco a rodere in due anni la prosperità della campagna argentina. È che i disastri agrarî trovano tanto la terra quanto i suoi lavoratori immiseriti, incapaci a resistere.
La Patria del 15 gennaio esponeva crudamente questa situazione. « Chi fa le spese è il lavoro »—scriveva.—« In definitiva, o i coloni debbono morir di fame per fare le spese ai proprietarî di terre e ai capitalisti, ovvero debbono rendersi insolvibili verso chi somministra loro le sussistenze; tutto il meccanismo[203] dell’economia rurale non ha che uno scopo solo: impinguare la scarsella ai latifondisti ed alle imprese di colonizzazione. »
C’è di che far molto meditare gli organizzatori infaticabili dei nostri scioperi agrarî!
***
Ora il Governo argentino, per compensare la diminuzione costante della produzione agricola, intende di dare un nuovo grande impulso alla colonizzazione nel Sud. Ma nessuna prosperità durevole sarà possibile, se la terra non verrà distribuita direttamente ai coltivatori, evitando ogni intermediario. Ma, ahimè! l’affarismo e la speculazione già cominciano a stendere i loro tentacoli sitibondi lungo i tracciati delle nuove ferrovie del Sud...
Nell’Argentina vi sono sopra a duecentomila disoccupati, in parte coltivatori, che hanno disertato i campi resi infecondi. Con questa massa di lavoratori pratici del paese è possibile al Governo argentino di tentare un vastissimo esperimento di colonizzazione, prima di stimolare ciecamente nuova emigrazione italiana, che potrebbe ritrovare laggiù antichi dolori e disinganni.
È la minore garanzia che possiamo pretendere contro lo sfruttamento della nostra emigrazione lavoratrice.
[Dal Corriere della Sera del 31 agosto 1902.]
Un console italiano, rappresentante la nostra diplomazia in una delle principalissime città della Repubblica Argentina,—città dove vivono non meno di quarantamila nostri connazionali—ha inviato una bella mattina la lettera seguente alla Patria degli Italiani. È il grido d’un buon burocratico che trova il suo tavolo troppo ingombro di lavoro, e che invoca la meritata tranquillità:
« Nell’interesse e per norma dei nostri connazionali i quali avessero reclami da sporgere per fatti dell’autorità da cui si ritenessero lesi, sarò grato se vorrete pubblicare il seguente avviso:
« Giusta i principî stabiliti dal Governo del Re, i regî sudditi, i quali si ritengono lesi nei loro diritti da qualche autorità locale, dovranno prima di tutto—e fondandosi nelle garanzie loro accordate dalle costituzioni argentine—rivolgersi successivamente, se necessario, a tutte le autorità superiori a quella dalla quale furono danneggiati, fornendo ad esse le prove convincenti dei fatti asseriti ».[205]
Una parentesi: le parole in corsivo sono sottolineate nel testo originale. E continuiamo:
« Solo nel caso, non presumibile, che la suprema autorità locale siasi negata di far giustizia, od abbia indiscutibilmente violata quest’ultima, i regî sudditi potranno far ricorso all’intervento dell’autorità consolare, provando:
« 1.º Che il reclamante ha diritto all’invocata protezione consolare, per avere egli il possesso attuale della nazionalità italiana, e per la regolarità della propria situazione di fronte alle leggi della Patria.
« 2.º Che il reclamo è basato sulla realtà dei fatti, i quali perciò debbono essere provati, e che esso abbia fondamento giuridico; giacchè non tutti i danni sono suscettibili di risarcimento.
« 3.º Che vi sia stato—ciò che non deve supporsi—un diniego od una patente violazione di giustizia da parte delle supreme autorità locali.
« È pero lasciato al prudente criterio di equità del Regio Console il giudicare, caso per caso, della opportunità o meno di interporre fin da principio, in favore dei reclamanti, il proprio intervento ufficioso, allo scopo di conseguire eque transazioni ed amichevoli componimenti.
« Gradisca, ecc. ».
Questo significa semplicemente, nell’Argentina, che i Consolati sono inutili. Supponete un caso pratico, prendiamo un esempio nella piccola cronaca di tutti i giorni: un soldato di polizia per distrarsi consegna un colpo di daga ad un gringo. Il poveraccio non può correre dal Console, da colui che dovrebbe rappresentare la tutela, la protezione della sua patria. No, deve « prima di tutto, fondandosi nelle garanzie accordate dalle costituzioni argentine, rivolgersi successivamente a tutte le autorità superiori, ecc. ». Dunque egli si[206] fonda sulle garanzie e corre—se può—dall’ufficiale di polizia; se non giova va dal commissario; non basta? e allora protesta presso il « jefe politico »; se l’alto funzionario non gli bada si reca dal ministro della provincia; se il ministro gli nega giustizia si presenta al governatore; il governatore lo manda al diavolo? allora va dal ministro della giustizia del Governo federale; se questi rifiuta di accogliere il reclamo, il poveraccio bussa alla porta del Presidente e gli racconta il fatto. È da notarsi intanto che il regio suddito—per usare il termine burocratico—si sarebbe dovuto trascinare appresso, sempre, i testimonî e i periti, o almeno le perizie, perchè bisogna « fornire a tutte le autorità le prove convincenti dei fatti asseriti ». Il Presidente non gli dà retta neanche lui, « ciò non deve supporsi »—dice il nostro console—ma supponiamolo, che la verosimiglianza ci guadagna, e allora il regio suddito—o i suoi discendenti perchè nel frattempo saranno passati tanti anni!—trovandosi in perfetta regola con le emanazioni consolari, ricorre al Console. La cosa è semplicissima; egli non ha che a « provare di avere il possesso attuale della nazionalità italiana e di dimostrare la regolarità della propria situazione di fronte alle leggi italiane »; poi passa a dimostrare che « il reclamo è basato sulla realtà di fatti, i quali debbono perciò essere provati » e fa una breve dissertazione giuridica sul giuridico fondamento. In ultimo non ha che da provare il diniego o la violazione di giustizia—e che sia « patente »—da parte delle supreme autorità locali, e il Console finalmente inizia i passi necessarî per ottenere la riparazione.
Ebbene, tutto questo è una burla feroce in un paese dove la giustizia è quello che è, dove l’abuso e il sopruso sono moneta corrente, e dove il delitto, specialmente se è a danno di stranieri, rimane così spesso impunito. Quale difesa porge l’Italia a quei suoi figli[207] lontani? quale protezione? Il comunicato del Console in questione ce lo dice. Non è colpa nostra se i legami fra la Madre Patria e gli emigrati si spezzano così facilmente?
***
Quel comunicato ha un significato molto grave, perchè non rappresenta una stranezza d’un Console originale poco scrupoloso dei suoi doveri, ma è la espressione di tutto il nostro sistema diplomatico: esso espone i « principî stabiliti dal Governo del Re », esso rappresenta lo spirito della legge, è la legge. Non è quel Console che non vuol proteggere le vittime italiane dagli abusi abitudinarî delle autorità argentine: no, è la nostra legge che non li difende, che non li ha mai difesi. Il Console del quale ho parlato non ha fatto che trascrivere quello che dicono i regolamenti diplomatici; egli è in regola. Si è visto forse assediato di proteste di nostri confratelli angariati, fra tanti gridi di aiuto non ha saputo più quali ascoltare, ed egli ha scritto quella lettera. Essa in altre parole viene a dire: Ma voi credete che io possa fare del bene? credete che io possa darvi protezione, aiuto, difesa? ah, no, voi non sapete quali sono le attribuzioni del Console: esse sono queste e queste.
È vero che « è lasciato al prudente criterio di equità del Regio Console il giudicare, caso per caso, della opportunità, o meno, di interporre il proprio intervento ufficioso in favore dei reclamanti », ma quel prudente criterio è così prudente che molto di raro mette la testa fuori del Consolato, e ciò fa solo quando è impossibile farne a meno.
Da qualunque parte si vada si odono proteste contro[208] l’inerzia dei Consoli. Sono avvenute cose incredibili, non parlando che di questi ultimi tempi; italiani vessati, truffati, angariati, feriti, assassinati senza che in nome della loro Patria si levasse nessuna fiera voce di protesta. Le autorità consolari domandano spiegazioni alle autorità argentine; queste ne danno—buone o cattive poco monta—le autorità consolari se ne dichiarano più o meno soddisfatte e ringraziano. Le vittime figurano sempre dalla parte del torto, si capisce. Un’infinità di fatti che hanno sollevato l’indignazione pubblica, sono passati, così, come le cose più naturali.
Il tredici del luglio scorso un italiano, un certo Domenico Barolo, venne arrestato senza ragione nella sua casa, a Rosario. Condottolo in istrada gli agenti estrassero le daghe e gli diedero tanti colpi di taglio e di piatto da stenderlo al suolo. Allora chiamarono una vettura e ve lo gettarono di traverso come un sacco, ponendogli i piedi sul petto. Rinvenuto, alla Commisseria, volevano fargli pagare una multa di dodici pesos, ma poi per l’intermissione d’un signore che lo conosceva venne rilasciato. Tutto questo è dettagliatamente narrato da un giornale argentino, la Repubblica, la quale, fatta constatare l’esattezza del racconto, inviò un redattore al Consolato italiano, accompagnato dalla stessa vittima, per fare una protesta. Lo stesso giornale riportava, dopo alcuni giorni, la notizia che le spiegazioni della polizia argentina erano state trovate soddisfacenti dal Consolato italiano. Le ferite, quell’infelice, se le sarebbe fatte da sè, cadendo. Basti il dire—osserva la Repubblica—che egli ha, fra le altre, varie ferite alla sommità del cranio, e per farsele sarebbe dovuto cadere replicatamente con la testa in giù e le gambe in aria, dritto come un uovo.
Di questi fatti ve ne sono a bizzeffe. Un altro, caratteristico. A Bahia Blanca, nel marzo passato, la polizia ha assalito con le armi degli operai italiani[209] che avevano scioperato per ragioni sacrosante che abbiamo esposte in altro articolo. Vi sono stati quattro feriti, di cui uno gravemente. Nessuna guardia ferita. L’autorità consolare, dopo domandate delle spiegazioni alla polizia e fatta una specie d’indagine, ha concluso che gli operai avevano torto, che la polizia era la vittima, o poco meno, e che non si era potuto sapere il nome nemmeno di uno dei pretesi feriti. I nomi, se all’autorità preme ancora saperli, eccoli: Federico Dellepiane, Ivano Franchetti, Pasquale Severini e Pietro Giorgenti. I due primi sono stati anche imprigionati. Il ferito grave era il Dellepiane. La cosa non è un segreto—fuori che per la diplomazia, pare—poichè fu resa pubblica da una protesta, al Jefe politico, dei commercianti di Bahia Blanca, protesta portante quarantatre firme—fra le quali molte di argentini.
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Quando pensiamo che la polizia nord-americana ha messo sotto sopra il mondo per una miss Stone sequestrata, con tutti i riguardi, dai briganti bulgari—la quale dopo tutto era andata a pescare la sua disgrazia con la più evangelica buona volontà—; quando pensiamo che per un missionario ammazzato, od anche minacciato, in Cina, si domandano solenni riparazioni e si muovono minacciosamente le flotte; quando pensiamo a tutto questo sentiamo la vergogna per l’abbandono in cui lasciamo i nostri compatrioti all’estero, restando indifferenti davanti ad ogni infamia, inerti e tranquilli. E poi ci stupiamo se gl’Italiani non godono di troppo prestigio al di là dell’Atlantico.
In un paese, come l’Argentina, dove gli uomini pongono bene spesso sulla bilancia della Giustizia il peso[210] delle loro influenze e delle loro relazioni, lo straniero, che non ha nessuno di questi pesi da mettervi, trova la bilancia terribilmente difettosa. Per ridurla normale i rappresentanti del suo paese dovrebbero gravarvi quanto basta con la loro autorità. I nostri rappresentanti parlano seriamente di garanzie costituzionali argentine sulle quali ci si dovrebbe fondare, e partono in ogni questione dal principio che « non deve supporsi un diniego o una violazione di giustizia ». Già, come se quella bilancia laggiù andasse bene!
Un diplomatico italiano mi disse un giorno che gli emigranti, per il solo fatto di essere andati laggiù, accettavano tutte le condizioni nelle quali si svolge la vita di quel paese, accettavano la sua giustizia, la sua amministrazione, ecc. Il ragionamento è comodo, ma è falso. Essi, poveretti, non sanno nulla di nulla; essi accettano, come la pecora, per il solo fatto che segue il gregge, accetta la forbice che la tosa o il coltello che la scanna. Ed è così che molti, troppi dei nostri rappresentanti diplomatici sentono la loro missione. È pur vero che chi di loro vuol fare non può.
Non può perchè v’è la consuetudine, v’è il precedente. Un console od un ministro italiano che prendendo a cuore una questione parlasse alto, risoluto, fieramente, non metterebbe troppo pensiero alle autorità locali, le quali potrebbero sempre dire: nella tale occasione analoga a questa si fece così e così, e foste contenti; in questa faremo lo stesso, e dovrete essere contenti. Non può perchè i casi per levare voci di protesta, per invocare a grandi gridi la giustizia sono tali e tanti, che un console coscienzioso, nell’America del Sud, non saprebbe dove cominciare, dove mettersi le mani, se non nei capelli per la disperazione. Non può perchè sa che alle spalle non ha—povero emigrato anche lui—che una ben debole protezione. Il Governo non vuole seccature, non vuole complicazioni; il diplomatico più abile è quello che dà meno noie,[211] che solleva meno incidenti. Non bisogna essere troppo esigenti, Dio mio, bisogna contentarsi delle spiegazioni che i governi interessati hanno la bontà di fornire. Il diplomatico che ha troppi scrupoli è presto tolto di mezzo; le buone relazioni internazionali sono salve. C’è la consuetudine anche in questo: tanto che se il nostro Governo per una volta si associa alle proteste di qualche suo agente, non mette una gran soggezione, nemmeno ad un Venezuela. È una cosa così nuova! Il Governo in fondo dice ai suoi consoli e ministri quello che costoro dicono ai « regî sudditi »: Sbrigatevela da voi!
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Ed essi se la sbrigano. Cercano di tenersi amiche le autorità locali, procurano di non urtare in niente, d’andare avanti sgusciando destramente fra questione e questione, persuasi qualche volta che quella è la buona via per cementare gli accordi fra Governo e Governo, per fomentare le fratellanze. Le autorità locali ne sono enchantées. Così essi assicurano la tranquillità dei rapporti diplomatici e non compromettono la loro carriera.
E non hanno torto. La carriera li preoccupa giustamente. Essi sono degli impiegati; anzi sono troppo impiegati. E la diplomazia non dovrebbe procedere alla stregua della burocrazia. La promozione e il trasloco degli agenti diplomatici dovrebbero essere soggetti a ben diverse leggi da quelle che regolano la promozione e il trasloco di altri impiegati dello Stato. Non può un diplomatico essere, supponiamo, vice-console ad Anversa, console a San Paulo del Brasile, console generale a Costantinopoli, segretario a Tokio,[212] come un impiegato alle imposte dirette è commesso a Sassari e ricevitore ad Otranto. L’azione del diplomatico spazia nell’ambiente in cui egli vive, e deve essere diversa a seconda dei diversi ambienti. Un console non può limitarsi nell’Argentina o nel Brasile a dare ai suoi connazionali la sua protezione nella stessa misura e nella stessa forma con le quali le dà, che so, a Londra o a Berlino. I governi, le autorità, la Giustizia, le amministrazioni offrono ben diverse garanzie nei diversi paesi, ed è assurdo che l’azione dei consoli sia limitata dagli stessi « principî stabiliti dal governo del Re » in qualunque parte del mondo si trovino. Il console deve poterne uscire da quelle trincee protocollate, e per uscirne deve conoscere intimamente l’ambiente. Ma questo non avverrà mai finchè egli sarà portato dalla sua « carriera » a considerare il posto che occupa come una posizione transitoria.
« Fra tre, fra due, fra un anno io me ne andrò »—egli pensa—e prosegue soavemente la sua via, chiudendo occhi e orecchie alle proteste che si levano intorno a lui e alle domande angosciose d’aiuto e di difesa. Se egli poi, per lunga residenza o per alto sentimento del dovere, approfondisce l’ambiente, sa trovare tutte le fila del nuovo meccanismo sociale nel quale si trova, conosce gli uomini che lo circondano, sa parlar loro, sa chiedere, concedere o volere, ecco che viene sbalestrato agli antipodi. Noi avevamo, per esempio, un funzionario pratico dell’Africa che conosceva l’Eritrea e i suoi abitanti perfettamente, che parlava l’arabo e l’amarico e lo abbiamo mandato console in.... Cina, come se i cinesi e gli abissini fossero la stessa cosa. Così, su per giù, avvengono i nostri « movimenti diplomatici. »
Gl’Inglesi invece... (È seccante dover ricorrere sempre all’esempio inglese, ma gl’Inglesi, pur troppo, anche qui, hanno un’indiscutibile superiorità). Gl’Inglesi, dicevo, per molti paesi creano dei diplomatici direi[213] quasi specialisti. A Pechino vi sono presso la Legazione inglese numerosi studenti di cinese i quali, giunti a maturità di studio, diventano consoli inglesi disseminati nel Celeste Impero. Il presente ministro inglese a Pechino è uno degli orientalisti più stimati e le sue opere sull’antica letteratura cinese sono preziose. In molti paesi, nell’Argentina fra gli altri, alcuni consoli d’Inghilterra sono dei commercianti. Essi offrono moltissimi vantaggi: conoscenza perfetta del paese, delle sue forze economiche, della sua potenzialità produttrice, della sua potenza di consumo; poi innegabile abilità diplomatica, perchè la ruse d’un commerciante non ha rivali; inamovibilità, che è garanzia di serietà, di circospezione e di pratica dell’ambiente. Infine vantaggio non minore è che gli interessi della loro nazione combinano con i loro stessi interessi; una diminuzione di prestigio è una diminuzione d’affari; la prosperità del commercio inglese è anche la loro fortuna. Essi sono mescolati alla vita sociale, la forza che deriva dalla loro autorità non rimane rinchiusa nel loro ufficio, ma irradia su tutta la vasta cerchia dei connazionali che hanno con essi affari, rapporti e contatti. Non è certo desiderabile che, per imitare gli Inglesi, i nostri consoli nei centri minori divenissero commercianti e viceversa; ma che i consoli fuori d’Europa restassero a compire la loro carriera diplomatica nel paese che essi conoscono di più, questo sì che sarebbe veramente da pretendersi.
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Col nostro sistema è chiaro che il Governo non potrà sempre avere—attraverso i suoi rappresentanti—un’idea troppo chiara dell’essenza e dell’indole di certi Governi lontani e per conseguenza della maniera di trattare efficacemente con essi.[214]
Basta, per accorgersene, paragonare l’azione del Governo nostro presso quello argentino in certi casi, e quella del Governo inglese in casi analoghi (e perdonatemi se torno in ballo con gl’Inglesi). Una volta—sono molti anni, ma chi ha avuto contatti col mondo diplomatico a Buenos Aires lo rammenta bene—venne da un caudillo della provincia della capitale ammazzato per questioni d’interesse un suddito inglese. Alle domande di giustizia, il Governo argentino rispose con promesse che restarono allo stato di promesse. Alle proteste del ministro inglese non rispose più nulla, aspettando dal tempo il benefico oblìo. Allora il Governo inglese fece affiggere in tutte le stazioni ferroviarie e in tutti i porti del Regno Unito un avviso che diceva presso a poco così: « Il Governo di S. M. la Regina rende noto che nella Repubblica argentina la vita non è garantita ». Era il momento della grande emigrazione e il principio delle grandi imprese: il Governo argentino, informato dal suo ministro a Londra, si allarmò e domandò lo stracciamento degli avvisi. Fu risposto che questo sarebbe avvenuto soltanto dopo la punizione dell’assassino del suddito inglese. L’assassino fu preso e condannato subito.
Gl’Inglesi sono il popolo più odiato nell’Argentina—basti il dire che laggiù la parola inglese significa creditore—ma anche il più rispettato, perchè si sa che chi fa un torto ad un inglese è punito. Soltanto ultimamente, nel mese d’aprile, è avvenuto un fatto che sembra faccia eccezione. Il figlio d’un commissario di polizia, con la complicità d’un agente, ha assassinato in modo vile e orribile un giovane inglese, un tale Barnett. Vi è stato un periodo d’indecisione perchè l’assassino gode altissime influenze, ma il contegno della diplomazia inglese è stato così risoluto, che finalmente s’è iniziato il procedimento penale contro il colpevole. È vero che a questo ha contribuito anche il contegno energico e minaccioso di tutta la stampa[215] inglese. Il Times, dopo d’avere esposto le condizioni della giustizia argentina, è giunto, in un recentissimo articolo, ad invocare nientemeno che un’azione unita delle Potenze per garantire la vita, i beni e la libertà dei rispettivi sudditi nell’Argentina.
E noi? Ah! quanto lunga, dolorosa, raccapricciante sarebbe la storia dei delitti impuniti nei quali la vittima è stata italiana. Intiere famiglie italiane sono state assassinate proprio mentre noi palpitavamo tutti per la sorte di miss Stone, ignari dei tragici avvenimenti che facevano scorrere lontano, in luoghi quasi ignorati, il sangue nostro.
Un altro esempio che dimostra come, in virtù della sua diplomazia, il Governo inglese—per dirla con l’espressiva frase popolare—conosca i suoi polli. Una colonia di gallesi stabilitasi da 28 anni nel Chobut, ha protestato presso il Governo patrio contro molte ingiustizie delle quali era vittima. In simili casi noi scambiamo dei telegrammi col Governo argentino,—se non ci limitiamo ai colloquî col suo rappresentante in Roma—riceviamo le abituali e recise smentite accompagnate da commoventi assicurazioni d’amicizia e di simpatia e ci dichiariamo contentoni. Il Governo inglese conosce il valore di certe assicurazioni ufficiali. È più pratico: esso ha inviato una Commissione d’inchiesta a vedere e riferire. La Commissione è giunta alla chetichella, evitando ogni contatto con le autorità per non intralciare l’azione del suo Governo, e si è messa al lavoro. Ha constatato delle cose da far fremere d’indignazione ogni buona anima anglo-sassone, ed ha riferito. Il Governo inglese ha offerto a quei coloni delle terre al Canadà. In un momento, per pubblica sottoscrizione, a Londra, si sono raccolte ottantamila lire per le spese di viaggio, ed ultimamente i gallesi del Chobut sono tornati a rifugiarsi ancora all’ombra protettrice dell’Union Jack. Tutto questo è passato senza che venisse scambiata col Governo argentino la minima[216] nota, che avrebbe procurato o bugie o inutile tensione di rapporti.
Così pure l’Inghilterra ha agito per la chiusura dei suoi porti al bestiame argentino, in seguito alla tentata introduzione in Inghilterra di buoi argentini affetti d’afta epizootica. Ogni tanto il Governo della Repubblica dichiara che l’afta non c’è più; il Governo inglese, per conto suo, rinnova un’inchiesta presso gli estancieros inglesi, in conseguenza della quale i porti seguitano a essere chiusi.
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È inutile continuare il paragone tra l’opera della nostra diplomazia in America e l’opera delle altre. Per ragioni che non dipendono certamente nè dalla volontà, nè dalla qualità dei nostri rappresentanti, ma da tutto un sistema sbagliato, la nostra diplomazia, almeno laggiù, non risponde a tutti i suoi scopi.
Essa ha una missione che è politica, economica ed umanitaria; ebbene, noi laggiù siamo poco temuti e poco rispettati, poco tutelati e poco difesi.
Questa è l’amara verità.
[Dal Corriere della Sera del 5 settembre 1902.]
Scrivendo le mie prime lettere dell’Argentina, non avrei creduto di dover intrattenere in seguito il lettore così a lungo sulle cose di quella Repubblica. Intendevo di tracciare rapidamente, come meglio potevo, la fisionomia di quel paese dove tanti italiani vivono, riportare semplicemente le impressioni di quello strano stato di cose osservato con occhio italiano. Ma le prime pubblicazioni assunsero un carattere per me assolutamente inaspettato: quello di rivelazioni.
Le brevi e presto spente polemiche sollevate in quel momento, dimostrarono che quanto scrivevo riusciva per molti nuovo. Ho creduto mio dovere d’offrire i più ampi particolari, di non attenermi più alla semplice esposizione delle mie osservazioni personali, ma dimostrare, con la maggiore larghezza di prove, fatti e documenti, la verità.
Scrivendo da laggiù, tutto mi potevo immaginare, fuori che di dire cose nuove per noi. Non riportavo certo delle storie segrete: chi vive e chi ha vissuto nell’Argentina le conosce bene pur troppo. Si tratta di una situazione nota a milioni di persone, della quale[218] centinaia di giornali locali scrivono ampiamente e uomini politici discutono; si tratta di fatti tangibili, controllati da tutto un popolo, i quali possono essere giudicati in un modo o in un altro, a seconda la coscienza o l’abitudine, ma che sono fatti; si tratta di tutta la vita speciale d’un paese, per un buon terzo di sangue italiano, e nella quale nulla v’è di misterioso e di celato. E noi, noi italiani che più di ogni altro popolo avevamo il diritto ed il dovere di sapere tutto, noi, nella maggioranza, ne sapevamo poco o nulla.
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Questo fatto ci condanna. Noi possiamo gridare contro le ingiustizie e contro gli inganni che così spesso attendono i nostri poveri emigranti, ma non potremo con questo toglierci di dosso la parte di responsabilità che noi abbiamo di quei mali. La nostra colpa si chiama indifferenza.
Da trent’anni la nostra emigrazione si dirige nelle regioni del Sud-America, attiratavi in tutti i modi, e noi non abbiamo quasi sentito il bisogno di sapere esattamente che cosa avvenisse di questo torrente di popolo che abbandonava la patria. Qualche voce onesta si è levata di tanto in tanto a denunziare delle infamie di cui sono vittime i nostri emigranti, ma s’è spenta senza lasciare una eco lunga e profonda nella coscienza pubblica. Si è trovato che l’emigrazione era una necessità, un bisogno, come una valvola di sicurezza che ci salvava dai pericoli della sovrapopolazione, e questa constatazione ha servito troppo di scusa alla nostra indifferenza. E quando, dopo tanti anni, abbiamo pensato ai nostri emigranti, non abbiamo visto che le[219] miserie della loro partenza; e non spingendo lo sguardo più lontano del mare abbiamo rese migliori le condizioni del loro viaggio, senza por mente che il viaggio è niente, è il brevissimo esordio delle loro sofferenze, è la soglia della loro nuova vita, una soglia che può essere indifferentemente rude o levigata.
Di quei paesi e della vita che vi si svolge noi abbiamo avute relazioni interessate—sulle quali è degno sorvolare—le quali non ci hanno mostrato che i lati belli e seducenti. Abbiamo visto le ricchezze e abbiamo visto i progressi, e ce ne siamo accontentati, senza domandare quanto queste bellezze costavano del nostro sangue. Non abbiamo domandato le tavole della mortalità, non abbiamo visto i caduti dell’immenso esercito nostro, che ha traversato a squadre l’Atlantico per combattere silenzioso, sotto altra bandiera, la più disperata battaglia.
Nulla abbiamo saputo, nella nostra maggioranza, dei tranelli, dei soprusi, delle violenze e delle ingiustizie che tanto spesso attendono i nostri lavoratori—come potevamo porgere aiuto, tutela e difesa? Le cose americane ci sono sembrate tanto lontane, che non ci hanno interessato che vagamente, come curiosità. Così abbiamo lasciato che quei mali crescessero, ingigantissero, divenissero endemici, pressochè incurabili.
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Non possiamo pensare seriamente a rimediare al passato: siamo costretti ad assistere allo spettacolo di tanti dolori e tanta miseria impotenti a portarvi sollievo. Molta parte di tante sciagure è dovuta a cause sulle quali noi non possiamo nulla. Il Governo argentino ha il diritto pieno di essere cattivo o pessimo, di fare[220] debiti e d’imporre gravami al popolo, di reggersi come meglio crede, di ruinare o no le finanze del paese.
Ma il passato può servirci di scuola per l’avvenire. La crisi argentina, per quanto grave, volgerà ad una soluzione; quel Governo—che già ha destinato non lievi fondi per la propaganda all’estero in favore dell’emigrazione—aprirà alla colonizzazione nuovi territorî non ancora sfruttati: la corrente emigratoria si riformerà, e fino ad una nuova crisi le cose cammineranno bene (bene nel senso generale dell’economia pubblica, intendiamoci).
Ebbene, profittiamo di questa sosta per preparare la nostra emigrazione. Facciamo in modo che le illusioni scompaiano dalla fantasia delle nostre masse prima che queste si muovano di casa, prima che la stessa dolorosa e irreparabile realtà laggiù venga con le lacrime più amare a lavar via i loro sogni. Che emigrino, ma emigrino armate e pronte. Che sappiano tutto dall’A alla Zeta, che conoscano il buono e il cattivo, che possano agire con la loro mente e con il loro criterio illuminati dalla piena conoscenza delle cose, che conoscano i sentieri della riuscita e anche i precipizî che li costeggiano, le trappole che vi sono tese, le imboscate preparate. Allora solo avremo un’emigrazione forte, cosciente, utile a sè e alla patria.
In questa santa propaganda sta il nostro primo dovere: ma non basta. Regoliamo la nostra emigrazione. Prima che essa si muova pretendiamo di sapere dove andrà e che lavoro le è riserbato; domandiamo delle garanzie. Se per la colonizzazione d’un nuovo territorio occorrono cinquantamila lavoratori, ci siano note le condizioni del lavoro e le forme di contratto. L’emigrante partendo deve potersi dire, supponiamo: Vado nella tal regione, avrò tanta terra, a questi patti, che mi convengono. Gli emigranti meridionali potranno scegliere le regioni più calde, quelli dell’alta Italia le temperate. Tutto questo non può avvenire laggiù dove gli[221] emigranti appena sbarcati si agglomerano nell’attesa che si disponga di loro, ignari di tutto, nell’impossibilità materiale, una volta disseminati per la Repubblica, di reagire, di protestare, di far ascoltare la propria voce.
E quando è giunto sul posto l’emigrante non deve essere abbandonato dalla vigile tutela della Patria, l’osservanza dei patti deve venir controllata con i mezzi più rapidi, più serî e più discreti.
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Guardiamo l’emigrazione sotto il suo vero aspetto. Non si tratta già di zavorra che noi gettiamo per andar più leggeri, come una comoda teoria vuol far credere. Non si tratta di poveraglia della quale dobbiamo essere felici di disfarci, ringraziando quei paesi che le offrono la tradizionale « ospitalità generosa », come si ha il coraggio anche oggi di ripetere da certuni. No, no, la cosa è, grazie a Dio, molto più degna: si tratta in fondo di domanda di mano d’opera da parte dei nuovi paesi, e da parte nostra. È un commercio di forze, nobili forze dalle quali tutto scaturisce; forze motrici della civiltà. Noi non siamo affatto costretti a gettarle via; la sovrabbondanza di mano d’opera in Italia non è assoluta, ma relativa alla penuria che altri ne hanno. Tanto è vero che la corrente emigratrice subisce variazioni d’importanza non tanto per mutamenti di condizioni nostre quanto per mutamenti di quelle dei nuovi paesi, e le statistiche dell’emigrazione nell’Argentina lo dicono; se l’Argentina non migliorerà la sua situazione, vedrà che la nostra « zavorra » può[222] anche restare a casa. V’è domanda e offerta; possiamo dunque trattare.
Il Governo nostro ha compreso vagamente questo quando, sulla fine dello scorso anno, ha proposto al Governo Argentino di fare un esperimento di emigrazione scelta per la colonizzazione, sotto date condizioni, cominciando con alcune centinaia di lavoratori. Era un principio d’interessamento. Ma il Governo argentino, che incondizionatamente ha ricevuto l’anno passato trentun mila emigranti italiani, ha evitato ogni trattativa declinando l’offerta. Bisognava impedire l’emigrazione incondizionata, e si sarebbe venuti a trattative. Noi non conosciamo che due estreme misure in fatto d’emigrazione, egualmente cattive: o proibirla assolutamente per un dato paese, o permetterla senza limiti, senza freni e senza misura. Per l’emigrazione in certi Stati dovremmo porre delle condizioni. Se esse non vengono accettate vorrà dire: o che non v’è richiesta di lavoro—e allora è sempre bene che gli emigranti non partano—; o che non ve alcuna intenzione di garantire gli emigranti degli abusi, le frodi, le violenze e le ingiustizie—e allora è egualmente bene che gli emigranti non partano, per risparmiarsi inevitabili dolori e disinganni, o che si dirigano altrove, dove i loro diritti siano meglio riconosciuti e più rispettati.
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È bene che l’opinione pubblica in Italia cominci ad interessarsi seriamente a quanto avviene al di là dell’Atlantico. Al Governo argentino è mancato assolutamente finora il controllo dell’opinione straniera, e questo controllo potrà migliorare molte cose più di tutte le diplomazie riunite.[223]
Il popolo argentino tiene immensamente all’apparenza. « Il nostro ideale non consiste nell’acquistare valore »—ha scritto un uomo politico argentino, Agostino Alvarez—« ma nell’acquistare importanza ». È una caratteristica tutta spagnuola questa, di coprire fieramente con un bel mantello tutte le proprie macchie e le proprie miserie. Sempre negli scritti e nei discorsi traspare il pensiero: Che si direbbe all’estero se si sapesse che....? L’« estero » è per loro come l’opinione pubblica per un privato. Quanta gente non fa del male non perchè non ne avrebbe voglia, ma perchè ha paura che si sappia? Così gli argentini agirebbero forse meglio se sapessero di essere osservati. E a noi importerà poco che il bene venga consigliato dall’orgoglio e dall’amor proprio piuttosto che dalla convinzione, purchè il bene venga.
È così vero questo, che ora, in seguito a pubblicazioni sulle cose argentine fatte dalla parte più seria ed autorevole dalla stampa inglese, pubblicazioni nelle quali la Giustizia, le amministrazioni, il Governo, le finanze dell’Argentina venivano crudamente descritti, sono cominciate laggiù serie discussioni sopra nuove e importanti riforme.
Le riforme forse non verranno, ma se ne parla, e questo per l’Argentina è già un bel risultato dovuto tutto al controllo dell’opinione pubblica straniera, che per gli argentini è una cosa tanto nuova quanto fastidiosa.
Noi più degli inglesi abbiamo interesse, non solo, ma dovere di tenerci informati delle faccende argentine. Essi vigilano i loro capitali; noi abbiamo da vigilare i nostri fratelli. La differenza è infinita. Le disgrazie inglesi nell’Argentina sono scritte in belle cifre al « dare » del libro mastro: non esiste cifra che possa segnare il valore di tutti i dolori, le angoscie, le disperazioni, le lagrime e il sangue, che formano la somma delle disgrazie nostre.[224]
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Se potessi esser certo di aver col mio povero lavoro contribuito a fare una parte minima di bene, io mi sentirei felice. Ma i mali sono tanto vasti, profondi ed antichi, che io, ponendo oggi la parola « fine » a questa mia rapida esposizione delle cose argentine, non posso sottrarmi a quel senso di amarezza e di sconforto che accascia chi sente d’aver compito un lavoro inutile, e s’accorge della sproporzione immensa fra le proprie forze e lo scopo che si era prefisso.
FINE.
Ortografia e punteggiatura originali sono state conservate, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Elenco dei refusi corretti (tra parentesi il testo originale):
Grafie alternative mantenute: