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Title: Dal profondo
Author: Ada Negri
Release Date: May 08, 2011 [EBook #36060]
Language: Italian
Character set encoding: UTF-8
*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK DAL PROFONDO ***
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DAL PROFONDOMILANOFRATELLI TREVES, EDITORI1910
Secondo migliaioPROPRIETÀ LETTERARIA.Riservati tutti i diritti
Copyright, by Fratelli Treves, 1910.
Tip. Fratelli Treves.
Ti fui compagna per le ignote stradedel mondo e all'ombra dei crocicchi, in unavita lontana che fu mia, fu miacome questa non già che s'attorcigliaal mio collo e al mio cor, segni imprimendodi ferro e corda nelle nude carni.Avevi, come adesso, una giacchettalogora, un viso a lama di coltello,una bocca di fame e di sarcasmo;e andavi senza meta, e andavi senzadolore, solo con la tua miseria,e gran signore della libertà.Lo so.—Per te non c'era e non c'è postonel mondo disegnato a quadratiniben distinti, con cifre di classificaben chiare.—V'è qualcuno che ti credeun barbaro—e ti esecra—ed ha pauradi te.—Non io, che son della tua razza.Non mi conosci più?... Forse ti sembropiù bella adesso, flessuosa nellasottil guaina di velluto fulvoche mi fa somigliare a una pantera.So pettinarmi a onde, con la graziadelle dame che passano in carrozza;e fingere il sorriso, anche nell'oredello strazio, e mentire una promessa,e offrir la mano e il thè, soavemente,a chi, se volga il dorso alla mia soglia,fa la mia vita ed il mio nome a brani.Ho braccialetti d'oro; ma mi pesanoai polsi. Ho una collana di rubini,ma non la metto, chè mi par la rigavermiglia incisa dal capestro al collod'un «sospettato» del Novantatrè.Sono rimasta zingara, nel fondodel cuore.—Non si mente al proprio sangue.E t'invidio.... Tu sei libero e forte:non hai padre, nè madre, nè fratelliche vivano di te, che al tuo destinos'aggrappino: il tuo letto è nell'AsiloNotturno: la tua casa è tutto il mondo.Domani puoi senza rimorso ucciderti,per compiere una tua vendetta oscuracontro la vita.—Amare anche tu puoi,una donna o un'idea perdutamenteamare; e viver per l'amor tuo grande,poi che intatto ti resta il tempo e il sogno.Forte e libero tu fra tanti schiavi,addio. Colei che passa è tua sorella;ma la folla l'inghiotte—e ognun va solocol mistero di sè, fino alla morte.
T'ho vista ieri, irta ferrigna immobiledietro le sbarre d'una vasta gabbia.Non guardavi già tu la gente piccolache ti guardava.—Ferma sugli artiglid'acciajo, gli occhi disperati al torbidocielo volgevi, al cielo!...—Uno scenariot'hanno fatto di rocce, per illuderti:perchè tu creda ancor d'essere in patria,fra pietrami di grotte e di valanghe,fra protervie di rupi e di ciclopicitempli, sospesi in vetta a' precipizii,in faccia al vento che a procella sibila.—Ma non t'illudi tu.—Vedi le sbarre,sai che è finita.—Io voglio ora una storiadirti d'uomini saggi, che le propriemani a foggiar la propria gabbia adoprano,—d'oro o di ferro—quasi sempre d'oro:—e bene assai la temprano e la rendonoinaccessa, e là dentro si rinserrano,e si lamentan poi d'essere in carcere,guardando il mondo co' tuoi occhi d'odiovano e di vana disperazïone.Tu almeno, tu fosti ghermita al laccio,fosti ferita, tu, nella battagliaferoce, prima d'esser come un cencioignobile fra mano al tuo nemico.E stai senza speranza e senza gemitovile; e chi passa ti può creder mortao sculta in bronzo, così immota e diacciat'irrigidisci, chiusa in un disdegnoindomito per tutto che non sial'ebbrezza della libertà perduta.E, se tu comprendessi, con un colpodi rostro lacerar vorresti il voltodi chi t'offende con la sua pietà.
E tu, che passi e non mi guardi, rapida,inguainata nella nera tunica,avvolto il collo nel tuo boa di martora,che, pari a un serpe flessile e contrattile,t'accarezza, ti bacia e t'assomiglia!...Ne' tuoi capelli bene si dissimulaqualche filo d'argento, sotto il morbidotòcco a turbante. Hai messo un vel di cipriaa nasconder le prime ombre del temposul volto.—Non sei vecchia: non sei giovane:sei donna, in piena voluttà d'imperiosulla vita e sull'uomo.—Ascolta: guardami:ugual ti sono un poco, e molte femmineti sono uguali, e al nostro fianco passanoin questo istante, e sola ognuna credesiad amare, a soffrire, ad esser viva.Se a' tuoi piedi la soffice pellicciae la veste procace e le spumosetrine cadesser, te lasciando nellabianca fralezza dell'ignudo corpo,sapresti tu vestir questo tuo corpod'un'anima?... Scrutar ben io vorreiil tuo tormento interïor, per ansiadi leggere in un vivo umano libro.Ma tu menti: a te stessa anche tu menti,menti se piangi, e se sorridi: t'hannoinsegnata la grazia d'una mascherabella, fin dai sereni anni d'infanzia:modi, leggi, costumi e fede e dogmialtri creò per te: solo ti chieserod'esser leggiadra: nè tu mai dall'intimodi te stessa traesti, a colpi d'unghia,la verità che ognuno in cuor si porta.Vuoi darmi la tua mano?... Una son io(la mia razza è di zingari, e nei boschisostano intorno a fuochi di bivaccole carovane de' miei padri ancora)una son io che, se lo sguardo figgein un volto, quel volto si scolora;e dalle vinte labbra esce il segretoche il cuor chiuso vorrebbe........ o bella femminavoluttuosa, serpentina e tortilecome il tuo boa, per questa volta il pallidotuo viso dica quel che a te nè ad altridicesti mai: la verità tua vera:una cosa divina, che la scuoladel mondo contraffece, deturpò,ridusse a stampo: uno sprizzar di sanguevermiglio, al colpo d'una lama corta.
Non domandarmi perchè son venuta.Lascia ch'io sieda qui, presso il tuo letto.Sei stanca, è vero?... Ti fa male il petto.Oh, non celarti fra le coltri, muta!...Dio mi donò le mie piccole maniperchè soavi fossero ai dolenti:perchè con gesti di blandizia, lenti,molcesser l'ansie degli spasmi vani.Io son Fata Dolcezza.—Se parlarem'ascolti un poco, in te tutto si queta:io la posseggo, la malia secretache può tutte le pene consolare.Io non so donde venga alla mia vocetanta soavità che il cor ne trema.O sconosciuta, in questa ora supremaabbandònati a me con la tua croce!Corpo disfatto dalle febbri, cuoreconvulso, aridi labbri vïolastri,sudate chiome, tese al par di nastrineri intorno al terribile pallore;vita che lotti nel disfacimento,io ti penetro tutta, io ti fo mia:chiudi gli occhi, raccogli in una piarete di sogni il tuo lungo tormento!...—Non ricordare.—Hai singhiozzato, nellenotti eterne, anche tu?...—Non ricordare.Il passato è lontano, è morto, è un maredi nebbia ove si spengono le stellee tutto affonda: la tua pena oscuradi carne schiava, e le dolcezze troppobrevi, e il giogo dei sensi avidi, ah, troppoper te pesante—e l'ultima tortura,sai, quella che ti assilla insino al fondo,l'inconfessato orror della vecchiezzasola, senza una casa, una carezza,un bambino, un perchè d'essere al mondo........ Or tu sei pura come il fil di lunache di silenzio il tuo lettuccio fascia:tu sbocci dalla vita che ti lasciasiccome fronda dalla scorza bruna:i tuoi occhi socchiusi hanno tra i cigliun sogno d'alba che per vie di cielosalga, spargendo rose senza steloframmiste a nivei calici di gigli:e in pace arridi alla tua morte bella,tu fra le braccia mie, tu consolatadalla mia passïone, o Innominatache nel nome di Dio mi sei sorella.
—Ho sonno. Fammi il segno della Croce,mamma.—«In nome del Padre, del Figliuolo,dello Spirito Santo.—» Amor mio solo,ecco, e t'addormi alla sommessa voce.Come calmo il tuo sonno!... Or che non senti,piangere posso, bimba, al tuo guanciale.Ho tanto male al cuore, ho tanto male,che la mia vita strazierei coi denti.V'è un modo, per fuggir l'affanno atroce.Ma tu mi tieni col tuo dolce laccio,tu che non puoi dormir s'io non ti traccioin fronte, a sera, il segno della Croce.
Ora mia, tutta mia, di solitudinepiena!... Dardeggia l'anima al suo vertice,vermiglia come il sommo di quegli alberiche il sol d'Ottobre, declinando, imporpora.Fui dunque cieca sino a ieri?... I liberigiochi dell'ombra e della luce, il ritmod'ogni forma terrena, le flessibiligrazie dei bimbi e delle donne, i rapidivoli nel cielo di quell'auree frecceche son gli uccelli, e l'anelar degli uominiverso un lor segno, e l'acre ansia di giojae di potenza che a lottar li scaglia,nulla io vidi sinora?... Alita e sfolgorala vita bella, dentro e intorno a me!...La vita è bella, anche se il cuore piange!...Ov'è il torvo dolor che inconsolabileieri mi parve—e m'uncinava fibraper fibra—ed io per isfuggirlo uccidermivolevo?...—Forse in quel polverìo d'atomiche in un raggio di sol purpurei danzano?...—Serenamente or mi contemplo vivere:ondeggia il ritmo del mio sangue al ritmodell'ore in terra, delle stelle in cielo:carne son io che si fa luce ed aria,puro elemento dell'eternità.
Sotto altri cieli io vissi, in altra forma,con altro cuore. Fiammule e balenid'allora, erranti lucciole tra' fieni,risfavillano in me, s'io vegli o dorma.Io so chi fui, nel tempo già travoltoin vorticoso baratro d'oblìo.Di vertigin barcollo, se nel miovivo mister le antiche anime ascoltodestarsi in onde d'energia, frammistea strappi di ricordi.—Non si muore.—Chi nacque un giorno, in gioja ed in doloreper mille aspetti immortalmente esiste.*
Compagna fui di minatori: moglie,figlia, sorella: impuro il corpo, impural'anima: chiusa nella gabbia oscura,calai ne' pozzi con virili spoglie.Rauco il respir, sudato il collo, ansantid'ardua fatica, a mezzo il corpo ignudi,all'ombra delle vôlte ìnfere, i rudiuomini miei m'apparvero giganti.Giocai con essi a sfida e a rimpiattinocolla Morte, tra i fumi del grisou.E qualcuno di noi non tornò piùnel sole. Io sì, tornai, pel mio destino.In una sporca alba fangosa, «Muori,muori, muori!...» gridai, fra un'accozzagliadi disperati, pronti alla battagliarossa, verso le case dei signori.Ero una furia, coi capelli a serpi,colle fiamme negli occhi, con le labbiasfigurate dagli urli. Ebbra di rabbiai sassi disselciai, svelsi gli sterpi,maledissi, colpìi, caddi, travoltavenni sotto lo scalpito irrompentedei cavalli. E passò sulle mie spentemembra il sinistro orror della rivolta.*
Ebbi un piccolo viso di sognantebambina, bronzeo sotto il nero cascodei ricci. Modulai nel gergo bascole canzoni del vento e delle piante.Due stracci in croce mi facevan bella;il mio fiato sapea di fior silvano;per un soldo, nel palmo della mano,lessi la buona e la mala novella.Lavai, cantando, i panni alle sorgentiboschive, e fui Nausicaa giocondache mentre lava specchiasi nell'onda,sorridendo a' suoi glauchi occhi lucenti.Libera principessa della tendagitana, a notte noverai nei cieligli astri, e composi con ben scelti stelimagici beveraggi di leggenda.Nell'albe fresche, fra l'aulir dell'erbanuova, ornai le mie trecce di monetetìnnule—e v'era chi languìa per setedella mia bocca:—io l'irridevo, acerba....Ma venne un giorno chi mi fece mutasotto il suo bacio.—Più non so chi fosse.—Rivedo, a lampi, quelle labbra rossefra la turba che passa e che saluta.*
I brividi dell'odio e dell'amorefinsi per mille pubblici, su palchidi legno: ed ogni folla che s'accalchisuscita in me l'alto ricordo in cuore.Flessi a ogni gioco la mia grazia varia,vita morte follia da me fu espressa:Cordelia pia, Desdemona sommessa,Lady Macbeth sinistra e sanguinaria.La mia bocca mutevole in un'oraebbe note di gioja e d'innocenza,e lo stupor del sonno e la scïenzadel male, e l'urlo tragico che implora.A me ogni sera rinnovò l'incantod'esser diversa, di scordare il miosogno per altri sogni, il pianto mioper l'aspra voluttà d'un altro pianto.E fu la folla come un solo cuorech'io mi potessi stringere fra ditad'acciajo: fu come una sola vitaviva di me, fervente in muto ardoresotto il mio sguardo.—Ed io, dall'alta scena,non ebbi nervo che non si spezzasse,non ebbi vena che non si vuotasseper il tumulto di sua gioja piena.—*
Nelle barbare età cinsi il soggòlobianco, la scura tonaca e il cilicio.Di mia pura bellezza il sacrificiodolce mi parve, per amor d'un Solo.Tenendo sul mio capo alta la crocepassai fra genti ammutinate, a Cristoorando: e sangue con velen frammistosino al mio petto zampillò, feroce.Fra saccheggio e fetor di pestilenzaincolume passai, d'infermi in traccia;e più d'uno spirò fra le mie braccia,da me bevendo una celeste essenza.L'acqua col cavo della mano offersia bocche nello spasimo contorte.Bella più de la Vita a me fu Morte.Amai, baciai le piaghe che detersi.Quando il furor de le battaglie spentopareva, chiusa in mia ferrigna tonacapiù nei tugurî del dolor fui monaca,che ne la cella del mio pio convento.A papi e re proffersi con serenafavella i detti della verità.E mi consunsi in fede ed in pietàcome la Mantellata di Siena.*
Chi ora io sono, è cosa vana il dire:fragile donna che se stessa ascoltavivere, con un'ansia avida e stoltadi saper ciò ch'è in fondo al suo soffrire.D'antiche vite istinti e forze variesi raggruppano in me, s'urtano a gara:aspra t'incidi sulla bocca amara,o ambigua lotta d'anime contrarie!...Ho cent'anni, ho mille anni. La mia verafaccia, il mio vero cuore io non li so.Nè, stanca a morte, io mai conosceròl'ebbrezza di poter morire intera.
Veronetta Longhèna, tu mi piaci.Il tuo sorriso è quello delle zingare,bianco e rosso, con lineesinuose, con fremiti fugacidi sarcasmo e d'orgoglio.—Tu mi piaci.—Dove l'hai preso il tuo bel nome?... È un nomedi guerra, non è vero?... Qual capricciod'amante allegro e ironicote l'appuntò, qual nastro fra le chiome?...Veronetta, mi piace il tuo bel nome.Raccontami la tua vita randagia.Io m'accovaccio presso a te, sul morbidotappetino di Persia,frugando con le molle fra la bragia.—Raccontami la tua vita randagia.Dimmi i paesi che vedesti, i portidonde salpasti, spensierata rondine,e il tuo piacer di viverecosì, padrona delle varie sorti,come lo sei de' tuoi capelli attorti.Io t'assomiglio, se mi guardi bene.Ma è come fossi chiusa dentro un fodero,mentre snudata sfolgoritu, fina lama che in sua punta tieneil mondo, per gingillo.—Guarda bene.Quando riparti?... e verso qual ventura?....... Io resterò a frugar dentro la cenere;e mirerò lo specchioper rivederti in me, nella tua durafronte d'enigma, o Donna di ventura.
Uscì Fiammetta nel tramonto roseodall'opificio, con le eguali a fascio.Rise, con l'insolenza de' suoi sedicianni, al cortil di pietra, al folle strideredelle rondini intorno, al gran comignolonericcio, al sol che s'indugiava obliquodelle montagne sulle vette cupree.Ma, giunta a salti su l'erboso spiazzo,sfavillò d'allegrezza udendo un barbaroorganetto suonar la tarantella.«Ohè, danziamo!...» E si slanciò la verginebruna, e fu tutto un turbinar di giovanicoppie in cadenza ondoleggianti, e un vividobalenìo di pupille e scoppi tremulidi risa, e strilli, e rapidi richiami..... Sovra tutte leggiadra era Fiammetta:sovra tutte felice era Fiammetta:i suoi denti splendean nell'olivastrovolto con fresca purità selvaggia,ogni nervo ogni tendine ogni muscolodel suo corpo gioir parean nel liberomoto: danzar pareva anche col cuore,donarsi intera, come offerta a un bacio,la flessuosa vergine Fiammetta.Gioja d'essere al mondo; e d'aver sediciAprìli, un nastro al collo, una purpureabocca fragrante e membra alate al ritmo,e di sentirsi dir: Come sei bella!...Gioja di morder nella polpa morbidadei frutti—e d'esser pari al frutto acerboche il sol penètra e niuno ha côlto ancora.—
Oggi venni a trovar Suor Nazarenache sempre ride così dolcementecol suo riso ove manca qualche dentee pure ha tanta nobiltà serena;e che pare una bimba sotto il biancosoggòlo, curva un poco, un po' rugosa.Io non conosco più soave cosadella sua voce, pel mio cuore stanco.Ella mi disse: «Sono pochi i fiorinell'orto!... Ottobre ce li porta viatutti!... V'è qualche rosa tuttavia,ma i crisantemi sono in boccio ancora.»Nel piccolo orto c'era odor di bossoamaro, odor di pace e di convento.Squillava una campana, alta nel vento,dalla chiesetta candida di Mosso.Singhiozzare volevo: «Io soffro. O buona,aiutatemi voi. Venni per questo.Come se me l'avessero calpestoil cor mi duole, e fede m'abbandona:mi sferzan tutta, carne anima vene,le passïoni con ardor selvaggio,ed io sento che vano è il mio coraggio,sento la morte o la follia che viene....Toccate quanta arsura ho nelle mani,guardate quante fiamme ho dentro gli occhi.Fate ch'io preghi, curva sui ginocchi,come nei giorni placidi lontani!...».... Ma coglieva, tranquilla, le sue rosed'Ottobre, accanto a me, Suor Nazarena.Niuna fronte mi parve più serenafra una ghirlanda di serene cose.Travolgendo con sè memoria e sensicon la Rinuncia su di lei l'Oblioera passato. Ignuda e sacra in Dio,stava siccome bimba che non pensi.Così avvenne che il peso della vitada me cadesse al par di guasto frutto:e ogni senso d'angoscia fu distrutto,ogni voce di pianto fu sopita,quando, sorgendo fra i tumulti vanidel mio dolore e me, lenta mi posela Donna in mano un gran fascio di rose,dicendo: «Tornerai?... Torna, domani....»
Tutte le stazïoni e tutti i portividero quella che non è mai stancae sotto il nero velo è così bianca,pallida in viso del pallor dei morti.Treni in corsa per monti e per radurela rapiron tuonando e sibilandonei giorni d'oro, nellecalde e torbide notti senza stelle:da treni in corsa vide essa le purealbe fiorire in cieli ignoti: e quandos'addormentò sognandosui cuscini, dal sogno all'improvvisola scosse un urto, il secco urlar d'un nomedi paese straniero:e niuno era ad attenderla con risodi gioja, ed ella non cercò nessuno;ma, calma, discendendo, il velo neroricompose sul volto e sulle chiome.*
La tristezza di gelo ella conoscedelle stanze d'albergo, ove la gentepassò col suo mistero e il suo pungentedestino a tergo, e le sue sorde angosce:ove un ignoto visse la sua notteultima, forse—e rise e pianse amorefra baci senza fine,e l'insonnia spiò fra le cortine,e l'odio sibilò le rauche e rotteparole, che di pietra fanno il cuore..... Da quale mano il fiorecadde che or, vizzo, sul tappeto giace?...Chi morse ieri il candido guanciale?....... Non sa, non pensa. È stanca.Solo vorrebbe riposare in pace.E scioglie il velo e libera le trecce;ma fra le trecce v'è una ciocca bianca,il viso è smorto come il capezzale.*
Malinconia delle città lontaneove le sembra d'essere sperduta,ove ogni cosa agli occhi, al cuore è muta,voce di folla e voce di campane!...Malinconia di ferree tettojepiene di fischi, di fumo, di gente,di lacrime e di brividinella penombra dei tramonti lividi!...Creature che van verso le giojed'una casa o d'un sogno—e il sogno mente,e un labbro v'è che mentein quella casa!... Trepide partenze,singhiozzi e gridi soffocati in gola,baci, dolore, amore!...Vana forma fra innumeri parvenze,va l'Errabonda, e non si volge indietro;ma quando parla col suo chiuso cuoresi curva, e trema d'esser troppo sola.*
Oh, fermarsi un momento!... Oh, ritrovareuna casa fedele, un volto amato!...Ma non può. Dietro a sè tutto ha spezzato.Ella stessa distrusse il focolare.E in fondo al cuore seppellì i suoi morti,e non v'accese lampada a vegliare;ma fugge; chè una mutaombra l'incalza, sol da lei veduta.Cieli acque terre cimiteri ed ortifuggon dinanzi al suo solingo errare,fuggono il monte e il mare,così fuggir potesse anche il ricordo!...Così strappar da te potessi, o brunainnominata, il sensod'ambascia che ti preme, opaco e sordo,le viscere, se pensi un dolce nidopiccino agli occhi, ma pel cuore immenso,e in esso, a notte, un dondolìo di cuna....
Anima stanca, andiam dunque in letiziaper le strade e le piazze, oggi ch'è festa.Le piccole operaje han tutte in testaun fiore, e in bocca un riso di delizia.Ridono al sol d'Autunno che riversacarezze d'oro sugli ippocastani,ai davanzali rossi di geranî,alla gente che passa, all'aria tersa.Non sei dunque tu pure un'operajache agucchia sulla tela il suo destino?...Oggi con esse mettiti in cammino,cantando qualche canzonetta gaja.Le campane del vespro han le paroledi pace che in lontani tempi udivi;quando, fanciulla ancor, pei verdi clividel sogno errasti a cogliere viole.È così dolce vivere il momentofelice, con ingenua contentezza!...Chi te lo toglie, il filtro di bellezzache adesso bevi come bevi il vento?...Lo so: giostra, fanfara, lotteria,le arancie a un soldo, il ballo popolare....Tutto questo, lo so, forse è volgare..... Sta fra i semplici il gaudio, anima mia!...Nessuno mai ti darà gioja comel'agil popolo tuo ch'è sì fanciullonell'amore, nell'odio e nel trastullo,nè chiede, per sorriderti, il tuo nome!...Segui la giovinetta che s'oblianel passo, a fianco del suo forte amante,e gli s'appoggia, flessile, allacciante,susurrando una tenera follia:va come il fiume verso la sua foce:va come il sogno verso la sua stella:fatti ogni giorno una bontà novella,anima stanca, e canta fin che hai voce!...
Una notte d'inverno, Vanni e Vannachiusero gli occhi alla lor dolce madre.Ad essi non lasciavi, o dolce madre,che un giaciglio di strame e una capanna.Nulla sapevan, fuor che verdi boschipercorsi a gara, e fiumi vinti a nuoto,e sogni d'astri su nel cielo ignoto,e rosse nubi di tramonti foschi:egli biondo, ella bruna: egli con tersiocchi d'acciajo, ella con lunghi ciglid'ombra: e nessuno li potea dir figlid'istessa madre—tanto eran diversi.Pur s'amavano. E quando fu sepoltala madre, Vanni disse: Ove s'andrà?...Ma Vanna scosse con serenitàil casco della chioma arida e folta.Non per essi la fumida officinaove d'odio e di sangue gl'ingranaggis'intridono talvolta, e nei selvaggirombi vibran minacce di ruina:non gelida bottega o solitariasoffitta, in lezzo sordido ammuffita.Fiori eran essi di beltà, di vita,maturati nel sole, avidi d'aria.E chiese Vanni ancora: Che faremo?...—Ella gli rise stranamente in facciaallacciandogli il collo con le bracciadi zingarella; e disse: Canteremo.—*
Così, lasciato il bosco e la capanna,soli con la chitarra e la canzone,sospinti da una folle passïonedi libertà, partiron Vanni e Vanna.Molti carmi sapevano: d'amore,d'odio, di guerra, di promessa. I lentiritmi appresi li aveano essi dai venti,da lo stormir delle frasche sonore,dalle piogge d'Autunno, dai sospiridegli usignoli quando Maggio torna,dal riso della terra che s'adornase Primavera in sua freschezza spiri....Strani talvolta sulle labbra smortedei due fanciulli senza posa errantidettava la profonda anima i canti..... Apparivan le donne sulle porte:macre fra i cenci, coi piccini al seno,impallidivan di dolcezza, in cuorepensando giovinezza e il breve amoreprimo, e i sorrisi del tempo sereno.Sollevavano i fabbri dalle incudisudato il volto, e dalla tela gli occhile cucitrici, e i bimbi dai balocchi,e i braccianti dai ferri i polsi rudi;e ognun tornava ad una sua perdutagioja, a un lontano bene, a una maliadi tenerezza—a ciò che non s'obliaanche se per dolore il cor si muta.—*
«Vanna, sei stanca?... Come in un agguatola luna piomba dietro un aggrovigliodi nubi nere.—Per il tuo giaciglioil mio mantello io stenderò sul prato.Sorella della mia libera gioja,lucciola d'oro, piccola farfalla!...Posa, col capo presso la mia spalla,fino a che l'ombra ad oriente muoja.Dell'ombra io spierò sogni e misteri,e del silenzio i fremiti sommessi;e ingenue laudi comporrò con essiche tu modulerai lungo i sentieri....»«.... Vanni, m'ha desta il brivido dell'alba,dormìi sull'erba come in un lenzuolo:chi fu che mi vegliò tacito e solo,sotto l'incanto della luna scialba?...La luna m'insegnò stanotte un cantoche farà bianche di malinconiatutte le donne.—Un poco aspra è la vialungo il fiume che piange un sordo pianto:giungerem tardi alla città superbache laggiù, tra le nebbie, innalza i suoipinnacoli fumanti.—Oh, dolce a noimirare alberi e cieli, e premer l'erba:e non aver dagli uomini che un pane,nè chieder altro: ai focolari accantostornellando passar senza rimpianto,dominatori delle vie lontane!...»*
Livida, immota sotto un ciel di piombosta la città dove son giunti. Tetreminacce par che salgan dalle pietre.Investe l'aria un vampo ardente, un rombodi tempesta, di collera. Le porteson chiuse, chiuse le finestre. Passanoi soldati a nuda arma, a testa bassa.Sbuca la turba, ecco, a tentar la morte:d'odio armata, di sassi e di pazzia,contro la forza il suo delirio scaglia.Irrompe, ansa, urla, impreca, si sguinzaglia,si ricompone a barricar la via..... Così, così s'ammazzano i fratelliin Dio, nelle città cariche d'oro?....... Dolci rapsòdi, alto a quest'ora è il corodei passeri, laggiù, sui pioppi snelli.Fiori travolti nella gran ruinacon l'orda cieca i due rapsòdi vanno.Odon sibili e gemiti: non sanno.Sorridono al furor che li trascina.Nella trepida gola han le canzonidella selva, nel sangue onde d'amore;ma un colpo spacca all'uno all'altra il cuore,cadono insieme, boccheggiando, proni....Sulle labbra innocenti amor s'impietrache agli umili sorrise in gaje note:l'anima goccia dalle arterie vuote,e se ne imbeve, gelida, la pietra.
I.
Gli occhi.La fanciulla ch'io sveglio in questi vaniversi, altra grazia non avea nel visoche lo splendor degli occhi sovrumani.Nessuno sguardo sostener potealo sguardo di quegli occhi, ove una fiammapiù intensa della vita era: l'Idea.Lucean per rogo interno fra l'oscuramassa dei ricci, ammorbidendo il graveprofilo e il taglio della bocca pura.Ogni raggio ogni fiore ogni diversabeltà di cieli e di terrene formevi si specchiava come in acqua tersa,e velavan le ciglia un sogno enorme.II.
La stanza e il balcone.Era nuda la stanza, con paretibianche di calce, un crocifisso al letto,qualche libro nei freddi angoli queti.Ma dal balcone Ella scorgea le freccedelle rondini a volo—e libertàirrompeva col vento nelle trecce:e un aroma di prato e di boscagliaacutamente dal giardin salìafolle di rose e denso di ramaglia.L'Adolescente in sè fingea le vitecolà viventi: erba che cresce, frondache svetta, arsa tristezza d'appassiterose, palpito d'ala vagabonda.III.
Re Sole.Leggera Ella passava fra le ajuole:pensava: Sono un fiore o una fanciulla?...O son l'innamorata di Re Sole?...—Le penetrava il sol dentro i capelli,dentro le carni, con sottil deliziasaturando di forza i fianchi snelli:onde di vita, onde di gioja acerbas'abbattevan su lei, simili al ventoche bacia e piega al suo passaggio l'erba.Ell'era una lucente creaturadi sole—nata pei meriggi, quandosu le rïarse terre la calurasta come un rogo, immota balenando.IV.
La via.Dietro il cancello una solinga e tetravia risognava il suo centenne sognoe l'erba le crescea fra pietra e pietra.Appuntava alle sbarre la sua faccial'Adolescente, con desìo febbrilecercando il mondo sulla muta traccia:ed il mondo per essa era una retedi giardini e di strade, immerse in unafulgida e profondissima quiete:in quel silenzio un'eco di campane,in quella luce uno sbocciar di fiori:dietro le porte un balenío di stranepupille, ardenti di secreti ardori.V.
La gamma.«Do re mi fa sol la....» La gamma eternada lontana invisibile tastierasaliva e discendea con ansia alterna.Saliva al par d'un'ala che s'avvential cielo, discendea con la ruinaprecipite di frane e di torrenti:in sè il principio d'ogni ritmo e l'ondad'ogni cadenza e il vivo cuor del cantochiudeva, innumerevole e feconda:e all'anima fanciulla il senso dellavita apparve così, dentro una gamma;ed ogni voce essa vi udì: da quelladei sogni al disperato urlo del dramma.VI.
I fiori del sogno.Allor che il sonno la gettava inertesul capezzale, e in quel sopor pareamorta, nell'ombra, con le palme aperte,tutti i suoi fiori Ella sognava.—In unaluce scialba e malata, che non eranotte, nè giorno, nè sole, nè luna,simili a bocche umane le corolledi viva carne protendeansi ai bacidell'aria; ed altre sorridean con molleriso, ed altre eran occhi, occhi splendentidi passïone in volti di follia;e mormoravan verso gli astri spentiparole di divina nostalgia.VII.
Il sangue.Il sangue, il sangue!... Lo vedea, nel grembod'ogni fiore vermiglio, nelle nubid'alba e di vespro, nell'orror del nembo;lo sentiva nel rombo d'ogni arteria,denso, caldo, gagliardo, veemente,sola ricchezza nella sua miseria.Da quale avo guerriero quell'ebbrezzadel sangue a lei veniva, e, nel sognarlo,quell'occulta spasmodica dolcezza?...Fontanelle di sangue zampillarescorgea dall'imo del suo cor profondo;e d'un tragico rosso imporporareogni giardino ed ogni via del mondo.VIII.
La visione.A raccoglier nel cavo della manoquel suo bel sangue dilagante a rivi,venìan turbe, da presso e da lontano.Le vesti in cenci lor cadean da' fianchi,avean nodose mani e scarni volti,e labbra ansanti, come di chi manchi.Col gesto d'una belva che si saziabevevano alla dolce fonte umanageneratrice di forza e di grazia.E più scendea per vene sitibondeil tesoro di vita, e più nel cuoredella Sognante rifluiva in ondedense di succhi, turgide d'amore.IX.
La vita.Che voleva da lei la vita?...—Tutto.—Ella sentiva d'esser sacra.—In leiniun atomo poteva esser distrutto.L'aria l'erba la terra il fiore il raggiosi trasmutavan nella sua sostanzacon la fecondatrice ansia del Maggio:dalla punta del piede agile, al torsonervoso, al casco dei capelli neri,Ella era frutto che attendeva il morso.Oh, vivere la piena vita!... Oh, fra leavide mani stringerla, per setedi spremerne ogni succo, ed anche il male,e le più aspre verità segrete!...X.
La partenza.Un giorno Ella partì, per la sua strada.Ogni energia per vincere temprataaveva, in fiamma e in ghiaccio, al par di spada.Vide paesi, vide ampie città.Pulsar sentì nel suo fraterno cuoreil cuore enorme dell'umanità.Le parve d'esser cento e d'esser mille.Fu la donna del gran sogno vermiglio.Nel sole abbacinò le sue pupille.Ma a poco a poco si trovò smarrita,nè seppe come.—Ognuno era scomparso.—Si trovò sola, a mezzo della vita,fra le sterpaglie d'un campo rïarso.XI.
La nostalgia.Ora vorrebbe, ma non può tornareal tempio di sua fiera adolescenza.O ricordo, o divina alba sul mare!...Forse i rovi s'aggrappano alle porte,ora: forse la quercia è rasa al suolo,fra l'aggroviglio delle rose morte.Che direbber, vedendola, i cancelliarrugginiti?... «Ohimè, come diversa!...Sei tu colei che aveva occhi sì belli,labbra sì rosse, e qui tra fronda e frondacrebbe, ed il lembo del suo cielo scôrse?...Che cerchi, con la bocca sitibonda?...Un sorso d'acqua?... Il sogno antico, forse?...»XII.
Suora Morte.—Come stanca!... Abbandònati sul frescoterreno.—Ancor, mattina e sera, l'Avesuona, in rintocchi píi, da San Francesco.Ti ricordi di quando eri fanciulla?...Contavi ad uno ad uno i lunghi stelidell'erba, e d'essi ti facevi culla....Se la tua carne soffre e vuol dormire,oh, nulla qui ti sveglierà, nemmenole rondinelle coi lor voli a spire.Cresceranno dal tuo corpo sottilecespi di menta e violette smorte,e tu respirerai l'antico Aprileper sempre....—Benvenuta, Suora Morte.»
Suonavi al pianoforte un'ampia e lievemelodia di dolcezza, un Lied tedesco.Stillava il suon sulla mia febbre, frescosfaldandosi nel cuor come la neve.L'invincibile arsura che mi strazias'abbeverò a gran sorsi alla tua fonte,o figlia mia, che porti sulla fronte,simile a stella, il segno della grazia.Ero in ombra, addossata a una parete.Tu non vedesti la marmorea faccia,il muto amor che ti tendea le braccia,l'amarissima bocca arsa di sete.
Tutto il giorno la bella creaturarise, mostrando lo splendor dei denti:carezzò bimbi, ornò la sua cinturadi fiori, gorgheggiò con lieti accenti.Nulla in essa turbò l'agile e puragrazia del gesto e dei lineamentitanàgrici: la voce e la figurafurono un sogno d'armonie fluenti.Ma or ch'essa è sola e fitta ombra la cinge,subitamente si scompone in volto,irrigidita come in agonia.Chi è costei che il suo lenzuolo stringecon l'unghie, ed ha nel torvo occhio stravoltol'angoscia, la vendetta e la pazzia?...
Io ti farò morire di dolcezza,se tu m'ascolterai quando la lunagonfia il mio cuore come un cuore umano.Sarà rossa la luna ad orïente,e poi, salendo, diverrà di perla.Tu immobile starai tra flutto e spiaggia,piccola—oh, un punto!...—in mezzo all'infinito.Io ti dirò l'ore perdute dellatua dolce infanzia, l'ore che tu credidimenticate; e i sogni in cui vedevifiori simili a bocche aperte al baciofiorir per te lungo rupestri landeove il giorno non era e non la notteera, ma Vita somigliava a Morte.Io ti dirò ciò che hai sofferto.—Mamitemente, così, come di coselontane, e che non possono colpirepiù, tanto nel pensier le trasfigurala poesia della possente vita.Io ti dirò le cose che tu speri,e per incanto le vedrai compiute:e la pienezza de' tuoi sensi talesarà, che ti parrà d'essere eterna,fulgida innumerevole leggeraquale schiuma di queste onde d'argentoche si gonfian d'amor sotto la luna.Io ti farò morire di tristezzase tu m'ascolterai quando di piombograva il cielo su gravi acque di piombo.Starà sospesa dentro la calura,nel silenzio, un'attesa di tempesta:l'onde verranno a lacerarsi sullaspiaggia, con rauche grida appassionate.Allora, allora, o piccola, che haicosì tenere mani e così grandiocchi, io ti canterò la veementepoesia della vita che vivestiprima d'esser la piccola che sei.Una zingara fosti.—I tuoi capellibattenti il dorso eran color del rame,tutti a riccioli, vivi uno per uno:e verdastri e mutevoli i tuoi occhidi sole e d'onda; e tutto di serpentel'agile corpo, in mille avvolgimentiesperto, ed arso dall'impuro sanguedei nomadi. Tu fosti una regina.Passò il tuo carro lungo le mie rive,il tuo riso il tuo canto a fior de l'acque.I tuoi compagni avean denti ferini,rapaci mani, acuti occhi di falco,e tu li amavi; ma più d'essi amavila libertà.—Tenevi al petto un fiore,sotto il fiore nascosto un pugnalettolucentissimo. E fiera sulle piazzedanzavi le tue danze, le tue danzedi gitana, ricordi?...—Non ricordidunque tu nulla?...—Dalla casa errantele pallide vedesti albe fiorire,e nei tramonti l'acque invermigliarsi,e nei meriggi tutto esser di fiamma,anche il tuo corpo, anche la vagabondaanima tua come l'arena innumere,multicolore come l'onda, liberacome il vento del largo. E delle folleti piacque il gran clamore, e del desertoil gran silenzio, e delle vie notturnei fanali rossastri, i torvi agguati,il pericolo corso ad ogni istante.Di desiderio io ti farò morire,se vorrai ch'io ti dica il nome tuod'una volta.—Ricòrdati.—Superboera, ma dolce e pieno d'assonanzestrane.—Non giungi a ricordarti?... Chinasul mare, ascolta il pianto inconsolabiledell'acque che s'inseguono s'infrangonoe muojono e rinascono e non sannoperchè.—Non ti diran forse quel nome;ma in esse sentirai la sua potenzadominatrice, o piccola, che haicosì teneri polsi per catenedi perle, e così grandi occhi pel sogno.
Malinconia dei primicapelli bianchi, che timidamentespuntano tra il vigor della fluentefeminea chioma, intorno al dolce viso!....Malinconia dei primisolchi di ruga, oh, lievi, che al sorrisodanno una tenue grazia d'appassitarosa, e allo sguardo il tuo mistero, o Vita!...Lenta e sottil torturadella tristezza che non si può dire,quando la gioventù sa di morire,sa di morire tutti i giorni un poco:ombra su fronte pura,sordo spavento di colei che al focod'amore arse la bianca leggiadria,e visse di carezze e di follia!...Piccola donna stancache al tuo balcone guardi Primaverarisorgere fra timida e leggera,fiori e nidi portando al tuo giardino;piccola donna stanca,perchè tieni sul petto il capo chino,mentre il riso dei cieli ed il teporeha una dolcezza che ti rompe il cuore?...Tu sai la vita. Saidi tutti i baci la delizia lenta,quando amore ti culla e t'addormentaabbandonata come cosa morta.E la malia tu saidella tua faccia, ove la bocca smortasorride sempre, mentre gli occhi sonotristi, quasi chiedessero perdono.E tu l'ami, l'amore:e pensi: Che farò, domani?...—Oh, nullaal mondo vale un riso di fanciullache insegua, a Maggio, lucciole nel prato.O amore, o folle amoredi giovinezza, o efèbo incoronatodi rose, o calda onda del sangue, o lievepasso, o chiara bellezza, o gioja breve!....... Piccola donna, forsemeglio è morire in questa Primaveramolle, pria che ti renda a te stranieraquello che temi più della tua morte.Piccola donna, forseti è dolce chiuder dietro a te le portedel silenzio e dell'ombra—ora che in visot'arde di gioventù l'ultimo riso.
Tre dame grigie stan sedute intornoad uno stagno, sul finir del giorno.Guardan la bruma vaporar dall'acque:pensano un canto che oscillò, poi tacque.L'una lasciò cadere il suo lavoro,un giglio bianco sulla trama d'oro:l'altra perdette al suo volume il segno,ove si parla d'Elsa e del suo regno:la terza non ha libro di leggenda,non ha filo e ricamo—e par che attenda:che cosa?... o chi?...—Riflette i volti lividilo stagno.—Il cielo ha nubi, e l'acqua ha brividi.*
Dice la prima dama, con un risotimido e dolce nel pallor del viso,ma triste, oh, triste al par della memoriad'un sogno: Io son colei che non ha storia.Le mie carezze non le seppe alcuno,poi ch'io serbai tutto il mio cor per unoche non mi vide.—Io son colei che cucesola, al balcone, fin che il giorno ha luce:che passa come in un deserto fra leturbe: che non sa il bene e non sa il male:che irrigidisce in sè chiusa e raccolta,già morta prima d'essere sepolta.—*
—Ebbi un fascio di raggi per capelli—mormora l'altra—e il sol negli occhi belli.Venne l'Inverno e nevicò sul ramo,ma «Che t'importa?...» uno mi disse «Io t'amo:chioma d'argento sarà chioma biondasempre, per la mia bocca sitibonda.Ad ogni filo bianco un bacio scoccala fida bocca, l'adorata bocca:più fugge il tempo e più al mio si stringeil cor che sol da me conforto attinge;ma è tardi. E già nell'ombra che ci premesolo temiam di non morire insieme».*
Geme la terza: Io voglio i miei vent'anni.Chi me li rende, coi divini ingannid'allora?... Io dunque fui quella che vissedi baci e «Amor» col proprio sangue scrisse,e coperse con maschere di graziale febbri della carne non mai sazia?...Le mie labbra han le stimmate roventidei morsi. Io so l'orror dei roghi spenti.So delle rughe l'onta ed il martiriosulla bellezza; e il torbido deliriodei sensi vivi in fascino che muore.Che farai dunque, o mio selvaggio cuore,se invecchiare non puoi come le chiome?...Oh, il tempo di sorridere al tuo nome,di scorger l'orma del tuo piede al suolo,d'afferrar del tuo manto un lembo a volo,o Giovinezza, e fuggi!... Oh, il tempo di....».... Taccion le bocche stanche. Scolorìuna rossastra nube in cielo, e parvemorire.—Tutto è cenere.—Tre larveimmote e sole, dello stagno a riva,sì immote che non sembran cosa viva,restano a guardia della cupa notte:ombre vane, la vana ombra le inghiotte.
Tu che sussulti a un batter d'ali, ed haiil nodo del silenzio sulle labbracolor di cenere!...Perchè taci, e tremando te ne stairinchiusa in una torre di tristezza?...E pure sei così giovine ancora,così soave è ancor la tua bellezza!...Non so il tuo male.—Tu mi sembri oppressada un cilicio nascosto, che flagellila carne fragile,perdutamente al suo poter sommessa;e un'ebbrezza indicibile ti è dataforse dal tuo soffrir senza parola,se al lamento la bocca è sigillata;se le mani s'aggrappan con terrorea un mobile, ad un muro, a un davanzale,per trattenertidi scagliare il tuo corpo e il tuo doloredalla finestra!...—Ma perchè patiresenza rivolta?... Io non lo so, il tuo male;ma t'insegnerei, forse, a non morire.—Senti come garriscono le rondinibianche e nere, nell'ora del tramonto.Pel ciel s'inseguonostridendo, in cerchi rapidi e giocondi.Non hai pensato mai che forse un giornofosti la rondin che a Novembre fuggeverso il sole, e nel Marzo fa ritorno?...Non ti senti quelle ali dentro il cuorebatter, folli d'azzurro?... non lo sentiche tu sei liberacome la rondinella del Signore,e che sol per gioirne Iddio ti diedel'anima tua piena di raggi, ardentedi sogni, aperta ad ogni pura fede?...Vuoi ch'io ti regga al volo?... Oh, non tremareforte così.—Non ti dirò più nulla.—Lagrime e lagrimeio verserò su te senza parlare:su te, che in una torre di tristezzati chiudi, e in fondo l'ami, il tuo martirio,e vi sfiorisci con la tua bellezza.
Spirò stanotte, senza dir parola.Chi su lei pianse la coprì di rosebianche, e i capelli in fronte le compose,poi la lasciò nel gran silenzio sola.Già intorno agli occhi e a le mascelle fortisi decompone il glacïal pallore.Odor d'ambra e di ceri: odor di fioresfatto—e la calma estatica dei morti.Ma la bocca che tace è però chiusasinistramente, un po' contratta, comepietrificata su un lamento, un nomecaro, un comando, una suprema accusa.Chi sa?... Volea la moribonda, forse,d'un pesante segreto finalmentepurificarsi l'anima, languenteda tanto tempo tra le ferree morsedel silenzio: volea per la sua paceultima, forse, chiedere perdono,o dir, chiudendo gli occhi: «Io ti perdono....»..... Ma in cor per sempre il suo mister le giace.Sta fra i neri capelli il sigillatovolto sì dolce un giorno, e par che dorma,e par che avvolga la marmorea formal'ombra del sogno che non fu svelato:sta la parola che non fu mai dettasulla bocca di spasimo e di pietra:dura, solenne, appassionata, tetra,tace in eterno, ed in eterno aspetta.
La fioritura vostra è troppo breve,o rosei peschi, o gracili albicocchinudi sotto i bei petali di neve.Troppo rapido è il passo con cui tocchiil suolo—e al tuo passar l'erba germogliao Primavera, o gioja de' miei occhi.Mentre io contemplo, ferma sulla sogliadell'orto, il pio miracolo dei fiorisbocciati sulle rame senza foglia,essi, ne' loro tenui colori,tremano già del vento alla carezza,volan per l'aria densa di languori;e se ne va così la tua bellezzacome una nube, e come un sogno muori,o fiorita di Marzo, o Giovinezza!...
Rose color di sanguefioriscono in giardino..... Il sole a tratti sfolgoradalle nubi—e si cela:—un'afa ardente velala purità dell'ariache vibra di fermentiacuti e d'echi spenti,e attossica il silenziod'un languore felino..... Rose color di sanguefioriscono in giardino.Purpuree sono, e tragichecome divelti cuori.Oh, perchè mai non gocciolasulle foglie e sull'erbail flusso dell'acerbaferita?... O forse l'arialo beve avidamente,e per esso è vivente,e per esso t'inebriacol ricordo di amoriperduti?...—O rose, tragichecome divelti cuori!...V'è il mio fra essi.—È soloove il verde è più folto.Sbocciò fra un raggio e un battitod'ali e un ronzìo di maggio--lino, in questo bel Maggiod'amor, senza saperlo.Di novella prestanza,di novella baldanzasi avviva—e del disìod'esser côlto—e travolto.—.... Rinato è il cuore—solo,ove il verde è più folto..... Rosa d'ebbrezza, flammearosa del sogno, è tardi.Perchè non puoi rinascereogni giorno, ogni giornocon grazie fresche—e intornoa te fiori sbocciare,e rondini garrire,e le frasche stormire,e la vita rinfondertii suoi succhi gagliardieternamente?...O cuore,è tardi, è troppo tardi....
Credevi di conoscere il dolore,tu!... T'ammantavi del suo fosco mantocon ampi gesti di tragedia,—e il piantot'era una voluttà, come l'amore!...Ora che l'incontrasti a viso nudo,a cuore nudo, il tuo dolore, or tentiun riso, e taci; o pur, se parli, mentila calma: ed il mentir t'è orgoglio e scudo.Dici a chi t'ode: «Nova maravigliasempre, la vita, e dolce a chi l'intende!».... Gocciola intanto il sangue, e si rapprendesotto l'unghia che i visceri ti artiglia.
Quella che è stesa sul crocicchio, il lassocorpo abbattuto al par d'un sacco informe,d'un così immoto e duro sonno dormeche il suo viluppo si confonde al sasso.Per quali impure vie, da che remotisentieri d'ombra al lastrico sonorogiunse, ove sete di potenza e d'oroscaglia le sue pugnaci orde d'ignoti?...Un carro può sventrarla, un fiotto umanotravolgerla.—Chi sei, povera carne?...che storia narran le tue membra scarnedi miseria feroce e pianto vano?....... Dormi.—Ti sveglierai quando verràl'uomo che nella tua sudicia e magraforma una pura argilla di Tanagrascoprir, comprare ed adorar saprà:e tu, stupita, avrai profumi per letrecce, e monili ai nudi polsi, e trinesulle giovani membra serpentine,e intorno al collo sfavillìi di perle:piccola principessa della strada,vestirai di lusinghe il tuo dominio;e il riso e il bacio insanguinar di miniosaprai, come s'insanguina una spada.
Bestia opulenta e morbida, che ridia me col riso de' bei denti bianchi,tu somigli alla terra; ed i tuoi fianchidan figli come il solco dà la spica.L'anima tua non t'è fatta nemica,perchè d'averla tu non sai, nè pensi.Hanno il tuo sguardo gli orizzonti immensi.Le zolle han la tua forza e il tuo turgore.Sia che falci, a meriggio, i prati in fiore,o ammucchi, a vespro, in auree biche il fieno,o all'ignudo poppante offra il tuo seno,o spannocchi sull'aja o lavi al fonte,ombra non v'ha che turbi la tua fronte,femmina che bevesti alle sorgentidi giovinezza, e ridi co' bei dentidi lupatta, e per tutti i sensi godicantando sulla terra che dissodi.
Le fronde che vedesti rinverdirenell'Aprile che è già così lontano,or, tutte d'oro, cadono man manoa terra, per morire.Così cade da te, stanca, la giojache ti sorrise, e un po' di giovinezzafugge, e tremi, e ti par che la bellezzadella tua vita muoja;ma non è vero.—Sboccieran novelligermi da linfe rifluite, e turitesserai sul sogno che già fusogni più dolci e belli....
Maria Giovanna avea trent'anni, un visoscarno e lungo di vergine avvizzita,e una profonda vitad'anima negli azzurri occhi e nel riso.Lieve il suo passo per le nude saleove dai letti in fila i dolci infermilevavano gli inermivolti a implorarla, in ansia, dal guanciale:lieve la mano a sanar piaghe orrende,su l'arse fronti a chiamar sonno e oblio,a ricomporre, in pioatto, intorno ai dolenti arti le bende:forte il suo cuore nelle notti, quandopaura, insonnia, spasimo, demenza,in ferreo cerchio, senzatregua gemean, la grigia alba invocando.Ella non conosceva altro destino.Amava il freddo balenar scultoriodel gesto operatorio,il sangue in getto e l'ulular felino,e l'acre odor dei corrosivi, e i tersibendaggi, freschi come baci santisu piaghe fumiganti,e il—grazie—degli umìli occhi riversi.La sua verginità sapea lo stigmadel vizio, che ogni rea carne suggella;la frusta che flagellail senso, eterno e maledetto enigma;d'ogni male la maschera e il martirio,d'ogni agonia la smorfia ed il terrore;sul labbro di chi muorela verità, più nuda nel delirio.Tacita e sacra amante era ai morenti,rapiti in lei nell'ultima preghiera:vergine-madre ell'eraper cullar fra le braccia i bimbi spenti.*
Stava tacito in veglia, al capezzaled'un fanciul, con la Donna dell'Aiuto,un medico d'acutosguardo e di lìgneo volto imperïale.Nella corsìa senza riposo, un lumesolo, verdastro.—Degl'infermi i rochilamenti, i gesti fiochi,s'attutivan, sinistre ombre fra brume.E il fanciullo spirò, bianco e sereno,e i due veglianti a lui chiusero gli occhi:poi si fissaron, tôcchidi grazia.—Il lume li colpiva in pieno.Ella sentì fondersi tutta nellaforza dell'Uomo: di sua vita il sensoperdette, in un immensostupore, in un baglior puro di stella.E l'Uomo a un tratto la sentì nel core,piccola bimba trepida e sperduta;ma fu la bocca muta,le pupille soltanto arser d'amore.E spuntò l'alba e i giorni ad uno ad unocaddero e Morte scivolò fra i lettiridendo co' suoi schiettidenti di teschio entro il cappuccio bruno:il taciturno seguitò la lottatra i recidenti ferri e la cancrena,la siringa e la vena,il verme ingordo e la beltà corrotta:e la vergin fu sua, così, avvampandoa quel gesto d'imperio, ombra sottiledietro quei passi, umìlestrumento di pietà sacro al comando:altro non chiese.—Oh, un attimo, col fortepolso egli a sè l'avvinse, al cor la tenne.—Ma in braccio essa gli svenne,e quell'amplesso ebbe sapor di morte.
L'uomo del camposanto, o Creatura,distesa ti trovò sull'erba diaccia,squallida salma senza sepoltura.E non avevi più capo nè braccia:solo il ventre mostravi allo stuporedei cippi:—altra di te non era traccia.Non avevi più labbra per l'amorebugiardo, per la voluttà venduta:nulla, più nulla: un torso: un arso cuore:un eterno silenzio, o Sconosciuta.*
Io lo so, chi tu fosti.—In un oscurocrepuscolo, alla fiamma d'un fanale,io ti vidi passar rasente un muro,con lenti occhi mal desti e viso maleimbellettato e tutto il corpo sfattoda una stanchezza che parea mortale.Tentavi con la bocca di scarlattoun riso di lusinga e di menzogna.Ed io tremai, dentro il mio cor contratto,per te, soffrendo della tua vergogna.*
Mai ti raggiunse, o sempre ignuda e solafra turpi amplessi e fiati acri di vino,la pietà d'una tenera parola.Vile sino al torpore, affranta sinoa non distinguer più morte da vita!...Ma venne uno, nell'ombra, a te vicino.La tua preghiera egli avea forse udita.Ebbe pietà. Ti soffocò con bracciadi ferro—e la tua forma irrigiditamutilò, fino a sperderne ogni traccia.*
Ora, o Ignota, pregando io vo che il sozzourlo de la plebea folla loquaces'acqueti intorno al tuo bel corpo mozzo;ora che dormi finalmente in pace,e il cieco infurïar della tormentache turbinando ti travolse, tace;.... e perchè più non gema e più non mentale divoranti fiamme arser l'impurabocca—e degli occhi la lusinga lentae le lacrime occulte, o Creatura!...*
Riposa.—Oh, forse mai, nell'errabondatua vita, il sonno a te venne con velisì casti e santità così profonda.Senza nome sarai come gli stelinati domani dal tuo morto cuoree puri sotto il puro arco dei cieli.Non ti ricorderai del tuo doloreche per fissar con iridi novelleil sol che schiude in ogni boccio un fiore,l'ombra che in alto palpita di stelle.
S'incappucciò la donna, e di soppiattosgusciò nel bujo, fra la porta e il muro.Attraversar correndo il vico oscuroniun la scôrse, sì rapido fu l'atto.Ella andava a morire.—Alta la rivanon lunge, a picco, dominava il fiume.Un balzo, un tonfo, un ribollir di schiume,un cuore in pace, un corpo alla deriva....In questo sogno ella fendea la notte,cieca, demente, sotto vento e pioggia.Sostò d'un tratto, su una pietra roggia,tutta in un fascio, colle membra rotte,e fu in ascolto.—Il grembo avea parlato.Voce non era.—Dal profondo, un fremitoera; ma il corpo si contrasse, in tremito,come innanzi al suo Verbo rivelato.E più non fu la donna che un maternoinvòlucro, una forza di naturachina e raccolta sulla creaturadel sangue, per difenderla in eterno;e volse il dorso alla malia del gorgo,e ritornò verso la vita dura,e vi fu madre....—Ecco la storia oscurad'una povera donna del sobborgo.—
Un cieco è fermo sotto il mio balcone:suona su un vecchio cembalo una vecchiadanza. M'entra nel cuor, che vi si specchia,la grazia triste della sua canzone.Ma perchè innalza i torbidi occhi fissifino a me?... Sono vuoti; e pur s'ascondenon so che fiamma in quelle orbite fonde,non so che viva, intenta ombra d'abissi.Mi guarda: vede.—Vede, sulla miafronte di marmo, il mio segreto strazio:quel che m'uccide e di cui pur mi sazio,quel che mi seguirà nell'agonia.
Per Maria Spiridònova.Maria Spiridònova, sonoio.—Taci.—Nessuno m'ha scôrta.Strisciai come un serpe nell'andito,richiusi in silenzio la porta.Io reco il doloredel mondo al tuo nudo abbandono:oh, non mi vedranno i Cosacchiin ginocchio presso il tuo cuore.Io venni nel nome di ognunache canti con trepida voce,segnando sul figlio una croce,la sua nenia sovra una cuna.Maria Spiridònova, è oscurala cella ove giaci; e tu aspettoumano più quasi non hai,distesa sul fetido letto.Lo so, ch'eri biondaal par della messe matura;ma t'hanno divelti i capellia ciocche, ed a guisa di fiondalanciato il bel corpo a muragliedi pietra; e accecato un degli occhi,e pesti e spezzati i ginocchi,e sovra la carne tua pura,suggello d'infamia, lo stigmaimpresser di ferrei staffili,di punte infocate, di sputivillani, di baci più vilidei colpi....—e tu appariserena, o terribile enigmafemineo:—più calma dei mortidi Kàrian, nuotanti fra maridi sangue: di Deef sfracellato,dei mille che tu hai vendicato,o pia dal dolcissimo volto..... Maria Spiridònova, pensitalvolta, nel cuore, alla quetatua casa, alle chiome tue d'orodisciolte sul collo?...—Era lietal'infanzia. Corolleazzurre, i tuoi occhi fra immensigiardini fiorivano. E tucucivi, sognando, se mollevenìa Primavera in leggiadresue vesti a ingemmar prati e dumi,e a sciogliere i ghiacci sui fiumi.Cucivi, vicino a tua madre....Or piange con urla errabondela madre.—Tu no.—Tu atterravichi Patria colpiva.—E fu giusto.—C'è Spartaco in terra di schiavi;e dove si scagliaferocia, ferocia risponde.O bionda omicida, tu seila Russia discesa in battaglia,coperta di neve, grondantedi sangue, sfregiata dal morsodel knut, con indomito corsodall'ombra dell'evo balzante.La Russia tu sei di SofiaPerowska, di Bèlkin, di Gorki,che rompe i suoi lacci coi denti,e va, croce in mano, alle forche:che sbuca con nerivessilli da la stamperiasegreta, dall'isba selvaggia,dall'aule, dai bassi cantierisul Volga, dal fumo dei roghiaccesi su la steppa madreun giorno—e cantavan le squadrele vittorie de i Zaporoghi..... Silenzio.—Ora dormi, con purosorriso. Non temi più nulla.Il letto ove stai, muta e rigida,somiglia una bara o una culla.Qualche stilla diacciarisgorga, insistente, dal muro.Aràcnidi lente traversanola vôlta. A un pertugio s'affaccialo sbirro dal volto camuso,e ghigna, battendo il fucileall'uscio.—Il tuo labbro sottileall'ansia d'un sogno è dischiuso.E i muri si sfasciano, senzaromore. La cella si fadeserto ai confini di Patria:enorme una folla vi sta.Ti chiamano, i tuoicompagni. In esilio, in demenza,in ceppi, in agguato, col cappioal collo, ti arridono: A noi!....... Qual dunque, o martirio, è la giojache doni, perchè l'uomo uccidaper essere ucciso, e sorridaai colpi, ed in estasi muoja?...
La donna volge i freddi occhi velatisu l'inquieta folla che la guarda.La sua bocca ha una smorfia un po' beffarda.Sotto l'altera maschera bugiardavibra un fascio di nervi esasperati.Ella non dice: No.—Confessa tutto,tutto, l'ora, la via, l'uccisïonefulminea, il perchè di passïone,il perchè d'odio.—Solita canzone....Non abbassa la donna il ciglio asciutto.Non ispera, nè invoca essere assolta.Porta in sè la sua pena, il suo rimorso,livida impronta di ferino morsosu membra vive, sin che duri il corsodella vita.—Nel cuore è già sepolta.—Che vuol dunque da lei quella togatagente che l'attanaglia con indagineacuta, e scruta le gelose paginedelle sue notti d'ombra, e la compaginesquarcia della sua carne disperata?...Che vuol dunque da lei quell'altra gentetrepida, verso il suo pallor protesacoi più torbidi sensi, e nell'attesadi più torbidi e rei palpiti, presadall'odore del sangue, inconsciamente?...L'antica anima tragica che dormein ogni petto, su ogni fronte appare.Chi or non vide, nel sogno, dentro un maredi sangue il suo nemico boccheggiare,e non tremò nel desiderio enorme?...Tra la folla e la donna ondeggia il vampodella ferocia originaria: saleper vena e vena la follia del male:d'un'angoscia inconfessa ognun trasale,sotto le ciglia ogni pupilla ha un lampo.
... Toc-toc...—Chi batte alla mia porta?...-È un vecchiostanco.—«Entra: lascia sulla soglia i sandali.Aggiungerò per te sul focolareun ceppo, e un fascio di formelle amare.Oh, quanta neve hai sul mantello!... Asciùgatialla fiamma. Ecco il pane, ospite, e l'acqua.Un letto antico a baldacchino rossoper questa notte t'offrirò.»—«Non posso.Non m'è dato dormir che sulla pietra,non m'è dato posar che per un attimo.Ripartirò, signora, a pena io sentache fra i monti cessata è la tormenta.»—«Vattene all'alba, quando il gallo squarcial'aria col canto. Nella tua bisacciaio metterò tre pani e tre preghiere,che t'accompagnin sulle vie straniere.—«Non odi?... I monti abbandonò la ràffica,torna il silenzio al bosco, il sogno all'ombra.Ora io debbo partir, dolce madonna,sì fina e bianca nella bianca gonna.Non mi tentano i muri ove t'incarceri,nè la coltre che m'offri, ampia e purpurea;porto nel mio mantello un regal beneche in suoi forzieri il tuo signor non tiene.Vuoi tu goder di questo bene?... Lasciaorzo e frumento nella madia, e l'olionell'orcio, e il vino nelle coppe chiare,e i frutti all'orto, e il ceppo sull'alare.Rigetta il tuo nome e i tuoi ricordi, e seguimi:ti condurrò per strade di delizia:t'insegnerò le magiche favelledei fiori, ed il cammino delle stelle.Ed io Re Lear e tu sarai Cordeliabionda, perduti in selve millenarie;e degli alberi l'anima e dell'acquenascerà in noi, come da Jèhova nacque.Non temi, prima di tua morte, infrangereil laccio d'oro che ti avvince agli uomini?...Chi lo squillo seguì del mio richiamopiù non ritorna...»—«Io sono pronta. Andiamo.»
Soffri in silenzio. Non chiamar nessunoa numerar le lacrime degli occhituoi. Sia pur grave il colpo che ti tocchi,chieder coraggio ad altri è inopportuno.Conta nel tuo segreto ad uno ad uno,se vuoi, curva e prostrata sui ginocchi,i singhiozzi del cor—ma non trabocchila piena mai, per la pietà d'alcuno.È un'orribile cosa esser compianti.Conquista in te, con la tua forza soladi volontà, l'oblio del tuo cordoglio.T'insegnerò, per disseccare i piantifiacchi e cangiarli in riso entro la gola,un peccato magnifico: l'Orgoglio.
Ancor la teda antica, per tre becchiaccesa, splende accanto al focolare.Sul ceppo, a che le fiamme sien più chiare,fasci hanno aggiunto di rametti secchi.Traggon le donne il fuso alla conocchia,altre sull'ago le pupille aguzzano:fra risa e giochi e strilli, i bimbi ruzzanodelle giovani madri alle ginocchia.Pendon pannocchie dal soffitto, e frondedi vischio all'uscio, e il pane è nella madia.Qui forse, o Pace, il tuo poter s'irradiadalle radici semplici e profonde!...Uomini dell'aratro e del rastrello,vergini che sapete il cigolìodel secchio al pozzo e il gelido sciacquìodei panni al fonte e il peso del mannello,fatemi un po' di posto, ch'io mi siedafra voi, ch'io fili la conocchia d'oro,mentre scoppietta il vostro allegro corod'intorno, e splende sul camin la teda.Monti e mari ho varcato—e molte sofavole—e narrerò di Vïolantee Biancabella, trasformate in piantedalla fata perversa; e narreròla storia triste d'una donna tristeche andò andò fino a smarrir la strada........ Accoglietela, avanti ch'ella cada;del campo ignoto fra le mozze ariste.Datele un sacco ed un lenzuolo, ed ellavi dormirà del sonno d'un bambino;e canterà l'albata a mattutino,salutando con voi l'ultima stella.
So la bellezza d'un recesso verdedove roseti carichi di theebisbigliano coi pioppi de le allee,e in un col passo l'anima si perde.Ogni cosa del mondo è sì lontanadi là, ch'io forse del mio lungo malemi guarirei, con l'erba per guanciale,vestendomi di salvia e maggiorana.Forse....—ah, m'inganno.—Che un fischiar di serpim'accoglierà, sol che il cancello io schiuda:per sùbita malia selvaggia e crudavedrò le rose tramutarsi in sterpi.
Sangue ch'io vedo—se i grand'occhi nerisocchiudo in languidezza di desìo—scorrer per vene e muscoli nel miocorpo, dal capo eretto ai piè leggeri:sangue ch'io sento insorgere al cervello,fumida vampa, ed affluirmi al cuore:so la tua forza, gusto il tuo sapore,da te ogni giorno ho un fremito novello.E sia tu d'altri, e grondi in mischia, o sgorghinerastro da ferita volontaria,o, decomposto, il sol, la terra, l'ariati rïassorban ne' lor vasti gorghi:o ti rapprenda in grumi all'orifiziodelle piaghe nascoste, che il silenziobenda di spine, abbevera d'assenzio,inacerba qual corda di supplizio:o splenda e arda, animator fecondo,nelle vene di chi per vincer nacque:o, col flusso instancabile dell'acqueoceaniche, gonfî il cuor del mondo:tutto per me ti addensi, meravigliadi vita, di beltà, di passïone,in questa che fiorì sul mio balconein un'alba d'amor, rosa vermiglia.
Madre, una notte di Natale io pensocon neve in terra e fulgor d'astri in cielo,e dentro il gemmeo fluttuante veloun aroma nostalgico d'incenso.Tu sfioreresti il suol col passo alatode' tuoi tempi più belli—allor che il gajocuore batteva al ritmo del telajo,e povertà ridea senza peccato.L'anima in petto io sentirei tremarequale a fior della neve il bucaneve;scendere a me vedrei, con volo lieve,bianche angelelle, nel candor lunare.Soavissima notte!...—Uno stupored'infanzia, un'innocenza di bambinoaddormentato.—Io non avrei vicinoal cuor che il soffio del tuo grande cuore.Narrerebbero intanto le campaneche nacque ancor fra i poveri Gesù.E noi s'andrebbe, io senza meta, tusenza ricordi, per le valli piane,salmodïando in pace—ed al fioriredei cieli, all'alba, in violette e in gigli,ritorneremmo tacite ai giaciglirupestri, per sognare e per morire.
A mia figlia.
Sien le parole di tua rosea boccacome i fiori del mandorlo e del pescoquando il vento d'April vivido e frescomette l'ali a ogni petalo che tocca.Sieno i tuoi occhi come le fiammellevotive delle lampade notturneche innanzi a le cappelle taciturnespecchiano il tremolìo dell'alte stelle.Piòvano dalla tua mano leggeradoni di gioja in luminoso nembo,come giacinti e primule dal grembolucente di Madonna Primavera.Serba l'anima tua d'allodolettainnamorata dei lontani cieli,che più sale e più par che all'alto aneli,rapida nel suo voi quale saetta.Tra pure forme di bellezza umanavivi, aulendo, la tua vita di fiore;e trova un giorno chi ti prenda il cuore,e segui accanto a lui la strada piana;e s'io nella crescente ombra m'arretro,non penare per me, bimba.—Ho coraggio.—Col tuo sorriso che somiglia a un raggio,volgiti solo, qualchevolta, indietro.
A mia figlia.
Soffro nella tua carne che fu mia,adolescente pallida, che novemesi in grembo mi fosti, e più di noveanni già conti, in fresca leggiadria.Quand'io ti davo il latte del mio senoeri parte di me, chiusa in me stessa:come un suggello io ti tenevo, impressanelle viscere.—Ed era il tuo serenovolto lo specchio della mia bellezza:morte me sola non avrebbe côlta,chè nel gorgo con me t'avrei travolta..... Ora ti stacchi, o fior di giovinezza!...Ti stacchi; e v'è nel tuo destin la viache tu farai senza di me, la giojache tu godrai senza di me, s'io muojao viva.—Occhi di luce e di malia,occhioni ardenti ov'io misi una fiammadel rogo mio, voi vi socchiudereteun giorno, per celar l'ombre inquieted'un sogno agli occhi della vostra mamma!...Agile corpo che l'adolescenzaplasma e disegna in puro stil di grazia,dal nemico che logora e che straziasalvarti non potrà la mia temenza!...Io non potrò difenderti da nullache sia scritto nel libro della sorte.Oh, meglio quando le mie labbra smortemodulavan canzoni alla tua culla!...Non m'importa di me. Tanto ho soffertoche mi son fatta un cuor di selce.—Tantoin lunghe insonnie disperate ho piantoche or somiglio alla sabbia del deserto.Tu no, tu, in pura veste anima pura!...Oh, dove sei, felicità, ch'io possacoglierti come una rosetta rossada offrire a questa dolce creatura?...In qual giardino ti nascondi, fruttoceleste, ch'io ti spicchi, ch'io ti spremasulle sue labbra—e per magia supremaella in sè accolga la beltà di tutto?...
La Madre andò col suo piccino in braccio,avviluppata nell'oscuro scialle.Aspro un singhiozzo le scotea le spalle:cerbïatta parea che fugge il laccio.E scese il monte e traversò la valle,e la città raggiunse; e ad ogni portabussò, chiedendo, per pietà, lavoro.Alzava sulle braccia il suo tesoro:ogni rifiuto la facea più smorta,più spersa in mezzo al lastrico sonoro.Al suo pavido cuore era nemicala folla che ti spinge e non ti sa,che, cogli occhi al suo segno, va e vasoverchiandosi a gara, e par che dica—Scòstati!...—a chi dappresso le ristà..la folla con mille arti e mille formee mille accenti, rapida, incalzante,sempre diversa e sempre a sè davantesospinta in corsa, col suo mugghio enorme,coll'acre ardor della sua forza ansante....E la madre cercò deserte vieove accucciarsi come un can perduto.«Dio, che ti stai così lontano e mutonei cieli, Dio che vedi le agoniedelle madri e dei bimbi, ajuto, ajuto!...».... Una porta s'aperse.—Erma, corrosa:e sulla soglia molte facce emunteche fame febbre tedio avean consuntedisser cogli occhi: «O Madre dolorosa,sieno le nostre povertà congiunte!...«Noi siamo i radïati dalle filedegli uomini. Al lavoro invan le bracciaoffrimmo. Civiltà che ne discacciadall'opre, questo asil d'inerzia vilene schiude. Vieni, o disperata in tracciadi rifugio!...» E col lacero mantellouno l'avvolse, e arrise al suo bambino:uno le disse: «Siediti vicinoal focolare.»—E tutti: «Oh, come è bello,rondinella, il tuo stanco rondinino!...«Rondinella tu sembri al bianco visofra il nero dello scialle e delle chiome:trepida, senza nido e senza nome,osi, pur fra le lagrime, un sorriso....Riso lucente, in fitta ombra di chiome!...«Resta!... Diventerai Nostra Madonnadel Soccorso!... Ci porterai fortuna!...Noi faremo al tuo piccolo una cunadi stracci, e nella tua misera gonnasarai chiara per noi come la luna....».... Ella rimase. E ritrovò per loroi canti del natìo monte selvaggio.Vibrava in essi il rullo del coraggio,vibrava in essi il rullo del lavoro,qual rombo di guerresco carriaggio.«Fratello in Cristo, è tua la vita bella,se forzerai le porte del destino!...Riprendi il sacco, mettiti in cammino,taglia le siepi, abbatti i muri, dellatua forza tempra un'arma d'oro fino,e vinci se non vuoi vinto cadere,para, se vuoi che colpo non ti tocchi!...»Così cantò, col riso e il sol negli occhi,la Madre. Ognuno avidamente a berequella dolcezza si gettò a ginocchi.Poscia, con rude vigoria d'assalto,verso nuove conquiste si scagliò.E colui ch'era vinto dominò.E colui ch'era a terra ascese in alto.E la Suscitatrice si nomòper essi e pei lor figli, ora e nel corsodei secoli, Madonna del Soccorso.
Chiusa nel velo, coi lunghi occhi obliquifissi all'artier da la vermiglia tunica,ritta presso la porta parlò ella,e sibilo parea la sua favella:«Affila, affila sulla cote lucidai tuoi coltelli dai riflessi lividi.Affila, affila, scarno affilatore:questo per l'odio, questo per l'amore.Nell'alterno strider le lame oscillano,com'esse, al ghigno, i tuoi denti sfavillano.Affila, per l'orgoglio e per l'insulto,per l'ambascia che cela il suo singulto,per l'invidia che sè con sè dilania,per la vendetta che in agguato palpita,per le madri accosciate sulle portead aspettar le creature morte:per ogni triste uomo e triste femminach'abbia commessa la colpa di nascere,affila, affila i tuoi coltelli a punta,fino a quando la cote sia consunta.Ma il più aguzzo fra essi, il più terribile,simile ad un gingillo demonìaco,o affilatore, al desiderio mioserbalo, pel nemico che so io:e fra le spalle a tradimento il pènetri,e si rigiri fra le rosse labbradella ferita, adagio, con prudenzaraffinata, con perfida scïenza:sì ch'ei lo senta nelle carni, ogni attimodi sua vita; e s'aggricci per lo spasimotalvolta; ed a quel sordo incrudeliresoffra più che in morir, senza morire.»
Per esser grande l'uom creò la macchina,e la rese perfetta in ogni ordigno.Nervi d'acciajo le donò; ed in veroparve ad essa donare anche il pensiero.Ingranaggi, stantuffi, anse, cilindri,tutto in essa ebbe schiavo al suo dominio:quand'egli volle e comandò, il motorebattè col soffio d'un possente cuore.E la macchina fu pari a una femminabella, asservita a lui da un incantesimo.Ogni sua grazia occulta, ogni suo segnopalese, ogni finezza di congegnogli appartenne, fu carne e sangue e palpitod'amante, amata in pena ed in delizia:tutto di lei scrutò, strinse, plasmò,distrusse, ricostrusse, idoleggiò.Sotto una tenda, avvolto in un cinereolucco d'artiere, fra strumenti e cinghie,dì e notte visse, in veglia intenta e crudaa fianco della sua macchina ignuda.Scordò per essa le dolcezze semplicidella vita mortale, i cieli e l'acque,il desco bianco ove si frange un panedi pace—e il cerchio delle cure umane.L'erba scordò che dice all'uomo: «Stenditisulla freschezza mia, sogna, ristòrati:»—il sol che gonfia i germi e arrossa i tralcie fra le spighe il lampo delle falci.E tanto l'adorò ch'ella terribilene divenne, suo gaudio e sua superbia,idol d'acciajo fino ai denti armato,a conquiste implacabili creato.E un dì ch'ei ne seguìa, scosso da fremitid'orgoglio, il gioco delle ferree vertebre,ratta il ghermì, sè del suo sangue intrise,più bella al sol perfidamente rise.
Escono dal cantiere, a coppie, in branchi,con le giacche sull'òmero.—Muragliavivente forman sulla via che abbaglianel sole.—Ira e tristezza li fan bianchi.—Su ogni moto dei muscoli riflessal'impronta sta della materia inertedalla potenza de le braccia esperteplasmata, martellata, sottomessa.L'uomo con l'opra una sol forza formache non si scinde.—Essi lo sanno.—E il rudeedificio lo sa, ch'oggi si chiudedietro i ribelli, e par che invitto dorma;ma doman, nella pura alba serena,spalancherà le porte all'orda muta:—non può battere il cuor, se si rifiutail sangue di fluir per vena e vena.
O tu che vivi sola, sul confinedella foresta ove sei nata, e siedid'un cedro all'ombra centenaria, i piediignudi e sciolto sulle spalle il crine:tu che hai negli occhi la corrente azzurradel fiume che laggiù splende fra gli elci,e, nascosta fra l'alte umide felci,sogni, ascoltando il bosco che susurra:dammi per questa sete che m'uccideun sorso:—l'acqua del tuo pozzo invoco,quella che attingi tu, mentre con rocogemito il secchio discendendo stride.Tu che ti stendi per dormir sull'erbaaulente di viole e d'innocenza,e distingui semenza da semenzae la mandorla sbucci quand'è acerba:tu che legger non sai ne' libri impuriche l'uomo scrisse per offender l'uomo,e rassembri in tua forza ad un indômopuledro, che di nulla s'impauri:lascia ch'io prenda la metà dell'ariache tu respiri, la metà del fruttoche stai mordendo:—nel cammino io tuttoil mio bene ho perduto, o solitaria.Io l'ho perduto e più non lo ricerco,troppo imparai quanto quel ben sia vano:tu che t'ascondi ad ogni sguardo umano,dammi la sola voluttà che cerco.Con l'acqua del tuo pozzo una freschezzaversami nella gola, che mi rendaqual letto di ruscello, e diaccia scendaad annientarmi in cuore ogni tristezza.Dammi l'oblìo di me, fammi novellacome in Aprile un cespo di mentastri,tu, che misteri di foreste e d'astrisai, ma null'altro sai, dolce sorella.
Vampe e vampe a me salgono dal lastricoche sfioro, errando nel tramonto roseo.L'ultimo fischio echeggia dalle fabbriche,l'ultima rondin stride intorno agli embrici,l'ultimo sogno langue sui garofanidei davanzali, e van le lune elettrichesbocciando in alto, tra una rete ferreadi fili.—Oh, sol per me, pe' miei veggentisensi, di vampe e vampe arde il selciato.Io me ne cingo, come d'una fiammeaveste.—Io ben so di quanta vita è saturoil selciato, in quest'ora del crepuscolomisterïosa.—Femmine passaronosnelle nei veli, con profili pallidiannegati fra dense ombre di piume;e una scìa di profumi e un lungo fremitodi turbamento dietro al passo ambiguolasciaron sull'asfalto e sulla pietra.Rapidi e chiusi in lor superba mascheragli ammassatori d'oro, i falchi umanipassarono, celando acute granfieper ogni bene che si compri ed ogniperversa ebbrezza della vita breve;e un odor di rapina e un denso filtrod'energia bevve da' lor passi il suolo.Con saettare di carrozze e fremered'automobili e fughe di biciclie tumulti di plebe e canti e fischid'artieri in corsa e duellar di sguardicozzanti a gara, fluttuò la vita,vibrò rifulse divampò la vita.Ed il dolor che sè credea più squallidod'ogni dolore, ad un quadrivio urtòl'ambascia che in sè chiude ogni altra ambascia,ma non la riconobbe; e passò oltre.Risa d'infanzia, risa di femineelabbra scarlatte in dolce arco dischiuse,schiette risa di popolo e sogghignidi suggellate bocche s'incrociaronorazzando—e fu una rete di scintille.Un nemico, con balzo agil di tigre,si scagliò sul nemico; e nella mischiabrutale il sangue invermigliò la strada.Fanciulle a gruppi vennero, con freschifiori al petto, alle trecce—e i rosei petalicaddero, a fascio, sull'orror del sangue.I commerci e le industrie in forme innumeridi sagacia, d'audacia e di conquista,e amor che sogna, e orgoglio cinto d'armi,e ambizïon che in fervido silenziole proprie arrota, e povertà che obliquatende la mano oppur s'asconde, tuttopassò, di sè, di sè la terra e l'ariasaturando, le vene delle pietregonfiando di viventi umane linfe.Sacro tramonto!... Ecco, il mistero io pènetro:ecco, io perdo la mia forma mortale,io mi dilato in me, sino ad accoglierel'altrui sostanza, anche la più segreta,l'altrui miseria, anche la più profonda,l'altrui pensiero, anche il più vasto.—Il mondocol suo bene e il suo male è tutto in me:ed io somiglio al letto d'un torrentein piena, allor che l'acqua vi precipitadal monte, ribollendo nelle torbideschiume, in sua furia rapinando gli alberi,empiendo l'aria del suo rauco mugghio;ma le pietre e le sabbie del ghiaretofrantumate e travolte, abbrividisconod'ansia e di gioja all'impeto dell'acquache le devasta, follemente viva.
Nostalgia mi cacciò dalla mia nitidacasa, ove i fiori in snelle coppe odorano.Ed un guarnello d'operaja indossomi mise, e al collo un fazzoletto rosso.E son venuta ove le basse fabbricheserpi di fumo snodan dai comignoli;e di cordami e di carbone e d'assiingombri son gli spiazzi irti di sassi.Ecco, e respiro il noto odor di polveree di tintura, odo la danza ritmicadei telaj dietro alle finestre nere,e canti uguali a bibliche preghiere.Fratello, che t'affacci sulla sogliae assomigli nel sajo a un prence barbaro,dammi una spola che tra bianchi filipassi e ripassi con guizzi sottili:e tu, fabbro, che il maglio sull'incudinebatti in cadenza, a domar ferro e bronzo,e tu, artiere del legno, che la grezzapianta ti foggi in forme di bellezza:e voi che in alto, sovra palchi aerei,con acciajo e cemento enormi gabbiecostruite, ove un giorno i ricchi schiavisi chiuderan con sapïenti chiavi:e voi del marmo, e voi del fulvo cuojomastri, ch'io viva nel compatto fremitodel vostro sforzo, fra di voi perduta,o asservitori di materia bruta.Nè mi chiedete il nome mio: sui ciottolidella strada mi cadde, ed a raccoglierloio non mi volsi: il nome io l'ho nel viso,e nell'ardor del mio selvaggio riso.Camminerò con voi, presa nell'impetodella corrente rapinosa, in gaudio:canterò per la vostra anima oscurail ditirambo della forza pura.E se materia sull'artier si vendica,canterò che la morte è necessaria:l'opera all'uomo e l'uomo all'opra siacome l'anima al corpo.—E così sia.—Basti alla nostra sete un sorso d'acqua,ed alla fame un pane, e al sangue un palpitodi giovinezza; e dai possenti amoribalzino razze di dominatori.E il Sol su noi, dentro di noi, magnificodator di grazia, che pei Puri sfolgori:e se gioja ne investa dal profondo,piccolo sia pel mio peana il mondo.
Nota dei trascrittori
I seguenti refusi sono stati corretti (tra parentesi il testo originale):
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